I testi etruschi su piombo 8862275714, 9788862275712

L'oggetto di questa ricerca è costituito da un gruppo di iscrizioni etrusche selezionate secondo un criterio predef

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I testi etruschi su piombo
 8862275714, 9788862275712

Table of contents :
SOMMARIO
Premessa
1. Introduzione
2. Il Piombo di Magliano
3. La Lamina di Santa Marinella
4. Le defixiones etrusche
5. testi a carattere giuridico-commerciale
6. testi minori
7. conclusioni
Riferimenti bibliografici
Indici
Tavole

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I T ES T I ETRUSCHI S U P IOMBO

riccardo massarelli · i testi etruschi su piombo

R I C C A RDO M A SSA RELLI

istituto na ziona l e d i st ud i et ruschi e d i tal ici

biblioteca di «studi etruschi» 53.

P ISA · RO M A FABRI Z IO SERRA EDITORE MM X I V

issn 0067-7450

53.

isbn 978-88-6227-57@-2 (brossura) isbn 978-88-6227-572-9 (rilegato) isbn 978-88-6227-573-6 (elettronico)

b.s.e.

I ST I T U TO NA ZIONA LE DI S TUDI ETRUSC HI ED ITALICI *

B I B LI OT EC A D I «ST UDI ET RUSCHI» 5 3.

I T ES T I ETRUSCHI SU PIOMBO R I C C A R D O MA SSA RELLI

istituto na ziona le di st ud i et ruschi e d i tal ici

biblioteca di «studi etruschi» 53.

P I SA · RO M A FA BR I Z I O SE R R A E DI TOR E MM X IV

La realizzazione contenutistica e redazionale dell’opera è stata permessa grazie al contributo del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo. * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 20@4 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, i 56@27 Pisa, tel. +39 050542332, fax +39 050574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, i 00@85 Roma, tel. +39 0670452494, fax +39 0670476605, [email protected] * Stampato in Italia · Printed in Italy isbn 978-88-6227-57@-2 (brossura) isbn 978-88-6227-572-9 (rilegato) isbn 978-88-6227-573-6 (elettronico) issn 0067-7450

sommario Premessa

@@

i. Introduzione

@3

@.  Caratteristiche della ricerca 2.  Il piombo come supporto scrittorio 3.  Il dossier delle iscrizioni su piombo 4.  Norme grafiche e redazionali

@3 @3 @4 @7

ii. Il Piombo di Magliano

@9

@.  Storia degli studi 2.  Scrittura 2. @. Forme grafiche 2. 2. Commento e contributi alla datazione 2. 3. Confronti con il territorio 3.  Lezioni del testo 4.  Analisi testuale 4. @. La prima sezione del testo 4. 2. La seconda sezione del testo 4. 3. La terza sezione del testo 4. 4. La quarta sezione del testo (lato b)

@9 3@ 3@ 34 37 38 42 42 68 8@ 95

iii. La Lamina di Santa Marinella

@@5

@.  Il contesto di ritrovamento 2.  Il dato materiale 3.  Ricostruzione del testo 3. @. Diritto 3. 2. Rovescio 4.  Lezioni del testo 5.  Analisi epigrafica 5. @. Considerazioni generali sull’alfabeto 6.  Analisi linguistica 6. @. Diritto 6. 2. Rovescio

@@5 @@7 @@8 @@9 @26 @30 @38 @4@ @44 @45 @69

iv. Le defixiones etrusche

@77

@.  Cenni sulle defixiones nel mondo antico 2.  Le tabellae defixionum etrusche 3.  Le Lamine di Volterra 4.  La Lamina di Monte Pitti

@77 @8@ @83 @96

8

sommario

5.  La defixio di Ardea 6.  Le statuette di Sovana 7.  La Lamina di Poggio Gaiella

2@3 2@4 2@7

v. testi a carattere giuridico-commerciale

22@

@.  La Lamina di Pech Maho 2.  Il peso di Chiusi

22@ 228

vi. testi minori

229

@.  Le sortes etrusche in piombo 2.  La Laminetta di Vulci 3.  Le lamine funerarie perugine 4.  Le glandes missiles

229 232 234 237

vii. conclusioni

24@

@.  Il Piombo di Magliano 2.  La Lamina di Santa Marinella 3.  Gli altri testi esaminati

24@ 244 246

Riferimenti bibliografici

249

Indici Indice delle Indice delle Indice delle Indice delle

263 265 295 307 309

Tavole

parole etrusche iscrizioni etrusche figure nel testo tavole

3@@

La sfinge etrusca questa volta si presenta sotto forma più mite che non usa generalmente, la punteggiatura delle parole e perfino come pare dei capi, e la ricorrenza di molte parole per due o tre volte paiono prestarsi come appoggio all’Edipo futuro. Nondimeno io per me sono persuaso che il piombo di Magliano alla strage che già ha fatto aggiungerà altre vittime, e che anche le traduzioni future avranno la sorte comune delle altre etrusche di non soddisfare che il proprio autore. Ma se cadono quei sogni, il piombo resterà. Theodor Mommsen

PREMESSA

Q

uanto segue è la rielaborazione della dissertazione di dottorato in Filologia Romanza e Linguistica Generale che ho presentato nel febbraio 20@0 presso l’Università degli Studi di Perugia. È mio desiderio ringraziare tutti coloro che hanno favorito questo lavoro: in primo luogo, il prof. Luciano Agostiniani, e inoltre Giulio Giannecchini, Alberto Calderini e Giulio Facchetti, i quali hanno sempre mostrato disponibilità nei miei confronti, discutendo con me dei non pochi problemi che sono emersi nel corso della ricerca, con suggerimenti e osservazioni sempre puntuali; non è superfluo annotare che, come è prassi, tutta la responsabilità di quanto qui è scritto è solo mia. A loro va anche il mio ringraziamento per avermi permesso di leggere ed apprezzare i loro scritti in anteprima. Parimenti, ringrazio l’Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici e il prof. Giovannangelo Camporeale, per aver accolto questo lavoro nella “Biblioteca di Studi Etruschi”, nonché il prof. Giovanni Colonna e il prof. Adriano Maggiani, per avermi segnalato l’opportunità di correzioni e integrazioni al testo, di cui spero di aver fatto tesoro. Desidero inoltre ringraziare Valentina Belfiore, per avermi concesso di leggere le bozze del suo lavoro sul Liber linteus, e Gilles Van Heems, per analoghe cortesie nei miei confronti. Un ringraziamento va anche alle Soprintendenze per i Beni Archeologici della Toscana (per le riproduzioni fotografiche del Piombo di Magliano, della Lamina di Monte Pitti, delle statuette sovanesi e della sors aretina, oltre che per aver permesso esami autoptici del Piombo di Magliano e della Lamina di Monte Pitti) e dell’Etruria Meridionale (per le foto della Lamina di Santa Marinella), alla Direzione del Museo Guarnacci di Volterra (per avermi concesso di realizzare in loco delle fotografie delle tabellae defixionum volterrane). Dalle immagini sono stati realizzati gli apografi qui presentati, alcuni disegnati manualmente e rielaborati al computer, altri tracciati direttamente attraverso programmi di editing. Infine, una nota personale. In questi anni ho potuto contare sul supporto incondizionato di tutta la mia famiglia, degli zii Ermanno e Lolita, di Marta e Anselmo, a cui va il mio pensiero. E ho avuto al mio fianco Francesca, che mi ha sempre sostenuto e mi sostiene. A lei, a loro, è dedicato questo lavoro. Perugia, 22 maggio 2012

I. INTRODUZIONE @. Caratteristiche della ricerca

L

’oggetto di questa ricerca è costituito da un gruppo di iscrizioni etrusche selezionate secondo un criterio predefinito e convenzionale: vale a dire, quello di essere realizzate su supporti in piombo. Viene richiamata e discussa tutta la letteratura che a queste iscrizioni sia comunque pertinente (ovviamente all’interno della linguistica etruscologica scientifica), in modo da fornire una sorta di ‘stato dell’arte’ sulle conoscenze che attualmente abbiamo su di esse e dei problemi che esse comportano, che può eventualmente costituire un punto di partenza per possibili future ricerche. @ Di ogni iscrizione verrà fornita una descrizione dei contesti archeologici di rinvenimento (se noti) e delle caratteristiche grafiche, anche in funzione della datazione; infine si darà ampio spazio all’analisi linguistica, che come anticipato partirà dagli studi già effettuati per poi proseguire, dove possibile e opportuno, secondo nuove linee di interpretazione.  

2. Il piombo come supporto scrittorio Nell’utilizzo del piombo quale supporto scrittorio è tradizionalmente considerata una componente simbolica, che fa riferimento a caratteristiche fisiche proprie del metallo interpretate come attinenti al mondo magico. Questa idea ha origine principalmente da due fatti: in primo luogo, dalle informazioni che in tal senso forniscono le fonti antiche; 2 oltre a ciò, dalla constatazione che sono realizzate quasi esclusivamente in piombo le tabellae defixionum, le tavolette contenenti maledizioni diffuse in tutto il Mediterraneo e massima espressione del complesso sistema di riferimenti culturali che articolano il mondo della magia antica. Seguendo questa impostazione, l’utilizzo del piombo troverebbe giustificazione nella volontà di affiancare al testo magico scritto anche il carico simbolico del supporto materiale. 3 È altrettanto evidente, però, che il piombo presenta caratteristiche materiali tali da renderlo particolarmente adatto, sul piano pratico, allo scopo di fungere da  



@   Questo, nella convinzione che il confronto con gli studi passati debba essere una costante di tutti i lavori che ambiscano a criteri di scientificità, e sia quindi ineliminabile anche in questo genere di ricerche. 2   Cfr., al riguardo, Audollent @904, pp. xlvii-xlix, in particolare sul parallelo tra il piombo e Saturno, sidus triste, per quanto lo stesso Audollent sia scettico sul fatto che la scelta del piombo quale supporto per iscrizioni abbia sempre motivazioni simboliche. Sull’argomento cfr. anche re iii @, @897, coll. 56@-566, s.v. Blei, Bleitafeln (Blümner ). La componente simbolica attinente a questo metallo sembrerebbe ora trovare nuova conferma nel rinvenimento sparso di ‘lingotti’ e colature di piombo nel recinto sacro dell’Area Sud di Pyrgi, realizzati apparentemente in chiave magico-religiosa (cfr. Colonna 2007, pp. @20-@23). 3   Cfr. sull’argomento Poccetti @999, p. 545: «[l]a natura dell’oggetto su cui si scrive è elemento costitutivo della funzione comunicativa della scrittura e si pone in diretto rapporto con il contesto storicoculturale che lo esprime e con il contesto situazionale in cui si colloca il documento» (cfr. anche pp. 553-555, sulle iscrizioni etrusche su piombo).

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riccardo massarelli

supporto per iscrizioni: il piombo già in antico era di facile estrazione (il punto di fusione è relativamente basso), ed è altrettanto facile reperirlo riutilizzandolo da manufatti precedentemente realizzati e di largo consumo, come i moduli delle tubature antiche (fistulae), con difficoltà e costi di lavorazione molto contenuti, data la particolare duttilità e malleabilità. In funzione di ciò, sembra opportuno chiedersi se effettivamente per ogni documento antico prodotto su piombo vi sia da individuare un portato simbolico strettamente attinente all’uso di questo metallo. In questo senso, i rinvenimenti dell’età antica contribuiscono a mostrare che la chiave di lettura impostata sulla magia non può essere esclusiva: valgano come esempi lo ‘schedario pubblico’ formato dalle laminette in piombo rinvenute a Camarina, @ in Sicilia, le più tarde tesserae plumbee pubblicate dal Rostowzew 2 e, proprio per quanto riguarda l’etrusco, il probabile contratto commerciale registrato sulla Lamina di Pech-Maho: per tutti questi documenti, infatti, l’uso del piombo non può che avere motivazioni pratiche del tutto prive di legami con il mondo della magia. Tutto ciò porta a riflettere sulla reale portata della componente magica nella scelta del piombo come supporto di iscrizioni: anche nel caso specifico del corpus etrusco, l’esempio di Pech Maho mostra che il significato magico, pur presente in parte delle iscrizioni, non può essere invocato per tutte. 3 Anche per questo, in questa ricerca, si è posta la necessità di sviluppare modelli interpretativi differenti e adeguati alle diverse caratteristiche testuali ed extra-testuali di ogni documento, modelli che sono finalizzati a individuare di volta in volta la funzione comunicativa del singolo testo; come si vedrà, i risultati raggiunti, per quanto soddisfacenti, non esauriranno le domande originate dall’analisi dei testi.  





3. Il dossier delle iscrizioni su piombo Fondata com’è su un parametro materiale e puramente convenzionale (la realizzazione dell’iscrizione su supporto in piombo), la selezione del corpus che costituirà l’oggetto di studio comporta automaticamente, in primo luogo, l’esclusione di quelle iscrizioni su piombo, pure presenti nelle sillogi tradizionali sulla documentazione etrusca, che però non sono in etrusco ma in altre lingue (come è il caso delle laminette cie 4565-4572, in lingua latina); secondariamente, che venga stabilito con certezza quali iscrizioni siano effettivamente realizzate su piombo. Qui il discorso è parzialmente più articolato. Sono certo da escludere le statuette iscritte as 4.2-3, realizzate in piombo secondo Buffa (nrie @072-@073), che segue una prima edizione non accurata, a sua volta ripresa da Pallottino (cfr. tle 742), mentre già Giglioli aveva chiarito che le statuette non sono in piombo, bensì in bronzo. 4 Analogamente sembra da escludere il peso iscritto edito da Larissa Bonfante in ree 59, 26: il pezzo, conservato in una collezione privata statunitense, è detto di piombo nell’elenco di  

2   Cordano @992.   Rostowzew @903.   Obiezioni analoghe sono formulate in Bagnasco Gianni 2000, p. @97, nota @. 4   Giglioli @952-@953, pp. 60-6@, nota 2@; non a caso, Rix negli Etruskische Texte non fa riferimento al materiale dei manufatti, come è consuetudine quando si tratta di statuette in bronzo. @

3

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introduzione

pesi ponderali etruschi redatto da Maggiani, @ ma nell’editio princeps si dice che il materiale del supporto è il bronzo. 2 Più complessa, infine, la situazione dell’aequipondium di Caere, in bronzo e piombo, che comunque si è deciso di escludere dal momento che il piombo ha la sola funzione di riempimento dell’oggetto in bronzo, dove è apposta l’iscrizione. 3 Si è ritenuto opportuno, inoltre, non prendere in considerazione quelle attestazioni epigrafiche non sufficientemente documentate. Un caso specifico è costituito dalla laminetta in piombo con iscrizione rinvenuta nell’Ottocento presso Bettona. 4 Unica testimonianza del testo è un apografo, il quale riporta trascritti solo una serie di segni grafici senza senso, tranne che per la parola latina quorum, in lettere capitali; Simonetta Stopponi ha proposto di intendere questa parola come un adattamento grafico al latino di un’originaria sequenza etrusca, che letta da destra a sinistra rimanderebbe alla nota parola s´uris, la cui analisi peraltro sarà affrontata più avanti (cap. ii.4.4.). Il materiale stesso della laminetta, il piombo, che spesso, si vedrà, è associato all’etrusco s´uris (come nel caso del Piombo di Magliano, cap. ii., o della sors di Arezzo, cap. vi.@.), così come la presenza di questa stessa parola su un supporto in pietra sempre da Bettona (Pe 0.6) sono dei validi supporti all’ipotesi; tuttavia, data l’incertezza evidente della questione, si è preferito non inserire il testo nel corpus da analizzare, anche in conseguenza del fatto che esso non darebbe alcun ulteriore contributo sul piano dell’analisi linguistica della parola etrusca. 5 L’individuazione ed esclusione di iscrizioni false, o sospette tali, è il passo successivo nella costituzione del dossier epigrafico di riferimento. Il problema dell’identificazione di eventuali falsi è una costante nello studio dell’epigrafia etrusca, e trova particolari riscontri nel caso di documenti in piombo: già Conestabile si era persuaso della necessità di sottoporre a verifica scrupolosa tutti i documenti etruschi iscritti su questo metallo, in seguito all’individuazione di alcuni falsi e delle loro officine di realizzazione tra Perugia e Foligno. 6 Anche Fabretti, nel cii, individua alcuni falsi epigrafici su piombo, e lo stesso fa Pauli nel primo volume del cie; 7 spesso il riconoscimento di un falso parte dal confronto con l’iscrizione presa a modello dal falsario, quando questi mostra di non averne compreso la sequenza grafica. Per quanto detto sopra, si deve ora escludere dal dossier la laminetta plumbea conservata a Cortona (Co 4.@@). L’argomento è oggetto di uno studio specifico,  













  Maggiani 2002b, p. @66.   Cfr. Thomson de Grummond 2004, p. 357, dove è pubblicata anche una foto del peso. 3 4   Cristofani @996b, p. 39.   Stopponi 2006, pp. 30-32. 5   Altro documento che qui non si prende in considerazione è la «piccola striscia di piombo», vista e pubblicata dal solo Gamurrini in App. 38@ (p. 35), originariamente in possesso del canonico Brogi di Chiusi, in cui le lettere incise v c p a detta dello stesso Gamurrini dovrebbero essere le iniziali del nome 6 del proprietario.   Conestabile @870, p. 292. Cfr. anche cie i, p. 4@6. 7   Sono considerate false da Fabretti e Pauli le iscrizioni cii @073, @69@ (falsa in cie 4603), @99@ (sospetta o falsa in cie 4602), cii, supp. i, n. 342 (sospetta o falsa in cie 4593); cfr. anche Thle, p. 4@@ (= Thle2, pp. 567-568). Inoltre, sono sospette le iscrizioni, spesso illeggibili, su un gruppo di glandes missiles, perlopiù da Perugia (cii 2636-2640 bis e), assenti nel cie e considerate sospette nel Thle (cfr. ancora p. 4@@ = Thle2, p. 568). Nel complesso, è da notare che gran parte di questi falsi è riferibile a Perugia, come già osservava Conestabile (cfr. sull’argomento anche cii, supp. iii, p. 4@). @

2

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riccardo massarelli

condotto da chi scrive in collaborazione con il prof. Luciano Agostiniani, a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti sul tema: @ se ne dà qui una minima sintesi, essenzialmente per quanto riguarda lo studio dei documenti epigrafici etruschi in piombo. La laminetta in questione è una copia moderna, settecentesca, di un analogo archetipo in bronzo, recentemente acquistato dal British Museum da una precedente collezione privata, e sostanzialmente inedito. L’originale in bronzo, e non la copia, è in effetti l’oggetto documentato nella tav. 83, n. 9 delle annotazioni del Buonarroti al De Etruria regali del Dempster, prima pubblicazione della laminetta, dove peraltro si specifica che si tratta di un fragmentum aeneum. 2 Questo ultimo esempio è da ritenersi particolarmente fortunato, perché permette, appunto, di poter confrontare la sospetta copia con l’originale, ed avere quindi la certezza che si tratta di un documento non autentico. Qualora però l’eventuale modello sia ignoto, o il falso sia frutto di un patchwork epigrafico più o meno consapevole da parte del falsario, è ovviamente più difficile stabilire se effettivamente si possa parlare di falsificazione; in tali circostanze è necessario ragionare sugli elementi interni eruibili dall’iscrizione: nel caso di assenza di confronti con la documentazione nota, o di sequenze non compatibili con la fonetica dell’etrusco, è possibile sostenere con una certa verosimiglianza che un’iscrizione sia un falso. È ovvio, però, che solo in rari casi si può giungere ad un verdetto sicuro e accettato unanimemente: così, tra le iscrizioni su piccoli oggetti in piombo provenienti da Chiusi e in parte conservati in Francia, derubricate a falsi da Pauli in cie 3274-3284, 3 quelle che hanno forma circolare sono oggi considerate perlopiù autentiche, dal momento che sono stati rinvenuti in tempi più recenti analoghi oggetti iscritti che sono stati interpretati come sortes (cfr. cap. vi.@.). 4 Lo stesso Pauli, d’altro canto, non rileva le singolarità dell’iscrizione volterrana Vt 4.6 (cie 46@3), qui descritte (cfr. cap. iv.3.); altri problemi di autenticità, come si vedrà, si pongono per il peso di Chiusi (cap. v.2.), mentre la Lamina di Poggio Gaiella (cap. iv.7.), qui inserita nella discussione sulle tabellae defixionum, pur essendo stata oggetto di dubbi in passato, negli studi più recenti è considerata genuina. Di tutte queste iscrizioni, data l’assenza di certezze in merito alle pretese di autenticità o, al contrario, alle accuse di falsità, si renderà conto ampiamente nel testo.  







  Agostiniani, Massarelli 2009.   Buonarroti @724, tav. 83, n. 9, e p. 37 (anche nel testo si parla chiaramente di bronzo e non di piombo). Quali siano poi i risvolti di questa scoperta, soprattutto per la definizione del luogo di rinvenimento dell’originale (con l’ormai ovvia esclusione di Cortona), è argomento per il quale si rimanda alla succitata pubblicazione. 3   Lo stesso fa M. Pallottino, cfr. Thle, p. 4@@ (analogamente, cfr. Thle2, p. 567). 4   Cfr. Lejeune @952-@953, pp. @33-@35, il quale tratta delle iscrizioni cie 3274-3276, un tempo nella collezione Froehner; del lotto dovevano fare parte anche le iscrizioni cie 3278-3279 (cfr., ivi, p. @33, n. 6). Cfr. inoltre La Regina, Torelli @968, p. 222, nota 3, che parlano delle iscrizioni cie 3276, 3277, 3279, considerate però «pendagli con il nome del defunto» e non sortes; cfr. anche Bagnasco Gianni 2000, pp. @98 e 208, fig. 3, dove l’iscrizione cie 3276 è considerata invece una sors. Questo gruppo di iscrizioni non è presente negli et. @

2

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introduzione 4. Norme grafiche e redazionali

Le norme qui adottate sono quelle consuete degli studi sulle epigrafi etrusche. Le iscrizioni sono citate dagli Etruskische Texte curati da Rix (et); in alternativa, si è fatto riferimento al Corpus Inscriptionum Etruscarum (cie), ai Testimonia Linguae Etruscae (tle), @ alla Rivista di Epigrafia Etrusca (ree), 2 o a specifiche pubblicazioni. 3 Il sistema adottato per le citazioni bibliografiche è quello consueto, che unisce il nome dell’autore all’anno di pubblicazione (vedi p. 249 sgg.); in deroga a questo sistema, alcuni testi particolari, tra cui quelli citati poco sopra, sono stati abbreviati secondo norme accettate concordemente da tutti:  

App. cie cii cii, supp. i cii, supp. ii cii, supp. iii eaa et ig limc nrie re ree st Thle





G. F. Gamurrini, Appendice al Corpus Inscriptionum Etruscarum ed ai suoi supplementi di Ariodante Fabretti, Firenze, @880. Corpus Inscriptionum Etruscarum, Lipsiae et alibi, @893-. A. Fabretti, Corpus Inscriptionum Italicarum, Augusta Taurinorum, @867. A. Fabretti, Primo Supplemento alla raccolta delle antichissime iscrizioni italiche, Torino, @872. A. Fabretti, Secondo Supplemento alla raccolta delle antichissime iscrizioni italiche, Roma-Torino-Firenze, @874. A. Fabretti, Terzo Supplemento alla raccolta delle antichissime iscrizioni italiche, Roma-Torino-Firenze, @878. Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica e Orientale, Roma, @958-@997. Etruskische Texte. Editio minor, a cura di H. Rix, Tübingen, @99@. Inscriptiones Graecae, Berolini, @873-. Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, Zürich-München, @98@-2009. M. Buffa, Nuova raccolta di iscrizioni etrusche, Firenze, @935-@938. Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, a cura di A. F. Pauly, G. Wissowa et alii, Stuttgart-München, @893-. Rivista di Epigrafia Etrusca, «StEtr». H. Rix, Sabellische Texte. Die Texte des Oskischen, Umbrischen und Südpikenischen, Heidelberg, 2002. Thesaurus linguae Etruscae i. Indice lessicale, pubblicato da M. Pallottino, a cura di M. Pandolfini Angeletti, con la collaborazione di C. De Simone, M. Cristofani, A. Morandi, Roma, @978.

@   Come è noto, esistono due edizioni dei tle di Massimo Pallottino, quella del @954 (tle) e quella del @968 (tle2). Qui si farà riferimento alla seconda edizione solo nel caso in cui il testo non sia già presente nella prima (come nel caso della Lamina di Santa Marinella, tle2 878), o qualora il testo della seconda edizione differisca da quello della prima (come nel caso della Lamina maggiore di Volterra, tle 40@, che nella seconda edizione, tle2 40@, recepisce parte dei miglioramenti alla lettura del testo apportati da Vetter @960). 2   Nelle citazioni, alla dicitura ree segue il numero arabo progressivo del volume di «Studi Etruschi» che contiene la scheda dell’iscrizione, quindi il numero progressivo della scheda stessa (es. ree 69, 62); per le citazioni precedenti all’anno @97@ (vol. 39), dal momento che le schede non risultavano ancora numerate progressivamente, si farà riferimento alle pagine del volume che contengono la scheda stessa (es. ree 34, pp. 330-33@). 3   Come nel caso della Tabula Cortonensis, il cui riferimento canonico è all’editio princeps, Agostiniani, Nicosia 2000.

18 Thle2 tle

riccardo massarelli Thesaurus linguae Etruscae i. Indice lessicale2, a cura di E. Benelli, con la collaborazione di M. Pandolfini Angeletti, V. Belfiore, Pisa-Roma, 2009. M. Pallottino, Testimonia Linguae Etruscae, Firenze, @954, @9682.

Come detto sopra, le iscrizioni sono citate a partire dall’ultima edizione disponibile, ovvero in larga misura gli et di Rix. L’edizione di Rix è seguita anche per le norme grafiche, tranne che per quanto riguarda la trascrizione delle sibilanti, dove al sistema degli et, che punta a rendere sia l’aspetto grafico sia quello fonetico della sibilante, è stato preferito un sistema tradizionale, che tiene conto solo della grafia: più precisamente, s indica sigma a tre tratti; s´ trascrive il san; s` è il sigma a quattro (o più) tratti; sx è il segno a croce quando serve ad indicare una sibilante. Per quanto riguarda invece la natura fonetica della sibilante, dove necessario è stata indicata per mezzo di parentesi quadre: [s] è la sibilante postdentale, [sˇ] è la sibilante palatale. Di seguito un breve elenco delle convenzioni redazionali seguite nella trascrizione delle iscrizioni: a aº [a] (a) {a} /a/ - [-] [-(-)] [-8/@0-] a a @ a

grafo sicuro grafo incerto @ grafo ricostruito grafo integrato grafo espunto grafo sovra(o sotto)scritto grafo illeggibile lacuna lacuna di una o due lettere lacuna di 8/@0 lettere lato (o sezione) a riga @  

Altre norme utilizzate ricalcano usi consolidati negli studi linguistici ed in particolare in quelli sull’etrusco: ad esempio, alle forme ricostruite è preposto un asterisco (es. *nurfalc), mentre a quelle non attestate ma eruibili da altre forme oblique della stessa parola lo stesso asterisco è posposto (es. matalia*). Tutte le parole e le iscrizioni etrusche, come di consueto, sono trascritte in corsivo. Per quanto riguarda le iscrizioni italiche si è deciso di seguire le convenzioni adottate nell’edizione dei st. Altre convenzioni minori utilizzate saranno indicate eventualmente nelle note in margine al testo. @   È opportuno tenere presente che nella dicitura di ‘grafo incerto’ (reso appunto in trascrizione dal sistema con lettera puntata) si è soliti far confluire vari livelli di incertezza nella lettura, non sempre facilmente distinguibili: in questo senso, una lettera puntata può indicare un grafo in cui un segmento è parzialmente illeggibile, senza che per questo venga inficiata la lettura complessiva del grafo stesso; o, altrimenti, può indicare un grafo parzialmente illeggibile ma ricostruito a partire da confronti interni, o secondo criteri di verosimiglianza; o, ancora, un grafo del tutto illeggibile, la cui presenza è però quantomeno postulabile sulla base di varie concordanze, o un grafo emendato, ecc.

II. IL PIOMBO DI MAGLIANO @. Storia degli studi

I

l Piombo di Magliano, secondo quanto riporta Emilio Teza, fu rinvenuto il 25 febbraio @882 presso Magliano in Toscana (provincia di Grosseto), nel podere Pian di Santa Maria, nella tenuta denominata Santa Maria in Borraccia o Monastero diruto, di proprietà dei fratelli Busatti, ad opera di contadini impegnati in lavori agricoli. @ Gustavo Busatti lo ricevette da uno dei suoi fattori e lo spedì subito a Pisa al fratello Luigi, professore presso l’Università della città toscana, il quale a sua volta lo mostrò al collega Emilio Teza; quest’ultimo ritenne opportuno divulgare la notizia della scoperta tramite una lettera indirizzata ad Ariodante Fabretti, pubblicata nello stesso anno nella «Rivista di Filologia Classica». Il Piombo si configura come una lamina quasi circolare, del diametro di 8 cm circa nel punto più ampio e di 7 cm circa in quello più stretto, quasi a forma di cuore (Figg. @-2 e Tavv. i-ii). Secondo l’analisi del prof. Grattarola, 2 realizzata nell’ambito delle trattative per l’acquisto del pezzo da parte del Reale Museo Archeologico di Firenze, 3 alla fine del xix secolo, il Piombo fu realizzato tramite fusione del metallo successivamente colato su un piano leggermente inclinato, fatto che dovrebbe spiegare la distribuzione non perfettamente uniforme e lo spessore variabile della lamina. Tale procedimento spiegherebbe inoltre perché la faccia con l’inizio dell’iscrizione (d’ora in poi, lato a) risulta più liscia, mentre l’altra (lato b) presenta varie imperfezioni dovute essenzialmente a bolle d’aria imprigionate dal metallo durante il processo di colatura.  





  Cfr. le notizie raccolte in Teza @882; Milani @893, coll. 44-45; cie 5237. Dallo stesso podere proviene una statuetta in bronzo di offerente, oggi dispersa, databile alla prima metà del iv sec. a.C.: questa, insieme al Piombo, potrebbe suggerire la presenza, nel terreno di Santa Maria in Borraccia, di un santuario 2 di età tardo-classica (Rendini 2003, pp. @6-@9).   Cfr. Milani @893, coll. 40-4@. 3   Milani ricorda che i fratelli Busatti accettarono un cifra di sole mille lire per l’acquisto del pezzo da parte del Museo, motivando tale decisione come un punto d’onore, «per il desiderio di saper custodito in uno dei grandi Musei, l’importante documento etrusco; nella speranza che così torni a vantaggio della scienza, ed in particolare per gli antichi studi italici», e rinunciando quindi alla possibilità di un maggior guadagno nei mercati antiquari fuori Italia, come lo stesso Luigi Busatti affermò nella lettera riportata da Milani (Milani @893, coll. 48-49, nota 2); Busatti, inoltre, aggiunse che la scelta di accettare tale somma non fu dovuta «in causa dei sospetti lanciati all’estero sull’autenticità dell’oggetto» (su questi cfr. la discussione nelle pagine successive). Nelle ricerche effettuate da parte dello scrivente nell’Archivio Storico del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, nella primavera 2007, sono state rinvenute, oltre alla minuta della relazione sull’acquisto redatta da Milani (perlopiù ripresa in Milani @893), anche alcune lettere interne all’amministrazione del Museo (Corrispondenza varia @884-@888, Fogli 74-75), da cui risulta che al momento della scoperta i Busatti avevano proposto l’acquisto del Piombo al Museo per 5000 lire, e che la Direzione del Museo aveva rifiutato tale prezzo; in seguito, forse proprio per la volontà di chiudere l’affare di fronte ai sospetti di falsità (ad onta di quanto affermato da Luigi Busatti), avevano accettato la somma di @000 lire, un quinto della somma chiesta in principio. @

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Fig. @. Piombo di Magliano, lato a.

Il testo del Piombo di Magliano, una volta pubblicato, divenne subito argomento di ampie disquisizioni, configurandosi come terreno di confronto tra opposti orientamenti linguistici e metodologici sull’etrusco: è noto che, fino al @875, l’indirizzo scientifico imperante vedeva nell’etrusco una delle tante lingue imparentate con la grande famiglia indoeuropea; la certezza di questo assunto non era scalfita dalle difficoltà nell’interpretazione delle epigrafi etrusche, dal momento che, nell’ottica dei filologi del tempo, l’etrusco era, tra le lingue ‘indogermaniche-italiche’, quella che più si allontanava dalla Ursprache. A ciò si aggiunga il fatto che lo stato della documentazione era ancora limitato, e soprattutto, tra i grandi testi oggi conosciuti e studiati, solo il Cippo di Perugia era noto. Il punto di svolta si ebbe negli anni @874-@875, quando Wilhelm Corssen pubblicò quella che doveva essere l’apoteosi del metodo etimologico applicato all’ermeneutica etrusca, i due volumi Über die Sprache der Etrusker: in realtà il lavoro si rivelò un completo fallimento, e Wilhelm Deecke nello stesso anno pubblicò una breve

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Fig. 2. Piombo di Magliano, lato b.

ma puntuale critica (Corssen und die Sprache der Etrusker. Eine Kritik) che ne sancì la stroncatura, con ripercussioni anche su coloro che avevano aderito con entusiasmo all’impostazione di Corssen. @ Gli anni successivi al @875 videro quindi un generale ripensamento delle teorie etimologiche applicate all’etrusco, se non un vero e proprio abbandono, benché, come si vedrà, solo temporaneo. In un primo momento la discussione sul Piombo di Magliano si incentrò  

@   Come fa notare Agostiniani (Agostiniani @993b, pp. 68-70 = Agostiniani 2003-2004, ii, pp. 432434) riguardo a Elia Lattes, è probabile che il sostegno esplicito dato alle teorie corsseniane, cadute repentinamente in disgrazia dopo la nota critica di Deecke, abbia generato nello studioso italiano una sorta di shock che lo indusse a rivedere tutta la sua attività come studioso di lingua etrusca, e in concreto lo portò a non pubblicare nulla di attinente all’etrusco per otto anni, vale a dire dal @876, anno successivo alla vicenda Corssen-Deecke, al @883; anche la ripresa degli studi di filologia dell’etrusco in quest’anno, del resto, potrebbe essere spiegabile in virtù della cosiddetta ‘conversione’ di Deecke, che da oppositore dell’ipotesi ‘italica’ sull’etrusco ne divenne acceso fautore, anche in relazione alla pubblicazione dell’iscrizione del Piombo di Magliano (ma su questo argomento si veda più avanti).

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sull’autenticità dell’iscrizione, che non mostrava particolari legami con la documentazione al tempo conosciuta, e che inoltre proveniva da un’area che fino ad allora non aveva restituito iscrizioni etrusche. I primi dubbi furono sollevati in maniera generica da Deecke, che giudicò l’iscrizione «recht fremdartig», anche se poi concludeva dicendo: «Trotzdem will ich kein definitives Verwerfungsurtheil aussprechen». @ Nonostante le prime cautele, però, Deecke nel @883 decise di tentarne l’interpretazione, operando un confronto sistematico con il materiale già noto, e soprattutto applicando allo studio del Piombo le nuove teorie ‘italiche’ che andava sviluppando, almeno dal @882 (come dimostra il secondo quaderno degli Etruskische Forschungen und Studien, dello stesso anno), in totale contrasto con la sua stessa critica di Corssen. 2 Questo mutamento di posizione così netto, dal suo punto di vista, trovava nell’interpretazione del Piombo, allo stesso tempo, la giustificazione massima e lo strumento più potente. Così Deecke chiosò il suo primo studio sull’iscrizione di Magliano:  



Es ist hiermit zum ersten Mal die wesentliche Entzifferung einer grösseren etruskischen Inschrift gelungen, und ich glaube, dass nach den obigen kurzen Ausführungen schon kein Zweifel mehr sein kann, dass das Etruskische, wenn es auch manche engere Beziehung zum Griechischen hat, doch zur italischen Gruppe der indogermanischen Sprachen gehört. 3  

L’analisi dell’iscrizione si basava esclusivamente sulla descrizione fornita da Teza, in quanto solo in seguito Deecke poté visionare e pubblicare le immagini del Piombo: 4 le singole parole dell’iscrizione venivano confrontate con il materiale delle lingue indoeuropee, principalmente latino e italico ma anche greco, e attraverso ciò erano ricostruite le forme originarie etrusche, che nell’ottica di Deecke avevano subito mutamenti dovuti ad aferesi, apocope, lenizioni di vocali ecc. Come è noto, gli Etruskische Forschungen und Studien erano nati dalla fusione delle Etruskische Forschungen dello stesso Deecke e gli Etruskische Studien di Carl Pauli. Il cambio di impostazione metodologica operato da Deecke a partire dal secondo volume, da un metodo puramente ‘combinatorio’ ad uno chiaramente ‘etimologico’, oltre alla sua nuova convinzione dell’intrinseco rapporto tra etrusco e lingue italiche, aveva provocato una frattura insanabile tra i due, Deecke e Pauli, che portò all’uscita del secondo dal comitato di redazione degli Etruskische Forschungen und Studien, dove fu sostituito da Sophus Bugge, autore del trattato contenuto nel quarto volume, Beiträge zur Erforschung der etruskischen Sprache. 5 Questi era certo più incline alle nuove convinzioni professate da Deecke, come è dimostrato nella  



@   Deecke @882, p. 379; cfr. anche Deecke @885a, p. 5. Successivamente Deecke rivendicherà il giudizio di autenticità espresso sul Piombo contro Gamurrini e Pauli (Deecke @896, p. 88). 2   Agostiniani @993b, p. 68 (= Agostiniani 2003-2004, ii, p. 432); cfr. anche F. Skutsch, in re vi @, @907, coll. 772-773, s.v. Etrusker. Si veda anche Bréal @882, che registrò con stupore il cambio di fronte 3 operato da Deecke.   Deecke @884a, p. @50 (enfasi dello stesso Deecke). 4   In Deecke @885a, cfr. p. 5. 5   Si veda la nota iniziale scritta da Deecke in Bugge @883, e la risposta polemica in Pauli @884a, pp. @07-@09.

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premessa alle sue ricerche; @ seguendo questa impostazione, Bugge fece ampio uso della recente scoperta del Piombo di Magliano, affidandosi all’edizione di Teza, l’unica fino ad allora nota. 2 Nel @884, lo stesso anno della pubblicazione del lavoro di Deecke, Carl Pauli, ormai lasciati gli Etruskische Forschungen und Studien, diede alle stampe il terzo volume dei suoi Altitalische Studien, in cui un intero capitolo è dedicato allo studio del Piombo di Magliano. Proprio questa iscrizione, recentemente analizzata da Deecke, permetteva a Pauli di esprimere tutto il suo rifiuto per il metodo etimologico applicato allo studio dell’etrusco, che lo stesso Deecke in larga parte aveva contribuito a mettere alla berlina solo pochi anni prima. Come premessa, Pauli sentì il bisogno di ribadire la sua convinzione circa l’estraneità dell’etrusco all’indoeuropeo, in contrapposizione al cambiamento di rotta di Deecke: «Ich habe von Anfang an die Etrusker für Nichtindogermanen gehalten [...], und dafür halte ich sie auch noch». 3 Pauli quindi aggiunse una breve ma incisiva esposizione dei fatti e delle opinioni in merito alla questione, in cui attaccò Deecke accusandolo anche di far leva non tanto sulla validità delle sue nuove idee, ma piuttosto sul suo peso quale ‘autorità’ in materia, per favorire l’approvazione dei suoi studi recenti. 4 L’intento di Pauli non sarebbe stato completo senza un confronto sullo stesso terreno di Deecke; questo gli venne offerto proprio dall’iscrizione di Magliano:  







Ich wähle für die Bekämpfung von Deeckes neuen Ansichten seine Deutung der “Bleitafel von Magliano”. Diese seine Deutung giebt gleichsam die Quintessenz seiner jetzigen Meinungen in kurzer, präciser Form ohne alles Beiwerk und ist daher für den in Rede stehenden Zweck ganz besonders geeignet. 5  

In primo luogo, Pauli espresse seri dubbi sull’autenticità, molto più circostanziati rispetto alla generica cautela dimostrata inizialmente dallo stesso Deecke: un primo elemento a favore della falsità dell’iscrizione era secondo Pauli la constatazione che non vi era una sola parola che non fosse confrontabile almeno in parte con il thesaurus lessicale etrusco già noto; come se, affermò Pauli, un falsario avesse avuto paura di inserire parole sconosciute, affidandosi piuttosto alle forme già note, magari leggermente modificate; anzi, sempre secondo Pauli, alcuni elementi che presentano variazioni grafiche minime all’interno della stessa iscrizione (ad esempio nesl e nes´l) potevano essere degli ‘errori’ intenzionali dello scriba, per rendere più   Bugge @883, p. x: «Das Etruskische bildet eine eigene Abtheilung der indogermanischen Sprachenfamilie und weicht von allen übrigen Abtheilungen derselben stark ab. [...] Während ich einerseits fest-  halte, dass das Etruskische eine indogermanische Sprache ist, hebe ich anderseits stark hervor, dass es sich weit mehr, als irgend eine andere indogermanische Sprache der alten Zeit, von dem ursprünglichen Typus entfernt hat»; si veda inoltre Pauli @884a, dove sono citate le pagine in cui Bugge tratta dell’iscrizione di Magliano: l’intento di Pauli era evidentemente polemico, se non sarcastico, per dimostrare come, applicando lo stesso metodo etimologico, Deecke e Bugge erano giunti a due risultati diversissimi, i cui unici punti concordi erano quelli stabiliti in precedenza attraverso il metodo combinatorio, ad esempio l’equazione avil = ‘anno’ (su questo argomento si veda oltre). 2   I passi in cui Bugge parla del Piombo di Magliano sono indicizzati alle pp. 249-250 di Bugge @883. 3 4 5   Pauli @884a, pp. @08-@09.   Pauli @884a, p. @@0.   Pauli @884a, p. @@@. @

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veritiero il falso. Pauli poi dichiarò di nutrire dubbi sul fatto che un tale oggetto potesse essere stato rinvenuto durante dei semplici lavori agricoli, in una zona che fino ad allora non aveva restituito testimonianze iscritte; dubitò inoltre che l’oggetto fosse in piombo, non essendoci ancora foto pubblicate del pezzo; infine, Pauli notò che il piombo, per le sue caratteristiche particolari, si prestava più di altri materiali alla realizzazione di un falso. @ Come è possibile notare, le osservazioni mosse da Pauli non sembrano determinanti, tranne per quello che concerne i dubbi sul luogo preciso di rinvenimento, che in qualche modo persistono ancora oggi, ma che non influiscono se non marginalmente sul giudizio di autenticità dell’iscrizione. Tuttavia, Pauli concluse dichiarando:  

Auf Grund aller dieser Indicien, insbesondere der sprachlichen, bin ich gegen unsere Inschrift in hohem Grade misstrauisch, wenn ich auch, ohne sie selbst gesehen zu haben, ihre Unechtheit nicht mit voller Bestimmtheit behaupten will. [...] Obwohl ich persönlich an der Echtheit der Inschrift sehr starke Zweifel habe, will ich mich doch hinter diese nicht verschanzen, wie man es deuten könnte, um einer weiteren Besprechung der Deeckeschen Erklärung aus dem Wege zu gehen. Ich setze im Gegenteil die Inschrift als echt und betrachte von diesem Gesichtspunkte aus Deeckes Deutung. 2  

Dunque, malgrado i dubbi, la possibilità di confrontarsi con le teorie di Deecke spinse Pauli ad affrontare lo studio dell’iscrizione. Pauli, in effetti, aveva come unico obiettivo quello di screditare la proposta di Deecke, senza però fornirne una sua, forse condizionato in questo dall’incertezza riguardo all’autenticità dell’iscrizione. Pauli criticò il modo in cui Deecke parlava di «metatesi», «flessione», l’uso arbitrario di abbreviazioni, ampliamenti, la mancanza di coerenza tra le varie forme ottenute seguendo questo metodo: come era possibile, sosteneva Pauli, che vi fossero, dello stesso caso, forme piene, forme abbreviate, forme mancanti della vocale finale, forme mancanti della consonante? Un caso per tutti: Pauli raccolse le forme in cui Deecke leggeva dei genitivi singolari. Di questi, cauqas e aiseras erano forme piene, a eca(s) mancava la consonante della terminazione, a tin(u)s e avil(i)s la vocale, ad avil(is) l’intera terminazione. 3 Questa varietà incoerente (che Pauli definì «Polymorphie») è riscontrabile in molti punti dell’analisi effettuata da Deecke. Allo stesso modo, Pauli non accettò alcune suddivisioni lessicali e sintagmatiche di Deecke, che gli sembravano del tutto arbitrarie, come, ad esempio, nella separazione di hes´ni mulveni, che secondo Pauli sono invece grammaticalmente affini, data la terminazione identica. 4 In altri casi, invece, Deecke non procedette a suddivisioni che per Pauli erano evidenti, come in cimqm, che Deecke ricollegava al lat. centum, e che invece, secondo Pauli, era chiaramente da suddividere in cim-q-m, grazie al confronto interno nei sintagmi cimqm casqialq lacq e cimq s´pelq (quest’ultimo sul Cippo di Perugia) dove -m ha valore di congiunzione e -q un valore grammaticale  



  Pauli @884a, pp. @@@-@@8.   Pauli @884a, p. @22.

@ 4

  Pauli @884a, p. @@8.

2

  Pauli @884a, p. @20.

3

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al tempo non ancora definito (oggi è interpretata come una posposizione con valore locativo), e soprattutto con cim dell’iscrizione di Pulenas e ciem del Cippo di Perugia. @ Il tono della discussione di Pauli era non solo polemico nei confronti di Deecke, ma addirittura ironico, ad esempio nelle frequenti domande retoriche in cui mostrava tutta la sua incredulità davanti a prese di posizione così sbagliate, oppure, in conclusione, prima di riportare la traduzione dell’iscrizione così come era stata proposta da Deecke stesso: «Und welches ist nun trotz aller dieser Kunststücke, denn anders kann man sie nicht füglich bezeichnen, das Ergebnis?». 2 Pauli non si addentrò a contestare i singoli riferimenti indoeuropei proposti da Deecke per le parole del Piombo di Magliano; preferì piuttosto, per dimostrare l’insostenibilità di questo modo di procedere, raccogliere i risultati a cui era giunto Bugge e mostrare che erano in palese contraddizione con quelli di Deecke stesso, pur applicando lo stesso metodo; infine, propose una sua terza versione dell’iscrizione, utilizzando ancora le stesse vie comparative, dimostrando così per assurdo l’insostenibilità dell’approccio etimologico nello studio dell’etrusco. 3 Come chiusura finale, Pauli ribadì la sua preferenza per il metodo di analisi combinatoria, riportando le parole di chi prima di lui aveva stigmatizzato tali tentativi di affiancare l’etrusco ad altre lingue note (ai quali, a detta di Deecke, lo stesso Pauli non si era negato), e concludendo in maniera sarcastica:  





Diese Worte sind geeignet, zu zeigen, welchen Wert man derartigen Versicherungen, dass einem die Entzifferung des Etruskischen “gelungen” sei, beizumessen habe. Wenn die wirkliche Entzifferung dereinst gelungen sein wird, wird die Evidenz der Richtigkeit derselben jedes derartige Proklama überflüssig machen. 4  

Pauli aveva già criticato l’impostazione metodologica e i risultati dei nuovi lavori di Deecke nella recensione ai quaderni quarto e quinto degli Etruskische Forschungen und Studien. 5 Qui, dopo un breve resoconto della vicenda che aveva portato alla rottura tra i due, Pauli aveva spiegato come Deecke puntasse a dimostrare l’ ‘indogermanicità’ dell’etrusco attraverso due strumenti principali: da una parte, con l’analisi del sistema nominale etrusco, usando soprattutto le bilingui; dall’altra, proprio con la decifrazione del Piombo di Magliano, che doveva costituire l’esempio massimo della bontà del metodo etimologico e dei suoi presupposti. Del resto era lo stesso Deecke, nella prefazione al sesto quaderno dei suoi Forschungen und Studien, a confermare quest’idea, recuperando, con cambiamenti minimi, la sua traduzione dell’iscrizione del Piombo, e portandola ad esempio finale e risolutivo che l’etrusco era una lingua indogermanica-italica e che il metodo comparativo era il più indicato per il suo studio. Scriveva Deecke:  

Als sich mir hieraus der indogermanisch-italische Character der Sprache mit hoher Wahrscheinlichkeit bestätigte, prüfte ich nun die so gewonnenen Resultate an derjenigen In2   Pauli @884a, pp. @23-@24.   Pauli @884a, p. @28.   Su Bugge, cfr. Pauli @884a, pp. @29-@3@; sulla proposta dello stesso Pauli, cfr. Pauli @884a, pp. @3@-@35. 4  5 Pauli @884a, p. @36.   Pauli @884b. @

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schrift, welche unter allen die seltsamste und für meine Hypothese bedenklichste schien, eben diejenige der Bleiplatte von Magliano. Und die Entzifferung gelang! @  

Le prime critiche di Pauli non furono affrontate nello specifico: anzi, come detto sopra, Deecke annotò che lo stesso Pauli, nel secondo volume degli Altitalische Studien, aveva accettato la teoria dell’ ‘indogermanicità’ dell’etrusco, evitandogli di dover ritornare sulla questione. 2 Deecke evidentemente non credeva che anche questo tentativo di decifrazione, che si basava su un confronto tra etrusco e lituano, mirasse solo a dimostrare per assurdo l’insostenibilità del metodo etimologico. 3 Inoltre, sembra piuttosto verosimile che Deecke non conoscesse ancora le critiche mossegli da Pauli nel volume successivo degli Altitalische Studien, non facendo menzione di come lì egli riaffermasse la sua contrarietà alla tesi indoeuropea dell’etrusco e al metodo etimologico. Non a caso, Deecke sentì il bisogno di ritornare sulla questione nell’anno successivo, il @885, anche grazie ad alcune fotografie dell’oggetto iscritto inviategli da Teza, che gli permisero di riprendere l’argomento apportando alcuni miglioramenti a lettura e interpretazione. Qui affrontò anche le ultime critiche di Pauli, in cui lesse una contraddizione: se ha dubbi sulla sua autenticità, perché mai provare comunque ad interpretare l’iscrizione applicando il metodo etimologico, come Pauli aveva fatto negli Altitalische Studien? Anche qui Deecke non sembrerebbe aver colto la volontà, da parte di Pauli, di dare un’ulteriore dimostrazione per assurdo dell’inapplicabilità del metodo etimologico allo studio dell’etrusco. 4 Ma nella recensione al volume terzo degli Altitalische Studien, a proposito del capitolo dedicato da Pauli al Piombo di Magliano, commentò:  





Der Verfasser sucht hier erst durch eine sinnlos mechanische Compilation sogenannter»Muster und Elemente«die Unechtheit der Inschrift nachzuweisen, und giebt dann eine scherzhafte Deutung derselben, um meine Uebersetzung und Erklärung zu discreditieren. 5  

Nel frattempo, malgrado gli appunti di Pauli, erano sempre più i sostenitori dell’autenticità dell’iscrizione. Poggi, benché non accettasse l’idea dell’etrusco come lingua indoeuropea e le proposte comparative di Deecke, Bugge e Pauli (che era posto sullo stesso piano dei due precedenti), riguardo all’autenticità dell’iscrizione annotò: Quanto ai dubbi di cui fu fatta segno questa iscrizione, non sono in grado di farne giudizio con piena coscienza di causa. Non ebbi mai occasione di esaminare il piombo originale; e solo ne posseggo una fotografia, il cui aspetto, a dir vero, nulla ha in sé sfavorevole, almeno per quanto risguarda agli indizi paleografici. Dirò bensì, in relazione all’argomento, essere invalso da qualche tempo, e più specialmente in Italia dove maggiore è la copia delle scoperte archeologiche, il vezzo di condannare senz’altro, come false, tutte le iscrizioni che, vuoi pel loro contesto, vuoi per la forma del munumento di cui facciano parte, si allontanano alquanto dai tipi più comuni. È un espediente comodo e spicciativo per chi voglia evitare i 2   Deecke @884b, pp. v-vi.   Deecke @884b, p. viii. 4   Cfr. Pauli @884b, p. 297.   Deecke @885a, pp. 5-6. 5   Deecke @885b, p. 26@. Alle pp. 253-255 è riproposta la traduzione dell’iscrizione come ottenuta negli studi precedenti, con l’aggiunta di alcune note ulteriori di commento. @

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disturbi inerenti a scrupolose indagini e a minuziosi riscontri, ma altrettanto sterile e dannoso per la scienza, dal cui proficuo patrimonio vengono così distratti preziosi materiali. @  

Bugge, incidentalmente, sostenne che, una volta accettate le obiezioni di Pauli, allora si sarebbe dovuta considerare come non autentica la maggior parte delle iscrizioni etrusche. 2 Gamurrini, che invece nutriva ancora dei dubbi, accennò ad essi in maniera vaga, senza entrare nello specifico:  

Fra le poche [iscrizioni] etrusche la più singolare ed importante sarebbe quella incisa in un dischetto di piombo, proveniente da Magliano, presso il qual paese il Dennis costatò l’esistenza di una grande città etrusca, che suppose essere Vetulonia. Ma quel piombo, sia pure commentato dal Deecke, ed acquistato per un museo dello Stato, non mi ha ispirato mai molta fede, e lo tengo potrei dire in quarantena. 3  

La discussione sembrava essere giunta ad un punto di stallo: gli anni successivi, però, si dimostrarono straordinariamente fortunati per l’epigrafia etrusca. Nel @892, ad opera dell’egittologo Jacob Krall, si ebbe la prima pubblicazione completa della Mummia di Zagabria, ancora oggi il documento più importante in lingua etrusca; pochi anni più tardi, nel @900, Franz Bücheler pubblicò l’iscrizione della Tabula di Capua. 4 Lo studio della lingua etrusca, grazie a queste e ad altre scoperte minori, progredì notevolmente, e con esso anche lo studio del Piombo di Magliano. Soprattutto, il confronto con alcuni passi delle bende di Zagabria mostrò senza ombra di dubbio che l’iscrizione del Piombo era un elenco di prescrizioni rituali: il lessico delle due iscrizioni era infatti molto simile, e questo non poteva che essere un argomento a favore dell’autenticità di entrambe. Addirittura Krall, commentando nella editio princeps del Liber linteus i paralleli tra questo testo e quello del Piombo, sostenne che proprio il confronto con l’iscrizione da Magliano permetteva di fugare ogni dubbio, dimostrando che il rotolo di Zagabria non poteva essere un falso. 5 Lo stesso ragionamento fu portato avanti da Elia Lattes, nel suo primo intervento di esegesi al testo della Mummia:  



Fatta ragione altresì di quanto si nota qui appresso, non solo acconsento col Krall, che il nuovo testo etrusco tratti di riti, ma conghietturo che i riti di cui esso parla sieno, almeno in parte, funebri. E tale conghiettura mi risulta confermata da ciò, che, pur limitandomi per ora, quasi esclusivamente, alle ventitré linee del frammento comunicato dal prof. Krall, vi trovo tutto un gruppo di parole per le quali, o solo, o precipuamente, o insieme con altre etrusche epigrafi, offre riscontro l’iscrizione della lamina di Magliano; della cui autenticità, dimostrata, come a me sempre parve, dal Deecke, e strenuamente difesa dal Bugge, più d’uno studioso dubitò e tuttora dubita. 6  

2   Poggi @885, p. 378.   Bugge @886, p. 25, nota @.   Gamurrini @89@, p. 43@; sull’acquisto, promosso da Luigi Adriano Milani, al tempo direttore del Museo Archeologico di Firenze, si veda sopra. 4  Cfr. Krall @892; Bücheler @900. Su entrambi si veda inoltre Roncalli @985a, pp. @7-2@ (sulle bende 5 della Mummia di Zagabria), 65 (sulla Tabula Capuana).   Krall @892, pp. 6@-62. 6   Lattes @89@-@892, pp. 633-634; cfr. anche Lattes @894, pp. @64, 2@7. ���������������������������������� Lattes negli anni successivi dedicherà un intervento all’esegesi dell’etrusco sulla base della documentazione fornita dal Piombo di Magliano: qui il metodo utilizzato sarà ancora di carattere comparativo, anche se lo studioso italiano sentirà il bisogno di prendere le distanze da Corssen: «Mi resta da dire [...] delle obbiezioni contro il modo qui te@

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La questione dell’autenticità può dirsi definitivamente risolta nel @894: Luigi Adriano Milani, dopo l’acquisto del Piombo da parte del Museo Archeologico di Firenze, pubblicò uno studio sull’oggetto, in cui era riportata un’autorevole lettera, datata @888, di Theodor Mommsen, che si schierò a favore: Caro Professore, Ella mi domanda il mio parere sull’autenticità del piombo con lunga iscrizione etrusca scoperto alcuni anni fa a Magliano e che ho avuto il vantaggio di poter vedere e studiare insieme con Lei. Ubbidisco volentieri, perché in questioni tali, per chi dopo l’autopsia è nel caso di dileguare cotali dubbi, è quasi un dovere di farlo a prò di quei che non hanno avuto la medesima opportunità. In questo caso l’autenticità è evidente. [...] @  

Infine, lo stesso Pauli dovette riconoscere che i dubbi da lui sollevati, alla luce dei nuovi dati, non avevano più ragione di sussistere: Die Beziehungen zwischen der Bleiplatte und der Mumienbinde [...] lassen auch mich jetzt an die Echtheit jener glauben, so dass ich kein Bedenken mehr trage, auch aus ihr einen Beleg anzuführen. 2  

Sul piano dell’interpretazione, dopo i tentativi di Deecke e Pauli, si assistette ad una generale ritrosia da parte degli studiosi ad affrontare la questione in maniera organica: lo studio di Milani mirava, più che all’analisi del testo, all’esame del Piombo di Magliano come oggetto iscritto, alla certificazione della sua autenticità, infine ad una migliore lettura, ma non ad un’interpretazione completa del testo. Milani, nelle poche note aggiunte in conclusione, si rifaceva essenzialmente a quanto già detto da Lattes circa, ad esempio, il vocabolo mlac, inteso come teonimo: per il resto, pur nuto: ed intendo principalmente il pericolo di ricadere nel corssenianesimo, e la contraddizione dell’ostinata resistenza ermeneutica dei testi etruschi colla copia delle parole e forme comuni ai latini e simili che vi si conterrebbero. Ma, in primo luogo, fra le certezze corsseniane e le presenti nostre possibilità od al più probabilità, intercede l’abisso [...]» (Lattes @9@@, col. 307); ancora nel @907 Lattes era definito da Skutsch «der letzte sachkundige Verfechter des Corssenianismus» (art. cit. [p. 22, nota 2], col. 773).   Cfr. Milani @893, coll. 38-39; si confronti anche l’Aggiunta esegetica (coll. 6@-66), in cui Milani riprende sostanzialmente gli argomenti di Krall e Lattes circa i confronti tra Piombo di Magliano e Liber linteus di Zagabria, che da soli confermano l’autenticità dei due testi. 2   Pauli @894, p. @0@. Sull’intera questione dell’autenticità si veda anche, da ultimo, il breve resoconto di Danielsson ad cie 5237: Quae cum ita sint, in ipsa lamminae scripturaeque specie ac figura nihil omnino inest, quod fraudis noviciae suspicionem merito afferre possit, contraque omnia antiquitatem veram testari videntur. Nec minus recte, quantum nunc quidem iudicari licet, sermo inscriptionis etruscus se habet, quo ex genere cum alia tum ea vocum locutionumque quarundam communio, quae inter plumbum Maglianense et librum linteum Zagrabiensem intercedit, a Lattesio, Krallio, Deeckio, Milanio al. notata est. Itaque iam diu inter omnes constat frustra olim a Paulio ([...] nam postea eam sententiam retractavit, [...]), Gamurrinio ([...]), al. (velut a Deeckio ipso in prima lamminae Magl. commemoratione [...]) antiquitatem fidemque huius monumenti in dubium vocatam esse. È singolare che il Piombo di Magliano, originariamente sospettato di essere un falso e solo in un secondo momento riconosciuto unanimemente come autentico, sia stato la fonte per altre due evidenti falsificazioni moderne: la prima, una lamina in oro con l’incipit dell’iscrizione del Piombo, fu individuata come falsa da Pfiffig (cfr. il racconto in Pfiffig @972, p. 5; cfr. anche Agostiniani 20@0a, pp. 64-65); la seconda è il cosiddetto Piombo di Crocores, in Sardegna, che trascrive, anche nella veste spiraliforme, la terza sezione del lato a del Piombo di Magliano: su di esso non esiste bibliografia scientifica, ma solo vaghe informazioni e alcune foto in internet, di per sé sufficienti per riconoscervi un falso piuttosto grossolano. @

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riconoscendo il valore dello studioso piemontese, Milani non si sbilanciò sulla sua adesione al metodo etimologico di Corssen prima e Deecke poi. @ Del resto, il punto di vista sostenuto da Deecke, che morì nel @897, trovava sempre meno sostenitori. 2 Questo non significò, peraltro, che il metodo comparativo-etimologico, applicato allo studio dell’iscrizione del Piombo di Magliano, fu del tutto accantonato; a cambiare fu però l’orizzonte di ricerca, il termine di paragone linguistico da mettere a confronto con l’etrusco: si vedrà più avanti con quali risultati. In questi anni si avvicinava agli studi di ermeneutica dell’etrusco Alf Torp. La sua posizione in riguardo al metodo era fortemente critica nei confronti di Deecke, Bugge e gli altri comparativisti: Torp procedette all’interpretazione del Piombo di Magliano, riletto per l’occasione da Danielsson, secondo lo schema combinatorio, proponendo, come già Pauli, confronti interni all’etrusco e rifiutando paralleli con altre lingue:  



The most enigmatic inscription has been almost completely translated by the late Dr. Deecke [...]. One wonders how he has managed to believe in a single word of his interpretation! His so-called translation is the result of a comparison of the Etruscan words with such Latin ones as are somewhat similar in sound. The resemblance is made greater – or, if it does not exist at all, it is established by freely adding new syllables and letters to the Etruscan words, which are supposed to be abbreviated in writing. It is superfluous to say that if we had to suppose them to be thus abbreviated, we might as well spare ourselves the trouble of trying to interpret them. Nor need I further explain how hopeless the comparative method is in interpreting a text in an unknown language. [...] The only right way to understand the unknown language is to compare the written specimens left of that language with each other. 3  

La posizione di Torp era di sincera onestà intellettuale quando riconosceva che, così facendo, i risultati erano certo meno eclatanti, ma nel caso dell’etrusco era questo l’unico modo di procedere, e il grado di verosimiglianza di una ipotesi non poteva che essere valutato in base alla mole, alla qualità e alla varietà della documentazione a cui essa faceva riferimento. Dall’altra parte, se la prospettiva di una parentela tra etrusco e lingue italiche sembrava definitivamente tramontata, tuttavia erano ancora in molti a credere nel metodo etimologico: così Alfredo Trombetti, che nella sua monografia sulla lingua etrusca affrontò la decifrazione dell’iscrizione del Piombo, criticando le conclusioni di Torp e recuperando invece alcune proposte di Deecke, confrontando il lessico dell’iscrizione con il latino, l’osco, il greco ecc. 4 Nel frattempo, sul piano della lettura del testo si segnalava, nel @923, la pubblicazione del secondo fascicolo del secondo volume del Corpus Inscriptionum Etruscarum, curato da Olof August Danielsson, che includeva una nuova edizione dell’iscrizione, corredata da un approfondito apparato critico e una bibliografia estesa (cie 5237).  

  Milani @893, coll. 64-65; cfr. Lattes @89@-@892, pp. 634-640.   Körte @905, p. 366: «Ueber Deecke’s [Deutung] und seine “Uebersetzung” dieses merkwürdigen Schriftdenkmals [scil. il Piombo di Magliano] kann ich nicht anders urteilen wie Bréal und Pauli [...]». 3 4   Torp @905, p. 4.   Trombetti @928, pp. @69-@75, 206-207. @

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Più in generale, in questi anni si assistette ad un rinnovato interesse per gli studi di etruscologia, grazie ad alcuni fattori fondamentali. Nel @926 venne organizzato a Firenze il i Convegno Nazionale Etrusco, che costituì il prodromo del Primo Congresso Internazionale Etrusco, tenutosi a Firenze e Bologna nel @928: occasioni, queste, per i più importanti studiosi del settore di riunirsi e confrontarsi su temi storici, archeologici e linguistici relativi al mondo etrusco; con la pubblicazione degli Atti del i Convegno Nazionale del @926, l’anno successivo, iniziò inoltre la sua attività la rivista di «Studi Etruschi», che ancora oggi rappresenta il maggior punto di riferimento per l’etruscologia. Nel @928 la rivista pubblicò un saggio di Emil Goldmann, dal titolo Ricerche etrusche, traduzione in italiano della prima parte di un lavoro molto più esteso, edito in due volumi tra il @929 e il @930, sul supposto carattere ‘indogermanico’ della lingua etrusca. @ Nella prima parte 2 l’autore si impegnò per dimostrare che am e nac, in etrusco, equivalevano a ‘giorno’ e ‘notte’, e pertanto sarebbero stati riconducibili a dei prototipi indoeuropei: le due parole ricorrono nel Piombo di Magliano, la cui analisi fu condotta secondo un metodo che può definirsi combinatorio (dal momento che l’autore non utilizzò alcun confronto con altre lingue), ma adoperato in maniera poco ortodossa e certo esposto alle critiche. L’estratto, e successivamente il lavoro completo, crearono nuovamente tra gli studiosi quella divisione tra sostenitori e detrattori dell’impostazione etimologica, che già si era creata ai tempi di Deecke e Pauli, o ancor prima al tempo di Corssen, e che al momento sembrava superata. 3 Tra chi rifiutò le tesi di Goldmann sono da citare soprattutto SØren Peter Cortsen 4 ed Emil Vetter, 5 che entrarono in polemica contro questo nuovo tentativo di dimostrare l’indogermanicità dell’etrusco, riaffermando l’assenza di qualsiasi relazione genealogica dimostrata tra etrusco e altre lingue, sostenendo inoltre la necessità di applicare il metodo combinatorio in maniera rigorosa. Altro critico di Goldmann fu Francesco Ribezzo, il quale considerava l’etrusco una lingua appartenente al sostrato linguistico ‘mediterraneo’, cronologicamente precedente all’indoeuropeo: 6 lo stesso Ribezzo, del resto, nel @929 pubblicò un’analisi del Piombo di Magliano che fu generalmente stroncata dagli studiosi, anche qui per l’uso disinvolto del metodo combinatorio-filologico. 7 Anche in questo caso, quindi, la decifrazione dell’iscrizione del Piombo fu al centro di una polemica più ampia riguardo al metodo ermeneutico e all’individua 













2   Goldmann @928; Goldmann @929-@930.   Goldmann @928, pp. 234-256.   Si veda Leifer @93@, pp. 277-28@, per un giudizio sostanzialmente positivo delle tesi di Goldmann e una risposta alle critiche, soprattutto di Ribezzo (in particolare pp. 277-278, nota 5). 4   Si veda la risposta di Goldmann alle critiche di Cortsen (Goldmann @936, pp. @-2). 5   Vetter @930, pp. 297-299. Sul secondo volume dei Beiträge di Goldmann si veda anche Battisti @930, pp. 444-455, più possibilista al riguardo. 6   Per le critiche a Goldmann si veda Ribezzo @929b. 7   Ribezzo @929a (la traduzione proposta da Ribezzo è riportata anche in Buonamici @932, pp. 358-359). Per le critiche a Ribezzo si veda Vetter @930, p. 300 (a p. 302 Vetter ricorda anche, insieme ad altri studi definiti «ganz phantastische Erscheinungen», un saggio di Antonio Cavallazzi dal titolo La cura della malaria, della cefalea e della laringite nel piombo etrusco di Magliano (Cavallazzi @928), in cui l’autore parte dall’assunto che la scrittura etrusca fosse una specie di «brachigrafia o stenografia»); ancora su Ribezzo, meno incisivamente, Battisti @930, pp. 442-444. @

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zione di parentele linguistiche: non è un caso che pochi anni più tardi, nel @939, Cortsen pubblicò un breve ma fondamentale studio sull’iscrizione di Magliano, operando confronti con il materiale noto e proponendo ipotesi di interpretazione con molta cautela, in contrapposizione agli studi precedenti di Trombetti, Goldmann, Ribezzo e altri. @ Con l’inizio del secondo dopoguerra, l’iscrizione del Piombo di Magliano sembra quasi dimenticata: se si esclude l’inserimento nei cataloghi successivi, i Testimonia Linguae Etruscae di Massimo Pallottino (tanto l’edizione del @954 che quella del @968, tle 359) e gli Etruskische Texte di Helmut Rix (del @99@, av 4.@), si hanno brevi commenti complessivi solo da parte di Alessandro Morandi (peraltro senza argomentazioni approfondite ma semplicemente riprendendo considerazioni degli studi precedenti), 2 e da parte di Giulio Facchetti. 3 Per il resto, il Piombo di Magliano è considerato dagli studiosi solo in relazione ad alcune parole singole in esso contenute, o al massimo per segmenti di testo che vengono interpretati e tradotti in funzione di lavori su altri argomenti. 4  







2. Scrittura 2. @. Forme grafiche Secondo la suddivisione proposta da Rix negli Etruskische Texte, l’iscrizione del Piombo consta di circa 76 sequenze grafiche (tra parole e numeri: 43 sul lato a, 33 sul lato b) per complessivi 350 caratteri (200 e @50; tra questi, vi sono 4 cifre sul lato a e 2 sul lato b). La direzione della scrittura è sinistrorsa. Sul lato a la scrittura è accompagnata da una linea a spirale continua che corre sotto i segni grafici e individua il nastro ideale su cui è inciso il testo. L’incisore nell’esecuzione ha alternato parti del testo scritto a spirale ai segmenti della linea di demarcazione: prima la prima parte del testo scritto, quindi il primo tratto della linea di demarcazione, al di sotto di quanto scritto fino a quel momento; quindi, la seconda parte del testo e successivamente il secondo tratto della linea, e così via. Che la successione sia questa è intuibile da alcune lettere, più ‘lunghe’ di altre, i cui tratti sono intersecati dalla linea di demarcazione (nello specifico, lo iota di tiu, il primo alpha di cialaq, lo iota di avilsc, cfr. Tav. i). @   Cortsen @939. Tra gli altri lavori si ricorda Kluge @936, che propose un confronto, più culturale che linguistico, tra etrusco e tradizione avestica, interpretando e traducendo l’iscrizione del Piombo di Magliano come una serie di rituali religiosi: perlopiù le affermazioni di Kluge non sono dimostrabili e la suddivisione delle parole è arbitraria. Il lavoro di Kluge fu così recensito (Vetter @940, p. @66): «[Kluge] gibt eine größtenteils phantastische Übersetzung samt Kommentar. ���������������������������������� Er atomisiert die Worte nach Grünwedelscher Art». 2   Morandi @982, pp. 36-38; Morandi essenzialmente riprende quando detto in Torp @905. 3   Facchetti 2000b, pp. 260-262. 4   Ovviamente, parlando di sostanziale disinteresse per il Piombo, non si tiene assolutamente in considerazione il fatto che esso abbia dato lo spunto, anche recentemente, per lavori di interpretazione il cui approccio è tutt’altro che scientifico: si veda, al riguardo, Kiss 2004, dove l’autore parte dal confronto tra lingua etrusca e lingua sumera.

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Le parole sono spesso (ma non sempre) separate da un sistema di punteggiatura verbale che utilizza un punto a metà altezza rispetto a quella delle lettere; questo sistema non entra nell’uso epigrafico prima della fine del vi secolo a.C. @ Vi è inoltre un sistema di suddivisione dei periodi che si realizza attraverso tre punti collocati in verticale: purtroppo questo sistema è utilizzato solo due volte, in corrispondenza della fine dei primi due cola che iniziano con il nome al genitivo di altrettante divinità. 2 Questo il testo, come evidenziato anche nella sezione successiva, senza segmentazioni lessicali se non quelle indicate dalla punteggiatura: 3  





cauqas . tuqiu . avils . lxxx . ez . cimqm . casqialq . lacq . hevn . avil . nes´l . man . murinas´ie . falzaqi Ä aiseras . in . ecs . mene . mlaqce . marni . tuqi . tiu . cimqm . casqialq . lacq Ä maris´l menitla . afrs . cialaq . cimqm . avilsc . eca . cepen . tuqiu . quc . icutevr . hes´ni . mulveni . eq . zuci . am . ar . a

mlacqan/ra/calusc . ecnia /iv/ . avil . mimenicac . marcalurcac . eq . tuqiu . nesl . man . rivac . les´cem . tnucasi . s´uriseisteis . evitiuras . mulslemlacilacetins . lursq . tev

b@

2

huviqun

3

lursqsal

4

afrs . naces

Nel complesso sono attestati @9 segni alfabetici (a, c, e, v, z, h, q, i, l, m, n, p, s´, r, s, t, u, c, f: dell’alfabeto-tipo manca solo f; cfr. Fig. 3) e 4 cifre numerali (i, v, x, l):

Fig. 3. Alfabeto tipo del Piombo di Magliano.

– a: 46 occorrenze (27+@9). Tendenzialmente ha forma quadrangolare. Generalmente le traverse sono oblique, discendenti verso sinistra; a volte l’asta orizzontale superiore prosegue con una curva senza soluzione di continuità diventando l’asta verticale sinistra, più spesso i due segmenti (orizzontale superiore e verticale sinistro) formano un angolo. L’asta verticale sinistra a volte prosegue più in basso di quella destra. – c: 22 occorrenze (@@+@@). Il gamma è realizzato con due segmenti obliqui a formare un angolo piuttosto aperto. Spesso l’angolo diventa una curva che non presenta soluzione di continuità, verosimilmente dovuta alla tecnica di incisione dei caratteri. – e: 30 occorrenze (@7+@3). Le aste orizzontali sono inclinate verso il basso, nel   Agostiniani @992, p. 46 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @34).   Il genitivo plurale aiseras designa un gruppo divino unitario. 3   La lettura del testo, che nel complesso non presenta difficoltà di rilievo, è stata effettuata a partire dalle riproduzioni fotografiche messe a disposizione dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, e confermata dall’esame autoptico eseguito il @5 febbraio 20@2, per il quale si ringrazia la dr.ssa Giuseppina Carlotta Cianferoni, direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, e il dr. Sebastiano Soldi, consegnatario dei depositi del Museo. @

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complesso sembrano sempre della stessa lunghezza, anche se vi sono casi in cui quella inferiore è più lunga. L’asta verticale a volte continua oltre i punti di intersezione con i segmenti orizzontali inclinati, in particolare verso il basso. v: @@ occorrenze (6+5). Come per epsilon, i segmenti orizzontali sono inclinati verso il basso: generalmente sono della stessa lunghezza, ma a volte quello inferiore è più lungo del superiore. L’asta verticale continua in basso per uno spazio pari alla distanza tra i punti di intersezione con i segmenti verticali. In pochi casi prosegue brevemente anche in alto. z: 3 occorrenze (tutte sul lato a): l’asta verticale è toccata dai vertici di due segmenti orizzontali inclinati verso l’alto a destra. I vertici del segmento inferiore e dell’asta verticale coincidono, mentre in alto l’asta verticale prosegue oltre il punto di congiunzione con il segmento superiore inclinato. h: 3 occorrenze (2+@). Il segno usato è quello consueto ‘a finestra’, con due aste verticali tra cui si dispongono tre segmenti orizzontali. I segmenti sono inclinati verso il basso a sinistra mentre le aste verticali sembrano sullo stesso piano, cosicché l’asta verticale destra prosegue in basso e quella sinistra in alto. q: 24 occorrenze (@8+6). Il segno utilizzato consiste in un rombo con un punto al centro. L’ampiezza degli angoli superiore e inferiore varia sensibilmente. Spesso gli angoli laterali diventano degli archi, per le stesse ragioni viste per c. Il punto a volte non si trova nel centro esatto. i: 40 occorrenze (25+@5). In alcuni casi il segmento verticale prosegue in basso ben oltre la linea ideale di scrittura (in due casi, sul lato a, arriva ad intersecare la linea spirale di demarcazione del testo: si veda sopra). l: 27 occorrenze (@4+@3). È formato da un’asta verticale ed un segmento breve, obliquo verso l’alto a sinistra, che parte dal vertice inferiore dell’asta verticale. I due segmenti formano un angolo piuttosto acuto; a volte il segno sembra di dimensioni ridotte. m: 23 occorrenze (@5+8). È costituito da cinque segmenti, tre verticali e due inclinati verso il basso a sinistra, alternati e congiunti ai vertici opposti. La lunghezza dei segmenti verticali è generalmente la stessa: solo in 4 casi (2+2) l’asta verticale destra risulta più lunga, come nella grafia arcaica, ma si tratta verosimilmente di casualità. n: 20 occorrenze (@@+9). I due segmenti verticali sono generalmente della stessa lunghezza. Il segmento centrale è inclinato verso il basso a sinistra e congiunge i vertici opposti: a volte le aste verticali proseguono brevemente oltre il punto di intersezione con il segmento obliquo. p: @ occorrenza (lato a). Nell’unica occorrenza è realizzato con un’asta verticale ed un segmento obliquo inclinato in basso a sinistra, che parte da un punto dell’asta verticale subito sotto il suo vertice superiore. La parte inferiore del segmento obliquo è impercettibilmente inclinata a formare una piccola curva, tanto da far terminare il segmento stesso con una piccola appendice in posizione verticale. s´: 6 occorrenze (4+2). Il segno è formato da due segmenti verticali paralleli e

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riccardo massarelli due obliqui che partono dai vertici superiori per intersecarsi, come una ‘m’; la particolarità è che i due segmenti obliqui proseguono oltre l’intersezione finendo per toccare le aste verticali, indicativamente a metà delle aste stesse. r: @6 occorrenze (7+9). È formato da un’asta verticale e due segmenti inclinati a sinistra, che partono dai vertici dell’asta verticale per incontrarsi. A volte, come per c e q, i due segmenti si fondono e invece di disegnare un angolo diventano un arco unico incurvato. L’angolo superiore, tra asta verticale e segmento obliquo, sembra più acuto di quello inferiore. In alcuni casi il segmento inferiore termina prima di toccare il vertice inferiore dell’asta verticale. s: 23 occorrenze (9+@4). È costituito da tre segmenti obliqui alternati, il superiore e l’inferiore verso il basso a sinistra, il mediano verso destra. Gli angoli disegnati sono piuttosto aperti, e in alcuni casi diventano degli archi senza soluzione di continuità. In 2 casi (@+@) sembra inserito successivamente, con un segno grafico solo accennato, più piccolo, che accentua l’ampiezza degli angoli. t: @2 occorrenze (6+6). È realizzato con un tratto verticale e una traversa, inclinata verso l’alto a destra. La traversa non interseca l’asta verticale, rimanendo quindi tutta a destra dell’asta stessa. u: 24 occorrenze (@2+@2). Due tratti obliqui che si congiungono in basso. In alcuni ypsilon del lato b il tratto di sinistra è più corto e tocca il segmento di destra prima del vertice inferiore, dando origine ad un breve peduncolo in basso. c: @0 occorrenze (6+4). È realizzato con il noto segno ‘a freccia’, rivolto verso il basso, con i due segmenti obliqui e quello verticale centrale che si congiungono in un unico punto. In alcuni casi i segmenti non arrivano a toccarsi. f: 3 occorrenze (2+@). È realizzato con otto brevi segmenti che si dispongono su due rombi a formare una sorta di ‘8’, dalle dimensioni leggermente maggiori rispetto alle altre lettere.

Cifre: – i: @ occorrenza (lato b). Un semplice segmento verticale. – v: @ occorrenza (lato b). Come un ypsilon rovesciato. Il segmento di sinistra, nell’unica occorrenza riscontrata, è quasi inarcato a formare una curva. Da notare che quest’unica occorrenza, insieme alla cifra i, si trova sopra il piano di scrittura, oltre il primo giro dell’iscrizione del lato b, sopra l’alpha di ecnia. – x: 3 occorrenze (lato a). Due segmenti obliqui che si incrociano. – l: @ occorrenza (lato a). È lo stesso segno ‘a freccia’ utilizzato per c, solamente rivolto verso l’alto. Nell’unica occorrenza i tre segmenti non solo si toccano, ma quello centrale continua brevemente in alto oltre il punto di intersezione. 2. 2. Commento e contributi alla datazione La determinazione della fase storica di realizzazione del Piombo, vista la mancanza di dati certi sul contesto archeologico di ritrovamento, può basarsi essenzialmente sui dati provenienti dall’indagine linguistica e dalla considerazione delle varietà gra-

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fiche utilizzate; @ la prima, come si vedrà, fornisce indizi che collocano l’iscrizione già in età post-arcaica: indicativamente, nel v secolo a.C. 2 Le caratteristiche grafiche dell’iscrizione sono nel complesso di supporto a questa datazione, che anzi può essere ulteriormente ristretta alle fasi centrali del secolo. La grafia utilizzata sembra infatti quella che Maggiani definisce «tipo i b (capitale)», affermatasi nell’area di Vulci e Tarquinia tra v e iv secolo a.C., prima di essere soppiantata intorno al iii secolo a.C. dal «tipo ii (regolarizzato)». 3 Tale attribuzione è motivata dalla foggia di alcuni segni specifici (cfr. Fig. 3): my e ny con segmenti che si congiungono agli apici opposti; epsilon e wau con asta in posizione verticale e con codolo in basso; heta nella forma ‘a scala’, con segmenti inclinati e codolo, evidentemente perché il segno era parte di un ‘microsistema’ grafico insieme ad epsilon e wau. Se il carattere meridionale dell’iscrizione può essere facilmente intuito dai valori fonetici assegnati alle due sibilanti (sigma per postdentale [s], san per palatale [sˇ], cfr. s´uris e, di contro, il settentrionale Ar 4.2: suris´, entrambi foneticamente [sˇuris]), ulteriori elementi contribuiscono a precisare la collocazione cronologica e geografica dell’iscrizione del Piombo:  





– l’utilizzo di gamma per notare la velare sorda non aspirata [k] in tutte le posizioni è tipico dell’Etruria meridionale già dal vi secolo a.C. circa, e successivamente si afferma anche a nord; – la forma di alpha, non più triangolare ma quadrata, pare attestata a Tarquinia dalla fine del vi secolo a.C. e poi a Vulci a partire dal 500 a.C., come sembrerebbe testimoniare la ceramica attica coeva rinvenuta nei due centri; 4 per inciso, la traversa ascendente verso destra rientra nel quadro delineato per l’ambito meridionale, escludendo Caere; – i segni di zeta e tau, graficamente solidali, presentano una forma neoetrusca, con traversa non secante ma ascendente verso destra (anche questo è un tratto tipico dell’Etruria meridionale, di contro alle iscrizioni coeve del nord che presentano traversa ascendente a sinistra); 5  



@   Per una trattazione generale sull’alfabeto etrusco si vedano Cristofani @972 e @978; Rix @984, pp. 2@3-2@4; Cristofani @99@, pp. @3-3@; Agostiniani @992, pp. 40-47 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @28@35). 2   Tralasciando l’osservazione di Deecke, che vedeva tratti in comune tra la grafie del Piombo e delle urne chiusine di età tarda (Deecke @885a, p. 7), inizialmente gli studiosi tendono ad assegnare l’iscrizione di Magliano al iii sec. a.C. (cfr. Milani @893, col. 47). Körte, in contrapposizione a Milani, sostiene invece che il Piombo è da datare al vi sec. a.C., anche per la scelta di una stesura del testo a spirale (Körte @905, p. 369, cfr. anche Skutsch, art. cit. [p. 22, nota 2], col. 785 = Pontrandolfi @909, p. @26); successivamente questa datazione è ripresa in Goldmann @928, p. 234, nota 5; Ribezzo @929a, p. 69; Buonamici @932, p. 358. Alla questione della datazione dedica un’ampia nota Elia Lattes, riportando le ipotesi precedenti, infine propendendo per una datazione al v sec. a.C., magari copia di un originale più antico (Lattes @9@@, col. 292, nota @; cfr. anche Lattes @9@7, p. @02, nota @). A partire dalla scheda di Danielsson (cie 5237) si afferma progressivamente la convinzione che il Piombo appartenga al v sec. a.C.: così anche Cortsen @939, p. 27@, Pallottino in tle 359, Rix in et av 4.@; precedentemente lo stesso Rix aveva proposto una datazione di poco inferiore, intorno al 400 a.C. circa (Rix @984, p. 2@2). 3 4   Cfr. Maggiani @990, pp. @86-@87.   Cfr. Stopponi @990, pp. 94-95. 5   Maggiani @990, p. @78, nota @2. Mentre la documentazione della ceramica attica a Vulci non dà sufficienti elementi al riguardo, a Tarquinia sembra abbastanza probabile che questo tipo si affermi intorno

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riccardo massarelli

– il rho ha forma capitale, senza codolo in basso; – il segno per la fricativa sorda [f] è ormai il segno ‘a 8’, ancora non rotondeggiante, con i segmenti opposti convergenti al centro che non si toccano: questo segno è introdotto intorno al 575-550 a.C., soppiantando l’uso precedente che utilizzava hv o vh; @  

Tra questi elementi di regolarità, è opportuno però sottolineare la presenza di segni grafici con particolarità del tutto singolari: – il segno per la sibilante palatale [sˇ] è il consueto san ‘a m’: la particolarità risiede nella fattura dei segmenti trasversali, che dopo essersi intersecati al centro arrivano a toccare le aste opposte. 2 Tale segno ‘a farfalla’, nella variante senza codolo, è attestato sporadicamente in Campania (nella Tabula Capuana e in alcune iscrizioni minori, esclusivamente della Campania settentrionale 3), e in alcune iscrizioni spinetiche, probabilmente per influsso della grafia del venetico, 4 nonché in pochissimi altri casi. 5 Cristofani sostiene che nella Tabula Capuana il segno ‘a farfalla’ avrebbe evitato una possibile confusione con la variante del my a quattro tratti. 6 Meno chiaro è il suo impiego nel Piombo, dal momento che il my è qui realizzato con cinque tratti, né d’altronde è possibile considerare il segno ‘a farfalla’ del Piombo come una sorta di imperizia dell’incisore, data la regolarità con cui è realizzato nelle sei occorrenze rilevate; è evidente che si tratta di una variante grafica adottata consapevolmente dall’estensore del testo, secondo modalità e con motivazioni ignote; – la forma del theta, romboidale con punto centrale, di fronte alla variante senza punto, sembra essere un ancoraggio a fasi grafiche più antiche: a Vulci la variante con punto centrale sembra essere attestata a partire dalla seconda metà del vi secolo a.C. (cfr. Vc 2.9) e almeno fino all’inizio del secolo successivo (cfr. Vc 6.@ e av 2.@@) con attestazioni sporadiche successive. La variante con punto centrale si colloca tra quella con croce, sensibilmente più arcaica, e quella vuota, più recente, anche se vi sono forti sovrapposizioni tra i rispettivi periodi di attestazione delle tre varianti. 7 L’uso della forma romboidale rispetto a quella circolare, invece, non sembra rispondere a criteri cronologici, ma è probabilmente un fatto tecnico o di moda, dal momento che entrambe le varianti sono attestate per tutti i periodi, con una leggera preferenza per la forma circolare. Probabilmente la  











all’inizio del v sec. a.C., in coesistenza con il tipo più antico che presenta segmenti che intersecano l’asta verticale, tanto per zeta quanto per tau (cfr. Stopponi @990, pp. 93-94).   Agostiniani @992, p. 45 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @33).   Tale particolarità era stata già notata da Danielsson, ad cie 5237. 3   A Capua (et Cm 2.37, 2.44), Suessula (Cm 2.46, 2.55), Nola (Cm 2.58, 2.59, 2.62, 3.@, 9.4), forse Vico Equense (cie 8784). 4   Cfr. et Sp 2.@2: velcies´ º ; la variante è nota anche dall’alfabeto leponzio, cfr. Pandolfini, Prosdocimi 5 @990, pp. 294-295.   Cfr. et Cl @.@405 e cie 845@. 6   Cristofani @995, pp. 28-29. In precedenza lo stesso Cristofani aveva sostenuto che questa variante doveva essere una creazione locale, dal momento che mancava all’alfabeto originale, quello probabilmente proveniente da Veio (cfr. Cristofani @973-@974, p. @64). 7   Cfr. Colonna @970, pp. 669-67@. @

2

il piombo di magliano

37

scelta della forma romboidale si allinea con altre caratteristiche: il rho triangolare, piuttosto che con una delle due aste ricurve; ‘effe’ (il segno ‘a 8’) anch’esso spigoloso, non arrotondato; il gamma reso generalmente con due segmenti ad angolo e non con un’asta ricurva; il sigma a tre tratti angolari. 2. 3. Confronti con il territorio Da quanto detto sopra si evince che l’iscrizione del Piombo di Magliano rispecchia una grafia di tipo meridionale e, conseguentemente, ciò rappresenterebbe un elemento a supporto dell’inclusione dell’area di Magliano in Toscana nell’ambito grafico meridionale, tipico dei centri di Vulci, Tarquinia e Volsinii. La documentazione epigrafica del luogo fornisce però prove contrarie: a Magliano sono note solo altre due testimonianze epigrafiche, due alfabetari rinvenuti graffiti sopra il letto funerario di una tomba a camera. 1 Il primo (av 9.2), più lacunoso, è databile nel pieno vi secolo a.C.; il secondo (av 9.3) sembra di poco successivo. Come sottolinea Marina Martelli, 2 i due alfabetari sono ascrivibili ad una tradizione grafica settentrionale, dal momento che per la realizzazione della velare sorda (/k/) prevedono esclusivamente il segno kappa, sostituito dal gamma solo in una fase più recente; a sud, nello stesso periodo, si ha l’utilizzo di un sistema tripartito in cui la scelta del grafo è condizionata dalla vocale che segue: kappa con vocale aperta (ka), gamma con palatale (ce, ci), qoppa con velare (qu); questo sistema è poi sostituito intorno alla fine del vi secolo a.C. da un sistema unico che utilizza indifferentemente gamma, come avviene nell’iscrizione del Piombo. L’appartenenza dei due alfabetari all’ambito settentrionale si pone dunque in contrasto con la tradizione grafica rappresentata dal Piombo: la Martelli sostiene che gli alfabetari collocano l’uso grafico dell’area di Magliano nella sfera settentrionale, mentre l’iscrizione del Piombo sarebbe frutto di una ‘importazione’ dal sud, probabilmente da Vulci; Maristella Pandolfini è più prudente, affermando che i rinvenimenti epigrafici in zona sono troppo esigui per dare un giudizio complessivo sull’appartenenza della zona di Magliano all’ambito ‘settentrionale’ o ‘meridionale’. 3 Del resto, Magliano, in quanto territorio di confine tra nord e sud, doveva essere necessariamente un’area di passaggio e di interscambio; la possibilità che vi siano fatti di osmosi è accertata dall’osservazione della documentazione proveniente da altre aree di confine, ascrivibili perlopiù all’ambito grafico meridionale, che però sporadicamente presentano espressioni di usi grafici settentrionali, come ad esempio a Sovana; 4 di contro, a Roselle, tradizionalmente assegnata all’uso grafico settentrionale, è stato rinvenuto un alfabetario di tipo ‘meridionale’ di vi secolo a.C. circa (Ru 9.@): 5 anche Maggiani nota che, pur nel quadro di una divisione piuttosto netta tra usi grafici a nord e a sud, vi è, almeno in età recente, «un’area di demarcazione piuttosto ampia che coinvolge in una sorta di terra di nessuno (anche se l’impronta settentrionale sembra in realtà prevalente)  









@

2

3

4

  Johnston, Kennet @984.   Pandolfini, Prosdocimi @990, pp. 48-5@. 5   Pandolfini, Prosdocimi @990, pp. 5@-52.

  ree 53, 32.   Cfr. l’iscrizione av @.2: nuinºa vel velus´.

38

riccardo massarelli

Vetulonia e Roselle». @ In ultima analisi, pertanto, l’esiguità della documentazione non permette di stabilire con certezza l’appartenenza di Magliano ad uno dei due usi grafici, per quanto sia chiaro che il testo del Piombo rispecchia con certezza una varietà grafica meridionale.  

3. Lezioni del testo 2  

letture riprese in

Te. @

De .

De 4.

Mi.

5

De .

To.

Da.

Pl.

(Tr.)

Mo.

De 2.

(Go.)

De3.

(Rb.)

Pa.

(Bu.)

Ri.

Co. l. (r.)

lemma

lettura

altre letture

a

cauqas .

tutti

a

tuqiu .

tutti

a

avils .

tutti

a

lxxx . ez .

tutti

a

cimqm .

tutti

a

casqialq .

tutti

a

lacq .

tutti

a

hevn .

tutti

a

avil .

tutti

a

nes´l .

Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

Te. De@. De2. De3. Pa. De 4. De5. nenl

a

man .

De2. De3. Pa. De4. De5. Co. Ri.

Te. De@. Mi. To. Da. Pl. Mo. man :

  Maggiani @990, p. @78; cfr. anche p. @90, nota 60.   Legenda: Te. = Teza @882; De@. = Deecke @882; De2. = Deecke @884a; De3. = Deecke @884b; Pa. = Pauli @884a; De4. = Deecke @885a; De5. = Deecke @885b; Mi. = Milani @893; To. = Torp @905; Da. = cie 5237 (O. A. Danielsson); Tr. = Trombetti @928; Go. = Goldmann @928; Rb. = Ribezzo @929a; Bu. = Buonamici @932; Co. = Cortsen @939; Pl. = tle 359 (M. Pallottino); Mo. = Morandi @982; Ri. = et av 4.@ (H. Rix); Tutti = Te. De@. De2. De3. Pa. De4. De5. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri. Si sono registrate alcune varianti grafiche nelle lezioni degli studiosi: ad esempio, Teza (Te.) scrive il theta e il chi rispettivamente con th e ch; Deecke, in un caso (De3.), scrive il san con s’. Qui sono state tutte uniformate, in generale basandosi sulle convenzioni adottate dagli Etruskische Texte di Rix (Ri.), tranne per quanto riguarda la trascrizione delle sibilanti, per le quali si rimanda a quanto stabilito nel cap. i.2. Per ragioni di comodità il punto centrale di separazione tra parole è stato reso con il punto in basso, e riportato dopo la parola che lo precede. In alcune lezioni, il punto tra parole è stato utilizzato sia per trascrivere il punto effettivamente presente, sia per marcare la divisione tra due parole: non potendo distinguere i due usi differenti, si è preferito riportare i punti così come sono stati segnati. Le versioni di Trombetti @928 (Tr.), Goldmann @928 (Go.), Ribezzo @929a (Rb.) e Buonamici @932 (Bu.) non sono state utilizzate perché non annotano la punteggiatura. Sono state riportate anche le segmentazioni proposte dai vari studiosi su base ermeneutica (ad esempio, icu tevr di Ri. per icutevr). @

2

il piombo di magliano l. (r.)

lemma

lettura

altre letture

a

murinas´ie .

Te. De@. De 2. De 3. Pa. De 4. De5. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

Mi. murinasie . (sic)

a

falzaqi Ä

De4. De 5. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

Te. De @. De2. De3. Pa. fal taqi Ä

a

aiseras .

tutti

a

in .

tutti

a

ecs .

Te. De@. De2. De3. Pa. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

a

mene .

tutti

a

mlaqce . marni .

Ri.

a

tuqi .

tutti

a

tiu .

tutti

a

cimqm .

tutti

a

casqialq .

De 4. De 5. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

a

lacq Ä

De . De . Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

Te. De @. De2. De3. Pa. aq Ä

a

maris´l menitla .

De2. De3. Pa. To. Da. Co. Pl. Mo.

Te. De@. maris´lme nitla .

39

De4. De5. ec .

Te. De@. De2. De3. Pa. De4. De5. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. mlaqcemarni .

4

5

Te. De @. De2. De3. Pa. caqialqi . Pa. (p. @3@) casqialqi .

Mi. maris´lmenitla . De4. De5. Ri. maris´l . menitla .

a

afrs .

tutti

a

cialaq .

Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

a

cimqm .

tutti

a

avilsc .

tutti

Te. De @. De2. De3. Pa. De4. De5. ci . alaq .

Pa. (p. @3@) avilsc (Pl. n. 359 avils L)

a

eca .

tutti

a

cepen .

tutti

a

tuqiu .

tutti

a

quc .

tutti

a

icu tevr .

Ri.

Te. De @. De2. De3. Pa. De4. De5. Mi. Da. Co. Pl. Mo. icutevr . To. icutevr

a

hes´ni .

tutti

a

mulveni .

tutti

40

riccardo massarelli

l. (r.)

lemma

lettura

a

eq .

tutti

a

zuci .

De4. De 5. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

a

am .

tutti

a

ar .

Mo.

altre letture

Te. De @. De2. De3. Pa. Mi. tuci .

Te. De@. De3. ars De 2. Pa. ars . De 4. De5. arc . Mi. To. Da. Co. Pl. Ri. ar

b

mlac qan/ra/

Ri.

Te. De @. De 2. De 3. Pa. De 4. De 5. mlacqan . Mi. = mlacqanra = To. Da. Co. mlacqanra Pl. /mlacqanra/ Mo. mlac qanra

b

calusc .

Te. De@. De 2. De 3. Pa. De4. De5. Mi. To. Da. Co. Pl. Ri.

Mo. calusc

b

ecnia /iv/ .

Ri.

Te. De@. De2. De3. Pa. De 4. De5. ecnia . Mi. ecnia” . To. ecnia . ||| Da. Co. ecnia . |xx| Pl. Mo. ecnia /iv(x)/ .

b

avil .

tutti

b

mi menicac .

Pl. Ri.

Te. De@. De2. De3. Pa. De4. De5. Mi. To. Da. Co. Mo. mimenicac .

b

marca lurcac.

Ri.

Te. De@. De2. De3. Pa. De4. De5. Mi. Da. Co. Pl. Mo. marcalurcac . To. marcalur-cac

b

eq . tuqiu . nesl .

De4. De 5. Mi. To. Da. Co. Pl. Ri.

Te. De @. De2. De3. Pa. eqtuqiunesl . Pa. (p. @3@) eq tuqiu nesl . Mo. eq . tuqiu nesl .

b

man .

tutti

b

rivac .

tutti

b

les´cem .

Te. De@. De 2. De 3. Pa. De 5. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

De4. lescem (sic)

b

tnucasi .

tutti

Pa. (p. @3@) tnu casi .

il piombo di magliano l. (r.)

lemma

lettura

altre letture

b

s´uris eisteis .

Pl. Mo. Ri.

Te. De@. De2. De3. s´urises . teis .

41

Pa. surises . teis . (sic) Pa. (p. @3@) s´urises teis . De4. De5. s´uris . eis . teis . Mi. To. s´uris eis . teis . Da. Co. s´uris eis teis . b

evi tiuras .

Ri.

Te. De@. De2. De3. Pa. De4. De5. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. evitiuras .

b

mulsle

Te. De@. De2. De3. Pa. Mi. To. Da. Co. Ri.

De4. De5. Pl. Mo. mulsle .

b

mlac

Te. De@. De2. De3. Pa. Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

De4. De5. mlac .

b

ilace

Ri.

Te. De@. De2. De3. Pa. De 4. De5. lace . Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. ilace (posposto tra tev e huviqun)

b

tins .

tutti

b

lursq .

tutti

b

tev

Te. De@. De 2. De 3. Pa. (p. @3@) De5. Mi. Da. Co. Pl. Mo. Ri.

b (2)

huvi qun

(Da. Co.) Ri.

Pa. De4. tev . To. tevTe. De @. De2. De3. Pa. De 5. auviqun Pa. (p. @3@) auvi qun De 4. auvi . qun . Mi. To. Da. Co. Pl. Mo. huviqun

b (3)

lursq sal

Pa. (p. @3@) To. Da. Pl. Mo. Ri.

Te. De @. De2. De3. De5. Mi. lursqsal Pa. lursqsal . De4. lursq . sal . Co. lursq . sal

b (4)

afrs . naces

Mo.

Te. De@. De2. De3. Pa. efrs . nac De4. afrs . nacv . De5. afrs . nacv Mi. afrs . nacv . s To. Da. afrs . nace . s Co. Pl. Ri. afrs. naces .

42

riccardo massarelli 4. Analisi testuale

L’analisi linguistica del Piombo di Magliano è facilitata da un utilizzo piuttosto cospicuo della punteggiatura: come detto, nel testo è largamente utilizzato un sistema di suddivisione lessicale basato sul punto singolo. Tuttavia, non mancano, soprattutto sul lato b, sequenze grafiche non divise, troppo lunghe per rappresentare unità lessicali etrusche; in tali casi si dovranno mettere in atto strategie di segmentazione di tipo combinatorio per individuare le singole parole del testo. Sul lato a l’analisi è facilitata dalla particolare struttura del testo che, si è già detto, risulta tripartita, con ogni sezione contraddistinta da una punteggiatura ad hoc (tre punti verticali) e da un teonimo al genitivo in posizione iniziale. In un caso estremo (ilace, sul lato b) sarà discussa la mera posizione di un’unità lessicale nella sequenza scritta. Per il resto, la vera e propria comprensione del testo sarà ricercata attraverso l’analisi comparata tra le diverse sezioni, che come assunto di partenza si accetta che abbiano strutture analoghe, e attraverso l’analisi di ogni singola sezione, tentando di individuare i vari gruppi sintagmatici e le loro funzioni all’interno della frase. Come si vedrà, questa sarà la parte più ampia ma anche la più problematica, dal momento che solo in pochi casi sarà possibile individuare con certezza i singoli sintagmi ed eventualmente la loro funzione nell’economia del testo. 4. @. La prima sezione del testo cauqas . tuqiu . avils . lxxx . ez . cimqm . casqialq . lacq . hevn . avil . nes´l . man . murinas´ie . falzaqi Ä

Tutte le parole di questa prima sezione risultano delimitate dalla punteggiatura. L’unica incertezza è rappresentata dalla sequenza ez, successiva al numerale, dal quale è separata per mezzo di un punto: il dubbio è se ez sia effettivamente parola a sé stante, e non piuttosto parte integrante del numerale che precede; si vedrà in seguito quali ipotesi siano state formulate al riguardo. La sezione inizia con cauqas, un teonimo al genitivo, @ in posizione evidentemente topicalizzante: come è stato già anticipato nell’introduzione, anche le due sezioni successive iniziano con un teonimo al genitivo. L’utilizzo del genitivo, in questo contesto, può avere due funzioni principali: o quello di semplice specificazione (‘di Cauqa’), o quello, peculiare dell’etrusco, di ‘genitivo dedicatorio’, indicante, grosso modo, a chi è rivolta un’azione, ad esempio una preghiera (‘a Cauqa, per Cauqa’). 2 Il genitivo dedicatorio è utilizzato in particolare nelle iscrizioni con turuce/turce (‘dedicò, consacrò’) per marcare il destinatario (di solito divino) della dedica, come nell’esempio che segue:  



  Di cauqa si hanno molte attestazioni in varie forme, e ampia è la letteratura: già Deecke ne aveva individuato il valore di teonimo e, nel caso del Piombo, la funzione di oggetto indiretto di un’azione, traducendo ‘dem Cautha’ (cfr. ad esempio Deecke @884a, p. @43), seguito poi da tutti i commentatori 2 successivi.   Si veda Rix @984, p. 226. @

il piombo di magliano

43

Ta 3.2: itun turuce venel atelinas tinas cliniiaras questo dedicò Venel Atelinas ai figli di Giove [scil. i Dioscuri].

Gli attributi divini di cauqa sono perlopiù incerti; uno di essi, la caratterizzazione come divinità femminile, per lungo tempo è stato oggetto di discussioni, ma sembra ora certo con l’acquisizione di due iscrizioni in cui al nome della divinità segue l’apposizione sec(is) ‘figlia’: ree 56, 50 (da Orvieto): cavuqas secis ree 69, 26 (da Pyrgi): [cav]aºqas mi secis einº menº[p]e cape mi nuna-

Recentemente un contributo di Giulio Giannecchini @ ha fatto chiarezza su alcuni aspetti legati alla semantica del nome: cauqa, che era anche il nome etrusco del fiore chiamato «occhio del sole» nella tradizione latina, 2 probabilmente significa in etrusco sia ‘fanciulla’, sia qualcosa come ‘occhio, pupilla’; in effetti, in molte altre lingue del mondo sussiste una relazione tra i termini indicanti ‘occhio, pupilla’ e ‘fanciulla, bambino o bambina, bambola’ (cfr. lat. pupa e pupilla): è probabile, pertanto, che la figura divina rappresentata da cauqa sia la ‘fanciulla’ per antonomasia. Come mostra Giannecchini, 3 il nome della divinità cauqa ha come antecedente l’arcaico cavaqa (anche cavuqa), e in esso è ravvisabile il morfema derivazionale -qa, caratteristico dell’etrusco per la ‘mozione’ del femminile (come in lautni-qa ‘liberta’ da lautni ‘liberto’); pertanto, partendo dal teonimo cau(a)qa è lecito ipotizzare un tema nominale *cav(a), che ne dovrebbe rappresentare il corrispettivo maschile (‘fanciullo’?).  





La seconda parola è tuqiu. Questa forma compare altre due volte nel testo del Piombo, e una volta si trova tuqi: nella documentazione etrusca è presente inoltre la parola tuqina (in ree 55, @@8), peraltro già eruibile dall’ablativo tuqines´ (< *tuqina-i-s´) di due note iscrizioni, quella dell’Arringatore (Pe 3.3) e quella del Putto di Montecchio (Co 3.6); tuqina, inoltre, potrebbe essere l’etrusco recente per il termine arcaico tuqiena*, attestato in una formula di possesso (mi tuqienas) incisa su un’anfora databile al vi secolo a.C. circa. 4  

@   Giannecchini 2008, al quale si rimanda anche per la bibliografia precedente sull’argomento; un recente intervento su cauqa è anche Maras 2007. Per le tante iscrizioni con cauqa e forme simili cfr. Maras 2009, pp. 327, 330-333, 334-344, 346, 356-357, 429. 2   Cfr. Diosc. iii @38 rv Wellmann, cfr. tle 823: ajmavrakon: oiJ de; ajnqemiv~, [...] ÔRwmai``oi sw`li~ o[kouloum, oiJ

de; millefovlioum, Qou`skoi kautavm.

3   Giannecchini 2008, pp. @36-@38. Si vedano anche le pp. @42-@43, dove alla serie di attestazioni con cavaqa/cavuqa e cauqa sono associate anche quelle, recenti, con caq(a), ovvero l’iscrizione di Laris Pulenas (et Ta @.@7: [...] ruqcva caqas [...] luqcva caqas pacanac [...]) e l’iscrizione at @.32 ([...] maru pacaquras caqsc [...]), le quali entrambe pongono in relazione il culto di ca(u)qa con paca, il Bacco etrusco, e ree 59, 26 (ecn : turce : laris : qefries : espial : atial : caqas), dove alla divinità sembra assegnato l’appellativo di ati ‘madre’, a sottolineare una diversa accezione del suo ruolo femminile. 4   L’iscrizione è pubblicata in Tosto @999, p. 220, tav. 84. Altre forme legate a tuqiu potrebbero essere tutin del Liber linteus, nella sequenza cepen tutin (ll vii.8; il Piombo di Magliano presenta la formula cepen tuqiu), e forse tuvqi (ree 64, 57). È più difficile invece un rapporto con tutimc (ll x.@2), che del resto è una congettura di Rix nell’edizione degli et ad un passo scarsamente leggibile del Liber linteus. L’analisi delle forme tuqiu e tuqi è stata già trattata da chi scrive in un breve lavoro, pubblicato in una

44

riccardo massarelli

Deecke, convinto della ‘indogermanicità’ dell’etrusco, riteneva che tuqiu fosse legato alla serie di attestazioni italiche come tota, tuta, toúta ecc., riconducibili alla radice indoeuropea *teuta¯-, ‘comunità’; @ malgrado l’insostenibilità dell’ipotesi indoeuropea, l’idea di questo legame, nella storia dell’ermeneutica dell’etrusco, ha avuto sempre un certo seguito: ad esempio, Olzscha traduceva la sequenza cepen tutin del Liber linteus come ‘städtische Priester’; 2 recentemente, Colonna ha ribadito la possibilità di questo rapporto, ma ha cercato di giustificare l’idea che tuqina significhi ‘comunità’ soprattutto sul piano dell’analisi combinatoria e testuale. 3 Solo negli ultimi anni tale prospettiva è stata in parte sottoposta a critica: 4 in effetti, quale che sia l’area semantica di riferimento, non è escluso che la serie tuqi, tuqiu, tuqina sia genuinamente etrusca. Agostiniani nota che vi è una sorta di parallelismo formale tra questo insieme e quello costituito da [sˇ]uqi, [sˇ]uqiu, [sˇ]uqina, notoriamente afferenti all’ambito semantico della ‘deposizione’ e derivanti da una forma verbale radicale [sˇ]uq, ampiamente attestata nel Liber linteus, traducibile come imperativo di ‘porre’: 5 non sembrerebbe quindi fuori luogo ipotizzare  









miscellanea in onore di Luciano Agostiniani (Massarelli 2008, al quale si rimanda per maggiori informazioni bibliografiche): con esso si intendeva dare un primo, provvisorio resoconto delle ricerche inerenti il Piombo di Magliano, focalizzando l’attenzione sulle forme tuqiu e tuqi che, si vedrà, nella presente ipotesi interpretativa ricoprono un ruolo centrale. @   Deecke @884a, p. @46; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, pp. @4-@5; Deecke @885b, p. 254; da notare che Deecke, a seconda della traduzione adottata, per alcune attestazioni di tuqiu propone il confronto con il latino to¯tus ‘tutto, intero’ (più tardi anche Lattes @9@@, col. 307, e Trombetti @928, p. @69), per altre il già ricordato umbro tota (per le voci italiche menzionate si rimanda agli indici dei st; per un inquadramento della questione relativa all’indoeuropeo *teuta¯- si veda Benveniste @976, pp. 278-28@; sull’affermazione della stessa parola nelle lingue italiche si veda Rix 2000). 2   Olzscha @939, p. 84, nota @. L’equazione etr. tuqina = umbr. tota è presente, in forme diverse, anche in Ribezzo @929a, pp. 77-78; Leifer @93@, pp. 280-28@; Buonamici @932, pp. 358-359; Stoltenberg @950, p. 30 (tuqi = ‘jeder’, tuqiu = ‘Gemeinopfer’); Olzscha @96@, pp. 485-488; Morandi @982, p. 37 (che ricorda però anche la proposta di Torp, segnalata sotto); Goldmann @928, pp. 235-24@, invece, considerava la stringa tuqiu avils una formula di datazione; Torp, infine, proponeva una derivazione da qu ‘uno’ e traduceva quindi tuqiu come primo loco (Torp @905, p. 9; così anche Cortsen @939, pp. 272-273). 3   La discussione del significato di tuqina è affrontata in Colonna 2005b, pp. 2474-2475, e Colonna @988a, pp. 24-25 (l’idea era già presente in Colonna @976-@977, p. 60). Si veda inoltre ree 64, 57: qui Colonna, alle forme tuqiu, tuqi e tuqina, associa la parola tuvqi, che secondo lo studioso conserverebbe il dittongo originario e sarebbe più vicina all’osco túvtiks, cioè sarebbe più vicina alla supposta fonte italica del prestito. Gran parte degli studiosi contemporanei concorda con la lettura di Colonna, ad esempio Wylin 2000, pp. @@5-@@7, @45-@46, 252-253, n. 626; Maggiani 2002a, p. 70; Facchetti 2000b, p. 26@ (che propone per tuqiu la traduzione di ‘sacrificio pagico’, cfr. anche Facchetti 2002a, p. 86), Maras 2009, pp. 365-366 ecc. 4   Si vedano soprattutto alcuni lavori di De Simone, in cui tuqina è tradotto con ‘dono votivo’ (cfr. De Simone @989, pp. @3@6-@320, e ree 55, @@8, ripreso anche in Steinbauer @999, pp. 29@, 297, 308-309, che considera tuqiu un Verbalnomen da tradurre con ‘gelobt, Gelübde’); successivamente De Simone sembra aver accolto l’ipotesi di Colonna (cfr. De Simone 200@-2002, pp. 93-94; De Simone 2002, p. 20@; De Simone 2007, p. 4), mentre la proposta iniziale dello stesso De Simone è recuperata da Alessandro Morandi, che in tuqina e tuqi legge una derivazione dalle parole greche dwtivnh e dotevo~ (Morandi 2003, pp. 76-80). Altra proposta: tuqina = ‘Verheißung, Geheiß?’ (cfr. Eichner 2002, p. @47, n. @9). Da ultimo, cfr. Willi 20@@, pp. 37@-372, che segue il primo De Simone e, per tuqines´ dell’Arringatore (Pe 3.3), propone 5 la traduzione ‘ex voto’.   Agostiniani, Nicosia 2000, p. @@@.

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la derivazione di tuqi, tuqiu, tuqina da una forma verbale *tuq-, il cui significato è però da considerare ignoto. 1 Il parallelismo tra le due serie è piuttosto evidente, anche escludendo in via precauzionale la forma arcaica tuqienas, che non è detto appartenga allo stesso paradigma, la quale trova comunque un confronto nelle iscrizioni arcaiche Vs @.57 e @.95, che restituiscono un nome proprio (al genitivo) s´uqienas, foneticamente [sˇ]uqienas: 2  



([sˇ]uqiena*) (tuqiena*)

Arcaico [sˇ]uq (*tuq?)

Recente

[sˇ]uqi tuqi

[sˇ]uqiu tuqiu

[sˇ]uqina tuqina

La forma [sˇ]uqi, rispetto a [sˇ]uq- ‘porre’, può essere definita come ‘l’atto del porre’ o, forse meglio, ‘l’effetto del porre’, (quindi, ‘deposizione, tomba’), e conseguentemente [sˇ]uqina è derivazione aggettivale in -na da [sˇ]uqi, ‘relativo alla deposizione’; 3 analogamente tuqi sarà ‘l’effetto dell’azione *tuq-’ e tuqina ‘relativo (o appartenente) all’effetto dell’azione *tuq-’. Meno chiara è la funzione dei lemmi terminanti in -iu: la formula suqiu ame della Tabula Cortonensis è interpretata come una forma perifrastica significante ‘è posto’, quindi suqiu avrebbe qui un valore di aggettivo verbale: Agostiniani spiega che suqiu potrebbe essere una variante per l’atteso suq-u 4 (come lupu, mulu ecc.) che «rimand[a] a una struttura soggiacente della base suq- che potrebbe anche contenere una /i/, cancellata nella struttura fonetica (dopo tutto, il termine per ‘tomba’ è suqi)»: 5 vale a dire che la radice verbale [sˇ]uq- potrebbe essere stata, originariamente, *[sˇ]uqi- (o, meglio, *[sˇ]uqi-); su questa sarebbe stato poi costruito il participio in -u, che, in effetti, conserva -i, mentre la forma verbale radicale *[sˇ]uqi- avrebbe subito la cancellazione di -i finale (> [sˇ]uq), presumibilmente per fatti fonetici di cui sfugge la portata. Rimane però la discrepanza tra tema verbale e sostantivo: vale a dire, non si comprende perché, di fronte alla cancellazione della -i nella radice verbale pura, tale cancellazione non si sia verificata anche nel sostantivo [sˇ]uqi, che dovrebbe rappresentare la semplice sostantivazione della radice verbale etrusca per ‘porre’. 6 Una spiegazione potrebbe  







@   L’ipotesi che tuqiu sia un verbo (o, al limite, un aggettivo), è accennata anche in Adiego 2006a, p. 209. 2   Nello schema che segue, del paradigma di [š]uq sono state inserite solo le forme che hanno un corrispondente nella serie di *tuq-, eccetto la radice nuda utilizzata come imperativo nel Liber linteus: altre forme sono s´uqv, suqic, s´uqic, s´uqil, suqil, s´uqis´, s´uqu (per tutte si rimanda agli indici di et), nonché le forme suqiusvê e suqivenas´ della Tabula Cortonensis. 3   La parola [š]uqina è nota soprattutto su oggetti provenienti da corredi tombali. Per una valutazione della frequenza del termine, soprattutto in area volsiniese, si rimanda agli indici degli et. 4   Che pure è attestato in due occorrenze, Ta @.@39 e at @.4@. 5   Agostiniani, Nicosia 2000, pp. @@0-@@@. 6   Facchetti sostiene che [š]uqi appellativo derivi da *[š]uq-ti, ovvero sia una formazione aggettivale in -ti, poi sostantivata (cfr. clanti da clan), dalla radice pura [š]uq (Facchetti 2000b, p. 93; cfr. Facchetti 2002a, p. 76); come detto sopra, la struttura soggiacente della radice verbale sembrerebbe però *[š]uqi, non *[š]uq (cfr. *[š]uqiu, in età recente): per mantenere la proposta di Facchetti, si dovrebbe ipotizzare una trafila *[š]uqi-ti > *[š]uqti > *[š]uqi.

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essere che la -i di [sˇ]uqi appellativo non sia da considerare originaria, ma frutto di fenomeni fonetici successivi alla caduta di -i nella radice pura *[sˇ]uqi > [sˇ]uq: una prova ne sarebbe il confronto tra l’arcaico [sˇ]uqiena* e il recente [sˇ]uqina (ammesso che si tratti della stessa serie lessicale), dove in effetti la -i non parrebbe originaria, ma frutto della monottongazione di -ie-. @ Sulla falsariga di quanto detto finora, operando per analogia, le forme tuqi, tuqiu, tuqina (ed eventualmente tuqiena*) deriverebbero tutte da una radice *tuq(i): -i finale originaria sarebbe mantenuta in tuqiu, da considerare quindi come participio verbale in -u alla pari di *[sˇ]uqiu; la -i di tuqina, come ipotizzato sopra per [sˇ]uqina, potrebbe essere invece frutto della monottongazione del dittongo in tuqiena*, e qualcosa di simile si dovrebbe ipotizzare anche per la forma tuqi della seconda sezione del lato a del Piombo di Magliano. È evidente che quanto affermato sopra si pone in termini altamente speculativi: l’ipotesi descritta evidentemente necessita di una controprova sul piano della analisi testuale e dei riscontri combinatori, che permettano di verificare se, effettivamente, le parole tuqi e soprattutto tuqiu del Piombo di Magliano possano essere interpretate davvero come forme verbali. La sequenza più interessante, da questo punto di vista, sembra essere quella sul lato b del Piombo, nella parte iniziale del testo: in eq tuqiu nesl man... è ravvisabile una costruzione testuale molto simile a quelle già individuate nella Tabula Cortonensis (nella sequenza iniziale et pêtruis´ scêvês´ êliunts´ vinac restmc cenu... ‘così, da parte di Petru Scevas´ l’êliun, la vigna e il restm (sono) -ati’) 2 e in alcune leges sepulcrales (Pe 5.2: eq fanu lautn precus´... ‘così (fu) decretante la famiglia di Precu...’; Ta 5.6: eq fanu s´atec lavtn pumpus... ‘così (fu) decretante e stabilì la famiglia di Pumpu...’ ecc.). 3 Come mostrano gli esempi citati, i participi in -u possono essere tanto attivi che passivi; in eq tuqiu nesl man..., dal momento che non sembrano essere immediatamente evidenti delle forme all’ablativo, si potrebbe supporre che tuqiu sia forma participiale attiva: ma anche su questo punto la cautela è d’obbligo, non essendo chiara la dimensione della frase, se cioè, per esempio, includa anche la parte successiva, e fin dove. 4 Resta da stabilire che cosa rappresenta la frase eq tuqiu nesl man nell’economia del testo del Piombo: l’ipotesi di lavoro è che essa funga da rimando, da riassunto delle azioni precedenti. L’idea è giustificata sia dalla struttura stessa della frase (‘così è (o ‘ha’) -ato (?) il nesl man (?)’), sia dal confronto bilinguistico con testi che, si ipotizza, sono affini: si pensi soltanto alla Tavole di Gubbio, che in più occasioni presentano delle ‘clausole’ alle varie sezioni del testo, le quali coincidono con i vari momenti delle cerimonie di purificazione; queste clausole chiudono la serie  







  Impostando la questione nei termini di una proporzione, si avrebbe che [š]uqina : [š]uqiena* = [š]uqi : x, dove x sarebbe, come forma ricostruita, *[š]uqie (*[š]uqi-e, forma in -e dal tema verbale originario?). 2   Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 95-99. 3   Le traduzioni sono riprese da Facchetti 2000a, p. @5. 4   Si vedrà in seguito che la cesura potrebbe collocarsi o immediatamente dopo tuqiu, o tra rivac e les´cem, ottenendo così una frase eq tuqiu nesl man rivac. @

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delle azioni prescritte per quella parte del rito, indicando in definitiva il risultato ultimo: @  

Um @, i b7: ... inuk ukar : pihaz : fust : ... allora la rocca sarà purificata. Um @, i b38-39: ... enu : esunu : 39purtitu : fust : ... così il sacrificio sarà perfetto. Um @, vi b46-47: ... eno . ocar 47pihos . fust . ... così la rocca sarà purificata. Um @, vii a45: ... enom . purditom . fust ... con ciò si sarà consumato il sacrificio.

Se dunque la lettura di tuqiu come aggettivo verbale (o participio) è corretta, è chiaro che è attorno a questa parola che ruota la struttura della frase. Nella parte finale della prima sezione si trova il probabile sintagma nes´l man che, come si è visto sopra, nella variante nesl man, 2 appare strettamente legato a tuqiu in un passo del lato b del Piombo 3 (nella sequenza appena osservata eq tuqiu nesl man): è lecito supporre che anche nella prima sezione questo legame sia presente, malgrado i due elementi sintattici non siano adiacenti nella sequenza scritta. Il sintagma nes´l man, secondo l’opinione generale, è costituito da un determinatus al caso retto (man) e un determinans al genitivo (nes´-l); il significato non è immediatamente individuabile, ma sembra sicuro che sia da collocare nell’ambito funerario: nes´l compare spesso nella locuzione (eca) s´uqi nes´l ‘questa (è) la tomba del *nes´ (?)’, dove *nes´, secondo  



@   Il testo è estrapolato dall’edizione dei st. Le traduzioni proposte sono invece tratte da Ancillotti, Cerri @996, pp. 293-3@6. 2   La differenza nella resa della sibilante è forse dovuta ad un fatto essenzialmente grafico: Milani notava (Milani @893, col. 55) che il sigma di nesl (sul rovescio, cfr. Fig. 2 e Tav. ii) sembra inserito successivamente, quasi fosse una dimenticanza, come se l’estensore del testo si sia reso conto dell’errore solo in un secondo tempo e abbia cercato di porvi rimedio inserendo il segno di sibilante che occupava meno spazio, ovvero sigma, benché fosse il segno sbagliato rispetto all’atteso san (al riguardo, si vedano i dubbi di Danielsson ad cie 5237). 3   Deecke leggeva nenl man e traduceva, integrandola, la sequenza avil(s) nenl man(ales) murinas´ie(s) con ‘um Neujahr mit Tropfgüssen von Myrrhentrank’ (Deecke @884a, p. @44; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 33; anche Deecke @885b, p. 253); dopo la correzione di nenl con nes´l effettuata da Milani (Milani @893, col. 53), Lattes considera avil nes´l analogo al latino avillam mortuariam (Lattes @894, p. 2@7); Torp interpreta avil nes´l man come ‘when the year of the deceased is full’, intendendo man come forma verbale affine ad am- ‘essere’ (Torp @905, pp. @0-@2); Lattes si interrogava invece su un possibile rapporto tra man e gli dei Manes latini, in quanto collegato a nes´l, vocabolo tipico dell’epigrafia funeraria etrusca (Lattes @9@@, coll. 296-297, 306); Trombetti @928, p. 207: hevn avil nes´l ‘questo anno per il defunto’ (rinuncia ad interpretare il successivo man); per Goldmann, nes´l è ‘tomba’ e nes´l man indica in qualche modo un atto sacrificale (Goldmann @928, p. 242); secondo Ribezzo nes´l è analogo al latino publice, mentre man significa hic (Ribezzo @929a, pp. 73-74; cfr. Buonamici @932, p. 35); Leifer non traduce il passo ma intende avil nes´l man come un riferimento ‘für die Totenerinnerungstage [...] des Jahres’ (Leifer @93@, pp. 278-279, nota @); Cortsen intende tuqiu nesl man del lato b come ‘am ersten Todestage’, ma poi traduce nes´l man della prima sequenza con ‘am Geburtstage (?)’ (Cortsen @939, p. 274); per Morandi nes´l man introduce l’informazione sui sacrifici da compiere, dopo l’indicazione temporale in hevn avil, in una sorta di parallelismo con la prima parte della prima sezione, introdotta da tuqiu avils (Morandi @982, p. 37); infine, per Steinbauer nes´l man potrebbe significare qualcosa come ‘Grabstein für die Gebeine’ (Steinbauer @999, p. 309), mentre per Facchetti è ‘la commemorazione del cimitero’ (cfr. Facchetti 2000b, p. 26@).

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Facchetti, potrebbe significare ‘cimitero’. @ La parola man, del resto, sembra indicare un oggetto di nuovo appartenente alla sfera funeraria. 2 A prescindere dal valore semantico da attribuire, dal momento che man, come sembra, è una forma in caso retto, ed è la testa del sintagma, evidentemente la funzione del sintagma stesso sarà verosimilmente o quella di soggetto o quella di oggetto del verbo della frase. Se dunque si accetta che tuqiu sia forma verbale, il valore sintattico di nes´l man dipenderà dall’eventuale transitività del verbo; nel caso che tuqiu sia verbo intransitivo, nes´l man sarebbe evidentemente il soggetto; se invece tuqiu fosse transitivo, si aprirebbe il problema di stabilire se nes´l man è soggetto oppure oggetto. La questione è legata ovviamente anche all’individuazione di altri elementi al caso retto, che possano fungere da soggetto o oggetto al pari di nes´l man.  



Dopo tuqiu la frase prosegue con avil-s e un numerale (sub iudice se ez che segue sia da considerare parte integrante del numerale o altro), ovvero un’apparente indicazione temporale; quindi, la sequenza cimqm casqialq lacq, che ritorna identica nella parte finale della seconda sezione ( cimqm, da solo, anche nella terza sezione), che sembra comprendere tre locativi, e della quale si parlerà più avanti; dopo questi, hevn avil. Su avil ‘anno’ non è necessario dilungarsi. 3 Per la parola hevn il confronto più diretto è con heva, particella presente in un numero limitato di iscrizioni funerarie, in alcune delle quali è seguita da gentilizi con il suffisso collettivo -qur. 4 Nel corso  



@   Facchetti 2002a, p. 86. La parola in questione non è mai attestata al caso retto, ma sempre in genitivo: at @.30 (eca : s´uqi : nevºtºnas : arnqal : nes´[l -?-]), @.70 (eca : s´uqi : nes´l : pan[), @.@38 ([eca s´uq]i nes´ºl [),  @.@40 (eca s´uqi nes´l : tetnie[s -?-]), @.@4@ ([eca s´]uqi n[e]s´l [), @.@48 (eca s´u(qi) 2nes´l ein), @.@88 (eca s´uqi nºes´º[l] 2 arnqial caven[a]s), av @.@3 (cei ºse vel nes´ºl º), Cr 0.40 (nes´l ql leprn[l-?-]), av @.2@ (s´uti nºeºsº´l º [?), Cl 8.5 (atular : hilar : nesl bein . ser . vl . remzna . clanc 2au . latini . cesu cclarucies´), Pe @.688 ([-?- s]uqi nºe[sl -?-]), 5.3 (ca suqi nºeºsº[l : q]2amcie : titial : can3l : restias´ : cal : ca4raqsle : aperuce5mº : ca : qui : ces´u : 6[-]lusver : etva : ca 7[s´]purane : caresi : 8[-] caraqsleº : [-]a 9[-?-]). È discusso invece se la voce nes´s, che compare in at @.@09 (aº[--- .] aleqnaºsº . s´eqres´a . nes´s . sacn[-@0/@4-] ...), sia da considerare appartenente al paradigma di nes´l; se così fosse, il caso darebbe ulteriore conferma della possibilità, per una stessa voce lessicale, di seguire entrambe le declinazioni attestate in etrusco, quella in -s (i) e quella in -(a)l (ii). Al momento non è possibile stabilire con certezza se ciò sia effettivamente possibile in etrusco; del resto, stando alla documentazione attualmente disponibile questa ambivalenza, a livello semantico e funzionale, non troverebbe una spiegazione esauriente (sull’argomento si veda, da ultima, Belfiore 20@0, pp. 70-7@); non è da escludere infine, in linea di principio, che si possa trattare di un ablativo (nes´s < *ne[š]-is). 2   Wylin 2004b, p. 2@4 propone di considerarlo abbreviazione di manim, con cui condivide alcuni contesti di occorrenza; cfr. anche Facchetti 2002a, p. 86. Le iscrizioni in cui compare man sono Ta @.35 (s´eqre º [i]q . arce 4-nºum qºenqeº-c . es-as´lep 5zilaº cn[u] hºel . xxi), as curunas . 2 vºeºlusº [. r]amqa[s .] avenalc 3samº mºanº s´uq @.9 (larq : cvenles´ : ta suqi / man aºlcuº [------/-]lce), Pe @.2@ (hermial capznas 2man s´ecis capzna@l). ������������ Altre possibili attestazioni sono as 7.@ (: mename : cana : clivinia : trecte velus´ : larqu2rnis´ : leprnal : mlakas´ mani), Ta 5.4 (...5[---(-)]uº : cecasiequr : erce fas´ : mºant : cani : racaqcesnieºlqa : s-u-e : qe--cºiºcº : -- 6...). Si vedano inoltre il già menzionato manim (Ta @.@08, at @.@05; maniim in Ta @.@64; manimeri in at @.96) e il verbo manince (Vt 4.5), verosimilmente derivato da man. Incerto se ad essi sia legata la voce mnaquras dell’iscrizione di Pulenas (Ta @.@7: genitivo di un collettivo in -qur da *man(a)-?). 3   Il valore di ‘anno’ per avil può dirsi già acquisito al tempo della scoperta del Piombo di Magliano, cfr. Deecke @884a, p. @44 (su avil si veda Lejeune @98@; per una valutazione delle occorrenze e dell’uso di avil si veda già Cristofani @973). 4   Torp, per primo, mette in relazione hevn con heva, proponendo inoltre di considerare analogo anche evi- di evitiuras del lato b del Piombo: la traduzione proposta è ‘full’, ovvero ‘pieno, completo’, e quindi la frase hevn avil nes´l man significherebbe, in latino, cum plenus annus erit mortui (Torp @905, pp. @@-@2;

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degli anni la discussione si è concentrata sul valore da attribuire ad heva, oscillando tra una definizione come sostantivo, avverbio o aggettivo. De Simone ha sostenuto la possibilità che si tratti di un sostantivo. @ Trombetti, Pallottino, e recentemente Facchetti, considerano heva una particella deittica traducibile con ‘qui’: 2 per Facchetti hevn ne sarebbe un ampliamento mediante la particella hen, attestata sia, come tale, nel Cippo di Perugia (Pe 8.4a 5, 24), sia come particella enclitica associata al dimostrativo (e)ca, nelle forme cehen (< *ca-hen: h all’interno della parola, del tutto singolare in etrusco, è un chiaro riferimento al carattere composto della particella), cen e cên, varianti contratte della precedente. 3 Altri, infine, a partire da Cortsen, hanno sostenuto la possibilità che heva e hevn siano forme di uno stesso aggettivo, da tradurre perlopiù con ‘tutto, ogni’. 4 Queste, nel complesso, le attestazioni di heva:  







as @.@2: hºevaº : cvelne 2au : avºlnal as @.99: heva marc2niqur 3pupeinal Co @.6: heva : vipiqur 2cucrinaqur : cainal oa 0.6: ?] heva terum

A queste vanno aggiunte due iscrizioni, con il medesimo testo, che riportano la forma hevl, e una terza con heul, il cui rapporto con heva è in discussione: Cs 2.@8: hevl : anaies´ : mi Cs 2.@9: hevl : anaies´ mi Cl @.@@45: fº ilunice : lautni : heul : alfnis

La prima questione è relativa proprio al rapporto tra heva (ed eventualmente hevn), da una parte, e hevl/heul dall’altra. La forma hevl/heul ricorre tre volte (ma in Cs 2.@8-@9 si tratta dello stesso testo), in posizioni in cui è sempre richiesto un genitivo (in Cs 2.@8-@9 è retta da mi, in Cl @.@@45 dall’apposizione lautni), ed è sempre seguita da un gentilizio: questo porterebbe a pensare che hevl/heul sia effettivamente il genitivo ii di un prenome (femminile?) heva, scarsamente attestato nell’onomastica etrusca. Le attestazioni di heva ricordate sopra, però, sembrano escludere che si tratti di un prenome: 5 in effetti, heva sarebbe attestato con sicurezza solo in conte 

cfr. Morandi @982, p. 37). Deecke traduce hevn con ‘Schaf’ (Deecke @884a, p. @44; Deecke @884b, p. vii, Deecke @885a, p. @8; Deecke @885b, pp. 253-254); per Milani hevn avil significa ‘capo (?) d’anno’ (Milani @893, col. 60); Goldmann sostiene che hevn avil sia una formula di datazione, al pari di tuqiu avils (Goldmann @928, p. 242); per Ribezzo hevn avil è traducibile con il latino status annus (Ribezzo @929a, pp. 70-73; cfr. Buonamici @932, p. 359).   De Simone @968-@970, ii, p. @@@.   Trombetti metteva in relazione heva e hevn con le altre voci etrusche hen e hia, ma anche con altre voci di lingue come il lidio e il basco (Trombetti @928, pp. 25, @69); Pallottino @936a, p. 65; Facchetti 2000b, p. 26@; Facchetti 2002a, pp. 85-86. 3   Il dimostrativo cehen è attestato in Pe 4.@, 5.2. Inoltre, sono appunto riconducibili a cehen anche cen dell’iscrizione dell’Arringatore (Pe 3.3) e cên della Tabula Cortonensis (cfr. Agostiniani, Nicosia 2000, p. 87). 4   Cortsen @939, pp. 275-276, che traduce hevn avil con ‘jedes Jahr’, recuperando la proposta di Torp di un rapporto tra hevn e heva (curiosamente, Deecke traduce con ‘jedes Jahr’ non il sintagma hevn avil, ma ecnia avil del lato b del Piombo; si veda più avanti al cap. ii.4.4.). Anche Steinbauer @999, pp. 95, 308. Da ultimo Rix 2004, p. 954 (cfr. anche Rix 2006, p. @69). 5   Già Rix nota, implicitamente, la difficoltà di intendere heul come prenome, preferendo inserirlo nella @

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sti in cui è associato a gentilizi con suffisso collettivizzante -qur, dal momento che l’iscrizione oa 0.6 è troppo breve e lacunosa per fornire la benché minima informazione sulla funzione di heva, e anche l’iscrizione as @.@2, nota solo da pubblicazioni di fine ’800, l’unica in cui heva non sia seguito da gentilizi con -qur, presenta diversi problemi di restituzione proprio nella prima parola heva, che è congettura degli et. @ Restano, pertanto, solo as @.99 e Co @.6, e come detto sopra, data la presenza di gentilizi con il suffisso collettivizzante -qur, 2 è da escludere che heva in queste iscrizioni sia un prenome. Detto ciò, sembra opportuno, almeno per il momento, tenere disgiunti nella discussione heva (ed hevn) da hevl/heul, poiché non sembrano avere contesti di occorrenza analoghi. 3 Inoltre, il fatto che non vi sia specificazione tra heva e i gentilizi in -qur (ovvero, una forma di genitivo -quras) porta ad escludere anche che heva sia un appellativo generico, del tipo ‘tomba’ o simili, come sostenuto, a suo tempo, da De Simone e altri. 4 La seconda ipotesi è quella relativa a heva (ed hevn) come avverbio di luogo. La proposta non ha effettive controindicazioni: anche il fatto che le epigrafi etrusche restituiscano altre particelle deittiche, come qui, non toglie che l’etrusco abbia potuto avere ulteriori forme per esprimere l’idea di ‘qui’. È però da notare che, anche in questo caso, non si comprende perché questo avverbio sarebbe utilizzato quasi esclusivamente con gentilizi caratterizzati dal suffisso collettivo -qur; evidentemente, il fatto che heva compaia con sicurezza solo in presenza di -qur rende necessario che la spiegazione della sua funzione tenga conto di questo fattore. Si provi a considerare infine la terza possibilità, in cui heva è considerato formalmente un aggettivo. La funzione potrebbe essere dimostrativa: in effetti, una traduzione approssimativa con ‘questo’ sarebbe sintatticamente e logicamente adeguata (ad esempio, as @.99: ‘questi i Marcni della Pupeinei’), ma singolare sul piano formale, se confrontato con le normali formule delle iscrizioni funerarie, che non prevedono, di solito, una struttura del tipo ‘questo (è) ...’ e il nome del defunto (o dei defunti).  







classe ‘Sonstiges’, ovvero di tutti quei vocaboli, ricorrenti nelle iscrizioni funerarie etrusche, non riconducibili a forme verbali o appellativi sullo stato del defunto, a indicazioni relative al cursus honorum, a indicazioni di età (Rix @963, p. @39); lo stesso Rix, del resto, rifiuta di considerare heva un appellativo o un pronome, preferendo sospendere il giudizio (p. 92). @   Si veda cie 2@9; la restituzione del cie sembra più pertinente e può essere riassunta come segue: qana : cvelne(i) 2av(les´) avlnal (‘qana Cvelne(i) (figlia) di Avle (e) della Avlnei’). 2   Il suffisso, oltre che nelle due iscrizioni già menzionate (as @.99 e Co @.6, quest’ultima due volte), è attestato con gentilizi anche in velqina-qur-as´ (Pe 8.4a6, 20) e velquri-qur-a(s´?) (Co 3.2), entrambi genitivi, precu-qur-as´-i (Pe 5.2) e clavtie-qur-as-i (Cr 5.2), entrambi pertinentivi, e recentemente nella Tabula Cortonensis, cusu-qur-as´ (tre volte), cusu-qur-s´-um, ]ina-qur, i primi genitivi (con o senza la congiunzione  -(u)m), l’ultimo, lacunoso, al caso retto (cfr. Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 59-6@); inoltre, è noto anche in associazione a sostantivi comuni: cecasie-qur (Ta 5.4), paca-qur-as (at @.32, forse anche in at @.@, restituito come [paca-]qur-a(s)); incerto tamiaquras di Vs 7.9 (tamia-qur-as o tamiaq-ur-as?). 3   Così anche Facchetti 2002a, pp. 85-86. 4   Ad esempio Cortsen, che traduceva heva con ‘Grab’ (Cortsen @930, p. @74, nota 3; cfr., per una critica, Rix @963, p. 92, nota @95); lo stesso Rix riteneva insostenibile l’ipotesi di Stoltenberg (Stoltenberg @950, p. 20) che traduceva heva con ‘jeder’ (per cui si veda sopra), chiedendosi piuttosto se non potesse trattarsi di un appellativo affine al lat. pupus.

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Una possibile soluzione è la proposta, formulata inizialmente da Cortsen, di tradurre heva con ‘tutto, ogni’. Ora, una traduzione con ‘tutto’ è perfettamente compatibile con l’utilizzo di gentilizi con il suffisso -qur: as @.99 sarebbe pertanto ‘tutti i Marcni della Pupeinei’. Come si vede dalla traduzione di as @.99, la questione tocca anche uno degli argomenti più discussi nella linguistica contemporanea dell’etrusco, la categoria del numero. Recentemente Adiego, @ partendo dalle considerazioni di Agostiniani, 2 ha rianalizzato il materiale a disposizione in una nuova prospettiva tipologico-diacronica. Come è noto, il plurale etrusco presenta due allomorfi, -r e -(c/c)va. Agostiniani ha dimostrato che il criterio di selezione del plurale da parte dei sostantivi non è casuale, ma segue una precisa logica, motivata tipologicamente: i sostantivi caratterizzati da [+ animato] prendono -r, quelli [– animato] prendono -(c/c)va. Questo spiega anche uno dei fenomeni più caratteristici del plurale etrusco, vale a dire il comportamento in presenza di aggettivi numerali: i sostantivi animati marcano comunque il plurale, mentre quelli inanimati, in presenza di numerali, generalmente non hanno marche di plurale. Abitualmente, le lingue del mondo che presentano distinzioni linguistiche relative all’animatezza tendono a considerare la nozione di plurale come più naturale per gli elementi più animati: quindi, è altrettanto normale che, tra [+ animato] e [– animato], sia il primo ad essere marcato, relativamente al numero, in tutti i contesti possibili. Secondo la lettura di Adiego, il differente comportamento di animati e inanimati relativamente al numero può essere considerato, in chiave diacronica, come uno degli stadi intermedi di affermazione del plurale in etrusco: per Adiego, l’etrusco originariamente non presentava la distinzione singolare-plurale, ma quella, altrettanto motivata sul piano tipologico, di generico-specifico. Successivamente, la distinzione tra plurale e singolare è stata introdotta partendo dalle posizioni più alte della gerarchia di animatezza, che misura in termini relativi il grado di animatezza di vari elementi linguistici: 3  





@a persona > 2a persona > 3a persona > famiglia > umano > animato > inanimato + animato

– animato

Questo perché, come detto sopra, la nozione di plurale è più naturale per gli elementi linguisticamente più animati, ovvero per le posizioni più alte nella gerarchia. Quindi, in chiave sincronica, in etrusco i nomi animati sono già organizzati secondo la distinzione singolare-plurale, mentre gli inanimati conservano ancora, in un contesto specifico come la presenza di numerali, la precedente condizione, che in ultima analisi prevede un solo numero, definibile come ‘generico’: 4 l’idea della pluralità è data cioè da elementi quantificatori, come, appunto, i numerali.  

  Adiego 2006b.   Cfr. Agostiniani @992, pp. 54-55 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @42-@43); Agostiniani @993a, pp. 34-38 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @74-@78); Agostiniani @995a, pp. @3-@5 (= Agostiniani 20032004, i, pp. 246-249). 3   La gerarchia di animatezza è stata ripresa da Adiego 2006b, p. 9. 4   Adiego parla di un’unica forma «general», utilizzata per esprimere tanto il singolare che il plurale (Adiego 2006b, p. @3). @

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Adiego ipotizza anche che le marche di plurale etrusco fossero originariamente dei suffissi derivativi o dei quantificatori indipendenti, poi grammaticalizzati, secondo uno schema di sviluppo motivato tipologicamente. @ Uno dei maggiori indiziati per il plurale inanimato -(c/c)va sarebbe proprio heva, se è giusta l’ipotesi, sopra descritta, che ne individua il significato come ‘tutto’; nei creoli, ad esempio, è piuttosto comune che l’elemento linguistico esprimente la pluralità sia una grammaticalizzazione del quantificatore originariamente significante ‘tutto’: cfr. il tok pisin (creolo della Nuova Guinea), dove il quantificatore ol ha origine dall’inglese all. 2 Il carattere ancora in fieri della categoria del numero etrusco è intuibile, secondo Adiego, anche dai pochi dati relativi all’accordo morfologico: dati in negativo, dal momento che, per certo, si sa soltanto che né il verbo né l’aggettivo distinguono grammaticalmente il plurale dal singolare; il riferimento è alla nota iscrizione dei Clavtie a Caere (Cr 5.2), che presenta un soggetto plurale (i due prenomi laris e avle, uniti per asindeto, a cui si riferisce l’apposizione clenar ‘figli’) con un verbo, cericunce, non marcato dal punto di vista del numero (cericunce è utilizzato anche con i singolari, cfr. Cr 5.3, Ta @.@53 ecc.), e un aggettivo in posizione predicativa, sval (‘vivi’), ugualmente non marcato come plurale. 3 I dati relativi ai dimostrativi, invece, sono più incerti: la formula onomastica cusuquras´ larisalisvla, nella Tabula Cortonensis, è analizzabile (parzialmente in grafia fonetica) in cu[sˇ]u-qur-a[s] lari[sˇ]-al-i[sˇ](a)-v(a)-la, dove -v(a) è chiaramente il morfema di plurale del pronome enclitico -(i)[sˇ]a; questo ha come prima conseguenza che il gentilizio in -qur (al genitivo cusuquras´) è identificato formalmente come un plurale. 4 Meno chiaro, invece, è lo status di -isvla in larisalisvla: se, cioè, sia un pronome indipendente, o un aggettivo dimostrativo, o altro. La domanda non è secondaria perché, nel caso di un aggettivo, sarebbe evidente che esso è in accordo grammaticale con il plurale cusuquras´, e ciò sarebbe un prova valida della presenza di accordo morfologico in etrusco, almeno per quanto riguarda i dimostrativi. Adiego riconosce che non vi sono sufficienti elementi per stabilire con certezza se vi sia concordanza, per quanto «es evidente que sí pueden considerarse [scil. fenomeni di questo tipo] como un estadio immediatamente previo al desarrollo de fenómenos de concordancia». 5  









2   Adiego 2006b, pp. @@-@2.   Adiego 2006b, p. @2, nota @6.   Adiego 2006b, p. 6. Sull’iscrizione parietale dei Clavtie si veda anche Agostiniani @994 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @85-@95). 4   Adiego 2006b, pp. 4-6. Dato che -(i)[š]a condivide con ica e ita la stessa declinazione, è opportuno chiedersi se anche per questi è possibile ipotizzare delle forme plurali in -va, finora non attestate. Nell’incipit della Lamina a di Pyrgi (Cr 4.4) i ºta tmia icac he2ramas`va ..., ica (-c enclitico), il dimostrativo riferito al plurale heramas`va non porta alcuna marca di plurale; nel caso di accordo morfologico, vi sarebbe dovuta essere una forma *ica-va (o simili); o, altrimenti, si deve supporre che nell’utilizzo dei determinatori aggettivali non vi sia accordo morfologico, almeno per quanto riguarda la categoria del numero; del resto, anche la lettura di heramas`va quale plurale non è accettata da tutti (cfr. Adiego 2006b, p. 3,  nota 5). 5   Adiego 2006b, p. 8. Nella stessa iscrizione dei Clavtie (Cr 5.2, si veda sopra) la sequenza apa-c ati-c (‘e il padre e la madre’), ovvero a livello logico un plurale, è seguita dall’apposizione sanis`va, verosimilmente da intendere sa(c)ni-[š](a)-va (ma, su questo, si veda più avanti la discussione al cap. iii.6.@.), @

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La particella heva, dunque, ha buone probabilità di significare, in etrusco, ‘tutto’. Si deve notare, peraltro, come già per altre parole etrusche sia stato proposto il significato di ‘tutto’: in primo luogo cim (e varianti) e, recentemente, cepen; singolarmente, queste parole sono tutte testimoniate nel Piombo di Magliano, e pertanto per l’analisi di ciascuna si rimanda alle sezioni corrispondenti. Del resto, è possibile che vi siano più parole che esprimano le diverse sfumature del significato di ‘tutto’, come nel lat. omnis e to¯tus. Piuttosto, è da rilevare come la scarsa incidenza statistica di una parola come heva (e hevn) nella documentazione etrusca mal si accorda con un significato assolutamente centrale in una lingua come quello di ‘tutto’, che dovrebbe avere invece alta frequenza di attestazione. Tenendo presenti queste obiezioni, una volta postulato per heva il significato di ‘tutto’, il passo successivo è stabilire l’eventuale relazione tra heva ed hevn del Piombo, soprattutto alla luce del sintagma in cui è inserito, hevn avil. Sul piano del significato, anche intuitivamente si può ipotizzare che hevn avil stia per qualcosa come ‘tutto l’anno’ o ‘tutti gli anni’, @ come già sostenuto da Cortsen e altri: meno chiara è, invece, la funzione a livello sintattico. Data la presenza della parola per ‘anno’, è lecito attendersi un complemento di tempo, che non può però essere determinato, dal momento che in etrusco il tempo determinato è espresso mediante il locativo, come nella formula con zilc-i ‘nello zilacato di ...’, esprimente la datazione eponima; l’alternativa è, quindi, che si tratti di un complemento di tempo continuato. In etrusco il complemento di tempo continuato sembra essere attestato con certezza solo in pochi casi, da cui però risulta chiaramente che questo è espresso mediante l’assolutivo: l’iscrizione Ta @.@@3: sºaºfici . s´eqra . velus . plinialc 2[p]uinces . arnq(a)l . puia . avil . xvi, in cui è testimoniato che Sπeqra Safici fu moglie di Arnq ‘per anni @6’; l’iscrizione at @.33 (nella lettura proposta dagli et): ramqa : nuiclnei : 2ci : avºiºl : puia @statº[l]aºnes : velus, in cui è detto che la defunta Ramqa Nuiclnei è stata moglie di Vel Statlane ‘per tre anni’; ree 63, 42, molto frammentaria, in cui si dice che che il defunto Arnq ‘ricoprì la carica mulauc per anni trentuno’ (... mulauc [:] ten[ce :] avil : qu[ : c]ealc); infine, il cosiddetto epitaffio di Larqi Cilnei, un’iscrizione parietale tarquiniese nota solo da un apografo cinquecentesco, che presenta notevoli problemi di restituzione: nella formula finale, analoga ad at @.33, si afferma che la defunta ‘fu moglie per @4 anni e morì ad 83 anni’ ([...] puia : amce : a9vil : xiiii : lupum avils : lxxxiii). 2 Dando seguito al ragionamento, se effettivamente heva significa ‘tutto’, un sintagma con funzione di tempo continuato significante ‘per tutto l’anno’ o ‘per tutti  



plurale del termine sa(c)ni-, noto altrimenti come sa(c)ni-[š]a ‘quello sa(c)ni-’, associato solo a singolari: una prova ulteriore del valore pluralizzante del morfema -v(a) associato a -(i)[š]a. Non è possibile stabilire invece se sa(c)ni- abbia funzione aggettivale, nel qual caso sarebbe una prova dell’esistenza di concordanza morfo-sintattica in etrusco, o semplicemente sia un sostantivo in funzione di apposizione. Sull’accordo in etrusco si rimanda ora al fondamentale Van Heems 20@@.   Si ricordi che avil, in quanto sostantivo non animato, in presenza di un quantificatore come un numerale o come hevn (se come sembra è collegato a heva ‘tutto’), non presenta marche di plurale: pertanto, hevn avil può essere tradotto sia come singolare che come plurale. 2   Sull’epitaffio di Larqi Cilnei si veda, da ultimo, Adiego 2009, con bibliografia precedente. @

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gli anni’ dovrebbe essere, in etrusco, *heva avil, non hevn avil: che cosa rappresenta allora la terminazione -n di hevn rispetto ad heva? Si aprono ora due possibilità: si potrebbe ipotizzare, come in parte già proposto da Facchetti e citato sopra, che hevn rispetto ad heva sia una forma ‘ampliata’, per mezzo di un suffisso con funzioni di deissi: una volta assunto per heva il significato di ‘tutto’, hevn potrebbe esserne un ampliamento per mezzo di hen, a significare qualcosa come ‘tutto qui’: questo permetterebbe di considerare hevn avil un sintagma in caso retto, come nel caso di cên della Tabula Cortonensis, nella frase cên zic zicuce ‘questo scritto qui è stato scritto’, dove il sintagma cên (< *ca-hen) zic svolge la funzione di soggetto. Tuttavia, questa soluzione sembra dover essere scartata, dal momento che se cên è da cehen (Pe 4.@, 5.2) < *ca-hen, da un ipotetico *heva-hen si sarebbe attesa piuttosto una forma del tipo *heven. @ Un’altra possibilità invece è che hevn sia formalmente un accusativo di heva, il quale sarebbe quindi morfologicamente affine ai pronomi personali o ai dimostrativi, cosa del tutto normale per un termine significante ‘tutto’. Questo comporterebbe quindi che il complemento di tempo continuato in etrusco sarebbe formalmente espresso dall’accusativo; i sintagmi esprimenti il tempo continuato in Ta @.@@3, at @.33, in ree 63, 42 e nell’epitaffio della Cilnei sarebbero da considerare, sul piano formale, degli accusativi, per quanto non siano marcati in tal senso, non contenendo pronomi né dimostrativi. Una prima conferma di questa ipotesi si trova ancora in Facchetti, che traduce cntnam qesan del Liber linteus come ‘durante la stessa mattina’, 2 intendendo cntnam come un aggettivo costituito dal dimostrativo (e)ca flesso all’accusativo e dal morfo -tnam, noto anche da altre attestazioni (per esempio, vacltnam del Liber linteus). Peraltro, se la situazione è effettivamente quella descritta, è evidente che vi sarebbe una marcatura sull’elemento subordinato del sintagma, e ciò si configurerebbe come un fenomeno di accordo sintattico (intrasintagmatico), riportando la discussione a quanto detto sopra sulla possibilità di individuare in etrusco un sistema, anche solo in fieri, destinato a sviluppare fenomeni di concordanza grammaticale. 3  





A quali anni potrebbe dunque far riferimento il sintagma hevn avil? Nella parte iniziale, subito dopo tuqiu, si trova un ulteriore complemento temporale, questa volta al genitivo: avils lxxx (ez). Ora, come anticipato sopra, le possibilità di scioglimento sono due, e dipendono dal valore che si intende dare a ez. Effettivamente, ez si trova isolato tra due punti e quindi, secondo la convenzione adottata dall’estensore dell’iscrizione, dovrebbe individuare una parola compiuta. L’analisi combinatoria mostra però che non vi sono confronti apprezzabili nel resto della documentazione   Facchetti, traducendo hevn avil con ‘qui, per un anno’ (Facchetti 2000b, p. 26@; Facchetti 2002a, p. 86), in parte avalla l’idea che si tratti di un complemento di tempo continuato (cfr. anche Steinbauer @999, p. 308). 2   Cfr. Facchetti 2002a, pp. 70, @27. La locuzione è attestata tre volte: ll vii.@2; ix.@4, @8. 3   È da aggiungere che le caratteristiche dell’accusativo etrusco, che come detto marca l’oggetto solo quando esso è pronominale, sembrano rientrare piuttosto nella categoria della definitezza, che peraltro mostra legami con l’altro parametro individuato in etrusco, quello dell’animatezza (sull’argomento cfr. Agostiniani @993a, pp. 39-40 = Agostiniani 2003-2004, i, pp. @79-@80). @

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etrusca. Inoltre, seguendo l’analisi sviluppata finora, ez rimarrebbe estraneo al resto della frase. @ Torp, 2 invece, sosteneva la possibilità di collegare ez con il numerale precedente, che quindi a livello grafico sarebbe stato espresso da una prima parte in numeri ed una seconda in lettere; indicativamente, nell’ipotesi di Torp la prima parte esprime il puro riferimento numerico (‘ottanta’), la seconda lo connota a livello morfologico e grammaticale. Il confronto proposto da Torp era con i numerali tipo ciz, qunz: queste forme sono state individuate da tempo come avverbi numerali, traducibili come ‘tre volte’ e ‘una volta’. 3 Incerto è il nome etrusco per ‘ottanta’: è sicuro però che il numero ‘otto’ debba essere individuato in uno dei termini della terna cezp*, semf e nurf*; conseguentemente, ‘ottanta’ dovrà essere tra cezpalc, semfalc e *nurfalc. 4 Solo come ipotesi di lavoro e a titolo di esempio, si consideri qui cezpalc come termine provvisorio per ‘ottanta’: 5 conseguentemente, il termine del Piombo di Magliano (nell’ipotesi Torp) sarà *cezpalc(e)z. Una forma tipo *cezpalc(e)z potrebbe corrispondere benissimo ad un avverbio numerale traducibile con ‘ottanta volte’, e la terminazione -ez potrebbe essere l’antecedente del più recente e più comune -z. Gli avverbi numerali sono attestati in etrusco solo in due contesti: 6 nelle epigrafi funerarie con cursus honorum, servono ad indicare quante volte il defunto ha ricoperto una certa carica o ha svolto una certa funzione; 7 nel Liber linteus, il solo ciz (e  













@   Deecke interpretava lxxx ez cimqm come un unico numerale del valore di ‘@80’: ‘ottanta’ era dato in cifre, quindi ez che fungeva da congiunzione (parallela al latino et), cimqm analogo al latino centum  (Deecke @884a, p. @44; Deecke @884b, p. vii, e p. ix su cimqm < *kmto˘m; Deecke @885a, pp. @7-@8;  Deecke @885b, p. 253); Lattes prende in considerazione solo avils lxxx, rapportandolo ad una notizia di Censorino (Cens. @4, @5) riguardante le credenze degli Etruschi sulla durata della vita umana (Lattes @9@@, col. 303, cfr. anche Ribezzo @929a, p. 74-76, e Buonamici @932, p. 358, che riprendendo Ribezzo traduce avils lxxx ez con annorum octoginta); Cortsen intende ez come ‘Eier’, sulla base di un passo di Giovenale (Iuv. v 84-85) in cui una cena di uova è considerata un pranzo da funerale: quindi, lxxx ez sarebbe ‘80 Eier’ (Cortsen @939, pp. 275-276). Steinbauer traduce cauqas tuqiu avils lxxx con ‘für Cautha ein Gelübde von/mit 80 Jahren’, chiedendosi se ez non possa essere l’elemento verbale di una frase che altrimenti, nella sua interpretazione, non sembrerebbe averne (Steinbauer @999, p. 308); per Facchetti, infine, ez è omologo di eq ‘così’ (Facchetti 2000b, p. 26@; Facchetti 2002a, p. 86). 2   Torp @905, pp. 9-@0 (ripreso anche da Goldmann @928, p. 24@, nota 8; Trombetti @928, p. @69; Morandi @982, p. 37); successivamente anche Hermansen @984, p. @60, nota 5@. Già secondo Milani ez indicava il valore di avverbio del numerale precedente, anche se, rifacendosi a Deecke che traduce cimqm con ‘cento’, considerava tuqiu avils lxxx ez cimqm equivalente a ‘@80 volte in un anno’ (Milani @893, col. 60). 3   Agostiniani @995b, pp. 33-34 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 209-2@0). 4   Sui numerali in questione si veda ancora Agostiniani @995b, pp. 30-33 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 206-209). 5   La scelta di cezpalc per ‘ottanta’ è del tutto arbitraria: trova solo un labile confronto con la nota glossa in cui si afferma che Xosfer era il nome etrusco per il mese di ottobre (cfr. tle 858). 6   Cfr. Agostiniani @995b, pp. 37-38 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 2@3-2@4). 7   Ta @.@83 (eslz), at @.@08 (eslz, eslz), at @.@2@ ([h]uqz), Vc @.93 (cezpz, qunz), @.94 (ciz) e inoltre Ta @.@70, dove è attestata la variante in -zi (cizi, nurfzi). Nell’iscrizione at @.@05 l’indicazione dell’espletamento della carica di zilaq da parte del defunto (zilacnu) è accompagnata dalla parola elss´i, che potrebbe essere un errore di scrittura per *esls´i, il quale rimanderebbe evidentemente ad eslz ‘due volte’: si tratterebbe, a questo punto, di spiegare la presenza di una terminazione -s´i (foneticamente -[ši]), caratterizzante un avverbio numerale, di fronte alla consueta terminazione etrusca -z (-zi, come detto, è variante attestata solo in Ta @.@70).

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la variante citz) indica in genere che una certa azione del rito è da ripetere ‘tre volte’. @ Nel Piombo di Magliano il supposto avverbio numerale sembrerebbe invece strettamente connesso ad avils: avil-s è chiaramente un genitivo, di solito utilizzato nelle epigrafi funerarie per esprimere l’età del defunto:  

Ta @.95: larqi [.] einanei . s´eqres . sec . ramqas 2ecnatial puia . larq(a)l . cuclnies . velqurus´la . 3 avils . huqs . ce(a)lcls Larqi Einanei, figlia di Sπeqre (e) di Ramqa Ecnati, moglie di Larq Cuclnies, quello (figlio) di Velqur, di anni trentasei.

Una variante del tutto analoga è quella che prevede l’utilizzo di predicati come lupu o lupuce: Ta @.@83: larq : arnqal : plecus : clan : ramqaºsc : apatrual : eslzº : 2zilacnqas : avils : qunem : muvalcls : lupu Larq, figlio di Arnq Plecus e di Ramqa Apatrui, due volte essendo stato zilaq, ad anni quarantanove (= lett. cinquanta senza uno) 2 morto.  

Vs @.@78: vel leºi ºnies : larqial : ruva : arnqialum 2clan : velusum : prumaqs´ : avils : semfs´ : 3lupuce Vel Leinies, fratello (?) di Larq, e figlio di Arnq, e nipote (?) di Vel, ad anni otto (? sette? nove?) è morto.

Negli esempi sopra addotti, in cui il numerale non è espresso in cifre (come più di frequente nelle epigrafi funerarie) ma in lettere, è evidente che esso è marcato morfologicamente dal morfema di genitivo: huq-s ce(a)lc-ls, qun-em muvalc-ls (dove qun-em si configura come un ulteriore sintagma, con posposizione -em, retto da muvalc-ls), semf-s´; inoltre, il numerale al genitivo sembra in accordo morfologico con avil-s, anch’esso al genitivo. È da chiedersi, dunque, se anche *(cezpalc)ez avils del Piombo non sia piuttosto un sintagma al genitivo, e non un avverbio verbale. Le informazioni a disposizione sul genitivo dei numerali in etrusco 3 mostrano che, riguardo alle decine sopra ‘venti’ (zaqrum), come appunto ‘ottanta’, il genitivo è realizzato attraverso il morfema -ls (di origine incerta, foneticamente -l[s]): ‘trenta’, cialc*/cealc*, gen. cialc-ls/cealc-ls; ‘quaranta’, [sˇ]ealc*, gen. [sˇ]ealc-ls; ‘cinquanta’, muvalc*, gen. muvalc-ls; ‘settanta, ottanta, novanta (?)’, cezpalc, gen. cezpalc-ls, [s]emfalc*, gen. [s]emfalc-ls. 4 Allo stesso tempo, però, nel Liber linteus sono attestate per ‘trenta’ le forme, al genitivo, cealcuz (ll x.2), cealcus (xi.@2), cealcus´ (ix.f2), la cui terminazione è, in grafia fonetica, -u[s]. 5 Dal momento che le decine dei numerali sono atte 





  ll iii.@6-@7; vii.2-7; v.@7, @9.   Agostiniani @995b, pp. 32, 45-47 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 208, 22@-223). 3   Sull’argomento, in generale, si rimanda ad Agostiniani @995b, pp. 35-36 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 2@@-2@2). 4   Per tutte le forme attestate si rimanda agli indici degli et. L’ordine degli ultimi due numerali è arbitrario: ad essi andrebbe aggiunto *nurfalc, non attestato ma ricostruibile dall’avverbio numerale nurf-zi; manca inoltre il numerale per ‘sessanta’, che può essere ricostruito in *huqalc. Il genitivo cezpalcls, infine, è presente anche nella variante cezpalcals (Vc @.93). 5   È difficilmente accessibile il cea(l)cv[ attestato in Vs 4.@5: [-?- :] havrenie[s -?- 2-?-] fleres : c[-?- 3-?-]eºcºn : cea(l)cv[-?- 4-?-] hºinqieº. @

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state solo in Etruria meridionale, mentre nel Liber linteus è testimoniata una varietà linguistica di etrusco settentrionale, si è incerti se il genitivo in -u[s] sia una variante propria del testo delle bende o, piuttosto, un allomorfo geografico caratterizzante la varietà settentrionale di etrusco, rispetto a -l[s] della varietà meridionale. @ Rix 2 ha tentato di spiegare questa discrepanza ipotizzando che il genitivo delle decine in etrusco fosse, originariamente, */-alcv-s/ (simile al lemnio sialcvis/ s´ialcveis´ ‘di quaranta’ 3), ipotizzando inoltre la presenza nel sistema fonologico etrusco di una spirante labiovelare /cv/; se così fosse, da */-alcv-s/ si sarebbe avuta, da una parte, per successiva vocalizzazione del tratto velare, la variante settentrionale (o peculiare del Liber linteus) -alcus; dall’altra, emergendo invece la componente labiale, la variante meridionale -alcls. La forma ricostruita (arbitrariamente) *(cezpalc)ez del Piombo di Magliano, la quale codifica una varietà meridionale di etrusco più antica delle attestazioni di numerali al genitivo -alcls, difficilmente però potrebbe costituire uno stadio intermedio tra */-alcv-s/ e -alcls; peraltro, la validità dell’ipotesi di Rix di una terminazione originaria */-alcv-s/ è stata ridimensionata da Agostiniani, il quale pensa piuttosto ad una terminazione pre-storica di genitivo delle decine */-ls/, che si sarebbe conservata in etrusco meridionale, sarebbe diventata -us in etrusco settentrionale (Liber linteus) per il carattere velare di [l] in etrusco, mentre in lemnio la terminazione -is potrebbe sottintendere un carattere palatale della stessa [l] (cfr. lemnio avis = etr. avils). 4 In ultima analisi, sembra da respingere l’ipotesi che lxxxez del Piombo di Magliano rappresenti, sul piano morfologico, un genitivo. A questo punto, l’ipotesi più probabile è che *(cezpalc)ez sia, effettivamente, un avverbio numerale significante all’incirca ‘ottanta volte’ e che vi sia una relazione con avils, anche se sfugge sotto quale forma; un’interpretazione come ‘ottanta volte all’anno’ sembra quasi scontata, 5 anche se, come visto sopra, le informazioni sui numerali in etrusco e sui loro contesti di utilizzo non permettono di stabilire con certezza la relazione a livello morfologico tra avils e *(cezpalc)ez.  









Nell’analisi della prima parte della prima sezione è stata finora tralasciata la sequenza costituita dalle tre parole cimqm casqialq lacq; questa sequenza, come detto sopra, ritorna anche nella seconda sezione; inoltre, la prima parola, cimqm, appare da sola anche nella terza. Generalmente si intende cimqm come un locativo cimq a cui si appoggia la nota congiunzione enclitica -m: questa interpretazione, sul piano combinatorio, è data sia dalla presenza di cimq nel Liber linteus (x.@@, xi.f3) e nel Cippo Perugino (Pe 8.4a22), sia dalla correlazione all’interno dello stesso sintagma con casqialq e lacq, che verosimilmente presentano la stessa terminazione e, pertanto, si qualificherebbero essi stessi come locativi; si noti, inoltre, come il confine di morfema in cim-q blocchi l’assimilazione parziale progressiva della nasale alla   Si veda Agostiniani @995b, pp. 32-33 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 208-209).   Rix @984, p. 222. 3   Cfr. Agostiniani @986, p. 23 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @0@). 4   Agostiniani @995b, pp. 35-36 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 2@@-2@2). 5   Come si è visto, una traduzione analoga, anche se su basi diverse, era stata già proposta da Milani. @

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dentale che segue, come si sarebbe atteso secondo le regole della fonologia naturale: su questo argomento si ritornerà in seguito nel capitolo dedicato alle defixiones, nella discussione sulla particella inpa (cap. iv.4). Per comprendere, pertanto, la funzione di questa sequenza nell’economia della prima sezione del lato a del Piombo, è necessario riassumere tutte le conoscenze circa l’utilizzo di terminazioni in -q(i) (e -t(i), -te, -tei, verosimilmente omologhe sul piano della funzione) nella documentazione etrusca. L’ermeneutica dell’etrusco ha da tempo interpretato queste terminazioni come posposizioni, con un valore generico di locatività: @ esse sono utilizzate come elementi enclitici che si appoggiano ai sostantivi, che possono essere determinati da particolari morfemi di caso. Nella declinazione nominale, generalmente la posposizione -qi (e omologhi) è riscontrabile in tre situazioni diverse: o associata al morfema di locativo -i; o collegata direttamente al caso non marcato; in alcuni casi minori, segue sostantivi con morfemi di genitivo. Il morfema locativo -i, in età recente, se è preceduto dalla vocale -a, dà luogo con essa alla terminazione -e: ad esempio, si confronti, nella Tabula Capuana, il locativo turza-i (tc @4, di fronte al caso retto turza in tc @3, @6, 22 ecc.), con il recente capue (< *capua-i) di Ta @.@07; l’evoluzione dell’accento etrusco da un modello prevalentemente musicale ad uno tonico protosillabico, nella prima metà del v secolo a.C., ha provocato fenomeni di mutamento vocalico e caduta di vocali, tra i quali rientra anche il caso del locativo -a-i > -e; 2 la manualistica tradizionale tende a considerare analoghe le formazioni in cui la posposizione, in età recente, si associa al termine al caso non marcato: una forma del tipo zilcqi, cioè, può essere ricondotta ad un originario *zilc-i-qi, dove la caduta di -i è dovuta alla posizione postonica. 3 In effetti, le forme con -q(i) agglutinato al caso non marcato sono quasi esclusivamente sostantivi in consonante (come, appunto, zilc). 4 In alcune iscrizioni, infine, si trova la posposizione -q(i) associata a forme caratterizzate morfologicamente dal genitivo -(a)l, come unialqi (tc @3) o tarcnalqi (at @.@00); 5 il valore di genitivo alla terminazione che precede la posposizione è assicurato principalmente da due testimonianze arcaiche, in cui l’utilizzo del genitivo è trasparente: uniiaqi (Cr 4.2) e misalalati (Pa @.2). Una particolarità è riscontrabile nel fatto che i casi sicuri oggi documentati utilizzano tutti il genitivo ii -(a)l (e -(a)la arcaico, come misalalati): a dire il vero, però, non mancano proposte di individuare la sequenza morfologica genitivo + posposizione anche in presenza del genitivo i  









@   Si veda, in generale, Rix @984, p. 224; Cristofani @99@, p. 62; Facchetti 2002a, pp. 75-78; Rix 2004, p. 256. In precedenza, la posposizione locativa era considerata una marca di caso vera e propria, cfr. Pallottino @936a, p. 39; Pfiffig @969, p. 85. 2   Cfr. Rix @984, pp. 2@6-2@7; Agostiniani @992, p. 52 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @40). 3   Si veda Rix @984, p. 224. 4   Rix propone di individuare un’eccezione alla regola in cela-ti (Ta @.66), tradotto con ‘in the burial chamber’ (Rix 2004, p. 256). 5   Cristofani fa notare che i termini in -a come, ad esempio, tarcna*, dovrebbero avere un genitivo in -s (Cristofani @99@, p. 39); ma la selezione del morfema di genitivo in etrusco non è su basi esclusivamente fonetiche, come dimostra il caso del morfema diminutivo -za (si veda Agostiniani 2003 = Agostiniani 2003-2004, i, pp. 347-357).

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-s, ad esempio in craps´ti del Liber linteus e nella parola lursq del lato b del Piombo stesso. @ Dal punto di vista della funzione e del significato, Rix aveva proposto di intendere parole come unialqi come «locativi di genitivi», ovvero locativi di suffissazioni possessive, da tradurre come ‘nel (santuario) di Uni’; 2 nel suo ultimo lavoro di descrizione complessiva dell’etrusco, ha parzialmente rivisto la sua teoria e ha proposto di intendere le costruzioni genitivo + posposizione in maniera diversa, ovvero come pertinentivi: la posposizione -q(i), in effetti, in età tarda sembra sostituirsi al morfema di locativo -i, probabilmente proprio perché quest’ultimo, a causa dei fenomeni di mutamento vocalico e caduta legati all’affermazione dell’accento tonico, perde trasparenza morfologica. 3 L’ipotesi Rix non sembra tener conto, però, del fatto che la costruzione genitivo + posposizione è nota e produttiva almeno fin dal vi secolo a.C., come mostra il già citato misala-la-ti (Pa @.@). 4 Recentemente Van Heems ha studiato le formazioni con locativi e posposizioni locative e ha ipotizzato che le forme come tarcnalqi fungano da complementi di provenienza: ‘da Tarquinia’. 5 L’ipotesi non tiene però conto del fatto che una funzione indicante provenienza sembra propria dell’ablativo e non del genitivo, come indicato, da ultimo, da Adiego, in un recente lavoro sulla Tabula Cortonensis:  









cên . zic . zicuce . sparzês´tis´ . s´azleis´ . in @9qucti . cusuquras´ . suqiu . ame ... questo scritto qui è stato scritto dalla tavoletta bronzea (? lignea?) che nella casa (?) dei Cusu è posta. 6 ...

a@8



@   Su craps´ti cfr. Belfiore 20@0, p. @@0; su lursq cfr. Maras @998a, pp. 329-330. La forma craps´ti è, foneticamente, [crapsti]: dal momento che il Liber linteus codifica una varietà settentrionale di etrusco, la sibilante dovrebbe essere in realtà palatale ([š]), poiché è noto che in etrusco settentrionale le sibilanti seguite da occlusive si palatalizzano (etr. sett. [š]purina di fronte all’etr. merid. [s]purina); l’assenza di tale fenomeno può essere dovuta ad un blocco derivante dal confine morfologico tra sibilante e dentale, nonché dalla necessità di rendere riconoscibile il morfema di genitivo -s: questo costituirebbe un sostegno all’ipotesi di segmentazione interna crap-[s]-ti; inoltre, si consideri la parola crapisces dell’iscrizione di Pulenas (Ta @.@7), presumibilmente un ablativo determinato che restituisce una forma non marcata crap-* (crapisces in struttura profonda sarebbe quindi *crap-i-s=c(a-i)-s): su quest’ultima parola si deve segnalare anche la nuova lettura di Wylin (Wylin 2000, p. 298, nota 795: crapicces), poco motivata per la presenza di un doppio gamma, del tutto singolare per la fonologia etrusca in cui la lunghezza consonantica non sembra avere funzione distintiva, e conseguentemente per la grafia etrusca che non notava le geminate. 2 3   Rix @984, p. 224.   Rix 2004, p. 953. 4   Rix parte dall’ipotesi che il morfema di pertinentivo ii arcaico fosse *-la-i, diventato poi -le già in età protostorica (cfr. Rix 2004, p. 953); premesso che monottongazioni di questo tipo (-a-i > -e) sembrano note solo a partire dall’età tardoarcaica, è comunque interessante notare che la stele di Lemno, che secondo Agostiniani testimonia «una tradizione linguistica che ha caratteristiche più arcaiche delle più antiche attestazioni epigrafiche dell’etrusco d’Italia» (Agostiniani @986, p. 42 = Agostiniani 2003-2004, i, p. @20), riporta la sequenza holaies´i fokiasiale, una formula onomastica al pertinentivo, con -le (e non *-lai). Sull’argomento si rimanda, da ultimo, ad Agostiniani 20@@, dove è chiarito il valore di dativo del caso 5 pertinentivo etrusco.   Van Heems 2006 (in particolare pp. 55-56). 6   Cfr. Adiego 2005, pp. @2-@5 (a p. 9 Adiego suggerisce che l’ablativo etrusco possa avere anche una valenza temporale, da riconoscere nel sintagma cs´ êsis´ ‘from this (moment)’; cfr. inoltre Agostiniani 2008, p. @76, per una valutazione del tutto positiva dell’ipotesi di Adiego sull’ablativo); l’idea che l’ablativo potesse esprimere, oltre che l’agente, anche i concetti di separazione, origine e provenienza, è già in Facchetti 2002a, pp. 39-44 (e cfr. Facchetti 2005a, sostanzialmente in accordo con quanto sostiene Adiego sul passo della Tabula Cortonensis). Un’ulteriore prova del fatto che l’ablativo etrusco indichi provenienza si troverebbe anche, secondo Colonna, nell’iscrizione Pe 3.2: peqns´ . calu2s´nal . aule . cu3rane .

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Un altro problema è quello relativo alla possibilità che la posposizione -q(i) funga da elemento di accordo all’interno del sintagma: i dati a disposizione e le considerazioni di carattere tipologico porterebbero a negare questa eventualità, dal momento che la posposizione è un elemento grammaticale che caratterizza il sintagma nel suo complesso; @ anche l’evidenza dei documenti sembra andare in questo senso, ad esempio nella sequenza del Liber linteus che segue:  

ll v.6: ... s´acnicleri cilql s´pureri meqlumeric ... ... per il santuario dell’arce (?), per la città e per il popolo ....

Qui la ripetizione della posposizione -ri, che dal punto di vista del comportamento morfologico deve essere considerata affine a -q(i), ha la funzione di distinguere tre diversi sintagmi in correlazione tra loro (si noti la congiunzione enclitica -c); cilql, che funge da specificatore di s´acnicleri all’interno dello stesso sintagma, è caratterizzato solo dal morfema di genitivo -l, ma non dalla posposizione stessa. 2 Allo stesso tempo, però, la documentazione testimonia casi in cui la ripetizione di -q(i) ha chiaramente la funzione di accordo tra le parti del sintagma, ad esempio in clqi mutnaiqi ‘in questo sarcofago’ (Ta @.8@): 3 una parziale spiegazione può essere ricercata nel fatto che i sintagmi come clqi mutnaiqi prevedono la presenza di un dimostrativo, che potrebbe seguire regole grammaticali diverse, ma questo è evidentemente un ad hoc ermeneutico. Al quadro complessivo appena presentato sul locativo etrusco si aggiunge una serie di considerazioni su un’ulteriore categoria di parole che presentano la terminazione -q, e che pertiene alla morfologia verbale: è infatti noto da tempo che certe forme, che sono state riconosciute come verbali, sono caratterizzate da questa terminazione; nel Liber linteus, ad esempio, troviamo tanto la forma nunqen che nunqenq, in contesti del tutto analoghi. 4 In alcuni casi è inserito prima di ulteriori suffissi verbali, come in svalqas, da confrontare con svalas:  





aules´ . tle4naceis´ tenicun5ce, che, parafrasando, è tradotta: ‘alla (dea) Peqn Calus´nei, Aule Curane (figlio) di Aule da(l pago di) *Tlenace sciolse il voto (o simili)’ (Colonna 2005b, pp. 2473-2476); la spiegazione di Colonna si basa sulla presenza di tlenaceis´ nell’iscrizione del Putto di Montecchio (Co 3.6) in evidente accordo sintattico con l’ablativo tuqines´, e sull’ipotesi, già discussa sopra, del rapporto tra tuqina e l’umbro tota ‘comunità’, in virtù del quale l’intero sintagma sarebbe da tradursi ‘dal pago di *Tlenace’; come proposto sopra, però, la questione relativa a tuqina merita di essere totalmente riconsiderata.   Si veda, da ultimo, ancora Van Heems 2006, pp. 46-47.   Per Adiego nel sintagma s´acnicleri cilql la testa non è rappresentata da s´acni(cle-ri) ma da cilq(-l), mentre s´acnicle(-ri) sarebbe un aggettivo determinato dal dimostrativo -ca: lo stesso Adiego deve però riconoscere la discrepanza tra s´acnicle(-ri), sicuramente pertinentivo, e cilql, che ha l’aspetto di un genitivo, a meno che non si ipotizzi un locativo in -l, eventualmente presente anche nelle forme tipo tarcna-l-qi (cfr. Adiego 2006a, pp. 209-2@0). È evidente però che la posposizione -ri è riferita al sintagma nel suo complesso, quale che sia la sua struttura interna, e non ad uno solo dei suoi elementi costitutivi. 3   La sequenza clqi mutnaiqi in Ta @.8@ è frutto di un emendamento degli et per l’originale clqi mutniaqi,  evidentemente un errore dell’estensore del testo. Van Heems non elude il problema derivante dalle sequenze analoghe a quella presentata, benché non sia chiaro come intenda la funzione di (e)clqi: «clqi est un déictique renvoyant au contexte tombal» (Van Heems 2006, p. 47, nota 34). Più articolata la sua posizione nel lavoro sull’accordo (Van Heems 20@@, pp. 408-4@0), dove lo studioso ritiene che forme come clqi testimoniano una grammaticalizzazione della posposizione a marca di caso, generata dalla perdita di trasparenza della terminazione originaria. 4   Per una valutazione dei passi del Liber linteus con le forme citate si rimanda agli indici degli et. @

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Ta @.9: velqur : partunus : larisalis´a : clan : ramqas : cuclnial : zilc : cecaneri : tenqas : avil : svalqas : lxxxii Velqur Partunus, quello figlio di Laris (e) di Ramqa Cuclni, la magistratura superiore (?) avendo ricoperto (?), anni avendo vissuto (?) ottantadue. 2

at @.@08: av[le . al]eqnas . [a]rnqal . cla[n .] qancvilusc . ruvfial . zilacnº[ce] 2spureqi . apasi . svalas ... Aule Aleqnas, figlio di Arnq e di qancvil Ruvfi, fu zilaq nella città del padre (?) avendo vissuto (?) ... .

Wylin sostiene che il morfema -q-, in etrusco, conferisce alla forma verbale il valore aspettuale dell’imperfettività/duratività; @ Rix sostiene invece che i nomi verbali in -q designano un’azione che avviene contemporaneamente ad un’altra azione, quindi, ad esempio, ll iv.@4: ... celi . suq hecs´q . vin(u)m ... sarebbe ‘poni a terra versando il vino’. 2 Le conoscenze riassunte qui sopra sulla terminazione -q, sia inerenti la morfologia nominale sia quella verbale, possono essere utilizzate per comprendere nello specifico la funzione e il significato della sequenza cimqm casqialq lacq. Come detto sopra, la prima parola non presenta particolari problemi ed è segmentabile, in prima battuta, in cimq-m; 3 cimq può essere considerata con un certo grado di sicurezza una forma al caso non marcato con posposizione -q, analoga a quelle descritte sopra; la struttura della seconda parola, casqialq, mostra una certa somiglianza con costruzioni locative tipo unialq e, pertanto, dovrebbe rimandare ad un sostantivo al caso non marcato *casq(i)-; infine, lacq, delle tre è la più incerta: potrebbe essere affine a cimq, e quindi rimandare ad un sostantivo al caso retto *lac-, ma potrebbe anche essere, pur con minore probabilità dato il contesto, una forma verbale analoga a trinq. Sul piano semantico vi sono meno certezze: la voce cim, come anticipato sopra nella discussione su hevn, è tradizionalmente collegata con il significato di ‘tutto’. 4 Oltre a cimqm, presente tre volte sul Piombo, e cimq, due volte nel Liber linteus (x.@@, xi.f3) e una nel Cippo di Perugia (Pe 8.4a22), è testimoniata, ancora nel testo della Mummia, cim (iii.@3, vi.@6, vii.@@, xii.4), presente una volta anche nell’iscrizione di Pulenas (Ta @.@7); più incerti, la forma ciem ancora nel Cippo (Pe 8.4a@3), e  







2   Wylin 2000, pp. @52-@57.   Rix 2004, p. 959.   Si è già detto sopra che, nella prospettiva ‘indogermanica’ di Deecke e altri, il termine era considerato affine al latino centum (Deecke @884a, p. @44; Deecke @884b, p. ix; Deecke @885a, p. 253; Deecke @885b, p. @7; cfr. anche Lattes @894, p. @64). 4   Pfiffig @96@, pp. @38-@39, @43; Pallottino @966b, p. 203. Torp, senza motivare particolarmente la sua scelta, proponeva di considerarlo forma verbale e lo traduceva con ‘sacrificandum est’ (Torp @905, p. @0); in precedenza, però, aveva considerato cimqm come forma articolata di cim, che considerava un sostantivo, «irgend eine Art von Opfer» (Torp @902-@903, ii, pp. @04-@05), mentre altrove (ii, pp. 20, @00) considerava ci- altra cosa rispetto a cim, e traduceva ci- con ‘all’; Trombetti considera cimqm un composto (cim-qm) dal significato equivalente al lat. quot tot, ‘altrettanti’ (Trombetti @928, pp. @@4-@@5); Goldmann sostiene che cimqm è uno degli elementi, insieme a casqialq e lacq, che specificano gli aspetti del sacrificio da effettuare a cauqa (Goldmann @928, p. 24@). Ribezzo traduceva con unoquoque (Ribezzo @929a, pp. 7677, @02; cfr. Buonamici @932, p. 358); per Cortsen, che riconosce la particella enclitica -m, cimq equivale a ‘Libation’ (Cortsen @939, p. 275). Steinbauer ha proposto di leggervi un’indicazione temporale, partendo dall’equazione ci- = ‘früher, vorherig’ (Steinbauer @999, p. 309). @

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l’incompleto cim[ in una delle leges sepulcrales di Tarquinia (Ta 5.6). Di seguito le porzioni di testo appena citate: cimq:

ll x.@@: ... hinqqin . cimq . ananc . es´i . vacl ... ll xi.f3-4: ... ces´um . tei . lanti . ininc . es´i . tei . cimq f4streta ... Pe 8.4a20-23: ... eca . velqinaquras´ . q2@aura helu tesne ras´ne cei 22tesns´ teis´ ras´nes´ cimq s´p23elq ... cim:

ll ll ll ll Ta

iii.@3-@4: ... trin . qezine . ciº ºm . fler @4tarc . mutinum . anancves´ . nac . cal . tarc ... vi.@4-@6: ... caticaºq . @5luq . celqº im @6cim . scucie . acil ... vii.@@-@2: ... cim . enac . usil @2cerine ... xii.4: ... cim . enac . uncva . meqlumq . puts ... @.@7: ... 6mele . crapisces . puts . cim . culsl . l ºeºpºrnal . ps´l . varcti . ceºrine ...

ciem:

Pe 8.4a@2-@5: ... clen qunculqe @3falas´ . ciem fus´le . velqina @4hinqa cape municlet masu @5naper s´ran czl qii fals´ti ... cim[:

Ta 5.66-7: ... enac : cºeli 7ceºsasºin : quncum : enac ci ºmº[ ...

A queste è necessario aggiungere le testimonianze delle forma cis´, attestata nel Liber linteus in contesti perlopiù ricorrenti, essenzialmente in due formule: sei volte nel sintagma tins´i tiurim avils´ cis´, un chiaro riferimento temporale; @ cinque nella correlazione cis´ esvis´c, che sembra specificare alcuni aspetti dell’invocazione che precede (nunqen). 2 Nella prima sembra abbastanza evidente che cis´ sia in relazione sintagmatica con avils´, e che quindi ne condivida lo status morfologico: se, pertanto, avils´ è genitivo, lo stesso sarà cis´, per il quale si dovrà ipotizzare una forma al caso retto *ci-. Analogamente, la sequenza cis´ esvis´c pone in correlazione polisindetica (si noti la congiunzione -c) i due elementi cis´ e esvis´, da considerare forse di nuovo genitivi, indicativamente da *ci- e *esvi-. 3 Ora, qual è la relazione tra *ci- e le forme precedenti, in cui si riconosce una voce cim? *ci-, al genitivo, sembra specificare avils´, quindi assolve le funzione di un aggettivo, che però è passibile di sostantivazione, se è vero che in cis´ esvis´c i due elementi del sintagma sono sullo stesso piano. La voce cim, in alcuni contesti, potrebbe  





  ll ii.5-6; iii.2@-22; iv.2; viii.@5; ix.3-4, @0-@@.   ll iv.@4-@6, @9-20; v.@@; ix.@8-@9, 22-23. A queste attestazioni di ci-* sono da aggiungere l’antroponimo ciius di ree 65-68, 9@ e ci di ree 65-68, 92; la voce ciu, letta da G. Colonna in ree 69, 62; forse anche cias di Cr 4.3, verosimilmente epiteto di uneial, pur in una sequenza non del tutto chiara (cfr. al riguardo Colonna 2000, pp. 300-30@; Rix, al contrario, negli et lascia la sequenza uneialcias non segmentata; per una discussione si rimanda a Belfiore 20@0, pp. 72-73); la sequenza ]cia in Cr 0.57 (cfr. ancora Colonna 2000, p. 300); la sequenza ]cia[ in ree 73, @ (Volterra), che Marisa Bonamici considera epiteto divino; infine, ci su un cippo tuscaniese di vi sec. a.C. ca. (cfr. G. Colonna, in ree 74, 68). Per ci Colonna propone di recuperare l’ipotesi di Goldmann, il quale considerava il termine affine al lat. iustus, iustum, evidentemente con funzione religiosa (cfr. G. Colonna, in ree 65-68, 92; 69, 62; 74, 68). 3   In realtà potrebbero anche essere due ablativi, da *ci-i-[s] e *esu-i-[s]; questo non cambia di molto l’interpretazione che si offre relativamente ai rapporti interni della sequenza. @

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rimandare allo stesso *ci-, se si considera il my finale l’enclitica avversativa etrusca; questo non è però possibile nel Piombo di Magliano, né nel Cippo di Perugia, né in quei passi delle bende del Liber linteus in cui compare cimq(m), dove il my è chiaramente parte integrante del tema nominale; inoltre è stato notato @ che *ci-, come detto, funge da aggettivo, mentre cim, nei contesti più perspicui come nell’iscrizione di Pulenas (Ta @.@7) e in ll vii.@@-@2, sembra essere il soggetto del verbo (passivo) cerine, che rimanda all’azione di edificare, costruire, realizzare materialmente (cfr. Cr 5.3: vel Ä matunas Ä larisalisa Ä 2an Ä cn Ä s`uqi Ä cericunce ‘Vel Matunas, quello (figlio) di Laris, che questa tomba fece costruire’); quindi, cim sembrerebbe un oggetto fisico, che può essere costruito, e passibile di essere determinato come sintagma locativo (cimq). Il significato, di conseguenza, andrà ricercato nell’ambito sacrale, anche se una più precisa individuazione del campo semantico di riferimento non sembra al momento possibile. La relazione con *ci- potrebbe essere spiegata ipotizzando che cim ne sia un derivato, e quindi appartenente alla stessa base semantica; un suffisso derivativo -m, però, al momento non sembra attestato nella documentazione etrusca. 2 Del resto, non è sicuro nemmeno che le due forme siano in qualche modo collegate. 3 Ciò che invece sembra piuttosto evidente è che, dando seguito all’analisi del termine appena proposta, cim difficilmente potrà significare ‘tutto’, come invece sostiene la manualistica tradizionale. Per casqialq i confronti disponibili sono notevolmente ridotti rispetto a cimqm. 4 Se si esclude un verbo al preterito attivo castce in at @.4@, dalla lettura incerta e  







  Cfr. Belfiore 20@0, pp. 72-73.   Un possibile morfema derivativo -im potrebbe risultare dalla considerazione della coppia man - manim (cfr. sopra Wylin); ora, se si ammette una relazione tra man e manim, è subito evidente che essi si trovano nello stesso rapporto che potrebbe intercorrere tra *ci- e cim, ipotizzando per quest’ultimo una formazione del tipo *ci-im. 3   La forma ciem del Cippo di Perugia (Pe 8.4a@3) contribuisce a rendere ancora meno chiara la situazione: per Torp il sintagma ciem fus´le è da intendere come il lat. tota de possessione, poiché ciem deve essere segmentato in ci-em, dove -em è il suffisso ‘privativo’ dei numerali (si veda sopra), mentre ci- è un’ulteriore attestazione, al caso retto, dell’aggettivo per ‘tutto, ogni’, altrimenti noto solo al genitivo cis´ (Torp @902-@903, ii, p. @00; come si è visto sopra, Torp tende a distinguere le attestazioni con ci-* da quelle con cim). Pfiffig accoglie l’idea di Torp di individuare in ciem il suffisso ‘privativo’ -em, ma considera la traduzione ‘tota de possessione’ illogica, pensando piuttosto che il passo faccia riferimento a qualcosa che deve essere tolto dal tutto: ‘(aliquid) de tota possessione’ (Pfiffig @96@, pp. @38-@39). Facchetti, invece, ritiene che ciem sia da segmentare in cie-m (-m congiunzione «nel senso di cum-que»), quindi derivato di ci-* ‘tutto, ogni’ (genitivo cis´), di cui cie- potrebbe essere una forma arcaizzante (Facchetti 2000a, p. 22, nota 83): in definitiva, Facchetti suppone che la congiunzione -m sia stata lessicalizzata nel determinatore ci(m), tanto da dare origine a forme con posposizione locativa come, appunto, cimq (cfr. Facchetti 2002a, p. 67). È un dato di fatto, però, che i contesti di occorrenza di ci-* e cim sembrano del tutto diversi. 4   Per Deecke, casqialq è ‘Opfer’, parallelo ad un latino ricostruito *castialitia (Deecke @884a, p. @44; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. @7; Deecke @884b, pp. 253-254); Torp, invece, è il primo a riconoscere il valore di locativi tanto di casqialq quanto di lacq: «casqialq lacq are very probably two locatives, the former that of a genitive (compare lurs-q), or of an adjective terminating in -l. The two locatives indicate the place in which the sacrifice is to be performed ‘in (or ‘upon’, ot ‘at’) the casqial lac’» (Torp @905,  p. @0; cfr. anche Lattes @9@@, col. 303, e Goldmann @928, p. 24@). Per Trombetti casqialq lacq è equivalente a ‘nel puro luco’, dal momento che cas- rimanda al latino cas-tu-s ‘casto, purificato’, mentre lacq, affine a lacuq della Tabula Capuana, è alla base del termine laucu-me ‘lucumone’, e corrisponde al lat. lu¯cu-s ‘bosco sacro’ (Trombetti @928, pp. @43, @72-@73); Ribezzo @929a, p. 77, traduce con ‘Casthiae lustro’ (cfr. anche Buonamici @932, pp. 358-359), intendendo casqialq come il locativo di un toponimo, al pari di tarcnalq; Cortsen rinuncia ad interpretare casqialq, che «völlig unbekannt ist» (Cortsen @939, p. 275). @

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comunque poco trasparente, non sembrano esservi termini di paragone apprezzabili. Del resto, pur ammettendo che si tratti di un genitivo seguito da posposizione, non è chiara l’esatta segmentazione del termine; a partire dal possibile genitivo casqial*, si può ipotizzare una suddivisione *casqia-l, dove *casqia potrebbe essere un termine ulteriormente analizzabile come *casq-ia, una derivazione aggettivale in -ia (cfr. ree 55, @@8: ... selvansl tularias ... ‘di Selvans (quello) del confine’). La prima difficoltà è però testimoniata proprio dall’iscrizione ree 55, @@8, dove il suffisso in -ia seleziona il genitivo -s, e non -(a)l. Il problema, del resto, ricalca la questione già discussa sopra per quanto riguarda forme come tarcnalqi e l’utilizzo del morfema di genitivo ii. Allo stesso modo, anche segmentando *casqi-al, si avrebbe a che fare con un termine in -qi: questa terminazione, nelle poche attestazioni sicure, sembrerebbe caratterizzare nomi animati, come il prenome venqi (Vc 7.30) di uno dei personaggi della tomba François a Vulci, o il termine camqi (Ta @.96, @.@@5), nella formula camqi eterau, carica caratterizzante la carriera dell’uomo politico etrusco. Una suddivisione in *casq-ial, infine, porta ad ipotizzare un sostantivo *casq: il comportamento morfologico dell’ipotizzato *casq risulterebbe affine ad altri sostantivi in -q, i quali utilizzano il genitivo ii -(ia)l: prenomi, come arnq e larq (gen. rispettivamente arnq(i)al e larq(i)al, le attestazioni sono innumerevoli); nomi comuni inanimati, come cilq (gen. cilql). @ Anche in questo caso, però, oltre non è possibile andare. Rimane lacq: questa è la forma più oscura, ed è incerta anche la sua natura grammaticale, se cioè sia un sostantivo o, piuttosto, un verbo morfologicamente affine, ad esempio, al nunqenq a cui si è fatto riferimento sopra. 2 D’altra parte, un’interpretazione come forma verbale imperativa in -q si inserirebbe con difficoltà in una frase in cui, come sostenuto sopra, il predicato centrale sembra essere tuqiu. È pertanto consigliabile seguire l’ipotesi tradizionale che vede in lacq una forma di sintagma locativo, almeno in via provvisoria, finché non vi siano elementi per sostenere tesi differenti. La forma lacq, dunque, si configura come uno dei tanti nomi in consonante, al caso non marcato, seguiti dalla posposizione -q(i): nell’ipotesi sopra esposta, sarebbe riconducibile ad una forma soggiacente *lac-i-q, o simili. Sul piano dei confronti esterni, da rilevare la sequenza lac, graffita sull’interno della vasca di un calice di bucchero databile alla seconda metà del vi secolo a.C., che Colonna ipotizza essere il nome stesso del vaso. 3 Altri confronti, più incerti, sono le due forme della Tabula Capuana lacuq e lacq (entrambe in tc 25). 4  







@   Il Liber linteus restituisce anche una forma cilqs´ (ll ii.3; v.3; viii.@4; ix.2, @0; xi.9; ll ii. n2 e viii.f6 sono di congettura), apparentemente genitivo i in -[s]: Adiego, seguendo un’idea di Steinbauer, sostiene però che possa essere ablativo, essendo attestato nel sintagma s´acnics´tres´ cilqs´, la cui struttura morfologica profonda dovrebbe essere *[s]acni=c(a-i)-[s]=tr(a-i)-[s] cilq(-i)-[s] (cfr. Adiego 2006a, pp. 209-2@0). 2   Deecke riteneva lacq affine al latino lac, lactis ‘latte’, e lo considerava una sorta di strumentale: ‘mit Milch’ (Deecke @884a, p. @44; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. @8; Deecke @885b, pp. 253-254; così anche Lattes @894, p. @64). Per ulteriore bibliografia si veda quanto detto sopra riguardo casqialq. 3   Colonna @993, pp. 25-28. 4   Il primo ad affiancare lacq del Piombo a lacq e lacuq della Tabula Capuana è Cortsen, che lo considera «dasselbe Wort»; poiché nella Tabula lacuq è collegato a nunqeri, che indicherebbe la necessità che qualcosa sia offerto, Cortsen ritiene che lacq debba essere un qualche tipo di offerta (Cortsen @939, p. 275).

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Nei paragrafi precedenti si sono affrontati i problemi di segmentazione interna delle forme della sequenza cimqm casqialq lacq, e si è proposta una prima lettura sulla base dei confronti con la documentazione etrusca disponibile: è opportuno, ora, analizzare in che modo ogni singolo elemento possa essere rapportato agli altri, e infine come tutta la sequenza si collochi nell’economia della prima frase del Piombo. Il primo problema è relativo alla natura dei rapporti sintagmatici: la questione, cioè, è stabilire se le tre parole si trovino in una posizione di correlazione (per asindeto), e quindi individuino tre sintagmi indipendenti, oppure se vi siano relazioni di dipendenza tra le stesse; Facchetti @ sostiene parzialmente la seconda ipotesi, traducendo cimqm con ‘ossia, in tutto’ (rifacendosi all’esegesi tradizionale del termine), e supponendo che -q costituisca elemento di accordo interno al sintagma tra casqialq lacq, dove il primo, in quanto genitivo, è specificazione del secondo: ‘ossia, in tutto (quindi, interamente) nel *lac- del *casqi-’. Si è visto sopra come, in primo luogo, cimq(-m) debba essere considerato piuttosto un locativo di un termine che denota probabilmente un oggetto fisico, il cui significato rimane oscuro: ‘ossia, nel cim’; quindi, sempre per quanto è stato mostrato prima, benché l’idea che -q funga da elemento di accordo non possa essere del tutto esclusa, sembra più opportuno ritenere che cimq(-m), casqialq e lacq costituiscano tre sintagmi locativi indipendenti sul piano grammaticale, caratterizzati ciascuno dalla posposizione. A questo punto, la domanda è quale sia la funzione testuale dei tre locativi, apparentemente indipendenti ma coordinati per asindeto. Una spiegazione plausibile può essere formulata a partire dalla riconsiderazione della parte della sezione finora analizzata: è evidente, infatti, che nella frase si indica che una certa azione (nes´l man) è stata compiuta o altro (tuqiu) in favore della divinità Cauqa (cauqas) in certi contesti temporali (avils lxxxez, hevn avil); è altrettanto plausibile che, tra le informazioni fornite, vi sia anche il luogo (o i luoghi) in cui è avvenuta l’azione. Soprattutto, però, è possibile che le informazioni locative fornite riguardino livelli più complessi: vale a dire, non solo dove è avvenuta l’azione, ma anche, ad esempio, da dove a dove, in che direzione ecc. Si è parlato sopra dell’ipotesi Van Heems circa un’interpretazione del genitivo + posposizione come sintagma indicante provenienza, e di come tuttavia essa non abbia ragion d’essere, in particolare in seguito agli studi di Adiego sull’ablativo etrusco; malgrado ciò, è del tutto naturale ipotizzare che anche in etrusco, come in altre lingue, una stessa adposizione, associata a casi nominali diversi, serva a codificare funzioni semantiche diverse, seppur correlate. Un caso piuttosto banale è quello del greco, dove, ad esempio, la preposizione metav individua funzioni diverse a seconda del caso a cui è associata: con il genitivo indica unione, compagnia (meta; tw`n polemivwn, ‘con i nemici’), con l’accusativo indica un rapporto temporale (meta; th;n  

Cristofani considera lacq forma sincopata di lacuq e ne dà una lettura come predicato verbale (imperativo), il cui significato rimane oscuro (Cristofani @995, pp. 53, 76, 96): anche un’interpretazione come locativo, però, non sembra del tutto impossibile.   Cfr. Facchetti 2000b, p. 26@; Facchetti 2002a, p. 86.

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mavchn, ‘dopo la battaglia’). Questa pluralità di funzioni è dovuta essenzialmente

all’evoluzione del sistema grammaticale del greco, da una fase iniziale fortemente sintetica (derivante direttamente dall’indoeuropeo @), dove la funzione del sintagma è data essenzialmente dal caso, specificato in seconda battuta da elementi avverbiali, ad una successiva, dove gli stessi elementi avverbiali diventano adposizioni e partecipano alla definizione della funzione grammaticale del sintagma. 2 È verosimile che in etrusco si abbia una situazione analoga, dove la funzione del sintagma è data sia dalla posposizione, sia dal morfema di caso utilizzati. 3 È quindi lecito postulare due funzioni diverse e correlate, a seconda che la posposizione -qi sia associata al morfema locativo o a quello genitivo. È verosimile, in definitiva, che la spazialità di un rito sia connotata non solo sotto forma di ‘stati in luogo’, ma anche di processo, di movimento da un luogo ad un altro luogo ecc., per quanto, nel caso della sequenza del Piombo di Magliano, ne sfuggano i termini precisi. 4  







La frase termina infine con murinas´ie falzaqi. Tra le due parole non sembra esservi un rapporto evidente, né di correlazione, né di dipendenza. Sul piano della segmentazione interna, murinas´ie può essere scomposto o in murinas´-ie, con terminazione derivazionale assimilata da -yos delle lingue indoeuropee; a sua volta, -ie può stare per -ia-i, un locativo da un termine aggettivale in -ia, derivato da un non chiaro *murina[sˇ]-. Wylin, recentemente, ha ipotizzato l’esistenza in etrusco di un morfema agentivo in -[sˇ] 5 che, se l’idea è giusta (ma in realtà è tutta da verificare), potrebbe essere riconosciuto anche in *murina[sˇ]-. Oltre questo, però, sembra difficile andare. Se murinas´ie è un locativo da *murinas´-ia, è possibile che esso individui la funzione di uno strumentale, piuttosto che indicare una relazione spaziale, come accade invece per cimqm casqialq lacq: in altri termini, non ‘dove’ è compiuto un rito, ma ‘con che cosa’. Che il locativo etrusco assuma anche le funzioni di uno strumentale è cosa nota; 6 si consideri soltanto la funzione del locativo fas´ei(-c) in alcuni passi del Liber linteus, con a corredo la traduzione proposta da Rix: 7  





@   Così Bernard Comrie in Giacalone Ramat, Ramat (a cura di) @993, p. @02: «[...] una delle caratteristiche tipologiche singolari del proto-indoeuropeo sembra essere stata la mancanza di adposizioni. Gli elementi in questione erano più anticamente avverbi, ed il loro impiego come adposizioni o prefissi è secondario. Nel proto-indoeuropeo i ruoli grammaticali e semantici dei sintagmi nominali erano originariamente espressi per mezzo del caso, mentre gli avverbi che erano destinati a diventare più tardi adposizioni al massimo specificavano ulteriormente la semantica del caso in questione; la reinterpretazione in favore di un’adposizione che governa un particolare caso è venuta più tardi». Non è superfluo ricordare che qui si propone solo un confronto tipologico, senza avanzare ipotesi sulla genesi delle posposizioni in etrusco, né tantomeno sull’eventualità di un qualsiasi legame tra etrusco e lingue indoeuropee. 2   Sulle adposizioni in greco si veda Henry M. Hoenigswald, in Giacalone Ramat, Ramat (a cura di) @993, pp. 285-286. 3   In italiano, invece, le preposizioni, da sole, veicolano la funzione sintattica e grammaticale del sintagma, in armonia con il carattere prevalentemente analitico della lingua. 4   Una recente proposta di Facchetti è che le sequenze con ‘doppio locativo’ (con o senza posposizione) siano da tradurre con ‘tra ... e ...’, individuando ciò la locazione di un ‘oggetto’ tra altri due ‘oggetti’ (Facchetti 2000a, pp. 22-23, n. 9@; Facchetti 2002a, pp. @3, 77); pur non essendo questo il caso (lo stesso Facchetti preferisce tradurre casqialq lacq con ‘nel lac- del casqi-’, cfr. Facchetti 2000b, p. 26@; Facchetti 2002a, p. 86), l’esempio citato rende l’idea della complessità che verosimilmente sottintende l’uso del 5 locativo etrusco.   Cfr. Wylin 2004a. 6 7   Cfr. Rix @984, p. 224; Rix 2004, p. 954.   Rix @99@, p. 68@.

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il piombo di magliano ll ix.7-8: ... trin . flere . nequns´l . un . mlac 8nunqen . zus´leve . zarve . fas´ºeic . ... divinità di Nettuno, te, o buono, invoco con vittime zarva e con polta.

Sul piano del significato, però, non sembra possibile elaborare ipotesi adeguate: @ è certo che in etrusco esista una radice *mur-, rintracciabile tanto in forme verbali, come in Ta @.@07 (... murce capue ...), ll xi.6 (... murce qºi . ...) e xi.8 (murin) 2 quanto in sostantivi, quali il plurale murzua della lex sepulcralis dell’Ipogeo di San Manno (Pe 5.2), murs (as @.@87, @.3@@), al genitivo murs´l (Ta @.@82) e murs´s´ (ll vii.@3); Wylin, partendo da murs (in grafia fonetica [mursˇ]), che dove è utilizzato sembra indicare il contenitore delle spoglie del defunto, e di nuovo in funzione della sua idea dell’esistenza in etrusco di un morfema agentivo -[sˇ], ha ipotizzato che *mursignifichi appunto ‘contenere, allocare, dimorare’ (per cui Ta @.@07 significherebbe ‘dimorò a Capua’); 3 sfugge però qualsiasi collegamento, ammesso che vi sia, con la forma murinas´ie. L’ultima parola, falzaqi, offre all’analisi le stesse incertezze: la terminazione -qi potrebbe far pensare ad una posposizione locativa: è da rilevare però che, nel testo del Piombo, le forme con posposizione locativa usano esclusivamente la posposizione -q non -qi (cfr. cimq(-m), casqialq, lacq e più avanti lursq, due volte); inoltre, una segmentazione come falza-qi porterebbe all’impossibilità di individuare il morfema di caso locativo -i prima della posposizione: si sarebbe atteso, piuttosto, una costruzione del tipo *falza-i-qi o *falze-qi. 4 Se, invece, si segmenta in falzaq-i, si ottiene un termine al locativo da mettere in relazione con il supposto locativo murinas´ie. La parola *falzaq potrebbe essere una delle tante voci in -aq, che ha funzione di morfema derivativo di agente. 5 Certo è che sfugge il nesso tra un termine di agente, di solito attribuito a figure umane, e una funzione strumentale, quale quella ipotizzata sopra nel caso di murinas´ie, che qui si considera analogo a falzaqi. Per quanto riguarda il significato, pur essendovi diversi confronti a disposizione, non sembra possibile elaborare alcuna ipotesi di rilievo: sono comunque da ricordare falas´ e il locativo fals´ti del Cippo di Perugia (Pe 8.4a@3, @5), 6 falalqur della Tabula  











  Deecke sosteneva che fosse un aggettivo da un termine sconosciuto affine al lat. murrı¯na, e traduceva quindi con ‘von Myrrhentrank’, ‘di bevanda di mirra’ (Deecke @884a, p. @44; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 22; Deecke @885b, p. 254). Per Torp, invece, murinas´ie è il soggetto del passivo da lui individuato in cimqm, quest’ultimo tradotto con ‘sacrificandum est’ (Torp @905, p. @2); l’idea di un rapporto con il lat. murrı¯na è recuperata poi in Lattes @9@@, coll. 297-299; Trombetti sostiene invece che la terminazione -as´ie è affine al latino -a¯rius, e il termine murinas´ie deriva non da murrı¯na ma da murrı˘na (vasa), a sua volta da murra, un tipo di materiale lapideo (Trombetti @928, p. @70); secondo Goldmann, murinas´ie e falzaqi indicano delle prescrizioni per il sacrificio a cauqa (Goldmann @928, p. 242); per Ribezzo «tenendo presenti i nn. pr. etr. Murina, Murena, f. Murinei, esso pare un eponimo dell’anno consacrato a Cautha» (Ribezzo @929a, p. 74; cfr. Buonamici @932, p. 359, murinas´ie = lat. Murinasius); anche per Cortsen è possibile un confronto con il lat. murrı¯na; il termine è «jedenfalls etwas Geopfertes» (Cortsen @939, p. 274). 2   Secondo la nuova lettura proposta da Valentina Belfiore (Belfiore 20@0, p. @80), che espunge il punto 3 tra mur e in.   Wylin 2004a, p. @@8; cfr. anche Wylin 2004b, p. 22@. 4   Si veda sopra per una discussione più approfondita dell’argomento. 5   Si veda, da ultimo, Agostiniani 2009a. Si veda anche Wylin 2002. 6   Cfr. Facchetti 2000a, p. 22, nota 86. Pfiffig considera falas´ e fals´ti forme verbali (da una radice *fal@

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Capuana (tc 22), faluqras (Ta @.@64: entrambe forme al collettivo -qur?); infine, non sembra fuori luogo menzionare la glossa di Festo in cui si ricorda che le falae, torri lignee utilizzate per scopi militari, erano così dette per l’altezza, a falado, che per gli Etruschi significava ‘cielo’. @  

4. 2. La seconda sezione del testo aiseras . in . ecs . mene . mlaqce . marni . tuqi . tiu . cimqm . casqialq . lacq Ä

La seconda sezione si apre di nuovo con un teonimo al genitivo; in questo caso, in realtà, non è un nome proprio, ma il termine etrusco che, tradizionalmente, individua la divinità in senso generico, ais. Sulla questione dell’interpretazione dell’etrusco ais e delle forme affini la bibliografia è piuttosto vasta, data anche la quantità e qualità di fonti a disposizione. 2 Del tutto eccezionale è, infatti, la testimonianza fornita da alcune glosse greche e latine, che registrano il termine e ne danno una prima interpretazione:  

Suet., Aug. 97 (tle 803a): [...] quod aesar, id est reliqua pars e Caesaris nomine, Etrusca lingua deus uocaretur. Dio Cass. 56, 29, 4 (tle 803b): to; loipo;n to; o[noma ªaisarº qeo;n para; toi''~ Turshnoi'~ noei'. Hesych., ad v. (tle 804): aji>soiv : qeoi; uJpo; Turrhnw`n.

Nella documentazione epigrafica etrusca sono attestate varie forme: ais/ais´, aiser, aiseras/aiseras´, e le varianti in ei-: eis, eiser, eiseras, eiseras´. 3 È ormai un fatto noto e accettato universalmente che la forma base sia ais (eis ne è una variante motivata solo sul piano fonetico); il plurale è aiser, e questo determina che ais, a livello mor 

- ‘haben’, secondo lo stesso Pfiffig) e dubita che falzaqi del Piombo sia riconducibile ad essi (Pfiffig @969, p. @38). @   Cfr. tle 83@: Falae dictae ab altitudine, a falado, quod apud Etruscos significat caelum (Fest. , p. 78 L.); cfr. anche re vi 2, @909, coll. @967-@968, s.v. Fala (Pollack). Già Deecke (che in un primo momento riportava fal taqi, secondo la lettura fornita inizialmente in Teza @882, p. 532, cfr. la correzione in Deecke @885a, p. 7) aveva proposto l’associazione tra falzaqi e la glossa falado ‘cielo’; per Deecke era un locativo di un termine che indicava una struttura funeraria lignea (‘auf dem Todtengerüst’, cfr. Deecke @884b, pp. 253-254; Deecke @885a, p. 23); lo stesso ragionamento di Deecke è portato avanti da Torp, che confronta falzaqi con il già menzionato fals´ti del Cippo di Perugia e lo considera locativo (Torp @905, p. @2; cfr. anche Lattes @9@@, col. 303); Trombetti traduce falzaqi con ‘nel mezzo’ (Trombetti @928, p. 207); secondo Ribezzo falzaqi «par quasi aggiunto ad indicare la località precisa della celebrazione» e traduce con ‘in arce’ (Ribezzo @929a, pp. 80-8@, @02; cfr. Buonamici @932, p. 359); Cortsen parte dall’idea che un locativo falzaqi restituisca un termine in caso retto *falza; considera questo termine un diminutivo (in -za) da falas´ (Pe 8.4a@3), e propone di tradurre con ‘auf dem Altar, auf der Stele’ (Cortsen @939, p. 274); per Morandi «falzaqi è una determinazione di luogo, caratterizzata dal suffisso -qi mentre fal-, riferibile al termine mediterraneo pala, indicherebbe “altura”; quindi: “in un luogo elevato”» (Morandi @982, p. 37). 2   Per un’adeguata analisi del termine ais in tutte le sue forme si veda Rix @969a (cfr. anche Olzscha @97@, che per aiser(-as) prospettava anche la possibilità di un duale); cfr. anche Maras 2009, pp. 70-72. Un’altra proposta, ormai abbandonata, leggeva in aiseras il genitivo del nome di una divinità femminile Aisera (cfr. Pfiffig @963, pp. 68-75; Devoto @964). 3   Per tutte le voci si rimanda agli indici degli et. Si veda anche il termine aisl, su una lastra fittile del Museo Guarnacci di Volterra, pubblicato di recente da Gabriele Cateni e Adriano Maggiani (ree 73, 30), possibile menzione del genitivo singolare di ais.

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fologico, è connotato come [+ umano] o [+ animato]; infine, aiseras è il genitivo plurale. Nel testo del Piombo aiseras è seguito da una clausola relativa, introdotta dal pronome relativo in. @ Le dimensioni della clausola sono date per confronto con alcuni passi del Liber linteus, in cui sono presenti delle subordinate, introdotte da un pronome relativo, la cui struttura è analoga a quella del Piombo: 2  



ii.4-5: ... svec . an 5[cs´ . m]eºnºeº uºt ºi [º nce . zicn]e . s´[eti]rºunec . ... ii.9: ... 9svec . an . cs´ . mene . utince . zicne . s´etirunec ... iv.4-6: ... sv[ec . an] 5cs´ . mele . qun . mutince . qezine . ruz[e 6nuzlcne]cº . ... iv.@7-@8: ... svec . an . cs´ . mele . qun @8mutºince . qºeºzinºe . ruºzeº º . nuzlcneºc . ...

Una volta inseriti gli elementi di ogni frase in una griglia, il parallelismo tra le formule è ancor più evidente: ll var. @: svec

an cs´

mene

ll var. 2: svec

an cs´

mele

Piombo: aiser(-as) in

qun

ecs mene

utince

zicne

s´etirune(-c)

mutince qezine

ruze

nuzlcne(-c)

mlaqce

tuqi

tiu

marni

La scansione interna della formula prevede un sostantivo, un pronome relativo, un pronome dimostrativo al genitivo, un termine in -e, quindi un predicato al preterito attivo (-ce), infine una serie di forme verbali generalmente considerate ‘infinitivi’ in -e. Le varianti riguardano, nella seconda versione del Liber linteus, la presenza prima del verbo in -ce del numerale qun, che verosimilmente specifica quantitativamente il termine precedente (che in tal caso dovrà essere inteso come sostantivo); ma soprattutto, è evidente la non congruenza tra i pretesi infiniti sostantivati delle versioni del Liber linteus, in fine di frase, e la sequenza marni tuqi tiu, che a prima vista non sembrerebbe contenere forme verbali analoghe. Nella parte dedicata alla prima sezione, però, si è visto come tuqi possa in realtà essere ricondotto ad una radice verbale: si discuterà in seguito con quali conseguenze. La sezione del Piombo qui discussa mette quindi in relazione il termine aiser(-as) e il pronome relativo in. L’accordo tra i due presenta alcune discrepanze con alcuni aspetti della morfologia nominale etrusca. Il termine aiser, come detto, si connota come plurale [+ animato]; si è già mostrato, nella discussione relativa alla prima sezione, che la distinzione legata all’animatezza è un tratto caratterizzante della mor@   Per Deecke in è preposizione locativa, identica al latino (Deecke @884a, p. @45; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. @5; Deecke @885b, p. 254); Torp è il primo a considerare in pronome relativo (Torp @902-@903, i, pp. @8-@9; Torp @905, p. @3; successivamente, anche Pallottino @936a, pp. 49-50, e Pfiffig @969, pp. @04-@05); anche Trombetti considera in forma del relativo, ma nella traduzione del Piombo ritorna alla tesi di Deecke secondo cui in è preposizione (cfr. Trombetti @928, pp. 26, 207); anche Goldmann sostiene che vi sia un legame tra aiseras e in (Goldmann @928, p. 243); Ribezzo @929a, pp. 83, @02: in = lat. hunc (cfr. Buonamici @932, p. 359); Cortsen ipotizza che sia un pronome dimostrativo: ‘dies (?)’ (Cortsen @939, p. 276); Morandi non si sbilancia, affermando semplicemente che «in dovrebbe essere strettamente connesso alla parola aiseras» (Morandi @982, p. 37). 2   Il confronto tra la frase relativa del Piombo e le analoghe del Liber linteus era uno degli argomenti a favore dell’autenticità dei due testi (cfr. Krall @892, pp. 6@-62 e Lattes @894, p. 5, e soprattutto la discussione nella sezione dedicata alla storia degli studi); si veda anche Olzscha @939, pp. 86-93.

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fologia nominale etrusca. Recentemente è stato proposto di ridurre a questa distinzione anche la casistica dei pronomi relativi: in etrusco è documentato un relativo an, usato esclusivamente nelle epigrafi funerarie e riferito al defunto, e un relativo in, che è utilizzato in contesti di distribuzione complementari rispetto ad an; Agostiniani ha individuato in an il tratto [+ animato], mentre in in quello [– animato]. @ Ora, il testo del Piombo è evidentemente un’eccezione a questa regola distribuzionale che, altrove, sembra sempre rispettata: infatti, mette in relazione un sostantivo caratterizzato da un plurale animato (ais-er) con un pronome utilizzato per i non animati (in). Per quanto non si possa escludere un errore dell’estensore del testo, è da rilevare che in è utilizzato nel Liber linteus in alcuni contesti analoghi, ovvero avendo come referente figure divine o assimilabili alla divinità:  

iii.@8: ... flere . in . craps´ti ... iv.8: ... farqan . fleres´ . in . craps´ti . ... iv.@4-@5: ... flere @5in . craps´ti . ... iv.@9: ... flere in . craps´ti ... vi.@4-@5: ...tins´ . in . mºarle @5luqti . ...

Nei passi succitati, in è in relazione quattro volte con il termine flere, considerato tradizionalmente analogo al latino numen, e una volta con tins´ ‘giorno’, ma anche l’equivalente del lat. Iuppiter. 2 La discrepanza potrebbe essere risolta ipotizzando che il morfo di plurale sia selezionato secondo il parametro dell’animatezza, mentre il pronome relativo in e an sarebbero riconducibili al parametro dell’umanità, che sarebbe un livello subordinato rispetto all’animatezza: nel caso presente, ais sarebbe [+ animato], e questo comporterebbe l’uso del plurale in -er, ma sarebbe [– umano] ed utilizzerebbe quindi il pronome relativo in: tutto ciò risulterebbe ampiamente congruente con la definizione di una divinità, che è sì animata, ma certo non umana. Si deve ammettere tuttavia che, allo stato attuale, questa ricostruzione può essere accettata solo come ipotesi di lavoro; del resto, altri problemi potrebbero suggerire anche altre soluzioni, come si vedrà più sotto.  

Un’altra questione è relativa al plurale, del quale peraltro si è parlato ampiamente nella sezione precedente: mentre infatti ais-er presenta una marca di plurale, in, con il quale è in accordo, non presenta morfi analoghi. Ora, come detto precedentemente, le attuali conoscenze sulla categoria del numero in etrusco sono parziali soprattutto per quanto riguarda la flessione pronominale. I pronomi relativi sembrano appartenere a quest’ultima, se è giusta l’analisi di Agostiniani riguardo la voce inni della Tabula Cortonensis, interpretata come accusativo del pronome in, dove -ni è chiaramente lo stesso morfema dell’accusativo dei pronomi personali (cfr. mi   Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 99-@00. Rix, che già in passato aveva rinunciato a stabilire una differenza tra an e in (Rix @984, p. 230), successivamente ha mosso obiezioni all’ipotesi di Agostiniani (cfr. Rix 2002, pp. 82-83), per poi accettarne la sostanza (cfr. Rix 2004, p. 956). 2   Su tins si veda la discussione nel cap. ii.4.4. Nel secondo degli esempi citati (ll iv.8) il referente di in è sempre fleres´, al genitivo, a sua volta retto da farqan (analogo al lat. genius, cfr. Colonna @980, pp. @6@-@70). @

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‘io’, acc. mini). @ Se, dunque, la declinazione dei pronomi personali (e quindi anche dei relativi) mostra legami stretti con quella dei dimostrativi, e la classe dei dimostrativi codifica esplicitamente il plurale (attraverso il morfema -va, per cui si veda sopra alla sezione precedente), è naturale chiedersi se anche la classe dei pronomi relativi abbia espresso il plurale attraverso una marca appropriata. A questo punto, è opportuno sottolineare che la categoria di plurale, in etrusco, non sempre viene esplicitata tramite marche morfologiche ad hoc: si è già visto sopra, ad esempio, il caso rappresentato dalla prima riga della Lamina a di Pyrgi (Cr 4.4): iºta tmia icac he2ramas`va [...], dove nel secondo elemento della correlazione la marca di plurale è solo nel sostantivo heramas`-va, non nel dimostrativo ica(-c) che il sostantivo regge; la categoria del numero risulta non espressa neanche nella morfologia verbale, come dimostra, ancora una volta, l’iscrizione dei Clavtie a Caere:  

Cr 5.2: laris . av2le . laris3al . clenar 4sval . cn . s`uqi 5cericunce ... Laris (e) Avle, di Laris figli, vivi, questa tomba fecero costruire

Il predicato verbale (preterito) cericunce è qui riferito ai due fratelli Laris e Avle, quindi è codificabile come plurale, ma non mostra ulteriori marche morfologiche rispetto ad un singolare: la possibilità che cericunce sia in accordo ad sensum solo con il secondo dei due nomi propri è da respingere, dal momento che dopo i due prenomi si trova l’apposizione al plurale larisal clenar, che è apposizione del soggetto (plurale) laris avle. È possibile, dunque, che anche la classe dei pronomi relativi non distinguesse il plurale dal singolare, come sembrerebbe testimoniare l’attacco della seconda sezione del Piombo. Dopo il pronome relativo in si trova il dimostrativo al genitivo ecs. 2 Sui dimostrativi etruschi la documentazione permette di raccogliere molte informazioni: 3 qui è opportuno sottolineare che l’utilizzo della variante con e- iniziale, rispetto a i- arcaico, e la presenza di una forma parzialmente sincopata come ecs (rispetto ad un arcaico *ica-s), 4 sono in totale accordo con la collocazione cronologica del Piom 





  Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 99-@00: «Costituisce [...] un caso eccezionale quello di inni, che è sì un apax (morfologico), ma trasparente: il doppio ny è una rappresentazione di livello morfologico e non fonologico (l’etrusco non possiede un’opposizione di lunghezza consonantica), e da qui la segmentazione  in-ni, e il confronto con mi-ni: come mi-ni è l’accusativo del pronome mi, così in-ni andrà letto come l’accusativo di in. Il pronome non è quindi invariabile, come si era ritenuto (e lo stesso andrà ipotizzato per an)». 2   Deecke traduce in ecs mene con ‘in jedem Monat’ (Deecke @884a, p. @45; Deecke @884b, p. vii;  Deecke @885a, pp. @5-@6, dove però si legge ec, non ecs; Deecke @885b, pp. 253-254); per Torp «ecs [è] the genitive-dative of ecn ‘this’», individuandone quindi il valore di determinatore (Torp @905, p. @3; su eca pronome dimostrativo si vedano anche Pallottino @936a, pp. 48-49, e Pfiffig @969, pp. @07-@@@); anche per Trombetti ecs è il genitivo di un dimostrativo riferito all’ipotizzata divinità femminile Aisera (Trombetti @928, p. 207; anche Ribezzo @928, p. 83, cfr. Buonamici @932, p. 359); il valore di dimostrativo è anche in Cortsen @939, p. 272; Morandi sostiene che «ecs mene indicherebbe l’epoca», verosimilmente del rito da compiere per Aisera (Morandi @982, p. 37). Infine, Facchetti sostiene che ecs, nei passi del Liber linteus e del Piombo, possa significare ‘perciò’, e «sembra riferirsi all’azione (sacra) ivi descritta» (Facchetti 2000a, p. 73, n. 4@6): Facchetti propone di tradurre ‘degli dèi, ciò che per questa (commemorazione) fanno’ (Facchetti 2000b, p. 26@). 3   Sui dimostrativi si rimanda a Rix @984, pp. 229-23@; Rix 2004, p. 955. 4   Cfr. l’accusativo arcaico ikan (Cr 0.4, seconda metà del vii sec. a.C.) e il recente cn (ad esempio nella succitata iscrizione dei Clavtie a Caere, Cr 5.2). @

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bo in ambito ormai post-arcaico, e costituiscono degli elementi favorevoli ad una datazione al v secolo a.C., con preferenza, come detto sopra, per le fasi centrali del secolo. Risulta invece incerta la funzione di ecs nell’economia della frase: una prima possibilità è che ecs sia retto dal termine mene, quale che sia il suo valore. Si aprirebbe subito la questione su quale sia il referente del dimostrativo, che non sembrerebbe specificato da nessuno degli elementi della frase. Seguendo questa strada, infatti, il relativo in dovrebbe essere il soggetto del predicato mlaqce (più difficilmente l’oggetto, per le ragioni discusse sopra riguardo il probabile accusativo inni), e mene l’oggetto sintattico; il confronto con le sequenze analoghe del Liber linteus sembrerebbe escludere che si tratti di un infinito sostantivato in -e retto da mlaqce (che quindi introdurrebbe una dichiarativa, ma su questo si veda sotto), poiché questa funzione sembra presente negli infiniti che seguono il verbo al preterito (nella prima versione, zicne e s´etirune; nella seconda, qezine, ruze e nuzlcne); quindi, come nelle due versioni del Liber linteus, anche nel testo del Piombo la voce mene (mele nella seconda relativa attestata nella Mummia) deve indicare qualcos’altro: o un locativo (< *mena-i, *mela-i), @ ma nel caso della seconda relativa del Liber linteus mele sembra in accordo con il numerale qun, che non è marcato come locativo; 2 o un termine non marcato morfologicamente, e quindi passibile di essere identificato come l’oggetto del preterito mlaqce (o, nel caso dei passi della Mummia, degli infiniti sostantivati che seguono), e non il soggetto, dato che questo è stato individuato nel pronome relativo in. L’ipotesi appena presentata, che tenta di ricostruire i rapporti sintattici all’interno della sezione a partire da ecs, pur manifestando alcune incertezze mostra caratteri di verosimiglianza. Vi è però una seconda possibilità, legata sempre alla funzione di ecs. È un dato di fatto che, tanto nel testo del Piombo, quanto nei passi della Mummia, ecs sia sempre cosequenziale al relativo; ora, si è visto sopra che la declinazione dei pronomi relativi etruschi può essere considerata, per così dire, ‘difettiva’: sembra infatti che il pronome relativo non abbia distinzione di numero. È possibile che questo ‘difetto’ nella capacità di esprimere tutte le varianti morfologiche sia esteso anche ad altri aspetti della declinazione, come ad esempio il genitivo: del resto, dei pronomi relativi in e an, si conoscono praticamente solo le forme non marcate. 3 Pe 





@   Il Liber linteus documenta un forma al necessitativo meleri: questa forma è usata nei due passi, citati sopra, in cui è utilizzata la seconda variante della frase relativa oggetto di studio, quella cioè che ha proprio mele al posto di mene (ll iv.4, @7). La forma meleri può in effetti essere segmentata in *mela-i-ri (come spureri da *spura-i-ri), ma non è del tutto impossibile che si tratti di una monottongazione da *mele-i-ri (come in meqlumeri, da *meqlume-i-ri), cfr. il genitivo meqlumes (Vs 8.3; inoltre ll v.23: meqlumes´c, con congiunzione -c), che restituisce una forma del caso retto pre-apocope *meqlume-. 2   Come detto nel cap. ii.4.@., relativo alla prima sezione del Piombo, i numerali hanno determinazioni di caso come una normale classe appositiva: così, ll vi.@3: ... quns´ . flers´ ... ‘... di una vittima sacrificale (?)’. 3   È ovvio che questo potrebbe essere un fatto dipendente semplicemente dalla scarsità di documentazione: oltre a in (o inc, con congiunzione enclitica) e il già citato inni della Tabula Cortonensis, sono documentati solo ininc (ll xi.f3, parallelo ad ananc di ll x.@@) ed inte (tc 9, @0; Pe 8.4a@8); di diversa origine dovrebbe essere invece la scritta arcaica ins, rinvenuta isolata su vasi perlopiù da Vulci (Vc 0.9-@6, oi 0.5-9). Lo stesso vale per an, di cui si conosce solo la variante con congiunzione enclitica anc e il già citato raddoppiato ananc. Per il possibile valore relativo di ipa, si rimanda alla discussione delle funzioni

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rò, se una lingua difetta di un particolare elemento necessario per esprimere direttamente una data caratteristica linguistica, in genere mette in atto strategie diverse che permettono, indirettamente, di coprire quella stessa necessità comunicativa. Nel caso dei pronomi relativi, se la declinazione non prevede casi obliqui, è possibile che questi stessi siano espressi tramite perifrasi, che generalmente prevedono l’utilizzo di altre classi di pronomi, personali o dimostrativi: in una sequenza come in ecs, quindi, i due pronomi potrebbero dover essere intesi come un solo elemento, in cui in ha la mera funzione di particella relativa, slegata da qualsiasi necessità di accordo, mentre ad ecs è avocata la funzione di esprimere la categoria grammaticale alla quale il relativo stesso appartiene (in questo caso, il genitivo). Pertanto, la sequenza aiseras in ecs sarebbe traducibile come ‘agli dei, ai quali’ (lett. ‘agli dei, che a questi’), o qualcosa di simile. Quanto descritto sopra, riguardante le possibili strategie di relativizzazione della lingua etrusca, trova una più profonda giustificazione negli studi di linguistica tipologica; il caso appena descritto rientra in quella che la manualistica chiama pronoun retention strategy (letteralmente, strategia di mantenimento del pronome), un esempio della quale è rappresentato dal persiano: @  

man zan-i



ke

John

be

u

sibe zamini

dâd

mis´enâsam

Io

ogg.

che

John

a

lei

patata

ha dato

conosco

donna-la

Io conosco la donna a cui John ha dato la patata

Il persiano, come l’etrusco, è tipologicamente una lingua nrel, ovvero una lingua in cui la testa della relativa, che rimane esterna ad essa, precede la relativa stessa; inoltre, come l’etrusco, ha un ordine non marcato dei costituenti sintattici del tipo sov (ovvero Soggetto, Oggetto diretto, Verbo); è un dato di fatto che lingue con simili strategie di relativizzazione sono piuttosto comuni nel mondo. 2 Nella frase citata la relativa restrittiva è introdotta dalla particella ke, ma il ruolo grammaticale svolto dalla testa (zan-i ‘la donna’) all’interno della relativa è esplicato attraverso l’ausilio di un pronome (be u ‘a lei’). Il confronto con altre lingue mostra che è del tutto naturale che la strategia di mantenimento del pronome sia utilizzata nella situazione in cui il ruolo grammaticale da relativizzare sia il caso obliquo; esso, infatti, si colloca molto in basso nella scala teorica costituita dalla  

di questa particella nella sezione relativa del capitolo iii.6., sulla Lamina di Santa Marinella. Come si vedrà invece nel cap. iv, sulle defixiones, la particella ipa sembra non avere nulla a che fare con inpa, che sembrerebbe essere un derivato (per suffissazione) da in. @   Sull’argomento si rimanda in generale a Keenan, Comrie @977; Keenan @985; Lehmann @986 e Song 200@, pp. 2@@-256 (in particolare pp. 2@8-2@9, da cui è stato tratto l’esempio, che nella versione originaria presenta la traduzione in inglese). 2   Tra i vari tipi di ordine dei costituenti, in realtà, solo nelle lingue sov il tipo Reln (la frase relativa che precede la testa) è presente con frequenza; è chiaro peraltro che si connota come tipo recessivo rispetto all’alternativa nRel, tanto tra le strategie di relativizzazione di molte lingue sov (anche se i dati sono contrastanti), quanto, a maggior ragione, nel complesso di tutte le lingue (cfr. Keenan @985, pp. @43-@45; Song 200@, pp. 24@-244); Song, poi, mostra come le strategie di relativizzazione che prevedano l’utilizzo di pronomi (relativi, personali o dimostrativi) sono caratteristiche quasi esclusive di lingue nRel con testa esterna alla frase relativa (Song 200@, pp. 232-235).

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Accessibility Hierarchy, ovvero la gerarchia di accessibilità alle strategie di relativizzazione individuata negli anni ’70 da Edward L. Keenan e Bernard Comrie, che misura la facilità con cui una data posizione grammaticale può essere relativizzata, e che si struttura come una serie di implicazioni concatenate: se, ad esempio, in una lingua è possibile relativizzare l’oggetto indiretto, allora, necessariamente, è possibile relativizzare anche le posizioni più alte nella gerarchia, ovvero il soggetto e l’oggetto diretto: Gerarchia di accessibilità: @  

sogg. > ogg. dir. > ogg. ind. > obl. > gen. > o. comp. + accessibile



– accessibile

Le basse posizioni sono generalmente più complesse e necessitano sistemi di relativizzazione più espliciti, quali appunto la conservazione di un pronome personale, mentre quelle più alte utilizzano sistemi più semplici, come il singolo pronome relativo, o addirittura la cancellazione totale e il riferimento implicito. Per le strategie di relativizzazione è possibile, così, costruire una gerarchia analoga, in cui queste sono collocate secondo il grado di esplicitazione del riferimento: Gerarchia di esplicitazione del riferimento: 2  

obliterazione (rifer. impl.) > pron. relativo > mant. pronome > ripetizione – esplicito

+ esplicito

Le due scale, confrontate, mostrano che, a maggiori gradi di complessità grammaticale, sono necessarie strategie di relativizzazione più esplicite: in termini statistici, in una data lingua è altamente probabile che il soggetto o l’oggetto diretto siano relativizzati attraverso il riferimento implicito o il ricorso al pronome relativo, mentre elementi sintattici più complessi (e meno espliciti) con maggiore probabilità saranno relativizzati attraverso la conservazione di un pronome o tramite la ripetizione tout court della testa. Spostando l’attenzione sull’etrusco, si nota subito che i relativi an e in, negli altri contesti, codificano di solito o il soggetto o l’oggetto della relativa, quindi due posizioni molto alte nella gerarchia di accessibilità, che generalmente vengono relativizzate attraverso il pronome relativo. Ma quando ad essere relativizzata è la posizione di obliquo (come si suppone nel Piombo e nei passi del Liber linteus), molto complessa e molto bassa nella gerarchia di accessibilità, l’etrusco verosimilmente adotta una strategia più consona (vale a dire più esplicita), come la strategia di mantenimento del pronome. Il fatto che, in etrusco, sia utilizzato il dimostrativo eca potrebbe però essere considerato un argomento a sfavore dell’ipotesi discussa: in effetti, nell’esempio citato, e anche nelle altre lingue prese in considerazione nei loro studi da Keenan, Comrie @   Keenan, Comrie @977, pp. 66-67; anche Song 200@, pp. 222-223. Legenda: sogg(etto), ogg(etto) dir(etto), ogg(etto) ind(iretto), obl(iquo), gen(itivo), o(ggetto di) comp(arazione), > = «è più accessibile alla relativizzazione di». 2   Song 200@, pp. 226-227 (anche Keenan, Comrie @977, p. 92, limitatamente al ruolo della strategia di conservazione del pronome). Legenda: > = «è meno esplicito di».

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e Christian Lehmann, il pronome conservato all’interno della relativa come riferimento anaforico della testa è in genere un pronome personale. È evidente che l’osservazione si basa su premesse sbagliate: in primo luogo, non vi sono particolari problemi a considerare un pronome dimostrativo analogo ad un pronome personale di terza persona, dal momento che essi si differenziano solo per fatti legati alla deissi. Ma, soprattutto, troppo spesso si ignora che l’etichetta di ‘dimostrativo’ è utilizzata arbitrariamente in etrusco per elementi grammaticali che sarebbe più opportuno definire come ‘determinatori’, cfr. ad esempio selvans sancuneta ‘Selvans il sancuna’ (Vs 4.8); i quali, poi, possono avere secondarie funzioni deittiche (ad esempio in at @.2@: eca : mutna : arnqal : vipinanas : s´eqres´la ‘questo (è) il sarcofago di Arnq Vipinanas, quello (figlio) di Sπeqre’). @ In ultima analisi, infine, è da notare che ciò potrebbe spiegare anche le particolarità riscontrate nella formula aiseras in ecs, come l’assenza di marca di plurale nel relativo e la discrepanza tra il plurale [+ animato] e il pronome relativo [– animato]; 2 si potrebbe ipotizzare infatti che l’uso del dimostrativo ecs comporti una sorta di ‘posizione di neutralizzazione’ del relativo stesso nei confronti del parametro dell’animatezza, con l’utilizzo generalizzato della variante in, qui in posizione di arcimorfema. Si dovrebbe infine ipotizzare che la posizione di neutralizzazione sia in qualche modo espressa anche nei confronti della categoria del numero: se così non fosse, tutta la spiegazione finora fornita troverebbe un controesempio piuttosto puntuale nelle stesse formule del Liber linteus con svec an cs´ ecc. (non in). È doveroso annotare che quanto detto sulla questione è tutto altamente ipotetico: in altri termini, non è da escludere, per esempio, che la presenza di in sia dovuta ad un semplice errore di trascrizione dell’atteso an. Se, però, anche solo come ipotesi di lavoro si segue la spiegazione addotta, l’analisi della frase relativa condurrà a risultati diversi da quelli sopra esposti: la perifrasi relativa in ecs sarà dunque un genitivo (o, più in generale, un obliquo) retto forse dal predicato mlaqce, o dall’infinito sostantivato che mlaqce regge, se si accetta il parallelismo con i passi della Mummia di Zagabria. La parola mene, quindi, sarà o in posizione di soggetto o di oggetto, da stabilire se di mlaqce o di un eventuale infinito sostantivato. È chiaro che prima di tutto, però, devono essere determinate con certezza le dimensioni della clausola relativa, che, per esempio, non è detto comprenda anche mlaqce. Si possono ottenere ulteriori informazioni a partire dall’analisi delle singole voci. In primo luogo, mene: 3 se non è chiara la veste grammaticale del termine, è chiaro  





@   Del resto, Lehmann, nell’analisi dei tipi di relativizzazione, volutamente non distingue tra pronomi relativi, pronomi personali, pronomi dimostrativi, affissi personali e ripetizioni stesse della testa, definendoli tutti genericamente come «representative of the head in the rc [scil. Relative Clause, frase relativa]» (Lehmann @986, p. 667). 2   A meno che non sia valida l’ipotesi sopra presentata, che prevede due categorie diverse per plurale e relativi, ovvero rispettivamente animatezza e umanità, la seconda subordinata alla prima. 3   Come detto sopra, Deecke intende mene come analogo al latino mensis (Deecke @884a, p. @45; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. @5; Deecke @885b, p. 253; in parte anche Milani @893, col. 59; Goldmann @928, p. 243; e Trombetti @928, pp. @74-@75); Torp prospetta una funzione verbale, proponendo una traduzione del tipo ‘schenkt’ (Torp @902-@903, ii, p. 25) e «‘gave’ (or ‘was given’)» (Torp @905, p. @3; anche

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che esso fa riferimento all’area semantica della radice men-, generalmente intesa come ‘fare’ o anche ‘donare’, @ come testimoniano alcune iscrizioni di dedica, o firme di artigiani, sia arcaiche che recenti, in cui sono presenti le forme verbali menece, menace e menaqu: 2  



Po 6.@: metru . menece Ta @.27: ... 5tamº eº[r]aº 6menace ah 3.4: mi titasi cver menace as 3.4 + 6.@: qa cencnei 2quplqas´ 3l calznisº 4s´uvlus´i . zana . menace Co 3.6: velias´ . fanacnal . quflqas´ 2alpan . menace . clen . ceca . tuqines´ . tlenaceis´ Vt 3.2: menu turuke pet[ru ------]s´ ree 65-68, 7@ (Colonna): mi : raqº[u]nqia : tipeia : qina : malac [: malaka]si º : ita : menaº[q]u

Segue la forma verbale mlaqce, chiaramente un preterito attivo in -ce, analogo a utince e mutince delle due versioni dei passi del Liber linteus. La sua funzione, come detto, potrebbe essere di predicato verbale della frase relativa introdotta da in ecs; un’alternativa è che questo ruolo sia ricoperto da mene, che in definitiva rimanda ad una radice verbale, e che mlaqce sia il verbo della frase principale, reggente le possibili forme verbali che seguono (marni e tuqi, così come utince sembra reggere zicne e s´etirune, e mutince sembra reggere qezine, ruze e nuzlcne). Secondo alcuni, 3 la radice verbale di mlaqce è la stessa di altre due supposte forme verbali, mlace e mlace:  

Ta @.@64: spitus . larq . larqal . svalce . lxiii 2hus´ur . mºac . acnºaºnas . arºce . maniim 3mlace . farqne . faluqras at @.@07: alarq : aleqnas : arnqal : ruvfialc : clan 2avils : lx : lupuce : munisvleq : calusurasi b tamera : zelarºveºnºaºs : luri : mlace Vs @.@79: vel : laºqites[ :] arnqial : rºuºva : larqialis´a[m] : clan : velusum : 2neft ºs´º : marnuºcº spurana : eprqnevºcº : tenve : meclum : rasneas 3clevsinsl[ :] zºilacnvºe : pulum : rumºitrineºqi : ml ºaºce : clel : lurº[i] ll v.2@-22: ... cisum . qesane . uslanec 22mlace . luri . zeric . zec . aqelis´ ...

In particolare, l’iscrizione Ta @.@64 sembrerebbe testimoniare l’uso di mlace come verbo, introducente una dichiarativa, reggendo un possibile infinito sostantivato in -(n)e, ovvero farqne, che è chiaramente collegato alla radice del verbo preterito passivo farqnace, ricorrente in molte iscrizioni funerarie per indicare la filiazione

Lattes @9@7, pp. @02-@03; Ribezzo @929a, p. 83; cfr. Buonamici @932, p. 359; Cortsen @939, p. 276); per Olzscha, che parte dal confronto con le proposizioni relative della Mummia di Zagabria, mene è l’oggetto del verbo in -ce, ed è tradotto con ‘Gabe’ (Olzscha @939, pp. 83, 89).   Colonna, in particolare, ha proposto di tradurre la radice *men- come ‘fare (come dono)’, nell’analisi dell’iscrizione arcaica con il testo hisamenetinnuna, in scriptio continua, proveniente da Cuma (Colonna @995, pp. 337-338; cfr. lo stesso in ree 65-68, 7@. Su men- ‘fare’ si veda anche Wylin 2000, pp. 200-20@). 2   Alle forme citate, più chiare sul piano dell’analisi, se ne aggiungono altre analoghe ma meno perspicue: mena (Pe 8.4a23), menaqa (Vt 8.@), mename (as 7.@), menas´ (ll viii.5), menatina (sulla Lamina di Santa Marinella, Cr 4.@03, per cui si rimanda al cap. iii.6.). Inoltre, si considerino le forme ‘articolate’ menita* e menica del Piombo stesso, che saranno affrontate in seguito (rispettivamente, §§ 4.3. e 4.4.). 3   Cfr. da ultimi Wylin 2000, pp. @52, 222-224; Belfiore 200@, p. 239. @

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e tradotto generalmente con ‘è stato generato’. @ Tuttavia, tanto il passo del Liber linteus, quanto le iscrizioni at @.@07 e Vs @.@79, permettono piuttosto di individuare un rapporto stretto tra le forme in mla- e luri: mlace luri e mlace luri sembrano verosimilmente due varianti di uno stesso sintagma locativo, il cui caso retto sarebbe mlac lur*. 2 È possibile, pertanto, che anche in mlace farqne sia da individuare un sintagma al locativo, che al caso retto avrebbe dovuto essere qualcosa come mlac farq(a)n: di conseguenza, non esisterebbe alcuna voce verbale mlace. La forma mlaqce sembrerebbe quindi appartenenere al paradigma della radice *mla-, su cui è costruito anche l’aggettivo mlac (quindi, mla-c, con suffisso -c che in etrusco connota sostantivi e aggettivi: cfr. Vc 7.27: velzna-c ‘volsiniese’); il significato di mlac da tempo è stato individuato da Agostiniani con ‘buono, bello’, in quanto la formula mlac mlakas, in prospettiva interlinguistica, condivide gli stessi contesti di occorrenza del falisco duenom duenas (in latino classico bonum bonae) e del greco kalo~ kalo¯. 3 Il significato della radice verbale mla-, pertanto, sarà in qualche modo riconducibile a quello di mlac; 4 secondo Wylin, poi, il -q- della forma mlaqce sarebbe un morfema verbale esprimente la categoria aspettuale della non perfettività. 5 Quindi, la sequenza marni tuqi tiu. Di tuqi, si è già detto della possibilità che vada inteso come voce verbale, sia per confronto con il resto della documentazione relativa alla radice *tuq(i)-, sia in base alla comparazione con il Liber linteus e le frasi relative analoghe, che presentano dei probabili infiniti verbali in -(n)e nella parte in cui, nel Piombo, si trova la sequenza marni tuqi tiu. Questo porterebbe ad ipotizzare che anche marni, in qualche modo, sia una forma verbale. 6 In effetti, la  











@   Ad esempio in Vc @.64: larq tutes anc farqnace veluis 2tuteis qancviluisc 3turialsc ‘Larq Tutes che è stato generato da Vel Tute e da Qancvil Turi’; altre attestazioni: Vs 0.@@, Vc @.92 (due volte), Vc @.93; inoltre si considerino le voci farqana (Pe @.460), farqan (ll ii.@2, iv.8 (congett.), v.7, ix.@4) e farqans (Cr 4.@5), questi ultimi due caso retto e genitivo di un probabile teonimo o nome generico divino (assimilabile al lat. genius, per cui si veda sopra). Di diverso avviso Colonna, che considera farqne faluqras un’apposizione di spitus larq, e traduce con ‘progenie di un Faluthra’, intendendo farqna come equivalente a ‘figlio naturale’ (Colonna @980, pp. @66-@67). 2   Cfr. Facchetti 2002b, p. 587; Facchetti 2003, p. 209. 3   Agostiniani @98@ (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 3-@9). In precedenza si era soliti tradurre mlac con ‘dono’ o ‘voto’ (cfr. Agostiniani @98@, pp. @04-@05 = Agostiniani 2003-2004, i, pp. @2-@3). Su mlac si veda anche, da ultimo, Maras @998b, pp. @85-@90. 4   Se mlac vale come ‘buono, propizio’, mla- sarà ‘essere propizio’ o ‘propiziare’? Facchetti traduce  mlaqce con ‘hanno benedetto’ (Facchetti 2000b, p. 26@). 5   Wylin 2000, pp. @52, @83-@86 (per una critica cfr. Belfiore 200@, pp. 238-240); cfr. anche Wylin 2000, pp. 222-224, in cui si dubita che mlac- e mlac siano la stessa radice; per Wylin «una traduzione nel senso di fu/era buono sembra quasi inaccettabile», ma nello specifico non spiega perché: la traduzione sembra anzi pertinente, se si considera ‘buono’ come termine generico al quale si ricollegano anche i significati di ‘benevolo, propizio ecc.’; cfr. infine pp. 228-229, dove la frase aiseras in ecs mene mlaqce marni tuqi è tradotta come ‘per gli dèi, per i quali il maru e il pago offrivano con buoni (perfetti?) presagi’. 6   Solo con l’edizione degli et si è potuta constatare l’esistenza del punto tra mlaqce e marni, la cui suddivisione sembra peraltro motivata sul piano dell’analisi testuale, come visto sopra. Precedentemente, la sequenza mlaqcemarni era stata interpretata in maniera diversa: ‘Kuchen- Blumen- Frucht-Opfer’ (Deecke @884a, p. @45; Deecke @884b, p. vii; ‘Kuchen- Blumen- Lamm-Opfer’ in Deecke @885a, p. @9; Deecke @885b, pp. 253-254); per Torp indica l’oggetto offerto in dono alla divinità Aisera (Torp @905, p. @3); per Trombetti è ‘favori’ (Trombetti @928, p. @70); anche per Goldmann è ‘la determinazione del sacrificio’ (Goldmann @928, p. 243). Ribezzo, sulla base di quanto detto già da Lattes (Lattes @9@7, p. @02, nota 2) propone una suddivisione in mlaqce marni, interpretando il primo come preterito in -ce da

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documentazione etrusca testimonia alcune forme in -ni sicure radici verbali: una, mulveni, proprio nell’iscrizione del Piombo, nel lato b, che sembra una derivazione per suffissazione dal noto termine mulu (‘dono, donato’), e che rappresenta la radice non marcata del preterito arcaico mulvenice (e forme affini, dal significato di ‘donò’); inoltre svaleni (Ta 8.@), da mettere in relazione con sval- ‘vivere’; forse capeni (ll x.2), da cap(i) ‘prendere’, ma il passo presenta alcune difficoltà di lettura; forse anche hes´ni, che sembra correlato in asindeto con mulveni. @ Sul piano semantico, però, non vi sono confronti apprezzabili: non sembrerebbe giustificato un rapporto con la serie marnuc, marunuc ecc., perché ricorre in contesti diversi e raccoglie le derivazioni lessicali del termine maru, che identifica chiaramente una carica pubblica. 2 Oltre alla serie di maru, si ha solo una forma marne, in un contesto purtroppo oscuro, che non è di alcun ausilio per l’analisi di marni. 3 Rimane, infine, da analizzare tiu. Se per marni e tuqi è stato possibile almeno ipotizzare una valenza verbale, questo non è certo il caso di tiu, i cui confronti rimandano piuttosto ad una forma lessicale. Si considerino, in particolare:  





Cr 4.5: nac . qefarie . vel2iiunas . qamuce 3cleva . etanal . 4masan . tiur 5unias . s`elace . v6acal . tmial . a7vilcval . amuc8e . pulumcv9a . snuiaf Cl 4.@: mi tiiurs´ kaqunias´ul at @.22: vipinanas : vel : cla2nte : ultnas : la(r)qal clan 3avils : xx : tivrs : s´as Pa 4.2b: (@) usils (2) tivs ree 63, 48 (Maras): mi tiu Tabula Cortonensis: a5... inni . pes . pêtrus´ . pav6ac . traulac . tiur . tên[q]urc . tênqa . zacinat . pr7iniserac . zal // ...

Tradizionalmente tiu(r) è considerato il nome etrusco della luna. 4 Torp ha evidenziato come esso sia utilizzato metaforicamente anche per significare ‘mese’, 5 così come tins´, ‘Giove’, vale anche per ‘giorno’, ad esempio nelle sequenze del Liber linteus del tipo ll iv.2: ... eqrse . tins´i . tiurim . avils´ . cis´ ..., che è chiaramente una formula di datazione. 6 Il valore di tiur ‘mese’ è confermato poi dall’iscrizione at  





un tema analogo a mlac che, essendo ancora tradotto come ‘offerta’, porta ad un’interpretazione come ‘offrì’ (Ribezzo @929a, pp. 83-84; cfr. Buonamici @932, p. 359); Leifer, in mlaqcemarni tuqi, riconosce «eine Bezugnahme auf das maru-Amt [...]» (Leifer @93@, p. 280); Cortsen, invece, riconosce nella radice mar-, presente tanto in mlaqcemarni quanto in marcalurcac (si veda sotto) «eine Flüssigkeitsbezeichnung» (Cortsen @939, p. 276). Per Morandi, infine, indicherebbe il sacrificio da compiere ad Aisera (Morandi @982, p. 37). @   Con più difficoltà peqereni (ll vi.4, x.2, x.4, xi.8), per il quale si veda Belfiore 20@0, pp. @33-@34, @63-@64, che tende a considerarlo piuttosto un avverbio (‘di nuovo, ancora’). 2   Così, da ultimi, Wylin 2000, p. @@6, e Facchetti 2000b, p. 26@, il quale traduce marni tuqi ‘la magistratura (e) il villaggio’. 3   Cfr. Vs 4.2: a[-@5/20-] / ceca marne; l’unica considerazione possibile è che la posizione in finale di frase non sarebbe in contrasto con un’interpretazione di marne quale forma verbale. 4   Così già Deecke (Deecke @884a, p. @45; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, pp. 20-2@; Deecke @885b, p. 254). 5   Torp @902-@903, i, pp. 69-70, 99-@00; Torp @905, pp. @@-@2. Cfr. anche Skutsch, art. cit. (p. 22, nota 2), col. 793; Rosenberg @9@3, p. 65; Olzscha @939, pp. 98-99. 6   Si veda Belfiore 20@0, pp. 72-75. La sequenza ricorre nel complesso in nove passi del Liber linteus (ii.n2-n3, ii.5-6, iii.2@-22, iv.2, v.4, viii.@5, viii. f6-@@, ix.3-4, ix.@0-@@), alcuni quasi del tutto ricostruiti tramite confronto.

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@.22, in cui l’età del defunto è così precisa da riportare anche i mesi: ... avils : xx: tivrs : s´as ‘... di anni venti, mesi quattro’. L’iscrizione Cl 4.@, invece, si richiama al valore di teonimo, che è inserito in un’‘iscrizione parlante’ di possesso; in particolare, il teonimo tiur è caratterizzato attraverso l’epiteto kaqunias´*, @ in uno schema formulare piuttosto comune nelle iscrizioni etrusche (cfr. ad esempio maris´ menita* nella terza sezione del lato a del Piombo stesso). Lo stesso sembra valere per tivs del Fegato di Piacenza (Pa 4.2): compare insieme a usil-s, ‘sole’, sul lato b del fegato bronzeo, costituendo una coppia divina piuttosto comune (da notare che le altre iscrizioni sono tutte sul lato a). Incerto invece è il valore di tiur nella Lamina aurea b di Pyrgi (Cr 4.5), benché non vi siano dubbi sul fatto che sia un sostantivo. 2 L’iscrizione ree 63, 48 è considerata da Maras «una consacrazione in caso retto non priva di confronti sia nell’epigrafia sacra arcaica che, soprattutto, in quella recente». 3 Nella Tabula Cortonensis, poi, il termine tiur è in chiaro rapporto di correlazione con il termine tênqur; questa parola ha tutte le caratteristiche di un’unità di misura spaziale, e ciò farebbe supporre che anche la parola tiur vada intesa in questo senso, almeno nel testo della Tabula, dando così luogo ad un terzo significato, dopo quelli di ‘luna’ e ‘mese’: Agostiniani fa notare che, in effetti, anche in latino il termine mensis ‘mese’ ha un rapporto ‘forte’ a livello formale con il concetto di ‘misurare’, ma non esclude che la correlazione non sia tra due termini, bensì tra due proposizioni, cosicché tiur potrebbe far riferimento a particolari aspetti temporali del diritto antico relativi alla compravendita di terreni. 4 Da ricordare, infine, che nel lato b del Piombo è presente la forma tiuras, evidentemente genitivo di tiur, che sarà studiata in seguito. 5 Ciò che sfugge ad una prima analisi è il rapporto tra le forme con tiu (Pa 4.2, ree 63, 48, il Piombo di Magliano nella sezione discussa) e quelle con tiur (Cr 4.5, Cl 4.@, at @.22, i passi del Liber linteus, ancora il Piombo di Magliano nel lato b); dal momento che tiu sembra comportarsi come un normale sostantivo (nel Fegato di Piacenza è flesso al genitivo), si potrebbe pensare che tiur sia il plurale in -r di tiu, che quindi si configurerebbe come [+ animato]; l’iscrizione at @.22, in effetti, lo vede associato al numerale s´a-s ‘quattro’ (al genitivo). È però singolare che un termine che significhi ‘mese’ sia considerato animato; del resto, la correlazione con avil in at @.22 e con tins´ nel Liber linteus, entrambi singolari (o, meglio, non specificati dal punto di vista della categoria del numero), porta piuttosto a pensare che tiur  









  Cfr. Maras 2009, pp. 239-240.   Le difficoltà di interpretazione derivano anche da una non chiara disposizione del testo: i primi commentatori intendevano la sequenza tiurunias come un’unica parola; del resto, Pallottino non esitava a mettere in relazione tiurunias con le altre forme qui presentate, sostenendo che «[...] tiurunias è una forma ampliata e vocalizzata del tema tiur-; ma non può significare che ‘mese’ [...]» (Pallottino et alii @964, pp. @0@-@02; cfr. anche Pfiffig @965, pp. 37-38; Tovar @98@, p. @@0). 3   Si veda il commento stesso all’iscrizione, graffita sul piede di una brocchetta databile al iii sec. a.C., proveniente da Veio, e originariamente letta micºiu. Le formule di possesso al caso retto sono state studiate 4 in Colonna @983a.   Agostiniani, Nicosia 2000, p. @03. 5   Le forme dell’onomastica tiucies (oa 2.25), tiuza (Cl @.@33, @.@34, @.@35), tiusa (Cl @.@30, @.@3@) e tius (Cl @.@34, @.@35) per quanto possano avere una relazione con tiu/tiur, non sono utili a definire ulteriormente la semantica del termine. @

2

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vada considerato un singolare. Inoltre, si pensi all’iscrizione Cl 4.@, dove il termine è chiaramente inteso come un teonimo affiancato da un epiteto divino, e quindi necessariamente singolare. @ Infine, si consideri di nuovo l’attestazione nella Tabula Cortonensis: come detto sopra, Agostiniani nota che il termine tiur è in correlazione con tênqur, ed è probabile quindi che ne condivida la condizione nei confronti del parametro dell’animatezza. La forma tênqur, però, sembra essere nello stesso rapporto con s´ran, che è sicuramente inanimato: infatti, ancora nella Tabula Cortonensis, si ha s´ran s´ar(-c), che significa ‘@0 s´ran’; qui s´ran, associato ad un numerale, non ha marche di plurale, come è consuetudine per i sostantivi inanimati; quindi anche tênqur, e di conseguenza tiur, quasi sicuramente sono inanimati (e singolari). 2 Stabilito quindi che tiur è un singolare inanimato, si pone il problema di determinarne il rapporto con le attestazioni di tiu, che peraltro, come si è visto, occorrono in contesti dove i significati di ‘luna’ e ‘mese’ sono del tutto plausibili; nel caso del Piombo di Magliano, già Rosenberg notava che la posizione di tiu della seconda sezione è analoga a quella di avils nella prima: 3  





Prima sezione:

tuqiu

avils

Seconda sezione:

tuqi

tiu

lxxxez

cimqm casqialq lacq cimqm casqialq lacq

Data però la mancanza di elementi sufficienti, è opportuno sospendere il giudizio sullo status delle attestazioni con tiu: anche leggerle come abbreviazioni di tiur, per quanto sembri l’unica possibilità concreta, al momento non può che essere considerato un tentativo di analisi non supportato da motivazioni vere e proprie. Nel caso presente, inoltre, è da notare che considerare tiu una semplice abbreviazione comporterebbe l’assenza della marca flessiva, a fronte del genitivo avils che sembrerebbe avere posizione simile nella sintassi della prima sezione, con evidenti ripercussioni sul piano della comprensione dei rapporti sintattici della seconda sezione. La frase si chiude con le parole cimqm casqialq lacq, in una sequenza già osservata per la prima frase: senza ritornare sulla discussione del segmento, è ovvio che, se l’analisi proposta è giusta, l’azione rituale prevista per gli aiser avrà gli stessi connotati spaziali di quella per cauqa, ferme restando le differenze intuibili dall’utilizzo di due formule diverse, non del tutto sovrapponibili. @   In Rix @998, pp. 2@8-2@9, è recuperata una vecchia idea di Kretschmer circa un possibile adattamento in etrusco del nome della dea lunare latina Diana (da un ricostruito *diwijo-). L’uso del plurale tiu-r per designare la luna, secondo Rix, «potrebbe rispecchiare l’idea che dopo ogni novilunio appaia una luna nuova». Questo, secondo Rix, spiegherebbe appunto l’apparente discrepanza tra l’ipotesi di tiur plurale e l’evidenza data dall’iscrizione Cl 4.@; una proposta simile è stata avanzata anche da Cristofani, che, partendo da tiiur di Cl 4.@, e in base al confronto con altri teonimi come acviser e eqausva, ipotizza «un processo di lessicalizzazione al singolare di un plurale» tramite il quale tiur diventa «la divinità dei mesi omologata alla luna già nel vi sec. a.C.» (Cristofani @993a, p. @6). L’idea, di per sé interessante, non è verificabile; del resto, sembrerebbe più naturale il processo inverso, in cui un termine con referente concreto (tiur = ‘luna’) passa ad indicare, attraverso un meccanismo metaforico, una realtà più astratta, quale il concetto di ‘mese’ (si vedano inoltre le perplessità in Agostiniani, Nicosia 2000, p. @03, nota 2@3). Maras, infine, individua un «ampliamento -r, omografo della marca del plurale, [...] attestato in etrusco per diversi termini» tra cui anche tivr, per il quale, peraltro, non esclude l’ipotesi Cristofani circa una rilessicalizzazione come singolare di un originario plurale (Maras @998b, p. @84). 2   Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 90-9@, @03; cfr. inoltre, sullo stesso argomento, già Agostiniani 3 @992, p. 57, nota 35 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @45).   Rosenberg @9@3, p. 73.

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Riassumendo, la seconda sezione del Piombo inizia con un teonimo al genitivo (aiseras), come la sezione precedente e quella successiva, anche se ulteriormente specificato da una frase relativa (che inizia con in ecs), i cui limiti non sono ben definiti: in particolare, non è chiaro se il predicato della relativa sia mlaqce o mene. Vi è peraltro una terza possibilità, ovvero considerare il predicato della relativa come sottinteso, qualcosa del tipo ‘agli dei, ai quali (è) il mene’. Se, dunque, mlaqce è da intendere come il predicato non della relativa ma della principale, si potrebbe individuare un parallelismo strutturale tra prima e seconda sezione, malgrado le evidenti discrepanze formali:

i ii

teonimo al genitivo

predicato verbale

contesto temporale

contesto spaziale

cauqas

tuqiu

avils lxxxez

cimqm casqialq lacq

aiseras

mlaqce

tiu

cimqm casqialq lacq

└───

in ecs mene

└───

(marni) tuqi

In particolare, mlaqce qui sembrerebbe avere quasi la funzione di ‘ausiliare’ delle possibili forme verbali marni e tuqi, che si suppone siano correlate per asindeto; del tutto oscura, invece, la veste grammaticale di tiu, per quanto sia probabile che costituisca un riferimento al contesto temporale. Come si è visto sopra, l’analisi della prima sezione ha constatato la presenza di una struttura piuttosto articolata, in cui il sintagma nes´l man sembrerebbe avere il fondamentale ruolo di soggetto del predicato tuqiu; inoltre, la prima sezione è completata da altri sintagmi, uno sicuramente temporale (hevn avil), e uno forse strumentale (murinas´ie falzaqi). Se si accetta che la struttura della seconda sezione sia analoga alla prima, si dovrebbe necessariamente supporre che almeno alcuni di questi sintagmi siano da considerare impliciti: su tutti, proprio nes´l man, che come detto potrebbe individuare l’azione rituale stessa; tuttavia, non vi sono ragioni sufficienti per ipotizzare una situazione del genere, dal momento che anche l’interpretazione della struttura della prima sezione, come è stata illustrata sopra, è largamente ipotetica e necessita di ulteriori conferme sul piano sintattico e semantico. È opportuno, pertanto, limitarsi a segnalare alcune verosimili convergenze tra le due proposizioni, senza spingersi oltre nella ricerca di parallelismi formali non evidenti. 4. 3. La terza sezione del testo maris´l menitla . afrs . cialaq . cimqm . avilsc . eca . cepen . tuqiu . quc . icutevr . hes´ni . mulveni . eq . zuci . am . ar .

Le singole parole sono quasi tutte delimitate per mezzo della punteggiatura, tranne la sequenza iniziale, che comunque si segmenta per evidenza. L’unico effettivo dubbio è relativo alla sequenza icutevr, che così com’è non ha confronti: la presenza di una radice tev- in etrusco rende probabile che la segmentazione giusta sia icu tevr.

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Un problema ulteriore è rappresentato dalla possibilità che non vi sia cesura sintattica tra la fine dell’iscrizione sul lato a e l’inizio dell’iscrizione sul lato b. Alcune considerazioni, sviluppate nella parte finale di questo capitolo, permettono però di ritenere questa eventualità poco probabile: in primo luogo, la sequenza eq zuci am ar, che ha l’aspetto di una clausola conclusiva e di riepilogo; secondariamente, l’attacco del lato b, che come si vedrà nella sezione successiva sembra rispettare il principio, applicato nelle tre sezioni del lato a, di iniziare con il riferimento ad una divinità. La sezione è quindi composta da diciotto parole, che confrontate con le trediciquattordici della prima e le undici della seconda sembrano testimoniare un’articolazione interna più complessa, forse anche un’ulteriore suddivisione in proposizioni indipendenti, come peraltro si può supporre dalla presenza di eq ‘così’, che generalmente è attestato all’inizio di una frase. Come le prime due sezioni, anche la terza (l’ultima del lato a) si apre con un teonimo al genitivo; inoltre, come nella seconda sezione, il nome della divinità è ulteriormente definito: però, a differenza della sezione precedente, in cui aiseras è seguito da una relativa, il teonimo maris´l è specificato dall’epiteto menitla. Sul piano morfologico la struttura dei due termini, nome divino ed epiteto, è palese: sono entrambi due genitivi, il secondo dei quali costruito per mezzo del dimostrativo (e)ta, ovvero mari[sˇ]-l meni-t(a)-la. Il teonimo mari[sˇ] è noto da varie attestazioni, perlopiù come didascalia su specchi. @ È interessante notare che spesso è associato a degli epiteti o comunque a delle specificazioni, come nel caso del Piombo di Magliano: maris´ halna (Vs S.@4, Cl S.8), maris´ husrnana (Vs S.@4, Cl S.8), maris´ isminqians (Vs S.@4), maris´ hercles (Vs S.20), maris tinsta (oi S.63), maris-l harq sians´-l (Cl 4.2). 2 Per quanto un rapporto tra mari[sˇ] etrusco e Mars latino possa sembrare intuitivamente proponibile, è tuttavia da escludere che i due teonimi abbiano avuto origine comune, soprattutto considerando che Mars proviene da *Mart-s (cfr. il genitivo Martis); oltre a ciò, vi sono differenze iconografiche piuttosto forti: il mari[sˇ] etrusco è rappresentato generalmente come un fanciullo o un adolescente, e non ha le caratteristiche di dio guerriero proprie del Mars latino; se può esservi qualche forma di relazione, essa sarà da ascrivere quindi ad una convergenza in età storica di carattere superficiale, motivata essenzialmente dalla somiglianza tra i due nomi. 3  





@   Come maris´ in Vs S.@4 (tre volte), S.20, Cl S.8 (due volte), S.@3; come maris in Vc S.27, oi S.4@, S.63; come marisl in Cl 4.2 e nel Fegato di Piacenza (Pa 4.2, tre volte, due delle quali integrate). 2   Sulle ‘denominazioni binarie’ del pantheon etrusco si veda De Simone @997. 3   Cfr. Pfiffig @975, pp. 249-250. Inizialmente, l’indirizzo generale della ricerca era di considerare lat. Mars ed etr. maris´ in connessione (cfr. Deecke @884a, p. @46; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. @0; Deecke @885b, pp. 254-255; Milani @893, col. 58; Torp @905, p. @3; Körte @905, p. 369; Lattes @9@@, coll. 295-296; Trombetti @928, p. @70; Ribezzo @929a, pp. 84-85; Buonamici @932, p. 359). Anche Cortsen riteneva maris´ e Mars strettamente correlati, sostenendo però che gli attributi guerreschi del Marte latino erano successivi alla connotazione ctonia, prettamente etrusca, che invece costituiva la natura originaria della divinità (Cortsen @938b, p. 272, nota @; cfr. Cortsen @939, p. 27@). Hermansen, invece, è più cauto sull’argomento, osservando che l’oscura divinità etrusca Maris´ sembra essere sempre disgiunta da Laran, il dio etrusco della guerra, il quale invece raccoglie in sé tutti gli attributi divini del Marte guerriero

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Come accennato sopra, l’epiteto menita*, di cui si ha attestata solo la forma al genitivo menitla, è costruito per mezzo del pronome (qui enclitico) -ta: la forma base dell’attributo, pertanto, dovrebbe essere meni-, chiaramente appartenente alla stessa serie di mene discussa nella sezione precedente, e che rimanda ad una radice men- ‘fare, donare’; così, menita* è in genere interpretato come ‘colui che fa, che dona, che porta’, e il sintagma maris´l menitla come ‘a Maris´, colui che dona’ o simili; lo stesso appellativo sembra tornare sul lato b del Piombo come meni-ca. @  

La porzione di testo che segue maris´l menitla non è immediatamente comprensibile nella sua struttura sintattica: pertanto, è opportuno affrontarne l’analisi parola per parola, e solo in un secondo momento tentare di individuare i legami morfosintattici che costituiscono l’ossatura della frase. La terza parola, afrs, ritorna anche alla fine del lato b dell’iscrizione, nel possibile sintagma afrs naces. Tralasciando le proposte, più lontane nel tempo, di leggervi un rapporto con il lat. aper ‘cinghiale’, 2 o il supposto termine etrusco per il farro, 3 l’esegesi si è da sempre concentrata su due interpretazioni principali e in qualche modo connesse: la prima, risalente a Torp, vede in afrs il genitivo di un plurale analogo al latino Manes; 4 la seconda, a partire da Trombetti, interpreta afrs come ‘antenati, parenti’. 5 Recentemente, infine, Facchetti ha proposto che afrs sia il genitivo di un  







latino (Hermansen @984, pp. @59-@60). Sull’argomento si veda inoltre M. Cristofani, in limc vi, @992, pp. 358-360, s.v. Maris i. Steinbauer, infine, considera maris´ non un teonimo ma un sostantivo comune: ‘Knabe’ (Steinbauer @999, p. 309). @   Per Deecke menitla significava ‘am Monatsende’, poiché men- richiamerebbe la radice indoeuropea da cui si ha anche il latino mensis (Deecke @884a, p. @46; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. @5; Deecke @885b, p. 254; cfr. anche Milani @893, col. 58); Torp, invece, intende giustamente menitla come genitivo di menita*, che come detto torna più avanti, da una radice men- «which must mean something like ‘give’ or ‘bring’»; menitla regge poi afrs, che Torp considera un teonimo al plurale analogo al lat. Manes (si veda sotto): pertanto, menitla afrs sarebbe la forma al genitivo di un termine analogo al greco yucopovmpo~, e tutto il sintagma maris´l menitla afrs significherebbe qualcosa come ‘a Maris´, colui che accompagna le anime’ (Torp @905, p. @6; già Torp @902-@903, ii, p. 9@; cfr. anche Cortsen @938a, p. 254; Cortsen @938b, pp. 273-274; Cortsen @939, p. 275); secondo Goldmann l’intera sequenza menitla afrs cialaq cimqm contiene, nella prima parte, un’indicazione di tempo, mentre nella seconda è specificata la natura del sacrificio (Goldmann @928, pp. 243-244); per Trombetti menitla è ‘offerta’ (Trombetti @928, p. @70, ma a p. 207 è tradotto con ‘mensile’); anche per Ribezzo menitla significa ‘offerta’ e traduce con il lat. oblatio (Ribezzo @929a, p. 85; cfr. Buonamici @932, p. 359); per Morandi «menitla indicherebbe l’epoca» del sacrificio da compiere a Maris´, come nella seconda sezione ecs mene (Morandi @982, p. 37). Per Hermansen, infine, menitla, come attributo di maris´l, sarebbe da intendere come il lat. Almus (Hermansen @984, pp. @60-@6@). 2   Cfr. Deecke @884a, p. @46; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, pp. @8-@9; Deecke @885b, p. 254; Lattes @894, p. @63; Lattes @9@@, coll. 293-295. 3   Ribezzo @929a, pp. 85, @00-@0@ (cfr. Buonamici @932, p. 359). 4   Torp @905, pp. 8-9: l’interpretazione di Torp si basa inoltre su una variante di lettura della Stele del Guerriero di Vetulonia (per cui si rimanda più sotto alla discussione di afrs naces, § 4.4.), oggi non più accettata; su etr. afrs = lat. Manes cfr. inoltre Cortsen @938a, p. 254; Cortsen @938b, pp. 273-274; Cortsen @939, p. 275; Morandi @982, p. 37. 5   Trombetti @928, p. @73 (ma si veda la critica in Pallottino @958, pp. 5@-52, 68-70; peraltro, successivamente lo stesso Pallottino sembra accettare l’ipotesi di Trombetti, cfr. Pallottino @984, p. 506). Per Hermansen afrs significa ‘forefather’ e sarebbe un epiteto di maris´l al pari di menitla: pertanto, la sequenza maris´l menitla afrs sarebbe tradotta, in latino, Maris Almus Pater (Hermansen @984, pp. @60-@6@).

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teonimo afr*. @ Per quanto riguarda la documentazione epigrafica, non sembrano esservi confronti di rilievo, se si escludono le forme onomastiche afr, afrce e afur. 2 La parola successiva, cialaq, comporta incertezze anche maggiori. Già dai primi tentativi di interpretazione si è supposto che nella sequenza fosse presente il numerale ci: o come base lessicale di un derivato, o come elemento quantificatore all’interno del sintagma ci alaq, o come riferimento numerico del precedente afrs. 3 Sul piano della struttura interna, cialaq può essere o un locativo, come già proposto da Torp, o un predicato verbale in -q, o un sostantivo in -aq. Facchetti ritiene cialaq affine a s´leleq del Cippo di Perugia (Pe 8.4a3), che considera derivato dal numerale zal ‘due’, e che traduce pertanto con ‘in coppia’; analogamente, per cialaq propone la traduzione ‘tre assieme’. 4 Su cimqm si è già detto ampiamente nella prima sezione: qui basti notare che, a differenza delle prime due sezioni, cimqm occorre da solo, senza essere seguito dalle due parole casqialq lacq, a testimoniare forse l’effettiva indipendenza della parola, come del resto già supposto nella spiegazione relativa alla prima frase del testo. Sarà da considerare quindi un riferimento spaziale, indicante in ultima analisi che i riti previsti (o effettuati) per le tre divinità o gruppi di divinità sono relativi allo stesso luogo. Per quanto riguarda avilsc, è evidente che esso rimandi alla parola avil ‘anno’: è  







@   Facchetti 2000b, p. 26@ (cfr. anche Facchetti 2002a, p. 90); cfr. anche Wylin 2004b, p. 2@5 (l’interpretazione di Wylin non si basa però su questo passo, bensì sulla sezione afrs naces alla fine dell’iscrizione sul lato b, cfr. oltre, § 4.4.). In particolare, Facchetti considera maris´ e menita* i nomi di due divinità distinte, correlate per asindeto con afr*: le tre divinità sarebbero poi ricordate, per anafora, nel cialaq successivo, che Facchetti traduce con ‘tre assieme’, per la cui discussione cfr. poco più avanti nel testo. 2   Il nome afr è attestato in Ad 2.22 (riedita da Francesca Piva in ree 65-68, @@8), afrce in Cl @.550, @.558, @.@32@, @.2437, @.2593 (la lettura di quest’ultima è corretta in Benelli @998, p. 233), afur solamente in as @.269. 3   Per Deecke tutta la sequenza afrs ci alaq cimqm si suddivide in due sintagmi analoghi e correlati per asindeto, afrs ci e alaq cimqm, che indicherebbero le offerte a Marte: ‘Eber 5, Geflügel @00’ (Deecke @884a, p. @46; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, pp. @7-@8; Deecke @885b, pp. 253-254; cfr. anche Lattes @9@@, col. 304); la giusta lettura del passo è data però da Milani, che non vede alcun punto di divisione tra ci e alaq (Milani @893, col. 54). Per Torp, che correttamente individua in ci il valore numerico di ‘tre’, cialaq è una forma derivata avverbiale (originariamente un locativo, dal momento che ha la terminazione -q), analoga al lat. tertio loco (Torp @905, p. @3); anche Trombetti lo considera un locativo di un derivato da ci ‘tre’, ma sostiene che *ciala- sia derivazione da *ci-a-l-, un ‘genitivo aggettivale’ alla base anche delle decine, come in cial-c- ‘trenta’ (Trombetti @928, p. @70); analogamente, Pfiffig considera cialaq forma arcaica per cialc* ‘trenta’ (Pfiffig @969, p. @25; cfr. anche Hermansen @984, pp. @60-@6@, nota 5@); per Goldmann, come detto sopra, le parole afrs cialaq cimqm specificano verosimilmente la natura del sacrificio (Goldmann @928, pp. 243-244); Ribezzo invece collega cialaq a cimqm avilsc, da considerare complessivamente come indicazione temporale (Ribezzo @929a, pp. 85-86; inoltre, anche Ribezzo sostiene che cialaq derivi dal numerale ci, che però traduce, come Deecke, con ‘cinque’, cfr. Buonamici @932, p. 359: etr. cialaq = lat. quinto); per Cortsen la parola è del tutto oscura, per quanto noti che «wegen der Ausführlichkeit, womit diese Opferhandlung besprochen ist, muß man sicher an die Benennung eines grösseren Tieres denken», forse un toro (Cortsen @939, p. 276). Anche per Morandi «cialaq è forse riportabile al numerale ci = “tre” e potrebbe indicare le volte che deve essere ripetuto il sacrificio espresso dalla parola cimqm» (Morandi @982, p. 37). Steinbauer, infine, considera cialaq la forma non sincopata di cilq, ipotizzando che la relazione con il numerale ci ‘tre’ si risolva nell’individuazione di un calco lessicale del latino tribus (o del corrispettivo italico trifu-, cfr. Steinbauer @999, pp. @35, 409). 4   Cfr. Facchetti 2000a, p. @0, nota @9; cfr. anche Facchetti 2000b, p. @8@; Facchetti pensa che sia strutturalmente collegato a questi due termini anche qulut(-er) (Vs. 7.40), tradotto con ‘gemello’, in quanto derivato da qu ‘uno’.

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il piombo di magliano

generalmente considerato un genitivo seguito dalla congiunzione enclitica -c, resa però con -c. @ Trombetti, in parziale controtendenza con l’opinione generale, sostiene che -c finale non sia la congiunzione enclitica ma una terminazione aggettivale, traducendo avilsc con ‘annuale’; 2 l’idea di Trombetti comporta però alcune difficoltà nella ricostruzione morfologica di avil-s-c: per quanto poco si sappia sulla morfologia dell’etrusco, in tipologia è piuttosto raro incontrare una lingua che permetta di agglutinare morfemi derivazionali (come -q in etrusco) su morfemi grammaticali (come -s in etrusco), mentre è la norma per il contrario. 3 Pallottino, invece, si chiede se l’ultimo grafo (segno ‘a freccia’ rivolto verso il basso) sia da leggere non come un chi greco ma come il numerale ‘cinquanta’, che in etrusco prevede lo stesso segno ‘a freccia’ rivolto però verso l’alto. È da notare, tuttavia, che sul Piombo il segno ‘a freccia’ è utilizzato, in tutto, @@ volte (@0 occorrenze in basso, compreso avilsc; un’occorrenza in alto; per tutti cfr. Figg. @-2 e Tavv. i-ii), e nell’unico caso in cui funge da indicatore numerico è scritto correttamente verso l’alto. 4 L’ipotesi di leggere in -c la congiunzione enclitica sembra dunque la soluzione più convincente: è certo singolare, però, che la sostituzione dell’atteso -c con -c sia attestata ad una quota cronologica relativamente alta, dal momento che il passaggio -c > -c è noto perlopiù in età recente e solo sporadicamente. 5 Del resto, l’oscillazione -c/-c in finale di parola è attestata anche per altri contesti, ad esempio quando -c è terminazione aggettivale, come ad esempio in mulac e mulac, marunuc e marunuc: 6 qui, al contrario della congiunzione enclitica, l’elemento dominante sembra essere -c. Questo porterebbe a pensare che i termini della variazione siano esclusivamente fonetici, e che si tratti di varianti di contesto. Ora, è stato individuato da tempo che nella varietà di etrusco post-arcaico vi è neutralizzazione dell’opposizione [– aspirato] ~ [+ aspirato], per le occlusive, in presenza di sibilante postdentale [s]; in tali casi, l’arcifonema è rappresentato dalla variante non aspirata. 7 In avilsc, dunque,  













@   Per Deecke regge il seguente eca; in un primo momento Deecke traduce ‘und in diesem Jahre’  (Deecke @884a, p. @46), quindi ‘und im Jahre einmal’ (Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 2@; Deecke @885b, p. 253). Per Torp avils-c è retto da cepen: ‘the cepen of the year’ (Torp @905, pp. @6-@7); Ribezzo discute se -c sia «copulativo o aggettivale di valore partitivo o distributivo affisso al gen. avils», permettendo di tradurre, in latino, o come annorumque o come annuali (Ribezzo @929a, p. 86, cfr. Buonamici @932, p. 359). Così anche Cortsen, che dà alla parola un’accezione avverbiale: ‘und jährlich’ (Cortsen @939, p. 276). Morandi partendo dall’interpretazione di Torp secondo cui tuqiu deriva da qu ‘uno’, mette in relazione avilsc e tuqiu traducendo ‘e in un anno’ (Morandi @982, p. 37). Facchetti traduce avilsc con 2 ‘e dell’anno’ (Facchetti 2000b, p. 26@).   Trombetti @928, pp. @70, 207. 3   Cfr. Agostiniani @993a, p. 37, nota 67 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @77). 4   Sull’ipotesi di Pallottino cfr. tle 359, ad notam. Steinbauer propone una soluzione analoga, traducendo però con ‘@0’ invece di ‘50’ (Steinbauer @999, p. 3@0): evidentemente Steinbauer confonde il grafo ‘a freccia’, che rivolto verso il basso indica -c- e verso l’alto il numerale ‘50’, con il segno di trascrizione ›c‹, che è analogo al grafo x, con cui in latino e in etrusco è indicato il numero ‘@0’. 5   Cfr. as @.393 (puia-c, rec.); Vc @.93 (pumplial-c, terzo quarto iii sec. a.C.); Vt @.77 (cursnial-c, iii sec. a.C.); Vc @.6 (laqerial-c, rec.); Ta @.@@2 (murinal-c, i sec. a.C.): tranne la prima attestazione, si tratta esclusivamente di genitivi femminili in -(a)l. È dubbia invece la presenza della congiunzione enclitica in avilc, attestata in un contesto non chiaro, cfr. Vt 0.@0: larqis(a) avilc : lesu : nºi ºlunce 2mi acels : cem avil --aqle. Secondo i dati presentati da Agostiniani (aggiornati ai primi anni ’80 dello scorso secolo) i valori percentuali sono 94,5% di -c contro 5,5% di -c (cfr. Agostiniani @983, p. 53, nota 64 = Agostiniani 2003-2004, 6   Per le attestazioni delle voci citate si rimanda agli indici degli et. i, p. 49). 7   Cfr. Agostiniani @983, pp. 40-4@ (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 36-37). L’unico altro fenome-

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si avrebbe un’eccezione alla regola, che è invece rispettata nella parte iniziale del lato b dell’iscrizione, mlac qanra calusc ecnia, dove la congiunzione enclitica -c (in calus-c) si trova in una posizione del tutto identica ad avilsc eca, ovvero preceduta da sibilante -s e seguita da parola iniziante per vocale e-. Come è possibile notare, non sembra immediatamente spiegabile la presenza di -c in avilsc; in definitiva, potrebbe trattarsi anche, più semplicemente, di un mero fenomeno di ipercorrettismo, con sostituzione di -c con -c. Definite, per quanto possibile, le caratteristiche delle parole di questa prima parte, si deve ora tentare di individuare la struttura del periodo a cui appartengono. Si parta da avilsc: ammesso che -c sia la congiunzione enclitica, è da chiedersi se il polisindeto congiunga avilsc e la parola precedente (o le parole precedenti), oppure se la correlazione riguardi due porzioni di testo, la seconda delle quali introdotta da avilsc. Nella prima ipotesi, sarebbero posti sullo stesso piano un genitivo della parola etrusca per ‘anno’ e un locativo con posposizione di un termine cim-, di significato ignoto ma probabilmente indicante un luogo, a sua volta caratterizzato dalla congiunzione enclitica -m: sembra difficile trovare il nesso tra due sintagmi così diversi sul piano funzionale. Nella seconda ipotesi, si deve postulare che la terza sezione sia effettivamente composta da più enunciati: avilsc diventerebbe così parte della frase successiva; qui costituirebbe una determinazione sul piano temporale, anche se di carattere apparentemente diverso da quello testimoniato dall’uso canonico del genitivo avils nelle iscrizioni funerarie etrusche. Forse, come già ipotizzato per la locuzione della prima sezione avils lxxxez, anche qui avils(-c) può avere un significato assimilabile all’italiano ‘all’anno, annualmente’. @ Una prima verifica alla seconda ipotesi può essere data dal confronto con le prime due sezioni; si osservi lo schema sinottico introdotto già sopra, ora integrato con i dati parziali della terza sezione:  

teonimo al genitivo

predicato verbale

contesto temporale

contesto spaziale

i

cauqas

tuqiu

avils lxxxez

cimqm casqialq lacq

ii

└───

tiu

cimqm casqialq lacq

iii

maris´l └───

aiseras in ecs mene

menitla (afrs cialaq?)

mlaqce └───

(marni) tuqi

cimqm

no accertato è il sistematico passaggio -c > -c in fine di parola nella varietà di etrusco settentrionale, che rientra anch’esso in una tendenza più ampia caratterizzata da neutralizzazione della distinzione [+aspirato]~[–aspirato] in finale di parola nella stessa varietà di etrusco, comprendente quindi anche -q > -t (cfr. ad esempio Agostiniani, Nicosia 2000, p. 88). @   Hermansen intende come unico sintagma l’intera sequenza cialaq cimqm avilsc, e traduce (in inglese) con ‘thirty times a year (?)’ (Hermansen @984, pp. @60-@6@, nota 5@); si deve ammettere, tuttavia, che anche questa traduzione è largamente speculativa, non essendoci prove concrete che permettano di verificarla.

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il piombo di magliano

Sono evidenti le discrepanze tra le prime due sezioni e l’attacco della terza: in particolare, quest’ultima sembra mancare del tutto di un predicato verbale, a meno che non si voglia individuarlo in una delle parole della sequenza afrs cialaq, il cui significato è oscuro. Altrettanto lacunoso sembra il contesto temporale e solo accennato è quello spaziale. Sembra opportuno, pertanto, rivedere tutta la scansione all’interno del periodo rappresentato dalla terza sezione: ciò è possibile solo dopo un’analisi altrettanto dettagliata delle parti successive alla prima. La porzione di testo successiva ad avilsc non pone problemi per quanto riguarda l’individuazione delle singole parole e la loro morfologia. Di tuqiu si è già parlato nella prima sezione: vale la pena ricordare che, se l’ipotesi di leggervi una forma verbale è giusta, esso probabilmente si troverà in condizioni analoghe a quelle descritte per le altre attestazioni nelle sezioni precedenti. Anche su eca, caso non marcato del dimostrativo, non vi sono particolari osservazioni: è sufficiente ribadire che la forma con e- iniziale (al posto dell’arcaico i-) conferma una datazione a partire dal v secolo a.C. L’attenzione si sposta quindi sulla parola cepen. Oltre che sul Piombo di Magliano, il termine è attestato in molti elogia funerari, nella parte riguardante il cursus honorum del defunto, nel Liber linteus e nella Tabula Capuana (qui nella forma arcaica cipen), ed è stato oggetto di una recente analisi da parte di Adiego. 1 Nella tradizione ermeneutica relativa al Piombo di Magliano, il termine cepen è dapprima interpretato come nome di magistrato, a partire proprio dalle attestazioni nei cursus honorum funerari: Deecke, ad esempio, traduce cepen con ‘Dictator’ e simili. 2 Successivamente, il senso del termine è stato ulteriormente specificato in funzione religiosa, soprattutto in seguito al confronto proposto da Cortsen con il termine cupencus (che secondo Servio nella lingua dei Sabini significava ‘sacerdote’), 3 come ha notato già Adiego; 4 l’ermeneutica tradizionale non sembra mai mettere realmente in discussione l’idea che cepen sia una magistratura religiosa, 5 e anche negli studi  









  Adiego 2006a, al quale si rimanda per una descrizione dettagliata di tutte le attestazioni.   Cfr. Deecke @884a, p. @46; Deecke @884b, p. vii (‘Vorsteher’); Deecke @885a, p. 24 (‘Rex’); Deecke @885b, p. 255; Deecke, oltre che sulle attestazioni nei cursus honorum, si basa anche sulla storia del pretore Genucius Cipus, propria della tradizione favolistica romana, il quale rifiutò di diventare re di Roma, così come era stato indicato dall’aruspice, preferendo l’esilio (cfr. Ov., met. @5, 565-62@; cfr. anche Plin., nat. @@, @23; Val. Max. 5, 6, 3). 3   Serv., Aen. @2, 538: [...] sane sciendum cupencum Sabinorum lingua sacerdotem vocari, ut apud Romanos flaminem et ponteficem, sacerdotem. sunt autem cupenci Herculis sacerdotes [...]; cfr. Cortsen @925, pp. @27@29. Cfr. anche Runes, Cortsen @935, p. 65; Cortsen @939, p. 272. 4   Cfr. Adiego 2006a, pp. 204-205; l’idea che la carica di cepen dovesse avere prerogative religiose era stata già formulata da Torp, per quanto non in correlazione con il termine cupencus, cfr. Torp @902-@903, ii, p. @7: «Unter cepen ist gewiss, wie Deecke [...] annahm, ein Titel zu verstehen; dass das Wort aber „König“ bedeuten sollte, glaube ich keineswegs. Eher war die Thätigkeit des cepen eine priesterliche» (cfr. anche p. 97); Torp @905, p. @7: «What cepen means we do not know. It has been supposed that it signifies some sort of priest». 5   Trombetti opta per una traduzione più generica di ‘magistrato’, anche in funzione dell’associazione con tuqiu, inteso come ‘pubblico’ (cfr. Trombetti @928, p. 207); la traduzione di cepen come ‘sacerdote, Cupencus’ e simili è in Goldmann @928, p. 238; Ribezzo @929a, p. 86 (cfr. Buonamici @932, p. 359); Leifer @93@, pp. @35-@36, 279, nota 2; Olzscha @939 (ad esempio p. 84, nota @); Olzscha @96@, p. 485; @

2

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recenti sulle magistrature etrusche non sembrano esservi obiezioni di rilievo. @ Lo studio di Adiego ha però messo in evidenza come il significato di ‘sacerdote’, allo stato attuale delle conoscenze sull’etrusco, non può più essere considerato accettabile, proponendo piuttosto di considerare cepen un quantificatore, traducibile con ‘tutto/i’. 2 La proposta nasce dall’analisi dei testi con cepen relativamente più chiari, ovvero le iscrizioni funerarie con cursus honorum: qui cepen è sempre associato al termine marunuc (pl. marunucva) che, come è stato dimostrato da Agostiniani e Maggiani, e ribadito dallo stesso Adiego, 3 individua il nome di una magistratura, e non di un magistrato; pertanto, una frase del tipo marunucva cepen tenu (at @.@08) è traducibile letteralmente con ‘i maronati tutti avendo ricoperto’, intendendo cioè i maronati come un insieme di cariche affini, a volte specificate ulteriormente nelle loro funzioni per mezzo di aggettivi, cfr. ad esempio Ta @.@84: marunuc pacanati ‘maronato bacchico (?)’. 4 Per quanto riguarda l’attestazione di cepen sul Piombo di Magliano, Adiego si limita ad osservare che una traduzione con ‘tutto’ è ampiamente plausibile: 5 in effetti, considerando cepen connesso ad eca (sono entrambi non marcati), e partendo dall’idea sopra esposta che tuqiu sia verosimilmente un predicato verbale, la frase eca cepen tuqiu può benissimo significare ‘tutto questo è stato oggetto dell’azione *tuq-’ o, se si intende il verbo come attivo, ‘tutto questo ha compiuto l’azione *tuq-’. È possibile anche che, data la presenza del quantificatore, si tratti di un plurale, quindi ‘tutti questi’ o simili.  









Morandi @982, p. 37; Pallottino @984, pp. 447, 507; Hermansen @984, pp. @60-@6@, nota 5@; da ultimi, Facchetti 2000b, p. 26@; Wylin 2000, pp. 252-253, nota 626; Wylin 2002, pp. @06-@07; Wallace 2008, p. @25. Vi sono state anche proposte diverse: Sigwart, ad esempio, considerava cepen un pronome (cfr. Sigwart @9@7, p. @55); analogamente, Vetter lo considerava pronome seguito da una posposizione -pen (Vetter @927, p. 236). Anche Danielsson aveva espresso dubbi sul rapporto, proposto da Cortsen, tra etr. cepen e ‘sabino’ cupencus (Danielsson @928, pp. 88-89, nota 2); Pfiffig riteneva poco probabile una traduzione come ‘sacerdote’ e aveva proposto un’interpretazione come congiunzione: ‘hernach’ (Pfiffig @969, pp. @60-@62). Infine, è da menzionare l’ipotesi di Steinbauer, per il quale cepen/cipen sarebbe un avverbio dal significato ‘unten, unter’ (Steinbauer @999, p. 409).   L’equazione cepen = ‘sacerdote’ è data come possibile, ma non accertata, in Maggiani @996, pp. @@6-@@7, e Agostiniani @997, p. 7 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. 265). 2   Adiego 2006a, pp. 204-2@4. Facchetti ha recentemente criticato l’ipotesi di Adiego, recuperando la proposta tradizionale di interpretare cepen come ‘sacerdote’ (Facchetti 2005b, pp. 363-367; cfr. già Facchetti 2002a, p. @32): per Facchetti, Adiego evita di considerare che, a parte i cursus honorum funerari, il termine ricorre solo in testi di carattere rituale (Liber linteus, Tabula Capuana, Piombo di Magliano); inoltre, evita di analizzare la voce cepar (ll vii.@9), che secondo Facchetti sarebbe il plurale animato di cepen, rendendo così plausibile che esso significhi ‘sacerdote’. In realtà, sembra evidente che la volontà di Adiego di basarsi soprattutto sui cursus honorum funerari, per la determinazione del significato di cepen, derivi dal fatto che essi costituiscono un corpus di documenti molto più chiaro e omogeneo rispetto ai testi rituali, Piombo di Magliano compreso; per quanto riguarda cepar, lo stesso Facchetti deve ammettere che si tratterebbe di un plurale animato irregolare, al posto di un atteso *cepenVr; del resto, cepar occorre in un passo del Liber linteus non del tutto chiaro, e non è escluso che possa essere esso stesso un termine non marcato, dal momento che in etrusco sono stati già individuati dei singolari in -r, ad esempio tular, naper, caper* (cfr. il pl. capercva, ll vii.@0) e, ora, tênqur (cfr. Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 90-92; su cepen si veda anche Belfiore 20@0, pp. @44-@45). 3   Cfr. Adiego 2006a, pp. 200-202. Sull’argomento si veda anche Colonna 2005c, p. @00, che a partire dall’integrazione marunu[ci] nel cippo di Tragliatella arriva a conclusioni analoghe a quelle degli studiosi 4 5 sunnominati.   Cfr. Adiego 2006a, p. 208.   Adiego 2006a, p. 209. @

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Le traduzioni proposte sembrano dare a eca cepen tuqiu un valore di riepilogo. Si è visto sopra, nella trattazione relativa alla prima sezione, come anche in altri segmenti del testo si possano trovare funzioni analoghe, ad esempio in eq tuqiu nesl man. È però da rilevare che la frase eca cepen tuqiu si inserisce in un contesto molto meno chiaro, e non è da escludere che in qualche modo sia parte integrante del periodo che inizia con maris´l menitla: del resto, si è visto sopra come la terza sezione, se si ipotizza che essa si concluda con cimqm (o avilsc), risulterebbe priva di un predicato verbale vero e proprio, a differenza delle due precedenti. Una possibile soluzione potrebbe essere costituita dall’interpretazione di cialaq come indicazione numerica, da intendere come ‘per la terza volta’, ‘come terzo’ o simili: @ con cialaq, cioè, si presupporrebbe di sottintendere tutto il resto della frase, nella quale sarebbe esplicitato solo l’elemento locativale, cimqm:  

maris´l menitla afrs cialaq cimqm [...] a Maris´ il menita* (colui che fa?) afrs (?), per la terza volta (sott. ‘è compiuta l’azione *tuq(i)-’), ossia nel cim

Come si è già notato sopra, sembra possibile ipotizzare una ripetizione dello schema formulare tra prima e seconda sezione: nel caso della terza sezione, quella di maris´, la ripetizione sarebbe solo parziale, indicando solo l’elemento che si configura come ‘nuovo’ (la divinità maris´) e sottintendendo quanto risulta come ‘dato’ (l’azione *tuq(i)-, i correlati locativali specifici del rito come casqialq lacq, ma non cimqm, che invece è espresso), dicendo solo che quanto descritto esplicitamente nelle prime due sezioni deve essere fatto (o, meglio, è stato fatto) ‘per la terza volta’, ‘come terzo’ ecc. Con avilsc, poi, si aprirebbe una seconda frase, avilsc eca cepen tuqiu ‘e annualmente (?) tutto questo è oggetto dell’azione *tuq(i)-’, con evidente valore di riepilogo, anticipando la clausola che chiude l’ultima sezione del lato a, eq zuci am ar, per la quale si veda più sotto. Come pare ovvio, anche questa proposta di analisi può essere accolta solo come ipotesi di lavoro, almeno finché non sarà possibile chiarire ulteriormente i significati di parole come cialaq o afrs, che al momento, come visto sopra, resistono a qualsiasi tipo di interpretazione. Anche per la porzione di testo da quc a mulveni non è possibile disporre di elementi che permettano di individuare con certezza l’articolazione interna: pertanto, è opportuno una volta di più limitarsi all’analisi delle singole parole, e solo in un secondo momento proporre un’indagine a livello di sintassi. Del resto, anche la scelta di trattare separatamente questa sezione risponde a criteri di comodità e non di certo all’individuazione di un’effettiva cesura nel testo tra tuqiu e quc. La prima parola è quc. Tendenzialmente è stata sempre intesa come qu-c, ovvero come il numerale qu ‘uno’ seguito dalla congiunzione enclitica -c, così come in avils-c: le uniche differenze tra i vari commentatori sono piuttosto nel valore attri  La forma cialaq potrebbe essere analizzata morfologicamente come un genitivo arcaico con posposizione (cia-la-q). L’attestazione di un genitivo arcaizzante -la potrebbe essere dovuta, in questo contesto, ad una locuzione che, assunto un valore avverbiale in età arcaica (come proposto nella discussione), ha subito una cristallizzazione dei suoi elementi morfologici. @

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buito al numerale qu e nell’identificazione della ‘testa’ di cui qu è quantificatore. @ È invece acquisizione recente quella di quc come sostantivo: Agostiniani, nell’editio princeps della Tabula Cortonensis, ha individuato la parola nei sintagmi locativali quct e qucti, descrivendola genericamente come «nome di cosa, passibile di essere concettualizzato nei termini di una localizzazione». 2 Maggiani ha tentato di restringerne ulteriormente l’ambito semantico, a partire da un’iscrizione vascolare di età recente (fine iii-inizi ii secolo a.C. circa), rinvenuta a Roselle, con il testo ]-trus´ . apanal . qucl ., e tradotta come ‘[...] di [?]-tru (e) della casa paterna’, dove apanal qucl è un sintagma Aggettivo + Nome (entrambi concordati al genitivo -l), il cui caso non marcato sarebbe apana quc. 3 In precedenza, Facchetti aveva proposto di considerare quc una derivazione aggettivale da una radice qu(v)- ‘luogo’, alla base anche dell’avverbio di luogo qui ‘qui’, da intendere come originario locativo in -i (qu-i ‘in questo luogo’). 4 La sequenza successiva, come detto sopra, pone alcuni problemi di segmentazione: icutevr, infatti, ha poche probabilità di essere un’unica parola, dal momento che non ha confronti nella documentazione etrusca. 5 Considerando le attestazioni fino 









@   Per Deecke qu è ‘due’ ed è retto da icutevr (Deecke @884a, p. @46; Deecke @884b, pp. vii, ix;  Deecke @885a, p. 24; Deecke @885b, p. 255; cfr. anche Lattes @9@@, coll. 304, 308); Torp è il primo a dare a qu il significato di ‘uno’, a partire dallo studio dei dadi di Toscanella (Torp @902-@903, ii, pp. 97-98; cfr. Torp @905, pp. 9, @4, @7); per Goldmann la sequenza quc icutevr circoscrive l’offerta da effettuare a maris´ (Goldmann @928, p. 255); Ribezzo sostiene che in qu-c sia da leggere il morfema aggettivale -c, «suffisso coi numerali di valore volta a volta moltiplicativo o distributivo», mentre in qu è da riconoscere un numerale sicuramente superiore a ‘uno’, dal momento che il riferimento sembra essere il plurale tevr; pertanto, la traduzione suggerita è, considerando qu equivalente a ‘due’, i lat. duplex o binos (Ribezzo @929a, p. 87, cfr. Buonamici @932, p. 359); Cortsen ritorna all’ipotesi di Torp, intendendo quc come numerale per ‘uno’ seguito da congiunzione enclitica, «wenn quc nicht “una” ist» (Cortsen @939, p. 273); così anche Morandi @982, p. 37, e Hermansen @984, pp. @60-@6@, nota 5@. Di tutt’altro avviso Trombetti, che considera quc pronome personale di 2a persona singolare ‘tu’, riferito al supposto imperativo mulveni (Trombetti @928, p. @70; cfr. anche p. 207). Sui numerali si rimanda ad Agostiniani @995b (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @97-24@). 2   Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 94-95. Agostiniani ricorda che il termine quc potrebbe celarsi anche dietro la forma qucte della Mummia di Zagabria (ll viii.@), che nell’interpretazione di Rix dovrebbe indicare il mese di agosto, supponendo che qucte sia un locativo da un non attestato qucta* (Rix @986, p. 23). Più incerto invece il rapporto con altre forme simili del Liber linteus, come qucu (ll x.4, @4; xi.f4), quca (ll xii.6), per la cui discussione si rimanda a Belfiore 20@0, p. @55, nota @. 3   Maggiani 2002a, pp. 67-68. Cfr. anche Rix 2002, p. 79. Del tutto diversa la proposta di De Simone, che in contrapposizione a Maggiani e Rix intende quc(ti) della Tabula Cortonensis come nome di mese: De Simone parte dalla succitata proposta di Rix circa qucte del Liber linteus, ma per supportare tale ipotesi è costretto ad ipotizzare che quct(i) della Tabula stia per un genitivo *quctes, con sigma finale non scritto, i per e, e il nesso -ct- per -ct- «riflesso di fonologia umbra» (De Simone 2002, p. @85). 4   Cfr. Facchetti 2000b, p. 26@ (dove traduce quc con ‘locale’); Facchetti 2000a, p. 79, nota 460, e p. 80, nota 467; Facchetti inoltre esclude un qualsivoglia rapporto con il numerale qu ‘uno’. 5   Non sono mancate peraltro le proposte di interpretazione che non procedevano ad alcuna segmentazione della sequenza: per Deecke quc icutevr significa ‘und zwei Priester’, un sintagma al plurale congiunto (-c) al precedente cepen, a cui è dato il valore di ‘Dictator’ (quindi, in icutevr è riconosciuto il morfema di plurale -r; cfr. Deecke @884a, pp. @46-@47; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, pp. 24-25; Deecke @885b, p. 254); così anche Torp, che però, partendo dalla considerazione che qu(-c) vale ‘uno’, considera icutevr singolare (Torp @902-@903, ii, pp. 97-98; Torp @905, pp. @7-@8); cfr. anche Lattes @9@@, col. 304; per Goldmann è, genericamente, parte dell’offerta per il sacrificio relativo alla terza sezione (Goldmann @928, p. 244); anche per Trombetti icutevr è ‘sacerdote’ (cfr. Trombetti @928, p. 207); similmente Cortsen, che commenta «icutevr könnte ungefähr dem griechischen iJeropoiov~ entsprechen» e traduce quindi

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ra note e le voci lessicali individuate, le maggiori possibilità di segmentazione sono due: ic utevr e icu tevr. @ La prima ipotesi, ic utevr, ha dalla sua l’individuazione di un connettivo ben noto nell’epigrafia etrusca: ic, infatti, è stato da tempo riconosciuto come una congiunzione, generalmente tradotta con ‘come’; 2 la parola utevr, però non ha alcun confronto con la documentazione. Sembra preferibile, pertanto, la seconda opzione, ovvero icu tevr: la prima parola è certo un hapax, per quanto si potrebbe ipotizzare in rapporto con ic, anche se si deve ammettere che sfuggono i termini di un eventuale relazione; la seconda, tevr, rimanda ad una radice tev- ben nota anche altrove, in varie forme, e presente sul lato b del Piombo stesso, anche se, come si vedrà, in un contesto oscuro: 3  





Ta @.68: veº[l :] aºrºnºqºaºl º : cºurºunasº : 2[-9-]nal : clan teucem 3[-9-]-pa tevºce : ic : an : 4[-?-] Ta 7.7-8: tevaraq Pe 8.4a@-2: a@[t]eurºat . tanna . la rezus´º 2ame vacr lautn . velqinas´ . ... Vt S.2: eca : sren : 2tva : icna3c hercle : 4unial cl5an : qra{:}sce

L’iscrizione Ta @.68, pur lacunosa, sembra restituire due forme di preterito attivo dalla radice tev- (foneticamente [tew]): la prima, teuce-m, con la congiunzione encon ‘Opferdiener’ (Cortsen @939, pp. 274-276); Morandi rinuncia a tradurlo, pur considerandolo un’unica parola (Morandi @982, p. 37); infine, anche per Hermansen icutevr è il nome di un sacerdote o simili (Hermansen @984, pp. @60-@6@, nota 5@). È evidente che un’interpretazione come ‘sacerdote’ si basa su tre concetti principali: che icutevr sia un’unica parola; che quc sia un numerale seguito dalla congiunzione enclitica; che la congiunzione enclitica metta in relazione icutevr con il precedente cepen, tradotto con ‘sacerdote’, significato che determina poi anche quello di icutevr. Si è visto sopra come il secondo e il terzo punto siano oggi messi in discussione, rendendo quindi la spiegazione tradizionale di icutevr insufficiente. @   Il primo ad aver proposto una segmentazione della sequenza icutevr è Ribezzo, peraltro riconoscendo a Deecke di essere stato il primo a farlo: al contrario, lo studioso tedesco ne aveva ipotizzato solo la natura di termine composto, a partire dall’individuazione della radice tev, nota anche altrove (cfr. Deecke @884b, pp. @8, 47-5@); Ribezzo separa icu da tevr, considerando il primo il locativo in -u della particella ic (lat. in eo), e il secondo una variante di tiur, parallelo al lat. menses; Ribezzo, peraltro, collega arbitrariamente tevr con quc e reputa icu una sorta di anaforico per *avil-u (cfr. Ribezzo @929a, pp. 86-87; anche Buonamici @932, p. 359). 2   Il parallelo è proposto da Torp (Torp @902-@903, i, pp. 24-25); si veda, da ultimo, Rix 2004, p. 963. La particella ic è attestata nel Liber linteus (ll iii.@6; vi.8, @2; vii.22; x.@0; xi.5, @5, @7; xii.2, 9), nella Tabula Capuana (tc 34), nel Cippo di Perugia (Pe 8.4b20) e in altre iscrizioni minori (Ta @.68, Vn 0.@), spesso in evidente correlazione con nac, con cui è unito, come icnac, in due attestazioni (tc 5, Vt S.2); inoltre, due volte nel Liber linteus (ll vii.@6, viii.2), una nella Tabula Capuana (tc 4), in contesti apparentemente analoghi a quelli di ic, compare la variante ic. 3   Dalle seguenti attestazioni sono da tenere disgiunti tevcrun, didascalia su specchio (La S.8), adattamento del greco Teu`kron, e le forme qevru (Fa S.2) e qevruclnas (Cm 2.46), riconducibili al greco Tau`ro~ (cfr. De Simone @968-@970, i, pp. 8@, @@5); incerta, poi, è la forma teurs, frutto della nuova lettura da parte di Rix negli et dell’iscrizione dello specchio proveniente da Todi (Um S.4; in precedenza era letta tecrs, cfr. limc vii, @994, s.v. Paridis iudicium [A. Kossatz-Deissmann ], p. @82): qui è la didascalia del personaggio barbato che poggia la mano destra sulla spalla di Paride nella scena del giudizio omonimo, pertanto, ammesso che la lettura sia esatta, è probabile che si tratti di un nome proprio (si veda il disegno in Bendinelli @9@4, tav. iii). Il corpus delle iscrizioni etrusche testimonia, poi, la presenza di un nome gentilizio arcaico tveqelies (Vs @.8, @.82), anche nella variante qveqeli[es] (Vs @.@87), a cui si aggiungono i recenti qveql[i] (Cl @.458), qveqlies (Cr @.@40, at @.55 [su questa cfr. ora anche ree 73, @3@], @.@26, @.@29, @.@30, @.@3@) e qveqli[ (Ta 3.7); Colonna, nel commento all’iscrizione ree 65-68, @@5 (che riporta un gentilizio qve[qlies]), ha proposto di collegare queste forme alla radice tev-. Da segnalare, infine, il genitivo femminile tevilea(l), congettura degli et (Pe @.@33).

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clitica -m; la seconda, tevce, che regge chiaramente la congiunzione ic, così come tva (Vt S.2), che sembra essere un congiuntivo in forma sincopata, regge icnac. Le didascalie arcaiche con tevaraq (Ta 7.7-8), dalla tomba degli Auguri, e la voce teurat del Cippo di Perugia (Pe 8.4a@), sono con tutta probabilità due versioni, la prima arcaica, la seconda recente (con caduta di -a- in seguito a sincope e deaspirazione della dentale aspirata finale), della stessa parola, che mostra la presenza del noto suffisso agentivo etrusco -aq. Il significato della voce tevaraq/teurat è stato da tempo individuato come ‘giudice, arbitro’, ovvero, letteralmente, ‘colui che indica, che mostra’; anche tevce e tva sembrano confermare l’ipotesi sull’ambito semantico, dal momento che in Ta @.68 la frase tevce ic an può benissimo significare ‘indicò come colui il quale ...’ o simili, e Vt S.2 è stata da tempo tradotta come ‘questa immagine mostra come Ercole divenne figlio di Giunone’ o simili. @ La documentazione, pertanto, fornisce due varianti: una ‘base’, tev-, su cui sono costruite le forme verbali note (anche tva, da un ipotetico *teva); una ‘ampliata’ in -(a)r, su cui è costruito l’arcaico tevar-aq (recente teur-at). La forma ‘ampliata’ sembrerebbe essere quella attestata nel tevr della terza sezione del lato a del Piombo, mentre quella ‘base’ sarebbe da riconoscere nel tev del lato b; per inciso, le forme tevr e tev, già sincopate, sono indizi di una cronologia ormai recente, in linea con una datazione per il Piombo alle fasi centrali del v secolo a.C. Ammessa l’ipotesi riguardante il significato, si deve ora stabilire, se possibile, la natura di -r; dal momento che è presente nella parola tevaraq/teurat, è da escludere che si tratti del morfema di plurale animato, come proposto da Wylin; 2 piuttosto, lo stesso Wylin ipotizza l’esistenza di un morfema verbale -r-, anche se, per la verità, i presupposti e le prove a carico sono molto deboli; 3 allo stato attuale della documentazione, pertanto, è opportuno sospendere il giudizio. La parola successiva, hes´ni, è di nuovo senza confronti nella documentazione epigrafica: molti dei commentatori semplicemente rinunciano ad interpretarla. 4 Come proposto già da Cortsen, l’unica considerazione di rilievo possibile sembra sussistere nella terminazione -ni, che è la stessa del successivo mulveni, con il quale, pertanto, hes´ni potrebbe condividere lo status grammaticale e sintattico, in relazione asindetica. 5 Del resto, una segmentazione in hes´-ni, con confine di morfema,  









@   Sulla radice tev- e connessi si veda Wylin 2000, pp. 23@-232 (su tva anche Belfiore 200@, p. 235, nota 3@). Su Ta @.68 si veda, in particolare, Rix @984, p. 224; su tevaraq/teurat si veda già Fiesel @935, pp. 254255; Pfiffig @96@, pp. @@7-@@9; Facchetti 2000a, pp. @0-@@. 2   Wylin 2000, p. 200; Wylin 2004b, p. 2@5, nota @9. 3   Cfr. Wylin 2000, pp. @87, 246-247: secondo Wylin il morfema -r-, al quale assegna una funzione ricorsiva, sarebbe individuabile, in definitiva, solo a partire dalla coppia atr[š] (più attestazioni, si vedano gli indici degli et) e atr[š]rce (Ta @.@82). 4   Per Deecke è un locativo: ‘im Tempel’ (Deecke @884a, p. @47; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 25; Deecke @885b, p. 254); Lattes propone un confronto con qesnin del Liber linteus (in ll v.@6, cfr. Lattes @894, p. @64); l’idea di Deecke è ripresa, in maniera piuttosto acritica, da Torp (Torp @902-@903, ii, pp. 97-98; peraltro in Torp @905, p. @8 commenta: «hes´ni is an obscure word») e, similmente, da Ribezzo, che traduce con il latino sacrum, a partire dal confronto con l’italico fesn- e varianti, già proposto da Deecke stesso (Ribezzo @929a, pp. 87-88; cfr. Buonamici @932, p. 359). 5   Runes, Cortsen @935, p. 86, dove hes´ni mulveni è tradotto con ‘soll geben (und) schenken’ (cfr. anche Cortsen @939, p. 276; Hermansen @984, pp. @60-@6@, nota 5@).

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sembra suffragata anche dal fatto che un nesso consonantico sibilante palatale + nasale in etrusco meridionale risulta insolito, se non del tutto sconosciuto. Per quanto riguarda mulveni, i dubbi riguardano principalmente la sua funzione grammaticale all’interno della frase, mentre sul piano del significato vi sono sufficienti certezze; mulveni, infatti, è evidentemente in relazione con i preteriti arcaici muluvenice, muluvanice ecc., che significano ‘donò’. @ La forma mulveni è la base su cui è costruito il preterito mulveni-ce: in genere, in etrusco una base verbale non caratterizzata da morfemi grammaticali è utilizzata per indicare il modo imperativo. 2 I verbi imperativi sono piuttosto diffusi in testi prescrittivi (si pensi solo al Liber linteus), e, quindi, anche mulveni del Piombo di Magliano potrebbe avere questa funzione. È da rilevare però che, finora, nella porzione di testo del Piombo che è stata analizzata, non è stata riscontrata l’evidenza di forme verbali all’imperativo, per quanto, si vedrà più avanti, il lato a del Piombo sembra chiudersi proprio con due imperativi, am e ar; è inoltre da notare che il tema verbale mulveni- è piuttosto comune nelle iscrizioni di dedica, perlopiù arcaiche, mentre è generalmente assente nelle epigrafi di carattere religioso-rituale, come appunto l’iscrizione del Piombo. Dopo aver esaminato, per quanto possibile, tutte le voci di questa sezione, sarebbe necessario ora tentare di individuarne la struttura sintattica. Tuttavia, vi sono troppe incertezze sullo status grammaticale di molte parole, e questo non permette, in linea di massima, di comprendere i rapporti sintattici interni alla sezione stessa; anche la segmentazione che ha portato ad individuare la sequenza quc icu tevr hes´ni mulveni è in qualche modo arbitraria, basandosi in definitiva sulla presenza, a sinistra, del supposto predicato tuqiu, che dovrebbe chiudere la prima parte della terza sezione, e, a destra, di eq, per il quale si rimanda a quanto scritto sotto. Inoltre, senza ritornare sui problemi di segmentazione (icutevr), è del tutto oscura la funzione di un eventuale imperativo di un verbo di dono (mulveni), forse di un secondo imperativo (hes´ni), e non è al momento possibile individuare la natura di parole (quc, tevr) di cui è ipotizzabile l’ambito semantico, ma non la posizione grammaticale.  



La terza sezione, e con essa la porzione di testo sul lato a, si chiude con la sequenza eq zuci am ar. Il primo problema è stabilire se, dopo ar, vi sia effettivamente una cesura a livello testuale. I primi commentatori, infatti, hanno considerato parte integrante della terza sezione anche l’attacco dell’iscrizione del lato b, mlacqan(ra); 3  

@   L’area semantica del ‘dare, offrire, dedicare’ è generalmente accettata da tutti, già a partire da  Deecke (cfr. Deecke @884a, p. @47; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 25; Deecke @885b, p. 254; cfr. anche Torp @902-@903, i, p. 59; ii, p. 97 e Torp @905, p. @8, che considera mulveni un imperativo; Trombetti @928, p. 207; Cortsen @939, p. 272; Morandi @982, p. 37); in controtendenza Ribezzo, che propone di tradurre mulveni con il lat. molarium (Ribezzo @929a, p. 87; cfr. Buonamici @932, p. 359). 2   Su mulveni imperativo si veda anche Belfiore 200@, p. 24@; più in generale, sempre sul paradigma di muluvanice, si vedano ivi le pp. 234-235, 242-243. 3   La dicitura mlacqan(ra) è dovuta al fatto che, in un primo momento, non erano state lette le due lettere finali della sequenza (cfr. Milani @893, coll. 42-43, 54). Gli studiosi che sostengono l’appartenenza di mlacqan(ra) alla sezione precedente sono Deecke, Torp e Trombetti: per tutti si veda la discussione nel capitolo successivo.

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questo perché permetteva di mantenere la simmetria con le prime sezioni, tutte inizianti con un teonimo al genitivo. Includendo mlacqan(ra) nella parte precedente, infatti, la prima parola della sequenza sul lato b era calusc, che era inteso come un genitivo in -s (con congiunzione enclitica -c) da un teonimo *calu-. Come si vedrà in seguito, tale interpretazione dell’attacco del lato b è da considerare errata e, pertanto, come ipotesi di lavoro si accetta che la cesura testuale sia effettivamente da collocare dopo ar; del resto, come si vedrà, questa ipotesi è supportata da alcuni elementi sul piano dell’analisi del testo. La prima parola è eq. Questa particella ritorna anche nel lato b, nella sequenza eq tuqiu nesl man, ed in altri testi: come già ricordato sopra, affrontando l’analisi della prima sezione, l’analisi di Agostiniani vi ha individuato una funzione analoga all’italiano ‘così’. @ Inoltre, è da notare che, nella maggior parte delle attestazioni, eq è all’inizio di un periodo; questo giustificherebbe, in linea teorica, l’ipotesi di una cesura sintattica tra mulveni e, appunto, eq. Le forme am e ar, invece, verosimilmente sono i predicati verbali, uniti per asindeto, della frase di chiusura. Sul loro significato c’è sostanziale accordo: am significa ‘essere’, 2 ar rientra nell’ambito del ‘fare’; non essendo caratterizzati da marche morfologiche, è probabile che siano degli imperativi. 3 Infine, rimane da analizzare zuci: 4 questa parola è verosimilmente da segmentare in zuc-i, dato il confronto con altre voci presenti nella documentazione, come ad esempio zucne (tc @4-@5), che rimanda ad una radice *zuc-, così come la forma arcaica zucuna della Lamina di Santa Marinella (Cr 4.@0) e dell’iscrizione ree 7@,  







@   Cfr. Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 96-98; l’idea è presente, in nuce, anche in Pallottino @936a, pp. 48-49, 65). In precedenza, si riteneva che la particella fosse un dimostrativo, traducibile con ‘questo’ (cfr. Deecke @884a, p. @47; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 28; Deecke @885b, p. 255; Torp @902@903, ii, p. 98; Torp @905, p. @8; Trombetti @928, p. 207); Ribezzo @929a, p. 88, invece, considera eq un dimostrativo al locativo (cfr. anche Buonamici @932, p. 359); analogamente Cortsen, che traduce eq con ‘darauf, danach’ (Cortsen @939, p. 274); Pfiffig oscilla tra tre interpretazioni: pronome dimostrativo, aggettivo (‘dauernd’), verbo (Pfiffig @969, p. 286; cfr. anche pp. @0@-@02, @@4); per Morandi potrebbe significare ‘davanti a questo’, ovvero alla divinità (Morandi @982, p. 37). 2   Cfr., da ultimo, Van Heems 2005. 3   Le attestazioni relative alle due radici verbali sono più numerose per quanto riguarda le forme del preterito, ovvero amce e arce; come nota Torp, «Während wir die Deutung amce “fuit” Isaak Taylor zu verdanken haben, hat Deecke arce als “fecit” aufgefasst» (Torp @902-@903, i, p. 7). Deecke traduce la parte finale del lato a, che in un primo momento legge am ars, come ‘Krüge, Früchte’ (Deecke @884a, p. @47; Deecke @884b, p. vii; in seguito legge am arc, e traduce con il lat. ‘ama arculata’, cfr. Deecke @885a, p. 26; Deecke @885b, pp. 254-255); Torp, per primo, suggerisce per am e ar la funzione di imperativi (Torp @902-@903, i, p. 59; ii, pp. 55-56; Torp @905, p. @8; cfr. anche Trombetti @928, p. 207; Cortsen @939, p. 272; e Morandi @982, p. 37); in Goldmann @928, invece, l’obiettivo ultimo è dimostrare che *am- è una radice lessicale significante ‘giorno’; Ribezzo legge un’unica parola amar e traduce con il lat. vascula (Ribezzo @929a, p. 88; cfr. Buonamici @932, p. 359). 4   Deecke in un primo momento legge tuci e traduce con ‘Dörrfleisch’ (cfr. Deecke @884a, pp. @4@, @47; Deecke @884b, p. vii; tale interpretazione è confermata anche con la nuova lettura zuci, cfr. Deecke @885a, pp. 25-26; Deecke @885b, p. 255); Torp rinuncia ad un’interpretazione (Torp @905, p. @8), mentre Trombetti traduce ipoteticamente con ‘saldo’ (cfr. Trombetti @928, p. 207) e per Ribezzo ha il significato di ‘buono, puro, integro’ (Ribezzo @929a, p. 88; cfr. Buonamici @932, p. 359). Per Hermansen zuci è l’oggetto della dedica a Maris´, probabilmente un fluido; tutto il testo finale della terza sezione è, sempre secondo Hermansen, abbreviato per ragioni di spazio, e dovrebbe essere traducibile con ‘There must be zuci; make libation’ (Hermansen @984, pp. @60-@6@, nota 5@).

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26, pubblicata di recente da Colonna; inoltre, il nome personale zucu, noto da più attestazioni, @ morfologicamente del tutto analogo a zicu di Cl @.320. 2 La parola zuci è presente tre volte nella formula zuci enesci, nel Cippo di Perugia (Pe 8.4a7-8, b2-3, @@-@2 ). Per Pallottino zuci enesci significa qualcosa come ‘quanto segue, così’. 3 Pfiffig, partendo dalla sequenza del Piombo di Magliano che presenta mulveni eq zuci, e traducendo eq con ‘dieses’, considera zuci un sostantivo, e ritiene che la formula del Cippo zuci enesci sia analoga a quelle latine del tipo in re presenti. 4 Facchetti ha proposto di tradurre la formula zuci enesci come ‘senza inganno’, in virtù di comparazioni con testi latini che presentano clausole del tipo sine dolo malo o ex fide bona; 5 peraltro, lo stesso Facchetti sostiene che, se fosse giusta l’interpretazione di enesc* come ‘nostro, di noi’, la formula potrebbe essere tradotta anche con ‘secondo la nostra dichiarazione’, proponendo per la radice *zuc- (da cui il verbo zucne della Tabula Capuana 6) un’interpretazione come ‘dichiarare’. In base a ciò, per la sequenza eq zuci am ar del Piombo, Facchetti propone una traduzione del tipo ‘così, nei termini della dichiarazione sia (e) (av)venga’. 7  













4. 4. La quarta sezione del testo (lato b) mlacqan/ra/ calusc . ecnia /iv/ . avil . mimenicac . marcalurcac . eq . tuqiu . nesl . man . rivac . les´cem . tnucasi . s´uriseisteis . evitiuras . mulslemlacilacetins . lursq . tev 2huviqun 3lursqsal 4afrs . naces b

Il lato b del Piombo di Magliano presenta notevoli problemi di interpretazione, dovuti a vari fattori. Si è visto come l’esegesi del lato a sia facilitata, in primo luogo, dalla possibilità di scomporre il testo in tre sezioni differenti, che presentano strutture in parte convergenti. Tali sezioni sono individuabili a partire dalla punteggiatura (i tre punti allineati verticalmente alla fine dei primi due enunciati) e dalla ripetizione, all’inizio di ogni sezione, del nome di una divinità al genitivo, in posizione topicalizzante. Tutto ciò è assente sul lato b del Piombo: manca una punteggiatura adeguata; manca inoltre una formularità distinta, quale è invece almeno ipotizzabile nelle sezioni del lato a. Anche il semplice rimando alla presenza di un teonimo ad inizio frase è piuttosto aleatorio: in effetti, per quanto sia possibi@   In Cl @.@6@9 (la lettura degli et è descritta come «estremamente incerta» in Benelli @998, p. 234), @.@769, @.@770, @.2@73 (la prima e l’ultima come cognomen, le altre due come gentilizio); inoltre, al genitivo zucus´ (Cl @.@77@: al riguardo cfr. la correzione in Benelli @998, p. 232; Pe @.965) e zucus (Fa 2.@5, Vs @.@36): quest’ultima testimonia la presenza della forma onomastica zucu già in età arcaica. È possibile che a questa stessa serie faccia riferimento anche il gentilizio arcaico zuqu (Ve 3.29). Sicuramente da zucu è derivato invece il gentilizio recente zucni (Cl @.@767; al genitivo femminile zucnal in Cl @.60, @.@68, @.@70, @.@7@, @.832, @.23@9; come zucnis´ in Cl @.@768). Infine, sono da ricordare il gentilizio arcaico zucenas (oa 2 2.24, al genitivo) e il lacunoso zucre[ (Ar @.24).   Su zicu cfr. Benelli @994, p. 2@. 3 4   Pallottino @936b, pp. 29@-292.   Pfiffig @96@, p. @34. 5   Facchetti 2000a, pp. @4-@5, nota 40. 6   Per Colonna (cfr. ree 7@, 26) zucuna è l’antecedente arcaico di *zucna, di cui zucne della Tabula Capuana sarebbe il locativo; in questo caso si avrebbe un’attestazione molto precoce del passaggio -a-i > -e, dato che la Tabula è un documento generalmente ascritto al v sec. a.C. (probabilmente alla prima metà del secolo, cfr. Cristofani @995, pp. 3@-32), periodo in cui si afferma il fenomeno descritto. 7   Facchetti 2000b, p. 26@; Facchetti 2002a, p. @03.

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le individuare anche sul lato b tre apparenti teonimi (o gruppi teonimici), ovvero mlac qan/ra/ calusc, all’inizio, e poi s´uris e tins, è tuttavia evidente che le tre sezioni che ne risultano non presentano condizioni analoghe a quelle riscontrate per le tre sezioni del lato a, e in definitiva sfuggono a qualsiasi tentativo di interpretazione. Del resto, come si vedrà in seguito, anche l’ipotesi di partenza che s´uris e tins siano teonimi dovrà essere riconsiderata criticamente. Benché vi siano brevi sequenze che offrono possibili vie ermeneutiche, come eq tuqiu nesl man analizzata contestualmente alla prima sezione del lato a, tuttavia si deve riconoscere che l’impianto generale di tutto il lato b risulta di difficile comprensione. Pertanto, si è preferito affrontare l’analisi del lato b nel suo complesso, parola per parola, e solo in un secondo tempo tentare di individuare collegamenti sintattici tra i vocaboli e, ad un livello superiore, tra i possibili sintagmi. La presenza solo parziale della punteggiatura verbale, infine, è un ulteriore ostacolo alla corretta comprensione delle singole parole del lato b del Piombo; in molte parti, quindi, l’analisi linguistica dovrà preliminarmente mettere in atto strategie per individuare le singole voci all’interno di sequenze grafiche non distinte dalla punteggiatura. Si è già accennato, nella sezione precedente, alla possibilità che il testo della terza sezione del lato a continui con l’inizio del lato b; questa eventualità è stata scartata principalmente per due ragioni: in primo luogo, pare possibile individuare una cesura sintattica dopo quella che sembra essere la clausola conclusiva della terza sezione (se non di tutto il testo del lato a), eq zuci am ar; inoltre, sembra chiara la presenza di un quarto riferimento teonimico (dopo i tre del lato a) all’inizio del lato b, con i nomi delle divinità qanr e calus. L’attacco del lato b, però, presenta anche diversi problemi di lettura: la sequenza -ra di qanra ha dimensioni ridotte, ed è inserita in basso, quasi al di fuori dell’ideale riga di scrittura, tanto che ai primi studiosi del Piombo era sfuggita. @ Questa particolarità è dovuta probabilmente al fatto che l’incisore aveva iniziato a scrivere dal primo gamma di calusc: quindi, in un secondo momento, ha inserito tutta la sequenza grafica mlacqanra nello spazio precedente, che però era insufficiente, tanto da costringere l’estensore del testo ad inserire gli ultimi due grafi, rho e alpha, in basso tra ny e gamma; ulteriore prova è la constatazione che anche le altre lettere di mlacqanra sono di dimensioni ridotte rispetto a quelle di calusc (cfr. Fig. 2 e Tav. ii). Malgrado ciò, sembra indubbio che la sequenza mlacqanra sia parte integrante dell’impianto originario del testo: si pensi soltanto alla congiunzione enclitica -c di calusc (‘e calus’) che mette necessariamente in relazione calus con ciò che lo precede. È probabile, in ultima analisi, che si tratti di un errore di copiatura del  

  Anche per questo Deecke collega la sequenza mlacqan alla parte finale del lato a e fa iniziare la quarta sezione con calus(-c) ristabilendo così il parallelismo con le sezioni del lato a che iniziano tutte con un teonimo; per Deecke mlacqan sta per ‘Kuchen’ (cfr. Deecke @884a, p. @47; Deecke @884b, p. vii) o il lat. placentam (Deecke @885a, pp. 26-27; Deecke @885b, p. 254). Le ultime due lettere sono state individuate per la prima volta da Milani (Milani @893, coll. 42-43): Milani è inoltre il primo ad intendere mlacqanra come l’effettivo attacco della sezione del lato b, e non la parte finale del testo inciso sul lato a. @

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testo originario: l’incisore, che doveva avere di fronte a sé il brogliaccio, ha iniziato a copiare non da mlacqanra ma da calusc; una volta resosi conto dell’errore, ha rimediato inserendo nello spazio precedente calusc la parte di testo tagliata, ovvero mlacqanra, a dimensioni ridotte; tuttavia, anche incidendo caratteri più piccoli, lo spazio a disposizione non era sufficiente, tanto che le ultime due lettere sono state scritte in basso e quasi nascoste. Non vi sono invece particolari problemi nella suddivisione della sequenza mlacqanracalusc: come già aveva notato Milani, è possibile, su basi combinatorie, individuare tre parole ben distinte: mlac, qanra e calus, quest’ultima caratterizzata dalla congiunzione enclitica -c. @ Come detto, almeno per quanto riguarda l’inizio del testo del lato b sembra rispettato il principio secondo cui le sezioni del Piombo iniziano con il riferimento ad una (o più) divinità; ma, ad onta dell’apparente ricorsività, vi sono in realtà molte differenze. La prima questione è introdotta dalla congiunzione enclitica -c dopo calus: si tratta, cioè, di stabilire se il rapporto di correlazione sia con la sola parola qanra o con l’intero sintagma mlac qanra. È evidente che ciò è in parte subordinato all’individuazione del tipo di legame tra mlac e qanra. Su mlac non vi sono dubbi che significhi ‘buono, bello’ e simili. La seconda parola, qanra, presenta maggiori difficoltà: è evidente che vada riferita al teonimo qanr, le cui attestazioni sono molteplici, soprattutto come didascalia di figure divine femminili raffigurate su specchi, spesso impegnate in azioni concernenti la nascita. 2 La possibilità che qanra sia un genitivo arcaico (corrispondente al recente *qanral) è da escludere, dal momento che nel v secolo a.C., datazione a cui dovrebbe risalire il Piombo, il fenomeno di cancellazione di -l finale del genitivo ii non è più produttivo; 3 inoltre, l’iscrizione ob 4.2 (mi qanrs´) testimonia chiaramente che il genitivo selezionato da qanr è -[s]. 4 Una possibilità è che qanra, rispetto a qanr, sia una forma derivata aggettivale per mezzo di -ra (< *qanr-ra): questa ipotesi è stata formulata da Maras come conseguenza della rilettura dell’iscrizione Cl 3.3, in cui è stato possibile riconoscere per la prima volta la forma qanral; 5 secondo Maras, qanral sarebbe  









  Cfr. Milani @893, col. 54. Torp riprende la lettura di Milani, ma considera mlacqanra un’unica parola, che traduce con il lat. placatio, e la intende come l’oggetto dell’imperativo ar alla fine del lato a (Torp @905, p. @8; così anche Trombetti @928, p. @7@); altri, invece, propendono per l’individuazione del teonimo qanr (cfr. Goldmann @928, p. 246; Cortsen @939, p. 272; Morandi @982, p. 37); per Ribezzo mlacqanra è avulso dal resto del testo, ed è un’indicazione rituale traducibile con il lat. hostiae justae (cfr. Ribezzo @929a, p. 89; cfr. anche Buonamici @932, p. 359). 2   Cfr. Simon @984, pp. @63-@64 e C. Weber-Lehmann in limc vii, @994, p. 908, s.v. Thanr. Il teonimo qanr compare in La S.3; Vs S.25; Ar S.2; Sp 0.4; oi S.23, S.29; inoltre, nel cippo Pe 4.@ (cehen 2cel teza3n peºnqnº4a qauru5s´ qanr), in un contesto non chiaro (per le iscrizioni cfr. anche Maras 2009, pp. 3@3, 329330, 327). 3   Sul fenomeno, e in particolare sulle sue motivazioni fonologiche, si veda, da ultimo, Agostiniani 2006, pp. @75-@76. 4   Un’altra attestazione del genitivo potrebbe essere (ma il condizionale è d’obbligo) l’iscrizione arcaica Sp 0.4 (: vetes´ qanºrºuºs´º luº[-8/9-]-s´ vetele -cumenu-[?). Con qanr, inoltre, sono da confrontare la forma qanurari º (tc 23), a prima vista un necessitativo (cfr. Cristofani @995, p. 70), e le forme antroponimiche qanursi (Cl 2.23), qanursie[nas] (Vs @.52), qanirsxiie (Ve 3.30) e qannursxiannasx (Cr 3.@4), tutte arcaiche: sulla base di questi confronti è lecito supporre che qanr stia per un arcaico *qanur. 5   Maras @998b; l’iscrizione, nella nuova lettura, è: vel s´apu q/n turke s´el/vans´l tu-/-s´ qanral. L’aggettivo di origine teonimica qanra troverebbe un confronto piuttosto netto nell’iscrizione mi fuflunusra, su un @

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il genitivo ii dell’aggettivo qanra, e sarebbe da riferire alla parola precedente tu[rn]s, al genitivo, ovvero ‘di Turan’ che quindi si qualificherebbe di un epiteto ‘Qanrica, relativa a Qanr’. @ Dando seguito al ragionamento, Maras ipotizza che la sequenza mlac qanra sia, di nuovo, una coppia formata da un teonimo (mlac, la ‘Bona Dea’) e da un epiteto, esso stesso derivante da un teonimo (< *qanr-ra): Turan e Mlac, quindi, sarebbero qui qualificate come divinità minori, appartenenti ad una cerchia divina afferente ad una divinità maggiore, Qanr. 2 La voce calus è, invece, acquisizione recente: fino ad alcuni anni fa la communis opinio era che il caso retto del termine fosse *calu, di cui calus sarebbe stato genitivo; è indubbio che in questo senso abbiano spinto anche i diversi tentativi di analisi del Piombo di Magliano, che segmentando calu-s(-c) permettevano, come accennato sopra, di mantenere il parallelismo con le sezioni del lato a, aperte da un teonimo al genitivo, 3 nonché la presenza del lemma calu in almeno un caso, ovvero at @.@09, e la presenza dell’epiteto al genitivo calus´tla (Co 4.@0), segmentato calu-s´-t(a)-la, analogamente, ad esempio, a larisalis´la di at @.34 (in struttura profonda lari[s]-al=i[sˇ](a)-la). Il confronto con at @.@07 (che presenta calusurasi), con cui at @.@09 sembra condividere lo stesso formulario, permette però di stabilire con una certa ragionevolezza che calu è da integrare come calu(surasi), così come è proposto negli et; d’altra parte, l’analisi di forme come il già citato calusurasi, o calusna (Vs 4.7), mostrano che il caso retto non può essere che calus, dal momento che, come si è visto sopra per avilsc, l’affissazione dei vari morfemi alla radice lessicale segue una gerarchia ben precisa; è cioè tipologicamente aberrante una lingua in cui, nella scansione morfologica, il morfema di caso (genitivo) sia anteposto a quello di numero (come in calusurasi, pertinentivo dal plurale calus-ur*) o ad un morfema derivazionale (quale -na in calus-na). 4 Analogamente, in calus´tla è solo  







cratere rinvenuto a Pyrgi e databile al 480-470 a.C., pubblicato da Daniele F. Maras e Giovanni Colonna (ree 64, 37).   Per Maras, in Cl 3.3 qanral si associa solo a turns e non al precedente s´elvans´l perché sarebbe un femminile, e quindi deve necessariamente avere come referente una divinità femminile, altrimenti sarebbe stato *qanras; questo però sembra essere in conflitto con la chiara assenza di genere grammaticale in etrusco, che avrebbe giustificato un tale tipo di accordo, mentre sono presenti vari marcatori di genere naturale, che a quanto pare producono fenomeni di accordo distinto tra maschile e femminile solo nel sistema dei nomi propri (su tutta la questione del genere in etrusco si rimanda a Agostiniani @995a = Agostiniani 2003-2004, i, pp. 243-257; per l’accordo intrasintagmatico si veda ora Van Heems 20@@). Si potrebbe allora pensare, piuttosto, in termini di selezione morfologica: è possibile, cioè, che il morfema -ra selezionasse il genitivo ii, così come avviene, ad esempio, per il morfema derivativo -za (cfr. Agostiniani 2003 = Agostiniani 2003-2004, i, pp. 347-357); purtroppo, però, la documentazione su -ra non è così ampia da permettere speculazioni di questo tipo, e pertanto si impone una sospensione del giudizio. 2   Maras @998b, p. @85. L’idea che mlac possa essere un teonimo non è una novità: pur su basi diverse, questo era stato ipotizzato ad esempio in Lattes @89@-@892, pp. 634-640 (cfr. inoltre Lattes @894, pp. @6@@62, e Lattes @9@@, col. 297, nota @, a partire dalla corretta lettura di Milani della sequenza mlacqanra). 3   Così Deecke @884a, p. @47; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, pp. 27-28; Deecke @885b, p. 254; Lattes @89@-@892, pp. 634-635; Milani @893, coll. 58-59; Torp @905, p. @8; Trombetti @928, p. @7@; Goldmann @928, pp. 248-249; Ribezzo @929a, pp. 89-90; Buonamici @932, p. 359; Cortsen @939, p. 272; Pfiffig @975, pp. 3@9-320; Morandi @982, p. 37; Simon @984, p. @55; Cristofani @995, p. 70, ecc. 4   Sulla questione, già accennata sopra, della coerenza tipologica nella ricostruzione grammaticale dell’etrusco, e in particolare della presenza di una scala gerarchica tra gli affissi, si rimanda ad Agosti@

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l’enclitico -ta a veicolare la funzione genitiva tramite il morfema -la: può essere sufficiente, in questo senso, il confronto con l’altro noto epiteto enizpetla (Vs 4.9: selvanzl enizpetla), dove la presenza di marca genitivale solo sul pronome enclitico è evidente, o, per rimanere nell’ambito del Piombo, la voce menitla relativa al teonimo al genitivo maris´l. Per quanto riguarda il significato, non sembrano sussistere dubbi tra gli studiosi che si tratti del nome di una divinità infera, passibile di essere nominata anche al plurale (calusur*), tanto da suggerire il parallelo con i latini Manes. @ Maras pensa che, come nel caso di qanr, si possa parlare dell’esistenza di una cerchia divina anche in relazione a calus, come sembrerebbero testimoniare i due epiteti calusna e calusta*, associati ad altrettanti nomi divini, che avrebbero la stessa funzione già ipotizzata per qanra; in quest’ottica, sempre secondo Maras, il plurale calusur* potrebbe essere letto come una denominazione collettiva delle divinità afferenti alla cerchia divina di Calus. 2 Una volta stabilito che il caso zero è calus, il rapporto di correlazione con mlac qanra non sembra incontrare particolari problemi: seguendo Maras, si potrebbe tradurre con ‘la Bona Dea Qanrica e Calus’: la coppia teonimica individuerebbe quindi un sintagma al caso retto. 3 A questo punto, però, si pone il problema di stabilirne la funzione sintattica, in relazione ad un possibile predicato verbale: tuttavia, non sembrano esservi forme verbali nelle immediate vicinanze, a meno che non si voglia considerare tale la forma ecnia, trattata più sotto. La difficoltà è superata se si considera mlac come semplice aggettivo: la parte iniziale potrebbe allora essere interpretata come un’invocazione alla benevolenza della coppia divina, ‘benevoli (siano) Qanra e Calus’. In questo caso, effettivamente, l’invocazione non sarebbe propriamente alla divinità qanr ma, come proposto già da Maras, alla divinità indicata come ‘Qanrica’.  





La parte successiva, da ecnia a marcalurcac, presenta più difficoltà a vari livelli di analisi. La punteggiatura è assente nella seconda parte, dove le due sequenze mimenicac e marcalurcac sono verosimilmente da scomporre. Inoltre, sopra l’alpha niani @993a (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @63-@84). La forma calus è presente anche nella Tabula Capuana (tc @5); inoltre, al locativo (con congiunzione enclitica) calusim in Ta @.@70; come epiteto (al genitivo) in calus´tla (Co 4.@0); infine, calusna è attestato anche al genitivo calus´nal (Pe 3.2). Da notare che, tanto nella variante meridionale (Vs 4.7) quanto in quella settentrionale (Pe 3.2) la forma del derivato in -na è sempre calu[s]-na: questo proprio perché la presenza di un confine morfologico prima di -na funge da blocco alla palatalizzazione della sibilante prima di [n], come si sarebbe atteso nella varietà settentrionale di etrusco (cfr. Agostiniani @992, pp. 38-39 = Agostiniani 2003-2004, i, pp. @26-@27). @   Cfr. Simon @984, p. @55, e I. Krauskopf , in limc iv, @988, pp. 394-399, s.v. Aita, Calu. Su calus si veda anche Roncalli @985b. 2   Maras @998b, pp. @90-@9@. Rimane il fatto che l’individuazione delle ‘competenze divine’ di calus sembra tutt’altro che completa; la questione è resa ancor più difficile dal fatto, già rilevato da Erika Simon, che di calus non si hanno testimonianze iconografiche, ma solo epigrafiche. Al momento sembra però azzardata l’ipotesi di Steinbauer di considerare calus non un teonimo, ma un aggettivo comune, traducendolo con ‘ausgezeichnet’ (Steinbauer @999, pp. 257, 3@0; si veda, per un parere contrario, Colonna 2007, p. @03, nota @@). 3   Analogamente, Facchetti traduce l’inizio del lato b del Piombo con ‘la buona Thanra e Calus’ (Facchetti 2000b, p. 262; Facchetti 2002a, p. 90).

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di ecnia sono visibili due segni paralleli che da alcuni sono stati interpretati come aggiunte posteriori, alla stregua della sequenza -ra di qanra (cfr. Fig. 2 e Tav. ii). Il primo a notare i due segni è Milani, che li giudica «di significato non chiaro, ma certo non accidentali»; @ successivamente, si tende ad interpretarli come un numero, due (ii) o quattro (iv), in connessione con il successivo avil. 2 La posizione e la conformazione sono comunque tali da rendere arduo giudicare se siano stati effettivamente voluti e non casuali. La prima parola, ecnia, non presenta confronti soddisfacenti con la documentazione nota: il riferimento di massima è al dimostrativo eca, anche se non si comprende in che modo si strutturi un eventuale rapporto tra eca ed ecnia: 3 allo stato attuale della documentazione qualsiasi tentativo di traduzione sembra inadeguato. 4 Come detto in precedenza, sopra l’alpha di ecnia sono visibili due segni, interpretati generalmente come un numero; dopo ecnia, la nota parola per ‘anno’, avil. Dopo avil, il testo prosegue con due sequenze di difficile comprensione, mimenicac e marcalurcac. Non sembrano esservi dubbi sul fatto che, come anticipato, queste sequenze debbano essere ulteriormente scomposte. 5 La soluzione più economica sembra essere quella già individuata da Torp, ovvero mi menica-c marca lurca-c, anche se la successiva analisi che ne propone è per più aspetti superata: ad esempio, Torp traduce mi con lat. hoc, e lur- con ‘decade’. Tuttavia, sembra sensata l’individuazione della congiunzione -c, ripetuta due volte; inoltre, stabilisce nei giusti termini il confronto tra menica e menitla del lato a: 6 non sembrano esservi dubbi che menica e menita* siano due forme parallele, una determinata per mezzo di -(i)ca, l’altra tramite -(i)ta. L’individuazione della particella enclitica -ca, peraltro, rende obbligatoria la lettura di -c finale come congiunzione, piuttosto che come for 











  Milani @893, col. 54; Milani ipotizza uno iota e un rho.   Torp, seguendo quanto osservato originariamente da Danielsson, ipotizza due segmenti paralleli e traduce ‘the second year’ (Torp @905, p. 6, nota 5, e p. @8); Lattes propone invece di leggere un ‘quattro’ (Lattes @9@@, col. 303, nota @); successivamente, lo stesso Danielsson è indeciso tra le due possibilità (ad cie 5237); tra coloro che seguono Torp, si veda inoltre Trombetti @928, p. @7@; Goldmann @928, p. 252; Cortsen @939, p. 27@, nota @, e p. 276; quelli che seguono l’ipotesi di Lattes sono invece Ribezzo @929a, p. 90; Buonamici @932, p. 359; M. Pallottino, in tle 359; Morandi @982, p. 36. Infine, Rix negli et propone di leggere ‘quattro’. 3   La voce ec[ni] (ll iv.2) è una congettura degli et. Del tutto da verificare un’eventuale relazione con ecnas di Cr 8.@. 4   Deecke traduce ecnia con ‘alle’ (Deecke @884a, p. @48), ‘jedes’ (Deecke @884b, p. vii; cfr. anche  Deecke @885a, p. 28; Deecke @885b, p. 254); per Torp ecnia è il participio ecn seguito da un elemento enclitico -ia, al quale dà un valore di particella negativa (Torp @905, p. @8); per Trombetti, invece, ecnia è dimostrativo plurale: ‘questi’ (Trombetti @928, p. @7@); per Goldmann è il nome di un sacrificio (Goldmann @928, p. 250); Ribezzo traduce ecnia con il lat. ‘proprius’ (Ribezzo @929a, p. 90; cfr. Buonamici @932, p. 359); per Cortsen è un «verstärktes Demonstrativpronomen» (Cortsen @939, p. 274). 5   Per quanto, anche in questo caso, non manchino i tentativi di interpretazione complessiva: Deecke propone di tradurre tutta la frase ecnia avil mimenicac marcalurcac con ‘alle Jahre sowohl halbmonatliche, als Randreinigungsopfer’ e simili, considerando mimenicac e marcalurcac dei composti (Deecke @884a, p. @48; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 28; Deecke @885b, pp. 253-254); per Milani mimenicac è ‘nel plenilunio dei mesi’ (Milani @893, col. 60). 6   Torp @902-@903, ii, p. 9@; Torp @905, p. @9. La stessa suddivisione è seguita in Trombetti @928, p. @7@; Ribezzo @929a, pp. 90-9@; parzialmente anche Goldmann @928, pp. 249-25@, e Cortsen @939, p. 276, che vede in marcalurca un riferimento alla divinità calu. @

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mante aggettivale (equivalente a -c). Per analogia, anche le forme seguenti mar-ca e lur-ca(-c) dovrebbero essere intese come sostantivi determinati dal dimostrativo -ca (la seconda seguita, di nuovo, dalla congiunzione -c): @ se per la prima non vi sono confronti apprezzabili, la seconda richiama immediatamente la parola lursq, ripetuta due volte nella parte finale del lato b del Piombo stesso, che come si vedrà ha tutto l’aspetto di un genitivo con posposizione. La radice lur- è poi attestata in altri contesti, ma a partire da nessuno di essi, purtroppo, è possibile individuarne il significato certo. 2 Ma qual è la struttura sintattica interna del segmento mi menicac marca lurcac? E quali sono le relazioni con il resto del testo? La presenza del pronome personale mi, se effettivamente di questo si tratta, porta a pensare ad una frase, o un’esclamazione, pronunciata nel corso del rito, magari dall’officiante stesso, magari in forma di preghiera o invocazione; il fatto che essa sia immediatamente precedente alla chiusa eq tuqiu nesl man potrebbe indicare l’atto finale del rito stesso. Del resto, anche alcune figure retoriche riscontrabili nella sequenza, come le assonanze e la reiterazione di sillabe, rimandano a manifestazioni tipiche più di una preghiera che non di un enunciato descrittivo. È tuttavia evidente che le troppe incognite non permettono un’analisi del tutto soddisfacente; in definitiva, anche su questo passo è opportuno sospendere il giudizio.  



Infine, la clausola eq tuqiu nesl man, di cui si è trattato sopra nella prima sezione del testo. Se l’ipotesi è esatta, dopo di essa dovrebbe trovarsi una cesura del testo. Il problema sta nel fatto che tale cesura non è immediatamente evidente: vale a dire, nelle porzioni di testo adiacenti non è possibile individuare una struttura sintattica che motivi la presenza di una cesura. La sequenza mi menicac marca lurcac, come   Per quanto sarebbe più normale trovare la congiunzione enclitica sull’ultimo membro del polisindeto ed eventualmente sul secondo, non certo sul primo e sull’ultimo e non sul secondo, come sembrerebbe in questo caso. 2   Recentemente, è stata pubblicata da Nancy Thomson de Grummond, e commentata da Giovanni Colonna, un’iscrizione graffita su un frammento ceramico proveniente da Cetamura del Chianti e databile al 300-@50 a.C. (ree 73, 38; cfr. anche Maras 2009, p. 463), recante il testo ] lurs´, inteso da Colonna come genitivo di un teonimo lur. Sempre come teonimo, lur sembra essere utilizzato anche nella didascalia di uno specchio (cfr. Maras @998a, p. 329) e, secondo Maras, dovrebbe essere alla base di un altro teonimo *lurs´ di oi 0.2@ (nella nuova lettura, dello stesso Maras: lurs´l l(a)rtla vatlmi fas´te; cfr. Maras @998a; cfr. anche Maras 2009, pp. 288-289), forse attestato anche sul Fegato di Piacenza, come lv(r)sl (Pa 4.26, 34): su quest’ultima attestazione, tuttavia, pesa il confronto con la divinità lynsa sylveris, che nella ripartizione celeste descritta da Marziano Capella sembra occupare lo stesso posto che ha lvsl nella sequenza del Fegato di Piacenza (Mart. Cap. @, 45; cfr. sull’argomento il cap. iii.6.@.). Inoltre, in tre casi (ll v.22, at @.@07, Vs @.@79) compare la forma luri, e negli ultimi due è associata a mlace; come si è visto sopra (§ 4.2.), mlace luri è verosimilmente un sintagma al locativo il cui caso retto sarebbe mlac lur. infine, lur sembra alla base anche del teonimo lurmi* nelle iscrizioni oa 3.6 (vºel matlnas turce 2lur{:}mit ºla cºv3º era), Pe 4.4 (lvrmit[la cver]) e ree 56, 82 (trufu/n . pequ/nus . v . l/av 2lurmic/la . turc/e . xxx / cver), dove è determinato da dimostrativi. La base lur sembra essere attestata anche nella parola lurcve della basetta di Manchester (oa 3.9), nella nuova lettura di Maras (Maras 2000-200@; cfr. anche Maras 2009, pp. 305306). Maras, infine, propone di riconoscere lur anche in altre iscrizioni opportunamente rilette: nella sequenza ]lurs´ º -al (Maras 2009, pp. 3@7-3@8), in lvºr (Maras 2009, p. 380), in lurºs´ (Maras 2009, pp. 437-438; precedente lettura in Vs 0.43: luas´). Sulle altre attestazioni di lur- cfr. ancora Maras 2009, pp. 308, 324,  400-40@. @

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si è visto, presenta notevoli problemi, a partire dalla segmentazione del testo; successivamente, invece, si trovano le parole rivac les´cem tnucasi, tutte con pochi confronti interni alla documentazione etrusca e anch’esse di significato non accessibile. La prima, rivac, sembra essere un aggettivo in -c. @ La radice lessicale, riva-, non è altrimenti nota: l’unica eventuale forma collegata sembrerebbe essere ril, utilizzato nelle iscrizioni funerarie con un numerale per indicare l’età dei defunti. 2 A dire il vero, il significato di ril è dato per contestualizzazione delle iscrizioni in cui si trova, ma sfugge, ad un’analisi approfondita, il ruolo sintattico e il preciso ambito semantico. In effetti, ril potrebbe rimandare ad una radice *ri-, 3 per quanto il suo significato risulti, una volta di più, non precisabile. La parola seguente, les´cem, sembra una forma verbale preterita attiva (con congiunzione enclitica -m) da una radice le[sˇ]-, di significato oscuro, forse presente anche nell’iscrizione di Pulenas (Ta @.@7) come ingiuntivo les´e, in un passo purtroppo non facilmente interpretabile. 4 La terza parola, tnucasi, è ancor più sorprendente, perché presenta in posizione iniziale un nesso consonantico tn- altrimenti assente in tutta la documentazione etrusca; 5 la terminazione sembrerebbe invece quella di un pertinentivo: il confronto è con l’arcaico mlakasi/mlacasi, 6 da mlac, che permetterebbe di ipotizzare un aggettivo *tnuc, o simili. 7 Altrettanto complessa è la definizione dei ruoli sintattici di ciascuna voce; la presenza di -m in les´cem presuppone che vi sia correlazione con quanto precede: si tratta di stabilire se il nesso sia tra rivac e les´cem, o se piuttosto sia con tutta la porzione di testo precedente. Se si segue quest’ultima ipotesi, si deve stabilire se rivac, in  













@   A parte Deecke, che traduce ‘und mit Sprengguss’ intendendo -c congiunzione enclitica (Deecke @884a, p. @42; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 29; Deecke @885b, p. 254), gli altri in genere rinunciano a dare un’interpretazione di rivac. In tempi più recenti, Steinbauer ha proposto di collegare rivac a reuczina (ll viii.7, al locativo reuczineti in ll viii.8; cfr. Steinbauer @999, p. 460), ma ha evitato di darne un’interpretazione. 2   Una proposta simile era stata già avanzata da Ribezzo, pur con argomentazioni oggi non più accettabili: per Ribezzo ril significa ‘compiuto’ o simili e rivac sarebbe equivalente al lat. plenus (Ribezzo @929a, pp. 9@-92, ma a p. @02 traduce con ‘solemnis’, seguito poi anche in Buonamici @932, p. 359). 3   Vi sono due possibilità di analisi: o che ril sia un genitivo in -l, come puil (as 5.@) da puia ‘moglie’, che restituirebbe una forma al caso retto *ri(a)- (< *ri(va)?), o che sia analizzato come *ri-il (cfr. ac-il), configurandosi come un nomen rei actae in -il da una radice (verbale?) *ri-. 4   Cfr. Agostiniani @986, p. 30 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @08). Negli et la sibilante di lesu in Vt 0.@0 è interpretata come palatale; Volterra, da cui proviene l’iscrizione, appartiene però alla varietà grafica settentrionale, dove il san indica la postdentale, e pertanto, foneticamente, sarebbe le[s]u, non le[š]u,  vanificando quindi un possibile confronto con les´cem. Anche per les´cem non vi sono proposte interpretative soddisfacenti e l’atteggiamento generale è di cautela: per Deecke è ‘Todtenlager’ (Deecke @884a, p. @42; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 29; Deecke @885b, p. 254); Ribezzo traduce con le locuzioni latine ‘et in fine, ad finemque’ (Ribezzo @929a, pp. 92-93; cfr. Buonamici @932, p. 359). 5   La forma tn, isolata (Vs 3.7, Um 3.2), è chiaramente l’accusativo recente del dimostrativo ta. 6   La forma mlacasi è attestata in Cr 6.2, mlakasi in oa 3.@; da notare, inoltre, la forma [malaka]sºi,º in ree 69, 7@ (G. Colonna). Per una discussione del paradigma di appartenenza si rimanda al fondamentale Agostiniani @98@ (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 3-@9). 7   Per Deecke tnucasi(nt) è forma verbale (Deecke @884a, p. @42; Deecke @884b, p. vii; Deecke @885a, p. 29; Deecke @885b, p. 254); anche per Trombetti potrebbe essere un verbo (Trombetti @928, p. @7@); per Ribezzo ha un rapporto con la radice ten- di tenu, tenine ecc., e sarebbe un genitivo (Ribezzo @929a, p. 93; cfr. Buonamici @932, p. 359).

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quanto appellativo, sia legato a les´ce(-m) o tuqiu: sembra più probabile un legame con les´ce(-m), dal momento che tuqiu ha un legame privilegiato con nesl man, che dovrebbe esserne il soggetto; a meno che rivac non si trovi in funzione predicativa di nesl man in riferimento al predicato verbale tuqiu, ma va detto che nelle altre attestazioni tuqiu non sembra avere appellativi in funzione predicativa. Del tutto indefinita, infine, la funzione sintattica del pertinentivo (?) tnucasi, che solo in linea teorica si può ipotizzare retto dal probabile preterito les´ce(-m): quest’ultimo, dato che con s´uriseisteis sembra aprirsi una frase ulteriore, potrebbe trovare un soggetto in nesl man; questo, peraltro, potrebbe spiegare anche la presenza della congiunzione enclitica -m, che porrebbe in correlazione i due verbi, tuqiu e les´ce, caratterizzati dallo stesso soggetto, nesl man. Anche la frase successiva presenta notevoli problemi di interpretazione, a partire dalla segmentazione della sequenza iniziale s´uriseisteis, nella quale, tuttavia, è possibile riconoscere con sufficiente sicurezza la forma s´uris. L’interpretazione tradizionale tende a leggere in s´uris il genitivo di un teonimo s´uri*, anch’esso, come calus, assente nelle rappresentazioni iconografiche e dai connotati non ben definiti. @ Data l’importanza del termine, la sua attualità nella discussione scientifica e l’innovatività dell’analisi che sarà qui proposta, si ritiene opportuno presentare tutte le iscrizioni in cui ricorre questa sequenza, e procedere quindi ad un’attenta disamina:  

tle 478: 2 [...] 4nanakamarnis´urisicemukºaº [...] tc 3: 3]eriquq.cuvacil.s´ipir.s´urileqam.sul.citar.tiria4cim.clevaa.cas.rihal.c.tei[ Vs 0.6: 3 sºur(is) ree 69, 24: 4 s`ur[is] ree 56, 22: 5 mºi s`u[ris]  







@   Cfr. A. Cherici, in limc vii, @994, pp. 823-824, s.v. Suri. Sulla divinità s´uri* si veda Colonna @984@985, pp. 72-79; Colonna @99@-@992, pp. 92-98; Colonna @997, pp. @76-@8@; sul confronto tra s´uri* e Apollo, Colonna @994; Mastrocinque @995, pp. @48-@5@; infine, Maras 2009, pp. 224-225, 236-237, 324-325, 334, 338, 340, 345, 382-383, 388-390, 402-404, 427-428. L’individuazione di s´uris nella sequenza s´uriseisteis è già in Deecke, che traduce s´uris eis teis evitiuras ‘Als Weihgeschenk (?): den (oberen) Göttern ein Paar Lämmer’ (Deecke @885b, pp. 253-255; cfr. anche Deecke @885a, pp. 30-3@; precedentemente aveva letto e suddiviso in s´urises teis, cfr. Deecke @884a, p. @49 e Deecke @884b, p. vii); il primo a leggere s´uris come genitivo di un teonimo è Lattes (cfr. Lattes @894, pp. 2@7-2@8; cfr. anche Colonna @99@-@992, p. 94, nota 65), ed è ripresa in seguito in Torp @902-@903, i, p. 50; Torp @905, p. @9; Trombetti @928, p. @7@; Ribezzo @929a, p. 93 (cfr. Buonamici @932, p. 359); Cortsen @939, p. 272; Stoltenberg @957, pp. 85-86. Goldmann, invece, propone di tornare alla lettura s´uriseis, da interpretare come nome di un’offerta (Goldmann @928, pp. 247-248). 2   Sulla Lamina di Poggio Gaiella, datata al terzo quarto del vi sec. a.C. ca., cfr. la discussione del documento al cap. iv.7. 3   Frammento di patera in bucchero, proveniente dal Belvedere di Orvieto, databile tra il vi e la prima parte del v sec. a.C. Cfr. Colonna @99@-@992, p. 95, dove però, coerentemente con l’ipotesi di cui si dirà più avanti, il testo non presenta integrazioni. 4   Frammento di grosso recipiente, forse un’anfora, rinvenuto a Pyrgi, databile tra la fine del vi e la prima metà del v sec. a.C. ca. G. Colonna, in ree 69, 24, propone anche s`ur[i] come ipotesi alternativa di integrazione. 5   Frammento di parete di vaso attico a figure nere, rinvenuto a Pyrgi, databile ai primi decenni del v sec. a.C. ca. L’integrazione è proposta a partire dal confronto con l’iscrizione successiva.

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riccardo massarelli ree 64, 36: @ mi : s`uris : cavaqas ree 56, 27: 2 [mi s`uri]s cav[aqas] ree 56, 23: 3 su(ris) Cataldi @994: 4 a@s´uris 2selvansl bselvansl at 4.@: 5 savcnes : s´uris ree 56, 68: 6 muras . arnq . qufl . s´u{u}ris Ta 3.7: 7 ]nas : velus´a 2[s´u]rºis : selvansl 3[ap]aºs : cver : qveqli4[-?-] : clan Vc 4.6: 8 ]nº : s´uris : ei[ 2]t ºei : renana Pe 0.6: 9 s´uris Ar 4.2: @0 suris´  



















L’argomento è stato trattato a più riprese da Giovanni Colonna. @@ L’idea di fondo è che [sˇ]uri[s] (questa la parola con grafia fonetica delle sibilanti) sia il genitivo di dedica della divinità [sˇ]uri: questa impostazione si può dire largamente accettata da tutti, tanto che le recenti critiche mosse da Dieter Steinbauer @2 e Jean-Paul Thuillier @3 non sembrano aver trovato terreno fertile. Questi sostengono, in particolare, che la forma [sˇ]uri[s] non sia un genitivo, bensì un nominativo, e a partire da questa analisi ne danno poi interpretazioni semantiche differenti: Steinbauer sostiene che possa essere un termine di dono, Thuillier propone un confronto con il latino sors. Il punto focale della questione, come riconosce lo stesso Colonna, @4 è dato nello specifico da alcune attestazioni: la Tabula Capuana, la Lamina di Poggio Gaiella, le brevi iscrizioni del Belvedere di Orvieto (Vs 0.6) e di Pyrgi (ree 56, 23); le altre iscrizioni, infatti, avendo tutte [sˇ]uri[s], supportano sia un’interpretazione quale genitivo, sia quale nominativo. @5 Neanche le quattro iscrizioni citate, tuttavia, sono  









  @  Piede a tromba di kylix attica, rinvenuto a Pyrgi, databile alla prima metà del v sec. a.C. ca. Il primo frammento già in ree 56, 2@, cfr. Cr 4.@2.   2  Frammento di vaso a vernice nera, probabilmente attico: l’iscrizione sinistrorsa è senza punteggiatura ma con una spaziatura a suggerire la divisione delle parole. Rinvenuto a Pyrgi, databile al v sec. a.C. Cfr. anche Colonna @99@-@992, p. 92; Maras 2009, p. 34@.   3  Piede di kylix, rinvenuto a Pyrgi, databile tra la fine del v e gli inizi del iv sec. a.C. ca. L’integrazione qui proposta è già in ree 56, 23. Cfr. anche Colonna @99@-@992, p. 95.   4  Stele opistografa, rinvenuta nell’area urbana di Tarquinia, databile al iv-iii sec. a.C. ca.   5  Sors rettangolare in bronzo con un foro laterale, rinvenuta nei pressi di Viterbo (località Cipollara), databile al iv-iii sec. a.C. ca.   6  Bronzetto votivo di giovane satiro, di probabile provenienza vulcente, già nella collezione Guglielmi, con iscrizione incisa a freddo sul fianco della figura, databile al iii sec. a.C. ca. Cfr. da ultimo Sannibale 2006, pp. @33-@4@.   7  Piccola statua in bronzo (c.d. Putto Carrara), proveniente dall’area urbana di Tarquinia, databile tra la seconda metà del iii e la prima metà del ii sec. a.C. ca. Le integrazioni riportate sono proposte in Colonna @99@-@992, p. 95, nota 7@.   8  Blocco di nenfro, proveniente dagli scavi eseguiti dai Campanari e dal Governo Pontificio a Vulci, di età recente.   9  Supporto lapideo non specificato, proveniente da Bettona, di età recente. Cfr. Stopponi 2006, pp. 3@-32. @0   Dischetto di piombo (sors), rinvenuto ad Arezzo, di età recente. Lo stesso documento è analizzato nel cap. vi.@ di questo lavoro. @@   Oltre ai lavori citati in precedenza, si rimanda in particolare a Colonna 2007. @2   Steinbauer @999, pp. 268-269, 472; Steinbauer 2004, pp. @@0-@@@; cfr. anche Bentz, Steinbauer @3 @4 200@, p. 75.   Thuiller 2007.   Colonna 2007, pp. @05-@06. @5   Va aggiunto, ad onor del vero, che l’ipotesi di Colonna secondo cui s´uri sarebbe un teonimo si basa

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esenti da problemi: va detto, in primo luogo, che le due iscrizioni di Orvieto (sur) e di Pyrgi (su), ammesso che siano delle abbreviazioni, possono esserlo tanto di [sˇ]uri quanto di [sˇ]uri[s], non risultando in tal modo determinanti. @ Per quanto riguarda la Lamina di Poggio Gaiella, essa documenta comunque una sequenza s´uris in un enunciato in scriptio continua in cui è oltremodo difficile riconoscere le singole unità lessicali: Colonna sostiene che si debba separare s´uri da sice, individuando il nome del teonimo al caso retto qualificato da un epiteto gentilizio, che troverebbe un confronto con s´iki di un’iscrizione populoniese (Po 0.@0), inteso come nome personale. 2 L’analisi è certo possibile, ma non sembra avere caratteristiche di cogenza tali da renderla in ogni caso preferibile. 3 Infine, l’ultima attestazione è quella della Tabula Capuana, in cui è riconoscibile una sequenza s´uri (non s´uris) che dovrebbe essere quindi l’unica vera menzione del nominativo del teonimo. Ora, la Tabula Capuana è anch’essa in scriptio continua, e nel passo in discussione, se è certo il confine di parola dopo lo iota di s´uri, essendo questo seguito dal teonimo al genitivo leqamsul, non è altrettanto sicuro il confine di parola subito prima di san. Anche l’analisi del passo non sembra essere del tutto chiara: Colonna sostiene che s´uri sia in stretta relazione proprio con leqamsul, alternativamente o intendendo s´uri leqamsul come sintagma composto da teonimo ed epiteto con flessione solo del secondo elemento (‘del s´uri leqams’), 4 o come coppia divina unita in asindeto e con genitivo di dedica solo nel secondo teonimo (‘(di) s´uri (e) di leqams’), 5 vale a dire in entrambi i casi, con una definizione tradizionale ma non sempre chiara nelle sue dinamiche, in Gruppenflexion. È da osservare, in primis, che leqamsul, negli altri passi della Tabula, non compare mai in connessione con un altro epiteto divino; ma soprattutto, entrambe le ipotesi chiamano in causa uno strumento sintattico, appunto la Gruppenflexion, che quando è attestata nelle lingue presuppone caratteri di sistematicità, e non di sporadicità, come invece postulato per l’etrusco, che peraltro sembra mostrare chiari indizi di una struttura sintagmatica con evidente accordo interno espresso per mez 









anche su tutta una serie di confronti storici, antropologici e archeologici con la documentazione e le fonti disponibili; tuttavia, trattandosi di una divinità etrusca la cui esistenza sarebbe nota essenzialmente solo dall’epigrafia (e non da fonti iconografiche), sembra opportuno che nell’affrontare la questione si tratti in primo luogo dell’analisi del dato epigrafico. @   È da aggiungere, peraltro, che le brevi epigrafi sono scritte con sigma a tre tratti, non con san (a Orvieto) o sigma a quattro tratti (a Pyrgi), grafi utilizzati per indicare la sibilante palatale nelle rispettive aree, come si sarebbe atteso dato il confronto con le altre attestazioni, tutte, tanto al nord quanto al sud, indicanti che la prima sibilante è palatale; questo di per sé non è dirimente, dal momento che sono noti altri casi di oscillazione nell’utilizzo delle sibilanti, ma comporta comunque un ulteriore scarto di cui tenere conto in fase di analisi. 2   Colonna 2007, p. @05; cfr. anche Maras 2009, p. 246, n. 4 (che propone anche un’opzione alternativa secondo cui sice potrebbe essere preterito attivo). 3   Sulla Lamina di Poggio Gaiella si rimanda più estesamente al cap. iv.7. Da rilevare, inoltre, che ci sarebbe un leggero scarto cronologico tra la forma sice della Lamina (terzo quarto del vi sec. a.C. ca.) e il s´iki di Po 0.@0, assegnato dubitativamente ad un periodo piuttosto ampio, tra v e iii sec. a.C. (cfr. ree 49, @5; gli et seguono la datazione più bassa, iii sec. a.C. ca.). 4   Colonna @99@-@992, p. 94, nota 66. Cfr. anche Colonna @997, p. @83, nota 69. 5   Colonna 2007, p. @05. Una terza ipotesi è formulata da Maras, il quale intende l’attestazione della Tabula Capuana quale indicazione dell’appartenenza di s´uri alla ‘cerchia divina’ di leqams (indicativamente, ‘il s´uri di leqams’, cfr. Maras 2009, p. @55).

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zo di terminazioni su ciascuno degli elementi del sintagma stesso. @ Data l’assenza di punteggiatura lessicale, infine, non è da escludere a priori che s´uri sia la parte finale di una parola più lunga (*pirs´uri o *sipirs´uri?), in cui la terminazione -ri potrebbe rimandare ad un necessitativo. 2 Infine, altri elementi utili all’analisi possono essere ottenuti dalla discussione del passo del Piombo di Magliano: elementi che, in una certa prospettiva, potrebbero risultare addirittura decisivi. Dopo s´uris si ha la sequenza eisteis, che presenta problemi di restituzione, segmentazione e analisi altrettanto complessi. Se si segue la suddivisione in eis teis, la prima parola potrebbe essere intesa come un’ulteriore attestazione del termine etrusco per ‘divinità’ e suffragare, in qualche modo, l’idea che s´uris sia un teonimo, per quanto, se se ne ipotizza l’appartenenza allo stesso sintagma, si deve di nuovo pensare ad un caso di Gruppenflexion, la cui pertinenza all’etrusco, si è visto sopra, deve essere totalmente ridiscussa. La sequenza eis, del resto, non sembra coerente con la forma del lato a aiseras, che testimonia per il Piombo la variante con a- (non e-). Infine, sfugge il rapporto con la parola successiva, teis, per la quale il confronto obbligato è con il Cippo di Perugia (Pe 8.4a4, 22), con la locuzione tesns´ teis´ ras´nes´, in cui teis´ è chiaramente un ablativo del pronome dimostrativo (e)ta. 3 Una lettura come eisteis, peraltro, non sembra avere dalla sua alcun confronto utile. Una possibilità potrebbe aprirsi se si rinuncia all’interpretazione tradizionale di s´uris, e si esplorano altre possibilità. Va detto che l’origine dell’ipotesi di un teonimo s´uris in etrusco deriva essenzialmente dalla prime analisi del Piombo di Magliano, in cui la tendenza generale era di riprodurre sul lato b uno schema analogo a quello del lato a, con tre sezioni aperte ciascuna da un teonimo al genitivo; come si è già visto, almeno per quanto riguarda mlac qanra calusc (ma lo stesso sarà anche per tins), l’ipotesi di un’analoga tripartizione del lato b, con tre teonimi al genitivo indicanti l’inizio delle rispettive sezioni, è tutta da rivedere. È quindi lecito, in linea teorica, ipotizzare che s´uris sia altro rispetto all’ipotesi vulgata (teonimo al genitivo). Ora, come detto sopra, nella sequenza s´uriseisteis la parte finale è verosimilmente l’enclitico (i)ta declinato all’ablativo teis; generalmente, come nel caso succitato del Cippo di Perugia, teis funge da determinatore di un sostantivo: 4 è chiaro che è proprio nella sequenza s´uriseis che si potrebbe riconoscere il sostantivo determinato da teis. L’individuazione in s´uriseisteis di un ablativo determinato comporterebbe alcuni vantaggi: in primo luogo, spieghereb 







@   Come mostra il sintagma tesns´ teis´ ras´nes´ del Cippo di Perugia (Pe 8.4a4-5, 22), menzionato poco più avanti nel testo. Per un esempio classico di ‘flessione sintagmatica’ (o phrase inflection, o Gruppenflexion) si rimanda al basco (cfr. Trask @997, pp. 89-@02), dove la marcatura del sintagma nel suo complesso è l’unica strategia di gestione a livello morfologico dei ruoli sintattici espressi nella frase. Un valido approccio alla questione, per l’etrusco, è Van Heems 20@@. 2   Sull’argomento, infine, si vedano anche i dubbi in Cristofani @995, p. 70. 3   Cfr., da ultimi, Agostiniani, Nicosia 2000, p. 4; Facchetti 2000a, p. 3@, nota @52. Facchetti traduce s´uris eisteis con ‘dal dio Šuri’ (Facchetti 2000b, p. 262). 4   Lo si vede chiaramente, oltre che nel già citato esempio del Cippo di Perugia, anche nella Tabula Cortonensis, dove si trova la sequenza sparzês´tis´ s´azleis´, che Adiego ha opportunamente analizzato e tradotto come ‘dalla tavoletta bronzea (?)’ (Adiego 2005).

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be la mancanza di punteggiatura, per il semplice fatto che non vi sono effettive cesure lessicali; in secondo luogo, la presenza di un ablativo darebbe maggiori giustificazioni alla presenza di ilace, che ha tutto l’aspetto di un preterito passivo. È evidente che una tale ipotesi implica che s´uris, in definitiva, non sia un genitivo, ma un nominativo, di cui s´uriseis sarebbe l’ablativo. È da sottolineare che, partendo da una forma al caso retto s´uris, non è però immediata la spiegazione di un ablativo s´uriseis rispetto ad un atteso *s´urisis, o *s´urisals. In etrusco, tuttavia, vi sono alcuni confronti che permettono di sostenere che effettivamente s´uriseis potrebbe essere l’ablativo di s´uris. Si veda, ad esempio, tuqines´ tlenaceis´, in Co 3.5: tlenaceis´ è verosimilmente una forma flessa di un aggettivo in -ac, che al nominativo perde la vocale finale -e, sopravvissuta solo nei casi ulteriormente suffissati (cfr. anche il genitivo tlenaces in oa 3.7); @ un altro esempio di questo tipo dovrebbe essere la parola aniac (ll vi.2, 4), di significato non chiaro, il cui genitivo però sembra verosimilmente ania{.}ces´ (ll xi.f5), mentre l’ablativo dovrebbe essere ani[º a]ceis º (ll vi.@). Il fenomeno di caduta della vocale finale del tema lessicale al caso non marcato, e mantenimento della stessa nei casi che presuppongono suffissazione, è denominato «apocope Rix». 2 Tale fenomeno si collocherebbe in età ‘preistorica’, ovvero, letteralmente, precedente all’acquisizione della scrittura, dal momento che non esistono casi documentati di questo mutamento, ma semplicemente è possibile dedurlo dal comportamento del paradigma di alcuni termini; ad esempio, il gen. secis, rispetto a sec (‘figlia’), presuppone una forma ‘preistorica’ del termine *seci, che poi in età storica al caso retto avrebbe perso -i finale per effetto dell’apocope, mentre questo processo sarebbe stato bloccato negli altri casi per la presenza della suffissazione. Lo stesso fenomeno potrebbe appunto essere ipotizzato anche per s´uris che, pertanto, in fase prealfabetica avrebbe potuto essere qualcosa come *s´urise-; successivamente la -e finale sarebbe caduta, ma sarebbe sopravvissuta nei casi obliqui: appunto, l’ablativo s´uriseis. Per quanto riguarda il significato di s´uris, poi, è evidente che si dovrebbe far riferimento all’ambito religioso, ma senza ulteriore possibilità di definizione del campo semantico di riferimento. Ciò che risulta innovativo in questa ipotesi è evidentemente il fatto che s´uris debba essere considerato nominativo: la conseguenza più rilevante, una volta che si accetti la spiegazione data, è che, se s´uris è un nominativo, non può essere contemporaneamente il genitivo -s di un sostantivo (teonimo) s´uri. Si potrebbe pensare allora che s´uris (come nominativo) sia un teonimo: il dettato del Piombo di Magliano, teoricamente, non lo vieterebbe a priori (si potrebbe cioè ipotizzare una traduzione del tipo ‘da s´uris è stato -ato ecc.’, del tutto congruente); in quest’ottica, tuttavia, risulterebbero senza senso le eventuali traduzioni che si otterrebbero dalle altre iscrizioni, in particolare quelle pyrgensi. Ad esempio, l’iscrizione parlante ree 64, 36 (su una kylix) equivarebbe a ‘io (sono il dio) s´uris di cavaqa’, evidentemente un non-senso. Quindi (si ripete, una volta accettate le premesse), non sembrerebbe più sostenibile l’ipotesi che in queste forme sia da riconoscere un teonimo.  



  Cfr. però Maras 2009, pp. 297-298 dove la sequenza è corretta in tlenasies.   Cfr. Rix @984, p. 2@7.

@

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Anche la sequenza successiva, evitiuras, dovrebbe essere segmentabile: l’individuazione di due parole distinte, evi e tiuras, è dettata dalla presenza nella documentazione di tiur ‘luna, mese’, di cui tiuras sarebbe il genitivo. @ Al contrario, la parola evi non sembra avere confronti apprezzabili nella documentazione nota. 2 Ugualmente poco evidenti sembrano essere i rapporti di sintagma tra le due parole: se può sembrare scontato che tiuras sia una specificazione retta da evi, si deve notare che in realtà la tipologia dell’etrusco presenta un ordine dei costituenti gn, ovvero genitivo-nome, che porterebbe piuttosto a collegare tiuras al successivo mulsle; è vero tuttavia che potrebbe trattarsi anche di un ordine dei costituenti marcato, che quindi permetterebbe un sintagma ng evi tiuras. Del resto, anche l’interpretazione di evi come sostantivo è allo stato attuale del tutto ipotetica. La sequenza successiva mulsle mlac ilace tins, pur non presentando punteggiatura, non pone problemi di segmentazione, sia perché vi si possono riconoscere due voci ben note, ovvero mlac e tins, che delimitano anche le altre due parole mulsle e ilace, ma anche perché nella scrittura le quattro parole sembrano ben distinte tra loro, sia attraverso delle spaziature, sia tramite dimensioni diverse dei grafi. Il problema è, piuttosto, nella collocazione di ilace: in effetti, la parola si trova in un punto in cui il testo scritto passa progressivamente dalla veste ‘spiralizzante’ ad una più consueta, con tre brevi righe orizzontali (quattro se si considera anche l’ultima parte della spirale, ovvero tins lursq tev; cfr. Fig. 2 e Tav. ii); ciò produce incertezza, tanto che alcune letture del Piombo posizionano ilace all’inizio della prima delle tre righe finali, ovvero prima di huviqun; questo però sembra da escludere, dal momento che si dovrebbe ipotizzare che l’incisore, dopo aver scritto mlac, abbia lasciato uno spazio vuoto, abbia continuato con tins lursq tev e infine, solo allora, abbia ricoperto lo spazio lasciato inutilizzato, scrivendo ilace huvi qun. Inoltre, questa soluzione vanifica l’evidente allineamento a destra delle tre ultime righe (quattro se si considera la sequenza tins lursq tev come la prima riga della serie). 3 Sul piano dell’interpretazione, la prima parola, mulsle, è di nuovo di difficile ana 





@   La suddivisione in evi tiuras è stata avanzata da Torp, che inoltre ipotizza le traduzioni ‘half month’ o ‘full moon’ (Torp @905, pp. @@-@2; cfr. Cortsen @939, p. 274, che propone un confronto con il gr. noumhniva; cfr. inoltre Facchetti 2000b, p. 262; Facchetti 2002a, p. @8). Trombetti invece traduce evitiuras con ‘compagna, amante’ (Trombetti @928, p. @7@); per Goldmann è un’offerta (Goldmann @928, pp. 252-253); Ribezzo traduce con il lat. ‘anni-mensium’ (Ribezzo @929a, pp. 94-96; cfr. Buonamici @932, p. 359). 2   Cfr. ree 70, 6 (M. Bonamici), dove la sequenza evi è incisa, isolata, sul fondo di una ciotola d’argilla; come nota l’editrice, è possibile peraltro che l’ultimo segno sia la cifra per @, e che quindi l’iscrizione vada letta ev i. 3   La soluzione con ilace inserito prima di huvi qun è stata adottata in Milani @893, cfr. col. 50: «Dopo la c finale di mlac, c’è una grossa bolla della colatura del piombo, la quale sembra aver impedito la prosecuzione in linea spirale; e sotto la voce mlac, attaccata all’ultima gamba della m, vi è una linea di richiamo, la quale conduce l’occhio del lettore sopra la parola ilace al seguito dell’iscrizione spirale», e col. 55: «Con mlac termina il periodo, ossia il giro spirale continuo della scrittura di questa pagina. Sotto la [m] di mlac vi è una linea di richiamo, visibile anche nell’eliotipia del piombo [...], la quale [...] guida l’occhio sopra la voce ilace e congiunge, come pare, mlac con tins lursq tev»; è possibile, però, che la linea vista da Milani sia del tutto casuale. La lezione di Milani è seguita da tutti gli studiosi successivi, e solo negli et di Rix (cfr. av 4.@) è riproposta la lettura originaria.

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lisi. @ Wylin propone di considerarlo forma articolata in -sa, che giudica essere un ulteriore dimostrativo enclitico, omofunzionale a -ca e -ta: mulsle sarebbe un pertinentivo (< *mul(u)-s(a)-le) da una radice da ricondurre al ben noto termine mulu (‘dono’?); 2 pare evidente che tale analisi è accettabile solo a partire dalla dimostrazione effettiva dell’esistenza di un dimostrativo -sa. Seguono le parole mlac ilace. Se per la prima non vi sono difficoltà, a partire dal significato di ‘buono, benevolo ecc.’, da considerare sicuro, su ilace non vi sono molte certezze: 3 la terminazione -ce porta a pensare ad un preterito passivo, che in quanto tale darebbe un’ulteriore giustificazione alla lettura di s´uriseisteis quale ablativo, come spiegato sopra. Per quanto riguarda il significato, la normale segmentazione interna di ilace restituisce un tema *ila- che può essere riconosciuto anche nel locativo plurale ilacve di una delle Lamine di Pyrgi (Cr 4.4, due volte), e nelle forme ilucu e ilucve della Tabula Capuana: 4 il significato di queste ultime, sembra ormai appurato, dovrebbe essere quello di ‘festa’ o simili, ed è quindi possibile immaginare per il tema lessicale *ila- un’appartenenza alla sfera semantica del ‘celebrare’. 5 Infine, la parola tins. Con tins gli studiosi del Piombo facevano iniziare la terza e ultima sezione del lato b, la sesta di tutto il testo iscritto: tins infatti è da sempre considerato il genitivo di un teonimo tin/tinia, appartenente ad una divinità assimilabile al latino Iuppiter, ma che in certi casi può significare anche ‘giorno’. 6 Sul piano formale, l’idea che tins sia genitivo è però errata; il problema è stato trattato  











@   Deecke traduce con ‘Honigtrank’ (Deecke @884a, pp. @42, @49; Deecke @884b, p. viii; Deecke @885a, p. 3@; Deecke @885b, pp. 253-254); per Trombetti il sintagma mulsle mlac indica ‘le cose da offrire’ (Trombetti @928, p. @72); per Ribezzo è il sacrificio, essendo la parola mulsle strettamente affine a mule, mulu, mlac ecc. (Ribezzo @929a, p. 96; cfr. Buonamici @932, p. 359); ugualmente Cortsen, partendo dall’idea che mlac stia per ‘Gabe’, ritiene che vi possa essere una relazione con mulsle, per il quale non nasconde la possibilità di un rapporto con il lat. mulsum (Cortsen @939, p. 275). Maggiani sull’aequipondium di Caere individua una parola muls che sarebbe il nominativo su cui è costruito il «probabile strumentale mulsle» del Piombo di Magliano (Maggiani 2002b, p. @67, nota @3; la stessa sequenza, in Facchetti, Wylin 2004, 2 pp. 390-39@, è resa mu[n]sl[e]c).   Wylin 2004b, p. 22@. 3   Deecke, che legge lace, traduce ‘Schüssel’ (cfr. Deecke @884a, pp. @42-@49; Deecke @884b, p. viii; Deecke @885a, p. 3@; Deecke @885b, pp. 253-254); Trombetti, che seguendo Milani pone ilace dopo tev, legge e suddivide in tevi-lace, traducendo ‘nel bosco sacro dell’altare’ (Trombetti @928, pp. @72-@73); così anche Ribezzo, che traduce tevi-lace con il lat. ‘mensualis, mensis-spatium-habens’ (Ribezzo @929a, p. 97; cfr. Buonamici @932, p. 359); anche Cortsen segue la lezione di Milani, ma rinuncia a dare un’interpretazione di ilace, considerato l’oggetto del verbo tev (Cortsen @939, p. 276). 4   Le forme ilucu (tc 8, @4, @8, @9, 2@, 28, 30) e ilucve (tc 8, @8, 28, 3@, 40, 59) corrispondono, formalmente, a ilacve delle Lamine di Pyrgi: la presenza di u al posto di a è dovuta ad un fenomeno di velarizzazione della vocale a contatto con liquida, proprio della varietà di etrusco della Tabula Capuana, cfr. il pronome enclitico locativo -(i)tule (più volte nella Tabula) rispetto all’atteso -(i)t(a)le; a partire da un caso retto ilucu, ilucve si spiega come locativo plurale (< *ilucu-va-i, cfr. Facchetti 2000a, p. 4@, nota 239), formalmente identico a ilacve, che quindi restituisce un caso retto *ilacu. Meno diretto il possibile rapporto con la forma ilqcvav della settima riga di Ta 8.@ (è probabilmente da integrare come tale anche la sequenza ilqcv[ della terza riga, cfr. Facchetti 2000a, p. 94), e con la voce iluc di Pe @.@207. 5   Cfr. Cristofani @995, pp. 62-63. 6   Così Deecke @884a, p. @49; Deecke @884b, p. viii; Deecke @885a, p. 3@; Deecke @885b, p. 255; Milani @893, col. 59; Torp @905, pp. 7-8 (che traduce però tins con il lat. dierum); Trombetti @928, p. @72; Goldmann @928, p. 253; Ribezzo @929a, p. 96 (cfr. Buonamici @932, p. 359); Cortsen @939, p. 272; Morandi @982, p. 38.

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brevemente, ma in maniera esauriente, da Agostiniani, il quale, oltre a dimostrare che tins è un caso retto, critica la vulgata sulla relazione tra tin(i)a e tins: @ viene a cadere, così, anche l’ultimo elemento del ricercato (e forzato) parallelismo con le tre sezioni del lato a, tutte aperte da un teonimo al genitivo. Si pone, ora, il problema di dare una lettura unitaria alla sequenza; ammesso che ilace sia un preterito passivo, il cui agente può, in linea teorica, essere rappresentato dall’ablativo s´uriseisteis, mlac potrebbe rappresentarne il complemento predicativo, in una traduzione provvisoria del tipo ‘dal s´uris (?) [...] è stato festeggiato (come) benevolo’. È evidente però che, in tale lettura, con maggiori difficoltà trovano una collocazione le parole evi tiuras mulsle, che apparentemente non sembrano poter ricoprire il ruolo di soggetto di ilace, ancora sconosciuto, e sembrano piuttosto candidate a svolgere funzioni di strumentali. Il soggetto di ilace, a questo punto, potrebbe essere il tins successivo, da intendere come ‘giorno’; una provvisoria traduzione della sequenza potrebbe essere quindi ‘dal s´uris (?) [...] è stato festeggiato (come) fasto il giorno ...’. 2  



Il lato b si conclude con una serie di parole individuabili come tali ma poco perspicue sul piano del significato, e di conseguenza anche l’individuazione della struttura sintattica del passo non è agevole. La parola lursq ricorre due volte: la prima all’inizio, subito dopo tins, al quale potrebbe essere collegata; la seconda prima di sal. 3 Per quanto riguarda la sua morfologia, sembra pacifico il riconoscimento della posposizione locativa -q; a partire da ciò, è possibile intendere lursq come caso retto con posposizione (da un originario locativo, per cui lurs-q < *lurs-i-q) o come genitivo con posposizione (lur-s-q, come craps´ti del Liber linteus). Maras 4 sostiene la seconda ipotesi, dal momento che una base lur è effettivamente attestata, in primis nel Piombo stesso, che come si è visto presenta sul lato b una sequenza mi meni-ca-c mar-ca lur-ca-c; in realtà sembrerebbe attestata (almeno in oi 0.2@) anche una forma lurs: qui, però, la parola lurs´l è scritta con san e, se l’ipotesi della provenienza meridionale dell’iscrizione è esatta, dovrebbe valere foneticamente per lur[sˇ]l, mentre nel Piombo si ha lur[s]q. 5  





  Agostiniani @992, p. 57, nota 35 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @45).   È da chiedersi se tra la radice verbale ila- e il lessema ilucu intercorra la stessa relazione che sussiste tra le parole latine sancı¯re e sanctus; se così fosse, una possibile traduzione del passo in oggetto sarebbe «dal s´uris (?) [...] è stato stabilito come fasto il giorno ...». 3   Per Deecke lursq rimanda al lat. lustrum e significa ‘Reinigungsopfer’ (Deecke @884a, p. @49) o ‘Sühn-  opfer’ (Deecke @884b, p. viii; Deecke @885a, pp. 3@-32; Deecke @885b, p. 254); Torp fa riferimento ad un tema lur che traduce come il numerale ‘dieci’ (Torp @905, p. 7); Trombetti considera lursq un locativo di un nome comune di luogo, forse etimologicamente affine al gr. leurov-~ ‘ampio’, o lauvra ‘via, passaggio’ (Trombetti @928, p. @73); per Goldmann è un’indicazione di tempo (Goldmann @928, p. 250; cfr. anche Cortsen @939, p. 276, che traduce ‘am Geburtstag’); per Ribezzo, invece, il rimando etimologico è al lat. lurcare ‘banchettare’ o simili (Ribezzo @929a, pp. 96-97; cfr. Buonamici @932, p. 359). 4   Maras @998a, p. 329: la lettura proposta per il sintagma tins lursq («[...] si deve pensare al riferimento ad un (santuario) di Lur, indicato con la costruzione del locativo sul genitivo, nel quale dovrebbe essere ospitato Tin(ia)»; cfr. nota @9: ‘di Tinia nel (tempio) di Lur’) è però in contrasto con l’ipotesi, qui sostenuta, che il tins del Piombo di Magliano equivalga a ‘giorno’. 5   Si rimanda alla discussione dell’argomento in Maras @998a (in particolare pp. 328-33@). Sul piano del significato, l’ipotesi corrente, sostenuta anche da Maras, è che lur sia un teonimo: non è chiaro però come @

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Se si accetta la lettura di lursq come locativo, esso potrebbe essere riferito tanto a quello che segue (tev huvi qun) quanto alla parte precedente, in cui, è stato ipotizzato sopra, si dovrebbe leggere qualcosa come ‘dal s´uris è stato stabilito (celebrato) (come) buono il giorno ...’: effettivamente, lursq potrebbe indicare quale giorno è risultato ‘buono, fasto’, ovvero quello ‘nel lur-’ o simili, dove lur-, come mostra il Fegato di Piacenza, costituirebbe una particolare condizione dell’orientamento celeste. Tuttavia, sarebbe da spiegare la funzione della stessa parola nel contesto successivo: come si vedrà, date le difficoltà di analisi della stringa finale del Piombo, al momento ciò non sembra possibile. La radice verbale tev è stata già analizzata nelle sue attestazioni, in occasione dello studio della sequenza icutevr, sul lato a del Piombo; qui può bastare l’osservazione che, in presenza di una radice nuda, l’ipotesi più lineare è che si tratti di un imperativo: sarà da vedere, poi, se un imperativo possa trovare posto nella sintassi della parte finale del Piombo. @ Del tutto sconosciuta è, invece, la parola huvi, per la quale non sembra possibile reperire alcun confronto con la documentazione nota: unica osservazione possibile è che dovrebbe essere un’entità numerabile, se, come sembra, il successivo qun (‘uno’) 2 è effettivamente riferito ad essa. 3 Dopo la ripetizione di lursq, si incontra la parola sal, anch’essa di significato oscuro, la cui analisi linguistica non ha mai dato esiti soddisfacenti. La voce sal è attestata, oltre che nel Piombo, anche nella Lamina a di Pyrgi (Cr 4.45); in Vc 0.40 e nello specchio oa 2.58, in contesti purtroppo non chiari; tre volte nel Liber linteus; infine, nel già menzionato ‘epitaffio di Larqi Cilnei’; 4 tale voce non deve essere con 







ne vada interpretato il locativo luri, ad esempio nella formula mlace luri; le attestazioni di luri sono state già menzionate in precedenza. @   La funzione di tev è subordinata alla posizione assunta da ilace nel testo: come si è visto sopra, la maggior parte degli studiosi (a partire da Milani) tendeva a inserire ilace subito dopo tev, mentre qui si segue la lettura di Rix (proposta originariamente da Deecke) che pone ilace dopo mulsle mlac. Deecke considera tev un genitivo plurale analogo al lat. divum (Deecke @884a, p. @50; Deecke @884b, p. viii;  Deecke @885a, p. 32; Deecke @885b, p. 254); Torp, invece, legge tevilace e traduce con il lat. ‘intervallum’ (Torp @905, p. 8); per Trombetti tevi lace vale per ‘nell’altare, nel bosco sacro’ (Trombetti @928, pp. @72-@73); Ribezzo traduce tevi-lace con il lat. ‘mensualis’ (Ribezzo @929a, p. 97; cfr. Buonamici @932, p. 359); Cortsen individua correttamente in tev il radicale del preterito tevce/teuce, che traduce con ‘setzte’ (Cortsen @939, pp. 274-275). 2   La forma con -n, che Agostiniani definisce ‘piena’, di contro al più comune qu, è eruibile dalle formazioni sottrattive come qun-em zaqrums (at @.3@) e dall’avverbio numerale qunz (Vc @.93), che dimostrano inoltre che -n è parte integrante della radice lessicale, e non morfema di accusativo (cfr. Rix @987-@988, p. @92; Agostiniani @995b, p. 26 = Agostiniani 2003-2004, i, p. 202). 3   Deecke legge auvi qun e traduce con il lat. ‘oves duas’ (Deecke @884a, p. @50; Deecke @884b, p. viii; Deecke @885a, pp. 3@-32; Deecke @885b, pp. 254-255); per Torp, che individua in qun il corretto valore di ‘uno’, huvi qun indica la vittima animale da immolare (Torp @905, p. 8); per Trombetti huvi-qun significa ‘ovile’ (Trombetti @928, p. @73); Ribezzo considera huviqun un’unica parola, da analizzare come verbo all’imperativo, analogo al lat. imponito (Ribezzo @929a, pp. 99-@00; cfr. Buonamici @932, p. 359); per Cortsen huviqun è in funzione di oggetto retto dal verbo sal (Cortsen @939, p. 276). 4   Cr 4.4: [...] qefa5riei velianas sal 6cluvenias turu7ce [...]; Vc 0.40: cela : sal : qn; oa 2.58: mi : anaias : tites : turnas : sec : an : men : mamnqi : sal : mama : 2tins : uniapelis; ll vi.@: @tºs´º sºaºl º s´[...]; vii.6-7: s´acnitn 7 an . cilq . cecane . sal . s´uciva . firin . aºrq; xii.@@-@2: [...] an . s´acnicn . cilq . ceca . sal @2cus . cºluce . caperi [...]; nell’epitaffio di Larqi Cilnei l’emendamento che porta ad avere sal (in [...] 7uzr : einc : saºl [...]) è già in Maggiani @989a, pp. @628-@629.

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fusa con salt della Tabula Cortonensis, che tenuto conto della grafia settentrionale sta, foneticamente, per [sˇ]alt, ovvero con sibilante palatale, mentre il sigma in sal del Piombo si deve leggere come una sibilante postdentale. @ L’esegesi corrente, una volta accantonate le ipotesi di un rapporto con il numerale zal ‘due’, 2 o di una forma verbale, 3 sembra preferire l’identificazione in sal di un’offerta votiva, 4 partendo in particolare dal confronto con l’attestazione nella Lamina a di Pyrgi. 5 Recentemente Wylin ha proposto di intendere sal come genitivo di un dimostrativo sa: 6 come detto sopra, tale ipotesi è subordinata alla verifica della reale esistenza di un dimostrativo sa. Il testo del Piombo di Magliano si chiude con la formula afrs naces; si è visto già che la prima parola, afrs, ritorna identica all’inizio della terza sezione del lato a. Sull’analisi di questo sintagma ha pesato, per lungo tempo, il confronto proposto da Torp con la Stele di Vetulonia (Vn @.@), 7 la cui parte finale, nell’edizione degli et, risulta essere [...] hirumi[n]a fº ersnalas´ º º, mentre da Torp era letta e segmentata come [...] hirmi- afers nacs. Il sintagma afers nacs, in genitivo secondo Torp, indicava a chi era rivolta la dedica della Stele: dal momento che afrs naces del Piombo risultava identico ad afers nacs della Stele di Vetulonia, anch’esso doveva significare a chi era rivolto il sacrificio descritto. Per Torp, la parola naces era riconducibile a nacn(v)a, che traduceva con ‘tomba’, mentre afrs era del pari un genitivo di un plurale *af-r, che Torp, si è già visto sopra, ipotizzava essere il corrispondente etrusco dei latini Manes: da qui la traduzione ‘to the manes of the tomb’. 8 Una volta riconosciuta la non pertinenza del confronto tra Piombo di Magliano e Stele di Vetulonia, è evidente che l’interpretazione di Torp non può più essere accettata, e si impone invece di riconsiderare la formula afrs naces a partire da altri confronti con la documentazione nota. Va subito detto che, per quanto pertiene alla sintassi e alla grammatica dei due  















  A dire il vero, anche le attestazioni di sal del Liber linteus potrebbero stare foneticamente per [š]al (così in effetti intende Rix nella trascrizione dei passi in oggetto negli et). 2   Così Deecke @884a, p. @50; Deecke @884b, p. viii; Deecke @885a, p. 33; Deecke @885b, p. 255 (Deecke però traduce zal con ‘tre’); Torp @905, pp. 6-8; Lattes @9@@, col. 304; tra i più recenti, Morandi @982, 3 p. 38.   Così Trombetti @928, p. @73; Cortsen @939, p. 276. 4   Così già Goldmann @928, p. 254; Ribezzo @929a, pp. 97-@0@ (il quale traduce sal con ‘sale’; cfr. Buonamici @932, p. 359). 5   Cfr., da ultimi, Wylin 2000, p. 27@; Facchetti 2002a, p. @2@ (per il quale sal è «un tipo di omaggio (forse generico) alla divinità»). Valentina Belfiore non esclude inoltre un rapporto con *sela- ‘grande’ (Belfiore 20@0, p. @3@). Si veda, da ultimo, G. Colonna, in ree 74, 65, dove per sal è proposta la tra6 duzione di ‘progenie’ o simili.   Wylin 2004b, p. 223. 7   Torp @905, pp. 8-9. Il testo completo della Stele di Vetulonia, nell’edizione degli et (Vn @.@), è [mi º pa/]panalas´ mini mul/uvaneke hirumi[n]a fº ersnalas´ º .º Su questa, da ultimi, cfr. a]uºvºiles´ feluskes´ tus´nutal[a Maggiani 2009 e Agostiniani 20@0b, con parziali riletture del testo. 8   In precedenza, la lettura del passo come sal efrs nac e simili aveva indotto Deecke alla traduzione ‘3 Eber, in der Gruft’ (Deecke @884a, p. @50; Deecke @885a, pp. 33-34; Deecke @885b, pp. 253-255) o ‘den Todten (?) in der Gruft’ (Deecke @884b, p. viii). L’accostamento tra Piombo di Magliano e Stele di Vetulonia è seguito, con piccole variazioni, anche in Lattes @9@@, coll. 292-295 (che cerca di recuperare la proposta di traduzione di Deecke); Trombetti @928, p. @73 (che traduce ‘per i parenti cari’); Goldmann @928, pp. 253-254; Ribezzo @929a, pp. 97-@0@ (che traduce con il lat. ‘farris eius-proprii’; cfr. Buonamici @932, p. 359); Cortsen @939, p. 275 (che traduce ‘an seine Manes’, cfr. anche p. 27@). @

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il piombo di magliano

termini, sembra comunque appurato che siano due genitivi in -s; l’indizio più forte sembra essere proprio il confronto con l’altra attestazione di afrs sul Piombo di Magliano, in apparente correlazione con maris´l menitla, anch’essi genitivi. Sembra verosimile, pertanto, che naces sia da analizzare come nac-es (analogamente a meqlum-es), individuando così, in base all’‘apocope Rix’ di cui si è parlato in precedenza, un termine al caso retto *nac, peraltro già noto con funzione diversa, ovvero quella di congiunzione, ad esempio in Vt S.2 (in apparente correlazione con ic), con una funzione di comparazione, pressappoco traducibile con ‘così, come’. @ Il rapporto sintagmatico tra afrs e naces mostra minori certezze; per quanto non sia da escludere che essi siano correlati per asindeto, sembra più probabile che si tratti di una coppia nome + aggettivo, dove afrs è il sostantivo e naces l’attributo; tale ordine dei costituenti risulta tipologicamente motivato, 2 senza dimenticare che afrs ricorre anche da solo (quindi presenta caratteri di indipendenza grammaticale), e che le forme nacna, nacnva ecc., presumibilmente affini a naces, sono tutte aggettivali. Il confronto con tali forme, poi, dovrebbe fornire qualche ulteriore indizio circa il significato di naces: come ha mostrato recentemente Agostiniani nella riedizione critica delle iscrizioni del Sarcofago delle Amazzoni (Ta @.50-5@), 3 è possibile osservare l’evoluzione del termine, nella formula etrusca per ‘nonna’, da (ati) nacnuva (Ta 7.60), che presuppone una scansione sillabica /nak-nu-wa/, a (ati) nacnva (Ta @.50, eruibile anche da Ta 5.2: nacnvaiasi), a (ati) nacna (Ta @.5@, @.@85, 7.87; Vt 7.2; quest’ultima conserva anche la formula apa nacna, ‘nonno’), fino ad atinana (as @.440 e Cl @.@9@3); il significato di nacn(uv)a è da tempo stabilito come ‘grande, alto’, se è vero che gli appellativi apa nacna e ati nacna sono strutturalmente affini al francese grand-père e grande-mère. 4 Questo significato è stato trasferito da Facchetti e Wylin alla forma naces del Piombo: i due studiosi, come visto sopra, tendono infatti a considerare afrs il genitivo di un teonimo *afr, e la traduzione dell’intero sintagma, apparentemente un genitivo di dedica, risulterebbe essere ‘al grande Afr’. 5 I due aggettivi nacn(uv)a e naces sembrano essere quindi semanticamente omologhi: ciò che sfugge, però, malgrado l’assonanza generale, è la relazione morfologica tra i due, che non risulta immediatamente evidente. 6  











@   La parola nac è attestata in ll iii.@4; vii.@9; x.@4; xii.2, 6; Cr 4.4 (due volte), 4.5; Ta @.@7@; Vn 0.@; Vc 7.38; è attestata inoltre la forma nacum, dove è riconoscibile la congiunzione enclitica -(u)m, in  ll ix.f@ e x.3. 2   Cfr. Agostiniani @993a, p. 32 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @72). 3 4   Agostiniani 2007.   Cfr. Agostiniani 2007, pp. 93-94. 5   Facchetti 2000b, p. 262; Wylin 2004b, p. 2@5. 6   È discussa l’esistenza di un morfema derivazionale -va, omofunzionale a -na (cfr. in Cr @.@6@: caisriva[,  ‘ceretano’, rispetto a *cais(e)ri, ‘Caere’, ma potrebbe trattarsi anche di altro, ad esempio un plurale); a partire da una segmentazione nac-nu-va, inoltre, si avrebbe l’individuazione di una particella -nu-, da riconoscere, ad esempio, anche in forme verbali come zilacnu (Ta @.34, @.35 ecc.).

III. LA LAMINA DI SANTA MARINELLA @. Il contesto di ritrovamento

I

vari frammenti della laminetta plumbea sono stati rinvenuti durante la terza campagna di scavi presso il complesso sacro di Punta della Vipera, nelle vicinanze di Cerveteri, effettuata nel @966 dalla Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale. @ Il luogo preciso di ritrovamento è un pozzo, adiacente al lato orientale del tempio dell’area sacra, costruito con pietre di arenaria disposte a tholos e caratterizzato sul fondo, dove giacevano i frammenti della lamina, da un rivestimento di argilla grigiastra. Profondo circa 3,30 m, il pozzo risulta visitato già in età romana, ma nel fondo della cavità, insieme a parte dei frammenti della lamina iscritta, è stato rinvenuto un deposito piuttosto cospicuo di ceramiche, databili tra la metà del vi e gli inizi del v secolo a.C., che consentono un primo inquadramento cronologico della laminetta stessa. Tale datazione, peraltro, è coerente con la prima fase di frequentazione del tempio, che secondo gli altri dati raccolti durante lo scavo risulterebbe essere tra la metà del vi e gli inizi del iv secolo a.C.; sembra infatti appurato che il complesso documenti tre diverse fasi, delimitate cronologicamente dagli interventi di ristrutturazione, prima del definitivo abbandono e occupazione di una porzione di esso da parte di una villa romana di età augustea: dopo la prima fase, che come detto risale almeno alla seconda metà del vi secolo a.C., un secondo intervento di ristrutturazione è verosimilmente databile alla prima metà del iv secolo a.C.; quindi, all’incirca nel iii secolo a.C. inizia la terza fase di frequentazione, in seguito ad ulteriori lavori di sistemazione e decorazione del tempio. Le iscrizioni minori rinvenute nel complesso permettono di attribuirlo con certezza al culto della dea menerva, che qui però doveva avere una natura multiforme, che univa caratteristiche di un culto decisamente ctonio a funzioni cleromanticheoracolari, da un lato, e dall’altro a particolari capacità taumaturgiche, come testimoniano i tanti ex-voto anatomici rinvenuti. Queste, nel dettaglio, le altre iscrizioni pertinenti al complesso religioso di Punta della Vipera:  

– cerchietto di piombo, verosimilmente una sors, rinvenuto non lontano dal pozzo in cui sono stati scoperti i frammenti di lamina iscritta, databile al v secolo a.C. circa, con un’iscrizione per lato (Cr x.5 = Cr 2.@2@ + 4.@@): 2  

@   Tutte le notizie archeologiche qui raccolte sono reperibili nel puntuale resoconto effettuato da Mario Torelli, allora direttore dello scavo, in Torelli @966 (pp. 283-284) e soprattutto Torelli @967 (pp. 33@347); informazioni sulle due campagne precedenti sono presenti in Torelli @965; si veda inoltre Pfiffig @968a, pp. @@-@3. Sul complesso di Punta della Vipera, e sul materiale archeologico da esso proveniente, si vedano inoltre i più recenti Stopponi @979; Colonna (a cura di) @985; Comella 200@; Tomassucci 2005. 2   Cfr. La Regina, Torelli @968; cfr. inoltre cie 63@@. Lo studio del dischetto plumbeo in questione sarà affrontato più estesamente nel cap. vi.@., relativo alle sortes.

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riccardo massarelli a b

mi helvºes zaruº º aº zº

– frammento di vaso di bucchero, proveniente dal fondo della stipe votiva, databile al terzo quarto del vi secolo a.C. (Cr 4.@): @  

[men]eºr:vas: [?

– frammento di piede di vaso, proveniente dal terreno di aratura, databile tra la fine del iv e gli inizi del iii secolo a.C. (ree 65-68, @38): 2  

v]eºlqur pl º[-?- m]eºnrua[s]

– frammento di ansa di anfora, rinvenuto tra il materiale di riempimento d’epoca ellenistica della pars antica del tempio, databile al iii secolo a.C. (Cr 4.@8): 3  

menrº[vas]

– frammento di ciotola a vernice nera, proveniente dal fondo della stipe votiva, databile al iii secolo a.C. (Cr 0.32): 4  

@ 2

]-snitla-[ ]uºniur

– frammento di piede a tromba pertinente ad una kylix falisca, proveniente dalla stipe votiva, databile tra il primo quarto e la metà del iv secolo a.C. (ree 65-68, 70): ]cec[

Il territorio di Santa Marinella ha inoltre restituito altre iscrizioni notevoli sotto molti punti di vista, tra cui la più importante è certo la pietra in arenaria (Cr 8.@), databile al v-iv sec. a.C., con testo di carattere verosimilmente giuridico, ma dal contenuto perlopiù oscuro: 5  

@

halusº: ecnasº: snut[--] parºac: pateri: snut º[--] 3 aqec: as´lac: snut[--] 4 stvi: leiqrºmeri: lenº[--] 5 faneri: urqri: uqaºri: nu[--] 6 eºi: qrie: vam: mertam--q-[---] 7 [---(-)]q---s-es---n[ 2

  Cfr. ree 33, p. 505. Cfr. anche Maras 2009, p. 265.   I due frammenti sono stati riuniti solo di recente da Romina Tomassucci: il primo frammento, quello relativo alla dedica alla divinità, è già in ree 34, pp. 330-33@ (cfr. anche Cr 4.@7); sull’iscrizione così ricostruita cfr. da ultimo Maras 2009, p. 276. 3   Cfr. ree 34, p. 33@. Cfr. anche Maras 2009, p. 270. 4   Cfr. ree 34, pp. 329-330. Cfr. da ultimo Maras 2009, pp. 267-268. 5   Ma si veda il recente Giannecchini 2002, sulla semantica della parola mertam. @

2

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la lamina di santa marinella

Infine, proviene forse dal territorio di Santa Marinella anche un’iscrizione di dedica di età recente, incisa sulla base di un donario in pietra (Cr 3.26): @  

@

ecn turc[e] la. tinana[s. ca] 3 es. alpan. a[-(-)] 2

2. Il dato materiale I frustuli di lamina di piombo rinvenuti sono, in tutto, sette: 2 il più grande costituisce, da solo, il frammento a, mentre gli altri, opportunamente restaurati, sono stati ricondotti ad un unico frammento b (cfr. Figg. 4 a-b; 5 a-b; Tavv. iii-iv). Tra le due parti, a e b, non c’è alcun lato solidale: questo significa che i due frammenti non erano contigui, e che pertanto la lamina presenta una prima lacuna tra i due la cui estensione non è determinabile. Entrambi i frammenti mostrano tracce del bordo originario della lamina sia in basso sia in alto rispetto all’orientamento della scrittura, mentre non sono conservati i bordi laterali. L’altezza della lamina è di 27 mm circa, lo spessore @ mm circa; il frammento a misura 69 mm circa in lunghezza, quello b 66 mm circa; la lunghezza complessiva della lamina, come detto, non è determinabile. Entrambi i frammenti mostrano ampie tracce di corrosione del metallo e evidenti lacune. La pertinenza dei vari lati dei frammenti è dettata dall’osservazione della stesura del testo: sul diritto tanto di a che di b vi sono sette righe, che occupano tutto lo spazio a disposizione, mentre sul rovescio di a vi sono solo quattro righe scritte e su quello di b solo tre; inoltre, la quarta riga del rovescio di a termina all’interno del frammento, e questo significa che essa è la fine dell’iscrizione sul rovescio della laminetta e continua la terza riga del lato b; ciò mostra dunque che il frammento a è anteriore a b (cfr. Fig. 6). La stesura del testo è avvenuta prima su un lato della lamina; successivamente l’oggetto è stato rovesciato lungo l’asse della larghezza, ed è stata apposta la seconda iscrizione. L’identificazione di un diritto e di un rovescio è del tutto arbitraria, dal momento che non è possibile stabilire con certezza se vi sia consequenzialità tra le sette righe del diritto e le quattro del rovescio; potrebbe cioè trattarsi anche di due testi indipendenti. Ciò che sembra sicuro è che l’oggetto iscritto non doveva essere destinato ad essere appeso, data l’assenza di fori; tale soluzione sarebbe inoltre sconsigliata dalla presenza di porzioni di testo su entrambi i lati della lamina, per giunta capovolti l’uno rispetto all’altro: pertanto, è nel giusto Torelli quando afferma che doveva trattarsi di un «documento mobile», forse una sors, per quanto il testo risulti eccezionalmente lungo per tale tipologia di documenti. 3  



  Cfr. anche Maras 2009, pp. 279-280.   Tutte le informazioni sono tratte da Torelli @966, pp. 284-287; Torelli @967, pp. 347-349; cie 63@0; inoltre, Pfiffig @968a, pp. @4-@5. 3   Cfr. Torelli @966, p. 285; Torelli @967, p. 348; soprattutto La Regina, Torelli @968; ma si veda anche la lunga discussione dell’argomento in Pfiffig @968a, pp. 27-34, dove si tenta di dimostrare l’impossibilità che si tratti di una sors. @

2

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riccardo massarelli

a

b Fig. 4. Lamina di Santa Marinella. a) Frammento a, diritto; b) Frammento b, diritto.

3. Ricostruzione del testo L’iscrizione della Lamina di Santa Marinella presenta ampie lacune e in molti punti i grafi sono o scarsamente visibili o conservati solo parzialmente: @ pertanto, ai fini della comprensione di ciò che rimane del testo, è opportuno procedere ad un’analisi più raffinata di quella messa in atto per il Piombo di Magliano, registrando tutte le varianti di lettura e motivandole esplicitamente. Si seguirà l’ordine ormai  

@   L’esame autoptico dell’iscrizione è stato effettuato il @3 marzo 20@2 presso il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia (a tal fine si ringraziano la dr.ssa Ida Caruso, direttore del Museo, e le sig.re Antonella Catalano e Maria Grazia Cordelli, rispettivamente sub-consegnatario e restauratore del Museo): in questa occasione si è potuto costatare che il metallo della lamina ha subito, nel corso degli anni a partire dalla sua scoperta negli anni sessanta, un sensibile deterioramento dovuto a ossidazione e deformazione, che incide in maniera negativa sulle possibilità odierne di lettura dell’iscrizione. Pertanto, per la ricostruzione del testo, si è preferito fare riferimento alle riproduzioni fotografiche messe gentilmente a disposizione dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, le quali testimoniano lo stato originario di conservazione dei segni grafici al momento della scoperta.

la lamina di santa marinella

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a

b Fig. 5. Lamina di Santa Marinella. a) Frammento a, rovescio; b) Frammento b, rovescio.

consolidato dell’analisi del testo, partendo dalla r. @ del diritto sul frammento a e poi proseguendo con la continuazione della stessa riga sulla porzione di diritto del frammento b; quindi, la porzione di r. 2 di nuovo sul diritto del frammento a e poi quella sul frammento b, e così via (cfr. Figg. 4 a-b; 5 a-b). Alla fine, sarà dato un resoconto sintetico di tutte le varianti di lettura. @  

3. @. Diritto Riga @ ]

lancumite . -[

@   Per maggiore chiarezza si è deciso, come nel caso del Piombo di Magliano, di snellire ulteriormente il sistema di rimando bibliografico, seguendo queste abbreviazioni: To @. = Torelli @966; To 2. = Torelli @967; Cr @. = ree 35, p. 565 (M. Cristofani); Pf@. = Pfiffig @968a; Pf2. = Pfiffig @968b; Pa. = tle 2 878 (M. Pallottino); Ol. = Olzscha @969; Cr 2. = cie 63@0 (M. Cristofani); Ri. = Cr 4.@0 (H. Rix); Ma. = Maras 2009, pp. 280-282.

Rovescio

Diritto

Fig. 6. Lamina di Santa Marinella. Quadro ricostruttivo.

Frammento b

Frammento a

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la lamina di santa marinella

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La discussione sulla natura dei sei segni iniziali sarà affrontata più avanti nella parte relativa all’analisi linguistica. I primi tre sono costituiti da cinque punti posizionati ‘a stella’, di cui quattro in posizione ortogonale rispetto al quinto, centrale, e due semicerchi esterni, dai cui punti di convergenza partono due brevi segmenti, uno verso l’alto e l’altro verso il basso. Il primo dei tre è scarsamente visibile ma è ricostruibile dal confronto con gli altri due. Gli altri tre sono del tutto identici ai primi, tranne che per l’assenza dei trattini in alto e in basso; qui i due semicerchi non sembrano sempre toccarsi, soprattutto in alto. Prima del primo segno sembra possibile intravedere uno spazio vuoto: secondo To. 1 (p. 287) «è probabile, ma non dimostrabile in maniera assoluta, che il testo cominciasse più o meno dove inizia oggi». Dopo i sei segni iniziali non sembra esservi alcun punto di divisione, come prospettato da alcuni (così To@., To 2. e Cr @.). Non vi sono dubbi sulla parola seguente, lancumite, e sul punto che segue, mentre è solo ipotizzabile la presenza di una lettera dopo il punto, di cui rimane soltanto la minima parte inferiore di un’asta verticale: potrebbe trattarsi di a, v, i, (k), m, n, p, r, t, ma non e, z, h, l, come spiega Pf@. (p. 46, che però esclude anche t). ]pulunza . ipal . sºacnºi [º

Non sembrano esservi tracce evidenti di un punto prima di p, come sostenuto da Pf@. (p. 47). La parola iniziale, pulunza, presenta incertezze solo per z, che si trova lungo la frattura della lamina; tuttavia, essa è riconoscibile dalla conservazione dei due tratti trasversali. Dopo il punto, sicuro, la parola ipal, di lettura agevole, quindi un altro punto e la sequenza sacn[: le lettere risultano incomplete nella parte superiore, e la prima, di cui rimangono i due segmenti inferiori e buona parte di un terzo, è probabilmente s (come sostenuto già da To@.), e non s` (come invece sostiene Ri.); in effetti, se così fosse, i quattro tratti avrebbero un orientamento inverso rispetto agli altri s` dell’iscrizione. L’ultima lettera è scarsamente visibile ma è ricostruita come n in base a confronti linguistici, a partire da To @. (p. 288), eccetto che per Pa. e Cr2., i quali non si pronunciano sul valore eventualmente da assegnare al grafo; Ri. e Ma., poi, indicano la presenza di un secondo segno, i, dopo n: ciò è più che plausibile sul piano linguistico, ma non sembrano essere rimaste tracce evidenti di esso; non vi sono dubbi, tuttavia, che la sequenza così com’è non è completa. Riga 2 ]- i nº ia . tei . aqemei ºsº`cºaºs`º . zucuna . za[

Lo iota all’inizio della frase è scarsamente conservato ma tutto sommato leggibile (Pf@, p. 50, ipotizza che possa essere anche u); prima di esso, si intravede la porzione finale di un segmento ascendente: potrebbe trattarsi di c, k, s o s`, più difficilmente m, n, o u. La parola aqemeis`cas`, pur con considerazioni di lettura diverse, è riconosciuta da tutti: sono chiaramente leggibili le prime quattro lettere, mentre le cinque successive, e, i, s`, c, a, sono scarsamente leggibili soprattutto nei segmenti inferiori, ma tutto sommato riconoscibili; l’ultima lettera, di nuovo s`, è perfettamente con-

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riccardo massarelli

servata, come il punto che segue; la parola aqemeis`cas` è ricostruita anche grazie al confronto interno con l’analoga sequenza aqemeican, ancora sul diritto della lamina (To@., p. 288, e To 2., p. 350, ammettono anche la possibilità di leggere aqemeis`ces`). Sicura è la parola zucuna, così come le prime due lettere della successiva, z e a, per quanto soprattutto la seconda abbia l’asta obliqua che ricade su una venatura del metallo, confondendosi con essa; non vi sono tracce delle lettere successive. ]-i ºtaºlte . sºacºnitalte . s`icut º-[

Vi sono deboli tracce (il vertice inferiore di un segmento verticale), all’inizio della sequenza ]-italte, di un segno che non può essere ricostruito; la seconda lettera sembra essere i, di cui è conservata solo la parte inferiore, ma è generalmente riconosciuta da tutti, anche su basi linguistiche (solo Cr 2. rinuncia a darne una lettura); seguono t e un segno interpretato come a, in cui però la parte curva ricade tutta sulla frattura del metallo: inoltre, sembra possibile intravedere un segmento obliquo che parte dal vertice inferiore dell’asta verticale conservata; se il segmento non è casuale, il segno sarebbe da leggere piuttosto come e (come fa Ol., p. 3@0, che legge ]-itelte, ma tale ipotesi era stata già prospettata in To @., p. 288 e To2., p. 350, per quanto poi sia preferita la lettura ]-italte per analogia con il seguente s`acnitalte). La parola successiva, sacnitalte, è scarsamente conservata nella parte iniziale: la prima lettera, sicuramente un sigma, è appena visibile, il terzo segmento a partire dall’alto termina in corrispondenza di una frattura, e manca il frammento di metallo che avrebbe potuto ospitare un eventuale quarto segmento: ciò significa che non è possibile sapere se il sigma fosse a tre o quattro tratti; la scelta del sigma a tre tratti (s) è per analogia con la sequenza sacni[ della riga precedente, il cui sigma peraltro è ugualmente poco leggibile; di a manca solo l’estremità inferiore del segmento curvo, mentre di c che segue manca pressoché tutto, tranne i vertici esterni dei due segmenti: la ricostruzione della lettera è data, una volta di più, per confronto interno; anche di l è scarsamente visibile la parte superiore, ma la sua lettura è tutto sommato fuori discussione. Della sequenza finale, dopo il punto di divisione sono ben visibili s` e i (in To@., p. 288 e To 2., p. 350, si ammette che potrebbe trattarsi anche di l, ma la sequenza che ne risulta, s`lc-, sarebbe un unicum in etrusco), è riconoscibile un c (solo Cr @. lascia uno spazio vuoto: si tratta probabilmente di un refuso), quindi u, del quale è scarsamente visibile la parte superiore del primo segmento, e t, la cui parte inferiore non è immediatamente visibile; vi sono tracce (il vertice superiore di un’asta verticale) di un sesto segno, purtroppo non identificabile. Il graffio che corre trasversalmente sopra i, c e u non sembra porre particolari problemi di restituzione per queste lettere. Non sembra sussistere la lettura da parte di Pf@., p. 59 (anche Pf 2.) di un punto di divisione dopo u. Riga 3 ]aº . icecin . qezi . i ºpe[--(-)] . uºnºu . rapa . cum[

L’alpha iniziale, sicuramente ultima lettera di una parola, come dimostra il punto successivo, è riconoscibile con facilità malgrado la parte superiore sia coperta

la lamina di santa marinella

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dall’ossidazione del metallo. Dopo icecin e qezi (di quest’ultima, i segmenti inferiori di q e e sono lievemente coperti dalle concrezioni, tuttavia non vi sono ostacoli alla lettura), delimitate da punti di divisione, è possibile scorgere tracce di un segmento verticale (o forse due segmenti verticali, cfr. Pf@., p. 63), che rimanderebbero a i; tale lettura sarebbe da preferire, considerate le lettere successive, p ed e: la sequenza infatti sembra appartenere al paradigma della particella ipa; Pa., Ri. e Ma., a tal proposito, propongono l’integrazione ipe[ri] (la stessa parola ritorna nella r. 3 del rovescio), tuttavia lo spazio corroso tra e e il punto sembrerebbe troppo grande per sole due lettere. Della parola successiva unu le prime due lettere, ancora sulla parte corrosa, sono comunque leggibili (solo Pa. non le identifica come tali), così come è ben visibile l’inizio della parola successiva, cum[, subito prima della frattura. ]um . mºleaºmº[(-)] . menatina . tei º [.] uº-(-)n-[

Le prime due lettere sono ben visibili, la terza ricade su un’area corrosa, ma sono riconoscibili i cinque tratti di m; il punto di divisione successivo, pur se scarsamente leggibile, è tuttavia sicuro, anche perché altrimenti si otterrebbe una sequenza -mm- che sarebbe un unicum in etrusco; dopo l ed e un’abrasione del piombo non permette di riconoscere ciò che segue: la maggior parte degli editori legge a, ma Pf@. (p. 65) e Ol. (p. 3@0) leggono anche s` subito prima; della lettera successiva sono conservati un segmento verticale e uno obliquo che parte dal vertice superiore dell’asta precedente: potrebbe trattarsi di a, n, ma anche m. Nella parte seguente manca un pezzetto di metallo che potrebbe anche aver contenuto una lettera (non la pensa così Ri.), più difficilmente due (come ipotizza Pf @.). Sicuri sono i punti prima e dopo menatina (di questa, l’ultimo alpha è rovinato nella parte superiore ma chiaramente riconoscibile), e altrettanto sicuro è t che segue, mentre le tre lettere successive sono tagliate trasversalmente da una frattura: sono però ben chiare le parti inferiori di e, forse i, i due vertici convergenti di un possibile u; tra i e u c’è uno spazio notevole, che secondo Pf @. (p. 67) avrebbe contenuto, nella parte superiore, un punto di divisione: ciò restituirebbe peraltro una forma tei, presente anche nella r. 4 e, forse, nella r. 5. Su ciò che segue, si scorge un’asta verticale, un segmento obliquo attaccato al vertice superiore dell’asta, quindi due segmenti convergenti in basso: non è dato stabilire con certezza se si tratti di un segno unico (quindi m) o di due segni (forse t e u), mentre il segno seguente è sicuramente n; dell’ultimo segno, che in parte sussiste sul punto di rottura del metallo, è possibile vedere solo un’asta verticale. Riga 4 ]-t ºipas` . rºi ºn[-------(-)]ver . mulveni º[

L’inizio della r. 4 presenta uno spazio corroso dove verosimilmente trovava posto almeno una lettera (Ri. la identifica con u); segue, sempre sul punto dove il metallo è guastato, un segno di cui rimangono sicuramente un’asta verticale ed un segmento obliquo tangente il vertice superiore dell’asta, quindi, forse, un ulteriore segmento

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obliquo a metà dell’asta stessa; se quest’ultimo è casuale, si tratta con tutta sicurezza di t (come vuole Ri.), altrimenti si tratta di v (tutti gli altri, solo Pa. rinuncia a darne una lettura) o, più difficilmente, di e. Quindi, la sequenza ipas` e il punto di divisione, seguite da tre lettere parzialmente coperte da un’ossidazione nelle parti superiori: la prima e la seconda sembrano essere r e i, la terza è sicuramente n. Segue una lacuna di circa 7-8 lettere, tutte coperte dagli effetti della corrosione; la prima, secondo Pf @. (pp. 68-69) e Ol., sarebbe u, ma non vi sono tracce evidenti; alla fine, To@., To2., Cr @., Ri. e Ma. scorgono deboli tracce di un c, subito prima della chiara sequenza ver (di essa, solo v è leggermente coperto ma perfettamente riconoscibile): l’ipotesi avrebbe dalla sua la congruenza linguistica, dal momento che subito dopo segue la parola mulveni[; di quest’ultima, non è dato sapere se sia completa, terminando con la frattura del metallo (solo i è parzialmente perduto, ma sulla sua restituzione non vi sono dubbi). ]-uº-(-)uº-[(-) . ]helucu . acasa . tei . luru-[

La prima parte è seriamente danneggiata ed è assai arduo riconoscere dei grafi o tracce di essi; lo spazio è di circa 5-6 lettere; è del tutto sub iudice la presenza di un u nel mezzo della lacuna e, dopo uno spazio sufficiente per una o anche due lettere, un altro u (o n). Lo heta di helucu manca della prima asta verticale, che coincide con lo spigolo della frattura, ma la lettura non pone problemi; nel frammento di lamina mancante, subito prima di h, doveva esserci un punto (forse anche la lettera finale della sequenza precedente), poiché la parola helucu, anche in virtù dei confronti combinatori, sembra essere compiuta. Dell’ultima parola, le prime quattro lettere presentano varie difficoltà di lettura ma tutto sommato sono leggibili; la quinta, di cui rimane solo il vertice di due segmenti convergenti, orientato verso destra, potrebbe essere s (più difficilmente s`), mentre non sembra vi siano ragioni particolari per ritenere che sia r (come Pf @., p. 77, e Ol.). Riga 5 ]aºv . nuna[---------(-)]- . nunqeºna . teº[

Immediatamente a ridosso del bordo corroso, a destra, è possibile individuare (come già Pf@., p. 78) l’asta obliqua e parte del segmento trasversale di a; non vi sono invece tracce evidenti di un segno ulteriore prima di a; la lettera che segue è certamente v, e non e (eventualità ipotizzata in To @., p. 289, e To2., p. 35@): il segmento obliquo inferiore appartiene al q della riga successiva. Dopo il secondo a di nuna si trova una lacuna di un numero imprecisato di lettere (da 9 a @@: di alcune è conservato lo spazio di metallo corroso, della maggior parte è andato perso il frammento di lamina corrispondente): nella lacuna non vi sono tracce evidenti di punti di divisione (come ipotizzano invece Pf @., Pa., Ri. e Ma.). È invece certo il punto prima di nunqena, di cui solo e presenta difficoltà di lettura ma è facilmente integrabile, e certo è il punto successivo, che separa nunqena dalla parola seguente, la cui prima lettera è sicuramente t, mentre della seconda è conservato solo il vertice in alto di un’asta verticale tangente con un segmento obliquo: le possibilità teoriche sono a,

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e, v, h, m, n, p, r, ma l’attacco della parola con t rende quasi obbligatoria la scelta tra a, e e r (più difficile v), con una preferenza per e se la parola da ricostruire fosse veramente te[i] (Pf @., p. 79, Pa., Ol., Ri.). ]t º--[--(-)]-sºice . lancumite . ican . a[

Dopo t (vi è la lontana ipotesi che possa trattarsi anche di z, il cui segmento trasversale inferiore coinciderebbe con la linea di rottura della lamina), si apre una lacuna di circa 5-6 lettere; la lettera successiva è sicuramente s: il segmento intermedio si trova sulla linea di frattura del metallo, ma è chiaramente visibile la parte finale del segmento inferiore e tutto il segmento superiore (cosa che rende improbabile la lettura come c proposta da Pf @.). L’epsilon di lancumite è sulla linea di frattura ma non vi sono particolari problemi di lettura. Ri. propone di suddividere su basi linguistiche la sequenza finale icana[ in ican e a[: non è escluso che tra n e a finale sia da riconoscere un punto di divisione, pur non del tutto chiaro. Ancor meno certa la presenza di un punto dopo l’ultimo a, come proposto in Pf@. (p. 80): è evidente che l’eventuale presenza di uno dei due punti esclude la presenza dell’altro. Riga 6 ]qºeº . hunº[--------(-)]-l . nunqena . -[

Non vi sono dubbi che la prima lettera sia q, per quanto conservata solo nella sua parte sinistra; altrettanto probabile è e successivo. Dopo il punto, h ed u, di n che segue (Ri.) si intravedono un’asta verticale e un segmento che parte dal vertice superiore di quest’ultima verso il basso, mentre è più difficile riconoscerne il terzo segmento, verticale. Trova spazio quindi un’ampia lacuna (8-9 lettere), oltre la quale si intravede il tratto obliquo forse di un a, di cui sembra di riconoscere anche il punto di congiunzione con il segmento trasversale; quindi l, il punto di divisione, di nuovo la parola nunqena e ancora un punto di divisione; oltre di esso sembra possibile riconoscere solo tracce di una lettera non identificabile. ]as`ei . tesa . nasºaº-cºe . mulveº[

L’alpha iniziale è ampiamente riconoscibile, nonostante le parti inferiori dei segmenti siano meno visibili. È di difficile restituzione la parola centrale, qui resa con nasa-ce, per la presenza di una frattura che ha comportato la perdita delle parti inferiori delle lettere centrali: le prime due lettere, n e a, sono sicure; della terza, la cui lettura è proposta da Ri., si scorge il tratto superiore e parte del segmento intermedio (potrebbe anche trattarsi di s`); precedentemente si tendeva a leggerla come c, ma in tal caso il segmento superiore sembrerebbe troppo breve; della quarta, a, sono conservati l’apice superiore e l’attacco del segmento trasversale all’asta verticale (è possibile che si tratti anche di e, come proposto in To @., p. 289; To 2., p. 35@; più difficilmente di n, come in Pf@., p. 85, Pf2. e Ol.); la quinta lettera è di lettura ancor meno agevole: Ri. propone q, ma le tracce sono veramente labili; la sesta sembra essere c, anche se dai contorni non ben definiti (Pf @., p. 85 legge v, ma non sembra un’ipotesi sostenibile); infine, l’ultima lettera prima del punto di divisione è sicu-

126

riccardo massarelli

ramente e. Della parola che segue sono conservate le prime quattro lettere, mulv, mentre della quinta, verosimilmente e, non rimane che parte dell’asta verticale. Riga 7 ]sºurº . t-[--------(-)]na . vacil . c[

Di s, parzialmente coperto dalle concrezioni metalliche, sono visibili solo parte del segmento inferiore e l’angolo che esso produce con il segmento mediano; la terza lettera è letta generalmente r, ma potrebbe in realtà trattarsi anche di p: la scelta di r è dettata soprattutto per ragioni linguistiche, dal momento che sono note in etrusco parole terminanti in -r (anche non plurali), mentre sono del tutto sporadiche le parole che finiscono in -p; l’ultima lettera prima della lacuna, quantificabile in 7-8 lettere è sicuramente t (non r, come suggerisce Pf@., p. 89); rimangono tracce di un’ulteriore lettera, non identificabile. Le due lettere dopo la lacuna, n e a, malgrado si trovino a ridosso del bordo, sono ben visibili; così anche le lettere della parola vacil, il punto seguente e la lettera c, mentre non vi sono tracce evidenti del grafo successivo. ]-a . ml ºakaº[---(-)]aºma .

All’inizio si scorgono tracce di una lettera non identificabile: un’asta verticale e, forse, un segmento obliquo discendente; a è sicuro, malgrado sia inciso con minor forza. Di mlaka[ è scarsamente visibile l, poiché è attraversato dal punto di frattura e da graffi, ma sulla sua integrazione non vi sono problemi; anche a finale è solo parzialmente illeggibile. La lacuna successiva, anche considerando che le lettere dell’ultima riga hanno dimensioni e spaziatura maggiori, non dovrebbe consistere in più di 3-4 lettere. Delle ultime tre lettere la prima è conservata solo in parte, ma quanto si vede, ovvero un tratto curvo ed un segmento, anch’esso obliquo, che lo tocca a metà, è sufficiente per riconoscervi un a; il punto finale è sicuro, malgrado sia intersecato dalla linea di rottura della lamina; subito dopo vi è un breve spazio vuoto, che potrebbe significare la fine del testo sul diritto; il punto potrebbe certo suggerire la presenza in origine di un’altra parola successiva ad ]ama: è un dato di fatto, però, che anche sul rovescio il testo finisca con un punto dopo l’ultima parola. 3. 2. Rovescio Riga 8 ]-i ºte . icecº[----(-)]aº . civeis . m[

Lo iota all’inizio della sequenza manca della parte superiore; prima di esso sembra possibile scorgere tracce minime di un’altra lettera, niente di più di un vertice, che non ne permettono un’identificazione motivata: l’ipotesi (formulata da Pf @., p. 94) che si tratti di m è suggestiva sul piano linguistico (rimanderebbe cioè a lancumite della r. @ del diritto) ma è forse eccessiva sul piano della pura ricostruzione del testo. Le due lettere successive, t ed e, sono ben visibili, ad onta di quanto sostenuto

la lamina di santa marinella

127

da alcuni (lo stesso Pf@. e Cr2.); il punto dopo e, malgrado sembri il prolungamento del segmento obliquo superiore di quest’ultimo grafo, è tuttavia riconoscibile. Dell’ultima lettera prima della lacuna si conserva solo la parte inferiore di un segmento curvo, che può stare solo per c o q; la scelta della prima lettera è dettata dalla presenza della parola icecin nella r. 3 del diritto. Dopo la lacuna di 4-5 lettere si osserva la presenza a ridosso della linea di frattura della parte inferiore di un segmento curvo, probabilmente, come nota Pf @. (p. 94), appartenente ad un a; la parola successiva, civeis, delimitata da punti di divisione, è perfettamente leggibile: solo e è stata rovinato da un’ammaccatura del metallo, ma la sua lettura è fuori discussione; la lettera che segue, a ridosso della frattura, è sicuramente m: di esso, solo l’ultimo segmento non si è conservato. ]-t ºama . im-[--(-)]nuta . h[

Della prima lettera si è conservato solo parte di un’asta verticale e, forse, le terminazioni di alcuni segmenti verticali, in corrispondenza della frattura e quindi passibili di essere interpretati come casuali: troppo poco per leggervi una z, come fa Pf@. (p. 95), che inoltre considera la lettera successiva un i e vede, subito dopo di esso, un punto di divisione; del punto non sembra esservi traccia, mentre la lettera potrebbe anche essere t, se il tratto obliquo che si intravede al di sopra dell’asta verticale, sulla parte di metallo rovinato, è realmente il segmento trasversale di tale grafo. La lacuna dopo il secondo m è, in tutto, di circa 3-4 lettere: della prima di queste lettere rimangono tracce minime a ridosso del bordo inferiore della parte di metallo andata persa, tuttavia è impossibile darne un’identificazione certa; dopo la lacuna non vi sono problemi nel leggere la sequenza nuta (solo n è minimamente rovinato; non sembrano esservi ragioni evidenti per sostenere che t sia in realtà z, come fa Pa.) e la lettera della parola successiva, h; tra a e h è ben visibile il segno di punteggiatura, che sembrerebbe costituito da due punti, in controtendenza con il resto del testo, dove è usato sempre e solo il punto singolo; è da notare però che i due punti sono collocati in modo che il superiore si trovi equidistante dai bordi della striscia immaginaria della scrittura, mentre l’inferiore è a ridosso di quello in basso; forse per questo Ri. considera il punto inferiore casuale, e ritiene segno di punteggiatura solo quello superiore. Riga 9 ]-i º . unus`e . hºa[----(-)]-u . eizºurva . taº[

Della prima lettera si vede con certezza solo un’asta verticale e un segmento obliquo da essa discendente verso sinistra; più sicura sembra essere la seconda lettera, i, di cui si riconosce la parte inferiore (Pf@., p. 97, propone di leggere la sequenza ]mi o ]uri, Pa. legge ]ri, Ri. ]ni); non ci sono dubbi sulla parola unus`e (solo Pf@., p. 97, e Ma., vedono un punto tra n e il secondo u, leggendo quindi un . us`e, ma ciò che riconoscono come tale non sembra avere l’aspetto e la consistenza degli altri segni di interpunzione). Dopo il punto, meno distinguibile degli altri, della lettera successiva si vedono chiaramente un’asta verticale e tre segmenti obliqui, tutti

128

riccardo massarelli

terminanti in corrispondenza di un graffio longitudinale: teoricamente può essere sia e sia h, ma è preferibile la seconda ipotesi per il fatto che subito dopo segue un a, di cui manca solo il vertice inferiore del segmento curvo, parzialmente coperto dalle incrostazioni sul bordo della frattura; segue una lacuna di circa 4-5 lettere, cui seguono i resti di una lettera non identificabile (parte di un’asta verticale: solo Pf @., p. 98, propone di leggervi un i, che insieme a u successivo costituirebbe, sempre secondo Pf @., un nome in -iu). Della sequenza successiva l’unica lettera incerta è z, che del resto Pa. legge t; prima della frattura, si legge chiaramente la parte inferiore di un’asta verticale, che sembra toccata dal vertice di un segmento obliquo: se il segmento non è un semplice graffio casuale, la lettera è con tutta probabilità a. ]-t . ri ºnºº-[--]vº . aqemeican . scuinºi ºa . ipaº[

All’inizio, si vede chiaramente il vertice inferiore di un’asta verticale, ma è impossibile individuare la lettera cui appartiene; la seconda è invece un t, cui manca soltanto la parte superiore del segmento obliquo; segue un punto e r, quindi la parte inferiore di quella che verosimilmente è un i, e le parti inferiori dei tre tratti di un n; subito dopo sembra possibile intravedere il vertice inferiore di un altro segno (forse u, come proposto da Pf @., p. @00). Segue una lacuna di non più di due lettere; la lettera successiva, pur attraversata dalla frattura, sembra essere con tutta probabilità u (meno probabilmente e, come proposto da alcuni). Non ci sono dubbi sul punto che segue e sulla parola aqemeican, mentre sulla parola seguente, se si esclude s iniziale, il cui vertice superiore è perso, ma nel complesso è del tutto identificabile, l’unico dubbio permane sul quarto e quinto segno, letti come i e n, tranne da Ri. e Ma., che vedono un segno obliquo tra i due e leggono il tutto come m. Della parola finale, ipa (ma non è visibile il punto dopo di essa, quindi teoricamente potrebbe anche essere incompleta), è parzialmente illeggibile l’ultima lettera, di cui mancano il segmento curvo e la parte superiore dell’asta verticale, che coincide con la frattura del metallo, mentre sono conservati la parte inferiore e gran parte del segmento trasversale, che permette di identificarla con ogni probabilità (anche aldilà della congruenza testuale) come a. Riga @0 ]-nºcva . mlaciqºaº . hecia . iperºi . apa-[

Della prima lettera non rimangono che alcune tracce ininterpretabili; la seconda è sicuramente n (solo la prima asta verticale è parzialmente illeggibile). Le lettere della parola seguente sono conservate tranne le ultime due, di cui manca la parte superiore: comunque, la prima è sicuramente q, la seconda a; anche il punto seguente si trova sull’area rovinata dalla corrosione ma è comunque individuabile. Non vi sono dubbi su hecia, mentre di iperi l’unica lettera minimamente rovinata, ma comunque riconoscibile, è r; anche la sequenza iniziale della parola successiva, apa-[, è perfettamente leggibile, mentre rimangono solo tracce (il vertice inferiore di un’asta verticale) della lettera che segue il secondo a: del tutto ingiustificate le letture in Pf@., p. @04, e Ol. (apirº-[) e Pf2. (apiºrºaº[).

la lamina di santa marinella

129

]t ºrºas . nº[-(-)]nieº . nacar . surve . clesvareº[

La prima lettera è, con tutta probabilità, t (solo Pf @., p. @06 e Ol. propongono di leggere z); della seconda, scarsamente visibile, sembra possibile riconoscere un’asta verticale ed un segmento obliquo che parte dal vertice superiore di quest’ultima: un v o, come propone Ri., r; seguono a, s, il punto e un n, quindi una lacuna in cui potrebbero trovare spazio due lettere, o più probabilmente una sola. Segue una lunga porzione di testo ampiamente leggibile (anche la punteggiatura, come segnala Ri.; solo e di ]nie è un po’ rovinato, così come l’ultima lettera di tutta la sequenza, ancora e, prima della frattura). Riga @@ ]aºqºesºu . namulqame .

Il primo a, malgrado sia rovinato dalla corrosione del metallo, è leggibile (meno probabile la proposta di Pf @., p. @09, che legge h); del q che segue è chiaramente visibile il punto, meno i due segmenti ricurvi; dopo di essi sembra esserci uno spazio eccessivo, ma non vi sono ragioni evidenti per sostenere che esso funga da delimitatore lessicale; e seguente è tutto sommato leggibile, come anche s, per quanto non sia escluso che si tratti di s`: sembra infatti di intravedere l’angolo formato dal segmento inferiore con uno dei due mediani; tra le due lettere, e ed s, non c’è alcun punto, come invece sostenuto da Ol.; è distinguibile invece il punto dopo u, ed è perfettamente leggibile la sequenza finale, comprensiva del punto al termine di essa, che rimanda direttamente alla chiusa della r. 7, alla fine del testo sul diritto; da notare lo spazio superiore tra l e q, che per alcuni (Pa.) potrebbe costituire confine di parola. Questa, nel complesso, la lettura del testo ricostruito: a

@



2

] lancumite . -[ ]-i ºnia . tei . aqemeºi ºs`ºcºaºs` . zucuna . za[ 3 ]aº . icecin . qezi . i ºpe[--(-)] . uºnºu . rapa . cum[ 4 ]-tºipas` . rºi ºn[-------(-)]ver . mulveni [º 5 ]aºv . nuna[---------(-)]- . nunqeºna . teº[ 6 ]qºeº . hunº[--------(-)]-l . nunqena . -[ 7 ]sºurº . t-[--------(-)]na . vacil . c[

]pulunza . ipal . sºacnºi º[ ]-iºtaºlte . sºacºnitalte . s`icut º-[ ]um . mºleaºmº[(-)] . menatina . tei º [.] uº-(-)n-[ ]-uº-(-)uº-[(-) . ]helucu . acasa . tei . luru-[ ]t º--[--(-)]-sºice . lancumite . ican . a[ ]as`ei . tesa . nasºaº-cºe . mulveº[ ]-a . ml ºakaº[---(-)]aºma .

b

8



9

]-t ºama . im-[--(-)]nuta . h[ ]-t . ri ºnº-[--]vº . aqemeican . scuinºi ºa . ipaº[ ]t ºrºas . nº[-(-)]nieº . nacar . surve . clesvareº[

]-i ºte . icecº[----(-)]aº . civeis . m[ ]-i º . unus`e . haº[----(-)]-u . eizºurva . taº[ @0 ]-nºcva . mlaciqºaº . hecia . iperºi . apa-[ @@ ]aºqºesºu . namulqame .

130

riccardo massarelli 4. Lezioni del testo @  

l., (fr.), r.

lemma

d(a)@

]

lettura

altre letture To@. To2. Cr@. m m m c c c . Pa. Cr2. Ri. Ma. ] m m m c c c Pf @. Ol. Pf2.

d(a)@ d(b)@

lancumite . -[ ]pulunza .

@

2

@

2

To . To . Pf . Pf . Pa. Ol. Ri. Ma. Cr @. Ri.

(sic)

Cr . lancumite[ @

Cr 2. lancumite . [ To @. To2. Ma. ] pulunzºa . Pf @. Pf2. Ol. (-) . pulunzaº . Pa. pul ºunzºa . Cr 2. pulunzºaº .

d(b)@

ipal .

d(b)@

sºacnºi º[

tutti To@. To2. Cr@. sacnº[ Pf@. Pf2. Ol. sºacnº-[ Pa. sºac--[ Cr 2. sºac-[ Ri. Ma. s`acnºi º[

d(a)2

]-i ºnia .

@

2

2

Pf . Pf . Ol. Cr .

To @. To2. Cr@. Pa. Ma. ]-inia . Ri. ]inia .

d(a)2

tei .

tutti

d(a)2

aqemeºi ºs`ºcºaºs`º .

Pa. Ri.

To @. To2. Cr@. Ma. aqemeis`caºs` . Pf@. aqemºeºi ºs`cºaºs` . Pf2. aqemeºis`caºs` . Ol. aqemeºi ºs`cºaºs` . Cr2. aqemeºis`ºcaºs` .

@   Per la legenda si rimanda al capitolo precedente. Le norme grafiche adottate dai vari studiosi sono state omologate, generalmente sulla base di quelle utilizzate negli Etruskische Texte di Rix (Ri., tranne per quanto riguarda la trascrizione delle sibilanti, per cui cfr. cap. i.2.). Ad esempio, Torelli indica il sigma a quattro tratti con s (To @.), o con s (To 2.), mentre qui si è preferito utilizzare la notazione che prevede l’accento grave (s)` . Ancora: in To @., Cr @., Pf 2. e altri il grafema individuabile ma non leggibile è indicato con una piccola croce obliqua (x: in realtà nel testo To 1. è utilizzato il segno greco per kappa minuscola, k, mentre qui si è preferito mantenere la norma utilizzata da Ri. che presenta un trattino: -). Pallottino (Pa.) indica in corsivo le lettere incerte, mentre il resto è scritto con il carattere normale non corsivo: anche in questo caso il testo è stato convertito alla norma tradizionale sottoscrivendo un punto a questi segni. Pf@. utilizza un sistema ancor più complesso, che prevede un punto sotto i segni la cui lettura è meno facile ma l’interpretazione sembra sicura, e una sottolineatura per quelli di lettura incerta: in questo caso si è adoperata una semplificazione, caratterizzando indistintamente questi segni con un punto sotto il segno stesso. Alcuni editori (soprattutto Ri.) inseriscono nel testo anche le integrazioni e ovviano alla mancanza di punteggiatura di alcune parti del testo distanziando le presunte parole. Quando non è indicato il riferimento per la lettura proposta, significa che essa è il risultato della ricostruzione epigrafica del testo come presentata nella sezione precedente.

la lamina di santa marinella l., (fr.), r.

lemma

lettura

altre letture

d(a)2

zucuna .

tutti

d(a)2

za[

To@. To2. Cr@. Pa. Ri. Ma.

Pf@. Pf2. Ol. Cr2. zaº[

d(b)2

]-i ºtaºlte .

Pf2. Pa. Ri.

To @. Cr@. Ma. ]-itaºlte . To 2. ]-it ºalte . Pf @. ]-i ºt ºaºlte . Ol. ]-i ºt ºeºlte . Cr2. ](-)-t ºaºlte .

d(b)2

To@. To2. Pa. Ma. sºaºcºnitalte .

sºacºnitalte .

Cr @. sºaºcºnºitalte . Pf@. Ol. sº`aºcºnitalte . Pf2. sºaºcºnitalºte . Cr 2. s`aºcºnitaltº e . Ri. s`acnitalte . d(b)2

s`icut º-[

To @. s`icu--[

Ri. Ma.

To2. s`icu[ Cr @. si u--[ (sic) Pf@. s`icu . tº-[ Pf2. s`icu . tº[ Pa. sº`icº uº--[ Ol. s`icº u . tº[ Cr2. s`icº u--[ d(a)3

]aº .

To @. Cr@. Pf@. Pf2. Pa. Ol. Ri. Ma.

d(a)3

icecin .

tutti

d(a)3

qezi .

To @. To2. Cr@. Pf@. Pa. Ol. Ri. Ma.

d(a)3

i ºpe[--(-)] .

To2. Cr2. ]a .

Pf2. qeºzi . Cr 2. qºezi . To@. To2. Cr@. ipeº [---] . Pf@. Ol. i ºpºe[---] . Pf2. ipeì[---] . (sic) Pa. Ri. ipe[ri] . Cr 2. i ºpº-[ Ma. ipeº[ri?]

d(a)3

uºnºu .

@

2

@

To . Pf . Cr . Ma.

To2. uºnºuº . Pf @. Ol. Ri. unºu . Pa. --u . Cr2. ] uºnºu .

131

132

riccardo massarelli

l., (fr.), r.

lemma

lettura

d(a)3

rapa .

tutti

d(a)3

cum[

tutti

d(b)3

]umº . mleaºmº [(-)] .

altre letture

To @. To2. ]umnºle--[-] . Cr @. ]umnºle--[.] Pf@. ]umnºles`-n-(-) . Pf2. ]umnºle-nº[--] . Pa. ]um . mºle-aº-(-) . Ol. ]umnºles`-n[-(-)] . Cr 2. ]umnºle[--]-[-Ri. ]um . mleaºmº . Ma. ]um[ .?] mºleaºmº [-] .

d(b)3 d(b)3

menatina .

@

2

@

@

2

To . To . Cr . Pf . Pf . Ol. Ri. Ma.

Pa. menati ºna . Cr2. ]menatina . To@. To2. Cr@. t ºe-uº-un-[

tei º [.] uº-(-)n-[

Pf@. Ol. teºi º . umºni º [ Pf2. teº-uº-uni [º Pa. t º(-)eº---uni º[ Cr 2. t ºeº---un-[ Ri. tei º . uºmºn-[ Ma. t ºei º . uº-un-[ d(a)4

To @. ] vºipaºs` .

]-t ºipas` .

To2. Cr@. Pf@. Pf2. Ol. Cr2. ] vºipas` . Pa. ]--ipas`º . Ri. ]uºt º ipas` . Ma. ]vºipaºs` . d(a)4

rºi ºn[

2

Pf .

To @. To2. Cr@. rin[ Pf@. Ol. rºi ºnuº [ Pa. rºin-[ Cr2. -i ºn[ Ri. Ma. rºinuº[

d(a)4

]ver .

To @. Cr@. Ri. Ma. ] cºver . To 2. ]cer (sic) Pf @. Pa. Ol. Cr 2. ]-ver . Pf2. ] . -ver .

d(a)4

mulveni º[

To@. To2. Pf2. Pa. Ol. Ri. Ma.

Cr@. mulveni[ Pf@. mulvenºuº[ Cr2. mulven-[

la lamina di santa marinella l., (fr.), r.

lemma

d(b)4

]-uº-(-)uº-[(-) .

lettura

altre letture To @. To2. ]-u--[ Cr @. ]-u-- . Pf@. ]--uº-(-)u[ Pf2. ]-uº--[ Pa. ]--u-nº-(-) Ol. ]--uº-(-)u[-(-) Cr 2. ]-us[-]uº[-Ri. ] u-nºMa. ] u-nº-[--

d(b)4

]helucu .

Pf @. Ol. Ma.

To @. Cr@. Pa. Ri. helucu . To 2. helucºu . Pf 2. hºelucu . Cr 2. ]hºeºlucu .

d(b)4

acasa .

tutti

d(b)4

tei .

tutti

d(b)4

luru-[

Cr@.

To @. To2. Cr2. l ºurºu-[ Pf@. Ol. l ºurºurº[ Pf2. lurºu-[ Pa. l ºuºrºus`º[ Ri. lurus` [ Ma. l ºurºus`º[

d(a)5

]-aºv .

Ri.

To @. Cr@. Pf2. ]vº . To2. ]v . Pf @. Ol. ]-aºvº . Pa. ]-v . Cr2. ]-- . Ma. ]- . aºvº .

d(a)5

nuna[

@

2

@

2

To . To . Cr . Pf .

Pf@. nunaº . [ Pa. nunaº- . [ Ol. nunaº[ Cr2. nunºaº[ Ri. Ma. nuna- . [

d(a)5

]- . nunqeºna .

To @. To2. nunqena . Cr @. ]unqena . (sic) Pf@. Ol. . nunqena . Pf2. Cr2. nunqeºna . Pa. nunqenaº . Ri. ]- . nunqenaº . Ma. ]- . nunqena .

133

134

riccardo massarelli

l., (fr.), r.

lemma

lettura

altre letture

d(a)5

teº[

Pf @. Pa. Ol. Ri. Ma.

To @. To2. Cr@. Pf2. Cr2. t-[

d(b)5

]t--[--(-)]-s ºice .

Pa. Ri. Ma.

To@. To2. Cr2. t-[---(-)]sºice . Cr@. t-[---]sice Pf@. Pf2. Ol. teº[---(-)]cºice .

d(b)5

d(b)5

lancumite .

To@. To2. Cr@. Pa. Ri. Ma.

Pf@. Ol. Cr2. lancumit ºeº . Pf2. lancumiteº . To@. To2. Cr@. Pf2. icana[

ican . a[

Pf @. Ol. icºana . [ Pa. ica( )na[ Cr2. icana . [ Ri. ican a-[ Ma. ican [.] a-[ d(a)6

]qºeº .

Ri.

To@. To2. Cr2. Ma. ]qºe . Cr @. ]qe . Pf@. Ol. ]-t º . Pf2. ]-t . Pa. ]qeº .

d(a)6

hunº[

To@. To2. hupº[ Cr @. hup[ Pf@. Ol. hut º . [ Pf2. hut º[ Pa. Ma. hupº-[ Cr 2. hu-[ Ri. hunº- [

d(a)6

]-l .

Pa. Ri.

To @. To2. Pf@. Ol. Cr2. Ma. ]aºl . Cr@. ]al . Pf2. ]aºl º .

d(a)6

nunqena . -[

Pf @.

To@. Pa. Ol. Cr2. Ri. Ma. nunqena . [ To 2. Cr@. nunqena[ Pf2. nunqena . t º[

d(b)6

]as`ei .

Cr2.

To @. To2. Cr@. ]asei . Pf@. Pf2. Ol. ]aºs`ei . Pa. ]as`ºei . Ri. Ma. f ]as`ei .

d(b)6

tesa .

tutti

la lamina di santa marinella l., (fr.), r.

lemma

lettura

d(b)6

nasºaº-cºe .

d(b)6

mulveº[

d(a)7

]sºurº .

d(a)7

t-[

Ri.

To@. To2. -[ Pf @. Pf2. rº--[ Pa. Ma. t º-[ Ol. t º--[ Cr 2. t[

d(a)7

]na .

To@. To2. Pf@. Pf2. Ol. Ma.

Pa. Cr 2. Ri. ]nºa .

d(a)7

vacil .

Pf2. Pa. Ri.

To @. To2. Ma. vacil º .

135

altre letture To @. To2. nacºeº-cºeº . Cr @. nace-ce . Pf@. nacºnº-veº . Pf2. nacºnº-vºeº . Pa. nacºaº--e . Ol. nacºnº-cºeº . Cr 2. nacº-(-)ce . Ri. nasºaºqºcºe . Ma. nasºaq º ºcºeº .

Ri. Ma.

To@. To2. mulv[ Cr @. vacat Pf@. mºuºlveº[ Pf2. Pa. mulv-[ Ol. muºlveº[ Cr 2. mulvº[ To@. To2. Cr@. Pf@. Pf2. Ol. Ri. Ma. ]sºur . Pa. ]sur . Cr2. ]-urº .

Pf@. Ol. vaºcil º . Cr2. vaci ºl º . d(a)7

To@. To2. Pa. Cr 2. Ri. Ma. c-[

c[

Pf @. Pf2. Ol. ceº[ d(b)7

]-a .

d(b)7

ml ºakaº[

d(b)7

]aºma .

Pa. Ri.

To @. To2. Cr@. Pf2. Ma. ]pºa . Pf @. Ol. ]pºaº . Cr2. ]pa . To@. To2. Cr@. Pf@. Pf2. Ol. Ma. ml ºaka[ Pa. Cr 2. Ri. mlaka[

Ri.

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5. A nalisi

epigrafica

Se nel caso del Piombo di Magliano era relativamente semplice operare un conteggio delle lettere incise sul metallo, distinguendo segno da segno, nel caso della Lamina di Santa Marinella non sembra possibile raggiungere un risultato analogo: sono

la lamina di santa marinella

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infatti molte le lettere conservate solo parzialmente, che possono presupporre più di una lettura; oltre a ciò, si deve considerare che la ricostruzione del testo, così come è stata proposta precedentemente, ha rilevato la presenza di tracce di lettere oggi non più identificabili. Tuttavia, può essere utile, anche soltanto a fini statistici, fornire alcuni numeri sulla base del testo ricostruito: la Lamina, grazie alla punteggiatura che utilizza punti singoli per separare le sequenze grafiche, permette l’individuazione di circa 9@ unità lessicali (58 sul diritto, 33 sul rovescio), di cui complete sembrano essere solo 35 (circa 22 sul diritto, @3 sul rovescio); le restanti permettono comunque di avere informazioni sulla semantica (mulveni º[, r. 4 del diritto, che rimanda al paradigma di uno dei verbi etruschi per ‘donare’) o sulla veste grammaticale della parola stessa (]-nºcva, r. @0 del rovescio, che sembra essere la terminazione di un plurale inanimato); in molti casi, però, è conservata solo la lettera iniziale, o quella finale. In tutto, sono identificabili con certezza 306 segni (200 sul diritto, compresi i 6 segni iniziali, e @06 sul rovescio), ai quali si aggiungono altri 72 segni la cui identificazione presenta gradi di probabilità diversi (46 sul diritto, 26 sul rovescio); infine, vanno considerati anche 28 segni (@9 sul diritto, 9 sul rovescio) di cui rimangono tracce minime, e che non è stato possibile identificare (indicati genericamente con ‘-’). Per la descrizione dell’alfabeto utilizzato, però, è opportuno fare riferimento solo agli esempi più chiari e rappresentativi dei singoli grafemi; quelli attestati sono: a, c, e, v, z, h, q, i, k, l, m, n, p, s`, r, s, t, u, c; della sequenza alfabetica teorica di riferimento (ovvero arcaica, di matrice ceretana) mancano q, f e f (cfr. Fig. 7).

Fig. 7. Alfabeto tipo della Lamina di Santa Marinella.

Lettere: – a: il segno alpha è tracciato con l’asta destra verticale e dritta, mentre la sinistra compie una leggera curva a partire dal vertice superiore per ricadere in posizione verticale. Solo di rado c’è una leggera soluzione nella continuità del tratto di quest’ultimo segmento, a formare un alpha vagamente quadrangolare con il segmento superiore obliquo e discendente a sinistra. Il segmento interno è sempre discendente a sinistra. – c: due segmenti obliqui a formare un angolo piuttosto aperto. A volte sono tracciati senza soluzione di continuità, come un unico arco. – e: l’asta lunga è in posizione verticale, mentre i segmenti sono obliqui e generalmente sono della stessa lunghezza. Spesso l’asta verticale prosegue in basso, oltre il punto di contatto con il segmento inferiore, a formare un breve peduncolo. – v: generalmente è solidale con epsilon. – z: si presenta come un’asta verticale con due segmenti tangenti i vertici. I segmenti sono obliqui, discendenti verso sinistra. È solidale con tau.

140

riccardo massarelli

– h: il consueto segno ‘a finestra’, solidale con epsilon e wau: i segmenti sono obliqui, discendenti verso sinistra, cosicché si vengono a creare nelle due aste, verticali e alla stessa altezza, due piccole sporgenze: in basso in quella di destra e in alto in quella di sinistra. – q: segno a forma di rombo con punto centrale. A volte il rombo non si chiude in alto e in basso, altre volte i lati del rombo sono sostituiti da due archi, che possono toccarsi o meno. – i: semplice asta verticale. – k: l’unica attestazione presenta un’asta verticale e due segmenti obliqui che si diramano dal centro dell’asta verso sinistra, uno in alto e uno in basso. I segmenti sono attaccati all’asta e i vertici opposti arrivano alla stessa altezza. – l: asta verticale e segmento obliquo ascendente verso sinistra, che parte dal vertice inferiore dell’asta stessa. – m: tre aste verticali alternate a due segmenti obliqui, discendenti verso sinistra, che uniscono i vertici opposti delle aste stesse. Quasi sempre la prima asta verticale di destra si allunga in basso rispetto alle altre, anche di poco. A volte gli ultimi due segmenti a sinistra sono più piccoli rispetto agli altri. – n: è solidale con my: presenta anch’esso la prima asta verticale a destra leggermente più lunga. – p: formato da tre tratti: un’asta verticale a destra, dal cui vertice superiore parte un segmento obliquo discendente a sinistra, quindi un altro breve segmento verticale che parte dall’altro vertice del segmento obliquo. – s`: è il sigma a quattro tratti: il segmento in alto è ascendente verso sinistra. Spesso il segno risulta occupare un’altezza maggiore degli altri grafemi. – r: è formato da un’asta verticale e da due segmenti obliqui che formano un occhiello a sinistra. In basso l’asta verticale prosegue a formare un peduncolo. A volte l’occhiello invece di triangolare è arrotondato. – s: i tre tratti del sigma formano degli angoli piuttosto netti. Il primo tratto in alto è ascendente verso sinistra. – t: il tau è solidale con zeta: un’asta verticale è sormontata da un segmento obliquo tangente, discendente verso sinistra. – u: consueto segno con due segmenti obliqui che si congiungono in basso, senza la presenza di peduncoli. – c: consueto segno ‘a freccia’ verso il basso, senza ulteriori peduncoli. I segmenti obliqui spesso non raggiungono l’altezza dell’asta verticale, e formano con essa angoli piuttosto stretti. Cifre (?): –

: un cerchio leggermente più grande delle normali lettere, con cinque punti al centro disposti a formare una croce. Dal punto in alto e da quello in basso partono verticali due segmenti che intersecano il cerchio esterno. – : come il segno precedente, ma con la differenza che mancano i due segmenti in alto e in basso. I due semicerchi, in tutte le occorrenze, non si chiudono perfettamente.

la lamina di santa marinella

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5. @. Considerazioni generali sull’alfabeto Già Mauro Cristofani aveva notato come l’alfabeto della Lamina di Santa Marinella, nel contesto dell’epigrafia tardo-arcaica ceretana, risulta essere tra i più «eccentrici», e addebitava tale particolarità al fatto che, tra le epigrafi tardo-arcaiche, la Lamina sembrava essere quella con datazione più alta, forse ancora del 530-5@0 a.C. @ Ancor prima Pallottino aveva commentato l’uso singolare del sigma a quattro tratti nella Lamina (del quale si discuterà in seguito), ipotizzando che esso risalisse ad una delle «tradizioni d’impiego del segno s` contrastanti con la prospettata evoluzione, sia in zone lontane ed appartate (conservatrici?) come la Campania, sia forse nello stesso territorio cerite». 2 In effetti, è indubbio che vi siano peculiarità evidenti nell’alfabeto della Lamina che in parte sono in opposizione con analoghe caratteristiche della produzione coeva ceretana; tuttavia, come si vedrà, gli aspetti fondamentali dell’alfabeto della Lamina sono pienamente in accordo con questa produzione; 3 si tratterà, piuttosto, di tentare di spiegare le variazioni rispetto al modello alfabetico di riferimento, quello cerite, anche in relazione a fatti di carattere extralinguistico. Come è noto, in epigrafia etrusca si distinguono in genere tre macroaree, settentrionale, meridionale e veiente-ceretana, in base a due parametri fondamentali: la notazione delle sibilanti e della velare non aspirata. 4 Se per le sibilanti la situazione della Lamina è oltremodo complicata, e sarà affrontata in seguito, per quanto riguarda la velare non vi sono dubbi che sia seguito un modello meridionale (ovvero comune tanto all’area ceretano-veiente quanto al triangolo Tarquinia-Vulci-Volsinii), con gamma (c) in tutte le posizioni, già ad una quota relativamente alta: l’unica eccezione, il kappa in mlaka[, è verosimilmente da ascrivere, come già proposto dai primi commentatori, 5 a fatti di conservatività legati alla liturgia di una parola dal probabile significato sacrale. Sembra quindi immotivata l’affermazione di Pfiffig, secondo il quale la Lamina farebbe riferimento ad una tradizione alfabetica non ceretana, forse addirittura settentrionale, a cui si sarebbero mescolate caratteristiche dell’alfabeto del luogo di rinvenimento. 6 La notazione delle sibilanti, come detto sopra, non presenta invece una regola netta: nella Lamina, cioè, sono utilizzati il sigma a tre tratti e quello a quattro tratti, ma non sembra esservi un criterio di selezione vero e proprio. Già l’uso del sigma a quattro tratti, però, rimanderebbe all’area tra Caere e Veio, dove esso è impiegato sistematicamente; un breve excursus sui criteri di utilizzo del sigma a quattro tratti, a questo punto, può tornare utile per una sua giustificazione nel contesto dell’epigrafia ceretana e veiente.  











2   Cristofani @98@, p. 60.   Pallottino @967, p. @73.   Come già sostenuto in Torelli @966, pp. 286-287; Torelli @967, pp. 348-349. 4   Si rimanda ai fondamentali Rix @984, pp. 2@3-2@4, e Agostiniani @992, pp. 40-47 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @28-@34). 5   Si vedano Torelli @966, p. 286; Pallottino @966a, p. 297; Torelli @967, p. 349. 6   Le considerazioni di Pfiffig prendono spunto soprattutto dalla questione del sigma a quattro tratti: cfr. Pfiffig @968a, pp. @7, nota 25; 2@. @

3

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riccardo massarelli

Come è noto, il sigma a quattro tratti si configura, inizialmente, solo come una variante grafica del sigma a tre tratti; per meglio dire, originariamente non vi è standardizzazione nel numero dei tratti che compongono il sigma, ma l’unico vincolo è che essi siano tre o più di tre; questo spiega, ad esempio, come mai in alcune iscrizioni arcaiche vi siano forme diverse di sigma con apparentemente lo stesso valore. @ Questo implica anche che vi sia stata in principio, a livello grafematico, una fase di «ipodifferenziazione» 2 nella notazione delle sibilanti etrusche: vale a dire che a Caere il sigma (quale fosse il numero di tratti) inizialmente serviva per indicare tanto la postdentale [s] quanto la palatale [sˇ]; quest’ultima, come è noto, in etrusco meridionale ha peraltro una frequenza notevolmente inferiore rispetto alla postdentale. Tale fatto sembra testimoniato con particolare evidenza nell’alfabetario rinvenuto nella tomba Regolini-Galassi a Caere (Cr 9.@, secondo quarto vii secolo a.C.): qui la serie alfabetica teorica è greca (tanto che conserva ancora b, d, o ecc.), e contiene sia il sigma a quattro tratti (s`), sia il san (s´), ma la realizzazione pratica, testimoniata dal sillabario contestuale all’alfabeto, mostra come vi sia in uso un solo grafema per le sibilanti, ovvero il sigma (in questo caso a quattro tratti). 3 Successivamente il sistema si raffina e, attraverso un processo di «grafemizzazione», 4 il tratto supplementare nella realizzazione del sigma diviene distintivo: ovvero, i due tipi di sigma, a tre e a quattro tratti, da semplici varianti grafiche di uno stesso grafema diventano due grafemi distinti. Il sigma a tre tratti, più semplice, è utilizzato per annotare la sibilante più frequente, ovvero [s]; quello a quattro tratti, invece, la sibilante palatale [sˇ]. Non è possibile, nella Lamina di Santa Marinella, individuare con sicurezza alcuna forma lessicale contenente una sibilante palatale [sˇ]; non è possibile, pertanto, stabilire con quale grafema fosse notata tale sibilante nella varietà di alfabeto della Lamina. Al contrario, sembra appurato che la sibilante postdentale [s] è scritta alternativamente tanto con s quanto con s`: lo testimoniano parole come acasa, dove sembra possibile riconoscere il morfema verbale -a[s](a), 5 e aqemeis`cas`, nel quale è stato identificato da tempo il morfema di genitivo i -[s]. Nella Lamina di Santa Marinella, quindi, il quarto tratto del sigma non sembra ancora aver assunto capacità distintive, tali che le varianti del sigma (a tre o quattro tratti) codifichino unità fonologiche diverse; sembra piuttosto attestata quella fase di ‘ipodifferenziazione’, descritta già sopra, di cui la Lamina, considerata la datazione tardoarcaica, rappresenta uno degli ultimi esempi.  









@   Ad esempio in Cr 2.3: mi s`panti s`qulinas` (primo quarto vii sec. a.C., da Caere), dove il primo sigma è addirittura a sei tratti, il secondo a quattro, il terzo a cinque (cfr. ree 42, 2@6). 2   Cfr. Agostiniani @992, pp. 40-4@ (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @28-@29). 3   Questo non significa, però, che nella varietà di etrusco dell’alfabetario arcaico di Caere vi fosse un solo fonema di sibilante; il sillabario infatti registra solo la competenza pratica della realizzazione scrittoria, che prevedeva effettivamente, nel momento storico che l’alfabetario testimonia, un solo grafema per le due sibilanti, senza ulteriori distinzioni. 4   Cfr. Agostiniani @992, p. 44 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @32). 5   Ma si potrebbe trattare anche di una forma in -a da un tema verbale acas-, attestato nel perfetto acasce (si veda sull’argomento la discussione di acasa nel capitolo successivo); quale che sia la soluzione esatta, non è in discussione che la sibilante sia postdentale.

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la lamina di santa marinella

Per quanto riguarda invece la velare non aspirata, come già detto, essa è scritta in tutte le sedi con gamma (c), a testimoniare quindi una fase successiva rispetto alla tradizionale tripartizione in cui k sta di fronte a vocale aperta (ka), q di fronte a vocale posteriore chiusa (qu), c di fronte a vocale anteriore chiusa (ce, ci); tale fatto risulta evidente osservando la grafia di parole come acasa e helucu, oltre all’atteso icecin. Del tutto singolare è poi la presenza di k in mlaka[, per cui non sembra opportuno appellarsi ad altro se non a fatti extralinguistici quali quelli ipotizzati già in passato, ovvero il mantenimento della grafia arcaica per una parola rituale, per quanto non nel senso che veniva dato alla parola mlac al momento della scoperta della Lamina. @ Peculiarità minori sono rilevabili da altri grafemi; una in particolare desta sorpresa: nella Lamina infatti il trattino trasversale dell’alpha ha orientamento discendente rispetto alla direzione della scrittura, conformemente a quanto avviene in tutta l’Etruria ma in controtendenza proprio rispetto all’epigrafia ceretana, di cui costituisce un tratto distintivo. 2 Ancora, pi ha una forma molto vicina al prototipo greco, ovvero con i tre segmenti ben definiti, il primo verticale più lungo del secondo, ma in genere parallelo ad esso, con il tratto superiore leggermente inclinato nel senso della scrittura. 3 Più in generale, sono presenti nella grafia della Lamina alcune caratteristiche che rimandano parzialmente a modelli grafici arcaici: su tutti, my e ny con il primo tratto verticale più lungo degli altri; tau (e zeta) con i segmenti obliqui tangenti e non secanti l’asta verticale; il theta con il punto centrale. In definitiva, dall’analisi epigrafica sembra confermata la datazione alla fine del vi secolo a.C., come del resto già suggerito dal contesto di ritrovamento; del pari, sembra appurata l’appartenenza della Lamina alla tradizione grafica ceretana, pur in una situazione di parziale eccentricità, come già rilevato da Cristofani, 4 che come detto la addebitava ad una maggiore antichità rispetto agli esempi più autorevoli dell’epigrafia arcaica di Caere, ovvero le Lamine di Pyrgi. Non sembra quindi necessario, come già anticipato sopra, mettere in discussione il fatto che la Lamina di Santa Marinella sia stata prodotta in ambito ceretano, come proposto a suo tempo da Pfiffig: non sembrano infatti venir meno i tratti salienti dell’appartenenza a tale tradizione grafica, pur nella constatazione della presenza di soluzioni a volte devianti dalla norma, di cui peraltro risultano attestati anche altri esempi minori. 5 I motivi di eventuali discrepanze potrebbero essere ascritti, come nel caso di mlaka[, a necessità di carattere extralinguistico, o anche a  









  Come è noto, prima di Agostiniani @98@ (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 3-@9), in cui il significato di mlac è fissato come ‘buono’, per tale parola si pensava piuttosto ad un’appartenenza all’area semantica del ‘dono’. 2   Tale caratteristica è riscontrabile anche nei segmenti trasversali di tau e zeta (nonché heta, che però a volte è solidale con epsilon e wau), che in genere, per quanto riguarda questo parametro, sono solidali con alpha. 3   L’alfabeto tipo ricostruito da Cristofani per la Lamina (Cristofani @98@, p. 59) presenta un pi diverso, molto più arrotondato, mentre nella realtà gli spigoli del pi sono piuttosto evidenti; per inciso, tale ricostruzione dell’alfabeto tipo manca della lettera zeta. 4 5   Cristofani @98@, p. 60.   Per tutti, si rimanda a quanto descritto in Cristofani @98@. @

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fatti di contaminazione superficiale, come del resto poteva avvenire in un contesto di scambi culturali quale doveva essere il santuario di Punta della Vipera. 6. Analisi linguistica Ai consueti problemi caratteristici di ogni tentativo di analisi di un testo etrusco, quali la difficoltà di individuare unità lessicali, decrittarne il significato e coglierne la funzione grammaticale nell’economia del testo stesso, si aggiunge nel caso della Lamina di Santa Marinella l’evidente difficoltà dovuta all’estrema frammentarietà, che come si è visto già in campo epigrafico ha comportato varie incertezze, e che per quanto riguarda l’analisi linguistica implica la presenza di parole spesso mutile, rendendo impossibile ricostruire, se non il testo completo, almeno singole porzioni di esso in sé compiute. A maggior ragione, pertanto, sembra del tutto fuori dalla portata dell’odierna esegesi dell’etrusco, dati gli strumenti di cui essa al momento dispone, l’individuazione del senso esatto e completo del testo iscritto sulla Lamina, di tutte le sue caratteristiche linguistiche, dei singoli elementi che lo compongono. In quest’ottica, il monumentale tentativo di analisi operato da Pfiffig, @ per quanto accurato nella forma, soffre, oltre che di un parziale superamento dei presupposti linguistici su cui esso si fondava, anche e soprattutto di una volontà di restituire senso e funzione della Lamina che, tanto allora quanto allo stato attuale della documentazione e delle nostre conoscenze sull’etrusco, risulta irraggiungibile. Le conclusioni a cui era giunto Pfiffig 2 sono note: per lo studioso austriaco, in base ai dati ottenuti dall’analisi linguistica confrontati con quelli del contesto di ritrovamento, la Lamina rimandava all’ex-voto di una donna, la quale aveva chiesto alla dea Lanchumita una gravidanza, e che una volta ricevuta la grazia aveva predisposto, registrandole sulla Lamina stessa, una serie di azioni rituali in onore della dea. Non è necessario sottolineare qui la poca verosimiglianza di tale ricostruzione, peraltro rifiutata più o meno apertamente dalla maggior parte dei recensori della monografia di Pfiffig; 3 se tuttavia si deve stigmatizzare tale tentativo dal punto di vista della scarsa concretezza dei presupposti linguistici e dei risultati dell’analisi della Lamina in quanto oggetto votivo, è peraltro da riconoscere che la via intrapresa da Pfiffig risulta essere l’unica percorribile; si tratta cioè di analizzare le singole unità lessicali sopravvissute e cercare, per quanto possibile, di inserirle in una cornice testuale organica, tenuto conto che tale inquadramento è, per forza di cose, incompleto. Insieme a ciò, è necessario un costante confronto con le informazioni di carattere extralinguistico provenienti dall’analisi materiale e dal contesto di ritrovamento, per evidenziare se quanto emerge dall’analisi linguistica sia in consonanza con quanto si può constatare dall’analisi archeologica: ad esempio, se la Lamina possa configurarsi effettivamente come un particolare tipo di sors cleromantica.  





2   Pfiffig @968a.   Cfr. Pfiffig @968a, pp. @@4-@@5.   Il lavoro di Pfiffig suscitò molto interesse ma anche forti perplessità, tanto che gran parte delle recensioni risulta nel complesso negativa; cfr., solo a titolo di esempio, Cristofani @969; Olzscha @969, pp. 308-3@5; Heurgon @969; Rix @969b; Hoenigswald @97@; De Simone @972; Defosse @973. @

3

145

la lamina di santa marinella 6. @. Diritto Riga @ ]

lancumite . -[

I sei simboli iniziali rappresentano un unicum nell’epigrafia etrusca. Si tratta, come descritto sopra, di due tipi di segno sostanzialmente identici, tranne che per i due segmenti in alto e in basso che contraddistinguono i primi tre e non i secondi tre: questi due segmenti hanno verosimilmente una funzione distintiva. La tendenza generale tra gli studiosi è quella di considerarli come notazione di numerali: @ il problema però è stabilirne il valore e, conseguentemente, la relazione tra i due tipi di segno. Il sistema di trascrizione etrusco dei numerali è noto nelle sue componenti fondamentali ed è stato oggetto di uno studio approfondito; 2 a partire dai simboli noti (quelli per @, 5, @0, 50 e @00), è stato possibile osservare che il sistema di trascrizione etrusco, sul quale poi si è basato quello latino arcaico (prima della parziale introduzione dell’elemento acrofonico), si fonda su due principi fondamentali: il primo è che il passaggio dall’unità alla decina, e dalla decina alle centinaia, è rappresentato dall’aggiunta di un segmento trasversale; così, @ è rappresentato da un tratto verticale, @0 da due tratti (+ o x), @00 da tre (perlopiù ); il secondo principio prevede che le quantità intermedie siano realizzate ‘dimezzando’ i rispettivi simboli: così, 5 è la metà di @0 (l, mentre a Roma è v), e 50 è la metà di @00 ( , mentre a Roma è , prima della semplificazione in l). Purtroppo, la documentazione etrusca non attesta i segni per 500 e @000 (e superiori) che molto avrebbero aiutato nello studio dei simboli della Lamina, ma il confronto con il sistema latino non riformato permette di ipotizzare che, in Etruria, il simbolo per @000 fosse qualcosa come , e che, conseguentemente, il simbolo per 500 ottenuto tramite ‘dimezzamento’ fosse , da cui d romano. Ora, il ricostruito simbolo per @000 potrebbe effettivamente essere riconoscibile nel secondo dei due tipi riscontrati sulla Lamina, se si accetta che i punti interni disposti ‘a croce’ rappresentino effettivamente una stilizzazione della croce interna al simbolo ricostruito: 3 se così fosse, il segno starebbe verosimilmente per @000; di conseguenza, i due segmenti sopra e sotto l’altro segno potrebbero ricordare l’asta trasversale usata nel sistema canonico per passare all’unità superiore, ovvero per ‘decuplicare’ il segno precedente, ristabilendo quindi lo stesso principio vigente per le unità minori, ovvero @00 rispetto a @0 e @0 rispetto a @: se così fosse, significherebbe @0000. È evidente che quanto detto finora ha carattere altamente ipotetico, data anche la scarsa conoscenza dei simboli del sistema di notazione etrusco per quanto riguarda i numeri più alti, anche se  





@   Cfr. Torelli @966, p. 287; Pallottino @966a, p. 292; Torelli @967, p. 349; M. Cristofani, in ree 35, p. 565; Bonfante @967. Pfiffig è più dubbioso, ed esplora anche la possibilità che si tratti di simboli affini a degli ideogrammi, che dovrebbero rappresentare le offerte all’ipotetica dea Lanchumita (Pfiffig 2 @968a, pp. 40-43).   Agostiniani @995b, pp. 53-62 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 229-238). 3   Secondo Torelli, tale soluzione potrebbe dipendere dalla volontà di non confondere i simboli numerali con i segni alfabetici per f e q, ovvero e , come anche da un eventuale precedente sistema vigesimale, per cui ogni punto interno varrebbe 20 e, tutti insieme, @00 (Torelli @966, pp. 287-288, nota @3; Torelli @967, pp. 349-350, nota 42).

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questa ricostruzione trova un sostegno nella disposizione reciproca, in sequenza, dei due segni. Lo stesso Agostiniani riconosce che, nel caso della Lamina di Santa Marinella, si potrebbe trattare di notazioni numerali «non standard», come ne sono note anche altrove: cosa che riporterebbe la discussione al punto di partenza. @ Se però l’ipotesi qui seguita coglie nel giusto, il numero rappresentato dovrebbe essere 33000: Torelli e Pallottino in effetti la considerano una possibilità, benché ritengano preferibile 3300, dal momento che il primo simbolo ( ), secondo gli stessi studiosi, ricorderebbe il segno per f usato altrove (nel sistema latino pre-riforma) per indicare @000, in conseguenza del quale il secondo segno ( ) starebbe verosimilmente per @00. 2 Per quanto riguarda invece il suo significato nel testo, come sottolinea Torelli, 3 è verosimile che, trattandosi di un numero molto alto (tanto 3300 che 33000), esso abbia un valore volutamente iperbolico, simbolico, ad indicare solo un’imprecisata grande quantità: per Pallottino, più che di una numerazione di cose o persone, potrebbe trattarsi di una misura ponderale, o di distanza. 4 La parola successiva, lancumite, è la prima parola oggi leggibile; se è vero che il bordo destro del frammento a era già ab origine quello della Lamina completa, essa è anche la prima parola del testo, e si trova quindi in posizione topicalizzante, in probabile connessione con i simboli precedenti; la stessa parola è ripetuta anche in un altro passo (r. 5) del testo sul diritto, questa volta sul frammento b. Pallottino vede in lancumite un possibile appellativo articolato tramite la particella -te, ma non esclude anche che in -te si debba riconoscere la posposizione locativa (allora considerata morfema di locativo a tutti gli effetti); per la base lessicale lancum-, poi, ipotizza una relazione con i prestiti greci del tipo prucum, qutum ecc., e propone un rapporto con il latino lanx ‘piatto’. 5 Pfiffig invece, pur non escludendo a priori l’ipotesi di un appellativo ‘articolato’, legge in lancumite un locativo («Modalis», secondo la terminologia dello stesso Pfiffig) di un epiteto divino *lancumita (< *lancumi-ta-i, analogamente a sancuneta di Vs 4.8), che rappresenta il nome con cui l’offerente si rivolge alla divinità con la quale ha contratto il voto. 6 La possibilità che lancumite sia locativo da *lancumi-ta è quanto meno dubbia, dal momento che non sono documentate altre forme locative di pronomi in -e, bensì in -ei, come dimostra cei (da (e)ca) del Cippo di Perugia, nel sintagma tesne ras´ne cei (Pe 8.4a2@), e, forse, la particella tei, da (i)ta, in molti passi del Liber linteus, nonché sulla Lamina stessa, almeno tre volte; 7 inoltre, si porrebbe il problema di stabilire se la base lessicale sia *lancumi (e quindi la segmentazione lancumi-te) o non piuttosto  













  Agostiniani @995b, p. 60, nota @34 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. 236). Si veda anche, più avanti nella discussione su lancumite, l’ipotesi di Facchetti, il quale parte dalla possibilità che i simboli facciano riferimento ad un sistema di trascrizione «speciale», non canonico. 2   Cfr. Torelli @966, p. 287; Pallottino @966a, p. 292; Torelli @967, p. 349; anche M. Cristofani, 3 in ree 35, p. 565.   Torelli @966, p. 287; Torelli @967, p. 349. 4 5   Pallottino @966a, p. 292.   Pallottino @966a, pp. 292-293. 6   Pfiffig @968a, pp. 43-46; cfr. anche Pfiffig @968b, pp. @50-@5@. 7   R. 2 del diritto (fr. a), r. 3 del diritto (fr. b), r. 4 del diritto (fr. b); una quarta attestazione potrebbe essere alla r. 5 del diritto (fr. a) dopo nunqena. Per tei sul Liber linteus si rimanda agli indici degli et. Per una critica all’idea di Pfiffig si veda anche Rix @969b, p. 2@@. @

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*lancum (per cui lancum-ite). @ L’altra proposta prevede invece che -te finale sia posposizione: tale ipotesi ha dalla sua la presenza, nel testo della Lamina, di parole che indubbiamente recano la posposizione -te, come ad esempio sacni-tal-te della r. 2 del diritto. Se così fosse, la giusta segmentazione sarebbe lancum-i-te, dove -i è morfema di locativo. Ancor più difficile risulta stabilirne il valore lessicale: l’ultima proposta da segnalare, per quanto nei fatti non verificabile, è in ordine di tempo quella di Facchetti, il quale, recuperando l’idea di Pallottino circa un rapporto etimologico tra lancumite e il lat. lanx, ipotizza che l’attacco del testo della Lamina sia una sorta di data astrale, da tradurre ‘nel trentatreesimo (giorno) in Bilancia’, dove lancumrimanderebbe appunto ad una base lessicale dal significato ‘piatto’ e quindi, per traslato, ‘bilancia’. 2 Nulla o quasi si può dire sulla parola che segue lancumite, di cui rimane solo la parte inferiore di un’asta verticale della prima lettera; Pfiffig ipotizza che si possa trattare della parola icana, poiché essa compare nel testo, alla r. 5 del diritto (fr. b), nelle stesse condizioni, ovvero subito dopo lancumite; 3 su ciò è da rilevare che anche sulla r. @ del rovescio (fr. a), prima della sequenza mutila icec[, il cui completamento potrebbe essere icecin (r. 3 del diritto, fr. a), e che potrebbe essere in relazione paradigmatica con icana, si trova una parola terminante in ]ite, la cui integrazione potrebbe essere proprio [lancum]ite.  





]pulunza . ipal . sºacnºi º[

Già Pallottino notava che la parola pulunza (se completa) richiama forme lessicali altrimenti note, come pulumcva delle Lamine di Pyrgi (Cr 4.4-5), per la quale è stato da tempo proposto il significato di ‘stelle’, anche in base al confronto con la versione punica delle Lamine auree. Si aggiunga inoltre la forma pulum di Vs @.@79, anche qualora sia giusta la suddivisione in pul-um, con congiunzione enclitica, che rimanda ad una voce lessicale pul presente due volte anche sull’iscrizione di Laris Pulenas (Ta @.@7). 4 Ancora Pallottino non esclude che -za finale sia il morfema diminutivo noto nell’onomastica personale e in alcuni termini di significato sacrale (come spanza ‘piatto’); 5 tale prospettiva è seguita anche da Pfiffig, che considera pulunza diminutivo di pulum ‘stella’ e lo traduce con ‘kleiner Stern, Sternchen’. 6 Che pulunza sia un derivato da pulum*, però, non è nei fatti dimostrabile. 7  







@   Per Olzscha, il rimando lessicale sarebbe il gr. lovgch, lat. lancea, e l’epiteto divino richiamerebbe uno degli attributi della dea menerva, titolare del santuario: appunto, la lancia (da cui la traduzione ‘Lanzengöttin’, cfr. Olzscha @969, p. 3@2). 2   Facchetti 2000a, p. 63, nota 362; Facchetti 2000b, p. 246; Facchetti 2002a, pp. 77-78. 3   Pfiffig @968a, p. 47. 4   Facchetti, in base all’equazione pulumcva = ‘stelle’, traduce l’etrusco pul con ‘splendido, brillante’ 5 (cfr. Facchetti 2000a, p. 39, nota 222; Facchetti 2000b, p. 75).   Pallottino @966a, p. 293. 6   Pfiffig @968a, p. 47; cfr. anche Facchetti 2000b, p. 246. 7   Si veda sull’argomento Agostiniani 2003, p. @84 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. 348), che mette pulunza tra le attestazioni del suffisso -za possibili, ma non verificabili.

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La parola successiva, ipal, è chiaramente una forma flessa (genitivo ii), del pronome ipa. Una recente scoperta epigrafica da Caere, pubblicata e discussa da Giovanni Colonna, @ ha permesso di approfondire le attuali conoscenze su questa particella: essa infatti compare nella più lunga di un gruppo di iscrizioni arcaiche graffite sulle pareti di una tomba a camera, situata nella necropoli della Banditaccia, e databile tra 530 e 5@5 a.C. Secondo Colonna l’unico significato possibile per ipa nel contesto della lunga iscrizione (circa @5 parole, perlopiù complete o integrabili) sembra essere quello analogo al lat. idem ‘medesimo’ (nel caso dell’iscrizione, che si riferisce ad una donna, eadem). 2 Proposte alternative, invece, tendono a considerare ipa o come pronome relativo-interrogativo, o congiunzione dichiarativa, o aggettivo. 3 Altre forme del paradigma di ipa ritornano nel testo della Lamina: oltre ad ipe[ di r. 3 del diritto (fr. a), si ha anche iperi alla r. @0 del rovescio (fr. a); più dubbia invece la presenza di ipas`, all’inizio della r. 4 del diritto (fr. a), nella sequenza ]-t ºipas`, in un passo dove non sembrano esserci lacune nel sistema di punteggiatura lessicale (come invece avviene in alcuni punti del rovescio). La forma ipa[s] è comunque nota da altre attestazioni (gli arcaici at 3.3, Fa 0.4), insieme ad ipe (ll x.9), ipei (ll x.7), forse di nuovo ipal (Ve 2.6: [i]pal), più tutte le attestazioni della forma-base ipa, per la quale si rimanda agli indici degli et. 4 Quale che sia la lettura di ipa, una volta ammesso che ipal ne è il genitivo si pone il problema di stabilire a cosa esso debba essere associato: la prima opzione, che esso sia retto da pulunza, è aberrante rispetto all’ordine gn (genitivo + nome) individuato per l’etrusco, 5 ma non è escluso che possa trattarsi di una scelta dettata da particolari ragioni stilistiche o testuali. Altrimenti, si dovrà stabilire l’eventuale relazione tra ipal e ciò che segue, ovvero la forma sºacnºi º[, purtroppo mutila, che però, in funzione della suffissazione dello stesso ipal, potrebbe essere ricostruita come sacni[t(a)la] o sacni[talte], in base all’attestazione sulla Lamina stessa di sacnitalte, alla r. 2 del diritto (fr. b). Su [s]acni (possibile variante [s]ani*) e derivati, generalmente per mezzo delle particelle enclitiche, la documentazione è piuttosto vasta; considerando tutte le forme note è possibile ricostruire il seguente paradigma, nel quale, è da segnalare, le attestazioni della Lamina di Santa Marinella risultano essere le più antiche (come testimonia anche la conservazione di -a- della particella enclitica in sacnitalte):  









  ree 7@, 26 (in particolare p. @75, nota 28).   Cfr. già Morandi @987, pur in una cornice di relazioni tra etrusco e lingue indoeuropee (etr. ipa = lat. ipse) che qui si ritiene opportuno non accogliere. 3   Cfr. Rix @984, p. 23@; Facchetti 2002a, pp. 67-68. 4   A queste attestazioni la manualistica associa anche quelle di inpa: come si vedrà nel cap. iv. relativo alle defixiones, un recente lavoro di Agostiniani ha mostrato che le due particelle sembrano invece avere 5 origini diverse.   Cfr. Agostiniani @993a, p. 32 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @72). @

2

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forma base

con -ta

con -ca

con -[]a

singolare -Ø

sacni (Ta 5.3, Vs 4.@3)

sacnis´a (Ta @.47, 5.5, at @.@93, Vs @.248, Vc @.8, @.@7) s´acnisa (ree 73, 26) sacnisa (ll viii.@0) sanis´a (Ta @.@59) s´anis(a) (Pe @.8@2) @ sanis`(a) (ree 73, 76)  

-n

s´acnitn (ll vii.6)

-la

s´acnicn (ll xii.@@) s´acnicla (ll v.22, vi.8)

-le

s´acnitle (as 4.5) sacnicleri (ll vii.@@) s´acnicleri (ll ii.n4, 7; v.6, @3; vii.@8; ix.5, @2, 2@)

-le-ri

sacnitalte (Cr 4.@0)

-(a)l-te -[s]tre[s] (< *-(i)[s]-tra-i-[s])

s´acnics´tres´ (ll ii.n@, 3; viii.@4, f5; ix.9) s´acnicstres´ (ll v.3, ix.2)

plurale sanis`va (Cr 5.2) aggettivi in -u

sacniv (Vc @.@0) sacniu (Vc @.4, @.30, @.46) saniu (Cr 2.79)

forme mutile

sacn[ (at @.@09) sacni[ (Cr 4.@0)

Il dubbio principale riguarda le forme con s´ani- rispetto a quelle con s´acni-: generalmente si tende a considerare le prime come varianti semplificate delle seconde, per effetto della riduzione del cluster consonantico -cn- > -n-, ma una re@   Ma in Pe @.8@2 la sequenza è intesa come il metronimico del defunto, opportunamente integrato: la . venete . mania(l); qui si segue in parte la lettura originaria, già ripresa anche in Steinbauer @999, p. 64 (s´a(c)nis(a)), mentre G. Colonna, in ree 73, 76, mantiene la lettura s´anis senza ulteriori emendamenti o integrazioni, dando un’interpretazione del termine particolare, di cui si renderà conto più sotto nel testo.

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cente scoperta cerite, opportunamente pubblicata da Giovanni Colonna in ree 73, 76, complica notevolmente il quadro di insieme. Nell’iscrizione resa nota, iscritta sull’architrave interno di una tomba a camera e databile a non oltre l’inizio del iii sec. a.C., si legge infatti il termine sanis` (foneticamente [sanisˇ]), come apposizione precedente il nome del defunto laris . lucinas . cveqna(l); secondo Colonna, questa iscrizione proverebbe che la serie con [s]ani- è da tenere disgiunta da quella con [s]acni-, perché il tema lessicale sarebbe in realtà [s]ani[sˇ] (non [s]ani), mentre per [s]acni le attestazioni provano che la sibilante finale è parte del dimostrativo enclitico -[sˇ]a. Per quanto riguarda il significato, poi, Colonna recupera l’ipotesi, già in Pallottino, che vorrebbe [s]ani[sˇ] variante di [sˇ](i)an[s], inteso come ‘parens, genitore naturale’. I mutamenti fonetici sottesi al passaggio [sˇ](i)an[s] > [s]ani[sˇ] non sono immediatamente evidenti, e fa difficoltà in particolare la supposta metatesi tra le sibilanti del termine. Sembra invece più fondata la questione della serie lessicale [s]ani[sˇ] disgiunta da [s]acni, che trova una parziale conferma nell’iscrizione Pe @.8@2, però nella letteratura originaria, dove si ha s´anis (foneticamente di nuovo [s]ani[sˇ]); tuttavia ciò è in contrasto con l’altra attestazione, Ta @.@59, dove si ha chiaramente sanis´a. Del resto, nella descrizione della nuova iscrizione ceretana, lo stesso Colonna segnala come la parola sanis`, ad inizio testo, in realtà è stata graffita in un secondo momento, in uno spazio lasciato libero ab origine ma rivelatosi insufficiente, tanto che le ultime due lettere, iota e soprattutto sigma a quattro tratti, risultano addossate al lambda di laris, e non vi è spazio per il punto che serve, nel resto dell’iscrizione, a separare le diverse unità lessicali. È possibile pertanto che la parola non sia completa, e che, malgrado lo scriba abbia tentato di farsi bastare lo spazio lasciato libero, non sia riuscito a scrivere l’ultima lettera della parola, ovvero l’alpha che invece è presente in Ta @.@59. Del ��������������������������������� resto, l’iscrizione manca anche del lambda finale del metronimico cveqna(l). È possibile pertanto che anche la nuova iscrizione da Caere debba essere ricondotta allo stesso paradigma delle forme con [s]acni- parallelamente alle altre forme con [s]ani-, come qui si propone di fare. Non fa difficoltà, invece, che la seconda sibilante in s´acnics´tres´ e s´acnicstres´, entrambi nel Liber linteus, risulti diversa. Ciò, infatti, dipende ovviamente non da una reale differenza fonologica, ma piuttosto da uno scarto proprio della competenza grafica dello scriba etrusco, rilevabile anche in molti altri passi del testo del Liber linteus. Dallo schema così ricostruito si evince che [s]acni solo in due casi non è determinato da un pronome enclitico, e mai quando è declinato in un caso diverso dal nominativo: nei casi obliqui (ma anche all’accusativo) esso è sempre associato ad un pronome, che porta la marca morfologica esprimente il caso stesso, mentre [s]acni non risulta mai sostenere marche morfologiche. Questo è tanto più evidente se si osserva l’unica attestazione di plurale, ovvero sanis`va (Cr 5.2), in cui la marca morfologica del plurale è di nuovo associata al pronome -[sˇ]a; da notare che il referente di sanis`va è sicuramente animato, ma il morfema di plurale è invece quello atteso per gli inanimati: evidentemente il pronome -[sˇ]a, e verosimilmente con

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esso tutti gli altri pronomi, seleziona per il plurale il morfema -va a prescindere dall’animatezza del referente. @ Per quanto riguarda invece l’utilizzo di [s]acni, esso risulta essere sempre impiegato in funzione appositiva, sia nelle iscrizioni funerarie dove il referente è chiaramente animato, sia nelle attestazioni del Liber linteus, dove esso è sempre associato a cilq. Quest’ultime, in particolare, sono state recentemente oggetto di riflessione da parte di Adiego, 2 il quale ha osservato che esse sono riassumibili in quattro prototipi: [s]acnic[s]tre[s] cilq [s], [s]acnicleri cilql, [s]acnicla cilql, [s]acnicn cilq; se si esclude [s]acnicleri cilql, per il quale si sarebbe attesa piuttosto una forma *cilqle, è evidente che in tutti casi si tratta di diverse declinazioni di un unico sintagma [s]acni-ca cilq, in cui la marca morfologica di caso è presente in entrambi gli elementi del sintagma (nel caso di [s]acni con l’ausilio di -ca) e che la testa del sintagma è con tutta evidenza cilq, mentre [s]acni(-ca) ne è inevitabilmente il modificatore in funzione appositiva. Si pone il problema, a questo punto, di stabilire se anche nella Lamina di Santa Marinella la parola mutila sºacnºi º[ abbia funzione appositiva e, in caso affermativo, di che cosa sia apposizione; si è detto sopra di come vi sia la possibilità che essa appartenga allo stesso sintagma di ipal e (eventualmente) di pulunza, ma al riguardo non è possibile esprimere alcun giudizio risolutivo, date le lacune del frammento. Ma anche ammesso che si potesse dimostrare il legame tra ipal e sacni[, si porrebbe il problema di capire quale delle due sia la testa e quale il modificatore, senza dimenticare che potrebbero essere entrambi modificatori di un terzo elemento del sintagma, oggi perduto. Sul piano del significato, poi, permangono le stesse incertezze: la manualistica tradizionale tende a considerare sacni e derivati come afferenti alla sfera semantica del sacro, nel senso di ‘luogo sacro, consacrato, santuario’ o ‘cosa sacra’, 3 ma non sono mancati, anche di recente, tentativi di interpretare tale voce in maniera diversa, senza che nessuno di essi sia risolutivo. Per quanto attiene alla Lamina di Santa Marinella, si può solo osservare che un significato come ‘sacro, cosa sacra’ e simili è del tutto possibile, ma nulla vieta di proporre altre soluzioni, qualora esse tengano conto della varietà di contesti a cui è associata la parola sacni. 4  







Riga 2 ]-i ºnia . tei . aqemeºi ºs`ºcºaºs` . zucuna . za[

Poco si può dire della prima parola, mancante della prima parte; secondo Pallottino è possibile che sia da integrare in scuinia, che compare nella r. 9 sul rovescio 2   Sulla questione si veda, da ultimo, Adiego 2006b.   Adiego 2006a, pp. 209-2@0.   Sulla stessa linea si muove anche Pallottino @966a, p. 294, che traduce con ‘luogo sacro, santuario’. Sull’argomento cfr. anche, da ultimo, Maras 2009, pp. 89-90, che propone un significato (‘puro’ in senso religioso) sostanzialmente in linea con la tradizione. 4   Rix ha proposto di intendere [s]acni(-ca) come ‘confraternita’ e [s]acni(-[š]a) come ‘membro della confraternita’ (Rix @99@, pp. 68@-682); più recentemente, Steinbauer ha messo in discussione l’appartenenza del lemma alla sfera semantica del sacro, proponendo piuttosto una traduzione come ‘Bürger’ (Steinbauer @999, p. 240, nota 2, e p. 462). Un interessante stato della questione su [s]acni, particolarmente in relazione alle formule del Liber linteus, è disponibile in Belfiore 20@0, pp. 67-69 (e si vedano, da ultimi, Belfiore, Van Heems 20@0, pp. @@6-@@8, che però non citano l’attestazione nella Lamina di Santa Marinella). @

3

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(fr. b), anche in base al fatto che, come alla r. 9 è in connessione con aqemeican, qui compare in un passo in cui è presente la forma aqemeis`cas`. @ La particella tei ritorna nel testo altre due volte, ovvero sul diritto, alle rr. 3 e 4 (fr. b); inoltre, alla r. 5 del diritto (fr. a), si trova teº[; quest’ultimo peraltro segue il verbo nunqena, come tei alla r. 4 segue il verbo acasa, lasciando ipotizzare che tei nel testo segua perlopiù forme verbali; tuttavia, non sembra che menatina di r. 3 possa essere inteso come voce verbale, così come la sequenza ]-inia precedentemente studiata è troppo lacunosa per dire alcunché al riguardo. Come già accennato sopra, dal punto di vista morfologico tei sembra essere un locativo in -i da (i)ta; è da rilevare che, nelle forme in cui -ta (e -ca e -[sˇ]a) sono enclitici, il locativo sembra essere espresso per mezzo della terminazione -le; 2 una forma di locativo tei è peraltro congruente con un ablativo tei[s], quale è quello presente nella locuzione tesns´ teis´ ras´nes´, ripetuta due volte nel Cippo di Perugia (Pe 8.4a4-5, 22), e quello qui postulato per il sintagma s´uriseis teis, del Piombo di Magliano. Del pari è poco perspicua la funzione di tei nel testo della Lamina, per la quale si può ipotizzare, senza effettive possibilità di verifica, una funzione di congiunzione (‘su ciò, in ciò, perciò’ o simili), mentre sembra meno probabile un rapporto sintagmatico con ciò che precede o che segue (né ]-inia né aqemeis`cas` sono locativi). La parola aqemeis`cas` è sul piano morfologico una delle più significative di tutto il testo della Lamina. È chiaramente una forma articolata in -ca, come testimonia del resto l’altra forma aqemeican, alla r. 9 del rovescio (fr. b); sono note inoltre le forme analoghe aqumica (ll xi.f2), aqumics´ (Pe 8.4b@2-@3), aqumitn (ll xi.7) e aqmic- (Co 3.@). 3 Sul piano sintagmatico, l’opzione più semplice è che la forma base sia aqemei-: in aqemei-[s]-ca-[s] si avrebbe infatti suffissazione al genitivo sia della voce nominale sia del clitico, mentre in aqemei-ca-n, essendo accusativo, l’unico elemento suffissato è il clitico -ca (tramite -n). 4 Questa ricostruzione pone subito il primo problema, poiché per un clitico quale -ca si sarebbe atteso piuttosto un morfema -la (cfr. [s]acni-c-la). Facchetti ritiene però che vi siano altri casi di genitivo i con i clitici, ovvero munis-tas (Cr 4.4) e puteres-tas` (Vs 2.@); secondo Facchetti, inoltre, riprendendo in parte quanto detto da Rix, la forma base da ricostruire non sarebbe aqemei-, ma aqeme-, poiché il dittongo interno -ei- sarebbe frutto di un condizionamento fonetico da parte di -i- del clitico, ovvero aqemei[s]ca[s] avrebbe origine da *aqeme-[s]-ica-[s], come hamfisca (ll vi.9) da *hamfes-ica e tameresca (Cr 4.4) da *tameras-ica. 5 Sul piano diacronico, invece, non sembrano esservi dubbi sul fatto che aqemei[s]ca[s] e aqemeican siano gli antecedenti tardo-arcaici dei recenti aqumica, aqumitn (accusativo), aqumic[s] (genitivo). Al riguardo è opportuno soffermarsi su due particola 









@   Pallottino @966a, p. 293. Meno probabile, sempre secondo Pallottino, un’integrazione come  [t]inia. È da segnalare, per altro, che la forma scuinia è di incerta lettura, e Rix negli et ne ha proposto la correzione in scumia. 2   Nei sostantivi -le è terminazione di pertinentivo. Per alcuni è risultante da *-la-i: si veda, contra, Facchetti 2002a, pp. 26-27 (e cfr. la discussione dell’argomento al cap. ii.4.@.). 3   È possibile, ma in nessun modo dimostrabile, che siano da considerare affini a questa serie lessicale anche aqeneica della Tabula Capuana (tc @3) e aqeneican di Fa 0.4. 4   Così Pallottino @966a, p. 293, e Pfiffig @968a, p. 53 (cfr. anche Pfiffig @968b, p. @50). 5   Facchetti 2002a, pp. 35-36 (cfr. Rix @984, p. 230).

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rità; in primo luogo, aqumic[s] indicherebbe come nel passaggio da (tardo-)arcaico a recente si sia persa la suffissazione dell’elemento nominale a favore di quella del solo elemento pronominale, che ha quindi il compito di esprimere la funzione morfosintattica della parola nel testo; secondariamente, è interessante osservare lo sviluppo del vocalismo interno (atono) di aqumi- rispetto ad aqemei-: la vocale finale sembra aver terminato il suo processo di monottongazione -ei > -i, prospettato anche dalla ricostruzione Rix-Facchetti. Tale fenomeno sembrerebbe analogo a quello ipotizzabile nel passaggio da te[sˇ]iamei-tale delle Lamine di Pyrgi (Cr 4.4) a te[sˇ]ami-tn delle bende della Mummia di Zagabria (ll xi.5). La vocale interna, originariamente -e-, sembra invece essere stata oggetto di caduta (per effetto della sincope), e successivamente si sarebbe avuto l’inserimento di -u-, evidentemente per ragioni eufoniche (la scelta di -u- potrebbe essere dovuta al condizionamento fonetico dettato da -m- che segue); l’attestazione aqmic- sul Lampadario di Cortona (Co 3.@) sarebbe evidentemente la fase intermedia del processo, dopo la sincope ma prima dell’inserimento di -u-. Per quanto riguarda invece il significato, non vi sono ipotesi risolutive al riguardo; può sembrare scontato il riferimento all’ambito sacrale, data la presenza del termine nel Liber linteus, ma le attestazioni sul Cippo di Perugia e sull’iscrizione di dedica del Lampadario di Cortona sembrerebbero indicare altri ambiti; lo stesso si dica della proposta di Facchetti di intendere aqumi-ca come ‘nobile, generoso’, che risulta non verificabile. @ L’altra parola completa della stringa, zucuna, hapax al momento della scoperta della Lamina, torna ora nell’iscrizione funeraria da Caere, pubblicata di recente da Colonna, 2 già menzionata sopra nella discussione su ipal: qui zucuna è verosimilmente l’oggetto del verbo uqrice, nella frase ipa (‘la stessa’ secondo Colonna, ovvero Ramaqa Spesias, menzionata nella prima frase dell’iscrizione) ve[l]iinaisi uqrice laricesi zucuna; zucuna è pertanto oggetto di un azione passata uqri-, messa in atto nei confronti di Larice Velinas. Un’altra possibile attestazione, secondo Colonna (ma anche secondo Cristofani 3), sarebbe il locativo zucne della Tabula Capuana (tc @4-@5, da *zucuna-i), ma su di esso è da registrare anche la proposta di Facchetti di intenderlo come voce verbale: secondo Facchetti infatti sarebbe riscontrabile in zucne una radice *zuc/zuc- il cui significato si troverebbe nella sfera semantica del ‘dichiarare’. 4 Sicuramente zucuna è un aggettivo in -na, sostantivato, da un termine zucu, attestato finora solo nell’onomastica: 5 zucu ha tutta l’aria di essere un originario participio in -u, come zicu (per zicu), 6 dalla radice zic- ‘scrivere’, in una bilingue in cui ad esso corrisponde il latino Scribonius (Cl @.320).  











2   Cfr. Facchetti 2002a, pp. 9@-92.   ree 7@, 26.   Cristofani @99@, pp. 50, 92-93; così già Pallottino @966a, p. 294. Per Pfiffig, invece, zucuna starebbe per il lat. realis, essendo *zuc/zuc equivalente al lat. res (Pfiffig @968a, p. 54). 4   Facchetti 2002a, p. @03; in base a ciò Facchetti traduce zuc-i del Piombo di Magliano come ‘nei termini della dichiarazione’. 5   La voce onomastica zucu è attestata in Cl @.@6@9 (lettura data come «estremamente incerta» in Benelli @998, p. 234), @.@769, @.@770, @.2@73, senza contare le varianti al genitivo zucus (Fa 2.@5, Vs @.@36) e zucus´ (Cl @.@77@, Pe @.965); da segnalare inoltre l’arcaico zuqu (Ve 3.29) e il gentilizio zucni (Cl @.@767). 6   Il nome proprio zicu è attestato in Cl @.3@8, @.3@9, @.@765, Pe @.@04@, Co @.@, @.25. @

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Per quanto riguarda il significato, l’unica proposta di rilievo, per quanto non verificabile, è la già citata ipotesi di Facchetti (*zuc- = ‘dichiarare’); Colonna preferisce sospendere il giudizio sull’argomento, limitandosi ad affermare che verosimilmente il significato andrà ricercato nella sfera del sacro. Poco si può dire sul frammento iniziale di parola che chiude la sequenza: è solo un’ipotesi, peraltro già formulata da Pfiffig, @ che si tratti del numerale zal ‘due’, che potrebbe essere riferito al precedente zucuna, che si configurerebbe come realtà numerabile, così da individuare un possibile sintagma aqemei[s]ca[s] zucuna zal ‘due zucuna dell’aqemeica*’.  

]-i ºtaºlte . sºacºnitalte . s`icut º-[

La parte conservata della prima parola è identica alla parte finale della seconda: è probabile che vi sia un rapporto in termini sintattici, ma è da escludere, come già evidenzia Pallottino, che la seconda sia la semplice iterazione della prima; Pallottino propone di confrontare la struttura di sacni-ta-l-te con gli analoghi ‘locativi di genitivi’ tarcna-l-qi (at @.@00), velsna-l-qi (Vs 6.@9) e uni-al-qi (tc @3), sostenendo che -te rispetto a -qi abbia una valenza ‘aggettivale’, riscontrabile anche nella terminazione degli etnici, nel senso di ‘colui che è in’ (nel caso di sacnitalte, ‘colui che è nel luogo sacro (o nel santuario)’). 2 La proposta di Pallottino è evidentemente da rigettare, in primo luogo per l’assenza di un rapporto riconosciuto tra la posposizione -q(i)/t(i) (ma anche -te) e la terminazione tipica degli etnici -te/qe, ma anche perché la prospettiva del ‘locativo su genitivo’, che fino a pochi anni fa era generalmente accettata da tutti, è oggi sottoposta a verifica. 3 Non sembrano esservi dubbi sul fatto che la giusta segmentazione sia sacni-ta-l-te, e che -te finale debba essere riconosciuta come posposizione locativa; la terminazione ‘articolata’ dell’elemento nominale può essere intesa quindi in due modi diversi: o come genitivo (da *sacni-ta-la) o come caso in -le, alternativamente inteso come ‘pertinentivo’ o locativo (da *sacni-ta-le). Entrambe le opzioni sono possibili, ed è evidente che la selezione di uno dei due casi comporta anche una diversa funzione sintattica: purtroppo, allo stato attuale non è dato sapere su quali variabili si fondi tale differenza. Quale che sia la funzione di sacnitalte, si pone il problema di stabilire il rapporto con la parola che precede, che ad onta della frammentarietà condivide con sacnitalte la stessa terminazione, e quindi, verosimilmente, la stessa posizione sintattica; al riguardo si possono formulare varie ipotesi, ma nessuna sembra essere preferibile rispetto alle altre: le due parole potrebbero appartenere allo stesso sintagma, dove l’una è testa e l’altra modificatore, o entrambe potrebbero essere modificatori di un terzo elemento non individuabile; l’appartenenza ad uno stesso  



  Cfr. Pfiffig @968a, p. 54.   Pallottino @966a, p. 294. Pfiffig traduce invece con ‘des/der Geweihten, Geheiligten’ (Pfiffig @968a, p. 59). 3   Ancora in Rix @984, p. 224 è accettata la vulgata sui «locativi su genitivi», ma nel recente Rix 2004, p. 953, la lettura proposta è di costruzioni strutturalmente affini ai pertinentivi (cfr. anche il cap. ii.4.@.); sull’argomento si veda inoltre la discussione in Van Heems 2006. @

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sintagma sembra però in contrasto con la ripetizione della posposizione in -te, che in quanto tale dovrebbe caratterizzare il suo sintagma nel suo complesso (come in s´acnicstres´ cilqs ‘da parte della rocca [s]acni-’); la considerazione delle attestazioni di [s]acni- rende però prevedibile il suo valore di aggettivo, a meno di non ipotizzare una sostantivazione. @ In tal caso, si avrebbero due sintagmi omofunzionali ma indipendenti, correlati per asindeto: ]-italte e sacnitalte. 2 Sull’ultima parola della sequenza, mutila, non sono possibili molti ragionamenti, dal momento che non vi sono confronti apprezzabili nella documentazione; se è giusta l’ipotesi, accennata in nota, di riconoscere nel tau finale la prima lettera del clitico -ta (magari qui ulteriormente suffissato), si aprirebbe la possibilità di una segmentazione s`icu-t[a?], dove *s`icu sarebbe da analizzare come voce in -u da una radice *s`ic-, formalmente analoga a zic- ‘scrivere’ e *zuc-. 3  





Riga 3 ]aº . icecin . qezi . i ºpe[--(-)] . uºnºu . rapa . cum[

Dopo una parola di cui rimane soltanto parte dell’alpha finale, si trova icecin, il cui confronto con ica sembra obbligato, per quanto permangono forti incertezze sul modo in cui si strutturi questo rapporto. 4 Se infatti può essere plausibile che si tratti di un raddoppiamento, fenomeno già presente in ananc (ll x.@@) e ininc (ll xi.f3), 5 non è chiaro se -(i)n finale sia effettivamente il morfema di accusativo (come peraltro già ipotizzato per inpein, 6 che sembrerebbe trovarsi nelle stesse condizioni morfologiche di icecin). Ciò che segue, qezi, è il primo vero elemento lessicale a fornire concretamente un confronto tra testo della Lamina e ambito sacrale; sono note infatti molte attestazioni di questa radice, tutte dal Liber linteus, 7 dove è chiara la sua valenza come forma verbale (qez-eri, qez-in, qez-ince e qez-ine); sul piano del significato, è ormai generalmente accettata la traduzione come ‘sacrificare’; 8 qui si avrebbe la forma assoluta della radice, senza suffissazioni di tipo grammaticale, come mostra il confronto con le altre attestazioni. In genere la radice verbale pura sembra utilizzata  









@   L’altra possibilità è che sacnitalte sia in funzione appositiva della parola seguente, che andrebbe ricostruita quindi in s`icut[ale], o s`icut[ala], o simili. 2   Facchetti ha proposto che due sintagmi in locativo correlati possano significare ‘tra il ... e il...’ (cfr. ad esempio Facchetti 2002a, p. @3). 3   Pallottino confronta tale parola con s´icaiei della Tabula Capuana (tc 26), che compare «in contesti enumeranti specifiche e tecniche menzioni di offerte o di vittime sacrificali» (Pallottino @966a, p. 294). Pfiffig ipotizza una relazione con sec ‘figlia’ (Pfiffig @968a, pp. 59-60). Da segnalare anche la sequenza 4 s´ecuilt di Vs 0.35.   Cfr. Pallottino @966a, p. 294. 5   Si veda al riguardo Pfiffig @968a, p. 6@, in cui icecin è considerato l’accusativo di un raddoppiamento enfatico di ica, da *icai-ican. 6   Ad esempio in Facchetti 2002a, p. 67; Rix 2004, pp. 955-956. 7   Oltre a qezi (anche in ll iii.@5), sono attestate le forme qezeri in ll vi.9, xi.@4; qezeric in ll vi.@@, viii.4; qezin in ll viii.@6; qezince in ll iv.3; ix.2, 9; qezine in ll iii.@3; iv.5, @8; viii.@3. Da tenere apparentemente disgiunte, invece, le leggende monetali qezi (nu n.@0) e qezle (nu n.@@); per quest’ultima, peraltro, Maras ha proposto la nuova lettura leqez (Maras 200@-2003). 8   Pallottino si limita a registrare il fatto che si tratta di una «azione del compiere una cerimonia sacrificale» (Pallottino @966a, p. 294), ma già Pfiffig propone con convinzione la traduzione ‘schlachten’ (Pfiffig @968a, pp. 6@-63). Si veda, più recentemente, Wylin 2000, p. 88, e Facchetti 2000b, p. 246.

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in etrusco per l’imperativo, tuttavia recentemente sono stati ipotizzati altri usi, seppure meno documentati. @ La possibilità che in qezi (ma anche capi, heci ecc.) sia da riconoscere un allomorfo -i che nelle attestazioni dell’imperativo alterni con -Ø (assenza di marca morfologica), è stata recentemente esplorata da Wylin, il quale ha però concluso che sembra preferibile considerare -i finale parte integrante della radice verbale, come ad esempio potrebbe dimostrare il probabile congiuntivo heci-a di r. @0 del rovescio (fr. a). 2 La parola successiva, ipe[, è mancante della seconda parte, ma considerando lo spazio della lacuna, e il fatto che subito dopo la lacuna stessa è visibile il punto di delimitazione, la parola dovrebbe essere completata da due, al massimo tre lettere: l’opzione più immediata è che si tratti di ipe[ri], che ritorna anche alla r. @0 del rovescio (fr. a): iperi sembra essere il pronome ipa, già incontrato sopra, al locativo e seguito dalla posposizione -ri, esprimente il senso di ‘per, a favore di’. Da notare che anche in questo caso ipa non sembra seguire l’attesa declinazione per i pronomi: come sopra si trova il genitivo ipa-l (di fronte ad un atteso *ipa-la), qui si trova il locativo con posposizione iperi (da *ipa-i-ri, per un atteso *ipa-le-ri). La breve parola unu, invece, è un hapax, per quanto intuitivamente si possa proporre un legame con un e le forme affini del Liber linteus. 3 Al riguardo è nota la proposta, formulata originariamente da Olzscha e ripresa alcuni anni fa da Rix, 4 di leggere in queste forme varie attestazioni del pronome personale etrusco di seconda persona: questo perché, generalmente, soprattutto la parola un ricorre in formule tipo un mlac nunqen, tradotte con ‘te buono invoco’; alcune difficoltà, anche nell’inserire le varie forme attestate in un paradigma coerente, hanno poi spinto a sottoporre a verifica quest’ipotesi, ma anche le proposte alternative non sono del tutto soddisfacenti. 5 È invece probabile un rapporto tra unu e la voce unus`e presente sulla Lamina alla r. 9 del rovescio (fr. a), per quanto, una volta di più, si deve riconoscere che a livello morfologico non sono chiari i termini di tale associazione, come non sono chiari i rapporti con la serie di un presente sul Liber linteus: non è escluso, infine, che si tratti di due parole diverse. L’analisi delle parole adiacenti, poi, non fornisce alcun elemento utile al riguardo: la parola rapa presenta due sole altre attestazioni, sulla Tabula Capuana (tc 24, 3@); dal contesto di tc 24 (zal rapa ‘due rapa’) si evince solo la numerabilità dell’oggetto rapa, così come la sua appartenenza alla categoria grammaticale dei sostantivi non animati, data la mancanza del suffisso di plurale in presenza di un numerale.  









2   Cfr. Facchetti 2002a, pp. 98-99.   Cfr. Wylin 2000, pp. @22-@24.   Sulle bende della Mummia di Zagabria sono attestati un (ll iii.@9; iv.@5; viii.f3; ix.7, @9), une (ll viii.@@, x.f6, nonché in Vs 2.40: turis mi une ame), unuq (ll x.@3), uncva (ll xii.4, 6); gli indici degli et riportano anche la forma unuc, attestata in ll v.@@ e v.20, ma in entrambi i casi la lettura più probabile è unum, cfr. Belfiore 20@0, p. @@@, a cui si rimanda anche per una sintesi sugli studi riguardanti la serie in discussione. Evidentemente da scartare qualsiasi rapporto con il teonimo uni (distinzione già operata in Pallottino @966a, p. 295 e Pfiffig @968a, pp. 63-64: per quest’ultimo un-u rimanderebbe ad una radice verbale dal significato di ‘finire, completare’ ecc.) e con i vari gentilizi unas, unata ecc., per i quali si rimanda agli indici di et. 4   Rix @99@. Si veda inoltre Facchetti 2000b, p. 246, dove ipe[ri] unu è tradotto con ‘a favore del quale tu’. 5   Wylin traduce la stessa frase con il lat. eum lita, dove litare equivale a mlac nunqen nel senso di ‘placare con buoni presagi’, e un è individuato come pronome di terza persona (Wylin 2000, pp. 2@8-229). @

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Ancor meno si può dire su ciò che rimane della parola successiva, cum[, per la quale non vi sono confronti apprezzabili. ]um . mºleaºmº[(-)] . menatina . tei º [.] uº-(-)n-[

Della parte finale della parola ad inizio sequenza, ]um, si può dire solo che potrebbe essere la nota congiunzione enclitica, senza dimenticare peraltro che l’etrusco attesta varie voci lessicali terminanti in -um. È da aggiungere del resto che tutto il passo in oggetto presenta difficoltà di lettura; la parola successiva è stata ricostruita come mleam[, tuttavia permangono su di essa varie incertezze, a partire dalla terminazione, vale a dire se sia completa così com’è o se piuttosto manchi della lettera finale (difficilmente può trattarsi di più di una lettera). Oltre a ciò, pur ammettendo che la lettura proposta sia esatta, nondimeno la sequenza mleam[ non fornisce spunti per un’analisi linguistica. In etrusco, della sequenza iniziale mle-, è nota solo un’altra attestazione arcaica, di per sé non perspicua: mlerusi di Fa 6.@. Ancor meno probabile sembra il rapporto con mles´ia* ‘collina, altura (?)’, testimoniata dalla Tabula Cortonensis, dove la parola compare al locativo con posposizione nella locuzione qui spanqi mles´iêqic ‘qui, nel piano e sulla collina (?)’. @ Al contrario, è piuttosto ben documentata la sequenza iniziale mla-, la quale rimanda ovviamente a tutta la casistica relativa a mlac ‘buono’. Partendo da una radice mla- (eruibile da mla-c, ma anche dal verbo mla-q-ce del Piombo di Magliano, av 4.@), e ammettendo che la sequenza mleam sia completa, quest’ultima si potrebbe collegare a mla- immaginando una suffissazione tramite -ia con -m congiunzione, per cui *mla-ia(-m) > mleam; è evidente però che non vi sono ragioni esterne che rendano in qualche modo necessaria questa soluzione. A differenza di mleam[, la parola successiva, menatina, mostra confini ben definiti; tuttavia, anche in questo caso, non è possibile ottenere un’analisi linguistica esaustiva. È possibile che la parola rimandi ad una serie ben attestata in etrusco riferibile alla radice men-, già affrontata nella discussione sul Piombo di Magliano, e per la quale la traduzione corrente insiste nell’area semantica del ‘fare’ o del ‘donare’. 2 Meno perspicua è la collocazione morfologica: se è ovvio il riconoscimento del morfema derivazionale -na, può sembrare meno chiaro ciò che precede tale suffisso. A questo proposito può essere d’aiuto il confronto con una voce della Tabula Cortonensis, celtinêi (se questa, come pare, è la giusta segmentazione), 3 locativo che rimanda ad un nominativo celtina*: ora, celtina* è chiaramente una derivazione da cel ‘terra’, suffissata primariamente per mezzo di -ti, morfema aggettivale già riconosciuto altrove, ad esempio in clan-ti ‘figlio adottivo’ rispetto a clan ‘figlio’, o span-ti ‘piatto’ rispetto a span* ‘pianura’, ma anche in pacana-ti ‘bacchico’, e forse in purts´vavc-ti ‘relativo alla magistratura del *purt[sˇ]-’ ecc.; 4 cel-ti* (per il quale si può ipotizzare  







  Cfr. Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 92-94.   Cfr. già Pallottino @966a, p. 295; Pfiffig @968a, pp. 66-67 (che però tenta di riconoscere in -til’analoga posposizione locativa etrusca). 3   Cfr. Agostiniani, Nicosia 2000, pp. @@2-@@3; cfr. anche Maggiani 200@, p. @05; Rix 2002, p. 79, ecc. 4   Le attestazioni di clan e clanti sono innumerevoli, e per tutte si rimanda agli indici degli et; la voce spanti è attestata in Cr 2.@, 2.2, 2.4, nonché in Cr 2.3 (come s`panti); span* è eruibile dal locativo con posposizione spanqi della Tabula Cortonensis, già trattato sopra; pacanati è in Ta @.@84; purts´vavcti è in Vc @.94. @

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il significato di ‘terreno’, sia come aggettivo contrario a ‘celeste’, sia nel suo uso corrente sostantivato) è poi ulteriormente suffissata in -na; il significato, tuttavia, sembra essere sempre analogo a quello di ‘terreno’, se è vero che la sequenza celtinêi tiss´ tarsminas´s´ dovrebbe significare qualcosa come ‘nel territorio del lago Trasimeno’. Ritornando a menatina, la giusta segmentazione potrebbe essere quindi mena-ti-na, e il significato potrebbe essere qualcosa come ‘cosa fatta’ o ‘donato, donazione’. @ La sequenza prosegue quindi con tei, per il quale si rimanda a quanto detto sopra, limitandosi qui ad ipotizzare una funzione analoga, e con una serie di lettere scarsamente o per niente leggibili (forse quattro o cinque), tra le quali si riconosce un ny e forse un ypsilon: troppo poco per qualsiasi tipo di analisi.  

Riga 4 ]-t ºipas` . rºi ºn[-------(-)]ver . mulveni º[

La prima parte si apre con una sequenza mutila dell’inizio, ]-t ºipas`. Rix, nell’edizione degli et (Cr 4.@0), legge e scompone la sequenza in ]ut ipas`, dove riconosce il genitivo in -[s] del pronome ipa; 2 effettivamente il genitivo ipa-[s] è attestato altrove (at 3.3, Fa 0.4), tuttavia è singolare che nello stesso testo siano presenti i due allomorfi di genitivo etrusco associati alla stessa parola; si aggiunga inoltre che la terminazione ]ut (o ]-t, nella lettura qui proposta) non sembra trovare immediati riscontri nella documentazione etrusca. Non sembra quindi del tutto fuori luogo tentare anche, parallelamente all’ipotesi di Rix, di analizzare la sequenza nel suo complesso, senza scomposizioni. Pfiffig, ad esempio, si chiede se non si tratti della terminazione di una voce verbale in -a[s]: 3 è possibile, benché non risultino note radici verbali terminanti in -p- disponibili per un confronto. Subito dopo ]-t ºipas` si trova la sequenza, anch’essa mutila, rºi ºn[, dopo la quale si apre una lacuna qui quantificata in circa 7-8 lettere. Per rin- (se questa è la lettura giusta) i confronti più diretti sono con gli oscuri rinuq (ll v.@8) e rinus´ (ll xi.f4), già menzionati da Pallottino; 4 senza dimenticare che la sequenza sembra tornare, in una situazione ugualmente lacunosa, alla r. 9 del rovescio (fr. b: ri ºnº-[--]vº). Giannecchini 5 ha proposto di intendere la radice lessicale *rin-/ren- affine al lat. manus, anche nei suoi significati traslati o metaforici: così, per Facchetti, che ha ripreso l’ipotesi di Giannecchini, reneqi del Cippo di Perugia (Pe 8.4b7) sarebbe ‘a portata di mano, a disposizione’ (< *ren-na-i-qi?); rumitrineqi di Vs @.@79 sarebbe un composto significante ‘nella battaglia romana’ (< *rumit(e) ‘romano’ e *rin-na-i-qi ‘manus, schiera, battaglia’): le voci renine (as @.@30) e renqn(e) (as @.462) sarebbero delle forme verbali con forse il senso di ‘afferrare’. 6 Lo stesso Facchetti applica l’ipotesi alla sequenza in  









@   Una formazione analoga potrebbe essere hutilatina delle Lamine di Pyrgi (Cr 4.3), ma varie difficoltà, sia nella segmentazione sia nell’interpretazione del testo, non permettono di aggiungere alcunché a 2 quanto detto sopra.   Così anche Facchetti 2000b, p. 246. 3   Pfiffig @968a, pp. 67-68: la lettura seguita da Pfiffig è però ]vipas`. 4   Pallottino @966a, p. 295; Pfiffig, che in base alle attestazioni sul Liber linteus legge rinu[, pensa al nome di un luogo in cui sono officiati i rituali prescritti (Pfiffig @968a, pp. 68-69). Sull’argomento si 5 veda anche Belfiore 20@0, pp. @27-@28.   Giannecchini @996, p. 298. 6   Cfr. Facchetti 2000a, p. 50, nota 29@; Facchetti 2000b, p. 75. Cfr. già Giannecchini @996, p. 298, nota 43, il quale traduce ‘nelle cui mani --- cver ha/è stato consegnato’.

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discussione, letta ipas rinu[va .] cver mulveni e tradotta ‘le mani del quale presentino l’omaggio sacro’. @ Qui evidentemente Facchetti segue l’idea che ipa sia un relativo; è da notare peraltro, come si è visto sopra, che la lacuna dopo rin(u) sembrerebbe contenere più lettere di quelle ricostruite dall’integrazione [va .], che mantiene una sua validità solo se si accetta che dopo di essa doveva trovarsi un’altra parola, lunga non più di 4-5 lettere, o anche, a livello teorico, la prima parte della parola terminante in ]ver: la lettura di cver, infatti, non è del tutto certa, seppure risulti più che probabile per la presenza subito dopo della voce verbale mulveni[ (anch’essa non è sicuro se sia completa o se debba essere integrata). Quanto detto permette di introdurre la discussione sulla seconda parte della sequenza, quella successiva alla lacuna dopo rºinº [. Come detto sopra, l’opzione [c]ver sembra essere preferibile, considerata la presenza di mulveni[. 2 Su cver, ampiamente documentato nell’epigrafia soprattutto di carattere dedicatorio, 3 c’è ormai largo consenso nell’inserirlo nella sfera semantica del ‘dono’, 4 per quanto vi siano ancora incertezze sia su alcune attestazioni con cvera, che risultano problematiche sul piano della derivazione da cver oltre che sulla definizione del referente, sia su una più precisa delimitazione del campo semantico di riferimento. 5 Per quanto riguarda mulveni[, invece, non vi sono problemi ad individuarne la serie lessicale di appartenenza, che è ovviamente quella di uno dei verbi etruschi più diffusi per esprimere l’azione del ‘donare’. Qualche problema è posto dal fatto che la sequenza potrebbe non essere completa, per quanto una forma mulveni sia già nota, proprio dal Piombo di Magliano, seppur in un contesto non perspicuo; come conseguenza di ciò, non è possibile integrare con sicurezza mulveni[ (se necessario), e individuarne la precisa posizione nel paradigma verbale di riferimento. Su mulveni- e forme affini la documentazione è molto ampia, 6 e altrettanto ampia  











  Facchetti 2000b, p. 246.   Pallottino ritiene la lettura del gamma di [c]ver «incertissima», e di conseguenza mostra molta cautela, tuttavia non può negare che la presenza di cver, al quale assegna il significato del lat. donum, in questo contesto sia quanto meno probabile (Pallottino @966a, p. 295). 3   La forma cver è attestata in Ta 3.6, 3.7, ah 3.3, 3.4, Po 3.@ (cve[r]), Cl 3.5, Co 3.8, oa 3.7; ree 56, 3@ (cve[r]); ree 56, 82, nonché nell’epitaffio di Larqi Cilnei (cfr. Maggiani @989a, p. @629; in Pe 4.4, invece, è completamente di congettura); cvera è attestato in Vs 4.8, Cl 3.7, oa 3.6, Cr S.2. Su cver si veda, da ultimo, Maras 2009, pp. 86-87. 4   Pfiffig non traduce cver come ‘dono’, ma come ‘Knabe’, recuperando un’ipotesi precedente, allora fondata su basi (pseudo)etimologiche, ma che secondo Pfiffig sarebbe meritevole di attenzione dal momento che la parola cver sarebbe associata spesso a immagini di giovinetti: da questa scelta ermeneutica dipende gran parte della sua interpretazione della Lamina di Santa Marinella (cfr. Pfiffig @968a, pp. 69-73; contra già Olschka @969, p. 3@5). 5   Roncalli, ad esempio, sostiene che il significato di cver/cvera sia equivalente al greco a[galma nel senso di ‘dono consacrato, ornamento’ (Roncalli @983); Colonna, invece, tende a tradurre cver con ‘oggetto sacro’, e osserva che cvera dovrebbe essere un derivato in -ra da cver (< *cver-ra, cfr. Colonna @983b, pp. @47-@53). L’idea di Roncalli è messa in dubbio da Benelli, che osserva come il significato di ‘oggetto prezioso’ per cver stride nel caso dell’iscrizione ree 56, 82, posta su un oggetto di valore modesto. 6   Oltre al già citato mulveni del Piombo di Magliano (av 4.@) sono attestati mulvenice (Vc 3.7), mulvenike  (Cl 2.3), mulvanice (Ve 3.6, 3.8, 3.@2, 3.@4, 3.@5, 3.@8, 3.@9, 3.2@, 3.22; Cr 3.@@, 3.@5; Vs 3.@; ree 59, 22), mulvanike (Ru 3.@), mulvannice (Cr 3.@4), mulvenas (Vs @.43), mulvenke (Pa 3.2), mulvenece (Ve 3.20; Vc 3.3), mulveneke (ob 3.@), mulvunuke (Vs 3.2, 3.3), mulu (tc 5, 6, @8; La 3.@; Fa 3.2; Cr 3.@0, 3.@2, 3.@3, 3.@6 [anche ree 57, 44], 3.@8, 3.@9; at 3.@; Vc 3.2; Vn 0.@; oa 3.@, 3.2; ree 60, @9; ree 65-68, 84), muluanic(e) (Cr 3.3), @

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è la mole di pubblicazioni e interventi sull’argomento. La controversia più recente riguarda la segmentazione della base verbale muluveni-, che per Wylin sarebbe formato sul nome verbale mulu e conterrebbe un morfema -n- dal valore causativo (ma altrove può indicare diatesi passiva), per cui il significato di muluvenice sarebbe ‘ha fatto eseguire una donazione, ha fatto donare’ e simili; @ contro tale impostazione si è espressa Valentina Belfiore, che ha osservato come, in base a dati statistici, la forma originaria dovrebbe essere mulu-va-ni- (muluveni- ne sarebbe una variante successiva, originata dall’oscillazione delle vocali intermedie), dove -va può essere formante aggettivale, mentre -ni poteva effettivamente essere morfema causativo, ma nel caso di muluvani- verosimilmente avrebbe perso il suo valore in assenza di un’opposizione con una radice analoga ma priva dello stesso morfema (qualcosa come *muluva-ce, non attestato). 2 Tornando all’attestazione della Lamina di Santa Marinella, mulveni[ può essere intesa in due modi: se non completa, essa è certamente la radice di un verbo finito, per cui l’integrazione più ovvia sarebbe mulveni[ce], per quanto un preterito attivo, generalmente associato a contesti di dedica, non troverebbe immediata collocazione nella struttura del testo della Lamina; al contrario, se la forma è completa così com’è, l’ipotesi primaria è considerare mulveni come una semplice radice verbale, e quindi stabilire per essa una funzione di imperativo: ‘fai dono, dona!’. Quale che sia la forma corretta del verbo e la sua qualificazione grammaticale, sembra ovvio che l’oggetto della dedica, se la lettura è giusta, debba essere proprio [c]ver; il quale, non è da escludere, potrebbe salire al rango di soggetto grammaticale della frase, qualora la voce verbale dovesse essere integrata come passivo, del tipo mulveni[ ce]. 3  





]-uº-(-)uº-[(-) . ]helucu . acasa . tei . luru-[

La prima parte presenta difficoltà di lettura insormontabili, e tra lacune, lettere illeggibili o scarsamente leggibili (pare di riconoscere due ypsilon) il segmento perso dovrebbe interessare circa 5-7 lettere. La parola successiva, helucu, malgrado l’assenza del punto di divisione ad inizio sequenza, sembra sicura nei suoi confini, dal momento che heta, che indica l’aspirazione, si trova generalmente ad inizio parola. 4 Tale parola presenta confronti sia per quanto riguarda la collocazione morfologica, sia in termini di paradigma lessi 

muluvana (at 3.2), muluvanece (Ve 3.@@), muluvaneke (Vn @.@), muluvanice (Ve 3.2 (?), 3.5, 3.9, 3.@3 (?), 3.@6, 3.@7 (?), 3.23, 3.24 (?), 3.27 (?), 3.44; Cr 3.@, 3.9, 3.20; Vc 3.@; Vt 3.@; oa 3.3; ree 64, @02; ree 70, 5@-52), muluvanike (Cr 3.2 (?); Ru 3.2; as 3.@, 3.2; Cl 3.@), muluvan[ (ree 73, 5@), muluvene (Vc 3.4), muluveneke (Vt @.85; Cl 3.2), muluvenice (Ve 3.7; Vc 3.5), mulevene (Cl @.946), mulenike (Vt @.@54), mulunice (Ve 3.46), mulana (Cr 3.23), muluvunike (Martelli @992). 2   Cfr. ad esempio Wylin 2000, p. @20.   Belfiore 200@, pp. 234-237.   Esiste effettivamente un’attestazione muluanic(e) in Cr 3.3, ma il contesto è troppo oscuro per ottenerne alcunché (cfr. Agostiniani @982, p. 82; si veda comunque, per un tentativo di analisi, Wylin 2000, p. @44, nota 344, e p. 2@2). 4   I casi devianti rispetto alla norma sono in genere motivati: o errori, come in cahatial per l’atteso cafatial in Pe @.3@3, o altri usi, ad esempio nel caso del digamma arcaico hv/vh, utilizzato per segnare /f/, poi sostituito dal segno ‘a 8’. @

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cale: la terminazione -cu sembra associata principalmente a temi verbali, e sembra indicare dei participi passati, spesso sostantivati, @ come aliqu (Fa 3.@, Cr 3.4, 3.5, 3.6, 3.7, 3.8, at 0.@), zinaku (Fs 6.@) cericu (Ta @.@82) su cui è poi costruito il preterito attivo cericunce ‘fece costruire’ (Cr 5.2, 5.3, Ta @.@53, @.@59, Ru 5.@), più difficilmente hatrencu (Vc @.5, @.8, @.@0, @.47, @.49, @.50, @.53, @.55, @.58, @.6@, @.69, @.@03); ad essi andrà forse aggiunto ilucu/ilacu*, come già aveva fatto Pallottino, 2 se l’analisi di ila-ce del Piombo di Magliano (av 4.@) quale preterito passivo, qui presentata, coglie effettivamente nel segno. Sul piano del significato, i confronti sono perlopiù con helu del Cippo di Perugia (Pe 8.4a2@) e la voce hel[s], spesso in relazione sintagmatica con atr[sˇ] nelle iscrizioni funerarie perlopiù di Vulci. 3 Pfiffig ha proposto per questa serie il significato di ‘eigen’, ovvero ‘proprio’, vale a dire un dimostrativo che all’occorrenza può diventare pronome di terza persona: 4 tale ipotesi è stata recuperata recentemente da Facchetti, che l’ha integrata considerando affini le attestazioni con hil e derivati, 5 sottoponendo il tutto al vaglio delle nuove acquisizioni in campo ermeneutico; 6 secondo Facchetti helu del Cippo Perugino rappresenta un ampliamento di hel* ‘proprio’ per mezzo del morfema aggettivale -u; helucu sembra costruito su helu, benché, ammettendo che le cose stiano così, si avrebbe l’agglutinazione di un morfema -cu, generalmente considerato di participio passato, su un morfema anch’esso di participio passato, ovvero -u; peraltro, se hel- effettivamente significa ‘proprio’, non è da escludere a priori che esso possa fungere da radice verbale, nel senso di ‘fare proprio’ o simili, per quanto nel concreto non vi sono indizi che permettano di sostenere tale ipotesi. 7 Su acasa vi sono maggiori certezze: essa sembra con tutta evidenza una voce verbale. Al riguardo, vi sono due possibilità di analisi: che essa sia un participio in -as(a) 8 da una radice verbale ac-, ‘fare’ (cfr. ac-il = lat. opus), o un congiuntivo in -a da una radice acas-, attestata, tra gli altri, dal preterito acasce, contenuto nell’iscrizione di Laris Pulenas nella sequenza an cn zic neqs´rac acasce (Ta @.@7) ‘il  















  Per un tentativo di analisi della desinenza si veda Wylin 2000, pp. @0@, @06.   Pallottino @966a, p. 295. 3   Sono attestati hels (Vc @.@8, @.2@, @.57, tutti con il sintagma hels atrs´, as @.87), hels´ (Vc @.98: hels´ atrs´), helsc (Vc @.@6, @.32, @.48: helsc atrs´, @.82); da menzionare, inoltre, i gentilizi helusni (Cl @.69@, @.692, @.@789, @.475, @.472), helsci (Pe @.@08@), hel (Ta @.35), i gentilizi hele (Cl @.200, @.202, @.203, @.204, @.@033, @.@778, @.@779, @.@78@, @.@787) ed helei (as @.257). 4   Pfiffig @968a, pp. 74-76 (già in Pfiffig @96@, p. @43, originariamente da un’idea di Torp). 5   La forma hil si trova in Fs 8.2, 8.3; si ha inoltre hilar (ll xi.f5, xii.@3; as @.253; Cl 8.5), hilare (ll iii.3, vii.@4), hilarquna (ll xii.5, 6, 8), hilarqune (ll xii.3), hilsc (Vs @.@80), hilcvetra (ll vi.2); da segnalare infine il nome proprio hilarunia (Cl @.@8@6, @.@8@7). 6   Si veda Facchetti 2000a, pp. 29-30, nota @39; Facchetti 2002a, pp. 54-55; Facchetti 2002c, pp. 23@-233. 7   Facchetti traduce helucu acasa con ‘(che tu) ti faccia proprio’ (Facchetti 2000b, p. 246). 8   È stato osservato (cfr. Wylin 2000, pp. 78-83) che non vi è un criterio preciso di selezione della variante con -a del morfema di participio rispetto a quella priva di -a: le due possibilità sono quindi da considerare, fino a prova contraria, allomorfi. Il preterito acasce, oltre che dall’epitaffio di Pulenas (Ta @.@7), è noto anche dall’iscrizione oa 6.@ e forse da Ve 6.4 (akasce[ ); la forma sincopata del preterito dovrebbe essere, secondo Wylin, aks´ke di Ad 6.@; da menzionare anche ree 64, 97 (ak[asce]), da Veio. @

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quale questo scritto aruspicino fece’. @ Pfiffig ha tentato di unire le due vie, scomponendo ulteriormente il tema acas- (in acasce) in ac-as, dove -as sarebbe il morfema di participio, nel senso letterale di ‘machen seiend’, qualcosa come ‘fare, rendere essente’. 2 Wylin, invece, ritiene che anche le forme acas e acasa debbano essere ricondotte ad un’unica radice acas-; in tal caso, quando si trova acas esso fungerebbe da imperativo, quando c’è acas-a esso è un congiuntivo. Il tema acas, a sua volta, dovrebbe essere ulteriormente scomposto in ac-(a)s, ovvero la radice ac- già menzionata, indicante perlopiù ‘fare’, ulteriormente definita da un morfema -s- (-a- che precede sarebbe vocale di appoggio), per il quale Wylin ipotizza un valore di intensivo. 3 Lo stesso Wylin deve riconoscere che solo un’eventuale attestazione di *ac-ce permetterebbe di approfondire la questione, stabilendo un confronto semantico e morfologico risolutivo. Per quanto riguarda acasa della Lamina, non sembrano esservi a questo punto elementi utili a stabilire se sia participio in -as(a) da ac- o congiuntivo in -a da acas-: l’unica considerazione possibile è che nella seconda ipotesi si ricomporrebbe la coppia congiuntivo + tei che sembra già presente nel caso di nunqena te[i] alla r. 5 del diritto (fr. a), se davvero l’integrazione te[i] è giusta: inutile dire che si tratta di ben poca cosa per rendere effettivamente preferibile una delle due opzioni a scapito dell’altra. Dopo il già menzionato tei la sequenza si chiude con una parola mancante della parte finale, luru-[; come si è visto, secondo Pallottino e Rix (Cr 4.@04) l’ultima lettera sarebbe un sigma a quattro tratti, e secondo lo stesso Rix la parola sarebbe da considerarsi completa. Il confronto è chiaramente con le attestazioni già menzionate per lursq del Piombo di Magliano, che si è visto potrebbe qualificare in termini spazio-temporali il giorno (tins) di cui si parla nella frase del Piombo che comprende le due parole; lur- torna, sempre sul Piombo di Magliano, anche nella sequenza lurcac, in un contesto purtroppo non chiaro, oltre che in lurs-l (oi 0.2@); negli epiteti divini lurmi-t-la (oa 3.6) e lurmi-c-la (ree 56, 82); nel locativo lur-i, attestato più volte (ll v.22, at @.@07, Vs @.@79); infine, nel Fegato di Piacenza, nella casella con la scritta lv(r)sl (Pa 4.2), per quanto tale integrazione risulti in parte inficiata dal confronto con la divinità lynsa sylveris, che nella sequenza delle divinità celesti fornita da Marziano Capella sembra occupare lo stesso posto di lvsl. 4 Anche sul piano del significato c’è poco da aggiungere a quanto detto sopra riguardo a lursq del Piombo di Magliano; Pfiffig, che legge lurur, traduce la parola con ‘Gelübde, Gelöbnis, Versprechen’, ma non vi sono indizi determinanti per dimostrare che la radice lur- abbia a che fare con l’atto del voto, della promessa. 5  









@   La forma acas è attestata più volte sulla Tabula Capuana (tc @5, 25, 58); sulla Tabula è attestata però anche la forma necessitativa acasri (tc 4, @9, 25, 26), e questo rende probabile che acas sia radice pura (quindi, imperativo) piuttosto che participio in -as. Sull’iscrizione di Laris Pulenas si veda ora Belfiore 20@2. 2   Pfiffig @968a, pp. 66-67. Più semplicemente, Pallottino ha segnalato la relazione stretta con acasce, dal quale trae il significato di ‘offrire, compiere (un’azione sacrificale)’ (Pallottino @966a, pp. 295-296). 3   Wylin 2000, pp. @64-@65; su -s- cfr. pp. @87-@89. 4 5   Mart. Cap. @, 45; Si veda, da ultimo, Facchetti 2008.   Cfr. Pfiffig @968a, pp. 77-78.

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la lamina di santa marinella Riga 5 ]aºv . nuna[---------(-)]- . nunqeºna . teº[

La riga inizia con una parola di cui rimangono solo le ultime due lettere, ]av; queste permettono di individuare in essa una probabile formazione aggettivale in -v/u, verosimilmente dipendente dal successivo nuna[. Quest’ultimo è noto da iscrizioni di dedica, perlopiù arcaiche, nelle forme nuna (Fa 0.4, Cr 3.25, at 3.3, Fs 0.4 due volte), nunan (Cr 2.43, Cl 2.4), nunar (Cm 2.46, Ve 3.34, 3.35, Vc 2.3, Pa 2.@, nonché ree 69, 26). La parola nuna (e varianti) si incontra soprattutto in locuzioni dal significato non ancora chiaro, spesso associate al divieto di appropriazione (ei minipi capi), in sequenze come minunar o mirnunan: Agostiniani ha provato ad isolare la parola nuna in esse ma sul risultato di tale analisi è rimasto molto dubbioso, non escludendo che si possa trattare di un’unica parola in cui siano occorsi vari fenomeni fonetici. @ L’ultimo tentativo di analisi in ordine di tempo sembra essere quello di Facchetti, che intende le sequenze come varianti di un’unica formula da integrare mi (a)r nuna / mi nuna (a)r; tale formula, immediatamente dopo i divieti di appropriazione, sarebbe da tradurre ‘io porgo preghiera, io prego’ e quindi ‘per favore’: 2 nuna sarebbe cioè oggetto di un verbo alla prima persona singolare ar (‘fare’ ecc.) non marcato sul piano morfologico; per nuna (‘preghiera’) Facchetti ipotizza una derivazione in -na da una radice *nun- (< *nun-na). Il significato di ‘preghiera’ deriva, sempre secondo Facchetti, dall’analisi della forma verbale nunqen, la cui traduzione, secondo le ipotesi più recenti, dovrebbe essere ‘invocare’, 3 e in cui è individuabile la radice *nun-. Questo permette di introdurre la parola successiva della sequenza, il congiuntivo nunqena, che potrebbe quindi essere collegato a nuna[, per quanto vi sia tra di essi una lacuna che in fase di ricostruzione del testo è stata quantificata in @0-@@ lettere. 4 Ancora secondo Facchetti la radice nunqen, di cui sono note, oltre all’imperativo non marcato, le forme nunqene (ingiuntivo), nunqenq (imperativo con -q), nunqeri (necessitati 







@   Cfr. Agostiniani @984, pp. 90-97 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 65-72), con ampia bibliografia sull’argomento, da cui si evince che le interpretazioni ‘tradizionali’ per nuna sono il nome di un vaso, di un’offerta o un nome proprio. Per quanto riguarda l’analisi delle sequenze minunar/mirnunan Agostiniani si è concentrato soprattutto sul nesso consonantico -rn- della seconda variante, che potrebbe essere stato ridotto a -n- (foneticamente una nasale lunga o geminata, [-nn-]) nella prima variante, mentre l’alternanza -r/-n in finale di sequenza potrebbe essere di carattere morfologico. È da rilevare però che, anche a partire dall’attestazione della Lamina, la presenza di una sequenza lessicale nuna in etrusco sembrerebbe incontestabile, per quanto non siano ancora chiari i suoi orizzonti semantici. 2   Cfr. Facchetti 2002a, pp. @00-@0@. Si veda anche Facchetti 2000b, p. 246. 3   Rix @99@, pp. 678-68@. Precedentemente, l’orientamento era di considerare nunqen equivalente al lat. facere: così Pallottino @966a, p. 296, che pure mette in relazione nunqen con nuna, ipotizzando una radice comune. Per Pfiffig sarebbe un verbo composito (nun-qe-n) dal significato ‘für sich eine Gabe hinlegen’ (Pfiffig @968a, p. 79). È evidente che tali interpretazioni prendevano spunto dalla nota (ed errata) traduzione di mlac come ‘dono’, da cui la frequente associazione lessicale delle bende della Mummia di Zagabria (un) mlac nunqen che era tradotta con ‘fare un dono’ e simili. Cfr. sull’argomento Belfiore 20@0, pp. 87-88. 4   Potrebbe trattarsi dunque di un caso di oggetto interno, del tipo dell’italiano ‘correre una corsa’; ovviamente, ciò è subordinato alla verifica dei significati delle parole in questione.

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vo), @ sarebbe un ampliamento in -(V)n da un nomen agentis *nun-(a)q. Recentemente, però, Agostiniani ha mostrato che l’uso del morfema derivazionale -aq comporta un blocco del fenomeno di caduta vocalica dovuta a sincope, essenzialmente per motivi di trasparenza morfo-lessicale (se fosse caduta -a- si sarebbe persa la riconoscibilità del morfema); 2 questo renderebbe meno plausibile la ricostruzione di Facchetti, a meno che non si ipotizzi che tale blocco venga meno una volta che la parola subisca un’ulteriore suffissazione derivazionale: vale a dire, partendo da un ipotetico arcaico *nun-aq, da cui il verbo, sempre arcaico, *nun-aq-en(i), si avrebbe avuto, in età recente, *nun-aq (con il condizionamento spiegato sopra, che impedisce che -a- subisca gli effetti della sincope) ma nun-q-en, in cui -a- è caduta perché sono venute meno le condizioni che bloccano il fenomeno di sincope; tale spiegazione, purtroppo, soffre di una mancanza di dati esterni che ne permettano una verifica puntuale, e pertanto non può essere considerata risolutiva. Il tentativo di Facchetti ha però il merito di distinguere nettamente alcuni elementi morfologici che, sul piano fonetico, sembrerebbero parzialmente sovrapponibili, e che hanno indotto alcuni ad operare un tentativo di sintesi tra le varie funzioni; il riferimento è a quanto scritto in materia da Wylin, che sostiene vi sia una comune origine per il morfema derivazionale -aq, per il morfema verbale -q da lui individuato e per il quale propone una funzione aspettuale, infine per la posposizione locativa -q(i). 3 L’interpretazione della frase, pertanto, anche a causa delle lacune, ruota attorno al rapporto tra nuna[ e nunqena. Si è visto come il significato di entrambi può essere ipotizzato nei termini della preghiera/invocazione, benché permangano incertezze e diversità di lettura da parte degli studiosi. È probabile che il primo, nuna[, sia oggetto del secondo, nunqena; che l’eventuale aggettivo in -v, di cui rimane solo l’ultima parte, sia apposizione di nuna[; infine, che vi sia un rimando ad una condizione costante, esemplificata da te[i] (se questa è l’integrazione giusta), per il quale si è proposto sopra il significato di ‘perciò’, ma non è da escludere anche una traduzione ‘con ciò’ e soluzioni affini.  





]t º--[--(-)]-sºice . lancumite . ican . a[

La parte iniziale, che dovrebbe interessare 6-7 lettere, è del tutto illeggibile, se si esclude un tau ad inizio sequenza. Dopo la lacuna si ha una parola di cui rimane solo la parte terminale, ]-sºice, per la quale l’ipotesi di lettura quale preterito attivo in -ce è obbligata ma non supportata da alcun dato. 4  

@   Queste le attestazioni: nunqen in ll ii.@@; iii.@9; iv.7, @@, @5; v.@@, @9, 20; viii.f3; ix.8, @9; xi.6; nunqene in ll iii.@7, viii.f@; nunqenq in ll ii.@0, @3 (due volte); iv.@3; v.7, 9, @0; ix.@3, @5, @7, @8; nunqeri in tc @@, @2 (due volte), 20, 25. Si aggiunga inoltre che nunqena ritorna sulla stessa Lamina alla r. 6 del diritto (fr. a). 2   Agostiniani 2009a. 3   Wylin 2000, pp. @52-@56; cfr. anche Wylin 2002 (in particolare pp. 90-9@). L’impostazione di Wylin è stata criticata successivamente in Facchetti 2003, pp. 208-2@2 (che ritorna anche sulla questione di  nunqen), e, per quanto riguarda le implicazioni sul sistema verbale, in Belfiore 200@. Facchetti critica anche l’analisi di nunqen operata da Wylin, secondo il quale sarebbe da scomporre in nunq-en, dove *nunq- sarebbe radice verbale dal significato di ‘offrire’ e -en sarebbe un morfema dalla funzione mediocausativa (cfr. Wylin 2000, pp. 2@4-2@6). 4   Pfiffig, dato che la parola seguente è lancumite, che considera locativo, vede in ]-sice (che legge ]cice)

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La parola seguente, lancumite, è la stessa con cui inizia il testo (o quanto rimane di esso): purtroppo il contesto è talmente vago da non fornire alcun elemento ulteriore utile all’analisi di lancumite quale locativo in -te. Più interessante la presenza di ican, chiaramente accusativo arcaico da ica (rec. (e)cn), che potrebbe effettivamente supportare la lettura di ]-sice come preterito attivo. @ Per ciò che segue, a[ si può solo ipotizzare che esso sia l’elemento in funzione di oggetto determinato da ican.  

Riga 6 ]qºeº . hunº[--------(-)]-l . nunqena . -[

È insolita la terminazione ]qºeº, sulla quale, malgrado varie difficoltà di lettura, non sembrano esservi molti dubbi. La parola successiva, di cui rimane soltanto la sequenza iniziale hun[, è altrettanto oscura: le proposte di Pallottino e Pfiffig dipendono da letture diverse e pertanto sono inutilizzabili. 2 Segue una lacuna di 9-@0 lettere, dopo cui si legge chiaramente un lambda prima del punto di divisione: evidentemente si tratta della terminazione di un genitivo ii, o di un tema lessicale in -il (come acil), o di altro ancora. Spicca poi la ripetizione del congiuntivo nunqena, in un contesto ancor più vago di quello dell’attestazione precedente.  

]as`ei . tesa . nasºaº-cºe . mulveº[

Della prima parola si ha solo la terminazione ]as`ei: Pallottino la considera completa, confrontandola con asil di Vs 4.@3, che interpreta come il nome di un oggetto o luogo sacro. 3 Pfiffig, al contrario, considera ]as`ei terminazione che, alternando con -sie, costruisce appellativi di vario tipo. 4 È di Rix negli et, invece, l’integrazione in [f]as`ei, che rimanda alla parola omonima del Liber linteus tradizionalmente analizzata come il locativo del termine etrusco per ‘polta’, ovvero una forma di offerta alimentare alla divinità. 5 La parola che segue, tesa, non pone problemi di lettura ma è di difficile inquadramento linguistico. Una prima questione risiede nel valore da dare alla sibilante, se palatale o postdentale: l’etrusco infatti sembra avere due basi lessicali distinte, *te[s]- e *te[sˇ]-. Alla prima sembrano appartenere tes-c (Vs @.@80) e tesinq (Vs 7.9), mentre alla seconda tesne (Pe 8.4a20, 2@) e tesns´ (Pe 8.4a4, 22) del Cippo di Perugia,  





la terminazione locativa di una parola articolata in -ca (-ce < *-ca-i), che pertanto sarebbe in relazione sintagmatica con lo stesso lancumite (Pfiffig @968a, p. 80). @   La sequenza finale era letta, senza punti di divisione, icana, considerato una derivazione in -na dal pronome icana (cfr. Pfiffig @968a, pp. 80-8@). La separazione in ican a[ pur senza la lettura del punto di divisione, è proposta per la prima volta da Rix negli et. 2   Pallottino leggeva hup[ e pensava ad un’integrazione sulla scorta di hupnina (Pallottino @966a, p. 296), Pfiffig leggeva invece hut[ e pensava ad una variante di huq ‘sei’, ovvero un rimando ai sei segni grafici iniziali e a ciò che rappresentavano nella sua ipotesi generale (Pfiffig @968a, pp. 8@-82). 3 4   Pallottino @966a, p. 296.   Pfiffig @968a, p. 83. 5   Cfr. Rix @99@, p. 674; l’ipotesi originaria fas´ei ‘con polta’ risale ad Olzscha: si veda, sull’argomento, Belfiore 20@0, pp. 8@-82. Le forme attestate sono le seguenti: un locativo fas´ei (ll ii.@@, @3; iii.2@; iv.@6; v.2@; ix.@9), con congiunzione fas´eic (ll viii.f5; ix.8, @4), un ablativo fas´eis´ (ll iv.2@, v.@5), un locativo fas´e (ll iv.20 due volte; v.@, @@, @5), fas´i (ll iv.@3, ix.@7), fasle (ll v.2, Po 4.3), fas´le (ll ii.3), una possibile forma derivata fas´ena (Sp 2.36).

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tes`iameitale della Lamina di Pyrgi (Cr 4.4), tes´amitn (ll xi.5), tes´amsa (Ta @.@82), e forse tesim (ll iii.@2; vii.@0, @7; viii.@7; x.@0); improbabile, invece, il rapporto con tezan, attestato quattro volte (Pe 4.@, 8.@, 8.4a4, 8.9), dove l’uso costante di -z- segnala una base lessicale distinta dalle altre due. @ Del resto, anche all’interno delle singole serie non sembra esservi unità di significato: tesim è, nel Liber linteus, sempre in connessione con celucn, nella frase etnam tesim etnam celucn, ed essi dovrebbero fungere da aggettivi sostantivati; 2 tes`iameitale e tes´amitn sembrano essere varietà arcaica e recente di un unico termine, entrambe determinate da dimostrativi, la prima al locativo, la seconda all’accusativo: come visto sopra, il rapporto tra *te[sˇ]iamei- ~ *te[sˇ]ami- sembra porsi negli stessi termini di quello già individuato in *aqemei- ~ *aqumi-; non sembrerebbe di molto aiuto, ai fini della determinazione del significato, il fatto che l’attestazione della Lamina di Pyrgi si trovi inserita in una data: tes`iameitale ilacve als`ase. Facchetti ritiene però che prima di ilacve vi sia una cesura sintattica, e che tes`iameitale sia da tradurre con ‘nel giorno del potere’, poiché la radice *te[sˇ]- avrebbe, sempre secondo Facchetti, il significato di ‘ordinare, comandare’; tale significato sarebbe poi eruibile anche dalla forma te[sˇ]na* (ricostruita dalle forme del Cippo di Perugia tesne e tesns´), che sarebbe da tradurre con ‘legge’. 3 Resta però da spiegare la forma tes´amsa, in un’iscrizione funeraria da Tarquinia nella locuzione tes´amsa s´uqiq: secondo Wylin essa sarebbe una forma verbale (participio) dalla radice *te[sˇ]-, per la quale però individua il significato di ‘seppellire’, poiché alla formula tes`iameitale ilacve als`ase della versione etrusca della Lamina di Pyrgi corrisponde, nella versione punica, l’indicazione di un ‘giorno del seppellimento della divinità’, e quindi anche tes´amitn e tesim del Liber linteus avrebbero il significato di ‘funebre’. 4 Altrettanto problematiche si presentano le due attestazioni tes-c e tesinq: per quest’ultima, nella didascalia tesinq tamiaquras associata ad un servus nell’atto di compiere alcune attività domestiche, è stato proposto il termine di ‘curatore’; 5 del tutto oscura invece l’attestazione tes-c, nell’iscrizione funeraria arnq leinies larqial clan velusum nefts´ hilsc marnuc tesc esari ru[va] l[aqites velus] amce, dove sembrerebbe inserita nel cursus honorum del defunto, forse in connessione con la parola, altrettanto oscura, esari. Come si vede, gli elementi di analisi sono diversi e in parte contraddittori: per tesa si potrebbe supporre una funzione verbale, e quindi si avrebbe un congiunti 









@   Più incerti, e tutto sommato marginali per la loro apparente funzione onomastica, tes (Cl 3.4), tes´es (oa 2.6@), tes´i (ah @.43). Mentre Pallottino si limita ad osservare che la forma tesa è un hapax (Pallottino @966a, p. 296), Pfiffig, considerando le attestazioni sopra menzionate tutte riconducibili ad un’unica radice, propone, in base alla funzione e ai significati individuati per tali forme, che la radice *tes/s´/z- sia traducibile con ‘zuteilen’, ovvero esprima l’idea del ‘distribuire’ (Pfiffig @968a, pp. 83-85); sembra però evidente che il proposito di considerare tutte le forme come originate da un’unica radice è da rifiutare, una volta stabilita a livello fonologico la funzione distintiva dei due tipi di sibilante. 2 3   Così Belfiore 20@0, pp. @05-@06.   Facchetti 2000a, pp. 40-4@. 4   Wylin 2000, pp. 238-240; cfr. però le critiche in Belfiore 20@0, pp. @05-@06. Lo stesso Wylin è tornato sull’argomento rinunciando alla propria tesi e appoggiando invece quella di Facchetti (Wylin 2004b, pp. 2@9-220). 5   Cfr. da ultimo Wylin 2002, p. 89, su una precedente ipotesi di Palottino, ma si vedano anche le critiche in Agostiniani 2009a, per l’impossibilità di riconoscere, in tesinq, il noto suffisso di agente -aq.

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vo in -a; in alternativa, si potrebbe pensare alla forma arcaica di *te[sˇ]-, usato in funzione sostantivale (te[sˇ]na* sarebbe pertanto da *te[sˇ]a-na). È evidente, peraltro, come il contesto di riferimento non permetta di verificare alcuna di queste ipotesi, rendendo in definitiva vani tutti i tentativi di analisi. Problemi ancora maggiori si incontrano con la parola successiva, definita nei suoi confini ma di lettura disperata: se si accetta la lettura qui proposta, nasºa-cºe, @ è evidente che l’interpretazione come preterito attivo in -ce sarebbe obbligata, per quanto non supportata da altri elementi testuali e in contrasto con la lettura di tesa quale congiuntivo; senza dimenticare, poi, che la parola successiva, mulveº [, mancante della desinenza, rimanda con tutta evidenza alla radice verbale dell’omonimo verbum donandi, avendo così una serie di due (o addirittura tre) forme verbali, unite in asindeto, forse nemmeno grammaticalmente omologhe. Sul piano lessicale, si potrebbe individuare una radice *nas- a cui mancano però confronti, se si esclude il cognomen nasu di Ta @.234, che potrebbe esserne participio in -u, ma che potrebbe anche essere, più semplicemente, un prestito dal latino Naso, -o¯nis. Riguardo alla parola mutila mulveº [, infine, vi è poco da aggiungere a quanto detto sopra circa mulveni[: se la lettura di nasºaº-cºe quale preterito attivo fosse giusta, per mulveº [ si potrebbe proporre un’integrazione in mulve[nice], considerando le due forme verbali, come detto sopra, unite in asindeto; tuttavia, date le condizioni del passo, non è escluso che ogni singolo elemento lessicale individuato sia altro rispetto a quanto qui ipotizzato.  

Riga 7 ]sºurº . t-[--------(-)]na . vacil . c[

La terminazione ]sur può rimandare ad un plurale animato, anche se non necessariamente, dal momento che è provata l’esistenza in etrusco di sostantivi in -r. 2 L’interesse della porzione di frase, occupata quasi per intero da una lacuna di circa 9-@0 lettere da cui si è salvata soltanto una terminazione ]na, è tutto nell’attestazione della parola vacil, che torna più volte nella documentazione, soprattutto sulle bende della Mummia di Zagabria (come vacl) e sulla Tabula Capuana, e che sembra far parte del lessico rituale etrusco. 3 L’ermeneusi tradizionale del termine ne fa il significante di un’offerta rituale, alternativamente, a seconda degli studiosi, liquida o solida, o anche il nome generico di un’azione rituale. 4 Alcuni anni fa tale idea è stata sottoposta a critica da parte di Helmut Rix, il quale ha rilevato che la forma vacltnam, evidentemente composta da  





@   Pfiffig propone la lettura nacn[u]ve, ipotizzando un rapporto con la serie ben attestata nacna, nacnva ecc., per la quale accetta il significato tradizionale di ‘antenati’ e simili (Pfiffig @968a, pp. 85-89). 2   Cenni sull’argomento in Agostiniani @993a, pp. 36-37 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. @76-@77). 3   La forma vacil è attestata in tc @, 4, 5, 6 (due volte), @2 (due volte), @4, 28, 47, Vc 0.@9; la forma contratta vacl in ll iii.@5, @6; v.@9; vii.2, 3, 5, @5, @7, 2@; viii.9, @0, @6; x.4, @@, @8, f2; xi.2, 4, 9; Ta @.@53, Vs @.@8@); sono attestati inoltre la forma vacal (Cr 4.5), che sembrerebbe testimoniare il passaggio intermedio nella trafila vacil > *vac[ə]l > vacl (ma per Pallottino è vacil, non vacal, il punto intermedio, cfr. Pallottino @966a, p. 296), e il composto vacltnam (ll vi.@0, viii.@, xii.9). 4   Così anche Pfiffig @968a, pp. 89-9@.

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vacl ed etnam, è assimilabile ad altre forme di composti con etnam tutti di funzione avverbiale: pertanto, in base a ciò e ad altri elementi di indagine, ha proposto che vac(i)l appartenga alla categoria degli avverbi di tipo temporale, e che sia tradotto all’incirca con ‘poi’. @ D’altro canto, non sono mancati tentativi recenti di individuare per vac(i)l significati più affini alla visione tradizionale; ad esempio, Facchetti ha proposto di tradurre vacil con ‘lode’, mentre dal punto di vista della morfologia ha ipotizzato che esso sia una regolare derivazione in -il da una radice *vac/c- attinente alla sfera semantica del ‘parlare solennemente’, e da cui dipenderebbe il vacr del Cippo di Perugia che lo stesso Facchetti interpreta come ‘promessa, dichiarazione solenne’. 2 Wylin, invece, ha riproposto il significato di ‘offerta rituale’, soprattutto perché, a detta sua, la funzione avverbiale sarebbe contraddittoria o ambigua in molti punti in cui è attestato vac(i)l, per il quale invece un’interpretazione quale sostantivo sarebbe meno problematica. 3 Per quanto riguarda l’attestazione sulla Lamina di Santa Marinella, è evidente che essa non depone a favore di nessuna delle due ipotesi, dal momento che il contesto è talmente frammentario da rendere vacil praticamente isolato; entrambe, in teoria, sarebbero plausibili.  





]-a . ml ºakaº[---(-)]aºma .

Sulla parola mlaka[ si è già osservata la presenza di kappa, unica occorrenza nel testo di fronte ad un uso generalizzato di gamma per la velare sorda non aspirata; si è visto inoltre come tale peculiarità sia stata spiegata fin da principio come il mantenimento di un anacronismo grafico a fini prettamente religiosi. 4 Non vi sono dubbi che mlaka[ rimandi a mlac, ed è altrettanto evidente che l’ipotesi del conservatorismo grafico regge anche quando all’interpretazione tradizionale di mlac come ‘dono’, oggi non più accettata, si sostituisce quella ormai vulgata di mlac significante ‘buono, bello’. 5 Più difficile è l’integrazione di mlaka[, nonché la sua interpretazione nel contesto, irrimediabilmente frammentario, dell’ultima frase del diritto. È evidente che esso rappresenta un caso obliquo di mlac, verosimilmente un genitivo (mlaka[s]) o un pertinentivo (mlaka[si]); più difficile invece un ablativo, peraltro non attestato nella documentazione (indicativamente, *mlaka[is]). La scelta di una delle possibilità dipende anche dal contesto: subito dopo mlaka[ si apre una lacuna di circa 3-4 lettere, dopo la quale si ha la sequenza ]ama; quest’ultima, malgrado manchi del punto di delimitazione all’inizio, potrebbe essere una parola in sé completa, e rimandare alla radice am- ‘essere’, della quale sarebbe un congiuntivo in -a. 6 Se così fosse, sarebbe plausibile la proposta di integrazione e traduzione di Facchetti: mlaka[s --] ama ‘sia del buono (--)’; 7 da notare, inoltre, il già rilevato parallelismo con l’ultima riga  







  Rix @986, p. 24; Rix @99@, p. 669; anche Steinbauer @999, p. 493; si veda, da ultima, Belfiore 20@0, p. @03, che accoglie l’ipotesi di Rix. 2   Facchetti 2002a, pp. @03-@06. Cfr. anche Facchetti 2000b, p. 246. 3 4   Wylin 2000, pp. 86-87.   Cfr. Torelli @966, p. 286; Pallottino @966a, p. 297. 5   Su mlac si rimanda al fondamentale Agostiniani @98@ (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 3-@9). 6 7   Così già Pallottino @966a, p. 297 e Pfiffig @968a, p. 93.   Facchetti 2000b, p. 246. @

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del rovescio, terminante con ame. Tuttavia, è possibile che l’ultima parola non sia completa, e che ]ama ne sia solo la terminazione: a questo punto, rimarrebbe valida l’interpretazione di un congiuntivo in -a, anche se non più della radice am- ‘essere’, ma di un’altra radice *]am-. 6. 2. Rovescio Riga 8 º . icecº [----(-)]aº . civeis . m[ ]-ite

La sequenza si apre con l’ultima parte di una parola, ]-ite: in considerazione delle forme attestate nel testo, una proposta di integrazione come [lancum]ite sembrerebbe obbligata, @ per quanto non vi siano elementi cogenti che spingano verso questa soluzione: resta tuttavia evidente che sembrerebbe trattarsi di un locativo con posposizione. La parola successiva è da integrare presumibilmente in icec[in], che, si è visto, è presente già alla r. 3 del diritto (fr. a). Segue una lacuna di 4-5 lettere, quindi ciò che resta di un alpha, prima dell’unica parola completa della porzione di testo, civeis. I confronti per civeis sono scarsi e poco significativi: kiven della Lamina di Pech Maho (Na 0.@) e l’arcaico cives, se questa è la giusta segmentazione in Ta 7.@3. Più interessante sembra essere la possibile analisi grammaticale: civeis infatti può essere analizzato come un ablativo in -is da un tema *cive; quest’ultimo potrebbe essere una derivazione da ci ‘tre’. La terminazione di *cive, tuttavia, non rientra in nessuna delle tipologie di numerale conosciute: non è un cardinale, non è un distributivo (terminazione -z), ed è da escludere anche che possa essere un ordinale. I numerali etruschi possono infatti considerarsi relativamente noti, e anche per quanto riguarda gli ordinali, il cui corpus di attestazioni è peraltro minimo, sembra certo che siano costruiti per mezzo del morfema -na, che si appoggia al numerale cardinale ulteriormente ampliato da un suffisso in sibilante. Oltre ai noti qun[s]na (ll vi.@3), per ‘primo’, e *zaqrum[sˇ]na (ll vi.9, al locativo zaqrumsne), per ‘ventesimo’, 2 è stato individuato inoltre da Cristofani una possibile ulteriore attestazione di numerale ordinale, e proprio quello derivato da ‘tre’: nella Lamina di Pech Maho (Na 0.@), infatti, è incisa la sequenza kisnee, ed essa, se si accetta l’espunzione dell’ultimo epsilon, sembra effettivamente un locativo da *kisna, ovvero l’attesa forma in etrusco per l’ordinale ‘terzo’. 3  





]-tºama . im-[--(-)]nuta . h[

La prima sequenza potrebbe contenere la parola ama, il congiuntivo di am- ‘essere’ già incontrato sopra, ma potrebbe anche essere la terminazione di una parola più   Così Pfiffig, che legge addirittura ]mite (Pfiffig @968a, p. 94).   Cfr. Agostiniani @995b, p. 37 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. 2@3). 3   Cfr. Lejeune, Pouilloux, Solier @988, p. 35, nota 5, e lo stesso M. Cristofani, in ree 57, 54; cfr. anche Colonna @988b, p. 553, il quale traduce ‘nel terzo (giorno) del mese heki-’; cfr. inoltre Cristofani @993b, pp. 833-835 (= Cristofani @996a, pp. 83-85), e Facchetti 2000a, p. 98, che intendono invece kisne come indicazione del pagamento (come caparra) di un terzo del prezzo pattuito (Facchetti traduce ‘con il giusto terzo egli versi’). Per una discussione più ampia dell’argomento, si rimanda al capitolo v.@., relativo alla Lamina di Pech Maho. @

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lunga, ]-tama. Poco si può dire sulla sequenza successiva, im-[, che precede una lacuna di circa 3-4 lettere, prima della terminazione ]nuta, se non un rimando generico ad ims´ della defixio di Monte Pitti (Po 4.4), @ che sfugge però a qualsiasi tentativo di interpretazione. Del pari, di ]nuta si può tentare solo una categorizzazione sul piano morfologico: può trattarsi cioè di una forma ‘articolata’ in -ta da un tema lessicale *]nu-, o un congiuntivo in -a da ]nut-.  

Riga 9 ]-i º . unus`e . hºa[----(-)]-u . eizºurva . taº[

La prima parola completa, unus`e, ha un chiaro pendant in unu della r. 3 del diritto (fr. a), anche se non è immediatamente evidente il rapporto tra i due; non si conoscono infatti altri casi di ampliamento in -se (non fa differenza che valga per -[s]e o per -[sˇ]e) rispetto ad una base in -u, o anche semplicemente rispetto a qualsiasi tipo di base lessicale; sembrerebbe allora più giustificata un’analisi quale ingiuntivo in -e, come utus´e del Cippo di Perugia (Pe 8.4a24), 2 ma in questo caso diventerebbe più problematico il rapporto con unu. 3 La parola successiva, ha[----(-)]-u, manca della parte centrale, quantificabile in 5-6 lettere; per quanto sia tentante l’integrazione in ha[trenc]u, parola nota dall’epigrafia funeraria, essa è tuttavia da escludere, poiché quanto rimane della penultima lettera precedente ypsilon finale in nessun modo può essere riconducibile ad un gamma. Nella sequenza eizurva sembra evidente l’assenza di punteggiatura: per quanto non sia del tutto da escludere che si tratti di un’unica parola, è tuttavia verosimile la suddivisione in ei zurva, come già proposto da Rix negli et, dove il primo elemento è chiaramente la particella della negazione etrusca. 4 È da notare, peraltro, che in più punti del rovescio la normale punteggiatura sembra obliterata, soprattutto nelle righe finali; qui si potrebbe pensare che la particella negativa ei sia caratterizzata da protonia. Se dunque ei zurva è la segmentazione giusta, si pone il problema di stabilire cosa sia zurva: l’interpretazione più lineare è che sia una forma verbale al congiuntivo in -a, da un tema *zuru- non immediatamente accessibile per quanto riguarda il significato. Che ei sia la particella negativa utilizzata con il congiuntivo sembra dimostrarlo anche ei {i}truta di as 5.@, parallela alla formula en cae lurcve truta della Base di Manchester (oa 3.9), studiata di recente da Maras. 5 Un’analisi alternativa è che zurva sia il plurale inanimato di un tema lessicale *zur(u), dal significato ignoto: seguendo questa ipotesi, il predicato verbale, che regge zurva, individuato dalla particella negativa, sarebbe da ricercare nella parola che segue, ta[;  







@   Così Pfiffig @968a, p. 96, che propone di intendere *im- come ‘Leute, Volk’ e simili. Anche qui si rimanda per considerazioni più approfondite al capitolo iv.4., in cui è trattata la Lamina di Monte Pitti. 2   Cfr. Facchetti 2000b, pp. 48-49, nota 283. 3   La proposta di Pfiffig dipende dalla lettura di un punto tra ny e il secondo ypsilon, qui non rilevato, che permette di ottenere due parole, un e us`e: la prima, legata alla serie di un, unum ecc., avrebbe valore di congiunzione, del tipo ‘dann, schließlich’ ecc., mentre la seconda sarebbe una forma verbale significante, tra gli altri, ‘generare’ (Pfiffig @968a, pp. 97-98). 4   Sulla negazione in etrusco si rimanda ad Agostiniani @984 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 59-92). 5   Maras 2000-200@, pp. 2@9-220.

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zurva potrebbe esserne oggetto, rispettando così l’ordine ov tipico dell’etrusco. @ In questo senso, risulterebbe allettante un possibile rapporto con la parola surve della Lamina stessa, alla r. @0 del rovescio (fr. b): tuttavia ciò è meno probabile di quanto sembri, se si osserva che generalmente sigma e zeta alternano solo in condizioni del tutto particolari e in contesti ben delimitati. 2  



]-t . rinºº -[--]vº . aqemeican . scuinºiaº . ipaº[

L’attacco di parola rin-[ rimanda chiaramente alla sequenza rin[ di r. 4 del diritto (fr. a), e alle ipotesi formulate al riguardo; qui è utile soffermarsi sulle dimensioni della parola, che potrebbe ricoprire la lacuna seguente di circa tre lettere e terminare singolarmente con wau: ciò potrebbe significare che la lettera precedente fosse una vocale, e questo troverebbe un confronto con, ad esempio, eterav (at @.@05, Vc @.56) e sacniv (Vc @.@0), il che rimanderebbe ad un aggettivo; non è escluso, del resto, che si tratti di una forma verbale in -u. Quest’ultima ipotesi potrebbe spiegare la presenza di un accusativo aqemeican, il cui tema è stato già incontrato nel caso del genitivo aqemeis`cas` alla r. 2 del diritto (fr. a). Altrimenti, la forma verbale che regge aqemeican potrebbe essere scuinºi ºa, per la quale, però, mancano confronti sicuri, ed è incerta anche la lettura; 3 di essa è da rilevare la singolare sequenza iniziale sigma + chi, peraltro nota ora anche dall’iscrizione funeraria arcaica da Caere pubblicata di recente da Colonna e già menzionata sopra, dove sembra presente una forma verbale sca[ni]ce. 4 Da rilevare infine la presenza, una volta di più, della particella ipa, già incontrata sopra; non è dato sapere quale forma, dal momento che manca della parte finale (potrebbe anche trattarsi della forma non marcata, ed essere quindi in sé completa), così come non è possibile stabilirne la funzione nel contesto della frase.  



Riga @0 ]-nºcva . mlaciqºaº . hecia . iperºi . apa-[

La parte terminale della prima parola è chiaramente il suffisso di plurale inanimato -( c)va, agglutinato ad un tema lessicale *]-n( c). La parola successiva, mlaciqa, è di grande interesse per la qualità dei problemi linguistici sollevati. Essa, nella visione di Pfiffig, che seguiva ancora l’ipotesi mlac ‘dono’, individuava chiaramente la donna ‘offerente, facente il dono’, in funzione della grazia ricevuta. 5 Pfiffig, in effetti, sembra nel giusto quando chiama in causa il morfema derivazionale -qa, che caratterizza in etrusco il genere naturale femminile: così, lautniqa è ‘liberta’ da lautni  

  Cfr. Agostiniani @993a, p. 32 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @72).   Un caso ben documentato è quello studiato da Van Heems in finale di parola a Volsinii (Van Heems 2003). 3   Pallottino e Pfiffig si limitano a rimandare alla documentazione nota per dei confronti parziali, ma senza proporre interpretazioni (Pallottino @966a, p. 297; Pfiffig @968a, pp. @00-@0@). 4   ree 7@, 26. 5   Pfiffig @968a, p. @02. Pallottino, oltre all’evidente riferimento a mlac, si limita ad escludere che -qa finale stia per -(i)ta (Pallottino @966a, p. 297). @

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‘liberto’. @ Allo stesso tempo, il rimando al paradigma di mlac è evidente; partendo quindi dal significato mlac ‘bello’, l’interpretazione più convincente è quella che fa di mlaciqa una sorta di sostantivazione, come proposto da Colonna che traduce questo termine con ‘la Bella’, intendendo con esso l’epiteto di una divinità; 2 Maras, analogamente, considera mlaciqa analogo a mlacuc, per il quale individua un rapporto con la Bona Dea italica. 3 Lo stato di conservazione della porzione di testo, tutto sommato migliore rispetto alle altre, permette di formulare alcune ipotesi sui rapporti tra i costituenti della frase. La parola successiva, hecia, già a partire da Pallottino e Pfiffig è individuata come forma verbale, da una radice hec(i)- nota sia come tale sia, secondo gli studiosi, nella variante *hec- eruibile dalle forme hecz ed hecs´q del Liber linteus. 4 Del tema verbale heci sembrerebbero attestate poi altre due varianti: la prima è quella con -i finale, nota dalla Lamina di Santa Marinella e dalle bende della Mummia di Zagabria nelle forme heci (ll vi.6, x.f4) 5 ed hecia (ll vii.@@), nonché heki (o hekiu) della Lamina di Pech Maho (Na 0.@); la seconda, senza -i, sarebbe nota dai preteriti attivi hecece (Ta 5.@), arcaico, e dai più recenti hecce (Ta 7.59) e hece (Pe 5.@); è dubbio se la forma heczri di Pe 5.2 sia un necessitativo da *hec(i)-, con un singolare ampliamento -z-, o non sia piuttosto una variante di scrittura per il tema verbale *hecz/s´- già visto sopra, mentre la stessa forma heczri del Liber linteus è in realtà un emendamento degli et di Rix per la forma hectai, che comunque andrebbe ricondotta al tema hec(i). 6 L’indirizzo generale, a partire da Pallottino, è quello di considerare tutte queste forme come appartenenti ad un unico paradigma verbale, il cui significato sarebbe identificabile nell’azione del ‘porre’. Tra gli ultimi ad aver affrontato la questione, è da citare Wylin, che considera la -i finale di alcune forme del paradigma come originaria, ovvero ipotizza che la veste prealfabetica del tema verbale sia stata *heci-, e che essa sia sopravvissuta solo in alcune forme come arcaismo; sul piano del significato, sostiene che *hec- rimandi all’area semantica del ‘fare, porre, costruire’, e che le forme ampliate con una sibilante (heczri, hecz ed hecs´q) siano ‘intensive’. 7 In questo senso le attestazioni più problematiche sembrano essere proprio quelle che si suppone siano ampliate con una sibilante, per le quali sembrerebbe più appropriato un significato affine all’azione del ‘versare’, ad esempio nella frase hecs´q vinum ‘versa/versando il vino’, senza dimenticare che l’oscillazione  













  Cfr. Agostiniani @995a, p. @7 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. 25@).   Cfr. il commento a ree 63, 28. 3   Maras @998b, p. @87. Il confronto proposto da Maras tra mlaciqa e zilaq, come sembra dalla tab. 2, non sembra tuttavia sussistere: in mlaciqa, come detto, è presente un morfema derivazionale indicante il genere naturale femminile, ovvero -qa; in zilaq, al contrario, si riconosce il morfema di agente -aq associato ad una radice verbale *zil-. 4   Pallottino @966a, p. 297; Pfiffig @968a, pp. @02-@03. La forma hecz è in ll iii.@7; x.8, @5, f5; xi.4; hecs´q è in ll iv.9, @4; ix.6. 5   L’attestazione di heci in Vs @.320 sembra rimandare piuttosto ad un tema onomastico. 6   Cfr. Belfiore 20@0, p. @24. 7   Wylin 2000, pp. @22-@24 (sulle forme in -i), @87-@89 (sul significato di ‘fare, porre, costruire’ e sul morfema ‘intensivo’ -s-), 230-23@ (su hece di Pe 5.@, considerato però come aoristo presente e non come preterito). @

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c/c in etrusco è sì attestata, ma solo in contesti ben identificabili e motivati. Non sembrerebbe quindi peregrino proporre, come sembra fare la Belfiore, @ di tenere disgiunte le forme heczri, hecz ed hecs´q dalle altre con *hec(i)-, ed individuare un tema verbale *hecz/s´- dal significato approssimativo di ‘versare’, mentre per *hec(i)rimarrebbe valido il significato tradizionale di ‘porre’. Facchetti, al contrario, considera tali forme tutte appartenenti ad un solo paradigma, il cui significato sarebbe sempre quello di ‘versare’, sia in senso proprio (hecs´q vinum ‘versa/versando il vino’) sia in senso traslato (‘versare’ come ‘pagare’, pertanto zeke kisne{e}heki della Lamina di Pech Maho potrebbe essere ‘con il giusto terzo egli versi, paghi’); è da aggiungere, tuttavia, che tale interpretazione sembra meno appropriata nel caso delle iscrizioni sepolcrali. 2 Se, dunque, si accetta l’esistenza di un tema verbale *hecz/s´- diverso dalle forme in heci ed *hec(e)-, si pone il problema di stabilire l’eventuale rapporto tra queste ultime. È possibile, come sostiene Wylin, che heci sia effettivamente la forma originaria, e sia sopravvissuta nella forma di imperativo a marca zero (heci) e nel congiuntivo in -a (hecia); al contrario, la forma arcaica del preterito hecece potrebbe dipendere da una tendenza alla centralizzazione della vocale postonica (ovvero, *heci-ce > *hec[ə]-ce, quest’ultimo reso hecece), successivamente vittima della sincope; la singolarità della doppia consonante nella forma hecce sta ad indicare il confine di morfema tra il tema lessicale e il suffisso verbale. 3 La forma hece, infine, potrebbe essere, come suggerito da Wylin e ripreso da Facchetti, un ingiuntivo in -e da un tema (ristrutturato) hec-, ma potrebbe essere anche, più semplicemente, la stessa forma hecce senza la doppia consonante con funzione di ‘notazione morfologica’. Non è da escludere, infine, che anche in questo caso si tratti di due temi verbali differenti, ovvero heci ed hec(e)-, per quanto sia da riconoscere che il significato di ‘porre’ sembra essere valido per entrambe le serie di attestazioni. Da tutto ciò si evince che hecia della Lamina dovrebbe essere un congiuntivo in -a da un tema verbale heci ‘porre’, e quindi dovrebbe significare ‘che (egli/ella) ponga’. Il soggetto più indicato sembrerebbe proprio il mlaciqa studiato sopra, mentre l’oggetto dell’azione di ‘porre’ potrebbe essere il plurale inanimato suggerito dalla sequenza ]-ncva. È da notare però che una tale ricostruzione individuerebbe un ordine dei costituenti osv nei fatti irrealizzabile, a meno di non presupporre una forte topicalizzazione del plurale inanimato ]-ncva, allo stato attuale non verificabile. Seguendo però l’ordine atteso (non marcato) sov si avrebbe il plurale inanimato ]-ncva come soggetto, mentre mlaciqa ricoprirebbe la funzione di oggetto: la ricostruzione che se ne ha risulta quanto meno improbabile, con un plurale inanimato che deve compiere l’azione di ‘porre’ mlaciqa, ovvero ‘la Bella’, inteso come epiteto. Malgrado tutto, la prima spiegazione sembrerebbe quella più plausibile.  





  Cfr. Belfiore 20@0, pp. @00-@0@. Facchetti 2000b, p. 98, nota 579; cfr. però Facchetti 2002a, p. @08, dove nello schema riassuntivo delle forme in *hec(i)- non sono presenti quelle in *hecz/s´-, e inoltre il significato proposto è quello tradizionale di ‘porre’ (anche Facchetti 2000b, p. 246: hecia ‘ponga’). 3   Come in-ni della Tabula Cortonensis, per il quale Agostiniani parla di «scrittura morfematica» (Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 99-@00). @

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Il testo segue con la particella iperi, che individua verso chi (o cosa), a favore di chi deve essere compiuta l’azione, a prescindere dal significato assegnato ad ipa (potrebbe essere quindi ‘a favore del medesimo’ o anche ‘a favore del quale’); l’attacco della parola successiva, apa-[ (se questa è la giusta lettura), sembrerebbe rimandare al sostantivo etrusco per ‘padre’, anche se in un contesto del tutto oscuro. ]t ºrºas . nº[-(-)]nieº . nacar . surve . clesvareº [

La terminazione ]tras può dar luogo, dal punto di vista morfologico, a diverse letture, ma la più verosimile sembra essere quella di un genitivo i di un tema lessicale suffissato per mezzo della posposizione -tra; è noto infatti che, quando è presente l’elemento morfematico -tra, esso viene declinato così come il tema lessicale: l’esempio classico è s´pures´tres´ (ad esempio in ll iii.2@), prodotto dell’agglutinazione di due morfemi di ablativo i e dell’elemento -tra (< *[sˇ]pura-i-[s]-tra-i-[s]), o anche unialastres delle Lamine di Pyrgi (Cr 4.4), ablativo arcaico morfologicamente analogo al precedente (< *uni-ala-[s]-tra-i-[s]), e [s]vels[t]res´(-c) di ll ii.4. @ Queste presentate sono flessioni all’ablativo sia della forma base sia dell’elemento -tra, ma si conoscono anche flessioni all’ablativo solo della forma base (arcaico snenaziu-la-s-tra, in tc @6), al locativo solo di -tra (huzrna-tre, Ta @.@7) o solo della forma base (hilcvetra, ll vi.2), al genitivo della forma base (vipinal-tra, Vt 4.5; celqes-tra, Cr 3.22) e, agglutinato ad elementi pronominali, flessioni all’accusativo (cn-tra-m, ll iv.@3), al locativo (cle-tra-m, 9 attestazioni nel Liber linteus), al genitivo di entrambi (cl-tra-l, ll viii.5). 2 Nel caso di riqnaitultrais della Tabula Capuana (tc @5) si ha addirittura agglutinazione dell’elemento pronominale -ita, flesso al genitivo (-itul- per -ital-), sul quale è agglutinato l’elemento -tra, flesso all’ablativo. 3 Da tempo, dato anche l’uso predominante, soprattutto in età arcaica, con l’ablativo, si tende a tradurre -tra con formule del tipo ‘fuori da’, ‘da parte di’ ecc. 4 La sequenza successiva, n[-(-)]nie, è conservata solo nella parte iniziale e in quella finale, e se sembra verosimile che si tratti di una sola parola, tuttavia è impossibile stabilire di che cosa si tratti. La parte finale della porzione di testo ha creato vari problemi, perlopiù per l’asserita mancanza di punteggiatura notata sia da Pallottino, che rinuncia a darne un’analisi, sia da Pfiffig, che invece propone la scansione nac arsur veclesva re[. 5 In realtà, come sostenuto in precedenza da Rix, e in parte mostrato anche qui, la punteggiatura è piuttosto ben visibile e permette la segmentazione in nacar surve clesvare[. Di tutt’altra fattura e complessità, invece, i problemi sollevati sul piano linguistico dalle tre parole, nessuna delle quali sembrerebbe analizzabile in maniera soddisfacente. Per nacar il confronto obbligato è con nac ‘tanto, così’, sia in  









  Cfr. Facchetti 2002a, p. 20.   Ai doppi ablativi va forse aggiunto lus-tres´, se è giusta l’ipotesi di provenienza da lusa  (< *lu[š](e)[s]-tre[s] < *lu[š](a-i)-[s]-tra-i-[s]; cfr. Rix @984, p. 228, ma negli et, ll vi.@0, è lustras´), mentre un altro locativo potrebbe essere, se l’integrazione è giusta, flercve-tr[a(m)] (ll xi.@6, ma si veda, contra, Belfiore 20@0, p. @83, che propende piuttosto per un’integrazione flercve tr[in]). 3   Da ultimo, si veda sull’argomento Facchetti 2002a, pp. 79-82. 4 5   Cfr. da ultimo De Simone @990.   Pallottino @966a, p. 297; Pfiffig @968a, pp. @06-@09. @

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funzione di congiunzione, correlato ad ic ‘come’, sia come aggettivo nella variante derivata nacna e simili (‘grande’), la cui origine è stata già discussa nel caso di naces del Piombo di Magliano; difficilmente si potrebbe spiegare nacar come un qualche tipo di plurale animato in -(a)r, mentre qualche possibilità in più potrebbe avere una lettura quale sostantivo in -(a)r da nac. Altrimenti, vi è anche l’eventualità di procedere ad un’ulteriore scomposizione della sequenza in nac ar, ovvero la già menzionata particella nac e la radice verbale (non marcata) ar ‘fare’, ovviamente in funzione imperativa; tuttavia, si deve riconoscere che anche per quest’ultima ipotesi non sussistono ragioni che la rendano, se non preferibile alle altre, quanto meno plausibile nel frammentario contesto di appartenenza. Lo stesso si dica per surve, per il quale mancano confronti certi: solo in via teorica si è ipotizzato sopra una relazione con zurva di r. 9 del rovescio (fr. a); surve potrebbe essere un locativo (plurale inanimato?), o anche una forma verbale in -[w]e, come tenve e zilacnve (entrambi in Vs @.@79). Infine, anche clesvare[ sfugge ad ogni tentativo di analisi, a maggior ragione perché potrebbe essere incompleta, e poco aiutano i confronti con gli arcaici clesvas di Ta 7.@3 e clesnes di Ta 5.4, in contesti anch’essi tutt’altro che definiti. Riga @@ ]aºqºesºu . namulqame .

Anche quest’ultima porzione di frase, che conclude il testo sul rovescio, presenta problemi di segmentazione: qui, tuttavia, il confronto combinatorio permette di individuare, almeno nella seconda parte, due unità lessicali già note o comunque ricostruibili, vale a dire namulq e ame. La prima è chiaramente un sostantivo, usato in funzione onomastica, al genitivo, nelle iscrizioni Cl @.@442 e @.2004 (entrambe namultl), nonché come base di un derivato in -na, anch’esso al genitivo (femminile), in as @.@34 (namulqnal); la seconda parola è chiaramente l’ingiuntivo in -e del verbo am ‘essere’. Ora, dal momento che namulq sembra svolgere la funzione di predicato nominale della copula ame, è quanto meno improbabile che namulq sia un elemento onomastico, come invece le attestazioni namultl e namulqnal: piuttosto, namulq è verosimilmente un nome comune, usato in funzione onomastica nelle iscrizioni sopra citate. @ Si porrebbe ora il problema di stabilire che cosa sia namulq, o cosa sia qualificato in tal senso: purtroppo, ciò che lo precede mostra maggiori caratteri di incertezza e non permette un’analisi approfondita. La terminazione ]aq potrebbe rimandare ad un nomen agentis, ma la successiva parola esu non avrebbe confronti; sembra quindi più preferibile una segmentazione in ]a qesu, come già proposto da Rix negli et (il quale legge però ]n qesu), individuando un termine qesu evidentemente da considerare participio in -u da una radice verbale *qes-, per la quale l’unico confronto disponibile sembrerebbe l’appellativo qesan ‘aurora’: di fatto, troppo poco per un’analisi linguistica completa.  

@   È del tutto insostenibile l’ipotesi di Pfiffig, che pure nota l’equivalenza tra la sequenza namulq della Lamina e le forme namultl e namulqnal, secondo il quale namulq sarebbe un «locativo di genitivo», e la frase namulq ame sarebbe traducibile con ‘sei in dem des *namu’ (cfr. Pfiffig @968a, pp. @09-@@0).

IV. LE DEFIXIONES ETRUSCHE @. Cenni sulle defixiones nel mondo antico

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uesta sezione si propone di studiare non un singolo testo, ma un’intera classe di documenti etruschi su piombo che, per particolari caratteristiche testuali e materiali, sono riconducibili ad una stessa tipologia, quella delle defixiones. Secondo una definizione data da Richard D. Jordan @ e spesso citata nei lavori relativi a tale classe di materiali, 2 le tabellae defixionum, «more commonly known as curse tablets, are inscribed pieces of lead, usually in the form of small, thin sheets, intended to influence, by supernatural means, the actions or welfare of persons or animals against their will». Nella definizione di Jordan l’appartenenza a questa classe è individuata schematicamente attraverso due parametri: il primo, di carattere materiale, indica che le defixiones sono oggetti in piombo, perlopiù sotto forma di laminette iscritte; l’altro, di carattere funzionale, è che esse hanno lo scopo di influenzare le azioni o lo stato di qualcuno (o qualcosa) contro il proprio volere, tramite l’ausilio di forze soprannaturali. Non si fa invece riferimento ai vari tipi di testo iscritto, che rappresentano delle sottoclassi, né al contesto linguistico di riferimento, dal momento che tali documenti sono noti in tutta l’area mediterranea e insistono sulle stesse forme testuali. Quest’ultimo aspetto era già chiaro ai primi studiosi sulle defixiones, su tutti Audollent, che all’inizio del ’900 pubblicò la prima e, ancora oggi, più nota raccolta di tavolette di maledizioni del mondo antico, a prescindere dalla provenienza e dalla veste linguistica, ma facendo riferimento esclusivamente a quei tratti comuni, in parte individuati anche dalla definizione di Jordan, che in ultima analisi indicano la comune appartenenza ad una stessa classe testuale. 3 Questa impostazione permette, in linea teorica, di trasferire le conoscenze acquisite sul piano dello studio della classe a quello, più specifico, dei (pochi) documenti etruschi ad essa relativi, che come si vedrà oppongono più di un ostacolo alla comprensione del loro significato. Il primo punto, come si è visto, riguarda gli aspetti più prettamente materiali. In genere le defixiones (o, in greco, katavdesmoi) sono in piombo: questo è un dato di fatto testimoniato dalla documentazione e rappresenta, come si è visto, un parametro di riferimento della classe; ciò nonostante, le fonti riportano la possibilità che le maledizioni fossero scritte anche su supporti diversi, come pietra, cera o le 





  Jordan @985, p. @5@.   Si vedano ad esempio Gager @992, p. 3; Tomlin 2004, pp. @@-@2; Kropp 2004, p. 8@. 3   Audollent @904; la raccolta di Audollent non comprende le defixiones attiche di età romana, oggetto della precedente raccolta di Richard Wuensch (ig iii 3), del @897, con la quale si pone in termini di evidente continuità. La rassegna di Audollent è stata successivamente integrata da altri lavori, come lo stesso Jordan @985. @

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gno; @ è evidente, però, che se per alcuni di questi materiali si può invocare la facile deperibilità come causa dell’assenza di documentazione, per altri, come la pietra o i metalli preziosi, lo scarso corpus sopravvissuto 2 depone verso una marginalità di questi stessi materiali nei confronti del piombo. La scelta del piombo come supporto scrittorio è dettata del resto anche da elementi positivi, in parte di carattere pratico, in parte simbolico: il piombo ha caratteristiche di estrema duttilità e lavorabilità, oltre ad essere particolarmente indicato per essere inciso; inoltre, aveva un costo relativamente basso e poteva essere reperito facilmente, anche fondendo manufatti (ad esempio le fistulae); d’altro canto, il piombo è per antonomasia un metallo freddo, opaco, cinereo, di scarso valore, particolarmente adatto a rappresentare in chiave simbolica l’atto di maledizione contenuto nell’iscrizione. 3 Come si vedrà poi, dal punto di vista testuale la defixio si configura spesso come una lettera, con un destinatario ed un mittente del messaggio; per questo, anche esternamente la lamina di piombo assume spesso i connotati di una lettera scritta e richiusa. 4 Frequentemente la lamina è anche arrotolata o addirittura perforata da un chiodo; questa pratica è strettamente connessa all’atto performativo della maledizione, che spesso intendeva esprimere l’‘inchiodamento’, la costrizione fisica nei confronti del defisso: vale a dire che la laminetta diventava metaforicamente il defisso, e si esprimeva in tal modo il tentativo di ‘inchiodarne’ la volontà, sottomettendola ai voleri del defiggente. 5 È invece errato pensare che l’arrotolamento, o l’inchiodamento della lamina fossero pratiche dovute alla necessità di nascondere l’atto: per confutare questa idea basta riflettere sul fatto che i luoghi scelti per le deposizioni erano perlopiù inaccessibili, e quindi era del tutto superfluo qualsiasi altro espediente che ne evitasse la lettura. 6 Tra tutti, i luoghi più comuni di ritrovamento delle defixiones sono le tombe: evidentemente, la scelta delle tombe permetteva, da un punto di vista pratico, di poter contare su un luogo riservato; sul piano simbolico, invece, le tombe rappresentavano il punto di contatto primario tra mondo dei vivi e mondo dei defunti, con il defunto sepolto che poteva idealmente fungere da latore del messaggio. 7 Altri luoghi potevano essere i pozzi, o le sorgenti, che in qualche modo condividono con le tombe sia l’aspetto dell’inaccessibilità, sia quello più simbolico del passaggio al mondo infero. 8 Un caso a parte è invece rappresentato dalle deposizioni nei pressi di templi o di santuari, che se da un lato mantengono l’aspetto di favorire il contatto con le divinità, dall’altro non garantiscono sul mantenimento della segretezza dell’atto stesso: secondo Lambert, però, il ricorso a templi e santuari quali luoghi di deposizione delle defixiones rientra nel quadro di sussidiarietà tra religione ‘ufficiale’ e religione ‘sommersa’ o ‘superstizione’, di cui si parlerà più avanti. 9  

















2   Gager @992, p. 3.   Cfr. Audollent @904, pp. xlvii-xlviii.   Cfr. sull’argomento Audollent @904, pp. xlviii-xlix; Gager @992, p. 4. 5 4   Audollent @904, p. cxi.   Gager @992, p. @8; Kropp 2004, p. 83. 6   Gager @992, p. @8. 7   Audollent @904, pp. cx-cxi; Gager @992, pp. @8-20; Lambert 2004, p. 77; Kropp 2004, p. 84. 9 8   Audollent @904, pp. cxvi-cxvii.   Lambert 2004, p. 77. @

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La facilità di reperimento del piombo e la relativa semplicità d’esecuzione della scrittura su di esso potevano permettere a chiunque, teoricamente, di realizzare questi manufatti; in effetti, una delle caratteristiche più comuni delle defixiones è, dal punto di vista epigrafico, la presenza di errori, ripensamenti, sviste, che fanno pensare a persone che si improvvisano scribi, con un basso livello di acculturazione e alfabetizzazione, quindi non dei professionisti; accanto a queste, però, vi sono anche molte tavolette iscritte con precisione; inoltre, l’inaccessibilità di gran parte dei luoghi di deposizione fa pensare a persone altrettanto specializzate in queste operazioni; del resto, non mancano nella documentazione letteraria le fonti relative alla presenza, nel mondo antico, di magoi e fattucchieri, ed anche la conservazione, in Egitto, dei papiri con le ‘ricette’ per la realizzazione di questi testi non può che parlare a favore di una pratica magica sostanzialmente in mano a degli specialisti. @ Le prime defixiones sembrano essere di ambito greco, perlopiù attico e siceliota, e datano al v secolo a.C. circa; 2 in Italia, oltre alle tavolette defissorie della Sicilia indigena, che risentono della precoce influenza greca e presentano datazioni molto alte, le prime defixiones sono di ambito osco, e datano al iv secolo a.C. circa; successivamente, come si vedrà, si collocano le maledizioni etrusche (iii secolo a.C. circa) 3 e infine quelle latine, la cui datazione relativamente più tarda (non prima del ii secolo a.C.), a detta di Poccetti, 4 non dovrebbe essere conseguenza del recepimento della pratica magica in tempi più recenti rispetto alle altre compagini etniche italiche, ma piuttosto sarebbe dovuta alla severa legislazione romana, che osteggiava queste pratiche, e a cui si accennerà più avanti. Sul piano testuale, si è detto che le defixiones adottano schemi formulari ricorrenti, anche al di là delle differenze linguistiche, e questo ne favorisce uno studio interlinguistico. Secondo Poccetti, anche in base alla documentazione greca, è possibile notare come vi sia stato, sul piano dell’enunciato, un progressivo spostamento dall’ambito dell’oralità a quello della scrittura: in un primo tempo la maledizione era espressa unicamente in forma orale, ed era accompagnata dal seppellimento rituale di laminette di piombo anepigrafi; successivamente, l’accesso al piano della scrittura sarebbe avvenuto con la comparsa dell’elemento minimo necessario per la maledizione, ovvero il nome del defisso (o dei defissi); in una terza fase si sarebbe avuto lo sviluppo di una formularità vera e propria, tramite l’inserimento iniziale di un verbo alla prima persona singolare, del tipo lat. defigo o gr. katadevw, che rappresentava esso stesso l’atto performativo della  







@   Cfr. Gager @992, pp. 4-5; Gager, del resto, nota anche (p. @4) che le tavolette potevano essere preiscritte, con degli spazi lasciati vuoti per l’inserimento successivo del nome del defisso: questo, ovviamente, fa pensare piuttosto ad un mercato specializzato, dove solo in parte l’iniziativa era lasciata al singolo 2 privato.   Audollent @904, p. cxvii. 3   Come si vedrà più avanti, le lamine di Poggio Gaiella e di Ardea, sensibilmente più antiche del iii sec. a.C., rappresentano in ogni caso esperienze autonome e non direttamente assimilabili ad un processo di acquisizione delle pratiche magiche da parte del mondo etrusco, o perché rinvenute fuori dell’Etruria propria (Ardea), o perché è incerto persino che si tratti di un testo defissorio (Poggio Gaiella). 4   Poccetti @99@, p. @85.

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maledizione, e poi, a partire dalla presenza del verbo, con il progressivo arricchimento testuale. @ I testi si distinguono generalmente sotto il profilo della funzione e dell’ambito in cui è maturata la richiesta di maledizione; Audollent 2 individua quattro attori principali: @. chi reclama una vittoria legale contro un avversario; 2. chi è stato derubato e scaglia così una maledizione contro il ladro; 3. amanti che invocano l’interessamento degli amati; 4. tifosi degli agoni sportivi che si scagliano contro le fazioni avverse, tanto contro i fantini quanto contro i cavalli. Sul piano formulare, sono individuabili alcuni tipi distinti: quello più semplice (nella manualistica Bindeformel o direct binding formula) è di carattere performativo (‘io lego x!’), vale a dire che la maledizione è realizzata già a partire dalla pronuncia (o scrittura) della frase, e in essa l’intervento divino è secondario. Un secondo tipo (Gebetsformel, prayer formula) prevede invece che la richiesta di maledizione sia rivolta direttamente alla divinità (‘lega x!’), e si intende espletata solo una volta che la richiesta sia accolta; questa formula è chiaramente derivata dalla preghiera religiosa, ma si discosta da essa essenzialmente per il carattere esclusivamente privato, su cui si tornerà più avanti. Un terzo tipo, infine, è il cosiddetto similia similibus, dove si fa ricorso ad anologie persuasive del tipo «come questo piombo è freddo e inerte, così x possa diventare freddo e inerte», eventualmente accompagnato dall’invocazione alla divinità. 3 Va detto che quest’ultimo tipo rafforza l’idea, già accennata in precedenza, che vi sia un aspetto altamente simbolico e metaforico nelle operazioni con cui è trattata la laminetta di piombo. È un fatto, comunque, che tutte le defixiones presentano uno stesso elemento testuale: il nome del defisso. 4 Al contrario, non compare quasi mai il committente della maledizione, per ragioni ben comprensibili: da un lato, inserire il proprio nome nel testo di defissione significava fornire una prova del coinvolgimento in pratiche perlopiù vietate nell’antichità e per questo severamente punite; ma soprattutto, scrivere il proprio nome significava esporsi al rischio di essere oggetto di pratiche defissorie uguali e contrarie. Del resto, non mancano tipi defissori che presentano eccezioni a tali regole, motivate perlopiù sul piano funzionale e contestuale; ad esempio, le cosiddette ‘preghiere di giustizia’ (prayers for justice, Gebete um Gerechtigkeit), in cui il defiggente chiede giustizia per sé, e quindi deve essere nominato, contro altri che, ad esempio nel caso di furti da parte di ladri ignoti, non  







@   Poccetti @99@, pp. @97-@99; secondo Poccetti (cfr. pp. @82-@84), inoltre, la fissazione di testi orali nello scritto sarebbe favorita da momenti di crisi culturale. Sull’argomento si veda anche Faraone @99@a, p. 4, il quale, a differenza di Poccetti, sembra sostenere che oralità e scrittura nelle defixiones avrebbero avuto uno sviluppo parallelo. 2   Audollent @904, pp. lxxxviii-lxxxix. Cfr. anche Faraone @99@a, p. @0; Lambert 2004, pp. 78-79; Kropp 2004, pp. 84-85. 3   Cfr. Faraone @99@a, p. 5 (il quale parla anche di una formula di augurio o wish formula, strettamente connessa al terzo tipo); Gager @992, p. @3; Kropp 2004, pp. 90-97. 4   Audollent @904, pp. xlix-l; Audollent nota anche (pp. l-li) che nelle defixiones le formule onomastiche sono completate più spesso dal metronimico che non dal patronimico: questo perché, dal momento che si doveva dare il maggior numero di informazioni per l’identificazione della persona da maledire, mentre il padre naturale poteva essere diverso da quello sospettato, la madre non poteva essere oggetto di dubbi.

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possono invece essere nominati; o ancora, le defixiones amatorie, dove spesso il (o la) pretendente invoca su di sé le attenzioni dell’amato. @ Finora si è solo accennato, senza mai parlarne direttamente, delle divinità a cui sono rivolte le richieste di defissione. Dai tipi formulari appena esaminati si comprende che il riferimento ad una divinità è frequente, ma ciò non accade sempre, soprattutto quando si abbia a che fare con formule del primo tipo. Come nota Audollent, 2 le divinità invocate sono spesso entità infere minori: questo, come detto sopra, spiega il ricorso a luoghi di deposizione come tombe, pozzi o sorgenti, che si pensava materialmente e simbolicamente in contatto con l’aldilà, mentre nel caso di deposizioni in santuari è evidente che, come accennato sopra, le stesse divinità oggetto di preghiera nei contesti della religione pubblica sono coinvolte nei riti e nelle pratiche della magia. Quest’ultima osservazione permette di introdurre l’ultimo argomento, quello relativo alla collocazione sociale delle pratiche defissorie, e il loro rapporto conseguente con la religione ufficiale. È un fatto che tali pratiche, nell’antichità e soprattutto a Roma, erano proibite; 3 è evidente però, nota Lambert, 4 che la proibizione coincideva spesso con momenti di crisi, ed era messa in atto per periodi limitati; in qualche modo, inoltre, è possibile scorgere che il biasimo nei confronti della magia è direttamente proporzionale al suo successo e diffusione. Questo comporta che tali atti rientravano nella pratica quotidiana ed erano parte integrante del complesso sistema di riferimenti simbolici che poneva in correlazione l’uomo antico con la natura che lo circondava. Se infatti è vero che la magia è un fatto personale, privato, antisociale, segreto, contrapposto alla religione ufficiale che come tale è pubblica, tuttavia è evidente che esse attingono agli stessi argomenti, alle stesse forme espressive, in parte agli stessi luoghi, come accennato sopra nel caso di defixiones deposte presso santuari. Può essere quindi riduttivo relegare le pratiche defissorie all’ambito della pura superstizione e considerarle un sottoprodotto della religione: il rapporto tra esse è sicuramente più complesso, e in una certa misura la consueta distinzione operata tra magia e religione nel mondo antico può risultare inutile, se non fuorviante. 5  









2. Le tabellae defixionum etrusche La discussione sulla presenza di defixiones nella documentazione etrusca risale agli ultimi anni del xix secolo, ovvero dopo la pubblicazione della Lamina di Monte Pitti (Po 4.4). 6 È nota la vicenda: nei primi commenti al testo, anche in virtù del confronto con quello già noto della Lamina maggiore di Volterra, si avanza l’ipotesi che si tratti di un’iscrizione in cui sono annotati o i nomi dei partecipanti ad una cerimonia  

  Cfr. sull’argomento Gager @992, p. @4; Lambert 2004, pp. 76-77.   Audollent @904, pp. lx-lxvii. 3   Sulla legislazione contro le pratiche magiche si veda Phillips @99@. 4   Cfr. Lambert 2004, p. 75. 5   Sull’argomento si vedano, oltre al già citato Lambert 2004, anche Poccetti @99@, p. @85; Faraone 6 @99@a, pp. @7-20; Kropp 2004, p. 84.   Gamurrini @89@. @

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riccardo massarelli

funebre o i nomi dei defunti sepolti nella tomba. @ Tale ipotesi è sostenuta in particolare da Torp, 2 al quale sfugge una breve nota di Skutsch, 3 in cui per la prima volta è suggerita l’ipotesi che possa trattarsi, per dati materiali incontrovertibili (l’uso del piombo; la presenza di più nomi; la deposizione in tombe), di defixiones. Successivamente, le argomentazioni di Skutsch sono recepite dallo stesso Torp, il quale nella pubblicazione sull’iscrizione di Lemno riconosce l’errore, 4 mentre sono in parte criticate da Lattes, secondo il quale l’assenza di metronimici nelle formule dei personaggi nominati nella Lamina di Monte Pitti sarebbe un argomento contro l’interpretazione del testo quale defixio. 5 Nonostante ciò, l’interpretazione di Skutsch, ripetuta anche successivamente, 6 si dimostra essere la più valida, tanto che Audollent inserisce i testi di Volterra e Monte Pitti tra le defixiones dell’Etruria, insieme alla Lamina aurea cie 5564, rivelatasi poi falsa, 7 e a due testi latini, uno da Perugia e uno, di gran lunga più famoso, da Arezzo. 8 Da allora, non vi sono state obiezioni di rilievo all’interpretazione dei testi quali defixiones; 9 ulteriori argomenti sarebbero potuti venire, oltre che da un progressivo affinamento delle tecniche di interpretazione, anche da eventuali nuove scoperte di documenti in grado di accrescere il piccolo corpus delle tavolette defissorie etrusche, che purtroppo non ci sono state: oltre alla già citata Lamina di Monte Pitti (Po 4.4) e alla serie delle Lamine da Volterra (Vt 4.@-3, alle quali si aggiungono Vt 4.4 e Vt 4.6), sono ora note soltanto due statuette in piombo iscritte da Sovana (av 4.2-3), delle quali si discuterà in seguito quali espressioni di un particolare tipo di pratica defissoria, e una laminetta di recente pubblicazione, proveniente da Ardea nel Lazio, 10 che presenta diversi problemi di lettura e interpretazione.  



















@   Si veda Gamurrini @89@, pp. 434-435; peraltro, a p. 433, Gamurrini mostra di conoscere la classe delle defixiones, ovvero delle lamine in piombo iscritte a carattere ‘imprecatorio’; cfr. anche Gamurrini @895. 2   Torp @902-@903, ii, pp. @@2-@24. Successivamente Vetter non mancherà di rimarcare l’incidente occorso a Torp, definendolo «Ein methodisch sehr bemerkenswerter Irrtum, der allen zur Warnung dienen kann, die sich auf dem beschwerlichen Wege der kombinatorischen Arbeitsweise ernstlich um das Problem der etruskischen Sprache bemühen» (Vetter @924, p. @48). 3   Skutsch @895, p. 259; a dire il vero, Skutsch inizialmente parla di devotiones, confondendo in parte le due tipologie (sulla distinzione tra defixio e devotio cfr. Audollent @904, pp. xxxvi-xxxviii), ma il senso è chiaro nella successiva nota scritta dallo stesso Skutsch per la raccolta delle defixiones attiche di Wuensch, dove è chiamato a presentare i testi italici ed etruschi (cfr. ig iii 3, p. xxiv, nota @). 4   Torp @903, p. 62; anche Torp usa il termine devotio. 5   Lattes @904, pp. @3-34; in particolare, p. @9 tratta della questione del metronimico (per la quale si rimanda anche a quanto detto sopra), che almeno nel caso della Lamina maggiore di Volterra non sembra avere ragion d’essere, dal momento che gran parte delle formule onomastiche presenta proprio il metronimico. Del resto, in lavori successivi anche Lattes sembra accettare la lettura del testo di Monte Pitti quale «lamina verosimilmente imprecatoria» (cfr. Lattes @9@4, p. @99). 6   Cfr. F. Skutsch, in re vi @, @907, coll. 785-786, s.v. Etrusker. 7 8   Cfr. Pfiffig @972, p. 6.   Cfr. Audollent @904, pp. @8@-@86. 9   Si veda al riguardo Buonamici @932, pp. 363-366, il quale peraltro sembra accettare la lettura quale defixio della Lamina di Monte Pitti, mentre è più dubbioso per quanto riguarda quella di Volterra. Cfr. inoltre Danielsson in cie 52@@ e, successivamente, Pfiffig @968a, pp. 28-30; Pfiffig @975, pp. 363-366; Steinbauer @999, pp. 3@0-3@@; Facchetti 2000b, pp. 247-250; Benelli 2007, p. 266; Wallace 2008, pp. @9@-@94. Unica voce dissonante, quella della Fiesel in merito alla Lamina di Monte Pitti (cfr. Fiesel @935, p. 250, ma si veda anche sotto al § 4). Sull’argomento si rinvia infine alla relazione dal titolo Le defixiones nel mondo etrusco, tenuta dallo scrivente al iii Convegno Internazionale sugli Antichi Umbri (Massarelli @0 c.s.).   Cfr. G. Colonna, in ree 69, 55.

183

le defixiones etrusche 3. Le Lamine di Volterra

Secondo quanto riportato nel Corpus, 1 nel dicembre del @755, nel podere San Girolamo nei pressi di Volterra, fu scoperto un ipogeo funebre composto da due stanze sovrapposte; in quella inferiore, frammiste a resti di urne e ceneri, furono rinvenute alcune laminette in piombo iscritte, tenute insieme come una sorta di lettera: la più grande (Vt 4.@), un foglio di forma quasi rettangolare largo 33 cm circa e alto @@,8 cm, era piegata in due a metà larghezza, e all’interno della sacchetta così ottenuta erano state riposte altre due laminette più piccole (Vt 4.2-3), anch’esse iscritte; a tenere insieme le lamine provvedeva infine un legaccio costituito da una striscia di piombo che avvolgeva la lamina più grande.  

Fig. 8. Lamina maggiore di Volterra.

L’attenzione degli studiosi si è concentrata da subito sulla lamina maggiore, che anche soltanto ad una prima osservazione mostra chiaramente di contenere una lista di nomi propri. La dinamica della redazione del testo è stata individuata con discreta verosimiglianza da Vetter, che ha dedicato all’iscrizione uno studio approfondito, @ ma già a partire dalla seconda lettura di Pauli era emersa con chiarezza la presenza di più mani, circostanza sulla quale si tornerà più avanti. Di seguito si forniscono le principali letture del testo maggiore di Volterra, 3 ed in appendice i brevi testi delle altre laminette, così come sono stati verificati tramite esame autoptico effettuato il @6 dicembre 20@0 (cfr. Figg. 8; 9 a-b e Tavv. v; vi a-b):  



2   cie 52 a, b, c (e additamentum, pp. 604-605).   Vetter @960.   Legenda: Pa@. = cie 52 (C. Pauli); Pa2. = cie i, Add. p. 604 (C. Pauli); Pl@. = tle 40@ (M. Pallottino); Pl2. = tle2 40@ (M. Pallottino); Ri. = et ii, Vt 4.@ (H. Rix); Ve. = Vetter @960. I sistemi di notazione filologica sono stati uniformati. Delle varie letture sono riportate anche le integrazioni proposte, mentre per il momento si è evitato di segnalare quali siano le parti scritte dalle diverse mani, rimandando la questione al paragrafo successivo. Non sono state prese in considerazione le letture di Torp (@902-@903, ii, p. @@3), che riprende essenzialmente la lettura di Pa2. e solo per quanto riguarda il lato a, di Audollent (@904, p. @8@), che invece riporta la lettura in Pa@., e di Lattes @904, pp. 6-@3, che tratta solo singoli punti del testo. Quando non è indicata la lettura adottata è implicito che si tratti di congettura di chi scrive. @

3

184

l., r.

riccardo massarelli

testo

lettura adottata

altre letture

Vt 4.@ a@

Pa 2. v . supni . ast ºnei

v . supni . asºtnei

Pa @. Pl@. Ve. Pl2. Ri. v . supni . astnei v . supni . larqi . puinei l

a2

Ve. Ri.

Pa @. v . supni . larqi . puinei x Pa 2. Pl2. v . supni . larqi . puinei l l Pl@. v . supni . larqi . puinei /xx/

a3

v . supni . velanial

tutti

a4

v . supni . ceicnal

tutti

a5

l . velusna . felmuial

Pa @. Pa 2. Ve. Pl2. Ri.

Pl @. v . velusna . felmuial

a6

v . velusna . v calati(al)

Ri.

Pa @. Pa 2. Ve. v . velusna . v calati Pl@. Pl2. v . velusna . v /calati/

a7

v . puina . armnial

a8

l . larqru . fulnei

a9

p ultace . ceicna(l) icap . linei

tutti tutti l larqru . fulnei Ri.

Pa@. pultace . ceicna . icapui/nei Pa 2. pultace . ceicna . icap . linei Pl @. pultace . ceicnai . icap . l ºi/nei Ve. p ultace . ceicna . icap . linei Pl 2. pultace . ceicna . icap . l ºi/nei

a @0

l . larqru . qepza

Pa @. Pa 2. Ve. Pl2. Ri.

Pl @. l . larqru . qepzu

a @@ @

cure . malave p utace

Ri.

Pa @. cure . malave pultace



£

Pa 2. cure . malare Pl @. Ve. Pl2. cure . malave a @2

l º l ºaºrºi ºstna . v . /cuºrºe-/ acap . fuluna

Ri.

Pa @. l ??? ist ? v ? qºa @3vºlcaeº ful/una Pa2. l . v . cist ºnºaº . v . eqºa putace @3lv . icap . fuluna Pl@. laºristnºaº . vº . eºqa . putace @3zvº . i . cap . ful/una Ve. l ceºstna . v acap . fuluna Pl2. l º . cºi ºsºt ºnºaº . vº . i º . cap . ful/una

a @3

l ut ºacºe

Ri.

£

Pa @. l º ultºace (?) Pa2. upºacv Pl @. (pº)ut ºaceº? Ve. l ut ºaceº Pl2. putace

  Per Pa2. e Pl @. la parola putace è da collocare non alla fine della r. a @@ (come già Pa@. e poi Ri.), ma alla fine della successiva, la r. a @2; Al contrario, Ve. e Pl2. considerano la stessa parola appartenente non al testo del lato a ma a quello del lato b, di cui costituirebbe, insieme alla r. a @3 (l utºacºe) e alla parola cure qui inserita nella r. a @2, un’aggiunta scritta negli spazi lasciati liberi dalle precedenti incisioni. @

le defixiones etrusche l., r.

testo

lettura adottata 2

185

altre letture

b@

acap . fuluna . mazutiu

Pa . Ve. Ri.

Pa @. acep . fuluna . mazutiu Pl@. acaºp . fuluna . mazutiu Pl2. acaºp º . fuluna . mazutiu

b2

l . larq(r)u . canis

Ve. Ri.

Pa @. l . larqu Pa 2. l . larqu . canis Pl @. Pl2. l . larqui º / . canis /

b3

la . armne

Ve. Ri.

Pa @. l ºa . armne Pa2. la . armni Pl @. Pl2. a . armne

b 4@

alpuz . fuluna

Pa 2. Ve. Ri.

Pa @. alruz . fuluna Pl@. alpuz 5larqu fuluna Pl2. alpuz / l larqu / fuluna

b5

l larq(r)u

Ri.

Pa @. l . larqu Pa 2. vacat Pl @. (si veda sopra) Ve. l . larq(r)u Pl2. (si veda sopra)

b6

a . velan(e) . l . puine

Ri.

Pa @. a . velani º . puine Pa2. Pl@. Pl2. a . velan . l . puine Ve. a . velan(e) . l . puine(i)



b7

a .velusna

tutti

b8

fasti ºaº . larq(r)u(i)

Ri.

b9

la(r)qi flavi urin(a)te(s´)

Pa @. fastaº . l º . larqu Pa 2. Ve. fasta . ilarqu Pl @. Pl2. fasta . i larqu Pa@. Pl@. laqi .. flavi urmte Pa 2. laqi .. flavi uri ºnºte Ve. la(r)qi .. flaveº urin(a)te(s) Pl 2. laqi .. flaveº uri ºnºte Ri. larqi flavi urin(a)te(s´)

b @0

l . armne

tutti

b @@

mas . ve . ceicnei

Pa 2. Pl@. Ve. Pl2. Ri.

Pa @. masve . ceicneºi

b @2

f(l)ave setra fel º(mui)

Ri.

Pa@. Pa 2. faves etra fvi Pl @. fave setra fvi Ve. f(l)ave setra fel º(mus) Pl 2. fave setra feºl º?

b @3

qus´ceº . feºl ºmv . larq u{.}taceº

Ri.

Pa @. qus´ce . fvimv . laºrqu . paceº Pa 2. Pl@. qus´cvº . fvimv . larqu . pacv Ve. qus´ce . fel ºmv(s) . larq [.] u{.}tace Pl2. qus´ceº . feºl ºmv . larqu pºaºcºeº?

@   Pallottino (tanto Pl@. che Pl2.) considera la formula onomastica (l) larqu (qui indicata alla r. b 5) come inserita successivamente dallo scriba tra le parole alpuz e fuluna della r. b 4.

186

riccardo massarelli

l., r.

testo

Vt 4.2

lettura adottata

altre letture

@   2 qus´aqur selasva 4 qupit(a) aisece tati

qlu

3

Ri.

Pa @. qus´aqur 2se . lasva 3qlu qupit aisecetati

4

Pa2. qus´aqur 2se . lasva 3qlu qupit aisecet . ati

4

Pl@. qus´aquaº 2se(.)lasva 3qlu qupita isecet(.)ati

4

Pl2. qus´aquaº isecet(.)ati

4

2

se(.)lasva 3qluqupita

Vt 4.3 2  

Pa @. ] herace[ 2]p[ 3]e[

] herace [ 2]--- sºvuº[ 3]a-l º---[ 4 ]ureº[ 5]ein[

Pa 2. herace 2]--- svu[ 3]a-l---[ 4]--ure[ 5 ]---ein[ Pl@. Pl 2. [-?-] @] qerace 2]---svuº[ 3]a . l---[ 4] ure [ 5]--ein[ Ri. ] herace [ 2]--- svu[ 3]a- l º---[ 4]ure[ 5 ]ein[

a



Il testo della lamina maggiore (Vt 4.@) alterna parti facilmente leggibili a parti scritte più corsivamente: come già accennato sopra, le righe che non presentano difficoltà di lettura sono state scritte da una prima mano, più acculturata, mentre quelle più confuse sono perlopiù opera di una seconda. Secondo la lettura di Rix, la giusta suddivisione della paternità del testo tra le due mani sarebbe la seguente (in corsivo normale la prima mano, in carattere tondo la seconda, in tondo spaziato l’eventuale terza, che avrebbe scritto soltanto la parola canis): Lato a

Lato b

@

acap . fuluna . mazutiu l . larq(r)u . c a n i s la . armne alpuz . fuluna l larq(r)u a . velan(e) . l . puine

v . supni . asºtnei v . supni . larqi . puinei l 3 v . supni . velanial 4 v . supni . ceicnal 5 l . velusna . felmuial 6 v . velusna . v calati(al) 2

b Fig. 9. a-b) Lamine minori di Volterra.

4  Legenda: Pa@. = cie 52b (C. Pauli); Pa2. = cie i, Add. p. 605 (C. Pauli); Pl@. = tle 402 (M. Pallottino); Pl2. = tle2 402 (M. Pallottino); Ri. = et Vt 4.2 (H. Rix). 5  Legenda: Pa@. = cie 52c (C. Pauli); Pa2. = cie i, Add. p. 605 (C. Pauli); Pl@. = tle 403 (M. Pallottino); Pl2. = tle2 403 (M. Pallottino); Ri. = et Vt 4.3 (Rix).

187

le defixiones etrusche 7

v . puina . armnial l . larqru . fulnei 9 p ultace . ceicna(l) icap . linei @0 l . larqru . qepza @@ cure . malave p utace @2 lº lºaºrºisº tna . v . /cuºrºe-/ acap . fuluna @3 l utºacºe 8

a .velusna fastiºaº . larq(r)u(i) la(r)qi flavi urin(a)te(s´) l . armne mas . ve . ceicnei f(l)ave setra felº(mui) qus´ceº . feºlm º v . larq u{.}taceº

Dalla dinamica di redazione del testo, sembra chiaro che la prima mano ha scritto la prima parte dei nomi da maledire (rr. a @-@@), corredata da quella che sembrerebbe una formula defissoria in piena regola, cure malave (r. a @@), di cui si parlerà più avanti; successivamente, la seconda mano avrebbe aggiunto alla lista altri nomi (rr. a @@-@3, b @-@3), in parte affini e in parte del tutto diversi dalla prima sezione, oltre ad integrare le formule onomastiche scritte dalla prima mano, per poi forse terminare ripetendo un unico elemento della formula defissoria, cure, inserito, secondo Vetter, alla fine della stesura nello spazio lasciato vuoto in mezzo alla r. a @2. La mancanza di dati certi sui contesti di ritrovamento rende difficoltosa una collocazione temporale delle laminette: allo stato della documentazione, solo un’attenta osservazione delle caratteristiche grafiche può permettere di formulare ipotesi di datazione. L’alfabeto delle lamine di Volterra sembra essere riconducibile al tipo ii (regolarizzato) della tassonomia individuata da Maggiani, @ che prende come parametri di riferimento la foggia di my e di altre lettere inserite in un microsistema grafico (heta, epsilon, tau, zeta): il my delle lamine è appunto di forma regolarizzata, con le tre aste maggiori verticali e le oblique che non arrivano a toccare i vertici inferiori delle aste maggiori. Da notare, inoltre, la forma di tau e zeta con traverse secanti (ascendenti), epsilon e wau con le aste orizzontali leggermente oblique (epsilon con breve codolo), alpha a struttura quadrangolare. Maggiani nota che il tipo ii, nato in ambito meridionale tra la fine del vi e l’inizio del v secolo a.C., arriva al nord molto tempo dopo, intorno al iii secolo a.C., e ben presto soppianta tutti gli altri tipi, «diventando a partire dal iii secolo la sola vera grafia nazionale, praticamente fino alla scomparsa dell’etrusco scritto». 2 Per una migliore determinazione della datazione delle lamine potrebbe allora essere utile la conformazione di rho, che soprattutto da parte della prima mano è scritto con l’occhiello piuttosto ampio e praticamente senza codolo: Maggiani nota che il rho sviluppa un percorso evolutivo lineare di progressivo restringimento dell’occhiello e di comparsa del codolo inferiore, 3 e questo porrebbe l’iscrizione delle lamine in una fase meno avanzata all’interno del periodo di attestazione del tipo ii. Da notare, infine, che quanto detto per il rho della prima mano non sembra valere per il rho della seconda, già con degli accenni di restringimento di occhiello e presenza di codolo: questo non fa che confermare la cronologia relativa tra i due testi, e pone la redazione della seconda mano in un periodo di poco successivo a quello indicato per la prima.  





  Maggiani @990, pp. @88-@93.   Maggiani @990, pp. @9@-@92.

@ 3

  Maggiani @990, p. @9@.

2

188

riccardo massarelli

Analoghe considerazioni possono essere fatte sulle due iscrizioni minori, per quanto l’esiguità dei due testi non permetta approfondimenti; è ovvio, del resto, che le due laminette minori, Vt 4.2-3, condivideranno verosimilmente lo stesso ambito cronologico della Lamina maggiore, dal momento che sono state rinvenute tutte insieme. A parte le considerazioni sulla cronologia, è da rilevare peraltro che la grafia dei due testi minori risulta molto più corsiva, sicuramente non allineabile alla compostezza del testo redatto dalla prima mano, e solo in parte sovrapponibile alla maniera della seconda. In particolare, è degno di nota alpha a struttura triangolare (solo in un caso, il secondo alpha di selasva in Vt 4.2, sembra essere di foggia quadrangolare), e il rho con codolo, indice di recenziorità. Sul piano del significato e dell’analisi, le formule onomastiche non pongono problemi. Le prime quattro righe riportano i nomi di quattro personaggi, che si chiamano tutti vel supni: @ i primi due si distinguono perché ad essi è associato il nome della moglie, il primo solo con il gentilizio (la astnei), il secondo con prenome, gentilizio, nonché il patronimico integrato dalla seconda mano (larqi puinei figlia di larq); 2 gli altri due invece presentano il metronimico: il terzo è figlio di una velani, 3 il quarto di una ceicnei. 4 Il quinto e il sesto personaggio (a 5-6) sono due velusna: 5 il primo è un larq velusna figlio di una felmui, 6 il secondo un vel velusna figlio di vel e di una calati (quest’ultimo dato è parzialmente integrato dalla seconda mano). 7 La settima formula onomastica fa riferimento ad un vel puina figlio di una armni, 8  















@   Oltre all’iscrizione Vt 6.3, per la quale si veda sotto, altri confronti per il gentilizio supni sono s´upna (Vs 2.55), supnai (Vt @.@8), supnas´ (Cl 2.7). 2   Oltre alle attestazioni della Lamina maggiore di Volterra, sempre da Volterra è noto un altro puina (Vt @.@37). 3   Questo potrebbe essere lo stesso personaggio menzionato in un bollo su tegola proveniente dal territorio volterrano (Vt 6.3), rinvenuto alla fine dell’ ’800 e conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, databile forse su base paleografica alla prima metà del i sec. a.C. circa (cfr. A. Maggiani, in ree 46, 57); secondo Maggiani, per quanto l’identità delle due formule onomastiche sia evidente (sul bollo compare anche il patronimico: v . supni . v . velanial), appare singolare che un membro dell’alta società volterrana sia menzionato in un oggetto modesto come un bollo laterizio. Anche i velani sono noti perlopiù da Volterra: cfr. Vt @.@09 (velani), Vt @.@@0 (velanei), Vt @.39 (velanial); sono attestati anche velanal (Cl @.2434) e velanas (Fa 2.@2); come si vedrà, si tratta di una costante propria di tutti gli antroponimi della Lamina maggiore, che ritornano (a volte in maniera esclusiva) nell’onomastica volterrana, inserendo quindi a pieno titolo la Lamina stessa nel contesto sociale della città. 4   Il gentilizio ceicna è molto diffuso in età recente: gli indici degli et, ai quali si rimanda per i riferimenti epigrafici, contano circa 40 attestazioni, di cui circa la metà da Volterra. 5   Anche i velusna sono attestati perlopiù a Volterra: et Vt @.@@5, 2.23 (velusna), @.28 (velusnal), oltre a Cl @.@656 (velusnei). 6   Ancora una famiglia attestata quasi esclusivamente a Volterra: felmui (et Vt @.@9), felmuial (Vt @.25-26, @.36-37, @.80, @.@20, @.@63-@64); altre attestazioni: vhelmus (Cm 2.8; cfr. anche ree 60, 48). 7   Secondo Vetter (@960, p. @82) calati significherebbe ‘fanciulla’; per Torp (@902-@903, ii, p. @@4), invece, calati era un locativo da tradurre ‘nella cella funeraria’. L’integrazione calati(al), come si è visto, è stata proposta da Rix negli et: il metronimico calatial è noto anche da et Cl @.2@04. 8   A Volterra sono presenti un gentilizio armni (Vt @.@4) e un metronimico armnal (Vt @.@5); altre attestazioni: armnal (Cl @.2495), armne (Vs @.302), armnes (Vs @.@33, Vc @.8), armnes´ (Sp 2.40), armni (Vs @.263), armunia (Cl @.@23, Pe @.927); infine, si vedano le recenti scoperte, tutte databili alla prima metà del ii sec. a.C., dalla necropoli di Pian dei Lupi presso Castiglioncello, vicino Pisa: armnº[ (ree 7@, 2), ar{.}mni (ree 7@, 3), armni (ree 7@, 4-6).

189

le defixiones etrusche

mentre l’ottava ad un larq larqru, @ associato alla moglie, una fulnei. 2 La riga seguente presenta un nome di persona che ritorna più volte nell’iscrizione: è merito infatti di Vetter 3 aver individuato il gentilizio u(l)tace, nel testo accompagnato due volte dall’abbreviazione p, che per Vetter sta per p(upli), mentre altre due volte si trova associato al pronome larq, sia scritto per esteso sia abbreviato. Qui, in r. a 9, è indicato come figlio di una ceicnei, e la seconda mano ha completato la stringa con una frase, icap linei, 4 dal significato ignoto: la prima parola è chiaramente in connessione con l’altra, acap, che compare all’inizio del lato b (acap fuluna), ma torna essa stessa anche alla fine del lato a (r. @3), nella sequenza icap fuluna; è incerto se debba essere mantenuta come tale o se, come sostengono Vetter e Rix, debba essere intesa come un errore di scrittura da correggere in acap, sulla base della stringa iniziale del lato b. Per Vetter 5 icap e acap potrebbero essere anche degli avverbi o delle congiunzioni, ma le frasi che introducono sarebbero formalmente assimilabili ad analoghe frasi latine (qui et...) o greche (oJ kaiv..., o{~ kaiv...), presenti nelle defixiones, che avevano lo scopo di specificare ulteriormente la formula onomastica del defisso; in questo senso, la r. a 9 starebbe secondo Vetter per ‘p(upli) ultace, figlio della ceicnei, che (è detta?) anche linei’, o qualcosa del genere. È errata invece l’ipotesi, sostenuta da Vetter, che la distinzione tra icap e acap faccia riferimento al genere: come è noto, 6 l’etrusco non distingue il genere grammaticale. Sembrerebbe invece più fondato il confronto con i due relativi in e an, per quanto il parametro dell’animatezza, che è stato usato per spiegare la variazione d’uso fra i due relativi, 7 non sembrerebbe aver molto senso per icap e acap, che sono qui usati sempre con nomi propri di persona. Il decimo nome è di nuovo un larq larqru, questa volta ulteriormente specificato dal termine qepza, che secondo Vetter sarebbe un cognome. 8 Infine, con la r. @@ del lato a, l’ultima scritta dalla prima mano, si ha quella che Vetter considera la formula defissoria; già Torp, 9 per quanto fuorviato nell’analisi globale del testo, aveva però supposto il carattere verbale dei due termini, cure e malave; Vetter, pure mostrando cautela nel proporre traduzioni, sostiene che, una volta ipotizzato il carattere giuridico della laminetta defissoria, sulla base dei confronti con la documentazione osca e latina sarebbe del tutto probabile che si tratti di una formula specifica del tipo ‘possano tacere’, ‘non devono poter parlare’, ‘devono perdere la memoria’. @0 In effetti, il fatto che si trovino alla fine del  



















  Unica altra attestazione sempre da Volterra: larqrus´ (Vt @.68).   Di questo gentilizio si conoscono molte varianti: sempre a Volterra sono attestati fulnai (Vt @.44, @.@67), fulunei (Vt @.@66) e due volte il metronimico fulunal (Vt @.38, @.@@5). 3     Vetter @960, p. @82. 4     È nota una forma line (as @.298, @.307, @.3@4). Secondo Facchetti qui starebbe per icap(ri) linei, è sarebbe da intendere come una formula onomastica (Facchetti 2000b, p. 248). 5     Vetter @960, p. @83. 6     Cfr. sull’argomento Agostiniani @995a (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 243-257). 7 8     Agostiniani, Nicosia 2000, p. @00.   Cfr. anche Rix @963, pp. @47, 24@. 9     Cfr. Torp @902-@903, ii, pp. @@4-@@6. @0   Vetter @960, p. @84. Pfiffig invece propone un significato del tipo ‘devono andare sottoterra, precipitare nella sfortuna’ (Pfiffig @975, p. 364). Facchetti sostiene invece che qepza cure malave sia una formula onomastica: anche il cure di r. a @2 sarebbe un gentilizio, il cui prenome abbreviato sarebbe il v. che viene prima, qui inteso invece come patronimico di l. laristna (Facchetti 2000b, p. 248); un’ipotesi simile era già in Rix @963, p. 349, che riteneva cure un prenome.  



@

2

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testo scritto dalla prima mano, dopo una serie ininterrotta di formule onomastiche, rende molto probabile l’eventualità che si tratti di una formula defissoria; anche sul piano grammaticale, poi, l’ipotesi è verosimile: il primo termine, cure, potrebbe essere un ingiuntivo in -e, mentre malave richiamerebbe altre forme verbali in -ve, peraltro di significato non del tutto chiaro; @ cure, infine, sembra tornare anche nella parte di testo scritta dalla seconda mano, più precisamente inserito in un secondo momento in mezzo alla r. a @2. Sul piano del significato, invece, mentre non è possibile trovare confronti accettabili per cure, per quanto riguarda malave il rimando potrebbe essere la radice verbale mal-, il cui significato dovrebbe ricadere nell’area del ‘guardare, osservare’. 2 La prima parte del testo, quella redatta dalla prima mano, nomina pertanto circa @3 persone, facendo poi riferimento indirettamente ad altre 6 (8 se si considerano anche le due integrazioni, alle rr. a 2 e 6, della seconda mano); è di incerto significato l’inciso icap linei scritto dalla seconda mano alla r. a 9, mentre sembra probabile la presenza di una formula defissoria alla r. a @@. Questi, nel complesso, i gentilizi nominati: supni, astnei, puinei, velani, ceicnei, velusna, felmui, calati, puina, armni, larqru, fulnei, ultace. Come si vedrà, molti di essi ritornano anche nella parte redatta dalla seconda mano, pur con alcune differenze che segnalano lo scarto di abilità scrittoria tra i due scribi: in particolare, si nota come la seconda mano semplifichi sistematicamente i nessi consonantici con liquida, omettendo di scriverla: così, ultace diventa utace (rr. a @@, @3, b @3), larqru diventa larqu (rr. b 2, 5, 8), oltre a la(r)qi di r. b 9 e soprattutto f(l)ave di r. b @2, assente nella parte scritta dalla prima mano, ma che evidentemente ripropone lo stesso errore, dal momento che la stessa seconda mano lo scrive correttamente alla r. b 9 (flavi). Tutto ciò, oltre a mostrare chiaramente quanto la seconda mano sia meno abile della prima, è una prova del fatto che il testo aggiunto dalla seconda mano è in qualche modo correlato al testo della prima, fa riferimento agli stessi ambiti sociali e verosimilmente rappresenta una continuazione consapevole di quanto è espresso nella prima parte. Come aveva già notato Vetter, il testo della seconda mano, se si escludono le integrazioni al testo della prima (rr. a 2, 6, 9), inizia sotto la probabile formula defissoria della r. a @@; dopo aver scritto una tredicesima riga nel lato a, lo scriba avrebbe inciso tutto il lato b, quindi avrebbe continuato nell’unico spazio libero rimasto, ovvero a sinistra delle ultime righe del lato a (alcune scritte da lui stesso), concludendo infine con l’inserimento della parola cure a metà della r. a @2. Secondo questa ricostruzione, quindi, il nome che compare a completamento della r. a @@, p(upli) u(l)tace, sarebbe stato aggiunto in realtà quasi per ultimo, e sarebbe una ripetizione del personaggio già menzionato dalla prima mano alla r. a 9. Segue alla r. a @2 un nuovo nome, di difficile comprensione: è qui accolta la lettura l(arq)  



  Le uniche altre attestazioni di forme verbali in -ve sembrano essere tenve e zilacnve di Vs @.@79; Wylin sostiene che le forme in -ve siano funzionalmente equiparabili a quelle in -u, dal momento che occorrono nelle stesse posizioni (Wylin 2000, pp. @32-@34). 2   Agostiniani, Nicosia 2000, p. @06. @

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laristna v(elus clan), proposta da Rix (e in parte anche da Pallottino). @ Segue la formula defissoria cure, inserita alla fine della stesura del testo, quindi la frase acap fuluna: questa in realtà sarebbe icap fuluna ma, come anticipato sopra, Vetter e Rix ritengono che sia un errore per acap fuluna, che ritorna identico all’inizio della r. b @. Anche la r. a @3, così come il completamento della r. a @@, sarebbe secondo Vetter un’aggiunta finale: qui è ripetuto il nome l(arq) u(l)tace, nominato già alla r. b @3. Pertanto, senza contare le aggiunte successive, la giusta successione sarebbe: nome alla r. a @2 (l laristna v), formula acap fuluna alla r. a @2 (ex icap), inizio della r. b @ con acap fuluna. Secondo Vetter 2 la ripetizione di acap fuluna non sarebbe altro se non un rimando alla pagina precedente, anticipando in qualche modo un uso corrente tra gli amanuensi medievali. Il nome che segue, mazutiu, richiama il mazuti lautni cnev(nas) della laminetta Vt 4.6, di cui si parlerà in seguito; secondo Vetter è il nome del servo di origine gallica del personaggio indicato alla r. a @2. 3 Segue, alla r. b 2, la ripetizione del personaggio l(arq) larq(r)u, già incontrato alla r. a @0 e nominato più avanti anche alla r. b 5; aggiunta forse da una terza mano si trova quindi la parola canis, che secondo Vetter 4 potrebbe essere la traduzione latina (scritta però in caratteri etruschi) di un termine etrusco: non ci sono elementi per sostenere questa ipotesi, che sembra chiaramente un ad hoc ermeneutico. Alla r. b 3 è nominato un la(ris) armne: la famiglia armne era presente già alla r. a 7, come metronimico di vel puina, e ritorna poi alla r. b @0. La riga successiva presenta un termine alpuz, che per Vetter è un appellativo, seguito da fuluna, antroponimico già noto dalle rr. a @2 e b @, quindi la ripetizione del nome di l(arq) larq(r)u. La r. b 6 contiene le formule onomastiche di a(ule) velan(e), verosimilmente parente del vel supni di r. a 3 la cui madre è una velani, e di un l(arq) puine, anch’esso probabilmente consanguineo del puina di r. a 7. 5 Alla r. b 7 è nominato a(ule) velusna, parente dei velusna delle rr. a 5-6, quindi alla r. b 8 fastia larq(r)u(i), parente dei larq(r)u già menzionati (rr. a 8, b 2, 5). Segue alla r. b 9 un altro nome femminile, la(r)qi flavi urin(a)te(s´): 6 nella precedente lettura di Vetter, larqi era un personaggio diverso dal flave (questa l’interpretazione), maschile, di origine italica, ed en 











  Sono noti laristnei (Cl @.834, Pe @.705, Ar @.85) e laristnal (Cl @.@863, @.209@, Ar @.87).   Cfr. Vetter @960, p. @84. 3   Cfr. Vetter @960, p. @84; Rix lo considera un nome servile di non chiara origine (Rix @963, p. 364). Per Facchetti, infine, la stringa sarebbe da integrare come acap(ri) fuluna mazutiu (e, allo stesso modo, acap(ri) fuluna in r. a @2), ennesima formula onomastica, analoga alla precedente icap(ri) linei di r. a 9 4 (Facchetti 2000b, p. 248).   Vetter @960, p. @85. 5   I due gentilizi, velani e puina, si trovano uniti in uno stesso bollo doliare, l . velani . puina, proveniente da Rocchette Pannocchieschi, nell’Ager Saenensis ma non lontano dal territorio volterrano (ree 65-68, @29, cfr. anche Benelli 2007, pp. 233-234): secondo Ciacci, autore della nota epigrafica, il bollo è databile al i sec. a.C. e, se fosse riconosciuto che la persona menzionata è il figlio del defisso nella Lamina di San Girolamo (a . velan(e) . l . puine è considerata da Ciacci una singola formula onomastica, non due come qui proposto), questo comporterebbe un ulteriore abbassamento della datazione della Lamina stessa. Il bollo è certamente da confrontare con l’altro bollo di cui si è già parlato, pubblicato da Maggiani, in cui è forse nominato uno dei personaggi defissi, il v . supni . velanial di r. a 3 (cfr. ree 46, 57). 6   A Volterra è ben attestato il gentilizio flave (Vt @.23-28), oltre ad un metronimico flavial (Vt @.@65). Altre attestazioni: flavienas (Vs @.55), flaviies (Cm 2.6@), flavelnas (Ta 2.28), vhlave (Cl 2.20), hvlaves` (ree 57, 45). Anche urinate è noto a Volterra: urinate (Vt @.@59), urinati (Vt @.@60-@6@). @

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trambi erano servi del patronus indicato con il solo gentilizio, urinate; la lettura di Rix implica invece che si tratti di un’unica persona, larqi flavi, eventualmente serva di urinate; il nome proprio flave ritorna poi anche alla r. b @2. Dopo la r. b @0, che ripropone il nome di un appartenente alla famiglia armne (l(arq), ma potrebbe essere anche il laris di r. b 3), nella r. b @@ si ha un enunciato meno chiaro: mas potrebbe essere un’abbreviazione, anche se di significato oscuro, mentre ve, data anche la presenza subito dopo del femminile ceicnei, è verosimilmente l’abbreviazione del prenome ve(lia): Vetter @ nota come il secondo scriba, pur meno alfabetizzato, distingua chiaramente l’abbreviazione per il prenome femminile ve(lia) da quella per il prenome maschile v(el). La penultima riga, b @@, di incerta lettura, è stata ricostruita da Vetter come f(l)ave setra fel(mus), mentre Rix integra l’ultima parola non con fel(mus) ma con fel(mui): la differenza non è di poco conto, poiché nell’ipotesi di Vetter si tratterebbe di due servi, flave e setra, al servizio di un felmu; nell’ipotesi di Rix, invece, dopo la menzione di flave si avrebbe quella di setra felmui, rappresentante femminile della famiglia felmu. Ciò che segue alla r. b @3, l’ultima riga, secondo Vetter è semplicemente il nome di un ennesimo personaggio da maledire, qus´ce felmv, forse di origine servile, dove qus´ce starebbe per il latino Tuscus come flave per Flavus, oltre alla ripetizione, questa volta non abbreviata, del nome di larq u(l)tace, già noto dalla r. a @3. 2 Il gentilizio felmv è noto già dal metronimico di larq velusna di r. a 5, e ritorna, abbreviato e scritto con phi, anche in b @2. Sembra tuttavia degno di nota il fatto che in qus´ce il nesso consonantico sibilante + occlusiva non comporti la palatalizzazione della sibilante stessa, come mostra la scrittura con san (s´), che nell’alfabeto settentrionale recente, quello usato anche a Volterra e impiegato nella lamina, indica la sibilante postdentale [s]. Questa norma, che è propria anche dei nessi sibilante + nasale e che riflette un tratto dialettale settentrionale, 3 è rispettata piuttosto regolarmente tanto dalla prima che dalla seconda mano: si vedano a[sˇ]tnei (a @), velu[sˇ]na (a 5-6, b 7), lari[sˇ]tna (a @2), fa[sˇ]tia (b 8). Di fatto, qus´ce è l’unico punto in cui sia utilizzato il san: questo, di per sé, esclude che l’alfabeto teorico utilizzato dai due scribi prevedesse un fenomeno di ‘ipodifferenziazione grafica’, ovvero un solo grafema per le sibilanti, come del resto è possibile, soprattutto nelle iscrizioni più tarde. Né tantomeno è possibile ipotizzare che questo sia frutto di selezione casuale; anche in altre due parole del testo, [sˇ]upni (a @-4) e [sˇ]etra (b @2), entrambe con sibilante palatale, il segno atteso è sigma; resterebbero senza spiegazione invece mas di b @@, che potrebbe essere anche un’abbreviazione, e canis (?) di b 2, scritto dall’ipotetica terza mano. L’unica spiegazione plausibile per la mancata palatalizzazione della sibilante in qus´ce sembra essere la presenza di un confine di morfema. Fenomeni di restrizione morfologica di questo tipo sono stati studiati recentemente da Agostiniani, con particolare attenzione all’etrusco. 4 La sibilante postdentale in qu[s]ce permette quindi di ipotizzare una segmentazione in qus´-ce: il secondo elemento sembrerebbe con tutta evidenza il morfema verbale di preterito attivo etrusco. Il fatto che la lista dei nomi  







2   Vetter @960, p. @85.   Cfr. Vetter @960, p. @86. Così anche Facchetti 2000b, p. 248. 4   Si veda sull’argomento Agostiniani 2006.   Agostiniani 2009a.

@

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dei defissi si concluda con una forma verbale attiva al passato, di cui i defissi dovrebbero essere il soggetto grammaticale, potrebbe sembrare insolita, ma potrebbe trovare comunque una sua spiegazione; ciò che più sorprende, però, è che la radice verbale qus´- ritorna, identica, anche in una delle laminette minori di Volterra, Vt 4.2, nella parola qus´aqur. Il fatto, considerata anche l’appartenenza delle lamine allo stesso contesto, non può essere ritenuto casuale, per quanto sia stato perlopiù ignorato da tutti, così come non è mai stata affrontata un’analisi dei testi che non riguardasse soltanto la lamina maggiore (Vt 4.@), ma che comprendesse anche il confronto con i due testi Vt 4.2-3. Ora, partendo da una radice qus´-, l’analisi più verosimile di qus´aqur è che si tratti di un plurale animato di nomen agentis in -aq (qus´-aq-ur); @ il confronto più diretto è con la forma nuqan-at-ur della Tabula Cortonensis. 2 Sul piano del significato, sono possibili solo delle supposizioni; ammettendo il carattere giuridico del testo di Vt 4.@ già ipotizzato da Vetter, si potrebbe pensare ad esempio che le persone indicate sul lato b, al termine del quale si trova qus´ce, ‘hanno giurato il falso’, oppure ‘hanno mentito’, e simili. Gli stessi, poi, verrebbero nominati collettivamente in Vt 4.2 come ‘coloro che hanno giurato il falso’, ‘coloro che hanno mentito’, ‘gli spergiuri’, ‘i maldicenti’ e via di seguito. Rimarrebbe da spiegare l’ordinamento generale delle ultime due righe della lamina maggiore, alla luce della nuova ipotesi interpretativa di qus´ce: in primo luogo, sembrerebbe poco chiara la decisione di inserire qus´ce prima di altri due nomi di defissi, e non alla fine; ma è anche vero che questi due nomi potrebbero essere delle aggiunte al testo, senza dimenticare che il secondo, larq u(l)tace, è la ripetizione del nome del personaggio menzionato alla r. a @3. È da notare inoltre che, accettando l’ipotesi interpretativa qui proposta per qus´ce, il primo personaggio sarebbe menzionato solo con il gentilizio, felmv; ciò, però, non è del tutto singolare, e troverebbe un parziale riscontro nel f(l)ave di b @2, oltre ai vari personaggi di sesso femminile nominati solo con il gentilizio; senza dimenticare, del resto, la singolarità dello hapax qus´ce quale prenome. A parte il confronto qui presentato tra qus´ce della lamina maggiore e qus´aqur di Vt 4.2, ciò che rimane delle due laminette minori è di difficile comprensione: ad aumentare ulteriormente le difficoltà contribuiscono inoltre, per quanto riguarda l’iscrizione Vt 4.2, la mancanza di punteggiatura lessicale, e per quanto concerne invece Vt 4.3, la frammentarietà del testo conservato. In Vt 4.2, dopo qus´aqur, la r. 2 presenta la parola selasva: se questa è effettivamente la dimensione della parola (da notare che dopo il secondo alpha nella lamina è stato lasciato uno spazio vuoto),  



@   Wallace 2008, p. @94 propone una lettura errata *qus´uqur, che inevitabilmente condiziona l’analisi del termine, portando l’autore a ipotizzare la presenza del suffisso collettivizzante -qur agglutinato ad un termine *qus´u, inteso come teonimico. 2   Agostiniani, Nicosia 2000, pp. @05-@07. Il confronto non è di poco conto: qus´aqur sarebbe un’altra testimonianza, dopo nuqanatur della Tabula Cortonensis, del plurale di un nomen agentis, e confermerebbe il fatto che il morfema di agente -aq per il plurale seleziona esclusivamente la forma -ur (stessa condizione sarebbe eruibile dai genitivi mnaquras, dell’epitaffio di Laris Pulenas [Ta @.@7], e tamiaquras [Vs 7.9], ma è incerta la loro lettura quali nomina agentis al plurale). In base a ciò, inoltre, sarebbe da rivedere l’analisi di termini come quluter (Vs 7.40) e kuls´nuteras (Ad 6.@), tradizionalmente considerati nomina agentis plurali.

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e considerato che la struttura fonetica della sequenza, tenendo conto delle norme grafiche settentrionali, risulta essere [sˇelasˇwa], l’analisi del termine porterebbe ad individuare un plurale inanimato costruito sul pronome -[sˇ]a di un termine *[sˇ]ela (< [sˇ]ela-[sˇ](a)-va); *[sˇ]ela non deve essere confrontato con la forma sele-ita-la della Lamina a di Pyrgi (Cr. 4.4@3), che in considerazione delle norme grafiche in uso in area meridionale riflette una struttura fonetica con sibilante postdentale, ovvero *[s]ele-; più interessante risulta invece l’accostamento con l’arcaico [sˇ]elace dell’altra laminetta aurea (Cr 4.55), forse forma verbale. @ La presenza di un possibile plurale inanimato, selasva, accanto ad un animato, qus´aqur, potrebbe essere spiegabile in prima battuta considerando i due elementi soggetto e oggetto di un ipotetico enunciato; sembrerebbe invece più difficile dimostrarne l’appartenenza ad un unico sintagma: in realtà, gli ultimi studi sulla Tabula Cortonensis 2 hanno spiegato che oltre al parametro dell’animatezza agisce sul plurale etrusco un criterio di selezione morfologico, che nel caso del pronome enclitico -[sˇ]a individua il morfema di plurale in -va anche nel caso di referenti animati, come ad esempio in larisal-is-v(a)-la della Tabula, ovvero ‘dei figli, quelli di Laris’. Questo, in linea teorica, potrebbe anche permettere di ascrivere allo stesso sintagma sia qus´aqur che selasva di Vt 4.2, evidentemente con il secondo probabile apposizione (o aggettivo) del primo. La riga successiva conserva una sequenza qluqupit: anche qui il problema maggiore risulta essere la segmentazione, se effettivamente si tratta di più parole; l’opzione più economica, e anche la più seguita, 3 tende ad individuare un nome gentilizio in qupit, qui integrato seguendo Rix in qupit(a); rimane però senza spiegazione la sequenza qlu (prenome abbreviato?). 4 L’ultima riga pone gli stessi problemi: la segmentazione proposta da Rix permetterebbe di individuare una forma in -ce, chiaramente da intendere come preterito attivo, ma la radice verbale a cui farebbe riferimento risulta ignota; rimarrebbe inoltre da spiegare la sequenza tati; è da rifiutare, infine, l’ipotesi circa un riferimento al termine ais ‘dio’: sulla base delle regole grafiche settentrionali risulta evidente che non si tratta di ai[s]-, bensì di ai[sˇ]-. Ancor meno si può dire sull’iscrizione Vt 4.3: da notare, sul piano grafico, la presenza di heta circolare, e non di theta crociato, come proposto da Pallottino, che in quanto variante arcaica sarebbe in contrasto con la datazione recente della laminetta; 5 herace, la sequenza della r. @, potrebbe essere in sé una parola compiuta,  









  Cfr. Agostiniani @992, p. 44 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. @32), e Facchetti 2000a, p. 4@, nota 243.   Cfr. soprattutto Adiego 2006b. 3   Cfr. già Torp @902-@903, ii, p. @22; Torp segmentava il testo nel modo seguente: qus´aqur se . la . sva qlu qupitai sece tati, dove qupitai era il femminile di un gentilizio noto al maschile come qupite(s) (Cl @.@85@), sece un preterito attivo da una radice se- ‘giacere’, tati locativo del pronome ta; la traduzione della seconda parte risultava dunque questa: ‘die Thupitai legte in diesem (Grabe)’. Ovviamente tale spiegazione è da rifiutare, e anche per quanto riguarda l’individuazione del femminile del gentilizio qupite(s) è da notare che i gentilizi femminili in -ai sono propri dell’età arcaica della documentazione etrusca, mentre le lamine di Volterra appartengono alla fase recente. Per quanto riguarda altre attestazioni, è nota soltanto un’iscrizione qupitula (Po 4.@). 4   Per Wallace 2008, p. @94 è una forma verbale imperativa. 5   L’heta circolare, al contrario, è pienamente congruente con una datazione recente, dal momento che nell’alfabeto ii o regolarizzato, a cui si è già fatto riferimento per la Lamina maggiore, questa particolarità sembra essere introdotta tra la fine del iii sec. e l’inizio del ii sec. a.C. (cfr. Maggiani @990, p. @88); @

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dal momento che in genere heta in etrusco si usa perlopiù ad inizio parola, mentre dopo epsilon sembra esserci uno spazio vuoto. I confronti con la documentazione volterrana permettono di riconoscervi un gentilizio. @ Da notare, infine, la possibile presenza della particella di negazione ein nella r. 5. Il gruppo di laminette in piombo provenienti da Volterra è completato da altre due iscrizioni minori: la prima, Vt 4.6, fu pubblicata da Pauli nell’Appendice al cie (46@3), dopo la sua visita del @898 al Museo Guarnacci di Volterra dove era conservata; 2 è una laminetta semicircolare di 8,2 cm di diametro per un’altezza di 4,7 cm, di cui non si conosce la provenienza esatta; ha la particolarità di essere scritta in senso destrorso. L’apografo mette in evidenza alcune inesattezze nella scrittura: ad esempio, non vi è dubbio che il primo gentilizio sia stato scritto come velufna, ovvero con un segno ‘a 8’ al posto di un sigma; questo fatto può essere dovuto alla confusione delle rispettive strutture grafiche dei due segni, ma tenuto conto della singolarità della scrittura destrorsa, del fatto che non vi siano notizie disponibili sul contesto di ritrovamento, insieme inoltre ad altre imprecisioni di cui si fa menzione subito sotto, è lecito porsi alcune domande sulla sua autenticità. 3 Qui di seguito il testo, ripreso da Vt 4.6 (Rix):  





@

l . velusna . raufial l . api . cuinui 3 mazutºi . lautni . cnev(nas) 4 lq . alpiu . ianzu 2

Alla r. @ è menzionato un l(aris) 4 velusna, figlio di una raufi, 5 il cui gentilizio richiama quello di alcuni defissi della Lamina maggiore di S. Girolamo (Vt 4.@); nella r. 2 il personaggio menzionato sembra essere un l(aris) api cuinui; 6 la r. 3 menziona  





in precedenza, Maggiani aveva notato che il segno a cerchio per heta è attestato nell’Etruria settentrionale interna, di cui Volterra rappresenta l’estrema propagine ad ovest, in un’area che comprende anche Chiusi, Siena, Cortona, Arezzo, Perugia, fino a raggiungere Gubbio, dove il segno a cerchio è usato nelle Tabulae Iguvinae, e Spina, che secondo Maggiani sarebbe il vero centro propulsore dell’innovazione, per il tramite di scuole osco-greche; per quanto riguarda la cronologia, le più antiche attestazioni, quelle spinetiche, si collocano alla fine del iv sec. a.C., ma le attestazioni volterrane non dovrebbero andare oltre il iii sec. a.C. (Maggiani @988, pp. 45@-455).   Cfr. herace (Vt @.@20), heracial (Vt @.@-2).   In occasione della visita del @6 dicembre 20@0 al Museo Guarnacci da parte di chi scrive, finalizzata principalmente alla realizzazione di fotografie delle laminette sopra descritte, il personale del Museo, al quale va un sentito ringraziamento per la completa disponibilità dimostrata, ha effettuato una ricerca nell’inventario della collezione della laminetta in questione, che non è tra i pezzi in esposizione; la ricerca, purtroppo, ha avuto esito negativo, e la laminetta, al momento, non risulta rintracciabile. 3   Il segno ‘a 8’ per sigma in velusna è spiegato da Agostiniani come fenomeno di depertinentizzazione di tratti fonici (in particolare, del tratto [+ apicale]), che avrebbe reso disponibile per il fono [s] il segno f (Agostiniani @983, p. 44 = Agostiniani 2003-2004, i, p. 40); se così fosse, è evidente che non sussisterebbero più dubbi sull’autenticità dell’iscrizione. 4   Preferibile a l(arq), dal momento che alla r. 4 si trova l’abbreviazione lq, che può essere sciolta solo con l(ar)q, mentre alle rr. 2 e 3 si ha solo l. 5   Malgrado il gentilizio raufe sia ben attestato (circa otto attestazioni, cfr. gli indici degli et), non ne sono note testimonianze da Volterra. 6   Un api è noto da Cl @.@243; più frequente la forma apia (circa sette attestazioni); cuinui risulta invece ignoto (forse errore per cuinti?). Sui dubbi d’interpretazione della formula onomastica si veda Rix @963, p. @@4. @

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un mazuti, già trattato sopra perché affine al mazutiu della Lamina maggiore, considerato da Vetter un nome di origine celtica; qui è indicato come liberto (lautni) di cnev(na). @ Infine, l’ultima riga menziona un l(ar)q alpiu ianzu: se per il gentilizio sono disponibili confronti, 2 il termine ianzu non sembra averne: è un fatto però che esso richiami alla mente la sequenza frammentaria ]tanzui dell’iscrizione successiva. Quest’ultima iscrizione è incisa invece su una laminetta di piombo spezzata in due frammenti, trovata nel @732 nei campi del canonico volterrano Pietro Franceschini, successivamente scomparsa dopo la pubblicazione da parte di Gori; 3 ne rimane solo una trascrizione parziale, qui emendata e integrata secondo l’edizione degli et (Vt 4.4): 4  







@ 2

vº[--------]tanzui [------]i ºaº vel[us´ m]eºteºlial . [----]tnºaºl

Sono identificabili un gentilizio femminile (]tanzui), un prenome maschile al genitivo (vel[us´]), un gentilizio femminile al genitivo ([m]etelial), probabilmente un altro gentilizio femminile al genitivo (]tnal). Entrambe le iscrizioni, pertanto, presentano perlopiù liste di nomi propri, e questo, insieme al fatto di essere iscritte su piombo, depone a favore di una loro descrizione quali tabellae defixionum, ovviamente previo riconoscimento di autenticità della prima iscrizione. Nel complesso, delle poche laminette su piombo etrusche passibili di essere interpretate come defixiones (in tutto nove), cinque, statisticamente più della metà, sono state rinvenute a Volterra: forse è l’indicatore di una pratica particolarmente diffusa nel territorio volterrano, o della presenza di professionisti della magia particolarmente attivi in zona, ma potrebbe trattarsi anche, più semplicemente, di condizioni particolarmente fortunate che hanno favorito il ritrovamento a Volterra di oggetti iscritti frequenti in tutto il territorio etrusco. 4. La Lamina di Monte Pitti La maggior parte degli interventi sulle defixiones etrusche tratta in realtà della sola iscrizione di Monte Pitti, presso Campiglia Marittima; come si è visto sopra, la discussione stessa sull’esistenza di defixiones etrusche ha avuto inizio a partire dalla scoperta di questo documento. La Lamina fu rinvenuta nel @890 alle pendici di Monte Pitti, un colle tra Suvereto e Campiglia Marittima, non lontano da Populonia; ne dà notizia Gian Francesco Gamurrini, 5 il quale vide la laminetta durante un soggiorno  

@   Il gentilizio cnevna è attestato a Volterra in Vt @.@03; sono noti a Volterra anche cnevnei (Vt @.39), cneue (Vt @.@02), cneuna (Vt @.@04-@06), cneunal (Vt @.@@3), cneunas´ (Vt @.45). Altre attestazioni: cnevnal (Cl @.@999), cnevnas (Ta @.236, Vc @.88). 2   Il gentilizio alpiu è noto solo a Chiusi (Cl @.@@70-@@7@), Populonia (alpius´, Po 2.28) e Roselle (alpiuial, Ru 2.@8). 3   Cfr. cie 43. La nota di Fabretti all’iscrizione Vt 4.4 (cfr. cii 364) riporta che la laminetta «[...] reposita erat super calvarium defuncti hominis [...]», quindi di nuovo in un contesto funerario. 4   Precedenti edizioni: cie 43 (Pauli): vº[-------]tanzui[-----]cnºi 2vel[us´] [m]eºteºlial×----tvºiaºl; tle 400 (Pallottino): vº[---] . tanzui[-----]cnº 2vel[us´ . m]eºteºlial ×--tvºi×l. 5   Gamurrini @89@. Per le notizie sul ritrovamento, oltre alla già citata pubblicazione di Gamurrini, si rimanda alla relazione di Isidoro Falchi, ispettore degli scavi (Falchi @895), nonché all’approfondimento esegetico dello stesso Gamurrini (Gamurrini @895; cfr. anche cie 52@@).

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presso il palazzo di Luigi Maruzzi, dove erano conservati i ritrovamenti archeologici fatti dallo stesso e da Alessandro Mazzolini, «noto amatore di antichità», con cui il Museo di Firenze aveva già avuto a che fare per l’acquisto di alcuni reperti archeologici, e dal quale comprerà anche la laminetta iscritta. Secondo quanto riporta Gamurrini, Mazzolini lo portò sul luogo del rinvenimento della lamina, un’area di scavo in cui erano già emerse circa cinquanta tombe, per la maggior parte databili, a detta dello stesso Gamurrini, alla seconda metà del iii secolo a.C. circa, tranne alcune, a camera a finta volta, sicuramente più antiche. Non è chiaro se la laminetta fu rinvenuta in questi sepolcri più antichi, che Gamurrini data al vi-v secolo a.C., o nelle tombe a fossa più recenti, apparentemente coeve alla lamina.

Fig. @0. Lamina di Monte Pitti.

La lamina è larga @5 cm e alta @@ cm circa. Nei negativi conservati presso l’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, a Firenze, e qui riprodotti, sono ben visibili i segni dello strumento usato per assottigliare la lamina di metallo (cfr. Tav. vii). I bordi sono corrosi e manca un pezzo di metallo nella parte inferiore, fortunatamente non iscritta; vi sono inoltre segni di corrosione del metallo anche in altri punti, soprattutto al centro della lamina, e questo a volte rende la lettura meno agevole. Questo il testo dell’iscrizione, ripreso perlopiù dagli et, con minimi aggiustamenti e integrazioni (cfr. Fig. @0): @  

  La trascrizione del testo è stata verificata sull’originale il @3 febbraio 20@2 presso i depositi del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. @

198

riccardo massarelli sq . vels´u . lq . c . lq . ve[ls´u .] inpa . qº[a]picu/n qapintas´ . aq . vels´u / lqº º cº / lq . vels´u 3 lq . c . ls . vels´u / lq c / lqº . s´uplu 4 aq . s´upluº . lsº . hasmuni º 5 sq . cleusteº . aºqº . cºl ºeuste . vl . rºuns( ) / au 6 qancvil . vels´ui . ceºs´º . zeris´ . ims´ . se 7 mutin . aprens´ais´º . inpa . qapicun 8 qapintais´ . ceus´n . inpa . qºapicun . i 9 luu . qapicun . ces´ . zeris´ @0 titi . setria . lautnita @

2

Alla r. @ la parte superiore delle lettere risulta corrosa ma tutto sommato leggibile: la lacuna dopo ve[ è integrabile, su base onomastica, con ve[ls´u .]. L’alpha di q[a]picu/n cadeva su una parte della lamina non conservata, ma è facilmente integrabile, mentre il ny finale è scritto alla riga successiva, segno che al momento dell’incisione la lamina aveva già queste dimensioni. Alla r. 2 il patronimico (lq c) del primo personaggio, a(rn)q vels´u, è stato aggiunto, in un secondo momento, a dimensioni ridotte sopra l’ypsilon finale di vels´u e la prima lettera del nome seguente. Allo stesso modo il patronimico di l(ari)s vels´u di r. 3, lq c, è scritto a dimensioni ridotte sul bordo superiore di una malfattura del metallo, che contiene la prima lettera dell’abbreviazione del prenome del personaggio successivo. Alla r. 4 il secondo ypsilon di s´uplu e le lettere del prenome (abbreviato) successivo, l(ari)s, insistono sull’area centrale corrosa e presentano lievi difficoltà di lettura, così come, alla r. 5, il secondo epsilon del primo cleuste e l’abbreviazione del prenome successivo, a(rn)q. Alla fine della r. 4 non si legge l’ultima lettera (ma potrebbero essere anche due) della parola hasmun-, qui indicata con iota. Nella seconda parte della r. 5 presentano problemi di lettura le prime lettere del gentilizio rºuns[ (Rix legge pºl ºuns[), mentre le ultime due lettere della riga, au, sono sovrascritte. Alla r. 6 le lettere della parola ces´ sono poco leggibili perché si trovano di nuovo sull’area centrale corrosa, ma possono essere integrate sulla base della stessa parola alla r. 9. Alla r. 7 è di difficile lettura il secondo san di aprens´ais´, mentre alla r. 8 il tau di qapintais´ sembra inserito a correzione di una precedente lettera, di cui rimane solo un’asta verticale; sempre alla stessa riga risulta di lettura non agevole il theta di qapicun, essendo interessato da una venatura del metallo. Le ultime due righe non presentano particolari difficoltà di lettura. Di seguito il prospetto delle diverse lezioni: @  

@   Legenda: Da. = cie 52@@ (O. A. Danielsson); De. = Deecke @896, p. 89; Ga@. = Gamurrini @89@, p. 433; Ga2. = Gamurrini @895, p. 339; Pa. = tle 380 (M. Pallottino; le due edizioni del tle sono identiche); Ri. = et Po 4.4 (H. Rix); To @. = Torp @902-@903, ii, p. @@3; To 2. = Torp @903, p. 63 (lettura fornita in realtà da O. A. Danielsson). I vari sistemi di trascrizione sono stati tutti uniformati a quello in uso nel presente lavoro.

le defixiones etrusche

riga

testo

lettura adottata

altre letture

@

sq . vels´u . lq . c . lq . ve[ls´u .] inpa . qº[a] picu/n

Ri.

Ga@. aq . vels´u . lq . c . lq . neces . inpa . qº[a]picun

199

De. sq . vels´u . lq . c . lq . nºeces . inpa . qapicun Ga2. sq . vels´u . lq . c . lq . [-----] inpa . (qa)picun To@. sq . vels´u . lq . clq aºlpeº inpa . [qa]picu/n To 2. sq . vels´u . lq . c . lq veº[ls´u] inpa . qºapicu/n Da. Pa. sq . vels´u . lqº . c . lq [.] vºeº[ls´u .] inpa . qºapicu/n

2

qapintas´ . aq . vels´u / lqº º cº / lq . vels´u

Ga @. De. Ga2. qapintas´ . aq . vels´u . lq . vels´u . To @. qapintas´ . aq . veºls´u . lq . vels´u To2. Da. Pa. Ri. qapintas´ . aq . vels´u / lq c / lq . vels´u

3

lq . c . ls . vels´u / lq c / lqº . s´uplu

To2.

Ga @. De. lq . c . ls . vels´u . lq . s´uplu Ga2. lq . c . ls . vels´u . lq c . lq . s´uplu To @. lq . c . ls . vels´u . lq c lq . s´uplu Da. lq . c . ls . vels´u / lq c / aºq . s´uplu Pa. lq . c . ls . vels´u / lq c / -q . s´uplu Ri. lq . c . ls . vels´u / lq c / lq . s´uplu

4

aq . s´upluº . lsº . hasmuni º

Ga @. De. aq . s´uplu . ls . hasmun au Ga2. To@. aq . s´uplu . ls . hasmun To2. aq . s´upluº . lsº . hasmun Da. aq . s´upluº . lsº . hasmun(--) Pa. sq . s´upluº . ls . hasmun(--) Ri. aq . s´upluº . lsº . hasmuni .

5

sq . cleusteº . aºqº . cºl ºeuste . vl . rºuns( ) / au

Ga@. De. sq . cleuste . lq . cleuste . vl . runs Ga 2. sq . cleuste . lq . cleuste . vl . runsau To @. sq c . leuste . lqº º cl ºeuste . vl . runs/au To 2. sq . cleusteº . aºqº . cleuste . vl runs/au Da. sq . cleusteº . aºqº . cl ºeuste . vl [.] runs/(aº)/au Pa. sq . cleusteº . aºq . cl ºeuste . vl . runs/au Ri. sq . cleusteº . aºq . cleuste . vl . pºl ºuns( ) / au

200

riccardo massarelli

riga

testo

lettura adottata

altre letture

6

qancvil . vels´ui . ceºs´º . zeris´ . ims´ . se

Da. Pa. Ri.

Ga@. qancvil . vels´ui . ces´ . zeris´ . ims´ . se Ga2. qancuil . vels´ui . ces´ . zeris´ . ims´ . se To @. qancvil . vels´ui . ces´ zeris´ . ims´ . se To2. qancvil . vels´ui . c[e]s´ . zeris´ . ims´ . se De. qancvil . vels´ui . ceºs´ . zeris´ . ims´ . se

7

Ga @. munin . aprons´a . is´ . impa . qapicun

mutin . aprens´ais´º . inpa . qapicun

De. munin . aprvºns´a . is´ . impa . qapicun Ga 2. To@. To2. mutin . aprens´ais´ . inpa . qapicun Da. Pa. mutin . aprens´aisº´ . i ºnpa . qapicun Ri. mutin . aprens´ais´ . inpa . qºapicun

8

qapintais´ . ceus´n . inpa . qºapicun . i

Ga@. qapinta . ls´ . ceu . s´n . impa . qapicun . i

Ri.

De. qapinta . ls´ . ceu . su . impa . qapicun . i Ga 2. qapintais´ . ceus´n . inpa . qºapicun To@. qapintais´ . ceus´n . inpa . qºapicun . i To2. qapintais´ . ceus´n . inpa . qapicun . i Da. qapintais´ ceus´n . inpa . qapicun Pa. qapintais´ . ceus´n . i ºnpa . qapicun . i

9

luu . qapicun . ces´ . zeris´

Ga . De. Ga . To . Da. Pa. Ri.

To2. luu . qapicun . ces´ . zeris

@0

titi . setria . lautnita

Ga2. To@. To2. Pa. Ri.

Ga @. De. titi . satria . lautnita

@

2

@

Da. titi . seºtria . lautnita

Per quanto riguarda la grafia, anche la Lamina di Monte Pitti sembra ascrivibile all’alfabeto ii, o regolarizzato, di tipo settentrionale, dal momento che il my ha ormai aste lunghe verticali e traverse che non raggiungono i vertici inferiori delle aste stesse. @ All’interno di questo tipo sono da notare alcune caratteristiche minori che potrebbero portare a preferire una datazione alla fine del iii se non già al ii secolo a.C.: la forma di wau, con la traversa inferiore particolarmente allungata; zeta e tau con traverse secanti (ascendenti); heta a finestra (qui una sola attestazione); san con aste lunghe non ancora del tutto verticali, e traverse oblique che si allungano in basso fino al livello dei vertici inferiori delle aste lunghe; infine, la forma di rho, con occhiello piuttosto ridotto e conseguentemente codolo inferiore molto allungato. Un discorso a parte merita invece la particolare foggia di epsilon: già Gamurrini notava che, mentre alcuni epsilon sono scritti normalmente, altri sembrano graffiti  

  Cfr. Maggiani @990, p. @88.

@

201

le defixiones etrusche

con due sole incisioni verticali, la prima dritta e la seconda leggermente ondulata, e di questa particolarità non rilevava alcun altro esempio nella documentazione nota al tempo. @ Un’attenta osservazione delle riproduzioni fotografiche della Lamina ha permesso di constatare che anche in alcuni epsilon a struttura tradizionale è possibile intravedere una leggerissima incisione che unisce il vertice sinistro del segmento superiore con il destro del segmento inferiore (ad esempio, nel primo epsilon del primo cleuste a r. 5, cfr. Fig. @@ a): evidentemente l’incisore scriveva epsilon partendo, come è normale, dall’asta verticale, quindi incideva da destra a sinistra il segmento superiore e, senza sollevare del tutto lo strumento per l’incisione, incideva allo stesso modo il segmento inferiore; infine, incideva il segmento medio, che infatti nell’esempio ricordato risulta sovrascritto alla leggera linea che unisce i due segmenti più esterni.  

a

b

c

d

e

Fig. @@. Lamina di Monte Pitti. a) Primo epsilon del primo cleuste, r. 5; b) Wau di qancvil, r. 6; c) Epsilon di zeris´, r. 9; d) Secondo epsilon del secondo cleuste, r. 5; e) Epsilon di aprens´ais´, r. 7.

È interessante notare che questo particolare è rilevabile, ad esempio, anche nella foggia di alcuni wau, ad esempio quello di qancvil di r. 6 (cfr. Fig. @@ b), dove dal vertice sinistro del segmento superiore parte una linea sottile che arriva al vertice destro del segmento inferiore. A volte, poi, nel caso di epsilon, l’incisione dei segmenti superiore e inferiore risulta meno marcata e corsiva, fino ad arrivare a casi in cui, appunto, vi è un’unica linea, senza soluzione di continuità, che parte in corrispondenza del vertice superiore dell’asta verticale, compie una leggera curva verso il basso, si avvicina all’asta stessa in corrispondenza del vertice inferiore per poi compiere una lieve curva a sinistra; in questi casi, il segmento medio può essere inserito successivamente (come in zeris´ di r. 9, cfr. Fig. @@ c), indicato solo con una sorta di punto (come il secondo epsilon del secondo cleuste di r. 5, cfr. Fig. @@ d) o semplicemente omesso (apparentemente come in aprens´ais´ di r. 7, cfr. Fig. @@ e). Si è già detto della diatriba sul carattere defissorio della Lamina, a partire dalle affermazioni di Skutsch. Qui, oltre ai tre consueti parametri di riconoscimento individuati sopra per le defixiones etrusche (supporto in piombo; rinvenimento in contesti funerari; presenza di formule onomastiche), se ne aggiunge un quarto, che pone la Lamina in correlazione con altri interessanti esempi di tavolette defissorie dal mondo greco e latino: la formularità. In effetti, è un fatto che la Lamina presenti, ripetuta @   Gamurrini @89@, p. 434; Gamurrini @895, pp. 339-340. Anche Danielsson (cie 52@@) notava la singolarità di epsilon, registrando un solo caso analogo a Tarquinia, in un’iscrizione su un cippo (Ta @.@75, cfr. cie 5488).

202

riccardo massarelli

due volte dopo una lista di nomi, la formula inpa qapicun qapinta(i)s´, una volta inpa qapicun e una volta la parola qapicun da sola. Questo segmento rappresenta il punto focale dell’intera iscrizione: si vedrà come gli studiosi si siano impegnati per darne un’analisi convincente, e come, tuttavia, manchi ancora un’interpretazione condivisa. La r. @ contiene i nomi dei primi due personaggi: s(e)q(re) vels´u figlio di l(ar)q e l(ar)q vels´u: indubbiamente parenti, forse il primo figlio del secondo o entrambi figli di un altro l(ar)q vels´u. @ Subito dopo si ha la prima attestazione della formula inpa qapicun qapintas´: la particella inpa è attestata, oltre che nella defixio di Monte Pitti, anche nella cosiddetta Base di Manchester, oggetto di una recente rilettura da parte di Maras (oa 3.9), 2 e nella Tabula Capuana, nella versione data da Rix negli et (tc @5, @9) ed accolta da Cristofani. 3 Inoltre, all’esiguo corpus di attestazioni di inpa è solitamente associato l’arcaico inpein, presente in un’iscrizione incisa su un calice di bucchero databile alla seconda metà del vii secolo a.C. circa e proveniente da Narce (Fa x.2). 4 In genere, l’analisi della parola inpa è affrontata perlopiù in correlazione con un’altra forma etrusca, ipa, che è stata già incontrata nel capitolo sulla Lamina di Santa Marinella, al quale si rimanda per una discussione sul suo significato. L’incrocio tra ipotesi ricostruttive riguardanti inpa e ipa ha comportato la formulazione di varie letture, non sempre compatibili, che segnano l’alto grado di incertezza su queste due particelle. Molto recentemente il caso di inpa è stato oggetto di un attento studio da parte di Luciano Agostiniani, il quale ha riassunto le varie ipotesi che nel tempo sono state sviluppate, quindi ha dato una sua lettura di alcuni fenomeni fonotattici la cui portata non era stata adeguatamente compresa. 5 Parafrasando Agostiniani, le varie posizioni sono le seguenti: inpa e ipa sono due varianti diacroniche, la prima più arcaica, di uno stesso pronome relativo, a volte passibile di fungere da ‘congiunzione relativa’; 6 inpa e ipa sono due varianti sincroniche di uno stesso pronome relativo, avente origine dal relativo in; 7 il pronome relativo in avrebbe due varianti, i- e i-n: dalla prima si avrebbe ipa, dalla seconda inpa; sul piano del significato si tratterebbe anche qui di un relativo, con ipa che sarebbe nominativo, mentre inpa sarebbe accusativo; 8 ipa è un relativo, mentre in e an sono dimostrativi; inpa, rispetto ad ipa, risulta essere una variante dialettale; 9 ipa è pro 

















@   Gamurrini al posto della lacuna ve[ls´u .] leggeva neces, che traduceva con il lat. nepos (cfr. Gamurrini @89@, p. 434; Gamurrini @895, p. 340); Torp, invece, leggeva alpe, che considerava l’oggetto del verbo  qapicun (Torp @902-@903, ii, pp. @20-@2@). La famiglia vels´u, oltre che nella Lamina di Monte Pitti, è attestata a Chiusi come velsu (Cl @.773; il patronimico vels´usa in Cl @.@290, @.@29@, @.2220). Da ricordare, inoltre, le varie forme velsi, vels´ni, vels´unia ecc., per le quali si rimanda agli indici degli et. 2   Maras 2000-200@: a@caesi prisniesi tur2ce hercles clen ce3ca munis en cae lur4cve : truta : ala : alp5nina luqs inpa l-cnba; la base è databile alla seconda metà del iv sec. a.C. 3   tc @5: ... inpa vinaiq acas afes ci tar tiria ci turza riqnaitula ...; tc @9: ... inpaº --an acasri ... (cfr. Cristofani @995, pp. 93-94). La Tabula Capuana è databile al v sec. a.C. 4   Fa x.2 (3.@ + 6.@) è parzialmente in scriptio continua, anche se alcune sequenze di lettere sono delimitate da punteggiatura; qui si presenta il testo operando le segmentazioni lessicali più evidenti: mi aliqu : auvilesi ale sºpura qevº-alqia : inpein : mlerusi : ateri : mlacuta : zicuce : mlacta : ana : zinace. 5   Agostiniani 2009c. 6   Torp @902-@903, i, p. @8. Così anche Cortsen in Runes, Cortsen @935, p. 84. 7 8   Torp @902-@903, ii, p. @20.   Trombetti @928, pp. 26, @85-@87. 9   Pfiffig @968a, pp. 48-49; Pfiffig @969, pp. @05-@06; cfr. anche Pfiffig @975, p. 364.

le defixiones etrusche

203

nome relativo/interrogativo: i morfemi di caso sono agglutinati (ipa-s, ipa-l ecc.), tranne l’accusativo che sarebbe introflesso (appunto, inpa); diacronicamente, inpa potrebbe avere origine da in più la particella -pa (generalizzante?), ma successivamente sarebbe stato sentito come accusativo, e da inpa si sarebbe ricavato ipa quale nominativo, in seguito a sottrazione di -n individuata quale marca di accusativo; @ ipa è un pronome determinativo (‘lo stesso’); inpa potrebbe esserne l’accusativo, ma potrebbe anche rappresentare una congiunzione senza particolari collegamenti con ipa e analoga al lat. ita; 2 ipa significa ‘altro’, mentre inpa avrebbe valore avverbiale in qualche modo derivante da ipa; 3 ipa è un pronome interrogativo/relativo che in fasi recenti è utilizzato anche come congiunzione dichiarativa; inpa ne sarebbe un accusativo recente, ma strutturato su una forma non attestata da cui deriva anche inpein. 4 Come è facile comprendere, l’incertezza risulta essere massima. Agostiniani, come detto, ha rilevato però un fatto incontestabile: la fonotassi di inpa comporta un nesso (nasale alveodentale + occlusiva bilabiale) del tutto innaturale, marcato. Generalmente la fonotassi naturale delle lingue, che è seguita anche dall’etrusco, prevede un’alta incidenza di nessi consonantici omofoni, come nasale alveodentale + occlusiva dentale e nasale bilabiale + occlusiva bilabiale, mentre i due tipi di nesso non omofoni (nasale bilabiale + occlusiva alveodentale e, appunto, nasale alveodentale + occlusiva bilabiale) sono presenti solo come errori o come effetto di particolari condizionamenti fonomorfologici. L’errore è individuato generalmente su basi statistiche: così, il gentilizio pumpu (e forme derivate), su complessive @33 attestazioni, solo otto volte presenta il nesso -np-. 5 Quando non incorre un errore, operano invece regole di carattere fonologico e morfologico: ad esempio in meqlumq, dove nel nesso consonantico finale l’assimilazione è bloccata dalla presenza di confine di morfema (meqlum-q). 6 Ora, la casistica di inpa, con complessive 6 attestazioni (più inpein) di fronte a nessuna del tipo *impa, mostra chiaramente che non può trattarsi di errore; si dovrà pensare quindi a fenomeni di diverso tipo, come appunto restrizioni di carattere fonomorfologico dovute ad un probabile confine di morfema. Questo risulta più chiaro se si considera che in etrusco è attestata una particella in, dal valore di relativo: conseguentemente, inpa sarà con tutta evidenza una forma derivata da in con agglutinazione di una particella -pa, di incerto significato. Secondo Agostiniani, in relazione alle ipotesi interpretative, questo mette in chiaro una questione fondamentale: inpa, in quanto evidentemente derivato da in, solo al prezzo di molte difficoltà può essere messo in relazione con ipa, poiché non vi è ragione che spieghi perché in uno compaia ny e nell’altro no; né, d’altro canto, la lettura di inpa quale accusativo introflesso di ipa (anche come rianalisi succes 











  Rix @984, p. 23@; cfr. anche il più recente Rix 2004, pp. 955-956.   Cfr. Morandi @987 (in particolare pp. 9@-92) e Morandi @996, p. 222. Anche Meriggi aveva espresso dubbi sulla supposta relazione tra inpa e ipa (Meriggi @937, p. @66). L’ipotesi di Morandi su ipa è stata ripresa anche in Maras 2000-200@, p. 222, il quale peraltro recupera alcuni argomenti dell’originaria ipotesi di Torp secondo il quale inpa sarebbe forma arcaica rispetto ad ipa. 3 4   Wylin 2000, pp. 292-295.   Facchetti 2002a, pp. 67-68. 5   Cfr. al riguardo Agostiniani 2009c. 6   Per meqlumq cfr. ll xii.4, Pa 4.2, nonché Ta @.@7 (come meqlumt). @

2

204

riccardo massarelli

siva, come postulava Rix) può essere giustificata in alcun modo tenendo presente il carattere agglutinante dell’etrusco; sembra quindi più economico e ragionevole tenere distanti le due particelle, e far partire un’analisi di inpa dalla sua relazione con in. Secondo Agostiniani vi sono due possibilità: inpa manterrebbe lo stesso valore di in, ovvero di pronome relativo, eventualmente riproducendo un rapporto semantico simile al lat. quis - quı¯dam (< *quis-dam); inpa costituirebbe un derivato di altro tipo del pronome relativo, magari con valore avverbiale o di congiunzione (come, rispetto al lat. quis, quippe < * quid-pe). Come si vedrà più avanti, secondo Agostiniani proprio le attestazioni della defixio di Monte Pitti rendono preferibile la seconda ipotesi, per quanto lo stesso riconosca che, data la documentazione finora nota su inpa, al momento non è possibile prendere posizione netta sul suo significato. La particella inpa è seguita dalla prima attestazione di qapicun, e all’inizio della r. 2 si trova la prima di qapintas´. Anche questi due termini presentano varie difficoltà, sia a livello di analisi morfologica sia per quanto riguarda l’ambito semantico di riferimento; del resto, anche il rapporto paradigmatico tra le due forme non sempre è stato riconosciuto. I primi tentativi di analisi sono quelli del primo editore dell’iscrizione, Gamurrini, che nell’ottica di supposti rapporti tra l’etrusco e le lingue italiche considera qapicun prestito dal latino dapifer, ovvero l’officiante del banchetto funerario a cui, secondo l’idea di Gamurrini, fa riferimento il testo di Monte Pitti; qapintas´, invece, sarebbe un nome personale. @ Successivamente, lo stesso Gamurrini propende piuttosto per un significato legato al gr. qavptw e qavfo~, traducendo quindi qapicun qapintas´ con il lat. in sepulcro positus. 2 Il primo a leggere in qapicun qapintas´ delle forme verbali, pur nell’ottica di un’analisi complessiva che vedeva la Lamina come testo funerario, è Torp. 3 È da rilevare che, ad onta del giudizio caustico espresso da alcuni, in particolare Vetter, sull’ipotesi interpretativa della Lamina di Monte Pitti da parte di Torp, quest’ultimo, soprattutto sul piano dell’analisi morfologica di qapicun qapintas´, ha individuato alcuni aspetti che ancora oggi risultano essere validi: in primo luogo, il fatto che i due termini, qapicun e qapintas´, erano verosimilmente collegati, e che soprattutto il primo è il più probabile candidato a svolgere la funzione di predicato verbale dell’enunciato (di conseguenza, anche il secondo è verosimilmente una forma verbale); inoltre, Torp per primo ha osservato che le forme qapicun qapintas´ probabilmente stanno per *qapicun e *qapinqas´, in funzione dei confronti offerti dalla documentazione, prima fra tutti la locuzione slapicun slapinas´ (ll xi.9-@0), su cui si tornerà in seguito, ma anche cericu (Ta @.@82) vs. cerine (ll vii.@2, Ta @.@7, Vc @.87) ecc. 4 Secondo Torp, qapicun è una forma di participio in -u fungente da preterito:  







  Gamurrini @89@, p. 435.   Gamurrini @895, p. 340. Lattes, invece, propone un’integrazione in qapi(n)cun e un confronto con forme come qezince, ma sul piano etimologico non esclude l’ipotesi formulata in precedenza da Gamurrini 3 (Lattes @894, p. 22).   Torp @902-@903, ii, pp. @@8-@2@. 4   Questo anche in conseguenza del fatto che in altri punti dell’iscrizione sono presenti banalizzazioni di questo tipo, con una consonante aspirata che è indicata con il grafo per la rispettiva deaspirata: cfr. alla r. 6 qancvil (per qancvil) e alla r. @0 lautnita (per lautniqa). @

2

205

le defixiones etrusche

la -n finale può essere spiegabile come particella pronominale indicante l’oggetto, ma potrebbe anche essere che qapicun sia abbreviazione per *qapicune, e rimandare ad una delle tante forme verbali in -ne. Dalla stessa radice, poi, si avrebbe la forma qapintas´, che sempre secondo Torp potrebbe essere un ‘gerundio’ in -qas, come tenqas (Ta @.9, @.@84 ecc.), salvo poi propendere per un’analisi diversa, che considera qapintas´ genitivo di un termine *qapinta-. Per quanto riguarda il significato di qapicun qapintas´, Torp in base alla propria analisi complessiva del testo quale relazione di una cerimonia funebre, considera qapicun equivalente al lat. dedit, mentre qapintas´ indicherebbe ‘coloro a cui è opportuno dare’, ovvero le divinità. Torp, inoltre, individua un rapporto stretto a livello paradigmatico tra qapicun qapintas´ e qapna/qafna, termine noto da alcune iscrizioni vascolari: @ questo argomento è ripreso successivamente da più parti, ad esempio Trombetti, Battisti, Fiesel, Colonna; 2 recentemente, però, è stato messo in discussione da Steinbauer, secondo il quale, dal momento che tra qafna e qapna la forma originaria sembra essere la prima, perché attestata a partire dal vii secolo a.C. di contro a qapna nota solo dal iv secolo a.C., 3 se si vuole mantenere un rapporto tra queste forme e qapicun si deve postulare per quest’ultimo una radice originaria *qafi-, cosa tutt’altro che agevole. In un secondo momento Torp, come detto, rivede la propria posizione nei confronti della Lamina di Monte Pitti: in base alla nuova lettura quale defixio, considera qapicun prima persona singolare di un verbum defigendi, traducibile con il lat. devovi. 4 Anche Lattes, che precedentemente aveva seguito Gamurrini, successivamente riconosce il carattere verosimilmente defissorio della Lamina: ritiene quindi che qapicun stia per qapi(n)cun, che confronta con il lat. cupencus e ritiene titolo sacerdotale, al nominativo, che nel testo della Lamina reggerebbe qapintas´ (genitivo di un teonimo) e ces´ zeris´ (‘ceri sacri’). 5 Il nuovo corso inaugurato da Skutsch e ripreso dal secondo Torp è fatto proprio anche da Trombetti, il quale, partendo dal confronto con qapna inteso come ‘offerta, sacrificio’, ipotizza in qapicun uno slittamento semantico verso il significato del lat. devove¯re; inoltre, Trombetti sviluppa l’idea che anche qapintas´ sia una forma  









@   Torp @902-@903, ii, p. @@9. Un confronto del genere, peraltro, era stato già proposto in Lattes @894, p. 22, nota 56. 2   Cfr. Trombetti @928, p. @34; Battisti @933, pp. 480-48@; Fiesel @935, pp. 249-250; Colonna @984, p. 3@2; probabilmente è facendo riferimento a quest’ultimo, il quale parla di un significato di qafna/qapna legato al concetto di ‘consumo’, che Facchetti sviluppa la sua ipotesi su qapicun equivalente a ‘io consumo, estinguo’ (Facchetti 2002a, pp. 99-@00; cfr. anche Wylin 2000, p. 94, nota @80). 3   Steinbauer @999, p. 3@@; sono note le forme qavhna (Cr 2.5), qahvna (Cr 2.6, 2.20, 2.29; su Cr 2.20 cfr. anche ree 59, 48), qafna (Cr 2.5@; Vs 2.7; av 2.5; Cl 2.26), qapna (ll x.22; Vc 2.42; Po 2.2@; Co 3.@), qapnac (ll x.f@), qapnes´ts´ (ll xi.3), qapnzac (ll x.2, f@), qafna (ree 57, 48, da Fratte di Salerno, inizi v sec. a.C.); una lista parziale delle attestazioni di qafna/qapna, corredata dalle rispettive datazioni, è in Colonna @984, p. 3@5. 4   Torp @903, pp. 62-65: la traduzione di inpa qapicun qapintas´ sarebbe pertanto, in latino, quos devovi devotos-accipientibus (deis) (?); come si vede, Torp mantiene, adattandola, l’idea che qapintas´ indichi l’oggetto indiretto dell’azione di qapicun, ovvero le divinità. 5   Lattes @9@4, pp. @99-200: peraltro, Lattes recupera anche l’ipotesi di un confronto con il lat. dapifer, nonché con qapna; cfr. già Lattes @904, p. 26.

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verbale (participiale), traducendo quindi la locuzione inpa qapicun qapintas´ con ‘quelli che maledissi maledicendo’. @ Il breve intervento di Eva Fiesel 2 sembra invece un ritorno alle prime ipotesi interpretative di Gamurrini e Torp: il supposto rapporto di qapicun con qapna, inteso come equivalente a ‘libazione’, secondo la Fiesel fa sì che l’interpretazione come testo defissorio debba essere scartata, rendendo preferibile vedere nel testo della Lamina una registrazione di cerimonie funerarie; così, il senso della frase qapicun qapintas´ sarebbe equivalente al lat. libare libationem, e qapicun rappresenterebbe l’elemento verbale dell’enunciato. Il tentativo della Fiesel appare però isolato: negli stessi anni la lettura del testo quale defixio (o meglio, per utilizzare la denominazione più utilizzata al tempo, devotio) e l’individuazione in qapicun qapintas´ dei predicati verbali indicanti l’atto defissorio sembrano ormai fatti acquisiti. 3 Anche Pfiffig segue l’impostazione ormai vulgata, intendendo la frase inpa qapicun qapintas´ come ‘die ich verflucht habe (sie) verfluchend’, ovvero ‘i quali io ho maledetto maledicendo(li)’, intendendo quindi inpa come relativo (accusativo), qapicun come predicato verbale di prima persona singolare (preterito), qapintas´ come participio. 4 Una posizione leggermente diversa è assunta invece, all’inizio degli anni ’80, da Massimo Pallottino: secondo Pallottino, se è vero che l’interpretazione di qapicun qapintas´ quali verba defigendi è la più comune ed accettata, tuttavia non è da escludere, per qapintas´, una lettura quale caso obliquo di un termine *qapint-, nel quale sia da riconoscere il nome di una divinità che è in relazione con l’azione espressa da qapicun: 5 Pallottino evidentemente recupera una vecchia ipotesi formulata da Torp che considerava qapintas´ un genitivo di dedica. Gli interventi successivi sono perlopiù nel solco della tradizione inaugurata da Skutsch: secondo Colonna, come già accennato sopra, il rapporto con qapna ‘offerta’ comporterebbe un significato relativo al ‘consumo’, anche nel senso metaforico richiesto dal testo della defixio. 6 Anche Facchetti fa sua questa impostazione, considerando inpa relativo, qapicun forma verbale alla prima persona singolare, qapintas´ participio o, eventualmente, appellativo al caso obliquo: ‘i quali estinguo avendo(li) estinti’ oppure ‘i quali estinguo tramite l’estinzione’. 7 Leggermente diversa, ma tutto sommato nell’alveo della tradizione, l’ipotesi di Steinbauer, il quale, in base al confronto con la terminologia delle coeve defixiones latine e greche, ritiene più probabile un significato del tipo ‘binden, schaden, töten’, ovvero ‘vincolare, recar  













  Trombetti @928, pp. @34, @85-@86. Cfr. anche Buonamici @932, p. 363, e Battisti @933, pp. 480-48@. Analogamente, Stoltenberg traduce qapicun con ‘ich verfluche’ e qapinta- con ‘Verfluchung’ (Stolten2   Fiesel @935, p. 250. berg @950, p. 29). 3   Cfr. ad esempio Meriggi @937, p. @4@. 4   Pfiffig @975, p. 364; Cfr. anche Pfiffig @968a, pp. 28-30; Pfiffig @969, p. 306. 5   Pallottino @98@, p. 277 (cfr. già Pallottino @958, p. 82). 6   Colonna @984, p. 3@2; secondo Colonna inoltre (p. 3@6, nota @@), il parallelismo tra qapicun e slapicun generalmente proposto da tutti, con la conseguente individuazione di due forme verbali di prima persona, sarebbe in contrasto con il testo della Mummia di Zagabria, che in nessun altro passo sembrerebbe documentare un passaggio al discorso diretto; questa obiezione, ovviamente, cade una volta che si accetti l’interpretazione di nunqen come ‘(io) invoco’ proposta da Rix (cfr. Rix @99@). 7   Facchetti 2002a, pp. 99-@00. Cfr. anche Facchetti 2000b, pp. 247-248. @

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danno, uccidere’, mentre sul piano dell’analisi morfologica ritiene che la forma verbale (preteritale) sia qapintas´, mentre qapicun sarebbe, nell’ottica di una figura etimologica, l’oggetto interno, equivalente grosso modo a ‘maledizione’. @ Infine, è da registrare il brevissimo commento di Wylin: secondo Wylin non vi sono certezze riguardo l’analisi morfologica di qapicun e qapintas´, in particolare su -un come desinenza di prima persona singolare, e potrebbe anche darsi che si tratti di due sostantivi. 2 Come si è visto, da un lato si registra una convergenza verso l’ipotesi tradizionale, ripresa da Pfiffig, in cui in qapicun qapintas´ sia da leggere la formula di maledizione; dall’altro, si nota come le traduzioni proposte, ottenute sul piano del confronto bilinguistico con le tavolette defissorie di altri contesti linguistici, si scontrano con la carenza di informazioni di cui soffre lo studio dell’etrusco, e rimangono perlopiù al livello di mere ipotesi di studio. Ad esempio, le nozioni disponibili sulle forme verbali alla prima persona singolare in etrusco sono tutt’altro che convincenti: ne tratta diffusamente Facchetti, il quale ritiene di aver individuato una serie di forme di ingiuntivo a marca zero, alcune delle quali sarebbero alla prima persona singolare, come mi capi ‘io contengo’, mi (a)r nuna e mi nuna (a)r ‘io porgo preghiera’, oltre al recupero dell’ipotesi Rix su nunqen ‘(io) invoco’ e allo stesso qapicun, considerato un tema puro alla stregua di *cericun- su cui è costruito il preterito attivo cericunce (Cr 5.2-3, Ta @.@53 ecc.). 3 Precedentemente, Wylin aveva invece sostenuto che tutti i dati a disposizione portano ad ipotizzare il contrario, ovvero che il verbo etrusco non distingue né il numero né tantomeno la persona verbale. 4 Allo stato attuale della documentazione, sembra opportuno sospendere il giudizio: nel caso della Lamina di Monte Pitti, si vedrà più avanti quali strategie possono essere messe in opera per ottenere maggiori informazioni sulla sequenza qapicun qapintas´. Dopo qapintas´ della r. 2 inizia una nuova serie di nomi di defissi, con tre altri membri della famiglia vels´u: a(rn)q vels´u figlio di l(ar)q, ancora un l(ar)q vels´u, omonimo del personaggio di r. @, questa volta però con l’indicazione di essere figlio di l(ar)q (il patronimico è all’inizio di r. 2); infine l(ari)s vels´u, anch’egli figlio di l(ar)q. In tutto, quindi, quattro membri della famiglia vels´u, a cui si aggiunge la qancvil vels´ui di r. 5: un’ipotesi possibile è che il secondo personaggio della r. @, ovvero il primo larq vels´u ad essere nominato, sia il padre degli altri tre (seqre, arnq e l’omonimo larq), tutti indicati in effetti come figli di un larq; si noti, del resto, che il larq vels´u di r. @ è l’unico senza patronimico.  







  Steinbauer @999, pp. 3@0-3@@.   Wylin 2000, p. 94, nota @80; sul piano semantico, Wylin si limita a ripetere l’ipotesi di Colonna riguardo un rapporto con qapna e il possibile significato, anche metaforico, di ‘spesa’ e ‘consumo’. 3   Facchetti 2002a, pp. 98-@09: secondo l’ipotesi di Facchetti l’ingiuntivo sarebbe così formalmente identico all’imperativo in quanto tema puro, tranne che alla terza persona singolare dove, a volte, sarebbe presente un morfema -e; la disambiguazione, quindi, sarebbe possibile solo grazie all’eventuale presenza di un pronome personale, come in mi capi; lo stesso Facchetti, però, riconosce le difficoltà di questa proposta ermeneutica, nonché la discrepanza con alcuni dati della documentazione, ad esempio l’iscrizione Vs 2.40, dove mi sembra associato alla forma verbale ame (cfr. ivi, pp. @07-@08). 4   Cfr. Wylin 2000, pp. 93-96. Altrettanto prudente, anche se sostanzialmente in linea con la tradizione esegetica, Wallace 2008, pp. @92-@93. @

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Segue alla r. 3 un l(ar)q s´uplu, @ quindi alla r. 4 un a(rn)q s´uplu, parente del precedente, e un l(ari)s hasmuni, quest’ultimo hapax; alla r. 5 un s(e)q(re) cleuste e un a(rn)q cleuste, 2 quindi un terzo personaggio il cui prenome è v(e)l, mentre il gentilizio, non del tutto chiaro, sembra essere qualcosa come runs[: au sovrascritto potrebbe essere il completamento del gentilizio, o anche il patronimico, ovvero au(les´). La r. 6 contiene il primo nome femminile, quella qancvil vels´ui evidentemente parente dei quattro vels´u di inizio testo, e di seguito la prima parte di testo non onomastica dopo inpa qapicun qapintas´: la locuzione ces´ zeris´, che ritorna identica alla r. 9. 3 Qui è probabile che il sintagma sia completato dalla particella ims´, che sembra condividere la stessa terminazione morfologica di ces´ zeris´. Torp ipotizza che ces´ zeris´ significhi horum sacrorum: 4 il genitivo sarebbe retto da semutin, considerato una parola unica. Vetter, invece, stabilito che ces´ è il genitivo del dimostrativo (e)ca, ritiene che zeri- significhi ‘tutto’, e pertanto che la formula ces´ zeris´ stia per horum omnium, genitivo di cui, però, non sa indicare il sostantivo da cui dipende. 5 Trombetti recupera in parte l’ipotesi di Lattes, 6 il quale partendo da una lettura semunin riteneva che avesse a che fare con il lat. Semones: in virtù di questo, Trombetti traduce la sequenza ces´ zeris´ ims´ se/munin con il lat. his sacris ipsis Semoniis. 7 Meriggi, invece, traduce ‘di queste persone ... distruzione!’. 8 Più recentemente, il problema di zeri(s´) è stato affrontato da Steinbauer e da Facchetti: Steinbauer ritiene che zeri significhi ‘libero’, e che sia da riferire ai vari personaggi defissi, in contrapposizione a titi setria che, come recita l’iscrizione, è una lautnita, cioè una liberta; 9 Facchetti, invece, ritiene che il termine zeri stia per ‘rito’, e che pertanto la locuzione ces´ zeris´, considerata ablativo, significhi qualcosa come ‘secondo questo rito’. @0  



















  @  La

lettura del prenome di questo personaggio come l(ar)q piuttosto che come a(rn)q sembra preferibile, ad onta di quanto afferma Danielsson (ad cie 52@@), poiché altrimenti si troverebbero citate due persone con lo stesso nome, con l’effetto di generale ambiguità: in linea teorica è possibile che siano nominate due persone con lo stesso nome (ad esempio padre e figlio), ma in precedenza, con la menzione di due diversi l(ar)q vels´u, l’incisore ha ritenuto opportuno distinguerli tramite l’aggiunta del patronimico al secondo dei due; qui, invece, i due a(rn)q s´uplu non sarebbero distinguibili, conseguenza che in genere nelle defixiones si tende ad evitare, per essere sicuri che la maledizione raggiunga le persone giuste. Gamurrini riteneva che s´uplu fosse l’etrusco per il lat. subulo, glossa etrusca indicante, secondo i grammatici, il tibicine (Gamurrini @89@, p. 435; cfr. anche Lattes @904, p. 2@, nota 56, Cortsen @9@7, p. @74; Trombetti @928, p. @85; da ultimo Rix @994, p. @09). Il gentilizio s´uplu compare anche in Vt @.@45, Cl @.2384, Vs @.@8@ (suplu), Ru 2.7, 2.25 (suplus), Cl @.@967 (s´uplus´); forme strettamente collegate sono s´uplini (Cl @.86), s´uplnal (Vt @.@08), suplni (as @.502), s´uplunias´ (Cl @.2382-2383), forse l’arcaico s´upelniies´ (av 2.5, ma per la lettura cfr. cie @@@4@7).   2  I cleuste sono noti anche da Cl @.350, Vs @.223 (cleustes), Ad 2.30 (kleuste[), Vs @.224 e @.269 (cleusti), Vs @.20@ (clevsti).   3  Confronti per zeris´: zeri (ll ii.2; v.2; ix.@, 8), zeric (ll v.22). Un’ulteriore attestazione di zeri potrebbe essere in Pe 8.4b@8, tuttavia la mancanza di punteggiatura permette anche altre segmentazioni (cfr. Facchetti 2000a, p. 53).   4  Torp @902-@903, ii, p. @23 (cfr. anche pp. @0-@@); analogamente Torp @903, p. 65 (ces´ zeris´ ims´ semutin 5 = lat. horum virorum sacrorum progenies).   Vetter @924, pp. @48-@49. 6     Cfr. Lattes @904, p. 29. 8   7  Trombetti @928, p. @86 (cfr. anche Buonamici @932, p. 364).   Meriggi @937, p. @4@.   9  Steinbauer @999, p. 3@@ (ces´ zeris´ = ‘bei/mit/von diesen Freien’). @0   Facchetti 2000a, p. 53, nota 306; Facchetti 2000b, p. 248; Facchetti 2002a, p. 42. Così già Pallottino @984, p. 509.

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L’attestazione ecn zeri del Liber linteus (ad esempio ll v.2) è chiaramente la declinazione all’accusativo dello stesso sintagma, e permette di affermare che zeri è anche la forma del nominativo; considerando d’altra parte che ces´ è indubbiamente l’ablativo di (e)ca (< *(e)ca-i-s´), zeris´ deve essere considerato ugualmente ablativo di zeri (< *zeri-(i)-s´). La particella ims´ potrebbe essere considerata ugualmente ablativo (< *im-(i)-s´?). @ L’unica proposta degna di rilievo, peraltro piuttosto datata, è quella di Bugge, riportata da Torp: secondo Bugge ims´ potrebbe essere una sorta di rafforzativo del dimostrativo ces´, ed insieme starebbero per ‘derselben’. 2 La riga termina con due lettere, se: stando alle regole grafematiche settentrionali, il sigma in questo caso codifica una sibilante palatale, quindi sta per [sˇe]. È possibile che sia l’abbreviazione del prenome [sˇ]eqre, ma ciò che segue alla riga successiva, mutin, non sembra essere riconducibile ad una forma onomastica, per quanto sia attestato un metronimico mutinal (Cl @.@86@); del resto, precedentemente il pronome [sˇ]eqre è stato abbreviato con sq (rr. @, 5). È possibile allora che [sˇ]e siano le prime due lettere di un’unica parola, [sˇ]emutin, ma per quest’ultima mancano confronti certi, che invece ci sono per il solo mutin: nel Liber linteus, infatti, compaiono due volte la forma preterita attiva mutince (ll iv.5, @8) e il probabile imperativo mutin-um (ll iii.@4); 3 da notare che una lettura quale imperativo potrebbe porsi in relazione con le varie attestazioni di qapicun, anch’esse passibili di essere lette come imperativi. È da escludere che la parola seguente, aprens´ais´, sia un ablativo in -a-i[s], per il semplice fatto che ad una quota cronologica così bassa sarebbe attesa per l’ablativo una terminazione -es´. La parola qapintais´ di r. 8, che è nelle stesse condizioni, è stata emendata da alcuni in qapinta{i}s´, per il confronto con qapintas´ che in r. 2 è nella stessa posizione sintattica: 4 sulla scorta di questo esempio è possibile, ma in definitiva non dimostrabile, che anche aprens´ais´ debba essere emendato in aprens´a{i}s´. Per quanto riguarda il significato, molti propendono per il nome di una qualche divinità, 5 e lo stesso Pallottino, giustamente associando il termine ad una serie di altre attestazioni, quali aprinqvale (Ta @.@7), aprinqnai (Ta @.47), aprinqu (Cl @.7@8),  









@   L’unica altra attestazione sembrerebbe essere sull’aequipondium di Caere, nella lettura fornita da Maggiani (cfr. ad esempio Maggiani 2002b, p. @67, nota @3), seguita anche in Facchetti, Wylin 2004, p. 390. Altri confronti parziali: una forma imi potrebbe essere eruibile, con qualche difficoltà, da Cl 4.2; nel Liber linteus è attestato imec (ll x.@3), mentre nella Lamina di Santa Marinella si trova im-[ (Cr 4.@0; si veda il cap. iii.6.). 2   Cfr. Torp @902-@903, ii, p. @23. Anche la traduzione di Trombetti tende verso questa impostazione (cfr. Trombetti @928, p. @86 = Buonamici @932, p. 364). 3   Cfr. Belfiore 20@0, pp. @06-@07. Facchetti propone di intendere mutin come forma verbale alla @a persona singolare, traducendo con ‘(io) raccolgo’ (Facchetti 2000b, p. 248). 4   Secondo Torp qapintais´ non è errore per qapintas´ proprio per la presenza di aprens´ais´ (Torp @902@903, ii, p. @@9); così, in parte, anche Trombetti, il quale considera -i marca del femminile (Trombetti @928, p. @86); di tutt’altro avviso Lattes, il quale per qapintais´ e qapintas´ parla di «varietà fonetiche» della stessa forma di genitivo (Lattes @9@4, p. 200) e Pallottino, il quale, partendo dal fatto che qapintais´ ha apparentemente la stessa funzione di qapintas´, e di quest’ultimo, al contrario di qapintais´, è possibile dare un’analisi soddisfacente, conclude che la forma giusta debba essere qapintas´ e, conseguentemente, anche aprens´ais´ dovrà essere emendato in *aprens´as´ (Pallottino @958, p. 82). 5   Cfr. Torp @902-@903, ii, p. @23; Lattes @904, p. 29; Trombetti @928, p. @86.

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aprinqus´ (Cl @.904), vede in questi un riferimento alla parola apa ‘padre’ e, in aprens´ais´, una maledizione (dibus) parentibus. @ Facchetti, invece, recupera in parte l’idea di Pallottino ma sostiene che aprinqu, aprinqvale ecc. sono termini composti parzialmente analoghi al lat. patrimonium. 2 È da dire che entrambe le spiegazioni sembrerebbero essere interessanti nell’ottica di una defixio, dal momento che una maledizione potrebbe benissimo interessare sia gli dei Mani sia, più prosasticamente, gli averi del defisso. Segue quindi, per la seconda volta, la formula inpa qapicun qapintas´, qui con la variante qapintais´ di cui si è già parlato: se si accetta la lettura di inpa quale pronome relativo, evidentemente il referente dovrebbe essere proprio aprens´ais´. La parola ceus´n, subito prima della ripetizione della formula inpa qapicun (senza qapintas´), presenta alcune difficoltà di interpretazione. Da un lato, l’attestazione in Ta @.@69 (3... clalum . ceus . ci . clenar s´[a] 4anavence ...), ammesso che la lettura di Rix negli et sia giusta (ma risulterebbe del tutto inspiegabile, altrimenti, una forma *clenars´), 3 rende probabile che ceus, in quanto specificato dal numerale ci, sia un sostantivo inanimato, non presentando alcuna marca di plurale; l’unica attestazione nel Liber linteus (ll vii.8: ... arq 8vacr . ceus´ cilqcval . svem . cepen . tutin 9renczua ...), invece, è stata letta come l’indicazione della divinità, Ceu, alla quale parte del rito è da dedicare, 4 ma l’ipotesi che ceus´ sulle bende della Mummia di Zagabria sia un genitivo è sconsigliata da quanto detto circa l’attestazione in Ta @.@69. La forma ceus´n, del resto, presenta una terminazione in -n che farebbe pensare ad un accusativo e, quindi, ad una forma pronominale. È evidente che l’assenza di ulteriori elementi non permette un’analisi più approfondita. Dopo la terza attestazione della formula inpa qapicun si trova l’inizio di una parola che si conclude alla r. 9 e che è ricostruibile come iluu; la presenza del doppio ypsilon può essere spiegabile solo come un errore, vale a dire che lo scriba ha dimenticato di incidere ciò che stava in mezzo: il confronto più diretto è con la forma ilucu, di cui si è già parlato per la forma ilace del Piombo di Magliano, e che a partire da Cristofani è tradotta con ‘festa, celebrazione’. 5 Seguono quindi, alla r. 9, l’ultima attestazione di qapicun (da solo) e la seconda di ces´ zeris´ (senza ims´); alla r. @0, infine, di nuovo un nome, questa volta di una liberta (lautnita, ovvero lautniqa), titi setria. Qui si pone il problema di stabilire che ruolo abbia quest’ultimo personaggio nell’economia del testo di defissione: alcuni, infatti,  









@   Pallottino @958, pp. 79-83. Belfiore 20@2, p. 8, ipotizza invece che aprinqvale sia il locativo del nome di un mese. 2   Cfr. Facchetti 2000a, p. 93, nota 549; Facchetti 2002a, p. @2, nota @3. 3   Anche Facchetti considera ceus´n l’accusativo di un termine ceus, da tradurre come ‘insieme’ e da riconoscere anche nell’iscrizione Ta @.@69; l’interpretazione di quest’iscrizione è però diversa da quella di Rix negli et: Facchetti considera ci il numerale quantificatore di clenar, e non dà spiegazione per il san (indicante la sibilante palatale [š]) che segue lo stesso clenar, prima della forma verbale anavence (cfr. Facchetti 2000b, pp. @03-@04). 4   L’idea originaria era stata formulata da Torp (cfr. Torp @902-@903, ii, p. @23) e successivamente è stata ripresa da Olzscha, cfr. Belfiore 20@0, p. @4@. 5   Cfr. Cristofani @995, pp. 62-63; per le attestazioni si rimanda al capitolo sul Piombo di Magliano relativo alla forma ilace. Facchetti traduce iluu con ‘i dedicati’ (Facchetti 2000b, p. 248).

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ritengono che la liberta @ sia l’autrice (o la committente) del testo di maledizione; 2 altri, invece, osservano che uno dei tratti distintivi delle defixiones, come già spiegato sopra, è l’anonimato; pertanto, titi setria dovrebbe essere un’altra persona da maledire, eventualmente aggiunta in un secondo momento. 3 Le obiezioni di questi ultimi sembrano di gran lunga più convincenti, per quanto non sia del tutto impossibile, ma comunque oltremodo raro, che compaia nelle tabellae defixionum antiche il nome del defiggente. 4 È da notare la stranezza della formula, che sembrerebbe avere prenome e gentilizio a posizioni invertite, come è normale, ad esempio, in età recente a Tarquinia, ma non al nord. 5 Rimane da osservare l’architettura complessiva del testo. Come si è visto, la maggior parte degli studiosi individua nella formula qapicun (qapintas´) il nucleo semantico e sintattico del testo; 6 molti, inoltre, propongono un confronto con l’analogo slapicun slapinas´ della Mummia di Zagabria (ll xi.9-@0). Proprio quest’ultimo passo è stato oggetto di analisi da parte di Martin Bentz e Helmut Rix, i quali hanno sostenuto che slapicun potrebbe significare qualcosa come ‘combustione’ (ara slapicun ‘faccia la combustione, bruci’); questa stessa azione, poi, sarebbe ripresa al passato, dopo una cesura sintattica, dal participio slapinas´ (‘avendo bruciato, dopo aver bruciato’). 7 Il confronto con qapicun qapintas´ sarebbe però difficoltoso, poiché nel testo della Lamina non vi è alcuna parola in grado di svolgere le stesse funzioni sintattiche di ara del passo del Liber linteus; tuttavia, è interessante l’idea di una cesura sintattica tra i due termini. 8 L’ipotesi tradizionale vuole qapicun forma di ingiuntivo alla prima persona: tuttavia, considerato anche il confronto con cericunce, sembrerebbe piuttosto che qapicun sia un tema puro, quindi un predicato verbale  















  Su etr. lautni/lautniqa = lat. libertus/liberta cfr. Rix @994, pp. 96-@@6.   Cfr. Torp @903, pp. 62-63; Trombetti @928, p. @87; da ultimo, Facchetti 2000b, p. 248. 3   Cfr. Vetter @924, pp. @48-@49; Buonamici @932, p. 364; Pfiffig @968a, pp. 29-30; Pfiffig @975, p. 364; Steinbauer @999, p. 3@@, nota 2. 4   Si veda ad esempio l’iscrizione latina ridiscussa recentemente da Heikki Solin (cfr. Solin 2004, pp. @23-@26), di cui peraltro si parlerà anche in seguito: qui compare il nome del defiggente, Q(uintus) Domatius C(ai) f(ilius). Un’altra iscrizione discussa in tal senso è la cosiddetta ‘maledizione di Vibia’, in lingua osca, su piombo e proveniente da Capua (st Cp 37, cfr. Poccetti @998): per Poccetti (p. @77, nota @0) la Vibia Aquia nominata nel testo sarebbe proprio la defiggente, e non, come sostengono altri, la defunta latrice del messaggio (cfr. Vetter @953, p. 4@; Álvarez-Pedrosa Núñez @998, p. @09). 5   Cfr. Rix @994, pp. @05, @08, nota 8. Si veda anche Rix @963, p. 5@. 6   È interessante notare come le defixiones presentino spesso tali caratteri di formularità, come del resto è attendibile in testi dallo spiccato carattere magico e rituale (sull’argomento cfr. Poccetti 2007, p. 248, che tratta anche della formula della defixio di Monte Pitti e di come essa evidentemente sfrutti strutture metriche allitteranti); nell’iscrizione latina di cui si è parlato poco più sopra (cfr. Solin 2004, pp. @23@26), compare la formula id ego mando remandata, che seguendo Solin si può tradurre pressappoco così: ‘per questo, attraverso la maledizione io maledico’ o simili. 7   Cfr. ree 56, 43, dove peraltro non si fa cenno del parallelismo con qapicun qapintas´. Altrove (Rix @984, p. 232), lo stesso Rix menziona invece le due formule analoghe, ma ritiene che dal confronto di queste al momento non è possibile ricavare alcun dato utile alla loro analisi. 8   La cesura testuale qui proposta è, al momento, indimostrabile, e può essere accolta solo come ipotesi di lavoro; tuttavia, questa potrebbe essere suggerita anche dall’impaginazione del testo, con qapintas´ che si trova sempre ‘a capo’ rispetto a qapicun (cfr. Fig. @0 e Tav. vii). Nel primo caso, addirittura, malgrado l’assenza di spazio non permettesse di scrivere tutta la parola qapicun in fine di prima riga, lo scriba, piuttosto che scrivere il ny a capo della seconda riga, ha preferito sottoscriverlo alle ultime lettere della parola stessa, e poi cominciare la seconda riga con, appunto, qapintas´. @

2

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all’imperativo. @ Piuttosto che un elemento vocativo, i nomi dei defiggenti sembrano svolgere la funzione di oggetto dell’azione qapicun:  



sq vels´u lq c lq ve[ls´u]



qapintas´

aq vels´u lq c lq vels´u lq c ls vels´u lq c lq s´uplu aq s´uplu ls hasmuni sq cleuste aq cleuste vl runs( ) au qancvil vels´ui



qapintais´

ceus´n



ces´ zeris´ ims´ se mutin aprens´ais´

inpa

qapicun

inpa

qapicun

inpa

qapicun qapicun

iluu



ces´ zeris´

titi setria lautnita

Lo schema qui riprodotto individuerebbe quindi, in tutto, circa cinque enunciati differenti: il primo inizia con i nomi di due persone, verosimilmente oggetto (anche sintattico) dell’atto di maledizione, seguiti da inpa e dal verbo all’imperativo, ovvero ‘S. Vels´u (e) L. Vels´u inpa 2 maledici (vel sim.)’; dopo una cesura sintattica, il secondo riprenderebbe l’atto di maledizione con una lista più corposa di defissi (dieci persone) a cui si aggiungerebbero delle specificazioni particolari, quindi inpa e di nuovo il verbo all’imperativo: ‘dopo aver maledetto (quelli della frase precedente), [altre dieci persone] secondo questo rito (?) ... inpa (?) maledici (vel sim.)’; il terzo enunciato presenterebbe di nuovo la ripresa iniziale in forma participiale del verbo di maledizione, ma questa volta non sarebbe seguito da altri nomi propri, bensì da ceus´n, che per posizione 3 sembra averne la stessa funzione sintattica e, data la possibile presenza del morfema di accusativo, confermerebbe l’ipotesi iniziale che i nomi di persona siano gli oggetti sintattici dei verbi qapicun: ‘avendo maledetto (quelli della frase precedente), ceus´n inpa (?) maledici’; il quarto enunciato è composto solo dalla parola iluu, che dovrebbe essere di nuovo l’oggetto di qapicun (ma è da notare l’assenza del morfema di accusativo, di fronte a ceus´n, che forse per questo ha natura più pronominale che sostantivale), e qapicun stesso, questa volta senza inpa: ‘la festa (?) maledici’; il quinto enunciato potrebbe essere in realtà la semplice prosecuzione del quarto, con la locuzione ces´ zeris´ (‘secondo questo rito?’), e l’aggiunta del nome di un’altra defissa, la liberta Titi Setria. Sono percorribili anche altre strade, ma nessuna sembra poter portare ad una  



@   Wylin ritiene che cericunce sia una forma di preterito attivo causativo (‘fece costruire’), costruito sul nome verbale cericu (cfr. Wylin 2000, p. 238), dove il morfema -n- indicherebbe l’aspetto mediocausativo; tale morfema, una volta che si ammetta il parallelismo morfologico tra cericun(-ce) e qapicun, dovrebbe essere riconosciuto anche in quest’ultimo (ma si vedano i dubbi di Wylin su qapicun già menzionati sopra). 2   Come detto sopra, la traduzione di inpa quale congiunzione, piuttosto che come relativo, sembrerebbe più adeguata nel contesto della Lamina di Monte Pitti (cfr. Agostiniani 2009c), tuttavia non sembra esserci alcun elemento positivo in grado di permetterne una traduzione anche soltanto parziale. 3   L’alternativa è che ceus´n rivesta nel terzo colon la stessa funzione delle precisazioni rituali del secondo (ces´ zeris´ ims´ se mutin aprens´ais´): tuttavia queste, perlopiù all’ablativo, sembrano avere diversa funzione da ceus´n.

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comprensione piena dei rapporti sintattici del testo della defixio: ad esempio, una volta postulata la funzione di congiunzione di inpa, considerato che inpa precede qapicun le prime tre volte, ma non la quarta, si potrebbe ipotizzare che i tre inpa introducano altrettante subordinate, rette dalla principale iluu qapicun (ces´ zeris´): tuttavia, in questo modo troverebbe una più difficile collocazione l’assunto che qapicun rappresenti un imperativo. 5. La defixio di Ardea Tra i testi etruschi di defissione, l’ultimo pubblicato in ordine di tempo è stato rinvenuto fuori dall’Etruria propria, ovvero ad Ardea, nel Lazio. @ La relazione di Francesco Di Mario e Giovanni Colonna spiega che la laminetta con iscrizione etrusca è stata rinvenuta in un sito già parzialmente interessato da scavi, in un contesto archeologico poco perspicuo, insieme a materiali ceramici di varie epoche, dall’viii al iv secolo a.C. La laminetta misura 9,@ cm di altezza e @3,06 cm di larghezza nei punti più ampi: in realtà solo i margini superiore e destro si sono conservati quasi integri. La lamina presenta due piegature nel senso dell’altezza: la prima piegatura, meno ampia, è quella di sinistra, mentre la seconda, quella di destra, è molto più consistente ed arriva a coprire l’altra, nascondendo all’interno il testo. Al momento della scoperta questa seconda piegatura (la prima per chi doveva aprire e leggere il testo) risultava già aperta. Colonna nota inoltre due fori da chiodo in prossimità della seconda piegatura, secondo un uso piuttosto comune per le tabellae defixionum. L’iscrizione occupa la porzione superiore destra del metallo; è distribuita in due righe sinistrorse, allineate a destra, i cui inizi sono leggermente spostati dal margine destro della lamina stessa. La lettura dell’iscrizione non è sempre agevole, anche per la corsività che di solito contraddistingue testi di questo tipo. Questa la versione data da Colonna:  

@ 2

veluqras´i mlac

Secondo Colonna, prima del wau vi sono tre leggeri segni orizzontali, da considerare meri esercizi con lo stilo prima dell’iscrizione vera e propria. Il wau, a differenza di epsilon che segue, è leggermente coricato; epsilon, infatti, presenta segmenti inclinati ma asta verticale. La quinta lettera, theta per Colonna, è costituita da due linee lievemente arcuate e non tangenti. La sesta, settima e ottava lettera sono su un piano più inclinato verso l’alto rispetto alle precedenti. La sesta lettera è rho, con brevissimo codolo inferiore e occhiello schiacciato longitudinalmente; la settima lettera, alpha, a struttura triangolare, ha il segmento interno che unisce la metà del primo segmento con il vertice inferiore del secondo; l’ottava, san, presenta i segmenti intermedi leggermente più brevi; termina la serie un’asta verticale, even  Per tutte le informazioni qui contenute cfr. ree 69, 55 (F. Di Mario, G. Colonna); Di Mario 2007, pp. @5-@7; da ultimo, Wallace 2008, p. @92. @

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tualmente iota, anche se Colonna ritiene che sia da espungere, quale falsa partenza del my che segue alla r. 2, poiché si trova su un piano diverso dalle tre lettere precedenti. La r. 2 inizia con una lettera che Colonna considera un insolito my a quattro tratti, di solito assente nelle iscrizioni etrusche ma proprio del repertorio grafico greco: secondo Colonna, la particolarità è dovuta probabilmente ad un’innovazione personale dello scriba, magari sotto l’influsso di esempi latini, ma senza allungare l’ultimo segmento fino all’altezza del primo, per non correre il rischio di confonderlo con un san. Segue lambda e di nuovo alpha, anche se di forma del tutto diversa dalla precedente: è sempre triangolare ma con entrambe le aste allungate verso il basso e il segmento trasversale che seca le aste stesse. Chiude la serie un chi a freccia, con i tre segmenti (quello centrale più lungo) che convergono in un unico punto in basso. La lettura e interpretazione di Colonna, pertanto, è: @ 2

vel uqras´{i} mlac

Secondo Colonna, la prima riga contiene il prenome e gentilizio del defisso, mentre la seconda è chiaramente il noto aggettivo mlac, che qui però non pertiene alla sfera delle qualità etiche o estetiche, bensì rappresenta un’identificazione a livello sociale. L’iscrizione, pertanto, si inserirebbe in un contesto di lotte sociali: secondo Colonna, alla metà del v secolo a.C., un etrusco, forse delle classi subalterne, personalizza il conflitto sociale in atto nella cittadina latina, del quale peraltro parlano anche le fonti; questo etrusco avrebbe fatto ricorso a pratiche magiche votando agli dei inferi un suo connazionale, anch’egli trapiantato ad Ardea, ma appartenente alla fazione avversa, quella degli optimates (a questo farebbe riferimento l’epiteto mlac). I termini cronologici della questione sarebbero stabiliti, secondo Colonna, dal prenome vel, già sincopato da venel, che si colloca a partire dal primo quarto del v secolo a.C., e dal gentilizio uqras´, che Colonna ricostruisce da *uta-ra, e che pertanto la sincope interna pone non prima del secondo quarto del v secolo a.C. Vi sono, è evidente, molti interrogativi su questa laminetta in piombo: in primo luogo, come sottolinea anche Colonna, la terminazione del gentilizio con san si pone in una tradizione grafica di tipo settentrionale, ancor più singolare se si pensa che l’iscrizione è stata rinvenuta nel Lazio meridionale. Anche la connotazione ‘sociale’ di mlac sembra non poter contare su molte prove interne alla documentazione etrusca. Del resto, anche la grafia sembra essere piuttosto problematica, come già visto precedentemente: su tutti, il my a quattro tratti, del tutto singolare nella documentazione epigrafica etrusca; ma anche lo iota in fine di r. @, espunto da Colonna, che tuttavia potrebbe essere inteso come parte di una terminazione (pertinentiva?) -s´i; infine, la forma certo piuttosto corsiva del theta. 6. Le statuette di Sovana Nel capitolo dedicato alle defixiones etrusche si è deciso di inserire due oggetti iscritti leggermente diversi dalla casistica delle lamine con maledizioni: si tratta di due piccole statue in piombo rinvenute a Sovana, che recano ognuna una breve iscrizio-

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ne (cfr. Tav. viii). La loro pubblicazione si deve a Bartolomeo Nogara: @ in base alle testimonianze raccolte da Nogara, le statuette furono ritrovate nel settembre @908, durante dei lavori agricoli che misero in luce una piccola tomba a camera. Le due statuette, insieme a del vasellame, furono rinvenute in una sorta di panchina, in uno degli angoli della tomba: a detta di Nogara, la ceramica rinvenuta e la tomba sembrano essere di età arcaica (vii-vi secolo a.C. circa), mentre le statuette sono certo più recenti, non prima del iv-iii secolo a.C. Secondo Nogara, le statue furono certamente fuse e successivamente sbozzate al bulino. La più alta (@8 cm) rappresenta un uomo nudo, imberbe, in piedi, leggermente curvato verso destra, mentre quella più bassa (@6 cm) è una donna, anch’essa nuda, con i capelli raccolti: la particolarità di entrambe è che hanno le mani giunte dietro la schiena, oltre ad avere sul fianco destro due brevi iscrizioni. Quella maschile porta questo testo, come è stato integrato negli et (av 4.2, cfr. Fig. @2 a):  

@ 2

zer[t]uº[r] cecnas

Questo è invece il testo della statuetta femminile (av 4.3, cfr. Fig. @2 b): @ 2

velºia satnea

Fig. @2. a) Statuetta maschile di Sovana, iscrizione; b) Statuetta femminile di Sovana, iscrizione. @

  Nogara @909.

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I due testi sono evidentemente due formule onomastiche, maschile la prima e femminile la seconda. Poche sono le considerazioni possibili in merito alla grafia. Da notare i due ny: quello di cecnas è ancora capitale, mentre quello di satnea sembra regolarizzato; zeta e tau hanno i segmenti trasversali ascendenti a destra non secanti ma tangenti le aste verticali; l’alpha è a struttura quadrangolare, non ancora tendente al tipo ‘a bandiera’; wau ed epsilon non sono coricati, ma hanno i segmenti trasversali leggermente obliqui; rho sembra non avere codolo. Tutto sommato, considerate anche le forme di wau ed epsilon, la grafia sembra essere riconducibile al tipo i b (‘capitale’) della tassonomia di Maggiani, che confermerebbe la datazione di Nogara. @ Le iscrizioni appartengono chiaramente alla tradizione grafica meridionale: si consideri al riguardo la grafia di cecnas, con sigma. Interessante l’uso di zeta per sigma: l’uso è sporadico ma non isolato (ad esempio in Pe @.@053: zerturi). Particolari inoltre i fenomeni relativi ai dittonghi: cecnas sta evidentemente per ceicnas, mentre satnea dovrebbe riprendere il più diffuso satnia, da satna. 2 In un primo tempo Nogara pensò che si potesse trattare del sacrificio rituale di due schiavi nella tomba del padrone, secondo un uso arcaico mantenuto solo in chiave simbolica: lo stesso Nogara, però, dovette riconoscere che tale ipotesi non sussisteva, di fronte alla discrepanza temporale evidente tra sepoltura e ceramica, da una parte, e statuette, dall’altra. L’interpretazione giusta venne da Lucio Mariani, 3 al quale Nogara aveva chiesto un parere sulle due statuette: secondo Mariani, esse rappresentavano delle maledizioni, cioè delle defixiones figurate, che non solo nel testo ma anche nell’oggetto esprimevano il desiderio di ‘legare’ il proprio avversario, attraverso le mani giunte dietro la schiena. Secondo Mariani, indirizzano verso questa interpretazione anche l’uso del piombo, il metallo vile per eccellenza, e la nudità dei defissi, che così sono privati di ogni ornamento, vilipesi, spogliati; inoltre, la pratica usuale di introdurre le defixiones in tombe preesistenti spiegherebbe perché le statuette, di iv-iii secolo a.C. circa, sarebbero state ritrovate in una tomba di vii-vi secolo a.C. Conseguentemente, le formule onomastiche delle iscrizioni saranno i nomi dei due defissi: Mariani, infine, notò che le raffigurazioni di un uomo e una donna, nudi, apparentemente giovani, potrebbero far pensare ad un incantesimo di tipo amoroso. 4 L’uso di tali oggetti per pratiche defissorie è diffuso in tutto il Mediterraneo. L’intento è piuttosto evidente: attraverso la figurina di piombo (ma, sporadicamente, anche di altri materiali), il defiggente intendeva rappresentare l’avversario e agire su di lui così come poteva fare sulla statuetta. Negli esempi più arcaici l’iscrizione  







  Maggiani @990, pp. @86-@87. Il tipo i b, in Etruria meridionale, è attestato soprattutto a Vulci e Tarquinia a partire dal iv sec. a.C. 2   Cfr. cie 5234-5235. Su satnea si confronti, da ultimo, il gentilizio femminile al genitivo zatneal, sempre da Sovana, rinvenuto su una tomba a semidado databile alla prima metà del ii sec. a.C. (ree 70, @0). 3   Mariani @909. 4   Sulla connotazione delle statuette quali particolari defixiones si veda anche Skutsch @9@2, p. 345; Buonamici @932, pp. 365-366; Pfiffig @975, pp. 365-366; eaa vi, @965, p. @76, s.v. Piombo (L. Vlad Borrelli); Steinbauer @999, p. 3@@, nota 3. @

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di defissione è non sulla bamboletta, ma su un pezzo di metallo ad essa associato. Il confronto più diretto è con le bamboline della tradizione voodoo, per quanto sia stato evidenziato come tra le due pratiche vi sia una differenza di fondo notevole: @ mentre nel voodoo la bambola è il tramite per recar danno alla persona, attraverso l’affissione di spilli e chiodi, nelle Rachepuppen arcaiche il proposito è quello di vincolare il defisso alla volontà del defiggente; i chiodi spesso rinvenuti sulle bamboline, pertanto, non hanno lo scopo di infliggere dolori ma quello di richiamare la propria volontà su specifiche parti del corpo. Secondo Faraone, 2 l’uso delle figurine a scopo defissorio nell’antichità è eminentemente privato; inoltre, l’usanza di seppellire coppie di statuette sembrerebbe particolare dell’ambiente italico inteso in senso lato, comprendente cioè anche l’area etrusca; infine, come detto sopra, l’intento è chiaramente quello di vincolare il volere dell’avversario. È chiaro quindi che tali statuette fanno riferimento allo stesso contesto culturale delle tabellae defixionum come finora sono state trattate, e questo spiega l’inserimento delle statuette sovanesi in questo capitolo: le figurine da Sovana devono essere considerate degli esemplari di una particolare sottoclasse delle defixiones arcaiche, in cui al testo di defissione (espresso nella maniera più sintetica possibile: il nome del defisso) si associa una raffigurazione plastica dell’obiettivo dell’incantesimo, e a tale raffigurazione sono riservate le stesse azioni che il defiggente intende mettere in atto nei confronti del defisso per mezzo dell’azione magica.  



7. La Lamina di Poggio Gaiella Una trattazione sulle tabellae defixionum etrusche non può dirsi completa senza un riferimento alla questione della Lamina di Poggio Gaiella (tle 478) e a tutta la diatriba sorta sui sospetti di falsità. L’epigrafe tle 478 fu pubblicata per la prima volta da Nogara, subito dopo la seconda guerra mondiale; 3 si tratta di un testo di cinque righe incompleto, in scriptio continua, inciso su una laminetta di piombo poi ripiegata in tre a mo’ di lettera. Secondo il suo editore fu rinvenuta a Chiusi, precisamente in uno scavo clandestino, in un complesso funerario presso Poggio Gaiella, a nord della città toscana, nel febbraio del @943; dopo alcuni passaggi di proprietà, finì nelle mani di alcuni conoscenti di Nogara, alla cui attenzione fu presentata per uno studio sull’eventuale autenticità. Se ne presenta qui il testo nella lettura più recente, quella eseguita da Giovanni Colonna nella Rivista di Epigrafia Etrusca: 4  



@

[---]nºesnisnasmukaimeºkanº[---] [---(-)]vºilhuriniiaraismukaºnº[---] 3 [-------(-)]urariiars´kaiteqiquv[-] 4 nanakamarnis´urisicemukºaº 5 [-]nºkamuneisvanka 2

  Cfr. Faraone @99@b, pp. @93-@95; cfr. anche Poccetti @99@, p. @93; Gager @992, pp. @4-@5.   Faraone @99@b (alle pp. @9@ e 202 sono nominate le statuette sovanesi, di cui sono pubblicate anche le immagini). 3   Per tutte le informazioni cfr. Nogara @945-@946. Cfr. anche Rastrelli @998, p. 62. 4   ree 58, 34. @

2

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Nogara non esitò a considerarla autentica, individuando in essa una tabella defixionis databile alla fine del vi o al v secolo a.C. e tentando una prima analisi epigraficolinguistica, in cui l’obiettivo primario era l’individuazione di formule onomastiche di persone consacrate agli dèi inferi, così come è prassi per le defixiones. Lo stesso Nogara dovette però riconoscere che il suo tentativo non era in grado di dare risposta a tutte le problematiche aperte dal rinvenimento della lamina. Dopo Nogara, l’iscrizione fu oggetto di studio da parte di Pallottino, @ il quale, partendo dall’assunto che la Lamina non poteva essere altro che una defixio, si adoperò per individuare eventuali nomi di persona, la cui presenza però, salvo poche eccezioni, era «piuttosto indotta da un ipotetico ed arbitrario giuoco di raggruppamenti di lettere [...], che non da criteri di estrinseca probabilità». Pallottino inoltre propose un confronto con il Piombo di Magliano in virtù delle sequenze marni e s´uris, quest’ultimo anche qui interpretato come teonimo. Proprio questo confronto, peraltro, secondo Pallottino rappresentava un ostacolo all’interpretazione della Lamina come defixio, dal momento che in nessun modo il Piombo di Magliano poteva essere considerato un testo di maledizione; del resto, già Pallottino notava come, accettando una datazione della Lamina al vi-v secolo a.C., questa, se testo defissorio, sarebbe stata l’esempio più antico di tale tipologia di iscrizioni, precedente anche alle prime defixiones greche di v secolo a.C., le quali inoltre nelle forme più arcaiche presentano solo liste di nomi senza formule imprecatorie. Gli interrogativi di Pallottino in merito alla natura della Lamina sono stati in seguito ripresi da Rix, il quale, esprimendo seri dubbi sull’autenticità, ha deciso di escludere l’iscrizione dai suoi Etruskische Texte, motivando ampiamente la sua scelta nell’introduzione alla raccolta; 2 secondo Rix, il testo non solo sarebbe incomprensibile, ma anche oscuro; non conterrebbe alcuna uscita flessiva nota per l’etrusco, e le poche note non sarebbero distribuite in un modo ragionevole; inoltre, come ricordava già Pallottino, il testo, da assegnare al 500 a.C. circa, sarebbe cronologicamente isolato, dal momento che in Italia le defixiones più antiche sono più recenti di circa 200 anni, e in Grecia la tabella defixionis più antica, del v secolo a.C. ca., contiene solo nomi di persona. Altri appunti vengono poi formulati sul piano grafico: sempre secondo Rix, la frequenza di alcuni segni grafici, come i, e, u, n, t e q sarebbe deviante rispetto alla norma statistica, 3 senza contare inoltre che il testo, pur provenendo da Chiusi, che appartiene alla norma grafica settentrionale, è scritto in ortografia del sud. Nello stesso periodo la Lamina è stata oggetto di uno studio di indirizzo diametralmente opposto da parte di Colonna, 4 il quale ha effettuato un’accurata rilettura del testo (presentata sopra), e ha cercato di migliorarne l’interpretazione, individuando, oltre al già citato s´uris, anche una sequenza muka, già nota da altre iscrizio 







2   ree 20, pp. 262-264. Si veda anche tle 478.   et i, p. 7.   È da ricordare, tuttavia, che Rix faceva riferimento alla lettura tradizionale del testo, quella in definitiva contenuta in tle 478, mentre la successiva lettura fornita da Colonna (ree 58, 34), su questo punto, 4 sembra essere più in linea con i dati statistici a disposizione.   ree 58, 34. @

3

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ni (il testo contiene anche una sequenza mukai), ed un possibile locativo in s´kaiteqi; altre parole individuate sono huriniiarais, kamarni e kamuneis. @ Le osservazioni più interessanti sono però sul piano grafico, dove Colonna ipotizza per lo scriba una formazione veiente (testimoniata da alpha con traversa ascendente e dal theta crociato), un lungo tirocinio a Orvieto (sigma retrogrado), quindi un trasferimento a Chiusi, dove avrebbe realizzato la Lamina. Le argomentazioni di Colonna sono state riprese infine anche da Facchetti. 2 Secondo lo studioso, la rilettura di Colonna permette di ovviare ai dubbi emersi dall’analisi di Rix: ad esempio, la distribuzione complementare e regolare di sigma e san, pur in una cornice grafica meridionale, sarebbe comunque un argomento a favore dell’autenticità più forte della sostanziale incongruenza con il rinvenimento in area settentrionale; inoltre, Facchetti osserva che le forme degli antroponimi rispetterebbero le attese sia sul piano grafico sia su quello fono-morfologico, con l’indicazione del nesso [ij] con -ii- che rimanderebbe alla Veio arcaica, e con le terminazioni ablativali in -ais perfettamente congruenti con la datazione al vi secolo a.C.; infine, Facchetti ritiene che la pretesa assenza di confronti documentali (le altre defixiones etrusche sono di almeno tre secoli più tarde) sarebbe semplicemente un argumentum ex silentio. Come si vede, le posizioni sul testo di Poggio Gaiella sono fortemente discordanti. In effetti, che l’iscrizione tle 478 presenti forti discrepanze interne sia sul piano della scrittura sia su quello della testualità è un fatto incontestabile; tuttavia, il giudizio di Rix secondo il quale nel testo «vieles ist [...] einfach Phantasie» difficilmente può essere dimostrato in maniera eaustiva. È indubbio che la lamina presenti vari tratti singolari, in relazione tanto alla grafia, quanto alla resa fonetica, alla morfologia e al lessico. Si consideri solo un altro esempio: la sequenza s´kaiteqi, isolata anche da Colonna e considerata un locativo. Colonna stesso ha notato come, data la supposta arcaicità del pezzo, si sarebbe attesa piuttosto una forma *s´kaiteiqi; ma questa parola presenta anche interessanti conseguenze sul piano fonetico: l’attacco, infatti, dato l’uso di una varietà grafica meridionale, sta chiaramente per [sˇka-], con sibilante palatale. Ora, il nesso sibilante palatale + occlusiva è un tratto caratteristico della varietà di etrusco settentrionale, mentre è praticamente assente in etrusco meridionale, dove è invece costante l’uso di sibilante postdentale prima di occlusiva. 3 La discrepanza è evidente, e si spiega solo immaginando che lo scriba, di formazione evidentemente meridionale, abbia voluto rendere un tratto fonetico settentrionale, tipico anche di Chiusi, dove in ultima analisi si dovrebbe supporre sia stata realizzata la Lamina. Questioni di tal sorta, tuttavia, non sono sufficienti per suffragare un giudizio di falsità; del resto, anche a fronte di queste peculiarità, la Lamina offre lo stesso alcu 





@   Colonna non dà interpretazioni di queste parole, mentre Facchetti, successivamente, tende a considerarle forme flesse di altrettanti antroponimi (Facchetti 2000b, p. 249; Facchetti 2009, pp. @03, @05@06). 2   Facchetti 2009, pp. 99-@07; cfr. anche Facchetti 2000b, pp. 249-250, con un primo tentativo di 3 traduzione.   Cfr. Rix @984, p. 22@.

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ni confronti lessicali con la documentazione nota, e questo evidentemente depone a favore di un giudizio di autenticità. È da registrare, in questo senso, che l’orientamento generale della comunità scientifica negli ultimi anni è di accogliere il testo come autentico, @ e di questo, in mancanza di elementi cogenti, si deve prendere atto. Piuttosto, sarà forse da riconsiderare la natura defissoria del testo, che come tale al momento non sembra essere dimostrabile: può essere utile, in questa prospettiva, recuperare i confronti già proposti da Pallottino con analoghe parti del Piombo di Magliano, e chiedersi se per la Lamina di Poggio Gaiella non si possa parlare piuttosto di un testo dal carattere sì religioso, senza però implicazioni di tipo defissorio.  

  Oltre ai già citati Facchetti 2000b (pp. 249-250) e Facchetti 2009 (pp. 99-@07), si vedano anche Benelli 2007, p. 266; Maras 2009, pp. 245-247; Belfiore 20@@, pp. 43, 55 (huriniiarais). @

V. TESTI A CARATTERE GIURIDICO-COMMERCIALE @. La Lamina di Pech Maho

L

a lamina di piombo iscritta proveniente da Pech Maho, sulla costa mediterranea francese, è nota dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso. @ La scoperta della lamina (circa @@5 mm di lunghezza per 52 mm di altezza), in realtà, risale a trent’anni prima, ma il testo non fu subito individuato poiché la striscia di metallo, essendo arrotolata su sé stessa, era stata scambiata per un peso da pesca. Una volta srotolata, è apparsa subito evidente la presenza sui due lati di due iscrizioni diverse: la prima, etrusca, sulla parte esterna della lamina arrotolata; la seconda, greco-ionica, su quella interna, con una breve appendice sul lato ‘etrusco’, dove si trova inciso in senso longitudinale un nome greco. Il particolare dell’aggiunta greca sul lato dell’iscrizione etrusca descrive abbastanza chiaramente la dinamica di realizzazione: la lamina è stata utilizzata prima per il testo etrusco e in un secondo tempo per quello greco, il quale ha debordato dai confini imposti dalle dimensioni della lamina andando a concludersi sull’altro lato, nell’unico spazio lasciato vuoto dall’iscrizione etrusca, ovvero immediatamente prima dell’attacco delle sei righe da cui è composto il testo etrusco. Data la natura dell’epigrafe greca, che risulta essere una lettera commerciale relativa ad una compravendita di imbarcazioni, 2 è possibile che anche quella etrusca avesse medesima funzione: sembra però da escludere che si tratti di un testo bilingue, data la sostanziale estraneità di quanto rimane del testo etrusco da ciò che invece si può leggere su quello greco, in primo luogo toponimi ed antroponimi. Per quanto riguarda il luogo di produzione del testo etrusco, il fatto che sia stato rinvenuto a Pech Maho è certo indicativo ma non a priori determinante: è possibile cioè, in linea teorica, che la lettera commerciale sia stata prodotta in loco da un etrusco emigrato o da un mercante che conosceva la lingua, ma è anche possibile che sia stata realizzata altrove e poi portata sulle coste galliche. 3 Come si vedrà, so 





@   Per questa e altre notizie storico-archeologiche sulla Lamina di Pech Maho si rimanda all’editio princeps, ovvero Lejeune, Pouilloux, Solier @988 (pp. 20-3@); in realtà una prima edizione, ma solo del testo greco, si trova già in Lejeune, Pouilloux @988 (alle pp. 529-530 informazioni preliminari sul testo etrusco); si veda inoltre Pouilloux @988, pp. 535-538; per quanto pertiene al solo testo greco si ricorda inoltre, tra gli altri, Chadwick @990 e Ampolo, Caruso @990-@99@. 2   A titolo di completezza si riporta qui il testo greco come è pubblicato in Pouilloux @988, p. 539: ∆akºavtiºª...º ejprivatºoº...priª...para; tw'nº vac. 2 ∆Emporitevwn : ejjprivato te/ª...º vac. 3ejmoi; metevdwke tw[musu tªrivtºo hJ[miºoktanº4ivo : trivton hJmiektavnion e[dwka ajriqmw`5i kai; ejgguhthvrion trivthn aujtov~ : kai; ke6i`n∆ e[laben ejn tw`i

potamw`i : to;n ajrra7bw`n∆ ajnevdwka o{ko tajkavtia oJrmivzetai : 8mavrtur : Basigerro~ kai; Blerua~ kai; 9Golo.biur kai; Sedegwn : o[u|]toi mavrt@0 vac. ure~ eu\te to;n ajrrabw`n∆ ajnevdwka, @@vac. [e]u\te de; ajpevdwka to; crh`ma trivton @2vac. [hJm]ioktavºnºi[o]n. auarua~ Nalbe..n b ÔHrºwnoivio".

  Cfr. Lejeune, Pouilloux, Solier @988, p. 35.

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no soprattutto gli elementi interni al testo stesso, ovvero scrittura e lingua, a fornire validi indizi sul contesto di produzione del testo etrusco. L’iscrizione etrusca, dunque, è stata scritta sul lato che poi, in seguito all’arrotolamento della lamina, è risultato trovarsi all’esterno; ciò ha comportato la conservazione esclusivamente della parte destra della faccia scritta in etrusco, quella con la parte iniziale delle sei righe, poiché questa rimaneva più all’interno; la parte sinistra invece, con la seconda metà delle righe scritte, essendo all’esterno è stata irrimediabilmente corrosa dall’ossidazione del metallo. Il testo si ricostruisce con qualche difficoltà; in questa sede si fornisce la lettura data da Rix negli et: @

ve[n]elus . sºaºi ºs . -[-?-] zeke . kisne{e} . hekiu[-?-] 3 veneluz . ka . utavum [-?-] 4 {h}eitva . kiven . mis[-?-] 5 mataliai . mel ºeº [-?-] 6 (vacat) zik . hinu . tuzuº[ 2

Le lettere della r. @ sono perlopiù rovinate nella parte superiore ma nel complesso leggibili, tranne il terzo segno, da integrare però con ny per il confronto con il successivo veneluz (r. 3), e i primi tre segni della seconda parola, letti da Rix sigma, alpha e iota. Dopo sais si pensava vi fosse uno spazio lasciato vuoto, e questo ha portato all’ipotesi che la prima riga, con il chiaro contenuto onomastico al genitivo, costituisse una sorta di ‘intestazione’ del documento, in parte indipendente dal resto del testo; @ la successiva lettura di Rix ha invece ipotizzato la presenza, dopo il terzo sigma della r. @, di un punto di divisione e di parte di un ulteriore segno alfabetico, purtroppo illeggibile. Secondo Rix, 2 l’ultimo segno leggibile della r. 2 sarebbe un ypsilon, mentre l’ultimo della r. 3 è un my. Cristofani, nella sua seconda trascrizione del testo, riporta alla fine della r. 2 un punto di divisione dopo iota. 3 Alla r. 5 Colonna proponeva inizialmente di interpretare il terzo segno come zeta e non tau, soprattutto per questioni di ordine linguistico che saranno affrontate in seguito; tale lettura è ritenuta non necessaria tanto da Cristofani quanto da Rix, ed è stata recentemente abbandonata anche dallo stesso Colonna. 4 Le ultime due lettere leggibili di r. 5 sono, sempre secondo Rix, lambda ed epsilon. 5 Se la datazione del testo greco, che costituisce il termine ante quem per quello etrusco, si può fissare intorno alla seconda metà del v secolo a.C., 6 le caratteristiche della scrittura del testo etrusco rimandano ad una datazione alla prima metà del v secolo a.C. circa: è da notare, in primo luogo, l’utilizzo di punteggiatura lessicale, con un punto unico a dividere le parole, il cui utilizzo nell’epigrafia etrusca si data  











2   Cfr. Colonna @988b, p. 552.   Rix @995, p. @24.   Cfr. Cristofani @993b, p. 834, nota 2 (il testo di Cristofani @993b è riportato quasi integralmente anche in Cristofani @996a, pp. 83-96, come capitolo dal titolo: La ‘lettera’ di Pech Maho, Aleria e i traffici del v secolo a.C.). 4   Cfr. Colonna @988b, p. 547; M. Cristofani, in ree 57, 54 (anche Cristofani @993b, p. 833 = Cri5   Rix @995, p. @24. stofani @996a, p. 83); Rix @995, p. @24; Colonna 2006, p. 668. 6   Lejeune, Pouilloux @988, p. 532; Lejeune, Pouilloux, Solier @988, p. 37; Pouilloux @988, p. 538. @

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a partire dalla fine del vi secolo a.C.; @ risultano però decisivi per un migliore inquadramento temporale l’alpha a struttura quadrangolare, tendente al tipo ‘a bandiera’, e tau e zeta con segmenti trasversali tendenzialmente rivolti in alto a destra, che rimandano ad un ambito cronologico successivo, appunto alla prima metà del v secolo a.C., più precisamente nel secondo quarto. 2 Se i dati forniti dalla scrittura sono convergenti per quanto riguarda la cronologia, lo stesso non si può dire per ciò che concerne l’ambito di formazione dello scriba. Già i primi commentatori avevano notato la sostanziale peculiarità della norma grafica utilizzata nella Lamina: l’utilizzo costante di kappa per la velare, anche di fronte a vocale palatale (zeke, hekiu, kiven) rimanda ad una consuetudine grafica settentrionale; al contrario, l’uso delle sibilanti, per quanto è dato saperne, richiama piuttosto modelli alfabetici meridionali: sigma è utilizzato sicuramente per la sibilante postdentale, e almeno in un caso alterna con zeta (ve[n]elus, veneluz), mentre è assente san. Lejeune 3 ipotizza che l’opposizione individuata normalmente tra sigma e san sia qui rappresentata dal binomio sigma-zeta; Colonna, invece, osserva che l’oscillazione tra sigma e zeta (5 e 4 attestazioni nella lettura di Rix) rimanda piuttosto all’Etruria meridionale interna e in particolare ad Orvieto, dove il fenomeno è particolarmente presente; in generale la norma grafica della Lamina di Pech Maho risulta essere non precisamente delineabile e richiama, come ha opportunamente individuato lo stesso Colonna, contesti altrettanto periferici come le iscrizioni etrusche di Aleria in Corsica, dove si trovano fenomeni analoghi di commistione di elementi settentrionali e meridionali. 4 Con simili motivazioni possono essere spiegate anche certe incongruenze del testo passibili di essere considerate ‘errori’, come la reduplicazione di epsilon in kisnee o heta iniziale in heitva, di fronte alla documentazione dell’Etruria propria che restituisce un’unica forma eitva, o ancora la forma deaspirata zik di fronte all’atteso zic, fenomeno che richiama analoghi comportamenti di tipo settentrionale. 5 Sul piano fonetico, è stata già osservata l’assenza di spiccati fenomeni di sincope, e in particolare la presenza della forma arcaica di prenome venel (recente vel < *venl) che concorda con una datazione al secondo quarto del v secolo a.C., per quanto la conservazione del prenome arcaico potrebbe essere dettata, come propone Colonna, da ragioni socio-onomastiche. 6 Infine, vi è da rilevare una sostanziale discrepanza di comportamento del nesso finale -a-i, generalmente locativo, che in kisne{e} si presenterebbe già monottongato, mentre è ancora scritto come dittongo in mataliai. 7 Dal punto di vista dell’interpretazione, come già accennato sopra, si è in linea di massima concordi nel ritenere che l’iscrizione etrusca si ponga negli stessi ter 













  Colonna @988b, p. 549.   Cfr. Colonna @988b, pp. 549-550; M. Cristofani, in ree 57, 54; Rix @995, p. @24; Cristofani @993b, p. 833 (= Cristofani @996a, p. 83); Colonna 2006, p. 668. 3   Lejeune, Pouilloux, Solier @988, p. 34. 4   Cfr. Colonna @988b, p. 550; Colonna 2006, p. 668. Sull’oscillazione s/z ad Orvieto si rimanda a Van Heems 2003. 5   Colonna @988b, p. 55@. Sull’argomento si veda anche Cristofani @996a, p. 86. 6 7   Colonna @988b, p. 550.   Cfr. Facchetti 2000a, p. 99, nota 590. @

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mini di riferimento di quella greca, e che quindi come quest’ultima si tratti di una lettera commerciale. Tuttavia, rimangono perlopiù oscuri gli aspetti relativi al contratto annotato sulla Lamina. La r. @ sembra testimoniare il nome di uno dei personaggi protagonisti del rapporto commerciale, Venel Sais: @ il nome al genitivo secondo Colonna potrebbe rappresentare, come già detto sopra, una sorta di intestazione dell’atto privato. La r. 2 potrebbe essere l’inizio dell’atto vero e proprio; zeke rimanda a forme verbali in -e, pur in un contesto di totale incertezza: 2 Facchetti ritiene invece che esso possa essere un aggettivo al locativo, retto da kisne, da una forma non marcata zec (< *zeka-) riconducibile ad una radice zi/ze-, per il quale lo studioso ha precedentemente proposto il senso di ‘giusto, diritto’. 3 Per kisne{e}, la cui reduplicazione di e è evidentemente da espungere, 4 sembra obbligato il confronto con ci ‘tre’; nello specifico, kisne ha l’aspetto di un ordinale, categoria che in etrusco risulta essere poco documentata: gli ordinali sembrano essere costruiti, a partire dai cardinali, per mezzo del morfema -na che si agglutina ad un ulteriore ampliamento in -s, di origine non chiara ma sicuramente non genitivale. 5 La traduzione sarebbe quindi ‘nel terzo, con il terzo’: Colonna, in principio, ha proposto di leggervi una data, con il successivo heki(u) che sarebbe stato quindi il nome di un mese; 6 successivamente, a partire da Cristofani, è stata avanzata l’ipotesi che il ‘terzo’ in questione sia una parte del pagamento effettuato o da effettuare nella transazione economica, analogamente a quanto accade nel testo greco, dove sembra che una delle operazioni descritte includa il pagamento di una ‘terza parte’ (trivthn). 7 Facchetti, si è detto sopra, sviluppa questa ipotesi proponendo di intendere zeke kisne come ‘il giusto terzo’, ovvero la terza parte da pagare secondo la normativa vigente. 8 La parola successiva, hekiu, come già accennato pone qualche problema di restituzione: se si segue la lettura di Rix, 9 che non scorge alcun punto di divisione tra iota e ypsilon, hekiu sembrerebbe essere una forma verbale in -u; al contrario, se si accetta la lettura successiva di Cristofani, heki sarebbe una forma verbale radicale e u[ l’inizio della parola successiva, purtroppo illeggibile. In ogni caso il rimando lessicale è alla serie verbale hec(i)-, già discussa nel capitolo relativo alla Lamina di Santa Marinella; qui  

















@   Del tutto incomprensibile al riguardo la nota relativa alla Lamina di Pech Maho, a firma F[abrizio] S[lavazzi], contenuta nel catalogo della mostra «Gli Etruschi» tenutasi a Venezia nel 2000 (Torelli [a cura di] 2000, p. 6@7): «presenta il toponimo “Venelus”, denominazione greca di Orvieto»; inoltre, il nome greco-ionico aggiunto longitudinalmente al testo etrusco non è Kuvprio~, come sostenuto in detta nota, ma ÔHrwnoivio~ (o “Hrwn oJ “Iio~, cfr. Chadwick @990, p. @66). 2   Così Colonna @988b, p. 552; M. Cristofani, in ree 57, 54; Colonna 2006, p. 668, nota 7. 3   Facchetti 2000a, p. 98, nota 582. 4   Così già in Lejeune, Pouilloux, Solier @988, p. 35, nota 5. 5   Cfr. Agostiniani @995b, pp. 33, 37 (= Agostiniani 2003-2004, i, pp. 209, 2@3). 6   Colonna @988b, p. 553. Cfr. anche M. Cristofani, in ree 57, 54. 7   Cfr. Cristofani @993b, p. 835 (= Cristofani @996a, p. 85); più cauto Rix @995, p. @24. Su trivthn ‘terza parte’ si veda Lejeune, Pouilloux, Solier @988, p. 48, nota 3@; al contrario, in Ampolo, Caruso @990-@99@, pp. 36-38, si preferisce la traduzione ‘il terzo (giorno)’. 8   Facchetti 2000a, pp. 90-99: lo stesso Facchetti non esclude che possa trattarsi dell’indicazione temporale ‘nel terzo (giorno) giusto’, cioè conforme alla disciplina giuridica. 9   Cfr. Na 0.@; cfr. anche Rix @995, p. @24.

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basti osservare che, se si accetta di tenere disgiunte le attestazioni con hec(i)- (tra cui quella di Pech Maho) da quelle con *hecz/s´-, come proposto in precedenza, il senso di hec(i)- dovrebbe ricadere nell’ambito semantico del ‘porre, fare, costruire’; Facchetti, al contrario, accetta l’ipotesi che hec(i)- ed *hecz/s´- rimandino ad un unico paradigma, e che nel caso della Lamina di Pech Maho la radice verbale abbia il significato di ‘versare’, inteso in senso metaforico per ‘pagare’, così da tradurre il passo zeke kisne heki come ‘con il giusto terzo egli versi [...]’. @ Nella r. 3 si ha la ripetizione del prenome venel al genitivo (veneluz), seguito da ka, pronome dimostrativo, e un altro elemento onomastico, utavu: Colonna, in un primo tempo, aveva proposto che i due nomi costituissero la formula onomastica di un’unica persona, Venel Utavu, diversa dal Venel [Sa]is nominato alla r. @; i due, entrambi etruschi, sarebbero stati gli attori della transazione, che verosimilmente aveva a che fare con qualcosa indicato genericamente con il deittico ka, posto insolitamente tra prenome e gentilizio di uno dei due. 2 Rix invece, partendo dalla nuova lettura utavum, ipotizza che il Venel di r. 3 sia lo stesso di r. @, a cui spetta anche il possesso (anche figurato) di ciò che è espresso anaforicamente con ka; Utavu sarebbe poi un’altra persona, partecipante all’atto commerciale, e la diversità di ruoli rispetto a Venel sarebbe marcata dalla presenza della congiunzione enclitica (oppositiva) -m. 3 Per quanto pertiene alla r. 4, si è già detto dell’espunzione di h iniziale in heitva, per confronto con la documentazione nota. 4 Il significato del termine risulta indefinito; le poche attestazioni conosciute, dove e(i)tva/eqva 5 compare perlopiù in relazione sintagmatica con altri elementi lessicali, portano ad ipotizzare che si tratti di un aggettivo: ciò concorda con la terminazione in -va, che sembrerebbe condividere con il più diffuso -na la funzione di morfema derivativo che costruisce aggettivi; il tema lessicale, anche considerando l’oscillazione et-/eit-, potrebbe rimandare invece all’omonima particella per cui Agostiniani ha da tempo proposto il significato di ‘così’: 6 Facchetti, 7 al riguardo, propone che e(i)tva sia il termine etrusco per  













@   Facchetti 2000a, pp. 98-99; Facchetti segue la lettura di Cristofani: ... heki . u[, e considera heki ori2 ginato da *heki-e, ovvero un ingiuntivo a marca -e.   Colonna @988b, p. 552. 3   Rix @995, p. @24. Così, a quanto pare, anche Cristofani @993b, pp. 833-834 (= Cristofani @996a, pp. 83-84), che pure segue una lettura utavu[s]. Anche Facchetti, che segue Cristofani, propende per tale ipotesi, pur ammettendo la possibilità che possa trattarsi di un un’unica formula onomastica indicante Venel Utavu (Facchetti 2000a, p. 99). La lettura di Rix è seguita, infine, anche dallo stesso Colonna, al quale si rimanda per i confronti sul piano onomastico (Colonna 2006, p. 668). 4   Ta @.@69 (... eitvapºia . me-[-]); at @.96 (... eitva : ta4mera : s´arvenas ...); Vt @.98 (... eqve q---- ...); Cl 8.6 (... 2]-ei laqr : eit[ ...); Pe 5.2 (... etve : qaure : lautnes´cle : caresri ...); Pe 5.3 (... 6[-]lusver: etva : ca 7[s´]purane : caresi : ...); da ultima Ta @.@58, nella rilettura di Giulio Giannecchini (ree 69, 77: ... 2travzi : scunsi : cates : eqºve : qaurºeº : ...). Da rivedere, invece, l’eventuale attestazione di una forma eitvi in Ar 4.4, anche a seguito della recente interpretazione dell’iscrizione da parte di Agostiniani, che propone la seguente suddivisione: ei tviscri ture 2arnq alitle pumpus (Agostiniani 2009b, p. @40). 5   Secondo G. Giannecchini (ree 69, 77) la forma base dovrebbe essere eitva (è noto il passaggio -ei- > -e-, ma non il contrario; 6 casi su 8 totali, inclusa la Lamina di Pech Maho, hanno -t- invece di -q-), per quanto egli riconosca che l’unica possibile attestazione arcaica, il locativo con posposizione eqavaiqi (at 6 0.@), sia del tutto aberrante dalla norma.   Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 96-98. 7   Facchetti 2000a, p. 99, nota 594. Cfr. anche G. Giannecchini, in ree 69, 77, il quale però rinuncia a prendere posizione sulla semantica dell’aggettivo eitva. Altrove (Giannecchini 2003), per il sintagma etve qaure (Pe 5.2) propone il significato ‘nell’eterna dimora’.

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‘grande’. Ancora più incerto risulta essere ciò che segue: kiven potrebbe rimandare anch’esso al numerale ci ‘tre’; @ ancora Facchetti, partendo dall’ipotesi eitva ‘grande’ e dal parallelismo con il testo greco che tratta di compravendita di navi, ipotizza invece che esso sia il corrispettivo etrusco proprio per ‘nave’. 2 La parte finale della riga, mis[, è troppo frammentaria per qualsiasi tipo di riflessione linguistica. La r. 5 è quella che, in prospettiva, contiene la parola più significativa del testo: mataliai. Sia Colonna che Cristofani vi hanno riconosciuto un locativo in -i di un termine matalia* che, proprio in virtù del locativo e in concomitanza con il luogo di ritrovamento, hanno ipotizzato essere il nome etrusco della colonia greca di Marsiglia (lat. Massalia, gr. Massaliva). Il problema è costituito dalla resa matalia*, ovvero con occlusiva dentale, di fronte alla forma greca con doppia -ss-: Colonna, in un primo momento, propone la lettura mazaliai, considerando che la varietà grafica utilizzata nell’iscrizione prevede che zeta possa sostituire sigma (come venelus e veneluz); 3 Cristofani, invece, partendo dalla lettura mataliai, ipotizza che il passaggio -(s)s- > -(t)t- sia dovuto non tanto ad una irrealistica influenza dell’attico 4 (l’iscrizione greca della Lamina è in dialetto ionico, e ionica è la colonia focese di Marsiglia), quanto piuttosto ad una mediazione della pronuncia celtica del termine. 5 La seconda parola della r. 5, mele (se questa è la giusta lettura e ammesso che sia completa), che pure è già nota da attestazioni soprattutto nel Liber linteus, 6 è di significato oscuro. L’iscrizione si conclude con quella che, per molti, rappresenterebbe la grafhv, la sottoscrizione dell’accordo commerciale: infatti, dopo uno spazio lasciato vuoto, che distanzierebbe ciò che segue dal resto dell’iscrizione e quindi costituirebbe un testo a parte, come si addice ad una ‘firma’ o ‘sottoscrizione’, la r. 6 riporta la parola zik, che nonostante la deaspirazione finale richiama con tutta evidenza la forma zic, nota dall’aryballos Poupé, dall’epitaffio di Laris Pulenas, dalla Tabula Cortonensis (qui come zic) e ora dall’epigrafe parietale di età arcaica rinvenuta a Caere e pubblicata da Colonna. 7 Qui il problema è stabilire la natura grammaticale di zik; si deve infatti riconoscere che in almeno due casi (epitaffio di Pulenas, Tabula Cortonensis) zic ha sicuramente funzione nominale, mentre l’attestazione di Caere sembrerebbe avere una funzione eminentemente verbale. L’ipotesi ‘nominale’ nel contesto della  













@   Così Colonna @988b, p. 553. Inizialmente Lejeune, dietro un primo suggerimento di Cristofani (Lejeune, Pouilloux, Solier @988, p. 35, nota 5), confrontava la terminazione di kiven con quella dei 2 lemmi etruschi cepen, ceren, sren.   Facchetti 2000a, p. 99. 3   Colonna @988b, p. 553. 4   La mediazione attica (o, meglio, di una varietà di greco non-ionico in cui sia previsto il passaggio -ss- > -tt-) è sostenuta invece in Ampolo, Caruso @990-@99@, p. 3@, in cui si ricorda inoltre l’attestazione di un toponimo cretese Mataliva. Più cauto Rix @995, p. @24, che si limita ad osservare che il nesso ionico -ss- è reso nell’iscrizione etrusca della Lamina con -t-. Recentemente Colonna ha ipotizzato «una mediazione dialettale di area dorica, forse corinzia» (Colonna 2006, p. 668, nota 8). 5   Cfr. M. Cristofani, in ree 57, 54; così anche Facchetti, che riprende Cristofani (Facchetti 2000a, p. 6 @24, nota 590).   Cfr. ll iv.5, @7; Ta @.@7 (mele); ll iv.4, @7 (meleri). 7   Per le prime due cfr., rispettivamente, Cr 0.4 e Ta @.@7; sull’attestazione della Tabula Cortonensis si veda Agostiniani, Nicosia 2000, pp. 86-87; per l’iscrizione parietale di Caere si rimanda all’editio princeps (ree 7@, 26).

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Lamina di Pech Maho è stata generalmente accettata da tutti, @ anche dallo stesso Cristofani che, in un primo momento, aveva pensato invece ad una forma verbale a marca zero. 2 Tale ipotesi, però, è stata recuperata da Colonna proprio a partire dalla testimonianza ceretana di recente scoperta: 3 Colonna sostiene infatti che anche sulla Lamina di Pech Maho, come sull’iscrizione ceretana, si abbia a che fare con una forma di ingiuntivo a marca zero; tale categoria verbale è stata già ipotizzata da Wylin 4 e da Facchetti, 5 anche se solo alla prima persona singolare, mentre nell’epigrafe di Caere (e nella Lamina di Pech Maho) si tratterebbe di una terza persona singolare. La conseguenza di tale interpretazione ai fini dell’analisi della Lamina è che l’agente dell’atto di ‘scrivere’ sarebbe da individuare negli elementi lessicali rimanenti della r. 6, hinu e tuzu[: già Cristofani, infatti, traduceva ‘scrive Hinu Tuz...’, 6 e lo stesso Colonna ha fornito nuovi confronti onomastici per i due supposti nomi di persona. 7 Va detto, peraltro, che una considerazione di tuzu[ in senso onomastico è possibile anche qualora si intenda zik come sostantivo: in tal caso, al contrario, hinu non può essere inteso come forma onomastica retta da zik poiché non al genitivo; tuttavia, il legame con zik può essere comunque conservato se per esso si suppone una forma aggettivale in -u: 8 Facchetti, in particolare, propone che il sintagma zik hinu stia, formalmente, per ‘sottoscrizione’, ritenendo che hinu, da aggettivo in -u, possa essere connesso ad hinq, che lo stesso Facchetti traduce con ‘sotto’. 9 Quale che sia la linea d’analisi adottata, è innegabile che la parte finale sia, come sostenuto da tutti, la sottoscrizione dell’accordo da parte di almeno uno dei contraenti; il vuoto prima dell’inizio della riga, quantificabile in 3-4 lettere, potrebbe, si è detto, sottolineare questa diversa funzione in appendice alla lettera commerciale. È da chiedersi, a titolo di completezza, se lo spazio lasciato vuoto, invece di una funzione distanziatrice, non avesse lo scopo di permettere una riscrittura, magari con l’inserimento del nome di un’altra figura attiva nel rapporto commerciale. Tale possibilità, per quanto rara, è ipotizzabile da casi analoghi nell’epigrafia, come ad esempio il Cippo di Perugia (Pe 8.4). @0 A dire il vero, lo spazio lasciato, di sole 3-4 lettere, sembra piuttosto ridotto per una tale funzione, ma non è detto che esso fosse solo una parte del salto nella scrittura, che forse iniziava già alla fine della r. 5. È evidente, peraltro, che non vi sono elementi cogenti per una tale ipotesi, che rimane quindi al livello di semplice dubbio.  



















in un primo tempo, Colonna @988b, pp. 55@-552; Rix @995, p. @24; Facchetti 2000a, p. 99. ree 57, 54; successivamente accetta l’ipotesi nominale in Cristofani @993b, p. 834 (= Cristo3 fani @996a, p. 84).   Cfr. già ree 7@, 26 e, quindi, Colonna 2006, p. 668, nota 5. 4 5     Cfr. Wylin 2000, pp. @97-@98.   Cfr. Facchetti 2002a, pp. 98-@09.   6  ree 57, 54.   7  Cfr. Colonna 2006, p. 668 e nota 5, che propone l’integrazione hinu tuzu[l] e intende il secondo patronimico del primo: ‘Hinu (figlio) di Tuz’.   8  Così, in un primo tempo, Colonna @988b, p. 552; cfr. anche Cristofani @993b, p. 834 (= Cristofani @996a, p. 84), dove non solo hinu, ma anche tuzu è considerato un sostantivo verbale riferito a zik.   9  Facchetti 2000a, p. 99. @0   Facchetti ipotizza che lo spazio vuoto tra le rr. @@ e @2 del lato maggiore, dopo la formula onomastica (all’ablativo) larqals afunes e prima di clen, fosse stato lasciato per permettere in un secondo tempo l’inserimento del metronimico, ignoto al momento dell’incisione (Facchetti 2000a, p. @8, nota 67).   @  Cfr.,   2  Cfr.

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Riepilogando, l’analisi del testo della Lamina mostra che, come stabilito in maniera convincente per la parte greca, anche per quanto riguarda la parte etrusca è possibile che si abbia a che fare con una lettera commerciale. Il testo, che si conclude verosimilmente con una sottoscrizione del patto da parte di uno dei contraenti, si apre, analogamente, con la menzione di un’altra figura attiva nello scambio (di merci? di forniture? di servizi?), quel Venel (Sais) che, forse, ritorna più avanti, in qualità di probabile detentore di un bene, in opposizione testuale ad un Utavu, ammesso che, si è detto sopra, non si tratti della formula onomastica bimembre della stessa persona; il patto, infine, prevede che qualcosa accada ‘nel terzo’ o ‘con il terzo’, forse il pagamento di una rata o di una caparra, un anticipo sulla spesa, e che qualcos’altro abbia luogo forse nella vicina Marsiglia; ciò che resta del testo è, perlopiù, oscuro. 2. Il peso di Chiusi La categoria dei testi a carattere giuridico-commerciale su supporti in piombo è completata dalla breve iscrizione di due parole incisa su un peso di forma piramidale proveniente da Chiusi, da località non precisata, rinvenuto secondo gli editori alla fine di giugno del @903; il peso, il cui valore ponderale è ignoto, è alto 2,8 cm circa, mentre le lettere sono alte 0,4 cm circa. @ Questa l’epigrafe secondo la lettura degli et (Cl 0.@5):  

@ 2

pese tia

Già Buffa riteneva che la parola pese rimandasse ad una misura ponderale. 2 Secondo Facchetti questo termine, che data la provenienza da Chiusi foneticamente starebbe per pe[sˇ]e, trova un confronto nell’attestazione pe[sˇ] della Tabula Cortonensis: qui pe[sˇ], sempre secondo Facchetti, dovrebbe indicare l’atto della compravendita o della locazione dei terreni. 3 Ovviamente tutto ciò è insufficiente a comprendere la funzione del termine nell’iscrizione del peso, così come risulta del tutto inspiegabile la seconda parola tia; in definitiva, la sua collocazione nell’insieme dei testi a carattere giuridico-commerciale è dovuta esclusivamente alla funzione dell’oggetto, apparentemente una misura ponderale, e non al testo iscritto. Da non dimenticare, del resto, che Rix negli et ritiene l’iscrizione sospetta di falsità.  



2   Per tutte le notizie cfr. Herbig, Torp @904, p. 494.   Cfr. nrie 3@0.   Facchetti 2000a, pp. 64-65, nota 369. Facchetti propone anche un confronto con ps´l, attestato due volte nell’iscrizione di Laris Pulenas (Ta @.@7). @

3

VI. TESTI MINORI

I

l quadro delle iscrizioni etrusche su supporti in piombo è completato da una serie piuttosto cospicua di iscrizioni minori, tutte perlopiù molto brevi. Alcune di esse possono essere individuate come una classe di documenti a sé stante (ad esempio le glandes missiles o le lamine funerarie), o come parte di una classe più ampia, come le sortes, che sono realizzate sia in piombo sia in altri materiali, ad esempio bronzo e pietra. Un solo documento, infine, non trova una collocazione tipologica ben definita: si tratta della laminetta di Vulci, per la quale si può individuare solo un generico riferimento a pratiche di tipo religioso. @. Le sortes etrusche in piombo

Dare un quadro esaustivo di tutte le questioni legate alle sortes etrusche esula dagli obiettivi di questa breve trattazione. In questa prospettiva, si cercherà di fornire solo una visione d’insieme dell’argomento, rimandando alla bibliografia citata per riflessioni più approfondite. Per sors si intende un oggetto, perlopiù di piccole dimensioni, con forma e di materiale di diverso tipo, recante una breve iscrizione, utilizzato in vari modi con finalità cleromantiche. @ Uso e funzione di tali oggetti sono intuibili sia dalle fonti letterarie, sia dai dati archeologici: generalmente le sortes erano conservate in gruppi, ed erano consultate dal sacerdote o anche dal privato cittadino per avere responsi oracolari sui vari aspetti della vita quotidiana. La cleromanzia era esercitata con tecniche particolari che, in qualche modo, determinavano la natura stessa della sors: se le sortes erano consultate per estrazione da un contenitore, 2 tutti i tipi potevano essere utilizzati, ma sembra più logico che esse fossero di forma sferica; se, invece, il responso era determinato dalla disposizione casuale che le sortes assumevano una volta lasciate cadere, esse, tanto nella forma circolare che in quella allungata, presentavano un foro per la cordicella che le teneva in sospensione. Per l’area etrusca sono noti almeno quattro oggetti identificabili come sortes. Due di esse sono di materiale diverso dal piombo, e saranno presentate qui brevemente, solo a titolo di completezza: una è in pietra, di forma ovoidale, rinvenuta ad Arezzo, con un’epigrafe su entrambe le facce, che presenta la particolarità, peraltro comune ad altre sortes dell’Italia antica, 3 di essere excisa, ovvero di presentare un’iscrizione a  





@   Per le informazioni generali sulla cleromanzia in Etruria e nell’Italia antica si rimanda a Pfiffig @975, pp. @53-@55; Champeaux @986; Maggiani @986; Champeaux @989, @990a, @990b, @990c; Maggiani @994; Champeaux @997; Bagnasco Gianni 2000; Maras 2009, pp. 37-40. 2   Colonna ha individuato un esemplare arcaico di contenitore di sortes a partire da dei frammenti fittili, rinvenuti nel Santuario del Portonaccio a Veio e databili al vi sec. a.C., i quali recano parti di un’iscrizione di dedica a Minerva (ree 5@, 47, cfr. et Ve 3.@0). 3   Cfr. la sors latina conservata a Fiesole (Champeaux @990a, pp. 285-287: se cedues, perdere nolo; ni ce-

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rilievo (aaplu . putes´ . btur . fartns´ .); @ una seconda è in bronzo, ha forma allungata e presenta un foro ad una estremità, e proviene dalla località Cipollara nei pressi di Viterbo (at 4.@: savcnes . s´uris). 2 La presenza di una quinta sors etrusca, oltre alle due appena presentate e alle altre due, in piombo, di cui si parlerà in seguito, è subordinata al giudizio di autenticità che si vuole accordare o meno all’oggetto stesso. Si tratta dell’iscrizione cie 3276 (lanis tune), originariamente da Chiusi, in direzione destrorsa su un dischetto di piombo con un foro losangato al centro. Inizialmente quest’oggetto, insieme ad altri, sempre in piombo, in parte confluiti nella collezione Froehner, era considerato un falso, tanto da Pauli che da Pallottino, 3 tuttavia, successivamente, l’oggetto è stato recuperato e inserito nel novero delle sortes etrusche. 4 Jacqueline Champeaux, pur non entrando nella questione dell’autenticità, fa notare come le fonti letterarie non parlino mai di pratiche oracolari a Chiusi, e questo, insieme alla mancanza di contesto archeologico e alla difficoltà di lettura dell’iscrizione, consiglierebbe il massimo della cautela; 5 analogamente, Rix ha escluso questa iscrizione (e le altre ad essa collegate) dai suoi et, allineandosi così a Pauli e Pallottino. 6 Sembra evidente che, al riguardo, non possono essere assunte posizioni nette, data l’assenza di informazioni; si può però segnalare la singolarità di un fatto: delle iscrizioni in piombo da Chiusi è considerata genuina, e interpretata come sors, solo cie 3276, e non anche cie 3277 e 3279, che pure sono su dischetti di piccole dimensioni, il secondo dei quali con due fori; senza dimenticare che, in via del tutto ipotetica, anche le iscrizioni cie 3274, 3275, 328@ e 3282, quali laminette oblunghe (le ultime due con un foro ad una delle due estremità), potrebbero essere considerate sortes. Come detto sopra, il riconoscimento di un oggetto quale sors è fondato su precise caratteristiche materiali, quali le dimensioni ridotte, la presenza di fori, la forma allungata o circolare, il rinvenimento in contesti cultuali ecc., e tutti questi oggetti sembrano rientrare in questa casistica. I dubbi sono piuttosto di natura epigrafica e linguistica: non tanto nella direzione destrorsa della scrittura,  











duas, Fortuna Seruios perit), o quelle osche rinvenute a Sepino e a Vasto (rispettivamente, st Sa 3@: pis : tiú : 2 íív : kúru : 3púiiu : baíteís 4aadiieís : avºfineís :, e st Fr 6: lúvkis 2úvis, cfr. Champeaux @990a, p. 287). Cfr. anche Maggiani @994, pp. 68-7@.   Cfr. Maggiani @994, p. 69; e già Maggiani @986, pp. 26-28. L’iscrizione non è citata negli et.   Una seconda sors a forma di barretta allungata è individuata da Maggiani in un frammento bronzeo tarquiniese, proveniente dal tempio dell’Ara della Regina, con iscrizione (integrata) ºartumº[sl] (cfr. Maggiani @994, p. 7@; cfr. anche Bagnasco Gianni 2000, p. 205; l’iscrizione è anche in et Ta 4.@4, dove però si segue l’integrazione di cie @0006 artumº[es]). 3   Così Pauli in cie 3276, e Pallottino in thle, p. 4@@ (= thle2, p. 567). Le iscrizioni in oggetto, oltre a quella citata, sono cie 3274 (cenise . neis), 3275 (sinisº . nivia), 3277 (lanis . ceise, anche questa su un dischetto in piombo), 3278 (viceis), 3279 (viceis, di nuovo un dischetto in piombo), 3280 (t . casial), 328@ (senºt ºial), 3282 (]caeti .), 3283 (aavil b-n .), 3284 (avil). Nella collezione Froehner sono poi confluiti gli oggetti con le iscrizioni cie 3274, 3275, 3276, 3278 e 3279: solo i primi tre, tuttavia, sono stati rinvenuti da Lejeune nella sua revisione dei materiali della collezione (cfr. Lejeune @952-@953, pp. @33-@35). 4   Cfr. La Regina, Torelli @968, p. 222, nota 3, i quali nominano gli oggetti a forma di disco (cie 3276, 3277, 3279), ma non li considerano sortes bensì pendagli con nomi di defunti; il primo a parlare di sors (ma solo per cie 3276) sembrerebbe essere G. Colonna, in ree 39, p. 370. 5   Champeaux @990a, pp. 293-294. 6   L’oggetto è invece considerato genuino, e compreso nel numero delle sortes etrusche, in Bagnasco Gianni 2000, p. @98. @

2

testi minori

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fatto di per sé singolare ma non determinante, dato che, ad esempio, anche la sors Cr x.5, di cui si parla poco più sotto, è destrorsa; piuttosto, nella mancanza di confronti linguistici apprezzabili nella documentazione nota, che rendono l’iscrizione della collezione Froehner un testo non interpretabile. Il quadro delle sortes etrusche è completato dagli esemplari in piombo, questi sicuri, rinvenuti ad Arezzo e Santa Marinella. @ La sors aretina proviene dall’area della fortezza cittadina all’interno delle mura, dove è stata rinvenuta nel @880, assieme a materiali fittili indicanti la presenza di un tempio; di dimensioni contenute (diametro 4,5 cm per 0,7 cm di spessore), è databile, anche su basi grafiche, alla fase recente della storia etrusca (Ar 4.2, cfr. Fig. @3 a-b): 2  



suris´

Poche le osservazioni sul piano grafico, data anche l’esiguità del testo: si nota, nel complesso, solo la scrittura sinistrorsa e il rho con lungo codolo. Sul piano grafematico, è chiara l’appartenenza alla tradizione grafica settenFig. @3. a-b) Sors di Arezzo. trionale: l’uso di sigma e san è speculare rispetto ad esempio al s´uris del Piombo di Magliano (av 4.@), che invece codifica un uso grafico meridionale, per rendere la stessa sequenza [sˇuris]. Si è già detto, in relazione all’attestazione del Piombo di Magliano, che il significato della parola suris´, tradizionalmente intesa genitivo di un teonimo *suri, deve essere ora riconsiderato, partendo dall’ipotesi, qui sostenuta, che suris´ sia verosimilmente un nominativo, e non un genitivo. 3 Del tutto inverificabile, invece, la proposta secondo cui suris´ sarebbe la parola etrusca per sors, in virtù del fatto che  

@   È interessante notare che le sortes antiche in piombo oggi note sono quasi tutte etrusche: l’unica non etrusca è quella osca, a forma di dischetto, di provenienza incerta (forse Torino di Sangro, ma in st Fr @2 è indicato dubitativamente Portocannone), ripubblicata da La Regina e Torelli insieme alla sors di Santa Marinella, dal testo aisos pa(cris) (cfr. La Regina, Torelli @968, pp. 222-224). Di diverso tipo sembrerebbero le laminette di piombo di Dodona, chiamate in causa anche da Torelli (cfr. Torelli @966, p. 285, nota 7) come confronto per la Lamina di Santa Marinella, che riportano perlopiù le richieste da parte dei pellegrini al santuario greco, e occasionalmente anche la risposta della divinità (cfr. Champeaux @997, pp. 420-42@; cfr. anche Jeffery @96@, pp. 228-230; Guarducci @967-@978, iv, pp. 82-87). 2   Cfr. Gamurrini @880, pp. 2@9; nrie @87 (che, per inciso, riporta la lettura errata surs´). Cfr. inoltre G. Colonna, in ree 39, p. 370; Champeaux @990a, pp. 29@-293; Champeaux @990b, p. 806; Maggiani @994, p. 76, nota @@; Bagnasco Gianni 2000, pp. @98-@99. 3   Per tutta la discussione si rimanda al paragrafo relativo del cap. ii.4.4. sulla quarta sezione del Piombo di Magliano.

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essa si trova due volte su oggetti identificabili come sortes: oltre all’esemplare aretino, anche la laminetta in bronzo da Viterbo (at 4.@: savcnes . s´uris). @ La seconda sors è cronologicamente precedente alla prima; è stata rinvenuta nel complesso cultuale di Punta della Vipera, da cui proviene anche la Lamina di Santa Marinella, la quale, si è visto, potrebbe essere considerata anch’essa un tipo particolare e di certo molto più complesso di testo oracolare. 2 La sors è anch’essa di forma circolare con un foro centrale, di dimensioni leggermente inferiori a quella aretina (diametro 4,@ cm per 5-6 mm di spessore); è stata rinvenuta nelle vicinanze del pozzo da cui è stata recuperata la Lamina maggiore (Cr 4.@0), ed è databile al v secolo a.C., più per elementi paleografici che per dati archeologici. L’iscrizione, destrorsa, si sviluppa su entrambi i lati del disco e risulta di difficile lettura e interpretazione: si dà qui la versione degli et (Cr x.5 = 2.@2@ + 4.@@): 3  





a

b

mi helvºes zºaruºaº zº

L’interpretazione di Rix individua nella prima parte dell’iscrizione, convenzionalmente sul lato a, un’attestazione di proprietà; più interessante, però, è l’iscrizione sul lato b, con l’individuazione di una parola, zarua, identificabile anche in altre iscrizioni (ad esempio Ve x.@ e at 0.@) e, per alcuni, latrice di significati magici. 4  

2. La Laminetta di Vulci Il secondo testo su piombo di incerta natura è su un frammento di laminetta pubblicato da Romolo Staccioli alla fine degli anni ’70; 5 la laminetta è stata rinvenuta casualmente tra le zolle di un terreno arato, nei pressi della Porta Sud della città. Il frammento ha forma irregolare, dalle dimensioni massime di 5,9 cm di lunghezza per 4,5 cm di larghezza, con uno spessore estremamente ridotto (@-2 mm circa);  

  Lo studio delle pratiche cleromantiche nell’Italia antica può contare su due testimonianze particolari: la prima è un denario, di M. Plaetorius Cestianus, databile al 69-66 a.C., in cui compare una verghetta rettangolare allungata con la scritta sors; la seconda è un bassorilievo da Ostia, donato dall’aruspice C. Fulvius Salvis e databile all’80-65 a.C., in cui Ercole estrae da un’arca una tavoletta allungata su cui compare l’iscrizione [s]ort(es) H(erculi), e la porge ad un bambino (cfr. sul bassorilievo ostiense Becatti @939, pp. 46-47; per entrambi Champeaux @990a, pp. 280-28@); la presenza della parola sors sulle tavolette dovrebbe avere una mera funzione didascalica. 2   Per informazioni sul contesto archeologico del complesso di Punta della Vipera si rimanda al cap. iii.@. 3   La Regina, Torelli @968 (la lettura era qui: amevelces bzaruaºa); cie 63@@ (amevelces b--r--a); Pfiffig @975, p. @55; Champeaux @989, p. 7@; Champeaux @990a, p. 290; Champeaux @990b, p. 806; Maggiani @994, p. 76, nota @@; Bagnasco Gianni 2000, pp. @98, 202-203; Maras 2009, pp. 282-284 (ami hvelces b zaruº º a-). 4   Cfr. La Regina, Torelli @968, p. 222; Pfiffig @975, p. @55; Wylin 2000, pp. 225-226, nota 545; nelle iscrizioni et Ve x.@ e at 0.@ l’identificazione della parola dipende dalla segmentazione della scriptio continua che si intende adottare (cfr. infatti Steinbauer @999, pp. 230-23@, con un’ipotesi del tutto differente); inoltre, in ll ix.@, 8 compare zarve, ipoteticamente locativo; la serie dei confronti è completata da zaru (tc 38, Vs 3.6) e zarfneq (ll ii.@@; iv.7, @@). Si veda anche Maras 2009, pp. 86-87, che sembra proporre per zaru(a) un significato affine a ‘consacrato’. 5   ree 48, 97, da cui sono tratte tutte le informazioni qui riportate; cfr. anche et Vc 4.5. Il testo non compare nel volume del cie dedicato all’instrumentum di Vulci e pubblicato nel @994. @

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testi minori

presenta un riga incisa a metà della superficie disponibile: al di sotto di essa si sviluppa l’iscrizione, di cui rimangono parti delle prime due righe e tracce di una terza; il testo sopravvissuto è peraltro interessato da una screpolatura longitudinale del piombo, che tuttavia non sembra aver inficiato la lettura dei grafi interessati, l’ottavo della r. @ (lambda) e il sesto della seconda (ypsilon). Questa la trascrizione, in base all’apografo fornito da Staccioli: @  

@

]-tunicel ºetratº[ ]us´esluºvasºerh-[ 3 ]---uºsº---[

2

L’iscrizione è sinistrorsa, in scriptio continua: questo, come si vedrà, comporta problemi insormontabili per l’analisi linguistica. Come riconosce anche Staccioli, la lettura è tutto sommato agevole, tranne che per i segni subito a ridosso dei margini di frattura della lamina: il primo segno della r. @, di lettura disperata (mentre il secondo è quasi sicuramente un tau), l’ultimo della r. @ (forse tau, ma manca la continuazione a sinistra del segmento obliquo), l’ultimo della r. 2 (si vede solo un’asta verticale in prossimità della frattura); il nono segno della r. 2 presenta un’aggiunta casuale, ma è facilmente riconoscibile come sigma. Al contrario, poco o nulla si legge della r. 3: rimangono tracce di almeno sette segni, ma solo il terzo e il quarto sembrano minimamente leggibili (rispettivamente, ypsilon e sigma). Staccioli data il pezzo alla seconda metà del v secolo a.C. su base paleografica, in considerazione della presenza di segni ancora arcaici (epsilon, wau, ny) insieme a segni più recenti (alpha, gamma, sigma, tau). In effetti, la presenza di ny capitale e di epsilon e wau con segmenti inclinati, asta verticale e codolo, suggerisce un confronto con il tipo alfabetico i b (capitale) di Maggiani: 2 il tipo trova ampia diffusione a Vulci e soprattutto a Tarquinia nel iv secolo a.C., come evoluzione di tipi grafici tardo-arcaici locali, per poi passare a nord, nel iii secolo a.C. L’appartenenza alla varietà di etrusco meridionale è stabilita a partire da vari indizi: oltre a quello palese del luogo di ritrovamento, si noti anche il rapporto statistico tra sigma e san (3 a @), e soprattutto la presenza di gamma, che nelle iscrizioni settentrionali sembra essere utilizzata solo più tardi. 3 L’interpretazione del testo è quasi impossibile, data la frammentarietà e l’assenza di punteggiatura: Staccioli vi riconosce il teonimo uni, il sostantivo cel (‘terra’), una sequenza etra da confrontare con etras di una delle lamine di Pyrgi (Cr 4.2), una terminazione genitivale ]us´esl, parallela ad esempio a selvansl visto sopra, quindi altre forme uv (o uva, o uvas) e aser (o ser, o er), prima della parola successiva, il cui inizio è verosimilmente indicato da h-[. Al contrario, la suddivisione proposta da Rix negli et presuppone il riconoscimento di una forma celetra, probabilmente intesa come una suffissazione in -tra (‘da parte di’) di un locativo (?) del sostantivo cel ‘terra’, e di un termine luvaser, forse un plurale animato.  



  La lettura di Staccioli (ree 48, 97) è la seguente: ]-t º (?) unicel ºetrat[ 2] us´esluºvasºerh-[ 3?] -sºu-º [; la lettura di Rix negli et (Vc 4.5) presenta anche un tentativo di suddivisione lessicale: -]-tuni celetra t[-? 2-]us´es e 2 luºvaser h[-? 3-]-uºs-º --[-?-].   Maggiani @990, pp. @86-@87. 3   Cfr. Rix @984, p. 2@3. @

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Staccioli, infine, dedica alcune righe all’individuazione della funzione dell’oggetto iscritto: benché l’uso di lamine in piombo sia frequente per gli atti di defissione, esclude che la laminetta di Vulci possa contenere una maledizione, poiché essa non contiene alcun indizio linguistico in tal senso né è stata rinvenuta in contesti archeologici analoghi a quelli dei testi defissori, ad esempio in una tomba. Al contrario, Staccioli nota la parziale somiglianza con testi provenienti da contesti sacri, come soprattutto la Lamina di Santa Marinella, e si chiede se anche il piccolo frammento iscritto rinvenuto a Vulci non possa essere parte di un testo sacro o dal contenuto oracolare. 3. Le lamine funerarie perugine In età recente si diffonde a Perugia un uso particolare del piombo: mentre, generalmente, in tutta l’Etruria, e a Perugia stessa, il nome del defunto è inciso sull’urna che ne conserva i resti, nel centro umbro è attestata la pratica di incidere il nome su delle sottili laminette di piombo che poi venivano applicate sul corpo dell’urna. @ In tutto, se ne conoscono 27, divisibili in quattro gruppi differenti: nel primo, rinvenuto nel @743 presso la chiesa di San Costanzo, a sud della città subito fuori le mura medievali, le laminette hanno la particolarità di essere affisse non su urne ma su vasi cinerari di argilla (nn. @-3); gli altri tre, tutti provenienti dalla necropoli del Palazzone, ad alcuni chilometri a sud-est del centro cittadino, appartengono a tre diversi sepolcri gentilizi: quello degli acsi (nn. 4-@4), scoperto nel novembre @843, quello dei vipi vercna (nn. @5-23), rinvenuto nel @852, e quello dei trile petru (nn. 24-26); 2 completa il quadro, infine, un’ultima iscrizione, isolata e frammentaria, di provenienza incerta (n. 27). Questo l’elenco delle iscrizioni, secondo la lettura degli et:  



@. Pe @.638: arnq . uhtave . velcei[ 2. Pe @.639: @uhtave . velceinºi º 3larqiia . vipis´ casp2res´ 3. Pe @.640: aula . cusperiena @   Per le poche informazioni sull’utilizzo delle lamine di piombo a Perugia si rimanda a Conestabile @856, pp. 36 («l’opinione [...] più generalmente ricevuta sta per riconoscere nelle lamine stesse una prima indicazione de’ nomi che poi si dovesser riscrivere nelle urne de’ rispettivi individui, ritenendosi così in alcun modo quel metallo nell’uso di precorrere, o guidare ad una regolare scrittura, [...]»), 92-93 (riportando Fabretti, il quale asseriva che «io stesso [...], presente alla scoperta [del sepolcro degli acsi], ricordo che il Vermiglioli cominciò la trascrizione delle epigrafi dalla prima che gli si presentava a destra, e che i cinerari anepigrafi (i più antichi) con la respettiva lamina plumbea scritta e fissata tra l’urna e il coperchio [...], giacevano rimpetto alla porta d’ingresso»), p. 93, nota @ («È perciò [ovvero per essere affisse], che alcune di esse lamine presentano all’orlo sinistro due buchi, per cui passavano i perni, al sù indicato obbietto [cfr. citazione precedente] destinati»), 96-@00, @46, @55. Sembra in realtà che le lamine fossero piegate a forma di gancio ad una delle due estremità ed attraverso di esso appese al bordo dell’urna, sotto al coperchio: cfr. sull’argomento Galli @92@, pp. @57-@58 (con le foto delle lamine superstiti); cfr. inoltre Buonamici @932, p. 339 (sono menzionate come esempio le iscrizioni ai nn. 4 e @4 dell’elenco seguente); Benelli 2007, pp. @38-@39; cfr. anche Berichillo 2004, pp. 22@ (lamine di San Costanzo), 228 (acsi), e Bratti 2007, p. 208 (San Costanzo: le lamine sono dette erroneamente di bronzo). Sull’argomento si rimanda, da ultima, a Cenciaioli 20@@, p. 26. 2   Per le notizie cfr. cie i, pp. 422 (lamine di San Costanzo), 490 (acsi), 507 (vipi vercna), 5@9 (petru trile).

testi minori

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4. Pe @.360: arnq acsis´ anei2nal . clan 5. Pe @.362: laris . acsis´ [. v]eilias´ 2caiial . clan 6. Pe @.363: larq . acsis´ . veilias´ 2caiial . clan 7. Pe @.364: arnq : acsis´ 2larqal : carnal 3clan : 8. Pe @.366: ] acsis´ ca[ 9. Pe @.369: arnq . acsis´ . viscial 2clan @0. Pe @.375: larq . acsi 2arnqial . @@. Pe @.378: larq qequ[res´ -?-] @2. Pe @.379: arnq . acsis´ . qequres´ 2clan @3. Pe @.380: larq acsis´ . qequres´ 2clan @4. Pe @.38@: @ arnq . acsis´ . {pi} 2arnqial . palpe 3larqi caprti  

@5. Pe @.493: au vipi vercnas´ @6. Pe @.495: aºrnq : vipis´ vºercnas´ @7. Pe @.497: larq . vipis´ vercna 2set ºres´ @8. Pe @.502: larq : vi(pi): vercna 2cºalisnal : clan @9. Pe @.503: seqre . vipis´ . vºercnas´ 2calisnal 20. Pe @.504: larq[i] : calisnei 2@. Pe @.506: au Ä vipis´ Ä se 2vatinial Ä clan 22. Pe @.507: larqi Ä vipi Ä puia Ä tites´ 2satnas´ Ä vatinial Ä sec 23. Pe @.508: fasti : vatini[a -?-] 24. Pe @.582: larq . trile . larisal 2[petrual .] cla[n] 25. Pe @.584: petrui : tril[e]2s´ 26. Pe @.586: qana . petrui . at ºei ºsº 27. Pe @.@283: fasqi : [-?-]uºni ºa : qui

Come detto sopra, generalmente l’iscrizione su lamina in piombo sembra sostituire il corrispettivo sul corpo del contenitore delle ceneri del defunto: è questo il caso delle iscrizioni nn. @-3, anche se forse la n. 3 potrebbe essere ripetuta, in forma abbreviata, nell’iscrizione Pe @.64@, 2 e delle iscrizioni nn. @5, @7, @9-23, tutte su ossuari anepigrafi; 3 altre invece sono ripetute, a volte con minime variazioni, anche sul corpo dell’urna, come le iscrizioni nn. 4, 7, @4, @6, @8, 24-26, e questo ha come primo risultato la possibilità di integrare le eventuali lacune nella formula onomastica; 4  





@   Secondo Rix l’espunto {pi} è il tentativo, fallito, di iscrivere il cognomen prima del patronimico (Rix @963, p. 33). Nell’iscrizione assieme al marito è nominata anche la moglie. 2   Cfr. C. Pauli, ad cie 336@. 3   Si rimanda alle informazioni fornite in cie 3946, 3950, 3956-3957, 3959-396@. 4   Questi gli accoppiamenti: n. 4 (Pe @.360) con Pe @.36@: ar . asi . aneºi ºnal (corretto da ananal); n. 7 (Pe @.364) con Pe @.365: arnq : acsis´ : carnal; n. @4 (Pe @.38@) con Pe @.382: arnq: acsi / arnqial / palpe; n. @6 (Pe @.495) con Pe @.494: arnq : vipi : vercnas´; n. @8 (Pe @.502) con Pe @.50@: la . vi(pi) . vercna . vipis´ . vºeº . calisnal; n. 24 (Pe @.582) con Pe @.58@: larq : tri{i}le : larisal : petrual : cl[an]; n. 25 (Pe @.584) con Pe @.583: petrui . triles´; n. 26 (Pe @.586) con Pe @.585: qana . petrui . ateis´. Si vedano anche le rispettive schede nel cie.

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delle rimanenti, infine, non è dato sapere se erano applicate su urne anepigrafi o se erano reduplicazioni dell’iscrizione sul contenitore cinerario (nn. 5-6, 8-@3, 27). Sulla loro grafia si può dire ben poco: molte sono note esclusivamente da trascrizioni in grafia etrusca normalizzata, come era consuetudine in molte pubblicazioni ottocentesche, né si hanno riproduzioni più recenti, dal momento che dopo la loro scoperta e la pubblicazione se ne sono perse le tracce: è il caso di due iscrizioni della famiglia acsi (nn. 7-8), di gran parte di quelle della famiglia vipi vercna (nn. @6-2@, 23: in tutto, sette iscrizioni su nove), e tutte quelle della famiglia trile petru (nn. 23-26), oltre alla frammentaria n. 27. Pertanto, sono note riproduzioni solo delle laminette da San Costanzo (nn. @-3), della maggior parte di quelle appartenenti agli acsi (nn. 4-6, 9-@4), e di sole due iscrizioni dei vipi vercna (nn. @5, 22). Dalle riproduzioni del cie risulta chiaro che la grafia è quella di età recente nota a Perugia, e si inquadra nel tipo ii o regolarizzato studiato da Maggiani. @ In linea generale, tuttavia, è impossibile esprimere giudizi puntuali sulla datazione delle iscrizioni: si noti solo che le iscrizioni da San Costanzo (nn. @-3), con ancora rho senza codolo, epsilon e wau con segmenti vagamente inclinati, heta ‘a scaletta’, potrebbero rimandare ad un sottotipo meno recente, così come alcune delle iscrizioni degli acsi. Questo, peraltro, sarebbe in parziale accordo con quanto riferisce Fabretti (riportato a sua volta da Conestabile), 2 il quale, presente alla scoperta dell’ipogeo degli acsi, ricordava che dei cinerari rinvenuti, quelli anepigrafi muniti di lamina erano verosimilmente i più antichi. Interessante notare, nell’iscrizione n. 22, la presenza della punteggiatura lessicale a tre punti, testimoniata peraltro anche dall’epigrafe n. 2@, per quanto solo in trascrizione normalizzata. 3 Un ultimo cenno, infine, meritano quei casi in cui all’iscrizione su lamina in piombo si affianca la menzione della stessa iscrizione (o di iscrizione analoga) sull’urna: queste coppie, infatti, ammesso che le iscrizioni siano state realizzate effettivamente in contemporanea, potrebbero eventualmente mostrare come lo stesso scriba adatti la sua competenza grafica ai diversi supporti scrittori, piombo e pietra. Tuttavia, delle otto coppie individuate, sei (i nn. 7, @6, @8, 24-26) risultano inservibili a questo scopo, perché una delle due iscrizioni o entrambe sono trascritte solo in grafia normalizzata. Delle due coppie rimanenti, la prima (n. 4) si associa all’iscrizione Pe @.36@, 4 ma alcune caratteristiche linguistiche farebbero pensare che le due iscrizioni non siano contemporanee: senza soffermarsi sul metronimico dell’iscrizione  







  Maggiani @990, pp. @88-@93.   Cfr. Conestabile @856, pp. 92-93: il testo è stato già ricordato poco più sopra. Cfr. anche cie i, p. 3 490.   Cfr. cie 3959-3960. 4   In Berichillo 2004, p. 228, l’iscrizione Pe @.360 (qui n. 4) non è associata all’urna con l’iscrizione Pe @.36@, come del resto suggerisce il cie (cfr. cie 38@@-38@2), ma a quella con l’iscrizione Pe @.359: il risultato è che lamina e urna portano due nomi diversi, apparentemente di padre e figlio, così da indurre l’Autrice ad ipotizzare che l’urna sia stata utilizzata in un primo momento per il padre, al quale spetterebbe l’iscrizione sull’urna, quindi riutilizzata per le ceneri del figlio, menzionato nella lamina. Quanto è riportato da Conestabile (per il quale si rimanda a quanto detto sopra), però, sembrerebbe confermare che l’epigrafe della lamina era pertinente alla stessa persona dell’iscrizione sull’urna per cui la lamina stessa era impiegata. @

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sull’ossuario, trascritto erratamente come ananal, è da notare che quest’ultima riporta il gentilizio del defunto nella forma asi, che dovrebbe essere la formulazione finale dell’originario acsis´ testimoniato invece dall’iscrizione su lamina in piombo, come è stato da tempo osservato dagli studiosi, e la cui trafila riguarda anche le varianti acsi e ahsi. @ La seconda (n. @4), invece, sembrerebbe più fedele nel testo al corrispettivo sull’urna (Pe @.382); da notare che, in questa coppia, l’iscrizione sulla lamina comporta maggiori informazioni, dal momento che in essa è riportato anche il nome della moglie (larqi caprti) del defunto (arnq acsis´ palpe, figlio di arnq), ad indicare forse un successivo riutilizzo dell’urna stessa. Concludendo, mentre nel primo caso i dati linguistici sembrerebbero testimoniare che l’iscrizione sulla lamina è precedente a quella sull’urna, qui la presenza del nome della moglie porterebbe a pensare che l’iscrizione sulla lamina è successiva alla corrispettiva sulla cornice dell’urna. Per il resto, le lamine funerarie perugine non sembrano testimoniare altri fatti rilevanti sul piano epigrafico e linguistico. Rimane solo il dubbio sul perché una tale pratica sia attestata solo a Perugia: il lasso di tempo di attestazione, tutto sommato breve, potrebbe rimandare ad un’innovazione tecnica circoscritta nel tempo e nello spazio, parzialmente recepita e repentinamente abbandonata, forse dettata dall’aumento della richiesta di urne cinerarie, non più realizzate su ordinazione ma seriali; l’uso delle lamine in piombo avrebbe permesso di ‘personalizzare’ in maniera piuttosto veloce le urne anepigrafi precedentemente prodotte in serie. Ovviamente tutto ciò, per quanto teoricamente plausibile, è frutto di speculazione e necessita di ulteriori prove, soprattutto sul piano archeologico, che al momento non sono disponibili.  

4. Le glandes missiles L’ultimo caso di iscrizioni su supporti in piombo è testimoniato dai proiettili dei frombolieri, le glandes missiles. È noto che questi oggetti, rinvenuti ovunque in grande quantità, a volte erano arricchiti da brevi scritte, perlopiù di scherno nei confronti dell’avversario, o come indicazione di appartenenza da parte di chi li utilizzava. 2 La pratica è diffusa tra tutte le compagini etniche dell’Italia antica, e in definitiva si conoscono usi analoghi anche in tempi molto più recenti. Anche le ghiande missili etrusche rientrano in questo quadro: sono noti in tutto 27 proietti 

@   Cfr. da ultimo Agostiniani 2002, p. 306 (= Agostiniani 2003-2004, i, p. 322). Agostiniani contesta in parte la spiegazione tradizionale del fenomeno, in particolare della forma con heta interno, la cui presenza secondo lo studioso non dovrebbe essere dovuta alla progressiva lenizione, fino alla scomparsa, della velare interna, che pure le altre forme testimoniano (secondo lo schema ricostruito acsi > acsi > ahsi > asi), ma piuttosto ad un utilizzo tipico dell’etrusco di Perugia e delle iscrizioni umbre, in cui heta è niente più che un diacritico per indicare che la vocale precedente è lunga (dunque, ahsi in trascrizione fonetica sarebbe [a:si], così come la scrittura semplificata asi). Lo stesso fenomeno sarebbe testimoniato anche dal gentilizio uhtave, presente qui nelle iscrizioni nn. @-2. 2   Cfr., per alcuni esemplari etruschi, Facchetti 2000b, pp. 72-74; per un confronto con analoghi oggetti greci si veda Guarducci @967-@978, ii, pp. 5@6-524; per un’analisi complessiva della tipologia di oggetti, cfr. re vii @, @9@0, coll. @377-@380, s.v. glans (Liebenam ).

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li iscritti, tutti di età recente, alcuni ripetenti lo stesso testo o comunque un testo analogo. Di questi, due sono provenienti da Bomarzo (nn. @-2), sei da Poggio Buco (nn. 3-8), tre da Roselle (nn. 9-@@), tre da Campiglia Marittima (nn. @2-@4), sette da Chiusi e dintorni (nn. @5-2@), una da Ossaia presso Cortona (n. 24), una da Fiesole (n. 25), mentre quattro sono di provenienza incerta (nn. 22-23 e 26-27, ma in realtà i primi potrebbero essere chiusini). Queste le iscrizioni: @. ah 0.5: crespnie 2. ah 0.6: crespnie 3. av 0.7: stati ºesi 4. av 0.8: statiesi 5. av 0.9: stati ºesi 6. av 0.@0: sºtºat ºi ºesi 7. av 0.@@: s[t]atºi ºes[i] 8. av 0.@2: stat º[ie]si º 9. Ru 0.@6: ei ºtna @0. cie @@995: ]a @@. cie @@996: ]e @2. Po 0.@@: haºrº @3. Po 0.@2: haraº @4. Po 0.@3: haraº @5. Cl 0.8: a[v]raq btusnutnie @6. Cl 0.9: avraq btusnutnie @7. Cl 0.@0: aas´º(q) btus(nutnie) @8. Cl 0.@@: aas´q btusnº[u]t º[nie] @9. Cl 0.@2: crespºnºie 20. Cl 0.@3: @ mi kultkenaº 2@. Cl 0.@4: 2 hurtl 22. Maggiani @989b (n. @57): hurtl 23. Maggiani @989b (n. @58): hurtl 24. Co 0.2: sepºni 2icºs´ 25. Fs 0.6: acae bep 26. oi 0.@9: crespºnºieº 27. oi 0.22: strevc  



Molte di esse presentano chiaramente dei nomi propri: verosimilmente il nome del proprietario o mittente per il gruppo con la scritta crespnie (nn. @-2 da Bomarzo, n.   Per la lettura cfr. Maggiani @989b (lettura in Cl 0.@3: mi ka 2te3kril), che ha inoltre mostrato come questa glans sia la stessa di Pe 0.9 (mi kuikna); l’errore è dovuto ad una lettura rovesciata del testo. 2   Per la lettura cfr. Maggiani @989b, anche in base al confronto con i due esemplari successivi, di provenienza ignota ma evidentemente analoghi a questo (precedentemente letto hurtu, cfr. Cl 0.@4). @

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@9 da Chiusi, n. 26 di provenienza ignota), @ mentre è più incerta la scritta statiesi, che compare sulle ghiande rinvenute presso Poggio Buco (nn. 3-8): è noto che, originariamente, anche in base ad un’errata lettura *statnes, Buffa aveva ritenuto di identificare in questa parola il nome etrusco di Statonia. 2 Per Facchetti si tratterebbe di un pertinentivo dell’antroponimico statie (cfr. Ta @.24@), da tradurre con ‘per Statie’, 3 mentre Benelli nota che l’iscrizione sui sei esemplari, realizzata con un bollo con lettere a rilievo, starebbe piuttosto per staties ., con un grosso punto finale scambiato in precedenza per uno iota; Benelli nota anche che l’impiego militare delle ghiande missili è concentrato tra il ii e il i secolo a.C. 4 L’ultimo caso di antroponimico su ghiande missili è rappresentato dal gruppo con il termine tusnutnie, in tutto quattro esemplari, due dei quali riportano sull’altro lato del proiettile il termine vraq (nn. @5-@6), mentre gli altri due la parola as´q (nn. @7-@8). Secondo Facchetti i due termini vraq e as´q rientrano nella casistica degli imperativi in -q, già noti dal Liber linteus: in effetti, la presenza di imperativi è in accordo con alcune tipologie di testo presenti sulle ghiande missili antiche, in cui l’incisore rivolge un ordine al proiettile stesso, o anche un ‘invito’ al destinatario (‘prendi!’); 5 Facchetti, pertanto, interpretando tusnutnie come il destinatario delle glandes, propone traduzioni del tipo ‘colpisci Tusnutnie! ammazza Tusnutnie!’ e simili. 6 Forme analoghe di imperativo (o congiuntivo) sono indicate da Facchetti in har (n. @2) e hara (nn. @3-@4), ipoteticamente tradotti rispettivamente con ‘penetra!’ e ‘che penetri!’, sulla base dell’interpretazione di hare sul Cippo di Perugia (Pe 8.4a24) dello stesso Facchetti; 7 altri antroponimi, invece, sarebbero da individuare nel proiettile rinvenuto ad Ossaia presso Cortona, che Facchetti traduce con ‘da parte di Sepni’, e in quello fiesolano, che riporta il nome cae. 8 Ancora più incerte sono le iscrizioni sulle ghiande rimanenti: interessante notare la presenza di un’iscrizione parlante, riconoscibile dal pronome di prima persona mi (n. 20): 9 anche questo uso, ovvero di far parlare direttamente la ghianda missile,  

















2   Cfr. da ultimo, per gli esemplari di Bomarzo, cie @0927.   Cfr. nrie 666.   Facchetti 2000b, p. 73. 4   Benelli 2007, p. 23@. Cfr. anche le schede in cie @@266-@@27@ (si dubita dell’esistenza di un settimo esemplare, cfr. cie @@272). Secondo Maggiani @989b, il testo di Cl 0.@3 (qui n. 29), conservando ancora l’uso di kappa, permette di retrodatare l’uso di ghiande missili nel mondo etrusco almeno alla metà del iii sec. a.C. Non è dato sapere se le ghiande missili con nomi propri avessero altre funzioni oltre a quella militare, come Federica Cordano propone per alcuni proiettili in terracotta sicelioti, ritenuti anche strumenti di schedatura della popolazione (cfr. Cordano 2000). 5   Cfr. gli esempi greci in Guarducci @967-@978, ii, p. 522. 6   Facchetti 2000b, p. 72. Da notare che, nel caso di as´q, il nesso consonantico tra sibilante e occlusiva dentale non comporta la palatalizzazione della sibilante (a Chiusi, centro appartenente alla varietà linguistica settentrionale, il san (s´) indica la sibilante postdentale [s]): casi del genere, si è visto in precedenza, sono dovuti a fenomeni di confine di morfema, e questo di per sé costituisce un indizio a favore della lettura di as´q (e, conseguentemente, anche di vraq) quale forma verbale. 7   Facchetti 2000b, p. 73. Su hare del Cippo di Perugia, considerato ingiuntivo (‘entra’), cfr. Facchetti 2000a, p. 48, nota 282. Steinbauer, invece, ipotizza che possa trattarsi di toponimi (Steinbauer @999, pp. 267, 424). Per le glandes di Campiglia Marittima Maggiani @989b propone una lettura hur sulla base del 8 confronto con gli esemplari nn. 2@-23.   Cfr. Facchetti 2000b, p. 73. 9   Cfr. Agostiniani @982, pp. @23, @25, dove peraltro rinuncia a qualsiasi tipo di analisi testuale, data l’esiguità dell’iscrizione e dei confronti disponibili (l’autore segue la vulgata secondo cui si tratta di due iscrizioni diverse; cfr. anche ivi, p. 265). @

3

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è ampiamente attestato nell’antichità; @ secondo Facchetti, che non segue la rilettura dell’iscrizione da parte di Maggiani, nella ghianda chiusina n. 20 si avrebbe l’indicazione di un reparto militare, tekril, già presente, come tecrial, nell’epitaffio di Venel Tamsnies (Cr @.@6@). 2 Del tutto prive di confronti, infine, le iscrizioni nn. 9-@@, troppo frammentarie per qualsiasi osservazione; 3 le nn. 2@-23, dove hurtl potrebbe rimandare ad un termine onomastico forse legato al nome etrusco della città di Horta; 4 la n. 27, di cui non è possibile individuare nemmeno la provenienza. 5  









  Cfr. sempre Facchetti 2000b, pp. 73-74.   Facchetti 2000b, p. 72. Va detto, peraltro, che l’epitaffio di Venel Tamsnies recentemente è stato oggetto di una rilettura da parte di Koen Wylin, il quale ha emendato in ... municlet . eprial ... il passo preso in considerazione da Facchetti, precedentemente letto ... municle tecrial ... (cfr. Wylin 2005, pp. @@2-@@3). 3   L’iscrizione n. 9 (Ru 0.@6), riportata negli et come ei ºtna, in cie @@994 è invece ekº-a. 4   Cfr. Maggiani @989b. Analogamente Facchetti, che segue la precedente lettura hurtu, data la provenienza chiusina pensa alla testimonianza di uno scontro tra Chiusini e Ortani (cfr. Facchetti 2000b, pp. 5 72-73).   Del tutto arbitrario un confronto con macstrevc di at @.@. @

2

VII. CONCLUSIONI @. Il Piombo di Magliano

L

’analisi testuale messa in atto nel cap. ii ha mostrato l’impossibilità di raggiungere un’interpretazione complessiva dell’iscrizione del Piombo di Magliano, intesa nella sua totalità; tuttavia, attraverso l’indagine proposta è stato possibile individuare alcuni elementi costituitivi del testo, sia a livello sintattico-testuale, sia per quanto riguarda la componente lessicale: è da essi che, in ultima analisi, è necessario partire per avere un quadro organico delle varie problematiche inerenti il testo del Piombo. La prima considerazione si configura come una conferma: rappresenta infatti un’acquisizione consolidata il fatto che il testo sul lato a si strutturi in tre sezioni, ciascuna con un’organizzazione interna parzialmente sovrapponibile alle altre. Questa considerazione si basa essenzialmente sulla costanza di alcuni elementicardine, come la presenza di un teonimo al genitivo ad inizio sezione, in posizione topicalizzante (cauqas, aiseras, maris´l menitla), la ripetizione di alcuni elementi lessicali in funzione locativale (cimqm casqialq lacq, per quanto nella terza sezione sia ripetuta solo la prima parola, cimqm), la presenza in ogni sezione dell’elemento temporale, indicato in vari modi, non sempre perspicui (avils lxxxez, hevn avil, tiu, avilsc, tiuras). Un’ulteriore acquisizione è la funzione delle forme in *tuq(i)- (tuqiu, tuqi), che qui per la prima volta sono state analizzate come predicati verbali, a partire dalla sequenza del lato b del Piombo eq tuqiu nesl man, interpretata come una possibile ‘chiusa’ traducibile con ‘così il nesl man (?) è oggetto dell’azione *tuq(i)-’: se l’ipotesi è esatta, tali forme verbali, ripetute nelle tre sezioni del lato a e nella chiusa del lato b, dovrebbero costituire l’elemento determinante delle azioni descritte in favore delle divinità. L’analisi interna delle singole sezioni è risultata più difficoltosa. La prima sezione, dopo il riferimento alla divinità cauqa, verosimilmente la ‘Fanciulla’, presenta vari elementi lessicali il cui ruolo è stato individuato solo parzialmente: il confronto con la ‘chiusa’ del lato b permette di stabilire un legame sintattico ‘forte’ tra tuqiu e nes´l man, che dovrebbe esserne il soggetto, e che potrebbe quindi essere la denominazione complessiva delle azioni descritte. Tale azione potrebbe ripetersi ‘ottanta volte all’anno (?)’ (avils lxxxez), ‘per tutto l’anno’ o ‘ogni anno (?)’ (hevn avil), con delle precise indicazioni locativali ( cimqm casqialq lacq), e forse strumentali (murinas´ie falzaqi). La seconda sezione presenta un’indicazione teonimica funzionalmente identica a cauqas della prima, ma del tutto diversa sul piano sintattico e lessicale: il nome generico aiseras ‘degli/agli dei’, probabilmente è qualificato per mezzo di una relativa, i cui confini e la cui strutturazione interna non sono del tutto chiari: qui si

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è proposto che sia delimitata come in ecs mene, ipotizzando un senso del tipo ‘agli dei, ai quali (è) il mene (?)’. Segue una serie di parole, mlaqce marni tuqi tiu, che sembra contenere almeno due forme verbali, un preterito attivo mlaqce (se è giusto il riferimento a mlac ‘buono’, dovrebbe significare qualcosa come ‘essere buono, propizio’ ecc.) e tuqi, che qui si è ipotizzato sia una forma verbale non finita, retta dal precedente mlaqce. La seconda sezione si conclude, di nuovo, con la sequenza cimqm casqialq lacq, che evidentemente indica che l’azione descritta in tale sezione è stata compiuta negli stessi termini locativali descritti nella prima sezione. La terza sezione presenta maggiori incertezze e un’articolazione interna forse più ampia: qui si è proposto che, in termini di parallelismo con le due sezioni precedenti, la terza sezione vada individuata essenzialmente nella parte iniziale maris´l menitla afrs cialaq cimqm, mentre con avilsc avrebbe inizio una nuova frase, correlata alla precedente, ma di fatto indipendente. Al consueto teonimo al genitivo, qui qualificato da un epiteto (maris´l menitla), seguono due parole oscure, afrs e cialaq, la seconda delle quali, solo come ipotesi di lavoro, si è pensato possa indicare brevemente che le azioni descritte nelle prime due sezioni sono ripetute anche nella terza, sottintendendole nel testo, tramite una funzione avverbiale interpretabile come ‘per la terza volta’, ‘come terzo’ e simili, e ripetendo solo parte del contesto locativale, cimqm. La frase successiva, come detto, non ha confini ben definiti, e molti elementi lessicali resistono a qualsiasi tentativo di analisi: sembra comunque sicuro che nella prima parte vi sia un riferimento a quanto descritto finora nelle prime tre sezioni, ovvero che ‘annualmente (?) tutto questo è (s)oggetto dell’azione *tuq(i)-’. La parte seguente, quc icu tevr hes´ni mulveni, è del tutto inaccessibile, se si esclude l’individuazione di un tema verbale chiaramente indicante l’azione del donare (mulveni), che peraltro non aiuta l’analisi complessiva del segmento e con difficoltà trova una posizione nell’impianto complessivo della frase. Chiude il lato a la frase eq zuci am ar, che ha di nuovo l’aspetto di una ‘clausola’ finale, i cui elementi sono perlopiù accessibili sul piano lessicale (solo zuci presenta problemi di interpretazione), ma che tuttavia non può essere tradotta con certezza: ‘così zuci (?) sii (sia?) fai (faccia?)’. Questa, in definitiva, la probabile organizzazione del lato a del Piombo di Magliano: cauqas tuqiu avils lxxxez cimqm casqialq lacq hevn avil nes´l man murinas´ie falzaqi aiseras in ecs mene mlaqce marni tuqi tiu cimqm casqialq lacq maris´l menitla afrs cialaq cimqm avilsc eca cepen tuqiu quc icu tevr hes´ni mulveni eq zuci am ar

Per quanto riguarda il lato b, si è visto come la mancanza in alcuni punti della punteggiatura, ed una generale maggiore difficoltà di individuare e interpretare correttamente le unità lessicali, non permettono di proporre un’analisi organica del

conclusioni

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testo, ma solo di ricostruire i rapporti sintattici di alcune parti, le cui parole sono più facilmente analizzabili. Nel testo del lato b è possibile individuare con relativa certezza alcune forme verbali: tuqiu, les´ce(-m), ilace. Tenuto conto di ciò, la struttura sintattica del lato b, pur con tutte le cautele del caso, dovrebbe risultare la seguente: mlac qanra calusc ecnia (iv) avil mi menicac marca lurcac eq tuqiu nesl man rivac les´cem tnucasi s´uriseis teis evi tiuras mulsle mlac ilace tins lursq tev huvi qun lursq sal afrs naces

La prima parte, fino a marca lurcac, risulta di difficile comprensione: mlac qanra calusc, può essere inteso, secondo Maras, come un binomio divino, ‘la Bona Dea Qanrica e Calus’; seguendo questa strada, però, la menzione della coppia divina risulta del tutto avulsa dal contesto, non configurandosi come soggetto di alcuna forma verbale (a meno che non si voglia considerare ecnia come tale); altrimenti, ammettendo che qanra sia derivazione da qanr (come sostenuto dallo stesso Maras), si può pensare che la parte iniziale sia in sé compiuta, configurandosi come un’invocazione in cui la copula sia sottintesa: ‘benevoli (siano) la Qanrica e Calus’. La parte seguente, ecnia (iv) avil, sembra ancor meno evidente nella sua funzione; in primo luogo, non sembra costituire una frase a sé stante, ma piuttosto un sintagma temporale (avil), che si voglia leggere o meno nei segni sopra l’alpha di ecnia un numerale. Altrettanto oscura è la sequenza successiva, apparentemente un enunciato in prima persona (mi), la cui funzione nell’economia generale del testo sarebbe però tutta da individuare. La frase seguente, eq tuqiu nesl man, è invece il perno su cui ruota tutta l’interpretazione del Piombo. Come sostenuto fin da principio, eq tuqiu nesl man dovrebbe indicare una clausola finale, con cui si chiude una serie di azioni rituali descritte nella parte precedente (comprendente anche il lato a?); se si accetta tale ipotesi, è evidente che subito dopo deve trovarsi una forte cesura, o almeno dopo rivac les´cem tnucasi, se dalla presenza della congiunzione enclitica -m è possibile arguire una situazione di correlazione tra eq tuqiu nesl man e rivac les´cem tnucasi; peraltro, dal momento che -m di les´cem effettivamente individua correlazione con ciò che precede, non sarebbe da escludere che rivac sia parte integrante del segmento precedente, eq tuqiu nesl man. La porzione di testo successiva mostra di nuovo cospicui caratteri di intelligibilità: su tutte, la presenza iniziale di un ablativo s´uriseis teis, in funzione di agente del preterito passivo ilace, che per soggetto ha il successivo tins e come predicativo del soggetto mlac: malgrado la scarsa perspicuità di alcuni elementi lessicali, tra tutti evi e mulsle, e il dubbio se il successivo lursq sia pertinente a questa frase e non,

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piuttosto, introduca la successiva, è stato possibile anche abbozzare un tentativo di traduzione: ‘dal s´uris, nel [...] del mese è festeggiato (? stabilito?) (come) fasto il giorno nel lur- (?)’. L’ultima parte, infine, presenta di nuovo serie difficoltà interpretative ed è, nel complesso, inaccessibile: sembra però interessante la menzione di una radice verbale indicante ‘mostrare, indicare’ (tev), di un oggetto caratterizzato da numerabilità (huvi qun), oltre alla ripetizione di lursq, benché ne sfugga la funzione. 2. La Lamina di Santa Marinella Per quanto riguarda la Lamina di Santa Marinella, si è già detto dell’estrema lacunosità del testo, che impedisce un’analisi completa di tutte le sue parti; un altro fattore che incide sulle possibilità di comprensione testuale è la sostanziale unicità del documento, inteso come oggetto iscritto, che non sembra avere paragoni diretti né con la documentazione etrusca nota né, in prospettiva più ampia, con eventuali analoghi esempi antichi. Il luogo di ritrovamento e la forma rimandano a particolari tipi di sors cleromantica; il materiale, il piombo, richiama usi rituali di tipo ctonio, come le tabellae defixionum, da cui però la Lamina si discosta nettamente tanto per il testo quanto per il contesto extralinguistico; quanto resta dell’iscrizione, invece, pur non escludendo a priori funzioni oracolari, mostra caratteri estremamente più complessi delle sortes che, anzi, sulla brevità e ambiguità delle loro iscrizioni basavano la loro funzione. L’analisi linguistica ha ribadito la presenza nel testo di un particolare lessico tecnico il cui riferimento nella documentazione nota non è, però, univoco: se da un lato il rimando più cospicuo è al Liber linteus (sacnitalte, qezi, nunqena, vacil, hecia) e, in seconda battuta, alla Tabula Capuana (rapa, acasa), dall’altro vi sono chiari contatti con la terminologia propria delle iscrizioni di dedica e di dono ([c]ver, mlaka[, mulveni[, mulve[, nuna[); senza dimenticare, poi, casi minori in cui si è rinvenuta una precisa corrispondenza tra evidenze lessicali della Lamina e analoghe attestazioni in contesti del tutto diversi: il riferimento è chiaramente alla parola zucuna, ora nota anche dall’iscrizione parietale ceretana di cui si è già parlato, che ha tutto l’aspetto di una lex sepulcralis, o anche al binomio aqemeis`cas`/aqemeican che rimanda, ad esempio, al Cippo di Perugia; per non parlare, infine, di namulq, che trova un confronto netto nell’onomastica. Il testo ha poi delle caratteristiche lessicali proprie, originali, che devono avere un ruolo non secondario nell’economia del documento: su tutte, il lancumite ripetuto due volte, ma anche, ad esempio, il termine mlaciqa, hapax che pure contempla una vasta gamma di confronti sia lessicali sia grammaticali. Il livello successivo, quello dell’analisi testuale, non offre purtroppo elementi probanti: è da notare, tuttavia, il probabile carattere iussivo di molte forme verbali al congiuntivo (acasa, due volte nunqena, ]ama, hecia, forse anche ei zurva), che indicherebbero come il contenuto della Lamina avesse carattere prescrittivo, e lo collocherebbe nell’alveo dei documenti rituali. Vi è anche un notevole uso di elementi deittici (ipal, tei tre-quattro volte, ican, ipa[, iperi, senza dimenticare le

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forme clitiche in aqemeis`cas`/aqemeican, ]-italte e sacnitalte). Un problema del tutto singolare è posto poi dai sei segni iniziali sul diritto: a partire dall’unica ipotesi verosimile, quella di leggervi dei numerali, è opportuno chiedersi se questo denoti un qualche tipo di serialità, vale a dire se, subito prima di 3+3, vi sia stato un 3+2, e subito dopo un 3+4; o, al contrario, se i segni facciano riferimento a quantità, a grandezze non meglio specificate. Il problema non è di poco conto, e permette di introdurre una questione più ampia, relativa alla natura dell’oggetto e alle considerazioni circa il suo utilizzo. La varietà di riferimenti che è stata osservata in sede di analisi linguistica porterebbe infatti ad ipotizzare che la Lamina non fosse necessariamente un testo codificato, standard, ripetitivo ed essenziale (come ci si aspetterebbe, ad esempio, da una sors), ma qualcosa di molto complesso, in qualche modo originale e, quindi, unico nel suo genere. L’unicità del testo sarebbe forse più congruente con un utilizzo non ripetuto nel tempo, ma legato ad uno specifico momento che avrebbe giustificato la realizzazione della Lamina iscritta. D’altro canto, si deve osservare che il livello di produzione è comunque alto: niente a che vedere, ad esempio, con le realizzazioni corsive delle defixiones, che rappresentano invece l’esempio più netto di documenti che non presuppongono un utilizzo continuo e ripetuto, esaurendo la loro funzione testuale nel momento stesso in cui sono realizzati. A ciò si aggiunga la possibilità, accennata sopra nella discussione sui sei segni iniziali, che la Lamina facesse parte di una serie, e quindi di un progetto testuale complessivamente più ampio e ragionato: ciò porterebbe ad escludere che l’input per la realizzazione della Lamina provenga da un fatto isolato (come ipotizzato invece da Pfiffig). Tali deduzioni si pongono chiaramente a favore di un’interpretazione della Lamina quale documento di archivio, inteso nella sua accezione più ampia possibile. È da escludere, in primis, che la Lamina fosse destinata ad essere appesa: basti, al riguardo, l’osservazione che il testo è presente su entrambi i lati. Più probabilmente, il testo doveva essere conservato per dare la possibilità di essere consultato in occasioni determinate, con scopi ben precisi. In questo senso trovano collocazione non solo, come è ovvio attendersi, le evidenze lessicali proprie dei testi rituali, ma anche quelle più propriamente dei testi di dedica e di dono: a livello concettuale, non sembra così peregrino che un testo rituale prescriva l’esecuzione di doni e dediche. È singolare invece, ma potrebbe essere solo un frutto della frammentarietà del testo, che non risulti alcun chiaro destinatario di appartenenza divina; del resto, è probabile anche che il testo non contemplasse queste indicazioni, e che le azioni prescritte non avessero uno specifico destinatario divino: ma serve solo a complicare il quadro di riferimento il fatto che per due volte compaia il congiuntivo nunqena (‘invochi’ nell’ipotesi di Rix), purtroppo isolato dal resto della frase dalle incolmabili lacune. Si ritorna, quindi, all’ipotesi interpretativa originaria, quale era stata presentata dai primi editori della Lamina: già Torelli, infatti, notava la sostanziale congruenza dell’oggetto con la tipologia delle sortes, ma ammetteva che la complessità del testo doveva far riferimento a pratiche rituali più articolate, che individuava nei responsi

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oracolari, stabilendo un confronto con le laminette plumbee iscritte del santuario di Dodona, in Grecia. @ Anche Pallottino rilevava come il testo della Lamina avesse chiara funzione rituale, e richiamasse l’attenzione su un nuovo settore dell’epigrafia etrusca, quello relativo agli ‘archivi’ dei santuari, di cui le Lamine di Pyrgi erano la testimonianza più importante. 2 Certamente le pratiche oracolari, che si evincono per il santuario di Punta della Vipera dalle risultanze archeologiche, dovevano avere un riscontro preciso nei documenti di archivio del santuario stesso, e quindi anche nel testo della Lamina. Purtroppo, quali siano gli orizzonti di tali pratiche è ciò che sfugge alle attuali possibilità ermeneutiche sull’etrusco, applicate ad un testo certo unico nel suo genere come la Lamina di Santa Marinella; ciò è ovviamente aggravato dalle condizioni non certo ideali di trasmissione del testo, le cui lacune, sui risultati dell’analisi linguistica, hanno una portata negativa soltanto in minima parte immaginabile.  



3. Gli altri testi esaminati L’analisi dei testi etruschi su piombo non si esaurisce evidentemente con il Piombo di Magliano e con la Lamina di Santa Marinella; tuttavia, a differenza di queste, lo studio delle altre testimonianze epigrafiche etrusche in piombo, così come è stato messo in atto in questa sede, si colloca sostanzialmente nel solco della tradizione, confermando in linea di massima i risultati interpretativi delle analisi precedenti, senza particolari spunti innovativi. Si è visto come sia possibile individuare anche nella documentazione etrusca una particolare classe di documenti, le tabellae defixionum. Ciò è avvenuto a partire da elementi in primo luogo extralinguistici, come il supporto in piombo e il rinvenimento in tombe, e solo in parte linguistici, come la presenza di lunghe liste di nomi di persona; in un caso, infine, l’analisi ha potuto constatare la presenza di un quarto elemento distintivo delle defixiones, la formularità. Tra le tabelle defissorie, il blocco numericamente più rilevante è quello volterrano; si è proposto uno studio complessivo di queste attestazioni, che è stato ritenuto opportuno se non altro per il fatto che tre di esse (Vt 4.@-3) sono state rinvenute insieme. L’analisi della Lamina maggiore (Vt 4.@) ha confermato nei fatti che l’analisi operata da Vetter è sostanzialmente valida: Vetter, di fronte alla constatazione della presenza di più mani, peraltro già individuate da Pauli, ha ricostruito la genesi del testo rilevando le differenze tra i due scribi, il primo dei quali aveva una competenza tecnica e linguistica certamente superiore al secondo, più corsivo. Vetter ha mostrato come il testo sia caratterizzato quasi esclusivamente da formule onomastiche, che si collocano pienamente nel contesto sociale di età recente a Volterra, come evidenzia l’epigrafia volterrana coeva; unica eccezione sembra essere la presenza di una possibile (e in qualche modo attesa) formula defissoria, cure malave, per quanto   Torelli @966, p. 285; Torelli @967, p. 348; da ultimo, lo stesso Torelli in La Regina, Torelli @968, pp. 227-229. 2   Cfr. Pallottino @966, pp. 29@-292; si veda inoltre la nota di Pallottino in margine a Torelli @967 (p. 353). @

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non vi siano elementi lessicali né grammaticali che ne permettano un’analisi soddisfacente. L’analisi qui sviluppata, rispetto a quella di Vetter, si mostra innovativa in un solo punto, che però, se confermato, risulterebbe centrale nell’economia del testo: la presenza di una forma verbale qus´-ce, preterito attivo, dalla stessa radice su cui è costruito il nomen agentis plurale qus´-aq-ur, di Vt 4.2, qui analizzata per la prima volta. Questa ipotesi, se effettivamente coglie nel giusto, restituirebbe una nuova base verbale etrusca, qus´-, di significato non sicuro ma forse individuabile nell’area semantica del ‘mentire, giurare il falso’ o altro. Come detto sopra, questo permette inoltre di intuire minimamente l’effettiva connessione tra la Lamina maggiore (Vt 4.@) e le due minori (Vt 4.2-3) che con essa sono state rinvenute, la cui analisi è per il resto senza sbocchi. Delle altre due testimonianze defissorie da Volterra, se di una, perduta (Vt 4.4), si può dire solo che conferma in piccolo il quadro generale già rilevato dalle iscrizioni affrontate precedentemente, dal momento che risulta essere una lista di nomi, incisi su una lamina di piombo rinvenuta in una tomba, della seconda (Vt 4.6) si è proposto un’analisi che ne ha messo in evidenza le discrepanze e, in definitiva, ha avanzato alcuni dubbi sulla sua autenticità. La questione dell’autenticità delle iscrizioni su piombo è stata affrontata anche nella parte introduttiva, come passaggio preliminare a tutta la ricerca; si è visto che dubbi sulla genuinità delle iscrizioni sono stati avanzati sia ad esempio per il Piombo di Magliano, negli anni immediatamente successivi alla sua scoperta, sia per la Lamina di Poggio Gaiella (tle 478), in tempi più recenti. Si è detto sopra che, in un caso, le defixiones etrusche tramandano anche un esempio di formularità: si tratta del testo della Lamina di Monte Pitti (Po 4.4) e della sequenza inpa qapicun qapintas´, ripetuta più volte con alcune varianti, che ad onta del suo essere chiaramente un elemento formulare non è stata ancora analizzata compiutamente nei suoi elementi costitutivi. Anche l’interpretazione tradizionalmente accettata (‘i quali io maledica maledicendo’ e simili), di fronte alle nuove acquisizioni ermeneutiche, soprattutto per quanto riguarda inpa, deve essere oggi sottoposta a critica: qui si è proposto (ma è doveroso riconoscere che vi sono, al momento, più possibilità interpretative) che tra i due eventuali elementi verbali, qapicun e qapintas, sia da collocare una sorta di cesura, così da individuare una struttura testuale in cui, dopo la prima lista di nomi, vi sia la vera e propria formula di maledizione, quindi una rimando verbale e l’inizio della seconda parte della maledizione (‘eqre, Larq ecc. ... inpa (?) maledici; avendo(li) maledetti, Arnq, Larq ecc. ... inpa (?) maledici; avendo(li) maledetti ecc. ...’). Sembra tuttavia quasi ovvio sottolineare che questa ipotesi non esaurisce tutte le questioni sollevate dal testo di Monte Pitti, che pure qui sono state presentate: oltre all’impossibilità di analizzare in forma compiuta parole e formule come ces´ zeris´ ims´, aprens´ais´, ceus´n, si deve anche segnalare l’incertezza nello stabilire se l’ultima riga, con la menzione del nome della liberta Titi Setria, sia da considerare la firma del mittente dell’atto defissorio (cosa insolita ma non impossibile in un testo di maledizione) o piuttosto l’ennesimo nome da maledire.

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Il quadro delle defixiones etrusche è completato dalla breve iscrizione rinvenuta ad Ardea, di cui si sono messe in luce le difficoltà di lettura ed interpretative, e dalle iscrizioni incise sulla coppia di statuette rinvenute a Sovana (av 4.2-3), che se dal punto di vista linguistico non costituiscono certo dei testi di primaria importanza, essendo delle semplici formule onomastiche, per ciò che concerne lo studio dell’ars defigendi in Etruria sicuramente ampliano lo spettro delle pratiche note e messe in atto al tempo, collocando pienamente la società etrusca nel quadro delle credenze magico-religiose diffuse nell’antichità in tutto il Mediterraneo. Così come la classe delle defixiones etrusche trova precisi riscontri in analoghe classi di materiali prodotte da altre società antiche, anche le sortes etrusche sono pienamente inseribili nel quadro di riferimenti linguistici ed extralinguistici osservabile più compiutamente a partire dalle pratiche cleromantiche di altre società antiche, in primis quelle latina, italica e greca. A differenza delle defixiones, tuttavia, l’esiguità dei testi delle sortes non permette di formulare particolari analisi interpretative, senza dimenticare che, dato l’argomento iniziale di questo lavoro, è stata focalizzata l’attenzione soprattutto sui testi che erano iscritti su oggetti in piombo, che risultano essere solo due (o tre, se si accetta l’autenticità della sors chiusina). Un altro testo di particolare importanza, perché permette di ampliare ulteriormente la gamma degli usi epigrafici etruschi su piombo, è la Lamina di Pech Maho, che, si è visto, tutti gli elementi disponibili sembrano indicare come testo giuridico-commerciale, per quanto permangano forti lacune interpretative: in definitiva tale collocazione si basa sul confronto con il testo greco inciso sull’altro lato della lamina, anch’esso di natura commerciale, e sull’analisi di termini come kisne{e} (‘il terzo’, inteso come parte da pagare), heki(u) ‘porre, versare (?)’, zik ‘(sotto)scrivere’, oltre al possibile riferimento, al locativo, alla città di Marsiglia (mataliai). Degli altri testi minori, infine, poco si può dire. Rimane da segnalare la presenza di altre due classi omogenee di testi, le lamine funerarie e le ghiande missili: delle due merita qui una breve menzione la prima, che pur essendo linguisticamente di secondaria importanza, dal momento che le epigrafi contengono solo formule onomastiche, è tuttavia di primario interesse per l’utilizzo che se ne è fatto in uno spazio ben preciso (Perugia, necropoli del Palazzone) e con caratteristiche del tutto singolari, che in questa sede sono state solo accennate, demandandole invece ad un appropriato studio archeologico che, si spera, sia presto effettuato su tali materiali.

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indici

Indice delle parole etrusche

L

’ordine alfabetico seguito è quello consueto, con alcuni opportuni adattamenti (a, c, e, ê, v, z, h, q, i, k, l, m, n, p, q, r, s, s`, s´, sx, u, f, c, f ). [s] e [s¬] vengono immediatamente dopo s´. [w] è dopo v. V (come slot vocalico indistinto) e [ə] vengono dopo a. In genere, non sono stati presi in considerazione le parentesi di qualsiasi tipo, la barra obliqua, il punto interrogativo, l’asterisco e ogni altro segno di interpunzione; fa eccezione solo la parentesi quadra, quando indica una lacuna ad inizio di parola (es. ]tanzui): in questo caso è collocata immediatamente dopo f. L’asterisco non è stato preso in considerazione. Il trattino (-) è considerato solo ad inizio parola (o sequenza grafica): in questo caso è posto alla fine dell’ordinamento seguito.

a a[ a[---] ac- acap acap(ri) acas acas- ac-as ac-(a)s acasa acas-a acasce acasri *ac-ce acels acil ac-il acnanas acsi acsis´ avenalc avil

avils avil-s

@85-@87, @9@ 78, @@7, @25, @29, @34, @64-@65 48 @6@-@62 @84-@87, @89, @9@ @9@ @62, 202 @42, @62 @62 @62 @24, @29, @33, @42-@43, @52, @60-@62, 244 @62 @42, @6@-@62 @62, 202 @62 85 62, @65 @02, @6@ 76 234-237 235, 237 48 23, 32, 38, 40, 42, 4749, 53-54, 6@, 65, 79, 8@, 84-85, 95, @00, 230, 24@-243 32, 38, 42, 44, 47, 49, 53-57, 65, 76, 78-8@, 85-86, 24@-242 48, 56

avilsc avils-c avils(-c) avil-s-c avils´ *avil-u avilc avilcval avle av[le av(les´) avlnal ahsi aq aqelis´ aqeme- aqemei- *aqemei- aqemeica* aqemeican aqemei-ca-n aqemeis`cas` aqemei[s]ca[s] aqemei-[s]-ca-[s] *aqeme-[s]-ica-[s] aqeneica aqeneican aqec aqmic-

3@-32, 39, 8@, 84-87, 89, 98, 242 85, 89 86 85 62, 78 9@ 85 78 52, 7@ 6@ 50 49-50 237 @98-@99, 2@2 76 @52 @52-@53 @66 @54 @22, @28-@29, @37, @52, @7@, 244-245 @52 @2@-@22, @29-@30, @42, @5@-@52, @7@, 244-245 @52, @54 @52 @52 @52 @52 @@6 @52-@53

266 aqumi- *aqumi- aqumica aqumi-ca aqumics´ aqumic[s] aqumitn ais aisece aiser ais-er aiseras aiser(-as) aiseras´ aisl ais´ ai[s]- ai[s¬]- akasce[ ak[asce aks´ke ala alaq alcu ale aleqnas al]eqnas aliqu alitle alpan alpiu alpiuial alpius´ alpnina alpuz als`ase alfnis am am- *am- ama amce ame

riccardo massarelli @53 @66 @52 @53 @52 @52-@53 @52 68, 70, @94 @86 68-69, 80 70 24, 32, 39, 68-69, 73, 75, 77, 8@-82, 86, @06, 24@-242 68-69 68 68 68 @94 @94 @6@ @6@ @6@ 202 84 48 202 48, 76 6@ @6@, 202 225 76, @@7 @95-@96 @96 @96 202 @85-@86, @9@ @66 49 30, 32, 40, 8@-82, 89, 93-96, @75, 242 47, @68-@69 94 @68-@69 53, 94, @66 45, 59, 9@, @56, @69, @75, 207

amuce an ana anavence anaias anaies´ ananal ananc anancves´ anc aneinal aniac ani[a]ceis ania{.}ces´ apa apa-[ apa-c apana apanal ap]as apasi apatrual aperucem api apia aplu aprens´ais´ aprens´a{i}s´ *aprens´as´ aprinqvale aprinqnai aprinqu aprinqus´ ar (a)r ara arce arq armn[ armnal armne armnes armnes´ armni

78 63, 69-72, 74-75, 9@92, @@@, @6@, @89 202 2@0 @@@ 49 235, 237 62, 72-73, @55 62 72, 77 235 @07 @07 @07 @@3, 2@0 @28-@29, @38, @7@, @74 52 90 90 @04 6@ 56 48 @95 @95 230 @98, 200-20@, 209-2@0, 2@2, 247 209 209 209-2@0 209 209-2@0 2@0 32, 40, 8@-82, 89, 9397, @63, @75, 235, 242 @63, 207 2@@ 48, 76, 94 @@@, 2@0 @88 @88 @85-@88, @9@-@92 @88 @88 @88, @90

indice delle parole etrusche ar{.}mni armnial armunia arnq a(rn)q arnqal arnq(a)l a]rnqal arnqial arnq(i)al arnqialum artum[es] artum[sl] aser asi asil astnei as´q as´(q) as´lac a[s¬]tnei ateis ateis´ atelinas ateri ati atial ati-c atinana atrs´ atr[s¬] atr[s¬]rce au a]uviles´ auvilesi aula aule a(ule) aules´ au(les´) acviser acsi afers afes afr

@88 @84, @87 @88 64, @04, @66, 207, 225, 234-235, 237 @98, 207-208 48, 56, 75-76, 9@ 53 6@ 48, 76, 235 64 56 230 230 233 235, 237 @65 @84, @86, @88, @90 238-239 238 @@6 @92 235 235 43 202 43, @@3 43 52 @@3 @6@ 92, @6@ 92 48-49, @98-@99, 208, 2@2, 235 @@2 202 234 59 @9@ 60 208 80 237 @@2 202 84

afr* *afr *af-r afrce afrs afunes afur c c[ ca ca[ cae ca]es caesi *cav(a) cavaqa cavaqas cav[aqas cav]aqas caven[a]s cavuqa cavuqas cahatial *ca-hen caq(a) caqas caqsc caiial cainal *cais(e)ri caisriva[ cal calati calatial calati(al) calznis calisnal calisnei calu *calu *calu- calus calusc

267 84 @@3 @@2 84 32, 39, 4@, 8@, 83-84, 86-87, 95, @@2-@@3, 242-243 227 84 @5, @98-@99, 2@2 56, @26, @29, @35, @67 48, 225 235 @70, 202, 238-239 @@7 202 43 43, @07 @04 @04 43 48 43 43 @60 49, 54 43 43 43 235 49 @@3 @@3 48, 62 @88, @90 @88 @84, @86, @88 76 235 235 98, @00 98 94 96-99, @03 32, 40, 86, 94-97, @06, 243

268 calus-c calus(-c) calu-s(-c) calusim calusna calus-na calusta* calusur* calus-ur* calusurasi calu(surasi) calus´nal calu-s´-t(a)-la calus´tla calu[s]-na camqi cana cani canis canl cape capeni caper* caperi capercva capznal capznas capi cap(i) caprti *capua-i capue caraqsle caresi caresri carnal *casq casqi- *casqi- *casq(i)- *casqia *casq-ia casqial* *casqia-l *casqi-al *casq-ial casqialq

riccardo massarelli 86 96 98 99 98-99 98 99 99 98 76, 98 98 59, 99 98 98-99 99 64 48 48 @85-@86, @9@-@92 48 43, 62 78 88 @@@ 88 48 48 @56, @63, 207 78 235, 237 58 58, 67 48 48, 225 225 235 64 66 65 6@ 64 64 64 64 64 64 24, 32, 38-39, 42, 48,

casial caspres´ castce cates caticaq cau(a)qa cauqa ca(u)qa cauqas cafatial c]ealc cealc* cea(l)cv[ cealc-ls ce(a)lcls ce(a)lc-ls cealcuz cealcus cealcus´ cecnas cehen cezp* cezpalc cezpalcals *cezpalc(e)z *(cezpalc)ez cezpalcls cezpalc-ls cezpz cei ceicna ceicnal ceicna(l) ceicnas ceicnei ceise cel cela cela-ti celetra celqes-tra celqim celi

57, 6@, 63, 65-68, 80-8@, 84, 86, 89, 24@242 230 234 63 225 62 43 42-43, 67, 80, 24@ 43 24, 32, 38, 42, 55, 65, 8@, 86, 24@-242 @60 53 56 56 56 56 56 56 56 56 2@5-2@6 49, 54, 97 55 55-56 56 55 56-57 56 56 55 62, @46 @88 @84, @86 @84, @87 2@6 @85, @87-@90, @92 48, 230 97, @57, 233 @@@ 58 233 @74 62 6@-62

indice delle parole etrusche cel-ti* celtina* celtinêi celucn cem cen cencnei cenise cenu cepar cepen *cepenVr ceren cerine cericu *cericun- cericunce cericun(-ce) cesasin cesu ces´ ces´u ces´um ceus ceus´ ceus´n ceca cecane cecaneri cecasiequr cecasie-qur cên cveqna(l) cvelne cvelne(i) cvenles´ cver cve[r c]ver cvera *cver-ra czl

@57 @57 @57-@58 @66 85 49 76 230 46 88 32, 39, 43-44, 53, 8@, 85, 87-9@, 2@0, 226, 242 88 226 62-63, 204 @6@, 204, 2@2 207 52, 63, 7@, @6@, 207, 2@@-2@2 2@2 62 48 @98, 200, 205, 2082@0, 2@2-2@3, 247 48 62 2@0 2@0 @98, 200, 2@0, 2@2, 247 76, 78, @@@, 202 @@@ 6@ 48 50 49, 54, 59 @50 49 50 48 76, @0@, @04, @58-@59 @59 @59-@60, 244 @0@, @59 @59 62

ci *ci-a-l- *ciala- cialaq cia-la-q cialc* cial-c- cialc-ls *cive civeis cives ciz cizi cilq cilqcval cilq(-i)-[s] cilql cilq(-l) *cilqle cilqs´ cilq[s] cipen cisum citz clavtie-qur-as-i clalum clan cla[n cl[an clanc clante clanti clan-ti clarucies´ cleva clevsinsl clevsti clel clen clenar *clenars´ clesvare[ clesvas clesnes

269 53, 84, @69, 202, 2@0, 224, 226 84 84 3@-32, 39, 8@, 83-84, 86-87, 89, 242 89 56, 84 84 56 @69 @26-@27, @29, @36, @69 @69 55 55 64, 84, @@@, @5@ 2@0 64 60, 64, @5@ 60 @5@ 64, @54-@55 @5@ 87-88 76 56 50 2@0 45, 56, 6@, 76, 78, 9@, @04, @57, @66, @9@, 235 6@, 235 235 48 78 45, @57 @57 48 78 76 208 76 62, 76, 202, 227 52, 7@, 2@0 2@0 @29, @38, @74-@75 @75 @75

270 cle-tra-m cleuste cleustes cleusti clqi clivinia cliniiaras cl-tra-l cluce cluvenias cn cnevna cnev(na) cnevnal cnevnas cnev(nas) cnevnei cneue cneuna cneunal cneunas´ cntnam cn-tra-m crap-* crapicces *crap-i-s=c(a-i)-s crapisces craps´ti crap-[s]-ti crespnie cs´ cuclnial cuclnies cucrinaqur cuinti cuinui culsl curane cure cure- cursnial-c curunas cus cusperiena cusuquras´ cusu-qur-as´ cusu-qur-s´-um

riccardo massarelli @74 @98-@99, 20@, 208, 2@2 208 208 60 48 43 @74 @@@ @@@ 63, 7@, @6@ @96 @96 @96 @96 @9@, @95 @96 @96 @96 @96 @96 54 @74 59 59 59 59, 62 59, 70, @@0 59 238 59, 69, 75 6@ 56, 6@ 49 @95 @95 62 59 @84, @87, @89-@9@, 246 @84, @87 85 48, 9@ @@@ 234 52, 59 50 50

cu[s¬]u-qur-a[s]

52

eca

32, 39, 47-48, 62, 7@, 74-75, 8@, 85-89, 9@, @00, 242 49, 54, @46, 209 209 24 60 43, 56, 7@, @@7, 209 @65 @00, @@6 56 @00 32-33, 40, 49, 86, 95, 99, @00, 243 32, 39, 68-69, 7@-73, 75-77, 8@, 83, 86, 242 @08 4@, @08, @@0, 243 48 32, 48, 95, @03, @08 32, 38, 42, 48, 54-55, 57, 65, 80-8@, 86, 24@242

(e)ca *(e)ca-i-s´ eca(s) (e)clqi ecn (e)cn ecnas ecnatial ec[ni] ecnia ecs ev evi evi- evitiuras ez

eq eqavaiqi eqausva eqva eqve eqrse ei ei[ eizurva ein einanei einc eis eiser eiseras eiseras´ eisteis eit[ eitva

32, 40, 46-47, 55, 8@82, 89, 93-96, @0@, 24@-243 225 80 225 225 78 @@6, @63, @70, 225, 244 @04 @27, @29, @37, @70 43, 48, @95 56 @@@ 68, @03, @06 68 68 68 4@, @06 225 223, 225

indice delle parole etrusche e(i)tva eitvapia eitvi eitna ek-a elss´i en enac enac enesc* enesci enizpetla ep eprqnevc eprial er erce esari es-as´lep *esvi- esvis´ esvis´c eslz *esls´i espial esu *esu-i-[s] es´i et (e)ta etanal eterav eterau etva etve etnam etra etras êliun êliunts´ êsis´

225 225 225 238, 240 240 55 @70, 202 62 62 95 95 99 238 76 240 233 48 @66 48 62 59, 62 62 55-56 55 43 @75 62 62 46 82, @06 78 @7@ 64 48, 225 225 @66, @68 233 233 46 46 59

v

@5, @0@, @84, @86-@89, @9@ @96 78, @67 @67

v[ vacal *vac[ə]l

vacil vac(i)l vacl vacltnam *vac/c- vam varcti vatini[a vatinial vatlmi vacr ve ve[ veilias´ v]eilias´ vel ve[l v(e)l v(el) velanal velanas velan(e) velanei velani velanial velzna-c velqina velqinaquras´ velqina-qur-as´ velqinas´ velqur v]elqur velquri-qur-a(s´?) velqurus´la velia ve(lia) velianas velias´ ve[l]iinaisi veliiunas velsi velsna-l-qi velsu vels´ni

271 @26, @29, @35, @67-@68, 244 @68 62, @67-@68 54, @67 @68 @@6 62 235 235 @0@ 9@, @68, 2@0 @85, @87, @92, 235 @98 235 235 37, 48, 56, 63, 76, 78, 97, @0@, @88, @9@, 2@4, 223 9@ 208 @92 @88 @88 @85-@86, @9@ @88 @88, @90-@9@ @84, @86, @88, @9@ 77 62 62 50 9@ 6@ @@6 50 56 2@5 @92 @@@ 76 @53 78 202 @54 202 202

272 vels´u ve[ls´u vels´ui vels´unia vels´usa veluqras´i veluis velus v(elus) velusna velusnal velusnei velusum velus´ vel[us´ velus´a velu[s¬]na velufna velcei[ velceini velcies´ venel veneluz venelus ve[n]elus venete venqi *venl vercna vercnas´ vetele vetes´ vhelmus vhlave viceis vinac vinaiq vinum vin(u)m vipi vi(pi) vipiqur vipinal-tra vipinanas

riccardo massarelli @98-@99, 202, 207-208, 2@2 @98-@99, 202, 2@2 @98, 200, 207-208, 2@2 202 202 2@3 77 48, 53, @66 @9@ @84-@86, @88, @90-@92, @95 @88 @88 56, 76, @66 37, 48 @96 @04 @92 @95 234 234 36 43, 2@4, 223, 225 222-223, 225-226 226 222-223 @49 64 223 234-236 235 97 97 @88 @9@ 230 46 202 @72-@73 6@ 234-236 235 49 @74 75, 78

vipis´ viscial vl vraq v]raq

234-235 235 48, @98-@99, 2@2 238-239 238

z za[ zacinat zaqrum zaqrums zaqrumsne *zaqrum[s¬]na zal zana zarva zarve zaru zarua zaru(a) zarfneq zatneal ze- zec *zeka- zeke zelarvenas zeri zeri- zeric *zeri-(i)-s´ zeris´

@@6, 232 @2@, @29, @3@, @5@ 78 56 @@@ @69 @69 78, 84, @@2, @54, @56 76 67 67, 232 232 @@6, 232 232 232 2@6 224 76, 224 224 @73, 222-225 76 208-209 208 76, 208 209 @98, 200-20@, 205, 208-2@0, 2@2-2@3, 247 208 2@5 2@6 224 54, 59, 226 95, @53 222-223, 226-227, 248 @72 55, 6@, @72 6@ 76, @75, @90 56 55, @@3 48

zeri(s´) zer[t]u[r] zerturi zi- zic zicu zik *zil- zilaq zilacn[ce] zilacnve zilacnqas zilacnu zilacn[u]

indice delle parole etrusche zilc zilcqi zilc-i *zilc-i-qi zilc zinace zinaku zic zic- zicne zicn]e zicu zicuce *zuc zucenas zuci

*zucuna-i zucus zucus´

58 58 53 58 6@ 202 @6@ 54, @6@, 223, 226 @53, @55 69, 72, 76 69 @53 54, 59, 202 @53 95 32, 40, 8@-82, 89, 9396, 242 94, @53 95 95, @53 @70-@7@, @75, 244 @70 @70 67 @53 94-95, @53-@55 95 95 94-95, @53 95, @53 95 95, @53 94-95, @2@-@22, @29, @3@, @5@, @53-@54, 244 @53 95, @53 95, @53

h[ h-[ havrenie[s halna halus *hamfes-ica hamfisca har hara

@27, @29, @36, @69, 233 233 56 82 @@6 @52 @52 238-239 238-239

zuc-i zucre[ zuqu zurva *zur(u) *zuru- zus´leve zuc *zuc- *zucna zucnal zucne zucni zucnis´ zucu zucuna

hare harq hasmun- hasmuni hatrencu ha[trenc]u ha[----(-)]-u hec- *hec- *hec[ə]-ce hecce hece hec(e)- *hec(e)- hecece heczri heci hec(i) *heci- hec(i)- *hec(i)- hecia heci-a *heci-ce hectai heva *heva *heva-hen *heven hevl hevn heitva {h}eitva heki heki- *heki-e heki(u) hekiu hekiu[ hel hel* hel- hele helei helves

273 239 82 @98 @98-@99, 208, 2@2 @6@ @70 @27, @29, @37, @70 @73 @72 @73 @72-@73 @72-@73 @73 @73 @72-@73 @72-@73 @56, @72-@73 @72 @72 @72, 224-225 @72-@73 @28-@29, @38, @7@-@73, 244 @56 @73 @72 48-53 54 54 54 49-50 32, 38, 42, 47-50, 53-54, 6@, 65, 8@, 24@-242 223, 225 222 @72-@73, 224-225 @69 225 224, 248 @72, 223-224 222 48, @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ @@6, 232

274 hels helsc helsci hels´ hel[s] helu helucu helusni hen herace heracial heramas`va heramas`-va hercle hercles hermial hes´ni hes´-ni heul *hec- hecz *hecz/s´- hecs´q hvlaves hia hil hilar hilare hilarquna hilarqune hilarunia hilsc hilcvetra hilcve-tra hinq hinqa hinqqin hinqie hinu hirmi- hirumi[n]a hisamenetinnuna huvi huviqun huvi-qun

riccardo massarelli @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ 62, @6@ @24, @29, @33, @43, @60@6@ @6@ 49, 54 @86, @94-@95 @95 52, 7@ 7@ 9@ 82, 202 48 24, 32, 39, 78, 8@, 9293, 242 92 49, 50 @72 @72-@73 @72-@73, 225 6@, @72-@73 @9@ 49 @6@ 48, @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ @6@, @66 @6@ @74 227 62 62 56 222, 227 @@2 @@2 76 4@, @08, @@@, 243-244 32, 95 @@@

huzrna-tre huq *huqalc h]uqz huqs huq-s hun[ hup[ hupnina hur huriniiarais hurtl hurtu husrnana hus´ur hut[ hutilatina

@74 @65 56 55 56 56 @25, @29, @34, @65 @65 @65 239 2@9-220 238, 240 238, 240 82 76 @65 @58

q---- qa qavhna qahvna q]amcie qamuce qana qancvil

225 76 205 205 48 78 50, 235 @98, 200-20@, 204, 207208, 2@2 97 97 96-97, 99, 243 86, 96-@00, @06, 243 40, 96 97-98 97 98 97-98 97 97 97 97 97 97 204 77 6@ @98-200, 202, 204-2@3, 247

qanirsxiie qannursxiannasx qanr qanra qan/ra/ qanral *qanral *qanras *qanr-ra qanrs´ qanrus´ *qanur qanurari qanursi qanursie[nas] qancvil qancviluisc qancvilusc qapicun

indice delle parole etrusche q[a]picun *qapicune qapi(n)cun *qapinqas´ *qapint- qapinta- *qapinta- qapintais´ qapinta(i)s´ qapinta{i}s´ qapintas´

*qapicun qapna qapnac qapnes´ts´ qapnzac qaura qaure qaurus´ *qafi- qafna qev-alqia qevru qevruclnas qezeri qez-eri qezeric qezi qezin qez-in qezince qez-ince qezine qez-ine qezle qequres´ qequ[res´ qenqe-c qepza *qes- qesan qesane qesnin qesu qefarie

@98 205 204-205 204 206 206 205 @98, 200, 209-2@0, 2@2 202 209 @98-@99, 202, 204-2@2, 247 204 205-207 205 205 205 62 225 97 205 205 202 9@ 9@ @55 @55 @55 @22-@23, @29, @3@, @55, @56, 244 @55 @55 @55, 204 @55 62, 69, 72, 76, @55 @55 @55 235 235 48 @84, @87, @89 @75 54, @75 76 92 @75 78

qefariei qefries qe--cic qveqeli[es] qveqli[ qveql[i] qveqlies qve[qlies] qi qii qina ql qlu qluqupit qn qra{:}sce qrie qu quca qucl qucta* qucte *quctes qucu qu(v)- qui qu-i quluter qulut(-er) qun qunem qun-em qunz quns´ qun[s]na qunculqe quncum qupit qupit(a) qupite(s) qupitula quplqas´ qus´- qus´aqur qus´-aq-ur

275 @@@ 43 48 9@ 9@, @04 9@ 9@ 9@ 67 62 76 48 @86, @94 @94 97, @@@ 9@ @@6 44, 53, 84-85, 89-90, @@@ 90 90 90 90 90 90 90 48, 50, 90, @57, 235 90 @93 84 4@, 69, 72, @08, @@@, 243-244 56 56, @@@ 55, @@@ 72 @69 62 62 @94 @86, @94 @94 @94 76 @93, 247 @86, @93-@94 @93, 247

276 qus´ce qus´-ce *qus´u *qus´uqur qu[s]ce quc qu-c qu(-c) quct qucti quct(i) quc(ti) qufl quflqas´

i- ianzu ic ica icac ica(-c) *ica-va *icai-ican ican icana icana[ icap icap(ri) *ica-s icec[ icecin icec[in ics´ ikan ila- *ila- ilacve ilacu* *ilacu ilace ila-ce ilqcv[ ilqcvav iluc

riccardo massarelli @85, @87, @92-@93 @92, 247 @93 @93 @92 32, 39, 8@, 89-9@, 93, 242 89-90 90 90 59, 90 90 90 @04 76 202 @95-@96 9@ 52, @55, @65 52, 7@ 7@ 52 @55 @25, @29, @34, @64-@65, 244 @47, @65 @25 @84, @87, @89, @9@ @89, @9@ 7@ @26, @29, @36, @47, @69 @22-@23, @27, @29, @3@, @43, @47, @55 @69 238 7@ @@0 @09 @09, @66 @6@ @09 32, 4@-42, 95, @07-@@@, 2@0, 243 @6@ @09 @09 @09

ilucve ilucu *ilucu-va-i iluu *im- im-[ imec imi *im-(i)-s´ ims´ in i-n inc ininc inni in-ni inpa inpein ins inte ipa ipa[ *ipa-i-ri ipal ipa-l i]pal *ipa-la *ipa-le-ri ipas ipa-s ipas` ipa[s] ipa-[s] ipe ipe[ ipei iperi

@09 @09-@@0, @6@, 2@0 @09 @98, 200, 2@0, 2@2-2@3 @70 @27, @29, @36, @69-@70, 209 209 209 209 @70, @98, 200, 208-2@0, 2@2, 247 32, 39, 59, 67-77, 8@, @89, 202-204, 242 202 72 62, 72, @55 70-72, 78 7@, @73 58, 73, @48, @98-200, 202-206, 208, 2@0, 2@22@3, 247 @55, 202-203 72 72 73, @23, @28, @48, @53, @56, @58-@59, @7@, @74, 202 @28-@29, @37, @7@, 244 @56 @2@, @29-@30, @47-@48, @5@, @53 @56, 203, 244 @48 @56 @56 @59 203 @24, @48, @58 @48 @58 @48 @22, @29, @3@, @48, @55@56 @48 @28-@29, @38, @48, @56, @7@, @74, 244

indice delle parole etrusche ipe[ri] isminqians ita (i)ta {i}truta itun ic icnac icu icutevr

@23, @56 82 52, 7@, 76, 203 @06, @46, @52 @70 43 9@-92, @@3, @75 9@-92 38-39, 8@, 9@, 93, 242 32, 38, 8@, 90-9@, 93, @@@

ka kaqunias´* kaqunias´ul kamarni kamuneis kiven *kisna kisne kisnee kisne{e} kleuste[ kuikna kuls´nuteras´ kultkena

222, 225, 238 79 78 2@9 2@9 @69, 222-223, 226 @69 @69, 225 @69, 223-224 @73, 222-224, 248 208 238 @93 238

l

76, @84-@87, @89, @9@, @95 9@, @@7, @49, @85-@86, @94 64 66 6@, 65 24, 32, 38-39, 42, 48, 57, 6@, 63-68, 80-8@, 84, 86, 89, 24@-242 64 @0@ 46 85 76 @66 225 230 62 @46-@47

la lac lac- *lac- lacq *lac-i-q lav lavtn laqerial-c laqites l[aqites laqr lanis lanti lancum-

*lancum *lancumi *lancumita *lancumi-ta *lancumi-ta-i lancumite lancumi-te lancum-ite lancum-i-te lancum]ite larq l(ar)q l(arq) larqal larq(a)l la(r)qal larqals larqi larq[i] la(r)qi larqial larq(i)al larqialis´a[m] larqiia larqis(a) larqru larq(r)u larq(r)u(i) larqrus´ larqu larqurnis´ laricesi laris la(ris) l(ari)s l(aris) larisal larisalisa larisal-is-v(a)-la larisalisvla larisalis´a

277 @47 @46 @46 @46 @46 @@8, @2@, @25-@26, @29@30, @34, @45-@47, @64@65, 244 @46 @47 @47 @47, @69 48, 56, 64, 76-77, @85, @87-@89, @92-@93, 207, 235 @95-@96, 202, 207-208 @90-@92, @95 76, 235 56 78 227 56, @84, @86, @88, @9@@92, 235, 237 235 @85, @87, @90-@9@ 56, @66 64 76 234 85 @84, @87, @89-@90 @85-@86, @9@ @85, @87, @9@ @89 @85, @90 48 @53 43, 52, 7@, @50, @92, 235 @9@ @98, 207-208 @95 7@, 235 63 @94 52 6@

278 larisalis´la laristna laristnal laristnei lari[s]-al=i[s¬](a)-la lari[s¬]-al-i[s¬](a)-v(a)-la lari[s¬]tna l(a)rtla latini lautn lautnes´cle lautni lautniqa lautni-qa lautnita lacq lacuq leqams leqamsul leqez leiqrmeri leinies len[ leprnal leprn[l lesu les´ce les´cem les´ce(-m) les´e le[s]u le[s¬]- le[s¬]u lvr lvrmit[la lv(r)sl lvsl l q line linei ls lu[ luas´ lucinas

riccardo massarelli 98 @84, @87, @89, @9@ @9@ @9@ 98 52 @92 @0@ 48 46, 9@ 225 43, 49, @7@, @9@, @95@96, 2@@ @7@, 204, 2@0-2@@ 43 @98, 200, 204, 208, 2@0, 2@2 64-65 63-65 @05 @05 @55 @@6 56, @66 @@6 48, 62 48 85, @02 @03 32, 40, 46, 95, @02, 243 @03, 243 @02 @02 @02 @02 @0@ @0@ @0@, @62 @0@, @62 @95, @98-@99, 2@2 @89 @84, @87, @89, @9@ @98-@99, 2@2 97 @0@ @50

luvaser luq luqcva luqs luqti lupu lupuce lupum lur lur* lur- lurcac lurca-c lur-ca-c lur-ca(-c) luri lur-i lur[i] lurmi* lurmicla lurmi-c-la lurmi-t-la lur{:}mitla lurs lursq lurs-q lur-s-q *lurs-i-q lurs-l lurs´ *lurs´ lurs´l lur[s]q lur[s¬]l luru-[ lurur lurcve lusa lustras´ lus-tres´ *lu[s¬](a-i)-[s]-tra-i-[s] *lu[s¬](e)[s]-tre[s] l-cna

233 62 43 202 70 45, 56 56, 76 53 @0@, @@0 77 @00-@0@, @@@, @62, 244 40, @0@, @62, 243 @00, @@0 @@0 @0@ 76-77, @0@, @@@ @62 76 @0@ @0@ @62 @62 @0@ @@0 32, 4@, 59, 67, 95, @08, @@0-@@@, @62, 243-244 63, @@0 @@0 @@0 @62 @0@ @0@ @0@, @@0 @@0 @@0 @24, @29, @33, @60, @62 @62 @0@, @70, 202 @74 @74 @74 @74 @74 202

indice delle parole etrusche m[ macstrevc mazaliai mazuti mazutiu mal- malave malaka]si malac mama mamnqi man *man(a)- mani mania(l) maniim manim manimeri manince mant mar- marca mar-ca marcalurca marcalurcac marcniqur maris marisl maris-l maris´ maris´l mari[s¬] mari[s¬]-l marle marne marni marnuc maru marunuc marunu[ci] marunuc marunucva

@26, @29, @36, @69 240 226 @9@, @95-@96 @85-@86, @9@, @96 @90 @84, @87, @89-@90, 246 76, @02 76 @@@ @@@ 32, 38, 40, 42, 46-48, 63, 65, 8@, 89, 94-96, @0@, @03, 24@-243 48 48 @49 48, 76 48, 63 48 48 48 78 40, @00-@0@, 243 @0@, @@0 @00 32, 78, 95, 99-@00 49 82 82 82 79, 82-84, 89-90 32, 39, 8@-83, 86, 89, 99, @@3, 24@-242 82 82 70 78 32, 39, 68-69, 76-78, 8@, 86, 2@8, 242 76, 78, @66 43, 78 85 88 78, 85, 88 88

mas masan masu matalia* mataliai matlnas matunas mac me-[-] *meqlume- *meqlume-i-ri meqlumeri meqlumeric meqlumes meqlum-es meqlumes´c meqlumq meqlum-q meqlumt *mela-i *mela-i-ri mele *mele-i-ri meleri men men- *men- mena menaqa *mena-i mename menaqu mena[q]u menas´ menatina mena-ti-na menace mene m]ene menece menerva men]ervas meni- menica meni-ca

279 @85, @87, @92 78 62 @8, 226 222-223, 226, 248 @0@ 63 76 225 72 72 72 60 72 @@3 72 62, 203 203 203 72 72 62, 69, 72, 222, 226 72 72, 226 @@@ 76, 83, @57 76 76 76 72 48, 76 76 76 76 76, @23, @29, @32, @52, @57-@58 @58 76 32, 39, 68-69, 7@-72, 75-77, 8@, 83, 86, 242 32, 69 76 @@5, @47 @@6 83 76, @00 83

280 menicac menica-c meni-ca-c menita* meni-t(a)-la menitla men[p]e menr[vas m]enrua[s menu mertam m]etelial metru meclum mi

miciu mimenicac mini mi-ni minipi minunar mirnunan mis[ misalalati misala-la-ti mla- *mla- mlac- mlacasi mlace mlaciqa mlacuc mlaqce mla-q-ce mlaqcemarni *mla-ia(-m) mlaka[ *mlaka[is] mlakas mlaka[s

riccardo massarelli 40, @0@, 243 @00 @@0 76, 79, 83-84, 89 82 32, 39, 8@-83, 86, 89@00, @@3, 24@-242 43 @@6 @@6 76 @@6 @96 76 76 40, 43, 49, 70-7@, 76, 78, 85, 97, @00-@0@, @04, @@0-@@2, @@6, @42, @56, 207, 232, 238-239, 243 79 32, 95, 99-@00 7@, @@2 7@ @63 @63 @63 222, 226 58 59 77, @57 77 77 @02 76-77, @0@, @@@ @28-@29, @37, @7@-@73, 244 @72 32, 39, 68-69, 72, 7577, 8@, 86, 242 @57 77-78 @57 @26, @29, @35, @40, @68, 244 @68 77 @68

mlakasi mlaka[si mlakas´ mlac

mla-c mlace mlacqanra mlacqan/ra/ mlacqan(ra) mlacta mlacuta mle- mleam mleam[ mleam[(-)] mlerusi mles´ia* mles´iêqic mnaquras muvalc* muvalcls muvalc-ls muka mukai mulac mulana mulauc mulac mule mulevene mulenike mulvanice mulvanike mulvannice mulve[ mulvenas mulvenece mulveneke mulvenke mulveni

@02 @68 48 28, 32, 40-4@, 67, 7778, 86, 95-99, @0@-@02, @06, @08-@@@, @43, @56@57, @63, @68, @7@-@72, 2@3-2@4, 242-243 77, @57 76-77 96-98 32, 95 93 202 202 @57 @57 @57 @23, @29, @32, @57 @57, 202 @57 @57 48, @93 56 56 56 2@8 2@9 85 @60 53 85 @09 @60 @60 @59 @59 @59 @25, @29, @35, @65, @67, 244 @59 @59 @59 @59 24, 32, 39, 78, 8@, 8990, 92-95, @59-@60, 242

281

indice delle parole etrusche mulveni[ mulveni- mulvenice mulveni-ce mulveni[ce] mulve[nice] mulvenike mulveni[ce] mulvunuke muls mulsle mulu muluanic(e) *muluva-ce muluvan[ muluvana muluvanece muluvaneke muluvani- mulu-va-ni- muluvanice muluvanike muluvene muluveneke muluveni- muluvenice muluvunike mulunice *mul(u)-s(a)-le municle municlet munis munisvleq munis-tas mu[n]sl[e]c mur *mur- muras murce murzua murin murinal-c *murinas´-ia murinas´ie murinas´-ie

@23-@24, @29, @32, @39, @58-@60, @67, 244 93, @59 78, @59 93 @60 @67 @59 @60 @59 @09 32, 4@, 95, @08-@@@, 243 45, 78, @09, @59-@60 @59-@60 @60 @60 @60 @60 @@2, @60 @60 @60 93, @60 @60 @60 @60 @60 93, @60 @60 @60 @09 240 62, 240 202 76 @52 @09 67 67 @04 67 67 67 85 66 32, 39, 66-67, 8@, 24@242 42, 66

*murina[s¬]- murs murs´l murs´s´ mutin mutinal mutince mutinum mutin-um mutna mutnaiqi mutniaqi

66 67 67 67 @98, 200, 209, 2@2 209 69, 76, 209 62 209 75 60 60

nac

30, 62, 78, 9@, @@3, @74@75 @@3 @29, @38, @74-@75 32, 4@, 83-84, 95, @@2@@3, @75, 243 @@3 @@3, @67, @75 @@3, @67 @@2 @@3 @@3 @@3 @@3 @67 @@3 @75, 244 @29, @38, @75 @75 @75 62, 88 @67 @25, @29, @35, @65, @67 @67 @@2 48 @6@ 67 230 32, 40, 46-48, 89, 9496, @0@, @03, 24@, 243 48 48 47

*nac nacar naces nac-es nacna nacnva nacn(v)a nacnvaiasi nacnuva nacn(uv)a nac-nu-va nacn[u]ve nacum namulq namulqame namulqnal namultl naper *nas- nasa-ce nasu nacs nevtnas neqs´rac nequns´l neis nesl nes[l ne[sl *nes´

282 nes´l nes´-l nes´[l n[e]s´l nes´s *ne[s¬]-is nefts´ nivia nilunce n[-(-)]nie nu[ nuqanatur nuqan-at-ur nuzlcne nuzlcnec nuzlcne(-c) nuzlcne]c nuina nuiclnei *nun- nuna nuna[ nuna- *nun-aq *nun-(a)q *nun-aq-en(i) nunan nunar *nunq- nunqen nun-qe-n nunq-en nun-q-en nunqena nunqene nunqenq nunqeri *nun-na *nurfalc nurfzi nurf-zi nurf*

riccardo massarelli 32, 38, 42, 47-48, 65, 8@, 24@-242 47 48 48 48 48 76, @66 230 85 @29, @38, @74 @@6 @93 @93 72, 76 69 69 69 37 53 @63 @24, @63, 207 @24, @29, @33, @63-@64, 244 43 @64 @64 @64 @63 @63 @64 60, 67, @56, @63-@64, 206-207 @63 @64 @64 @24-@25, @29, @33-@34, @46, @52, @62-@65, 244245 @63-@64 60, 64, @63-@64 64, @63-@64 @63 @8, 55-56 55 56 55

p pavac palpe pan[ pa]panalas´ parac partunus pateri paca pacaquras paca-qur-as [paca-]qur-a(s) pacanac pacanati pacana-ti peqereni peqns´ pequnus penqna pes pese pe[s¬] pe[s¬]e petru pet[ru petrual petrui pêtruis´ pêtrus´ *pirs´uri pl[ plecus plinialc pluns[ precu-qur-as´-i precus´ priniserac prisniesi prumaqs´ prucum ps´l puia puia-c puil puina p]uinces

@5, @84, @87, @89 78 235, 237 48 @@2 @@6 6@ @@6 43 43 50 50 43 88, @57 @57 78 59 @0@ 97 78 228 228 228 234, 236 76 235 235 46 78 @06 @@6 56 53 @98 50 46 78 202 56 @46 62, 228 53, 56, @02 85 @02 @84, @87-@88, @90-@9@ 53

indice delle parole etrusche puine puinei pul pulum pulum* pul-um pulumcva pulunza pumplial-c pumpu pumpus pupeinal p(upli) purts´vavcti purts´vavc-ti *purt[s¬]- puteres-tas` putes´ puts

@85-@86, @9@ @84, @86, @90 @47 76, @47 @47 @47 78, @47 @2@, @29-@30, @47-@48, @5@ 85 203 46, 225 49 @89-@90 @57 @57 @57 @52 @52, 230 62

qutum

@46

ramqa ramqas r]amqa[s ramqasc rapa

53 56, 6@ 48 56 @22, @29, @32, @55-@56, 244 76 76 62, @46 62, @06, @52 @95 @95 @95 48 9@ 48 @58 @04 @58 @58 @58 @58 2@0 48

raq[u]nqia rasneas ras´ne ras´nes´ raufe raufi raufial racaqcesnielqa rezus´ remzna ren- renana reneqi renqn(e) renine *ren-na-i-qi renczua restias´

restm restmc reuczina reuczineti *ri- *ri(a)- riva- *ri(va) rivac riqnaitula riqnaitultrais *ri-il ril rin[ rin- *rin- rin-[ rin-[--]v *rin-na-i-qi rin(u) rinu[ rinu[va rinuq rinus´ ruva ru[va] ruvfial ruvfialc ruz[e ruze ruqcva *rumit(e) rumitrineqi runs( ) runs[ sa sacn[ sacni sacni[ sa(c)ni- sacnicleri sacniv sacnisa

283 46 46 @02 @02 @02 @02 @02 @02 32, 40, 46, 95, @02-@03, 243 202 @74 @02 @02 @23, @29, @32, @58-@59, @7@ @58 @58 @7@ @28-@29, @37, @58, @7@ @58 @59 @58 @59 @58 @58 56, 76 @66 6@ 76 69 69, 72, 76 43 @58 76, @58 @98-@99, 208, 2@2 @98 @@2 48, @49 @49, @5@ @2@-@22, @29-@30, @47@49, @5@ 53 @49 @49, @7@ @49

284 sacnis´a sa(c)ni-[s¬]a sa(c)ni-[s¬](a)-va sacni[t(a)la] *sacni-ta-la *sacni-ta-le sacnitalte sacni[talte] sacni-tal-te sacni-ta-l-te sacniu savcnes sais sal salt sam sanis` sanis`(a) sanis`va sanis´a saniu sancuna sancuneta satna satnas´ satnea satnia safici scêvês´ scunsi scucie se sec sece seqre s(e)q(re) *sela- selasva sele-ita-la selvanzl selvans selvansl semunin semutin semf

riccardo massarelli @49 53 52 @48 @54 @54 @22, @29, @3@, @48-@49, @54-@55, 244-245 @48 @47 @54 @49 @04, 230, 232 222 32, 4@, 95, @@0-@@2, 243 @@2 48 @50 @49 52, @49-@50 @49-@50 @49 75 75, @46 2@6 235 2@5-2@6 2@6 53 46 225 62 @94, @98, 200, 209, 2@2, 235 56, @@@, 235 @94 207, 235 202, 208 @@2 @86, @88, @93-@94 @94 99 75 64, @04, 233 208 208 55

semfalc semfs´ semf-s´ sential sepni ser setra setres´ setria sec *seci secis sec(is) sva sval sval- svalas svalce svaleni svalqas svec sv[ec s]vels[t]res´(-c) svem svu[ sq sians´-l sice sinis *sipirs´uri slapinas´ slapicun snenaziu-la-s-tra snuiaf snut[ span* spanza spanqi spanti span-ti sparzês´tis´ spitus spura *spura-i-ri spurana spureqi spureri

55 56 56 230 238 48, 233 @85, @87, @92 235 @98, 200, 208, 2@0-2@2 @07, @55 @07 43, @07 43 @94 52, 7@ 78 60-6@ 76 78 60-6@ 69, 75 69 @74 2@0 @86 @98-@99, 209 82 @05 230 @06 204, 2@@ 204, 206, 2@@ @74 78 @@6 @57 @47 @57 @57 @57 59, @06 76-77 202 72 76 6@ 72

285

indice delle parole etrusche sren statie staties statiesi stat[ie]si s[t]aties[i] stat[l]anes *statnes stvi strevc streta su s-u-e suq suq- suqi s]uqi suqic suqivenas´ suqil suqiu suqiusvê *suq-u suplni suplu suplus supnai supnas´ supni sur surve *suri sur(is) su(ris) suris´ sca[ni]ce scuinia scumia s`elace *s`ic- *s`icu s`icu-t[a?] s`icut[ala] s`icut[ale] s`icut-[ s`panti

9@, 226 239 239 238-239 238 238 53 239 @@6 238 62 @05 48 6@ 45 45, 48 48 45 45 45 45, 59 45 45 208 208 208 @88 @88 @84, @86, @88, @90-@9@ @05 @29, @38, @7@, @74-@75 23@ @03 @04 35, @04, 23@ @7@ @28-@29, @37, @5@-@52, @7@ @52 78 @55 @55 @55 @55 @55 @22, @29, @3@, @54 @42, @57

s`qulinas` s`uqi s`ur[i] s`uris s`ur[is s`u[ris s`uri]s s´[ s´[a] s´acni- s´acnicla s´acnicleri s´acnicle(-ri) s´acni(cle-ri) s´acnicn s´acnicstres´ s´acnics´tres´ s´acnisa s´a(c)nis(a) s´acnitle s´acnitn s´azleis´ s´ani- s´anis s´anis(a) s´apu s´ar(-c) s´arvenas s´as s´a-s s´atec s´eqra s´eqre s´eqres s´eqres´a s´eqres´la s´elvans´l s´etirune s´etirunec s´etirune(-c) s´[eti]runec s´ecis s´ecuilt s´iki s´icaiei s´kaiteqi *s´kaiteiqi

@42 63, 7@ @03 @04 @03 @03 @04 @@@ 2@0 @49 @49 60, @49 60 60 @@@, @49 @49-@50, @55 64, @49-@50 @49 @49 @49 @@@, @49 59, @06 @49 @49-@50 @49 97 80 225 78-79 79 46 53 48 56 48 75 97-98 72, 76 69 69 69 48 @55 @05 @55 2@9 2@9

286 s´leleq s´pelq s´]purane s´pureri s´pures´tres´ s´ran s´uciva s´uvlus´i s´uqv s´uqi s´u(qi) s´]uqi s´uq]i s´uqic s´uqienas s´uqiq s´uq[i]q s´uqil s´uqis´ s´uqu s´upelniies´ s´uplini s´uplnal s´uplu s´uplunias´ s´uplus´ s´upna s´uri s´uri* s´uris

s´u]ris *s´urisals *s´urise- s´uriseis s´uriseisteis *s´urisis s´uti s´u{u}ris [s]acni [s]acni- [s]acni-ca

riccardo massarelli 84 24, 62 48, 225 60 @74 62, 80 @@@ 76 45 47-48 48 48 48 45 45 @66 48 45 45 45 208 208 208 @98-@99, 208, 2@2 208 208 @88 @05, @07 @03 @5, 35, 4@, 96, @03-@07, @@0@@@, 2@8, 230232, 244 @04 @07 @07 @06-@07, @52, 243 32, 95, @03, @06, @09-@@0 @07 48 @04 @48, @50-@5@ @50, @55 @5@

[s]acni(-ca) *[s]acni=c(a-i)-[s]=tr(a-i)-[s] [s]acnicla [s]acni-c-la [s]acnicleri [s]acnicn [s]acnic[s]tre[s] [s]acni(-[s¬]a) [s]ani [s]ani* [s]ani- [s]ani[s¬] *[s]ele- [s]emfalc* [s]emfalc-ls [s]purina [s¬]al [s¬]alt [s¬]e [s¬]ealc* [s¬]ealc-ls [s¬]eqre *[s¬]ela [s¬]elace [s¬]ela-[s¬](a)-va [s¬]emutin [s¬]etra [s¬](i)an[s] *[s¬]pura-i-[s]-tra-i-[s] [s¬]purina [s¬]uq *[s¬]uq [s¬]uq- [s¬]uqi *[s¬]uqi *[s¬]uqi- *[s¬]uqi- *[s¬]uqie *[s¬]uqi-e [s¬]uqiena* [s¬]uqienas [s¬]uqina *[s¬]uqi-ti [s¬]uqiu *[s¬]uqiu *[s¬]uqti *[s¬]uq-ti

@5@ 64 @5@ @52 @5@ @5@ @5@ @5@ @50 @48 @50 @50 @94 56 56 59 @@2 @@2 209 56 56 209 @94 @94 @94 209 @92 @50 @74 59 45-46 44-45 45 44-46 45-46 45 45 46 46 45-46 45 44-46 45 44-45 45-46 45 45

indice delle parole etrusche [s¬]upni [s¬]uri [s¬]uri[s]

@92 @04-@05 @04-@05

t t[ t-[ ta ta[ tame[r]a tamera *tameras-ica tameresca tamiaquras tamiaq-ur-as tamia-qur-as tanna tar tarc tarsminas´s´ tarcna* tarcnalq tarcnalqi tarcna-l-qi tati te[ tecrial tev

230 233 @26, @29, @35, @67 48, @02 @27, @29, @37, @70 76 76, 225 @52 @52 50, @66, @93 50 50 9@ 202 62 @58 58 63 58-59, 64 60, @54 @86, @94 @24, @29, @34, @52, @63 240 32, 4@, 9@-92, 95, @08@09, @@@, 243-244 8@, 9@-92 92 9@-92 92 9@-92, @@@ 9@ 9@ 38-39, 8@, 90-93, 242 97, @66 62, @2@, @23-@24, @29@30, @32-@33, @46, @5@@52, @57-@58, @60, @62, 244 @25, @62, @64 62, @03, @06, @52, 243 @06, @52 @52 238, 240

tev- *teva tevaraq tevar-aq tevce tevcrun tevilea(l) tevr tezan tei

te[i] teis teis´ tei[s] tekril

ten- ten[ce tenve tenqas tenine tenicunce tenu terum tes tesa tesc tes-c tesim tesinq tesne tesns´ *tes/s´/z- tes`iameitale tes´amitn tes´amsa tes´es tes´i *te[s]- *te[s¬]- te[s¬]ami-tn *te[s¬]ami- *te[s¬]a-na *te[s¬]iamei- te[s¬]iamei-tale te[s¬]na* tetnie[s teuce teucem teuce-m teurat teur-at t]eurat teurs tecrs tênqa tênqur tên[q]urc tva tveqelies tviscri tia tivr

287 @02 53 76, @75, @90 6@, 205 @02 60 88, @02 49 @66 @25, @29, @34, @65-@67 @66 @65-@66 @66 @65-@66 62, @46, @65-@66 62, @06, @52, @65-@66 @66 @66 @66 @66 @66 @66 @65-@66 @65, @67 @53 @66 @67 @66 @53 @66-@67 48 @@@ 9@ 9@ 92 92 9@ 9@ 9@ 78 79-80, 88 78 9@-92 9@ 225 228 80

288 tivrs tivs tiiur tiiurs´ tin tinana[s tinas tinia tin(i)a t]inia tins tinsta tins´ tins´i tin(u)s tipeia tiria tiss´ titasi tites tites´ titi titial tiu tiucies tiuza tiur tiu-r tiu(r) tiur- tiuras tiurim tiurunias tius tiusa tlenaces tlenasies tlenaceis´ tmia tmial tn tnucasi *tnuc travzi

riccardo massarelli 78-79 78 80 78 @09 @@7 43 @09 @@0 @52 32, 4@, 70, 95-96, @06, @08-@@@, @62, 243 82 70, 78-79 62, 78 24 76 202 @58 76 @@@ 235 @98, 200, 208, 2@0-2@@ 48 3@-32, 39, 68-69, 77-8@, 86, 24@-242 79 79 78-80, 9@, @08 80 78 79 4@, 79, @08, @@0, 24@, 243 62, 78 79 79 79 @07 @07 60, 76, @07 52, 7@ 78 @02 32, 40, 95, @02-@03, 243 @02 225

traulac trecte tri{i}le trile triles´ tril[e]s´ trin tr[in] trinq truta trufun ts´ tuvqi tuzu tuzu[ tuzu[l] *tuq *tuq- tuqi *tuq(i) *tuq(i)- tuqiena* tuqienas tuqina *tuqina-i-s´ tuqines´ tuqiu

tular tularias tune tur turce turc[e ture turza turza-i turialsc turis turke turnas turns tu[rn]s

78 48 235 234-236 235 235 62, 67 @74 6@ @70, 202 @0@ @@@ 43-44 227 222, 227 227 45 45, 88 32, 39, 43-46, 68-69, 76-78, 80-8@, 86, 24@242 46 89, 24@-242 43, 45-46 43, 45 43-46, 60 43 43-44, 60, 76, @07 32, 38-40, 42-49, 5455, 64-65, 80-8@, 8589, 93-96, @0@, @03, 24@-243 48, 88 64 230 230 42-43, @0@, 202 @@7 225 58, 202 58 77 @56 97 @@@ 98 98

289

indice delle parole etrusche turuce turuke tusnutnie tusn[u]t[nie] tus(nutnie) tus´nutal[a tu--s´ tuteis tutes tutimc tutin

42-43, @@@ 76 238-239 238 238 @@2 97 77 77 43 43-44, 2@0

u[ uv uva uvas uzr uqari uqras´ uqras´{i} uqri- uqrice uhtave ultace u(l)tace ultnas un u-(-)n-[ unas unata une uneial uneialcias uni unial unialastres *uni-ala-[s]-tra-i-[s] unialq unialqi uni-al-qi uniapelis unias uniiaqi unu

224-225 233 233 233 @@@ @@6 2@4 2@4 @53 @53 234, 237 @84, @89-@90 @89-@93 78 67, @27, @56, @63 @23, @29, @32, @57 @56 @56 @56 62 62 @56, 233 9@ @74 @74 6@ 58-59 @54 @@@ 78 58 @22-@23, @29, @3@, @55@56, @70 @56 @56

un-u unuq

unum unus`e unuc uncva urqri urinate urin(a)te(s´) urinati usil usils usil-s uslanec us`e utace u{.}tace utavu utavum utavu[s] *uta-ra utevr utince uti[nce utus´e

@56, @70 @27, @29, @36, @56, @70 @56 62 @@6 @9@-@92 @85, @87, @9@ @9@ 62 78 79 76 @27, @70 @84, @87, @90 @85, @87 225 222, 225 225 2@4 9@ 69, 76 69 @70

felmu felmui fel(mui) fel(mus) fersnalas´ filunice flave f(l)ave flavelnas flavi

@92 @92 @85, @87, @92 @92 @@2 49 @9@-@92 @85, @87, @90, @92-@93 @9@ @85, @87, @90-@92

ci ci- ci-* *ci- cias cie- ciem cie-m ci-em *ci-im *ci-i-[s] ciius

62 6@, 63 62-63 62-63 62 63 25, 6@-63 63 63 63 62 62

290 cim ci(m) cim[ cim- cimq cim-q cimqm

cimq(m) cimq-m cimq(-m) cim-q-m cis´ ciu cum[

fal- *fal- falalqur falas´ *falza *falzaq falzaqi falzaq-i falza-qi *falza-i-qi *falze-qi fals´ti faluqras fanacnal faneri fanu farqan farq(a)n farqana farqans farqna farqnace farqne fartns´ fasqi fasle fasti

riccardo massarelli 25, 53, 6@-63, 65, 89 63 62 86 24, 57, 6@-63, 68 57 24, 32, 38-39, 42, 48, 55, 57, 6@, 63, 65-67, 80-8@, 83-84, 86, 89 24@-242 63 6@ 65, 67 24 62-63, 78 62 @22-@23, @29, @32, @55, @57 68 67 67 62, 67-68 68 67 32, 39, 42, 65, 67-68, 8@, 24@-242 67 67 67 67 62, 67-68 68, 76-77 76 @@6 46 70, 77 77 77 77 77 76-77 76-77 230 235 @65 235

fastia f]as`ei fas´ fas´e fas´ei fas´eic fas´ei(-c) fas´eis´ fas´ena fas´i fas´le fas´te fa[s¬]tia felmv felmui felmuial feluskes´ firin flave flavial flavienas flaviies fler flere fleres fleres´ flers´ flercve flercve-tr[a(m)] fulnai fulnei fuluna fulunal fulunei fus´le fuflunusra

@85, @87, @9@ @65 48 @65 @65 67, @65 66 @65 @65 @65 @65 @0@ @92 @85, @87, @92-@93 @88, @90 @84, @86, @88 @@2 @@@ @9@ @9@ @9@ @9@ 62 67, 70 56 70 72 @74 @74 @89 @84, @87, @89-@90 @84-@86, @89, @9@ @89 @89 62-63 97

]a

48, @22, @26, @29, @3@, @36, @55, @69, @75, 238 @24, @29, @33, @63 @75 @29, @38, @75 @86 @69 @26, @29, @35, @68-@69, 244 @25, @29, @34, @65

]av ]aq ]aqesu ]a-l---[ *]am- ]ama ]as`ei

indice delle parole etrusche ]cec[ ]cice ]e ]ein[ ]ver ]vipas` ]qe ]q---s-es---n[ ]ia ]ina-qur ]ite ]lce ]lurs´-al ]lusver ]mite ]n ]na ]nal ]nas *]nu- ]nut- ]nuta ]sur ]s´ ]t--[ ]tanzui ]tei ]tnal ]tras ]u ]um ]unia ]uniur ]ure[ ]us´es ]us´esl ]ut ]caeti ]cia ]cia[ ]-a ]-ei ]-i ]-inia ]-italte ]-ite

@@6 @64 238 @86 @23, @29, @32, @58-@59 @58 @25, @29, @34, @65 @@6 @96 50 @47 48 @0@ 48, 225 @69 @04, @75 @26, @29, @35, @67 9@ @04 @70 @70 @27, @29, @36, @69-@70 @26, @29, @35, @67 76 @25, @29, @34, @64 @96 @04 @96 @29, @38, @74 48 @23, @29, @32, @57 235 @@6 @86 233 233 @58 230 62 62 @26, @29, @35, @68 225 @27, @29, @36, @70 @2@, @29-@30, @5@-@52 @22, @29, @3@, @54-@55, 245 @26, @69

]-l *]-n( c) ]-ncva ]-pa ]-sice ]-snitla-[ ]-s´ ]-t ]-tama ]-tipas` ]-tru ]-trus´ ]-tuni ]-us---[ ]-u-(-)u-[ -a -aq -a-i -ais -a-i[s] -(a)l -(a)la -(a)l-te -alcls -alcus -(a)r -as -as(a) -a[s] -a[s](a) -ac -(V)n -c -ca *-ca-i -ce -(c/c)va -cu -e

291 @25, @29, @34, @65 @7@ @28-@29, @37, @39, @7@, @73 9@ @25, @29, @34, @64-@65 @@6 97 @28-@29, @37, @58, @7@ @27, @29, @36, @69, @70 @23, @29, @32, @48, @58 90 90 233 233 @24, @29, @33, @60 58, @42, @6@-@62, @67@70, @73 67, 84, 92, @64, @66, @72, @93 58-59, 95, 223 2@9 209 48, 58, 64, 85 58 @49 57 57 92, @75 @62 @6@-@62 @58 @42 @07 @64 52, 60, 72, 85-86, 94, 96-97, @00-@0@ 60, @00-@0@, @09, @49, @5@-@52, @65 @65 69, 76-77, @64-@65, @67, @94 5@-52 @6@ 46, 58-59, 69, 72, 95, @07, @46, @70, @73, @75, @90, 207, 224-225

292 -ez -ei -em -en -er -es´ -v -va -v(a) -ve -[w]e -z -za -zi -q -q- -qa -qas -qe -qi -q(i) -qur -quras -i -ia -ia-i -(ia)l -(i)ca -ie -ie- -il -im -(i)n -is -isvla *-(i)[s]-tra-i-[s] -(i)[s¬]a -ita -(i)ta -ital- -(i)t(a)le -itul- -(i)tule

riccardo massarelli 55 @46, @53 56, 63 @64 70 209 @63 52-53, 7@, @@3, @5@, @60, @94, 225 52 @90 @75 55, @69 58, 68, 98, @47 55 24, 60-6@, 64-65, 67, 84-86, @@0, @63-@64, 239 6@, 77 43, @7@-@72 205 @54 58, 64, 66-68, @54 58-60, 64, @54, @64 48, 50-52, 68, @93 50 45-46, 58-59, 67, 90, @07, @47, @52-@53, @56, @72 64, 66, @57 66 64 @00 66 46 @02, @65, @68 63 @55 @69 52 @49 52-53 @74 @00, @7@ @74 @09 @74 @09

-iu -l -la *-la-i -le -le-ri -ls -l[s] -m -n -na -ne -(n)e -ni -nu- -num -pa -r -ra -ri -s -sa -se -s´i -[s] -[s]e -[s]tre[s] -[s¬] -[s¬]a -[s¬]e -[s¬i] -t -ta -te -tei -ti -t(i) -tnam -tra -u

45 60, 63, 97, @02 89, 99, @49, @52 59, @52 59, @49, @52, @54 @49 56 56-57 24, 57, 6@, 63, 86, 92, @02-@03, @57, 225, 243 54, @@@, @49, @52, @63, 203, 205, 2@0, 230 45, 98-99, @@3, @53, @57-@58, @65, @69, @75, 224-225 205 76 70, 78, 92, @60 @@3 48 203 5@, 79-80, 88, 90, 92, @63, @67 96, 98, @00, @59 60, @06, @56 48, 58-59, 64, 85-86, 94, @07, @@3, 224 @09 @70 55, 2@4 64, 97, @42, @58 @70 @49 65 @49-@50, @52, @94 @70 55 86 83, 99, @09, @49, @52, @55, @70 58, @46-@47, @54-@55, @65 58 45, @57 58, @54 54 @74, 233 45-46, 9@, @49, @53, @6@,

indice delle parole etrusche

-um -(u)m -un -ur -u[s]

@63, @67, @70-@7@, @75, @90, 204, 224, 227 @57 50, @@3 207 @93 56-57

-c -ce -( c)va -cumenu-[ --aqle --an --q-

293 77, 85-86, 89-90, @0@-@02 @09 @7@ 97 85 202 @@6

Indice delle iscrizioni etrusche

I

l sistema di citazione delle iscrizioni segue, anche nell’ordine, quello degli Etruskische Texte. Altri corpora e singole pubblicazioni sono utilizzati solo quando l’epigrafe cui si fa riferimento non è compresa tra quelle degli et.

et ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll

ii.n@ ii.n2 ii.n3 ii.n4 ii.2 ii.3 ii.4 ii.5 ii.6 ii.7 ii.9 ii.@0 ii.@@ ii.@2 ii.@3 iii.3 iii.@2 iii.@3 iii.@4 iii.@5 iii.@6 iii.@7 iii.@8 iii.@9 iii.2@ iii.22 iv.2 iv.3 iv.4 iv.5 iv.6 iv.7 iv.8 iv.9 iv.@@ iv.@3 iv.@4 iv.@5

@49 64, 78 78 @49 208 64, @49, @65 69, @74 62, 69, 78 62, 78 @49 69 @64 @64-@65, 232 77 @64-@65 @6@ @66 6@-62, @55 62, @@3, 209 @55, @67 56, 9@, @67 56, @64, @72 70 @56, @64 62, 78, @65, @74 62, 78 62, 78, @00 @55 69, 72, 226 69, @55, 209, 226 69 @64, 232 70, 77 @72 @64, 232 @64-@65, @74 6@-62, 70, @72 62, 70, @56, @64

ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll

iv.@6 iv.@7 iv.@8 iv.@9 iv.20 iv.2@ v.@ v.2 v.3 v.4 v.6 v.7 v.9 v.@0 v.@@ v.@3 v.@5 v.@6 v.@7 v.@8 v.@9 v.20 v.2@ v.22

ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll

v.23 vi.@ vi.2 vi.4 vi.6 vi.8 vi.9 vi.@0 vi.@@ vi.@2 vi.@3 vi.@4 vi.@5 vi.@6

62, @65 69, 72, 226 69, @55, 209 62, 70 62, @65 @65 @65 @65, 208-209 64, @49 78 @49 77, @64 @64 @64 62, @56, @64-@65 @49 @65 92 56 @58 56, @64, @67 @56, @64 76, @65 76, @0@, @49, @62, 208 72 @07, @@@ @07, @6@, @74 78, @07 @72 9@, @49 @52, @55, @69 @67, @74 @55 9@ 72, @69 62, 70 62, 70 6@-62

296 ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll

vii.2 vii.3 vii.4 vii.5 vii.6 vii.7 vii.8 vii.@0 vii.@@ vii.@2 vii.@3 vii.@4 vii.@5 vii.@6 vii.@7 vii.@8 vii.@9 vii.2@ vii.22 viii.@ viii.2 viii.4 viii.5 viii.7 viii.8 viii.9 viii.@0 viii.@@ viii.@3 viii.@4 viii.@5 viii.@6 viii.@7 viii.f@ viii.f3 viii.f5 viii.f6 viii.i@ ix.@ ix.2 ix.3 ix.4 ix.5 ix.6 ix.7 ix.8

riccardo massarelli 56, @67 56, @67 56 56, @67 56, @@@, @49 56, @@@ 43, 2@0 88, @66 6@-63, @49, @72 54, 62-63, 204 67 @6@ @67 9@ @66-@67 @49 88, @@3 @67 9@ 90, @67 9@ @55 76, @74 @02 @02 @67 @49, @67 @56 @55 64, @49 62, 78 @55, @67 @66 @64 @56, @64 @49, @65 64, 78 78 208, 232 64, @49, @55 62, 78 62, 78 @49 @72 67, @56 67, @64-@65, 208, 232

ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll

ix.9 ix.@0 ix.@@ ix.@2 ix.@3 ix.@4 ix.@5 ix.@7 ix.@8 ix.@9 ix.2@ ix.22 ix.23 ix.f@ ix.f2 x.2 x.3 x.4 x.7 x.8 x.9 x.@0 x.@@

ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll

x.@2 x.@3 x.@4 x.@5 x.@8 x.22 x.f@ x.f2 x.f4 x.f5 x.f6 xi.2 xi.3 xi.4 xi.5 xi.6 xi.7 xi.8 xi.9 xi.@0 xi.@2 xi.@4 xi.@5

@49, @55 62, 64, 78 62, 78 @49 @64 54, 77, @65 @64 @64-@65 54, 62, @64 62, @56, @64-@65 @49 62 62 @@3 56 56, 78, 205 @@3 78, 90, @67 @48 @72 @48 9@, @66 57, 6@-62, 72, @55, @67 43 @56, 209 90, @@3 @72 @67 205 205 @67 @72 @72 @56 @67 205 @67, @72 9@, @53, @66 67, @64 @52 67, 78 64, @67, 204, 2@@ 204, 2@@ 56 @55 9@

indice delle iscrizioni etrusche ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll ll tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc

xi.@6 xi.@7 xi.f2 xi.f3 xi.f4 xi.f5 xii.2 xii.3 xii.4 xii.5 xii.6 xii.8 xii.9 xii.@@ xii.@2 xii.@3 @ 3 4 5 6 8 9 @0 @@ @2 @3 @4

tc @5 tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc tc

@6 @8 @9 20 2@ 22 23 24 25 26 28 30 3@ 34 38 40

@74 9@ @52 57, 6@-62, 72, @55 62, 90, @58 @07, @6@ 9@, @@3 @6@ 6@-62, @56, 203 @6@ 90, @@3, @56, @6@ @6@ 9@, @67 @@@, @49 @@@ @6@ @67 @03 9@, @62, @67 9@, @59, @67 @59, @67 @09 72 72 @64 @64, @67 58, @52, @54 58, 94, @09, @53, @67 94, 99, @53, @62, @74, 202 58, @74 @09, @59 @09, @62, 202 @64 @09 58, 68 97 @56 64, @62, @64 @55, @62 @09, @67 @09 @09, @56 9@ 232 @09

tc 47 tc 58 tc 59 Cm 2.8 Cm 2.37 Cm 2.44 Cm 2.46 Cm 2.55 Cm 2.58 Cm 2.59 Cm 2.6@ Cm 2.62 Cm 3.@ Cm 9.4 Fa 2.@2 Fa 2.@5 Fa 3.@ Fa 3.2 Fa 6.@ Fa 0.4 Fa S.2 Fa x.2 La 3.@ La S.3 La S.8 Ve 2.6 Ve 3.2 Ve 3.5 Ve 3.6 Ve 3.7 Ve 3.8 Ve 3.9 Ve 3.@0 Ve 3.@@ Ve 3.@2 Ve 3.@3 Ve 3.@4 Ve 3.@5 Ve 3.@6 Ve 3.@7 Ve 3.@8 Ve 3.@9 Ve 3.20 Ve 3.2@ Ve 3.22 Ve 3.23 Ve 3.24

297 @67 @62 @09 @88 36 36 36, 9@, @63 36 36 36 @9@ 36 36 36 @88 95, @53 @6@, 202 @59 @57, 202 @48, @52, @58, @63 9@ 202 @59 97 9@ @48 @60 @60 @59 @60 @59 @60 229 @60 @59 @60 @59 @59 @60 @60 @59 @59 @59 @59 @59 @60 @60

298 Ve 3.27 Ve 3.29 Ve 3.30 Ve 3.34 Ve 3.35 Ve 3.44 Ve 3.46 Ve 6.4 Ve x.@ Cr @.@40 Cr @.@6@ Cr 2.@ Cr 2.2 Cr 2.3 Cr 2.4 Cr 2.5 Cr 2.6 Cr 2.20 Cr 2.29 Cr 2.43 Cr 2.5@ Cr 2.79 Cr 2.@2@ Cr 3.@ Cr 3.2 Cr 3.3 Cr 3.4 Cr 3.5 Cr 3.6 Cr 3.7 Cr 3.8 Cr 3.9 Cr 3.@0 Cr 3.@@ Cr 3.@2 Cr 3.@3 Cr 3.@4 Cr 3.@5 Cr 3.@6 Cr 3.@8 Cr 3.@9 Cr 3.20 Cr 3.22 Cr 3.23 Cr 3.25 Cr 3.26 Cr 4.@

riccardo massarelli @60 95, @53 97 @63 @63 @60 @60 @6@ 232 9@ @@3, 240 @57 @57 @42, @57 @57 205 205 205 205 @63 205 @49 @@5, 232 @60 @60 @59-@60 @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ @60 @59 @59 @59 @59 97, @59 @59 @59 @59 @59 @60 @74 @60 @63 @@7 @@6

Cr 4.2 Cr 4.3 Cr 4.4 Cr 4.5 Cr 4.@0 Cr Cr Cr Cr Cr Cr

4.@@ 4.@2 4.@5 4.@7 4.@8 5.2

Cr 5.3 Cr 6.2 Cr 8.@ Cr 9.@ Cr 0.4 Cr 0.32 Cr 0.40 Cr 0.57 Cr S.2 Cr x.5 Ta @.9 Ta @.@7

Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta

@.27 @.34 @.35 @.47 @.50 @.5@ @.66 @.68 @.8@ @.95 @.96 @.@07 @.@08 @.@@2 @.@@3 @.@@5

58, 233 62, @58 52, 7@, @09, @@@, @@3, @47, @52-@53, @66, @74, @94 78-79, @@3, @47, @67, @94 @7, 76, 94, @@5-@75, 209, 232, 244-246 @@5, 232 @04 77 @@6 @@6 50, 52, 7@, @49@50, @6@, 207 52, 63, @6@, 207 @02 @00, @@6 @42 7@, 226 @@6 48 62 @59 @@5, 23@-232 6@, 205 43, 48, 59, 6@-63, @02, @47, @6@, @74, @93, 203-204, 209, 226, 228 76 @@3 48, @@3, @6@ @49, 209 @@3 @@3 58 9@-92 60 56 64 58, 67 48 85 53-54 64

indice delle iscrizioni etrusche Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta Ta

@.@39 @.@53 @.@58 @.@59 @.@64 @.@69 @.@70 @.@7@ @.@75 @.@82

Ta @.@83 Ta @.@84 Ta @.@85 Ta @.234 Ta @.236 Ta @.24@ Ta 2.28 Ta 3.2 Ta 3.6 Ta 3.7 Ta 4.@4 Ta 5.@ Ta 5.2 Ta 5.3 Ta 5.4 Ta 5.5 Ta 5.6 Ta 7.7 Ta 7.8 Ta 7.@3 Ta 7.59 Ta 7.60 Ta 7.87 Ta 8.@ at @.@ at @.2@ at @.22 at @.30 at @.3@ at @.32 at @.33 at @.34 at @.4@ at @.55 at @.70 at @.96

45 52, @6@, @67, 207 225 @49-@50, @6@ 48, 68, 76 2@0, 225 55, 99 @@3 20@ 67, 92, @6@, @66, 204 55-56 88, @57, 205 @@3 @67 @96 239 @9@ 43 @59 9@, @04, @59 230 @72 @@3 @49 48, 50, @75 @49 46, 62 9@-92 9@-92 @69, @75 @72 @@3 @@3 78, @09 50, 240 75 78-79 48 @@@ 43, 50 53-54 98 45, 63 9@ 48 48, 225

at @.@00 at @.@05 at @.@07 at @.@08 at @.@09 at @.@2@ at @.@26 at @.@29 at @.@30 at @.@3@ at @.@38 at @.@40 at @.@4@ at @.@48 at @.@88 at @.@93 at 3.@ at 3.2 at 3.3 at 4.@ at 0.@ ah @.43 ah 3.3 ah 3.4 ah 0.5 ah 0.6 Vs @.8 Vs @.43 Vs @.52 Vs @.55 Vs @.57 Vs @.82 Vs @.95 Vs @.@33 Vs @.@36 Vs @.@78 Vs @.@79 Vs Vs Vs Vs Vs Vs Vs Vs

@.@80 @.@8@ @.@87 @.20@ @.223 @.224 @.248 @.263

299 58, @54 48, 55, @7@ 76-77, 98, @0@, @62 55, 6@, 88 48, 98, @49 55 9@ 9@ 9@ 9@ 48 48 48 48 48 @49 @59 @60 @48, @58, @63 @04, 230, 232 @6@, 225, 232 @66 @59 76, @59 238 238 9@ @59 97 @9@ 45 9@ 45 @88 95, @53 56 76-77, @0@, @47, @58, @62, @75, @90 @6@, @65 @67, 208 9@ 208 208 208 @49 @88

300 Vs @.269 Vs @.302 Vs @.320 Vs 2.@ Vs 2.7 Vs 2.40 Vs 2.55 Vs 3.@ Vs 3.2 Vs 3.3 Vs 3.6 Vs 3.7 Vs 4.2 Vs 4.7 Vs 4.8 Vs 4.9 Vs 4.@3 Vs 4.@5 Vs 6.@9 Vs 7.9 Vs 7.40 Vs 8.3 Vs 0.6 Vs 0.@@ Vs 0.35 Vs 0.43 Vs S.@4 Vs S.20 Vs S.25 Vc @.4 Vc @.5 Vc @.6 Vc @.8 Vc @.@0 Vc @.@6 Vc @.@7 Vc @.@8 Vc @.2@ Vc @.30 Vc @.32 Vc @.46 Vc @.47 Vc @.48 Vc @.49 Vc @.50 Vc @.53 Vc @.55

riccardo massarelli 208 @88 @72 @52 205 @56, 207 @88 @59 @59 @59 232 @02 78 98-99 75, @46, @59 99 @49, @65 56 @54 50, @65, @93 84, @93 72 @03-@04 77 @55 @0@ 82 82 97 @49 @6@ 85 @49, @6@, @88 @49, @6@, @7@ @6@ @49 @6@ @6@ @49 @6@ @49 @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ @6@

Vc @.56 Vc @.57 Vc @.58 Vc @.6@ Vc @.64 Vc @.69 Vc @.82 Vc @.87 Vc @.88 Vc @.92 Vc @.93 Vc @.94 Vc @.98 Vc @.@03 Vc 2.3 Vc 2.9 Vc 2.42 Vc 3.@ Vc 3.2 Vc 3.3 Vc 3.4 Vc 3.5 Vc 3.7 Vc 4.5 Vc 4.6 Vc 6.@ Vc 7.27 Vc 7.30 Vc 7.38 Vc 0.9 Vc 0.@0 Vc 0.@@ Vc 0.@2 Vc 0.@3 Vc 0.@4 Vc 0.@5 Vc 0.@6 Vc 0.@9 Vc 0.40 Vc S.27 av @.2 av @.@3 av @.2@ av 2.5 av 2.@@ av 4.@

@7@ @6@ @6@ @6@ 77 @6@ @6@ 204 @96 77 55-56, 77, 85, @@@ 55, @57 @6@ @6@ @63 36 205 @60 @59 @59 @60 @60 @59 232-234 @04 36 77 64 @@3 72 72 72 72 72 72 72 72 @67 @@@ 82 36 48 48 205, 208 36 @4, @9-@@3, @57, @59, @6@-@62, @75,

indice delle iscrizioni etrusche

av 4.2 av 4.3 av 9.2 av 9.3 av 0.7 av 0.8 av 0.9 av 0.@0 av 0.@@ av 0.@2 Ru 2.7 Ru 2.@8 Ru 2.25 Ru 3.@ Ru 3.2 Ru 5.@ Ru 9.@ Ru 0.@6 Vn @.@ Vn 0.@ Po 2.2@ Po 2.28 Po 3.@ Po 4.@ Po 4.3 Po 4.4 Po 6.@ Po 0.@0 Po 0.@@ Po 0.@2 Po 0.@3 Vt @.@ Vt @.2 Vt @.@4 Vt @.@5 Vt @.@8 Vt @.@9 Vt @.23 Vt @.24 Vt @.25 Vt @.26 Vt @.27 Vt @.28 Vt @.36

2@0, 2@8, 220, 23@, 24@-244, 247 @82, 2@4-2@7, 248 @82, 2@4-2@7, 248 36 36 238 238 238 238 238 238 208 @96 208 @59 @60 @6@ 36 238, 240 @@2, @60 9@, @@3, @59 205 @96 @59 @94 @65 @70, @8@-@82, @962@3, 247 76 @05 238 238 238 @95 @95 @88 @88 @88 @88 @9@ @9@ @88, @9@ @88, @9@ @9@ @88, @9@ @88

Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt Vt

@.37 @.38 @.39 @.44 @.45 @.68 @.77 @.80 @.85 @.98 @.@02 @.@03 @.@04 @.@05 @.@06 @.@08 @.@09 @.@@0 @.@@3 @.@@5 @.@20 @.@37 @.@45 @.@54 @.@59 @.@60 @.@6@ @.@63 @.@64 @.@65 @.@66 @.@67 2.23 3.@ 3.2 4.@

Vt 4.2 Vt 4.3 Vt 4.4 Vt 4.5 Vt 4.6 Vt 6.3 Vt 7.2

301 @88 @89 @88, @96 @89 @96 @89 85 @88 @60 225 @96 @96 @96 @96 @96 208 @88 @88 @96 @88-@89 @88, @95 @88 208 @60 @9@ @9@ @9@ @88 @88 @9@ @89 @89 @88 @60 76 @7, @8@-@93, @95, 246-247 @82-@83, @86, @88, @93-@94, 246-247 @82-@83, @86, @88, @93-@95, 246-247 @82, @96, 247 48, @74 @6, @82, @9@, @95, 247 @88 @@3

302 Vt 8.@ Vt 0.@0 Vt S.2 as @.9 as @.@2 as @.87 as @.99 as @.@30 as @.@34 as @.@87 as @.253 as @.257 as @.269 as @.298 as @.307 as @.3@@ as @.3@4 as @.393 as @.440 as @.462 as @.502 as 3.@ as 3.2 as 3.4 as 4.2 as 4.3 as 4.5 as 5.@ as 6.@ as 7.@ Cl @.60 Cl @.86 Cl @.@23 Cl @.@30 Cl @.@3@ Cl @.@33 Cl @.@34 Cl @.@35 Cl @.@68 Cl @.@70 Cl @.@7@ Cl @.200 Cl @.202 Cl @.203 Cl @.204 Cl @.3@8 Cl @.3@9 Cl @.320

riccardo massarelli 76 85, @02 9@-92, @@3 48 49-50 @6@ 49-5@ @58 @75 67 @6@ @6@ 84 @89 @89 67 @89 85 @@3 @58 208 @60 @60 76 @4 @4 @49 @02, @70 76 48, 76 95 208 @88 79 79 79 79 79 95 95 95 @6@ @6@ @6@ @6@ @53 @53 95, @53

Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl Cl

@.350 @.458 @.472 @.475 @.550 @.558 @.69@ @.692 @.7@8 @.773 @.832 @.834 @.904 @.946 @.@033 @.@@45 @.@@70 @.@@7@ @.@243 @.@290 @.@29@ @.@32@ @.@405 @.@442 @.@6@9 @.@656 @.@765 @.@767 @.@768 @.@769 @.@770 @.@77@ @.@778 @.@779 @.@78@ @.@787 @.@789 @.@8@6 @.@8@7 @.@85@ @.@86@ @.@863 @.@9@3 @.@967 @.@999 @.2004 @.209@ @.2@04

208 9@ @6@ @6@ 84 84 @6@ @6@ 209 202 95 @9@ 2@0 @60 @6@ 49 @96 @96 @95 202 202 84 36 @75 95, @53 @88 @53 95, @53 95 95, @53 95, @53 95, @53 @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ @6@ @94 209 @9@ @@3 208 @96 @75 @9@ @88

indice delle iscrizioni etrusche Cl @.2@73 Cl @.2220 Cl @.23@9 Cl @.2382 Cl @.2383 Cl @.2384 Cl @.2434 Cl @.2437 Cl @.2495 Cl @.2593 Cl 2.3 Cl 2.4 Cl 2.7 Cl 2.20 Cl 2.23 Cl 2.26 Cl 3.@ Cl 3.2 Cl 3.3 Cl 3.4 Cl 3.5 Cl 3.7 Cl 4.@ Cl 4.2 Cl 8.5 Cl 8.6 Cl 0.8 Cl 0.9 Cl 0.@0 Cl 0.@@ Cl 0.@2 Cl 0.@3 Cl 0.@4 Cl 0.@5 Cl S.8 Cl S.@3 Pe @.2@ Pe @.@33 Pe @.3@3 Pe @.359 Pe @.360 Pe @.36@ Pe @.362 Pe @.363 Pe @.364 Pe @.365 Pe @.366 Pe @.369

95, @53 202 95 208 208 208 @88 84 @88 84 @59 @63 @88 @9@ 97 205 @60 @60 97-98 @66 @59 @59 78-80 82, 209 48, @6@ 225 238 238 238 238 238 238-239 238 @6, 228 82 82 48 9@ @60 236 235-236 235-236 235 235 235 235 235 235

Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe Pe

@.375 @.378 @.379 @.380 @.38@ @.382 @.460 @.493 @.494 @.495 @.497 @.50@ @.502 @.503 @.504 @.506 @.507 @.508 @.58@ @.582 @.583 @.584 @.585 @.586 @.638 @.639 @.640 @.64@ @.688 @.705 @.8@2 @.927 @.965 @.@04@ @.@053 @.@08@ @.@207 @.@283 3.2 3.3 4.@ 4.4 5.@ 5.2

Pe 5.3 Pe 8.@ Pe 8.4

303 235 235 235 235 235 235, 237 77 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 235 234 234 234 235 48 @9@ @49-@50 @88 95, @53 @53 2@6 @6@ @09 235 59, 99 43, 49 49, 54, 97, @66 @0@, @59 @72 46, 49-50, 54, 67, @72, 225 48, 225 @66 49-50, 57, 6@-63, 67-

304

Pe 8.9 Pe 0.6 Pe 0.9 Co @.@ Co @.6 Co @.25 Co 3.@ Co 3.2 Co 3.5 Co 3.6 Co 3.8 Co 4.@0 Co 4.@@ Co 0.2 Ar @.24 Ar @.85 Ar @.87 Ar 4.2 Ar 4.4 Ar S.2 Fs 6.@ Fs 8.2 Fs 8.3 Fs 0.4 Fs 0.6 Um 3.2 Um S.4 Sp 2.@2 Sp 2.36 Sp 2.40 Sp 0.4 Ad 2.22 Ad 2.30 Ad 6.@ Pa @.@ Pa @.2 Pa 2.@ Pa 3.2 Pa 4.2 Na 0.@ Cs 2.@8

riccardo massarelli 68, 72, 76, 84, 9@-92, 95, @06, @46, @52, @58, @6@, @65-@66, @70, 208, 227, 239, 244 @66 @5, @04 238 @53 49-50 @53 @52-@53, 205 50 @07 43, 60, 76 @59 98-99 @5 238 95 @9@ @9@ @5, @04, 23@-232 225 97 @6@ @6@ @6@ @63 238 @02 9@ 36 @65 @88 97 84 208 @6@, @93 59 58 @63 @59 78-79, 82, @0@, @62, 203 @4, @69, @72-@73, 22@228, 248 49

Cs 2.@9 oa 2.24 oa 2.25 oa 2.58 oa 2.6@ oa 3.@ oa 3.2 oa 3.3 oa 3.6 oa 3.7 oa 3.9 oa 6.@ oa 0.6 ob 3.@ ob 4.2 oi 0.5 oi 0.6 oi 0.7 oi 0.8 oi 0.9 oi 0.@9 oi 0.2@ oi 0.22 oi S.23 oi S.29 oi S.4@ oi S.63 nu n.@0 nu n.@@

49 95 79 @@@ @66 @02, @59 @59 @60 @0@, @59, @62 @07, @59 @0@, @70, 202 @6@ 49-50 @59 97 72 72 72 72 72 238 @0@, @@0, @62 238 97 97 82 82 @55 @55

ree 55, @@8 56, 2@ 56, 22 56, 23 56, 27 56, 3@ 56, 43 56, 50 56, 68 56, 82 57, 45 57, 48 59, 22 59, 26 60, @9 63, 28

43-44, 64 @04 @03 @04 @04 @59 2@@ 43 @04 @0@, @59, @62 @9@ 205 @59 @4, 43 @59 @72

305

indice delle iscrizioni etrusche 63, 42 63, 48 64, 36 64, 37 64, 57 64, 97 64, @02 65-68, 70 65-68, 7@ 65-68, 84 65-68, 9@ 65-68, 92 65-68, @@5 65-68, @29 65-68, @38 69, 24 69, 26 69, 55 69, 62 69, 7@ 70, 6 70, @0 70, 5@ 70, 52 7@, 2 7@, 3 7@, 4 7@, 5 7@, 6 7@, 26 73, @ 73, 26 73, 30 73, 38 73, 5@ 73, 76 74, 65 74, 68

53-54 78-79 @04, @07 98 43-44 @6@ @60 @@6 76 @59 62 62 9@ @9@ @@6 @03 43, @63 @79, @82, 2@3-2@4, 248 @7, 62 @02 @08 2@6 @60 @60 @88 @88 @88 @88 @88 94-95, @48, @53, @7@, 226-227, 244 62 @49 68 @0@ @60 @49-@50 @@2 62

cie 3274 3275 3276 3277 3278

@6, @6, @6, @6, @6,

230 230 230 230 230

3279 3280 328@ 3282 3283 3284 4565 4566 4567 4568 4569 4570 457@ 4572 4593 4602 4603 5564 845@ 8784 @@4@7 @@995 @@996

@6, 230 @6, 230 @6, 230 @6, 230 @6, 230 @6, 230 @4 @4 @4 @4 @4 @4 @4 @4 @5 @5 @5 @82 36 36 208 238 238

tle 478 803a 803b 804 823 83@ 858

@6, @03, @05, @79, 2@7-220, 247 68 68 68 43 68 55

cii @073 2636 2637 2638 2639 2640

@5 @5 @5 @5 @5 @5

Altri testi Aequipondium Caere App. 38@ Cataldi @994

@5, @09 @5 @04

306 Cippo di Tragliatella Colonna @993 Epitaffio Larqi Cilnei Maggiani @989b (n. @57) Maggiani @989b (n. @58) Maggiani 2002a Martelli @992

riccardo massarelli 88 64 53-54, @@@, @59 238 238 90 @60

Sors aretina excisa Tabula Cortonensis

Tosto @999

230 @7, 46, 49-50, 52, 59, 70, 72, 78-80, 90, @06, @@2, @57, @73, @93-@94, 226, 228 43

Indice delle figure nel testo Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig.

@. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. @0. @@. @2. @3.

Piombo di Magliano, lato a. p. 20 Piombo di Magliano, lato b. p. 2@ Alfabeto tipo del Piombo di Magliano. p. 32 Lamina di Santa Marinella. a) Frammento a, diritto; b) Frammento b, diritto. p. @@8 Lamina di Santa Marinella. a) Frammento a, rovescio; b) Frammento b, rovescio. p. @@9 Lamina di Santa Marinella. Quadro ricostruttivo. p. @20 Alfabeto tipo della Lamina di Santa Marinella. p. @39 Lamina maggiore di Volterra. p. @83 a-b) Lamine minori di Volterra. p. @86 Lamina di Monte Pitti. p. @97 Lamina di Monte Pitti. a) Primo epsilon del primo cleuste, r. 5; b) Wau di qancvil, r. 6; c) Epsilon di zeris´, r. 6; d) Secondo epsilon del secondo cleuste, r. 5; e) Epsilon di aprens´ais´, r. 7. p. 20@ a) Statuetta maschile di Sovana, iscrizione; b) Statuetta femminile di Sovana, iscrizione. p. 2@5 a-b) Sors di Arezzo. p. 23@

Indice delle tavole Tav . i. Tav . ii. Tav . iii. Tav . iv. Tav . Tav . Tav . Tav .

Piombo di Magliano, lato a. Piombo di Magliano, lato b. Lamina di Santa Marinella. a) Frammento a, diritto; b) Frammento b, diritto. Lamina di Santa Marinella. a) Frammento a, rovescio; b) Frammento b, rovescio. v . Lamina maggiore di Volterra. vi . a-b) Lamine minori di Volterra. vii . Lamina di Monte Pitti. viii . a-d) Statuette di Sovana e particolari delle iscrizioni.

TAVOLE

Tav. i. Piombo di Magliano, lato a.

314

riccardo massarelli

Tav. ii. Piombo di Magliano, lato b.

tavole

315

a

b Tav. iii. Lamina di Santa Marinella. a) Frammento a, diritto; b) Frammento b, diritto.

316

riccardo massarelli

a

b Tav. iv. Lamina di Santa Marinella. a) Frammento b, rovescio; b) Frammento b, rovescio.

Tav. v. Lamina maggiore di Volterra.

tavole 317

318

riccardo massarelli

a

b Tav. vi. a-b) Lamine minori di Volterra.

Tav. vii. Lamina di Monte Pitti.

tavole 319

320

riccardo massarelli

a

c

b

d Tav. viii. a-d) Statuette di Sovana e particolari delle iscrizioni.

co mposto in car at t e re dan t e dal la fabrizio s err a edi t ore, p i s a · roma. sta mpato e ri l e gat o n e l la tipo gr af ia di agna no, ag nan o p i s an o (p i s a).

* Gennaio 2014 (cz2 · fg3)

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