Testi confuciani
 9788841892589

Table of contents :
Frontespizio......Page 4
Colophon......Page 5
Indice del volume......Page 6
Introduzione (L. Lanciotti)......Page 9
La presente edizione......Page 17
Nota storica......Page 21
Cenni di storia della Cina......Page 30
Biografia di Confucio......Page 54
La Pietà Filiale (Hsiao Ching)......Page 64
3. Dei principi feudatari......Page 65
6. Della plebe......Page 66
8. Del governo per mezzo della pietà filiale......Page 67
9. Del governo degli uomini santi......Page 68
11. Delle cinque pene......Page 69
15. Delle rimostranze e delle censure......Page 70
16. Del gradimento e delle ricompense......Page 71
18. Del lutto per i genitori......Page 72
IL «Grande Studio» (Ta Hsüeh)......Page 75
Commento di Tsêng-Tzu......Page 76
3. Spiega il permanere nel più alto grado del bene......Page 77
6. Spiega il rendere sinceri i pensieri......Page 78
8. Spiega il regolare la famiglia perfezionando la persona......Page 79
9. Spiega l’ordinare lo stato regolando la famiglia......Page 80
10. Spiega il pacificare l’impero ordinando lo stato......Page 81
L’Invariabile Mezzo (Chung Yung)......Page 87
I Dialoghi (Lun Yü)......Page 106
Capitolo I - Hsüeh êrh......Page 107
Capitolo II - Wei chên......Page 109
Capitolo III - Pa i......Page 113
Capitolo IV - Li jên......Page 116
Capitolo V - Kung-yeh Ch’ang......Page 120
Capitolo VI - Yung yeh......Page 124
Capitolo VII - Shu êrh......Page 129
Capitolo VIII - T’ai-po......Page 133
Capitolo IX - Tzu han......Page 137
Capitolo X - Hsiang tang......Page 140
Capitolo XI - Hsien chin......Page 145
Capitolo XII - Yen Yüang......Page 151
Capitolo XIII - Tzu-lu......Page 156
Capitolo XIV - Hsien wên......Page 160
Capitolo XV - Wei Ling kung......Page 168
Capitolo XVI - Chi shih......Page 172
Capitolo XVII - Yang Huo......Page 176
Capitolo XVIII - Wei-tzu......Page 180
Capitolo XIX - Tzu-chang......Page 184
Capitolo XX - Yao yüeh......Page 187
Biografia di Mencio......Page 200
Mencio (Meng-tzu)......Page 208
Parte prima......Page 209
Parte seconda......Page 219
Parte prima......Page 230
Parte seconda......Page 239
Parte prima......Page 248
Parte seconda......Page 257
Parte prima......Page 266
Parte seconda......Page 275
Parte prima......Page 284
Parte seconda......Page 294
Parte prima......Page 303
Parte seconda......Page 312
Parte prima......Page 321
Parte seconda......Page 331
Elenco dei nomi citati nelle opere tradotte......Page 356
Indice delle tavole......Page 386

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CLASSICI DELLE RELIGIONI Sezione prima, diretta da OSCAR BOTTO Le religioni orientali Sezione seconda, fondata da PIERO ROSSANO La religione ebraica Sezione terza, diretta da FRANCESCO GABRIELI La religione islamica Sezione quarta, fondata da PIERO ROSSANO La religione cattolica Sezione quinta, fondata da LUIGI FIRPO Le altre confessioni cristiane

CLASSICI DELLE RELIGIONI SEZIONE PRIMA DIRETTA DA

OSCAR BOTTO Le religioni orientali

TESTI CONFUCIANI Traduzione dal cinese di

FAUSTO TOMASSINI Introduzione di

LIONELLO LANCIOTTI UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostinilibri.it ISBN: 978-88-418-9258-9 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 2001 Ristampa - Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28 - 10125 Torino Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.

INDICE DEL VOLUME Introduzione (L. LANCIOTTI) La presente edizione Nota storica Cenni di storia della Cina BIOGRAFIA DI CONFUCIO LA PIETÀ FILIALE (Hsiao Ching) Libro I 1. Introduzione e chiarimento 2. Del Figlio del Cielo Libro II 3. Dei principi feudatari 4. Dei ministri e dei dignitari 5. Dei letterati Libro III 6. Della plebe 7. Delle Tre Potenze Libro IV 8. Del governo per mezzo della pietà filiale Libro V 9. Del governo degli uomini santi Libro VI 10. Espone la condotta filiale 11. Delle cinque pene 12. Sviluppa la Via essenziale Libro VII 13. Sviluppa la somma virtù 14. Sviluppa il tramandare il nome 15. Delle rimostranze e delle censure Libro VIII 16. Del gradimento e delle ricomoense 17. Del servire il principe Libro IX 18. Del lutto per i genitori IL «GRANDE STUDIO» (Ta Hsüeh) Testo di Confucio Commento di Tsêng-Tzu

1. Spiega il far rifulgere la virtù luminosa 2. Spiega il rinnovare il popolo 3. Spiega il permanere nel più alto grado del bene 4. Spiega il principale e l’accessorio 5. Spiega l’ampliare la conoscenza investigando le cose 6. Spiega il rendere sinceri i pensieri 7. Spiega il perfezionare la persona correggendo il cuore 8. Spiega il regolare la famiglia perfezionando la persona 9. Spiega l’ordinare lo stato regolando la famiglia 10. Spiega il pacificare l’impero ordinando lo stato L’INVARIABILE MEZZO (Chung Yung) I DIALOGHI (Lun Yü) Libro I Capitolo I - Hsüeh êrh Capitolo II - Wei chên Libro II Capitolo III - Pa i Capitolo IV - Li jên Libro III Capitolo V - Kung-yeh Ch’ang Capitolo VI - Yung yeh Libro IV Capitolo VII - Shu êrh Capitolo VIII - T’ai-po Libro V Capitolo IX - Tzu han Capitolo X - Hsiang tang Libro VI Capitolo XI - Hsien chin Capitolo XII - Yen Yüang Libro VII Capitolo XIII - Tzu-lu Capitolo XIV - Hsien wên Libro VIII Capitolo XV - Wei Ling kung Capitolo XVI - Chi shih Libro IX

Capitolo XVII - Yang Huo Capitolo XVIII - Wei-tzu Libro X Capitolo XIX - Tzu-chang Capitolo XX - Yao yüeh BIOGRAFIA DI MENCIO MENCIO (Meng-tzu) Libro I - Liang Hui wang Parte prima Parte seconda Libro II - Kung-sun Chou Parte prima Parte seconda Libro III - Têng Wên kung Parte prima Parte seconda Libro IV - Li Lou Parte prima Parte seconda Libro V - Wan Chang Parte prima Parte seconda Libro VI - Kao-tzu Parte prima Parte seconda Libro VII - Chin hsin Parte prima Parte seconda Appendice Elenco dei nomi citati nelle opere tradotte

INTRODUZIONE

Chiunque si accosti alla civiltà cinese, nei suoi aspetti più tradizionali come in quelli moderni, si troverà sempre di fronte al nome di Confucio. Per la Cina tradizionale egli era come una pietra miliare, la prima, da cui partivano varie strade: quella del pensiero, quella delle lettere, quella di un ben preciso sistema politico-sociale. La Cina del xx secolo, agitata nei primi decenni da fermenti sociali e da lotte politiche, iniziò il processo a Confucio e alla sua scuola; lo si volle responsabile di un certo tipo di immobilismo, gli si addossarono tutte le colpe di una situazione di crisi che si era andata maturando nei secoli. Si identificava, a torto, Confucio con i confuciani, dimenticando che i seguaci di una qualsivoglia ideologia, sia essa filosofica o religiosa, non fanno spesso che interpretarla ovverosia adattarla soggettivamente al momento presente se non addirittura deformarla. Nel caso di Confucio, i rappresentanti ufficiali della sua dottrina fra la fine del secolo scorso e gli inizi dell’attuale, se si eccettuano alcuni rari nomi, ripetevano stancamente gli aspetti esteriori del Confucianesimo. Si era assopito lo slancio vitale che pure aveva permesso a tale ideologia di superare abbondantemente due millenni di storia. In realtà Confucio non è un’autentica pietra miliare, né è il responsabile di una cristallizzazione ideologica. Confucio si autodefinì, fissò, per così dire, i limiti della sua predicazione nella celebre frase dei Dialoghi: «Io tramando, non creo». Non ci troviamo, quindi, con Confucio di fronte ad un fondatore di religione e neanche di fronte ad un innovatore di un sistema filosofico. Confucio è, soprattutto, il rappresentante di una particolare forma mentis cinese, per cui paradossalmente si è detto che il Confucianesimo si può considerare preesistente all’apparizione sulla scena storica di Confucio. Se si accetta l’identificazione di un tale personaggio con una certa forma mentis sarà possibile capire l’affermazione di un grande studioso cinese moderno, Ku Chieh-kang (n. 1893), il quale scriveva che «ogni età ha il suo Confucio». Ogni epoca, infatti, ed anche la più recente si è rifatta al suo insegnamento, leggendovi quel che poteva esservi di attuale; ogni lettore della dottrina confuciana ha saputo cogliervi, a diverso livello, con diversa penetrazione, quel che vi era di più o di meno vivo e profondo. La tradizione attribuiva varie opere a Confucio; la critica sinologica moderna nega, sulla base di prove filologiche, la paternità di un solo rigo a Confucio. Ma i libri classici «confuciani» derivano dal suo insegnamento orale o da quello dei suoi discepoli e seguaci. Non sono opere autentiche

filologicamente, ma lo sono a maggior diritto ideologicamente. La raccolta più vicina alla predicazione orale del Maestro sono I Quattro Libri. Di essi mancava, sinora, in Italia una valida traduzione, condotta sui testi originali con grande perizia e dottrina come questa di Fausto Tomassini. La sua pubblicazione coincide con il momento di maggior interesse del pubblico italiano verso la Cina e la sua cultura; riteniamo che fatiche sinologiche come la presente servano a far sì che tale interesse diventi duraturo e non rappresenti un’effimera moda culturale. Il lettore potrà chiedersi come mai I Quattro Libri confuciani appaiono in una collana di Classici delle Religioni, quando, ad una prima lettura, essi si presentano, e non a torto, come dei classici della filosofia. Ma noi, anche nei nostri giudizi, siamo legati a un certo retaggio culturale. Da un lato i primi a parlare della Cina e, quindi, di Confucio furono i missionari ed in particolar modo i Gesuiti; dall’altro i primi ad occuparsi del pensiero cinese furono i filosofi francesi e, non ultimo fra di loro, Voltaire. Fra l’interpretazione di Confucio fatta dai Gesuiti e quella posteriore di Voltaire c’è un filo conduttore. I primi arriveranno a deformare la figura di Confucio sino a farne quasi un pre-cristiano, un saggio od un santo, per citare la definizione di Matteo Ricci (1552-1610): «… da tutti (Confucio) è tenuto e venerato per il più santo huomo che mai fusse nel mondo … in ogni città e scuola, dove si congregano i letterati, per lege antica vi è il tempio del Confutio molto sumptuoso, dove sta la sua statua e il suo nome et titulo; et tutti i novilunij et plenilunij e quattro tempi dell’anno i letterati gli fanno una certa sorte di sacrificio con profumi et animali morti che gli offeriscono, sevene non riconoscono in lui nessuna divinità, né gli chiedono niente. E così non si può chiamare vero sacrificio». Voltaire, nel suo Dizionario filosofico, scrive che Confucio «non faceva il profeta, non sosteneva di essere ispirato, non insegnava una nuova religione, non ricorse mai ai miracoli, non adulò per nulla l’imperatore sotto il quale viveva; si limita a non nominarlo. Egli è infine il solo dei legislatori del mondo che non abbia cercato séguito fra le donne». È un ritratto di Confucio che può derivare sia da una certa ortodossia di tipo confuciano sia dall’interpretazione fattane dai gesuiti, per cui Voltaire poteva arrivare a definirlo con la celebre quartina: De la seule Raison salutaire interprète, sans éblouir le monde éclairant les esprits, il ne parla qu’en sage et jamais en Prophète:

cependant on le crut, et même en son pays.

Il Confucio di Voltaire non è il Confucio storico; è un personaggio simile agli eroi dei suoi romanzi filosofici; ma anche il Confucio dei missionari non è il Confucio storico. Non soltanto «ogni età hà il suo Confucio», ma ognuno se ne fa una sua immagine, spesso di comodo, a sostegno della propria tesi ideologica. Per cui, già in passato, i pensatori taoisti ce ne dettero una deformazione caricaturale, considerandolo come uno che fece autocritica. «Quando Confucio raggiunse i sessant’anni, cambiò opinione. Ciò che egli aveva precedentemente considerato giusto, cominciò a considerarlo sbagliato» (Chuang-tzu, XXVII). Fu denigrato dai pensatori moisti con termini che rasentano l’invettiva: «È forse l’intelligenza di un confuciano superiore a quella di un bambino?» (Mo-tzu, XLVIII). Fu attaccato dai pensatori legalisti, i quali annotarono nel III sec. a. C. che «… i Confuciani sono divisi in otto scuole … ed ognuno di loro si considera l’autentico confuciano …» (Han Feitzu, XLVII). Se ci accostiamo a Confucio ed alla sua predicazione non dovremmo mai esser schiavi di certe categorie o di certe generalizzazioni, ma cerchiamo di arrivare ad una spiegazione logica. In tutta la produzione letteraria cinese è difficile trovare testi autenticamente religiosi, secondo la nostra concezione di religione, eccezion fatta per testi di fedi arrivate in Cina da paesi stranieri, quali, ad esempio, il Buddhismo, il Nestorianesimo, il Manicheismo, lo stesso Cristianesimo, l’Islam. Il pensiero cinese dell’età precedente l’era volgare non è mai espresso in forme che si possono autenticamente definire religiose, ma neanche filosofiche. Si è solito tradurre con «filosofo» il termine tzu che ricorre nel nome di tanti Maestri della Cina antica, come K’ung-fu-tzu, Meng-tzu, Chuang-tzu, Lao-tzu, Mo-tzu e così via. È una traduzione impropria, che forza quello che il vocabolo cinese vuol effettivamente dire; è preferibile renderla con «maestro» o, al limite, «pensatore», ma non come «filosofo». Ognuno dei tanti tzu che andarono predicando negli ultimi quattro secoli avanti l’era volgare in Cina, non può considerarsi un autentico filosofo almeno secondo la nostra concezione di filosofia, né soltanto un pensatore agitato da alcuni problemi filosofici. Le loro opere, siano state esse redatte da loro o dai loro discepoli, affrontano una problematica varia che spazia dall’etica alla politica, dalla religione all’economia politica. Nell’opera della scuola confuciana, come in quella della scuola taoista ed

in quelle delle correnti di pensiero minori, il pensatore esprime la sua dottrina, la sua via al raggiungimento di una comprensione globale; non per nulla in cinese un’unica parola, tao, significa sia dottrina, sia via; in alcune scuole, come quella taoista, arriverà ad essere il primo principio, la summa oppositorum. Non c’era quindi, nella Cina antica una netta distinzione fra religione e filosofia; esisteva la necessità di insegnare, di interpretare i fenomeni del mondo e della società, della comunità e del singolo. In età più moderna la parola chiao, che come significato originario ha quello di «insegnare», è passata, anche, a rendere l’idea di «religione» o di «dottrina». Riteniamo che questo sia sufficiente per autorizzare la pubblicazione dei testi confuciani in una collana di testi religiosi, così come essi potrebbero apparire con lo stesso diritto in una di testi filosofici. Né va dimenticato che, in un breve momento storico, il Confucianesimo fu quasi sul punto di trasformarsi in religione. Nel 58 d. C., infatti, l’imperatore Ming della dinastia degli Han Posteriori decretò che in tutte le scuole dell’impero fossero erette cappelle a Confucio. Nacquero allora molte leggende sulla sua vita ed andò costituendosi una vera e propria agiografia. Un testo Han narra che: «La madre di Confucio, Cheng-tsai, della famiglia Yen, stava oziosa sulla riva di uno stagno quando si addormentò e sognò che l’Imperatore Nero l’aveva invitata a presentarsi da lui. Andata, ebbe un rapporto intimo con lui durante il sogno; egli le disse: “Tu partorirai nel cavo di un gelso”. Svegliatasi, essa provò un malessere. Essa generò Confucio in un luogo chiamato “Gelso Cavo”» (Ch’un-ch’iu yen-k’ung-t’u). In altre leggende posteriori Confucio discenderebbe dal fondatore della seconda dinastia e la sua nascita riecheggia l’eco di alcune storie sulla nascita del Buddha. Si tentò di dare a Confucio un’origine semidivina; sono agiografie, che riappariranno nella religione popolare sincretista cinese degli ultimi secoli, ma che saranno respinte dai confuciani ortodossi. Agli uni e agli altri, però, piacerà il titolo di «re senza corona» che una di tali leggende attribuisce a Confucio. Il tentativo, avvenuto in epoca Han, di trasformare il Confucianesimo in una religione e Confucio in un semidio, non durò molto per il prevalere della corrente razionalista nella scuola confuciana. Ciò non vuol dire, però, che il Confucianesimo fosse antireligioso o, più semplicemente, areligioso. Non mancano, infatti, nei classici confuciani i riferimenti a pratiche religiose. Dai Dialoghi vediamo come Confucio in persona partecipasse a cerimonie sacre, offrisse cibi agli spiriti degli antenati, parlasse del Cielo come

di una superiore entità che regolava la vita degli uomini. Se le citazioni relative al problema religioso in assoluto non ricorrono ad ogni pagina, non vuol dire, però, che Confucio volesse ignorarlo. Si può, invece, affermare che la sua opera modificò grandemente il corso della storia religiosa della Cina. Una frase tipica è la seguente: «Il Maestro non parlava di eventi straordinari e di esseri spirituali» (DI 167); frase che va interpretata come la condanna di una complicata mitologia, come rifiuto di pratiche locali superstiziose, ma non come una professione di ateismo. Analogamente la frase del discepolo Tzu-kung: «È dato di sentire il Maestro parlare del comportamento raffinato e raccolto, ma non è dato di sentirlo parlare della natura umana e della Via del Cielo» (DI 104), non va vista come una non accettazione del problema metafisico, quanto piuttosto come la necessità di regolare la pratica religiosa senza osare di entrare nel merito della «Via del Cielo». Non troviamo, forse, nei Dialoghi frasi di questo tipo: «Solo il Cielo è grande e solo Yao lo imitò» (DI 203); «Colui che offende il Cielo non ha chi pregare» (DI 53); «Ciò che ho fatto di sconveniente, il Cielo lo respinga!» (DI 145); «Il Cielo generò in me la virtù» (DI 169) e altre ancora? Confucio non si cura di precisare chi sia questo Cielo, ma in esso evidentemente ha fede. Indubbiamente l’opera più importante di Confucio in campo religioso fu quella determinata dalla revisione dei primi testi letterari. La religione ufficiale cinese, che impropriamente in età successiva fu talvolta definita confuciana, fu da lui e dalla sua scuola svuotata da elementi troppo irrazionali. Egli non negò l’esistenza del Cielo (T’ien), la suprema divinità uranica, che da demiurgo antropomorfizzato si trasformò in qualcosa di estremamente vago ed impersonale. Di fronte ad una massa di divinità, di culti locali, di credenze mitologiche, egli tentò un’interpretazione evemeristica, lasciando spesso inalterate alcune forme esteriori. Si potrebbe giungere alla conclusione che Confucio vide nella religione più che la salvazione individuale, uno dei mezzi per giungere a porre ordine ad una società in crisi, mediante la regolamentazione dei culti e dei riti. Il rito, il li, si manifesta in forma tradizionale; è una forma di rispetto dell’antico. Bene ha fatto il dottor Fausto Tomassini ad aggiungere alla versione dei Quattro Libri anche il meno noto (in Occidente) classico della Pietà Filiale; perché pietà filiale (hsiao) per i confuciani non era esclusivamente il rispetto degli anziani, ma anche di tutto quanto

culturalmente e socialmente essi potevano rappresentare. Pietà filiale era affermare: «Io tramando, non creo» (DI 148), «Sono uno che ama gli antichi e si sforza di ricercarli» (DI 166). Su questi classici si formarono generazioni e generazioni di cinesi; li commentarono con infinite glosse dall’epoca della dinastia Han all’età moderna. Non c’è opera letteraria o di pensiero che in una certa misura non sia stata da essi influenzata; anche le opere degli avversari, perché si finisce sempre per assimilare qualcosa dalle correnti che si combattono, e ciò specialmente in un paese come la Cina in cui il sincretismo ideologico è un fenomeno spontaneo e sempre ricorrente. La lettura di questi testi, egregiamente tradotti, potrà essere di indubbia utilità per il lettore italiano, anche per quello che volesse interessarsi della Cina moderna; perché non si può comprendere questa, senza un’approfondita conoscenza della Cina di ieri. LIONELLO LANCIOTTI

NOTA BIBLIOGRAFICA I quattro libri COUVREUR Séraphin, Les quatre livres, Cathasia, Paris, (rist.), 1949. LEGGE James, Confucian analects, The great learning, The doctrine of the mean, The works of Mencius, in «The chinese classics» (voll. I e II), Oxford University Press (rist.), s.d. LOKUANG Stanislao, Il grande studio, l’invariabile mezzo, i dialoghi, trad. ital., Ist. Cult. Italocinese, Milano, 1956. La pietà filiale MAKRA Mary Leila, The Hsiao Ching, St. John’s University, New York, 1961. Il grande studio HUGHES E. R., The great learning, New Directions, Norfolk Conn., 1939. L’invariabile mezzo LYALL A. Leonard and KING Chien-kung, The Chung Yung, Longmans, Green, London, New York, 1927. THIEL Friederich, Die Goldene Mitte, Schüler Verlag, Stuttgart, 1950. I dialoghi CASTELLANI Alberto, I dialoghi di Confucio, Sansoni, Firenze, 1942. LIN Yutang, The wisdom of Confucius, The Modern Library, New York, 1943. LYALL A. Leonard, The sayings of Confucius, Longmans, Green, London, New York, 1925. WALEY Arthur, The analects of Confucius, G. Allen and Unwin, London, 1938. WILHELM Richard, Gedanken und Gespräche des Konfuzius, Diederichs, Düsseldorf und Köln, 1955. Mencio GILES Lionel, The book of Mencius (abr.), J. Murray, London, 1942. LYALL A. Leonard, Mencius, Longmans, Green, London, New York, 1932.

Confucio e il confucianesimo CREEL Herrler Gressner, Confucius, the man and the myth, J. Day, New York, 1949. CROW Carl, Master Kung; the story of Confucius, Harper, New York and London, 1938. DEVARANNE Theodor, Konfuzius in aller Welt, J. C. Hinriches, Leipzig, 1929. DO DINH Pierre, Confucius et l’humanisme chinois, Ed. du Seuil, Paris, 1958. ID., Confucio, trad. ital., Mondadori, E.P.M., Milano, 1966. EDWARDS Evangeline Dora, Confucius, Blackie, London and Glasgow, 1940. ETIEMBLE, Confucius, Gallimard, Paris, 1966. ID., Confucio, trad. ital., Dall’Oglio, Milano, 1964. FOL Jean Charles, L’art de gouverner selon Confucius, La Nouv. Edition, Paris, 1947. LANCIOTTI Lionello, Che cosa ha veramente detto Confucio, Ubaldini, Roma. 1968. LESLIE Daniel, Confucius, Ed. Seghers, Paris, 1970. LIU Wu-chi, A short story of confucian philosophy, Penguin Books (Harmonds-worth, Middlesex), 1955. SCHMITT Erich, Konfuzius, sein Leben und seine Lehre, Deutsche Bibl., Berlin, 1926. STARR Frederick, Confucianism, Covici-Friede, New York, 1930. Storia e filosofia della Cina BURROWS Millar, Founders of great religions, Scribner’s, New York, London, 1931. CHOW Yih-ching, La filosofia cinese, Garzanti, Milano, 1958. ERDBERG CONSTEN (von) Eleonor, L’antica Cina, Ed. Primato, Roma, 1959. FILIPPANI RONCONI Pio, Storia del pensiero cinese, Boringhieri, Torino, 1964. FUNG Yu-lan, A history of chinese philosophy, University Press, Princeton, 1952-53. GROUSSET René, Storia dell’arte e della civiltà cinese, trad. ital., Feltrinelli, Milano, 1958. MASPERO Henri et BALAZS Etienne, Histoire et institutions de la Chine ancienne des origines au XII siècle a. J., Presse Universitaire de France, Paris, 1967. MARTINELLI Franco, Storia della Cina, De Vecchi, Milano, 1967. WERNER Eichhorn, Chinese civilisation, Faber and Faber, London, 1969.

LA PRESENTE EDIZIONE 1. L’opera Da secoli viene ristampata in Cina un’opera comunemente detta I Quattro Libri, i quali per i cinesi non hanno bisogno di specificazione poiché essi sono «i» libri, per antonomasia, così come per gli occidentali la Bibbia è «il» libro. Sono questi i libri canonici della scuola confuciana, e cioè Il Grande Studio, L’Invariabile Mezzo, I Dialoghi e Mencio, in cui i seguaci tramandarono il pensiero morale, sociale e politico che il Maestro K’ung (Confucio) elaborò sulla scorta di antichissime fonti e che il suo epigono Meng-tzu (Mencio) ripeté sotto nuova forma. E per secoli, fino alla rivoluzione del 1911, dai «Quattro Libri» innumerevoli generazioni di letterati attinsero la cultura che consentì loro di conseguire i gradi accademici e di accedere alle pubbliche magistrature. La dottrina confuciana, quindi, è interamente racchiusa in quest’opera, e pertanto chi la conosce sa tutto quel che di fondamentale v’è da sapere sull’argomento. È in tale convinzione che mi sono accinto ad offrirne al lettore italiano la traduzione dal cinese, fin qui mancante. M’è sembrato, però, che egli non avrebbe potuto intenderla senza conoscere anche La Pietà Filiale, che ne forma il presupposto e perciò ho tradotto pure questa e l’ho premessa agli altri libri. Con lo stesso intento ho tradotto le biografie di Confucio e di Mencio, integrando le concise memorie cinesi con note più diffuse. Per la traduzione mi sono avvalso delle edizioni Hsiao Ching Chêng Chu (La Pietà Filiale annotata da Chêng) e Szu Shu Chi Chu (Raccolta completa e annotata dei Quattro Libri), che mi hanno offerto, per l’interpretazione dei testi, i commenti classici di Chêng Hsüan (127-200), per La Pietà Filiale, e di Chu Hsi (1130-1200), il grande pensatore neo-confuciano dell’epoca Sung, per I Quattro Libri. La mia versione si è affidata unicamente a costoro, che nelle loro annotazioni condensarono il risultato del secolare studio della dottrina confuciana. Grande uso ho fatto del dizionario enciclopedico cinese Tzu Yüan (Fonte delle parole), dal quale ho tratto la maggior parte delle notizie filologiche, storiche e geografiche che formano oggetto delle mie note ai testi. Mi sono sforzato di seguire il più fedelmente possibile i testi cinesi, ponendo tra parentesi le parole che mi sono sembrate necessarie per completare il discorso italiano. L’unica libertà che mi sono consentita è stata

quella di usare alcuni verbi, come «esclamò, soggiunse, ammonì» e simili in sostituzione dell’unico verbo «disse» usato dagli autori. Di molte questioni storiche, riguardanti personaggi ed avvenimenti di cui si discorre nell’opera, avrei dovuto parlare nelle disperse note, con il risultato di creare una grande confusione nella testa del lettore. Ho preferito, perciò, riunire ordinatamente quelle notizie nei «Cenni storici», che precedono la traduzione, in modo che i fatti e le persone risultino collocati al loro giusto posto nel quadro storico. In appendice ho poi riportato i nomi citati nell’opera, con brevi note esplicative e riferimento ai testi. 2. Pronuncia delle parole cinesi La lingua cinese è monosillabica. La regola con cui, per convenzione ormai prevalente, i suoni della lingua cinese sono resi in caratteri latini può essere così enunciata: vocali italiane, consonanti inglesi. Le vocali, quindi, si leggono alla maniera italiana. Aggiungo alcuni cenni di chiarimento: — alle vocali della nostra lingua deve aggiungersi la ü, con la pronuncia della vocale tedesca, — sono caratteristici della lingua cinese i suoni vocalici ài, éi, ào, òu, che non sono considerati dittonghi e conservano sempre l’accento indicato, — i dittonghi sono formati dall’unione delle vocali i, u, ü con tutte le altre vocali e suoni vocalici: nei dittonghi così composti l’accento cade sempre sulla seconda vocale o suono vocalico (es.: huà, tuàrr, kuài, tiào, lüèh), — il gruppo ih è convenzionalmente posposto a talune consonanti che si pronunciano senza ausilio vocalico (vedi appresso), — in principio di parola le vocali u, i, ü, quando formano dittongo, vengono rispettivamente scritte w e y alla maniera inglese (es.: wang = uàng, yin = iìn, yüan = üàn). Le consonanti devono essere pronunciate secondo le regole della lingua inglese. Su di esse, in particolare, si può osservare: — l’apostrofo (es.: t’ang) indica che la consonante è espirata, cioè si pronuncia mentre si emette il fiato, così che essa acquista un suono più deciso, — la h al principio di sillaba ha un suono fortemente aspirato, — le consonanti ch, ch’ si pronunciano c, come in Cina, solo davanti

alle vocali i e ü. Per la pronuncia davanti alle altre vocali vedi appresso, — la consonante hs indica il suono sc, come in scena (es.: hsüan = = sciüàn), — i suoni più difficili da pronunciarsi sono quelli resi con le consonanti ch, ch’ (davanti a vocali diverse da i e ü), sh e j. Queste consonanti hanno un suono fortemente palatale, che si ottiene appoggiando la lingua al palato e facendo esplodere il fiato mentre si pronuncia il suono inglese relativo, — altra grossa difficoltà sta nel fatto che i cinesi riescono a pronunciare alcune consonanti senza il confortevole ausilio di una vocale. Il suono di queste consonanti, secondo la convenzione di cui ho parlato, viene rappresentato come segue: è scritto chih, ch’ih, shih, jih, e si legge ch, ch’, sh, j; è scritto tzu, tz’u, szu e si legge tz, tz’, sz. Vista la difficoltà dell’impresa, consiglio al lettore che non ha l’esigenza di una corretta pronuncia pechinese di leggere alla semplice maniera inglese le consonanti indicate negli ultimi due paragrafi, lasciando le finezze fonetiche ai cultori della lingua cinese. 3. I nomi delle persone I nomi delle persone sono generalmente formati da tre sillabe, raramente da due o da quattro. Il primo gruppo di sillabe indica il cognome (hsing), per lo più monosillabico, ma talvolta bisillabico e perfino polisillabico, il secondo gruppo indica il nome. I nomi di una persona sono almeno due: l’uno, il «nome dato» (ming), è quello che le viene imposto alla nascita, l’altro, il «nome proprio» o ufficiale (tzu), è quello che assume alla maggiore età. Il ming di Confucio, ad esempio, era Ch’iu, mentre il suo tzu era Chung-ni. Secondo l’antica etichetta, il nome dato era usato dai genitori, dal maestro e, in generale, dai più anziani e dai superiori; il nome proprio era comunemente usato da tutti come designazione ufficiale della persona. Pertanto il lettore non si meravigli nel constatare che, nei discorsi, un personaggio è talvolta nominato in due modi diversi. L’etichetta imponeva anche di evitare l’uso dei pronomi «io» e «tu». Perciò i discorsi si svolgevano in terza persona: gli interlocutori, invece di dire «io», in segno di umiltà pronunciavano il loro nome dato, come davanti ad un maestro o un superiore, o altri appellativi denotanti una posizione inferiore,

mentre in luogo del «tu» facevano cortesemente ricorso a vari appellativi, tutti indicanti una posizione superiore. Nella traduzione ho per lo più evitato questa costruzione che, essendo a noi estranea, a lungo andare può rendere fastidioso il discorso. Nei nomi, poi, s’incontra spesso il suffisso tzu, che si aggiunge al gruppo cognome-nome per arrotondarne le sillabe al numero armonioso di tre (es.: Chi K’ang = Chi K’ang-tzu), o al cognome (es.: K’ung = K’ung-tzu) con il significato di «filosofo», «maestro». 4. Citazioni e riferimenti Le citazioni che più spesso ricorrono nell’opera sono quelle del Libro delle Odi (diviso in sezioni e odi) e del Libro dei Documenti (diviso in libri e capitoli). Per coloro a cui può interessare, i passi da cui le citazioni sono tratte sono indicati con tre numeri (es. I, 1, 1), il primo dei quali riguarda rispettivamente la sezione o il libro, il secondo l’ode o il capitolo, il terzo la stanza o il paragrafo. I riferimenti ad altri passi dell’opera sono indicati da una sigla e un numero. Il numero è quello del paragrafo: a tale scopo ho provveduto a numerare anche i Cenni storici e le Biografie, mentre ai Dialoghi e a Mencio ho attribuito, diversamente da altri traduttori, una numerazione continua senza tener conto della divisione in capitoli. Le sigle sono le seguenti: CS BC PF GS IM DI BM ME

Cenni storici Biografia di Confucio La Pietà Filiale Il Grande Studio L’Invariabile Mezzo I Dialoghi Biografia di Mencio Mencio

NOTA STORICA CONFUCIO E MENCIO. IL CONFUCIANESIMO. Confucio (551-479 a. C.) è uno di quegli uomini illuminati che, quasi contemporaneamente, intorno al v secolo prima della nostra era, apparvero in varie parti del mondo a guida della civiltà umana, improntando di sé e delle loro idee la vita dei posteri fino ai nostri giorni. Per quanto riguarda Confucio, tale risultato egli ottenne col farsi interprete di quella parte dell’animo del suo popolo che aspirava alla concretezza, all’ordine, alla moralità dei rapporti umani, raccogliendo in una dottrina unitaria le tradizioni degli avi, che così poterono essere trasmesse alle generazioni successive. Fu un pensatore e un maestro che non intese fondare un sistema filosofico, bensì volle richiamare nella sua epoca decadente le virtù morali dei santi uomini dell’aureo tempo antico, che avevano posto le basi della civiltà cinese, e di stimolarne l’esercizio pratico nella vita individuale, sociale e politica. «Io tramando, non creo» (DI 148) — egli disse di sé. — «Sono uno che ama gli antichi e si sforza di ricercarli» (DI 166). Non si preoccupò di costringere in ben congegnate opere il suo insegnamento orale, il quale è pervenuto a noi grazie alla diligenza dei suoi discepoli o dei discepoli dei suoi discepoli, che con amore e rispetto raccolsero le sue parole negli scritti e le tramandarono. La sua attività di scrittore può dirsi limitata alla compilazione di un’opera storica, gli annali Primavera ed Autunno, di cui peraltro la critica moderna non gli riconosce la paternità, mentre grande impegno dedicò alla raccolta e all’edizione delle vestigia dell’antica civiltà cinese, quali le Odi e i Documenti. Se raramente fu al governo, attività questa che, da buon letterato del suo tempo, considerava la più appropriata all’uomo di cultura, ciò si deve soprattutto all’insofferenza dei principi della sua corrotta generazione di tenersi al fianco un ministro che, come lui, avrebbe censurato le loro licenze. Credente nel Dio degli avi e profondamente religioso, non formulò una teologia, o almeno, se ciò fece, essa non fu tramandata. Qualcuno dei suoi discepoli, infatti, lamentava che il Maestro non parlasse mai della Via del Cielo, ma egli diceva: «A chi è al disopra dell’uomo mediocre si può rivelare alti princìpi, a chi è al disotto dell’uomo mediocre non si può rivelare alti princìpi» (DI 138). Questa frase, a mio parere, ci lascia intravedere che forse la religione, fra gli altri princìpi elevati, formò oggetto di un insegnamento esoterico che egli impartì a quei discepoli che ritenne degni di riceverlo.

In vita fu illustre e godé di grande prestigio, ma non riuscì a riformare i costumi della sua generazione, la quale nello smarrimento dei valori morali che s’accompagnava alla decadenza della dinastia Chou, che in seguito avrebbe portato alla rovina le generazioni ad essa successive, era lontana tanto dal governo illuminato degli antichi saggi quanto dal nuovo ordine che qualche secolo più tardi doveva essere instaurato, appunto sui princìpi confuciani, dalla dinastia Han. Intorno a lui si raccolse una folla di giovani e di non giovani che, attirati dalla sua sapienza e dalla sua affabilità, si fecero suoi discepoli. Le loro figure balzano fuori da I Dialoghi con vividi contorni: Tsêng Ts’an, che conobbe più intimamente il suo pensiero e più d’ogni altro lo diffuse con gli scritti; Yen Hui, il discepolo virtuosissimo e dilettissimo che morì quando egli era ancora in vita; il gentile e filiale Min Tzu-chien; l’ardito ma rozzo Tzu-lu, abile amministratore al pari del suo condiscepolo Jan Yu; i distinti letterati Tzu-yu e Tzu-hsia; gli eloquenti Tsai Wo e Tzu-kung; i virtuosi Jan Po-niu e Chungkung; l’onesto e schietto Tzu-kung; lo specioso Tzu-chang; ed altri ed altri ancora che qui non sto a nominare. Suo discepolo per quinta generazione, come egli stesso amò definirsi, fu Mencio (372-289 a. C.), che visse nella tanto più turbinosa epoca dei «Regni Combattenti». Mencio non radunò gran numero di discepoli poiché, nell’anarchia che sommergeva l’Impero del Mezzo, poco agio egli ebbe, o voglia, di dedicarsi all’insegnamento ma preferì entrare nel vivo della politica, propugnando l’attualità della Via dei santi sovrani Yao e Shun quale sistema di governo che riportasse la pace e l’ordine nell’impero. Infervorato di questa missione, nel clima di corruzione, d’intrigo e di violenza in cui allora si viveva egli si presenta alla corte dei potenti non tanto per propalare una dottrina quanto per far accettare la sua dottrina, forte dei princìpi di carità e di giustizia, quale mite strumento atto a risolvere i problemi dell’epoca, che l’uso feroce delle armi mostrava di non poter risolvere. Più che un maestro, quindi, egli fu un uomo politico, sia che avesse una carica di governo, sia che si tenesse accanto ai principi feudatari come consigliere. La sua grande aspirazione, se uno di costoro egli avesse trovato capace di tanto, era di dare un uomo all’impero, cioè di formare col suo insegnamento un principe che, superate le sue egoistiche ambizioni, da vero sovrano, non da conquistatore, avesse assunto su di sé il pesante compito di restaurare la pace fra gli stati, guadagnandosi il trono imperiale non con la

forza delle armi bensì per il voto dei popoli attratti dalle sue virtù. Se egli fallì nell’impresa fu perché il Cielo, come egli disse, non voleva ancora riordinare e pacificare l’impero. Dall’insegnamento di questi due saggi ebbe origine il successo di talune idee, già preesistenti nelle fonti scritte e tradizionali, che, raccolte dalla scuola confuciana in armonioso contesto, si posero come norma dei governanti e degli amministratori della cosa pubblica. Dagli antichissimi testi degli Shu (Documenti), delle Shih (Odi), delle I (Mutazioni), la scuola confuciana seppe enucleare gli elementi che ad essa erano congeniali e che costituirono le caratteristiche della sua dottrina, tra cui la religiosità, la morale, la carità, l’arte del governo. Ma il confucianesimo non soddisfaceva che una faccia della psiche umana. A soddisfare la faccia opposta sorse, contemporaneamente alla scuola confuciana, un’altra grande corrente di pensiero promossa da Lao-tzu, detta taoista, che perdurò quanto quella, contendendole l’animo del popolo nerochiomato. Lao-tzu domina nella metafisica, Confucio nella politica; Lao-tzu è portato a speculare sull’origine e le trasformazioni dell’essere, Confucio a ricercare il perfezionamento dell’uomo ai fini della sua felicità; Lao-tzu è il patrono di ogni manifestazione della fantasia, Confucio di ogni attività socialmente vantaggiosa. Anche il taoismo attinse alle stesse fonti del confucianesimo, delle quali colse aspetti da questo tralasciati o interpretò i medesimi elementi in modo diverso; ma in più si rifece ad alcuni filoni di idee meno ortodosse, ad esempio quelle appartenenti al mondo meraviglioso della magia, che si rendono patenti non tanto in Lao-tzu quanto nei suoi massimi seguaci Lieh-tzu e Chuang-tzu. Secondo questa scuola la perfezione del Tao (da taluni equiparato al logos, alla Ragione Suprema) sta nella sua immaterialità, incorporeità, immobilità, inerzia, impassibilità, mentre è imperfetto il mondo fenomenico che è materiale, corporeo, mobile, attivo, emotivo. Ne consegue che per la dottrina taoista l’uomo può tendere alla perfezione col possesso del Tao, cioè spogliandosi delle sue passioni, anche le più benefiche, e quasi del suo corpo, ottenebrando la sua mente in un’atarassia sovrumana e perciò disumana. «Il Cielo e la Terra non usan carità: tengon le creature per cani di paglia — dice Lao-tzu. — Il santo non usa carità: tiene i cento cognomi (cioè il popolo) per cani di paglia» (TTC 5)1. L’atteggiamento della scuola confuciana è del tutto opposto. Per essa il perfezionamento della propria persona è mezzo per il perfezionamento

universale: se l’uomo dà inizio al proprio perfezionamento alla fine può giungere a pacificare l’impero (vedi GS), così come una via che conduce lontano parte da vicino e una via che conduce verso l’alto comincia dal basso (IM 15). La morale confuciana, perciò, è una morale attiva che propugna lotta e sforzo e azione (lo stesso studio non è concepito se non come attuazione dell’apprendimento), con cui la persona perviene all’armonia interiore e, proiettando la sua nel mondo, all’armonia di tutti gli esseri. Questo per il confuciano è carità. «Dal Figlio del Cielo all’ultimo del popolo, per tutti il principale è perfezionare la propria persona», conclude Confucio (vedi GS). Per raggiungere la perfezione l’uomo ha una norma: quella del Cielo. «Chi non conosce i decreti del Cielo — dice Confucio (DI 499) — non ha nulla per esser saggio». Ha anche un mezzo: la sua natura, che partecipa della divinità. «Conoscendo la sua natura l’uomo conosce il Cielo», sostiene Mencio (ME 178), per il quale la natura umana è originariamente buona: se l’uomo commette il male è perché la qualità vera della sua natura viene obliterata. Ma, anche così, è nelle sue possibilità restaurare la bontà di questa sua natura per vincere la tendenza al male. «La volontà è suprema — dice egli ancora — lo spirito vitale (cioè gli istinti, le passioni) subordinato» (ME 25). In effetti, afferma il confucianesimo, l’intelligenza a cui si perviene dalla sincerità è dono divino, la sincerità a cui si perviene dall’intelligenza è da ascriversi all’istruzione (IM 21): in un modo o nell’altro, quindi, chi essendone beneficato dal Cielo, chi conquistandola con lo studio, a tutti è dato di pervenire alla sincerità, cioè alla genuina celestialità della natura umana. La sincerità, infatti, è la Via del Cielo, tendere alla sincerità è la Via dell’uomo (IM 20). Perciò l’uomo è perfetto quando è capace di modellarsi sul Cielo. «Solo il Cielo è grande e solo Yao lo imitò», dice Confucio del santo sovrano (DI 203). Il contrasto fra confucianesimo e taoismo è tutto qui. Per il confuciano il caritatevole che ha raggiunto la perfezione se ne fa uno strumento per agire nel mondo; per il taoista l’uomo santo che ha raggiunto la perfezione del Tao si astiene dall’agire, al pari di quello, per tema di interferire nella spontaneità delle creature. Questa fondamentale diversità delle due scuole nella morale comporta necessariamente due opposti atteggiamenti nella politica. Secondo Lao-tzu «in antico chi ben praticava il Tao con esso non rendeva il popolo intelligente, ma si sforzava di renderlo stolto. Il popolo difficilmente si governa quando la sua sapienza è troppa» (TTC 65). Il saggio governante,

ascetico imitatore del Tao, disprezza onori e ricchezze e, per dispensare benessere e tranquillità, col governo «svuota il cuore del popolo e riempie il suo ventre, indebolisce la sua volontà e rafforza le sue ossa, sempre fa sì che il popolo non abbia scienza né brama e che colui che sa non osi agire» (TTC 3). Ma, soprattutto, per la scuola taoista nel governo deve essere evitata l’imperfezione che è inerente all’essere attivi, poiché essa reca grave intralcio allo spontaneo condursi del popolo. «Perciò il santo dice: io non agisco e il popolo da sé si trasforma, io amo la quiete e il popolo da sé si corregge, io non imprendo e il popolo da sé si arricchisce, io non bramo e il popolo da sé si rende semplice» (TTC 57). Così si chiude, con l’unirsi dei due archi della morale e della politica, il cerchio umano del sistema taoista, di cui, se in qualche modo possiamo apprezzare l’ascetica entro i limiti dell’individuo, non possiamo certamente accettare la pratica, che soffoca ogni attività organizzata intesa a spingere l’umanità sulla via del civile progresso. Per la scuola confuciana, invece, la politica è una forma di azione eminentemente morale. «L’arte del governo consiste nel guadagnarsi gli uomini, nell’attirare i ministri con le qualità della propria persona, nel perfezionare la propria persona con la Via, nel perfezionare la Via con la carità» (IM 20). Essa ha delle attinenze anche con la religione: le tre Potenze, Cielo Terra e Uomo, sono strettamente collegate tra loro e l’attività di ciascuna si ripercuote sulle altre, rafforzando la comune armonia o apportandovi il turbamento. Così la prosperità o la decadenza della persona e della comunità consegue dall’osservanza o inosservanza dei precetti divini, giacché il Cielo castiga i trasgressori sia come individui che come popolo. Ovviamente quelli che maggiormente cadono sotto la sua attenzione sono gli atti del sovrano, suo figlio e rappresentante, cui conferisce o toglie il mandato e che benedice con la prosperità o punisce con lo sconvolgimento dell’ordine naturale, a seconda che costui segua o contrasti il modello che esso gli offre. Il principe pertanto deve essere un saggio (all’epoca l’espressione chün-tzu significava tanto «principe» che «saggio»), cioè deve conoscere la Via e i precetti del Cielo per uniformarvisi ed attuarli nel mondo ai fini dell’umana felicità. Egli già governa per il solo fatto di essere saggio, giacché chi governa con la virtù è paragonabile alla stella polare, che resta immobile al suo posto mentre tutte le altre le ruotano intorno (DI 17). Se egli possiede la virtù, l’elevazione del popolo segue di necessità. Infatti, quando il principe è caritatevole tutti sono caritatevoli, quando il principe è giusto tutti sono giusti

(ME 94), poiché la virtù del saggio è il vento, la virtù dell’uomo comune è l’erba: quando sull’erba trascorre il vento, l’erba certamente si piega (DI 297). In una siffatta visione della politica il governare è quasi una cosa sacra. Al discepolo Chung-kung che l’interrogava sulla carità, il Maestro tra l’altro disse: «Comanda al popolo come se offrissi il grande sacrificio» (DI 280). A Tzu-chang, che gli chiedeva del governo, rispose: «Abbilo a cuore senza mai deflettere. Portalo innanzi con lealtà» (DI 292). E a Tzu-lu che gli poneva la stessa domanda: «Precedi il popolo con l’esempio e affaticati per lui. Non stancarti mai» (DI 303). Non sembri al lettore che, dovendosi qui parlare di confucianesimo, sia stato superfluo il confronto che ho fatto tra questa dottrina e quella taoista, perché, se son riuscito nel mio intento, proprio da questo confronto gli risulterà chiara la ragione per cui la scuola confuciana prevalse storicamente su quella taoista nella vita pubblica dell’Impero del Mezzo e il motivo per cui, nei rari periodi di prevalenza della dottrina taoista, portata alla ribalta della politica da qualche sovrano seguace della setta, la vita pubblica dell’impero stesso non fu né ordinata né florida. Un discorso analogo ai precedenti può farsi per quel che riguarda la religione. Ecco come ci descrive la tradizione religiosa cinese il gesuita Matteo Ricci, il primo missionario che nello scorcio del XVII secolo riuscì ad entrare e ad insediarsi nel chiuso mondo dell’impero cinese: «Di tutte le gentilità venute a notizia della nostra Europa non so di nessuna che avesse manco errori intorno alle cose della religione di quello che ebbe la Cina nella sua prima antichità. Perciocché ritruovo ne’ suoi libri che sempre adororno un suppremo nume, che chiamano Re del Cielo, o Cielo e terra, parendo forse a loro che il cielo e la terra erano una cosa animata e che con il suppremo nume, come sua anima, facevano un corpo vivo. Veneravano anche varij spiriti protectori de’ monti, e de’ fiumi, e di tutte le quattro parti del mondo. Fecero sempre molto caso di seguire in tutte le loro opere il dettame della ragione che dicevano avere ricevuta dal Cielo, e mai credettero del Re del Cielo e degli altri spiriti, suoi ministri, cose tanto sconcie, quanto credettero i nostri Romani, i Greci, gli Egittij et altre strane nazioni»2. Così era l’antica venerazione per la divinità, venerazione che, pur sentita senza dubbio in modo vivo e profondo, rimase tuttavia senza alcuna formulazione filosofica per la ragione che in Cina nessuno vi fu che scrisse un Fedone o una Summa Theologiae. In Lao-tzu, che partecipava delle stesse

tradizioni di Confucio, non v’è alcun atteggiamento che possa dirsi veramente religioso: l’unica volta in cui egli accenna alla divinità è per dire che il Tao «pare anteriore all’Imperatore del Cielo» (TTC 4). Evidentemente, per costruire la sua dottrina egli non ritiene di doversi interessare alle credenze degli avi, che invece furono rispettosamente recepite dal confucianesimo. Lo stesso Matteo Ricci così ci descrive la religiosità dei confuciani: «Quella de’ letterati è la propria antica della Cina, e per questo sempre hebbe et ha oggidì il governo di essa nelle mani; per questo è quella che più fiorisce, tiene più libri et è più stimata. Questa legge (cioè religione) pigliano loro non per elettione, ma con lo studio delle lettere la bevono, e nessuno graduato né magistrato lascia di professarla. Il suo autore o restauratore e capo è il Confuzo, del quale parlai sopra. Questa legge non tiene idoli, ma solo riverisce il Cielo e la terra o il Re del cielo, come habbiamo già detto, per parergli che governa e sostenta tutte queste cose inferiori. Riverisce anco altri spiriti, ma non gli danno tanto potere quanto danno al Signore del cielo. «I veri letterati niente parlano di quando fu creato questo mondo, né da chi, né come hebbe il suo principio… In questa legge si parla del castigo divino e del premio che hanno da ricevere i cattivi et i buoni; ma il più commune è pensare che ha d’essere in questa vita: o nella stessa persona degli autori del bene e del male, o ne’ suoi discendenti. «Della immortalità dell’anima pare che gli antichi dubitassero manco, anzi derono ad intendere che vivevano molti anni doppo la morte là nel cielo, ma non parlorno punto di stare alcuno nell’inferno. Solo i letterati di questo tempo estinsero a fatto l’anima doppo la morte, et non credono né paradiso né inferno nell’altra vita… «I letterati, sebene ricognoscono questo suppremo nume del Cielo, non gli fanno però nessun tempio, né gli hanno diputato nessun luogo per adorarlo; e per il conseguente non hanno sacerdoti, né ministri della religione, né riti solenni per guardarsi da tutti, né precetti o comandamenti dati per osservare, né prelato che habbi il carico di dichiarare, promulgare la loro dottrina, o castigare quei che fanno qualche cosa contra essa; per questo mai recitano niente né in commune né in particulare». In realtà, e il Ricci non manca di accennarvi, la religione cinese aveva un sacerdote, unico e sommo: il sovrano, Figlio del Cielo, rappresentante del Cielo presso il popolo e del popolo verso il Cielo, il quale gli offriva in sacrificio gli animali e i frutti stagionali. «Col rituale dei sacrifici al Cielo e alla Terra rendevano omaggio al Dio Supremo — dice Tzu-szu — col rituale

del tempio ancestrale sacrificavano ai propri antenati» (IM 19). Questa religione era intimamente e sinceramente sentita da Confucio, che secondo il Ricci ne fu il restauratore: ne fanno fede tutti i testi confuciani, che testimoniano del suo frequente riferirsi al Cielo, di cui egli avvertiva la presenza costante nelle cose del mondo. Rispettosamente mutava espressione per un improvviso scoppio di tuono o per un violento colpo di vento (DI 251), manifestazioni dell’attività del Cielo. Del quale solo a cinquant’anni comprese i decreti (DI 20), che il saggio deve attendere con calma lasciando all’uomo volgare il camminare sull’orlo dei precipizi per procacciarsi la fortuna (IM 14). «Chi mi conosce è il Cielo», diceva (DI 369). E quando un nemico tentò di ucciderlo, in esso ripose tutta la sua fiducia: «Il Cielo generò in me la virtù. Che mi può fare Huang Tui?» (DI 169). Mencio ci riferisce (ME 130) che il Maestro diceva: «C’è il decreto del Cielo», sia che gli fosse consentito sia che gli fosse impedito di accedere alle pubbliche magistrature. Da povero essere umano però, pur riconoscendo la giustezza dei decreti del Cielo, egli li temeva e se ne doleva quando lo colpivano nei suoi affetti: «Il Cielo mi annienta!», gridò (DI 261) allorché il discepolo prediletto gli fu tolto da una morte prematura. Ad un cortigiano intrigante, poi, disse una frase che può considerarsi la più espressiva del suo sentimento religioso: «Colui che offende il Cielo non ha chi pregare» (DI 181). Queste, in una rapida escursione, le idee che costituirono la forza del confucianesimo. L’escursione, oltre che rapida, è incompleta, poiché in questi pochi cenni ho voluto indicare al lettore solo le ragioni per cui nei millenni il confucianesimo fu assunto come filosofia e norma di governo di una grande civiltà. Non ho parlato, infatti, della giustizia, che è la versione cinese del cuique suum tribuere, né dei riti, mediante i quali il confuciano attua la giustizia col dovuto rispetto sia verso il Cielo che verso gli uomini. Non ho parlato di quella massima, fondamentale nella convivenza sociale, «non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te stesso», che sembra tolta dal Vangelo e invece era sulla bocca dei confuciani cinquecento anni prima di Cristo. Il mio intento, nello scrivere queste note, è stato quello che ho detto sopra e non quello di fornire al lettore un’interpretazione bell’e pronta della filosofia confuciana. Mi riterrei compensato della mia fatica di traduttore se il lettore, pervenuto alla fine delle pagine che seguono, meditandovi su giungesse ad una sua libera, personale, intima comprensione del pensiero di Confucio.

1. La citazione, come quelle che seguono, è tratta dal volume attribuito a Lao-tzu, il Tao Tê Ching (Il Libro del Tao e della Virtù), qui indicato con la sigla TTC. La versione italiana delle citazioni è frutto di una mia prima traduzione di quel volume, versione che mi riservo di precisare meglio in una futura mia opera sui testi del taoismo. 2. Pasquale M. D’ELIA, Fonti Ricciane, Libreria dello Stato, Roma, 1942, vol. I. pp. 108-109. Per la citazione seguente vedi pp. 115-117 dello stesso volume.

CENNI DI STORIA DELLA CINA

FINO ALLA CADUTA DELLA DINASTIA CHOU CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AI PERSONAGGI ED AGLI AVVENIMENTI DI CUI SI DISCORRE NELLE OPERE TRADOTTE

In questi Cenni è riportata la storia della Cina nella elaborazione degli antichi storici cinesi, che sola consente di intendere i testi confuciani, in cui personaggi ed avvenimenti sono assunti secondo le conoscenze dell’epoca. Tale storia è il risultato del lavoro degli studiosi delle epoche Chou e Han, i quali, utilizzando il materiale di cronache, tradizioni e leggende, e formando cronologie non sempre esatte e concordi, si sforzarono di ricostruire l’evoluzione dell’antica Cina, risalendo fino al XXIX secolo avanti Cristo. La storiografia moderna, però, in mancanza, di documenti certi non riconosce quanto è narrato dei più lontani secoli di quel periodo, sicché fa risalire l’inizio dei tempi storici, allo stato attuale delle conoscenze, non oltre il XV secolo avanti Cristo. Il periodo predinastico 1. Il primo dei mitici sovrani che viene comunemente ricordato è Fu HSI (2852 a. C.), al quale, si dice, apparve emergente dal fiume un mostro dalla testa di drago e il corpo di cavallo, che recava disegnato sul dorso un diagramma, dal quale egli trasse gli otto trigrammi, oggetto dell’I Ching (Libro delle Mutazioni). Insegnò la caccia, la pesca e l’allevamento del bestiame, inventò la scrittura ed istituì il matrimonio. 2. Gli successe SHÊNG NUNG (2737), il Divino Agricoltore, che inventò l’aratro, insegnò a coltivare la terra e a raccogliere le erbe medicinali, e quindi HUANG TI (2697), l’Imperatore Giallo, che inventò le cinque note musicali, le armi, il carro e il battello, mentre sua moglie Lei Tsu insegnava ad allevare il baco e a tessere la seta. Sotto il suo regno apparve la fenice, fausto segno che sul trono sedeva un saggio e che nell’impero prevalevano i retti princìpi. Fu Hsi, Shêng Nung e Huang Ti sono detti i «Tre Augusti». 3. Seguirono il figlio di Huang Ti, SHAO HAO (2597), sotto il quale apparve di nuovo la fenice, CHUAN Hsü (2513), nipote di Huang Ti, celebrato per la pietà e noto per l’invenzione del calendario, TI KOU (2435), nipote di Chuan Hsü, che ebbe quattro figli, due dei quali, Ch’ih e Yao, gli successero e gli altri, Hsieh e Ch’i, furono i capostipiti di due delle dinastie future. A Ti Kou successe, come detto, TI CH’IH (2365), che fu presto deposto. 4. Nel 2357 a. C., secondo le istorie cinesi, salì sul trono l’altro figlio di Ti Kou, YAO, che sembra avesse nome Fan-hsü, con la designazione dinastica di

T’ang. È questi il più celebrato degli antichi imperatori per la pietà, la sapienza e la maestà. Frugalissimo nel mangiare, nel vestire e nella dimora, era massimamente sollecito per i bisogni del popolo e specialmente dei vecchi. Fu il legislatore dell’antichità. Sotto il suo regno si ebbe il diluvio durato nove anni, che sommerse le terre dell’impero. Yao prepose alle opere di prosciugamento il ministro Kun, che poi Shun imprigionò fino alla morte per la negligenza dimostrata. Il compito fu portato a termine da Yü, figlio di Kun, che, scavando canali e costruendo argini, condusse le acque a confluire nel mare: si dice che in otto anni passò tre volte davanti alla sua casa senza entrarvi. Yao investì i fratelli e il ministro di feudi, rispettivamente detti: Hsia, nell’odierno Shansi, quello di Yü; Shang, nel Honan, quello di Hsieh; Tai, nello Shensi, quello di Ch’i (Hou Chi). Questi tre furono i capostipiti delle Tre Dinastie (Hsia, Shang e Chou). Yao regnò per quasi cento anni, negli ultimi ventotto dei quali, a causa della sua tarda età, assunse Shun a collega nell’impero, preferendolo al proprio figlio Tan-chu, e gli lasciò ogni responsabilità di governo, praticamente abdicando a suo favore. 5. La fama delle virtù di Shun era giunta fino a Yao dalla regione che oggi si denomina Shansi, dove, sul monte Li, Shun, di origine principesca, viveva facendo il contadino: sin da allora l’imperatore, per metterlo alla prova, gli aveva dato in mogli le sue due figlie e mandato i suoi nove figli ad aiutarlo. Perduta la madre in tenera età, era cresciuto malvisto dalla nuova famiglia che il padre si era formata: fu perseguitato dall’odio di Ku-sou, suo padre, e del fratellastro Hsiang, che più volte tentarono di ucciderlo. Alla fine egli seppe riconciliarsi i congiunti con la sua pietà filiale. Quando Shun non aveva ancora trent’anni, Yao lo mandò a chiamare, lo innalzò presso di sé ed infine lo designò suo successore. Disse: «Vieni, o Shun. Per tre anni ti ho consultato negli affari ed ho esaminato le tue parole: le tue parole possono essere messe in pratica. Ascendi al trono». Il Cielo gradì la designazione e la gradì il popolo. Alla morte di Yao, quindi, per il quale il popolo osservò il lutto triennale come per il padre, salì sul trono SHUN (2255), la cui designazione dinastica fu Yü. Creò la famosa musica shao, si circondò di uomini sapienti ed ebbe gran cura dei vecchi. Molti stati barbari, attratti dal suo governo caritatevole, gli si sottomisero e durante il suo regno apparve di nuovo la fenice. Ebbe cinque ministri: Yü, già ministro dei lavori sotto Yao, come primo ministro; Ch’i, fratello di Yao, all’agricoltura, magistratura nella quale tanto si distinse che,

per antonomasia, fu poi chiamato Hou Chi (ministro dell’agricoltura); Kao Yao alla giustizia; Sui alle opere pubbliche; Hsieh all’istruzione. Un altro suo collaboratore fu I, che incaricò di sovrintendere alla flora e alla fauna. Visse piamente centodieci anni. Designò suo successore l’abile ministro Yü, che per diciassette anni gli era stato collega nell’impero, non ritenendo suo figlio Shang-chün capace di continuare degnamente la sua opera. Shao Hao, Chuan Hsü, Ti Kou, Yao e Shun sono detti i «Cinque Imperatori». I tre Augusti e i cinque Imperatori (a fianco è indicato l’anno di accessione al trono) 1 Fu Hsi 2 Shêng Nung 3 Huang Ti

2852 2737 2697

1 Shao Hao 2 Chuan Hsü 3 Ti Kou  (Ti Ch’ih) 4 Yao 5 Shun

2597 2513 2435 2365 2357 2255

La dinastia Hsia 6. Quando Yü, detto il Grande, discendente per quinta generazione dell’imperatore Chuan Hsü, salì sul trono (2205 a. C.) era un vecchio nonagenario. Vi rimase per otto anni, mostrando la saggezza ed abilità di cui aveva dato prova come ministro di Yao e di Shun. Designò a succedergli l’illuminato ministro I, ma, quando egli morì, il popolo rivolse il favore a Chi, suo figlio, in cui vedeva un degno continuatore del suo saggio reggimento.

Genealogia delle tre Dinastie e di Confucio

Da allora in poi la successione al trono imperiale, che da Yao a Shun e da Shun a Yü era avvenuta per designazione, fu determinata dalla discendenza naturale. Con Yü ebbe così inizio la prima dinastia, detta Hsia dal feudo da cui proveniva la famiglia, che doveva contare diciassette imperatori e durare 439 anni, dal 2205 al 1767 avanti Cristo. 7. CHI (2197) governò con quelle doti di saggezza e di pietà che il popolo aveva saputo vedere in lui, ma non altrettanto saggio-fu il suo figlio e successore T’AI K’ANG (2188), che fu dedito al vino, alla lussuria ed alle sfrenatezze della caccia. Gli successe il fratello CHUNG K’ANG (2159) e poi il figlio di costui HSIANG (2146), che fu esautorato da un nobiluccio di cognome I, maestro dell’arte di tiro con l’arco, il quale aveva già contrastato T’ai K’ang. I, però, fu fatto uccidere dal suo favorito Han Cho, che in seguito spinse il figlio Ao, celebre per la sua forza erculea, ad assassinare l’imperatore (2119). Vi fu allora un interregno che durò quarant’anni, cioè fino a quando Ao e suo padre Han Cho furono a loro volta uccisi e sul trono salì il figlio postumo di Hsiang con il nome di SHAO K’ANG (2079). 8. A Shao K’ang seguirono altri dieci imperatori, delle cui gesta poco hanno da narrare le cronache, finché si giunse a CHIEH (1818), detto anche CHIEH KUEI, che regnò per circa cinquant’anni. Fu costui uomo lascivo e crudele tiranno. Per i begli occhi della sua concubina Mei-hsi fece costruire una torre di diaspro e scavare un lago che fu colmato di vino. Diceva di avere l’impero come il cielo ha il sole e che sarebbe perito quando il sole fosse perito. 9. L’impero si agitava nel disordine dilagante. Nel lontano Shensi, ai confini col mondo dei barbari, Kung Liu, un oscuro feudatario gravido di future minacce per la dinastia che stava per sorgere, abbandonò il suo feudo di Tai, concesso al suo avo Ch’i (Hou Chi) dall’imperatore Yao, e si trasferì nel territorio di Pin (1797). 10. Un certo T’ang, principe del piccolo feudo di Shang, cominciò l’opera di rinnovamento castigando il suo empio vicino, il conte di Ko, che aveva mal ricambiato i suoi pii servigi, ed inviò il saggio I Yin all’imperatore affinché lo ammaestrasse ed ammonisse. Chieh Kuei, però, rimandò il saggio e fece imprigionare T’ang. Il Cielo colpì la terra con i segni della sua collera, ma neanche il corruccio divino valse a far rinsavire l’imperatore. Alla fine T’ang impugnò le armi. Disse: «Venite, o voi moltitudini di popolo, ascoltate le mie parole! Non è che io, il piccolo figlio, osi intraprendere

una ribellione, ma è decreto del Cielo che lo Hsia sia punito per le sue innumerevoli colpe». L’imperatore, abbandonato da tutti, fu sconfitto ed esiliato (1766) a Nanchao, nell’odierno Anhwei, dove morì tre anni dopo. La dinastia Hsia (a fianco è indicato l’anno di accessione al trono) 1 Yü il Grande 2 Chi 3 T’ai K’ang 4 Chung K’ang 5 Hsiang (interregno) 6 Shao K’ang 7 Chu 8 Huai 9 Mang 10 Hsieh 11 Pu Chiang 12 Chiung 13 Chin 14 K’ung Chia 15 Kao 16 Fa 17 Chieh Kuei

2205 2197 2188 2159 2146 2118 2079 2057 2040 2014 1996 1980 1921 1900 1879 1848 1837 1818

La dinastia Shang (poi Yin) 11. Ancor prima che Chieh Kuei uscisse dalla scena, era apparso a tutti evidente che il Cielo aveva tolto il suo mandato alla dinastia Hsia e l’aveva trasferito al più virtuoso e pio dei feudatari dell’epoca. L’ascesa al trono dell’ottantasettenne T’ANG, pronipote di Hsieh, terzo figlio dell’imperatore Ti Kou, fu quindi incontrastata (1766). Con T’ang ebbe inizio la seconda dinastia, detta Shang, che regnò con ventotto imperatori per 644 anni, dal 1766 al 1122 avanti Cristo. L’anno successivo all’insediamento di T’ang, che aveva posto la sua

capitale nella città di Po, cominciò una grande siccità che provocò una settennale carestia. A Sang-lin (Bosco dei Gelsi) il pio imperatore offerse se stesso al Cielo per la salvezza del popolo e il Cielo esaudì la sua preghiera inviando piogge copiose. T’ang rimase sul trono, regnando con l’ausilio di I Yin, fino a che morì centenario. 12. Ereditò il trono il nipote. Il figlio maggiore dell’imperatore, T’ai-ting, era premorto al padre, gli altri due figli, Wai-ping e Chungjên, erano vissuti rispettivamente due e quattro anni: al nonno succedette quindi T’AI CHIA (1753), figlio del defunto T’ai-ting1. T’ai Chia non sembrava proclive a seguire l’esempio virtuoso di T’ang, ma alla corte viveva ancora il severo ministro I Yin, il quale, esiliato il giovane imperatore a Tung, dove era tumulato il nonno, resse l’impero per tre anni, cioè fino a quando T’ai Chia, contrito ed emendato, fu richiamato sul trono alla fine del periodo di lutto. Regnò per altri trent’anni, esempio di pietà e di morigeratezza. I Yin fu ministro anche del successivo imperatore WO TING (1720), il quale, quando il saggio morì centenario, gli tributò onoranze regali. Prese il suo posto di ministro il figlio I Chih, che fu virtuoso consigliere di Wo Ting e dei quattro imperatori che lo seguirono. 13. Gli imperatori che si succedettero sul trono dopo i primi sovrani saggi raramente regnarono in modo da essere esaltati dai posteri: secondo Mencio (vedi ME 24), da T’ang a Wu Ting, ventesimo imperatore, i regnanti virtuosi e saggi non furono che sei o sette. Tutti gli altri, evidentemente, o si dimostrarono mediocri o addirittura prepararono la rovina della dinastia. Il diciassettesimo imperatore P’ANG KÊNG (1401) trasferì la capitale a Peimeng, nel territorio di Yin (nell’odierno Honan): da allora la dinastia assunse la denominazione di Yin (1388). A P’ang Kêng seguirono i suoi fratelli HSIAO HSIN (1373), sotto il quale cominciò a delinearsi la decadenza della dinastia, e HSIAO I (1352). 14. Né valse a risollevarne le sorti l’illuminato regno del figlio di quest’ultimo, WU TING (1324), sovrano religioso e pacifico. Durante i tre anni del lutto, costui rimase accanto alla tomba del padre meditando sul modo di riformare l’impero ed una notte, in sogno, ebbe la visione dell’uomo che l’avrebbe aiutato a governare. Lo cercò e lo trovò: era un saggio ritiratosi dal mondo che, per vivere, costruiva baracche nelle montagne di Fu-yen (Shansi). Dal nome di quella località fu chiamato Fu Yeh. Si dimostrò ministro saggio ed abilissimo nel procurare la prosperità dell’impero.

15. Gli succedettero TSU KÊNG (1265) ed il fratello di costui, TSU CHIA (1258), uomo di pessimi costumi, sotto il quale nacque Ch’ang (1232), che nei secoli avvenire doveva essere celebrato con il nome di Wên Wang (il re Wên), figlio di Chi-li e della sua sposa, la dama Jên. Gli eventi che dovevano condurre Ch’ang alle sue gloriose imprese cominciarono nel primo anno di regno (1198) di WU I, venticinquesimo imperatore Yin, quando il nonno Tan-fu, piccolo feudatario della marca occidentale di Pin, che il suo avo Kung Liu aveva occupato sei secoli prima (vedi n. 9), non potendo più resistere alle aggressioni dei barbari confinanti, emigrò con tutto il suo popolo ai piedi del monte Ch’i, dove fondò un nuovo regno chiamato Chou. Questo Tan-fu, al quale i discendenti giunti alla dignità imperiale dettero il nome postumo di T’ai Wang, aveva sposato una dama Chiang, dalla quale ebbe tre figli. Il maggiore T’ai-po, che avrebbe dovuto succedere al padre, rinunciò al trono e, insieme al secondo fratello Chung-yung, si ritirò fra i barbari meridionali, dove fondò il regno di Wu. Tale rinuncia fu fatta non tanto, si dice, per favorire il terzo fratello Chi-li, quanto perché un giorno il feudo passasse nelle mani del figlio di costui, Ch’ang, di cui erano evidenti le elette virtù. 16. Dopo Tsu Chia sul trono salì T’AI TING (1194), il quale ebbe tre figli: Ti I, che gli succedette dopo il suo breve regno, ed i saggi Chi-tzu (lett.: il visconte di Chi) e Pi-kan, TI I nominò (1191) il feudatario Chi-li sovrintendente dei nomadi, cioè dei barbari che vivevano ai confini del suo piccolo feudo di Chou. Chi-li, morto nel 1185, ricevette poi il nome postumo di Wang Chi. 17. Anche Ti I ebbe tre figli: i primi due, Chi visconte di Wei (Wei-tzu), che fu antenato di Confucio, e Chung-yen, erano stati partoriti da una moglie di secondo rango e perciò non furono ammessi alla successione. Salì sul trono il terzo figlio CHOU (1154), conosciuto anche come CHOU HSIN, il quale fu il tiranno più crudele che l’antichità cinese ricordi. La storia della caduta della dinastia Yin sotto Chou Hsin ripete, punto per punto, gli avvenimenti che avevano portato alla caduta della dinastia Hsia sotto Chieh Kuei. In una delle odi è colto tale fatto: «Lo specchio per lo Yin — essa dice — non era lontano: stava nell’epoca del sovrano Hsia». Chou Hsin si vantava di avere il mondo ai suoi piedi. Dotato di prestanza fisica eccezionale, era dedito al vino e alle donne; fece costruire la torre Lu-t’ai (Torre dei Cervi), dove racchiuse i suoi tesori; per compiacere la sua favorita

Ta-chi, che allo spettacolo rideva divertita, istituì il supplizio del p’ao-lao (abbruciamento), in cui il reo veniva fatto arrampicare su un palo di rame cosparso di grasso, sotto il quale era ammucchiata gran quantità di braci. 18. Nel feudo di Chou, intanto, a Chi-li era succeduto il figlio Ch’ang, che ebbe in moglie una dama Szu (T’ai Szu), madre del futuro imperatore Wu Wang, donna di grandi virtù e capacità. Della coppia si diceva che Ch’ang metteva ordine all’esterno e T’ai Szu all’interno dello stato. L’imperatore Chou Hsin nominò Ch’ang «Conte Occidentale» (hsi po), cioè capo dei feudatari di quella regione dell’impero: gli consegnò l’arco, le frecce, l’azza e l’ascia, simboli del conferimento della potestà imperiale di punire i feudatari. 19. Chou Hsin nominò tre grandi ministri dell’impero nelle persone di Ch’ang, feudatario di Chou e Conte Occidentale, del feudatario di O e del feudatario di Ch’ou. Quest’ultimo, nell’intento di reprimere la potenza delle concubine dell’imperatore, introdusse a corte la sua morigerata figliola: ma essa, rifiutandosi di partecipare alle lascivie del suo signore, ne provocò la collera e fu messa a morte. Chou Hsin fece tagliare a pezzi il padre di lei. 20. Tanta scelleratezza sollevò l’indignazione di Ch’ang che, accusato, fu gettato in prigione a Yu-li (1144), dove rimase tre anni scrivendo il testo del Libro delle Mutazioni. Liberato, governò il suo stato con sì grande saggezza e carità da suscitare l’ammirazione dei feudatari più saggi, una quarantina dei quali gli si sottomisero; altri meno saggi che, approfittando dei tempi, si erano posti in rivolta, furono da lui ridotti a sottomissione con la forza delle armi. Chiamò accanto a sé, come precettore del futuro imperatore, il virtuoso Liu Shang (detto T’ai-kung-wang), la cui figlia I-chiang fu la decantata sposa del fondatore della terza dinastia. Ebbe dieci figli, dei quali nominerò cinque che interessano la nostra storia: il secondo figlio Fa, il terzo Hsien, il quarto Tan, il quinto Tu e l’ottavo Ch’u. Anche Ch’ang volle edificare una torre che chiamò Ling-t’ai (Torre degli Spiriti): l’ode canta che il popolo accorse come un figlio e in un sol giorno costruì la torre. Ch’ang, il Conte Occidentale, morì nel 1135 all’età di novantasette anni, quando già dominava su due terzi dell’impero. Come ho detto, gli fu attribuito il nome postumo di Wên Wang. 21. L’opera di riforma da lui iniziata doveva essere portata a termine dal suo erede, il secondo figlio Fa, il quale ebbe cura di circondarsi di collaboratori abili e virtuosi. Diceva: «Ho dieci ministri abili nel governo». Questi dieci ministri erano: suo fratello Tan (il duca Chou), Shih (il duca Shao), il suocero

Liu Shang (T’ai-kung-wang), i duchi Pi e Jung, T’ai-tien, Hung Ho, San Ishêng, Nan-kung Kuo ed infine la moglie I-chiang, che si occupava degli affari interni del feudo. 22. In quel tempo, Chou Hsin toccava il fondo delle sue nefandezze. Sordo ad ogni ammonimento dei suoi ministri e familiari, fu abbandonato dal fratellastro Chi, visconte di Wei, fece trucidare lo zio Pi-kan, al quale morente fu strappato il cuore per compiacere l’imperatore che voleva vedere come era fatto quello d’un saggio, e ordinò che fosse ridotto in schiavitù l’altro zio, Chitzu, che scampò da morte fingendosi pazzo (1123). Invocato da ogni parte, il grande feudatario Fa di Chou, degno erede della saggezza e virtù del padre e continuatore della sua opera di pacificazione dell’Impero, impugnò le armi e sconfisse l’imperatore a Mu-yeh (Honan), nei pressi della città imperiale. Chou Hsin si rifugiò nella sua torre, vi appiccò il fuoco e si lasciò bruciare insieme alle sue ricchezze (1122). Alla seconda dinastia Shang, o Yin che dir si voglia, era stato tolto definitivamente il mandato celeste. La dinastia Shang (poi Yin) (a fianco è indicato l’anno di accessione al trono) 1 T’ang 2 T’ai Chia 3 Wo Ting 4 T’ai Kêng 5 Hsiao Chia 6 Yung Chi 7 T’ai Mou 8 Chung Ting 9 Wai Jên 10 Ho Tan Chia 11 Tsu I 12 Tsu Hsin 13 Wo Chia 14 Tsu Ting 15 Nan Kêng 16 Yang Chia

1766 1753 1720 1691 1666 1649 1637 1562 1549 1534 1525 1506 1490 1465 1433 1408

17 P’ang Kêng 18 Hsiao Hsin 19 Hsiao I 20 Wu Ting 21 Tsu Kêng 22 Tsu Chia 23 Ling Hsin 24 Kêng Ting 25 Wu I 26 T’ai Ting 27 Ti I 28 Chou Hsin

1401 1373 1352 1324 1265 1258 1225 1219 1198 1194 1191 1154

La dinastia Chou 23. Si apre ora l’epoca in cui vissero il Maestro K’ung (Confucio) ed il suo epigono Meng-tzu (Mencio). Non sarà inutile soffermare l’attenzione sull’ambiente dal quale essi trassero, ispirandosi alle antiche tradizioni, e nel quale impartirono il loro insegnamento. La civiltà cinese era nata sui territori pianeggianti delle fertili terre intorno al Fiume Giallo. Verso la metà della dinastia Shang l’impero si estendeva probabilmente sulle due rive di questo fiume dal suo ingresso nella pianura fino al T’ai-shan ed al bacino del Huai. Poi, sottomettendo ed assimilando le tribù barbare, aveva cominciato a dilatarsi in ogni direzione, di modo che negli ultimi secoli della dinastia Chou si estendeva fin dove sorse la Grande Muraglia e all’odierno Liaoning a nord, fino ai confini dei due Kwang a sud, fino al mare ad est e fino allo Shensi ad ovest. Tale dominio era diviso in principati, o feudi, più o meno estesi ed importanti, che figuratamente si consideravano disposti intorno al territorio imperiale. Questo, in tal modo, veniva immaginato come il centro della Cina e di tutto il mondo: di qui il nome di Impero del Mezzo (o Impero del Centro = Chung Kuo). In siffatta organizzazione feudale, l’imperatore aveva il compito preminente di assicurare l’adesione dell’uomo all’armonia celeste. L’ordine superumano promana dalla divinità, nominata Dio Supremo (Shang Ti = imperatore dell’alto o supremo) o anche Cielo (T’ien). All’ordine umano, che a

quello deve adeguarsi, sovrintendeva l’imperatore in virtù del «mandato celeste» (t’ien ming), per cui egli si fregiava dell’appellativo di «Figlio del Cielo» (t’ien tzu). L’imperatore (detto wang sotto i Chou), perciò, fungeva da intermediario dell’uomo presso il Cielo e la Terra ed a questi egli solo, come figlio, poteva offrire i sacrifici in rappresentanza del popolo. Stabiliva anche le regole dei riti, che sono la riproduzione umana del modo di agire del Cielo, e della musica, nonché quelle norme minori che, per le esigenze del viver civile, dovevano valere in tutto l’impero. Egli solo, quindi, regnava: la funzione dei feudatari era limitata al governo dei singoli stati, in relazione al quale erano soggetti alle ispezioni dell’imperatore e all’obbligo di presentarsi periodicamente alla sua corte per riferire sull’opera svolta. Esclusivamente all’imperatore, poi, competeva di irrogare punizioni, anche manu militari, ai principi feudatari rei di malgoverno o di ribellione. La punizione veniva eseguita, se necessario, con le forze fornite dagli altri feudatari: a tale scopo, i principi dei grandi stati erano tenuti ad armare 1.000 carri da guerra, mentre il limite dei principi dei piccoli stati e delle casate dei dignitari era di 100 carri. L’imperatore, per sua prerogativa, manteneva una forza di 10.000 carri da guerra. Il fondamento morale di questo sistema politico era dato dalla pietà filiale (hsiao), le cui prescrizioni di clemenza del padre verso i figli, di reverenziale timore dei figli verso il padre, di affetto del fratello maggiore verso il fratello minore e di sottomissione del minore al maggiore, venivano trasferite dalla vita familiare a quella pubblica, regolando i rapporti tra imperatore e feudatari, tra principi e sudditi, tra superiori ed inferiori. 24. All’incirca così si presentava la Cina quando, all’età di ottantasei anni, salì sul trono Fa, poi noto come WU WANG (il re Wu), primo imperatore della dinastia Chou, la quale tenne l’impero con trentaquattro sovrani per 867 anni, dal 1122 al 256 avanti Cristo. L’assunzione della dignità imperiale fu considerata opera comune di Wên Wang (Ch’ang) e di Wu Wang (Fa), il primo dei quali disegnò e gettò le fondamenta dell’impresa ed il secondo la portò a compimento e la realizzò. È per questo che, nei testi cinesi, Wên e Wu vengono sempre nominati insieme quando si parla della conquista dell’impero da parte dei Chou, come pure vengono nominati insieme i due imperatori Li e Yu (vedi n. 31), che sono accusati d’averlo perduto.

25. L’elevazione del re Wu (1122) fu considerata un’usurpazione da due saggi, i fratelli Po-i e Shu-ch’i, che si erano ritirati dal mondo proprio per una questione di successione al trono del loro piccolo feudo. Essi erano figli del principe di Ku-chu, che aveva designato Shu-ch’i a succedergli, ma questi, alla morte di lui, rifiutò il trono sostenendo che esso spettava al fratello maggiore Po-i. Costui, a sua volta, lo rifiutò appellandosi alla volontà del padre ed alla fine i due si ritirarono in romitaggio, lasciando il feudo ad un terzo fratello. Nel caso di Wu Wang, testardamente sostenendo, senza tener conto della situazione, che egli si era comportato in difformità delle norme che regolavano i rapporti tra imperatore e feudatario, essi lo rimproverarono d’aver detronizzato gli Yin e poi, rifugiatisi su una montagna, si lasciarono morire di fame piuttosto che mangiare il frumento raccolto sotto la nuova dinastia Chou. 26. Wu Wang elesse a capitale la città di Hao, ad ovest dell’odierna Chang-an, nella marca occidentale dello Shensi. Fissò l’inizio dell’anno alla lunazione in cui cadeva il solstizio d’inverno. Attribuì il titolo postumo di wang ai suoi ascendenti fino al proavo e investì di feudi non solo i suoi fratelli, ministri e fedeli ma anche i discendenti delle antiche famiglie imperiali. Al fratello Hsien dette in feudo Kuan, per cui fu poi conosciuto come Kuan Shu (lett.: lo zio di Kuan); a Tan, meglio noto come il duca Chou, dette in feudo Lu; a Tu dette Ts’ai (Ts’ai Shu); a Ch’u dette Ho (Ho Shu). A suo suocero Liu Shang dette in feudo Ch’i. Restaurando le interrotte linee di discendenza delle passate dinastie, questione importantissima per la perpetuazione dei sacrifici ancestrali, mostrò che per lui la pietà filiale non era un vano nome. Investì perciò di un feudo i pronipoti di Shêng Nung, di Yao e di Shun; ai discendenti degli Hsia assegnò il feudo di Chi e a Wu-kêng, figlio del suo avversario Chou Hsin, il feudo di Yin. A Chi-tzu, opportunamente rinsavito dopo la morte del nipote, assegnò la Corea (1121). Nominò tre grandi ministri: il fratello duca Chou, il suo maestro e suocero Liu Shang e il duca Shao, che gli erano stati di valido aiuto per debellare Chou Hsin. Altro suo famoso ministro fu Chiao Kê, un saggio ritiratosi dal mondo sotto Chou Hsin, che il re Wu trovò tra i venditori di pesce e di sale. Nel secondo anno di regno, il re Wu cadde gravemente ammalato. Il duca Chou offrì al Cielo la sua vita per quella dell’imperatore ed il re Wu guarì. Visse fino al novantatreesimo anno di età (1116). 27. Prima di morire raccomandò l’erede, un ragazzo tredicenne, al fratello duca Chou. Questi, affidato il suo feudo di Lu al figlio Po-ch’in, assunse la

reggenza, non senza suscitare la gelosia del fratello, a lui maggiore, Hsien (Kuan Shu), il quale seppe trarre dalla sua anche gli altri due fratelli Tu (Ts’ai Shu) e Ch’u (Ho Shu). Kuan Shu, in particolare, era stato mandato come ministro nel regno di Yin, assegnato, come s’è detto, a Wu-kêng, figlio di Chou Hsin, personaggio che andava sorvegliato come potenziale elemento di pericolo per la nuova dinastia. Costoro sparsero la voce che il duca Chou manovrava per impadronirsi del trono e il duca si ritirò spontaneamente in esilio. Due anni dopo, il Cielo percosse i raccolti con una spaventosa tempesta: il giovane imperatore ricercò nel suo governo la causa dell’ira divina e trovò, così, in un forziere le tavolette che registravano il voto del duca Chou per la salute del re Wu. Riconobbe la devozione di costui ai legittimi imperatori e lo richiamò a corte, placando in tal modo il Cielo. Dopo il ritorno del reggente, i tre fratelli si rivoltarono apertamente: Kuan Shu sobillò Wu-kêng, che si ribellò. Il duca Chou domò la rivolta con grande energia: occupò Yin, fece mettere a morte Kuan Shu e Wu-kêng (1113), esiliò Ts’ai Shu e privò Ho Shu del grado nobiliare. La linea di discendenza della deposta famiglia imperiale passò all’antenato di Confucio, Chi visconte di Wei, fratellastro di Chou Hsin, che fu investito del feudo di Sung. Il duca Chou, che doveva essere esaltato come uno dei più saggi governanti, esercitò la reggenza per sette anni con fedeltà, abilità e fermezza, restaurando le leggi, i riti, la musica. Morì centenario e fu seppellito con onori regali. Raggiunta la maggiore età, prese le redini del governo (1109) il figlio di Wu Wang con il nome di CH’ÊNG WANG, e poi suo figlio K’ANG WANG (1078), sotto i quali l’impero godette di grande pace e concordia. 28. Il decimo imperatore della dinastia, LI WANG (878), fu celebre soprattutto per la ferocia e l’avidità. Il popolo, immiserito e terrorizzato, covava sentimenti di ribellione, che alla fine scoppiarono sanguinosamente quando l’imperatore, sordo agli ammonimenti dei suoi ministri, moltiplicò le condanne a morte: il sovrano dovette fuggire in esilio, mentre l’erede al trono salvò la vita solo perché il devoto ministro duca Shao in sua vece abbandonò al furore popolare il proprio figlio. Per quattordici anni (dall’841 all’828) vi fu allora un interregno, detto Kung Ho (Piena Armonia), durante il quale governarono i ministri duca Chou e duca Shao, discendenti degli antichi uomini di stato. Morto l’imperatore in esilio, i due ministri posero sul trono il suo erede, che fino ad allora s’era tenuto nascosto nella casa del duca Shao. Fu costui

HSÜAN WANG (827), che mosse guerra ai tartari nord-occidentali. 29. Gli succedette l’iniquo suo figlio YU WANG (781), che ebbe come ministro l’infame Yin, contro il quale si leva una delle odi. L’imperatore fu soggiogato dalla sua concubina Pao Szu, per amore della quale ripudiò l’imperatrice, la nobile dama Shen, e privò il legittimo erede I-chiu, figlio di costei, della successione al trono a favore dell’altro figlio Po-fu, partoritogli dalla concubina. I-chiu si rifugiò presso il nonno, feudatario di Shen. Questi, impotente ad opporsi all’imperatore che, con la minaccia delle armi, reclamava la consegna del figlio fuggiasco, chiamò in suo aiuto i tartari. Yu Wang fu vinto, la capitale fu saccheggiata dai barbari (771) e l’imperatore fu ucciso insieme alla sua favorita e al figlio di costei. I-chiu salì sul trono. 30. Il nuovo imperatore, che poi fu noto come P’ING WANG (770), si trovò a dover risolvere il problema dei tartari, i quali, chiamati a guerreggiare nelle ricche terre dell’Impero del Mezzo, non intendevano ritornare alle loro steppe: vi riuscì con l’ausilio di alcuni feudatari e i tartari furono costretti ad andarsene. Un valido aiuto fu dato al sovrano da Hsiang, principe del piccolo e bellicoso stato dipendente di Ch’in, nell’odierno Shensi, il quale per tale fatto fu elevato al rango di conte. Il suo stato inoltre fu dichiarato indipendente ed ingrandito con l’annessione del vecchio dominio dei duchi di Chou (vedi n. 15), dal monte Ch’i verso occidente. P’ing Wang, così, gettò le fondamenta della grandezza di quello stato di Ch’in che, cinque secoli dopo, doveva estinguere la dinastia Chou (vedi n. 47). La vittoria sui barbari, però, non dovette essere molto convincente se l’imperatore sentì la necessità di trasferire la capitale da Hao, nello Shensi, a Lo, nei pressi dell’attuale Lo-yang, nella regione più centrale e sicura del Honan (770). Ebbe così inizio il periodo detto dei Chou orientali. 31. Il trasferimento della capitale fu un atto funesto per la dinastia. La fine del potere imperiale fu attribuita alla malvagità di Li Wang e di Yu Wang: anche ciò ammesso, il trasferimento fu l’atto che rese patente la perdita di ogni autorità dei Chou sull’impero ed in particolar modo sui feudatari, che ben presto cesseranno di recarsi alla corte imperiale per sentir giudicare la loro azione di governo del popolo, usurperanno il titolo di wang, oseranno offrire i sacrifici di pertinenza del Figlio del Cielo e si arrogheranno il diritto di creare dei feudatari. Questo era il momento in cui avrebbe dovuto sorgere una nuova dinastia. La storia aveva dimostrato che all’incirca in cinque secoli, tra alti e bassi, si esauriva l’energia della famiglia che deteneva il trono imperiale: i Chou non

fecero eccezione a tale regola. Ma la società dell’epoca non fu capace di esprimere dal proprio seno un uomo eccezionale, come un T’ang o un Ch’ang, che offrisse la speranza d’una riforma radicale e raccogliesse così i voti di tutto l’impero. Si andò avanti senza un barlume di speranza, nell’acuirsi della debolezza imperiale e dell’anarchia che ne conseguiva. Ambedue foriere, per il lungo esasperarsi dei mali, di un regolamento dei conti infinitamente più cruento di quello verificatosi al tramonto degli Hsia e degli Yin. 32. Agli occhi di tutti, la dinastia Chou era finita ed ogni principotto si ritenne capace di coglierne l’eredità con la forza delle armi. Di qui le guerre fra gli stati feudali: le cronache di questi anni non sono che elenchi di battaglie. È questa l’epoca detta «Primavera ed Autunno» (722-481) dall’opera storica Ch’un Chiu di Confucio, in cui — dice Mencio — non vi fu una guerra giusta, ma soltanto alcune guerre meno ingiuste delle altre. I problemi posti dalle lotte fra stato e stato e le difficili condizioni di vita che, nonostante l’incremento della prosperità economica verificatosi sotto i Chou, sorsero in seguito alla carenza dell’autorità imperiale, cercarono la loro soluzione nell’istituzione d’un potere politico purchessia e nel tentativo di spiegare, lenire e, possibilmente, eliminare lo stato d’anarchia con l’ausilio della speculazione filosofica e del richiamo ai tradizionali valori morali. 33. Nel campo politico la necessità di un ordinato reggimento condusse al prevalere di un’autorità, diversa da quella imperiale, alla quale i principi, più o meno volentieri, si sottomisero, stipulando, nelle assemblee a cui erano convocati, appositi trattati: sorsero così i cinque capi dei feudatari, i quali, avvalendosi dell’opera di abili ministri, insieme all’affermazione della loro egemonia stabilirono un qualche ordine nell’impero. 34. Caratteristico dei costumi dell’epoca fu il modo con cui il primo e più potente di essi, il duca Huang di Ch’i, si elevò a tale egemonia. Il regno di Ch’i era in preda ai disordini per il malgoverno del duca Hsiang e, pertanto, i suoi fratellastri cercarono rifugio negli stati vicini: Hsiao-pai, poi duca Huang, fuggì nel piccolo stato di Chü, seguito dal ministro Pao Shu-ya, mentre Chiu scampò nello stato di Lu insieme ai ministri Shao Hu e Kuan Chung, noto anche come Kuan I-wu. Morto di morte violenta il duca Hsiang (686), Huang si affrettò a rientrare a Ch’i e ad impossessarsi del regno. Aiutato da Lu, Chiu tentò di riprendere il trono ma fu catturato ed ucciso. Shao Hu si suicidò per seguire il suo signore, mentre Kuan Chung si lasciò estradare prigioniero a Ch’i. Il suo periodo di disgrazia, però, fu breve poiché il suo grande amico Pao Shu-ya, che ben

conosceva le sue capacità politiche, si adoperò affinché il duca Huang lo facesse uscire di prigione e lo nominasse addirittura primo ministro. Tanto efficace, per abilità se non per virtù, fu l’azione di Kuan Chung, rimasto al potere per quarant’anni, che in poco tempo Ch’i fiorì e il suo duca divenne capo dei feudatari. 35. I cinque capi che, nel VII secolo, in successione fecero valere la loro autorità furono: il detto duca Huang di Ch’i (sul trono dal 685 al 643), che ebbe per ministro Kuan Chung; il duca Hsiang di Sung (650-637); il duca Wên di Chin (636-628), che si avvalse dell’opera del ministro Ning Wu-tzu; il duca Mu di Ch’in (659-621), che fu coadiuvato dal ministro Pai-li Hsi; il re Chuan di Ch’u (613-591), che ebbe come ministro Sun Shu-ao. 36. In altro campo fu la filosofia che tentò di offrire all’umanità dolorante i mezzi per debellare i mali dell’epoca. Nel VI e v secolo, infatti, si ebbe in Cina un’intensa fioritura di correnti di pensiero, ciascuna delle quali, su un sottofondo comune di princìpi tradizionali, elaborò una sua dottrina morale e politica. Sotto il ventitreesimo imperatore LING WANG, nacque il saggio che in modo così preponderante doveva influenzare la società cinese per circa venticinque secoli: Confucio (551-479). Di lui non parlerò in questa sede, rimandando per la sua vita alla «Biografia» e per la sua dottrina alle opere qui tradotte. Ai fini di questa breve storia dirò che il suo insegnamento, diffuso dai suoi discepoli e, due secoli dopo, nuovamente proposto con disperato ardore dal suo seguace Mencio, rimase inascoltato in quei tempi d’anarchia, ma poté essere accolto solo quando, passata la bufera unificatrice della breve dinastia Ch’in (221-207 a. C.), l’impero fu retto dal ben ordinato governo della dinastia Han (206 a. C. 220 d. C.). E da allora ha sostenuto la struttura della Cina fin quasi ai nostri giorni. 37. Suo contemporaneo fu Lao-tzu, un archivista o bibliotecario della corte imperiale, il quale prima di ritirarsi dal mondo lasciò all’umanità il famoso volume Tao Tê Ching (Il Libro del Tao e della Virtù), da cui trasse origine un’importante corrente di pensiero, il taoismo, del tutto diversa da quella confuciana. Negli anni successivi alla morte di Confucio sorsero le dottrine di Yang e di Mo, che, per qualche tempo, ebbero grande risonanza e attrassero l’attenzione di tutto l’impero. Yang Chu, che si ritiene vissuto intorno al IV secolo a. C., fu un pessimista e, in coerenza a tale suo atteggiamento, propugnò un individualismo egoistico:

insegnò ad aver cura di sé stessi, negando ogni dovere verso il principe. Mo Ti (470-391), al contrario, sostenne che i mali dell’umanità potevano trovare rimedio solo nell’amore universale, senza particolare distinzione per i genitori. Ambedue andavano contro i tradizionali precetti della pietà filiale e per questo furono combattuti dalla scuola confuciana, che vedeva da essi misconosciute le prime due relazioni umane: quella tra padre e figlio e quella tra principe e suddito. Del primo di questi due filosofi Mencio disse che, se avesse dovuto strapparsi un pelo per salvare il mondo, non l’avrebbe fatto; del secondo disse che, se avesse dovuto farsi scorticare per salvare il mondo, l’avrebbe fatto. 38. Il fiorire delle correnti di pensiero, secondo gli storici, fu promosso anche dal fatto contingente che i letterati funzionari della corte dei Chou, trovatisi inutilizzati nel crollo del governo e dell’amministrazione imperiali, si dedicarono all’insegnamento delle materie che erano di loro specifica competenza nei vari ministeri. Così questi funzionari, impartendo un insegnamento pratico, che ben presto richiese una giustificazione morale e un’elaborazione dottrinale, dettero origine alle varie scuole filosofiche. Lo storico Pan Ku (32-92 d. C.) distingue in questo periodo nove scuole o correnti di pensiero (chiu chia.). I. scuola dei dotti (ju chia), i cui massimi esponenti furono Confucio e Mencio; II. scuola dei taoisti (tao chia), di cui furono massimi esponenti il nominato Lao-tzu, Chuang-tzu e Lieh-tzu; III. scuola dei cosmologi (yin-yang chia), collegantesi al più antico pensiero cinese, la quale concepiva il mondo come determinato dall’azione alterna dei due princìpi yin e yang; IV. scuola dei legisti (fa chia), la quale propugnava che la stabilità dello stato poteva ottenersi non con l’imitazione delle virtù degli antichi bensì con l’autorità del sovrano e con l’imposizione della legge: di tale dottrina si avvarrà l’assolutismo dei principi di Ch’in. Esponenti di questa scuola furono Chi Li, Shang Yang e Han Fei; V. scuola dei dialettici (ming chia = scuola dei nomi), che può essere paragonata alla contemporanea scuola sofista greca, della quale fu esponente Kung-sun Lung; VI. scuola dei moisti (mo chia), seguace del già nominato Mo Ti, la quale propugnò l’amore universale, l’eguale stima per tutti, l’osservanza della frugalità e la credenza negli esseri spirituali;

VII. scuola dei politici (tsung-hêng chia = scuola del verticale e dell’orizzontale), divisa in due correnti: quella di Su Ch’in, che sosteneva la necessità di un’alleanza nord-sud (verticale) dei sei stati (Yen, Ch’i, Chao, Wei, Han, Ch’u) contro il regno di Ch’in; quella di Chang I, che sosteneva l’opportunità che i sei stati si unissero in federazione sotto lo stesso Ch’in; VIII. scuola degli eclettici (tsa chia), la quale combinava le dottrine confuciane con quelle moiste ed accordava le teorie dei dialettici con quelle dei legisti; IX. scuola degli agricoltori (nung chia), la quale sosteneva strane teorie economiche e la necessità di occuparsi esclusivamente della coltivazione dei cereali e del gelso, affinché vi fossero cibo e vesti sufficienti per tutti. 39. La maggior parte di queste scuole fecero sentire la loro influenza non tanto nel citato periodo «Primavera ed Autunno», quanto in quello più terribile e di maggior smarrimento, detto dei «Regni Combattenti» (Chan Kuo - 403-221). L’inizio di questo periodo si fa comunemente risalire ad un episodio che alterò profondamente l’equilibrio istituitosi, bene o male, fra gli stati feudatari più potenti e in cui toccò il fondo l’ignavia degli imperatori Chou, i quali, invece di punire, sanzionarono gli illeciti compiuti. Già nel 457 l’imbelle duca Ch’u del regno di Chin era stato esautorato dai suoi quattro ministri, un certo Chih-po e i capi delle tre grandi casate dei Wei, dei Han e dei Chao. Rimasto ucciso Chih-po nella lotta insorta fra i quattro (453), nel 403 il debole imperatore WEI LIEH WANG nominò marchesi i capi delle tre famiglie, i quali, messo definitivamente da parte l’attuale duca Ch’ing, nel 376 si divisero il territorio di Chin e costituirono tre regni, chiamati «i tre Chin»: Wei (poi detto Liang), Han e Chao.

I Regni Combattenti. (I confini degli Stati, tracciati su notizie dello Tzu Yüan, sono puramente indicativi).

40. L’episodio dello spodestamento del legittimo feudatario, rimasto impunito ed anzi premiato, non fu isolato. Anche nel regno di Ch’i la potente casata dei Ch’ên aveva man mano soppiantato i duchi nell’esercizio del potere. Discendeva questa famiglia, che poi assunse il cognome Tien, da un figlio del duca di Ch’ên, il quale, fuggito dal suo paese, si era rifugiato a Ch’i. Il capo della casata, esiliato nel 391 il duca di Ch’i in un’isola sul mare dove morì insieme al figlio, nel 386 fu investito dall’imperatore AN WANG della signoria dello stato. 41. In quest’epoca, l’Impero del Mezzo era praticamente diviso fra sette potentissimi stati: Yen, Ch’i, Chao, Wei, Han, Ch’u e Ch’in, che si erano enormemente ingranditi annettendosi i piccoli stati confinanti. Infatti, per non parlare che dei feudi più importanti, Tsao era stato estinto da Sung (480), Ch’ên da Ch’u (479), Wu da Yüeh (473), Ts’ai da Ch’u (447); in seguito Chêng fu estinto da Han (375), Sung da Ch’i (286) e Lu, la patria di Confucio, da Ch’u (249). I pochi staterelli rimasti dell’antico ordinamento feudale erano dei semplici satelliti, che si barcamenavano tra un potente vicino e l’altro in attesa di essere annessi a loro volta. 42. Negli anni in cui più crudele ferveva la lotta per la supremazia nell’impero, visse Mencio (372-289), di cui parlerò nella «Biografia» e, in modo più convincente, di sé parlerà egli stesso nel libro qui tradotto, che s’intitola al suo nome. Nessuno dei principi dell’epoca, però, era dello stampo degli antichi fondatori delle dinastie imperiali: al massimo, i loro modelli erano i capi dei feudatari che, tre secoli prima, avevano imposto la loro egemonia con la forza. Perciò Mencio non fu ascoltato, mentre nelle corti erano in auge i legisti, come Shang Yang, i politici, come Su Ch’in e Chang I, ai quali tutti ho già accennato (vedi n. 38), e i cultori dell’arte militare come Wu Chi e Sun Pin. Intorbidavano ancor più le acque i numerosi letterati che, dimentichi dell’antico riserbo della categoria, si aggiravano da corte a corte offrendo i loro servigi ed intrigando. 43. La prima scena della tragedia dei Regni Combattenti si apre sulla temporanea preminenza del regno di Ch’u e sulle lotte d’assestamento fra Ch’i, Wei, Han e Chao. Ch’u si serviva come ministro dell’esperto militare Wu Chi, sotto la guida del quale riportò vittorie su Yüeh, sui «tre Chin» e su Ch’in. Ch’u salì in potenza e fu temuto dagli altri feudatari. Ciò, peraltro, durò finché Wu Chi

non fu assassinato. Ch’i si serviva come generale dell’altro esperto militare, Sun Pin. Nel 368 Ch’i batté Wei, lo batté di nuovo nel 353 quando questo attaccò Chao e lo batté ancora nel 341 quando attaccò Han. Nello stesso tempo Ch’in s’avvaleva di Shang Yang per riformare i sistemi legislativo e fiscale, imponendo la supremazia della legge severissima e abolendo le antiche forme di percezione delle imposte. Ch’in, già forte per il continuo esercizio delle armi contro i barbari confinanti, venne forgiato da Shang Yang come uno strumento affilatissimo, adatto alla politica di conquista che sarebbe stata perseguita dai suoi governanti. Shang Yang fu messo a morte dal successore del principe che aveva servito. 44. Spesso la «belva di Ch’in» usciva dalla sua tana: ne fecero le spese il regno di Wei (340), che fu costretto a trasferire la sua capitale a Ta-liang, e da allora in poi fu chiamato Liang, e il regno di Han che fu battuto a I-yang (335). Le vittorie di Ch’in erano rese atroci dal fatto che aveva messo a soldo le teste dei nemici vinti: sul campo di battaglia scomparve la pietà delle antiche tenzoni cavalleresche. Wei perdette 80.000 teste e Han 60.000. 45. Quando Ch’u estinse il regno di Yüeh (334), i feudatari compresero che nessuno era sicuro e prestarono orecchio alle teorie di Su Ch’in sull’alleanza verticale fra Yen, Chao, Wei, Han, Ch’i e Ch’u, diretta contro Ch’in. L’alleanza si fece (333), ma nacque tarata dalla sfiducia, abilmente coltivata da Ch’in, che ciascuno dei feudatari nutriva verso gli altri, così che durò appena un anno. L’alleanza si fece di nuovo nel 318 tra cinque stati, tenendosi da parte Ch’i. Ch’in riportò la vittoria sugli alleati, cogliendo un bottino di 80.000 teste. Su Ch’in fu messo a morte nello stato di Ch’i. Un nuovo tentativo di Ch’u contro Ch’in si risolse in una sconfitta (312) e Ch’in tagliò altre 80.000 teste. 46. Questo fu il momento in cui Ch’in mandò per le corti Chang I a propugnare l’opportunità che si addivenisse all’alleanza orizzontale cioè alla federazione dei sette stati sotto l’egemonia di Ch’in. Ma i feudatari non erano disposti a sottomettersi a Ch’in e la federazione non si fece. Nel 288 il re di Ch’in e il re di Ch’i assunsero rispettivamente il titolo di Imperatore d’Occidente e di Imperatore d’Oriente. La belva di Ch’in riprese i suoi attacchi. Non starò ad enumerare tutte le battaglie combattute e le teste recise, dirò solo delle più importanti: nel 275 colpì Wei, che perdette 40.000 teste, nel 262 attaccò Han e nel 260 Chao, a cui strappò il colossale bottino di 400.000 teste. Altre battaglie combatté contro

Chao e contro Wei. 47. Nel 256 l’imperatore NAN WANG entrò nei confini di Ch’in con l’intenzione di punirlo, ma fu sconfitto e morì. Con lui si estinse la dinastia Chou, che negli ultimi cinque secoli aveva occupato inutilmente il trono. Il suo successore si fece chiamare «principe del Chou orientale», ma anch’egli fu sconfitto e nel 249 i Chou scomparvero. 48. Continuò la lotta di Ch’in contro i feudatari che gli impedivano l’unificazione dell’impero. Nel 246 salì sul trono di Ch’in, sotto la reggenza di Lü Pu-wei, un ragazzo tredicenne di nome Ch’êng, contro il quale nel 241 si allearono infruttuosamente i feudatari. Alla fine essi tentarono di sopprimere col pugnale quel nemico che non riuscivano a vincere con la spada: Tan, principe ereditario di Yen, incaricò un certo Ching Ko di assassinare Ch’êng, ma anche questo colpo fallì (227). Il sicario fu fatto a pezzi e Yen, assalito e terrorizzato, decapitò Tan per ingraziarsi il furente Ch’êng. 49. Forse fu questo episodio che spinse Ch’êng a fare l’ultimo sforzo contro i feudatari demoralizzati: nel 229 aveva distrutto Chao; nel 225 estinse Wei; nel 224, alla testa di 600.000 uomini, batté Ch’u e l’estinse l’anno successivo; nel 222 estinse Yen; nel 221 estinse Ch’i. In questo periodo estinse anche Han. L’organizzazione feudale era definitivamente distrutta e tutta la Cina dell’epoca era ormai unificata sotto il governo centralizzatore di Ch’in. Ch’êng assunse ufficialmente la dignità imperiale (221 a. C.) con il titolo di Ch’in Shih Huang Ti (Primo Augusto Imperatore Ch’in). La dinastia Chou (a fianco è indicato l’anno di accessione al trono) 1 Wu Wang 2 Ch’êng Wang 3 K’ang Wang 4 Chao Wang 5 Mu Wang 6 Kung Wang 7 I Wang 8 Hsiao Wang 9 I Wang 10 Li Wang

1122 1115 1078 1052 1001 946 934 909 894 878

 (interregno Kung Ho)

841

11 Hsüan Wang 12 Yu Wang 13 P’ing Wang 14 Huang Wang 15 Chuang Wang 16 Hsi Wang 17 Hui Wang 18 Hsiang Wang 19 Ch’ing Wang 20 Kuang Wang 21 Ting Wang 22 Chien Wang 23 Ling Wang 24 Ching Wang 25 Chin Wang 26 Yuan Wang 27 Chên Ting Wang 28 K’ao Wang 29 Wei Lieh Wang 30 An Wang 31 Lieh Wang 32 Hsien Wang 33 Shên Ching Wang 34 Nan Wang

827 781 770 719 696 681 676 651 618 612 606 585 571 544 519 475 468 440 425 401 375 368 320 314

1. Gli Annali dei Libri di Bambù danno una diversa versione: a T’ang sarebbe succeduto il figlio Wai-ping, che morì dopo due anni, e a questi l’altro figlio Chung-jên, che morì dopo quattro anni. Di costoro però non si fa menzione negli elenchi della dinastia ed inoltre le date offerte dai predetti Annali non corrispondono a quelle comunemente accettate dalle cronologie cinesi. Pertanto sono portato (vedi nota 157 a ME 128) a rispettare quegli elenchi, secondo i quali a T’ang succedette il nominato T’ai Chia.

BIOGRAFIA DI CONFUCIO

Nei Quattro Libri la presente Biografia è premessa ai «Dialoghi». Essa è tratta dallo Shi Chi (Memorie Storiche), opera di Szu-ma Ch’ien (145-86 a.C.), una sezione della quale contiene alcune monografie sui più importanti personaggi dell’epoca feudale, Le note che la integrano sono del Traduttore. Il nome Confucio è di invenzione ed uso europei: deriva dalla latinizzazione delle parole K’ung Fu-tzu (Confutius, Confucius), in cui è indicato il cognome K’ung del saggio ed il suo titolo fu-tzu (maestro). Il nome europeo Confucio significa, quindi, «Maestro K’ung». Nei testi qui tradotti ho usato questo nome soltanto al difuori dei discorsi, mentre nei discorsi ho rispettato il modo cinese di nominare il Maestro o con il suo cognome K’ungtzu (il filosofo K’ung) o con il suo nome ufficiale Chung-ni. Nello Shih Chi, a (la sezione) «Nobili Famiglie» è detto1: 1. Il filosofo K’ung di nome dato Ch’iu, di nome proprio Chung-ni. I suoi avi erano del regno di Sung. Gli antenati di Confucio si fanno risalire all’Imperatore Giallo (Huang Ti) e, in tempi meno remoti, a Chi, visconte di Wei, fratellastro dell’ultimo imperatore della dinastia Yin, il quale ebbe in feudo il regno di Sung (vedi CS 27). Uno dei pronipoti di Chi, Fu-ho, rinunciato al trono, dette origine al ramo dal quale nacque un tale K’ung Fu-chia, che per primo assunse quel cognome, ed in seguito, dai discendenti di questi trasferitisi nel regno di Lu, Confucio. Suo padre fu Shu-liang-ho e sua madre una (donna) della famiglia Yen.

Shu-liang-ho era stato un valente soldato. Dalla prima moglie aveva avuto nove figlie e da una concubina un figlio storpio, di nome Meng-pi ed anche Po-ni. Ad oltre settant’anni prese nuovamente moglie. Sembra che all’epoca della nascita di Confucio egli ricoprisse una carica ufficiale nella città di Tsou. La madre di Confucio, la più giovane di tre sorelle della famiglia Yen, aveva nome Chêng-tsai. Si narra che rivolgesse fervide preghiere al monte Ni-ch’iu perché le fosse concesso un figlio: per tale motivo, si dice, quando Confucio nacque gli sarebbe stato imposto il nome Ch’iu e da adulto avrebbe assunto il nome Chung-ni. Sembra invece che il nome Ch’iu (monticello) gli fosse imposto a causa di una protuberanza che egli aveva sulla sommità del capo.

2. K’ung-tzu nacque nell’anno kêng-hsu, ventiduesimo (di regno) del duca Hsiang di Lu, nel giorno kêng-tzu dell’undecima luna, nella città di Tsou del distretto di Chang-p’ing nel regno di Lu.

La coppia di caratteri indicanti l’anno e il giorno appartengono al ciclo sessagesimale del calendario cinese. Secondo il sistema di traduzione delle date cinesi riportato da Herbert H. Giles nel suo «Chinese and English Dictionary» (ed. 1912), la data corrisponde al 3 dicembre del 551 avanti Cristo. Gli storici non sono concordi sulla data indicata nel testo. Lu era un piccolo stato feudale, estendentesi sul territorio di alcuni distretti dell’odierno Shantung, di

cui anticamente il re Wu aveva investito il fratello Tan, noto come il duca Chou (vedi CS 26).

3. Nei suoi giuochi di bambino solitamente disponeva in ordine il vasellame dei sacrifici e divisava la procedura dei riti.

Perdette il padre quando aveva tre anni, la madre gli morì quando era adulto. Trascorse la sua giovinezza in seno alla famiglia di povere condizioni, alla quale talvolta dovette procurare il cibo con la caccia e la pesca (vedi DI 173). Nulla si sa di certo sui suoi studi.

4. Divenuto adulto, fu assunto come funzionario nella famiglia Chi e fu addetto alla direzione dei granai. Gli fu poi affidata l’amministrazione dei campi pubblici: il bestiame ingrassò e si riprodusse. A diciannove anni prese in moglie una fanciulla della famiglia Chien-kuan del regno di Sung. Generò un figlio e una figlia, che dette in isposa al discepolo Kung-yeh Ch’ang (vedi DI 93). Il figlio, nato l’anno successivo al matrimonio, ebbe nome Li e Po-yü. Sembra che a ventidue anni Confucio abbia cominciato l’attività dell’insegnamento.

5. Si recò a (la capitale dei) Chou, dove interrogò Lao-tzu sui riti. Dopo che fu tornato, i discepoli gli si presentarono in numero sempre crescente. Su raccomandazione del padre morente, era divenuto suo discepolo Meng I-tzu, appartenente alla ricca e potente famiglia di cui parlerò appresso. Con l’appoggio dei Meng Confucio poté realizzare (forse nel 518) il suo grande desiderio di recarsi a Lo, dove risiedeva la corte imperiale, per visitarla ed intrattenersi con Laotzu, propugnatore della dottrina taoista (vedi CS 37), il quale sembra che rivestisse a corte la carica di archivista o di bibliotecario.

6. Nell’anno chia-shen (517), venticinquesimo del duca Chao, quando K’ung-tzu aveva trentacinque anni, il duca Chao fuggì nel regno di Ch’i. Lu era in preda all’anarchia. La vita politica del regno di Lu era condizionata dallo strapotere di tre grandi famiglie di dignitari (le Tre Casate): Chi, Meng e Shu, discendenti dai tre figli di una concubina del duca Huang, sedicesimo principe di Lu (sul trono 711-692), le quali, per ricordare la loro nobile origine, aggiungevano al proprio cognome la parola sun (nipote), per cui erano anche dette Chi Sun, Meng Sun, Shu Sun. In realtà, le tre casate si erano diviso il territorio di Lu in zone d’influenza: due quarti del paese pertinevano ai Chi Sun e gli altri due quarti ai Meng Sun ed agli Shu Sun. Da alcune generazioni i duchi Hsüan, Ch’êng, Hsiang, Chao e poi Ting, erano stati esautorati dai dignitari loro contemporanei Wu, Tao, P’ing e Huang della casata Chi Sun, dalla quale Confucio aveva avuto il suo primo impiego (vedi n. 4), che praticamente aveva governato e governava lo stato. Nel 517 il duca Chao tentò di punire con le armi il sopra nominato Chi P’ing ma, essendo stato sconfitto, dovette fuggire nello stato di Ch’i, confinante a settentrione con Lu.

7. Perciò (K’ung-tzu) si recò a Ch’i, dove divenne ministro di casa di Kao Chao-tzu ed ebbe dei colloqui con il duca Ching. Questi voleva assegnargli le terre di Ni-chi, ma Yen Ying si oppose ed il duca dubitò (di potersi servire di K’ungtzu). K’ung-tzu si rimise in viaggio e tornò a Lu.

Nessuna notizia è data su Kao Chao-tzu, dignitario di Ch’i. Il duca Ching (sul trono 547-489) intendeva offrire a Confucio le terre di Ni-chi affinché questi si trattenesse nel regno. Il suo primo ministro Yen Ying lo dissuase, facendogli osservare che molto tempo sarebbe occorso per riformare i costumi di Ch’i secondo le idee del saggio e troppa cura sarebbe stata sottratta al governo del popolo. Il duca si sentì troppo vecchio per servirsi di Confucio (vedi DI 463).

8. Nell’anno jên-ch’êng (509), primo del duca Ting di Lu, quando K’ungtzu aveva quarantatre anni, il (potere del) dignitario Chi fu usurpato con la violenza: il suo intendente Yang Hu si fece ribelle e s’impadronì del governo. K’ung-tzu, perciò, non servì nelle magistrature e si tenne in disparte. Approfondì lo studio delle odi, dei documenti, dei riti e della musica. I discepoli divennero una moltitudine.

La situazione di disordine conseguente alla fuga del duca Chao in esilio, dove morì, non migliorò con l’ascesa al trono del debole duca Ting, una creatura di Chi P’ing. Anzi, la stessa famiglia Chi Sun si trovò a dover affrontare la ribellione dei suoi intendenti. Yang Hu, detto anche Yang Huo, catturò addirittura il capo della casata Chi, che dovette scendere a patti, e s’impadronì del potere. Confucio rifiutò la sua offerta di entrare nel governo (vedi DI 435).

9. Nell’anno kêng-tzu (501), nono (di regno del duca Ting), quando K’ungtzu aveva cinquantun anno, Kung-shan Pu-niu si ribellò al dignitario Chi impadronendosi della città di Pi. Mandò a chiamare K’ung-tzu: questi voleva andarvi, ma alla fine non vi si recò.

Kung-shan Pu-niu, detto anche Kung-shan Fu-jao, era un altro intendente della famiglia Chi. Sulla convocazione di Confucio vedi DI 439. Anche i Meng e gli Shu si trovavano in analoghe difficoltà con i lóro funzionari. La lotta fra le Tre Casate e i ribelli ebbe un primo successo nel 501 con la disfatta di Yang Hu, che fuggì nel regno di Ch’i. La nuova situazione di relativa tranquillità, in cui venne a trovarsi il regno di Lu, rese possibile l’ingresso di Confucio nel governo.

10. Il duca Ting lo nominò governatore di Chung-tu: dopo un anno era preso a modello in ogni dove. Fu poi nominato assistente ministro dei lavori pubblici e successivamente ministro della giustizia. 11. Nell’anno hsin-chou (500), decimo (di regno del duca Ting), assisté il duca Ting nel convegno con il marchese di Ch’i a Chia-ku. Le truppe di Ch’i abbandonarono i territori occupati di Lu.

Ting di Lu e Ching di Ch’i, principi dei due stati confinanti, s’incontrarono a Chia-ku per stipulare un trattato di alleanza. Confucio faceva parte della delegazione di Lu come esperto nel rituale. Il convegno fu per trasformarsi in una trappola per il duca Ting, poiché il suo interlocutore fece intervenire degli uomini armati per prenderlo. L’attentato fu bollato da Confucio come una grave infrazione ai riti e il duca Ching vi rinunciò. Fece pure evacuare il territorio di Lu dalle sue truppe, che lo avevano invaso. In tale occasione si combatté una battaglia nelle vicinanze della capitale di Lu. Le trattative, nonostante tutto, continuarono fino alla conclusione del trattato. «Marchese» (hou) era il grado nobiliare del feudatario di Ch’i: tutti i feudatari, però, venivano denominati «duca» dopo la loro morte.

12. Nell’anno kuei-mao (498), dodicesimo (di regno del duca Ting), mandò Chung Yu a far da intendente al dignitario Chi. (Disegnò di) abbattere le (fortificazioni delle) tre città e di privarle dei loro apprestamenti militari.

Chung Yu è il discepolo Tzu-lu, detto anche Chi Lu per la sua dipendenza dalla famiglia Chi. La potenza delle Tre Casate aveva come capisaldi tre città fortificate, loro feudi, dalle quali potevano sfidare o minacciare l’autorità del principe. Queste tre città erano: Pi dei Chi, di cui si era impadronito il

ribelle intendente Kung-shan Pu-niu (vedi n. 9), Ch’êng dei Meng e Hou degli Shu. In quel momento le tre città erano nelle mani dei ministri ribelli delle Tre Casate, le quali collaborarono attivamente al disegno di Confucio: questo fu realizzato per le città di Pi e Hou. Per tale successo crebbe la sua autorità nello stato.

Il dignitario Meng non volle abbattere (le fortificazioni di) Ch’êng, la quale, assediata, non poté essere conquistata.

Meng non volle abbattere le fortificazioni della sua città di Ch’êng, adducendo che essa rappresentava un valido baluardo contro lo stato di Ch’i.

13. Nell’anno i-szu (496), quattordicesimo (di regno del duca Ting), K’ungtzu aveva cinquantasei anni. Fu vicario nelle attività ufficiali altrui ed assisté (il principe) negli affari di governo.

L’ultima frase potrebbe anche tradursi: «Agì da vicario nelle attività ufficiali altrui e servì come primo ministro». In base a questa versione fu avanzata l’ipotesi che Confucio avesse ricoperto anche la carica di primo ministro. Poiché il fatto non trova esplicita conferma nei documenti e trattasi, quindi, di questione di mera interpretazione, mi sono attenuto alla versione di cui sopra.

Raramente condannò a morte, regolarizzò il servizio dei funzionari, rese illustre il governo dello stato. In tre mesi nel regno di Lu fu ristabilito un grande ordine.

Sotto il governo riformatore di Confucio Lu rifiorì, destando i timori dei principi vicini. Tali timori indussero il duca di Ch’i al tentativo, qui di seguito descritto, di eliminare il pericolo provocando una rottura fra il duca di Lu e il suo ministro.

14. I governanti di Ch’i mandarono in dono delle musicanti al fine di arrestare (tali progressi): Chi Huang-tzu le ricevette e dopo il sacrificio non furono mandati i vassoi della carne sacrificale ai dignitari. K’ung-tzu se ne andò. Il duca Ching di Ch’i inviò in dono al suo collega di Lu ottanta bellissime ragazze musiciste e centoventi magnifici cavalli. Il dignitario Chi Huang-tzu andò ad esaminare il dono prima che entrasse in città e poi convinse il duca Ting ad accettarlo. Per tre giorni il duca non dette udienza ai ministri (vedi DI 464). Il saggio non volle abbandonare il suo posto per tale motivo, onde non render manifesta la grave colpa del principe. Aspettò il verificarsi di una mancanza più lieve: essa fu commessa in occasione del sacrificio primaverile, che fu celebrato con deplorevole fretta e negligenza, tanto che non venne inviata, come era costume, la carne del sacrificio ai dignitari che vi avevano assistito. Questa fu la scusa con cui Confucio abbandonò la carica di ministro e, seguito da alcuni discepoli, si allontanò lentamente da Lu, sperando di essere richiamato dal suo principe.

15. Si recò nel regno di Wei, dove fu ospite nella casa di Yen Cho-tsou, fratello maggiore della moglie del (discepolo) Tzu-lu. Yen Cho-tsou era un virtuoso dignitario del regno di Wei. Quivi Confucio ebbe dal duca Ling un appannaggio di 60.000 misure di frumento. Vi si trattenne dieci mesi: non si conoscono le ragioni per cui ebbe intenzione di trasferirsi.

16. Si avviò verso il regno di Ch’ên. Passando per Kuang, i cittadini lo scambiarono per Yang Hu e lo catturarono.

Sembra che Confucio somigliasse a Yang Hu, il ribelle intendente della famiglia Chi (vedi n. 8): gli abitanti della città di Kuang, tratti in inganno dalla somiglianza, lo presero per vendicarsi di Yang Hu, che li aveva angariati. Chiarito l’equivoco, Confucio, non si sa per quale motivo, non proseguì per il

regno di Ch’ên.

17. Dopo che fu rilasciato tornò a Wei, dove fu ospite nella casa di Ch’ü Po-yü. Fece visita a Nan-tzu. Nessuna notizia è data sul dignitario Ch’ü Po-yü. Confucio lo considerava un saggio (vedi DI 385). Nan-tzu era la moglie del duca Ling di Wei, nota per la sua vita licenziosa. Arrivato a Wei, Confucio aveva ricevuto l’invito a farle visita: dapprima si era scusato, ma poi non poté fare a meno di aderire all’invito, con grande scandalo di Tzu-lu (vedi DI 145).

18. Allontanatosi, si recò nel regno di Sung, dove il ministro della guerra Huang Tui voleva ucciderlo. Le ragioni della minaccia di Huang Tui alla vita di Confucio non sono note. Sembra, comunque, che Confucio celebrasse con i suoi discepoli una cerimonia sotto un albero, quando Huang Tui mandò degli armati per abbattere l’albero e uccidere il saggio. Confucio e i suoi discepoli si salvarono con la fuga.

19. Se ne andò anche da qui e si recò a Ch’ên, ospite in casa dell’assistente ministro dei lavori pubblici Chên-tzu, dove rimase per tre anni. (Poi) ritornò a Wei. Altrove (ME 130) Chu Hsi annota che Chên-tzu, all’epoca ministro di Chou marchese di Ch’ên, era un virtuoso dignitario del regno di Sung.

20. (A Wei) il duca Ling non poté avvalersi di lui. Pi-hsi, ministro di casa del dignitario Chao di Chin, che si era ribellato impadronendosi della città di Chung-mou, mandò a chiamare K’ung-tzu. Egli voleva recarvisi, ma poi non realizzò (questa sua intenzione). Si diresse verso occidente per far visita a Chao Chien-tzu. Giunto al Fiume (Giallo), tornò indietro e di nuovo fu ospite di Ch’ü Po-yü. Chao Chien-tzu, di nome Yang, già nominato sopra come il dignitario Chao, era il capo di una delle tre casate (Chao, Han e Wei) di dignitari del regno di Chin, tra le quali il regno stesso fu diviso un secolo più tardi (vedi CS 39). Sulla convocazione da parte di Pi-hsi vedi DI 441.

21. Il duca Ling lo interrogò sull’arte di schierare le truppe in battaglia, ma egli non rispose e se ne partì. Di nuovo tornò a Ch’ên. Chu Hsi colloca nel periodo di questo viaggio da Wei a Ch’ên l’episodio di cui si parla altrove (DI 380): Confucio e i suoi discepoli rimasero senza viveri e per sette giorni soffrirono la fame. Secondo lo Shih Chi, invece, tale episodio sarebbe avvenuto durante il viaggio da Ch’ên a Ts’ai, di cui appresso. Dopo il passo della presente «Biografia» che parla di quest’ultimo viaggio (vedi n. 23), Chu Hsi annota che nello Shih Chi è detto: «Il re Chao di Ch’u inviò un messo ad invitare K’ung-tzu, il quale si mise in viaggio per ringraziarlo della cortesia. Ma i dignitari di Ch’ên e di Ts’ai inviarono degli armati per oircondarlo. Perciò K’ung-tzu rimase senza viveri tra Ch’ên e Ts’ai». E si domanda: «A quell’epoca Ch’ên e Ts’ai erano vassalli di Ch’u. Come avrebbero osato i dignitari di questi due stati far circondare un invitato del re di Ch’u?» Tale è la ragione per cui egli ritiene che l’episodio si sia verificato nei viaggio da Wei a Ch’ên. In tal caso, si può aggiungere, l’atto di violenza dovette essere ordinato non da Ch’ên ma da Wei, dove forse il duca Ling covava l’astio per l’atteggiamento del saggio, poiché altrimenti Confucio non si sarebbe recato a Ch’ên.

22. Chi Huang-tzu morì ed in punto di morte disse a K’ang-tzu (suo figlio) che bisognava richiamare K’ung-tzu. Ma un intendente lo dissuase e K’angtzu chiamò (il discepolo) Jan Chiu.

Nel regno di Lu il duca Ting era morto ed a lui era succeduto il duca Ai (494). Chi Huang-tzu morì nel 492 e sul letto di morte si pentì di aver lasciato partire Confucio.

23. K’ung-tzu (da Ch’ên) andò a Ts’ai e raggiunse Shê.

Confucio rimase nel regno di Ch’ên per tutto il 492 e poi si stabilì a Ts’ai, piccolo stato satellite di Ch’u, fino al 490. Nell’anno successivo andò a Shê, un distretto del regno di Ch’u, il cui governatore Ch’ên Chu-liang si era attribuito il titolo di duca. Da Shê tornò a Ts’ai. Il re Chao di Ch’u, saputo che Confucio attraversava i suoi territori, mandò ad invitarlo alla sua corte.

24. Il re Chao di Ch’u voleva dare in feudo a K’ung-tzu il territorio di Shushê, ma il suo primo ministro Tzu-hsi lo dissuase e (il re) desistette. Il re Chao mutò parere circa l’investitura a Confucio del feudo di Shu-shê, che sembra fosse di 700 li, quando il suo primo ministro Tzu-hsi gli fece osservare che i fondatori della dinastia Chou avevano preso le mosse da un territorio molto meno esteso per conquistare l’impero. A suo parere, Confucio, maestro di uomini di provata capacità politica ed amministrativa, che sicuramente avrebbero collaborato con lui, sarebbe stato in grado di potenziare il suo feudo in misura tale da rappresentare un pericolo per tutti gli altri feudatari.

25. Tornò di nuovo a Wei, dove intanto era morto il duca Ling. Il (nuovo) principe di Wei, Chê, avrebbe voluto che K’ung-tzu entrasse nel governo.

Il duca Ling era morto nel 493, poco dopo la partenza di Confucio dal suo regno, lasciando una pericolosa situazione dinastica. In precedenza, infatti, aveva diseredato il figlio K’uai-kuei, che aveva istigato un attentato contro la madre Nan-tzu. Al duca Ling succedette quindi il nipote Chê, figlio di K’uai-kuei, che assunse il nome Chu. K’uai-kuei, alla morte di Ling, avanzò pretese sul trono, contro la volontà del popolo che lo considerava reo di empietà filiale. La situazione era aggravata dal fatto che il regno di Chin appoggiava con le armi le rivendicazioni del principe diseredato. Chê riteneva che la presenza di Confucio nel governo avrebbe consolidato la sua posizione. Ma Confucio rifiutò l’offerta perché non approvava la condotta di Chê (vedi DI 161).

26. Nel frattempo Jan Chiu, nominato comandante delle truppe del dignitario Chi, aveva avuto successo in alcune operazioni militari contro Ch’i.

In relazione all’esito favorevole di queste operazioni, K’ang-tzu domandò a Jan Chiu come avesse acquistato le sue capacità di capitano e quello gli rispose che gli derivavano dall’insegnamento di Confucio.

K’ung Ch’iu. Il santo perfetto, il maestro antesignano. (Chih Shên Hsien Shih)

K’ang-tzu, allora, mandò a chiamare K’ung-tzu e questi tornò a Lu nell’anno ting-szu (484), undecimo del duca Ai, sessantottesimo della sua vita. In definitiva, però, Lu non fu in grado di utilizzare K’ung-tzu ed egli non cercò incarichi di governo. 27. Scrisse una prefazione allo Shu, tramandò le memorie sui riti, selezionò le odi, corresse la musica, riordinò le definizioni dell’I Ching e ne collegò le glosse, scrisse lo Shuo Kua e il Wên Yen. Sullo Shu Ching (Libro dei Documenti) e sull’I Ching (Libro delle Mutazioni) vedi Appendice alle singole voci. Lo Shuo Kua e il Wên Yen sono due capitoli delle appendici dell’l Ching. Le odi prese in considerazione da Confucio furono circa 3.000: egli ne fece una selezione, raccogliendone 311 nel volume Shih Ching (Libro delle Odi), delle quali 305 sono giunte fino a noi. È probabile che in questo periodo di studio e d’insegnamento, il Maestro abbia fornito al discepolo Tsêng Ts’an (Tsêng-tzu) il materiale per lo Hsiao Ching (Libro della Pietà Filiale).

28. I suoi discepoli furono tremila, a settantadue dei quali insegnò personalmente le sei arti. Dei 3.000 discepoli, si dice che circa 500 abbiano ricoperto incarichi di governo o amministrativi nei vari stati, 72 gli furono più vicini e 10 furono i migliori. Tra questi considerò superiore agli altri e gli fu carissimo Yen Hui (Yen Yüang), che apparteneva alla famiglia della madre. Le sei arti, di cui è cenno nel testo, erano: riti, musica, tiro con l’arco, guida dei carri, scrittura, matematica. Nel 483 gli premorì il figlio Li. Dopo il figlio (vedi DI 260), morì anche il diletto Yen Hui, la cui perdita Confucio pianse accoratamente.

29. Nell’anno kêng-shen (481), quattordicesimo (di regno del duca Ai), nella regione occidentale di Lu i cacciatori uccisero un lin. K’ung-tzu scrisse Primavera ed Autunno. Il lin è la femmina dell’unicorno (chi), animale favoloso che si mostrava quando nell’impero viveva un uomo santo o un imperatore seguiva la Via. Dall’uccisione dell’animale Confucio trasse il vaticinio della sua prossima morte. Forse nella convinzione della sua fine imminente, egli interruppe la stesura della sua opera storica Ch’un Chiu (lett.: primavera ed autunno, ossia annata intera e, per estensione, avvenimenti di un anno, annali), che contiene le cronache dal 1° anno di regno del duca Yin (722) al 14° anno del duca Ai (481) di Lu: in tutto un periodo di 242 anni, in cui nello stato di Lu governarono 12 principi. Sotto la data del 14° anno di Ai è riportata un’unica notizia: «Nel quattordicesimo anno, di primavera, in occidente i cacciatori uccisero un lin», con cui termina l’opera. Mencio afferma (vedi ME 60) che in essa sono trattati gli affari del Figlio del Cielo, volendo significare che Confucio la scrisse come se fosse investito della responsabilità imperiale. Al discorso sovra citato di Mencio, Chu Hsi annota: «Chung-ni scrisse Primavera ed Autunno perché vi trovassero posto le norme della regalità: osservare le virtù canoniche (la giustizia del padre, la misericordia della madre, l’amicizia del fratello maggiore, il rispetto del fratello minore, la pietà filiale del figlio N. d. T.), praticare costantemente i riti, considerare la designazione del Cielo (alla dignità imperiale) diretta al virtuoso, punire i colpevoli. Di tutto ciò può dirsi, in generale, che sono affari propri del Figlio del Cielo».

30. Il successivo anno hsin-yu (480) morì Tzu-lu a Wei. Il discepolo Tzu-lu, cioè Chung Yu (vedi n. 12), noto per il suo amore per l’ardimento, ricopriva una carica ufficiale nel regno di Wei. Scoppiati dei torbidi, egli si gettò temerariamente nella mischia e fu ucciso. Si dice che, il colpo inferto avendogli reciso il nodo del berretto, egli abbia citato la massima: «Il saggio sicuramente non muore senza berretto», e poi, legato di nuovo il cordone e aggiustatosi il copricapo, sia spirato.

31. Nell’anno jên-hsü (479), sedicesimo (di regno del duca Ai), nel giorno chi-chou della quarta luna, K’ung-tzu morì all’età di settantatre anni. La data indicata nel testo corrisponde al 14 marzo del 479 avanti Cristo.

Fu seppellito a settentrione della città fortificata di Lu, sul (fiume) Szu. Il dizionario Tzu Yüan, alla voce «K’ung lin» (il boschetto di K’ung), riporta la descrizione di un boschetto che, ad un li dalla città fortificata di Lu, sorse sul tumulo della tomba di Confucio per la pietà di discepoli e di lontane genti, che vi piantarono alberi dei loro paesi. Aggiunge: «Il boschetto di K’ung si trova a due li a settentrione di Ch’u-fu Hsien, nello Shantung, avendo a tergo il fiume Szu e dirimpetto il fiume Chu».

Tutti i discepoli, con animo sottomesso, presero il lutto per tre anni (come per il padre) e quindi si allontanarono. Solo Tzu-kung visse in una capanna presso il tumulo per sei anni. 32. K’ung-tzu generò Li, di nome proprio Po-yü, che gli premorì. Po-yü generò Chi, di nome proprio Tzu-szu, che scrisse l’Invariabile Mezzo. Tzu-szu fu discepolo di Tsêng-tzu. 1. Da questa introduzione si potrebbe intendere che qui sia trascritta la biografia di Confucio nelle esatte parole dello Shih Chi. In realtà non è così: Chu Hsi riporta solo i fatti salienti della vita del Maestro.

LA PIETÀ FILIALE* (Hsiao Ching)

LIBRO I 1. INTRODUZIONE E CHIARIMENTO Chung-ni se ne stava inoperoso. A lui attendeva Tsêng-tzu. Disse: — Gli antichi sovrani possedevano la Via essenziale della somma virtù1, con cui rendevano armonioso il mondo. Il popolo viveva nella pace e nella concordia, tra superiori ed inferiori non v’era animosità. La conosci? Tsêng-tzu si alzò dalla stuoia e disse: — Ts’an (io) non è istruito. Come sarebbe in grado di conoscerla? — La pietà filiale è il fondamento della virtù e la scaturigine dell’educazione — disse Confucio. — Torna a sedere, te ne parlerò. Il corpo, le membra, i capelli, la pelle, li abbiamo ricevuti dai genitori. Non osare distruggerli o danneggiarli, è il cominciamento della pietà filiale. Elevare la propria persona nella pratica della Via, (così da) tramandare il proprio nome alle generazioni future e con ciò rendere illustri i propri genitori, è il completamento della pietà filiale. Quindi la pietà filiale comincia con il servire i genitori, prosegue con il servire il principe e si completa con l’elevare la propria persona. Nel Ta Ya è detto: «Ricordatevi dei vostri avi, coltivate le loro virtù»2. 2. DEL FIGLIO DEL CIELO Confucio disse: — Colui che ama i suoi genitori non osa odiare gli altri, colui che venera i suoi genitori non osa essere irriguardoso verso gli altri. Quando l’amore e la venerazione sono attuati fino in fondo nel servire i genitori, allora colui conferisce virtù ed educazione ai cento cognomi e si pone come modello fra i quattro mari3. Questa è la pietà filiale del Figlio del Cielo. Nel Fu Hsing è detto: «Se l’imperatore attua ciò che è bene, tutto il popolo s’affida a lui»4.

LIBRO II 3. DEI PRINCIPI FEUDATARI Chi è posto al disopra (degli altri), se non è superbo, sta in alto ma non corre pericolo; se s’impone la parsimonia e si conduce con misura, è pieno (di ogni agio) ma non strabocca. Sta in alto senza pericolo, così conserva a lungo il suo grado nobiliare; è pieno senza straboccare, così conserva a lungo la sua

ricchezza. Se la nobiltà e la ricchezza non abbandonano la sua persona, può poi conservare il sacrificio agli esseri spirituali della terra e dei grani5 e tenere il suo popolo nell’armonia. Questa è la pietà filiale dei principi feudatari. Nell’Ode (II, 41, 6) è detto: «Siate timorosi e cauti, come se foste sull’orlo di un profondo abisso, come se camminaste sul ghiaccio sottile». 4. DEI MINISTRI E DEI DIGNITARI Non osano indossare vesti che non siano quelle prescritte (per il loro rango) dagli antichi sovrani; non osano pronunciare parole che non siano quelle prescritte dagli antichi sovrani; non osano compiere azioni che non siano le azioni virtuose degli antichi sovrani. Così non parlano senza regola e non agiscono difformemente alla Via. La loro bocca non ha scelta di parole e la loro persona non ha scelta di azioni, (perciò) le parole riempiono il mondo senza (essere falsate da) errori e le azioni riempiono il mondo senza (suscitare) discordia e odio. Osservati questi tre (precetti), essi possono poi conservare il tempio degli antenati6. Questa è la pietà filiale dei ministri e dei dignitari. Nell’Ode (III, 26, 4) è detto: «Giorno e notte non siate negligenti nel servire l’imperatore». 5. DEI LETTERATI Dal servire il padre traggono motivo per servire la madre e li amano nello stesso modo. Dal servire il padre traggono motivo per servire il principe e li rispettano nello stesso modo. La madre, quindi, ottiene il loro amore, il principe il loro rispetto: il padre è colui che riunisce su di sé questi due (sentimenti). Perciò, servendo il principe con la pietà filiale sono leali, servendo gli anziani con la sottomissione fraterna7 sono obbedienti. (Poiché), come leali ed obbedienti, non errano nel servire i superiori, essi possono poi conservare gli emolumenti e il grado e mantenere i loro sacrifici familiari8. Questa è la pietà filiale dei letterati. Nell’Ode (II, 42, 4) è detto: «Levatevi di buon mattino, coricatevi a tarda notte. Non infamate chi vi ha generati».

LIBRO III 6. DELLA PLEBE Uniformarsi alla Via del Cielo, distinguere il rendimento della Terra9, umiliare (i desideri de) la propria persona e spendere parsimoniosamente onde

sostentare i genitori: questa è la pietà filiale della plebe. Perciò, se la pietà filiale non è osservata dal cominciamento al completamento, non s’è mai dato che, dal Figlio del Cielo alla plebe, vi sia alcuno che non venga colpito dalla sventura. 7. DELLE TRE POTENZE10 Tsêng-tzu esclamò: — Grande, invero, è l’estensione della pietà filiale! — La pietà filiale — proseguì Confucio — è la legge immutabile del Cielo, la giustizia della Terra, la condotta del popolo. Le leggi immutabili del Cielo e della Terra: queste il popolo prende a modello11. Prendere a modello la luminosità del Cielo, essere in accordo con il rendimento della Terra, onde adeguarvi tutto ciò che è sotto il cielo: in tal modo l’ammaestramento non è solenne eppure ottiene l’effetto, il governo non è severo eppure mette ordine. Gli antichi sovrani videro che, ammaestrando con questi princìpi, potevano trasformare il popolo. Perciò li fecero precedere dal (l’esempio del loro) profondo amore (per i propri genitori) e tra il popolo nessuno trascurò i genitori; li diffusero con la virtù e la giustizia ed il popolo si elevò e li mise in pratica; li fecero precedere da (l’esempio della loro) reverenza e cedevolezza (agli altri) ed il popolo non fu turbolento; li introdussero con i riti e la musica ed il popolo visse in pace e concordia; li mostrarono nel bene (per guidarvelo) e nel male (per impedirglielo) ed il popolo comprese le proibizioni. Nell’Ode (II, 37, 1) è detto: «O terribile Gran Tutore Yin, il popolo tutto guarda a te!»12.

LIBRO IV 8. DEL GOVERNO PER MEZZO DELLA PIETÀ FILIALE Confucio disse: — Anticamente i sovrani illuminati governavano l’impero con la pietà filiale. Non osavano trascurare i sudditi dei piccoli stati: a maggior ragione, (avrebbero trascurato) i duchi, i marchesi, i conti, i visconti, i baroni? 13 In tal modo si guadagnavano la gratitudine di tutti i regni (che si manifestava con la partecipazione ai sacrifici), con la quale servivano i sovrani loro predecessori. Coloro che governavano uno stato non osavano far torto ai vedovi e alle vedove: a maggior ragione, (avrebbero fatto torto) ai letterati ed al popolo? In tal modo si guadagnavano la gratitudine dei cento cognomi, con la quale servivano i principi loro predecessori. Coloro che governavano una

casata (i ministri e i dignitari) non osavano essere in difetto verso gli intendenti e le concubine: a maggior ragione, (sarebbero stati in difetto) verso la moglie e i figli? In tal modo ottenevano la gratitudine delle persone, con la quale servivano i loro genitori. Così, dunque, finché erano in vita i genitori ne godevano (della gratitudine guadagnatasi dai figli) e, dopo la morte, i loro spiriti godevano dei sacrifici. In tal modo il mondo era in armonia e in pace, non si originavano calamità e disastri né si causavano sofferenze e disordini. Così si comportavano i sovrani illuminati nel governare l’impero con la pietà filiale. Nell’Ode (III, 22, 2) è detto: «A chi ha una condotta di grande virtù, i regni dei quattro punti cardinali obbediscono».

LIBRO V 9. DEL GOVERNO DEGLI UOMINI SANTI — Oso interrogare sulla virtù degli uomini santi14 — disse Tsêng-tzu. — Non v’è nulla che superi la pietà filiale? — Tra quelle prodotte dal Cielo e dalla Terra la natura umana è la più nobile — rispose Confucio. — Tra le azioni dell’uomo nessuna è più grande della pietà filiale, nella pietà filiale nulla è più grande della reverenza per il padre, nella reverenza per il padre nulla è più grande che considerarlo alla pari del Cielo: così fece il duca Chou. Anticamente il duca Chou offrì a Hou Chi il sacrificio chiao e con ciò lo pose alla pari del Cielo. Offrì il sacrificio ancestrale al re Wên nel Ming Tang e con ciò lo considerò alla pari del Dio Supremo15. Così all’interno dei quattro mari ciascuno (dei feudatari) compì il dovere ufficiale di intervenire ai sacrifici. Nella virtù degli uomini santi che altro potrebbe superare la pietà filiale? A causa dell’amore in loro suscitato nell’età infantile, divenivano ogni giorno più reverenti nel nutrire il padre e la madre. Gli uomini santi prendevano le mosse dalla reverenza per insegnare il rispetto, dall’affetto filiale per insegnare l’amore. L’ammaestramento degli uomini santi non era solenne, eppure otteneva l’effetto; il loro governo non era severo, eppure metteva ordine: il fondamento stava in ciò da cui prendevano le mosse (la pietà filiale). La relazione tra padre e figlio è di natura celeste e dà significato a quella tra principe e suddito. Il padre e la madre hanno dato la vita al figlio: nessun legame è più grande. Il principe come padre veglia sul suddito: nessuna cura è più grave. Perciò, non amare i propri genitori ed amare gli altri dicesi contrario alla virtù, non rispettare i propri

genitori e rispettare gli altri dicesi contrario ai riti. Se (il principe) infrange le regole a cui vuole educare il popolo, questo non avrà, regole; se egli non vive nel bene, tutti vivranno nella perversità. E benché egli abbia realizzato le sue aspirazioni (ad un’alta posizione), il saggio non lo stima. La regola del saggio non è così. Se parla, ritiene di poter parlare; se agisce, ritiene di poter apportare felicità. Per la virtù e la giustizia è degno d’essere onorato, per la condotta degli affari può essere preso a modello, per il comportamento dignitoso merita di essere osservato, per il modo d’accedere e di ritirarsi (nelle cariche pubbliche) può servire da misura. In tal maniera governa il suo popolo e pertanto il popolo lo teme e lo ama, se ne fa un modello e a lui somiglia. Così egli può realizzare il suo virtuoso insegnamento e rendere effettive le sue disposizioni di governo. Nell’Ode (I, 152, 3) è detto: «L’uomo virtuoso, il saggio, ha un comportamento senza pecca».

LIBRO VI 10. ESPONE LA CONDOTTA FILIALE Confucio disse: — Questo è il modo con cui un figlio filiale serve i suoi genitori: nell’alloggiarli pone il suo rispetto, nel nutrirli mostra la sua gioia, nel vederli malati esprime la sua ansia, nel perderli dà sfogo al suo dolore, nel sacrificare (ai loro spiriti) palesa la sua reverenza. Compiuti questi cinque (doveri), poi (può dirsi che) è capace di servire i genitori. Colui che serve i suoi genitori se sta in alto non è superbo, se sta in basso non è sedizioso, se fa parte della plebe non è turbolento, (poiché) se sta in alto ed è superbo si perde, se sta in basso ed è sedizioso incorre nelle pene, se fa parte della plebe ed è turbolento viene punito con la spada. (Quindi) se non evita questi tre (difetti), anche nutrendo i genitori ogni giorno con le tre vittime, è come se fosse privo di pietà filiale16. 11. DELLE CINQUE PENE Confucio disse: — Le cinque pene17 si applicano a tremila crimini, ma nessun crimine è più grande della mancanza di pietà filiale. Chi sforza il principe non riconosce superiori, chi vilipende i santi uomini non riconosce regole, chi è privo di pietà filiale non riconosce genitori. Questa è la via ai grandi disordini. 12.

SVILUPPA LA VIA ESSENZIALE Confucio disse: — Per insegnare al popolo l’amore e l’affetto, nulla è più efficace della pietà filiale; per insegnare al popolo l’urbanità e l’obbedienza, nulla è più valido della sottomissione fraterna; per riformare i costumi e modificare gli usi, nulla è più adatto della musica; per dar tranquillità a chi è in alto e tenere in ordine il popolo, nulla è più adatto dei riti: i riti significano rispetto e null’altro18. In effetti, (per la gratitudine che ne ottengono in cambio) i figli sono contenti di rispettare il padre, i fratelli minori sono contenti di rispettare il fratello maggiore, i sudditi sono contenti di rispettare il principe, milioni di persone sono contente di rispettare il sovrano. Coloro a cui è dovuto il rispetto sono pochi, coloro che ne traggono contentezza una moltitudine. Questa dicesi la Via essenziale.

LIBRO VII. 13. SVILUPPA LA SOMMA VIRTÙ Confucio disse: — L’ammaestramento del saggio alla pietà filiale non impone (soltanto) di visitare ogni giorno i genitori, appena si rientra in casa19. Egli educa alla pietà filiale affinché nel mondo sia rispettato chi è padre, educa alla sottomissione fraterna affinché nel mondo sia rispettato chi è fratello maggiore, educa alla fedeltà del suddito affinché nel mondo sia rispettato chi è principe. Nell’Ode (III, 17,1) è detto: «Il principe felice e cortese è il padre e la madre del popolo». Senza una somma virtù come sarebbe così grande la sua capacità di armonizzare con il popolo? 14. SVILUPPA IL TRAMANDARE IL NOME Confucio disse: — Nel servire i genitori il saggio è filiale, perciò la sua lealtà può riversarsi sul principe; nel servire il fratello maggiore è sottomesso, perciò la sua deferenza può estendersi agli anziani; in casa amministra gli affari della famiglia, perciò la sua capacità di governare può trasferirsi alle magistrature. Così, quando la sua condotta è perfetta all’interno della casa, il suo nome si afferma presso le generazioni future. 15. DELLE RIMOSTRANZE E DELLE CENSURE Tsêng-tzu disse: — Per quanto riguarda l’affetto, l’amore, la venerazione, il rispetto, l’assicurare la tranquillità ai genitori e il tramandare il proprio nome,

ho udito i tuoi insegnamenti. Oso domandare: deve dirsi pietà filiale l’obbedienza del figlio agli ordini del padre (senza discussione)? — Che discorso è questo? — esclamò Confucio. — Che discorso è questo? Anticamente il Figlio del Cielo aveva per censori sette ministri e, anche se fosse stato un iniquo, non avrebbe perduto l’impero20. I feudatari avevano per censori cinque ministri e, anche se fossero stati degli iniqui, non avrebbero perduto il regno. I dignitari avevano per censori tre intendenti e, anche se fossero stati degli iniqui, non avrebbero perduto la loro casata. I letterati avevano per censore un amico e perciò non si discostavano dalla buona reputazione. Il padre aveva per censore il figlio, così non cadeva nell’ingiustizia21. Perciò, in presenza dell’ingiustizia, il figlio non può mancare di far le sue rimostranze al padre, (così come) il ministro non può mancare di presentare le sue rimostranze al principe. In presenza dell’ingiustizia bisogna riprenderli. Obbedire (ciecamente) agli ordini del padre, come può considerarsi pietà filiale?

LIBRO VIII 16. DEL GRADIMENTO E DELLE RICOMPENSE Confucio disse: — Anticamente i sovrani illuminati servivano il padre con la pietà filiale e perciò servivano il Cielo con l’intelligenza (del suo ordine), servivano la madre con la pietà filiale e perciò servivano la Terra con l’osservanza (della sua fecondità), tra anziani e giovani v’era la deferenza e perciò tra superiori e inferiori v’era l’ordine: essendo il servigio al Cielo intelligente e quello alla Terra osservante, gli esseri spirituali manifestavano (il loro gradimento con le benedizioni). Quindi, perfino il Figlio del Cielo doveva onorare qualcuno in quanto aveva il padre, doveva dar la precedenza a qualcuno in quanto aveva il fratello maggiore. Profondeva la massima reverenza nel tempio degli antenati per non dimenticare i genitori, perfezionava la sua persona e correggeva la sua condotta per tema di disonorare i suoi predecessori. Quando profondeva la massima reverenza nel tempio ancestrale, gli esseri spirituali rendevano manifesto (il loro gradimento). Possedendo al massimo grado la pietà filiale e la sottomissione fraterna, egli comunicava con gli esseri spirituali, illuminava (il mondo) fra i quattro mari, non v’era nulla in cui non penetrasse. Nell’Ode (III, 10, 6) è detto: «Da occidente e da oriente, da meridione e da settentrione, nessuno pensava di non sottomettersi». 17.

DEL SERVIRE IL PRINCIPE Confucio disse: — Nel servire il superiore (il principe), il saggio accede (alle magistrature) con l’intenzione di offrire tutta la sua lealtà e si ritira nell’intento di riparare agli errori (del principe). Nell’agire si uniforma alle buone qualità di quello, nel correggere lo salva dai suoi difetti. In tal modo, tra superiori ed inferiori può esistere l’affetto reciproco. Nell’Ode (II, 74, 4) è detto: «Nel mio cuore lo amo, la lontananza non importa. Lo tengo in fondo al cuore, in qual giorno lo dimenticherei?»

LIBRO IX 18. DEL LUTTO PER I GENITORI Confucio disse: — Nel lutto per i genitori, il figlio filiale piange senza singhiozzi, esegue il rito senza curarsi di come appare, parla senza fioriture, non sopporta gli abiti eleganti, se ode la musica non ne gode, se mangia cibi prelibati non li gusta. Tale è il sentimento del cordoglio e della tristezza. Dopo tre giorni tocca cibo, per insegnare al popolo che per i morti non si nuoce ai vivi e che per l’eccessivo dolore non si distrugge la vita. Questo era il modo di comportarsi dei santi uomini. Il lutto non supera i tre anni, per mostrare al popolo che deve esservi un termine. Si compone (il defunto) in una cassa interna e in un sarcofago esterno, nel sudario e nel drappo, e ivi lo si rinchiude. Disposti i vasi per il sacrificio, si dà sfogo al dolore: (le donne) si percuotono il petto, (gli uomini) battono il piede in terra, si piange e si elevano lamenti, ci si addolora nel dimetterlo. Si traggono vaticini circa la tomba e la sua ubicazione e quivi in pace lo si depone. Si prepara il tempio degli antenati, affinché lo spirito ne sia compiaciuto. In primavera e in autunno si offrono sacrifici per ricordarlo nelle stagioni. Quando son vivi, servire i genitori con l’amore e il rispetto, dopo la loro morte con il dolore e la tristezza: è il compimento della (virtù) fondamentale dei viventi, la consumazione della giustizia tra morti e vivi, il completamento dei servigi di un figlio filiale verso i genitori. * Attribuito a Tsêng-tzu, discepolo di Confucio. 1. La Via è l’osservanza della legge naturale istillata dal Cielo nel cuore dell’uomo (vedi IM 1). A proposito di questa somma virtù, nel Libro dei Documenti (I, 1, 2) è detto dell’imperatore Yao: «Era capace di far rifulgere la sublime virtù, per mezzo della quale era affettuoso verso i parenti dei nove gradi [cioè delle quattro generazioni di ascendenti e delle quattro generazioni di discendenti, oltre alla sua]. I parenti dei nove gradi vivevano nella concordia». 2. Il Ta Ya, di cui viene citata un’ode (III, 1, 6), è la terza sezione del Libro delle Odi. 3. Le espressioni idiomatiche «i cento cognomi» e «fra i quattro mari» indicano il popolo cinese, la prima, e l’impero o il mondo, la seconda. I cinesi ritenevano che la terra, piatta e quadrata, fosse

delimitata da quattro mari. 4. La citazione è tratta dal Libro dei Documenti (V, 27, 13). Fu Hsing (Le punizioni di Fu) è il titolo con cui nel Li Chi (Memorie sui Riti) viene citato il 27° capitolo del Libro di Chou. Nell’attuale edizione dell’opera, il titolo di questo capitolo è Lü Hsing (Le punizioni di Lü). Sembra che si tratti della duplice denominazione della stessa persona, il principe di Lü o di Fu. L’espressione usata nella citazione per indicare l’imperatore è i jên, cioè quella con cui il sovrano, o Figlio del Cielo, indicava sé stesso. Letteralmente significa «un uomo». 5. Sacrificare agli esseri spirituali della terra e dei grani era prerogativa del principe feudatario: il sacrificio era inteso ad assicurare la prosperità dello stato. La frase del testo significa: conservare il regno. 6. I ministri e i dignitari potevano onorare tre ascendenti nel tempio ancestrale. La frase significa: conservare la dignità della casata. 7. Traduco con «sottomissione fraterna» la parola ti, che designa l’atteggiamento di rispetto e di obbedienza prescritto per il fratello minore nei riguardi del fratello maggiore. 8. All’atto dell’assunzione nei pubblici uffici, al letterato veniva assegnato un campo sacro per il mantenimento dei sacrifici ancestrali. Pertanto, il letterato che perdeva gli emolumenti e il grado, cioè l’impiego, perdeva anche il campo sacro e insieme la possibilità di compiere i sacrifici. Sulla questione vedi ME 54. 9. Uniformarsi alla Via del Cielo significa adattare i lavori campestri alle stagioni. Il commento chiarisce: «La primavera fa nascere, l’estate fa crescere, l’autunno raccoglie, l’inverno nasconde». Si distinguevano cinque tipi di terreno: boscoso montano, paludoso, collinoso, piano irrigato, basso umido: il testo richiama i contadini al dovere di trarre dalla terra il frutto più adatto alla sua qualità. 10. Le Tre Potenze sono il Cielo, la Terra e l’Uomo. 11. Il commentatore Chêng Hsüan così spiega: «Giustizia è recar beneficio agli esseri. La pietà filiale è la Via di tutte le azioni, la costante virtù dell’uomo, come il Cielo ha una legge immutabile quando è percorso dai tre astri [il sole, la luna, le stelle] e la Terra rende giustizia quando è distinta nei cinque terreni. Il Cielo ha una luminosità costante, la Terra costanti benefici: se l’uomo prende a modello il Cielo e la Terra, pone la pietà filiale come condotta costante». 12. Il Gran Tutore Yin, di cui si parla nell’ode, è l’iniquo ministro dell’imperatore Yu (vedi CS 29). Per far intendere il senso della citazione converrà che traduca l’intera stanza, che dice: «Alto e scosceso è quel monte meridionale, le sue rupi cadono precipiti. O terribile Gran Tutore Yin, il popolo tutto guarda a tel L’afflitto cuore come arso da un fuoco, esso non osa nemmeno discorrere scherzando. Lo stato è in pericolo d’estinzione. Perché non consideri tal fatto?» 13. I gradi nobiliari dei feudatari: kung, hou, po, tzu, nan, vengono equiparati ai gradi nobiliari occidentali, rispettivamente: duca, marchese, conte, visconte, barone. Sull’argomento vedi ME 133. 14. Traduco con «uomo santo» l’espressione shên jên, che molti rendono con «uomo perfetto», «saggio» e simili. Mi sembra che con questi termini si connotino qualità che, in qualche modo, restano circoscritte alla persona che le possiede. Come si vedrà in seguito (vedi fra l’altro DI 147), nello shên jên v’è qualcosa di più: lo slancio verso gli altri, che fa sì che egli coltivi in sé, perché siano causa dell’altrui elevazione, quelle sublimi virtù che egli possiede, o per dono divino o per averle conquistate, e che esercita in modo eroico. Da ciò mi sento autorizzato ad usare l’espressione «uomo santo»: il lettore terrà presente che si tratta di santità quale può intenderla un confuciano. 15. Il duca Chou, figlio del re Wên, offrì il sacrificio nella sua qualità di reggente dell’impero, alla morte del fratello, il re Wu (vedi CS 27). Hou Chi fu il capostipite della famiglia che fondò la dinastia Chou (vedi CS 4-5). Il chiao szu (sacrificio chiao) era un atto di culto del sovrano, che veniva celebrato nel suburbio (chiao) della città imperiale: a sud di essa nel solstizio invernale quello dedicato alla Terra, a nord nel solstizio estivo quello dedicato al Cielo. Il Ming Tang (Sala Luminosa) era un palazzo nel quale i primi imperatori Chou ricevevano i feudatari e offrivano i sacrifici al Dio

Supremo e agli antenati. Traduco con «Dio Supremo» l’espressione Shang Ti (lett.: imperatore dell’alto o supremo). 16. Le tre vittime, cioè i tre animali che si offrivano nel sacrificio, erano il bue, la pecora e il maiale, come nei «suovetaurilia» romani. Il figlio non poteva dirsi filiale se non evitava i tre difetti citati nel testo, poiché con essi poneva in pericolo il corpo ricevuto dai genitori (ved n. 1). 17. Le cinque pene erano: il marchio sulla fronte, il taglio del naso, il taglio del piede, l’evirazione, la morte. 18. L’importanza attribuita alla musica come mezzo educativo è sottolineata in un discorso dell’imperatore Shun riportato nel Libro dei Documenti (II, 1, 24). «K’uei — egli disse — ordino che tu sovrintenda alla musica. Insegnala ai nostri figli affinché siano retti e gentili, indulgenti e cauti, fermi e non crudeli, semplici e non arroganti». Traduco con «rito» e talvolta «urbanità» la parola li. Questo termine esprime l’esemplificazione esteriore degli eterni princìpi e, perciò, alla sua base v’è l’idea di ciò che è appropriato. Li, quindi, non è soltanto rito, cerimoniale, etichetta, ma anche urbanità, cortesia: insomma tutto ciò che coinvolge l’idea di rispetto e di reverenza. Indica anche le istituzioni che regolano il viver civile. 19. Al riguardo cfr. Memorie sui Riti (I, pt. I, 2, 5): «Quando il figlio esce di casa deve avvertirne (i genitori), quando rientra deve presentarsi al loro cospetto». 20. Sulla censura al principe, cito il Libro dei Documenti (II, 4, 5), in cui è riportato un discorso di Shun ai suoi ministri. «Quando agisco contrariamente (alla Via) — egli disse — correggetemi. Non siate accondiscendenti al mio cospetto e parlate ancora dopo che vi siete ritirati». 21. Al riguardo vedi DI 84.

IL GRANDE STUDIO* (Ta Hsüeh)

(TESTO DI CONFUCIO)

Il mio maestro Ch’êng-tzu1 ha detto: — Il «Grande Studio» è lo scritto2 lasciatoci dal Maestro K’ung, la porta per cui chi muove i primi passi nell’apprendimento penetra nella virtù. Oggi la possibilità di conoscere l’ordine dello studio degli antichi dipende unicamente dall’esistenza di questo scritto, seguito in ordine di importanza dai «Dialoghi» e da «Mencio». Chi vuole apprendere deve studiare cominciando da esso. In tal modo avrà molte possibilità di non errare. (Nota di Chu Hsi). La Via del grande studio consiste nel far rifulgere la virtù luminosa3, nel

rinnovare il popolo, nel permanere nel più alto grado del bene. Quando si sa (dove si deve) permanere, la meta resta poi determinata; determinata la meta, si può poi avere la quiete; avendo la quiete, si può poi avere la calma interiore; avendo la calma interiore, si può poi deliberare; avendo deliberato, si può poi raggiungere (la meta). Negli esseri vi è il principale (la virtù luminosa) e l’accessorio (rinnovare il popolo), nelle imprese un punto d’arrivo (raggiungere il più alto grado del bene) e un punto di partenza (saper dove permanere). Intendere ciò che precede e ciò che consegue, avvicina alla Via. Gli antichi, volendo far rifulgere nel mondo la virtù luminosa, prima ordinavano il loro stato; volendo ordinare il loro stato, prima regolavano la loro famiglia; volendo regolare la loro famiglia, prima perfezionavano la loro persona; volendo perfezionare la loro persona, prima correggevano il loro cuore4; volendo correggere il loro cuore, prima rendevano sinceri i loro pensieri; volendo rendere sinceri i loro pensieri, prima ampliavano al massimo la loro conoscenza. Ampliare al massimo la conoscenza consiste nell’investigare a fondo (i princìpi de) le cose5. Investigate a fondo le cose, la conoscenza è poi portata al sommo grado; portata la conoscenza al sommo grado, i pensieri sono poi resi sinceri; resi sinceri i pensieri, il cuore è poi corretto; corretto il cuore, la persona è poi perfezionata; perfezionata la persona, la famiglia è poi regolata; regolata la la famiglia, lo stato è poi ordinato; ordinato lo stato, l’impero è poi pacificato. Dal Figlio del Cielo all’ultimo del popolo, per tutti il principale è perfezionare la propria persona. Non può essere che si tenga in disordine il principale e in ordine l’accessorio, né s’è mai dato che si tratti con leggerezza ciò che è importante e si attribuisca importanza a ciò che è futile.

(COMMENTO DI TSENG-TZU)

Nell’unico capitolo che precede sono riportate le parole di K’ung-tzu, tramandate da Tsêng-tzu. Il

commento in dieci capitoli rappresenta il punto di vista dello stesso Tsêng-tzu, quale fu trascritto dai suoi discepoli. L’antico volume risentiva della confusione intervenuta nelle listelle (di bambù, su cui era scritto), ma oggi, grazie a ciò che ha stabilito Ch’êng-tzu, ho riesaminato il testo e gli ho dato un ordine diverso, come segue. (Nota di Chu Hsi).

1. SPIEGA IL FAR RIFULGERE LA VIRTÙ LUMINOSA Nell’Annuncio a K’ang è detto: «Era capace di far rifulgere la sua virtù»6. Nel T’ai Chia è detto: «(Il precedente sovrano) aveva grande riguardo per il luminoso decreto del Cielo»7. Nel Canone dell’Imperatore è detto: «Era capace di far rifulgere la sublime virtù»8. Tutti costoro si resero illustri. 2. SPIEGA IL RINNOVARE IL POPOLO Nella vasca di T’ang erano incise queste parole: «Oggi rinnovati veramente, rinnovati ogni giorno ed un giorno rinnovati ancora». Nell’Annuncio a K’ang (V, 9, 7) è detto: «Incita il popolo a rinnovarsi». Nell’Ode (III, 1, 1) è detto: «Benché Chou fosse uno stato antico, il suo mandato è recente»9. Perciò non v’è nulla in cui il saggio non si applichi al massimo. 3. SPIEGA IL PERMANERE NEL PIÙ ALTO GRADO DEL BENE Nell’Ode (IV, 38, 4) è detto: «Il dominio imperiale è di mille li, è là che il popolo si stabilisce»10. Nell’Ode (II, 76, 4) è detto: «Trillando il rigogolo dorato si posa sullo spigolo della rupe». Confucio esclamò: — Quando si posa, sa (dove) permanere! Può l’uomo esser da meno di un uccello? Nell’Ode (III, 1, 4) è detto: «Profondo era il re Wên! Oh, come continuo fu il suo rispetto e luminoso il suo permanere!» Come principe permase nella carità11, come suddito permase nella reverenza, come figlio permase nella pietà filiale, come padre permase nella clemenza, nei rapporti con la gente del suo stato permase nella sincerità. Nell’Ode (I, 55, 1) è detto: «Guardate quell’insenatura del fiume Chi, come sono lussureggianti i suoi verdi bambù! Ecco il nostro principe compito, (coltiva sé stesso) come colui che intaglia e lima (l’avorio), come colui che sfaccetta e polisce (le gemme). Come è grave, come è risoluto! Come è

imponente, come è maestoso! Il nostro principe compito giammai potrà essere obliato». (La similitudine) «come colui che intaglia e lima» indica l’applicazione allo studio; (l’altra similitudine) «come colui che sfaccetta e polisce» indica il perfezionamento di sé stesso. (L’esclamazione) «come è grave, come è risoluto!» si riferisce alla sua trepida ansia; (l’altra esclamazione) «come è imponente, come è maestoso!» si riferisce al suo comportamento ispirante timore. «Il nostro principe giammai potrà essere obliato» significa che, quando la virtù è fiorente e la bontà somma, il popolo non può dimenticarle. Nell’Ode (IV, 4, 3) è detto: «Oh, sì, i re precedenti (Wên e Wu) non sono obliati!» I principi (loro successori) considerino virtuosi coloro che essi considerarono virtuosi, amino ciò che essi amarono, il popolo gioisca delle loro gioie e tragga vantaggio dai loro benefici. È così che coloro che sono mancati al mondo non vengono dimenticati. 4. SPIEGA IL PRINCIPALE E L’ACCESSORIO Confucio disse: — Di giudicare una controversia sono (capace) come chiunque altro. Necessario sarebbe far sì che non vi fossero controversie. Coloro che son privi di sincerità siano impediti di dar corso alle loro parole, istillandosi così un gran timore nella mente del popolo12. Questo significa conoscere il principale. 5. SPIEGA L’AMPLIARE LA CONOSCENZA INVESTIGANDO LE COSE Questo significa conoscere il principale … Questo si dice il sommo grado della conoscenza.

Il commento che spiegava l’ampliare al massimo la conoscenza investigando a fondo le cose è oggi andato perduto. Al fine di supplirvi, ho fatto ricorso all’interpretazione di Ch’êng-tzu, il quale ha detto: «La proposizione “ampliare al massimo la conoscenza consiste nell’investigare a fondo le cose” significa che, volendo estendere la conoscenza, bisogna accostarsi alle cose ed approfondirne i princìpi razionali (li). Poiché, non v’è nulla di cui l’intelletto umano non abbia (possibilità di) conoscenza e non v’è nulla sotto il cielo che non abbia un principio razionale. In quanto v’è alcunché di cui non si è approfondito il principio, in tanto v’è qualcosa in cui la conoscenza non è completa. Perciò il primo insegnamento del «Grande Studio» impone allo studioso di accostarsi a tutte le cose sotto il cielo: ogni principio di cui viene a conoscenza dà origine ad un incrementato approfondimento, con il quale cerca di pervenire al culmine. Quando il suo sforzo si sarà esercitato a lungo, un giorno improvvisamente egli avrà una comprensione totale ed allora nessuna qualità delle cose, interiori ed esteriori, sottili e grosse, gli sarà ignota e gli risulteranno chiare l’intera sostanza e le immense possibilità del suo intelletto. Questo significa investigare a fondo le cose. Questo dicesi il sommo grado della conoscenza».

(Nota di Chu Hsi). 6.

SPIEGA IL RENDERE SINCERI I PENSIERI Render sinceri i propri pensieri significa rifuggire dall’ottenebrare il proprio cuore, come si detesta un cattivo odore, come si ama un bel colore. Ciò vuol dire soddisfare sé stesso. Il saggio, perciò, si sorveglia nella solitudine13. L’uomo volgare, quando se ne sta appartato, commette il male senza alcun limite, ma al cospetto del saggio subito assume falsa apparenza, nascondendo la malvagità e facendo mostra di bontà. Ma se l’altro lo scruta come se gli vedesse i polmoni e il fegato, a che gli giova? Questo significa il detto: «Ciò che veramente è all’interno, traspare all’esterno». Perciò il saggio deve vigilare su sé stesso quando è solo. Tsêng-tzu disse: — Ciò che dieci occhi scrutano e dieci mani additano è da trattare con reverente timore! Come la ricchezza abbellisce la casa, così la virtù adorna la persona: la mente vi si espande, il corpo vi si adagia. Per questo il saggio deve rendere sinceri i suoi pensieri. 7. SPIEGA IL PERFEZIONARE LA PERSONA CORREGGENDO IL CUORE Ciò che s’intende (con la proposizione) «perfezionare la propria persona consiste nel correggere il proprio cuore» è questo: se la persona ha qualcosa che la fa adirare e incollerire è perché non si è ottenuta la correzione del cuore; se ha qualcosa che la fa temere e paventare è perché non si è ottenuta la correzione del cuore; se ha qualcosa che la fa amare e gioire è perché non si è ottenuta la correzione del cuore; se ha qualcosa che la fa addolorare e soffrire è perché non si è ottenuta la correzione del cuore14. (In verità), se il cuore non è presente, guardi e non vedi, ascolti e non odi, mangi e non senti i sapori15. Questo vuol dire che perfezionare la propria persona consiste nel correggere il proprio cuore. 8. SPIEGA IL REGOLARE LA FAMIGLIA PERFEZIONANDO LA PERSONA Ciò che s’intende (con la proposizione) «regolare la famiglia consiste nel perfezionare la propria persona» è questo: gli uomini sono parziali in ciò che amano ed hanno caro, sono parziali in ciò che disprezzano e odiano, sono parziali in ciò che temono e riveriscono, sono parziali in ciò per cui hanno pietà e compassione, sono parziali in ciò che considerano con insolenza e

noncuranza. Perciò, pochi sono al mondo coloro che, amando, riconoscono i difetti (dell’oggetto del loro amore); che, odiando, riconoscono i pregi (dell’oggetto del loro odio). Per questo il proverbio dice: «L’uomo non riconosce i difetti del proprio figlio né l’abbondanza delle proprie messi»16. Questo vuol dire che, se la persona non è perfezionata, non si può regolare la propria famiglia. 9. SPIEGA L’ORDINARE LO STATO REGOLANDO LA FAMIGLIA Ciò che s’intende (con la proposizione) «per ordinare lo stato è necessario regolare prima la propria famiglia» è questo: non esiste chi, non essendo capace di istruire la propria famiglia, sia capace di istruire gli altri17. Così è che il saggio, senza uscire di casa, ammaestra compiutamente nella vita pubblica: la pietà filiale è ciò con cui serve il principe, la sottomissione fraterna è ciò con cui serve i superiori, la clemenza paterna è ciò con cui comanda al popolo. Nell’Annuncio a K’ang (Libro dei Documenti, V, 9, 9) è detto: «Come se proteggessi un pargolo»18. Il cuore (della madre) cerca sinceramente di indovinare (i suoi bisogni) e, anche se non sempre colpisce nel segno, non ne va lontano. Eppure non v’è donna che impari ad allevar figli prima di andare a marito. Se una famiglia è caritatevole, nello stato fiorisce la carità; se una famiglia è cedevole, nello stato fiorisce la cedevolezza (degli uni agli altri); se un uomo solo (il principe) è cupido e perverso, nello stato insorgono i disordini. Tale è l’influenza (dell’esempio). Questo significa il detto: «Una parola guasta un’impresa, un uomo consolida uno stato». Yao e Shun guidarono l’impero con la carità e il popolo ne seguì l’esempio, Chieh e Chou19 guidarono l’impero con la crudeltà e il popolo ne seguì l’esempio: i comandamenti di questi ultimi erano contrari a ciò che essi stessi amavano e il popolo non obbedì. Perciò, il saggio ha in sé (il bene) e poi lo esige dagli altri, non ha in sé (il male) e poi non lo tollera negli altri. Non v’è mai stato chi riesca a farsi comprendere dagli altri, se non intende la reciprocità di ciò che cela in sé stesso. Per questo, ordinare lo stato consiste nel regolare la propria famiglia. Nell’Ode (I, 6, 3) è detto: «Come è giovanilmente elegante il pesco con il

suo folto fogliame! Questa fanciulla, che va nella casa del marito, ordinerà bene le persone della famiglia»20. Chi ordina bene le persone della propria famiglia può poi educare il popolo dello stato. Nell’Ode (II, 19, 3) è detto: «È corretto con i fratelli maggiori, è corretto con i fratelli minori». Chi è corretto con i propri fratelli può poi ammaestrare il popolo dello stato. Nell’Ode (I, 152, 3) è detto: «Il suo comportamento è senza pecca, corregge i regni dei quattro punti cardinali». Chi è un modello come padre, figlio, fratello maggiore e fratello minore, poi è imitato dal popolo. Questo vuol dire che ordinare lo stato consiste nel regolare la propria famiglia. 10. SPIEGA IL PACIFICARE L’IMPERO ORDINANDO LO STATO Ciò che s’intende (con la proposizione) «pacificare l’impero consiste nell’ordinare lo stato» è questo: se chi è in alto (il principe) onora i vecchi, nel popolo fiorisce la pietà filiale; se chi è in alto rispetta gli anziani, nel popolo fiorisce la sottomissione fraterna; se chi è in alto ha misericordia per gli orfani, il popolo non fa diversamente. Il principe ha una norma (che gli serve) come squadra per misurare: non tratta gli inferiori nel modo che gli dispiace nei superiori, non serve i superiori nel modo che odia negli inferiori, non precede coloro che lo seguono nel modo che detesta in quelli che sono davanti a lui, non segue coloro che lo precedono nel modo che esecra in quelli che sono dietro a lui, non porge a coloro che sono alla sua sinistra ciò che odia (di ricevere) da quelli che sono alla sua destra, non porge a coloro che sono alla sua destra ciò che detesta (di ricevere) da quelli che sono alla sua sinistra. Questa è detta la norma della squadra per misurare.

L’inizio del commento, attribuito a Tsêng-tzu, de Il grande studio, in una moderna edizione de I quattro libri.

Nell’Ode (II, 17, 3) è detto: «Mi compiaccio di voi, o saggi, che siete padre e madre del popolo». Amare ciò che al popolo è caro, odiare ciò che al popolo dispiace: questo significa essere il padre e la madre del popolo. Nell’Ode (II, 37, 1) è detto: «Alto e scosceso è quel monte meridionale, le sue rupi cadono precipiti. O terribile Gran Tutore Yin, il popolo tutto guarda a te!»21. Colui che regge lo stato non può non essere guardingo, poiché se è incline (al male) diviene la rovina dell’impero. Nell’Ode (III, 1, 6) è detto: «Quando non aveva ancora perduto le moltitudini, la dinastia Yin era appaiata al Dio Supremo. Prendi esempio dagli Yin: il sommo mandato non è facile (da conservare)». Dice che conquistando il popolo si ottiene il regno, perdendo il popolo si perde il regno. Per questo, il principe saggio innanzi tutto ha gran cura della sua virtù: se ha la virtù ha gli uomini, se ha gli uomini ha il territorio, se ha il territorio ha la ricchezza, se ha la ricchezza ha (l’agio di) consumarla. La virtù è il principale, la ricchezza l’accessorio: se egli esteriormente fa mostra del principale mentre nell’intimo brama l’accessorio, viene a conflitto col popolo (per la sua ingordigia) e gli insegna a depredare. Così è che se accumula la ricchezza il popolo si disperde, se diffonde la ricchezza il popolo s’ammassa. Così è che le parole che escono inique, inique rientrano; i beni che male acquistati entrano, in malo modo escono. Nell’Annuncio a K’ang (Libro dei Documenti, V, 9, 23) è detto: «Il mandato del Cielo (all’impero) non è per sempre», significando che con la bontà lo si ottiene, con la malvagità lo si perde. Una massima di Ch’u dice: «Nel regno di Ch’u (un tesoro di oro e di gemme) non è considerato prezioso, solo la bontà è considerata preziosa». Lo zio Fan disse: — Un fuggiasco non lo considera prezioso (il regno), considera prezioso l’amore per i genitori22. Nella Dichiarazione di Ch’in (Libro dei Documenti, V, 30, 6) è detto: «Oh, avessi un ministro onesto e sincero, (anche) senza altra qualità che un cuore retto! Se fosse generoso (così che) le doti che altri avessero fosse come se egli stesso le avesse, se il suo cuore avesse cari i perfetti letterati e i santi non meno che se (le loro parole) uscisssero dalla sua bocca, veramente potrei tollerarlo. Con lui proteggerei i miei discendenti e il popolo dalle chiome nere. Che grande vantaggio ne avrei! Ma se le doti che altri avessero egli le odiasse per invidia e gelosia, se i perfetti letterati e i santi egli li ostacolasse impedendo

che (le loro parole) siano rese note, costui non potrei tollerarlo. Con lui non proteggerei i miei discendenti e il popolo dalle chiome nere. Lo direi pericoloso!» Un uomo caritatevole lo scaccerebbe (un simile ministro), lo esilierebbe fra i barbari e non gli permetterebbe di convivere con gli altri nell’Impero del Mezzo. Questo è il senso del detto: «Solo il caritatevole è capace di amare e di odiare gli uomini». Vedere un uomo virtuoso e non essere capaci di elevarlo, o elevarlo senza essere capaci di metterlo innanzi agli altri, è negligenza. Vedere un uomo malvagio e non essere capaci di destituirlo, o destituirlo senza essere capaci di allontanarlo, è colpa. Amare ciò che gli altri odiano, odiare ciò che gli altri amano, significa andar contro l’umana natura: la sventura s’abbatterà sicuramente sulla persona (che ciò fa). Perciò il principe ha una grande Via23: con la lealtà e la sincerità vi perviene, con la superbia e l’arroganza la perde. Ha anche una norma per creare la ricchezza: molti siano coloro che la producono e pochi coloro che la consumano24. Se coloro che lavorano sono stati precipitosi (iniziando le lavorazioni prima della stagione adatta e quindi pregiudicando il raccolto), coloro che mangiano siano lenti: allora la ricchezza sarà sempre sufficiente al fabbisogno. Colui che è caritatevole usa la ricchezza per elevare la sua persona, colui che non è caritatevole usa la sua persona per accumulare la ricchezza. Non s’è mai dato che il superiore ami la carità senza che gli inferiori amino la giustizia; non s’è mai dato che essi amino la giustizia senza che le sue imprese giungano a buon fine; non s’è mai dato che le ricchezze della tesoreria e dei magazzini non siano le sue ricchezze. Meng Hsien-tzu (virtuoso dignitario di Lu) diceva: — Chi alleva quadrighe di cavalli non s’occupa di polli e di maiali; una famiglia che adopera il ghiaccio (per conservare le carni dei sacrifici) non alleva buoi e pecore. Una casata da cento carri da guerra non tiene un ministro che accumula ricchezze (spogliando il popolo): piuttosto che un ministro che accumula ricchezze sarebbe meglio che avesse un ministro che ruba (alla casata). Questo è il significato del detto: «Lo stato non è prospero per il profitto (pecuniario), è prospero per la giustizia». Quando chi sovrintende ad uno stato o ad una casata pensa soprattutto alle entrate, è sicuramente sotto l’influenza di un uomo meschino. Colui lo considererà eccellente, ma quando un uomo meschino amministra lo stato o la casata, calamità e danni non tardano ad arrivare: anche le persone migliori non potranno farci nulla.

Questo vuol dire che lo stato non è prospero per il profitto, ma è prospero per la giustizia.

Complessivamente il commento è in dieci capitoli. Nei primi quattro si parla in generale dello scopo e del significato dell’argomento, mentre nei successivi sei si parla in particolare del lavoro intorno ai singoli aspetti dell’argomento stesso. Nel quinto capitolo è mostrata l’importanza di un luminoso perfezionamento e nel sesto il fondamento del rendersi sinceri: ambedue richiedono la speciale attenzione di chi muove i primi passi nello studio. Il lettore non deve farne poco conto a causa della loro semplicità. (Nota di Chu Hsi). * Il breve testo è attribuito a Confucio, il commento al discepolo Tsêng-tzu. È compreso nel Li Chi (Memorie sui Riti), di cui forma il XXXIX libro. 1. Ch’êng-tzu, che Chu Hsi chiama «maestro», è Ch’êng I (1033-1107), il quale, insieme al fratello Ch’êng Hao (1032-1085) ed allo stesso Chu Hsi (1130-1200). fu esponente della grande scuola di pensiero dell’epoca Sung. 2. Non sembra che il testo sia stato scritto dal Maestro, ma deve forse intendersi da lui dettato a Tsêng-tzu o da questi riportato dalla sua viva voce. Al riguardo vedi appresso la nota di Chu Hsi, introduttiva al commento di Tsêng-tzu. 3. Chu Hsi commenta: «La virtù luminosa (ming tê) è quella che l’uomo riceve dal Cielo pura, spirituale, senza ombre, perché se ne serva per (comprendere) tutti i princìpi e (compiere) tutti i suoi doveri. Ma, costretta dalle qualità dello spirito vitale (ch’i vedi ME 25), oppressa dalle passioni umane, talvolta essa si oscura. Tuttavia, la luminosità inerente alla sua natura non si estingue mai interamente: perciò lo studioso deve avvalersi di quanto di essa sussiste e reintegrarne la luminosità in modo da ricondurla al suo stato originario». 4. «Il cuore — commenta Chu Hsi — è ciò che governa la persona». Il cuore (hsin) è la parte elevata della psiche umana, sede dell’intelletto e della volontà. Noi diremmo «mente». 5. Il commento spiega: «Investigare è pervenire. Chi perviene esaurientemente ai princìpi delle cose desidera raggiungere il loro grado più elevato». 6. Nell’Annuncio a K’ang (Libro dei Documenti, V, 9, 3) le parole citate si riferiscono al re Wên (vedi CS 15-20). K’ang, di nome Fêng, era uno dei fratelli del re Wu, da questi investito del feudo di Wei. 7. Nel T’ai Chia (Libro dei Documenti, IV, 5, pt. I, 2) le parole citate si riferiscono a T’ang e sono un monito del ministro I Yin all’imperatore T’ai Chia (vedi CS 12). «Il luminoso decreto del Cielo» è la natura conferita all’uomo. 8. Nel Canone dell’Imperatore (Libro dei Documenti, I, 1, 2) le parole citate si riferiscono a Yao. 9. Cioè, i Chou ebbero la designazione del Cielo a reggere l’impero solo di recente, quando il re Wên manifestò la sua virtù e in tal modo rinnovò il popolo. 10. Il li equivale oggi a 576 metri. Sembra che all’epoca dei Chou fosse di 360 metri. L’ode citata si riferisce al ristabilimento dell’ordine operato da T’ang (vedi CS 10). Il commento interpreta questi versi nel senso che, investigate le cose, si sa dove permanere. 11. Traduco con «carità» la parola jên, che tanto spesso ricorre nei testi e che da molti è resa con i termini «benevolenza», «virtù perfetta» e simili. Come emergerà dalla lettura dei testi, tali espressioni non rendono adeguatamente la carica d’amore che è insita nel concetto di jên. Tuttavia, nell’usare la parola «carità» mi rendo conto del pericolo di qualche confusione con l’accezione, profondamente radicata nel cristianesimo, che tale termine ha nella nostra lingua. Il lettore tenga quindi presente che il jên, pur non mancando della maggior parte degli attributi della «charitas» elencati da S. Paolo (cfr. Prima Lettera ai Corinti, 13, 1-13), ovviamente richiama un concetto di carità prettamente confuciano.

12. Il commento spiega che gli insinceri sono impediti di dar corso alle loro parole quando il santo fa rifulgere la virtù luminosa. La relazione delle parole di Confucio con la questione del principale e dell’accessorio è chiarita dal commento di Chu Hsi alle parole stesse, riportate nei Dialoghi (DI 291), in cui è detto: «Giudicare una controversia significa regolare l’accessorio (cioè la conseguenza, il momento finale del fenomeno), arginare il suo corso. Se si corregge il principale (cioè il momento iniziale, la sorgente, ossia l’uomo), si rende pura la sua origine ed allora non vi sono controversie». 13. Chu Hsi commenta: «Chi vuole perfezionarsi sa che operare il bene serve per sfuggire il male e per questo deve avvalersi di tutte le sue forze e rifuggire dall’ottenebrare il proprio cuore, così da odiare il male come detesta un cattivo odore e da amare il bene come ama un bel colore. Si obbliga a fuggire decisamente l’uno e cerca di pervenire sicuramente all’altro per dare gioia e soddisfazione a sé stesso, non vanamente per amore di esteriorità e per apparire agli occhi degli altri. Poiché gli altri non giungono a conoscere la sua sincerità o insincerità, che egli solo conosce, deve essere guardingo in queste cose, onde vagliare i suoi motivi segreti». 14. L’intero paragrafo è ambiguo e può tradursi in diversi modi. Tra le molte versioni che ho tentate, mi sembra che quella sopra riportata riproduca meglio il testo cinese, per le seguenti considerazioni. Secondo la concezione cinese, la persona è composta di una parte intelligente e volitiva, detta cuore o mente (hsin), e di una parte istintiva e passionale, detta spirito vitale (ch’i): la prima deve prevalere sulla seconda, che le è subordinata (vedi ME 25). Perciò ritengo che il testo sia da interpretarsi nel senso che la persona si perfeziona quando il cuore è corretto in modo da essere mantenuto o riportato alla sua funzione di controllo delle passioni. Il commento di Chu Hsi dice: «In quei quattro statid’animo, da cui l’uomo non può essere esente [perché lo spirito vitale è una parte insopprimibile della persona], interviene il cuore. Se essi sorgono e non si è capaci di vagliarli, allora i desideri, gli impulsi e le passioni prendono il sopravvento. In questa azione d’intervento, talvolta il cuore può perdere la sua correttezza». 15. Chu Hsi spiega: «Se il cuore non è presente, non v’è nulla che controlli la persona. Per questo il saggio deve farne oggetto di esame e rivolgergli reverente attenzione allo scopo di renderlo retto. Dopo di ciò, il cuore è costantemente presente e la persona si perfeziona in tutto». 16. Chu Hsi spiega che chi ama non vede chiaramente, chi è cupido non si sazia mai, perché in questi casi è di ostacolo la parzialità, la quale pertanto non consente di regolare la famiglia. 17. Il commento spiega: «Perfezionata la persona, poi la famiglia può essere istruita. Pietà filiale, sottomissione del fratello minore e clemenza paterna sono le virtù con cui si perfeziona la persona e si istruisce la famiglia, nonché la via con cui si serve il principe, si serve i superiori e si comanda al popolo». 18. Sul significato politico della frase vedi ME 51, in particolare nota 93. 19. Yao e Shun furono i due saggi imperatori dell’epoca predinastica (vedi CS 4). Chieh Kuei e Chou Hsin furono gli ultimi imperatori rispettivamente delle dinastie Hsia e Yin (vedi CS 8 e 17). 20. L’ode celebra le virtù di T’ai Szu, moglie del re Wên (vedi CS 18). 21. Sul senso della citazione vedi nota 12 a PF 7. 22. Fan era lo zio materno del principe ereditario di Chin, che poi doveva essere celebre con il nome di duca Wên, capo dei feudatari (vedi CS 35). All’epoca, egli era fuggiasco perché il padre lo aveva scacciato dal regno. Le parole di Fan, sopra riportate, erano la risposta all’offerta del duca di Ch’in di aiutare l’erede a rientrare nel suo regno. 23. Chu Hsi spiega: «Via indica l’arte di stare sul trono perfezionando sé stesso e governando gli altri». 24. Citando il suo contemporaneo Lü Tsu-ch’ien, Chu Hsi annota: «Il signor Lü dice: “Se nello stato non vi sono vagabondi, coloro che producono sono molti; se nella corte non vi sono favoriti, coloro che consumano sono pochi”».

L’INVARIABILE MEZZO* (Chung Yung)

Il mio maestro Ch’êng-tzu ha detto: — Non essere inclinato (da una parte o dall’altra) dicesi chung, non essere variabile dicesi yung1. Chung è la corretta norma di tutto ciò che è sotto il cielo, yung il principio fisso di tutto ciò che è sotto il cielo. Quest’opera contiene le leggi del cuore, tramandate dall’uno all’altro nella scuola di K’ung fino a Tzu-szu, il quale, nel timore che potessero introdurvisi degli errori, l’affidò allo scritto, che fu trasmesso a Meng-tzu. All’inizio l’opera tratta di un unico principio, nel corpo s’estende a tutte le cose ed alla fine torna a riunire tutto nell’unico principio. Se la srotoli (gli antichi volumi erano composti in rotoli N. d. T.) esso riempie tutto l’universo, se l’arrotoli esso si ritira a celarsi nel mistero: il suo sapore è inestinguibile, in ogni sua parte è sostanziale apprendimento. Se il lettore intelligente vi medita su con diletto e lo possiede, anche mettendolo in pratica tutta la vita, non potrà esaurirlo. (Nota di Chu Hsi).

1. Il comando del Cielo si chiama natura, seguire la natura si chiama Via, stabilire le regole della Via si chiama istruire2. La Via è tale che non te ne puoi scostare un istante: se potessi scostartene, non sarebbe la Via. Per questo motivo il saggio è cauto e vigilante verso ciò in cui non è visto, teme e trema per ciò in cui non è udito. Nulla è più visibile di ciò che è nascosto, nulla è più perspicuo di ciò che è segreto. Per questo il saggio si vigila nella solitudine3. Quando in noi non si manifestano la gioia, l’ira, il dolore, il piacere, si dice che siamo in stato di equilibrio (chung). Quando (questi sentimenti) sorgono in noi mantenendosi nei giusti limiti, si dice che siamo in stato di armonia (ho). Ecco che cos’è l’equilibrio: il grande fondamento di tutto ciò che è sotto il cielo. Ecco che cos’è l’armonia: la Via universale di tutto ciò che è sotto il cielo. Quando esistono il massimo equilibrio e la massima armonia, in cielo e in terra ogni cosa ha il suo giusto posto e gli esseri raggiungono il loro pieno sviluppo. Nel capitolo che precede, Tzu-szu riporta, come base del discorso, le idee che gli furono trasmesse. Innanzi tutto chiarisce che la sorgente prima della Via scaturisce dal Cielo e che essa è immutabile, che la sua essenza è predisposta in noi e che da essa non ci si può discostare. In secondo luogo parla dell’importanza di preservarla ed alimentarla e di esaminarla e scrutarla. Infine parla del più alto grado delle azioni meritorie e dell’influenza trasformatrice degli uomini santi e spirituali. Egli vuole che, in merito a ciò, rivolgendosi nel suo intimo lo studioso ricerchi in sé stesso e da sé stesso ottenga, così da evitare l’egoistico interessamento per le seduzioni esteriori e da rendere colma la misura di bontà che gli è naturale. Questo primo capitolo è ciò che il signor Yang4 ha definito la somma dell’intero lavoro. Nei dieci capitoli che seguono, Tzu-szu cita le parole del Maestro per completare il significato del primo. (Nota di Chu Hsi).

2. Chung-ni disse: — Il saggio si attiene all’invariabile mezzo, l’uomo volgare

lo contrasta. Il saggio pratica l’invariabile mezzo e, da saggio, vi si mantiene in ogni circostanza; l’uomo volgare contrasta l’invariabile mezzo e, da uomo volgare, non evita né teme nulla. 3. Confucio disse: — L’invariabile mezzo, come è sublime! Da molto tempo tra il popolo pochi ne sono capaci5. 4. Confucio disse: — Io so perché la Via non è seguita: il sapiente l’oltrepassa, l’ignorante non la raggiunge6. Io so perché la Via non è compresa: il virtuoso l’oltrepassa, l’indegno non la raggiunge. Tra gli uomini non v’è chi non mangi e non beva, ma pochi sanno distinguere i sapori. 5. Confucio disse: — Ohimé, la Via non è seguita! 6. Confucio disse: — Che grande sapienza aveva Shun! Amava interrogare ed esaminare le parole più futili: occultava ciò che di male v’era in esse e diffondeva ciò che v’era di bene, ne coglieva i due estremi e usava il loro mezzo verso il popolo. Per questo era Shun! 7. Confucio disse: — Tutti affermano: io so, ma se li incalzi incappano in reti, calappi e trabocchetti, che non sanno evitare. Tutti dicono: io so, ma se decidono di attenersi all’invariabile mezzo, non riescono a mantenervisi per la durata di un mese. 8. 7 Confucio disse: — Hui era un uomo che, quando ebbe deciso di attenersi all’invariabile mezzo, appena conquistava alcunché di bene lo stringeva fortemente al petto e non lo perdeva mai più. 9. Confucio disse: — Si può governare alla perfezione l’impero, lo stato e la famiglia, si può ricusare le dignità e gli emolumenti, si può calpestare le spade snudate, e (tuttavia) si può non essere capaci dell’invariabile mezzo8. 10. 9 Tzu-lu interrogò sulla forza . Confucio disse: — La forza del meridione, la forza del settentrione oppure la tua forza (quella che devi coltivare in te)? Tolleranza e cedevolezza nell’istruire, non ripagare la malvagità: questa è la forza del meridione. Vi si attiene il saggio. Farsi un giaciglio delle armi e della corazza, morire senza rimpianti: questa è la forza del settentrione. Vi si attiene

il violento. Perciò, il saggio armonizza ma non è debole: che grande forza! Si tiene nel mezzo e non è parziale: che grande forza! Se nello stato si segue la Via, (accettando le magistrature) egli non muta da come era nell’oscurità: che grande forza! Se nello stato non si segue la Via, egli non cambia fino alla morte: che grande forza! 11. Confucio disse: — Ricercare astrusi princìpi o compiere imprese inconsuete affinché le generazioni future ne siano edotte: io non lo faccio. Da saggio procedere seguendo la Via ma rinunciare a mezza strada: io non posso fermarmi. Da saggio attenersi all’invariabile mezzo, fuggire il mondo e restare sconosciuto senza rimpianti: solo l’uomo santo ne è capace. Qui finiscono le parole del Maestro, con le quali Tzu-szu ha chiarito il significato del capitolo iniziale. Il grande scopo di questa sezione è di mostrare che le tre grandi virtù: sapienza, carità, coraggio, sono la porta per entrare nella Via. Perciò all’inizio della sezione le ha illustrate con riferimenti al grande Shun, a Yen Yüang (Hui) e a Tzu-lu: Shun per la sapienza, Yen Yüang per la carità e Tzu-lu per il coraggio. Se delle tre una difetta, non v’è modo di avanzare nella Via e di perfezionare la virtù. Per il resto vedi il ventesimo capitolo. (Nota di Chu Hsi).

12. La Via del saggio è vasta e imperscrutabile. L’uomo e la donna più semplici possono averne conoscenza, ma nelle sue più alte manifestazioni vi sono cose che anche l’uomo santo non conosce. L’uomo e la donna più indegni possono essere in grado di seguirla, ma nelle sue più alte manifestazioni vi sono cose in cui anche l’uomo santo non riesce. Nella grandezza del Cielo e della Terra l’uomo trova qualcosa di cui è insoddisfatto10. Perciò, quando il saggio parla della grandezza (della Via) nessuno sotto il cielo è capace di contenerla, quando parla della sua piccolezza nessuno sotto il cielo è capace di suddividerla. Nell’Ode (III, 5, 3) è detto: «Il falco vola nei cieli, il pesce s’immerge negli abissi». Dice quanto (la Via) si manifesti in alto e in basso. La Via del saggio si trova, nei suoi princìpi elementari, nell’uomo e la donna (più semplici), ma nel suo più alto grado si manifesta nel Cielo e nella Terra. Nel precedente dodicesimo capitolo il discorso è di Tzu-szu. Ha lo scopo di chiarire il significato della proposizione del capitolo iniziale circa l’impossibilità di scostarsi dalla Via. Negli otto capitoli che seguono egli cita saltuariamente alcuni detti di K’ung-tzu per illustrarlo. (Nota di Chu Hsi).

13. Confucio disse: — La Via non è lontana dall’uomo. Se l’uomo segue una

Via lontana dalla natura umana, questa non può dirsi la Via. Nell’Ode (I, 158, 2) è detto: «Se tagli un manico d’ascia con un’ascia dal manico già tagliato, il modello non è lontano». Quando hai in mano un manico d’ascia per fabbricarne un altro, se lo guardi di sbieco è come se fosse lontano. Perciò il saggio governa gli uomini tenendo presente l’umana natura e quando li ha modificati s’arresta. Chi ha il senso della lealtà e della reciprocità non è lontano dal giungere alla Via: ciò che non vuole sia fatto a sé non fa agli altri. La Via del saggio ha quattro regole, ma Ch’iu (io) non è capace nemmeno di una: non è capace di servire il padre nel modo che si richiede al figlio, non è capace di servire il principe nel modo che si richiede al ministro, non è capace di servire il fratello maggiore nel modo che si richiede al fratello minore, non è capace di dare prima all’amico ciò che si richiede da lui. Se, nella pratica delle comuni virtù e nella prudenza degli usuali discorsi, riscontra delle lacune, il saggio non osa non sforzarsi (per colmarle); se vi nota delle superfluità, non osa non fare del suo meglio (per eliminarle). Allora le parole si adeguano alle azioni e le azioni alle parole. Il saggio come potrebbe non essere completamente sincero? 14. Il saggio si comporta secondo il suo stato e non ambisce ad esorbitarne. Se si trova nella ricchezza e nella nobiltà, si comporta da ricco e da nobile; se si trova nella povertà e nell’umiltà, si comporta da povero e da umile; se si trova fra i barbari, si comporta come si conviene fra i barbari; se si trova nelle sventure e nelle difficoltà, si comporta come si conviene nelle sventure e nelle difficoltà. Non v’è situazione nella quale il saggio non s’accomodi e di cui non s’appaghi. Se sta in posizione elevata non opprime gli inferiori, se sta in posizione subordinata non esautora i superiori. Corregge sé stesso e non pretende dagli altri, quindi non ha di che dolersi: non si lamenta del Cielo in alto, non mormora contro gli uomini in basso. Perciò il saggio resta calmo in attesa del decreto del Cielo, mentre l’uomo volgare cammina sull’orlo dei precipizi per procacciarsi (un’indebita) fortuna. Confucio disse: — L’arciere ha qualche somiglianza con il saggio: quando non colpisce il centro del bersaglio, ne ricerca la causa in sé stesso. 15. La Via del saggio è paragonabile ad una che conduce lontano, ma deve partire da vicino; è paragonabile ad una che conduce verso l’alto, ma deve cominciare dal basso. Nell’Ode (II, 4, 7-8) è detto: «Vivere in amorosa unione con la moglie e i

figli, è come far risuonare arpa e liuto. Vivere in concordia con i fratelli, è durevole armonia e felicità. Ordinate bene la vostra stanza e la vostra casa e gioite della vostra sposa e dei vostri figli e nipoti». Confucio aggiunse: — Ed i vostri genitori se ne compiaceranno. 16. Confucio disse: — La potenza degli esseri spirituali11, come è grande! Li guardi e non li vedi, li ascolti e non li odi, (eppure) fanno corpo con tutte le cose e non possono esserne separati. Fanno sì che gli uomini del mondo digiunino, si purifichino e indossino le vesti più sontuose per offrire i sacrifici. Tutto ricolmando, è come se essi fossero sopra di noi, come se fossero alla nostra sinistra e alla nostra destra. Nell’Ode (III, 22, 7) è detto: «L’approssimarsi degli esseri spirituali non può essere previsto, tanto più bisogna attenderli con riguardo». In tal modo, al manifestarsi dell’arcano la sincerità non può restare occulta12. 17. Confucio disse: — Come fu grande la pietà filiale di Shun! Per virtù fu santo, per dignità fu Figlio del Cielo, per ricchezza ebbe (la terra) all’interno dei quattro mari. Offrì i i sacrifici nel tempio degli antenati e i suoi discendenti li perperpetuarono (per il suo spirito). Per una sì grande virtù necessariamente doveva ottenere il suo rango, il suo appannaggio, la sua fama, la sua longevità. La ragione è che, nel far vivere gli esseri, il Cielo è sicuramente generoso con essi a seconda delle loro qualità: pertanto nutre le piante rigogliose ed abbatte quelle cadenti. Nell’Ode (III, 15, 1) è detto: «Dell’ammirevole ed amabile principe, illustre è l’eccellente virtù. Ben governa il popolo, ben governa i funzionari. Ne ha il compenso dal Cielo, che lo protegge, l’aiuta e lo designa (all’impero). Dal Cielo proviene la sua dignità». Perciò chi ha una grande virtù ha sicuramente il mandato celeste. 18. Confucio disse: —Solo il re Wên fu esente da afflizioni! Ebbe come padre Wang Chi e come figlio il re Wu: suo padre gettò le basi (dell’elevazione della famiglia), suo figlio la trasmise. Il re Wu proseguì l’opera di T’ai Wang, di Wang Chi e del re Wên13: una sola volta indossò l’armatura e conquistò l’impero. Mai più decadde dalla sua fama illustre nel mondo. Per rango fu Figlio del Cielo, come ricchezza ebbe (la terra) all’interno dei quattro mari. Offrì i sacrifici nel tempio degli antenati e i suoi discendenti li perpetuarono (per il suo spirito). Il re Wu ricevette il mandato celeste in età avanzata e il

duca Chou, quindi, (alla sua morte) completò l’opera virtuosa di Wên e di Wu. Conferì il titolo postumo di re (wang) a T’ai Wang e a Wang Chi e dedicò il massimo sacrificio ai duchi predecessori secondo il rito del Figlio del Cielo. Tale rito si estese ai feudatari, ai dignitari e perfino ai funzionari e al popolo minuto: se il padre era un dignitario e il figlio un funzionario, il padre era seppellito come dignitario, ma i sacrifici gli venivano offerti con il cerimoniale dei funzionari; se il padre era un funzionario e il figlio un dignitario, il padre era seppellito come funzionario, ma gli si sacrificava col cerimoniale dei dignitari14. Il lutto di un anno (per i congiunti) fu esteso fino ai dignitari, il lutto triennale (per i genitori) fu osservato anche dal Figlio del Cielo: il lutto per il padre e la madre è unico, senza distinzione tra nobili e plebei. 19. Confucio disse: — Come fu piena la pietà filiale del re Wu e del duca Chou! Poiché la pietà filiale è questo: ben proseguire gli intenti degli avi, ben tramandare le imprese degli avi. In primavera e in autunno riordinavano il tempio ancestrale, estraevano dai ripostigli i vasi del sacrificio, esponevano le vesti degli avi ed offrivano i frutti stagionali. Per le cerimonie nel tempio degli antenati seguivano un ordine secondo le generazioni15; un ordine secondo il rango, in modo da far distinzione fra nobili e comuni; un ordine secondo l’incarico ufficiale, in modo da distinguere i più degni; nella libagione generale gli inferiori (i più giovani) porgevano le coppe ai superiori (i più anziani), in modo che cessavano d’essere insignificanti (perché compivano un atto del rito); nel convito davano la precedenza per il colore dei capelli, in modo che vigeva un ordine secondo l’età. Assidersi sul trono degli avi, celebrare i loro riti, far suonare la loro musica, rispettare coloro che essi onoravano, amare coloro che essi avevano cari, servirli in morte come si erano serviti in vita, servirli dopo la loro dipartita come se fossero presenti, è il culmine della pietà filiale. Col rituale dei sacrifici al Cielo e alla Terra rendevano omaggio al Dio Supremo, col rituale del tempio ancestrale sacrificavano ai propri antenati. Quando si ha chiaro il rituale del sacrificio al Cielo e alla Terra e il significato del grande sacrificio e del sacrificio autunnale offerti dall’imperatore, governare l’impero è facile come guardare il palmo della mano. 20. Il duca Ai (del regno di Lu) chiese del governo. Confucio disse: — Il modo di governare di Wên e di Wu è esposto in tavole e listelli. Quando simili uomini sono in vita il loro sistema di governo fiorisce, quando essi

scompaiono il loro sistema si estingue. Le virtù di un uomo stimolano il governo come quelle della terra stimolano la pianta. In realtà, governare è come allevar giunchi (che crescono facilmente e presto). Perciò l’arte del governo consiste nel guadagnarsi gli uomini, nell’attirare i ministri virtuosi con (le qualità de) la propria persona, nel perfezionare la propria persona con la Via (dei doveri universali), nel perfezionare la Via con la carità. Ecco che cos’è la carità: essere umani. Amare i genitori è la più grande (carità). Ecco che cos’è la giustizia: trattare ogni cosa come le si addice16. Onorare i virtuosi è la più grande (giustizia). La gradualità dell’affetto per i parenti e l’ordine dell’onore per i virtuosi sono determinati dai riti. Quando coloro che sono in posizione subordinata non ottengono la fiducia del superiore, il popolo non può essere conquistato e governato17. Perciò il saggio non può non perfezionare la propria persona. Se intende perfezionare la propria persona, non può non servire i genitori. Se intende servire i genitori, non può non conoscere gli uomini. Se intende conoscere gli uomini, non può non conoscere il Cielo18. Sotto il cielo i doveri universali sono cinque e (le virtù) per mezzo delle quali essi si esercitano sono tre19. Tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello minore, tra amico e amico: sono i cinque doveri universali sotto il cielo. Sapienza, carità, coraggio: sono le tre virtù universali sotto il cielo. (Il modo di) esercitarli è uno solo20. Alcuni conoscono i doveri universali dalla nascita, altri li conoscono con lo studio, altri ancora li conoscono nelle angustie, ma alla fine la conoscenza è unica. I primi li esercitano con agio, i secondi con profitto e i terzi con strenui sforzi, ma alla fine il risultato è unico21. Confucio disse: — Amare lo studio avvicina alla sapienza, praticare con ardore avvicina alla carità, conoscere la vergogna (per i propri difetti) avvicina al coraggio. Chi conosce questi tre princìpi sa come perfezionare la propria persona; sapendo come perfezionare la propria persona sa come governare gli altri; sapendo come governare gli altri sa come porre in ordine l’impero, lo stato e la famiglia. Tutti coloro che governano l’impero, lo stato e la famiglia hanno nove norme: perfezionare la propria persona, onorare i virtuosi, amare i parenti, rispettare i grandi ministri, formare un sol corpo con i funzionari, trattare il popolo come figlio, attirare gli artigiani, essere ospitali con gli stranieri, ricevere graziosamente i feudatari. Se perfezionano la propria persona, la Via (dei cinque doveri universali) è saldamente stabilita; se onorano i virtuosi, non hanno incertezze; se amano i

parenti, i congiunti anziani e giovani non covano malanimo; se rispettano i grandi ministri, non sono delusi (negli affari di stato); se formano un sol corpo con i funzionari22, questi li servono ripagandoli ampiamente della loro urbanità; se trattano il popolo come figlio, i cento cognomi sono esortati (a servire il principe); se attirano gli artigiani, i beni sono sufficienti al fabbisogno; se sono ospitali con gli stranieri, costoro accorrono a loro dai quattro punti cardinali; se ricevono graziosamente i feudatari, l’impero è portato a riverirli. Digiunano, si purificano, indossano le vesti più sontuose per offrire i sacrifici e non si muovono se non secondo i riti: così perfezionano la propria persona. Respingono i calunniatori e rifuggono dalla voluttà, non fanno alcun conto della ricchezza e onorano la virtù: così incoraggiano i virtuosi. Rendono eminente la posizione dei loro parenti, aumentano il loro reddito e condividono i loro amori e i loro odi: così incoraggiano l’affetto dei congiunti. Pongono a disposizione numerosi funzionari per l’esecuzione degli ordini: così incoraggiano i grandi ministri. Trattano con sincerità e lealtà e retribuiscono con alti emolumenti: così incoraggiano i funzionari. Impongono lavori obbligatori secondo le stagioni ed esigono lievi imposte: così incoraggiano i cento cognomi. Mediante esami giornalieri e prove mensili fissano il compenso secondo il valore (delle opere): così incoraggiano gli artigiani. Fanno accompagnare coloro che vanno e mandano a ricevere coloro che vengono, elogiano gli eccellenti e compatiscono gli incapaci: così si mostrano ospitali verso gli stranieri. Restaurano le famiglie le cui linee di successione sono interrotte, sollevano i regni decaduti, riportano l’ordine negli stati in cui divampano le ribellioni e proteggono quelli che sono in pericolo, nelle epoche stabilite danno udienza ed accolgono gli inviati, colmano di doni coloro che vanno e non esigono tributi da coloro che vengono: così ricevono graziosamente i feudatari. Tutti coloro che governano l’impero, lo stato e la famiglia hanno nove norme, ma il modo di metterle in pratica è uno solo (la sincerità). Tutte le cose, se preordinate, riescono, altrimenti falliscono: un discorso preparato non subisce inciampi, un affare predisposto non incontra difficoltà, un’azione predeterminata non ha pecche, una strada prefissata non si presenta cieca. Quando coloro che sono in posizione subordinata (i ministri) non ottengono la fiducia del superiore (il principe), il popolo non può essere conquistato e governato. Per ottenere la fiducia del superiore c’è un modo: se

non si ha la stima degli amici non s’ottiene la fiducia del superiore. Per ottenere la stima degli amici c’è un modo: se non si obbedisce ai genitori non si ha la stima degli amici. Per obbedire ai genitori c’è un modo: se, esaminando la propria persona, non vi si trova sincerità, non si obbedisce ai genitori. Per rendere sincera la propria persona c’è un modo: se non si comprende il bene non si è sinceri nella propria persona. La sincerità è la Via del Cielo, tendere alla sincerità la Via dell’uomo23. Chi è sincero sta nel mezzo senza sforzo e ottiene senza pensare: stare nel mezzo della Via naturalmente e facilmente è da santi. Tendere alla sincerità significa scegliere il bene ed attenervisi fermamente. (A tal fine occorre) studiare estesamente, investigare minutamente, meditare attentamente, discernere chiaramente, praticare costantemente. Se v’è qualcosa che il saggio non ha studiata e, studiandola, non la comprende, egli non abbandona; se v’è qualcosa che non ha investigata e, domandandone, non la conosce, egli non cessa; se v’è qualcosa su cui non ha meditato e, riflettendoci, non la conquista, egli non tralascia; se v’è qualcosa che non ha distinta e, sceverandola, non riesce a chiarirla, egli non smette; se v’è qualcosa che non ha attuata e, praticandola, non riesce ad essere costante, egli non interrompe. Dove gli altri tentano una volta, egli cento; dove gli altri tentano dieci volte, egli mille. Colui che è capace di seguire questa Via, anche se sciocco certamente diverrà intelligente, anche se debole certamente diverrà forte. 21. L’intelligenza (a cui si perviene) dalla sincerità è da ascriversi alla natura (cioè al dono divino); la sincerità (a cui si perviene) dall’intelligenza è da ascriversi all’istruzione. La sincerità porta all’intelligenza, l’intelligenza alla sincerità. Sviluppando i capitoli che precedono, Tzu-szu ha fissato l’insegnamento del concetto del Maestro della Via del Cielo e della Via dell’uomo. Nei dodici capitoli che seguono, il discorso è proprio di Tzuszu, il quale ritorna sull’argomento per illustrare il significato di quei capitoli. (Nota di Chu Hsi).

22. Solo colui che ha la massima sincerità sotto il cielo è capace di sviluppare pienamente la sua natura24. Essendo capace di sviluppare pienamente la sua natura, è capace di sviluppare pienamente la natura degli altri uomini; essendo capace di sviluppare pienamente la natura degli altri uomini, è capace di sviluppare pienamente la natura degli esseri; essendo capace di sviluppare pienamente la

natura degli esseri, può assecondare le forze trasformatrici e sostentatrici del Cielo e della Terra. Quando può assecondare tali forze, entra in terna con il Cielo e la Terra. 23. Viene poi colui che ripudia le proprie aberrazioni25. Dalle aberrazioni è capace di pervenire alla sincerità. Se è sincero, tale appare; se tale appare, tale si manifesta; se tale si manifesta, s’illumina; se s’illumina, influenza; se influenza, modifica; se modifica, trasforma. Solo colui che ha la massima sincerità sotto il cielo è capace di trasformare (gli altri). 24. (L’uomo che segue) la Via della sincerità suprema può essere riconosciuto in anticipo. Quando lo stato e la famiglia (di lui) stanno per elevarsi se ne hanno sicuramente i lieti auspici, (così come) quando lo stato e la famiglia (del suo avversario) stanno per perire se ne hanno certamente i segni infausti: si scorgono dai vaticini delle millefoglie e della tartaruga, influenzano le quattro membra26. Quando la fortuna o la sfortuna s’approssimano si sa prima se l’evento è buono o cattivo. Per questo chi ha la sincerità suprema è simile agli esseri spirituali27. 25. La sincerità è il mezzo per completarsi, la Via è il modo di condursi. La sincerità è il principio e la fine degli esseri: senza la sincerità non vi sarebbero gli esseri. Per questo il saggio considera la sincerità il bene più prezioso. Chi ha la sincerità non si limita a completare sé stesso, ma di essa si serve per completare gli esseri. Completare sé stesso è carità, completare gli esseri è sapienza. Ambedue sono virtù della natura umana e costituiscono la Via per collegare l’interiore e l’esteriore. Perciò, attenendovisi in ogni circostanza si fa ciò che si conviene. 26. Pertanto, la sincerità suprema non ha tregua. Non avendo tregua è perseverante, perseverando investiga, investigando guarda lontano, guardando lontano si fa ampia e profonda, essendo ampia e profonda diviene sublime e luminosa. È vasta e profonda, così sostiene gli esseri; è sublime e luminosa, così ricopre gli esseri; è lungimirante e perseverante, così completa gli esseri. La vastità e la profondità la rendono eguale alla Terra, la sublimità e la luminosità la rendono eguale al Cielo, la lungimiranza e la perseveranza la rendono sconfinata. Essendo tale, si manifesta senza mostrarsi, modifica senza

muoversi, completa senza agire. La Via del Cielo e della Terra può essere interamente descritta con una sola parola (sincerità). Il loro governare gli esseri è senza duplicità, perciò il loro creare gli esseri è insondabile. La Via del Cielo e della Terra è ampia, è profonda, è sublime, è luminosa, è lungimirante, è perseverante. Il Cielo, ecco, è appena un punto luminoso, ma consideratelo nella sua infinità: il sole, la luna, le stelle e le costellazioni vi sono sospesi e miriadi di esseri ne sono ricoperti. La Terra, ecco, è appena un pugno di terriccio, ma consideratela nella sua vastità e spessore: sopporta il monte Hua senza sentirne il peso, contiene i fiumi e i mari senza che trabocchino e sostenta miriadi di esseri. La montagna, ecco, è appena un frammento di roccia, ma consideratela nella sua estensione e grandezza: vi nascono piante ed alberi, vi abitano animali e fiere, vi si nascondono tesori a non finire. L’acqua, ecco, è appena un mestolo di liquido, ma consideratela nella sua insondabile profondità: vi nascono testuggini, lucertole, draghi, pesci, tartarughe e vi abbondano beni e ricchezze. Nell’Ode (IV, 2, 1) è detto: «Il decreto del Cielo, oh, come è profondo e incessante!» Vuol dire: è così che il Cielo è Cielo. (L’ode prosegue): «Oh, come non apparirebbe illustre l’uniformità della virtù del re Wên?» Vuol dire: è così che il re Wên era Wên. Anche l’uniformità è incessante. 27. Come è grande la Via dell’uomo santo! Traboccante, eleva ed educa gli esseri, nelle vette più sublimi raggiunge il Cielo. Quale sovrabbondante grandezza! Comprende le regole dei riti, che sono trecento, e quelle del comportamento dignitoso, che sono tremila. Si attende un tale uomo (santo) e poi essa è seguita. Perciò si dice: «Se non v’è la sublime virtù (dell’uomo santo), la Via suprema non si concreta». Il saggio, quindi, onora la sua natura virtuosa con la ricerca e lo studio, che sviluppa fino alle cose più vaste e grandi ed approfondisce fino alle cose più sottili ed impercettibili. Egli si eleva alla sublimità ed all’illuminazione con l’invariabile mezzo, ritorna sui vecchi apprendimenti e ne acquisisce di nuovi, è scrupoloso e generoso nell’esaltare l’urbanità. Perciò, se ha una posizione elevata non s’insuperbisce, se si trova in posizione inferiore non è insubordinato. Se nello stato si segue la Via, le sue parole sono tali da farlo innalzare; se nello stato non si segue la Via, il suo silenzio è tale da farlo tollerare. Nell’Ode (III, 26, 4) è detto: «Intelligente egli è ed oculato, così protegge la sua persona». Non è quello il significato di queste

parole? 28. Confucio disse: — Essere ignoranti ed amare di condursi di testa propria, essere in bassa posizione ed amare di agire a proprio arbitrio: è il modo con cui la generazione nata oggi ritorna sulle cose antiche. Chi ciò fa sarà colpito dalla sventura. Chi non è Figlio del Cielo non delibera sui riti, non fissa le misure, non esamina gli ideogrammi (di nuova invenzione, per approvarli): per questo oggi in tutto l’impero i carri hanno gli assi di egual lunghezza, gli ideogrammi hanno egual forma, il comportamento ha eguali norme. Anche se siede sul trono, chi non ha la virtù (del santo) non osa innovare i riti e la musica; anche se ha la virtù, chi non siede sul trono parimenti non osa innovare i riti e la musica. Confucio disse: — Ho discusso i riti della dinastia Hsia: Ch’i non ne dà sufficiente testimonianza. Ho studiato i riti della dinastia Yin: ne esistono (appena) delle vestigia a Sung28. Ho studiato i riti della dinastia Chou, oggi in uso: io seguo i Chou. 29. Se colui che regna sull’impero ha per importanti questi tre (compiti: deliberare sui riti, stabilire le misure, esaminare gli ideogrammi), non farà sì che gli errori siano rari? Per quanto eccellenti fossero (nei riti), gli antichi sovrani non hanno più testimonianze; non avendo testimonianze non si dà loro credito; non dandosi loro credito, il popolo non li segue. Per quanto eccellente sia (nei riti), chi è in basso (un santo, come Confucio) non è in posizione autorevole; non essendo in posizione autorevole, non gli si dà credito; non dandoglisi credito, il popolo non lo segue. Perciò, le istituzioni del saggio (sovrano) trovano fondamento nella sua persona e testimonianza nel popolo. Esse non sgarrano poiché egli le paragona a quelle dei tre sovrani (fondatori delle dinastie: Yü, T’ang e Wên-Wu); non sono contrarie al giusto poiché le fonda sul (la Via del) Cielo e la Terra; non sollevano dubbi poiché le presenta agli esseri spirituali (quando sacrifica); non deludono poiché per esse cento generazioni hanno atteso il santo29. Non sollevano dubbi poiché le presenta agli esseri spirituali: egli conosce il Cielo. Non deludono poiché per esse cento generazioni hanno atteso il santo: egli conosce gli uomini. Così il saggio si muove e per generazioni costituisce un modello per il

mondo, agisce e per generazioni costituisce una regola per il mondo, parla e per generazioni costituisce una norma per il mondo. Chi gli è lontano anela a lui, chi gli è vicino non se ne sazia. Nell’Ode (IV, 13, 2) è detto: «Là (nei loro regni) non sono odiati, qui (alla corte dei Chou) non sono sgraditi. Da giorno a giorno, da notte a notte, in tal modo perpetuano la loro fama». Non v’è mai stato un principe, diverso da così, che si sia presto guadagnato la fama in tutto l’impero. 30. Chung-ni ha parlato di Yao e di Shun come di progenitori ed ha indicato Wên e Wu come modelli. In alto ha imitato le stagioni celesti, in basso si è conformato alle acque e al suolo. È paragonabile al Cielo e alla Terra, l’uno che tutto ricopre ed avvolge, l’altra che tutto contiene e sostenta. È paragonabile all’alterno scorrere delle stagioni, al succedersi della luce del sole e della luna. Gli esseri sono nutriti insieme senza danneggiarsi a vicenda, i corsi (delle stagioni e degli astri) si succedono insieme senza recarsi disordine a vicenda. Le piccole energie scorrono (continuamente) come fiumi, le grandi energie si scorgono nelle trasformazioni. Questo è ciò per cui il Cielo e la Terra sono grandi. 31. Solo la santità suprema sotto il cielo è capace di intelligente illuminazione e di sagace sapienza, che consentono di guidare (il popolo); di magnanima generosità e di mite pieghevolezza, che consentono di tollerare; di manifesta forza e di ferma risolutezza, che consentono di dirigere; di uniforme gravità e di imparziale correttezza, che consentono di rispettare; di brillante logica e di penetrante facoltà discriminatrice, che consentono di discernere. È omnicomprensiva e vasta, profonda e sorgiva: a suo tempo si manifesta all’esterno. È omnicomprensiva e vasta come il Cielo, è profonda e sorgiva come l’abisso. Quando appare non v’è chi non la veneri, quando parla non v’è chi non le dia fiducia, quando agisce non v’è chi non se ne rallegri. Così la sua fama e il suo nome superano i confini dell’Impero del Mezzo e arrivano fino ai (barbari meridionali) Mang ed ai (barbari settentrionali) Mai. Ovunque giungano vascelli o carri e penetrino le forze umane, in qualsiasi luogo che sia coperto dalla volta del cielo, sostenuto dalla terra, illuminato dal sole e dalla luna, morso dal gelo o inzuppato dalla rugiada, tutti gli esseri che hanno sangue e che respirano la venerano e l’amano. Per questo si dice che è pari al Cielo.

32. Solo la sincerità suprema sotto il cielo è capace di dar ordine ai grandi canoni del mondo, di stabilire le grandi fondamenta del mondo30, di conoscere le forze trasformatrici e sostentatrici del Cielo e della Terra. Come avrebbe qualcosa da cui dipendere?31 Come è ardente la sua carità (nel dar ordine ai grandi canoni), come è profondo il suo abisso (su cui basa le grandi fondamenta), come è immenso il suo Cielo (da cui apprende le forze trasformatrici)! Chi può conoscerla se non è realmente un santo intelligente ed illuminato, che comprende e realizza le virtù del Cielo? 33. Nell’Ode (I, 57, 1) è detto: «Sopra l’abito ricamato indossa una veste disadorna». (Ciò perché) non ama ostentare lo sfarzo. Parimenti la Via del saggio è di tenersi nell’ombra, mentre ogni giorno diviene vieppiù illustre; la norma dell’uomo volgare è di apparire, mentre ogni giorno corre vieppiù alla rovina. La Via del saggio è senza sapore ma non provoca sazietà, è semplice eppur raffinata, è gentile ma ferma nei princìpi. Egli conosce la prossimità di ciò che è distante, conosce la spontaneità di ciò che appare nell’aspetto, conosce la perspicuità di ciò che è segreto32: a lui è consentito di penetrare nella virtù. Nell’Ode (II, 38, 11) è detto: «Per quanto (il pesce) si nasconda immergendosi, è pienamente visibile». Perciò il saggio, quando si esamina nel suo intimo e si trova immune dal male, non prova vergogna nel suo cuore. Ciò per cui il saggio è ineguagliabile non è forse quello che gli altri non vedono? Nell’Ode (III, 22, 7) è detto: «Guardatevi quando siete nella vostra stanza, che non abbiate a vergognarvi della luce». Perciò il saggio è rispettoso anche se non si muove, è veritiero anche se non parla. Nell’Ode (IV, 37, 2) è detto: «In silenzio avanziamo (per il sacrificio) e siamo influenzati (dagli esseri spirituali), in quel momento non v’è contesa (fra gli astanti)». Perciò il saggio non offre ricompense eppure il popolo è incoraggiato (al bene), non si adira eppure il popolo lo teme più che l’ascia e l’azza (con cui il principe punisce i ribelli). Nell’Ode (IV, 4, 3) è detto: «La sua virtù non è ostentata, tutti i principi lo prendono a modello». Perciò il saggio è sincero e rispettoso e l’impero è in pace. Nell’Ode (III, 7, 7) è detto: «(Il Dio Supremo disse al re Wên:) Guardo con

favore la tua luminosa virtù, di cui non fai gran rumore né mostra». Confucio disse: — Il rumore e la mostra non hanno alcun valore per la trasformazione del popolo. Nell’Ode (III, 26, 6) è detto: «La virtù è leggera come un pelo». I peli ammettono ancora paragoni (sul loro peso). Le opere del Cielo non fanno rumore né hanno odore33: questo è il culmine (dell’assenza di ostentazione).

Avendo esteso il suo discorso fino all’estremo nei precedenti capitoli, in quest’ultimo Tzu-szu si volge per ritornare a ciò che ne è il fondamento. Parte di nuovo dalla proposizione che il primo studio è diretto a sorvegliare sé stessi nella solitudine e spinge avanti il discorso portandolo gradualmente alla completezza della pacificazione dell’impero mediante un sincero senso di reverenza (per i propri doveri). Esalta anche la misteriosità (di quel fondamento) giungendo a dire che non fa rumore né ha odore. Qui si arresta. Insomma, riassume l’essenza di tutta l’opera e la compendia. L’intento di ammonire ripetendo il richiamo è profondo e pressante. Può lo studioso non impegnare tutto sé stesso (nell’approfondimento di questa opera)? (Nota di Chu Hsi). * Attribuito a Tzu-szu, nipote di Confucio. È compreso nel Li Chi (Memorie sui Riti), di cui forma il XXVIII libro. 1. Nell’antica pittografia cinese il carattere chung era descritto da un cerchio attraversato da una linea verticale: il suo significato è «mezzo», «stare nel mezzo». Letteralmente yung significa «usuale, comune, costante, immutabile». 2. Chu Hsi commenta: «Il decreto del Cielo (ming) equivale a comando (ling), la natura (hsin) è il principio razionale (li). Per mezzo dello yin e dello yang e dei cinque elementi [legno, fuoco, terra, metallo, acqua - N.d.T.], il Cielo fa nascere le creature per trasformazione e mediante lo spirito vitale (vedi ME 25) le completa con la forma. Conferisce loro anche il principio razionale (vedi GS 5) che equivale ad un comando. Così lá vita degli uomini, poiché ciascuno possiede il principio conferitogli, consiste nella forza di conformarsi perseverantemente alle cinque virtù cardinali [carità, urbanità, sincerità, giustizia, sapienza]: ciò dicesi natura. Tao equivale a Via. Se gli uomini si conformano ciascuno alla spontaneità della sua natura, nel commercio giornaliero con le cose e gli esseri hanno un sentiero da praticare ed è ciò che si chiama la Via. Benché la natura e la Via siano comuni a tutti, la disposizione dello spirito vitale è talvolta diversa: perciò non può essere senza colpa chi differisce (dagli altri) perché non vi perviene (alla Via). I santi, in quanto regolano ciò che l’uomo e gli esseri devono praticare, propongono al mondo delle leggi, come quelle dei riti, della musica, delle pene, dell’amministrazione del governo: ciò dicesi istruire. L’uomo, in sostanza, sa di avere una natura ma non sa che gli proviene dal Cielo, sa che nelle azioni c’è una Via ma non sa che essa trova origine nella sua natura, sa che dal santo promana l’istruzione ma non sa che costui la trae da ciò che sicuramente abbiamo in noi. Per questo Tzu-szu chiarisce tutto ciò in questo primo capitolo. Le stesse idee esprime Tung-tzu quando dice che la grande sorgente della Via sgorga dal Cielo». Tung-tzu, citato dal commentatore, è Tung Chu-shu, filosofo confuciano vissuto all’epoca di Wu Ti della dinastia Han (intorno al I secolo a. C.). 3. Sulla questione vedi anche GS 6. 4. Il signor Yang è Yang Shih, filosofo dell’epoca dei Sung orientali (XI sec. d. C.), discepolo di Ch’êng I. 5. Il discorso è ripreso, con qualche variante, da DI 146. 6. Ambedue, cioè, non colgono il mezzo. 7. Hui è il discepolo Yen Yüang, premorto al Maestro (vedi BC 28). 8. Chu Hsi commenta: «Le prime tre mete sono frutto di sapienza, di carità e di coraggio e sono le

più ardue del mondo: tutte però s’appoggiano ad un’indinazione. Perciò, chiunque stimola le sue doti naturali e le sue forze è in grado di raggiungerle. L’invariabile mezzo, invece, benché sia facilmente alla portata, non può essere raggiunto da chi non è pervaso da spirito di giustizia ed ardore di carità e non è privo del minimo desiderio egoistico. Le prime tre mete sono ardue ma è facile raggiungerle, l’invariabile mezzo è facile ma è arduo raggiungerlo». 9. Il discepolo Tzu-lu amava il valore (vedi BC 30), perciò s’interessa alla forza. 10. L’ultima frase si riferisce alla imperscrutabilità della Via. L’uomo è insoddisfatto del caldo, del freddo, delle calamità, degli auspici infausti, e non ne intende la giustezza. 11. Traduco con «esseri spirituali» l’espressione kuei-shêng, sulla quale ecco il commento di Chu Hsi: «Ch’êng-tzu dice: “I kuei-shêng sono l’attività efficiente del Cielo e della Terra e impronta della creazione e trasformazione”. Chang-tzu [Chang Tsai, 1020-1076, filosofo, zio dei due fratelli Ch’êng Hao e I] dice: “I kuei-shêng sono la naturale potenza dei due princìpi vitali (ch’i)”. Se si parla di due princìpi vitali, io (Chu Hsi) intendo che il kuei è lo spirito dello yin e lo shêng lo spirito dello yang. Se si parla di un solo principio vitale, l’avanzare e l’espandersi è shêng, il tornare e il ritirarsi è kuei: in realtà sono una sola cosa». Affinché questo commento non lasci confuse le idee del lettore, dirò che yin è il principio femminile, l’oscurità, il freddo, l’inattività, il ritiro, e yang è il principio maschile, la luce, il calore, l’attività, l’espansione: ambedue sono le manifestazioni alternantesi del ino, la ragione o causa prima. 12. Chu Hsi commenta: «Nell’opera di unione e di dispersione dello yin e dello yang non v’è nulla che non sia sincero. È così, quindi, che al loro manifestarsi (la sincerità) non può restare occulta». Mi sembra che il significato sia il seguente: gli esseri spirituali operano in sincerità, perciò, quando essi influenzano le azioni degli uomini, questi devono esprimere ciò che veramente è in loro. 13. Su questi personaggi vedi CS 15 e seguenti. 14. In base alla norma: «Il funerale è fatto secondo il (rango del) defunto, il sacrificio secondo il (rango del) superstite» (Memorie sui Riti, III, 3, 3). 15. Il testo dice: «secondo il chao e il mu». Per chiarire questo ordine secondo le generazioni, riporterò la descrizione del tempio ancestrale degli imperatori Chou quale risulta dalle Memorie sui Riti (III, 3, 4): in esso erano sette sale, tutte rivolte verso oriente, di cui una in fondo al tempio e le altre, a tre a tre, rispettivamente sul lato destro a settentrione (mu) e sul lato sinistro a meridione (chao). La prima conteneva la tavoletta del capostipite (Hou Chi), quelle sul lato destro le tavolette del re Wên e degli avi della 5a e 3a generazione antecedente a quella dell’imperatore regnante, quelle

sul lato sinistro le tavolette del re Wu e degli avi della 4a e 2a generazione. Alla morte dell’imperatore, la tavoletta della quinta generazione veniva rimossa ed accuratamente riposta in una sala comune (ibidem, XX, 1, 5), mentre le altre venivano spostate per far assumere il suo posto al defunto recente. Lo stesso ordine delle generazioni vigeva per gli astanti al sacrificio. Nel tempio dell’imperatore si veneravano sette ascendenti, in quello dei feudatari cinque, in quello dei dignitari tre e in quello dei funzionari uno (ibidem, III, 3, 4).

Tempio ancestrale della dinastia Chou. 16. Traduco con questa perifrasi il carattere i (lett.: ciò che si conviene, che si addice, che si deve). Il commento spiega: «I è questo: distinti i princìpi delle cose, ciascuna di esse abbia ciò che le si addice». È da notare che anche «giustizia» dicesi i: il testo e il commento descrivono il concetto di giustizia. I (giustizia) assume talvolta il significato di «rettitudine», «moralità». 17. Secondo alcuni critici quest’ultimo periodo sarebbe stato erroneamente interpolato in questo punto: vedi appresso, in questo stesso capitolo. 18. Chu Hsi spiega: «L’arte del governo consiste nel guadagnarsi gli uomini e nell’attirare i ministri virtuosi con (le qualità de) la propria persona: perciò non si può non perfezionarla. Consiste nel perfezionare la propria persona con la Via e nel perfezionare la Via con la carità: perciò, nell’intento di perfezionare la propria persona, non si può non servire i genitori. Se si vuol giungere fino in fondo alla carità dell’amare i genitori, necessariamente si deve passare per la giustizia dell’onorare i virtuosi: perciò occorre conoscere gli uomini. La gradualità dell’amore per i parenti e l’ordine dell’onore per i virtuosi sono princìpi celesti: perciò occorre conoscere il Cielo». 19. Traduco con «dovere universale» l’espressione ta tao. Il commento spiega: «Ta tao è la Via percorsa da tutti sotto il Cielo, ieri come oggi». 20. Il commento spiega che quei doveri si conoscono con la sapienza, si sostanziano con la carità e si perseguono fermamente con il coraggio. L’unico modo d’esercitarli è la sincerità. 21. Chu Hsi annota che coloro che conoscono i cinque doveri per nascita e li esercitano con agio sono i sapienti, coloro che li conoscono con lo studio e li esercitano con profitto sono i caritatevoli, coloro che li conoscono nelle angustie e li esercitano con sforzi sono i coraggiosi. Infatti — egli spiega — benché nella natura umana nulla vi sia di malvagio, purtuttavia la disposizione dello spirito vitale non è eguale in tutti (cfr. nota 2 al n. 1): perciò nell’apprendere la Via chi è precoce e chi tardivo, percorrerla a taluno è difficile ed a taluno facile. Ma, sforzandosi senza tregua, tutti raggiungono l’unico risultato. 22. Sulla questione vedi ME 92. 23. Spiega Chu Hsi: «Sincerità significa verità, realtà, assenza di falsità: è il fondamento dei princìpi celesti. Tendere alla sincerità significa non possedere la verità, la realtà, l’assenza di falsità, ma desiderarle: è il dovere delle azioni umane». 24. È costui quello che per dono divino è pervenuto all’intelligenza dalla sincerità (vedi n. 21). Chu Hsi spiega: «La massima sincerità sotto il cielo è la sostanza della virtù del santo, alla quale nulla può essere aggiunto. Sviluppare pienamente la propria natura è rendere sostanziale la virtù. Perciò, quando è assente l’egoismo di ogni desiderio umano, il comando del Cielo è vivo in noi». 25. È costui quello che perviene alla sincerità dall’intelligenza con l’istruzione (vedi n. 21). Chu Hsi spiega che questa categoria comprende i saggi, dai grandi virtuosi in giù, e che le aberrazioni sono le inclinazioni unilaterali, la parzialità. 26. Influenzano, cioè, il modo di muoversi e di agire, conscio e inconscio, dei due avversari, destinati l’uno ad elevarsi e l’altro a perire.

27. Sulla sincerità degli esseri spirituali vedi nota 12 al n. 16. In tutte le versioni che mi sono venute sotto gli occhi, il verbo della prima proposizione di questo capitolo è stato tradotto all’attivo e il resto del discorso in conseguenza. Ne è venuta fuori una frase del tipo: «Chi ha la Via della sincerità suprema può avere la precognizione», per la quale si mostra indignato J. Legge (vedi The Doctrine of the Mean in «The Chinese Classics», vol. I), il quale annota: «L’intero capitolo è completamente assurdo e dà un carattere di ridicolaggine a tutto il magniloquente insegnamento della “sincerità intera”». Se il verbo fosse tradotto al passivo, come mi sembra che richieda la struttura della frase cinese, dall’affermazione contenuta nel testo sparirebbe ogni traccia di ridicolaggine. Nel tradurre come sopra ho tradotto, ho tenuto presente il probabile riferimento a personaggi storici, come T’ang e Wên-Wu (vedi CS 10 e 18-22), i quali per le loro virtù ottennero il consenso popolare rispettivamente contro l’ultimo imperatore della dinastia Hsia e della dinastia Yin, prima ancora che con le loro gesta mostrassero di essere i nuovi sovrani dell’impero. 28. Ch’i e Sung erano i feudi assegnati rispettivamente ai discendenti degli Hsia e degli Yin (vedi CS 26-27), affinché vi fossero perpetuati i riti di quelle due dinastie. In DI 49, anche per i riti degli Yin Confucio dice che a Sung non ve n’è sufficiente testimonianza. 29. A commento di quest’ultima proposizione Chu Hsi cita, con qualche variante, una frase di Mencio (vedi ME 25), spiegando: «Questo significa “quando il santo sorgerà di nuovo non cambierà le mie parole”». 30. Le parole usate nel testo sono: ching lun (che ho tradotto «dar ordine»), ta ching («i grandi canoni»), ta pên («le grandi fondamenta»). Chu Hsi spiega: «Ching significa: disporre i fili e distinguerli; lun significa: paragonare le categorie e unirle. Ching (di ta ching) significa: norma costante; ta ching sono le cinque specie di relazioni umane (o doveri universali vedi n. 20). Ta pên significa: l’intera sostanza della natura». 31. La domanda trova spiegazione nel commento di Chu Hsi, che traduco liberamente: «Chi è in possesso della sincerità suprema senza infingimenti — egli dice — intuitivamente conosce e assimila le forze trasformatrici e sostentatrici del Cielo e della Terra. Le conosce non per averle udite o viste: questo è il naturale risultato della sincerità suprema. Perciò come potrebbe esservi alcunché, reso manifesto dalle cose, da cui egli dipenda per essere poi in grado di operare?» 32. Chu Hsi spiega: «La prossimità di ciò che è distante: ciò che si vede in quello è originato da questo. La spontaneità di ciò che appare nell’aspetto: ciò che si manifesta all’esterno ha la sua radice nell’interno. La perspicuità di ciò che è segreto: ciò che sta all’interno appare all’esterno». 33. Citazione dell’Ode III, 1, 7.

I DIALOGHI* (Lun Yü)

LIBRO I CAPITOLO I

HSÜEH ÊRH1 1. Confucio disse: — Studiare e mettere costantemente in pratica non è una soddisfazione? Che un amico venga da luoghi lontani non è una gioia? Non essere conosciuti dagli uomini e non crucciarsene non è da saggi? 2. (Il discepolo) Yu-tzu disse: — È raro che un uomo filiale verso i genitori e sottomesso ai fratelli maggiori ami ribellarsi ai superiori. Né s’è mai dato un uomo che non ami ribellarsi ai superiori e tuttavia ami provocare disordini. Il saggio applica le sue forze alle radici: consolidate le radici, si sviluppa la Via. Pietà filiale e sottomissione fraterna: queste sono le radici della carità. 3. Confucio disse: — Parole artificiose e modi insinuanti raramente s’accompagnano alla carità. 4. Tsêng-tzu disse: — Ogni giorno mi esamino su tre punti: non sono stato leale nell’operare per gli altri? non sono stato sincero nei rapporti con gli amici? non ho messo in pratica ciò che mi è stato insegnato? 5. Confucio disse: — Chi governa uno stato che può levare mille carri da guerra, sia attento negli affari e sincero; consumi parsimoniosamente ed ami il prossimo; comandi al popolo secondo le stagioni2. 6. Confucio disse: — In casa il giovane osservi la pietà filiale, fuori casa la sottomissione fraterna; sia diligente e sincero; estenda il suo amore a tutti, ma avvicini solo le persone caritatevoli. Ciò fatto, se gli avanza dell’energia, la dedichi allo studio delle lettere. 7. (Il discepolo) Tzu-hsia disse: — Un uomo che ama i virtuosi e rifugge dalle voluttà, che è capace di prodigare tutte le sue forze nel servire i genitori, che è capace di dar tutto sé stesso nel servire il principe, che parla con sincerità nei rapporti con gli amici, anche se lo dicono incolto, io certamente lo reputo colto. 8.

Confucio disse: — Se il saggio manca di gravità non è rispettato, la sua cultura non è solida. Egli considera essenziali la lealtà e la sincerità, non ha amici che non siano simili a lui, se sbaglia non teme di correggersi. 9. Tsêng-tzu disse: — Se (il principe) attende con fervore ai riti funebri e sacrifica agli avi anche più remoti, la virtù del popolo torna ad essere eccellente. 10. (Il discepolo) Tzu-ch’in chiese a Tzu-kung (altro discepolo): — Quando arriva in uno stato, il Maestro non manca di assumere informazioni sul suo governo. Le chiede o gliele danno spontaneamente? — Il Maestro — rispose Tzu-kung — le ottiene con l’affabilità, la rettitudine, il rispetto, la semplicità, la cedevolezza. Il suo modo di chiedere non è forse diverso da quello degli altri uomini? 11. Confucio disse: — Finché il padre è in vita, osserva la volontà del figlio. Quando il padre è morto, osserva la sua condotta: se per tre anni non si discosta dalla via tracciata dal padre, può dirsi filiale. 12. Yu-tzu disse: — Nella pratica dei riti la cosa più preziosa è la naturalezza. Per questo le norme degli antichi sovrani sono le migliori e noi le seguiamo nelle piccole e grandi questioni rituali. V’è qualcosa da evitare: conoscendo (i pregi de) la naturalezza, uniformarsi soltanto ad essa, senza collegarla al rito. È da evitarsi. 13. Yu-tzu disse: — Se negli accordi vi terrete nel giusto, potrete mantenere la parola data; se nel rispetto vi atterrete ai riti, eviterete vergogne e umiliazioni. Ne segue che non perderete le persone che amate e sarete anche onorati come maestri. 14. Confucio disse: — Il saggio non cerca la sazietà nel mangiare né le comodità nella dimora. Egli è accorto nel fare e prudente nel dire, segue chi è sulla Via per correggersi. (Così) può dirsi amante del sapere. 15. Tzu-kung chiese: — Che ne dici di un povero che non sia adulatore e di un ricco che non sia altezzoso? — Va bene — rispose Confucio. — Ma non tanto quanto un povero che sia

contento ed un ricco che ami l’urbanità. — Non è forse questo — domandò Tzu-kung — che vuol significare l’Ode (I, 55, 1) quando dice: «Come colui che intaglia e lima (l’avorio), come colui che polisce e sfaccetta (le gemme)?»3 — Con Szu — esclamò Confucio — posso cominciare a parlare delle odi! Io ho posto la premessa ed egli ha compreso la conclusione. 16. Confucio disse: — Non mi affliggo di non essere conosciuto dagli uomini, mi affliggo di non conoscere gli uomini.

CAPITOLO II WEI CHÊN 17. Confucio disse: — Chi governa con la virtù è paragonabile alla stella polare, che resta immobile al suo posto mentre tutte le altre le ruotano intorno. 18. Confucio disse: — Le odi sono trecento, ma una sola frase basta a riassumerle: «Egli pensa senza perversità»4. 19. Confucio disse: — Se lo guidi con le leggi e lo rendi uniforme con le punizioni, il popolo le scanserà e non conoscerà vergogna. Se lo guidi con la virtù e lo rendi uniforme con i riti, conoscerà la vergogna e perverrà (al bene). 20. Confucio disse: — A quindici anni la mia volontà fu rivolta allo studio, a trenta fui fermo (nei propositi), a quaranta non ebbi più incertezze, a cinquanta compresi i decreti del Cielo, a sessanta il mio orecchio divenne un organo obbediente (perché fu capace di ascoltare), a settanta seguii i desideri del mio cuore senza uscire di squadra. 21. 5 Meng I-tzu chiese della pietà filiale. — Non trasgredire (al principio naturale) — rispose Confucio. Mentre Fan Ch’ih (suo discepolo) gli guidava la carrozza, Confucio gli riferì dicendo: — Meng Sun mi ha chiesto della pietà filiale ed io gli ho risposto: non trasgredire. — Che significa? — domandò Fan Ch’ih. — Quando sono in vita — rispose Confucio — servire i genitori secondo i riti, quando sono morti seppellirli secondo i riti e offrir loro sacrifici secondo i

riti. 22. Meng Wu-po (figlio di Meng I-tzu) chiese della pietà filiale. — Che i genitori abbiano a soffrire solo per le malattie (dei figli) — rispose Confucio. 23. Tzu-yu domandò della pietà filiale. — Oggi — rispose Confucio — per pietà filiale s’intende provvedere al nutrimento dei genitori. Ma perfino i cani e i cavalli sono nutriti. Se manca la venerazione, che differenza c’è (tra i genitori e gli animali)? 24. Tzu-hsia interrogò sulla pietà filiale. — È difficile il contegno (cioè mostrare la propria contentezza nel servire) — rispose Confucio. — Se i giovani s’accollano le fatiche quando c’è un lavoro, se gli anziani si cibano quando c’è vino e riso, questa è da considerarsi pietà filiale? 25. Confucio disse: — Ho parlato con Hui per un giorno intero: non ha mai obbiettato (nulla), come se fosse stupido. Quando si fu ritirato, ho osservato il suo comportamento in privato: era in grado di mettere in pratica (i miei insegnamenti). No, Hui non è stupido! 26. Confucio disse: — Osserva ciò che un uomo fa, scruta i motivi (che lo muovono), esamina ciò di cui s’appaga. Che cosa ti nasconderà costui? Che cosa ti nasconderà? 27. Confucio disse: — Colui che mette in pratica gli antichi insegnamenti e (ciò facendo) ne impara di nuovi può considerarsi maestro. 28. Confucio disse: — Il saggio non è uno strumento (che è adatto ad un solo uso). 29. Tzu-kung chiese del saggio. Confucio rispose: — Prima mette in pratica le sue parole (che dirà), poi queste sono conformi alle sue azioni. 30. Confucio disse: — Il saggio è universale e non partigiano, l’uomo volgare è partigiano e non universale. 31.

Confucio disse: — Studiare senza meditare è inutile, meditare senza studiare è pericoloso. 32. Confucio disse: — Dedicarsi a dottrine eterodosse (cioè diverse da quelle dei santi uomini) è veramente dannoso. 33. Confucio disse (al discepolo Tzu-lu): — O Yu, vuoi che t’insegni che cos’è la sapienza? Ciò che sai riconosci di saperlo, ciò che non sai riconosci di non saperlo. Questa è sapienza. 34. (Il discepolo) Tzu-chang studiava per gli emolumenti (degli impieghi). Confucio gli disse: — Ascolta molto ma tralascia ciò che è dubbio, ed anche del resto parla con prudenza: così avrai poco biasimo. Osserva molto ma tralascia ciò che è pericoloso, ed anche il resto mettilo in pratica con prudenza: così avrai pochi pentimenti. Poco biasimo nel parlare, pochi pentimenti nell’operare: gli emolumenti dipendono da ciò. 35. Il duca Ai (di Lu) domandò: — Che devo fare perché il popolo sia sottomesso? — Innalza gli uomini retti — rispose Confucio — ed allontana i disonesti: allora il popolo sarà sottomesso. Innalza i disonesti ed allontana gli uomini retti: allora il popolo non sarà sottomesso. 36. Chi K’ang-tzu (dignitario di Lu) interrogò sul modo di indurre il popolo alla reverenza ed alla fedeltà e di esortarlo (al bene). — Trattalo con gravità — rispose Confucio — ed allora sarà reverente; sii filiale e clemente ed allora sarà fedele; innalza gli uomini retti ed istruisci gli incolti ed allora sarà esortato. 37. Un tale domandò a Confucio: — Maestro, perché non sei al governo? — Nei Documenti (V, 21, 1) — rispose Confucio — non è forse detto della pietà filiale: «Essendo filiali ed amichevoli con i fratelli, potrete effondere queste qualità nel governo»? Anche questo è governare. Che necessità c’è d’essere al governo? 38. Confucio disse: — Un uomo privo di sincerità non so a che sia utile. Un grande carro privo di giogo o un piccolo carro senza stanga come si possono

condurre? 39. Tzu-chang chiese se si potesse conoscere (l’attività di governo di) dieci generazioni (successive a quella del fondatore d’una dinastia). — Gli Yin si sono modellati sui riti degli Hsia — rispose Confucio — e si può conoscere ciò che è stato abolito e ciò che è stato aggiunto. I Chou si sono modellati sui riti degli Yin e si può conoscere ciò che è stato abolito e ciò che è stato aggiunto. Così si può conoscere (l’attività di governo di) qualunque generazione (della dinastia) che verrà dopo i Chou, anche della centesima6. 40. Confucio disse: — Sacrificare agli spiriti (degli avi) che non sono propri è adulazione; vedere il giusto e non attuarlo è mancanza di coraggio.

LIBRO II CAPITOLO III PA I 41. Riferendosi al dignitario Chi, che nella corte aveva otto cori di danzatori7, Confucio disse: — Se si permette ciò, che cosa non si permetterà? 42. Le Tre Casate facevano togliere i vasi (alla fine del sacrificio) al canto dell’ode Yung8. Confucio disse: — «Assistono i principi feudatari, il Figlio del Cielo è maestoso». Come si usurpano (queste parole) nell’aula delle Tre Casate? 43. Confucio disse: — Un uomo che non sia caritatevole che ne farà dei riti? Un uomo che non sia caritatevole che ne farà della musica? 44. Lin Fan (cittadino di Lu) chiese quale fosse l’essenza dei riti. — Grande domanda, invero! — esclamò Confucio. — Nelle cerimonie festive la sobrietà è preferibile alla prodigalità, nelle cerimonie funebri il dolore sincero è preferibile alla puntuale osservanza degli atti esteriori. 45. Confucio disse: — I (popoli barbari) I e Ti hanno dei principi: non sono come il popolo del nostro paese che è privo (di un sovrano). 46. Il dignitario Chi voleva offrire il sacrificio lü al T’ai-shan. Parlando a Jan Yu, Confucio disse: — Non puoi salvarlo (da questa colpa)? — Non posso — rispose Jan Yu. — Ahimé! — esclamò Confucio. — Significa forse che il T’ai-shan è da meno di un Lin Fan?9 47. Confucio disse: — Il saggio non contende in nulla. Quando deve contendere (non) è nel tiro con l’arco? S’inchina cortesemente e ascende, discende e vuota la coppa10. Nelle sue contese è pur sempre un saggio. 48. Tzu-hsia domandò: — Che significa: «Oh, le fossette del suo riso malizioso! Oh, il balenare dei suoi begli occhi! Oh, apporre i colori su questo fondo!»?11

— La stesura dei colori viene dopo (l’esistenza de) il fondo — rispose Confucio. Chiese Tzu-hsia: — (Vuoi dire che) le forme dell’etichetta vengono dopo (la lealtà e la sincerità)? — Chi m’intende è Shang! — esclamò Confucio. — Adesso posso parlargli delle odi. 49. Confucio disse: — Posso parlare dei riti della dinastia Hsia, ma Ch’i non ne dà sufficiente testimonianza. Posso parlare dei riti della dinastia Yin, ma Sung12 non ne dà sufficiente testimonianza. E questo perché mancano i documenti e gli uomini virtuosi: se ve ne fossero, potrei valermene come prova. 50. Confucio disse: — Il sacrificio ti, dallo spargimento della libazione in poi, non voglio vederlo13. 51. Qualcuno chiese del significato del sacrificio ti. — Non lo so — rispose Confucio14. — Chi ne conoscesse il significato potrebbe governare l’impero con la stessa facilità con cui si guarda qui. E mostrò il palmo della mano. 52. (Confucio) sacrificava (agli antenati) come se fossero presenti, sacrificava agli esseri spirituali come se fossero presenti. Diceva: — Se non mi dessi tutto al sacrificio, sarebbe come se non sacrificassi. 53. Wang-sun Chia interrogò dicendo: — Che cosa significa: «È meglio ingraziarsi Ts’ao che riverire Ao?»15 — Non è vero — rispose Confucio. — Chi offende il Cielo non ha chi pregare. 54. Confucio disse: — I Chou hanno guardato (i riti de) le due dinastie (precedenti, che hanno perfezionati). Come è raffinata la loro civiltà! Io seguo i Chou. 55. Confucio, quando entrava nel Gran Tempio (del duca Chou in Lu), si informava su ogni cosa. Qualcuno esclamò: — Chi dice che il figlio dell’uomo

di Tsou s’intende di riti? Entra nel Gran Tempio e domanda di ogni questione. Confucio, udito ciò, disse: — È appunto questo il rito16. 56. Confucio disse: — Nel tiro con l’arco l’importante non è trapassare il cuoio (del bersaglio), poiché le forze (dei contendenti) non sono eguali: era la norma degli antichi. 57. Tzu-kung avrebbe voluto abolire l’offerta dell’agnello per la proclamazione della nuova luna. Confucio disse: — O Szu, a te è caro l’agnello (per avarizia), a me è caro il rito. 58. Confucio disse: — Nel servire il principe attenersi scrupolosamente ai riti: la gente lo considera adulazione. 59. Il duca Ting (di Lu) domandò in che modo dovesse il principe guidare i ministri e i ministri servire il principe. — Il principe guidi i ministri con i riti — rispose Confucio — e i ministri servano il principe con la lealtà. 60. Confucio disse: — L’ode Kuan Tsu esprime la gioia ma non la licenza, la tristezza ma non la desolazione17. 61. Il duca Ai interrogò (il discepolo) Tsai Wo sull’altare per il sacrificio alla Terra. — Il primo imperatore Hsia vi piantò il pino — rispose Tsai Wo — gli Yin vi piantarono il cipresso, i Chou il castagno. Si dice per incutere timore al popolo18. Uditolo, Confucio disse: — Cose compiute non si discutono, cose invalse non si riprovano, cose passate non si censurano. 62. Confucio disse: — Meschina era, invero, la capacità di Kuan Chung!19 Qualcuno domandò: — Kuan Chung era forse avaro? — Il signor Kuan possedeva il palazzo San Kuei — rispose Confucio — e teneva una persona per ogni servizio. Come sarebbe stato avaro? — Allora Kuan Chung conosceva i riti?

— I principi — disse Confucio — facevano mettere uno schermo davanti alla porta del palazzo ed anche il signor Kuan lo fece mettere. I principi, nei convegni amichevoli con un loro pari, usavano porre due tavoli l’uno dirimpetto all’altro (su cui posare le coppe): anche il signor Kuan pose due tavoli contrapposti. Se il signor Kuan conosceva i riti, chi non li conosce? 63. Confucio, istruendo sulla musica il gran maestro di Lu, disse: — La musica può essere così concepita: comincia in pieno accordo, prosegue in armonia, distintamente (per ogni strumento) e senza interruzione fino alla fine. 64. Il funzionario al confine del distretto di I (nel regno di Wei) pregò di essere ricevuto. — Non è mai avvenuto — spiegò — che non mi sia stato permesso di far visita ad un saggio giunto fin qui. Coloro che seguivano (il Maestro) lo introdussero. Uscendo disse: — Voi, suoi discepoli, perché vi dolete che egli non abbia un ufficio? Da molto tempo nell’impero non si segue la Via: il Cielo si servirà del vostro Maestro come del batacchio d’una campana (per diffondere i suoi insegnamenti). 65. Confucio diceva che la musica shao (dell’imperatore Shun) raggiungeva il massimo della bellezza e della bontà. Della musica del re Wu diceva che raggiungeva il massimo della bellezza ma non della bontà. 66. Confucio disse: — Perché dovrei prendere in considerazione un uomo posto in alto che non è magnanimo, uno che adempie ai riti senza essere rispettoso o un altro che attende alle esequie (dei suoi) senza dolore?

CAPITOLO IV LI JÊN 67. Confucio disse: — Se in un villaggio è tenuta in onore la carità, scegliere di non abitare tra la carità è da sapienti? 68. Confucio disse: — Chi manca di carità non può restare a lungo nelle tribolazioni né permanere in pieno nella felicità. Il caritatevole s’appaga della carità, il sapiente s’avvantaggia della carità. 69. Confucio disse: — Solo il caritatevole è capace di amare e di odiare gli uomini20.

70. Confucio disse: — Se la volontà è tesa verso la carità, non può commettere il male. 71. Confucio disse: — Ricchezza e nobiltà sono ciò che l’uomo brama: ma non deve permanervi se non ottiene ciò per mezzo della Via. Povertà e umiltà sono ciò che l’uomo detesta: ma non vi si deve sottrarre se non ottiene ciò per mezzo della Via. Se il saggio s’allontana dalla carità, come sarà degno di questo nome? Nemmeno per la durata d’un pasto il saggio fa alcunché contrario alla carità. Vi si attiene sicuramente in tempi di disordini, vi si attiene sicuramente in tempi di rivolgimenti. 72. Confucio disse: — Non ho ancora visto uno che prediliga la carità e detesti la malvagità. Chi ama la carità non pone nulla al disopra di essa, chi detesta la malvagità si attiene alla carità e non permette che la malvagità abbia potere su di lui. Vi è qualcuno che per un solo giorno sia capace di applicare le sue energie alla carità? Non ho mai visto nessuno a cui le forze non basterebbero: anche se qualcuno ve n’è, io non l’ho mai visto. 73. Confucio disse: — Ogni uomo eccede secondo la sua classe21. Osservate tali eccessi e saprete se è caritatevole. 74. Confucio disse: — Se al mattino hai appreso la Via, la sera puoi anche morire. 75. Confucio disse: — Un uomo colto, che indirizza la sua volontà alla Via ma si vergogna delle vesti e dei cibi grossolani, non è ancora maturo perché gli si parli (della Via). 76. Confucio disse: — Il saggio non sostiene e respinge nulla al mondo: segue ciò che è giusto. 77. Confucio disse: — Il saggio volge il suo pensiero alla virtù, l’uomo volgare ai comodi. Il saggio pensa alle sanzioni penali (temendole), l’uomo volgare ai favori (desiderandoli). 78. Confucio disse: — Chi agisce (soltanto) secondo il suo profitto si attira

molti risentimenti. 79. Confucio disse: — Chi è capace di governare lo stato con i riti e la cedevolezza, quale difficoltà incontrerà? Chi non è capace di governare lo stato con i riti e la cedevolezza, che ne farà dei riti? 80. Confucio disse: — Non affliggetevi di non avere un ufficio: preoccupatevi piuttosto di ciò per cui si è costituiti (negli uffici). Non rattristatevi di non essere conosciuti: cercate piuttosto di rendervi meritevoli d’essere conosciuti. 81. Confucio disse: — O Ts’an, basta un solo principio per intendere la mia Via. — È vero — riconobbe Tsêng-tzu. Uscito il Maestro, i discepoli domandarono: — Che voleva dire? — La Via del Maestro — spiegò Tsêng-tzu — è lealtà e reciprocità22. Null’altro. 82. Confucio disse: — Il saggio intende la giustizia, l’uomo volgare intende il profitto23. 83. Confucio disse: — Quando vedete un uomo virtuoso, proponetevi di eguagliarlo; quando vedete un uomo senza virtù, esaminatevi nel vostro intimo. 84. Confucio disse: — Servendo i vostri genitori, riprendeteli dolcemente (se sbagliano); se vedete che la loro volontà non vi segue, ancora rispettosamente non tralasciate (di riprenderli); se anche vi puniscono (per la vostra insistenza), non risentitevi. 85. Confucio disse: — Finché il padre e la madre sono in vita non viaggiate in luoghi lontani. Se viaggiate (perché costretti), deve esservi una destinazione (stabilita e nota). 86. Confucio disse: — Non scostarsi per tre anni dalla via tracciata dal padre, può dirsi pietà filiale. 87. Confucio disse: — Non è lecito ignorare l’età dei propri genitori: per

rallegrarsene da un lato (per la loro longevità), per temerne dall’altro (la loro morte). 88. Confucio disse: — Gli antichi non si lasciavano sfuggire le parole, perché si sarebbero vergognati di non raggiungerle (con le azioni). 89. Confucio disse: — Sono pochi coloro che sbagliano usando moderazione. 90. Confucio disse: — Il saggio vuol essere cauto nel parlare e diligente nell’agire. 91. Confucio disse: — La virtù non resta sola: certamente avrà dei vicini. 92. Tzu-yu disse: — Nel servire il principe, chi frequentemente (rimprovera) cade in disgrazia; chi frequentemente (rimprovera) gli amici viene sfuggito.

LIBRO III CAPITOLO V KUNG-YEH CH’ANG 93. Di Kung-yeh Ch’ang, Confucio diceva che gli si poteva dar moglie poiché, anche se era avvinto con corde nere, non era per sua colpa: gli dette in isposa sua figlia. Di Nan Jung diceva che in uno stato ordinato non sarebbe rimasto inutilizzato e in uno stato in disordine avrebbe evitato le pene e la morte: gli dette in isposa la figlia del suo fratello maggiore24. 94. Parlando del (discepolo) Tzu-chien, Confucio disse: — Che saggio è quest’uomo! Se il regno di Lu non avesse dei saggi, costui dove avrebbe preso questa (virtù)? 95. Tzu-kung domandò: — Di Szu (di me) che ne pensi? — Tu sei un vaso — rispose Confucio. — Che vaso? — domandò l’altro. — Un vaso hu-lien25 — rispose Confucio. 96. Qualcuno disse: — Yung (cioè il discepolo Jan Chungkung) è caritatevole ma non eloquente. — A che serve l’eloquenza? — disse Confucio. — Se parli alla gente con eloquio ricercato, per lo più riesci odioso. Non so se sia caritatevole, ma a che gli servirebbe l’eloquenza? 97. Confucio spingeva (il discepolo) Ch’i Tiao-k’ai ad assumere una magistratura. Questi disse di rimando: — In questo non posso ancora riscuotere fiducia (perché sono impreparato). Confucio si rallegrò (di tanta serietà). 98. Confucio disse: — La Via non è seguita. M’imbarcherò su di una zattera e navigherò sul mare. Chi mi seguirà sarà Yu. Tzu-lu, udito ciò, si compiacque. Confucio disse: — Nell’amare l’audacia Yu mi supera, ma in nulla adopera il giudizio26.

99. Meng Wu-po domandò se Tzu-lu fosse caritatevole. — Non lo so — rispose Confucio. E poiché l’altro insisteva, Confucio disse: — In un regno da mille carri da guerra, Yu potrebbe essere incaricato di governare le milizie, ma non so se sia caritatevole. — E di Chiu (Jan Yu) che ne dici? — In una città di mille case — rispose Confucio — o in una casata da cento carri da guerra, Chiu potrebbe esser fatto ministro, ma non so se sia caritatevole. — E di Ch’ih (Kung-hsi Hua) che ne dici? — Ch’ih, vestito della cintura di cerimonia e posto a corte, potrebbe essere adibito ad intrattenere visitatori ed ospiti, ma non so se sia caritatevole. 100. Parlando a Tzu-kung, Confucio chiese: — Fra te e Hui, chi è il migliore? — Szu (io) come oserebbe alzare gli occhi su Hui? — rispose Tzu-kung. — A Hui basta sentire il principio per capire l’intero. Szu quando sente il principio capisce un’altra cosa. — Non puoi eguagliarlo — disse Confucio. — Te lo assicuro, non puoi eguagliarlo. 101. (Il discepolo) Tsai Yü dormiva di giorno. Confucio disse: — Un legno marcio non si può scolpire, un muro di letame e fango non si può intonacare. Che vale far rimproveri a Yü? Una volta — continuò Confucio — trattando con il prossimo, ascoltavo le sue parole e avevo fiducia nelle sue azioni. Oggi, trattando con il prossimo, ascolto le sue parole e sorveglio le sue azioni. Devo a Yü se sono cambiato così. 102. Confucio disse: — Non ho mai visto un uomo che abbia una fermezza d’animo inflessibile. Qualcuno suggerì: — (Il tuo discepolo) Shen Chêng! — Chêng è un passionale — osservò Confucio. — Come possederebbe un’inflessibile fermezza d’animo? 103. Tzu-kung disse: — Ciò che non desidero che gli altri facciano a me non voglio fare agli altri. — O Szu — lo ammonì Confucio — non ci sei arrivato.

104. Tzu-kung disse: — È dato di sentire il Maestro parlare del comportamento raffinato e raccolto, ma non è dato di sentirlo parlare della natura umana e della Via del Cielo27. 105. Se Tzu-lu, avuto un insegnamento, non lo aveva àncora messo in pratica, aveva timore di riceverne un altro. 106. Tzu-kung chiese: — Perché si dice che K’ung Wên-tzu era colto?28 — Era intelligente ed amante dello studio, non si vergognava di domandare agli inferiori — rispose Confucio. — Per questo fu detto wên (colto). 107. 29 Confucio disse che Tzu-ch’an aveva quattro qualità del saggio: era modesto nel condurre sé stesso, rispettoso nel servire i superiori, benevolo nel nutrire la popolazione e giusto nel comandare al popolo. 108. Confucio disse: — Yen P’ing-chung30 sa come intrattenere i rapporti con il prossimo: dopo molto tempo lo tratta (ancora) con rispetto. 109. Confucio disse: — Nella stanza in cui teneva una grossa tartaruga, Tsang Wên-chung fece scolpire delle montagne sui capitelli e dipingere delle piante acquatiche sulle travi31. In che modo fu sapiente? 110. Tzu-chang interrogò dicendo: — Il primo ministro (dello stato di Ch’u) Tzu-wên tre volte assunse la carica senza mostrarsene compiaciuto e tre volte l’abbandonò senza mostrarsene dispiaciuto, anzi si fece un dovere d’informare i nuovi ministri degli affari del governo precedente. Come lo giudichi? — Leale — rispose Confucio. — Era caritatevole? — Non lo so — disse Confucio. — In che modo sarebbe stato caritatevole? — Quando T’sui-tzu uccise il principe di Ch’i — disse il discepolo — Ch’ên Wên-tzu32, che possedeva dieci quadrighe di cavalli, abbandonò tutto e s’allontanò. Giunto in un altro regno, disse: «Sono come il nostro dignitario T’suitzu» e se ne andò. Recatosi in un altro regno, disse ancora: «Sono come il nostro dignitario T’sui-tzu» e si allontanò. Come giudichi costui?

— Puro — rispose Confucio. — Era caritatevole? — incalzò l’altro. — Non lo so — rispose Confucio. — In che modo sarebbe stato caritatevole? 111. (Il dignitario di Lu) Chi Wên-tzu rifletteva tre volte prima di agire. Udito ciò, Confucio disse: — Due volte bastano. 112. Confucio disse: — Quando nello stato si seguiva la Via, Ning Wu-tzu fu un sapiente; quando nello stato non si seguì la Via, fu un folle. La sua sapienza può essere eguagliata, ma la sua follia è ineguagliabile!33 113. Quando si trovava nel regno di Ch’ên, Confucio disse: — Torniamo! Torniamo! I discepoli della mia scuola (rimasti a Lu) sono entusiasti ma superficiali, sono colti e compiti ma non sanno in che modo forgiarsi e correggersi34. 114. Confucio disse: — Po-i e Shu-ch’i non ricordavano le passate parole malvage (altrui), così si attiravano pochi risentimenti35. 115. Confucio disse: — Chi dice che Wei-shêng Kao è retto? Avendogli un tale chiesto dell’aceto, ne domandò ad un vicino e glielo dette36. 116. Confucio disse: — Tso Ch’iu-ming37 ha vergogna di usare parole artificiose, modi insinuanti e rispetto esagerato. Anche Ch’iu (io) ne ha vergogna. Tso Ch’iu-ming ha vergogna di dissimulare l’odio e di trattare da amico una persona (odiata). Anche Ch’iu ne ha vergogna. 117. Yen Yüang e Chi Lu (cioè Tzu-lu) attendevano al Maestro, che propose: — Perché ciascuno di voi non parla dei suoi desideri? Disse Tzu-lu: — Avendo carrozze e cavalli e leggere pellicce da indossare, vorrei condividerli con i miei amici e non dispiacermi se li rovinassero. — Vorrei non menar vanto delle buone qualità — disse Yen Yüang — e non far mostra delle azioni meritorie. — Gradirei sentire i desideri del Maestro — disse Tzu-lu. — Esser tranquillo sul conto dei vecchi (perché sono nutriti) — rispose Confucio — goder della fiducia degli amici e dell’affetto dei giovani.

118. Confucio disse: — È finita! Non ho ancora visto un uomo capace di accorgersi dei suoi errori e di rimproverarsene nel suo intimo. 119. Confucio disse: — In un villaggio di dieci famiglie sicuramente c’è un uomo leale e sincero quanto Ch’iu (me), ma non che ami lo studio quanto Ch’iu.

CAPITOLO VI YUNG YEH 120. Confucio disse: — Yung potrebbe sedere con la faccia rivolta a meridione38. Chung-kung chiese di Tzu-sang Po-tzu. Confucio rispose: — Passi, non bada alle minuzie. — Comportarsi dignitosamente — disse Chung-kung — e operare trascurando le minuzie nel governare il popolo, non può essere anche consentito? Ma comportarsi trascurando le minuzie39 e operare trascurando le minuzie, non è eccessiva trascuratezza? Confucio osservò: — Quel che dice Yung è vero. 121. Il duca Ai domandò quale dei discepoli amasse di apprendere. Confucio rispose: — V’era Yen Hui che amava di apprendere. Non trasferiva la sua collera (dall’uno all’altro), non ripeteva un errore. Disgraziatamente è morto per un decreto celeste (troppo) breve. Ora non v’è più nessuno di cui abbia udito che ama di apprendere. 122. Tzu-hua era stato inviato (da Confucio) in missione nel regno di Ch’i. Jantzu pregò che si desse del frumento alla madre di lui. Confucio disse: — Dagliene un fu (circa 45 litri). Il discepolo pregò che se ne desse di più. — Dagliene uno yü (circa 160 litri) — disse Confucio. Jan-tzu le dette cinque ping (più di 1.000 litri) di frumento. Confucio disse: — Ch’ih (cioè Tzu-hua) è andato a Ch’i con un attacco di cavalli ben pasciuti e vestito di leggere pellicce. Ho inteso che il saggio soccorre l’indigente, non che aggiunge al ricco. Quando Yüan Szu era suo intendente, gli dette novecento misure di

frumento, ma quello rifiutò40. — Non devi — gli disse Confucio. — (Il superfluo) ti serva per distribuirlo nel tuo vicinato e nel tuo villaggio. 123. Parlando di Chung-kung, Confucio disse: — Se il figlio d’un toro pezzato ha il mantello fulvo e le corna dritte, benché si voglia non utilizzarlo (per il sacrificio), gli esseri spirituali dei monti e delle acque forse lo rifiuterebbero?41 124. Confucio disse: — Hui era tale che il suo cuore non si distaccava dalla carità (anche) per tre mesi. Gli altri (miei discepoli) vi pervengono una volta al giorno o al mese e basta. 125. Chi K’ang-tzu domandò se Chung Yu (Tzu-lu) si potesse impiegare in un incarico di governo. — Yu — rispose Confucio — è risoluto. Quale difficoltà incontrerebbe in un impiego di governo? — E Szu (Tzu-kung) — chiese l’altro — potrebbe essere impiegato nel governo? — Szu — rispose Confucio — è intelligente. Quale difficoltà incontrerebbe in un impiego di governo? — E Chiu (Jan Yu) potrebbe essere impiegato nel governo? — Chiu ha molte capacità. Quale difficoltà incontrerebbe in un impiego di governo? 126. Il dignitario Chi mandò a chiedere a Min Tzu-chien di assumere la carica di governatore della città di Pi. — Rifiuta cortesemente a nome mio — disse Min Tzuchien (al messo). — Se vi sarà chi torni ad invitarmi, io certamente sarò al di là del fiume Wên42. 127. (Il discepolo) Po-niu era malato. Confucio andò a visitarlo e dalla finestra43 gli prese la mano, dicendo: — Lo perderò, è decreto del Cielo! Un tale uomo avere una simile malattia! Un tale uomo avere una simile malattia! 128. Confucio disse: — Virtuoso, invero, era Hui! Viveva con un cestello di riso e una zucca d’acqua ed abitava in un misero vicolo. Un altro non avrebbe sopportato tanta angustia, ma Hui non mutò la sua gioia (di seguire la Via). Davvero virtuoso era Hui! 129.

Jan Chiu disse: — Non è che io non apprezzi la tua dottrina, o Maestro, sono le forze che non mi bastano. — Colui a cui non bastano le forze cede lungo la strada — obbiettò Confucio. — Tu ti limiti sin da ora. 130. Confucio, parlando a Tzu-hsia, disse: — Sii un letterato saggio, non essere un letterato volgare44. 131. Tzu-yu era governatore di Wu-chêng (città del regno di Lu). Confucio gli domandò: — Hai degli uomini (degni, per coadiuvarti)? — C’è Tan-t’ai Mieh-ming — rispose Tzu-yu — che agisce senza battere vie traverse e non viene mai nel mio ufficio se non per affari pubblici. 132. Confucio disse: — Meng Chih-fan non è un ostentatore. Ritirandosi sconfitto45, si teneva alla retroguardia. Quando fu per entrare nella porta (della città), frustò il cavallo dicendo: «Non è che io sia tanto ardito da rimanere indietro, è il cavallo che non avanza». 133. Confucio disse: — Se non si ha la parlantina adulatrice dell’oratore T’o e l’avvenenza di Ch’ao di Sung, difficilmente si sfugge (alla cattiveria de) l’odierna generazione46. 134. Confucio disse: — Chi può uscire se non per la porta? Perché (dunque, si vuol avanzare) non per questa Via? 135. Confucio disse: — Se il temperamento ha il sopravvento sulla cultura, si è rustici; se la cultura ha il sopravvento sul temperamento, si è manierati47. Se temperamento e cultura si mescolano nella giusta misura, allora si è saggi. 136. Confucio disse: — L’uomo nasce per la rettitudine. Chi vive senza rettitudine, per caso si salva. 137. Confucio disse: — Coloro che conoscono la Via sono da meno di coloro che l’amano; coloro che l’amano sono da meno di coloro che ne gioiscono. 138. Confucio disse: — A chi è al disopra dell’uomo mediocre si può rivelare alti princìpi: a chi è al disotto dell’uomo mediocre non si può rivelare alti

princìpi. 139. Fan Ch’ih interrogò sulla sapienza. Confucio disse: — Compiere scrupolosamente i doveri propri dell’uomo, rispettare gli esseri spirituali ma tenersene lontano (cioè, non abbandonarsi alla superstizione): questa può dirsi sapienza. L’altro interrogò sulla carità. — L’uomo caritatevole — disse Confucio — ha come primo scopo ciò che è difficile (vincere le proprie passioni) e come ultimo ciò che può ottenere: questa può dirsi carità. 140. Confucio disse: — Il sapiente si compiace del fiume, il caritatevole si compiace della montagna. Il sapiente è attivo, il caritatevole è quieto. Il sapiente vive contento, il caritatevole vive a lungo. 141. Confucio disse: — Il regno di Ch’i con una sola modifica raggiungerebbe il regno di Lu. Lu con una sola modifica perverrebbe alla Via. 142. Confucio disse: — Una coppa angolare senza angoli, che coppa angolare è? Che coppa angolare è?48 143. Tsai Wo domandò: — Se al caritatevole dicessero: un uomo è caduto nel pozzo, egli lo seguirebbe? — Perché agirebbe così? — rispose Confucio. — Il saggio può essere indotto ad accorrere, ma non a gettarsi nel pozzo. Può essere attratto (da ciò che è ragionevole), ma non reso sciocco. 144. Confucio disse: — Il saggio estende il suo studio alla letteratura e si limita con i riti. Così può non allontanarsi (dalla Via). 145. 49 Confucio fece visita a Nan-tzu . Tzu-lu ne fu contrariato. Confucio giurò dicendo: — Ciò che ho fatto di sconveniente, il Cielo lo respinga! Il Cielo lo respinga! 146. Confucio disse: — Essere virtuosi con l’invariabile mezzo, come è sublime! Da molto tempo è raro nel popolo. 147. Tzu-kung disse: — Se vi fosse un uomo che spandesse largamente benefici

sul popolo e fosse capace di elevare le moltitudini, che ne dici: potrebbe essere considerato caritatevole? — Come sarebbe questione di carità? — rispose Confucio. — Santo, dovrebbe essere! Gli stessi Yao e Shun se ne angustiarono (di non arrivare a tanto). Il caritatevole, volendo per sé la saldezza, rende saldi gli altri; volendo per sé il progresso, fa progredire gli altri. Esser capaci di comprendere (gli altri) in base a ciò che è vicino (il proprio intimo), può dirsi il metodo della carità.

LIBRO IV CAPITOLO VII SHU ÊRH 148. Confucio disse: — Io tramando non creo. Stimo ed amo gli antichi. Indegnamente mi paragono al mio vecchio P’êng50. 149. Confucio disse: — Tacere ma tenere a mente (ciò che si è appreso), apprendere senza saziarsi, istruire gli altri senza stancarsi: quale (di queste capacità) è in me? 150. Confucio disse: — Non coltivare la virtù, non analizzare ciò che si è appreso, udire un giusto principio e non essere capace di attuarlo, non riuscire ad emendarsi dei difetti: sono le mie preoccupazioni. 151. Nei suoi momenti di inoperosità, il Maestro era disteso ed affabile. 152. Confucio disse: — Molto sono decaduto! Da tanto tempo non m’appare più in sogno il duca Chou. 153. Confucio disse: — Applicate la vostra volontà alla Via, aggrappatevi alla virtù, conformatevi alla carità, dilettatevi nelle arti. 154. Confucio disse: — Non ho mai rifiutato di istruire nessuno che portasse (un’offerta) da un pacchetto di carne secca in su51. 155. Confucio disse: — Non spiego a chi non si sforza (di capire), non miglioro l’eloquio di chi non (vuole) esprimersi, non ripeto a chi, dato un angolo (di un argomento), non è capace di trarne la prova degli altri tre. 156. Quando pranzava accanto ad una persona in lutto, il Maestro non mangiava fino a saziarsi. Nello stesso giorno in cui aveva pianto non cantava. 157. Confucio disse a Yen Yüang: — Agire quando si è utilizzati (negli uffici), ritirarsi quando si è messi in disparte: solo io e tu abbiamo (questa capacità). Tzu-lu domandò: — Maestro, se tu comandassi tre armate, chi vorresti al

tuo fianco?52 — Uno che affronta le tigri a mani nude — rispose Confucio — che attraversa i fiumi a guado53, che va incontro alla morte senza rimpianti, io non lo vorrei. Dovrebbe essere, invece, un uomo prudente nei momenti critici, che ami preparare i suoi piani e (poi) attuarli. 158. Confucio disse: — Se fosse bene correr dietro alla ricchezza, lo farei anche come servo che regge il frustino. Ma poiché non è bene correrle dietro, seguo ciò che prediligo. 159. Le cose che il Maestro trattava con (particolare) cautela erano: le purificazioni (prima dei sacrifici), le guerre, le malattie. 160. Quando era nel regno di Ch’i, Confucio udì la musica shao: per tre mesi (mentre la studiava, fu così assorto che) non gustò il sapore della carne. — Non immaginavo — disse — che la musica arrivasse a tanto. 161. Jan Yu domandò: — Il Maestro è favorevole al principe di Wei?54 — Aspetta — disse Tzu-kung — vado a domandarglielo. Entrato disse: — Po-i e Shu-ch’i55 che uomini erano? — Uomini virtuosi dell’antichità — rispose Confucio. — Si dolsero (di aver rinunciato al trono)? — Aspiravano alla carità e ottennero la carità: perché avrebbero dovuto dolersi? Uscito, Tzu-kung disse: — Il Maestro non è favorevole (al principe di Wei). 162. Confucio disse: — Mangiare cibi grossolani, bere acqua pura e farsi cuscino del braccio piegato: la gioia è anche frammezzo a ciò. Le ricchezze e gli onori illecitamente acquistati, per me sono come nuvole fuggenti. 163. Confucio disse: —Se mi fossero concessi molti altri anni di vita, (vorrei dedicarne) cinquanta allo studio del Libro delle Mutazioni: potrei andare esente da grandi errori. 164. Ciò di cui il Maestro parlava sovente era: le Odi, i Documenti e l’osservanza dei riti. Di tutto ciò parlava sovente.

165. Il duca di domandò di K’ung-tzu a Tzu-lu. Questi non rispose. — Perché — osservò Confucio — non gli hai detto: «È un uomo tale che (prima di apprendere) è tanto irrequieto da dimenticarsi di mangiare e che (quando ha appreso) tanto gioisce da dimenticarsi ogni afflizione e da non accorgersi che la vecchiaia sta per giungere? 166. Confucio disse: — Io non sono nato sapiente: sono uno che ama gli antichi e si sforza di ricercarli. 167. Il Maestro non parlava di eventi straordinari, di violenze, di disordini e di esseri spirituali. 168. Confucio disse: — Se viaggiassimo in tre (io, un uomo buono e un uomo cattivo), di sicuro avrei dei maestri: dall’uno prenderei ciò che ha di buono e lo seguirei, dall’altro ciò che ha di cattivo e mi emenderei. 169. Confucio disse: — Il Cielo generò in me la virtù. Che mi può fare Huang Tui?57 170. Confucio disse: — O miei discepoli, credete che vi nasconda qualcosa? Non vi nascondo nulla. Non faccio nulla che non porti a conoscenza di voi discepoli. Così è Ch’iu (io). 171. Il Maestro insegnava quattro cose: la letteratura, la condotta, la lealtà, la sincerità. 172. Confucio disse: — Un uomo santo non mi fu possibile vederlo. Se potessi vedere un saggio mi basterebbe. Confucio disse: — Un uomo buono non mi fu possibile vederlo. Se potessi vedere un uomo perseverante mi basterebbe. Non avere e fare come se si avesse, esser vuoto e fare come se si fosse pieno, trovarsi in strettezze e far come se si fosse negli agi: è difficile esser perseveranti. 173. Il Maestro pescava con l’amo e non con la rete, tirando con l’arco non saettava gli uccelli in riposo58. 174. Shê56

Confucio disse: — Vi sono alcuni che agiscono senza saperne il perché: io non faccio così. Ascoltare molto e, scelto ciò che vi è di buono, uniformarvisi; vedere molto e tenere tutto a mente. È il secondo grado della sapienza. 175. Era difficile parlare (del bene) agli abitanti del villaggio di Hu (tanto erano malvagi). Un giovane (di quel villaggio) fu ricevuto: i discepoli rimasero perplessi. Confucio disse: — Io tengo conto di (ciò che l’ha spinto ad) entrare, non di (ciò che farà) quando si sarà ritirato. Perché essere così severi? Se uno si è ravveduto tanto da venire da me, accetto il suo ravvedimento senza curarmi dei suoi trascorsi. 176. Confucio disse: — La carità è forse lontana? Voglio la carità ed ecco: la carità è qui. 177. Il ministro della giustizia del regno di Ch’ên domandò se il duca Chao avesse conosciuto i riti. Confucio rispose: — Li conosceva. Ritiratosi Confucio, il ministro s’inchinò al (discepolo) Wu-ma Ch’i e lo fece avvicinare. — Ho inteso dire che il saggio non è parziale — disse — ma forse anche il saggio è partigiano? Il principe prese una moglie col suo stesso cognome nel regno di Wu e disse che si chiamava «la prima signora Tzu» di Wu59. Se il principe conosceva i riti, chi non li conosce? Wu-ma Ch’i riferì tali parole. Confucio disse: — Ch’iu (io) è fortunato. Appena commette un errore, gli altri sicuramente lo sanno. 178. Quando il Maestro era in compagnia di un uomo che cantava, se cantava bene lo invitava a ripetere la canzone e quindi si univa al canto. 179. Confucio disse: — Forse in letteratura sono pari agli altri, ma a comportarmi da saggio non sono ancora riuscito. 180. Confucio disse: — Come oserei pormi alla pari del santo e del caritatevole? Di esserlo mai mi sazio, di istruire gli altri mai mi stanco. Ciò può dirsi ma nulla più. Kung-hsi Hua disse: — È appunto questo (non saziarsi e non stancarsi mai) che noi discepoli non riusciamo ad imparare. 181.

Confucio era gravemente ammalato e Tzu-lu lo invitò a pregare. Confucio disse: — Credi che debba? — Sì — rispose Tzu-lu. — Nelle laudi funebri si dice: «Vi ha pregati, o esseri spirituali del Cielo e della Terra». Confucio disse: — Ch’iu (io) prega da tanto tempo60. 182. Confucio disse: — La prodigalità porta all’indisciplina, la parsimonia alla grettezza: all’indisciplina è preferibile la grettezza. 183. Confucio disse: — Il saggio è soddisfatto e tranquillo, l’uomo volgare è sempre pieno di preoccupazioni. 184. Il Maestro era affabile eppur solenne, austero ma non rigido, rispettoso eppur naturale.

CAPITOLO VIII T’AI-PO 185. Confucio disse: — T’ai-po può dirsi un uomo dalla virtù eccelsa! Tre volte (cioè fermamente) rinunciò all’impero e il popolo (ignorando il vero motivo della rinuncia) nemmeno poté esaltarlo61. 186. Confucio disse: — Il rispetto senza riti è fastidio, la prudenza senza riti è timore, il coraggio senza riti è turbolenza, la schiettezza senza riti è rozzezza. Se il principe è sollecito verso i genitori, il popolo s’eleva alla carità; se egli non trascura le vecchie amicizie, il popolo non cade nella meschinità. 187. Tsêng-tzu, essendo ammalato, chiamò i discepoli che erano alla porta (della sua scuola). — Scoprite i miei piedi e le mie mani62 — disse. — Nell’Ode (II, 41, 6) è detto: «Siate timorosi e cauti come se foste sull’orlo d’un profondo abisso, come se camminaste sul ghiaccio sottile». Ormai ho saputo evitare (ogni danno al mio corpo), o figlioli. 188. Tsêng-tzu era ammalato. Meng Chin-tzu (dignitario di Lu) si recò ad assumere notizie. — Quando l’uccello sta per morire il suo canto è lugubre — disse Tsêng-tzu — quando l’uomo è in punto di morte le sue parole sono buone. Tre sono le cose a cui il saggio dà importanza nella Via: nell’atteggiare il suo

comportamento egli si tiene lontano dall’impetuosità e dalla trascuratezza, nel correggere la sua espressione si tiene vicino alla sincerità, nell’usare parole e toni si tiene lontano dalla volgarità e dalla sconvenienza. Per le questioni concernenti i vassoi di bambù e di legno (cioè per le piccole incombenze) vi sono gli appositi addetti. 189. Tsêng-tzu disse: — Dotato di grandi capacità interrogare chi non ne ha alcuna, avendo molto domandare a chi ha poco, possedendo far conto di non possedere, essendo pieno far conto d’esser vuoto, essendo offeso non pretendere soddisfazione. Una volta un mio amico (forse Yen Yüang) si comportava in questo modo. 190. Tsêng-tzu disse: — Uno a cui si può dare in custodia un (principe) orfano alto sei palmi, a cui si può affidare il governo d’un regno di cento li, che nemmeno nelle più gravi emergenze può essere distolto (dai suoi princìpi), è un saggio? Oh sì, è un saggio! 191. Tsêng-tzu disse: — Un uomo colto non può non essere magnanimo e perseverante, poiché il suo fardello è greve e lungo è il cammino. La carità è il suo fardello: non è pesante? Il cammino finisce con la morte: non è lungo? 192. Confucio disse: — Elevatevi con le odi, rinsaldatevi con i riti, completatevi con la musica. 193. Confucio disse: — Il popolo può essere indotto a seguire (i princìpi), ma non può essere condotto a comprenderli. 194. Confucio disse: — Un uomo che ama il coraggio e detesta la povertà crea disordini, un uomo privo di carità crea disordini quando è molto detestato. 195. Confucio disse: — Se uno avesse capacità ammirevoli come quelle del duca Chou ma fosse arrogante e avaro, quelle capacità non sarebbero degne di considerazione. 196. Confucio disse: — Un uomo che, dopo tre anni di studio, non aspira ad una carica ben retribuita non è facile a trovarsi. 197.

Confucio disse: — Amate lo studio seriamente e sinceramente, perseverate fino alla morte nel perfezionare la Via. Non entrate in uno stato pericolante, non dimorate in uno stato in preda alle lotte civili. Se nell’impero si segue la Via mostratevi, se si neglige la Via tenetevi nell’ombra. Quando lo stato è in ordine è vergogna esser poveri ed oscuri, quando lo stato è in disordine è vergogna esser ricchi e nobili. 198. Confucio disse: — Chi non è posto in una carica non si occupi degli affari di essa. 199. Confucio disse: — Appena il maestro di musica Chih assunse la carica (a Lu), come sembrò stupendo il finale dell’ode Kuan Tsu!63 Riempiva l’orecchio! 200. Confucio disse: — Entusiasti ma non retti, ignoranti ma non diligenti, semplici ma non sinceri: costoro io non li comprendo. 201. Confucio disse: — Studiate come se (la conoscenza) fosse irraggiungibile, come se temeste di perderla! 202. Confucio disse: — Come furono sublimi! Yao e Shun ebbero l’impero, eppure non ne fecero alcun caso. 203. Confucio disse: — Grande invero fu Yao come sovrano! Come fu sublime! Solo il Cielo è grande e solo Yao lo imitò. Come fu grande (la sua virtù)! Il popolo non poté trovare appellativi (degni di essa). Come fu eccelso per le opere compiute e splendido per le civili istituzioni! 204. Shun aveva cinque ministri e l’impero era ben governato. Il re Wu diceva: «Ho dieci ministri abili nel governo»64. Confucio disse: — Non è vero (il detto): «Il talento è raro»? Solo all’incontro delle epoche T’ang e Yü65 fu più abbondante che nell’attuale (Chou). Questa ha avuto una donna e non più di nove uomini (di talento). (Il re Wên) possedette due terzi dell’impero e con essi subordinatamente servì gli Yin: la virtù dei Chou può dirsi eccelsa. 205. Confucio disse: — Nell’imperatore Yü non trovo alcun difetto: era parco nel bere e nel mangiare ma mostrava la massima pietà verso gli esseri

spirituali; abitualmente indossava vestiti disadorni ma appariva sfarzoso quando si metteva la veste e il berretto dei sacrifici; viveva in un’umile dimora ma prodigava tutte le sue forze nello scavare fossati e canali. In Yü non trovo alcun difetto.

LIBRO V CAPITOLO IX TZU HAN 206. Raramente il Maestro parlava del profitto, dei decreti del Cielo e della carità. 207. Un uomo del villaggio di Ta-hsiang disse: — Grande davvero è K’ung-tzu! Studia di tutto ma in nulla si è fatto un nome. Udito ciò, Confucio disse parlando ai suoi discepoli: — (Per diventare famoso) a che mi dedicherò? Mi dedicherò alla guida dei carri? Mi dedicherò al tiro con l’arco? Mi dedicherò alla guida dei carri. 208. Confucio disse: — Il berretto di canapa è prescritto dai riti (per le cerimonie nel tempio ancestrale). Oggi però si usa di seta: è più economico. Seguo i più. Inchinarsi in basso (ai gradini della sala del principe) è prescritto dai riti. Oggi si usa inchinarsi in alto: è arroganza (perché non si attende che il principe inviti a salire). Benché mi distacchi dai più, mi attengo (agli inchini) dal basso. 209. Il Maestro era privo di quattro (difetti): non aveva idee soggettive (cioè era obbiettivo), non aveva preconcetti, non era ostinato, non era egocentrico. 210. Confucio era in apprensione a Kuang66. Disse: — Dopo la morte del re Wên, la civiltà non è qui (con me)? Se il Cielo avesse voluto che questa civilità si estinguesse, colui che muore dopo (il re Wên, cioè io stesso) non ne sarebbe stato partecipe. Se il Cielo non vuole che questa civiltà si estingua, che cosa può contro di me il popolo di Kuang? 211. Un primo ministro (forse di Wu o di Sung) chiese a Tzukung: — Il Maestro è forse un santo? Di molte capacità egli è dotato! — Certamente — rispose Tzu-kung — il Cielo ha permesso che fosse simile al santo. Inoltre egli ha molte capacità. Udito ciò, Confucio disse: — Il primo ministro mi conosce? Da giovane ero di umile condizione: per questo ho molte capacità in cose di poco conto. Il saggio deve forse avere molte capacità? Non molte.

(Il discepolo) Lao diceva: — Il Maestro suole ripetere: «Io non ho cariche pubbliche, per questo pratico le arti». 212. Confucio disse: — Ho io la sapienza? Non l’ho. Ma se un uomo rustico m’interroga, per quanto incolto egli sia, sono pronto a discutere (l’argomento) da cima a fondo fino ad esaurirlo. 213. Confucio disse: — La fenice più non appare! Dal fiume più non esce il disegno dei diagrammi! Per me è finita!67 214. Quando il Maestro incontrava qualcuno vestito a lutto o in berretto di cerimonia ed abiti nobiliari oppure cieco, al vederlo, anche se quello era più giovane, si alzava in piedi o, dovendolo oltrepassare, affrettava il passo. 215. Con un gran sospiro Yen Yüang disse: — Aspiro (alla Via del Maestro) e la sento irraggiungibile; mi vi addentro e la trovo impenetrabile; la guardo davanti a me e subito me la trovo dietro. Il Maestro abilmente guida gli uomini con ordine e metodo: mi rende più aperto con la letteratura e mi limita con i riti. Se volessi arrestarmi, non potrei. Poiché ho esaurito tutte le mie capacità, se qualcosa mi si pone dinnanzi, per quanto desideri inoltrarmi, non ne trovo la strada. 216. Essendo Confucio gravemente ammalato, Tzu-lu mandò un discepolo a far da ministro di casa68. In una pausa del male, Confucio disse: — Da molto tempo, invero, il modo di fare di Yu è mistificatore. Se non mi spetta un ministro di casa e faccio come se mi spettasse, chi inganno? Il Cielo forse? E poi, piuttosto che morire fra le braccia di un ministro, non preferisco morire fra quelle dei miei discepoli? Anche se non avessi esequie sontuose, morirei forse in mezzo alla strada? 217. Tzu-kung disse: — Ho qui una bella gemma: la metto in uno scrigno e la nascondo oppure cerco un buon acquirente e la vendo? — Vendila, vendila! — rispose Confucio. — Però, l’acquirente io lo aspetterei69. 218. Confucio aveva espresso il desiderio di andare a vivere in mezzo alle nove

tribù di barbari I (perché la Via non era seguita). Qualcuno disse: — Sono incivili. Perché lo faresti? — Se in mezzo a loro risiedesse un saggio — osservò Confucio — quale inciviltà vi sarebbe? 219. Confucio disse: — Dopo il mio ritorno a Lu da Wei, la musica è stata corretta (per mia cura): le odi Ya e Sung hanno trovato il loro giusto posto70. 220. Confucio disse: — Fuori casa servire il principe e i ministri, in casa servire il padre e i fratelli maggiori; nei servizi funebri non osare di non dare il meglio di sé; non farsi sopraffare dal vino: quali (di queste qualità) è in me? 221. Stando sulla riva di un fiume, Confucio disse: — Trascorre come questo, non s’arresta né giorno né notte71. 222. Confucio disse: — Non ho mai visto che si ami la virtù come si ama la bellezza72. 223. Confucio disse: — Supponiamo che io costruisca un cumulo: se mi fermo quando manca un solo corbello di terra, sono io che smetto. Supponiamo che io livelli il terreno: se continuo dopo aver rovesciato il primo corbello di terra, sono io che vado avanti (lo stesso accade per la conoscenza). 224. Confucio disse: — Chi non rimaneva ozioso quando aveva ricevuto un insegnamento era Hui! 225. Parlando di Yen Yüang, Confucio disse: — Ohimé! L’ho visto procedere innanzi, mai l’ho visto arrestarsi. 226. Confucio disse: — Germogli che non giungono a fiorire ve ne sono! Piante fiorite che non giungono a spigare ve ne sono! 227. Confucio disse: — I giovani sono da temersi: chi sa che nel futuro non siano migliori di noi oggi? Ma se giungono ai quaranta cinquant’anni senza che se ne sia inteso parlare, non val la pena di temerli. 228. Confucio disse: — Si può non seguire le parole di chi dà un retto consiglio?

(In questo caso) ciò che più vale è emendarsi. Si può non rallegrarsi di una parola di gentile ammonimento? (In questo caso) ciò che più vale è ricercarne l’intento. Rallegrarsi senza aver ricercato, seguire senza emendarsi, non so a che serva. 229. Confucio disse: — Considerate essenziali la lealtà e la sincerità. Non stringete amicizia con chi non è simile a voi. Quando sbagliate non temete di correggervi. 230. Confucio disse: — Si può strappare un generale alle sue tre armate, ma non si può staccare un uomo dalla sua determinazione. 231. Confucio disse: — Uno che indossa una sdrucita veste imbottita di canapa e, senza vergognarsene, sta in compagnia di chi indossa pellicce di volpe e di tasso, è Yu (Tzu-lu). «Non nuoce e non brama, che fa che non sia bene?»73 Tzu-lu (compiaciuto) ripeteva continuamente questi versi. — Quel tuo modo di condurti (cioè quella tua indifferenza per l’abbigliamento) — gli disse Confucio — ti par che basti per il bene? 232. Confucio disse: — Quando l’anno volge al freddo allora ci si accorge che il pino e il cipresso perdono le foglie per ultimi74. 233. Confucio disse: — Il sapiente non ha incertezze, il caritatevole non ha ansie, il coraggioso non ha timori. 234. Confucio disse: — Si può dare un insegnamento comune (a varie persone) senza riuscire ad immetterle tutte nella Via. Si può immetterle nella Via senza riuscire a consolidarvele tutte. Si può consolidarvele senza riuscire a dare un comune discernimento. 235. «I fiori del ciliegio fremono e si agitano. Come non pensare a te? Ma la tua casa è lontana»75. — Non era un (vero) pensare — commentò Confucio — altrimenti che lontananza ci sarebbe stata?

CAPITOLO X HSIANG TANG 236.

Nel suo villaggio K’ung-tzu era semplice come uno che non sapesse parlare. Nel tempio ancestrale e a corte parlava esplicitamente ma con prudenza. 237. A corte, parlando con i dignitari inferiori era fermo e diritto, parlando con i dignitari superiori era affabile e pacato. In presenza del principe mostrava reverenziale timore e grande dignità. 238. Quando il principe lo incaricava di ricevere gli ospiti, egli mutava espressione e sembrava che le gambe gli si piegassero sotto (in segno di rispetto per l’ordine del principe). Inchinandosi ai convenuti volgeva le mani (conserte) a sinistra e a destra senza scomporre la veste davanti o dietro, poi avanzava a passi veloci allargando le braccia come le ali d’un uccello. Quando gli ospiti si erano ritirati, si faceva premura di riferire, dicendo: — Gli ospiti più non si volgono indietro76. 239. Entrando per il cancello del palazzo ducale si chinava come se non vi capisse (in segno di umiltà); sostando non si fermava al centro del cancello (dove passava il principe) e transitando non metteva il piede sulla soglia. Passando davanti al trono cambiava espressione, sembrava che le gambe non lo reggessero e che gli mancasse la parola. Salendo verso il podio ducale si teneva la veste con ambo le mani (per non inciampare), curvava il corpo e tratteneva il fiato come se non respirasse. Quando usciva (dalle udienze), appena sceso il primo gradino il suo contegno si rilassava in un sereno compiacimento; in fondo alla scalinata avanzava a passi veloci muovendo le braccia come ali e riprendeva il suo posto con tutti i segni del reverenziale timore. 240. 77 Quando portava il kuei , curvava il corpo come se non gli bastassero le forze per reggerlo. Lo teneva non più alto che per salutare e non più basso che per offrire. Nel volto mostrava timore come per una battaglia e camminava senza sollevare i piedi dal suolo, come se vi fossero attaccati. Presentando dei doni (a nome del principe), teneva un contegno cordiale. Nelle udienze private era affabile. 241. Il saggio (Confucio) non usava guarnizioni di colore violetto o perso, neanche in casa indossava vestiti di color scarlatto o purpureo78. Durante i

grandi calori indossava una semplice tunica di lino fine o grezzo, ma questa era mostrata e portata sopra (un’altra). Sulla pelliccia d’agnello nero portava una casacca nera, sulla pelliccia di bianco cerbiatto portava una casacca bianca, sulla pelliccia di volpe portava un casacca gialla. La pelliccia da camera era lunga ed aveva la manica destra corta (perché non impacciasse nel lavoro); le camicie da notte dovevano essere lunghe una volta e mezza il suo corpo; in casa usava folte pellicce di volpe o di tasso. Terminato il lutto, portava i suoi ammennicoli alla cintura. Le sue sottovesti, che non fossero quelle a cortina (da portare nei sacrifici di corte), erano tagliate strette in alto (per risparmiare la stoffa) e larghe in basso. Non indossava pellicce d’agnello nero o berretto nero nelle visite di condoglianza. Il primo giorno del mese non mancava di mettersi l’abito di cerimonia e di recarsi a corte. 242. Nel periodo dell’astinenza si faceva un obbligo di vestire abiti chiari di tela, di mangiare cibi diversi (cioè si asteneva dal vino e dalla carne) e in casa di cambiare i posti dove era solito stare. 243. Il riso preferiva che fosse puro e le carni triturate che lo fossero finemente. Non mangiava riso andato a male (per il caldo o l’umidità) e inacidito o pesce non fresco o carne guasta. Né mangiava cibi di brutto colore o di cattivo odore o non cotti a puntino o fuori stagione. Non mangiava nemmeno la carne tagliata male o che non avesse il condimento adatto. Anche se v’era molta carne, non consentiva che avesse la prevalenza sul riso. Solo al vino non poneva limite, ma non giungeva all’ebrietà. Non si cibava di vino o di carne secca comprati al mercato. Non si faceva mancare vivande condite con lo zenzero (perché si riteneva che questo schiarisse l’intelligenza ed eliminasse le impurità). Non mangiava troppo. Quando assisteva ai sacrifici del principe, non conservava la carne oltre la notte (affinché non si disperdesse il favore degli esseri spirituali); quella dei sacrifici domestici la conservava non più di tre giorni: dopo tre giorni non la mangiava (poiché la considerava guasta). Mentre pranzava non discorreva, né parlava quando era coricato nel letto. Anche se faceva un modesto pasto di zuppa di legumi o di verdure, non mancava di fare l’offerta con tutto rispetto. 244. Non sedeva se la stuoia non era distesa correttamente. 245. Quando la gente del villaggio beveva il vino, se uscivano coloro che

camminavano con il bastone (i vecchi) usciva subito anche lui. Quando la gente del villaggio faceva gli esorcismi (per scongiurare le pestilenze), indossava l’abito di cerimonia e si poneva sulla gradinata orientale (per ricevere come ospiti gli esorcizzatori). 246. Quando inviava a chiedere notizie di qualcuno in un altro stato, s’inchinava due volte (per rispetto verso la persona lontana) e accompagnava (il messo) alla porta. (Una volta) K’ang-tzu gli mandò una medicina. Egli la ricevette con un inchino e disse: — Ch’iu (io) non ne è informato e non osa provarla. 247. (Un giorno) andò a fuoco la sua scuderia. Ritornato da palazzo, il Maestro domandò: — Vi sono feriti? Non chiese dei cavalli. 248. Se il principe gli inviava delle vivande in dono, disponeva correttamente la stuoia e le assaggiava per primo (come faceva in presenza del principe); se gli mandava della carne cruda, la faceva cuocere e l’offriva (agli antenati); se gli inviava degli animali vivi, li allevava (non osando ucciderli per riguardo al donatore). Quando attendeva al pranzo presso il principe, solo costui faceva l’offerta ed egli mangiava per primo (per provare i cibi). Se il principe andava a visitarlo quando era ammalato, si faceva disporre con il capo verso oriente, faceva spiegare sopra di sé l’abito di cerimonia e mettervi su la cintura. Quando l’ordine del principe lo convocava (a palazzo), si metteva in cammino senza aspettare la carrozza. 249. Quando entrava nel Gran Tempio (ancestrale) s’informava di ogni cosa. 250. Quando moriva un amico che non avesse alcun parente, diceva: — Provvedo io alle esequie. Quando un amico gli inviava un dono, fosse stata anche una carrozza con i cavalli, egli non s’inchinava se il dono non consisteva nella carne per il sacrificio. 251. Quando giaceva non si distendeva come morto. In casa non era contegnoso. Quando vedeva una persona vestita a lutto, anche se si trattava d’un familiare, mutava contegno. Quando incontrava uno con il berretto di

cerimonia o cieco, anche nell’intimità, non mancava di riverirlo. In carrozza riveriva con un inchino chi vestiva a lutto e nello stesso modo riveriva chi portava i registri (dello stato). Se gli veniva servito un pranzo ricco di portate, cambiava colore e s’alzava (per ringraziare il padrone di casa). Per un improvviso scoppio di tuono o per un violento colpo di vento mutava espressione (per rispetto verso il Cielo). 252. Quando saliva in carrozza si teneva correttamente eretto e si afferrava al (l’apposito) cordone. In carrozza non guardava indietro, non parlava in fretta, non indicava col dito. 253. (Vedendo) l’espressione (minacciosa) dell’uomo, (la fagiana) subito si alzò, svolazzò e poi si posò. Confucio disse: — La fagiana del ponte di montagna, (fa tutto) a suo tempo, a suo tempo! Tzu-lu si mosse. (Quella) l’annusò tre volte e si alzò79.

LIBRO VI CAPITOLO XI HSIEN CHIN 254. Confucio disse: — (Si dice che) in fatto di riti e di musica gli antichi fossero rozzi e che i moderni siano raffinati. Io, però, quando me ne servo, seguo gli antichi. 255. Confucio disse: — Coloro che mi seguirono nei regni di Ch’ên e di Ts’ai ora non vengono più alla porta (della mia scuola). Per la condotta virtuosa (primeggiavano) Yen Yüang, Min Tzu-chien, Jan Po-niu e Chung-kung; per l’eloquio Tsai Wo e Tzu-kung; per l’abilità amministrativa Jan Yu e Chi Lu (Tzu-lu); per gli studi letterari Tzu-yu e Tzu-hsia. 256. Confucio disse: — Hui non mi aiutava (con i suoi dubbi): di ciò che dicevo, nulla v’era di cui egli non fosse contento. 257. Confucio disse: — Davvero filiale è Min Tzu-chien! La gente non lo trova diverso da come lo descrivono i genitori e i fratelli80. 258. (Ogni giorno il discepolo) Nan Jung ripeteva tre volte i versi del «bianco kuei»81. Confucio (ne era tanto compiaciuto che) gli dette in isposa la figlia del suo fratello maggiore. 259. Chi K’ang-tzu domandò quale dei discepoli amasse di apprendere. — V’era Yen Hui — rispose Confucio — che amava di apprendere. Disgraziatamente è morto per un decreto celeste (troppo) breve. Ora non v’è più nessuno. 260. Quando Yen Yüang morì, Yen Lu (suo padre) chiese a Confucio la sua carrozza per (venderla e) comprare un sarcofago. Confucio disse: — Abbia o non abbia talento, ognuno parla di suo figlio. Quando è morto (mio figlio) Li, ha avuto la bara ma non il sarcofago. Non sono andato a piedi per farglielo. Da quando il mio rango segue quello di dignitario, non conviene che io vada a piedi. 261.

Quando Yen Yüang morì, Confucio disse: — Ohimè! Il Cielo mi annienta! Il Cielo mi annienta! 262. Quando Yen Yüang morì, Confucio pianse accoratamente. Quelli che lo seguivano dissero: — Maestro, il tuo dolore è eccessivo! — È eccessivo? — disse Confucio. — Se non m’addoloro per un uomo simile, per chi allora? 263. Quando Yen Yüang morì, i discepoli vollero fargli un gran funerale (benché la sua famiglia fosse povera). Confucio disse: — Non è lecito. (Tuttavia) i discepoli gli fecero delle esequie sontuose. Confucio disse: — Hui mi teneva come padre ed io non ho potuto trattarlo da figlio (poiché ha avuto un funerale superiore alle mie condizioni). Non è colpa mia ma vostra, o miei discepoli. 264. Chi Lu (Tzu-lu) domandò del servire gli esseri spirituali. — Non sai ancora servire gli uomini — rispose Confucio — come potresti servire gli esseri spirituali? — Oso interrogare sulla morte — (chiese Tzu-lu). — Non conosci ancora la vita — rispose Confucio — e vuoi conoscer la morte? 265. Quando erano al fianco del Maestro, Min-tzu era gentile e cortese, Tzu-lu risoluto e ardito, Jan Yu e Tzu-kung onesti e schietti. Confucio era compiaciuto (d’essere il loro maestro). Diceva: — Uno come Yu non so di che morte morirà82. 266. Certi governanti di Lu volevano edificare la Lunga Tesoreria. Min Tzuchien disse: — Se si andasse avanti con quella vecchia, che accadrebbe? Che necessità c’è di farne una nuova? Confucio osservò: — Quest’uomo non parla, ma quando parla sicuramente coglie nel segno. 267. Confucio disse: — Che fa nella mia scuola l’arpa di Yu?83 (Per queste parole del Maestro) i discepoli non rispettavano più Tzu-lu. Confucio disse: — Yu è salito fino alla sala, anche se non è ancora penetrato nelle stanze interne (della Via).

268. Tzu-kung chiese chi fosse più virtuoso tra Shih (Tzuchang) e Shang (Tzuhsia). Rispose Confucio: — Shih oltrepassa, Shang non raggiunge. — Dunque — insisté Tzu-kung — Shih è migliore? — Oltrepassare è come non raggiungere84 — disse Confucio. 269. Il signor Chi era più ricco di (quanto fosse stato) il duca Chou, ma Chiu85 raccoglieva per lui (gravi) imposte e incrementava la sua ricchezza. — Non è mio seguace! — disse Confucio. — Figlioli, suonate il tamburo e assalitelo! È lecito. 270. (Confucio disse): — Tsai (Kao Tzu-kao) è ignorante, Ts’an (Tsêng-tzu) è ottuso, Shih (Tzu-chang) è specioso, Yu (Tzu-lu) è rozzo. 271. Confucio disse: — Hui è vicino (alla Via) ed è quasi sempre in strettezze (senza affliggersene). Szu (Tzu-kung) non s’abbandona alla volontà del Cielo ed accresce la sua ricchezza. Però il suo giudizio è spesso corretto. 272. Tzu-chang interrogò sulla Via degli uomini buoni (per carattere, ma che non si applicano allo studio). — Non seguono le altrui impronte — rispose Confucio — ma neppure entrano nelle stanze interne (della santità). 273. Confucio disse: — Quando si dà fiducia ad un uomo per i suoi discorsi sinceri, costui è un saggio o uno dall’apparenza solenne? 274. Tzu-lu chiese se, appena ricevuto un ammaestramento, dovesse metterlo subito in pratica. — Tuo padre e il tuo fratello maggiore sono in vita — disse Confucio. — Come potresti mettere subito in pratica un ammaestramento ricevuto (senza consultarli)? Jan Yu fece la stessa domanda e Confucio gli rispose: — Appena hai ricevuto un ammaestramento mettilo subito in pratica. Kung-hsi Hua osservò: — Yu ha chiesto se doveva mettere subito in pratica un ammaestramento appena ricevuto e il Maestro gli ha detto: tuo padre e il tuo fratello maggiore sono in vita. Chiu ha posto la stessa domanda e il Maestro gli ha risposto: metti subito in pratica un ammaestramento appena ricevuto. Ch’ih (io) è perplesso, ardisce interrogare. — Chiu si tira indietro, perciò lo spingo avanti — disse Confucio. — Yu

invece si spinge avanti più degli altri, perciò lo tiro indietro. 275. Quando Confucio fu in apprensione a Kuang, Yen Yüang era rimasto indietro. (Allorché Hui lo raggiunse) Confucio disse: — Ti credevo morto. — Il Maestro è in vita — rispose quello — Hui (io) come avrebbe osato (esporsi al pericolo di) morire? 276. 86 Chi Tzu-jan chiese se Chung Yu e Jan Chiu potessero considerarsi grandi ministri. Confucio disse: — Credevo che mi domandassi di uomini fuori del comune e invece mi chiedi di Yu e di Chiu. Si dicono grandi ministri quelli che servono il principe per mezzo della Via e che, quando ciò non è loro possibile, si ritirano. Ora, Yu e Chiu si possono considerare appena ordinari amministratori. — Va bene, allora sono di quelli che obbediscono? — (Se fosse loro comandato di) uccidere il padre o il principe — rispose Confucio — non obbedirebbero. 277. Tzu-lu (come ministro della famiglia Chi) aveva designato Tzu-kao quale governatore della città di Pi. Confucio disse: — Hai fatto del male a quel figlio d’un uomo (perché non è ancora preparato). — Ha il popolo (da governare) — disse Tzu-lu — ha i sacrifici (da offrire). Perché dovrebbe considerarsi istruito solo dopo aver studiato sui libri? — Ecco perché detesto i parolai! — esclamò Confucio. 278. Tzu-lu, Tsêng Hsi, Jan Yu e Kung-hsi Hua sedevano attendendo al Maestro. Confucio disse: — Benché io sia di un giorno più vecchio di voi, non consideratemi tale (e parlate liberamente). Poiché vi lasciano in disparte, voi dite: non mi conoscono. Se qualcuno vi conoscesse, che fareste? Precipitosamente Tzu-lu rispose: — Se a Yu (a me) venisse affidato il governo di un regno da mille carri da guerra, stretto in mezzo a grandi stati, oppresso da eserciti nemici e devastato dalla carestia, in tre mesi potrebbe ridonargli il coraggio e fargli conoscere la diritta via. Confucio sorrise e disse: — E tu, Chiu, che dici? — In un territorio di sessanta settanta li di lato, o anche di cinquanta sessanta — rispose Jan Yu — se a Chiu (a me) gliene dessero il governo, prima di tre anni renderebbe il popolo ricco, ma per quel che riguarda i riti e la

musica aspetterebbe un saggio. — E tu, Ch’ih, che dici? — Io non dico d’esserne capace — rispose Kung-hsi Hua — ma vorrei imparare. Nei servizi nel tempio degli antenati, nelle udienze (imperiali) e nelle assemblee, indossando l’abito e il berretto di cerimonia, vorrei essere un piccolo assistente. — E tu, Tien, che cosa dici? Quello smise di toccare la sua arpa e, mentre le corde ancora risuonavano, la pose da un canto e si alzò. — I miei desideri — disse — sono differenti da quelli dei miei condiscepoli. — Che male c’è? — osservò Confucio. — Ognuno esprime la sua aspirazione. — Alla fine della primavera — disse Tsêng Hsi — quando ci si veste completamente di abiti primaverili, in compagnia di cinque o sei giovani e sei o sette ragazzi, vorrei bagnarmi le mani nel fiume I (per scacciare i cattivi influssi), godere la brezza presso l’altare dei sacrifici per la pioggia e poi far ritorno cantando. Confucio sospirò profondamente e disse: — Sono d’accordo con Tien. Quando gli altri si ritirarono, Tsêng Hsi rimase indietro e domandò: — Che ne pensi delle parole dei miei tre condiscepoli? — Ognuno ha espresso la propria aspirazione — rispose Confucio — ecco tutto. — Perché, o Maestro, hai sorriso di Yu? — Con i riti si governa un regno. Le sue non erano parole di modestia. Per questo ho sorriso. — E Chiu non ha parlato di regno? — Si è mai visto un territorio di sessanta settanta li di lato, o anche di cinquanta sessanta, che non sia un regno? — E Ch’ih — chiese ancora l’altro — non ha parlato di regno? — Il tempio degli antenati, le udienze (imperiali) e le assemblee, a chi competono se non ai principi feudatari? Se Ch’ih si è fatto piccolo, chi si fa grande?

Frontespizio di una moderna edizione de I quattro libri.

CAPITOLO XII YEN YÜANG 279. Yen Yüang interrogò sulla carità. — Dominare sé stessi e ripristinare i riti (cioè le forme dei princìpi celesti) è carità — rispose Confucio. — Se per un sol giorno un uomo domina sé stesso e ripristina i riti, il mondo si volge alla carità. Essere caritatevoli dipende da noi stessi, dipende forse dagli altri? — Prego di domandarne i punti principali — insisté Yen Yüang. — Contro i riti non guardare, contro i riti non ascoltare, contro i riti non dire, contro i riti non muoverti — rispose Confucio. — Benché Hui (io) non sia intelligente — disse Yen Yüang — prega di attenersi a questo precetto. 280. Chung-kung interrogò sulla carità. Confucio rispose: — Fuori di casa comportati come quando ricevi un ospite importante; nel comandare al popolo comportati come se offrissi il grande sacrificio; ciò che non vuoi sia fatto a te non fare agli altri; non suscitare ostilità nello stato, non suscitare rancori nella famiglia. — Per quanto Yung (io) non sia intelligente — disse Chung-kung — prega di attenersi a questo precetto. 281. Szu-ma Niu interrogò sulla carità. Confucio disse: — Il caritatevole è prudente nel parlare. — Allora chi è prudente nel parlare può dirsi caritatevole? — Agire è difficile — rispose Confucio. — Quando parla, (il caritatevole) può non essere prudente?87 282. Szu-ma Niu domandò del saggio. — Il saggio — rispose Confucio — non ha ansie né timori. — Allora chi non ha ansie né timori è un saggio? — Se uno si esamina nel proprio intimo e non vi trova difetti — disse Confucio — di che sarà in ansia e di che temerà? 283. Szu-ma Niu, afflitto, disse: — Tutti hanno dei fratelli, io solo non ne ho. — Shang (io) ha inteso dire — osservò Tzu-hsia — che la vita e la morte hanno il loro decreto e che la ricchezza e la nobiltà sono alla mercé del Cielo.

Il saggio, che non falla nell’essere reverente e si attiene ai riti nel rispettare gli altri, entro i quattro mari ha tutti fratelli. Perché dunque il saggio dovrebbe dolersi di non avere fratelli? 284. Tzu-chang interrogò sull’intelligenza. Confucio disse: — Non dar seguito alle calunnie, che pian piano imbevono la mente, né alle accuse, che sorprendono come ferite inferte nella carne, può dirsi intelligenza. Non dar seguito alle calunnie che imbevono la mente né alle accuse che sorprendono come ferite, può dirsi lungimiranza. 285. Tzu-kung interrogò sul governo. Confucio disse: — Viveri a sufficienza, armi bastanti, fiducia del popolo (nei governanti). — Se non si potesse avere tutte queste cose e sì dovesse fare a meno di una — chiese Tzu-kung — delle tre quale si dovrebbe tralasciare per prima? — Tralascia le armi — rispose Confucio. — E se non si potesse avere le altre cose e si dovesse fare a meno di una, quale delle due si dovrebbe tralasciare per prima? — Tralascia i viveri — rispose Confucio. — Da sempre tutti hanno dovuto morire, ma se il popolo non nutre fiducia non ha una base stabile. 286. Chi Tzu-ch’êng (dignitario di Wei) disse: — Nel saggio (conta) la sostanza e basta. A che gli servono le forme esteriori? — Ohimè, signore, tu (vorresti) parlare da saggio — osservò Tzu-kung — ma nemmeno un tiro a quattro può correr dietro alla lingua. Forma è sostanza e sostanza è forma. Una pelle di tigre o di leopardo spoglia del pelame è tal quale una pelle di cane o di pecora spoglia del pelame. 287. Il duca Ai domandò a Yu Jo: — L’annata è cattiva e i fondi per le spese sono insufficienti. Che devo fare? — Perché non esigi la decima? — Anche una doppia decima non mi basterebbe — si lamentò il duca. — Come posso andare avanti con la decima? — Se il popolo ha a sufficienza — osservò Yu Jo — chi lascerà nell’insufficienza il principe? Se il popolo non ha a sufficienza, chi darà la sufficienza al principe? 288. Tzu-chang chiese (come si potesse) esaltare la virtù e distinguere le

illusioni. Confucio rispose: — Considerare essenziali la lealtà e la sincerità, camminare verso la giustizia: questo è esaltare la virtù. Amando desiderare che (la persona amata) viva, odiando desiderare che (la persona odiata) muoia: desiderare la vita di qualcuno è desiderarne anche la morte. Questo è illusione. «Invero non è per la ricchezza, ma solo per la diversità»88. 289. Il duca Ching di Ch’i interrogò sul governo. — Il principe faccia il suo dovere di principe — rispose Confucio — il ministro quello di ministro; il padre compia i -suoi doveri di padre, il figlio quelli di figlio. — Ottimo! — esclamò il duca Ching. — Effettivamente, se il principe non compie i doveri di principe, il ministro non compie quelli di ministro, il padre non compie quelli di padre, il figlio non compie quelli di figlio, per quanto il frumento abbondi, io potrò mangiarne? 290. Confucio disse: — (Se c’è un uomo che) con mezza parola riesce a risolvere una lite, questi è Yu. Tzu-lu (infatti) non dormiva sulle sue promesse (e perciò riscuoteva fiducia). 291. Confucio disse: — Di giudicare una controversia sono (capace) come chiunque altro. Necessario sarebbe far sì che non vi fossero controversie89. 292. Tzu-chang interrogò sul governo. — Abbilo a cuore senza mai deflettere — rispose Confucio. — Portalo innanzi con lealtà. 293. Confucio disse: — Chi estende lo studio a tutta la cultura e si raffrena coi riti, può anche non deviare (dalla Via). 294. Confucio disse: — Il saggio perfeziona le qualità migliori dell’uomo, non le peggiori. L’uomo volgare fa tutto l’opposto. 295. Chi K’ang-tzu interrogò Confucio sul governo. Questi gli rispose: — Governare è correggere. Se induci il popolo a correggersi, chi oserà non correggersi? 296. Chi K’ang-tzu era angustiato a causa dei ladri (che erano numerosi nel regno). Interrogò Confucio, che gli rispose: — Se tu stesso non fossi così

cupido, quelli non ruberebbero nemmeno se li pagassi. 297. Chi K’ang-tzu interrogò sul governo, dicendo: — Che ne diresti di uccidere tutti i perversi in modo che prevalgano i virtuosi? — Se tu governi — rispose Confucio — a che serve uccidere? Desidera il bene e il popolo sarà buono. La virtù del saggio è il vento, la virtù dell’uomo comune è l’erba: quando sull’erba trascorre il vento, l’erba certamente si piega. 298. Tzu-chang domandò del letterato. — Come lo si può considerare giunto a porsi in risalto?90 — Che intendi per «porsi in risalto»? — chiese Confucio. — Che se ne sia inteso parlare sia nella vita pubblica che in quella privata. — Codesta è notorietà — osservò Confucio — non essere in risalto. Questo è dato dalla dirittura del carattere e dall’amore per la giustizia, dall’esame delle proprie parole e dal controllo del proprio comportamento. Siccome è ansioso di umiliare sé stesso agli altri, sicuramente si pone in risalto in pubblico e in privato. La notorietà è di chi s’ammanta dell’apparenza della carità, mentre nell’agire la viola. (E poiché) si comporta così senza sollevare dubbi, sicuramente gode di notorietà nella vita pubblica e in quella privata. 299. Fan Ch’ih, seguendo Confucio in una passeggiata sotto (gli alberi de) l’altare dei sacrifici per la pioggia, disse: — Oso chiedere come esaltare la carità, emendarsi del male e distinguere le illusioni. — Ottima domanda, invero! — disse Confucio. — Fare prima ed ottenere poi, non è esaltare la virtù? Combattere i propri difetti e non quelli degli altri, non è emendarsi del male? Nell’ira d’un momento dimenticarsi della propria persona (mettendola a rischio di morte) ed in tal modo coinvolgere anche i genitori, non è illusione? 300. Fan Ch’ih interrogò sulla carità. Confucio disse: — Amare gli uomini. Il discepolo chiese della sapienza. — Conoscere gli uomini — rispose Confucio. Fan Ch’ih non aveva ancora capito. Confucio spiegò: — Se innalzi gli uomini retti e allontani i corrotti (conoscere gli uomini), puoi far sì che i corrotti divengano retti (amare gli uomini).

Fan Ch’ih si ritirò e, incontrato Tzu-hsia, gli disse: — Proprio ora sono stato dal Maestro e, avendolo interrogato sulla sapienza, mi ha detto: se innalzi gli uomini retti ed allontani i corrotti, puoi far sì che i corrotti divengano retti. Che intendeva dire? — Ricche, invero, sono quelle parole! — esclamò Tzuhsia. — Shun, quando ebbe l’impero, scegliendo fra la moltitudine elevò Kao Yao e i malvagi scomparvero (perché si emendarono); T’ang, quando ebbe l’impero, scegliendo fra la moltitudine elevò I Yin e i malvagi scomparvero. 301. Tzu-kung chiese dell’amicizia. — Ammonisci (l’amico) lealmente — rispose Confucio — e indirizzalo gentilmente. Se non riesci, desisti: non attirarti un affronto. 302. Tsêng-tzu disse: — Il saggio con la cultura attira l’amicizia, con l’amicizia sostiene la (sua) carità91.

LIBRO VII CAPITOLO XIII TZU-LU 303. Tzu-lu interrogò sul governo. Confucio rispose: — Precedi il popolo (con l’esempio) e affaticati per lui. Tzu-lu lo pregò di dirne di più. — Non stancarti mai — aggiunse Confucio. 304. Chung-kung, essendo intendente del signor Chi, chiese del governo. — Lascia che degli affari si occupino prima i subalterni — disse Confucio — perdona i piccoli errori, eleva i virtuosi e i capaci. — Come riconosco i virtuosi e i capaci per elevarli?— domandò Chungkung. — Innalza quelli che conosci — rispose Confucio.— Quelli che non conosci, gli altri li trascureranno (non indicandoteli)? 305. Tzu-lu disse: — Il principe di Wei92 attende di affidarti un incarico di governo. Che farai per prima cosa? — È assolutamente necessario ridare ai nomi il loro vero significato93 — rispose Confucio. — Proprio questo! — esclamò Tzu-lu. — O Maestro, tu perdi di vista il tuo scopo (che è governare). A che pro’ questa rettifica? — Come sei rozzo, o Yu! — esclamò Confucio. — Il saggio è prudente in ciò che non sa. Se i nomi non sono corretti, le parole non corrispondono (alla realtà); se le parole non corrispondono, gli affari non giungono a compimento; se gli affari non giungono a compimento, non fioriscono i riti e la musica; se non fioriscono i riti e la musica, i castighi e le pene non sono giustamente irrogati; se i castighi e le pene non sono giustamente irrogati, il popolo non sa come muovere le mani e i piedi. Perciò, quando il saggio nomina (qualcosa) deve potersi dire così; quando dice, deve potersi eseguire. Nell’uso delle parole il saggio non è mai improprio. 306. Fan Ch’ih pregò di essere istruito sull’agricoltura. — Io non valgo un vecchio contadino — disse Confucio. (Il discepolo) pregò di essere istruito sull’orticoltura. — Io non valgo un vecchio ortolano — disse Confucio.

Quando Fan Ch’ih fu uscito, Confucio disse: — Che uomo limitato è Fan Hsü! Se i superiori amano i riti, nel popolo nessuno oserà non essere rispettoso; se i superiori amano la giustizia, nel popolo nessuno oserà non essere sottomesso; se i superiori amano la sincerità, nel popolo nessuno oserà venir meno alla buona fede. Quando è così, la gente accorre dai quattro venti recando gli infanti legati alla schiena. A che gli serve (essere istruito su) l’agricoltura? 307. Confucio disse: — Chi recita a memoria le trecento odi ma, chiamato al governo, si dimostra incapace, oppure, inviato nelle quattro parti del mondo, non è in grado di dare una risposta di suo, (la sua erudizione), per quanto grande, a che gli serve? 308. Confucio disse: — Quando la sua persona (del principe) è corretta, si opera anche se egli non comanda. Quando la sua persona non è corretta, anche se egli comanda non viene obbedito. 309. Confucio disse: — I governi di Lu e di Wei sono fratelli94. 310. Del (dignitario) Ching, figlio del duca di Wei, Confucio disse che amministrava eccellentemente la sua casa. Quando cominciò a possedere disse: — È soltanto un ammassare! — Quando possedette un poco disse: — È soltanto un completare! — Quando fu ricco disse: — È soltanto un abbellire!95 311. Confucio si recava nel regno di Wei e Jan Yu guidava la sua carrozza. — Che popolo numeroso! — esclamò Confucio. — Poiché il popolo è già numeroso — chiese Jan Yu — che si deve fare di più? — Arricchirlo — rispose Confucio. — E quando fosse ricco, che si dovrebbe fare ancora? — Istruirlo — rispose Confucio. 312. Confucio disse: — Se vi fosse chi si servisse di me, entro un anno il suo governo sarebbe passabile, nel termine di tre anni sarebbe perfetto. 313. Confucio disse: — «Se gli uomini dotati di bontà governassero per cento anni, potrebbero far scomparire la scelleratezza ed abolire la pena di morte».

Come è vero questo detto! 314. Confucio disse: — Se comparisse un (vero) regnante, sicuramente entro una generazione fiorirebbe la carità. 315. Confucio disse: — Se un uomo riesce a correggere sé stesso, che difficoltà avrà nell’operare nel governo? Se non arriva a correggere sé stesso, come farà a correggere gli altri? 316. Ritornato Jan Yu da palazzo, Confucio gli chiese: — Perché così tardi? — Affari di governo — rispose Jan Yu. — Questioni sue — replicò Confucio. — Se si fosse trattato di affari di stato, benché non sia in carica, sarei stato consultato96. 317. Il duca Ting (di Lu) domandò se vi fosse un motto con cui rendere prospero il regno. — Una frase non può sortire tale effetto — rispose Confucio. — Vi è però un detto popolare che suona: «Fare il principe è difficile, fare il ministro non è facile». Se si comprende la difficoltà di fare il principe, non basta questa sola sentenza a dar prosperità al regno?97 — Vi è un motto — chiese ancora il duca — per cui il regno andrebbe in rovina? — Una frase non potrebbe riuscire a tanto — rispose Confucio. — Vi è però un detto popolare che suona: «Nel fare il principe non ho altra soddisfazione che quella di non essere contraddetto quando parlo». Se dice parole buone e nessuno lo contraddice, non è un bene? Ma se dice parole cattive e nessuno lo contraddice, non basta questa sola sentenza a mandar in rovina il regno? 318. 98 Il duca di Shê chiese del governo. Confucio disse: — Se i vicini (cioè i sudditi) sono contenti, i lontani (gli stranieri) accorrono. 319. Tzu-hsia, essendo governatore di Chü-fu (città del regno di Lu), chiese del governo. — Non pretendere la fretta — rispose Confucio — e non badare ai piccoli interessi. Se pretendi la fretta, non hai successo (in ciò che fai); se badi ai piccoli interessi, non compi grandi imprese. 320. Il duca di Shê, discorrendo con Confucio, disse: — Nella mia comunità vi

sono persone che si comportano rettamente: se il padre ruba una pecora, il figlio dà testimonianza (contro di lui). — Le persone rette della mia comunità — replicò Confucio— sono diverse da costoro. Il padre nasconde le colpe del figlio e il figlio quelle del padre. La rettitudine sta in ciò. 321. Fan Ch’ih chiese della carità. — Essere reverente in privato — rispose Confucio — attento nel trattare gli affari e leale nei rapporti con gli altri. Non è lecito discostarsi da ciò anche recandosi fra i popoli barbari I e Ti. 322. Tzu-kung chiese: — In che modo si può. essere considerati letterati (cioè gentiluomini)? — Colui che nel condursi ha pudore — rispose Confucio — e fa onore al mandato del principe quando è inviato ai quattro venti, può essere considerato letterato. — Oso domandare chi viene secondo — chiese ancora Tzu-kung. — Colui che da tutto il parentado è considerato filiale e da tutta la comunità è ritenuto dotato di sottomissione fraterna. — Oso domandare chi viene dopo. — Colui che è sincero nel parlare e fermo nell’agire: è uomo ostinato e limitato, ma può essere incluso nella terza categoria. — E che ne dici — chiese Tzu-kung — di coloro che oggi hanno impieghi nel governo? — Ohimè! — esclamò Confucio. — Sono uomini di capacità limitata99. Che vale tenerne conto? 323. Confucio disse: — Poiché non trovo, per istruirli, uomini che si attengono al giusto mezzo, sono costretto (ad accettare) gli entusiasti e i prudenti. Gli entusiasti progrediscono e afferrano, i prudenti vi sono cose che non fanno. 324. Confucio disse: — La gente del meridione ha un detto: «L’uomo incostante non può fare nemmeno l’indovino o il medico». Ottimo! «Chi non rende costante la sua virtù, l’onta gli è vicina»100. 325. Confucio disse:— Il saggio è accondiscendente ma non servilmente concorde, l’uomo volgare è servilmente concorde ma non accondiscendente. 326.

Tzu-kung chiese: — Che ne diresti di un uomo che fosse amato da tutti i suoi compaesani? — Non se ne potrebbe concludere nulla — rispose Confucio. — E che ne diresti di un uomo che fosse odiato da tutti i suoi compaesani? — Non se ne potrebbe concludere nulla — rispose Confucio. — Meglio sarebbe se fosse amato dai compaesani buoni e odiato da quelli cattivi. 327. Confucio disse: — È facile servire il saggio, ma è difficile accontentarlo: se si cerca di accontentarlo senza seguire la Via, egli non è soddisfatto; in quanto all’impiegare gli uomini, tien conto delle loro capacità. Invece, è difficile servire l’uomo volgare, ma è facile accontentarlo: anche se lo si accontenta senza seguire la Via, egli è soddisfatto; in quanto all’impiegare gli uomini, esige in loro ogni capacità. 328. Confucio disse: — Il saggio è dignitoso ma non altero, l’uomo volgare è altero ma non dignitoso. 329. Confucio disse: — L’uomo risoluto, costante, semplice, lento nel parlare, è vicino alla carità. 330. Tzu-lu domandò: — In che modo si può essere considerati letterati (cioè gentiluomini)? — Quando si è zelanti, insistenti, affabili — rispose Confucio — si può essere considerati letterati. Zelanti e insistenti con gli amici, affabili con i fratelli. 331. Confucio disse: — Se un uomo dotato di bontà educasse il popolo per sette anni, allora si potrebbe metterlo sotto le armi. 332. Confucio disse: — Condurre alla guerra un popolo non educato, significa gettarlo via.

CAPITOLO XIV HSIEN WÊN 333. Hsien domandò della vergogna. — Percepisci gli emolumenti (delle magistrature) quando nello stato si segue la Via. Percepirli quando nello stato non si segue la Via è vergogna — rispose Confucio101.

334. — Reprimere i propri impulsi di prepotenza, di vanteria, di risentimento, di cupidigia — (chiese Hsien) — può considerarsi carità? — Può considerarsi difficile — rispose Confucio. — Se poi sia carità non lo so (perché non è detto che quella repressione abbia le radici nella carità). 335. Confucio disse: — Un letterato che aspira a starsene comodo, non merita di essere considerato letterato. 336. Confucio disse: — Quando nello stato si segue la Via, parole ardite e azioni ardite. Quando nello stato non si segue la Via, azioni ardite e parole prudenti. 337. Confucio disse: — Colui che ha la virtù sicuramente ha delle (buone) parole, ma colui che ha delle (buone) parole non necessariamente ha la virtù. Colui che ha la carità sicuramente ha coraggio, ma colui che ha coraggio non necessariamente ha la carità. 338. Nan-kung K’uo interrogò Confucio dicendo: — I era un abile arciere ed Ao (era talmente forte che) tirava a secco un naviglio, ma ambedue non morirono di morte naturale. Yü e Chi coltivarono personalmente i loro campicelli, eppure ebbero l’impero102. Confucio non rispose. Quando K’uo fu uscito, Confucio disse: — Davvero quell’uomo è un saggio. Davvero quell’uomo apprezza la virtù! 339. Confucio disse: — Saggi che non siano caritatevoli sono esistiti, ma mai è esistito un uomo volgare che sia caritatevole. 340. Confucio disse: — Quando si ama si può non travagliare (la persona amata al fine di migliorarla)? Quando si è leali si può non ammonire? 341. Confucio disse: — Nel compilare gli ordini, (dei quattro dignitari del regno di Chêng) P’i Shên stendeva la bozza, Shih Shu la esaminava e la discuteva, Tzu-yü, sovrintendente alle relazioni con gli altri stati, vi aggiungeva e toglieva, Tzu-ch’an da Tung-li la metteva in bello stile. 342. 103 Qualcuno chiese di Tzu-ch’an . Confucio disse: — Era un uomo benevolo.

L’altro chiese di Tzu-hsi104. — Oh, quello! Oh, quello! — esclamò Confucio. L’altro domandò di Kuan Chung. — Quello era un uomo tale — rispose Confucio — che il dignitario Po, privato della città di Pien di trecento famiglie e ridotto a nutrirsi di cibi grossolani, fino alla fine dei suoi giorni non biasimò nemmeno con una parola. 343. Confucio disse: — Esser poveri senza lamentarsi è difficile, esser ricchi senza insuperbirsi è facile. 344. Confucio disse: — Meng Kung-ch’ao105 sarebbe un ottimo intendente delle famiglie Chao o Wei, ma non potrebbe fare il ministro nei (piccoli) stati di Têng o di Hsieh. 345. Tzu-lu chiese dell’uomo completo. Confucio disse: — Uno che avesse la sapienza di Tsang Wu-chung (dignitario di Lu), l’assenza di cupidigia di (Meng) Kung-ch’ao, l’ardimento di Chuang-tzu di Pien (dignitario di Lu), il talento del (discepolo) Jan Chiu, e adornasse tutte queste qualità con i riti e la musica, potrebbe essere considerato un uomo completo. Ma oggi — aggiunse — un uomo completo che necessità ha d’essere così? Anche uno che vedendo il tornaconto pensasse alla giustizia, vedendo un pericolo fosse pronto a dar la vita, essendo legato da un’antica promessa non dimenticasse la parola data per tutta la vita, potrebbe essere considerato completo. 346. Confucio chiese di Kung-shu Wên-tzu a Kung-ming Chia106. — È vero — disse — che il maestro non parla, non ride e non accetta nulla? — È un’esagerazione di chi ti ha informato — rispose Kung-ming Chia — il maestro parla al momento adatto, così la gente non è stuccata dalle sue parole; ride quando è contento, così la gente non è annoiata dal suo riso; accetta quando è giusto, così la gente non è disgustata dal suo prendere. — Se è così — disse Confucio — come fa ad essere così? 347. Confucio disse:— Tsang Wu-chung ha chiesto al principe di Lu di dargli un successore (della propria famiglia) nella città di Fang. Benché dica di non aver forzato la volontà del principe, io non ci credo107. 348. Confucio disse: — Il duca Wên di Chin era astuto ma non retto, il duca Huang di Ch’i era retto ma non astuto108.

349. Tzu-lu disse: — Quando il duca Huang fece uccidere Chiu, figlio del duca, Shao Hu lo seguì nella morte ma Kuan Chung non volle morire109. Diciamo che non era caritatevole? — Il duca Huang — rispose Confucio — riunì i feudatari non per mezzo delle armi o dei carri da guerra, ma per l’energia di Kuan Chung. Chi mostrò altrettanta carità? Chi mostrò altrettanta carità? 350. Tzu-kung disse: — Kuan Chung non era caritatevole! Quando il duca Huang fece uccidere Chiu, figlio del duca, egli non fu capace di morire e per di più servì colui come primo ministro. — Kuan Chung — disse Confucio — aiutò il duca Huang a divenire capo dei principi feudatari, riunì e riformò tutto l’impero: il popolo ne ha goduto i benefici fino ai nostri giorni. Se non fosse stato per Kuan Chung, noi andremmo con i capelli sciolti sul dorso e l’abbottonatura degli abiti a sinistra (all’uso dei barbari). Perché avrebbe dovuto dar prova di una piccola fedeltà come un uomo o una donna qualsiasi, strangolandosi in un fosso o in un canale senza che nessuno lo conoscesse? 351. Il dignitario Shen, che era stato ministro di casa di Kungshu Wên-tzu, si recò alla corte del duca insieme a Wên-tzu110. Confucio, udito ciò, disse: — Davvero può essere considerato dotto (wên-tzu)! 352. Poiché Confucio aveva detto che il duca Ling di Wei era senza princìpi, K’ang-tzu domandò: — Se è così, perché non perde lo stato? — Ha Chung-shu Yü per trattare con gli ospiti e gli stranieri — rispose Confucio — l’oratore T’o a sovrintendere al tempio degli antenati e Wang-sun Chia111 che si occupa dell’esercito. Con costoro, come potrebbe perdere lo stato? 353. Confucio disse: — A chi non è modesto nelle parole è difficile metterle in pratica. 354. Ch’ên Ch’êng-tzu aveva ucciso il duca Chien112. Confucio fece un bagno purificatore e si recò a corte. Ne informò il duca Ai, dicendo: — Ch’ên Hêng ha ucciso il suo principe, ti prego di punirlo. — Dillo ai capi delle Tre Casate — ordinò il duca.

— Poiché io vengo dopo i dignitari — disse Confucio (quando fu uscito) — non ho osato non riferirne. Il principe invece mi dice di informarne i tre signori. Si recò da costoro a riferirne, ma essi respinsero la sua proposta. Disse: — Poiché io vengo dopo i dignitari, non ho osato non riferirne. 355. Tzu-lu domandò del modo di servire il principe. — Non importi — disse Confucio — ma resistigli (quando sbaglia). 356. Confucio disse: — Il saggio progredisce verso l’alto, l’uomo volgare progredisce verso il basso. 357. Confucio disse: — Anticamente chi studiava lo faceva per sé (per migliorarsi), oggi chi studia lo fa per gli altri (per ottenerne la considerazione). 358. Ch’ü Po-yü113 inviò un tale a Confucio (per salutarlo). Questi lo fece sedere e lo interrogò dicendo: — Che fa il maestro? — Il maestro vorrebbe ridurre i suoi difetti — rispose il messo — ma ancora non v’è riuscito. Quando colui se ne fu andato, Confucio esclamò: — Quale messaggero! Quale messaggero! 359. Confucio disse: — Chi non è posto in una carica non si occupi degli affari di essa. 360. Tsêng-tzu disse: — I pensieri del saggio non esorbitano dalla sua condizione114. 361. Confucio disse: — Il saggio è modesto nel parlare e sovrabbondante nell’agire. 362. Confucio disse: — Tre sono le vie del saggio di cui io non sono capace: essendo caritatevole non ha ansie, sapiente non ha incertezze, coraggioso non ha timori. Tzu-kung osservò: — Maestro, lo dici tu (ma non è così). 363. Tzu-kung faceva paragoni fra le persone. Confucio disse: — Szu è dunque

già virtuoso? Io, infatti, non ne ho il tempo. 364. Confucio disse: — Non ti rammaricare che gli altri non ti conoscano, rammaricati della tua incapacità. 365. Confucio disse: — Colui che, senza presupporre l’inganno (da parte degli altri) né prevedere la sfiducia (verso di sé), li avverte subito è un saggio. 366. 115 Wei-shêng Mu disse a Confucio: — O Ch’iu, perché ti agiti tanto? Non ti sembra di essere un lusingatore? — Non è che io ardisca lusingare — rispose Confucio — ma detesto l’ostinazione (di chi non vuol comprendere). 367. Confucio disse: — Nel cavallo Chi116 non si loda tanto la forza quanto le virtù. 368. Qualcuno domandò: — Che ne dici di ripagare un torto con la clemenza? — Con che ripagheresti la clemenza? — rispose Confucio. — Un torto si ripaga con la giustizia e la clemenza con la clemenza. 369. Confucio disse: — Nessuno mi conosce! — Perché dici che nessuno ti conosce? — chiese Tzukung. — Non mi lamento del Cielo — rispose Confucio — né accuso gli uomini. Imparo dal basso e progredisco verso l’alto. Chi mi conosce è il Cielo! 370. Kung-po Liao117 aveva calunniato Tzu-lu presso Chi Sun. (Il dignitario) Tzu-fu Ching-po ne informò Confucio, dicendo: — Il signore è stato posto in sospetto da Kung-po Liao. Io sono abbastanza potente da far esporre il cadavere di costui sulla piazza del mercato. — Che la Via venga seguita è decreto del Cielo — disse Confucio. — Che la Via venga negletta è decreto del Cielo. Che cosa può fare Kung-po Liao contro il suo volere? 371. Confucio disse: — Gli uomini virtuosi fuggono il mondo (se non segue la Via), poi fuggono gli stati (in cui regna il disordine), poi ancora fuggono le maniere (non conformi ai riti) e infine fuggono i discorsi (contraddittori). 372.

Confucio disse: — Coloro che fecero così furono sette uomini118. 373. Tzu-lu pernottò a Shih-mên. Il guardiano della porta gli domandò: — Da dove provieni? — Da (la scuola di) K’ung-tzu — rispose Tzu-lu. — È quello che sa che non può (riformare il mondo) — chiese il guardiano — ma si adopera (per riuscirvi)? 374. Mentre era nel regno di Wei, (un giorno) Confucio si dilettava a suonare il ch’ing119. Passò davanti alla sua casa un tale con un cesto sulle spalle, il quale esclamò: — Hai (ancora) voglia di suonare il ch’ing? — Poi aggiunse: — Che meschina ostinazione! Nessuno ti conosce, dunque smettila! «Quando (l’acqua del guado) è profonda tienti la veste addosso, quando è bassa la veste rialzala»120. — Come è risoluto! — esclamò Confucio. — Non ha più difficoltà. 375. Tzu-chang disse: — Nei Documenti (IV, 8, pt. I, 1) è detto: «Kao Tsung, ritiratosi in lutto, per tre anni non pronunciò parola»121. Che significa? — Che necessità v’è di (portare ad esempio) Kao Tsung? — disse Confucio. — Gli antichi facevano tutti così. Quando moriva il principe, per tre anni i funzionari svolgevano i loro compiti agli ordini del primo ministro (in modo che il successore al trono potesse osservare il lutto). 376. Confucio disse: — Quando coloro che sono in alto amano i riti, il popolo è facilmente comandato. 377. Tzu-lu interrogò sul saggio. Confucio disse: — Si perfeziona con reverente attenzione. — Questo e null’altro? — chiese Tzu-lu. — Si perfeziona onde dar tranquillità al prossimo. — Questo e null’altro? — Si perfeziona onde dar tranquillità al popolo — rispose Confucio. — Perfezionare sé stessi onde dar tranquillità al popolo: in ciò (perfino) Yao e Shun credettero di essere in difetto. 378.

Yüan Jan122 rimase accoccolato all’arrivo del Maestro. Questi gli disse: — Da giovane non fosti docile né sotto-messo, da adulto non hai fatto nulla degno d’essere tramandato, da vecchio non muori. Sei una sciagura! E con il bastone gli batté sulle gambe (perché si alzasse). 379. Un giovanetto della comunità di Ch’üeh era addetto a trasmettere messaggi (per Confucio). Qualcuno chiese di lui, dicendo: — Fa progressi? — Ho osservato che siede nei posti di riguardo — rispose Confucio — ho osservato che cammina alla pari con i più anziani. Non è uno che cerca di progredire: vuol solo arrivare al più presto.

LIBRO VIII CAPITOLO XV WEI LING KUNG 380. Il duca Ling di Wei interrogò Confucio sull’arte di schierare le truppe in battaglia. Confucio rispose: — Ho appreso le questioni relative ai vassoi e al vasellame (dei sacrifici) e mai ho studiato le questioni inerenti a eserciti e truppe. L’indomani se ne andò. Quando fu nel regno di Ch’ên vennero a mancare i viveri: coloro che lo seguivano erano malati (dalla fame) tanto che non potevano alzarsi. Tzu-lu si presentò incollerito e disse: — Il saggio ha da soffrire anche le privazioni? — Il saggio sopporta le privazioni con fermezza — rispose Confucio. — L’uomo volgare, quando è in strettezze, subito ne è sopraffatto123. 381. Confucio disse: — O Szu, mi consideri tu un uomo che molto studia e ritiene? — Sì — rispose Tzu-chung. — Non è così? — No — rispose Confucio. — Io unisco in un solo principio124. 382. Confucio disse (a Tzu-lu): — O Yu, pochi sono coloro che conoscono la virtù. 383. Confucio disse: — Uno che governò senza agire fu Shun. Infatti, che fece? Si rese reverente e sedette col viso rivolto a meridione (cioè nella posizione dell’imperatore). Null’altro. 384. Tzu-chang interrogò sul modo di progredire. — Se nel parlare sei leale e veritiero — rispose Confucio — e nell’agire onesto e devoto, progredirai anche nei paesi dei barbari Man e Mai. Se le tue parole non sono leali e veritiere e le tue azioni non sono oneste e devote, progredirai sia pure nel tuo distretto e nel tuo villaggio? In piedi vedi (queste virtù) davanti a te, in carrozza vedile assise sul giogo. Allora progredirai. Tzu-chang se lo scrisse (sulla tavoletta che portava) alla cintura. 385. Confucio disse: — Che uomo retto fu lo storiografo Yü (di Wei)! Sia che lo

stato fosse in ordine sia che fosse in disordine, egli era (diritto) come una freccia. Ma che saggio è Ch’ü Po-yü!125 Quando lo stato è in ordine accetta incarichi pubblici, quando lo stato è in disordine può arrotolare (la sua Via) e tenerla nascosta. 386. Confucio disse: — Se un uomo merita le vostre parole e non gliele date, perdete l’uomo. Se un uomo non merita le vostre parole e gliele date, gettate via le parole. Il sapiente non perde gli uomini e non getta via le parole (perché conosce gli uomini). 387. Confucio disse: — Un letterato di ferma volontà e un uomo caritatevole non cercano la vita a danno della carità. Affrontano la morte per realizzare la carità. 388. Tzu-kung domandò del modo di essere caritatevoli. — L’artigiano che vuol fornire bene la sua opera — rispose Confucio — deve innanzi tutto affilare gli strumenti. Tu, nel risiedere in questo stato, servi i più virtuosi dei dignitari e stringi amicizia con i più caritatevoli tra i letterati. 389. Yen Yüang interrogò sul modo di governare lo stato126. — Adotta il calendario degli Hsia — rispose Confucio — usa la carrozza degli Yin, indossa il berretto dei Chou, come musica adotta la shao e le sue danze. Bandisci la musica del regno di Chêng e allontana gli adulatori: la musica di Chêng è licenziosa, gli adulatori sono pericolosi127. 390. Confucio disse: — Se l’uomo non guarda lontano sicuramente ha vicino i dispiaceri. 391. Confucio disse: — È finita! Non ho mai visto che si ami la virtù come si ama la bellezza128. 392. Confucio disse: — Tsang Wên-chung usurpava la sua posizione! Conosceva la virtù di Hui di Liu-hsia129 eppure non gli procurò un posto accanto a sé (a corte). 393. Confucio disse: — Chi chiede molto a sé stesso e poco agli altri allontana da sé l’animosità.

394. Confucio disse: — Di uno che non dice mai: che fare? che fare? non so che farmene. 395. Confucio disse: — Riunirsi per giornate intere, discutere senza pervenire alla giustizia, compiacersi di sviluppare un piccolo sapere: che danno!130. 396. Confucio disse: — Della giustizia il saggio fa la sua sostanza: la mette in pratica con i riti, la manifesta con l’umiltà, la porta a compimento con la sincerità. È il saggio! 397. Confucio disse: — Il saggio si duole di non avere delle capacità, non si duole che gli altri non lo conoscano. 398. Confucio disse: — Il saggio s’affligge di terminare la vita senza che il suo nome sia celebrato. 399. Confucio disse: — Il saggio cerca in sé, l’uomo volgare cerca negli altri. 400. Confucio disse: — Il saggio è dignitoso e non contende, è socievole ma non entra in clientele. 401. Confucio disse: — Il saggio non innalza un uomo per le sue parole e non respinge le parole a causa dell’uomo (che le ha dette). 402. Tzu-kung domandò: — Vi è una parola su cui si possa basare la condotta di tutta la vita? — (Non) è essa reciprocità? — rispose Confucio. — Ciò che non vuoi sia fatto a te non fare agli altri. 403. Confucio disse: — Nei confronti del mio prossimo, chi biasimo e chi lodo? Se v’è qualcuno che lodo (oltre i suoi meriti) è perché ha qualcosa da mettere a prova. Questo è il popolo in virtù del quale le tre dinastie hanno camminato sulla retta via131. 404. Confucio disse: — Ancora ai miei tempi, uno storiografo lasciava delle lacune nel testo (pur di non mentire) e un proprietario di cavalli li prestava ad

altri per farli montare. Oggi di costoro si è perduto lo stampo. 405. Confucio disse: — Le parole artificiose turbano la virtù, l’insofferenza (per le piccole cose) turba i grandi progetti. 406. Confucio disse: — Bisogna esaminare a fondo coloro che le moltitudini odiano. Bisogna esaminare a fondo coloro che le moltitudini amano132. 407. Confucio disse: — L’uomo può render grande la Via, non è la Via a render grande l’uomo. 408. Confucio disse: — Errare e non correggersi: questo si chiama errare. 409. Confucio disse: — Per pensare ho trascorso tutto un giorno senza mangiare e tutta una notte senza dormire: non ne ho tratto alcun vantaggio. È meglio studiare133. 410. Confucio disse: — Il saggio pensa alla Via, non al nutrimento. Lavorando nei campi si può morire di fame in mezzo ad essi, dedicandosi allo studio si può trovare in esso una retribuzione. Il saggio si preoccupa della Via, non si preoccupa della povertà. 411. Confucio disse: — Se con la sapienza si perviene (al principio delle cose), ma con la carità non si è capaci di conservarlo, lo si perde sicuramente anche se lo si possiede. Quando con la sapienza vi si perviene e con la carità si è capaci di conservarlo, se non si è dignitosi nel governare il popolo non è reverente. Quando con la sapienza vi si perviene, con la carità si è capaci di conservarlo e si è dignitosi nel governare, se si muove il popolo in difformità dei riti non si è ancora eccellenti. 412. Confucio disse: — Il saggio non può essere conosciuto nelle piccole cose, ma gli si possono affidare le grandi. All’uomo volgare non si possono affidare le grandi cose, ma può essere conosciuto nelle piccole. 413. Confucio disse: — Per l’uomo la carità è più che l’acqua e il fuoco. Ho visto morire chi camminava nell’acqua e nel fuoco, ma mai ho visto morire chi camminava nella carità.

414. Confucio disse: — Quando ci si attiene alla carità, non si deve cedere nemmeno al proprio maestro. 415. Confucio disse: — Il saggio è fermo ma non ostinato. 416. Confucio disse: — Servendo il principe, (il saggio) attende con reverenza ai suoi doveri e pone la retribuzione in seconda linea. 417. Confucio disse: — Quando c’è l’istruzione non vi sono categorie134. 418. Confucio disse: — Se non seguite la stessa Via, non fate progetti l’uno per l’altro. 419. Confucio disse: — Il linguaggio esprima chiaramente il pensiero e basta (cioè sia senza fioriture). 420. Il maestro di musica Mien (cieco, come quasi tutti i suoi colleghi) venne a far visita. Giunto alla scala, Confucio gli disse: — Ci sono i gradini. — Arrivato alla stuoia, gli disse: — Ecco la stuoia. — Quando tutti furono seduti, lo informò dicendo: — Il tale è qui, il talaltro è là. Uscito il maestro Mien, Tzu-chang domandò: — Dire queste cose ad un maestro di musica è la regola? — Sì — rispose Confucio. — Certamente è la regola per assistere un maestro di musica.

CAPITOLO XVI CHI SHIH 421. Il signor Chi era in procinto di attaccare Chuan-yü135. Jan Yu e Chi Lu andarono a trovare Confucio e gli dissero: — Il signor Chi sta per entrare in campo contro Chuan-yü. — O Chiu — disse Confucio — non avete voi questa colpa? Nei tempi antichi, i precedenti imperatori incaricarono Chuan-yü di presiedere (ai sacrifici) al Monte Mêng Orientale. Inoltre esso si trova entro il territorio dello stato (di Lu) ed è uno stato vassallo. Perché dunque attaccarlo? — È il signore che lo vuole — si scusò Jan Yu — noi due ministri non vogliamo.

— O Chiu — replicò Confucio — (lo storico) Chou Jên diceva: «Pone tutte le sue forze nell’assolvimento dei doveri della sua carica. Quando non vi riesce si ritira». Di quale utilità è l’aiutante (del cieco) se non lo soccorre nel pericolo e non lo sostiene quando cade? Il tuo discorso è errato. Quando una tigre o un bufalo fuggono dalla gabbia, quando nel forziere si deteriora un guscio di tartaruga o una gemma, di chi è la colpa (se non di chi ne aveva la custodia)? — Ma oggi — osservò Jan Yu — Chuan-yü è divenuto forte ed è vicino a 136 Pi . Se non se ne impossessa ora, nel futuro costituirà una minaccia per i (suoi) discendenti. — O Chiu — disse Confucio — il saggio detesta chi evita di dire: lo voglio, ma sente la necessità di trovare dei pretesti. Ch’iu (io) ha inteso dire che coloro che hanno un regno o una casata si preoccupano non già che la popolazione sia scarsa, bensì che ciascuno non tenga il suo posto; non s’affliggono della povertà, bensì della mancanza di tranquillità137. Infatti, dove ciascuno tiene il suo posto non v’è povertà, dove è concordia non v’è scarsità di popolazione, dove è buonanimo non avvengono rivolgimenti. Così è. Perciò, se la gente di lontani paesi non fa atto di sottomissione, bisogna perfezionare la cultura e la virtù per indurla a venire e, una volta venuta, dare ad essa la tranquillità. Ora, tu, Yu, e tu, Chiu, siete collaboratori del vostro signore: le genti lontane non si sottomettono e voi non riuscite a farle accorrere; il paese va in rovina per le divisioni e si spacca per le separazioni e voi non riuscite a conservarne l’integrità. Anzi, avete in animo di mettere in moto scudi e lance all’interno di esso. Temo che i guai di Chi Sun non stiano a Chuan-yü ma dentro le mura del suo palazzo. 422. Confucio disse: — Quando nell’impero si segue la Via, i riti, la musica e le spedizioni punitive promanano dal Figlio del Cielo; quando nell’impero non si segue la Via, i riti, la musica e le spedizioni punitive promanano dai feudatari. Quando promanano dai feudatari, è raro che essi non perdano (il potere) entro dieci generazioni; quando promanano dai dignitari, è raro che non lo perdano entro cinque generazioni; quando s’impossessano delle leve dello stato gli intendenti (delle grandi casate), è raro che non le perdano entro tre generazioni. Quando nell’impero si segue la Via, il governo non è nelle mani dei dignitari; quando nell’impero si segue la Via, le folle non stanno a discutere (sugli affari pubblici). 423. Confucio disse: — Da cinque generazioni le entrate dello stato non

pervengono alla casa ducale e da quattro il governo è nelle mani dei dignitari: per questo le tre (grandi casate) dei discendenti del duca Huang sono in declino138. 424. Confucio disse: — Tre specie di amicizia avvantaggiano, tre specie danneggiano. L’amicizia con uomini retti, l’amicizia con uomini sinceri, l’amicizia con uomini eruditi, avvantaggiano. L’amicizia con uomini pratici nell’inganno, l’amicizia con uomini abili nel servilismo, l’amicizia con uomini pronti ai raggiri, danneggiano. 425. Confucio disse: — Tre piaceri sono giovevoli e tre nocivi. Compiacersi di studiare i riti e la musica, di parlare dell’eccellenza altrui, di avere molti amici virtuosi, sono piaceri giovevoli. Compiacersi di godimenti stravaganti, di oziosi vagabondaggi, delle gioie della crapula, sono piaceri nocivi. 426. Confucio disse: — Colui che è in presenza del saggio può commettere tre errori: parlare quando ancora non è giunto il momento di parlare, dicesi precipitazione; non parlare quando è giunto il momento di parlare, dicesi reticenza; parlare senza aver osservato l’espressione del volto (del saggio), dicesi cecità. 427. Confucio disse: — Il saggio ha tre cose da cui guardarsi: in gioventù, quando il sangue e lo spirito vitale sono in fermento, deve guardarsi dalla lussuria; giunto alla maturità, quando il sangue e lo spirito vitale sono in rigoglio, deve guardarsi dalla combattività; giunto alla vecchiaia, quando il sangue e lo spirito vitale sono in declino, deve guardarsi dalla cupidigia. 428. Confucio disse: — Tre cose vi sono di cui il saggio ha reverenziale timore: teme il decreto del Cielo, teme i grandi uomini, teme le parole dei santi. L’uomo volgare non conosce il decreto del Cielo e non lo teme, è irriverente verso i grandi uomini e si fa beffe delle parole dei santi. 429. Confucio disse: — Coloro che hanno la conoscenza innata sono gli esseri superiori; secondi ad essi sono coloro che acquistano la conoscenza con lo studio139; vengono poi gli ottusi che studiano. Gli ottusi che non studiano sono la parte più bassa del popolo. 430.

Confucio disse: — Il saggio dedica pensosa attenzione a nove cose: nel guardare ha cura di veder chiaro, nell’ascoltare di intendere, nell’espressione di essere gentile, nel tratto di essere rispettoso, nelle parole di essere leale, negli affari di essere reverentemente cauto, nel dubbio di interrogare, nell’ira pensa alle sofferenze (che ne conseguono), nel vedere il profitto pensa alla giustizia. 431. Confucio disse: — Considerare il bene come (cosa tanto alta da sembrare) irraggiungibile, considerare il male come (cosa da evitare quanto) l’immergere la mano nell’acqua bollente: ho visto uomini siffatti, ho udito parole simili. Starsene appartati nell’ombra per ricercare i propri scopi, attuare la giustizia per progredire nella propria Via: ho udito discorsi simili, non ha mai visto uomini siffatti. 432. Il duca Ching di Ch’i aveva mille quadrighe di cavalli: il giorno in cui morì, il popolo non trovò in lui alcuna virtù per celebrarlo. Po-i e Shu-ch’i morirono di fame ai piedi del monte Shou-yang e il popolo li ha celebrati fino ad oggi. Non è questo il significato di ciò?140 433. (Il discepolo) Ch’ên Kang interrogò Po-yü (figlio di Confucio), dicendo: — Hai avuto qualche particolare insegnamento? — No — rispose Po-yü. — Un giorno mentre egli era solo, Li (io) attraversò la sala a passi veloci. «Hai studiato le odi?» — mi chiese (mio padre). «Non ancora» — risposi. «Se non studi le odi non avrai nulla, da dire» — mi ammonì. Li si ritirò e studiò le odi. Un altro giorno, mentre egli era solo, di nuovo Li attraversò svelto la sala. (Mio padre) mi domandò: «Hai studiato i riti?» «Non ancora» — risposi. «Se non studi i riti — disse — non avrai nulla su cui fondarti». Li si ritirò e studiò i riti. Ho appreso queste due cose. Ch’ên Kang si ritirò e, tutto contento, disse: — Ho chiesto una cosa e ne ho apprese tre: ho saputo delle odi, ho saputo dei riti e ho saputo che il saggio tiene i figli a distanza. 434. La moglie del principe di uno stato è chiamata da questi «la signora», chiama sé stessa «la piccola fanciulla», dai sudditi è chiamata «la signora del principe», davanti agli stranieri nomina sé stessa come «la piccola principessa di scarsa virtù»141 e gli stranieri nominandola dicono pure «la signora del principe».

LIBRO IX CAPITOLO XVII Yang Huo142

YANG HUO 435. desiderava una visita di Confucio, ma questi non si recò da

lui. Mandò (allora) un porcello in dono a Confucio. Questi scelse un momento in cui l’altro non era in casa per andare a ringraziarlo, ma l’incontrò per via. — Vieni — disse a Confucio. — Ho da parlarti. — Nascondere nel petto una cosa preziosa (la virtù) — disse poi — e lasciar che il proprio paese resti nel disordine, può dirsi carità? — Non si può — rispose Confucio. — Amare di occuparsi della cosa pubblica e lasciarsi sempre sfuggire le occasioni, può dirsi sapienza? — Non si può — rispose Confucio. — I giorni e i mesi passano — osservò Yang Huo — e gli anni non ci aspettano. — Bene — disse Confucio. — In futuro entrerò in servizio. 436. Confucio disse: — Per qualità naturali gli uomini sono vicini l’uno all’altro, per la pratica (di esse) sono lontani l’uno dall’altro. 437. Confucio disse: — Solo i sapienti più elevati e gli ignoranti più vili sono immutabili. 438. Recatosi a Wu-ch’êng, Confucio udì un suono di strumenti a corda e di canti143. Il Maestro, compiaciuto e sorridente, disse: — Per uccidere un pollo usi un coltello da bue?144 — Una volta — rispose Tzu-yu — Yen (io) ha udito il Maestro dire: «Se il saggio studia la Via, ama gli uomini; se l’uomo volgare studia la Via, è facilmente governato». — Discepoli miei — disse Confucio — le parole di Yen sono giuste, le mie di poco fa erano un celia. 439.

Kung-shan Fu-jao si era ribellato per la città di Pi145. Convocò Confucio, il quale voleva andare. Tzu-lu, contrariato, disse: — Non andare. Perché dovresti recarti da Kung-shan? — Chi mi chiama lo fa forse senza ragione? — rispose Confucio. — Se qualcuno si servisse di me, ne farei un Chou orientale146. 440. Tzu-chang chiese della carità a Confucio, il quale disse: — Chi riuscisse ad attuare cinque cose nel mondo sarebbe caritatevole. All’altro, che pregava di interrogare su di esse, spiegò: — Rispetto, magnanimità, sincerità, sollecitudine, benevolenza. Chi rispetta non offende, chi è magnanimo si guadagna le folle, chi è sincero ottiene la fiducia degli altri, chi è sollecito porta a compimento, chi è benevolo è adatto a comandare agli uomini. 441. 147 Pi-hsi mandò a chiamare Confucio. Questi voleva andarvi, ma Tzu-lu gli disse: — Una volta, Yu (io) intese dire dal Maestro: «Il saggio non si associa con chi nella sua persona commette il male». Pi-hsi si è ribellato per Chungmu. Se il Maestro va da lui, che se ne deve pensare? — È vero, ho detto quelle parole — ammise Confucio. — Ma non è pur detto che, se una cosa è veramente dura, anche a sfregarla non si assottiglia? Non è detto che, se una cosa è veramente bianca, anche ad immergerla nella tinta nera non si annerisce? Sono forse una zucca amara che si può tenere appesa ma non si mangia?148 442. Confucio disse: — O Yu, hai mai inteso dei sei precetti e dei (loro) sei offuscamenti? — Non ancora — disse Tzu-lu (alzandosi in piedi). — Siedi, te ne parlerò — disse Confucio. — Amare la virtù senza amare lo studio: il suo offuscamento è la stoltezza. Amare la sapienza senza amare lo studio: il suo offuscamento è l’instabilità. Amare la sincerità senza amare lo studio: il suo offuscamento è la nocevolezza (verso gli esseri). Amare la rettitudine senza amare lo studio: il suo offuscamento è la rozzezza. Amare il coraggio senza amare lo studio: il suo offuscamento è la turbolenza. Amare la risolutezza senza amare lo studio: il suo offuscamento è la temerarietà149. 443. Confucio disse: — Figlioli, perché non studiate le odi? Con le odi potrete stimolare la vostra mente, esaminarvi, essere socievoli (senza farvi trascinare),

provare il (giusto) risentimento, servire il padre in casa e il principe fuori casa. Vi sono, inoltre, molte cognizioni sugli uccelli, animali, erbe e piante. 444. Confucio disse a Po-yü (suo figlio): — Hai studiato il Chou Nan e lo Shao Nan150? Un uomo che non ha studiato il Chou Nan e lo Shao Nan è come uno che rivolge la faccia al muro e se ne sta lì fermo (senza veder nulla intorno a sé). 445. Confucio disse: — Dicono: i riti! i riti! Sono forse (soltanto l’omaggio de) le gemme e le sete? Dicono: la musica! la musica! È forse (soltanto il suono de) le campane e i tamburi? 446. Confucio disse: — Coloro che ostentano un’aria rigida ma dentro sono frolli, sono paragonabili al volgo. (Non) sono come i ladri che forano o scavalcano le mura (sempre in ansia d’essere scoperti)? 447. Confucio disse: — Gli ipocriti da villaggio sono ladri di virtù151. 448. Confucio disse: — Parlare nella via di ciò che si è udito per la strada (cioè senza meditarvi sopra), significa gettar via la virtù. 449. Confucio disse: — Ad un uomo meschino si può affidare il servizio del principe? Quando non ha ancora ottenuto il posto si rode nell’ansia di averlo, quando l’ha ottenuto si rode nell’ansia di perderlo. E quando si rode nell’ansia di perderlo, non v’è nulla a cui non arrivi. 450. Confucio disse: — Anticamente la gente aveva tre sollecitudini, che oggi forse sono scomparse. Una volta, chi aspirava a grandi cose non si curava delle piccole: oggi chi aspira a grandi cose è sfrenato. Una volta, chi era austero si chiudeva in grave riserbo: oggi chi vuol apparire austero è risentito ed offensivo. Una volta, chi era semplice era retto: oggi chi è semplice è falso e basta. 451. Confucio disse: — Parole artificiose e modi insinuanti raramente s’accompagnano alla carità. 452. Confucio disse: — Detesto l’alterazione che il purpureo porta al rosso;

detesto la confusione che i suoni del regno di Chêng portano nella musica corretta; detesto gli sconvolgimenti che gli abili parolai producono negli stati e nelle famiglie. 453. Confucio disse: — Vorrei non parlare. — Se il Maestro non parla — obbiettò Tzu-kung — noi discepoli che cosa tramanderemo? — Il Cielo forse parla? — esclamò Confucio. — Le quattro stagioni seguono il loro corso e gli esseri vengono alla vita. Forse parla il Cielo? 454. 152 Ju Pei voleva far visita a Confucio, che si scusò con una malattia. Ma quando il latore del messaggio fu fuori della porta, egli prese la cetra e si mise a cantare facendo sì che quello lo sentisse. 455. Tsai Wo interrogò sul lutto triennale. — Un anno è abbastanza lungo — disse. — Se il saggio non esercita i riti per tre anni, questi necessariamente cadono in desuetudine; se per tre anni non si applica alla musica, questa necessariamente decade. (In un anno) il vecchio frumento è consumato e il nuovo è cresciuto, la legna (propria di ogni stagione) sfregata ha rinnovato il fuoco. Un anno può bastare. —Quando mangiassi il riso e vestissi con eleganza (dopo un anno), ti sentiresti a tuo agio? — chiese Confucio. — Sì — rispose Tsai Wo. — Se ti senti a tuo agio, fallo. Il saggio, quando è in lutto, se mangia cibi prelibati non li gusta, se ode la musica non ne gode153, se dimora nei luoghi abituali non vi sta comodo. Perciò non lo fa. Se tu, invece, sei a tuo agio, fallo pure. Uscito Tsai Wo, Confucio disse: — Yü non è caritatevole. Solo a tre anni dalla nascita il figlio si stacca dalle braccia dei genitori: per questo il lutto di tre anni è osservato in tutto l’impero. Yü ha avuto tre anni d’affetto dai suoi genitori? 456. Confucio disse: — Rimpinzarsi tutto il giorno senza applicare in nulla la mente, è veramente arduo! Non c’è il giuoco degli scacchi? Dedicarvisi è meglio (che non far nulla). 457. Tzu-lu chiese: — Il saggio tiene in pregio il coraggio?

— Il saggio — rispose Confucio — pone sopra tutto la giustizia. Se il saggio ha il coraggio ma non la giustizia, diventa turbolento; se l’uomo volgare ha il coraggio ma non la giustizia, diventa un brigante. 458. Tzu-kung domandò: — Anche il saggio detesta qualcuno? — Sì — rispose Confucio. — Detesta coloro che mettono in evidenza i difetti altrui; detesta coloro che, trovandosi in basso, denigrano chi è in alto; detesta coloro che sono coraggiosi ma infrangono i riti; detesta coloro che sono risoluti e audaci ma incapaci di comprensione. Tu, Szu, detesti qualcuno? — Detesto coloro che spiano e dicono che è sapienza; detesto coloro che mai si sottomettono e dicono che è co-raggio; detesto coloro che rivelano i segreti altrui e dicono che è rettitudine. 459. Confucio disse: — Le donne (cioè le concubine) e i servi sono difficili da trattare: se te li avvicini, non stanno più sottomessi; se li tieni a distanza, se ne risentono. 460. Confucio disse: — Chi è detestato a quarant’anni, lo sarà fino alla fine dei suoi giorni (perché ormai è incapace di cambiarsi).

CAPITOLO XVIII WEI-TZU 461. Il visconte di Wei lo abbandonò, Chi-tzu fu da lui ridotto schiavo, Pi-kan lo rimproverò e morì154. Confucio disse: — Lo Yin aveva tre uomini caritatevoli. 462. Quando Hui di Liu-hsia era sovrintendente alle carceri, fu destituito tre volte. Qualcuno gli disse: — Signore, ancora non pensi alla possibilità di andartene? — Se servo gli altri con rettitudine — rispose Hui — dove andrei senza che mi destituiscano tre volte? Se servo gli altri con disonestà, perché dovrei abbandonare il paese dei miei genitori? 463. Il duca Ching di Ch’i, (riferendosi al modo di) trattare Confucio, disse: — Alla pari del signor Chi (primo ministro di Lu) non posso. Lo tratterò secondo una via di mezzo tra Chi e Meng (terzo ministro di Lu). — E aggiunse: — Io son vecchio, non posso servirmi di lui.

Confucio se ne andò155. 464. Quelli di Ch’i mandarono in dono alcune fanciulle musicanti (al duca Ting di Lu). Chi Huang-tzu le accolse e per tre giorni non si tennero udienze. Confucio se ne andò156. 465. Il pazzo del regno di Ch’u, Chieh Yü, passò accanto a (la carrozza di) Confucio. Disse: — O fenice! O fenice! Come è decaduta la tua virtù! È inutile riprovare il passato, ma il futuro può essere prevenuto. Smettila! Smettila! Quelli che oggi si occupano del governo sono in pericolo157. Confucio scese (dalla carrozza) volendo -parlargli, ma quello lo evitò fuggendo, sicché Confucio non poté discorrere con lui. 466. 158 Ch’ang Ch’iu e Chieh Ni lavoravano insieme nel campo. Confucio, passando di là, mandò Tzu-lu a chiedere dove fosse il guado. Ch’ang Ch’iu domandò: — Chi è quello che tiene le redini? — È K’ung Ch’iu — rispose Tzu-lu. — È forse K’ung Ch’iu di Lu? — Sì. — Allora sa dove è il guado — disse Ch’ang Ch’iu. Tzu-lu interrogò Chieh Ni, il quale domandò: — Tu chi sei? — Sono Chung Yu. — Sei discepolo di K’ung Ch’iu di Lu? — Sì. — Scorre disordinatamente — disse Chieh Ni (forse indicando il fiume di cui Tzu-lu cercava il guado). — Tutto l’impero è così. Chi può modificarlo? Invece che seguire un maestro che fugge gli uomini (immorali), non faresti meglio a seguire coloro che fuggono il mondo? — E si rimise a coprire i semi senza più soffermarsi. Tzu-lu tornò a riferire. Confucio sospirando disse: — L’uomo non può vivere in società con gli uccelli e gli animali: se non m’accompagno con gli uomini quali essi sono, con chi allora (m’accompagnerò)? Se nell’impero si seguisse la Via, Ch’iu (io) non avrebbe bisogno di modificarlo. 467. Tzu-lu, seguendo Confucio, era rimasto indietro. Incontrò un vecchio che con un bastone portava sulle spalle un cesto. — Signore, hai visto il Maestro? — gli chiese Tzu-lu.

E il vecchio: — O tu che non affatichi le quattro membra e non distingui i cinque cereali159, chi è il tuo maestro? — Poi, piantato in terra il bastone, si mise a cogliere l’erba. Tzu-lu incrociò le mani sul petto e rimase fermo. Il vecchio trattenne Tzulu per la notte, uccise un pollo, preparò del miglio e lo rifocillò. Poi lo presentò ai suoi figli. Il giorno dopo Tzu-lu andò per la sua via e riferì a Confucio, che disse: — (È un saggio che) vive appartato. — E mandò Tzu-lu a visitarlo di nuovo, ma quando questi arrivò il vecchio era andato via. — Non servire nell’amministrazione è mancanza di giustizia — disse Tzulu (ai figli). — Se non è permesso trascurare l’ordine tra anziani e giovani, come si possono violare i doveri tra principe e suddito? Vuol conservare puro sé stesso ma sovverte una grande relazione umana. Nel servire, il saggio mette in pratica la giustizia. Che la Via non è seguita, lo sa. 468. Si ritirarono dal mondo Po-i, Shu-ch’i, Yü Chung, I I, Chu Chang, Hui di Liu-hsia e Shao Lien160. Confucio disse: — Non piegare la propria volontà e non umiliare sé stessi: (così fecero) Po-i e Shu-ch’i. Di Hui di Liu-hsia e di Shao Lien dico che piegarono la loro volontà e umiliarono sé stessi, ma nel parlare s’attennero ai princìpi di giustizia e nell’agire alla sollecitudine: di loro, questo e null’altro. Di Yü Chung e di I I dico che si trassero in disparte e dettero corso alle loro parole, ma nella loro persona s’attennero alla purezza e nel loro ritiro alle esigenze (del tempo). Io sono diverso da costoro: nulla (considero) permesso e nulla non permesso. 469. Il gran maestro di musica Chih si trasferì nel regno di Ch’i; K’an, maestro del secondo pasto, nel regno di Ch’u; Liao, maestro del terzo pasto, nel regno di Ts’ai; Ch’üeh, maestro del quarto pasto, nel regno di Ch’in; il suonatore di tamburo Fang-shu andò presso il Fiume (Giallo); il suonatore di tamburello Wu andò presso il (fiume) Han; il vice-maestro Yang e il suonatore di ch’ing Hsiang andarono su (un’isola del) mare161. 470. Il duca Chou, parlando al duca di Lu162, disse: — Un principe non trascura i suoi parenti e non fa sì che i ministri si risentano per non essere utilizzati. Perciò non allontana i vecchi funzionari senza grave motivo, né pretende in un uomo ogni capacità.

471. I Chou ebbero otto grandi uomini: Po-ta, Po-k’uo, Chungt’u, Chung-hu, Shu-yeh, Shu-hsia, Chi-sui e Chi-kua163.

LIBRO X CAPITOLO XIX TZU-CHANG 472. Tzu-Chang disse: — Il letterato che vedendo il pericolo fa dono della vita, che vedendo il profitto pensa alla giustizia, che nel sacrificare pensa alla reverenza, che nel lutto pensa al dolore, può (dirsi) completo. 473. Tzu-chang disse: — Uno che abbraccia la virtù senza ampliarla e crede nella Via senza darvi importanza, può esistere e può non esistere (non v’è differenza). 474. I discepoli di Tzu-hsia interrogarono Tzu-chang sui rapporti (d’amicizia). — Tzu-hsia che ne dice? — chiese Tzu-chang. — Tzu-hsia — risposero quelli — dice di stringerli con coloro che ne sono degni (per la loro virtù) e di evitarli con coloro che ne sono indegni. — È diverso da ciò che ho appreso — disse Tzu-chang. — Il saggio onora i virtuosi ma tollera tutti gli altri, stima i buoni ma compatisce gli incapaci. Se sono molzo virtuoso, che cosa non tollererò negli altri? Se non sono virtuoso, gli altri mi eviteranno: allora come fa a dire di evitare gli altri?164 475. Tzu-hsia disse: — Anche nelle umili forme di attività (come quelle dei contadini, degli ortolani, dei guaritori, degli indovini) c’è qualcosa da prendere in considerazione, ma per chi si occupa di cose meno immediate è da temere che esse siano di impedimento. Perciò il saggio se ne astiene. 476. Tzu-hsia disse: — Chi nella giornata riconosce ciò di cui difetta e nel mese non dimentica ciò a cui è pervenuto, può dirsi amante dell’apprendere. 477. Tzu-hsia disse: — Studio esteso e volontà sincera, domande minuziose e meditazione intima: la carità sta qui frammezzo. 478. Tzu-hsia disse: — Gli artigiani stanno nelle botteghe per portare a compimento le loro opere, il saggio studia per conseguire il più alto grado della sua Via. 479.

Tzu-hsia disse: — I suoi errori, l’uomo volgare sicuramente li abbellisce. 480. Tzu-hsia disse: — Il saggio subisce tre cambiamenti: a guardarlo da lontano è austero, ad avvicinarlo è affabile, ad ascoltarlo parlare è fermo e sicuro. 481. Tzu-hsia disse: — Il saggio si guadagna la fiducia del suo popolo e poi gli impone i lavori: se non ne avesse guadagnato la fiducia, esso penserebbe che l’opprime. Si guadagna la fiducia (del suo principe) e poi lo ammonisce: se non ne avesse guadagnato la fiducia, quello penserebbe che lo calunnia. 482. Tzu-hsia disse: — All’uomo, che nelle grandi circostanze non oltrepassa i limiti, nelle piccole si può concedere di andare al di là o di restare al di qua. 483. Tzu-yu disse: — I discepoli di Tzu-hsia, per quanto riguarda l’annaffiare e lo spazzare, il domandare e il rispondere, l’avanzare e il ritirarsi, possono passare. Ma queste sono cose secondarie. Difettano, invece, di quelle fondamentali. Che se ne può dire? Tzu-hsia, saputolo, disse: — Ih! Yen Yu è in errore. Nella Via del saggio che cosa v’è di primaria importanza da insegnarsi e che cosa di secondaria importanza da trascurarsi? Prendi ad esempio le erbe e gli alberi, che si differenziano per la categoria (cioè in grandi e piccole, come i discepoli in profondi e superficiali). La Via del saggio può ingannarli (non tenendo conto della loro maturità)? Chi contempora-neamente possiede il principio e la fine (della conoscenza) non è soltanto l’uomo santo? 484. Tzu-hsia disse: — Un funzionario a cui sovrabbondano le forze studi, uno studioso a cui sovrabbondano le forze entri nei pubblici impieghi. 485. Tzu-yu disse: — Nel lutto, arrivate fino al massimo del cordoglio e (in esso) fermatevi. 486. Tzu-yu disse: — Il mio amico Chang (cioè Tzu-chang) è capace di compiere imprese difficili, ma non è ancora caritatevole. 487. Tsêng-tzu disse: — Come è imponente e dignitoso Chang! (Per questo) gli è difficile permettere di essere caritatevoli insieme a lui165.

488. Tsêng-tzu disse: — Ho inteso dire dal Maestro che un uomo, il quale non ha mai espresso il meglio di sé, lo esprimerà sicuramente nel lutto per i genitori. 489. Tsêng-tzu disse: — Ho inteso dire dal Maestro che in altre cose si può essere capaci della pietà filiale di Meng Chuang-tzu, ma che è difficile esser capaci (come lui) di non cambiare i ministri e il sistema di amministrazione del padre166. 490. Il signor Meng (di Lu) nominò Yang Fu giudice penale. Costui interrogò Tsêng-tzu (suo maestro, per consiglio). — Chi sta in alto manca ai suoi doveri — gli disse Tsêng-tzu — (e perciò) il popolo è da lungo tempo disorientato. (Pertanto) quando ottieni la verità (nell’accusa), rattristati e compatisci, non rallegrarti (del tuo successo). 491. Tsêng-tzu disse: — La malvagità di Chou (Hsin) non fu tanto grande come si dice (ma la fama l’ampliò). Per questo il saggio aborre dal ridursi in basso: tutti i mali del mondo vi confluiscono. 492. Tzu-kung disse: — L’errare del saggio è come un’eclissi di sole o di luna: quando sbaglia tutti lo vedono, quando si corregge tutti guardano a lui. 493. Kung-sun Chao (dignitario del regno) di Wei chiese a Tzu-kung: — Chung-ni da chi trae la sua scienza? — La Via di Wên e di Wu non è andata perduta: la si trova negli uomini — rispose Tzu-kung. — L’uomo virtuoso ne conosce la parte più elevata, l’uomo non virtuoso la parte meno elevata, ma non v’è nessuno che non abbia in sé la Via di Wên e di Wu. In qual luogo il Maestro non l’apprenderebbe? Che bisogno ha d’un comune insegnante? 494. Shu-sun Wu-shu, parlando a corte con i dignitari, disse: — Tzu-kung è più virtuoso di Chung-ni. (Il dignitario) Tzu-fu Ching-po lo riferì a Tzu-kung, che osservò: — Prendi ad esempio il muro d’un palazzo: il muro di Szu (mio) giunge all’altezza delle spalle e spiando si vede ciò che v’è di bello all’interno della casa. Il muro del Maestro è alto molte braccia: se non trovi la porta per entrare, non puoi vedere

la bellezza del tempio ancestrale né lo sfarzo della servitù. Coloro che trovano la sua porta sono pochi. L’affermazione di Wu-shu non è quella che ci si poteva aspettare (da chi non conosce a fondo il Maestro)? 495. Shu-sun Wu-shu sparlava di Confucio. Tzu-kung disse: — È inutile, Chung-ni non può essere denigrato. La virtù degli altri uomini è come una collina o un monticello a cui si può ascendere. Chung-ni è come il sole e la luna, ai quali nessuno può innalzarsi. Se qualcuno vuol sottrarsi ad essi, che danno recherà al sole e alla luna? Mostrerà soltanto di non sapersi valutare. 496. (Il discepolo) Ch’ên Tzu-ch’in disse a Tzu-kung: — Sei troppo modesto! Chung-ni come sarebbe più virtuoso di te? — Per una parola il saggio ti giudica savio — rispose Tzu-kung — per una parola ti giudica stolto: nel parlare non è lecito essere incauti. Il Maestro non può essere raggiunto, così come non è possibile salire al cielo con una scala. Se il Maestro avesse avuto un regno o una casata, si sarebbe detto di lui: lo ha piantato (il popolo) ed esso è stato saldo, l’ha guidato ed esso l’ha seguito, gli ha dato tranquillità ed esso è accorso a lui, l’ha stimolato ed esso ha raggiunto l’armonia, in vita è stato glorioso, in morte pianto. Come è possibile raggiungere il Maestro?

CAPITOLO XX YAO YÜEH 497. Yao disse: — Oh, tu, Shun! L’ordine di successione decretato dal Cielo indica la tua persona. Attienti sinceramente al giusto mezzo. Se all’interno dei quattro mari si soffrirà la miseria e le angustie, il favore del Cielo ti sarà tolto per sempre167. Così (disse) anche Shun nel nominare Yü (suo successore). (T’ang, rivolgendosi ai feudatari,) disse: — Io, il piccolo figlio Li, ho osato immolare un toro nero, ho osato annunciare a te, Dio Augusto e Sovrano, che non ardirò perdonare colui che è in colpa (Chieh Kuei), non lascerò nell’ombra i tuoi ministri (cioè i ministri virtuosi), perché, o Dio, l’esame (delle colpe dell’uno e dei meriti degli altri) è nella tua mente. Se la mia persona è in colpa, questa non ricada sul popolo; se il popolo è in colpa, questa ricada sulla mia persona168. (Il re Wu, fondatore della dinastia) Chou sparse i suoi benefici e gli uomini eccellenti ne furono arricchiti. — Anche se (Chou Hsin) ha molti parenti —

disse — essi valgono meno dei (miei) uomini caritatevoli. Se il popolo commette degli eccessi, questi ricadano su me169. Ebbe in gran cura i pesi e le misure, esaminò le leggi e le regole (dei riti e della musica), reintegrò al loro posto i funzionari dismessi, così che in tutto l’impero l’amministrazione riprese il suo corso. Ricostituì i regni estinti, restaurò le famiglie le cui linee di successione erano interrotte, richiamò coloro che si erano ritirati dalla vita pubblica, così che il popolo di tutto l’impero rivolse il suo cuore a lui. Ciò a cui attribuiva grande importanza era il popolo, il (suo) nutrimento, i riti funebri, i sacrifici. Fu magnanimo e così si guadagnò le folle, fu solerte e così portò a compimento (le sue imprese), fu giusto e così rese felici. 498. Tzu-chang domandò a Confucio: — In qual modo si può ben governare? — Tieni in onore cinque pregi — rispose Confucio — ed evita quattro difetti. Così potrai ben governare. — Che intendi per cinque pregi? — chiese Tzu-chang. — Il saggio — disse Confucio — è benefico ma non dissipatore, fa lavorare (il popolo) ma non solleva risentimenti, desidera ma non è cupido, sta in posizione elevata ma non è superbo, è austero ma non duro. — Che significa «è benefico ma non dissipatore»? — Gratificare il popolo di tutto ciò che lo avvantaggia: non è questo essere benefico ma non dissipatore? Far lavorare il popolo scegliendo (il tempo e le opere) in cui è lecito affaticarlo170: chi se ne risentirà? Desiderare la carità ed ottenere la carità: è forse cupidigia? Il saggio che, senza badare che si tratti di molti o di pochi, di piccoli o di grandi, non osa essere irriguardoso, non sta egli in alto senza essere superbo? Il saggio che tiene in ordine le sue vesti e il suo copricapo, che rende nobile il suo sguardo ed è così dignitoso che la gente guarda a lui con reverenziale timore, non è egli austero senza essere duro? — Che intendi per quattro difetti? — Mandare a morte senza avere istruito, si chiama crudeltà; volere il compimento senza aver ammonito, si chiama tirannia; dar ordini non urgenti e poi affrettare i tempi (dell’esecuzione), si chiama furfanteria; dare alla gente il dovuto facendo un avaro conto del dare e dell’avere, si chiama burocrazia (non governo). 499. Confucio disse: — Chi non conosce i decreti del Cielo non ha nulla per essere saggio; chi non conosce i riti non ha nulla su cui star saldo; chi non

conosce le parole non ha nulla per conoscere gli uomini.

* Attribuito ai discepoli di Yu Jo e di Tsêng-tzu, discepoli di Confucio. 1. Il titolo dei capitoli è formato dai due primi caratteri del paragrafo iniziale, esclusa la frase introduttiva. 2. Cioè, gli imponga lavori obbligatori quando è libero da quelli agricoli. Mille carri da guerra potevano essere levati da un grande stato feudatario (vedi CS 23). 3. Sull’interpretazione di questi versi vedi GS 3. 4. La citazione è tratta dall’ode IV, 32, 4. Le poesie contenute nel Libro delle Odi, qui indicate in cifra tonda, non sono trecento ma trecentoundici, di cui trecentocinque sono giunte fino a noi. 5. Meng I-tzu, appartenente ad una delle Tre Casate di dignitari del regno di Lu, era discepolo di Confucio (vedi BC 5). 6. Il senso è il seguente: tutte le generazioni devono necessariamente basare i loro riti (cioè le loro istituzioni) sui doveri universali (vedi IM 20) e sulle virtù cardinali (vedi nota 2 a IM 1), che quindi si diversificheranno soltanto per questioni di poco conto, che possono essere aggiunte o tolte. Perciò si può conoscere l’attività di governo anche di cento generazioni successive a quella del fondatore della dinastia che seguirà i Chou. 7. La corte era uno spiazzo davanti al tempio ancestrale, dove i danzatori, agitando piume e bandiere, ritmavano e mimavano la musica. Otto cori di danzatori (pa i) erano appannaggio dell’imperatore: un principe poteva tenerne sei e un dignitario, quale era Chi, quattro. La famiglia Chi di Lu, pertanto, usurpava una prerogativa dell’imperatore. 8. L’ode Yung (IV, 17, 1), di cui Confucio cita un verso, descrive un sacrificio offerto dal re Wên. Era cantata al togliere dei vasi del sacrificio ti (vedi n. 50), offerto agli avi dagli imperatori Chou. Nella «Piccola Prefazione» al Libro delle odi è detto: «Yung (era cantata nel) sacrificio ti al più grande avo». L’usurpazione di questa cerimonia da parte delle Tre Casate di Lu (Chi, Meng e Shu) avveniva quando esse si riunivano nel tempio ancestrale dei Chi, di cui al n. 41, per offrire il sacrificio al loro comune antenato, il duca Huang (vedi BC 6). 9. Nel comprendere che il sacrificio non era conforme ai riti. Era nominato lü il sacrificio che veniva offerto agli esseri spirituali delle montagne. Il T’ai-shan (monte T’ai), situato al confine tra i regni di Lu e di Ch’i, era una delle cinque montagne sacre, sacrificare alle quali era prerogativa dell’imperatore e dei principi nel territorio dei quali esse si trovavano. Confucio rileva qui un altro atto di usurpazione della famiglia Chi. Jan Yu (Jan Chiu), discepolo di Confucio, all’epoca era ministro di Chi K’ang-tzu (vedi BC 22). 10. Secondo il cerimoniale delle gare del tiro con l’arco, i contendenti venivano divisi in gruppi di tre coppie ciascuno. Ogni coppia salutava inchinandosi tre volte, poi saliva sul podio dove i contendenti scoccavano quattro frecce. Salutavano ancora una volta e scendevano, tenendosi in piedi in attesa che tutte le coppie avessero terminato il tiro. Seguiva un complicato cerimoniale in cui i vinti vuotavano delle coppe di corno, mentre i vincitori, a loro volta, vuotavano delle coppe a forma di uccello. La cerimonia è minutamente descritta nell’I Li (Libro del Rituale, capp. V e VII). 11. La citazione è tratta da una delle odi non comprese tra quelle scelte da Confucio. I primi due versi, tuttavia, si ritrovano nell’ode I, 57, 2. 12. Sugli stati di Ch’i e Sung vedi nota 28 a IM 28. 13. Confucio biasimava i principi di Lu, appartenenti ad un ramo cadetto della famiglia imperiale, per essersi essi arrogati di celebrare il sacrificio ti, dedicato dall’imperatore ai più antichi avi, in seguito all’uso instaurato dal duca Chou, primo feudatario di Lu, quando era reggente dell’impero (vedi CS 27). Particolarmente insofferente egli si dimostrava per le parti del rito che seguivano il primo atto, lo spargimento della bevanda, compiuto per invitare i mani ad accettare le offerte, le quali costituivano la parte sostanziale del sacrificio.

14. Per evitare una risposta precisa, da cui poteva emergere una critica al comportamento dei principi di Lu per i motivi esposti nella nota precedente. 15. Wang-sun Chia, dignitario del regno di Wei, all’epoca aveva in mano il governo di quello stato. Ts’ao era uno dei cinque luoghi della casa dove si offrivano i sacrifici agli esseri spirituali. Di questi luoghi si hanno vari elenchi, ma quello a cui si riferisce il testo è probabilmente il seguente: cancello (men), passaggio (hsing), porta (hu), focolare (ts’ao), impluvio centrale (chung liu). Ao era l’angolo sud-occidentale della casa dedicato alla divinità. Il detto citato nel testo stava a significare: è meglio ingraziarsi un essere spirituale di secondo rango, quale quello del focolare, che riverire la divinità, che è troppo in alto. In realtà, il discorso di Wang-sun Chia era un invito rivolto a Confucio di legarsi ad un potentato minore, cioè a lui stesso, invece di rivolgersi direttamente al principe di Wei per ottenere un incarico di governo, cosa che Wang-sun Chia temeva. 16. Il commento spiega che il massimo rispetto agli esseri spirituali veniva dimostrato chiedendosi di ogni questione rituale, anche da chi ne era istruito. 17. L’ode Kuan Tsu (Il grido dell’aquila pescatrice) è la prima del Libro delle Odi. Celebra le virtù di T’ai Szu, sposa del re Wên (vedi CS 18) e le dà il benvenuto nella casa coniugale. In essa è descritto anche il tormento dello sposo nell’attesa della donna amata. L’aquila pescatrice era il simbolo dell’armonia coniugale. 18. Giuoco di parole tra i due significati della parola li: «castagno» e «timore». 19. Kuan Chung, di cui si parlerà anche in seguito e non sempre con giudizi negativi, fu il famoso ministro del duca Huang di Ch’i, che egli elevò alla potenza di capo dei feudatari (vedi CS 34). Il commento spiega che «egli non conobbe la Via del grande studio dei santi e dei virtuosi. La sua condotta fu limitata, i suoi modelli meschini; non fu in grado di correggere la sua persona e di perfezionare la sua virtù, in modo da far prevalere la Via regale». In sostanza, la scuola confuciana rimprovera a Kuan Chung di non essersi adoperato virtuosamente in modo da rendere il suo principe degno di diventare imperatore, ma di averlo portato alla posizione di egemone con l’intrigo e la violenza. 20. Poiché, essendo privo di egoismo, il caritatevole ama ed odia in conformità dei princìpi celesti. In proposito vedi anche GS 10. 21. Il commento spiega che ciascuno eccede secondo la classe a cui appartiene: cioè da uomo saggio o da uomo volgare. L’uno eccede in rispetto, l’altro in disdegno; l’uno in amore, l’altro in indifferenza. 22. Le parole usate nel testo sono chung e shu. Il commento spiega: «Far del proprio meglio dicesi chung (lealtà), estendere sé stesso (agli altri) dicesi shu (reciprocità)». 23. Il commento spiega che giustizia è ciò che s’addice ai princìpi celesti, profitto ciò che le passioni umane bramano. 24. Il commento non dice per quali motivi il discepolo Kung-yeh Ch’ang fosse legato con corde nere, cioè fosse in prigione. Il discepolo Nan Jung (Jung il meridionale), in seguito nominato anche Nan-kung K’uo, era fratello maggiore di Meng I-tzu ed era detto Nan (meridionale) o Nan-kung (del palazzo meridionale) dal luogo dove abitava. 25. Vaso di giada ornato di pietre preziose, detto hu sotto gli Hsia e lien sotto gli Yin, usato per offrire il miglio nel sacrificio nel tempio ancestrale. Paragonando Tzu-kung ad un oggetto adatto ad un solo uso, Confucio mostra di non ritenerlo dotato di molte capacità. Addolcisce, però, la severità del suo giudizio facendo cadere il paragone su di un vaso nobile e prezioso. 26. Mostrandosi compiaciuto per il riconoscimento del suo coraggio, Tzu-lu aveva dato prova di poco giudizio, in quanto non aveva compreso che le parole del Maestro erano una mera recriminazione per la corruzione dei tempi. 27. Il comportamento sovra descritto era considerato la manifestazione esteriore della virtù. Evidentemente Confucio non parlava a tutti i discepoli delle questioni più elevate della sua dottrina. Cfr. quanto egli dice al n. 138.

28. Wên-tzu, che potrebbe tradursi «il dotto», era il titolo postumo di K’ung Yü, dignitario del regno di Wei e contemporaneo di Confucio. 29. Tzu-ch’an, nome proprio di Kung-sun Chiao, primo ministro dello stato di Chêng, era un uomo di vasta cultura e un grande statista. 30. Trattasi del dignitario del regno di Ch’i, altrove nominato Yen Ying (vedi BC 7). 31. Tsang Wên-chung (m. 617 a. C.) era stato un importante ministro di Lu per oltre mezzo secolo. Egli credeva che la tartaruga, trattata con tanto onore, avrebbe fatto discendere su di lui i favori celesti, evidentemente non tenendo in alcun conto ciò che nel suo tempo si riteneva certo, e cioè che la tartaruga poteva vaticinare gli eventi futuri ma non influenzarli. 32. Tanto T’sui-tzu che Ch’ên Wen-tzu erano dignitari dello stato di Ch’i. Negli annali Primavera ed Autunno, nel 280 anno del duca Hsüan di Lu (548 a. C), è annotato: «In estate, nel giorno i-hai della quinta luna. T’sui Chu uccise il suo principe Kuang (Chuang)». Chuang fu ucciso perché intratteneva una relazione adulterina con la moglie di T’sui Chu. 33. Ning Wu-tzu servì nelle magistrature sotto l’ordinato governo del duca Wên di Chin, uno dei capi dei feudatari (vedi CS 35). Rimase al suo posto anche nel disordine che si verificò sotto il successsore duca Ch’êng, a differenza dei saggi dell’epoca, i quali in simili circostanze si ritiravano a vita privata. Con questa sua «follia» egli riuscì a riportare il principe sul trono, che in precedenza aveva perduto, e a ristabilire l’ordine nel regno. 34. Queste parole furono probabilmente pronunciate quando Chi K’ang-tzu, invece di richiamare Confucio, come gli aveva consigliato il padre morente, chiamò al governo il discepolo Jan Chiu (vedi BC 22). Confucio fu lieto di mandare il discepolo, ma si convinse che la sua opera nel governo attivo non sarebbe stata richiesta da alcun principe. Per questo rivolse il suo pensiero ai discepoli meno dotati, che non aveva condotti con sé nelle sue peregrinazioni, e desiderò tornare a Lu per dedicarsi all’insegnamento affinché la sua dottrina potesse essere diffusa da uomini virtuosi. Trascorsero però molti anni prima che egli realizzasse tale suo desiderio. 35. Sui due personaggi vedi CS 25. 36. Probabilmente la lieve mancanza del cittadino di Lu, Wei-shêng Kao, che faceva spicco unicamente perché egli era sulla bocca di tutti per la sua rettitudine, fu di aver dato l’aceto come proprio, senza informare il richiedente che proveniva dal vicino. 37. Di Tso Ch’iu-ming il commento dice soltanto che era un antico erudito. Sembra, tuttavia, che fosse lo storiografo dello stato di Lu, autore del Tso Chuan (Commento di Tso) agli annali Primavera ed Autunno. 38. Nella posizione in cui sedeva il principe: cioè, sarebbe degno d’esser principe. Yung è il nome dato del discepolo Jan Chung-kung. 39. Tzu-sang Po-tzu, cittadino di Lu, in casa non portava né tunica né berretto. Confucio l’aveva biasimato dicendo che egli voleva che gli uomini vivessero come i cavalli e i buoi. 40. Il discepolo Yüan Szu fu intendente di Confucio quando costui era ministro nel regno di Lu. Il frumento non doveva essere rifiutato perché costituiva il compenso della sua opera. 41. All’epoca del Chou, nei sacrifici venivano scartati gli animali dal mantello pezzato, mentre erano particolarmente apprezzati quelli dal mantello baio e dalle corna regolari. Il discorso vuol dire che non bisogna disprezzare il discepolo Chung-kung per le colpe del padre, uomo vizioso e spregevole. 42. La mancanza di elementi di riferimento nel testo non consente di stabilire se l’offerta del governatorato della città di Pi al discepolo Min Tzu-chien sia stata fatta anteriormente o posteriormente alla ribellione di Kung-shan Pu-niu e lo smantellamento delle fortificazioni della città (vedi BC 9 e 12). Comunque, quella particolare magistratura non doveva essere gradita ai discepoli di Confucio, molti dei quali — spiega il commento — erano avversi ad entrare al servizio della famiglia Chi. Min Tzu-chien, nel rifiutare l’offerta, si dichiara addirittura disposto a varcare il confine, il fiume Wên, per rifugiarsi nel vicino stato di Ch’i.

43. Confucio non entrò nella stanza poiché Po-niu, che forse era ammalato di lebbra, aveva fatto disporre il suo letto anziché sul lato settentrionale, secondo l’uso in caso di malattia, sul lato meridionale della stanza, come per la visita d’un principe, al quale in tal modo era consentito di tenere il viso rivolto a meridione, nella posizione che assumeva a corte. Confucio non volle accettare tale eccesso di cortesia. 44. Secondo la scuola confuciana è da saggi studiare per il proprio perfezionamento e perché tale è il dovere dell’uomo; è da uomini volgari studiare per conquistare l’altrui considerazione e il proprio materiale vantaggio. 45. Nel decimo anno del duca Ting (500 a. C), l’esercito di Ch’i aveva invaso Lu (vedi BC 11). L’episodio narrato nel testo si riferisce alla battaglia combattuta, non lungi dalla capitale, fra l’invasore e le truppe di Lu, che furono messe in rotta. Meng Chih-fan, dignitario di Lu, era rimasto indietro per resistere al nemico ed impedirgli di distruggere il suo esercito. 46. T’o, dignitario del regno di Wei, è qualificato oratore in quanto aveva l’incarico di far l’elogio degli avi nel tempio ancestrale, di rivolger loro le preghiere e di trasmettere le loro risposte. Ch’ao, celebrato per la sua bellezza, era figlio del duca di Sung e fratello di Nan-tzu, moglie del duca di Wei (vedi BC 17), con la quale aveva avuto rapporti incestuosi. Confucio lamenta che la sua generazione corrotta ama l’adulazione più della rettitudine e la bellezza più della virtù, tanto che chi non ha la bellezza e la capacità di adulare non sfugge al suo odio. 47. L’aggettivo «manierato», che mi sembra più adatto a rendere il senso della frase, non traduce esattamente la parola shih (storico), usata nel testo. Il commento spiega: «Shih è colui che ha sempre in mano libri letterari, molto apprende e pratica, ma spesso difetta di sincerità». 48. Con questa frase Confucio lamenta la discrepanza tra nome e sostanza. Per meritare tal nome un figlio deve praticare la pietà filiale, un ministro esser fedele al principe, e via dicendo. Altrimenti tutto sarà come un kou (coppa angolare) senza angoli, cioè non un kou. 49. Sull’episodio della visita di Confucio a Nan-tzu, dissoluta moglie del duca Ling di Wei, vedi BC 17. 50. Il vecchio P’êng, così chiamato dal suo feudo di Ta P’êng nel regno di Han, era un mitico virtuoso discendente dell’imperatore Chuan Hsü dell’epoca predinastica. Di cognome si chiamava Ch’ien e di nome K’êng. Si dice che verso la fine della dinastia Yin avesse settecento anni e non sentisse ancora il peso della vecchiaia. 51. Il pacchetto era formato da dieci fette di carne secca. Era usanza che nel far visita a qualcuno si portasse un dono: un pacchetto di carne secca era il dono minimo. Il discorso sta a significare la volontà di Confucio di estendere il suo insegnamento a chiunque volesse riceverlo, purché mostrasse la serietà del suo desiderio con il rispetto dell’etichetta. 52. Tre armate, di 12.500 uomini ciascuna, formavano l’esercito di un grande stato. L’esercito dell’imperatore era costituito da sei armate, quello di un grande stato da tre, quello degli stati medi da due, quello dei piccoli stati da una armata. Sentendo lodare Yen Yüang per il senso dell’opportunità, Tzu-lu, noto come uomo ardito, con la sua domanda vuole strappare al Maestro un elogio per il proprio coraggio, ma non ottiene la lode ambita perché Confucio aveva una diversa concezione del coraggio. 53. È la citazione di un’ode (II, 42, 6): «Non ardiscono affrontare le tigri a mani nude, non ardiscono attraversare i fiumi a guado». 54. Cioè al duca Chê, succeduto al nonno duca Ling, che teneva il trono in contrasto con il padre K’uai-kuei. Egli aveva chiesto a Confucio di entrare nel governo (vedi BC 25). 55. Su Po-i e Shu-ch’i vedi CS 25. 56. Shê era un distretto del regno di Ch’u, il cui governatore, Ch’ên Chuliang, si era attribuito il titolo di duca (vedi BC 23). 57. Sul pericolo corso da Confucio ad opera di Huan Tui vedi BC 18. 58. In gioventù Confucio era povero e spesso doveva procacciarsi il cibo con la caccia e la pesca

(vedi BC 3). Il testo vuol dimostrare che, anche in tali circostanze, egli dava prova della sua benevolenza verso le creature. 59. Il duca Chao di Lu (sul trono 541-510) aveva fama di essere conoscitore ed osservante dei riti. Le famiglie dei feudatari di Wu e di Lu appartenevano a due rami collaterali della famiglia imperiale, di cui portavano lo stesso cognome Chi, in quanto discendevano l’una da T’ai-po e l’altra dal duca Chou, rispettivamente prozio e fratello del re Wu (vedi CS 15 e 26). Il matrimonio tra persone dello stesso cognome era proibito dai riti (esogamia, divieto dell’endogamia). Nelle Memorie sui Riti (I, pt. I, 3, 38) è detto: «Nel toglier moglie non si prende (una donna) dello stesso cognome». Per questo, il duca Chao aveva detto che la moglie si chiamava non Chi, quale era il suo vero cognome, ma Tzu, come se fosse una dama della famiglia di tale cognome feudataria di Sung. Confucio era pienamente consapevole dell’infrazione ai riti commessa dal principe del suo paese, ma per lealtà non volle ammetterlo davanti ad uno straniero e preferì assumersi il biasimo del finto errore. 60. Chu Hsi commenta: «La preghiera è pentimento per gli errori e proponimento di migliorarsi, per ottenere l’aiuto degli esseri spirituali. Se non vi sono tali motivi, la preghiera non è necessaria. Il santo (Confucio) non aveva commesso eccessi e non aveva bisogno di migliorarsi, la sua condotta era stata in armonia con le intelligenze spirituali. Perciò dice: Ch’iu prega da tanto tempo (cioè la mia preghiera è stata continua)». 61. T’ai-po, insieme al fratello Chung-yung, si ritirò affinché il feudo di Chou passasse al terzo fratello Chi-li e poi al figlio di costui Ch’ang, noto come Wên Wang, che dette inizio alla riforma dell’epoca Chou (vedi CS 15). In realtà T’ai-po rinunciò al piccolo feudo di Chou, ma per Confucio egli rinunciò ad essere il probabile progenitore della famiglia imperiale. 62. Per constatare che non li aveva dannegggiati, come prescritto dalla pietà filiale (vedi PF 1). 63. Sull’ode Kuan Tsu vedi n. 60. 64. Per i cinque ministri di Shun vedi CS 5, per i dieci del re Wu vedi CS 21. La frase citata è tratta dal Libro dei Documenti (V, 1, pt. II, 6). 65. Le epoche T’ang e Yü sono quelle di Yao e di Shun (vedi CS 4 e 5). 66. Sul pericolo corso da Confucio nella città di Kuang vedi BC 16. 67. Sulla fenice e sui diagrammi vedi CS 1 e 2. 68. Tenere un ministro di casa era privilegio degli alti ufficiali dello stato. Tra l’altro, in caso di morte del dignitario il ministro si occupava delle esequie. In quell’epoca Confucio non rivestiva alcuna carica ufficiale e pertanto non gli spettava di tenere un ministro di casa. 69. In modo indiretto Tzu-kung rimprovera il Maestro di tenere inutilizzate le sue capacità senza cercare incarichi di governo. Confucio si dichiara pronto a metterle a disposizione di chiunque le richieda, ma non ad offrirle. 70. Sulla suddivisione del Libro delle Odi vedi Appendice. Confucio afferma qui di aver apportato correzioni alla musica con cui venivano cantate le odi di tre sezioni di quel Lioro: Hsiao Ya, Ta Ya e Sung. 71. Il commento spiega che il discorso si riferisce al succedersi incessante del corso della natura, di cui il saggio si fa un modello per stimolarsi senza tregua al raggiungimento del più alto grado di perfezione. Sulla diversa interpretazione di Mencio vedi ME 107. 72. La parola usata nel testo è sê, che significa tanto «colore» quanto «bellezza». L’ultima frase potrebbe tradursi anche «come si ama un bel colore», con riferimento a quanto detto in GS 6. Il discorso è da porsi in relazione ad un episodio che ebbe luogo durante la permanenza di Confucio nello stato di Wei: il duca Ling passò in carrozza per le vie della città avendo al suo fianco la moglie Nan-tzu e facendosi seguire da un’altra carrozza in cui era Confucio, con l’evidente intenzione di menar vanto d’avere al suo seguito un personaggio così illustre. Confucio constata amaramente che la sua virtù è tenuta in minor considerazione della bellezza muliebre. 73. Citazione dell’ode I, 33, 4.

74. Il significato della frase è: in tempi facili l’uomo volgare può anche apparire simile al saggio, ma in tempi difficili il saggio si distingue per la sua fermezza e costanza. 75. Citazione di una delle odi non comprese tra quelle scelte da Confucio. 76. Per inchinarsi e salutare, cioè sono andati via. 77. Il kuei era una tavoletta oblunga di giada, di varia forma e grandezza a seconda del rango, che l’imperatore conferiva ai feudatari come simbolo di dignità e di autorità. L’atteggiamento di Confucio in questa circostanza è esattamente quello prescritto dall’etichetta (cfr. Memorie sui Riti, I, pt. II, 1, 3)78. Erano considerati «corretti» i cinque colori semplici: giallo, rosso, azzurro, bianco e nero. I colori intermedi non erano «corretti». Ho tradotto con «violetto» la parola kan, che indica un «azzurro profondo mescolato di rosso»: era il colore usato nel periodo della purificazione; con «perso» la parola tsou, che indica un rosso scuro ottenuto immergendo la stoffa tre volte nella tinta rossa e due volte nella tinta nera: era un colore degli ultimi due anni del lutto triennale; con «scarlatto» e «purpureo» le parole hung e tzu, che indicano due toni intermedi del rosso: erano usati per i vestiti delle donne e delle bambine. 79. Sull’interpretazione del testo, palesemente lacunoso, i commentatori sono discordi. Secondo alcuni l’ultima parte dovrebbe tradursi: «Tzu-lu (non avendo compreso le parole del Maestro) la prese. Confucio l’annusò tre volte e si alzò». 80. Perché in lui la pietà filiale traspariva all’esterno ed era visibile a tutti. 81. Sul kuei vedi nota 77 al n. 240. I versi di cui è cenno nel testo sono dell’ode III, 22, 5. Dicono: «Un difetto in un bianco kuei può essere limato, ma nulla si può fare per un difetto nelle tue parole». 82. Sulla morte di Yu (Tzu-lu) vedi BC 30. 83. Il rimprovero del Maestro si riferisce al genere di musica suonata da Tzu-lu. Egli traeva dal suo strumento suoni imitanti le grida dei barbari settentrionali nei combattimenti e nei massacri, suoni che mal si confacevano ad una scuola dove s’insegnava l’armonia e il giusto mezzo. Poi il Maestro mitiga le sue parole rilevando i progressi compiuti da Tzu-lu nella Via. 84. Sulla questione vedi IM 4. 85. Il signor Chi è Chi K’ang-tzu, dignitario di Lu, e Chiu il discepolo Jan Chiu, suo intendente (vedi BC 22). 86. Chi Tzu-jan era il fratello minore di Chi K’ang-tzu. In questo dialogo mena vanto del fatto che la sua casata ha al suo servizio i due discepoli di Confucio, Tzu-lu e Jan Chiu. 87. Poiché se non è prudente nel parlare le parole possono essere più grandi delle azioni, che sono difficili. Il discepolo Niu era fratello minore di quel tale Huang Tui che aveva tentato d’uccidere Confucio (vedi BC 18). Il loro cognome era Hsiang, ma usavano anche quello di Huang quali discendenti del duca Huang di Ch’i. Nel testo Niu viene chiamato Szu-ma, come se tale fosse il suo cognome. In questo caso, Szu-ma (lett.: prefetto dei cavalli = ministro della guerra) era, invece, l’appellativo dell’ufficio che si tramandava nella sua famiglia. I discorsi del presente dialogo e di quelli seguenti riflettono l’ansia di Niu per la sorte dei fratelli che, essendosi ribellati nel regno di Sung, correvano pericolo di morte. 88. Secondo il commento di Ch’êng-tzu, la citazione, tratta dall’ode II, 34, 3, sarebbe interpolata. Per sua giusta collocazione dovrebbe far parte del discorso di cui al n. 432. 89. Il discorso è già stato citato in GS 4, ad illustrazione del quale è stata riportata parte del commento al presente paragrafo. Il commento stesso dice inoltre: «Tzu-lu con mezza parola riusciva a risolvere una lite (vedi n. 290), ma non sapeva governare con i riti e la cedevolezza e, quindi, non era capace di far si che il popolo vivesse senza controversie. Perciò vengono ancora ricordate le parole di K’ung-tzu, dalle quali è dato di vedere che il santo non riteneva difficile giudicare le controversie, ma considerava prezioso far si che il popolo non avesse controversie (mediante il perfezionamento e l’elevazione)».

90. La parola usata nel testo è ta (giungere al successo). Chu Hsi spiega: «Ta significa che per la virtù ha la fiducia altrui e nell’agire tutto ottiene». 91. Il commentatore annota: «Studiando per formarsi delle amicizie, la Via si fa sempre più chiara; prendendo ciò che v’è di buono (nelle amicizie) per aiutare la carità, la virtù si fa ogni giorno più vicina». 92. Si tratta del duca Chê di Wei (vedi BC 25). Il dialogo viene datato al 10° anno del duca Ai di Lu (485 a. C.), mentre Confucio si recava da Ch’u a Wei. Confucio era stato invitato da Chê ad entrare nel governo: Tzu-lu credeva che il Maestro avrebbe accettato l’incarico. 93. Il testo dice chêng ming, lett.: «rettificare i nomi». Nel regno di Wei esisteva una situazione che toglieva al nome di figlio ogni suo significato; infatti K’uai-kuei era colpevole per aver attentato alla vita della madre e provocato la collera del padre; Chê si opponeva al padre, K’uai-kuei, sedendo sul trono che l’altro pretendeva (vedi BC 25). Di qui i propositi di riforma di Confucio. 94. Confucio parla dei governi in quanto questi riflettono le condizioni delle casate feudatarie. I due regni gli appaiono fratelli innanzi tutto perché i loro principi erano della stessa famiglia, discendendo dal duca Chou gli uni e dal suo fratello Fêng (K’ang Shu) gli altri; in secondo luogo perché, in quel momento, ambedue erano corrotti e disordinati. 95. Nel testo le frasi con cui Ching accoglie il progressivo incremento della sua fortuna suonano: kou ho… kou wan… kou mei. Secondo Chu Hsi la parola kou (semplicemente, meramente) sta qui ad indicare l’indifferenza del personaggio per la sua ricchezza. La mia traduzione tenta di esprimere questa contemplazione distaccata dei beni materiali. 96. Jan Yu tornava dal palazzo di Chi K’ang-tzu, di cui era intendente. Era il rito che gli alti ufficiali, anche se non in carica, fossero informati degli affari di stato. Ma Chi K’ang-tzu governava dispoticamente il regno di Lu: molte questioni di governo, quindi, non le sottoponeva ai consiglieri nella corte ma le deliberava nella sua casa con i suoi intendenti. 97. Nel Libro dei Documenti, al capitolo I consigli di Yü il Grande (II, 1, 2) è detto: «Se il sovrano è compreso delle difficoltà della sua sovranità, se i ministri sono compresi delle difficoltà del loro ministero, il governo è bene ordinato e il popolo dalle chiome nere è stimolato alla virtù». 98. Sul duca di Shê vedi nota 56 al n. 165. 99. L’espressione usata nel testo è: «uomo shao da un tou». Il commento spiega: «Tou era una misura di capacità che valeva dieci shêng (cioè circa dieci litri), shao era un cestello di bambù che conteneva un tou e due shêng (cioè circa dodici litri). “Uomini shao da un tou” significa: uomini dalle capacità meschine e ristrette». Mi sembra che l’espressione sia assai più ricca di significato. Vuol dire che i governanti del tempo, del tipo dei membri delle Tre Casate di Lu, sono vasi, cioè utensili adatti ad un solo uso, i quali ricevono il loro contenuto dagli altri, e sono altresi caratterizzati da una capacità inferiore a quella dell’usuale recipiente. 100. Citazione del Libro delle Mutazioni, illustrazione del diagramma hêng (costanza). 101. Hsien è il nome dato del discepolo Yüan Szu, sul quale vedi n. 122. Quella sopra riportata è la traduzione letterale e più ovvia del testo. Chu Hsi propone la seguente interpretazione: «Quando nello stato si segue la Via (essere incapace di agire e) percepire gli emolumenti e quando nello stato non si segue la Via (essere incapaci di ritirarsi in solitudine per perfezionarsi e) percepire gli emolumenti, è vergogna». 102. Su I ed Ao vedi CS 7. Su Chi (cioè Hou Chi) e sull’imperatore Yü vedi CS 4 e 6. Hou Chi giunse figuratamente all’impero con l’ascesa al trono dei suoi discendenti della dinastia Chou. 103. Tzu-ch’an, già nominato nel discorso precedente e al n. 107, era il primo ministro del regno di Chêng. Confucio lo giudicava illiberale nel governo ma amante del prossimo: per questo lo definisce benevolo. 104. Tzu-hsi, primo ministro di Ch’u, riformò l’amministrazione ma non riuscì a sopprimere l’usurpazione del titolo di wang (re) operata dal suo principe. Fu colui che sconsigliò il re Chao di

Ch’u di dare un feudo a Confucio (vedi BC 24). 105. Il personaggio era il capo della famiglia Meng di Lu. Chao e Wei erano due potenti famiglie di Chin (vedi CS 39). 106. Il primo personaggio, un dignitario di Wei, si chiamava Kung-sun Pa. Kung-shu (zio del duca) era l’appellativo della famiglia e Wên-tzu (il dotto) il suo soprannome. Kung-ming Chia era un cittadino di Wei. 107. Tsang Wu-chung, dignitario di Lu, dopo aver ricevuto in feudo la città di Fang aveva offeso il principe ed era fuggito in un altro stato. Era poi tornato a Fang, inviando al principe dei messi recanti le sue umili scuse, l’implorazione di lasciare il feudo ad un membro della sua famiglia e la promessa che, dopo di ciò, si sarebbe definitivamente allontanato. Nel messaggio era implicita la minaccia che, se la domanda non fosse stata accolta, egli sarebbe rimasto a Fang, mettendosi così in rivolta. 108. Huang e Wên furono due capi dei feudatari (vedi CS 35). 109. Sull’episodio vedi CS 34. 110. Senza che costui si risentisse nel vedersi affiancato dal suo antico dipendente. Su Kung-shu Wên-tzu vedi n. 346. Shen era divenuto dignitario del regno di Wei su raccomandazione di Wên-tzu, il quale ne aveva grande stima per le sue capacità. Confucio loda Wên-tzu per aver dimostrato tre qualità del sapiente: conoscere gli uomini, dimenticare sé stesso (cioè il suo interesse), servire il principe dandogli un uomo di talento. 111. Chung-shu (lett.: secondo zio) è un appellativo non un cognome. Il personaggio è K’ung Yü, o K’ung Wên-tzu, di cui al n. 106. Su Wang-sun Chia e l’oratore T’o, vedi rispettivamente i nn. 53 e 133. 112. Il dignitario di Ch’i, Ch’ên Ch’êng-tzu, di nome Hêng, uccise il suo duca nel 481 a. C.: fu questo il primo atto dell’usurpazione da parte della potente famiglia Ch’ên, che un secolo più tardi (386) doveva occupare il trono di Ch’i (vedi CS 40). 113. Su Ch’ü Po-yü, dignitario di Wei, vedi BC 17. 114. Citazione del Libro delle Mutazioni, illustrazione del diagramma kên. La frase si riferisce a quanto detto nella sentenza precedente. AI riguardo vedi anche 1M 14. 115. Wei-shêng Mu era probabilmente un saggio ritiratosi dal mondo. Il fatto che si rivolgesse a Confucio chiamandolo col suo nome dato fa supporre che fosse più vecchio di lui. 116. Famoso cavallo dell’antichità, che in una giornata era capace di percorrere mille li. 117. Kung-po Liao, cittadino di Lu, cercava di porre in cattiva luce presso il suo signore il discepolo Tzu-lu, allora intendente di Chi Huang-tzu (vedi BC 12). 118. La frase deve intendersi riferita a quanto detto nella precedente sentenza. Chu Hsi dice di ignorare a quali persone abbia voluto alludere il Maestro. Sommessamente suggerirei che si tratti dei sette personaggi nominati al n. 468. 119. Strumento musicale composto di squadre di pietra appese per il vertice che si percuotevano. 120. Citazione dell’ode I, 34, 1. Il discorso è quello di un uomo ritiratosi dal mondo, il quale dal tono della musica aveva intuito lo stato d’animo doloroso di Confucio. Il senso delle sue parole è: poiché tutti t’ignorano, non insistere, sia nel suonare che nel tentare di riformare il mondo, adeguati alle circostanze, fa come me, che non mi preoccupo più dei problemi di questa generazione. 121. Kao Tsung è il titolo postumo di Wu Ting, ventesimo imperatore della dinastia Yin (vedi CS 14). La citazione presenta qualche variante dal testo originario. 122. Yüan Jan, vecchio conoscente di Confucio, aveva aderito alle dottrine eterodosse ed aveva rigettato del tutto le regole dei riti: si dice che avesse cantato alla morte della madre. 123. Sull’episodio vedi BC 21. Confucio e i discepoli soffrirono la fame per sette giorni. La forza d’animo dei discepoli crollò, mentre Confucio non perse la sua serenità: suonò il liuto e cantò. 124. Secondo Chu Hsi il discorso deve porsi in relazione con quanto detto al n. 81. In quel caso,

però, si parlava della pratica, in questo della conoscenza. 125. Su Ch ü Po-yü vedi BC 17. 126. Yen Yüang (Hui) limita umilmente la sua domanda al governo di uno stato, ma il Maestro, in omaggio alle grandi capacità del discepolo, risponde indicando come governare l’impero. 127. Secondo Confucio bisognava preferire: il calendario degli Hsia, perché faceva coincidere l’inizio dell’anno con il risveglio primaverile della vita (i Chou facevano cominciare l’anno alla luna nuova precedente il solstizio d’inverno, gli Shang una lunazione dopo e gli Hsia due lunazioni dopo di quella, cioè in primavera); la carrozza degli Yin, perché di semplice legno e non di materiali pregiati come quella dei Chou; il berretto dei Chou, perché più elegante. La musica shao era quella dell’imperatore Shun. I canti del regno di Chêng sono 21 odi comprese nella I sezione del Libro delle Odi. 128. Sul significato del discorso vedi n. 222. 129. Sul dignitario Tsang Wên-chung di Lu vedi n. 109. Hui di Liu-hsia, un funzionario di Lu, si chiamava in realtà Chan Huo, di nome proprio Ch’in. Il nome Hui (benevolo) gli fu dato dopo la sua morte. Sembra che l’appellativo «di Liu-hsia» (lett.: sotto il salice) gli derivasse da una città da cui traeva le sue rendite o forse da un salice che ombreggiava la sua casa. 130. Chu Hsi spiega: «Nulla hanno per penetrare nella virtù, perciò ne verranno loro calamità e danni». 131. Chu Hsi così spiega: «Il discorso vuol direa la ragione per cui non biasimo e non lodo nessuno è questo popolo, in virtù del quale (i fondatori de) le tre dinastie approvarono ciò che per esso era bene ed odiarono ciò che per esso era male. Perciò anch’io, oggi, non posso render vano il suo senso del bene e del male». In parole più chiare: chi può biasimare e lodare è soltanto il popolo con il suo senso sociale del bene e del male. Al riguardo cito una frase del Libro dei Documenti (IV, 3, 2): «L’augusto Dio Supremo conferì al popolo soggetto il senso morale, conformandosi al quale esso ha una natura perseverante». 132. Perché le moltitudini non sanno odiare ed amare gli uomini come il caritatevole (vedi n. 69). 133. Il commento spiega che il discorso è diretto a coloro che pensano senza studiare. 134. Cioè, non vi sono le categorie dei buoni e dei cattivi. Chu Hsi commenta: «Per natura tutti gli uomini sono buoni. Se si diversificano nelle categorie dei buoni e dei cattivi, ciò dipende dai guasti dell’attività dello spirito vitale (le passioni). Perciò, se il saggio diffonde l’istruzione, tutti gli uomini tornano alla bontà e non si deve più parlare della categoria dei cattivi». 135. Chuan-yü era un piccolo stato dipendente compreso nel territorio di Lu. Chi K’ang-tzu voleva conquistarlo per estendere la sua zona d’influenza (vedi BC 6). Il discepolo Jan Yu (Jan Chiu) era suo intendente, insieme all’altro discepolo Tzu-lu (Chi Lu). 136. Città feudo della famiglia Chi (vedi BC 12). 137. Chu Hsi spiega: «Il signor Chi voleva prendere Chuan-yü temendo la scarsità della popolazione e la povertà. Ma in quel tempo egli si era impadronito dello stato e il duca di Lu era privo di popolazione: così ciascuno non stava al sue posto. Quando il principe è debole e il ministro forte, tra di loro nasce il malanimc ed allora non v’è tranquillità. Se ciascuno sta al suo posto, non c’è timore di povertà ma c’è armonia; se c’è armonia non c’è timore di scarsità della popolazione e c’è tranquillità. Quando v’è tranquillità non sorgono sospetti ed odi reciproci e non v’è timcre di rivolgimenti». 138. La ragione è detta nel precedente discorso. Sull’usurpazione di cui è cenno nel testo vedi BC 6. 139. Sull’argomento vedi IM 20. 140. Il discorso, che viene considerato lacunoso, dovrebbe essere introdotto dalla frase: «Confucio disse…». Inoltre, secondo il commento di Ch’êng-tzu, all’ultima domanda dovrebbe precedere la citazione dell’ode (II, 34, 3): «Invero non è per la ricchezza, ma solo per la diversità», che sarebbe stata interpolata al n. 288.

141. «Uomo (o donna) di scarsa virtù» era l’appellativo di umiltà con cui i feudatari indicavano sé stessi invece di dire «io». 142. Su Yang Huo, ministro ribelle della famiglia Chi, vedi BC 8. A quell’epoca Yang Huo aveva usurpato il potere del suo padrone Chi Huang-tzu: per consolidare la sua posizione avrebbe voluto che Confucio entrasse nel governo. 143. Per l’opera del discepolo Tzu-yu, allora governatore di Wu-ch’êng, il quale aveva convertito gli abitanti ai riti e alla musica. 144. La frase significa: governi una piccola città con gli stessi sistemi che useresti per governare uno stato? 145. Il personaggio, detto anche Kung-shan Pu-niu, era il ministro ribelle della famiglia Chi (vedi BC 9). 146. Così, all’epoca, era detta la dinastia Chou, dopo il trasferimento della capitale ad oriente della precedente (vedi CS 30). 147. Pi-hsi era un ribelle governatore della città di Chung-mu, appartenente alla famiglia Chao del regno di Chin (vedi BC 20). 148. In cinese l’espressione «zucca da appendere» (p’ao-hsi) sta a significare «uomo inutile». 149. Annota Chu-Hsi: «I sei precetti adornano la virtù. ma se li si ama soltanto, senza studiare per chiarirne il principio, allora ciascuno di essi è offuscato. Stoltezza è la possibilità di cadere in reti e trabocchetti (cfr. IM 7), instabilità significa spaziare in alto e in largo senza permanere in nulla (cfr. GS 3)». 150. Chou Nan e Shao Nan sono due capitoli della I sezione del Libro delle Odi e comprendono i carmi da 1 a 25. Nella «Piccola Prefazione» al suddetto libro è scritto: «Chou Nan e Shao Nan mostrano la via del corretto inizio e la base della trasformazione operata dai re». 151. Traduco con «ipocrita» la parola yüan (sincero, onesto) in merito alla quale Chu Hsi, altrove (vedi ME 259), annota: «Yüan significa: uomo prudentemente sincero». Dopo aver chiarito che «da villaggio» significa «volgare, comune», egli così commenta il presente discorso: «È sincero da villaggio colui che segue la corrente e si unisce alla corruzione per essere adulato dalla sua generazione: perciò, tra i villici egli solo ha l’appellativo di sincero. Per la sua apparenza di virtù, che non è virtù ma anzi porta confusione nella virtù, il Maestro lo chiama ladro di virtù e lo detesta profondamente». Sulla questione vedi anche ME 259. 152. Ju Pei, cittadino di Lu, aveva studiato i riti funebri presso Confucio. Successivamente, però, dovette rendersi colpevole di qualche grave mancanza perché il Maestro lo trattasse con tanta ruvidezza. 153. In proposito vedi PF 18. 154. La persona di cui si parla è Chou Hsin, ultimo imperatore della dinastia Yin. Sul visconte di Wei, suo fratello, su Chi-tzu e Pi-kan, suoi zii, vedi CS 22. 155. Il cerimoniale con cui il duca Ching si riprometteva di trattare Confucio non era irriguardoso. La partenza del Maestro, a cui fu riferito il discorso, fu probabilmente provocata dall’ultima frase. Sull’episodio vedi BC 7. 156. Sul riuscito tentativo di corrompere il regno di Lu e sul pretesto della partenza di Confucio vedi BC 14. 157. Chieh Yü si fingeva pazzo per non servire nei pubblici uffici in quei tempi di disordine. La fenice appariva quando nell’impero vigevano l’ordine e la virtù (vedi CS 2) e si teneva nascosta nei periodi di disordine. Accennando alla fenice, Chieh Yü intendeva riferirsi a Confucio, che avrebbe dovuto, secondo il suo consiglio, ritirarsi dalla vita pubblica. 158. I due personaggi erano dei saggi ritiratisi dalla vita pubblica. 159. I cinque cereali erano: il miglio, il miglio a pannocchia, il riso, il frumento e i legumi.

160. Su Po-i e Shu-ch’i vedi CS 25. Yü Chung è quel Chung-yung che si ritirò fra i barbari insieme al fratello T’ai-po (vedi CS 15). I I e Chu Chang non sono stati individuati dai commentatori. Su Hui di Liu-hsia vedi nota 129 al n. 392. Shao Lien era un barbaro orientale, ben istruito sui riti. 161. L’imperatore e i principi facevano eseguire della musica durante i pasti, per ognuno dei quali diverse orchestre, o anche la stessa orchestra, suonavano sotto la direzione di un diverso maestro. L’episodio è da datarsi, probabilmente, ai primi anni del duca Ai di Lu, dopo che Confucio aveva restaurato le regole della musica. Nella decadenza del regno di Lu, le suddette regole vennero sempre meno osservate: di qui la dispersione dei musicisti, che non vollero tollerare tale stato di cose. 162. Il duca di Lu, di cui qui si parla, era Po-ch’in, figlio del duca Chou, al quale questi affidò il feudo quando assunse la reggenza dell’impero (vedi CS 27). 163. Secondo alcuni commentatori i personaggi di cui sopra sarebbero vissuti all’epoca di Ch’êng Wang, secondo imperatore Chou; secondo altri sotto Hsüan Wang, undecimo imperatore. Si dice che fossero fratelli, nati dalla stessa madre in quattro coppie di gemelli. Ciò sarebbe suffragato dai nomi che, a due a due, contengono la parola po (fratello maggiore), chung (secondo fratello), shu (terzo fratello), chi (quarto fratello). Furono uomini di grande talento e virtù. 164. Ciu Hsi commenta che le idee di Tzu-hsia erano troppo ristrette e che, quindi, bene fece Tzuchang a censurarlo. Ma trova che anche Tzu-chang era in difetto, perché troppo si allontanava dal precetto del Maestro (vedi nn. 8, 388, 424). 165. Il discepolo Tzu-chang dava grande importanza alle esteriorità del comportamento, per cui si mostrava dignitoso e altero: di qui la sua difficoltà nei rapporti essenziali con gli altri. 166. Meng Chuang-tzu (m. 550 a. C.) era stato il capo della famiglia Meng di Lu poco prima della nascita di Confucio. Nei tre anni del lutto egli dette prova della sua pietà filiale nel modo detto nel testo verso il suo defunto padre, il virtuoso Hsien-tzu. 167. La citazione è tolta, con qualche variante, da vari passi del Libro dei Documenti (II, 2, 14-15). 168. La citazione è tolta, con qualche variante, da vari passi del Libro dei Documenti (IV, 3, 4-8). 169. La citazione è tratta, con varianti, dal Libro dei Documenti (V, 2, 7). 170. Per quanto il commento nulla dica al riguardo, con le parole tra parentesi ho interpretato il passo nel senso che è lecito imporre lavori al popolo quando esso è libero dai suoi impegni campestri e per opere di pubblica utilità. In tal modo, non perdendo il suo reddito e avvantaggiandosi delle nuove opere, esso non non si lamenterà.

BIOGRAFIA DI MENCIO

Le note che integrano la presente biografia sono del traduttore. Il nome di Mencio, come quello di Confucio, sono di invenzione ed uso europei: deriva dalla latinizzazione delle parole Meng-tzu (Mentius, Mencius), in cui è indicato il suo cognome Meng e il titolo tzu (maestro, filosofo). Il nome europeo Mencio significa, quindi, «il filosofo Meng». Nel testo tradotto ho usato questo nome soltanto al difuori dei discorsi, mentre nei discorsi ho rispettato il modo cinese di nominarlo. Nelle biografie dello Shih Chi è detto: 1. Meng Ko, cittadino di Tsou. Ko era il nome dato di Mencio. Secondo il Libro dei Han (Han Shu) il suo nome proprio era Tzu-chê ed anche Tzu-yü. Discendeva da un ramo, trasferitosi nel piccolo stato di Tsou, della già potente famiglia Meng Sun di Lu (vedi BC 6), decaduta, come le altre due, Chi Sun e Shu Sun, sotto il duca Ai. Nacque nel quarto anno di regno di Lieh Wang, trentunesimo imperatore della dinastia Chou, e cioè nel 372 avanti Cristo. Egli visse, quindi, nel periodo critico dell’epoca dei «Regni Combattenti» (vedi CS 39 e sgg.), poiché nel suo secolo si posero le premesse politiche delle lotte sanguinose degli ultimi decenni della dinastia Chou. Si dice che suo padre si chiamasse Chi, di nome proprio Kung-i, e che sua madre fosse una donna di cognome Chang. La storia nessuna notizia fornisce del padre, che forse morì quando Mencio era bambino (contra vedi ME 23), ma esalta la madre come modello di educatrice. Si narra che essa cominciasse ad educare suo figlio quando ancora lo portava nel seno, con alti pensieri e nobile condotta; che in seguito, scontenta del vicinato, tre volte cambiasse casa per sottrarre il piccolo Ko al cattivo influsso di un ambiente inadatto alla sua formazione spirituale e fermasse la sua dimora accanto ad una scuola pubblica. Una volta, essendosi il figlio mostrato svogliato nello studio, essa tagliò la tela che andava tessendo, ammonendolo che non avrebbe compiuto il suo dovere se egli stesso non avesse compiuto il suo: la lezione non dové più essere ripetuta.

2. Compì gli studi presso un discepolo di Tzu-szu. La Via gli fu compiutamente comunicata.

Nulla si sa sul maestro di Mencio, oltre alla notizia, sopra riportata, che era discepolo di Tzu-szu, nipote di Confucio (vedi BC 32). Secondo alcuni antichi scrittori cinesi, Mencio sarebbe stato allievo dello stesso Tzu-szu. La supposizione si dimostra inverosimile sol che si pensi che, essendo morto il figlio di Confucio, Po-yü, nel 483 (vedi BC 28), pur ammettendo che suo figlio Tzu-szu fosse nato in quell’anno, all’epoca in cui Mencio fu in età di ricevere un’istruzione avrebbe avuto 120-130 anni. Dai discorsi qui tradotti, i commentatori hanno rilevato che Mencio conosceva a fondo i cinque libri canonici (delle Mutazioni, delle Odi, dei Documenti, dei Riti, di «Primavera ed Autunno»). Aggiungo che conosceva sicuramente i «Dialoghi», che egli talvolta cita, e l’«Invariabile Mezzo», che gli fu trasmesso (vedi IM nota introduttiva) e che egli parafrasa (vedi ME 73). Non si hanno notizie nemmeno sulla sua vita familiare, per quanto è da tenersi certo che ebbe moglie e figli, i cui discendenti sono noti fino ai nostri giorni.

3. Postosi in viaggio, servì il re Hsüan di Ch’i. Non essendo il re Hsüan in grado di utilizzarlo, si trasferì a Liang. Il re Hui di Liang, non dando seguito ai suoi consigli, mostrò di considerarli vaghi e lontani (dalla realtà) e

inapplicabili agli affari.

L’ordine dei viaggi di Mencio, quale è riportato nel testo, ha formato oggetto di molte controversie fra gli storici. Chu Hsi annota: «Secondo lo Shih Chi Mencio giunse per la prima volta a Liang nell’anno i-yu (336 a. C.), 35° del re Hui di Liang. Ventitre anni dopo, nell’anno ting-wei (314), essendo il 10° anno del re Min di Ch’i, quelli di Ch’i attaccarono Yen, mentre Mencio era a Ch’i: perciò nel Ku Shih1 è detto che Mencio servì prima il re Hsüan di Ch’i e poi visitò i re Hui e Hsiang di Liang nonché il re Min di Ch’i. Il solo Mencio considera l’attacco a Yen un’impresa dell’epoca del re Hsüan e, pertanto, non si trova d’accordo con lo Shih Chi né con lo Hsün-tzu2. Ma il T’ung Chien3 ritiene che l’anno dell’aggressione a Yen fu il 19° del re Hsüan di Ch’i (314). In tal caso Mencio sarebbe andato prima a Liang e poi, giunto a Ch’i, avrebbe visitato il re Hsüan. Esaminate le diverse versioni, non ho trovato alcuna prova, di modo che non so quale sia quella giusta». Non è questa la sede per una critica approfondita dell’argomento, che richiederebbe ben altro impegno. Tuttavia, per l’intelligenza del libro qui tradotto, sembra necessario che io mi azzardi di tentare, per quanto è possibile, di dare qualche ordine alle peregrinazioni di Mencio. 4. A) Innanzi tutto ritengo che dagli episodi e dai discorsi descritti nel libro emergano alcuni elementi, che qui di seguito espongo, i quali rendono accettabile l’ipotesi adombrata dal Ku Shih, come sopra detto, e da altri ripresa (cfr. James LEGGE, Life of Mencius, in «The Chinese Classics», vol. II), secondo cui Mencio andò a Ch’i in due occasioni.

Primo gruppo di elementi: a) in un dialogo, verisimilmente databile al tempo del viaggio verso Ch’i, Mencio affermò: «A quarant’anni non provavo emozioni» (ME 25). Al momento, quindi, aveva superato quell’età. In un altro discorso, tenuto mentre abbandonava Ch’i, disse: «Da (la fondazione della dinastia de) i Chou ad oggi sono passati settecento e più anni» (ME 45). Non è precisato quanti anni fossero trascorsi dopo i settecento, ma sicuramente non si era giunti agli ottocento. Da questi dati, tenuto conto dell’anno (372) di nascita di Mencio e di quello (1122) dell’ascesa al trono dei Chou, si deve concludere che Mencio andò a Ch’i dopo il 333 e ne venne via prima del 323 (su quest’ultima data concorda anche J. LEGGE, op. cit.); b) prima di recarsi nella capitale si fermò nella città di P’ing-lu. L’arrivo di questo saggio, conosciuto solo di fama, doveva essere atteso con interesse ed apprensione, tanto che il re mandò a spiare che uomo fosse (ME 121) e un ministro gli inviò un dono propiziatorio (ME 165); c) i rapporti fra il re Hsüan e Mencio furono cordiali (ME 7 ed altri); d) Mencio accettò la carica di primo ministro (ME 38, 42, 166) e ne percepì lo stipendio (ME 42); e) quando partì da Ch’i, rinunciando all’ufficio perché il re non seguiva la sua Via (ME 42), il commiato fra Hsüan e il ministro dimissionario fu improntato a cortesia. Il re, anzi, tentò di trattenere Mencio nel regno come privato cittadino (ME 42); f) abbandonando Ch’i, sostò nella città di Chou (ME 43), dove rimase per tre notti, sperando che il re mutasse animo e lo richiamasse (ME 44).

Secondo gruppo di elementi: a) il tempo della permanenza di Mencio a Ch’i deve essere contenuto in un breve periodo intorno al 314, anno dell’attacco al regno di Yen (ME 46); b) ebbe con Hsüan un colloquio nella città di Ch’ung: al riguardo si può azzardare la supposizione che le parti volessero concordare le modalità della collaborazione di Mencio. Questi non fu soddisfatto dei risultati del colloquio e decise di non restare a lungo presso il re, ma poi si sentì in dovere di fermarsi nella contingenza della mobilitazione delle truppe (ME 46); c) i rapporti fra il re e Mencio non furono cordiali (ME 34), tanto che il saggio non volle esporsi ad un

possibile rifiuto pregandolo, come aveva fatto in una precedente occasione, di aprire i suoi granai al popolo durante una carestia (ME 245); d) non assunse una carica ufficiale (ME 34, 37), né percepì uno stipendio (ME 46); e) nulla si sa sul commiato fra Hsüan e Mencio: si può anche supporre che Mencio abbandonasse Ch’i dopo la morte (312?) di Hsüan, che forse seguì di poco la sollevazione del popolo di Yen contro l’occupante; f) allontanandosi da Ch’i si fermò nella città di Hsiu (ME 46). Tutti questi fatti mi appaiono significativi e sufficienti ad avvalorare l’ipotesi che Mencio fu a Ch’i in due distinti periodi e in situazioni nettamente dissimili. 5. B) Ritengo poi che, per giungere a qualche conclusione sugli spostamenti di Mencio, occorra far tesoro delle scarsissime date poste a nostra disposizione dalle avare cronache ed interpretarle in modo che in esse si inquadrino logicamente i fatti noti. Tengo quindi per ferme due date: quella del 336 per l’arrivo di Mencio a Liang e quella del 314 per l’attacco a Yen, sulle quali sembra che non vi siano contrasti. Altra data che appare attendibile, sulla scorta delle notizie fornite da Mencio, è quella del 332 a. C. per l’accessione al trono del re Hsüan, riportata anche da alcune cronologie della dinastia di Ch’i. Ho consultato in proposito lo Shih Chi, che fa risalire la suddetta accessione al 27° anno di Hsien Wang (342) e nella biografia di Meng-ch’ang Chün narra dei fatti del regno di Hsüan che sembrano comprovare questa tesi. L’anno dell’attacco a Yen (314) dovrebbe quindi essere il 10° del re Min, che così sarebbe salito al trono nel 323. Ma, in definitiva, quest’opera nulla dice dell’attacco né alla data del 19° anno di Hsüan né a quella del 10° anno di Min, per cui mi attengo a quanto dianzi ho detto, confortato dal T’ung Chien, che, fissando al 19° anno di Hsüan la data dell’attacco a Yen, stabilisce al 332 l’anno dell’accessione al trono di costui. Pertanto vedo tre difficoltà ad accettare la versione del testo secondo cui Mencio avrebbe servito prima il re Hsüan di Ch’i e poi si sarebbe recato a Liang: 1) essendo Mencio, negli anni precedenti al 336, poco più che trentenne, stento a credere che in così giovane età godesse già di tanto prestigio da essere chiamato a ricoprire l’alta carica di «uno dei tre primi ministri» (ME 166) dello stato di Ch’i, impegnato in un’ardua politica di supremazia contro altri sei potentissimi regni (vedi CS 41 e sgg.); 2) risulta dimostrato, come sopra detto, che Mencio andò a Ch’i quando aveva superato i quarant’anni (cioè dopo il 333) e quindi posteriormente al 336, data incontrastata del suo arrivo a Liang; 3) negli anni anteriori al 336 Hsüan non era sul trono, essendovi salito nel 332. Sulla questione, come si vede, aderisco alla tesi del T’ung Chien, secondo cui Mencio prima andò a Liang e poi a Ch’i. Per quanto appresso dirò sulla diversa situazione di Mencio in quei regni, sottolineo come notevole che il Ku Shih, a parte l’ordine dei viaggi su cui dissento, fa distinzione tra il «servire» nella prima permanenza a Ch’i ed il «visitare» in quella a Liang e nella seconda a Ch’i. Appianata così la via all’argomento, senza pretendere d’aver definito la questione, mi avventuro a dare un ordine probabile alle peregrinazioni del saggio. 6. Nel 336 si recò nel regno di Liang, dove sembra che (forse a causa della sua giovane età: aveva soltanto trentasette anni) non abbia ricoperto alcuna carica ufficiale ma sia stato soltanto un mentore del re Hui. Secondo lo Shih Chi costui era salito al trono nel 6° anno di Lieh Wang, cioè nel 370, essendo il 336 il suo 35° anno di regno, e nel 356 si era arrogato il titolo di wang (re). Il suo feudo era il marchesato di Wei (da non confondersi con lo stato di Wei, in cui era stato ospite Confucio, vedi BC 15 e sgg.), sorto dalla divisione dello stato di Chin fra le tre casate dei Wei, Han e Chao (vedi CS 39), che veniva chiamato anche Liang dal nome della capitale (Ta Liang = Grande Liang) in cui Hui si era trasferito nel 340, dopo aver subìto una sconfitta ad opera del regno di Ch’in. Wei era stato potente sotto i due

predecessori di Hui, ma all’epoca di costui attraversava un periodo di decadenza. Come detto nel testo, il re Hui non trovò attuabili i consigli di Mencio. Questi, dopo la morte di Hui e l’insediamento del suo successore Hsiang (334), si allontanò da Liang. 7. In un anno, che ora possiamo meglio precisare nel 332, o uno posteriore ad esso, essendo il 332 l’anno di accessione al trono di Hsüan, Mencio andò nello stato di Ch’i, dove «servì» accettando la carica di primo ministro. La sua attività di governo fu sicuramente interrotta durante il triennio del lutto per la madre, che gli morì in questo periodo. Era Ch’i il feudo che il re Wu aveva assegnato al suo maestro e suocero Liu Shang (vedi CS 26): la dinastia di costui era stata poi esautorata dalla potente famiglia Ch’ên, o Tien che dir si voglia, la quale nel 380 aveva occupato addirittura il trono (vedi CS 40). Il re Hsüan era il quarto principe di questa dinastia Tien. Hsüan molto si aspettava dall’aiuto di Mencio per sopraffare gli stati suoi avversari mediante una politica di potenza, ma quando si accorse, lui che amava il potere, l’ardimento, la ricchezza e le belle donne, che dal saggio poteva ricevere soltanto consigli sul modo di conquistare i popoli dell’impero mediante la carità e la giustizia, alla maniera degli antichi santi fondatori delle dinastie imperiali, lasciò volentieri che Mencio, scontento di vedersi inascoltato, si dimettesse dalla carica. Fece tuttavia un tentativo, offrendogli un ricco appannaggio, per trattenerlo nel regno come privato cittadino che fosse maestro ed esempio al suo popolo. Mencio, però, rifiutò l’offerta e si allontanò lentamente da Ch’i, sperando che il re si ravvedesse e lo richiamasse indietro. Come ho detto, questa partenza deve essere avvenuta in uno degli anni anteriori al 323. 8. Da quanto è dato di intendere da un discorso fra Mencio e un suo discepolo (ME 35), da Ch’i egli passò nel vicino stato di Sung, dove forse non si fermò a lungo. La sosta a Sung fu notevole per il fatto che quivi il saggio fu visitato per due volte dal principe ereditario di Têng, al quale parlò della Via di Yao e di Shun. Da Sung tornò nella sua patria, Tsou, passando per lo stato di Hsieh. A Tsou ricevette dei messi che il suo visitatore di Sung, ormai salito al trono e poi noto con il nome di duca Wên, gli inviò per consultarlo. 9. Nel 321, o in un anno precedente, andò a Têng, forse invitato da Wên. Tale data sembra deducibile da una frase pronunciata da Wên nel chiedere consiglio a Mencio: «Ch’i sta per fortificare Hsieh». Ora, può ritenersi che ciò sia avvenuto quando il re Hsüan investì il fratello Tien Ying del feudo di Hsieh, stato satellite di Ch’i. In una nota alla citata biografia di Meng-ch’ang Chün (alias Tien Wên, figlio di Tien Ying), lo Shih Chi dice che, dopo l’investitura, «nel decimo mese Ch’i cinse di mura Hsieh». Secondo una cronologia dello stesso Shih Chi l’investitura ebbe luogo nel 321.

Têng era un piccolo stato, dato in feudo a Shu Hsiu, figlio del re Wên e di una moglie di secondo rango di costui. Mencio vi rimase per qualche tempo, impartendo al duca consigli e ammaestramenti sul governo caritatevole. 10. In un momento di poco anteriore al 314, andò di nuovo a Ch’i, non si sa se richiamato dal re Hsüan. Questa volta, dopo il colloquio di Ch’ung, Mencio non accettò alcun incarico ufficiale, ma rimase nel regno probabilmente come semplice consigliere. In questa nuova permanenza non solo i rapporti con Hsüan non furono improntati all’antica cordialità, ma il prestigio del saggio fu perfino astutamente sfruttato per un’operazione di conquista. Un funzionario di Hsüan, con un quesito pieno di riserve mentali (ME 40), riuscì a strappare a Mencio il parere che lo stato di Yen era

meritevole d’essere «punito». Mencio, veramente, intendeva che la punizione poteva essere irrogata da chi avesse perseguito una politica di pacificazione, presentandosi come «l’inviato del Cielo» e restaurando in sé, con quell’atto, l’autorità imperiale. In sostanza, forse Mencio non era del tutto sfavorevole all’impresa, sempre che il re l’avesse assunta come impegno a dare inizio al ripristino dell’ordine nell’impero e non l’avesse considerata un mero atto di conquista. Hsüan, invece, si fece forte del travisato parere di Mencio per invadere ed annettersi Yen (314). 11. Il fatto di cui Hsüan si valse per aggredire il grande stato vicino fu il seguente: Tzu-k’uai, principe di Yen debole e sciocco, aveva ceduto il trono al suo primo ministro Tzu-chih (316), al fine di essere celebrato come un novello Yao (vedi CS 4), forse nell’intesa che Tzu-chih lo rifiutasse. Costui, invece, l’aveva accettato: ne era seguito un grande disordine nel paese, che offrì a Hsüan l’appiglio per attaccare Yen onde «correggerlo». Nonostante i contrari consigli di Mencio, Yen fu occupato ed annesso a Ch’i, ma due anni dopo il popolo di Yen, stanco di essere angariato, si sollevò (312) e pose sul trono P’ing, figlio di Tzu-k’uai, noto come il re Chao. 12. Mencio, amareggiato, forse nel 312 abbandonò Ch’i, quando la politica di conquista di Hsüan era già fallita. 13. Allontanatosi da Ch’i, Mencio si fermò di nuovo a Sung, dove lo troviamo nel 312. Questa data sembra potersi desumere da una frase pronunciata da un tale Sung K’êng: «Ho inteso dire che i regni di Ch’in e di Ch’u fanno ricorso alle armi» (ME 164). Appunto nel 312 si combatté una grande battaglia fra quei due stati (vedi CS 45). Questa permanenza a Sung, inoltre, non può essere confusa con la precedente intorno al 323, in quanto Mencio chiama «re» il feudatario Yen di Sung (ME 57), il quale, salito al trono nel 328, soltanto nel 318 si era arrogato il titolo di wang (re). 14. L’ultimo luogo, di cui abbiamo notizia, dove Mencio giunse nel suo peregrinare, fu Lu, la patria di Confucio. Si può immaginare che Mencio sia stato chiamato a Lu per la interposizione del suo discepolo Yo-chêng K’ê, il quale vi ricopriva una carica ufficiale. Ma il duca P’ing (sul trono 316-297) non andò ad invitare Mencio alla sua corte (ME 23) e questi, sembra, lasciò cadere ogni velleità di collaborare al governo di Lu. 15. In quei tempi, Ch’in si serviva di Shang Yang, Ch’u e Wei si servivano di Wu Chi, Ch’i si serviva di Sun-tzu e di Tien Chi4. L’impero, tutto rivolto all’alleanza verticale o all’unione orizzontale, teneva come eccellente

l’aggressione. Meng Ko, invece, predicava le virtù delle epoche T’ang (di Yao) e Yü (di Shun) e delle Tre Dinastie, così che la loro strada non era la stessa. Alcuni dei personaggi sopra nominati sono già noti (vedi CS 38 e 42). Shang Yang, detto anche Wei Yang, era un penalista, esponente della scuola dei legisti. Entrato al servizio del duca Hsiao di Ch’in come ministro (361), fu colui che dette allo stato di Ch’in l’ordinamento più adatto alla condotta della guerra: riformò le leggi, abolì il sistema del ching (sul quale vedi ME 49) e modificò il sistema fiscale. Fu messo a morte (336) dal re Hui-wên, subito dopo la scomparsa del duca Hsiao. Wu Chi, già al servizio del marchese Wên di Wei come generale, calunniato era fuggito a Ch’u, dove fu nominato ministro dal duca Tao (384). Alla sua abilità di stratega fu legata l’effimera supremazia del regno di Ch’u (vedi CS 43), che venne meno non appena, dopo la morte del duca Tao, Wu Chi finì assassinato (381). Egli era morto, quindi, prima ancora che Mencio nascesse: evidentemente, però, la sua fama perdurava ancora. Sun-tzu non può essere che Sun Pin, altro grande stratega dell’epoca, che servì come generale il padre di Hsüan, il re Wei di Ch’i (sul trono 378-333), per il quale combatté e vinse parecchie battaglie contro il regno di Wei. Su Tien Chi ho trovato qualche notizia nello Shih Chi, che nella più volte citata biografia di Mengch’ang Chün, ne parla come di un valente generale al servizio del re Wei e del re Hsüan e, in particolare, come di uno degli artefici della vittoria su Liang del 341. Il Han Shu lo annovera nella seconda categoria dei saggi nel suo elenco degli uomini illustri. 16. Alle particolari prestazioni di costoro, Mencio contrappose la sua soluzione universale del grande problema dell’epoca. Dalla lettura dei suoi discorsi emerge evidente che egli non si prefiggeva la meta di diffondere la dottrina confuciana, o almeno non soltanto questo, ma perseguiva lo scopo eminentemente pratico, vale a dire politico, di trovare un uomo per l’impero, il quale, con le virtù della carità e della giustizia, si attirasse il voto dei popoli e restaurasse l’autorità imperiale, pacificando i regni combattenti. Considerata la ferocia dei tempi, la velleità di portare sul trono imperiale un uomo armato solo di virtù deve considerarsi ingenuità, illusione? Nei secoli, da taluni è stato risposto affermativamente a questa domanda: per primo lo pensò il re Hui di Liang (vedi n. 3). Ma io invito il lettore a meditare su questo dato di fatto: negli ultimi decenni del IV secolo, nessuno dei principi più armati era riuscito, con la violenza, a prevalere sugli altri e a riordinare l’impero, pur tentandolo con ogni mezzo crudele e tormentando i popoli fino all’esaurimento. Il Ch’in, è vero, vi riuscì alla fine (vedi CS 49), ma tale esito non sembrava allora possibile e, comunque, sarebbe costato spaventosi olocausti per ancora più di un secolo. La forza delle armi non vi riesce — così mi sembra di interpretare il pensiero di Mencio — perché non dovrebbe riuscirvi la forza della mitezza? Se il terrore non è capace di sottomettere il cuore degli uomini, perché non la carità? La storia dimostrava che T’ang e Wên e Wu, i fondatori delle precedenti dinastie, erano stati portati sul trono dal consenso dei feudatari e del popolo, conquistati dalle loro virtù, e avevano semmai dovuto punire i principi ma non combattere contro i popoli. Altrettanto sarebbe accaduto, a suo modo di vedere, in quell’epoca in cui le sofferenze degli uomini erano tanto più atroci di quelle a cui erano stati sottoposti i loro avi al tramonto degli Hsia e degli Yin. Se non si accettano queste considerazioni non si comprende come l’ansia di Mencio, nella ricerca di un principe che si lasciasse convertire alla Via di Yao e di Shun, rispondesse ad una visione positiva e realistica della situazione politica del suo tempo.

17. Si ritirò e, insieme al suo discepolo Wan Chang, riordinò lo Shih (Libro delle Odi) e lo Shu (Libro dei Documenti), diffuse le idee di Chung-ni e scrisse i sette libri del Meng-tzu. A parte le notizie sopra riportate, nulla sappiamo degli ultimi anni della vita di Mencio, venti e più, che a Tsou, nel ritiro dalla vita pubblica, egli dedicò al lavoro e all’insegnamento.

Per quanto riguarda la sua partecipazione alla stesura dei sette libri del Mencio, qui di seguito tradotti, Chu Hsi annota: «Han-tzu5 dice: “Il libro di Meng Ko non fu scritto da lui. Quando Ko era già scomparso, i suoi discepoli Wan Chang e Kung-sun Chou misero insieme i loro ricordi su ciò che Ko aveva detto”. Poiché le due versioni divergono, io ritengo esatta quella dello Shih Chi». In verità, il libro di Mencio fu scritto da un maestro, che seppe rendere con somma arte la passione e la vivacità dei discorsi tenuti molti anni prima. La data ufficiale della morte del saggio, vissuto ottantaquattro anni, è l’anno 289 avanti Cristo. 1. Storia Antica di Su Chê (1039-1112). 2. Opera confuciana di Hsün K’uang (Hsün Ch’ing), vissuto dal 298 al 230 avanti Cristo. 3. Specchio Universale, opera storica completata nel 1084 da Szu-ma Kuang (1019-1086). 4. Il discorso, che sopra ho tradotto quale è riportato nella biografia annessa ai «Quattro Libri», non è del tutto eguale a quello dello Shih Chi, in cui è scritto: «In quei tempi, Ch’in si serviva del signor Shang per arricchire lo stato e potenziare la forza militare, Ch’u e Wei si servivano di Wu Chi per vincere con la guerra gli avversari più deboli, i re Wei e Hsüan di Ch’i si servivano delle bande di Sun-tzu e di Tien Chi e i feudatari andavano alla corte di Ch’i come a quella d’un padrone». 5. Han-tzu è Han Yü (Tui-ch’ih), vissuto dal 768 all’824.

MENCIO* (Meng-tzu)

LIBRO I LIANG HUI WANG PARTE PRIMA 1. Mencio fece visita al re Hui di Liang. — O venerando — disse il re — sei venuto senza che ti sembrasse lunga la distanza di mille li. Allora devo ritenere che tu abbia (suggerimenti) per il profitto del mio regno? — O re — rispose Mencio — perché dici: profitto? (Dì:) allora hai (suggerimenti di) carità e giustizia, null’altro. Se il re dice: «Che farò per il profitto del mio regno?», i dignitari diranno: «Che farò per il profitto della mia casata?», i funzionari e il popolo diranno: «Che farò per il profitto della mia persona?». I superiori e gli inferiori si strapperanno l’un l’altro questo profitto e lo stato sarà in pericolo. In un regno da diecimila carri da guerra colui che ucciderà il suo principe apparterrà ad una casata da mille carri, in un regno da mille carri da guerra colui che ucciderà il suo principe apparterrà ad una casata da cento carri1. Possedere mille contro diecimila e cento contro mille non è poco ma, una volta che si è posposta la giustizia e anteposto il profitto, non vi sarà appagamento se non dopo aver carpito tutto. (Mentre) non v’è caritatevole che trascuri i suoi genitori né giusto che posponga il suo principe. O re, dì dunque: carità e giustizia, null’altro. Perché dici: profitto? 2. Mencio fece visita al re Hui di Liang. Questi si fermò sulla riva dello stagno ad osservare i cigni, le anatre, i cervi e i daini. Chiese: — Il (principe) virtuoso trova diletto anche in queste cose? — Poiché è virtuoso, vi trova diletto — rispose Mencio. — Chi non è virtuoso, anche se le possiede, non ne gode. Nell’Ode (III, 8, 1-2) è detto: «Quando decise di por mano alla Torre degli Spiriti, deliberò e progettò. Tutto il popolo vi si applicò e in meno d’un giorno la terminò. Quando decise di porvi mano (disse): “Non v’affrettate”, ma il popolo accorse come un figlio. Il re stava nel parco degli Spiriti, dove cervi e cerve giacevano tranquilli. I cervi e le cerve erano grassi, i candidi uccelli splendenti. Il re stava presso il Lago degli Spiriti, così pieno di pesci guizzanti!»2 Il re Wên fece la torre e lo stagno con le forze del popolo, ma il popolo ne fu lieto: chiamò la torre «Torre degli Spiriti» e lo stagno «Lago degli Spiriti» e fu felice che egli avesse daini e cervi e pesci e testuggini. Gli antichi gioivano insieme al popolo e perciò potevano

gioire. Nella Dichiarazione di T’ang è detto: «Questo sole quando morirà? Moriremo tutti (volentieri) insieme a te!»3 Il popolo si augurava di perire tutto con lui (purché egli perisse): benché avesse torre, stagno, uccelli e animali, (Chieh Kuei) come poté goderne da solo? 3. Il re Hui di Liang disse: — L’uomo di scarsa virtù (io) pone tutto il cuore nel governare il regno. Quando all’interno del Fiume infierisce la carestia, trasferisco (la maggior parte de) la popolazione ad oriente del Fiume e porto il frumento all’interno di questo. Parimenti faccio quando la carestia colpisce ad oriente del Fiume. Se osservo i governi degli stati vicini non ne trovo alcuno che si dia tanta pena come l’uomo di scarsa virtù. (Eppure) la popolazione dei regni vicini non diminuisce e la mia non aumenta. Quale ne è il motivo? — O re, tu ami la guerra: prego di prendere un esempio da essa — rispose Mencio. — I soldati, chiamati all’attacco dal rullo dei tamburi, appena incrociate le spade (con i nemici) fuggono togliendosi l’armatura e trascinandosi dietro le armi: alcuni si fermano dopo cento passi, altri dopo cinquanta. Se quelli che hanno indietreggiato di cinquanta passi schernissero quelli che si sono ritirati di cento, che ne diresti? — Che non è loro lecito. È vero che non sono arrivati a cento passi, ma sono pur fuggiti. — O re — disse Mencio — se comprendi questo non sperare che la tua popolazione s’accresca a danno dei regni vicini4. Se non ostacoli i lavori agricoli stagionali (imponendo lavori obbligatori), i raccolti saranno più abbondanti di quanto se ne possa mangiare. Se negli stagni e nei laghi non cali le reti a maglie fitte, i pesci e le testuggini saranno più abbondanti di quanto se ne possa mangiare. Se nei boschi montani metti in opera le scuri e le asce solo nella stagione adatta, la legna sarà più abbondante di quanto se ne possa consumare. Quando le messi, i pesci e le testuggini sovrabbondano al nutrimento e la legna al consumo, hai fatto sì che il popolo nutrisca i vivi e porti il lutto per i morti senza doglianze (contro il principe). Che il popolo nutrisca i vivi e porti il lutto per i morti senza doglianze è il principio della Via regale (d’un imperatore). Pianta dei gelsi nell’area residenziale di cinque mu5 e i cinquantenni potranno vestirsi di seta. Non trascurare l’allevamento dei polli, maiali e cani nella stagione (della riproduzione) e i settantenni potranno mangiare la carne. Non sottrarre un campo di cento mu (ai lavori) stagionali e una famiglia di molte bocche potrà non soffrire la fame. Cura l’insegnamento

nelle scuole inculcando i princìpi della pietà filiale e della sottomissione fraterna e i vegliardi non andranno per le strade portando carichi sulle spalle o sulla testa. Non s’è mai dato che non regni6 chi ottiene che i settantenni vestano di seta e mangino la carne e che il popolo dalle chiome nere non soffra la fame e il freddo. I (tuoi) cani e porci mangiano il cibo degli uomini e tu non sai porvi rimedio, lungo le strade v’è chi muore di fame e tu non sai aprire i tuoi granai. La gente muore e tu dici: «Non è colpa mia ma dell’annata». Che differenza c’è con l’uccidere la gente trafiggendola? Diresti: «Non è colpa mia ma della spada»? O re, non gettare la colpa sull’annata e i popoli dell’impero verranno a te. 4. Il re Hui di Liang disse: — L’uomo di scarsa virtù volentieri desidera ricevere i tuoi insegnamenti7. — V’è qualche differenza — domandò Mencio — tra l’uccidere la gente col bastone e l’ucciderla con la spada? — Non v’è differenza — rispose il re. — Con la spada o con il governo, v’è qualche differenza? — Non v’è differenza. — Nelle tue cucine hai carni grasse — disse Mencio — e nelle scuderie hai grassi cavalli, (mentre) il popolo ha il viso della fame e nei campi incolti giacciono i morti d’inedia. Questo è condurre gli animali a mangiare gli uomini8: (ep-pure) l’uomo ha in orrore (perfino) che le bestie si divorino fra loro. Se colui che è il padre e la madre del popolo governa senza evitare di condurre gli animali a mangiare gli uomini, in che modo è il padre e la madre del popolo? Chung-ni disse: «Colui che per primo fece dei fantocci (da seppellire insieme ai morti) non meritò di restare senza posterità?» (Disse così) perché colui aveva raffigurato l’immagine dell’uomo e ne aveva usato (a quello scopo). E che si dovrebbe fare a chi riduce il popolo a morire di fame?

Meng Ko Colui che è secondo al santo (Ya Shên). (Parigi, Biblioteca Nazionale, Ms. cinese 1236).

5. Il re Hui di Liang disse: — Nell’impero non v’era regno più potente di Chin9. È cosa che tu sai, o venerando. (Eppure), giunti alla persona dell’uomo di scarsa virtù, ad oriente sono stato battuto da Ch’i ed il mio figlio maggiore è morto; ad occidente ho perduto settecento li di territorio ad opera di Ch’in; a meridione sono stato oltraggiato da Ch’u10. L’uomo di scarsa virtù ne ha vergogna e vorrebbe, una volta per tutte, lavare l’onta per quelli che son morti. Che cosa posso fare? — Con un territorio di cento li di lato è possibile regnare — rispose Mencio. — O re, se dai al popolo un governo caritatevole, irrogando parsimoniosamente le pene e i castighi, alleggerendo le tasse e i prelevamenti, (il popolo) arerà profondamente, sarchierà con cura i campi e nel tempo libero i giovani affineranno la pietà filiale e la sottomissione fraterna, la lealtà e la sincerità. Con esse in casa serviranno il padre e i fratelli maggiori, fuori casa serviranno gli anziani e i superiori. (Allora) potrai comandare di apprestare dei randelli con i quali batterai le robuste corazze e le spade affilate di Ch’in e di Ch’u. Costoro distraggono il popolo nelle stagioni utili e fanno sì che non riesca ad arare ed a sarchiare per nutrire i genitori. I genitori hanno freddo e fame, i fratelli maggiori e minori, le mogli e i figli sono separati e dispersi. Essi gettano il loro popolo nel pozzo e lo affogano. Tu, o re, va e correggili11. Chi ti contrasterà, o re? Perciò si dice: «L’uomo caritatevole non ha avversari». O re, ti prego, non aver dubbi. 6. Mencio fece visita al re Hsiang di Liang12. Uscito, disse a qualcuno: — A guardarlo da lontano non pare un principe; a vederlo da vicino nulla si rileva in lui che incuta soggezione. Mi ha chiesto bruscamente: «Come può darsi stabilità all’impero?» «Con l’unificazione» — gli ho risposto. «Chi può unificarlo?» — mi ha domandato, ed io: «Può unificarlo colui che non si compiace di far morire gli uomini». «Chi si volgerà a lui?» — mi ha chiesto. «Nell’impero non vi sarà nessuno che non si volgerà a lui — gli ho detto: — O re, sai che cosa accade ai germogli? Nella settima od ottava luna v’è la siccità e i germogli appassiscono. Ma poi nel cielo s’addensano le nubi, la pioggia cade a torrenti ed essi si riprendono rigogliosamente. Quando ciò accade, chi può impedirlo? Oggi, tra i pastori dei popoli dell’impero, non ve n’è alcuno che non ami di far morire gli uomini: se

uno ve ne fosse che amasse di non far morire gli uomini, tutti i popoli dell’impero solleverebbero la testa e guarderebbero a lui. In verità, in questo caso i popoli accorrerebbero a lui come l’acqua fluisce verso il basso. Quando scorre come un torrente, chi può impedirlo?» 7. Il re Hsüan di Ch’i domandò: — Potrei sentirti parlare delle imprese di Huang di Ch’i e di Wên di Chin?13 — Nessuno dei discepoli di Chung-ni ha parlato delle gesta di Huang e di Wên — rispose Mencio. — Perciò esse non sono state tramandate alle generazioni successive ed il suddito (io) non ne ha appreso nulla. Per non tacere, parliamo del modo di regnare? — Quale virtù occorre per poter regnare? — chiese il re. — Ama e proteggi il popolo e regnerai — rispose Mencio. — Nessuno potrà impedirtelo. — Uno come l’uomo di scarsa virtù può amare e proteggere il popolo? — Lo può — rispose Mencio. — Da che arguisci che lo può? — chiese l’altro. — Il suddito ha inteso raccontare dal (tuo ministro) Hu Ho che il re era seduto nella sala, sotto la quale passò uno che si tirava dietro un bue. Il re, vedendolo, disse: «Dove va questo bue?». «Lo porto a (sacrificarlo per) consacrare col suo sangue una campana» — rispose quello. «Lascialo andare — disse il re. — Non posso sopportare il suo terrore, come d’un innocente condotto al luogo del supplizio». «Va bene — disse quello — ma allora tralascio di consacrare la campana?» «Come potresti tralasciarlo? — esclamò il re. — Te lo cambierò con un agnello». Non so se tutto ciò sia vero. — È vero — ammise il re. — Siffatto sentimento è sufficiente per regnare. I cento cognomi hanno pensato che il re fosse avaro, ma il suddito è convinto che non lo sopportava. — È così — disse il re. — In realtà, se fosse vero ciò che il popolo ha pensato, per quanto il (mio) regno di Ch’i sia ristretto e piccolo, come avrei lesinato un bue? Veramente mi faceva pena il suo terrore, come d’un innocente condotto al luogo del supplizio: per questo l’ho scambiato con l’agnello. — Non ti meravigliare, o re — osservò Mencio — se il popolo ti ha considerato avaro: hai dato il piccolo in cambio del grande. Come poteva comprendere (il tuo sentimento)? O re, se avevi pietà di un innocente condotto al luogo del supplizio, allora che differenza c’era tra i bue e l’agnello?

— Davvero — disse il re ridendo — che idea è stata la mia? Io non intendevo risparmiare sul valore del bue, ma l’ho scambiato con un agnello! È giusto che il popolo dica che sono avaro. — Nulla di male. È stato un artifizio della carità: avevi visto il bue, ma non avevi visto l’agnello. Verso gli animali il saggio è così che se li vede vivere non sopporta di vederli morire e se sente le loro urla non soffre di mangiarne le carni. Per questo il saggio si tiene lontano dalle cucine. Contento, il re esclamò: — Nell’Ode (II, 44, 4) è detto: «Ciò che gli altri hanno nel cuore io, riflettendovi, lo misuro». È stato detto per te, o Maestro. Io stesso che ho compiuto l’atto, volgendomi in me a ricercarne la ragione, non ho capito il mio sentimento. Quando il Maestro ne ha parlato, nel mio cuore s’è rinnovata la commozione. Ma questo sentimento che ha a che vedere col regnare? — Se qualcuno ti dicesse: «Le forze mi bastano per sollevare cento chün (oggi circa 1800 chili), ma non mi bastano per sollevare una piuma. La mia vista è così acuta che distinguo la punta della peluria autunnale delle piante, ma non vedo una carrata di legna», o re, lo ammetteresti? — No — disse il re. — Ora, la tua clemenza è tanta che si estende agli animali, però i suoi benefici non arrivano fino al popolo. Come si spiega? In verità, se non si solleva la piuma è perché non si fa nessuno sforzo, se non si vede la carrata di legna è perché non si usano gli occhi, se il popolo non si sente amato e protetto è perché tu non usi clemenza. Perciò, o re, se non regni è perché non vuoi14, non perché non puoi. — Come si differenziano le figure del non volere e del non potere? — Prendere il T’ai-shan sotto il braccio e con esso varcare d’un balzo il mar settentrionale — disse Mencio. — Se tu dicessi: «Non posso», questo sarebbe veramente non potere. Svellere un ramoscello per un superiore. Se tu dicessi: «Non posso», questo non sarebbe non potere, ma non volere. Perciò se tu, o re, non regni, non si tratta di caso del tipo «prendere il T’ai-shan sotto il braccio e con esso varcare d’un balzo il mar settentrionale». Se non regni, si tratta di caso del tipo «svellere un ramoscello». Se trattiamo con rispetto i nostri vecchi, perverremo a (far trattare) con rispetto i vecchi altrui; se educhiamo i nostri giovani, perverremo a (far educare) i giovani altrui. (Allora) l’impero potrà essere rigirato nel palmo della mano (tanto sarà facile governarlo). Nell’Ode (III, 6, 2) è detto (del re Wên): «Il suo esempio influenzò la moglie e si estese ai fratelli, in tal modo ordinò la famiglia e lo stato». Vuol

dire che concepì quei sentimenti e li esercitò su coloro, niente altro. Perciò, estendere la clemenza è sufficiente per amare e proteggere (il popolo tra) i quattro mari. Se non si estende la clemenza, non si ha nulla con cui amare e proteggere nemmeno la moglie e i figli. Ciò per cui gli antichi di tanto superavano gli altri uomini non è altro che questo: eccellevano nell’estendere (agli altri) ciò che essi stessi facevano, null’altro. Ora, la tua clemenza è tanta che perviene agli animali, ma i suoi benefici non arrivano fino al popolo. Come si spiega? Metti (un oggetto) sulla bilancia e dopo saprai se è leggero o pesante, misuralo e dopo saprai se è lungo o corto. Se per tutte le cose è così, ancor più lo è per il cuore. O re, ti prego di misurarlo (il tuo cuore). Invece tu, o re, moltiplichi le corazze e le spade, getti nel pericolo i guerrieri e i sudditi, sollevi l’ostilità degli altri feudatari. Dopo di ciò, provi gioia nel cuore? — No — rispose il re. — Che gioia troverei in ciò? Lo faccio per cercare (di ottenere) ciò che ardentemente desidero. — Posso udire che cos’è che il re ardentemente desidera? — domandò Mencio. Il re rise ma non parlò. — Lo fai — insisté Mencio — perché non hai abbastanza cibi grassi e dolci per la tua bocca e vestiti leggeri e caldi per il tuo corpo? Oppure lo fai perché i tuoi occhi non hanno abbastanza bellezze da contemplare, i tuoi orecchi abbastanza melodie da ascoltare o perché al tuo cospetto non vi sono bastanti cortigiani e favorite a cui impartire ordini? I tuoi ufficiali sono in grado di darti tutto ciò e tu, o re, perché lo faresti per questo? — No — disse il re — non lo faccio per questo. — Allora — proseguì Mencio — forse ho capito che cosa ardentemente desideri. Vuoi accrescere il tuo territorio, ricevere alla tua corte (i feudatari di) Ch’in e Ch’u, dominare sull’Impero del Mezzo e sottomettere i quattro popoli barbari. Ma tendere a ciò che desideri operando in quel modo, è come arrampicarsi su un albero per cercare un pesce. — È errato a tal punto? — esclamò il re. — Molto di più! — disse Mencio. — Se ti arrampichi su un albero per cercare un pesce, a parte che non avrai il pesce, non ne seguirà un gran danno. Se operi in quel modo per tendere a ciò che desideri, impegnando tutto il tuo cuore e tutte le tue forze per farlo, allora sì che te ne verranno sciagure! — Potrei udire i tuoi insegnamenti? — chiese il re. — Se il popolo (del piccolo regno) di Tsou combattesse con quello (del grande regno) di Ch’u, o re, chi credi che vincerebbe?

— Vincerebbe il popolo di Ch’u — rispose il re. — Esatto. Allora è certo che il piccolo non può osteggiare il grande, i pochi non possono affrontare i molti, il debole non può mettersi contro il forte. All’interno dei quattro mari, i territori di mille li di lato sono nove. Ch’i, tutto insieme, è soltanto uno di essi. Con uno sopraffare otto: che differenza c’è con il caso di Tsou che affronta Ch’u? (Per realizzare il tuo desiderio) rivolgiti invece a ciò che è fondamentale. Supponiamo, o re, che tu instauri il buon governo e dispensi la carità: farai sì che tutti i letterati dell’impero vogliano stare alla tua corte, tutti gli agricoltori coltivare le tue terre incolte, tutti i commercianti, stabili e girovaghi, stipare le loro mercanzie nei tuoi mercati, tutti i viandanti percorrere le tue strade, e tutti coloro che nell’impero hanno in odio il loro principe vogliano appellarsi a te. Quando fosse così, chi potrebbe impedirlo? — Io sono ottuso — disse il re — e non sono in grado di progredire in queste cose. Voglio che tu, o Maestro, sostenga le mie intenzioni e m’istruisca con chiarezza. Per quanto non sia intelligente, ti prego di farmi tentare. — Solo l’uomo istruito — disse Mencio — è capace, senza un reddito permanente, di avere una mente perseverante. Il popolo, se non ha un reddito permanente, non ha una mente perseverante15. Quando non ha una mente perseverante, non c’è nulla che eviti in fatto di rilassatezza, di dissolutezza, di depravazione e di licenza. Lasciarlo cadere in colpa per poi perseguirlo e punirlo, significa tendergli un tranello. Se sul trono v’è un uomo caritatevole, potrà mai tendere un tranello al popolo? Perciò, un principe illuminato assicura al popolo un reddito che deve bastargli prima per servire il padre e la madre e poi per mantenere la moglie e i figli. Quando esso è del tutto sazio negli anni di abbondanza e sfugge alla rovina e alla morte negli anni di carestia, poi lo esorterà a camminare sulla via del bene, poiché al popolo sarà leggero seguirla. Ma oggi il reddito assicurato al popolo non gli basta per servire il padre e la madre e per mantenere la moglie e i figli: negli anni di abbondanza è del tutto in miseria e negli anni di carestia non sfugge alla rovina e alla morte. In queste (angustie) penserà solo a scampare alla morte e temerà di non riuscirvi. Come troverà il tempo per praticare i riti e la giustizia? O re, se vuoi porlo in atto (il tuo desiderio), perché non ti rivolgi a ciò che è fondamentale? Nell’area residenziale di cinque mu pianta dei gelsi e i cinquantenni potranno vestirsi di seta; non trascurare l’allevamento dei polli, maiali e cani nella stagione (della riproduzione) e i settantenni potranno mangiare la carne; ad un campo di cento mu non sottrarre il lavoro nelle

stagioni utili e una famiglia di otto bocche potrà non soffrire la fame; cura l’insegnamento nelle scuole inculcando i princìpi della pietà filiale e della sottomissione fraterna e i vegliardi non andranno per le strade portando carichi sulle spalle o sulla testa. Non s’è mai dato che non regni chi ha ottenuto che i vecchi vestano di seta e mangino la carne e il popolo dalle chiome nere non soffra la fame e il freddo.

LIBRO I LIANG HUI WANG PARTE SECONDA 8. Chuang Pao (ministro di Ch’i) fece visita a Mencio e disse: — Pao (io) è andato all’udienza del re, che gli ha detto di amare la musica. Pao non ha avuto parole per replicare. Che ne dici dell’amore per la musica? — Se l’amore del re per la musica è profondo — rispose Mencio — allora Ch’i è vicino (al buon governo). Un altro giorno, essendosi recato all’udienza del re, Mencio gli disse: — O re, hai detto a Chuang-tzu di amare la musica. È vero? Il re arrossì (credendo che le sue preferenze sarebbero state giudicate scorrette). — L’uomo di scarsa virtù — disse — non è in grado di amare la musica degli antichi sovrani, ma soltanto quella dello stile moderno. — Se l’amore del re per la musica è profondo — disse Mencio — allora Ch’i è vicino (al buon governo). La musica moderna deriva da quella antica. — Potrei udire i tuoi insegnamenti? — Che è più piacevole: godere della musica da solo o in compagnia di altri? — È più piacevole in compagnia di altri. — Che è più piacevole: goderne in compagnia di pochi o di molti? — È più piacevole in compagnia di molti16. — Il suddito prega di poter parlare di musica al re. O re, supponiamo che tu faccia della musica e che i cento cognomi, udendo il rombo delle campane e dei tamburi e il suono dei flauti e dei pifferi, con mal di capo e ciglia aggrottate si dicano l’un l’altro: «Ecco che il nostro re si diletta a far della musica! Perché a noi ci riduce a questi estremi? I padri e i figli non si vedono, i fratelli maggiori e minori, le mogli e i figli sono separati e dispersi». (Oppure) supponiamo che tu vada a caccia e che i cento cognomi, udendo il frastuono dei carri e dei cavalli, vedendo il fasto delle piume e degli stendardi, con mal di capo e ciglia aggrottate si dicano l’un l’altro: «Ecco che il nostro re si diletta ad andare a caccia! Perché a noi ci riduce a questi estremi? I padri e i figli non si vedono, i fratelli maggiori e minori, le mogli e i figli sono separati e dispersi». Ciò non dipenderebbe che dal fatto che non accomuni il popolo ai tuoi piaceri. Supponiamo (invece) che tu faccia della musica e che i cento

cognomi, udendo il rombo delle campane e dei tamburi e il suono dei flauti e dei pifferi, ne siano deliziati e si dicano l’un l’altro con viso lieto: «Sembra che il nostro principe non abbia preoccupazioni! Altrimenti come potrebbe far della musica?» (Oppure) supponiamo che tu vada a caccia e che i cento cognomi, udendo il frastuono dei carri e dei cavalli, vedendo il fasto delle piume e degli stendardi, ne siano compiaciuti e si dicano l’un l’altro con viso lieto: «Sembra che il nostro re non abbia preoccupazioni! Altrimenti come potrebbe andare a caccia?» Ciò non dipenderebbe che dal fatto che accomuni il popolo ai tuoi piaceri. O re, se accomuni il popolo ai tuoi piaceri, allora regni. 9. Il re Hsüan di Ch’i interrogò dicendo: — È vero che il parco del re Wên era di settanta li di lato? — Secondo quanto è stato tramandato — rispose Mencio — è vero. — Era così grande? — esclamò il re. — Il popolo — osservò Mencio — lo considerava piccolo. — Il parco dell’uomo di scarsa virtù è di quaranta li di lato, eppure il popolo lo considera grande. Perché? — Il parco del re Wên era di settanta li di lato, ma coloro che raccoglievano le erbe e la legna potevano aggirarvisi e così pure quelli che cacciavano i fagiani e le lepri. L’aveva in comune con il popolo e questo non aveva ragione di considerarlo piccolo? Quando il suddito (io) arrivò per la prima volta alla tua frontiera, s’informò delle maggiori proibizioni del regno e soltanto dopo osò entrarvi. Sentì dire che all’interno dei tuoi domini c’era un parco di quaranta li di lato e che colui che vi ammazzava un cervo o un daino era considerato colpevole come se avesse ucciso un uomo. Quei quaranta li di lato sono come una trappola posta nel mezzo del regno e il popolo non ha ragione di considerarla grande? 10. Il re Hsüan di Ch’i domandò: — Nei rapporti con i regni vicini c’è una maniera di condursi? — Sì — rispose Mencio. — Solo il caritatevole è capace con il grande (regno) di servire il piccolo: fu così che T’ang servì Ko e il re Wên servì i barbari occidentali K’un17. Solo il sapiente è capace con il piccolo (regno) di servire il grande: fu così che T’ai Wang servì i barbari settentrionali Hsün-yu e Kou Chien servì il regno di Wu18. Colui che con il grande serve il piccolo

gioisce nel (l’uniformarsi al) Cielo, colui che con il piccolo serve il grande teme (di opporsi al) Cielo. Colui che gioisce nel Cielo ama e protegge l’impero, colui che teme il Cielo ama e protegge il suo stato. Nell’Ode (IV, 7, 3) è detto: «Temo la maestà del Cielo, così conservo (la sua designazione al trono)». — Grandi parole, invero! — esclamò il re. — L’uomo di scarsa virtù, però, ha un difetto: ama l’ardimento (e perciò non si sente di servire il grande e di aver riguardo per il piccolo). — O re — disse Mencio — ti prego di non-amare il piccolo ardimento. Poiché, brandire la spada guatando con occhio truce e gridando: «Come osa costui mettersi alla pari con me?», è l’ardimento di un uomo comune che affronta un solo uomo. O re, ti prego di renderlo grande! Nell’Ode (III, 7, 5) è detto: «Il re (Wên) arse d’ira. Schierò le truppe per arrestare la marcia su Chü, per consolidare le fortune di Chou e per rispondere ai voti dell’impero». Questo era l’ardimento del re Wên: una sola volta egli s’abbandonò all’ira, ma portò la tranquillità ai popoli dell’impero. Nei Documenti (V, 1, pt. I, 7) è detto: «Per proteggere il popolo soggetto, il Cielo gli dette principi e maestri. Disse: “Sono gli aiutanti del Dio Supremo. Dispensino benefici a tutto il mondo”. Colpevoli o innocenti, son qua io (per punirli o premiarli). Chi osa trascendere attuando i suoi intenti (perversi)?»19 Un uomo (cioè l’imperatore, Chou Hsin) agiva con perversità e il re Wu sentì l’onta (di sopportarlo): questo era l’ardimento del re Wu. Anche egli s’abbandonò all’ira una sola volta, ma portò la tranquillità ai popoli dell’impero. O re, se anche tu con un solo scatto d’ira portassi la tranquillità alle genti dell’impero, i popoli temerebbero soltanto che tu non ami l’ardimento. 11. Il re Hsüan di Ch’i s’incontrò con Mencio al Palazzo della Neve20. — Anche il virtuoso — chiese il re — gode di queste gioie? — Sì — rispose Mencio. — Se la gente non ha modo di goderne, biasima i suoi superiori. Coloro che biasimano i loro superiori perché non hanno modo di goderne sono riprovevoli, ma è da riprovarsi anche chi è preposto al popolo e non lo accomuna alle sue gioie. Quando il principe gioisce delle gioie del popolo, anche il popolo gioisce delle sue gioie; quando s’affligge delle afflizioni del popolo, anche il popolo s’affligge delle sue afflizioni. Non s’è mai dato che non regni chi gioisce e s’affligge all’unisono con l’impero. Una volta il duca Ching di Ch’i chiese a Yen-tzu21: «Vorrei fare un viaggio d’ispezione fino ai monti Chuan-fu e Chiao-wu e poi, seguendo il mare verso meridione,

giungere fino alla città di Lang-yeh. Come devo regolarmi affinché la mia ispezione possa essere paragonata a quella degli antichi imperatori?» «Eccellente domanda! — rispose Yen-tzu. — La visita del Figlio del Cielo ai feudatari era detta “ispezione dei feudi”, cioè ispezione ai territori affidati (ai feudatari). La visita dei feudatari alla corte del Figlio del Cielo era detta “relazione dell’ufficio”, cioè rapporto sul mandato ricevuto. (I viaggi) non si facevano senza scopo. In primavera esaminavano l’aratura e ponevano riparo alle deficienze (di semi), in autunno esaminavano il raccolto e aiutavano coloro a cui esso era insufficiente. All’epoca degli Hsia si diceva: “Se il nostro re non si mette in viaggio, come avremo la prosperità? Se il nostro re non si mette in viaggio, come saremo aiutati?” I viaggi (dell’imperatore) in primavera e in autunno costituivano un modello per i feudatari. Oggi non è così. (Con il principe) si mette in moto un esercito (di cortigiani), che divora le risorse: gli affamati non hanno cibo e coloro che sono comandati ai lavori non hanno riposo. Maledicendo fra loro con sguardi torvi, i popolani sono pieni di rancore. (I principi) violano gli ordini imperiali ed opprimono il popolo, i cibi e le bevande scorrono a fiumi. Si lasciano andare o contrastano, sono sfrenati o si perdono. Ecco come affliggono i vassalli dipendenti22. Seguire la corrente verso il basso senza pensare di volgersi indietro, io lo chiamo lasciarsi andare; andar contro corrente senza pensare di volgersi indietro, io lo chiamo contrastare; andare a caccia senza tregua, io lo chiamo essere sfrenati; gioire del vino senza mai saziarsi, io lo chiamo perdersi. Gli antichi imperatori non provavano piacere nel lasciarsi andare o contrastare, né agivano in modo da sfrenarsi o perdersi. Sta a te, o principe, decidere in che modo agire». Il duca Ching fu contento: emanò un proclama al regno e andò a risiedere nel contado. Da allora cominciò ad aprire i suoi granai per soccorrere gli indigenti. Convocò il gran maestro di musica e gli disse: «Componi per me un inno sul mutuo accordo tra principe e sudditi». È l’inno shao in chi e in chiao23. Le sue parole dicono: «Quale colpa commetto nel moderare il principe?» Chi modera il principe lo ama. 12. Il re Hsüan di Ch’i interrogò dicendo: — Tutti mi dicono di demolire il Ming Tang24. Lo devo demolire o no? — Il Ming Tang — rispose Mencio — è il palazzo di coloro che regnano. O re, se vuoi esercitare un governo imperiale non lo demolire. — Potrei ascoltarti — disse il re — sul governo imperiale?

— Anticamente, quando il re Wên governava Ch’i25, si coltivava (per il principe) un campo su nove; gli emolumenti dei funzionari erano ereditari26; le frontiere e i mercati erano sorvegliati, ma non vi si esigevano tasse; non v’era divieto di pesca negli stagni e nelle chiuse; non venivano perseguitati i congiunti del reo. I vecchi senza moglie erano detti vedovi, le vecchie senza marito vedove, i vecchi senza figli derelitti, i giovani senza padre orfani: queste quattro categorie erano le più misere dell’impero, perché non avevano nessuno su cui far affidamento. Il re Wên, nell’istituire il buon governo e nel dispensare la carità, si curò principalmente di queste quattro categorie. Nell’Ode (II, 38, 13) è detto: «(Le calamità celesti ci colpiscono), I ricchi ne scampano, ma guai a coloro che sono miseri e soli!» — Eccellenti parole! — esclamò il re. — O re, se ti paiono eccellenti — domandò Mencio — perché non le metti in pratica? — L’uomo di scarsa virtù — rispose il re — ha un difetto: gli piace la ricchezza. — Anticamente, a Kung Liu27 piaceva la ricchezza. Nell’Ode (III, 16, 1) è detto: «Innalzò mucchi, riempì magazzini, chiuse provviste secche e frumento in sacchi e balle, nell’intento di adunare il popolo onde illustrare il suo regno. Avendo approntato archi e frecce e scudi e lance ed asce ed azze, dette inizio alla marcia». Così quelli che restavano ebbero i mucchi e i magazzini, quelli che partivano i sacchi e le balle. Solo dopo di ciò si permise di dar inizio alla marcia. O re, se ami la ricchezza, fanne partecipi i cento cognomi. A regnare che difficoltà avrai? Il re disse: — L’uomo di scarsa virtù ha un altro difetto: gli piace la bellezza (delle donne). — Anticamente, a T’ai Wang piaceva la bellezza: amava la sua sposa — disse Mencio. — Nell’Ode (III, 3, 2) è detto: «L’antico duca Tan-fu all’albeggiare del giorno galoppò sul suo cavallo seguendo la riva del fiume occidentale, fino ai piedi del monte Ch’i. Quivi, insieme alla dama Chiang, scelse una dimora». In quei tempi, all’interno della casa non v’erano donne esacerbate (per non aver marito) ed all’esterno non v’erano uomini vuoti (per non aver moglie). O re, se ami la bellezza, fanne partecipi i cento cognomi (dando a tutti la possibilità di sposarsi). A regnare che difficoltà avrai? 13. Parlando al re Hsüan di Ch’i, Mencio disse: — Se un suddito del re,

avendo, affidato moglie e figli ad un amico, partisse per un viaggio nel regno di Ch’u e al suo ritorno trovasse che la moglie e i figli hanno sofferto il freddo e la fame, che farebbe? — Romperebbe l’amicizia — rispose il re. — Se il sovrintendente alle carceri non sapesse dirigere i suoi dipendenti, che faresti? — Lo destituirei. — Se all’interno dei (tuoi) quattro confini non v’è un buon governo, che si deve fare? Il re guardò a destra e a sinistra, poi parlò d’altro. 14. Mencio fece visita al re Hsüan di Ch’i. — Quando si dice che un regno è antico — disse — non s’intende che vi sono alberi secolari, ma che ha ministri i cui meriti si sono esplicati per generazioni. O re, tu non hai ministri di fiducia. Quelli che ieri hai nominati oggi non sai dove siano finiti. — Come posso sapere che sono degli incapaci, onde scartarli? — chiese il re. — Un principe fa avanzare gli uomini virtuosi, non può esimersi. Ma facendo sì che un uomo di bassa estrazione sorpassi un patrizio ed un estraneo sorpassi un parente, può non essere prudente?28 Se tutti i ministri ti dicono: «È un virtuoso», non crederlo; se tutti i dignitari ti dicono: «È un virtuoso», non crederlo; ma se tutta la gente del regno dice: «È un virtuoso», allora esamina quell’uomo e, se vedi che è un virtuoso, poi servitene. Se tutti i ministri ti dicono: «È un incapace», non ascoltarli; se tutti i dignitari ti dicono: «È un incapace», non ascoltarli; ma se tutta la gente del regno dice: «È un incapace», allora esamina quell’uomo e, se t’accorgi che è un incapace, poi scaccialo. Se tutti i ministri ti dicono: «È degno di morte», non prestar ascolto; se tutti i dignitari ti dicono: «È degno di morte», non prestar ascolto; ma se tutta la gente del regno dice: «È degno di morte», allora esamina quell’uomo e, se t’appare meritevole di morte, poi fallo morire. Perciò si dice: «L’ha mandato a morte il popolo». Se ti comporterai così, poi potrai essere considerato il padre e la madre del popolo. 15. Il re Hsüan di Ch’i domandò: — È vero che T’ang bandì Chieh (mentre) il re Wu punì Chou?29 — Secondo quanto è stato tramandato, è così — rispose Mencio. — È lecito ad un suddito mandare a morte il proprio sovrano?

— Chi lede la carità è detto scellerato, chi viola la giustizia è detto oppressore. Gli oppressori e gli scellerati sono comuni individui. Ho inteso dire che fu punito un individuo di nome Chou, non che fu mandato a morte un sovrano. 16. Mencio fece visita al re Hsüan di Ch’i. — Se costruisci un palazzo — disse — certamente incarichi il mastro carpentiere di cercare dei grossi tronchi e, quando costui li ha trovati, ti rallegri perché pensi che essi saranno capaci di adempiere il loro compito. Allorché gli operai, squadrandoli, li assottigliano, t’adiri perché pensi che non adempiranno il loro compito. Ma ad un uomo, che nella giovinezza si è dedicato allo studio e nella maturità vuole porre in pratica (ciò che ha appreso), o re, tu dici: «Per il momento metti da parte ciò che hai imparato e obbediscimi». Che pensarne? Ecco qua una pietra preziosa: anche se (già) vale diecimila i30 certamente incarichi un gioielliere di polirla e di tagliarla (ma non gli dai ordini sul modo di lavorarla). Però, quando si tratta del governo dello stato, tu dici: «Per il momento metti da parte ciò che hai imparato e obbediscimi». Perché agisci diversamente da come ti comporti quando incarichi il gioielliere di polire e tagliare una pietra preziosa? 17. Quelli di Ch’i avevano invaso Yen e l’avevano vinto31. Il re Hsüan interrogò dicendo: — Qualcuno dice all’uomo di scarsa virtù di non impossessarsene, altri dice all’uomo di scarsa virtù di impossessarsene. Con un regno da diecimila carri da guerra attaccare un (altro) regno da diecimila carri e conquistarlo in cinque decadi: le forze umane non giungono a tanto (quindi v’è stata la volontà divina). Se non lo prendo, certamente me ne verrà sventura dal Cielo. Che ne dici di prenderlo? — Se il popolo di Yen è contento che tu lo prenda — rispose Mencio — allora prendilo. Tra gli antichi v’è stato chi l’ha fatto, e precisamente il re Wu. Se il popolo di Yen non è contento che tu lo prenda, allora non prenderlo. Tra gli antichi v’è stato chi l’ha fatto, e precisamente il re Wên. Che poi con un regno da diecimila carri da guerra tu abbia vinto un (altro) regno da diecimila carri, a che altro può attribuirsi se non al fatto che (il popolo di Yen) è venuto incontro alle tue truppe, o re, recando cestelli di riso e vasi di bevande? Quelli sfuggivano dall’acqua e dal fuoco (cioè al malgoverno del loro paese). Ma se tu rendi l’acqua più profonda e il fuoco più bruciante, allora volteranno le spalle anche a te. 18.

Quelli di Ch’i avevano attaccato Yen e se n’erano impossessati. I feudatari presero a consultarsi per liberare Yen32. Il re Hsüan disse: — I feudatari complottano per attaccare l’uomo di scarsa virtù. Che fare per tenerli a bada? — Il suddito — rispese Mencio — ha inteso parlare di uno che, con un regno di settanta li, esercitò il governo sull’impero: precisamente T’ang. Non ha mai inteso parlare di uno che, con un regno di mille li, abbia timore degli altri. Nei Documenti (IV, 2, 6) è detto: «Quando T’ang cominciò a correggere, iniziò da Ko. L’impero ebbe fiducia in lui. Quando correggeva ad oriente, i (barbari) I si lamentavano ad occidente; quando correggeva a meridione, a settentrione si lamentavano i (barbari) Ti. Dicevano: “Perché ci lascia per ultimi (liberando prima gli altri?”»33. Il popolo sperava in lui come durante la grande siccità si spera nelle nubi e nell’arcobaleno. Chi andava al mercato non s’arrestò, chi lavorava nei campi non si mosse. Egli punì i principi e consolò i popoli, i quali furono pieni d’una grande gioia come quando la pioggia cade dal cielo al tempo giusto. Nei Documenti (IV, 2, 6) è detto: «Attendiamo il nostro sovrano. Egli viene a farci rivivere!» Ora, il principe di Yen opprimeva il suo popolo e tu, o re, sei accorso a correggerlo. Il popolo ha creduto che tu fossi andato a salvarlo da mezzo all’acqua e al fuoco ed è venuto incontro alle tue truppe recando cestelli di riso e vasi di bevande. Ma tu hai ucciso i loro padri e fratelli maggiori, hai messo in catene i loro figli e fratelli minori, hai distrutto i loro templi ancestrali ed asportato i loro vasi preziosi. Credi che ciò sia lecito? L’impero già temeva la potenza di Ch’i: oggi tu raddoppi il suo territorio ma non instauri un governo caritatevole. È questo che mette in moto gli eserciti dell’impero. O re, affrettati ad impartire ordini affinché siano rimandati alle loro case i vegliardi e i giovinetti e cessi (il saccheggio de) gli oggetti preziosi. Consulta il popolo di Yen, dagli un principe e poi ritirati. Così forse riuscirai ad arrestare (la levata degli eserciti). 19. Tra Tsou e Lu v’era stato un rumore di battaglia. Il duca Mu (di Tsou) chiese: — Ho avuto trentatre morti fra gli ufficiali, ma nessuno del popolo si è fatto uccidere (per difenderli). Se li punisco (i soldati) non finirò più di metterli a morte; se non li punisco, quelli guarderanno biecamente i loro superiori morire senza soccorrerli. Che mi consigli di fare? — Nei tempi di calamità e negli anni di carestia — rispose Mencio — tra il tuo popolo i vecchi e i deboli che furono rotolati (morti) nei canali e nei fossi e

gli uomini robusti che si dispersero ai quattro venti furono parecchie migliaia. Però i tuoi granai erano pieni, o principe, e la tesoreria traboccava. Non uno dei tuoi ufficiali ti ha riferito (la situazione): questa è negligenza dei superiori e crudeltà verso gli inferiori. Tsêng-tzu diceva: «Siate cauti! Siate cauti! Ciò che esce da voi a voi ritornerà». Il popolo li ha ripagati una volta per tutte. O principe, non biasimarlo! Se tu, o principe, governi caritatevolmente, il popolo amerà i suoi superiori e darà la vita per i suoi ufficiali. 20. Il duca Wên di Têng domandò: — Têng è un piccolo stato, stretto in mezzo a (i grandi regni) Ch’i e Ch’u. Devo servire Ch’i? Devo servire Ch’u? — Questo è un calcolo a cui non posso arrivare io — rispose Mencio. — Per non tacere ti darò un consiglio: rendi più profondi i fossati, costruisci più alte le mura e difendile insieme al popolo. Sfida la morte e il popolo non t’abbandonerà. Questo puoi farlo. 21. Il duca Wên di Têng domandò: — Ch’i sta per fortificare Hsieh34. Io sono il grande timore. Che devo fare? — Anticamente — rispose Mencio — quando T’ai Wang risiedeva a Pin, i (barbari settentrionali) Ti lo aggredivano e perciò egli l’abbandonò e andò a stabilirsi ai piedi del monte Ch’i35. Non se ne impossessò di sua scelta, ma perché non poté farne a meno. Se operi il bene, nelle successive generazioni, fra i figli e i nipoti, vi sarà chi regnerà sull’impero (come fu per la discendenza di T’ai Wang). Quando un principe getta le fondamenta e le trasmette ai suoi discendenti, fa opera che potrà essere continuata. Che poi possa essere condotta a termine, questo sta al Cielo. Chi sei tu a confronto di quelli (di Ch’i)? Sii forte nel fare il bene e basta. 22. Il duca Wên di Têng interrogò dicendo: — Têng è un piccolo stato. Io faccio del mio meglio per servire i grandi regni, ma non posso sottrarmi a loro. Che mi consigli di fare? — Anticamente — rispose Mencio — quando T’ai Wang risiedeva a Pin, i Ti lo aggredivano. Fece loro omaggio di pelli e di sete, ma non poté sottrarsi (alle loro scorrerie). Fece loro omaggio di cani e di cavalli, ma non riuscì a scansarli. Fece loro omaggio di perle e di gemme, ma non poté evitarli. Allora adunò i vecchi e gli anziani e disse loro: «Ciò che i Ti vogliono è il mio territorio. Mi hanno insegnato che un principe non fa soffrire il popolo a causa di ciò con cui nutre il popolo. Figli miei, perché vi affliggerei privandovi del

vostro principe (se mi facessi uccidere)? Ce ne andremo». Abbandonato Pin, varcarono il monte Liang, fondarono una città ai piedi del monte Ch’i e vi si stabilirono. Il popolo di Pin s’era detto: «È un uomo caritatevole, non dobbiamo perderlo». Coloro che lo seguivano sembrava che andassero al mercato (tanto si affrettavano). Altri ti dirà: «(Il territorio) è stato conservato per generazioni, non è cosa di cui la tua persona possa disporre. Sfida la morte ma non abbandonarlo». O principe, ti prego di scegliere fra questi due partiti. 23. Il duca P’ing di Lu era in procinto di uscire. Un tale Tsang Ts’ang, suo favorito, lo pregò dicendo: — Gli altri giorni, quando il principe usciva dava istruzioni agli ufficiali sul luogo dove si recava. Oggi il cocchio è già attaccato, ma gli ufficiali ancora non sanno dove va il principe. Oso pregarti. — Vado a far visita a Meng-tzu — disse il duca. — Come! — esclamò l’altro. — Il principe s’abbassa a far visita per primo ad un privato, forse perché lo considera un uomo virtuoso? Dall’uomo virtuoso traboccano i riti e la giustizia, ma Meng-tzu nel lutto posteriore (per la madre) ha soverchiato quello anteriore (per il padre). O principe, non gli far visita! — Sia — disse il duca. Entrò in udienza Yo-chêng-tzu36, il quale domandò: — Principe, perché non sei andato da Meng Ko? — Qualcuno — rispose il duca — mi ha detto che nel lutto posteriore egli ha soverchiato quello anteriore. Per questo non sono andato a visitarlo. — Come! — esclamò Yo-chêng-tzu. — Ciò che il principe chiama soverchiare è quel che nel primo lutto egli fece come letterato e nel secondo come dignitario, nel primo offrendo tre vassoi e nel secondo cinque?37 — No — disse il duca. — Mi riferivo al fasto della bara, del sarcofago, del sudario e del drappo. — Questo non si chiama soverchiare, ma differenza tra povertà e ricchezza38. Yo-chêng-tzu si recò da Mencio e gli disse: — K’ê (io) aveva parlato di te al principe ed egli stava per venire a visitarti, quando un suo favorito, un certo Tsang Ts’ang, l’ha dissuaso. Per questo non è venuto. — L’uomo avanza quando qualcuno lo spinge — disse Mencio — e s’arresta quando qualcuno l’ostacola: (ma in realtà) far avanzare o arrestare non è cosa che sia in potere degli uomini. Che io non possa operare in armonia col marchese di Lu è (volere del) Cielo. Come potrebbe il figlio della famiglia

Tsang far sì che non collabori con lui?

LIBRO II KUNG-SUN CHOU PARTE PRIMA 24. Kung-sun Chou domandò: — Maestro, se a Ch’i sarai in una posizione importante, si potrà sperare ancora nei buoni risultati ottenuti da Kuan Chung e da Yen-tzu?39 — Sei davvero un provinciale di Ch’i! — rispose Mencio. — Conosci Kuan Chung e Yen-tzu e basta. Vi fu un tale che chiese a Tsêng Hsi (nipote di Tsêng-tzu): «Fra te e Tzu-lu chi è più virtuoso?» A disagio, Tsêng Hsi rispose: «Quello era un uomo di cui anche mio nonno temeva (il paragone)!» «Allora — chiese l’altro — fra te e Kuan Chung chi è più virtuoso?» Tsêng Hsi, irritato e scontento, disse: «Perché mi metti a paragone con Kuan Chung? Kuan Chung ebbe la fiducia del principe così intera, tenne il governo tanto a lungo, (eppure) lo splendore delle sue imprese fu così meschino! Perché mi metti a paragone con costui?»40 Se Tsêng Hsi non volle essere un Kuan Chung, credi che voglia esserlo io? — Kuan Chung — insisté il discepolo — fece del suo principe il capo dei feudatari e Yen-tzu rese illustre il suo principe. Non ti basta essere come questi due? — Fare di Ch’i un sovrano — disse Mencio — sarebbe facile come voltare la mano. — Se è così — disse Kung-sun Chou — allora la perplessità del tuo discepolo s’accresce ancor di più! Perfino il re Wên, con tutta la sua virtù, morì centenario eppure non era penetrato in (tutto) l’impero: continuarono la sua opera il re Wu e il duca Chou e solo dopo si ebbero grandi progressi. Ora tu parli di regnare come se fosse facile. Allora il re Wên non basta come modello? — Il re Wên come potrebbe essere eguagliato? Da T’ang fino a Wu Ting i sovrani virtuosi e santi furono sei o sette, da lungo tempo l’impero si era rivolto alla dinastia Yin41: perciò fu difficile operare un mutamento. Quando Wu Ting riceveva a corte i feudatari, teneva l’impero come se lo rigirasse nel palmo della mano. Da Wu Ting a Chou (Hsin) non passò molto tempo: le antiche famiglie (di ministri), i costumi aviti, le usanze correnti, la buona amministrazione, erano tuttora esistenti. Inoltre, (Chou Hsin) aveva il visconte

di Wei, Wei Chung, i figli di re Pi-kan e Chi-tzu, nonché Chiao Kê, tutti uomini virtuosi i quali lo assistevano42. Per questo occorsero molti anni prima che egli perdesse l’impero. Non v’era palmo di territorio che non fosse sotto il suo dominio, né uno del popolo che non fosse suo suddito, mentre il re Wên prendeva le mosse da (un piccolo regno di) cento li di lato. Per questo l’impresa fu ardua. La gente di Ch’i ha un detto: «Anche se hai sapienza e intelligenza, è meglio che cogli l’occasione favorevole; anche se hai gli attrezzi per arare, è meglio che aspetti il momento opportuno». Nel presente momento sarebbe facile (giungere a regnare sull’impero). Ai tempi del fiorire degli Hsia, degli Yin e dei Chou, il loro dominio non superava il migliaio di li: Ch’i ha questo territorio. Il canto dei galli e l’abbaiare dei cani si rispondevano fino ai quattro confini (tanto erano fitti i villaggi): Ch’i ha questa popolazione. Il suo territorio non ha bisogno d’estendersi né la sua popolazione d’accrescersi: eserciti un governo caritatevole e regnerà. Nessuno potrà impedirglielo. Inoltre, non è mai passato tanto tempo (come dal cambiamento operato dal re Wu) fino ai giorni nostri senza che sorgesse un sovrano, né mai è stata così grande come ai nostri giorni la sofferenza del popolo sotto governi crudeli. È facile indurre l’affamato a mangiare, è facile indurre l’assetato a bere (così come è facile indurre l’oppresso ad accettare un buon governo). K’ung-tzu disse: «Lo scorrere della carità è più veloce dei corrieri che portano un ordine imperiale». In questo momento, se un regno da diecimila carri da guerra esercitasse un governo caritatevole, il popolo ne esulterebbe come un uomo appeso con la testa all’ingiù che venga liberato. Perciò, con metà dello sforzo degli antichi si otterrebbe un effetto doppio. Ma soltanto in questo momento è così (non si presenteranno altre occasioni). 25 Kung-sun Chou domandò: — Maestro, nel caso che tu fossi nominato dignitario e primo ministro di Ch’i e potessi attuare la Via, non vi sarebbe da meravigliarsi se con essa tu facessi (del suo principe) un capo dei feudatari o un imperatore. Ove ciò accadesse, ne saresti emozionato o no? — No — rispose Mencio. — A quarant’anni non provavo emozioni43. — Se è così — osservò l’altro — allora il Maestro supera di gran lunga Meng Pên44. — Ciò non è difficile — disse Mencio. — Kao-tzu45 è giunto all’impassibilità in età più giovanile. — C’è una via per (giungere a) l’impassibilità?

— Sì. C’è il modo di coltivare il coraggio di Pei-kung Yu: non si piegava nemmeno se lo ferivano nella carne, non volgeva lo sguardo nemmeno se lo ferivano nell’occhio. Considerava la minima ingiuria fattagli da chicchessia come una bastonatura sulla piazza del mercato: non la tollerava né da uno zotico dall’ampio mantello di pelo né da un principe da diecimila carri da guerra. Ai suoi occhi, trafiggere un principe da diecimila carri era la stessa cosa che trafiggere uno zotico vestito di pelo. Non temeva i feudatari, se gli veniva rivolta qualche brutta parola non mancava di ribattere a tono. V’è poi il modo di coltivare il coraggio di Meng Shê46. Diceva: «Ai miei occhi, non vincere è la stessa cosa che vincere. Misurare il nemico e poi avanzare, calcolare le probabilità di vittoria e poi attaccare, è affare di chi teme tre armate. Shê (io) come potrebbe essere sicuro di vincere? Può non aver paura e basta». Meng Shê somigliava a Tsêng-tzu, Pei-kung Yu somigliava a Tzuhsia47. Per coraggio, non so quale di questi due (Meng e Pei-kung) superasse l’altro, ma Meng Shê si atteneva a ciò che è più importante. Una volta Tsêngtzu disse al (suo discepolo) Tzu-hsiang: «Ami il coraggio? Io ho inteso parlare del grande coraggio dal Maestro (Confucio): se esaminandomi, non mi trovo retto, non temerò anche uno zotico dall’ampio mantello di pelo? Se esaminandomi mi trovo retto, sfiderò anche migliaia e decine di migliaia di persone». Però, Meng Shê, che si affidava allo spirito vitale48, era inferiore a Tsêng-tzu che si atteneva a ciò che è (veramente) più importante. — Oso interrogare — disse Kung-sun Chou. — Potrei ascoltarti sulla tua impassibilità e su quella di Kao-tzu? — Kao-tzu dice: «Se non ottieni dalle parole non cercare nell’intelletto, se non ottieni dall’intelletto non cercare nello spirito vitale». Non cercare nello spirito vitale ciò che non si è ottenuto dall’intelletto, si può concedere; ma non cercare nell’intelletto ciò che non si è ottenuto dalle parole, non si può concedere49. La volontà guida lo spirito vitale, ma di questo è pervaso tutto il corpo. La volontà è suprema, lo spirito vitale subordinato. Perciò dico: mantieni salda la volontà, ma non lasciar inaridire lo spirito vitale. Osservò il discepolo: — Poiché affermi che la volontà è suprema e lo spirito vitale subordinato, perché dici anche di mantenere salda la volontà ma di non lasciar inaridire lo spirito vitale? — Quando la volontà si concentra muove lo spirito vitale, quando lo spirito vitale si concentra muove la volontà. Ecco un uomo che inciampando affretta il passo: questo è spirito vitale (istinto), però muove la mente (volontà).

— Oso domandare: in che cosa il Maestro supera (il pensiero di Kao-tzu)? — Io (mi sforzo di) intendere le parole e ben nutrire il mio spirito vitale rigoglioso e fluido50. — Oso interrogare. Che intendi per spirito vitale rigoglioso e fluido? — È difficile spiegarlo — rispose Mencio. — Ecco come è lo spirito vitale: infinitamente grande e massimamente inflessibile. Educato rettamente senza recargli nocumento, esso colma l’intervallo tra Cielo e Terra51. Ecco come è lo spirito vitale: è in accordo con la giustizia (la morale) e con la ragione celeste (tao). Senza di esse langue. Ma questo è originato da accumulati atti morali, non vi si perviene con un casuale atto morale. Se nell’agire (l’uomo) non è soddisfatto nel suo intelletto (per l’immoralità dell’azione), esso langue. Perciò dico che Kao-tzu non ha mai compreso la giustizia perché la rende esteriore. Bisogna impegnarsi (nelle azioni di giustizia o morali), ma non per quel precipuo scopo (di nutrire lo spirito vitale). Se la mente non si astrae (da tale compito), non aiuta (lo spirito vitale) a crescere naturalmente. Non bisogna fare come quel contadino di Sung. Un contadino di Sung, angustiato perché i suoi germogli non erano alti, si dette a tirarli (sradicandoli). Poi, istupidito dalla fatica, se ne tornò a casa. Ai suoi disse: «Oggi sono stracco morto. Ho aiutato i germogli a crescere». I figli corsero a vedere: i germogli erano tutti appassiti. A questo mondo sono pochi coloro che non aiutano i germogli a crescere. Coloro che considerano (lo spirito vitale) di nessun vantaggio e lo trascurano sono quelli che non sarchiano i germogli; coloro che lo aiutano a crescere sono quelli che estirpano i germogli. Non solo non gli recano alcun beneficio ma addirittura gli nuocciono. — Che significa: intendere le parole? — Dalle parole partigiane capisco che (la mente) è offuscata, dalle parole dissolute capisco che è infatuata, dalle parole depravate capisco che è pervertita, dalle parole sfuggenti capisco che è immiserita. Se (questi mali) nascono nell’intelletto nuocciono al governo, se spiegano i loro effetti nel governo nuocciono ai suoi affari. Quando un santo sorgerà di nuovo, certamente approverà le mie parole. — (I discepoli di Confucio) Tsai Wo e Tzu-kung eccellevano nell’eloquio, Jan Niu, Min-tzu e Yen Yüang avevano parole buone e condotta virtuosa. K’ung-tzu riuniva in sé queste qualità, ma diceva: «In fatto di parole non sono competente». Allora tu, o Maestro, sei pervenuto alla santità? — Uh! Che discorso è questo? — esclamò Mencio. — Una volta Tzu-kung chiese a K’ung-tzu: «O Maestro, sei un santo?» «Di esser santo sono incapace

— rispose K’ung-tzu. — Apprendo senza saziarmi e istruisco senza stancarmi». Disse Tzu-kung: «Apprendere senza saziarsi è sapienza, istruire senza stancarsi è carità. Se sei sapiente e caritatevole, o Maestro, sei un santo». Perfino K’ung-tzu, quindi, non lo ammise (di essere un santo). Che discorso è il tuo? — Una volta ho inteso dire che Tzu-hsia, Tzu-yu e Tzu-chang avevano tutti una delle membra del santo e che Jan Niu, Min-tzu e Yen Yüang ne avevano l’intero corpo, sia pure non sviluppato. Oso domandare in quale gruppo collocheresti te stesso. — Lasciamo da parte ciò — disse Mencio. — Che ne dici di Po-i e di I Yin? — chiese il discepolo. — Non seguivano la stessa Via — rispose Mencio. — Non servire chi non era il suo principe e non comandare a quello che non era il suo popolo (cioè l’uno degno d’essere servito e l’altro d’essere comandato da lui), farsi avanti negli uffici in tempi di ordine, ritirarsi in tempi di disordine: tale era Po-i. Chi servire se non un principe (qualunque)? A chi comandare se non ad un popolo (qualsiasi)? Farsi avanti in tempi di ordine, farsi avanti in tempi di disordine: tale era I Yin. Assumere incarichi quando era corretto assumerli, ritirarsi quando era corretto ritirarsi, restarvi a lungo quando era corretto starvi a lungo, abbandonarli subito quando era corretto abbandonarli subito: tale era K’ung-tzu. Tutti costoro sono santi del tempo passato, la cui condotta io non sono stato capace di imitare. Ma ciò che desidero è di imparare da K’ung-tzu. — Posti a confronto con K’ung-tzu, Po-i e I Yin gli stanno alla pari? — No! Da quando nacque l’uomo ad oggi non v’è mai stato un (altro) K’ung-tzu. — Ma avevano qualcosa in comune? — Sì. Se avessero avuto un territorio di cento li e ne fossero stati i principi, tutti loro avrebbero potuto ricevere i feudatari a corte ed ottenere l’impero. Se per ottenere l’impero avessero dovuto commettere una sola azione iniqua o mettere a morte un solo innocente, tutti loro non l’avrebbero fatto. Questo avevano in comune. — Oso domandare in che egli differiva. — Tsai Wo, Tzu-kung e Yu Jo avevano abbastanza senno per conoscere il santo (Confucio). Si consideravano inferiori, ma non si sarebbero mai abbassati ad adulare colui che amavano. Tsai Wo diceva: «Secondo il mio parere sul Maestro, egli è di gran lunga più virtuoso di Yao e di Shun». Tzukung diceva: «Se osserviamo i riti (di un imperatore) conosciamo il suo

governo, se ascoltiamo la sua musica conosciamo la sua virtù. Risaliamo indietro di cento generazioni e allineiamo cento imperatori: nessuno di essi può sfuggire al nostro esame. (Ebbene) dacché nacque l’uomo ad oggi, non v’è stato mai (nessuno come) il Maestro». Yu Jo diceva: «Perché parlare solo degli uomini? L’unicorno fra gli animali che camminano, la fenice fra gli uccelli che volano, il T’ai-shan fra le alture e i formicai, i fiumi e il mare tra i rigagnoli (benché differenti per nobiltà) sono della stessa specie. Anche il santo fra gli uomini è della stessa specie, ma il santo si distingue dalla sua specie e sovrasta la folla dei suoi simili. Dacché nacque l’uomo ad oggi, non s’è mai visto un uomo più fiorente di K’ung-tzu». 26. Mencio disse: — Colui che fa uso della potenza e simula la carità è un capo dei feudatari: ad un capo dei feudatari è necessario un grande stato. Colui che fa uso della virtù e pratica la carità è un sovrano: un sovrano non aspetta (di avere) un grande stato. T’ang aveva uno stato di settanta li e il re Wên di cento. A chi li sottomette con la potenza gli uomini non si sottomettono con il cuore, ma perché non hanno la forza (per resistere). A chi li sottomette con la virtù gli uomini si mostrano compiaciuti nel profondo del cuore e gli si sottomettono sinceramente, come i settanta discepoli si sottomisero a K’ungtzu. Nell’Ode (III, 10, 6) è detto: «Da occidente e da oriente, da meridione e da settentrione, nessuno v’era che pensasse di non sottomettersi». Significa appunto ciò. 27. Mencio disse: — (Il principe) sia caritatevole e sarà glorificato, sia malvagio e sarà vituperato. Ora, odiare di essere vituperato e permanere nella malvagità è come odiare l’umidità ed abitare nelle bassure. Se odia d’essere vituperato, nulla (può fare) di meglio che apprezzare la virtù, onorare i letterati, premettere alle cariche gli uomini degni e agli uffici gli uomini di talento e, quando lo stato è libero da preoccupazioni (esterne), approfittare del momento per riesaminare l’amministrazione e le leggi penali. Gli altri stati, per quanto grandi siano, dovranno temerlo. Nell’Ode (I, 155, 2) è detto: «Quando il cielo non era ancora scuro di pioggia, ho raccolto le radici del gelso e le ho intrecciate su porta e finestra (del nido). Ora, di questa gente di sotto qualcuno oserà insultarmi?»52 K’ung-tzu disse: «Chi ha composto quest’ode conosceva la Via! Chi oserà insultare colui che è riuscito a dar ordine al suo stato?» Oggi, quando lo stato è libero da preoccupazioni, si approfitta del momento per abbandonarsi ai piaceri e all’indolente

noncuranza: questo è cercarsi la sventura. Non v’è buona o mala ventura che non sia procurata da noi stessi. Nell’Ode (III, 1, 6) è detto: «Studiatevi sempre di armonizzare con la volontà celeste, vi procurerete molta felicità». Nel T’ai Chia (Libro dei Documenti, IV, 5, pt. II, 3) è detto: «La sventura inviata dal Cielo può essere evitata, ma non c’è scampo da quella che ci procuriamo noi stessi». Questo è appunto il significato (di ciò che ho detto). 28. Mencio disse: — (Il principe) onori gli uomini virtuosi, si avvalga degli uomini capaci, così che nelle magistrature vi siano persone eminenti per virtù e talento: allora tutti i letterati dell’impero si rallegreranno e vorranno stabilirsi alla sua corte. Nei mercati tassi le botteghe (per il terreno che occupano) ma non le merci, oppure (quando le botteghe sono poche) ne affidi il regolamento ad un funzionario e non imponga le tasse: allora tutti i commercianti dell’impero si rallegreranno e vorranno stipare le loro mercanzie nei suoi mercati. Ai confini effettui i controlli ma non levi tasse: allora tutti i viandanti dell’impero si rallegreranno e vorranno percorrere le sue strade. Dagli agricoltori esiga la collaborazione53 ma non (altre) imposte: allora tutti i contadini dell’impero si rallegreranno e vorranno coltivare le sue terre incolte. Nelle città di mercato non imponga le ammende previste per gli oziosi e per le terre non coltivate54: allora tutti i popoli dell’impero si rallegreranno e vorranno diventare il suo popolo. Se egli sarà capace di attenersi sinceramente a queste cinque norme, le popolazioni degli stati vicini lo vorranno come loro padre e madre. Da quando nacque l’uomo ad oggi, mai nessuno è riuscito a spingere i figli ad aggredire il padre e la madre: in tal modo, (questo principe) non avrà avversari nell’impero. Colui che non ha avversari nell’impero è l’inviato del Cielo e che costui non regni non s’è mai verificato. 29. Mencio disse: — Tutti gli uomini hanno un cuore che non tollera le sofferenze altrui. Gli antichi sovrani avevano un cuore siffatto e perciò istituivano dei governi misericordiosi. Quando con un cuore intollerante delle sofferenze altrui si attua un governo misericordioso, nel governarlo l’impero può essere rigirato nel palmo della mano. Ciò per cui dico che tutti gli uomini hanno un cuore che non tollera la sofferenza altrui è questo: supponi che la gente veda improvvisamente un bambino che sta per cadere nel pozzo. Tutti provano un sentimento di raccapriccio e di pietà, non perché vogliano guadagnarsi la riconoscenza dei genitori del bambino, non perché cerchino la

lode dei compagni del villaggio, non perché detestino di farsi la fama (di insensibili). Da ciò appare che esser privo del sentimento della pietà e della commiserazione non è da uomo; esser privo del sentimento della vergogna (per le proprie colpe) e della ripugnanza (per le colpe altrui) non è da uomo; non avere il sentimento della rinuncia (di sé) e della cedevolezza (agli altri) non è da uomo; non avere il sentimento del diritto e del torto non è da uomo. Il sentimento della pietà e della commiserazione è il bandolo della carità, il sentimento della vergogna e della ripugnanza è il bandolo della giustizia, il sentimento della rinuncia e della cedevolezza è il bandolo dei riti, il sentimento del diritto e del torto è il bandolo della sapienza. L’uomo ha questi quattro princìpi come ha le quattro membra. Avere questi quattro princìpi e dichiararsi incapace (di bene) è farsi ingiuria; affermare che il proprio principe è incapace è far ingiuria al principe. Poiché tutti hanno in sé questi quattro princìpi, saperli sviluppare e portarli alla pienezza è come il divampare d’un fuoco e lo zampillare d’una sorgente. Sol che si riesca a portarli alla pienezza, bastano per amare e proteggere (tutti tra) i quattro mari; se non vi si riesce, non bastano nemmeno per servire il padre e la madre. 30. Mencio disse: — L’uomo che fabbrica le frecce è forse più inumano dell’uomo che fabbrica le corazze? (Eppure) il primo teme solo di non far ferire gli uomini, il secondo teme solo di far ferire gli uomini. Così è anche per i maghi (che guadagnano pregando per la vita degli uomini) e i fabbricanti di bare (che guadagnano per la morte degli uomini). Perciò non si può non esser cauti nella scelta della professione. K’ung-tzu disse: «Se in un villaggio è tenuta in onore la carità, scegliere di non abitare fra la carità è da sapienti?»55 Poiché la carità è la più onorevole dignità conferita dal Cielo e la dimora di pace per l’uomo. Non essere caritatevoli quando nulla lo impedisce è mancanza di saggezza. Colui che non è caritatevole non è saggio (e perciò) è privo di riti e di giustizia: egli è servo degli altri. Esser servo e vergognarsi d’esser servo è come esser fabbricante d’archi e vergognarsi di far archi, esser fabbricante di frecce ed arrossire di far frecce. Se se ne vergogna nulla (può fare) di meglio che attenersi alla carità. L’uomo caritatevole è come l’arciere: l’arciere prima si corregge (nella posizione) e poi scocca. Se scocca e non colpisce nel centro, non si adira con chi l’ha superato, ma si rivolge a cercarne le cause in sé stesso. 31. Mencio disse: — Quando qualcuno diceva a Tzu-lu che era in errore, egli

ne gioiva. Quando (l’imperatore) Yü sentiva una parola buona, s’inchinava. Il grande Shun aveva (il dono) maggiore: la bontà in comune con gli altri. Metteva da parte sé stesso e si conformava agli altri, gioiva nel prendere dagli altri per fare il bene. Dal tempo in cui era contadino, vasaio, pescatore, fino a che divenne imperatore, non vi fu esempio che non prendesse dagli altri. Prendere dagli altri per fare il bene significa indurre gli altri ad operare il bene. Perciò nel saggio nulla è più grande che indurre gli altri a fare il bene. 32 Mencio disse: — Po-i non serviva se non il suo principe e non trattava con amicizia se non (coloro che erano degni d’essere) suoi amici. Non si stabiliva alla corte d’un malvagio, né dava consigli ad un perverso. Stabilirsi alla corte d’un malvagio o dar consigli ad un perverso era per lui come sedere nel fango o sul carbone con l’abito e il berretto di cerimonia. Spingeva a tal punto la sua avversione per il male che, se stava con un villano il cui berretto non fosse corretto, si allontanava senza considerarlo, come se fosse per esserne insozzato. Per lo stesso motivo non accettava doni dai feudatari, anche se giungevano accompagnati da appropriati messaggi, e non li accettava perché riteneva contrario alla sua purezza avere a che fare con loro. Hui di Liu-hsia, invece, non disdegnava un principe corrotto né considerava umile una carica modesta. Quando si faceva avanti (per un impiego) non poneva in ombra la sua virtù ma seguiva immancabilmente la sua Via. Messo da parte e privato dell’ufficio non serbava rancore, ridotto in miseria non si lamentava. Diceva: «Voi siete voi, io sono io. Se anche foste al mio fianco con il petto nudo o con il corpo discinto, forse potreste gettare la vergogna su di me?» Per questo si accompagnava con chiunque senza perdere la sua personalità. Se lo trattenevano perché si fermasse (nell’ufficio), si fermava. Si fermava quando lo trattenevano, perché riteneva contrario alla sua purezza andarsene. Mencio aggiunse: — Po-i era di mente ristretta, Hui di Liu-hsia mancava del rispetto di sé. Il saggio evita sia la ristrettezza di mente che la mancanza del rispetto di sé.

LIBRO II KUNG-SUN CHOU PARTE SECONDA 33. Mencio disse: — Il momento del Cielo val meno del vantaggio della Terra e questo val meno della concordia fra gli uomini56. Ecco (una città con) le mura interne lunghe tre li e quelle esterne sette li, che (il nemico) assedia e assalta senza riuscire a conquistarla: se l’assedia e l’assalta, certamente ha colto il momento propizio; ma se non riesce a conquistarla significa che il momento propizio val meno del vantaggio del terreno. Le fortificazioni sono alte, il fossato è profondo, le armi sono affilate e le corazze robuste, il riso ed il frumento abbondano: se (gli abitanti) cedono e l’abbandonano, significa che il vantaggio del terreno val meno della concordia fra gli uomini. Perciò si dice: «Un popolo è racchiuso non dai limiti degli spalti e dei confini, uno stato è sicuro non per l’ostacolo delle montagne e delle gole, un impero ispira timore non per l’affilatezza delle armi e (la robustezza) delle corazze». Chi segue la Via trova molti che l’aiutano, chi si discosta dalla Via trova pochi che l’aiutano: l’estrema scarsità d’aiuti si ha quando parenti e congiunti l’abbandonano, la massima abbondanza d’aiuti si ha quando tutto l’impero gli dà la sua adesione. Avere l’adesione di tutto l’impero ad attaccare chi è abbandonato (perfino) dai parenti e dai congiunti: ecco perché il saggio non combatte e, se combatte, è certamente vittorioso. 34. Mencio era in procinto di recarsi a corte dal re, quando questi mandò un messo a dirgli: — L’uomo di scarsa virtù, mentre era sulle mosse per venire a farti visita, ha preso un’infreddatura e non può esporsi all’aria. Domani ricevo a corte: non so se puoi consentire all’uomo di scarsa virtù di vederti. Rispose Mencio: — Sfortunatamente sono indisposto. Non potrò venire a corte57. Il giorno dopo uscì per recarsi a fare le condoglianze alla famiglia Tungkuo. Kung-sun Chou osservò: — Ieri hai declinato (l’invito a corte) perché eri malato, mentre oggi esci per una visita di condoglianza. Non è scorretto? — Ieri ero malato ed oggi sto meglio — rispose Mencio. — Perché non dovrei andare a fare le condoglianze? Il re inviò un messo a prendere notizie sulla malattia e venne anche un

medico. Meng Chung-tzu disse: — Ieri, quando giunse l’ordine del re, soffriva di una leggera indisposizione e non poté andare a corte. Oggi stava un po’ meglio e si è affrettato a recarvisi. Non so se possa esservi giunto o no. Poi mandò molte persone a cercarlo per le strade e dirgli: — Ti prego, è necessario che non torni a casa ma ti rechi a corte. Mencio non poté far altro che andare a pernottare da Ching Chou58. — In casa tra padre e figlio — gli disse Ching-tzu — fuori casa tra principe e suddito: sono le grandi relazioni dell’uomo. Tra padre e figlio predomina l’affetto, tra principe e suddito il rispetto. Chou (io) vede che il re ti rispetta, ma non vede in che modo tu rispetti il re. — Eh! Che dicorso è questo? — esclamò Mencio. — Nessuno dei cittadini di Ch’i parla al re della carità e della giustizia. Forse non considerano preziose queste due virtù? In cuor loro dicono: «A che vale parlargli di carità e di giustizia?» Eppure, nessuna mancanza di rispetto è più grande di questa. Io, invece, non oso esporre al re se non la Via di Yao e di Shun. Perciò nessun cittadino di Ch’i rispetta il re quanto me. — No — disse Ching-tzu — non è questo che intendevo. I riti dicono: «Quando il padre chiama, rispondi senza indugio. Quando l’ordine del principe chiama, non aspettare la carrozza». Tu stavi per andare a corte, ma quando hai udito l’ordine del re non hai più attuato la tua intenzione. Ciò non sembra conforme ai riti. — Perché l’intendi così? — domandò Mencio. — Tsêng-tzu diceva: «Non posso arrivare alla ricchezza di Chin e di Ch’u. Essi si tengano la loro ricchezza, io la mia carità; essi il loro rango, io la mia giustizia. Di che mi lamenterei?» Come non sarebbe giusto? Poiché Tsêng-tzu ha detto queste parole, forse in esse trovasi un principio (a cui attenersi). Sotto il cielo tre cose sono universalmente onorate: il rango, l’età, la virtù. A corte nulla vale più del rango, nelle comunità di villaggio nulla vale più dell’età, tra coloro che assistono una generazione (di principi) e guidano il popolo nulla vale più della virtù. Come può ammettersi che chi ha la prima sia poco riguardoso verso chi ha le altre due? Perciò un principe che si accinge a grandi gesta ha certamente dei ministri che non (si deve permettere di) convocare: quando desidera consultare il virtuoso, si reca da lui. Se il suo rispetto per la virtù e il suo compiacimento per la Via non sono tali, egli non è meritevole che (il virtuoso) gli dia la sua opera. Per questo, T’ang prima ascoltò gli insegnamenti di I Yin e poi se ne servì come ministro: fu così che senza fatica pervenne all’impero. Il duca Huang prima ascoltò gli insegnamenti di Kuan Chung e poi se ne servì

come ministro: fu così che senza fatica divenne capo dei feudatari. Che oggi nell’impero, fra tanta parità di territorio e di potenza, non vi sia un principe capace di emergere sugli altri, dipende solo dal fatto che i principi vogliono dei ministri a cui dare delle istruzioni e non vogliono ministri da cui ricevere insegnamenti. L’atteggiamento di T’ang verso I Yin e del duca Huang verso Kuan Chung fu che non avrebbero osato convocarli. Se Kuan Chung era tale che non poteva esser fatto chiamare, tanto più uno che non è un Kuan Chung59. 35. (Il discepolo) Ch’ên Chên domandò: — Tempo fa a Ch’i il re ti fece dono di cento i d’oro fino, ma tu non l’accettasti. (Però) hai accettato i settanta i che ti sono stati donati a Sung e i cinquanta i che ti sono stati donati a Hsieh60. Se il rifiuto d’allora fu giusto, le recenti accettazioni sono state ingiuste; se sono giuste le recenti accettazioni, fu ingiusto il rifiuto d’allora. O Maestro, devi essere fermo in uno di questi (atteggiamenti). — Sono tutti giusti — rispose Mencio. — Quando ero a Sung mi accingevo ad un lungo viaggio: al viandante è uso dare il dono di commiato (perché possa affrontare le spese del viaggio). Il messaggio diceva: «Ti offro il dono di commiato». Perché non avrei dovuto accettarlo? Quando ero a Hsieh ero preoccupato per la mia sicurezza. Il messaggio diceva: «Ho appreso che devi proteggerti, perciò ti offro un dono per la scorta»61. Perché non avrei dovuto accettarlo? Per quanto riguarda Ch’i, non v’era nessun motivo. Fare un dono senza motivo significa (voler) corrompere. Esiste un saggio che si possa acquistare per corruzione? 36. Mencio era andato a P’ing-lu (città dello stato di Ch’i). Disse al governatore: — Se uno dei tuoi uomini d’alabarda abbandonasse la sua pattuglia tre volte nello stesso giorno, lo manderesti a morte o no? — Non aspetterei la terza volta — rispose l’altro. — Tu, però, hai abbandonato la tua pattuglia molte più volte. Negli anni di carestia e di fame, i vecchi e i deboli del tuo popolo che sono stati rotolati (morti) nei canali e nei fossi e gli uomini robusti che si sono dispersi ai quattro venti sono stati parecchie migliaia. — Non è cosa a cui Chü-hsin (io) possa porre rimedio — disse il governatore. — Ecco qua uno che riceve da un altro buoi e pecore al fine di pascerli per lui: certamente cerca pascoli e fieno. Se, avendo cercato pascoli e fieno, non li

trova, restituisce gli animali all’altro o se ne sta lì fermo a vederli morire? — Questa è la colpa di Chü-hsin — ammise il governatore. Un altro giorno, Mencio fece visita al re (Hsüan) e gli disse: — Dei tuoi governatori, o re, il suddito ne conosce cinque. L’unico che riconosca le sue colpe è K’ung Chü-hsin. — E riferì al re (la sua conversazione col governatore). Il re disse: — Questa è la colpa dell’uomo di scarsa virtù (mia). 37. Parlando con Chih-wa (dignitario di Ch’i), Mencio disse: — Hai avuto ragione di rifiutare (il governatorato della città di) Ling-ch’iu e di chiedere il ministero della giustizia. In questa carica puoi parlare al re (per fargli le tue rimostranze sulle leggi penali). Ora son già trascorsi parecchi mesi: ancora non hai avuto occasione di parlare? Chih-wa fece le sue rimostranze al re, ma non fu ascoltato. Allora si dimise dalla carica e se ne andò. Il popolo di Ch’i disse: — Ciò che (Mencio) ha fatto fare a Chih-wa è eccellente. Non comprendiamo quel che fa lui stesso. (Il discepolo) Kung Tu-tzu lo riferì. — Ho inteso dire — osservò Mencio — che chi è premesso ad una carica, se non può svolgere le sue mansioni, si ritira; che chi ha la responsabilità di parlare, se le sue parole non sono ascoltate, si ritira. Io non sono preposto ad alcuna carica né ho la responsabilità di parlare. Non ho la più ampia libertà di farmi avanti o di starmene in disparte? 38. Quando Mencio era primo ministro di Ch’i, andò in missione di condoglianza a Têng. Il re (Hsüan) mandò come suo assistente il governatore della città di Kai, Wang Huan (suo favorito), il quale s’intratteneva con lui mattina e sera. Sulla via dell’andata e ritorno fra Ch’i e Têng, (Mencio) non disse mai una parola (a Wang Huan) sulla missione. Kung-sun Chou disse: — La dignità di ministro di Ch’i (a cui per l’occasione era stato elevato Wang Huan) non è poca cosa, la strada fra Têng e Ch’i non è breve. Siamo di ritorno eppure tu non gli hai ancora parlato della missione. Perché? — Visto che qualcuno (Wan Huan) ha tutto sistemato — disse Mencio — di che avrei dovuto parlare? 39. Da Ch’i Mencio si recò a Lu per il seppellimento (della madre) e,

ritornando a Ch’i, si fermò nella città di Ying62. Ch’ung Yü lo pregò dicendo: — Nei giorni scorsi, non conoscendo l’incapacità di Yü (mia), lo hai incaricato di sorvegliare il lavoro dei falegnami. Siccome era cosa urgente, Yü non ha osato pregarti. Oggi vorrebbe rivolgerti una preghiera: il legno (della bara) era troppo fastoso. — Nell’antichità — disse Mencio — non era stabilito lo spessore della bara e del sarcofago. Nella media antichità, la bara aveva lo spessore di sette t’sun (oggi circa cm. 14) e il sarcofago era in proporzione. Ciò si faceva dal Figlio del Cielo al popolo minuto, non per far ammirare il fasto, ma perché ne derivava una soddisfazione al cuore umano, che restava inappagato quando (tale omaggio ai defunti) non era consentito e restava inappagato quando mancavano i mezzi finanziari. Ma gli antichi, quando era permesso e ne avevano i mezzi, seguivano tutti tale usanza. Perché io solo dovrei fare diversamente? Procurare che la salma non venga a contatto con la terra, non è un conforto per il cuore umano? Io ho appreso che il saggio per nulla al mondo si mostrerebbe parsimonioso verso i genitori. 40. (Il funzionario di Ch’i) Ch’êng T’ung, di sua iniziativa, domandò: — (Il principe di) Yen è meritevole d’essere castigato?63 — Sì — rispose Mencio — giacché Tzu-k’uai non poteva dare Yen ad altri, né Tzu-chih poteva ricevere Yen da Tzu-k’uai64. Ecco qua un funzionario per cui hai dell’affetto: se, senza dir nulla al re. gli cedessi privatamente i tuoi emolumenti e il tuo grado e quello, anche lui senza l’ordine del re, li accettasse privatamente da te, sarebbe lecito? Che differenza c’è con questo caso? Il popolo di Ch’i invase Yen. Qualcuno domandò: — È vero che hai consigliato a Ch’i di attaccare Yen? — No — rispose Mencio. — Ch’êng T’ung mi chiese se Yen era meritevole d’essere castigato ed io gli risposi affermativamente. Quelli hanno colto l’occasione ed hanno attaccato Yen. Se mi avesse chiesto: «Chi può castigarlo?», gli avrei risposto: «Colui che è l’inviato del Cielo può castigarlo». Supponi che vi sia un omicida. Qualcuno mi domanda: «Si può mettere a morte quest’uomo?», io gli risponderò: «Si può». Se l’altro mi chiede ancora: «Chi può metterlo a morte?», allora gli risponderò: «Soltanto il ministro della giustizia ha il potere di mandarlo a morte». Ora, come avrei consigliato Yen di castigare Yen?65 41. Il popolo di Yen si sollevò. Il re disse: — Mi vergogno assai davanti a

Mencio66. (Il dignitario) Ch’ên Chia osservò: — O re, non affliggerti. Fra te e il duca Chou, chi credi che sia più caritatevole e saggio? — Eh! — esclamò il re. — Che discorso è questo? — Il duca Chou mandò Kuan Shu a sovrintendere Yin — disse il dignitario — e Kuan Shu fece sì che Yin si ribellasse67. Se ve lo mandò sapendo (di che era capace), mancò di carità (per aver dato a Kuan Shu l’occasione di ribellarsi); se ve lo mandò perché non lo sapeva, difettò di sapienza. Carità e sapienza: se il duca Chou non riuscì ad essere perfetto in esse, tu, o re, dovresti essere da più? Chia (io) prega di vedere Meng-tzu per chiarire la questione. Andò a far visita a Mencio e gli chiese: — Che uomo era il duca Chou? — Un santo dell’antichità — rispose Mencio. — Mandò Kuan Shu a sovrintendere Yin — disse l’altro — e Kuan Shu fece sì che Yin si ribellasse. È vero? — Sì. — Il duca Chou sapeva che si sarebbe ribellato eppure lo mandò. — Non lo sapeva. — Allora anche i santi sono soggetti ad errare? — Il duca Chou era il fratello minore — spiegò Mencio — e Kuan Shu il fratello maggiore. L’errore del duca Chou non fu determinato dalle convenienze? Eppoi, i saggi dell’antichità, quando sbagliavano, correggevano i loro errori; i principi di oggi, quando sbagliano, persistono nell’errore. Gli errori dei saggi antichi erano come eclissi di sole e di luna: tutto il popolo li vedeva e quando li correggevano tutto il popolo poteva trarne esempio. I principi di oggi s’accontentano forse di persistere nell’errore? Proseguono con il giustificarlo. 42. Mencio rinunciò alla sua carica ufficiale e se ne andò68. Il re Hsüan si recò a fargli visita e disse: — Un tempo desideravo di conoscerti e non riuscivo ad ottenere (questa fortuna). Quando ho ottenuto di essere al tuo fianco, me ne sono profondamente rallegrato insieme a tutta la corte. Ora di nuovo abbandoni l’uomo di scarsa virtù e te ne ritorni al tuo paese. Non so se potremo riprendere questa (collaborazione) e se mi sarà dato di rivederti. — Non oso pregare (di rivederti) — disse Mencio — ma certamente è ciò che desidero. Il giorno dopo, parlando con Shih-tzu (suo ministro), il re disse: — Voglio

che Meng-tzu accetti un palazzo al centro del regno e diecimila chung69 per nutrire i suoi discepoli affinché i dignitari e il popolo abbiano qualcuno da venerare e da imitare. Perché non glielo dici a nome mio? Shih-tzu s’affidò a Ch’ên-tzu (cioè al discepolo Ch’ên Chên) perché lo dicesse a Mencio. Ch’ên-tzu riferì a Mencio le parole di Shih-tzu. — Già — disse Mencio. — Come saprebbe Shih-tzu che ciò non mi è lecito? Se io bramassi la ricchezza, rinunciare a centomila chung per accettarne diecimila sarebbe bramare la ricchezza? Chi Sun diceva: «Che uomo strano era Tzu Shu-i!70 Brigava per entrare nel governo e, se non lo utilizzavano, si ritirava anche, ma brigava ancora affinché suo figlio o il suo fratello minore fosse nominato ministro». Qual è quell’uomo che non desidera la ricchezza e gli onori. Ma soltanto lui tra le ricchezze e gli onori si era fatto un particolare piedistallo. Anticamente coloro che frequentavano i mercati scambiavano ciò che avevano con ciò che non avevano: un funzionario (dall’alto di un podio) vi manteneva l’ordine (dirimendo le controversie). Capitava che degli individui abbietti agognassero quel piedistallo e vi si innalzassero per tener d’occhio a dritta e a manca e rastrellare i profitti del mercato: tutti li consideravano individui spregevoli e perciò si procedette ad imporre loro una tassa. Le tasse sul commercio ebbero origine da (le malversazioni di) quei miserabili. 43. Quando se ne andò da Ch’i, Mencio pernottò nella città di Chou. Vi fu un tale che, per (fare cosa gradita a) il re, volle trattenerlo dal partire. Sedette e parlò: Mencio non gli rispose, ma si appoggiò al tavolo e chiuse gli occhi. Dispiaciuto, l’ospite disse: — Il discepolo (io) ha passato la notte in bianco prima di ardire di parlarti e tu, o Maestro, dormi e non lo ascolti. Ti prego, non oserò più farti visita. — Siedi — disse Mencio. — Ti parlerò chiaramente. Nel tempo passato, se il duca Mu di Lu non avesse messo una persona a fianco di Tzu-szu (come assistente, in segno di rispetto) non sarebbe riuscito ad accontentarlo (e a trattenerlo presso di sé). Se Hsieh Liu e Shên Hsiang71 non avessero avuto una persona al fianco del duca Mu (che gli rammentasse continuamente i due saggi) non si sarebbero accontentati. Tu fai progetti per il tuo superiore (per me), ma non ti adegui al caso di Tzu-szu. Sei tu che offendi il superiore (parlandogli di restare senza averne ricevuto incarico dal re)? O è il superiore che offende te (mostrando di dormire)? 44.

Mencio se ne andò da Ch’i. Yin Shih (cittadino di Ch’i), parlando con altri, disse: — Se non aveva capito che del re non se ne poteva fare un T’ang o un Wu, allora non era intelligente. Se l’aveva capito e ciò nonostante è venuto qui, allora andava in cerca di benefici. Viene da mille li di distanza per incontrarsi col re, non opera in armonia con lui e perciò se ne va. Ma si trattiene tre notti prima di allontanarsi da (la città di) Chou. Che esitazione e che ritardo è questo? A Shih (a me) tutto ciò non piace. Kao-tzu72 ne informò Mencio. — Yin Shih forse mi conosce? — disse Mencio. — Venir da mille li di distanza per incontrarmi col re, era ciò che desideravo. Non essere in armonia con lui e perciò allontanarmi, era forse ciò che desideravo? Non ho potuto fare altrimenti. Trattenermi tre notti prima di partire da Chou, in cuor mio m’è sembrato d’essere precipitoso: speravo che il re mutasse il suo animo. Se avesse mutato il suo animo, certamente mi avrebbe richiamato indietro. Solo dopo che ho lasciato Chou senza che il re avesse mandato a richiamarmi, ho preso definitivamente la decisione di tornarmene al mio paese. Nonostante tutto, come avrei abbandonato il re? Il re aveva doti sufficienti per operare il bene. Se si fosse servito di me, forse solo il popolo di Ch’i ne sarebbe stato consolato? Ne sarebbero stati consolati tutti i popoli dell’impero73. Che il re cambiasse idea, l’ho sperato ogni giorno. Sono forse io simile a quegli uomini meschini che, avendo fatto le rimostranze al principe e non avendole questi accolte, si adirano sì che la stizza traspare dal loro volto e se ne vanno, esaurendo tutte le forze d’una giornata prima di fermarsi per la notte? Yih Shih, avendo appreso ciò, disse: — Shih (io) è veramente un uomo meschino. 45. Mencio se ne andò da Ch’i. Lungo la strada, (il discepolo) Ch’ung Yü gli disse: — Maestro, sembra che tu abbia un’aria addolorata. Una volta, Yü (io) ti ha inteso dire: «Il saggio non mormora contro il Cielo né porta rancore contro gli uomini». — Quello era un momento, questo è un altro — disse Mencio. — Ogni cinquecento anni74 fiorisce un sovrano e, nel frattempo, in ogni generazione nascono degli uomini illustri. Da (la fondazione della dinastia de) i Chou ad oggi sono passati settecento e più anni. A contare gli anni, (quel limite) è stato oltrepassato; a giudicare dai tempi, è opportuno (intraprendere una riforma). Il Cielo non vuole ancora pacificare e riordinare l’impero. Se volesse pacificare e

riordinare l’impero, in questa generazione chi v’è oltre me?75 Come non sarei addolorato? 46. Quando Mencio se ne andò da Ch’i, si fermò a Hsiu. Kung-sun Chou gli chiese: — Servire senza accettare gli emolumenti era la Via degli antichi? — No — rispose Mencio. — Sin da quando ottenni di incontrare il re a Ch’ung, nel ritirarmi dall’udienza ebbi l’intenzione di andarmene. Poiché non desiderai di cambiarla, non accettai gli emolumenti. Subito dopo vi fu l’ordine di mobilitazione delle truppe e non potei pregare (di essere congedato). Non era mia intenzione di restare a lungo a Ch’i76.

LIBRO III TÊNG WÊN KUNG PARTE PRIMA 47. Il duca Wên di Têng, quando era principe ereditario, si recò a Ch’u e passò (appositamente) per Sung onde far visita a Mencio. Questi lo intrattenne sulla bontà della natura umana e, parlando di ciò, non mancò di far riferimento a Yao e a Shun. Il principe ereditario, tornando da Ch’u, di nuovo visitò Mencio, il quale gli disse: — Principe, hai dei dubbi sulle mie parole? La Via è una e basta. Parlando al duca Ching di Ch’i, (un tale) Ch’èng Chien disse: «Quelli (i santi) erano uomini, noi siamo uomini. Perché li temerei (come se non potessi essere come loro)?» Yeng Yüang diceva: «Shun che uomo era? Io che uomo sono? Chi s’impegna (nel bene) è come lui». Kung-ming I affermava: «Il re Wên è il mio maestro (come diceva il duca Chou). Forse il duca Chou m’ingannerebbe?» Ora, tagliando il lungo per compensare il corto, Têng sarà di cinquanta li: è tale che se ne potrebbe fare un regno eccellente. (Però) nei Documenti (IV, 8, pt. I, 8) è detto: «Se la medicina non mette in subbuglio, la malattia non guarisce». 48. Quando il duca Ting di Têng (padre di Wên) morì, il principe ereditario disse a Jan Yu (suo tutore): — Tempo fa, a Sung Meng-tzu mi disse delle parole che in cuor mio non ho mai dimenticate. Oggi che disgraziatamente sono giunto al grande lutto, voglio mandarti a consultarlo e solo dopo procederò al servizio (funebre). Jan Yu si recò a Tsou e interrogò Mencio. Questi disse: — Non è una cosa eccellente (chiedere consiglio su questo argomento)? Al lutto per i genitori di certo (il figlio) dà tutto sé stesso. Tsêng-tzu diceva: «Vivi, servili secondo i riti; morti, seppellirli secondo i riti e offrir loro sacrifici secondo i riti. Ciò può dirsi pietà filiale». Non ho studiato i riti dei feudatari, tuttavia ho appreso questo: che il lutto di tre anni, gli abiti di ruvida stoffa senza orlo, i pasti di riso lessato, nelle tre dinastie erano prescritti (per tutti), dal Figlio del Cielo al popolo minuto. Jan Yu riferì sul mandato ricevuto e (Wên) decise di osservare il lutto triennale. Gli anziani del parentado e i funzionari erano contrari (per la stasi

nel governo). Gli dissero: — Nessuno dei precedenti principi del regno che riveriamo, Lu, seguì tale rito e nemmeno lo seguirono i nostri predecessori77. Giunti alla tua persona, non è lecito comportarsi in modo diverso. Per di più, nelle Memorie è detto: «Nel lutto e nei sacrifici segui gli antenati». Il che significa: abbiamo ciò che ci è stato tramandato. Parlando a Jan Yu, Wên disse: — Negli anni passati non mi sono curato d’istruirmi, ma mi sono dilettato a cavalcare e a tirar di sciabola. Ora, i parenti e i funzionari non mi soddisfano e temo di non poter fare tutto il mio dovere in questo grave affare. Interroga Meng-tzu a nome mio. Jan Yu si recò di nuovo a Tsou e consultò Mencio. Questi disse: — Ha ragione, non deve cercare negli altri (la soluzione del suo problema). K’ungtzu disse: «Quando il principe moriva, le udienze passavano al primo ministro. (L’erede) si nutriva di riso lessato, aveva il viso scuro e s’appressava piangendo al luogo (dove era posta la bara). Nessuno dei funzionari osava non partecipare al lutto, poiché egli era il primo (a dare l’esempio). Se i superiori amano alcunché, gli inferiori certamente l’amano ancor più. La virtù del saggio è il vento, la virtù dell’uomo comune è l’erba: quando sull’erba trascorre il vento, l’erba certamente si piega»78. Sta al principe ereditario decidere. Jan Yu riferì sul mandato. Il principe ereditario disse: — È così. Sta veramente a me decidere. Per cinque mesi dimorò in una capanna e non impartì ordini né ammonimenti (per non rompere il silenzio prima del seppellimento). I ministri e il parentado dissero: — Deve ammettersi che conosce (i riti). Arrivato il giorno del funerale, la gente accorse dai quattro venti per vederlo: la mestizia del suo volto e il dolore del suo pianto suscitarono grande edificazione nei convenuti per le condoglianze. 49. Il duca Wên di Têng interrogò sul governo. — Gli affari del popolo (l’agricoltura) non possono essere trascurati — disse Mencio. — Nell’Ode (I, 154, 7) è detto: «Di giorno raccogliamo le erbe, di sera intrecciamo le corde. Presto saliremo sulle capanne79 e cominceremo a seminare i cento grani». La via del popolo è questa: se ha un reddito permanente, ha unalmente perseverante; se non ha un reddito permanente, non ha una mente perseverante. Quando non ha una mente perseverante, non c’è nulla che eviti in fatto di rilassatezza, di dissolutezza, di depravazione e di licenza. Lasciarlo cadere in colpa per poi perseguirlo e punirlo, significa tendergli un tranello. Se

sul trono vi è un uomo caritatevole, potrà mai tendere un tranello al popolo? Perciò un principe virtuoso è certamente riguardoso ed economo: osserva i riti nel trattare con gli inferiori e s’attiene alle norme nell’esigere (i tributi) dal popolo. Yang Hu diceva: «Se tieni alla ricchezza non sarai caritatevole, se tieni alla carità non sarai ricco»80. Gli imperatori Hsia prelevavano l’imposta per aliquota su cinquanta mu di terra, gli Yin per collaborazione su settanta mu, i Chou per ripartizione su cento mu. In effetti, tutti e tre i sistemi possono ricondursi a quello della decima81. Ripartizione significa divisione, collaborazione significa mutuo aiuto. (L’antico virtuoso) Lung-tzu diceva: «Per amministrare la terra nulla v’è di meglio del sistema della collaborazione e niente di peggio di quello dell’aliquota (cioè della decima). Con il sistema dell’aliquota, si assume come costante la media di parecchi anni: nelle annate buone, in cui i chicchi di riso sono sparsi dovunque, quando un forte prelevamento non sarebbe esoso, allora si prende poco; negli anni di carestia, quando si concimano i campi e (il raccolto) non è sufficiente, allora si deve prender troppo. Se chi fa da padre e da madre al popolo lo riduce a guardar torvo perché fatica tutto l’anno senza riuscire a nutrire i genitori, lo costringe ad ingolfarsi nei debiti e li incrementa (con le imposte), fa sì che i vecchi e i giovanetti siano rotolati (morti) nei canali e nei fossi, in che consiste l’essere il padre e la madre del popolo?» Per quanto riguarda l’ereditarietà degli emolumenti, Têng l’attua in modo sicuro82. Nell’Ode (II, 58, 3) è detto: «La pioggia cada sul campo comune e poi raggiunga i nostri campi». Soltanto nel sistema della collaborazione v’è la comunanza del campo: da questo passo vedi che anche i Chou adottarono tale sistema. Istituisci (inoltre) le scuole hsiang, hsü, hsüeh, hsiao83 per istruire il popolo. Hsiang è questo: nutrire; hsiao è questo: istruire; hsü è questo: tirar d’arco. Gli Hsia dicevano: hsiao, gli Yin dicevano: hsü, i Chou dicevano: hsiang. Hsüeh era comune alle tre dinastie. Tutte avevano lo scopo di illustrare le relazioni umane. Quando queste sono illustrate in alto, in basso fiorisce l’affetto tra il popolo minuto. Se sorgesse un sovrano, sicuramente verrebbe a prendere a modello te (ove ciò facessi). Nell’Ode (III, 1, 1) è detto: «Benché Chou sia un regno antico, il suo mandato celeste (all’impero) è recente». Si riferisce al re Wên. Attua strenuamente questi princìpi e con essi anche tu rinnoverai il tuo regno. (In seguito il duca Wên) mandò Pi Chan (suo ministro) ad interrogare sulle terre del ching. — Il tuo principe si accinge ad esercitare un governo caritatevole — gli

disse Mencio. — Ha scelto e incaricato te: devi far del tuo meglio. Un governo caritatevole deve cominciare dalla sistemazione dei terreni84. Se questa sistemazione non è fatta correttamente, i campi del ching non saranno uniformi e i redditi agricoli non saranno eguali: appunto per questo i principi avidi e i funzionari corrotti poco si curano della sistemazione dei terreni. Se questa è fatta correttamente, alla ripartizione degli appezzamenti e alla determinazione dei redditi può provvedersi stando seduti (tanto è facile). Têng ha un territorio piccolo e ristretto, ma ha pur sempre un principe e dei villani: se non vi fosse un principe non vi sarebbe nessuno che governi i villani, se non vi fossero dei villani non vi sarebbe nessuno che nutrisca il principe. Ti prego, nel contado (riserva al principe) un campo su nove con il sistema della collaborazione. Entro le cinte cittadine fa sì che ciascuno sia tassato di una parte su dieci. (I funzionari), da ministro in giù, abbiano un campo sacro e sia di cinquanta mu. Per ogni maschio in più85 si diano venticinque mu. Le sepolture e i cambi di abitazione non siano fatti fuori del distretto. Fra coloro che nelle terre del distretto appartengono allo stesso ching fuori e dentro casa vi sia mutua amicizia, mutuo aiuto nella sorveglianza e protezione (contro i predoni) e mutua assistenza nelle malattie: allora i cento cognomi si ameranno e saranno in pace tra loro. Un ching sia di un li quadrato, diviso in novecento mu; quello centrale sia il campo comune e otto famiglie abbiano un campo privato di cento mu. Insieme coltivino il campo comune: portato a termine il lavoro comune, poi ardiscano porre mano ai lavori privati. Ciò è quanto distingue i villani (dal principe). Questo è lo schema di massima: se sia il caso di portarvi degli adattamenti, sta al principe e a te decidere. 50. Un certo Hsü Hsing, che diceva di seguire i dettami di Shêng Nung86, da Ch’u venne a Têng. Giunto al cancello del palazzo, fece dire al duca Wên: — Un uomo di plaghe lontane ha inteso dire che il principe esercita un governo caritatevole. Vorrebbe ricevere un (terreno per la) abitazione e diventare suo suddito. Il duca Wên gli dette una dimora. I suoi seguaci erano alcune decine, tutti vestiti di pelo, che per campare la vita intrecciavano sandali e intessevano stuoie. Un tale Ch’ên Hsiang, discepolo di Ch’ên Liang (letterato confuciano), insieme al fratello Hsin, caricatosi sulle spalle l’aratro, da Sung se ne venne a Têng, dicendo: — Abbiamo inteso che il principe pratica il governo dei santi

uomini e perciò anche lui è un santo. Vorremmo essere sudditi del santo. Ch’ên Hsiang conobbe Hsü Hsing e ne fu grandemente compiaciuto, tanto che, ripudiato del tutto ciò che aveva appreso, si fece suo discepolo. Incontratosi con Mencio, gli parlò delle teorie di Hsü Hsing e disse: — Il principe di Têng è veramente un principe virtuoso, però non ha ancora appreso la Via. Il virtuoso lavora i campi per sostentarsi, come il popolo; si prepara il pranzo e la cena e manda avanti il governo. Invece Têng ha granai e tesorerie: questo è sfruttare il popolo per nutrirsi. Come può essere virtuoso? — Hsü-tzu — chiese Mencio — certamente coltiva il miglio per nutrirsi? — Sì — rispose l’altro. — Hsü-tzu certamente tesse la stoffa per vestirsi? — No. Hsü-tzu si veste di pelo. — Hsü-tzu porta il berretto? — Sì. — Che berretto? — Un berretto semplice. — Lo tesse da sé? — No. L’ottiene in cambio del miglio. — Perché Hsü-tzu non se lo tesse da sé? — Sarebbe di ostacolo al lavoro dei campi. — Hsü-tzu usa pentole di metallo e di coccio per cucinare e vomere di ferro per arare? — Certamente. — Se li fabbrica da sé? — No. Li ottiene in cambio del miglio. — Chi baratta il miglio con le pentole non sfrutta il vasaio e il fonditore? — domandò Mencio. — Anche il vasaio e il fonditore, barattando i loro utensili col miglio, non sfruttano il contadino? Perché Hsü-tzu non fa (anche) il vasaio e il fonditore, in modo da adoperare tutta roba presa da casa sua? Perché tanta farragine di scambi con i cento artigiani? Come mai Hsü-tzu non evita tanti fastidi? — L’attività dell’artigianato certamente non può essere praticata oltre l’agricoltura. — Allora soltanto il governo può essere praticato oltre l’agricoltura? — chiese Mencio. — Vi sono i compiti dell’uomo grande e i compiti dell’uomo piccolo. Ognuno ha un sol corpo e perciò si provvede del prodotto dei cento artigiani: se dovesse far (ogni cosa) da sé per poi usarne, tutto l’impero sarebbe

costretto a correre per le strade. Perciò si dice: «Alcuni faticano con la mente, altri con le braccia. Coloro che faticano con la mente governano gli altri, coloro che faticano con le braccia sono governati dagli altri. Coloro che sono governati dagli altri nutrono gli altri, coloro che governano gli altri sono nutriti dagli altri». È un principio comune a tutto il mondo. Ai tempi di Yao, l’impero non era ancora in pace: le acque dell’inondazione scorrevano tumultuosamente e sommergevano la terra, le erbe e gli alberi crescevano disordinatamente, gli uccelli e gli animali si moltiplicavano in eccesso, i cinque cereali non venivano a maturazione. Gli uccelli e gli animali sopraffacevano l’uomo, i sentieri formati dai loro zoccoli e dalle loro zampe s’intersecavano per tutto l’Impero del Mezzo. Solo Yao (nella sua qualità d’imperatore) se ne preoccupò: innalzò Shun e dette disposizioni onde porvi ordine. Shun comandò ad I (suo intendente) di impiegare il fuoco. I incendiò le montagne e le bassure e le bruciò, così che gli uccelli e gli animali fuggirono in luoghi nascosti. Yü dette un corso ai nove fiumi e un letto alle acque del Ch’i e del T’a, facendole giungere al mare; aprì uno sbocco al Ju e al Han e regolò il Huai e lo Szu portandoli a gettarsi nel Kiang87. Dopo di ciò, l’Impero del Mezzo poté avere di che nutrirsi. Per tutto questo tempo, Yü rimase otto anni fuori casa e tre volte passò davanti alla sua casa senza entrarvi. Anche se avesse voluto coltivare la terra, avrebbe potuto? Hou Chi insegnò al popolo a seminare, a mietere e a coltivare i cinque cereali: questi maturarono e la gente fu nutrita. L’uomo ha una natura morale ma, quando è sazio di cibo e caldo nei vestiti, si adagia nell’ozio e non si istruisce: allora diviene quasi simile alle bestie. Il santo (Shun) si preoccupò di ciò e nominò Hsieh88 ministro dell’istruzione, affinché fossero insegnate le relazioni umane: tra padre e figlio c’è l’affetto, tra principe e suddito la giustizia, tra moglie e marito la distinzione (dei compiti), tra anziani e giovani l’ordine (secondo l’età), tra amico e amico la fedeltà. Fan-shün (Yao) diceva: «Incoraggiateli, attirateli, correggeteli, raddrizzateli, aiutateli, assisteteli, fate in modo che ottengano da sé (la loro natura morale). Poi continuate con lo stimolarli alla virtù». I santi, che dimostravano tanta sollecitudine per il popolo, avrebbero avuto il tempo di coltivare la terra? Yao si faceva un affanno di non trovare uno Shun, Shun si faceva un affanno di non trovare uno Yü o un Kao Yao. Farsi un affanno di non coltivare cento mu spetta al contadino. Dividere con gli altri la ricchezza dicesi generosità, insegnare agli altri il bene dicesi devozione, trovare un uomo per l’impero dicesi carità. Perciò, è facile dare l’impero ad un uomo, ma è difficile trovare un uomo per l’impero. K’ung-tzu disse: «Grande invero fu

Yao come sovrano! Solo il Cielo è grande e solo Yao lo imitò. Come fu grande (la sua virtù)! Il popolo non poté trovare appellativi (degni di essa). Che saggio fu Shun! Come fu sublime! Ebbe l’impero e non ne fece alcun caso»89. Nel governare l’impero, Yao e Shun non avevano forse di che impegnare tutta la loro mente? Quindi non l’impegnavano nel lavoro dei campi. Ho inteso dire che con la civiltà degli Hsia (gli antichi) trasformarono i barbari I, non che furono trasformati dagli I. (Il tuo antico maestro) Ch’ên Liang era nativo del regno di Ch’u e, avendo trovato di suo gradimento la Via del duca Chou e di Chung-ni, venne nel settentrione per studiare nell’Impero del Mezzo: avendo studiato nel settentrione nessuno lo superava, era quello che si dice un letterato di talento ed eminente. Voi, fratello maggiore e minore, lo avete servito per alcune decine di anni: ora che il maestro è morto, lo rinnegate. Anticamente, quando K’ungtzu mancò, passati tre anni i discepoli prepararono i bagagli e si accinsero a tornare alle loro case. Entrati a congedarsi da Tzu-kung, si strinsero gli uni agli altri e piansero, perdendo la favella. Dopo se ne andarono. Tzu-kung tornò indietro (dopo averli accompagnati per un tratto), si costruì una capanna presso il tumulo e per altri tre anni vi rimase in solitudine. Dopo, anche lui tornò a casa. In seguito Tzuhsia, Tzu-chang e Tzu-yu, poiché Yu Jo somigliava al santo, volevano servire costui come avevano servito K’ung-tzu. Fecero pressioni su Tsêng-tzu (affinché acconsentisse), ma questi disse: «Non è lecito. Era stato lavato da (i fiumi) Kiang e Han, era stato asciugato dal sole d’autunno. Tanto splendeva di puro candore che nulla vi si poteva aggiungere». Ora, quell’uomo (il tuo nuovo maestro Hsü Hsing), dall’accento gracchiante da (barbaro meridionale) Mang, non segue la Via degli antichi re: tu ripudi il tuo maestro e ti fai discepolo di colui. Sei molto diverso da Tsêng-tzu! Ho appresso che (l’uccello) esce dalle gole oscure per posarsi sulla vetta degli alberi90, ma non ho mai inteso dire che scende dalla cima degli alberi per entrare nelle gole oscure. Nelle Laudi di Lu (Ode, IV, 35, 5) è detto: «I barbari Jung e Ti li percosse, i regni di Ching e di Shu li represse». Il duca Chou, quindi, lo avrebbe percosso (essendo Hsü Hsing un barbaro meridionale) e tu ti fai suo discepolo! Non è un buon cambio. — Se si seguisse la dottrina di Hsü-tzu — (osservò Ch’ên Hsiang) — i prezzi del mercato non sarebbero mai incerti e nel regno non vi sarebbero frodi. Anche a mandare al mercato un ragazzetto alto cinque piedi, nessuno lo ingannerebbe: una egual misura di stoffa di canapa o di seta avrebbe lo stesso prezzo e così un egual peso di canapa o di seta, una egual quantità di frumento

o delle scarpe di egual grandezza. — Ma le cose non sono di egual qualità: tale è la loro natura! — obbiettò Mencio. — Alcune valgono il doppio o cinque doppi, alcune dieci o cento doppi, alcune mille o diecimila doppi più delle altre. Tu le metti insieme allo stesso livello: significa gettare il mondo in preda alla confusione. Se le scarpe grandi e le scarpe piccole avessero lo stesso prezzo, chi le farebbe (le grandi)? Seguendo la dottrina di Hsü-tzu, tutti sarebbero indotti a praticare la frode. Come si potrebbe tenere in ordine lo stato? 51. I Chih, seguace di Mo91, tramite Hsü Pi chiese di vedere Mencio. — Desidero certamente vederlo — disse Mencio — ma oggi sono indisposto. Quando starò meglio andrò io stesso a fargli visita. I Chih non venne. Un altro giorno chiese ancora di vedere Mencio (dimostrandosi così veramente ansioso di parlargli). Mencio disse: — Oggi posso riceverlo. Se non correggo gli errori, la Via non sarà manifesta. Correggerò i suoi errori. Ho inteso dire che I-tzu è seguace di Mo. Nel regolare il lutto, Mo fa della semplicità la sua norma e con essa I-tzu pensa di trasformare l’impero. Come non la considererebbe giusta e non la terrebbe in onore? Però, I-tzu ha seppellito i genitori con gran pompa: quindi ha servito i genitori nel modo che ha in dispregio. Hsü-tzu riferì ciò a I-tzu. Costui disse: — La norma dei dotti è quella degli antichi: «Come se proteggessi un pargolo»92. Che significano queste parole? Per Chih (per me) vogliono dire amore (per tutti) senza divario d’intensità. Si comincia col dimostrarlo ai genitori. Hsü-tzu riportò queste parole a Mencio, il quale osservò: — I-tzu crede sinceramente che un uomo ami il figlio del suo fratello maggiore come ama il pargolo del vicino? Quelle parole bisogna intenderle così: se un bambinello, strisciando a quattro zampe, è sul punto di cadere nel pozzo, non è colpa del bambinello93. Eppoi il Cielo, creando gli esseri, ha dato loro un fondamento (i genitori), ma I-tzu gliene dà due (i genitori e gli estranei). È l’origine (dei suoi errori). Nei tempi antichi, in effetti, v’era chi non seppelliva i genitori: quando questi morivano, li sollevavano e li abbandonavano in un fosso. In seguito, passando di là (e vedendo che) le volpi e gli animali selvatici li divoravano e le mosche e le zanzare ne succhiavano gli umori, la loro fronte si bagnava di sudore ed essi distoglievano gli occhi e non guardavano. Quel sudore sgorgava non per far mostra agli altri: era il profondo sentimento del cuore che saliva al volto. Perciò tornavano con corbelli e pale per coprire le salme con la terra. Se

ricoprirle è davvero giusto, allora l’interramento dei genitori da parte di un figlio filiale e di un uomo caritatevole deve essere conforme a (determinate) norme. Hsü-tzu riportò queste parole ad I-tzu. I-tzu rimase pensieroso per un po’ e poi disse: — Mi ha istruito.

LIBRO III TÊNG WÊN KUNG PARTE SECONDA 52. (Il discepolo) Ch’ên Tai disse: — Non far visita ai feudatari mi sembra (una purezza) di poca importanza94. Se appena tu li visitassi, di uno che avesse grandi capacità faresti un imperatore, di uno che avesse modeste capacità faresti un capo dei feudatari. Nelle Memorie è detto: «Curvati di un piede e ti raddrizzerai di otto». Mi pare che ne valga la pena. — Una volta — disse Mencio — il duca Ching di Ch’i, mentre era a caccia, chiamò il guardaboschi con la bandiera ornata di piume95. Quello non si presentò e il duca fu sul punto di metterlo a morte. (In relazione a tale fatto, Confucio disse): «Un uomo di carattere non dimentica che può finire in un canale o in un fosso, un uomo coraggioso non dimentica che può rimetterci la testa». Che cosa approvava K’ungtzu? Approvava che colui non fosse accorso ad un segnale che non era il suo. Che pensare di uno che andasse (ad una corte) senza aver atteso la sua chiamata? Inoltre, (il detto) «curvati di un piede e ti raddrizzerai di otto» si riferisce al guadagno. Ma, anche badando al guadagno, se si guadagnasse curvandosi di otto piedi per raddrizzarsi di uno, sarebbe lecito farlo? Chao Chien-tzu, una volta, ordinò a Wang Liang96 di condurre a caccia il suo favorito Hsi. Alla fine della giornata non avevano abbattuto un solo animale. Riferendo sul mandato ricevuto, Hsi disse: «È l’auriga più inetto dell’impero». Qualcuno riportò queste parole a Wang Liang, che disse: «Prego di provare di nuovo». Tanto insisté (dato che Hsi si rifiutava) che gli fu concesso. In una mattinata il favorito Hsi abbatté una decina di animali. Riferendo sul mandato, disse: «È il miglior auriga dell’impero». «Gli farò sempre guidare il tuo carro» — disse Chien-tzu. Ne parlò a Wang Liang, ma questi rifiutò dicendo: «Quando ho fatto galoppare i cavalli secondo le regole, per tutta la giornata non ha abbattuto un solo animale; quando l’ho portato ad intercettare fraudolentemente (la selvaggina), in una mattinata ne ha abbattuti una decina97. Nell’Ode (II, 25, 6) è detto: “Non sgarriamo nel condurre il galoppo, scocchiamo le frecce (micidiali) come mazzate”. Non sono uso a guidare il carro per un uomo da poco. Ti prego di esonerarmi». Se perfino un auriga si vergognava di accompagnarsi ad un arciere di tal fatta e non lo faceva anche se, accompagnandosi a lui, abbatteva

la selvaggina a mucchi, che sarebbe se io piegassi dalla Via per mettermi agli ordini di coloro? Tu sbagli. Chi si piega non è mai stato capace di raddrizzare gli altri. 53. Ching Ch’un disse: — Kung-sun Yen e Chang I98 non sono veramente grandi uomini? Se appena si adirano, i feudatari tremano; se restano calmi, l’impero si tranquillizza. — E costoro tu li hai per grandi uomini? — chiese Mencio. — Non hai studiato i riti? Quando un uomo si mette il berretto (cioè diventa maggiorenne), il padre gli impartisce le istruzioni; quando la donna va sposa è la madre che le impartisce le istruzioni. Nell’accompagnarla alla porta l’ammonisce dicendo: «(Ora che) vai nella tua casa, devi essere rispettosa e prudente. Non disobbedire a tuo marito». Considerare corretta l’obbedienza è la norma delle mogli e delle concubine. Permanere nella vasta dimora del mondo (la carità), esser saldo nella retta dignità del mondo (i riti), camminare sulla grande strada del mondo (la giustizia), realizzando le proprie aspirazioni (nei pubblici impieghi) estendere al popolo (le proprie virtù), non realizzandole percorrere da solo la propria Via, non poter essere corrotto dalla ricchezza e dalla nobiltà, non sviato dalla povertà e dall’umile posizione, non piegato dal potere e dalla forza: questo significa essere un grand’uomo99. 54. 100 Chou Hsiao interrogò dicendo: — I saggi dell’antichità servivano negli uffici? — Servivano — rispose Mencio. — Nelle Memorie è detto: «Se K’ung-tzu restava tre mesi senza servire un principe, appariva ansioso. Quando usciva dai confini (di un regno dopo aver abbandonato l’impiego), non mancava di portare con sé il dono»101. Kung-ming I diceva: «Agli antichi che restavano tre mesi senza servire un principe si facevano le condoglianze». — Far le condoglianze a chi resta tre mesi senza servire il principe, non è troppa precipitazione? — Per un letterato la perdita dell’ufficio è come la perdita del regno e della casata per un feudatario — rispose Mencio. — Nel Libro dei Riti è detto: «Il feudatario pone mano all’aratro, ed è aiutato, onde procurarsi il miglio sacrificale. Sua moglie alleva il baco e ne trae il filo per gli abiti. Se la vittima non è perfetta, il miglio non è puro, gli abiti non sono completi, non osa sacrificare. Il letterato senza campo non sacrifica»102. Se la vittima da

immolare, gli strumenti, i vasi, le vesti non sono completi, non osa offrire il sacrificio e perciò non osa partecipare al banchetto. Non è sufficiente per fargli le condoglianze? — Ma perché uscendo dai confini, (Confucio) sentiva il bisogno di portare con sé il dono? — Per il letterato — rispose Mencio — il servire negli uffici è come l’arare per il contadino. Un contadino che esce dai confini forse si lascia dietro l’aratro? — Anche Chin103 è un regno che offre impieghi — insinuò l’altro. — Non avevo mai inteso che si avesse tanta fretta di servire, ma se il servire è così urgente, perché il saggio (tu) avrebbe difficoltà ad accettare un incarico? — Quando un uomo viene al mondo — disse Mencio — si desidera che abbia un suo appartamento (per convivervi con la moglie); quando viene al mondo una donna, si desidera che abbia una casa (cioè un marito). Tutti hanno questo sentimento paterno o materno. Ma se (i giovani), senza attendere le decisioni del padre e della madre né gli accomodamenti del paraninfo, aprono buchi e fessure per vedersi di soppiatto e scavalcano muri per stare insieme, allora i genitori e i concittadini li disprezzano. Gli antichi non volevano mai restare senza impiego, ma detestavano di ottenerlo in modo scorretto. Coloro che vanno (dai feudatari) in modo scorretto sono della specie (dei giovani) che aprono buchi e fessure. 55. P’êng Kêng interrogò dicendo: — Farsi dare il nutrimento dai feudatari, avendo al seguito decine di carri e centinaia di persone, non è da ritenersi eccessivo?104 — Se non è secondo la Via — rispose Mencio — neanche un cestello di riso deve riceversi dagli altri. Se è secondo la Via, allora nemmeno Shun, che ricevette l’impero da Yao, commise un eccesso. Tu pensi che fosse eccessivo? — No — disse il discepolo. — Ma non sta bene che un letterato senza impiego si faccia nutrire. — Se non fai circolare i prodotti e non li scambi con i servizi, affinché chi ha in esuberanza sovvenga chi non ha a sufficienza, allora il contadino avrà il frumento in sovrappiù e la donna avrà in sovrappiù la tela. Se hai commercio con loro, il falegname e il carradore ottengono il nutrimento da te. (Invece) ecco qui un uomo che dentro casa è filiale e fuori casa è sottomesso (ai superiori) come un fratello minore, che conserva la Via degli antichi in attesa degli studiosi che lo seguiranno: costui non ottiene il nutrimento da te. Perché

valuti tanto il falegname e il carradore e non valuti nulla chi s’attiene alla carità e alla giustizia? — L’intenzione del falegname e del carradore è diretta alla ricerca del nutrimento. Anche il saggio, nel seguire la Via, ha l’intenzione di procacciarsi il nutrimento? — Perché ti soffermi sull’intenzione? — chiese Mencio. — Egli ha delle benemerenze verso di te: merita di essere nutrito, quindi nutrilo! Tu corrispondi il nutrimento per l’intenzione o lo corrispondi per le benemerenze? — Lo corrispondo per l’intenzione — rispose l’altro. — Ecco qua uno che ti rompe le tegole e t’imbratta le pareti. La sua intenzione è diretta a procacciarsi il nutrimento: tu glielo dai? — No. — Giusto, ma allora non corrispondi il nutrimento per l’intenzione, bensì per le benemerenze. 56. (Il discepolo) Wan Chang domandò: — Sung è un piccolo stato, che oggi sta per attuare un governo imperiale. Se i regni di Ch’i e di Ch’u lo prendono in odio e lo attaccano, che deve fare? — Quando T’ang risiedeva a Po — rispose Mencio — aveva per confinante lo stato di Ko. Il conte di Ko era un dissoluto e non offriva i sacrifici. T’ang mandò un messo a chiedergli: «Perché non offri i sacrifici?». «Non ho i mezzi per procurarmi le vittime» — rispose l’altro. T’ang gli mandò in dono buoi e pecore: il conte di Ko li mangiò e non ne fece sacrificio. Di nuovo T’ang mandò un messo a domandargli: «Perché non offri i sacrifici?». «Non ho i mezzi per procurarmi il miglio sacrificale» — rispose il conte. T’ang mandò il popolo di Po ad arare per lui, mentre i vecchi e i deboli portavano il cibo (ai lavoratori). Il conte di Ko si mise alla testa del suo popolo per depredare coloro che portavano vino, vivande, miglio e riso, e chi non cedeva (ciò che portava) lo uccideva. Vi fu un giovinetto, che recava miglio e carne, il quale fu ucciso e derubato. Nei Documenti (IV, 2, 6) è detto: «Il conte di Ko si comportò da nemico verso coloro che portavano i viveri». Significa appunto ciò (di cui ti ho parlato). Fu proprio per l’uccisione di questo giovinetto che T’ang lo corresse. All’interno dei quattro mari tutti dissero: «Non per arricchirsi dell’impero (egli combatte), ma per ripagare il torto fatto ad un uomo e ad una donna comuni (i genitori del ragazzo)». T’ang iniziò a correggere cominciando da Ko: punì undici (principi) e non ebbe avversari nell’impero. Quando correggeva ad

oriente, i (barbari) I si lamentavano ad occidente; quando correggeva a meridione, a settentrione si lamentavano i (barbari) Ti. Dicevano: «Perché ci lascia per ultimi (liberando prima gli altri)?» I popoli speravano in lui come durante la grande siccità si spera nella pioggia. Chi andava al mercato non si arrestò, chi lavorava nei campi non si mosse. Egli punì i principi e consolò i popoli, i quali furono pieni d’una grande gioia come quando la pioggia cade al tempo giusto. Nei Documenti (IV, 2, 6) è detto: «Attendiamo il nostro sovrano». Il sovrano venne ed essi non furono puniti. Poiché v’erano alcuni che non volevano assoggettarsi (a lui, il re Wu disse): «Punirò ad oriente e porterò la pace ad uomini e donne. Offrano i loro cesti di seta nera e gialla: servendo me, sovrano di Chou, saranno migliorati. Si sottomettano al grande feudatario Chou»105. I dignitari (degli Yin) misero della seta nera e gialla nei cesti e andarono incontro ai suoi dignitari, la plebe (degli Yin) andò incontro alla sua plebe recando cestelli di riso e vasi di bevande. Egli salvò il popolo da mezzo all’acqua e al fuoco e prese soltanto gli oppressori. Nella Grande Dichiarazione (Libro dei Documenti, V, 1, pt. II, 8) è detto: «La mia potenza militare si è sollevata: invaderò i confini (dell’imperatore) e prenderò gli oppressori. Il compito di mettere a morte e di punire sarà grande: sarà più glorioso di quello di T’ang». Il fatto è che (il principe di Sung) non esercita un governo imperiale: se soltanto egli esercitasse un tale governo, all’interno dei quattro mari tutti solleverebbero il capo e guarderebbero a lui, desiderando di farne il loro sovrano. Che timore avrebbe di Ch’i e di Ch’u, per quanto potenti siano? 57. Parlando a Tai Pu-shêng (ministro dello stato di Sung), Mencio disse: — Vuoi che il tuo re sia buono? Ti dirò chiaramente (ciò che si deve fare). Ecco qua un dignitario di Ch’u, il quale desidera che suo figlio parli con la pronuncia di Ch’i: provvederà che gliela insegni un uomo di Ch’i o un uomo di Ch’u? — Provvederà che gliela insegni un uomo di Ch’i — rispose l’altro. — Se gliela insegna un sol uomo di Ch’i, mentre una folla di uomini di Ch’u vocifera intorno a lui, per quanto lo picchi ogni giorno perché parli con la pronuncia di Ch’i, non potrà ottenerlo. Se invece lo manda a stabilirsi per qualche anno a Chuang o a Yüeh (rispettivamente una strada e un sobborgo della capitale di Ch’i), per quanto lo picchi ogni giorno perché parli con la pronuncia di Ch’u, non potrà ottenerlo. Tu dici che Hsieh Chü-chou (altro ministro di Sung) è un letterato virtuoso e l’hai mandato a stare nel palazzo

reale. Se coloro che vi abitano, vecchi e giovani, nobili e vili, sono tutti degli Hsieh Chü-chou, con chi il re commetterà il male? Ma se coloro che vi abitano, vecchi e giovani, nobili e vili, non sono tutti degli Hsieh Chü-chou, con chi il re farà il bene? Hsieh Chü-chou da solo che può fare al re di Sung? 58. Kung-sun Chou domandò: — Non far visita ai feudatari, che giustizia è? — Gli antichi — rispose Mencio — quando non erano ministri non s’incontravano (col principe). Tuan-kan Mu scavalcò un muro per evitarlo, Hsieh Liu sbarrò la porta per non farlo entrare106: ambedue furono eccessivi poiché, se (il principe) insiste, è lecito incontrarlo. Yang Huo voleva vedere K’ung-tzu107, ma gli dispiaceva di violare l’etichetta (mandandolo a chiamare). (Era uso che) quando un dignitario inviava un dono ad un letterato, questi, se non era in casa per riceverlo, si recasse poi alla sua porta per ringraziarlo. Yang Huo spiò un momento d’assenza di K’ung-tzu per mandargli in omaggio un porcellino cotto, ma anche K’ung-tzu spiò un momento d’assenza di Yang Huo per andare a ringraziarlo. In simili circostanze, avendo Yang Huo fatto il primo passo, come poteva K’ung-tzu non andare a fargli visita? Tsêng-tzu diceva: «Scuotersi tutto in una risata adulatoria (per ingraziarsi i potenti) è più faticoso che zappare un campo in piena estate». Tzu-lu diceva: «Osserva come arrossisce il volto di coloro che si parlano senza avere nulla in comune. È cosa che Yu (io) non conosce». Riguardando la questione attraverso questi discorsi, si può sapere qual sentimento il saggio nutre. 59. (Il ministro di Sung) Tai Ying-chih disse: — In questo momento non mi è possibile esigere (soltanto) la decima e fare a meno dei dazi ai passi e sui mercati. Ti prego: se li diminuissi in attesa di abolirli l’anno prossimo, che ne diresti? — Ecco qua un uomo che ogni giorno ruba le galline ai vicini — disse Mencio. — Qualcuno gli dice: «Questo non è un comportamento da uomo onesto». «Ti prego, diminuirò i furti — promette l’altro. — Ruberò una gallina al mese fino all’anno prossimo e poi smetterò del tutto». Se riconosci che è (un’azione) iniqua, smettila subito. Perché aspettare fino all’anno venturo? 60. (Il discepolo) Kung Tu-tzu domandò: — Tutti gli estranei ti definiscono, o Maestro, amante della disputa. Oso domandare che ne dici. — Come amerei disputare? — rispose Mencio. — Non posso farne a meno. È da tanto tempo che (l’umanità) vive in questo mondo, talvolta nell’ordine

talvolta nel disordine. All’epoca di Yao le acque scorrevano disordinatamente e inondavano l’Impero del Mezzo, serpenti e draghi ne avevano fatto la loro dimora e il popolo non aveva luogo dove stabilirsi. Nelle terre basse si costruiva dei nidi (sugli alberi), nelle terre alte si scavava delle caverne. Nei Documenti (II, 2, 14) è detto: «Le acque straripate suscitarono la mia ansia». Quelle acque straripate erano il diluvio. (Shun) incaricò Yü di mettervi ordine. Yü asportò la terra (che ostruiva i fiumi) mandando le acque a sfociare nel mare, scacciò i serpenti e i draghi spingendoli nelle paludi. I fiumi Kiang, Huai, Ho (Fiume Giallo) e Han fluirono tra le terre, poiché erano state tolte le ostruzioni. Sparirono gli uccelli e gli animali nocivi all’uomo ed allora l’uomo occupò i territori pianeggianti e vi abitò. Morti Yao e Shun, la Via dei santi decadde. Al loro posto sorsero dei principi oppressori, i quali abbatterono le case per creare stagni e laghetti, (così che) il popolo non ebbe dove riposare tranquillo; guastarono i campi coltivati per farne giardini e parchi, così che al popolo mancarono vesti e cibo. Dilagarono le false dottrine e gli atti oppressivi, s’accrebbero i giardini e i parchi, gli stagni e i laghetti, le terre incolte e gli acquitrini, riapparvero gli animali e le belve: giunti alla persona di Chou (Hsin), l’impero fu di nuovo in preda ad un grande disordine. Il duca Chou coadiuvò il re Wu, punì Chou (Hsin) e castigò Yen: in tre anni ne mise a morte il principe, scacciò Fei Lien108 in un angolo presso il mare e lo uccise. Gli stati che estinse furono cinquanta. Respinse e allontanò tigri, leopardi, rinoceronti ed elefanti. L’impero ne gioì grandemente. Nei Documenti (V, 25, 6) è detto: «Che grande fulgore nel disegno del re Wên! Che grande continuazione nella gloria del re Wu! Nell’aiutare ed istruire noi posteri, furono in tutto corretti e senza pecca». Ma la società decadde e la Via fu trascurata: apparvero di nuovo le false dottrine e gli atti oppressivi, si ebbero ministri che assassinarono i loro principi e figli che uccisero i loro padri. K’ung-tzu ne fu spaventato e scrisse Primavera ed Autunno: in quest’opera (sono trattati) gli affari del Figlio del Cielo109. Per questo disse: «Ciò che mi farà conoscere sarà Primavera ed Autunno! Ciò che mi farà biasimare sarà Primavera ed Autunno!» (Anche oggi) non sorgono re santi, i feudatari si abbandonano alla licenza, i letterati disoccupati disputano sregolatamente e le parole di Yang Chu e di Mo Ti110 riempiono l’impero. Le teorie dell’impero se non si appellano a Yang si appellano a Mo. L’egoismo del signor Yang significa non riconoscere il principe, l’amore universale del signor Mo significa non riconoscere il padre. Non riconoscere né padre né principe

significa ridursi allo stato delle bestie. Kung-min I diceva: «Nelle cucine hanno carni grasse e nelle scuderie hanno grassi cavalli, mentre il popolo ha il viso della fame e nei campi incolti giacciono i morti d’inedia. Questo è condurre gli animali a divorare gli uomini». Se non si pone un fermo alle dottrine di Yang e di Mo e non si rende manifesta la dottrina di K’ung-tzu, queste false dottrine inganneranno il popolo e si porranno come ostacolo alla carità e alla giustizia. Quando la carità e la giustizia sono ostacolate, allora s’induce le bestie a divorare gli uomini e gli uomini si divoreranno fra loro. Poiché ho spavento di tutto ciò, io sostengo la Via degli antichi santi, combatto Yang e Mo e respingo le teorie corruttrici, affinché i propalatori di false dottrine non abbiano a prevalere. Quando essi prevalgono nel cuore nuocciono alla pratica, quando prevalgono nella pratica nuocciono al governo. Quando sorgerà di nuovo il santo, non cambierà (una sillaba al) le mie parole. Anticamente Yü imbrigliò il diluvio e l’impero fu in pace; il duca Chou debellò i barbari I e Ti, respinse le belve feroci e i cento cognomi furono tranquilli; K’ung-tzu scrisse Primavera ed Autunno ed i ministri sediziosi e i figli scellerati ebbero timore. Nell’Ode (IV, 35, 5) è detto: «I barbari Jung e Ti li percosse, i regni di Ching e di Shu li represse. Allora nessuno osò contrapporsi a noi». Coloro che non riconoscono né il padre né il principe sarebbero stati percossi dal duca Chou. Anch’io voglio correggere il cuore umano, arrestare le false dottrine, oppormi alla condotta perversa, respingere le teorie corruttrici, in modo da continuare l’opera dei tre santi (Yü, il duca Chou e Confucio). Forse amo disputare? Non posso evitarlo. Chi è capace di parlare per opporsi a Yang e a Mo è un seguace di (quei) santi uomini. 61. Kuang Chang disse: — Ch’ên Chung-tzu111 non è veramente un uomo puro? Vivendo a Wu-ling non mangiò per tre giorni, tanto che perdette il senso dell’udito e della vista. Accanto ad un pozzo c’era un susino, del quale i bruchi avevano mangiato i frutti più che a metà. Trascinandosi andò a mangiarne: dopo tre bocconi riacquistò l’udito e la vista. — Tra i letterati di Ch’i — disse Mencio — certamente considero Chungtzu come il pollice (fra le altre dita). Però, Chung-tzu come può essere puro? Per attenersi perfettamente ai princìpi di Chung-tzu bisognerebbe diventare un verme (che non prende nulla dai suoi simili): dopo di che sarebbe possibile. Infatti, il verme sopra mangia terra secca e sotto beve àcqua motosa, (mentre) la casa in cui abita Chung-tzu fu costruita da Po-i o dal brigante Chih? Il miglio che mangia fu piantato da Po-i o dal brigante Chih? Sono cose che non

può sapere. — Che male c’è? — disse l’altro. — Egli stesso intreccia sandali e sua moglie fila la canapa per farne baratto. — Chung-tzu appartiene ad una distinta famiglia di Ch’i — osservò Mencio. — Nella città di Ko, il suo fratello maggiore Tai aveva un emolumento di diecimila chung. Ritenendo lo stipendio del fratello turpemente percepito, egli non ne mangiò; considerando turpemente acquisita la casa del fratello, egli non vi abitò. Evitando il fratello maggiore e separandosi dalla madre, andò ad abitare a Wu-ling. Un giorno, ritornato egli a casa, un tale mandò in dono al fratello un’oca viva. Egli si accigliò e chiese: «Che uso farete di quest’essere schiamazzante?» Il giorno dopo la madre uccise l’oca e gliela dette a mangiare. Rientrò in casa il fratello maggiore, che gli disse: «È la carne dell’essere schiamazzante». Chung-tzu uscì e la vomitò. (Ecco com’è Chungtzu:) dalla madre non prende cibo, ma prende cibo dalla moglie; non abita nella casa del fratello maggiore, ma abita in quella di Wu-ling. In questa situazione, può egli attenersi al suo genere (di purezza)? Per dar retta a Chung-tzu bisogna essere vermi, poi si potrà praticare i suoi princìpi.

LIBRO IV LI LOU PARTE PRIMA 62. Mencio disse: — (Pur avendo) la vista di un Li Lou e l’abilità di un Kung Shu-tzu, senza il compasso e la squadra non si può tracciare un cerchio o un quadrato perfetti. (Pur avendo) l’udito di un maestro K’uan, senza i sei liu non si può rettificare le cinque note112. Pur possedendo la Via di Yao e di Shun, senza un governo caritatevole non si può dar pace e ordine all’impero. Oggi i principi hanno sentimenti caritatevoli e fama di carità, ma il popolo non ne sente i benefici ed essi non si pongono come modelli alle generazioni future, poiché non percorrono la Via degli antichi re. Perciò si dice: «Una vuota bontà non basta per governare, un vuoto modello non dà la capacità di (ben) condursi»113. Nell’Ode (III, 15, 2) è detto: «Senza errare, senza dimenticare, egli si conforma agli antichi canoni». Non v’è mai stato chi cada in errore conformandosi alle norme degli antichi re. Gli uomini santi esercitavano tutta la potenza del loro occhio, ma la integravano col compasso, la squadra, la livella e il filo a piombo per tracciare un cerchio, un quadrato, una linea orizzontale o verticale e, pertanto, nella pratica erano insuperabili. Usavano tutta la capacità del loro orecchio, ma la integravano con i sei liu per rettificare le cinque note e, pertanto, nella pratica erano insuperabili. Profondevano tutte le loro facoltà mentali, ma le integravano con un governo che non tollerava la sofferenza altrui e così la carità si diffondeva nell’impero. Perciò si dice: «Per fare una cosa alta bisogna approfittare di un monticello o di una collina, per fare una cosa profonda bisogna approfittare di un fiume o di una palude». Governare senza approfittare della Via degli antichi re può dirsi saggezza? Per questo, solo l’uomo caritatevole è adatto a stare in posizione elevata: l’uomo non caritatevole che si trova in posizione elevata diffonde i suoi difetti tra la moltitudine. Se il superiore (il principe) considera gli affari iniquamente, gli inferiori (i ministri) si conducono illegittimamente; se la corte non è fedele alla Via, i funzionari non sono fedeli alle norme; se il principe viola la giustizia, la plebe viola la legge penale. (In simili condizioni) che uno stato sopravviva è mera fortuna. Perciò si dice: «Che le mura interne ed esterne della città siano incomplete e le armi e le corazze siano scarse non è il crollo dello stato; che non si pongano a coltivazione (tutti) i campi e le

brughiere e non si accumulino beni e ricchezze non è la rovina dello stato». È quando il superiore non osserva i riti e gli inferiori non hanno istruzione che i ribelli prosperano e la rovina è imminente. Nell’Ode (III, 20, 2) è detto: «Il Cielo ora provoca rovescia-sciamenti, non siate così indifferenti». Indifferenza è come negligenza. Servire il principe senza giustizia, farsi avanti o trarsi in disparte senza riti, parlare (per consigliare) difformemente alla Via degli antichi re, è come essere negligenti. Perciò si dice: «Stimolare il principe ad ardue imprese significa rispettarlo. Mostrargli il bene e trattenerlo dal male significa essergli reverente». (Dire): il mio principe non ne è capace, è fargli ingiuria. 63. Mencio disse: — Il compasso e la squadra sono (gli strumenti) più perfetti per il circolo e il quadrato. Il santo è (il modello) più perfetto per le relazioni umane. Chi vuol esser principe segua fino in fondo la Via dei principi, chi vuol esser ministro segua fino in fondo la Via dei ministri: ambedue prendano a modello Yao e Shun. Colui che non serve il principe nel modo in cui Shun servì Yao, non rispetta il suo principe; colui che non governa il popolo nel modo in cui Yao governò il popolo, tiranneggia il suo popolo. K’ung-tzu disse: «Le strade sono due: la carità e la malvagità». Se il principe opprime il suo popolo oltre misura, finirà assassinato e il suo stato perirà; se lo opprime senza eccessi, sarà in pericolo e lo stato gli sarà strappato. Sarà chiamato Yu o Li114 e, per quanto i suoi figli siano filiali e i suoi nipoti misericordiosi, in cento generazioni essi non potranno cambiare (la sua fama). Nell’Ode (III, 21, 8) è detto: «Lo specchio per lo Yin non era lontano: stava nell’epoca del sovrano Hsia»115. Significa ciò che ho detto. 64. Mencio disse: — Le tre dinastie ottennero l’impero per la carità e lo perdettero per la mancanza di carità116. Ciò per cui gli stati decadono o fioriscono, sopravvivono o periscono, è la stessa causa (la carità o la mancanza di carità). Se il Figlio del Cielo non è caritatevole, non conserverà (l’impero fra) i quattro mari; se i feudatari non sono caritatevoli, non conserveranno il sacrificio agli esseri spirituali della terra e dei grani; se i ministri e i dignitari non sono caritatevoli, non conserveranno il tempio degli antenati117; se i letterati e la plebe non sono caritatevoli, non conserveranno le quattro membra. Ora, odiare la morte e la rovina e godere della malvagità è come detestare l’ubriachezza e darsi al vino.

65. Mencio disse: — Se uno ama gli altri e questi non hanno affetto per lui, si volga dentro di sé ad esaminare la sua carità; se governa gli altri e questi non sono (effettivamente) governati, si volga dentro di sé ad esaminare la sua sapienza; se tratta gli altri secondo i riti e questi non lo ricambiano, si volga dentro di sé ad esaminare il suo rispetto. Se nell’agire v’è qualcosa che non ottiene, si volga sempre a ricercarne la causa in sé stesso. Colui che nella sua persona è retto, l’impero gli si rivolge. Nell’Ode (III, 1, 6) è detto: «Sempre sforzatevi d’essere in armonia con la volontà celeste, vi procurerete molta felicità». 66. Mencio disse: — La gente ha sempre in bocca le parole: impero, stato, famiglia. Il fondamento dell’impero è nello stato, il fondamento dello stato nella famiglia, il fondamento della famiglia in sé stessi118. 67. Mencio disse: — Governare non è difficile: (il principe) non rechi offesa ai ministri ed alle grandi casate. Colui che costoro amano, tutto lo stato ama. Colui che tutto lo stato ama, l’impero ama. Così le sue virtù e il suo insegnamento si diffondono fra i quattro mari come un’inondazione. 68. Mencio disse: — Quando nell’impero si segue la Via, la virtù modesta è sottomessa alla grande virtù e la modesta moralità alla grande moralità. Quando nell’impero non si segue la Via, il piccolo è sottomesso al grande e il debole al forte. Queste due (situazioni sono determinate dal) Cielo. Colui che si conforma al Cielo sopravvive, colui che si oppone al Cielo perisce. Il duca Ching di Ch’i disse: «Quando non si è in grado di comandare, non voler nemmeno ricevere ordini significa tagliarsi fuori dal consorzio umano». E piangendo mandò sua figlia in sposa nel regno di Wu119. Oggi, i piccoli stati imitano i grandi (nel trascurare la virtù) e si adontano di ricevere i loro ordini: è come se gli allievi si vergognassero di ricevere ordini dai maestri. Se se ne adontano faranno bene ad imitare il re Wên. Se lo imitassero, un grande stato in cinque anni e un piccolo stato in sette perverrebbero a governare l’impero. Nell’Ode (III, 1, 4-5) è detto: «I discendenti degli Shang si numeravano in più di centomila. Quando il Dio Supremo ebbe conferito il mandato, essi si sottomisero ai Chou. Si sottomisero ai Chou perché il mandato del Cielo non è perpetuo. I ministri degli Yin, nobili e colti, sparsero le libagioni e assistettero (al

sacrificio offerto agli antenati dei Chou) nella capitale». K’ung-tzu commentò: «Di fronte ad un uomo caritatevole essi non potevano dirsi una gran folla». Poiché, se un principe ama la carità, nell’impero non ha avversari. Oggi, (i principi) vorrebbero non aver avversari nell’impero, ma non per mezzo della carità: è come voler prendere un oggetto che scotta senza essersi bagnato la mano. Nell’Ode (III, 23, 5) è detto: «Chi può afferrare un oggetto infuocato se non si è bagnato la mano?» Il regno di Ch’i era minacciato di guerra dal suo potente vicino, il regno barbaro di Wu. Il duca Ching rinunciò a tentare la via delle armi ed accettò le condizioni di pace, adducendo la ragione riportata nel testo. Questo duca Ching è quello di cui si parla in BC 7. 69. Mencio disse: — Si può dar consigli ad uno non caritatevole? Egli s’adagia nei pericoli e profitta delle sventure: gode di ciò che lo condurrà alla rovina. Se si potesse dar consigli ad uno non caritatevole, come si avrebbero stati in rovina e casate in decadenza? V’era un ragazzo che cantava: «L’acqua del Ts’ang-lan è limpida! È adatta per bagnarvi il cordone del mio berretto. L’acqua del Ts’ang-lan è torbida! È adatta per bagnarvi i piedi». K’ung-tzu disse: «O discepoli, ascoltatelo! Se l’acqua è limpida vi bagna il cordone, se è torbida vi bagna i piedi: è essa che provoca (il comportamento del ragazzo)». Bisogna che un uomo si renda spregevole perché poi gli altri lo disprezzino; bisogna che una famiglia si rovini perché poi gli altri la distruggano; bisogna che uno stato si dilani perché poi gli altri lo aggrediscano. Nel T’ai Chia (Libro dei Documenti, IV, 5, pt. II, 3) è detto: «La sventura inviata dal Cielo può essere evitata, ma non v’è scampo da quella che ci procuriamo noi stessi». Significa appunto ciò. 70. Mencio disse: — Chieh (Kuei) e Chou (Hsin) perdettero l’impero perché avevano perduto il popolo. Perdere il popolo significa aver perduto il suo cuore. Per acquistare l’impero c’è un modo: conquistate il popolo ed otterrete l’impero. Per conquistare il popolo c’è un modo: guadagnatevi il suo cuore ed otterrete il popolo. Per guadagnarsi il suo cuore c’è un modo: dategli in abbondanza ciò che desidera e non fategli ciò che detesta. Il popolo si volge verso la carità come l’acqua segue il pendio, come la belva si dirige verso i luoghi selvaggi. Perciò, (come) è la lontra che scaccia il pesce nel profondo delle acque, è lo sparviero che fuga il passero nel folto degli arbusti, (così) è un Chieh o un Chou che sospinge il popolo verso un T’ang o un Wu. Oggi, se fra

i principi dell’impero uno ve ne fosse che amasse la carità, (troverebbe che) tutti i feudatari spingono il popolo verso di lui: anche se non volesse regnare non vi riuscirebbe. Coloro che oggi vorrebbero regnare sono come un malato da sette anni che cerca l’artemisia essiccata per tre anni: se non l’ha preparata (in tempo), non l’avrà per tutta la vita (che gli resta). Essi, se non si dedicano alla carità, per tutta la vita soffriranno amarezze ed umiliazioni che li precipiteranno nella morte e nella rovina. Nell’Ode (III, 23, 5) è detto: «Come puoi migliorare (l’impero, con i tuoi metodi)? Allora sarete sommersi insieme dalla rovina». Significa appunto ciò. 71. Mencio disse: — Non si può dar consigli a colui che si fa danno, non si può offrire azioni a colui che si abbandona. Significa farsi danno quando si parla disconoscendo i riti e la giustizia. Significa abbandonarsi (quando si dice): non posso permanere nella carità ed agire secondo la giustizia. La carità è la tranquilla dimora dell’uomo, la giustizia è la retta via dell’uomo. Lasciar deserta la tranquilla dimora e non abitarvi, abbandonare la retta via e non percorrerla, che pietà! 72. Mencio disse: — La Via è in voi e la cercate lontano, sta nelle cose facili e la cercate nelle difficili. Ognuno ami i suoi genitori e rispetti gli anziani: allora l’impero sarà in pace. 73. Mencio disse: — Quando coloro che sono in posizione subordinata (i ministri) non ottengono la fiducia del superiore (il principe), il popolo non può essere conquistato e governato. Per ottenere la fiducia del superiore c’è un modo: se non si ha la stima degli amici non s’ottiene la fiducia del superiore. Per ottenere la stima degli amici c’è un modo: se si serve i genitori senza accontentarli non s’ottiene la stima degli amici. Per accontentare i genitori c’è un modo: se, esaminando la propria persona, non vi si trova sincerità non si accontentano i genitori. Per rendere sincera la propria persona c’è un modo: se non si comprende il bene non si è sinceri nella propria persona. Perciò la sincerità è la Via del Cielo, aspirare alla sincerità è la Via dell’uomo120. Non è mai esistito chi, possedendo la massima sincerità, non abbia mosso gli altri, né è mai esistito chi, privo di sincerità, sia stato in grado di muovere gli altri. 74. Mencio disse: — Per sottrarsi all’imperatore Chou (Hsin), Po-i si era rifugiato sulle coste del mar settentrionale. Quando udì dell’ascesa del re Wên,

sorse dicendo: «Perché non rivolgersi a lui? Ho udito che il Conte Occidentale benignamente nutre i vecchi». Per sottrarsi all’imperatore Chou (Hsin), T’aikung era andato ad abitare sulle coste del mar orientale. Quando udì dell’ascesa del re Wên, sorse dicendo: «Perché non rivolgersi a lui? Ho udito che il Conte Occidentale benignamente nutre i vecchi»121. Questi due vecchi erano i grandi vegliardi dell’impero e si rivolsero a lui: erano i padri dell’impero che si rivolgevano a lui. Quando i padri dell’impero si furono rivolti a lui, i figli li seguirono. Se vi fosse un feudatario che esercitasse il governo del re Wên, entro sette anni certamente governerebbe l’impero. 75. Mencio disse: — Come sovrintendente del signor Chi, Chiu non riuscì a portare miglioramenti nella (scarsa) virtù di costui, ma ogni giorno prese al popolo frumento in quantità doppia. K’ung-tzu disse: «Chiu non è più mio seguace. Figlioli, suonate il tamburo e assalitelo! È lecito»122. Riguardando la questione da queste parole, (risulta che) i ministri, i quali arricchiscono un principe che non esercita il governo caritatevole, erano respinti da K’ung-tzu. Quanto più quelli che lo rendono forte nella guerra! Contendendosi i territori con la guerra, riempiono di cadaveri i campi desolati; contendendosi le città con la guerra, riempiono di cadaveri le mura. Ciò significa far sì che la terra si nutra di carne umana: crimine per cui la morte non basta. Perciò coloro che eccellono nella guerra dovrebbero essere sottoposti al supremo castigo. Vengono secondi coloro che ordiscono leghe di feudatari ed infine coloro che mettono a coltivazione le brughiere, caricando (il popolo) dell’onere delle terre (da far fruttare)123. 76. Mencio disse: — Nell’uomo non esiste nulla di meglio della pupilla dell’occhio, la quale non può occultare la perversità. Quando dentro al petto alberga la correttezza, la pupilla è limpida; quando vi alberga la scorrettezza, la pupilla è torbida. Ascolta le sue parole, guarda la sua pupilla: l’uomo come si nasconderà? 77. Mencio disse: — Chi è rispettoso non tiene gli altri in poco conto, chi è frugale non toglie agli altri. Un principe che disprezza e deruba gli altri, teme solo che gli altri non lo sopportino. Come può essere considerato rispettoso e frugale? Il tono della voce e l’espressione sorridente possono forse esser gabellati per rispetto e frugalità? 78.

Ch’un-yü K’un disse: — È prescritto dal rito che un uomo e una donna non si consegnino alcuna cosa direttamente fra loro?124 — È il rito — rispose Mencio. — Se mia cognata sta per affogare — chiese l’altro — posso salvarla tendendole la mano? — Non salvare la cognata che sta per affogare è roba da lupi. Che un uomo e una donna non diano e non prendano un oggetto direttamente tra loro è il rito, salvare la cognata che affoga tendendole la mano è l’equilibrio (fra rito e necessità). — Oggi l’impero affonda. Perché tu, o Maestro, non lo salvi? — Se l’impero va a fondo, lo si salva mostrandogli la Via; se la cognata affoga, la si salva tendendole la mano. Vuoi che salvi l’impero tendendogli la mano? 79. Kung-sun Chou disse: — Perché il saggio non istruisce personalmente suo figlio? — L’autorità non sarebbe esercitata — rispose Mencio. — L’insegnante deve inculcare le regole della correttezza, ma quando queste non sono seguite subentra l’ira. Se subentra l’ira allora, all’opposto, ferisce. «Il maestro m’insegna le regole della correttezza — (dice il figlio) — ma egli stesso non s’attiene alla correttezza». Ecco che padre e figlio si feriscono l’un l’altro. Che padre e figlio si feriscano a vicenda è male. Gli antichi si scambiavano i figli per istruirli. Tra padre e figlio non devono esserci rimproveri sul bene. Se si muovono rimproveri sul bene, essi si estraniano: nessuna sventura è più grande. 80. Mencio disse: — Quale servigio è più grande? Il servigio ai propri genitori. Quale cura è più grande? La cura della propria persona. Ho inteso dire che chi non perde la propria persona può servire i suoi genitori, ma mai ho inteso dire che chi perde la propria persona può servire i suoi genitori. Chi mai non serve qualcuno? (Ebbene,) servire i propri genitori è il fondamento del servire. Chi mai non ha cura di qualcuno? (Ebbene,) aver cura della propria persona è il fondamento di ogni cura. Tsêng-tzu, nel nutrire (suo padre) Tsêng Hsi, certamente non gli faceva mancare vino e carne. Prima di portar via da tavola, sentiva il dovere di pregarlo di indicare a chi dare (gli avanzi). Quando il padre domandava se ve n’erano, sicuramente egli rispondeva: «Ve ne sono». Tsêng Hsi morì e Tsêng Yüan nutrì Tsêng-tzu (suo padre): anch’egli

certamente non gli faceva mancare né vino né carne, ma quando si portava via da tavola non lo pregava di indicare a chi dare (gli avanzi). Quando il padre domandava se ve n’erano, egli rispondeva: «È tutto finito», perché intendeva porglieli di nuovo dinanzi. Questo è ciò che si chiama nutrire la bocca e il corpo, mentre il modo di Tsêng-tzu può dirsi nutrire la volontà (del padre). Servire i genitori come faceva Tsêng-tzu, può approvarsi. 81. Mencio disse: — Non basta rimproverare (il principe per il cattivo impiego de) gli uomini, né basta biasimarlo per il (cattivo) governo. Solo un uomo di grande virtù è capace di correggere il male nel cuore di un principe. Se il principe è caritatevole, tutti sono caritatevoli; se il principe è giusto, tutti sono giusti; se il principe è retto, tutti sono retti. Una volta corretto il principe lo stato è saldo. 82. Mencio disse: — C’è chi loda le persone sregolate, c’è chi biasima le persone che cercano la perfezione. 83. Mencio disse: — Gli uomini sono leggeri nel parlare perché nessuno li rimprovera. 84. Mencio disse: — Il guaio dell’uomo è di voler far da maestro agli altri. 85. Yo-chêng-tzu venne nel regno di Ch’i al seguito di Tzu-ao125. Andò a far visita a Mencio, che gli disse: — Vieni anche a trovarmi? — Perché il Maestro se n’esce con queste parole? — domandò il discepolo. — Da quanti giorni sei arrivato? — Dall’altro ieri. — Dall’altro ieri. Se io me n’esco con quelle parole, non ho ragione? — Il mio alloggio non era ancora sistemato — si scusò l’altro. — Dove hai inteso dire che prima si sistema l’alloggio e poi si va a far visita ad un superiore? Disse Yo-chêng-tzu: — K’ê (io) è in colpa. 86. Parlando a Yo-chêng-tzu, Mencio disse: — Sei venuto al seguito di Tzu-ao solo per mangiare e bere. Non immaginavo che studiassi la Via degli antichi allo scopo di mangiare e bere. 87.

Mencio disse: — Le mancanze alla pietà filiale sono tre126: non lasciare posterità è la più grave. Shun prese moglie senza informarne i genitori per non restare senza discendenza. Il saggio considera che (avendolo fatto per questo motivo) è come se li avesse avvertiti. 88. Mencio disse: — La sostanza della carità è servire i genitori, la sostanza della giustizia è obbedire ai fratelli maggiori. La sostanza della sapienza è conoscere quelle due e non discostarsene, la sostanza dei riti è regolare ed adornare quelle due, la sostanza della musica è gioire di quelle due. Quando se ne gioisce, esse si sviluppano e, quando si sono sviluppate, come potrebbero estinguersi? Quando non possono estinguersi, inconsciamente i piedi battono il suolo e le mani accennano gesti di danza127. 89. Mencio disse: — L’impero fu grandemente rallegrato e si rivolse a lui. Vedere la grande allegrezza dell’impero che si rivolgeva a lui come festuca, solo Shun lo provò. Ma egli, che non aveva l’amore dei suoi genitori, non poteva sentirsi un essere umano; egli, che non era in armonia con i suoi genitori, non poteva sentirsi un figlio128. Shun percorse fino in fondo la via del servire i genitori ed alla fine Ku-sou (suo padre) fu indotto a provare compiacimento (nel bene). Quando Ku-sou ne provò compiacimento l’impero si trasformò: quando Ku-sou ne provò compiacimento tutti coloro che sotto il cielo erano padri e figli furono sicuri (dei loro doveri). Questa è la grande pietà filiale.

LIBRO IV LI LOU PARTE SECONDA 90. Mencio disse — Shun nacque a Chu-fêng, si trasferì a Fu-hsia e morì a Ming-tiao: era un uomo dei barbari orientali. Il re Wên nacque nel (lo stato di) Chou, ai piedi del monte Ch’i, e morì a Pi-yang: era un uomo dei barbari occidentali. I loro paesi erano distanti più di mille li, le loro epoche erano lontane più di mille anni, ma, quando essi realizzarono i loro intenti e li attuarono nell’Impero del Mezzo, fu come il combaciare (delle due metà) di un contrassegno129. I santi, prima o poi che siano nati, misurano le cose in un sol modo. 91. 130 Tzu-ch’an , primo ministro del regno di Chêng, (a suo tempo) faceva guadare alla gente i fiumi Chên e Wei con il suo carro. Mencio disse: — Era gentile, ma non sapeva governare. Se all’undecima luna dell’anno fossero state apprestate delle passerelle per i pedoni ed alla dodicesima luna dei ponti per i carri, la gente non avrebbe avuto il disagio di guadare i fiumi. Se il principe esercita un’attività di governo rivolta a tutti, gli sarà lecito far scansare la gente dalla sua strada. Può forse farli guadare (col suo carro) uno ad uno? Al governante che volesse accontentare ogni singolo cittadino non basterebbe nemmeno il giorno intero. 92. Mencio disse al re Hsüan di Ch’i: — Quando il principe considera i ministri come mani e piedi, i ministri considerano il principe come cuore e ventre131. Quando il principe tratta i ministri come i cani e i cavalli, i ministri lo trattano come uno qualsiasi. Quando il principe fa conto dei ministri come dell’erba dei campi (che si calpesta), i ministri lo tengono per tiranno e nemico. — Secondo i riti — disse il re — il ministro prende il lutto (di tre mesi) per il principe presso cui non presta più servizio132. Come spieghi questo dover prendere il lutto? — Quando gli ammonimenti (del ministro) erano seguiti e i suoi consigli ascoltati, sicché i benefici ne discendevano sul popolo, se il ministro, avendone ragione, se ne andava, il principe mandava una scorta ad accompagnarlo fuori

dei confini e lo faceva precedere (da raccomandazioni) nel luogo dove si recava. Quando era stato via per tre anni e non tornava, solo allora si riprendeva il campo e la casa (che gli aveva assegnati). È quella che si chiama «la triplice cortesia». Stando così le cose, (il ministro) prendeva il lutto. Oggi, invece, quando il ministro ammonisce non è seguito e quando consiglia non è ascoltato, sicché nessun beneficio ne ricade sul popolo: se, avendone ragione, egli se ne va, il principe lo trattiene con la forza e lo perseguita nel luogo dove si reca. Lo stesso giorno in cui quello se ne va, egli si affretta a riprendersi il campo e la casa. Questo io lo definisco comportarsi da tiranno e da nemico. Quale lutto si può prendere per un tiranno e un nemico? 93. Mencio disse: — Quando (il principe) fa mettere a morte i funzionari senza colpa, allora i dignitari faranno bene ad andarsene; quando fa massacrare il popolo senza colpa, allora i funzionari faranno bene ad allontanarsi. 94. Mencio disse: — Quando il principe è caritatevole tutti sono caritatevoli, quando il principe è giusto tutti sono giusti. 95. Mencio disse: — Un grand’uomo non agisce secondo un rito che non sia (veramente) il rito né secondo una giustizia che non sia (veramente) la giustizia. 96. Mencio disse: — Colui che è nel giusto mezzo educhi coloro che non vi stanno, colui che è abile educhi coloro che non lo sono. Per questo l’uomo si rallegra di avere un padre e un fratello maggiore virtuosi. Se colui che è nel giusto mezzo abbandona coloro che non vi stanno e colui che è abile abbandona coloro che non lo sono, allora la distanza tra il virtuoso e l’indegno può misurarsi in un pollice. 97. Mencio disse: — Quando l’uomo ha (la conoscenza di) ciò che non deve fare, poi può agire. 98. Mencio disse: — Colui che parla della cattiveria altrui, che farà nelle sventure che verranno? 99. Mencio disse: — Chung-ni non strafaceva (cioè non agiva oltre i suoi doveri).

100. Mencio disse: — Quando un grand’uomo parla non si propone d’essere sincero, quando agisce non si propone d’essere risoluto: (lo fa) semplicemente perché in ciò consiste la giustizia. 101. Mencio disse: — È un grand’uomo colui che non perde il suo cuore di fanciullo. 102. Mencio disse: — Nutrire (i genitori) quando sono in vita non basta a configurare un grande servigio. Soltanto le esequie quando sono morti possono considerarsi un grande servigio. 103. Mencio disse: — Il saggio progredisce in profondità (nei princìpi) per mezzo della Via, perché vuole sostanziarsene. Divenuti essi sua sostanza, allora vi permane tranquillamente; rimanendovi tranquillamente, allora vi si affida interamente; affidandovisi interamente, allora ne coglie ogni lato e ne scopre la sorgente. Per questo il saggio vuole farsene sua sostanza. 104. Mencio disse: — Su ciò che si è studiato estesamente e discusso minutamente si può tornar sopra e dirne in breve l’essenziale. 105. Mencio disse: — Mai v’è stato chi, volendo sottomettere gli altri con la sua eccellenza, abbia potuto sottometterli. Se con la sua eccellenza educa gli altri, allora può sottomettere l’impero. Non v’è mai stato chi abbia regnato, se l’impero non gli si è sottomesso con il cuore. 106. Mencio disse: — Le parole prive di verità sono funeste. (Perciò) considera veramente funeste (perché non vere) quelle che gettano nell’ombra l’uomo virtuoso133. 107. Hsü-tzu disse: — Chung-ni spesso esaltava l’acqua esclamando: «Oh, l’acqua, l’acqua!»134 Che cosa trovava nell’acqua? — L’acqua sorgiva zampilla continuamente — rispose Mencio — e non s’arresta né giorno né notte, colma le cavità e poi avanza gettandosi nei quattro mari: quella che ha una sorgente è così. Ecco che cosa vi trovava! Ma se non ha una sorgente è un torrente di pioggia della settima od ottava luna, che riempie fossi e canali: puoi fermarti ed aspettare per (vederli) inaridirsi.

Perciò il saggio si vergogna d’una fama che supera la realtà. 108. Mencio disse: — Ciò per cui l’uomo differisce dalle bestie è poca cosa: la maggior parte degli uomini se ne disfa, il saggio la preserva. Shun comprendeva (i princìpi de) le cose ed era attento alle relazioni umane. Non è che praticasse (semplicemente) la carità e la giustizia: camminava nella carità e nella giustizia (che gli erano connaturate). 109. Mencio disse: — Yü detestava il buon vino135 ed apprezzava le parole di bontà. T’ang si atteneva al giusto mezzo e poneva nelle cariche i virtuosi senza distinzione di provenienza. Il re Wên aveva cura del popolo come di un ferito ed aspirava alla Via come se non l’avesse mai vista. Il re Wu non teneva in poco conto ciò che gli era vicino né dimenticava ciò che gli era lontano. Il duca Chou aspirava a riunire in sé (le virtù di) questi sovrani per mettere in pratica quelle quattro cose. E se alcunché non s’accordava (alle circostanze del suo tempo), levava lo sguardo e rifletteva, sì da unire la notte al giorno. Quando aveva felicemente trovato una soluzione, sedeva in attesa dell’alba. 110. Mencio disse: — Quando furono estinte le tracce della sovranità imperiale, le odi finirono136. Finite le odi, poi fu scritto Primavera ed Autunno. (Gli annali detti) Carro del regno di Chin, T’ao-wu del regno di Ch’u, Primavera ed Autunno del regno di Lu, hanno lo stesso carattere137. I soggetti (degli annali Primavera ed Autunno) sono Huang di Ch’i e Wên di Chin138 e lo stile è quello degli storici. K’ung-tzu disse: «Ogni decisione (sugli argomenti) è stata presa indegnamente da Ch’iu (da me)». 111. Mencio disse: — L’influenza di un saggio (sovrano) si esaurisce in cinque generazioni. (Anche) l’influenza di un uomo umile (ma saggio) si esaurisce in cinque generazioni. Io non ho potuto essere allievo di K’ung-tzu: indegnamente mi sono migliorato presso altri139. 112. Mencio disse: — È lecito prendere, ma quando non si deve prendere il prendere è contrario alla purezza. È lecito dare, ma quando non si deve dare il dare è contrario alla gentilezza. È lecito rischiare la morte, ma quando non si deve rischiare la morte il rischiare è contrario al coraggio. 113.

P’ang Meng aveva appreso l’arte dell’arciere da I. Quando ebbe imparato tutto sul metodo di I, pensò che nell’impero solo costui poteva superarlo e perciò lo uccise140. Mencio disse: — In ciò ebbe colpa anche I. Kung-ming I disse: «Sembra come se fosse senza colpa», ma intendeva significare che la sua colpa era lieve. Come poteva dirsi senza colpa (lui che aveva educato P’ang Meng)? (Una volta), il popolo di Chêng mandò Tzu-cho Ju-tzu ad attaccare Wei e Wei mandò Yü Kung-szu a respingerlo. Tzu-cho Ju-tzu disse: «Oggi mi sento male, non riesco a reggere l’arco. Sono morto!» Domandò al suo auriga: «Chi è colui che mi ricerca?». «È Yü Kung-szu» — rispose quello. «Sono salvo!» — gridò Jutzu. Chiese l’auriga: «Yü Kung-szu è il miglior arciere di Wei e il signore dice: sono salvo! Che significa?». «Yü Kung-szu — rispose Ju-tzu — ha imparato l’arte dell’arciere da Yin Kung-to e costui l’ha appresa da me. Yin Kung-to è un uomo retto, perciò quelli con cui ha fatto amicizia necessariamente sono retti». Quando Yü Kung-szu sopraggiunse, gridò: «Maestro, perché non impugni l’arco?» «Oggi mi sento male — egli rispose — non ho la forza di reggerlo». «L’uomo da nulla (io) — disse Kung-szu — ha imparato il tiro dell’arco da Yin Kung-to e costui l’ha appresa dal maestro (da te). Non sopporto di ferire il maestro con l’arte che mi viene dal maestro stesso. Tuttavia, quello di oggi è un servizio del principe: non oso trascurarlo». Estrasse le frecce e le batté contro la ruota (del carro) facendone saltare il ferro, poi ne scoccò quattro e se ne tornò. 114. Mencio disse: — Se Hsi-tzu fosse stata coperta di sudiciume, gli uomini sarebbero passati oltre turandosi il naso. (Così, dunque,) un uomo, per quanto brutto egli sia, se si purifica con il digiuno e le abluzioni, può offrire il sacrificio al Dio Supremo141. 115. Mencio disse: — Il parlare che nel mondo si fa della natura riguarda i suoi fenomeni. Il valore dei fenomeni sta nella loro spontaneità. Ciò che ripugna nei sapienti è lo sforzare (la spontaneità). Se i sapienti si comportassero come Yü. quando convogliò le acque, nulla ci dispiacerebbe nella loro sapienza. Nel convogliare le acque, Yü fece in modo di non dover intervenire continuamente (perché assecondò la loro tendenza naturale). Se pure i sapienti facessero in modo di non dover intervenire continuamente, anche la loro sapienza sarebbe grande. Il cielo è alto, le stelle sono lontane, eppure basta scrutarne i fenomeni per poter calcolare, anche standosene seduti, quando cadrà il solstizio in mille

anni. 116. Kung Hang-tzu celebrava il funerale di un figlio e il Consigliere della Destra vi si recò per le condoglianze142. Quando costui entrò, molti si fecero avanti per parlargli, altri si accostarono al suo posto per intrattenersi con lui. Mencio non gli rivolse motto. Il Consigliere della Destra, irritato, disse: — Tutti questi signori hanno rivolto la parola a Huan (a me), solo Meng-tzu non gli ha parlato. Ciò significa fargli villania. Uditolo, Mencio disse: — Il cerimoniale prescrive che, a corte, nelle sale nessuno si muova dal proprio posto per conversare, né abbandoni la propria fila per salutare. Ho voluto osservare il rito. Non è strano che Tzu-ao ritenga che io gli abbia fatto villania? 117. Mencio disse: — Ciò per cui il saggio si differenzia dagli altri uomini è il suo indirizzo mentale. La mente del saggio è indirizzata alla carità e ai riti. Chi è caritatevole ama gli altri, chi osserva i riti rispetta gli altri. Chi ama gli altri ne è riamato in cambio; chi rispetta gli altri, ne è rispettato in cambio. C’è qui un uomo che mi tratta con cattiveria e scortesia. Se sono saggio mi rivolgo certamente a me stesso: «Non devo essere stato caritatevole, non devo aver osservato i riti, altrimenti come accadrebbe questo fatto?» Se, esaminandomi, trovo d’essere caritatevole e rispettoso e purtuttavia quello si comporta con malvagità e rozzezza, da saggio certamente mi rivolgo a me stesso: «Non devo aver fatto del mio meglio». Se, esaminandomi, trovo che faccio tutto il possibile e purtuttavia quello è cattivo e villano, da saggio dico: «Costui è un insensato. Un uomo siffatto in che differisce dai bruti? A che vale prendersela con un bruto?» Questa è la ragione per cui il saggio soffre delle afflizioni di tutta una vita, non delle preoccupazioni d’un mattino. Ciò per cui s’affligge è questo: «Shun era un uomo e anch’io sono un uomo. Shun è stato un modello per l’impero, mentre io non sono capace di evitare di restare un villico». Di questo gli è lecito addolorarsi. E perché s’affligge? (Perché vuole) essere come Shun. Non esistono motivi di afflizione per il saggio: egli non opera difformemente alla carità, non agisce difformemente ai riti. Se ha le preoccupazioni d’un mattino, il saggio non se ne affligge. 118. Yü e Chi vissero in tempi di tranquillità: (Yü) tre volte passò davanti alla

sua casa ma non vi entrò. K’ung-tzu lo considerò virtuoso. Yen-tzu visse in tempi di disordine: abitava in un sordido vicolo, aveva un cestello per mangiare e una zucca per bere. Altri non avrebbero sopportato tanta angustia, ma Yen-tzu non mutò il suo sentimento di gioia. K’ung-tzu lo considerò virtuoso143. Mencio disse: — Yü, Chi e Yen Hui seguivano la stessa Via. Yü riteneva che, se nell’impero v’era chi affogava, affogava per causa sua; Chi pensava che, se nell’impero v’era chi soffriva la fame, la soffriva per causa sua. In questo ponevano la loro sollecitudine. Se Yü, Chi e Yen-tzu si fossero scambiati i posti, si sarebbero comportati tutti nello stesso modo. (Per quanto riguarda la sollecitudine), poniamo che scoppi un alterco tra le persone che abitano nella stessa casa: è doveroso accorrere a separarle. Anche se si accorre a separarle con la chioma in disordine e il berretto non allacciato, è lecito. Ma se l’alterco scoppia tra i vicini, correre a separarli con le chiome in disordine e il berretto slacciato, è errato. È lecito anche chiudere la porta. 119. (Il discepolo) Kung Tu-tzu disse: — Nel regno intero tutti considerano Kuang Chang non filiale. (Tuttavia,) tu, o Maestro, lo frequenti e lo tratti anche con cortesia. Oso chiedere il perché. — I comportamenti che comunemente si definiscono non filiali sono cinque — rispose Mencio. — Tenere in ozio le quattro membra senza occuparsi del nutrimento dei genitori, è la prima mancanza di pietà filiale. Giuocare a scacchi e abbandonarsi al vino trascurando il nutrimento dei genitori, è la seconda. Amare i beni e le ricchezze ed avere a cuore solo la moglie e i figli senza curarsi del nutrimento dei genitori, è la terza. Compiacere i desideri dell’occhio e dell’orecchio e con ciò gettare la vergogna sui genitori, è la quarta. Amare le bravate, le risse e la violenza e con ciò porre in pericolo i genitori, è la quinta. Chang-tzu si è comportato in uno di questi modi? In effetti, nel caso di Chang-tzu, tra figlio e padre vi fu un richiamo al bene e così venne meno l’armonia tra loro. Rivolgersi ammonimenti sul bene è la norma tra amico e amico, ma tra padre e figlio nuoce alla pienezza dell’affetto. Forse egli non avrebbe voluto l’unione tra marito e moglie e tra figlio e madre? Avendo offeso il padre e non essendogli consentito di avvicinarlo, mandò via la moglie e allontanò il figlio per non aver mai più le loro cure. Egli è convinto che, se non avesse agito in tal modo, allora la sua colpa sarebbe stata veramente grande. Ecco tutto il caso di Chang-tzu. 120.

Quando Tsêng-tzu dimorava a Wu-ch’êng144, vi fu una scorreria di Yüeh. Qualcuno gli disse: — Arrivano i razziatori! Perché non scappi? — Non alloggiate nessuno nella mia casa — si raccomandò Tsêng-tzu — affinché non mi danneggino le piante e gli alberi. Quando gli incursori si furono ritirati, mandò a dire: — Riparate le mura e la casa. Sto per tornare. Andati via gli incursori e tornato Tsêng-tzu a casa, i suoi discepoli mormorarono: — (Il governatore di Wu-ch’êng) ha trattato il maestro con devozione e rispetto, ma, quando sono arrivati i razziatori, egli è fuggito per primo facendosi guardare da tutto il popolo. Poi è tornato appena i razziatori se ne sono andati. Sembra una scorrettezza! (Il discepolo) Ch’êng-yu Hsing disse: — È una questione che non avete capito! Una volta, (mentre Tsêng-tzu era nostro ospite, la mia famiglia) Ch’êng-yu fu in pericolo per la sommossa dei portatori d’erbe. Il Maestro era seguito da settanta discepoli: nessuno di loro fu presente (perché Tsêng-tzu li condusse via per non esporli al pericolo). Mentre Tzu-szu dimorava a Wei, vi fu un’incursione di Ch’i. Qualcuno disse: — Arrivano i razziatori! Perché non scappi? — Se Chi (io) fugge — rispose — con chi il principe proteggerà lo stato? Mencio commentò: — Tsêng-tzu e Tzu-szu seguivano la stessa Via. Tsêngtzu era un maestro e quindi padre e fratello maggiore (dei suoi discepoli), Tzuszu era un ministro e quindi meno importante (perché si trovava in posizione subordinata e non di responsabilità come Tsêng-tzu). Se Tsêng-tzu e Tzu-szu si fossero scambiati i posti, si sarebbero comportati nello stesso modo. 121. (Il ministro di Ch’i) Ch’u-tzu disse: — Il re ha mandato delle persone a spiare, o Maestro, se veramente hai qualcosa di diverso dagli altri. — In che cosa sarei diverso dagli altri? — obbiettò Mencio. — (Perfino) Yao e Shun erano eguali agli altri. 122. (Mencio disse): — Un tale di Ch’i aveva la moglie e una concubina e viveva con loro nella sua casa. Quando il marito usciva, mai tornava che non fosse sazio di vino e carne. La moglie gli chiedeva con chi avesse bevuto e mangiato ed egli non la finiva di nominare persone ricche ed altolocate. La moglie lo riferì alla concubina. «Quando nostro marito esce — disse — immancabilmente torna satollo di vino e carne e, allorché gli domando con chi ha bevuto e mangiato, non fa che nominare uomini ricchi e nobili. Eppure

nessuna di queste persone distinte è mai venuta in casa. Voglio spiare dove va nostro marito». Si alzò di buon’ora e fece in modo di seguire il marito dovunque andasse: in tutta la città non vi fu nessuno che si fermò a discorrere con lui. Alla fine mendicò gli avanzi da uno che stava offrendo il sacrificio fra le tombe del sobborgo orientale; poi, non soddisfatto, si guardò intorno ed andò da altri: quello era il modo con cui si satollava. Rientrata in casa, la moglie raccontò tutto alla concubina e disse: «Nostro marito, colui che ammiravamo e rappresentava tutta la nostra vita, ora si è ridotto a questo!» Insieme alla concubina, imprecò contro il marito e pianse nel cortile interno. Il marito, ignaro di ciò, tornò da fuori tutto tronfio, dandosi importanza davanti alla moglie e alla concubina. — Dal punto di vista del saggio — (commentò Mencio) — sono pochi i mezzi con i quali gli uomini cercano nobiltà, ricchezza, vantaggi e avanzamenti, di cui le loro mogli e concubine non abbiano a vergognarsi e piangere insieme.

LIBRO V WAN CHANG PARTE PRIMA 123. Wan Chang interrogò dicendo: — Shun andò nei campi e piangendo invocò il Cielo misericordioso145. Perché l’invocava piangendo? — Rimproverava (sé stesso) e desiderava l’affetto (dei genitori) — rispose Mencio. Osservò Wan Chang: — Quando i genitori l’amano, il figlio ne gioisce e non lo dimentica; quando lo odiano, ne soffre ma non se ne biasima. Perché, dunque, Shun si rimproverava? — (Una volta) — disse Mencio — Ch’ang Hsi chiese a Kung-ming Kao146: «Di Shun che andò nei campi, ho udito il tuo insegnamento. Ma che piangendo invocasse il Cielo misericordioso e i suoi genitori, non l’ho capito». Gli rispose Kung-ming Kao: «È cosa che tu non intendi». Kung-ming Kao riteneva che il cuore di un figlio filiale non è così insensibile (come tu dici). «Esaurisco le mie forze a lavorare i campi e compio ogni mio dovere di figlio — (pensava Shun). — Se i miei genitori non mi amano, che c’è in me?» L’imperatore (Yao) metteva a disposizione i suoi figli, nove maschi e due femmine, funzionari, buoi, pecore, magazzini e granai, per servire Shun nelle campagne; i letterati dell’impero accorrevano a lui in gran numero; l’imperatore stava per associarlo all’impero e cederglielo: ma lui, a causa del dissidio con i suoi genitori, era come un miserabile che non ha dove tornare. Il compiacimento dei letterati dell’impero è cosa a cui gli uomini ambiscono, ma non bastò a lenire il suo dolore. La bellezza muliebre è cosa che gli uomini desiderano: egli ebbe in mogli le due figlie dell’imperatore, ma non bastò a lenire il suo dolore. La ricchezza è cosa che gli uomini bramano: come ricchezza egli ebbe l’impero, ma non bastò a lenire il suo dolore. La nobiltà è cosa a cui gli uomini aspirano: la sua nobiltà fu quella di Figlio del Cielo, ma non bastò a lenire il suo dolore. Il compiacimento degli uomini, la bellezza delle donne, la ricchezza e la nobiltà non bastarono a lenire il suo dolore: solo l’armonia con i suoi genitori poteva lenirlo. Quando l’uomo è fanciullo ama i genitori; quando diviene conscio della bellezza ama le donne giovani e attraenti; quando ha moglie e figli ama costoro; quando serve nelle magistrature ama il principe e, se non ne ottiene il favore, si sente sui carboni

ardenti. La grande pietà filiale consiste nell’amare i genitori per tutta la vita. Un uomo che a cinquant’anni amava i genitori lo vedo nel grande Shun. 124. Wan Chang domandò: — Nell’Ode (I, 101, 3) è detto: «Per prendere moglie che cosa si fa? Bisogna informarne i genitori». Se davvero è come dicono queste parole, nessuno era più adatto di Shun (a dimostrarlo). Ma Shun prese moglie senza avvertirne i genitori. Perché? — Se li avesse avvertiti, non avrebbe potuto prender moglie — rispose Mencio. — La convivenza del marito con la moglie è una grande relazione umana. Se li avesse informati, avrebbe negletto questa grande relazione umana e con ciò avrebbe meritato il risentimento dei genitori (per l’interruzione della discendenza). Per questo non li preavvisò. — Di Shun che prese moglie senza avvertirne i genitori — disse Wan Chang — ho udito il tuo insegnamento. Ma perché l’imperatore (Yao) dette moglie a Shun senza avvertirne (i genitori di lui)? — Anche l’imperatore sapeva che, se li avesse avvertiti, non avrebbe potuto dargli moglie. — I genitori mandarono Shun a sistemare il granaio — disse ancora Wan Chang. — Tolta via la scala, Ku-sou (suo padre) appiccò fuoco al granaio. Lo mandarono a scavare il pozzo: egli ne era uscito ma (il padre Ku-sou e il fratellastro Hsiang) procedettero a chiudere il pozzo147. Hsiang disse: «Il piano di rinchiudere il Principe della Città (Shun) è merito mio. Perciò i suoi buoi e le sue pecore vadano ai genitori, i suoi magazzini e i suoi granai vadano ai genitori, ma il suo scudo e la sua lancia vengano a me, il suo liuto a me, il suo arco a me e le due cognate vengano a tenere in ordine il mio letto (cioè siano mie mogli)». Così Hsiang si diresse verso l’appartamento di Shun: Shun, seduto sul divano, suonava il liuto. «Ero in grande ansia pensando al signore» — disse Hsiang arrossendo. «Tutti i miei funzionari, dirigili tu per me» — gli disse Shun. Non so se Shun ignorasse che Hsiang aveva voluto ucciderlo. — Come poteva ignorarlo? — esclamò Mencio. — Ma quando Hsiang era triste, anch’egli diventava triste; quando Hsiang era allegro, anch’egli diventava allegro. — Se è così, allora Shun fingeva d’essere allegro? — No! — rispose Mencio. — Una volta a Tzu-ch’an di Chêng furono mandati in dono dei pesci vivi. Tzu-ch’an dette ordine all’addetto al vivaio di allevarli nel laghetto. Il servo li mise a friggere, poi andò riferire sul mandato dicendo: «Appena li ho buttati giù se ne stavano inerti e mogi, ma subito si

son fatti vivaci e guizzanti. Sono spariti in un attimo». «Hanno trovato il loro posto, hanno trovato il loro posto!» — esclamò Tzu-ch’an. Il servo uscì mormorando: «Chi dice che Tzu-ch’an è un saggio? Ho appena finito di friggere e di mangiare i suoi pesci ed egli esclama: hanno trovato il loro posto, hanno trovato il loro posto!» La ragione è che il saggio può essere ingannato da ciò che è verosimile, ma difficilmente lo si irretisce con ciò che è contrario ai suoi princìpi. Hsiang si presentò nel modo di uno che ama il suo fratello maggiore: Shun gli credette sinceramente e ne fu lieto. Che finzione c’è? 125. Wan Chang interrogò dicendo: — Ogni giorno Hsiang non faceva che pensare di uccidere Shun. Questi, quando divenne Figlio del Cielo, lo esiliò (soltanto). Perché? — Lo investì d’un feudo — precisò Mencio. — Qualcuno disse che lo esiliò. — Shun bandì il ministro dei lavori a Yu-chow — insisté Wan Chang — esiliò Huan-tou sul monte Ch’ung, a San-wei fece mettere a morte il principe di San-miao, tenne Kun prigioniero sul monte Yü148. (Puniti questi) quattro criminali tutto l’impero gli si sottomise, perché mandava a morte gli scellerati. Hsiang era il più grande degli scellerati ed egli gli dette in feudo Yu-pei. Che colpa avevano commesso i cittadini di Yu-pei? L’uomo caritatevole agisce in tal modo? Quando si trattò di estranei li punì, quando si trattò del suo fratello minore l’investì d’un feudo. — L’uomo caritatevole — osservò Mencio — non serba collera né nutre rancore contro il fratello minore, ma ha per lui affetto e amore. Avendo dell’affetto per lui, vuole nobilitarlo; avendo dell’amore per lui, vuole arricchirlo. Dandogli Yu-pei lo arricchì e nobilitò. Se, mentre egli era Figlio del Cielo, suo fratello fosse rimasto semplice cittadino, si sarebbe potuto dire che aveva per lui affetto e amore? — Oso interrogare — riprese Wan Chang. — Che significa: qualcuno disse che l’esiliò? — Hsiang non aveva facoltà di agire nel suo regno — rispose Mencio. — Il Figlio del Cielo aveva mandato un funzionario ad amministrare lo stato e a riscuotere i tributi. Perciò si parlò di esilio. Come avrebbe potuto opprimere il suo popolo (come tu dici)? Nonostante tutto, Shun desiderava sempre di vederlo e perciò lo faceva venire continuamente (a corte). «Non era ancor giunta la data del tributo dei feudatari, che (già) riceveva il principe di Yu-pei per affari di governo»149. Significa appunto ciò. 126.

(Il discepolo) Hsien-ch’iu Meng interrogò dicendo: — Un proverbio dice: «Anche in presenza dell’uomo dalla virtù fiorente, il principe non si comporta da suddito né il padre da figlio». Eppure, quando Shun s’assise con il viso volto a meridione150, Yao, alla testa dei feudatari, andò alla sua corte ponendosi con la faccia volta a settentrione. Anche (suo padre) Ku-sou fu alla sua corte con la faccia volta a settentrione. Vedendo Ku-sou, Shun ebbe un contegno imbarazzato. K’ungtzu disse: «In quel momento l’impero periclitava. Come era malsicuro!» Non so se quel proverbio risponda a verità. — No — rispose Mencio. — Non è un detto dei saggi, ma un proverbio dei selvaggi ad oriente di Ch’i. Quando Yao invecchiò, Shun governò in sua vece. Nel Canone di Yao è detto: «Dopo ventotto anni, Fan-shün (Yao) morì. I cento cognomi presero per lui il lutto come per il padre e la madre. Per tre anni tra i quattro mari tacquero gli otto suoni»151. K’ung-tzu disse: «Il cielo non ha due soli e il popolo non ha due sovrani». Se Shun fosse stato già Figlio del Cielo e avesse preso per Yao il lutto triennale alla testa dei feudatari, vi sarebbero stati due imperatori. Hsien-ch’iu Meng disse: — Che Shun non considerasse Yao come suddito, ho udito il tuo insegnamento. Però nell’Ode (II, 51, 2) è detto: «Sotto l’universo cielo non v’è terra che non sia del sovrano, entro le coste della terra non v’è nessuno che non sia suddito del sovrano»152. Allora, quando Shun divenne Figlio del Cielo, oso domandare, Ku-sou non fu suo suddito? — Non è questo il senso di quel passo dell’ode — spiegò Mencio. — Colui si affaticava al servizio del sovrano e non poteva nutrire i genitori, (perciò in sostanza) diceva: tutti questi sono affari del sovrano, ma io solo sono considerato capace e vengo oberato di lavoro. Perciò coloro che citano le odi non devono prendere lo spunto da una parola per violentare una frase, né da una frase per violentare l’intenzione. Quando si armonizza il proprio pensiero all’intenzione, allora questa si coglie. Se prendiamo le parole alla lettera, nell’ode Yün Han (III, 24, 3) è detto: «Del restante popolo delle chiome nere di Chou non ne scampò nessuno». A dar credito a questi versi, a Chou nessuno del popolo sarebbe rimasto in vita. Al culmine della pietà filiale d’un figlio, nulla è più grande che onorare i genitori; al culmine dell’onorare i genitori, nulla è più grande che nutrirli con l’impero. Essere il padre del Figlio del Cielo è il culmine dell’onore, essere nutriti con l’impero è il culmine del nutrimento. Nell’Ode (III, 9, 3) è detto (del re Wu): «Sempre esprimeva pensieri filiali e i suoi pensieri filiali divenivano un modello». Vuol dire appunto ciò. Nei

Documenti (II, 2, 21) è detto: «Rispettosamente servendolo si presentava a Kusou, pieno di reverenza e di timore, finché Ku-sou sinceramente si conformò (alla virtù del figlio)». Ecco come colui che era il padre non poté fare a meno di comportarsi da figlio153. 127. Wan Chang disse: — Yao dette l’impero a Shun. È così? — No — rispose Mencio. — Il Figlio del Cielo non può dare l’impero ad un uomo. — Va bene, ma Shun l’impero l’ebbe. Chi glielo dette? — Il Cielo glielo dette — rispose Mencio. — Se glielo dette il Cielo, lo decretò esplicitamente? — No, il Cielo non parla. Rende manifesto il suo decreto con la condotta personale e con l’attività pubblica (del suo prescelto)154. — In che modo rese manifesto il suo decreto con la condotta personale e l’attività pubblica (di Shun)? — Il Figlio del Cielo può proporre un uomo al Cielo, non può costringere il Cielo a dargli l’impero. I feudatari possono proporre un uomo al Figlio del Cielo, non possono costringere il Figlio del Cielo ad investirlo d’un feudo. I dignitari possono proporre un uomo al feudatario, non possono costringere il feudatario a conferirgli una dignità. A quel tempo, Yao propose Shun al Cielo e il Cielo lo gradì, lo presentò al popolo e il popolo lo gradì. Perciò ho detto: il Cielo non parla, ma rende manifesto il suo decreto con la condotta personale e l’attività pubblica (del prescelto). — Oso interrogare — riprese Wan Chang. — In che modo lo propose al Cielo e il Cielo lo gradì, lo presentò al popolo e il popolo lo gradì? — Lo fece presiedere ai sacrifici — rispose Mencio — e i cento esseri spirituali li accettarono: segno che il Cielo l’aveva gradito. Lo mise a dirigere gli affari pubblici e gli affari furono bene amministrati e i cento cognomi si riposarono in lui: segno che il popolo l’aveva gradito. (L’impero) glielo dette il Cielo e glielo dettero gli uomini. Perciò ho detto: il Figlio del Cielo non può dare l’impero ad un uomo. Shun assisté Yao per ventotto anni: non è cosa che possa determinare un uomo, ma il Cielo. Morto Yao e terminato il lutto triennale, Shun si ritirò davanti al figlio di Yao andandosene al di là del fiume meridionale. Ma i feudatari dell’impero che volevano udienza a corte non andarono dal figlio di Yao, bensì da Shun. Coloro che avevano in corso un processo non si rivolsero al figlio di Yao, bensì a Shun. I bardi non cantarono del figlio di Yao, bensì di Shun. Per questo ho detto (che fu determinato dal)

Cielo. Soltanto dopo di ciò, Shun rientrò nell’Impero del Mezzo e occupò il trono del Figlio del Cielo. Se fosse restato nel palazzo di Yao ed avesse forzato il figlio di Yao, sarebbe stata un’usurpazione non un’investitura del Cielo. Nella Grande Dichiarazione155 è detto: «Il Cielo vede ciò che vede il mio popolo, il Cielo sente ciò che sente il mio popolo». Significa appunto ciò. 128. Wan Chang disse: — Si dice che giunti a (l’imperatore) Yü, la virtù decadde: egli non trasmise il trono ad un virtuoso ma al figlio. È così? — No, non è così — rispose Mencio. — Quando il Cielo dette l’impero ad un virtuoso, esso fu dato ad un virtuoso; quando lo dette al figlio, esso fu dato al figlio. In quei tempi, Shun propose Yü al Cielo (chiamandolo al suo fianco) e dopo diciassette anni Shun morì. Terminato il lutto triennale, Yü si ritirò davanti al figlio di Shun andandosene sul (monte) Yang-ch’êng: i popoli dell’impero lo seguirono nello stesso modo in cui, dopo la morte di Yao, avevano seguito non il figlio di questi ma Shun. Yü propose al Cielo I (suo ministro) e dopo sette anni Yü morì. Compiuto il lutto triennale, I si ritirò davanti al figlio di Yü rifugiandosi sul versante settentrionale del monte Chi. Coloro che volevano ottenere udienza a corte o che avevano un processo in corso non andarano da I ma da Chi (figlio di Yü), dicendo: «È il figlio del nostro sovrano». I bardi non cantarono di I ma di Chi, dicendo: «È il figlio del nostro sovrano». Tan-chu (figlio di Yao) era un figlio degenere e così il figlio di Shun. Per molti anni Shun assisté Yao e Yü assisté Shun: a lungo ambedue dispensarono benefici sul popolo. (Invece) Chi era un virtuoso, in grado di succedere degnamente a Yü e di continuare la Via. Anche I assisté Yü, ma per pochi anni e non a lungo dispensò benefici sul popolo. Che il ministero di Shun, di Yü e di I durasse (più o meno) a lungo e giungesse (più o meno) lontano, che i figli fossero virtuosi o degeneri, è (volere del) Cielo, non cosa che possano provocare gli uomini. Una cosa che è senza che nessuno la causi è (opera del) Cielo, una cosa che accade senza che nessuno la susciti è decreto del Cielo. Perché un uomo qualunque giunga all’impero, per virtù deve essere come Shun e Yü e, per di più, deve avere la proposta del Figlio del Cielo. È per questa (ultima) ragione che Chung-ni non ebbe l’impero. (Un sovrano) che possiede l’impero per diritto di successione, per essere destituito dal Cielo deve essere come Chieh e Chou. È per questa ragione che I, I Yin e il duca Chou non ebbero l’impero156. I Yin aiutò T’ang a regnare sull’impero. Quando T’ang morì, T’ai-ting gli era premorto e perciò non salì al trono, Wai-ping (era deceduto) a due anni e Chung-jên a quattro157. T’ai Chia sovvertiva le

istituzioni di T’ang e I Yin lo esiliò per tre anni a T’ung (dove era sepolto il nonno). T’ai Chia riconobbe i suoi errori e si emendò. A T’ung, in quei tre anni praticò la carità e si convertì alla giustizia, ascoltando gli ammaestramenti di I Yin. Poi ritornò a (la capitale) Po. Il caso del duca Chou, che non ebbe l’impero, è analogo a quello di I sotto gli Hsia e di I Yin sotto gli Yin. K’ung-tzu disse: «Nelle epoche T’ang (di Yao) e Yü (di Shun) il trono fu trasmesso (per designazione del sovrano), nelle dinastie Hsia, Yin e Chou fu continuato (per successione): il principio morale è lo stesso». 129. Wan Chang chiese: — Si dice che I Yin si insinuò nelle grazie di T’ang per la sua abilità culinaria158. È così? — No, non è così — rispose Mencio. — I Yin coltivava la terra nelle lande del principe di Hsin e gioiva della Via di Yao e di Shun. Se contro la giustizia e la Via di quelli gli avessero dato come emolumento l’impero non l’avrebbe degnato nemmeno d’uno sguardo, mille quadrighe di cavalli aggiogati non li avrebbe nemmeno guardati. Contro la giustizia e la Via non avrebbe dato agli altri né avrebbe preso dagli altri un filo di paglia. T’ang inviò un messo con un dono di sete per invitarlo (ad entrare al suo servizio), ma egli rimase indifferente e disse: «Che me ne faccio dell’invito e del dono di T’ang? Non è meglio che me ne stia nei campi a gioire della Via di Yao e di Shun?» Tre volte T’ang inviò dei messi per invitarlo ed alla fine I Yin mutò parere e disse: «Invece di starmene nei campi a gioire della Via di Yao e di Shun, non sarebbe meglio fare di questo principe un sovrano simile a Yao e a Shun e di questo popolo un popolo simile a quelli di Yao e di Shun? Non sarebbe meglio che io stesso badassi a ciò? Nel creare questo popolo, il Cielo ha voluto che coloro che prima pervengono alla sapienza destino quelli che vi pervengono dopo, che coloro che prima si risvegliano destino quelli che si risvegliano dopo. Di questo popolo del Cielo, io sono uno che si è risvegliato prima. Con questa Via desterò questo popolo. Se non lo desterò io, chi altri?» Pensava che, se tra i popoli dell’impero vi fosse un uomo o una donna che non godessero dei benefici di Yao e di Shun (perché rimanevano sotto l’oppressione di Chieh Kuei), sarebbe stato come se egli stesso li avesse spinti e gettati in un fosso. Con tale spirito egli prese su di sé il peso dell’impero. Per questo si unì a T’ang e gli consigliò di punire lo Hsia e di salvare il popolo. Non ho mai inteso dire che chi si piega raddrizzi gli altri: a maggior ragione, chi si disonora (insinuandosi come cuoco) riformerebbe l’impero? I santi uomini non sono eguali nel modo di agire: alcuni si tengono appartati, altri avvicinano (i

principi); alcuni sfuggono (le magistrature), altri non le sfuggono. Ma convergono nella volontà di mantenersi puri. Ho inteso dire che I Yin conquistò T’ang con la Via di Yao e di Shun, non ho mai inteso dire che lo conquistò con l’arte culinaria. Nelle Istruzioni di I è detto: «Il castigo del Cielo cominciò a colpire dal palazzo di Mu, noi cominciammo da Po»159. 130. Wan Chang domandò: — Qualcuno afferma che a Wei K’ung-tzu fu ospite (e quindi protetto) di un guaritore di ulcere e a Ch’i dell’eunuco Chi Huan160. È così? — No, non è così — rispose Mencio. — Sono fandonie di amatori di fole. A Wei fu ospite di Yen Chou-yu161. La moglie di Mi-tzu e la moglie di Tzu-lu erano sorelle. Mi-tzu aveva detto a Tzu-lu: «Se K’ung-tzu sarà mio ospite, potrà ottenere un’alta dignità a Wei». Tzu-lu riferì ciò a K’ung-tzu, che disse: «C’è il decreto del Cielo (per ottenere le dignità)». K’ung-tzu si faceva avanti secondo i riti e si ritirava secondo la giustizia. Sia che ottenesse (l’ufficio), sia che non l’ottenesse, diceva: c’è il decreto del Cielo. Farsi ospitare (e proteggere) dal guaritore di ulcere o dall’eunuco Chi Huan sarebbe stato contrario alla giustizia ed alla volontà celeste. Scontento di Lu e di Wei, K’ung-tzu fu minacciato da Huang (Tui), ministro della guerra di Sung, che voleva catturarlo e ucciderlo: travestitosi con umili vesti, lasciò Sung. In quell’epoca, benché si trovasse in una situazione difficile, K’ung-tzu (scelse e) fu ospite dell’assistente ministro dei lavori pubblici Chên-tzu, che era al servizio di Chou, marchese di Ch’ên162. Mi hanno insegnato che un ministo di corte si distingue per le persone che ospita e un letterato forestiero per le persone da cui è ospitato. Se K’ung-tzu fosse stato ospite del guaritore di ulcere e dell’eunuco Chi Huan, come sarebbe stato K’ung-tzu?

Disco rituale pi. Regni Combattenti. (Kansas City, W. Rockhill Nelson Gallery of Art).

131. Wan Chang interrogò dicendo: — Si racconta che Pai-li Hsi si vendette ad un allevatore di Ch’in per cinque pelli d’agnello e pascolò i suoi buoi, allo scopo di potersi insinuare presso il duca Mu di Ch’in. È così? — No, non è così — rispose Mencio. — Sono fandonie di amatori di fole. Pai-li Hsi era del regno di Yü: quando quelli di Chin, offrendo il pi di giada di Ch’ui-chi e una quadriga di stalloni di Chiu, chiesero di attraversare Yü per attaccare il regno di Kuo, (il ministro) Kung Chi-ch’i rappresentò le sue rimostranze (al principe perché non lo permettesse), ma Pai-li Hsi non lo fece. Quando comprese che era inutile far le rimostranze al duca di Yü e se ne andò nel regno di Ch’in, aveva settant’anni163. Se (a quell’età) non sapeva che era disonorevole pascere i buoi allo scopo di arrivare al duca Mu di Ch’in, poteva dirsi saggio? Ma non parlare quando è inutile far rimostranze, può dirsi non esser saggio? Capire che il duca di Yü correva alla rovina ed abbandonarlo prima, non può dirsi non esser saggio. E quando a Ch’in fu elevato alle magistrature, capire che il duca Mu poteva offrirgli un campo di attività e perciò fargli da ministro, può dirsi non esser saggio? Essere primo ministro di Ch’in e rendere illustre il suo principe in tutto l’impero e degno d’essere tramandato alle generazioni successive, poteva farlo uno che non fosse virtuoso? Vendersi per assicurare il successo al proprio principe, non lo farebbe nemmeno un villano che abbia un po’ d’amor proprio. Lo avrebbe fatto un uomo che, a quanto si dice, era un virtuoso?

LIBRO V WAN CHANG PARTE SECONDA 132. Mencio disse: — (Così era) Po-i: con l’occhio non guardava un brutto colore, con l’orecchio non ascoltava un brutto suono; non serviva quello che non era il suo principe, non comandava a quello che non era il suo popolo (cioè, l’uno degno d’essere servito e l’altro d’essere comandato da lui); in tempi di ordine si faceva avanti, in tempi di disordine si ritirava. Non tollerava di stare in una corte da cui emanava un governo perverso o in un luogo dove viveva un popolo perverso. Pensava che mescolarsi con gente volgare fosse come sedersi nel fango o sul carbone con l’abito e il berretto di cerimonia. Durante il tempo di Chou (Hsin) abitò sulle rive del mar settentrionale, in attesa che nell’impero tornasse la purezza. Per questo, quando sentirono del modo di comportarsi di Po-i, i corrotti divennero onesti e i titubanti divennero risoluti. I Yin (invece) diceva: «Chi servire se non un principe (qualunque)? Chi governare se non un popolo (qualsiasi)?» Si faceva avanti in tempi di ordine, si faceva avanti in tempi di disordine. Diceva: «Nel creare questo popolo, il Cielo ha voluto che coloro che prima pervengono alla sapienza destino quelli che vi pervengono dopo, che coloro che si risvegliano prima destino quelli che si risvegliano dopo. Con questa Via desterò questo popolo». Pensava che, se tra i popoli dell’impero vi fosse un uomo o una donna che non godessero dei benefici di Yao e di Shun (perché rimanevano sotto l’oppressione di Chieh Kuei), sarebbe stato come se egli stesso li avesse spinti e gettati in un fosso. Con tale spirito egli prese su di sé il peso dell’impero. Hui di Liu-hsia (d’altro canto) non disdegnava un principe corrotto, né rifiutava una carica modesta. Quando si faceva avanti (per un impiego) non poneva in ombra la sua virtù ma seguiva immancabilmente la sua Via. Messo da parte e privato dell’ufficio non serbava rancore, ridotto in miseria non si lamentava. Trovandosi in mezzo al volgo era completamente a suo agio e gli dispiaceva di allontanarsene. Diceva: «Voi siete voi, io sono io. Se anche foste al mio fianco con il petto nudo o con il corpo discinto, forse potreste gettare la vergogna su me?» Per questo, quando sentirono del modo di comportarsi di Hui di Liuhsia, i meschini divennero magnanimi e gli avari divennero generosi. K’ungtzu (infine) andandosene da Ch’i tolse il riso dall’acqua (senza attendere

che finisse di cuocersi) e partì. Lasciando Lu aveva detto (invece): «Lentamente muovo i passi». Era la maniera di partire dal paese dei propri genitori164. Quando era corretto affrettarsi, si affrettava; quando era corretto indugiare, indugiava; quando era corretto restare, restava; quando era corretto servire, serviva. Così era K’ung-tzu. Mencio aggiunse: — Po-i rappresenta la purezza del santo, I Yin il senso di responsabilità del santo, Hui di Liu-hsia la capacità di armonizzare del santo, K’ung-tzu l’adattabilità alle circostanze del santo. K’ung-tzu può dirsi la grande sinfonia (di tutte quelle qualità). La grande sinfonia (è compresa) tra il suono delle campane e lo scuotimento delle pietre: il suono delle campane è l’inizio e lo scuotimento delle pietre è il compimento della sequenza musicale. Dar inizio ad una sequenza è affare da sapienti, dar compimento ad una sequenza è affare da santi. La sapienza è paragonabile all’abilità, la santità alla forza. Nel trar d’arco a cento passi di distanza, raggiungere il bersaglio dipende dalla tua forza, ma far centro non dipende dalla tua forza. 133. (Il cittadino di Wei) Pei-kung I domandò: — La casa dei Chou come stabiliva i gradi e gli emolumenti? — Non è possibile apprenderne i particolari — rispose Mencio — poiché i feudatari asportarono tutti i documenti, che detestavano come dannosi per loro (in quanto ponevano in evidenza gli abusi e le usurpazioni che essi commettevano). Tuttavia, Ko (io) ne ha appreso le grandi linee. I gradi (nobiliari) erano in tutto cinque: t’ien-tzu (Figlio del Cielo = imperatore), kung (duca), hou (marchese), po (conte), tzu (visconte) e nan (barone) di pari grado165. I gradi (ufficiali) erano in tutto sei: chün (principe), ch’ing (ministro), ta fu (dignitario), shang shih (funzionario superiore), chung shih (funzionario medio), hsia shih (funzionario inferiore). Al Figlio del Cielo era attribuito un territorio di mille li di lato, al duca e al marchese di cento, al conte di settanta, al visconte e al barone di cinquanta: in tutto quattro ripartizioni. Quando il territorio non raggiungeva i cinquanta li, (il vassallo) non aveva accesso all’imperatore ma dipendeva da un feudatario e (il territorio) era detto fu yung (stato dipendente). I ministri del Figlio del Cielo ricevevano un territorio pari a quello del marchese, i dignitari pari a quello del conte, i funzionari superiori pari a quello del visconte e del barone. Il territorio dei grandi stati (feudatari) era di cento li di lato: il principe aveva un appannaggio (consistente in un appezzamento di 32.000 mu di terra) decuplo dell’emolumento di un ministro,

il ministro un emolumento quadruplo di quello di un dignitario, il dignitario doppio di quello di un funzionario superiore, costui doppio di quello di un funzionario medio, costui doppio di quello di un funzionario inferiore, il funzionario inferiore e gli addetti ai bassi servizi ricevevano un egual compenso, pari a quello che avrebbero tratto dalla coltivazione d’un campo. Il territorio degli stati medi era di settanta li di lato: il principe aveva un appannagio (24.000 mu di terra) decuplo dell’emolumento di un ministro, il ministro un emolumento triplo di quello di un dignitario, il dignitario doppio di quello di un funzionario superiore, costui doppio di quello di un funzionario medio, costui doppio di quello di un funzionario inferiore, il funzionario inferiore e gli addetti ai bassi servizi ricevevano un egual compenso, pari a quello che avrebbero tratto dalla coltivazione d’un campo. Il territorio dei piccoli stati era di cinquanta li di lato: il principe aveva un appannaggio (16.000 mu di terra) decuplo dell’emolumento di un ministro, il ministro un emolumento doppio di quello di un dignitario, il dignitario doppio di quello di un funzionario superiore, costui doppio di quello di un funzionario medio, costui doppio di quello di un funzionario inferiore, il funzionario inferiore e gli addetti ai bassi servizi ricevevano un egual compenso, pari a quello che avrebbero tratto dalla coltivazione d’un campo166. L’assegnazione ai contadini era di cento mu per ogni capo-famiglia. Concimando cento mu di terra, un ottimo contadino nutriva nove persone, un buon contadino otto, un contadino mediocre sette, un contadino men che mediocre sei, un contadino inferiore cinque. I salari degli addetti ai bassi servizi presentavano analoghe differenze. 134. Wan Chang chiese: — Ardisco interrogare sull’amicizia. — Essere amici senza dar peso all’anzianità — rispose Mencio — né alla nobiltà, né all’ordine tra fratelli: l’amicizia consiste nell’essere amico della virtù dell’altro, non può esservi altra considerazione. Meng Hsien-tzu apparteneva ad una casata da cento carri da guerra e aveva cinque amici: Yochêng Chiu, Mu Chung ed altri tre di cui non ricordo il nome167. Hsien-tzu era amico di questi cinque uomini, perché essi non facevano alcun caso (del rango) della sua casata: se vi avessero dato importanza, non sarebbe stato loro amico. Non solo (i capi de) le casate da cento carri da guerra si comportavano in tal modo, ma anche i principi dei piccoli stati. Il duca Hui di Pi diceva: «Tratto Tzu-szu come maestro e Yen Pang come amico. Wang Shun e Ch’ang Hsi sono persone che mi servono»168. Non soltanto i principi dei piccoli stati si

comportavano in tal modo, ma anche quelli dei grandi stati. Il comportamento del duca P’ing di Chin verso Hai T’ang169 era che se questi gli diceva di entrare, entrava; se gli diceva di sedere, sedeva; se gli diceva di mangiare, mangiava e, anche se si trattava di cibi grossolani o di una zuppa di verdura, mangiava fino a che non era sazio, poiché non avrebbe osato non satollarsi. Però la cosa finiva lì: non gli conferì un rango (stabilito) dal Cielo, non gli affidò incarichi (istituiti) dal Cielo, non gli dette emolumenti (fissati) dal Cielo. Era il rispetto d’un uomo di lettere per un virtuoso, non quello d’un sovrano o d’un duca per un virtuoso170. Quando Shun si recava a visitare l’imperatore (Yao), questi ospitava il genero (Shun) nel secondo palazzo e sedeva anche alla sua tavola, era alternativamente ospitato e ospitante. Ecco un Figlio del Cielo che dava la sua amicizia ad un semplice cittadino. Quando l’inferiore rispetta il superiore dicesi che onora la nobiltà, quando il superiore rispetta l’inferiore dicesi che venera la virtù. Onorare un nobile e venerare un virtuoso: la giustizia è la stessa. 135. Wan Chang domandò: — Oso chiedere quale sentimento si esprime nei doni di cortesia. — Il rispetto — rispose Mencio. — Rifiutare un dono è considerato irrispettoso. Perché? — Quando una persona onorevole offre un dono, chiedersi: «Il modo con cui se l’è procurato è stato giusto o ingiusto?» e poi accettarlo (se si pensa che è stato acquistato giustamente), è da ritenersi irrispettoso. Per questo non si rifiuta. — Prego — disse Wan Chang. — Lo si rifiuta non con le parole ma col cuore. Non è consentito dirsi: «L’ha estorto ingiustamente al popolo», ma non accettarlo con parole diverse? — Se l’offerta aveva una ragione e il dono era fatto secondo i riti, anche K’ung-tzu l’accettava. — Ecco qua un brigante che depreda fuori della porta della città — disse Wan Chang. — La sua offerta ha una ragione, il dono è fatto secondo i riti. È lecito accettare il frutto di rapine? — Non è lecito — rispose Mencio. — Nell’Annuncio a K’ang (Libro dei Documenti, V, 9, 15) è detto: «Tutto il popolo aborrisce coloro che uccidono e rivoltolano gli uomini per depredarli dei beni, essendo violenti e senza timor di morte». Sono da mettere a morte senza aspettare di ammonirli: (questa norma), che gli Yin ricevettero dagli Hsia e i Chou dagli Yin, non è stata posta

in discussione ed oggi è considerata meritoria171. Come si accetterebbe il dono d’un brigante? — Oggi — osservò il discepolo — i feudatari prendono dal popolo come i briganti. Se il saggio accetta il loro dono alla sola condizione che sia offerto secondo i riti, oso domandare, che se ne deve dire? — Credi che se sorgesse un sovrano riunirebbe gli odierni feudatari e li metterebbe a morte? Oppure li ammonirebbe e, se quelli non cambiassero, li punirebbe? Dar del ladro a coloro che prendono ciò che non appartiene loro significa porre tutti nella stessa categoria e pretendere da tutti la massima giustizia. Quando K’ung-tzu era in carica a Lu, il popolo di quel regno si contendeva la selvaggina (per offrirla in sacrificio). Anche K’ung-tzu lo faceva. Se considerava lecito contendersi la selvaggina, quanto più accettare un dono? — Allora, quando K’ung-tzu serviva negli uffici non lo faceva con lo scopo di praticare la Via? — Lo faceva con tale scopo. — Che ha a che fare il contendersi la selvaggina con la pratica della Via? — K’ung-tzu anteponeva la correttezza, conforme alle antiche testimonianze, degli strumenti del sacrificio, non la correttezza, conforme alle antiche testimonianze, delle vivande secondo la provenienza. — Perché non se ne andò? — Aveva fatto una prova. Quando la prova bastava per far seguire (la Via) e questa non era seguita, egli se ne andava. È per ciò che non rimase mai in un luogo sino a completare tre anni. Talvolta K’ung-tzu serviva negli uffici perché gli sembrava che la pratica della Via fosse possibile, talaltra perché era ricevuto correttamente, talaltra ancora perché lo stato nutrisse (un virtuoso). Nel caso di Chi Huang-tzu servì perché gli sembrava che la pratica della Via fosse possibile, nel caso del duca Ling di Wei perché era stato ricevuto correttamente, nel caso del duca Hsiao di Wei perché lo stato lo nutrisse172. 136. Mencio disse: — Si serve nelle magistrature non a causa della povertà, benché talvolta lo si faccia proprio per la povertà, (così come) si prende moglie non perché si curi di noi, anche se talvolta lo si faccia proprio perché ci curi. Chi lo fa a causa della povertà rinunci agli onori e si tenga in basso, lasci stare le ricchezze e rimanga nella povertà (per essere sicuro di poter praticare la Via). A chi rinuncia agli onori e si tiene in basso, ricusa la ricchezza e rimane nella povertà, che è più adatto? Fare il portiere ai cancelli o il guardiano

notturno. Quando era sovrintendente ai magazzini K’ung-tzu diceva: «Che i conti quadrino, questo è tutto». Quando era sovrintendente ai campi pubblici diceva: «Che i buoi e le pecore siano grassi e robusti, questo è tutto». Parlar alto quando ci si trova in basso è colpa, restare alla corte di qualcuno quando la Via non è praticata è vergogna. 137. Wan Chang domandò: — Perché il letterato (senza incarichi) non si fa mantenere dai feudatari? — Non osa — rispose Mencio. — Che un feudatario, perduto il regno, si faccia sostentare da un altro feudatario è conforme ai riti, ma che un letterato si faccia mantenere dai feudatari non è conforme ai riti. — Se il principe gli dà del frumento, l’accetta? — chiese il discepolo. — L’accetta. — A che titolo l’accetta? — Il dovere del principe verso i sudditi è di soccorrerli. — Quando lo soccorre il letterato accetta, quando gli fa un dono non accetta. Perché? — Perché non osa. — Ardisco domandare perché non osa. — Un portiere ai cancelli o un guardiano notturno hanno un lavoro permanente, per cui sono nutriti dai superiori. Non avere un incarico permanente ed essere ricompensati dai superiori è da ritenersi non dignitoso. — Il principe gli manda dei viveri (per soccorrerlo) ed il letterato li accetta — disse Wan Chang. — Non so se si possa andare avanti così in perpetuo. — (Prendi il caso del) duca Mu (di Lu) nei confronti di Tzu-szu: spesso domandava sue notizie, spesso gli mandava la carne dei suoi caldai. Tzu-szu ne era contrariato. Alla fine, invitò il messo ad uscire fuori della porta principale, si prosternò col volto rivolto a settentrione, s’inchinò due volte e rifiutò il dono, dicendo: «D’ora in poi so che il principe mi pasce come un cane o un cavallo». Così, da allora i servi non gli portarono più vivande. Compiacersi d’un virtuoso senza essere in grado di elevarlo ad una carica e senza saperlo nutrire, si può dire compiacersi del virtuoso? — Oso interrogare — disse Wan Chang. — Se un principe desidera nutrire il saggio, che deve fare perché possa dirsi che lo nutre (correttamente)? — Per ordine del principe gli si fa l’offerta — rispose Mencio — ed egli l’accetta inchinandosi due volte prosternato. In seguito, l’addetto al magazzino continua a mandargli il frumento e l’addetto alla cucina la carne, ma senza un

(nuovo) ordine del principe (affinché il saggio non debba rinnovare i ringraziamenti). Tzu-szu riteneva che, costringerlo a ringraziare tanto spesso per un pezzo di carne, non era il modo di nutrire un saggio. Nei confronti di Shun, Yao mandò i suoi nove figli a servirlo e le sue due figlie a fargli da mogli e gli mise a disposizione funzionari, buoi, pecore, magazzini e granai, per nutrirlo quando era ancora nelle campagne. Poi lo elevò e gli conferì la suprema dignità. Perciò si dice: «Onorare il virtuoso da sovrano o da duca». 138. Wan Chang chiese: — Oso domandare quale giustizia v’è nel non far visita ai feudatari. — (Se il letterato risiede) nel regno — rispose Mencio — è detto: suddito delle città e dei villaggi; (se risiede) in luoghi selvaggi è detto: suddito delle steppe e delle giungle. In ambedue i casi è uno del popolo. Uno del popolo, che non presenta il dono173 per essere assunto negli uffici, non ardisce far visita al feudatario: è il rito. Chiese Wan Chang: — Se un cittadino è chiamato per servizio, va a servire; se il principe lo chiama perché vuol vederlo, egli non va a visitarlo. Perché? — Andare per servizio è giustizia (verso il principe), andare a far visita non è giustizia. D’altronde, a che scopo il principe vorrebbe vederlo? — Per le sue molte cognizioni e per la sua virtù. — Per le sue molte cognizioni, neanche il Figlio del Cielo farebbe chiamare un maestro, tanto più lo farebbe un feudatario? Per la sua virtù, non ho mai inteso dire che chi vuol vedere un virtuoso lo mandi a chiamare! Il duca Mu (di Lu) andava spesso a visitare Tzu-szu. Gli disse: «Anticamente, il principe di un regno da mille carri da guerra che faceva per stringere amicizia con un uomo di lettere?» Tzu-szu, contrariato, rispose: «Gli antichi dicevano: servilo (il letterato)! Dicevano forse: stringi amicizia con lui?» Con la sua contrarietà, Tzu-szu non ha detto: «Per rango tu sei il principe ed io un suddito. Come oserei essere in rapporti d’amicizia con il principe? Per virtù, tu sei colui che mi serve. Come potresti essere in rapporti d’amicizia con me?». Un principe da mille carri da guerra cercò la sua amicizia e non poté ottenerla. A maggior ragione, avrebbe potuto mandarlo a chiamare? (Una volta) il duca Ching di Ch’i, mentre era a caccia, chiamò il guardaboschi con la bandiera ornata di piume. Quello non si presentò e il duca fu sul punto di metterlo a morte. (In relazione a tale fatto, Confucio disse): «Un uomo di carattere non dimentica che può finire in un canale o in un fosso, un uomo coraggioso non dimentica

che può rimetterci la testa». Che cosa approvava K’ung-tzu? Approvava che colui non fosse accorso ad un segnale che non era il suo. — Oso domandare qual era il segnale per chiamare il guardaboschi — chiese Wan Chang. — Un berretto di pelle. I comuni cittadini (che non avevano impieghi) venivano chiamati con una bandiera a tinta unita, i funzionari con una bandiera a draghi intrecciati e i dignitari con una bandiera adorna di piume. Se si chiama il guardaboschi con il segnale del dignitario, il guardaboschi non oserà accorrere anche a costo d’essere messo a morte. Se si chiama un cittadino comune con il segnale del funzionario, il cittadino come oserà presentarsi? A maggior ragione, si può chiamare il virtuoso con un segnale che non è quello del virtuoso? Voler ricevere il virtuoso ma non seguire la via adatta, è come desiderare che egli entri e chiudere la porta. Poiché la giustizia è la strada, i riti la porta: solo il saggio sa percorrere quella strada ed entrare e uscire per quella porta. Nell’Ode (II, 49, 1) è detto: «La strada per Chou è (liscia) come una cote e diritta come una freccia: il saggio la percorre, la plebe la guarda con rispetto». — K’ung-tzu — obbiettò Wan Chang — quando l’ordine del principe lo chiamava, si metteva in cammino senza aspettare la carrozza. Dunque K’ungtzu era in errore? — Quando K’ung-tzu era in carica — rispose Mencio — aveva gli obblighi d’un funzionario: (il principe) lo convocava per il suo ufficio. 139. Parlando a Wan Chang, Mencio disse: — Un buon letterato (noto in) un paese diviene amico dei letterati del suo paese. Un buon letterato (noto in) un regno diviene amico dei buoni letterati del regno. Un buon letterato (noto ne) l’impero diviene amico dei buoni letterati dell’impero. Se non s’accontenta dell’amicizia dei buoni letterati dell’impero, s’innalzi a ragionare con gli antichi, ripeta le loro odi e legga le loro opere. È lecito ignorare che uomini fossero? Perciò ragioni (sulle imprese) della loro epoca e in tal modo s’innalzerà alla loro amicizia. 140. Il re Hsüan di Ch’i interrogò sui ministri. Mencio disse: — O re, di quali ministri chiedi? — I ministri non sono eguali? — domandò il re. — Non sono eguali — osservò Mencio. — Vi sono i ministri del nobile parentado (del principe) e i ministri d’altro casato.

— Prego d’interrogare sui ministri del nobile parentado. — Se il principe commette gravi errori (tali da porre in pericolo lo stato), lo ammoniscono — disse Mencio. — Nel caso che le loro ripetute rimostranze non siano ascoltate, lo destituiscono. Il re, turbato, cambiò espressione. — O re — disse Mencio — non ti alterare. Se il re interroga il suddito (me), il suddito non osa non dar la risposta giusta. Ricompostosi nel volto, il re pregò di interrogare sui ministri di altro casato. — Quando il principe commette degli errori — disse Mencio — lo ammoniscono. Nel caso che le loro ripetute rimostranze non siano ascoltate, se ne vanno.

LIBRO VI KAO-TZU PARTE PRIMA 141. 174 Kao-tzu disse: — La natura è come una betulla, la giustizia come una coppa o una ciotola. Trarre dalla natura umana la carità e la giustizia è come trarre una coppa o una ciotola da una betulla. — Puoi rispettare la natura della betulla nel farne una coppa o una ciotola? — chiese Mencio. — Devi usare violenza alla betulla per poi farne una coppa o una ciotola. Se devi usar violenza alla betulla per farne una coppa o una ciotola, allora devi anche usar violenza alla natura dell’uomo per farlo caritatevole e giusto? Per indurre gli uomini di questo mondo a considerare la carità e la giustizia come sventure, bisognerebbe seguire le tue parole. 142. Kao-tzu disse: — La natura (dell’uomo) è come l’acqua che tumultua: aprile una via verso oriente ed andrà ad oriente, aprile una via verso occidente ed andrà ad occidente. La natura non fa distinzione fra bene e male, così come l’acqua non distingue tra oriente ed occidente. — È vero — disse Mencio — che l’acqua non distingue tra oriente ed occidente, ma forse non fa distinzione tra alto e basso? La natura umana tende al bene come l’acqua segue il pendio. Non v’è uomo che non sia (originariamente) buono, non v’è acqua che non fluisca verso il basso. Però, se l’acqua la batti e la fai schizzare, puoi farla arrivare al disopra del capo; se la sollevi (con le dighe) e la guidi, puoi mandarla sulle montagne. È forse questa la natura dell’acqua? È forzata, perciò si comporta così. (Anche) l’uomo può essere indotto ad operare il male, se la sua natura è trattata in quel modo175. 143. Kao-tzu disse: — La vita è ciò che s’intende per natura176. — La vita è ciò che s’intende per natura — chiese Mencio — come il bianco è ciò che s’intende per bianco? — È così — rispose Kao-tzu. — Il bianco d’una piuma bianca è come il bianco della neve bianca e il bianco della neve bianca è come il bianco d’una giada bianca? — Certamente. — Bene. Allora la natura del cane è come la natura del bue e la natura del

bue è come la natura dell’uomo?177 144. Kao-tzu disse: — Crapula e lussuria: ecco la natura dell’uomo. La carità è interiore, non esteriore; la giustizia è esteriore, non interiore. — Per quale ragione dici che la carità è interiore e la giustizia è esteriore? — chiese Mencio. — Colui è un uomo anziano — disse Kao-tzu — ed io lo rispetto come anziano, non perché esista in me il rispetto per l’età. Così come quello è bianco ed io lo considero bianco, secondo la sua bianchezza che mi è esterna. Per questo dico che (la giustizia) è esteriore. — Visto che la bianchezza d’un cavallo bianco in nulla differisce dalla bianchezza d’un uomo bianco, non so se trattare rispettosamente un vecchio cavallo differisca in nulla dal trattare rispettosamente un uomo vecchio. Che intendi dunque: la giustizia sta nella vecchiaia o nel rispetto per la vecchiaia? — Questo è il mio fratellino — insisté Kao-tzu — ed io lo amo, quello è il fratello minore d’un uomo di Ch’in ed io non lo amo. In tal caso lo stimolo proviene dal mio interno. Perciò dico che (la carità) è interiore. (D’altro canto) tratto con rispetto il vecchio d’un uomo di Ch’in come tratto con rispetto un mio vecchio. In questo caso, lo stimolo viene dalla vecchiaia. Perciò dico che (la giustizia) è esteriore. — La bramosia che provo per l’arrosto d’un uomo di Ch’in — osservò Mencio — in nulla differisce dalla bramosia che provo per il mio arrosto. Poiché le due cose hanno le stesse caratteristiche, allora anche la bramosia per l’arrosto è esteriore? 145. Meng Chi-tzu chiese a Kung Tu-tzu178: — Perché dice che la giustizia è interiore? — Tributiamo il rispetto che è in noi — rispose Kung Tu-tzu. — Per questo dice che è interiore. — Un paesano è più anziano del tuo fratello maggiore di un anno: quale dei due rispetti di più? — Rispetto di più il fratello maggiore. — A quale dei due mesci il vino per primo? — Per primo mesco il vino al paesano. — Ciò che rispetti sta nell’uno, ciò che tratti da anziano sta nell’altro: dunque (l’impulso) sta nell’esterno, non proviene dall’interno. Kung Tu-tzu fu incapace di ribattere. Riferì la discussione a Mencio, il

quale disse: — (Domandagli se) rispetta di più lo zio o il fratello minore. Quello ti risponderà: rispetto di più lo zio. E tu chiedigli: se il fratello minore (durante il sacrificio ad un defunto) è posto come rappresentante dello spirito, quale dei due rispetti di più? Ti dirà: rispetto di più il fratello minore. Domandagli: che ne è del rispetto per lo zio? Dirà: dipende dalla posizione. Rispondigli anche tu che dipende dalla posizione: abitualmente rispetti di più il fratello maggiore, ma occasionalmente rispetti di più il paesano (se è tuo ospite). Chi-tzu, udito ciò, disse: — Rispetto lo zio quando devo rispettarlo, rispetto il fratello minore quando devo rispettarlo. Dunque (l’impulso) sta nell’esterno, non proviene dall’interno. — Nelle giornate d’inverno bevo bibite calde — obbiettò Kung Tu-tzu — nelle giornate d’estate bevo acqua fresca. Allora anche (la voglia del) bere e mangiare sta all’esterno. 146. Kung Tu-tzu disse: — Kao-tzu afferma: «La natura umana (in origine) non ha né il bene né il male». Altri dice: «La natura umana può fare il bene e può fare il male: per questo, quando fiorirono Wên e Wu, il popolo amò la bontà, mentre, quando furono sul trono Yu e Li, il popolo amò la crudeltà». Altri ancora dice: «Vi sono nature buone e nature cattive: perciò per un sovrano come Yao vi fu uno Hsiang (malvagio fratellastro di Shun), per un padre come Ku-sou vi fu uno Shun, per un nipote e un sovrano come Chou (Hsin) vi furono (uomini come) Chi, visconte di Wei, e Pi-kan, figlio di re». Ora tu dici: «La natura umana è buona». Allora tutti costoro sbagliano? — Per sua tendenza — rispose Mencio — (la natura umana) può fare il bene: per questo dico che è buona. Se poi fa il male non è colpa della sua capacità originaria. Tutti gli uomini hanno il sentimento della pietà e della commiserazione, della vergogna (per i propri difetti) e della repulsione (per i difetti altrui), della reverenza e del rispetto, del diritto e del torto. Il sentimento della pietà e della commiserazione è la carità, il sentimento della vergogna e della repulsione è la giustizia, il sentimento della reverenza e del rispetto è il rito, il sentimento del diritto e del torto è la sapienza. La carità, la giustizia, il rito, la sapienza non sono infusi in noi dall’esterno: noi li possediamo sicuramente, (solo che) non ci pensiamo. Perciò si dice: «Cercali e li otterrai, trascurali e li perderai». Gli uomini non sanno esprimere tutte le loro capacità, chi il doppio di altri, chi il quintuplo, chi innumerevoli volte. Nell’Ode (III, 26, 1) è detto: «Quando il Cielo creò le moltitudini del popolo, vi

furono cose e vi furono leggi. Il popolo fu impossessato della legge costante di natura ed amò quelle ammirevoli virtù»179. K’ung-tzu disse: «Chi fece quest’ode conosceva veramente la Via!» Perciò, se vi sono le cose devono esserci le leggi. Il popolo fu impossessato della legge costante di natura e per questo ama le ammirevoli virtù (che gli sono state conferite). 147. Mencio disse: — Negli anni di abbondanza i figli e i fratelli minori (cioè i giovani) per lo più sono remissivi (nel farsi guidare al bene), negli anni di carestia per lo più si fanno turbolenti (e praticano il male). Non è per le capacità conferite dal Cielo che essi sono diversi, ma perché così opera ciò da cui sono sommersi i loro cuori. Ora, tu semini l’orzo o il frumento e li copri di terra: il terreno è lo stesso e la stessa è l’epoca della seminagione. Germogliano, crescono e, a tempo debito, maturano. Se v’è qualche differenza (nella messe), questa dipende dalla terra grassa o magra, dalla (ineguale) irrorazione della pioggia e della rugiada e dalla difformità del lavoro dell’uomo. Perciò tutte le cose della stessa specie sono simili l’una all’altra: perché dubitarne solo per quel che riguarda l’uomo? Il santo e noi siamo della stessa specie. Perciò Lungtzu180 diceva: «Se uno mi fa dei sandali senza conoscere il mio piede, so che non farà dei cesti». I sandali sono simili l’uno all’altro, dato che tutti i piedi di questo mondo sono simili. Nei riguardi dei sapori le bocche hanno lo stesso gusto: I-ya181 capì per primo ciò che la nostra bocca gusta di più. Se per i sapori la sua bocca fosse stata diversa da quella degli altri uomini, così come i cani e i cavalli l’hanno diversa dalla nostra, perché allora tutti proverebbero gusto seguendo I-ya nei sapori? Se tutto il mondo è d’accordo con I-ya in fatto di sapori è perché le bocche di tutto il mondo sono simili l’una all’altra. Così è anche per l’orecchio: nei riguardi dei suoni tutti sono d’accordo con il maestro K’uan, perché tutti gli orecchi sono simili l’uno all’altro. Così è anche per l’occhio: nel caso di Tzu-tu182, al mondo non v’era nessuno che non riconoscesse la sua bellezza. Chi non riconosceva la bellezza di Tzu-tu non aveva occhi. Perciò dico: le bocche hanno lo stesso gusto per i sapori, gli orecchi lo stesso udito per i suoni, gli occhi lo stesso apprezzamento per la bellezza. Solo per quanto riguarda i cuori non vi sarebbe nulla che essi approvino in comune? Che cosa è ciò che i cuori approvano in comune? Io dico: i princìpi (naturali) e la giustizia (o morale). I santi uomini per primi compresero ciò che i nostri cuori approvano in comune. Perciò i princìpi e la giustizia sono gradevoli al nostro cuore, come la carne degli erbivori (bue e agnello) e dei granivori (cane e maiale) sono gradevoli alla

nostra bocca. 148. Mencio disse: — Un tempo, il monte Niu era bellissimo per gli alberi (che lo coprivano), ma, poiché si trovava nel territorio d’un grande stato (Ch’i), le asce e le scuri li hanno abbattuti. Può (oggi) considerarsi bello? (Eppure), riproducendosi giorno e notte, bagnati dalla pioggia e dalla rugiada, non rimasero senza gettare germogli e polloni, ma vennero buoi e pecore che ne fecero pascolo. Ecco perché il monte è spoglio in quel modo. Al vederlo così nudo, si crederebbe che mai sia stato coperto di selve. È forse questa la natura del monte? Anche per quel che vive nell’uomo, vi manca forse il sentimento della carità e della giustizia? Ciò per cui egli perde la sua bontà originaria è come la scure e l’ascia per gli alberi. Quando ogni giorno vi si apporta un taglio, può egli considerarsi bello? Ciò che in lui si riproduce giorno e notte, quella coscienza del bene e del male che, nell’aria tranquilla del mattino, è così vicina a quella degli altri uomini, è poca cosa: l’attività del giorno l’inceppa e l’oblitera. Allorché è stata inceppata a più riprese, l’atmosfera della notte non basta più a ravvivarla. Quando l’atmosfera della notte non basta più a ravvivarla, la distanza tra l’uomo e la bestia è minima. Guardando la bestia, l’uomo pensa che essa non ha mai avuto alcuna capacità (di distinguere il bene dal male). È forse questo il caso dell’uomo? Perciò, se ha il suo nutrimento nulla v’è che non cresca, se manca del suo nutrimento nulla v’è che non deperisca. K’ung-tzu disse: «Tenetelo forte e vivrà, lasciatelo andare e perirà. Nell’entrare ed uscire non ha un momento (stabilito), nessuno conosce la sua dimora». È del cuore che parlava. 149. Mencio disse: — Non v’è da stupirsi se il re (forse il re Hsüan di Ch’i) non è sapiente. Per quanto prendiate la pianta più facile del mondo a crescere, se l’esponete al caldo per un giorno e al freddo per dieci, non avrà la forza di crescere. Io gli faccio visita raramente e appena mi ritiro arrivano coloro che lo raffreddano. Se riuscissi a farlo germogliare, a che varrebbe? Ora, l’abilità che si richiede per gli scacchi è una modesta abilità, eppure, a non applicarvisi con la massima concentrazione, non vi si ha successo. Lo scacchista Chiu è il miglior giuocatore di tutto il regno. Facciamo sì che egli insegni a giuocare a due persone: l’una vi si applica con la massima concentrazione e non ha orecchi che per lo scacchista Chiu; l’altra, pur prestandogli ascolto, con la mente sogna un cigno che s’appressa e immagina d’afferrare l’arco, di incoccare e di saettare l’uccello. Costui, benché impari insieme all’altro, non

gli starà mai alla pari. È forse perché la sua sapienza non è pari? Io dico: non è così. 150. Mencio disse: — Il pesce è ciò che desidero e anche la zampa d’orso è ciò che desidero: se non posso averli ambedue, lascio il pesce e prendo la zampa d’orso. La vita è ciò che desidero e anche la giustizia è ciò che desidero: se non posso averle ambedue, lascio la vita e scelgo la giustizia. Desidero, sì, la vita ma v’è qualcosa che desidero più della vita: perciò non cerco di conservarla con mezzi illeciti. Aborrisco, sì, dalla morte ma v’è qualcosa da cui aborrisco più che dalla morte: perciò tra le sventure ve n’è alcuna che non evito. Se tra le cose che l’uomo desidera nessuna fosse più desiderabile della vita, perché egli non s’avvarrebbe di ogni mezzo che può conservare la vita? Se tra le cose che l’uomo detesta nessuna fosse più detestabile della morte, perché non farebbe tutto ciò che rende possibile di scansare la sventura? Con questo si assicurerebbe la vita, ma egli non se ne avvale; con quest’altro scanserebbe la sventura, ma egli non lo fa. Tra le cose che si desiderano, dunque, alcune ve ne sono desiderabili più della vita; tra le cose che si detestano, alcune ve ne sono detestabili più della morte. Non il virtuoso soltanto ha questa disposizione mentale, l’hanno tutti gli uomini: il virtuoso è capace di non farla estinguere. Un cestello di riso o una ciotola di minestra, che se l’ottengo vivo e se non l’ottengo muoio, quando sono offerti con malgarbo, (non solo io ma) non li accetta nemmeno un vagabondo; quando sono offerti con disprezzo, (non solo io ma) non li vuole nemmeno un mendicante. (Invece) mi danno diecimila chung (di frumento) ed io li prendo, senza star a badare ai riti e alla giustizia. Che cosa aggiungono in me diecimila chung? Il lusso della casa, la devozione della moglie e delle concubine, il conto in cui mi terranno i poveri di mia conoscenza? Poco fa non accettavo (un cestello di riso o una ciotola di minestra) nemmeno per evitare la morte, ora accetto (diecimila chung) per il lusso della mia casa. Poco fa non accettavo nemmeno per salvarmi dalla morte, ora accetto per la devozione della moglie e delle concubine. Poco fa non accettavo a costo di morire, ora accetto per il conto che faranno di me i poveri di mia conoscenza. Non mi è possibile rifiutare anche questi? Ciò significa perdere la disposizione mentale originaria. 151. Mencio disse: — La carità è il cuore dell’uomo, la giustizia la strada dell’uomo. Trascurare la propria strada e non percorrerla, smarrire il proprio cuore e non saperlo ricercare, che pietà! Quando si tratta d’una gallina o d’un

cane che si smarriscono l’uomo sa ricercarli, ma quando è il cuore che si smarrisce non sa ricercarlo. Lo scopo dell’apprendere non è altro che la ricerca del cuore che si è smarrito. 152. Mencio disse: — Supponi che il tuo dito senza nome (l’anulare) sia rattrappito e non si stenda. Non ti dà dolore né danneggia i tuoi affari, eppure, se vi fosse qualcuno capace di raddrizzartelo, non troveresti lunga la strada fino a Ch’in o a Ch’u, perché questo tuo dito non è come quello degli altri. Che il tuo dito non sia come quello degli altri sai detestarlo, ma che il tuo cuore non sia come quello degli altri non sai detestarlo. Questo significa non comprendere le categorie (delle cose secondo la loro importanza). 153. Mencio disse: — L’aleurite o la lindera, (due piante) che si possono stringere con due mani o con una sola, basta che si voglia coltivarle che tutti sanno come nutrirle. Quando si tratta della propria persona non si sa come nutrirla. Forse si ama la propria persona meno di un’aleurite o di una lindera? L’assenza di riflessione (su questo argomento) è estrema. 154. Mencio disse: — L’uomo ama tutta la sua persona. Poiché l’ama tutta, tutta la nutre: non v’è pollice della sua pelle che non ami e perciò non v’è pollice della sua pelle che non nutra. Lo scopo dell’investigare se (la nutre) bene o male può essere altro che quello di scegliere in sé? Nel corpo vi sono parti nobili e vili, volgari ed elevate: per le volgari non nuocere alle elevate, per le vili non recar danno alle nobili. Chi nutre le volgari (palato e ventre) è un uomo volgare, chi nutre le elevate (mente e volontà) è un uomo superiore. Ecco qui un giardiniere che trascura l’aleurite e la lindera per nutrire un giuggiolo spinoso: è un ben misero giardiniere. Chi si prende cura d’un dito mentre senza accorgersene perde una spalla è un uomo che fa come il lupo inseguito (che fugge senza riflettere). La gente disprezza l’uomo dedito al bere e al mangiare, giacché per la cura del volgare egli perde l’elevato. Se l’uomo dedito al bere e al mangiare non perdesse nulla, la bocca e il ventre sarebbero tenuti in conto di un pollice di pelle? 155. Kung Tu-tzu interrogò dicendo: — Siamo tutti egualmente uomini, ma uno è un grand’uomo e un altro un uomo di nessun conto. Perché? — Colui che segue le parti elevate del corpo è un uomo superiore — spiegò Mencio. — Colui che segue le parti volgari del corpo è un uomo volgare.

— Siamo tutti egualmente uomini — insisté il discepolo — eppure uno segue le parti elevate del corpo e un altro le parti volgari. Perché? — L’occhio e l’orecchio — rispose Mencio — non sono organi fatti per pensare e sono frastornati dalle cose esteriori: quando una cosa (esteriore) s’incontra con un’altra cosa (i sensi, che non pensano), la forvia e basta. La mente invece è l’organo del pensiero. Se pensa apprende, se non pensa non apprende. Questo è ciò che il Cielo ci ha dato. Se l’uomo si fonda innanzi tutto sulle sue parti elevate, le sue parti volgari non possono distogliervelo. È questo che fa l’uomo superiore. 156. Mencio disse: — Vi sono dignità celesti e dignità umane. Carità, giustizia, lealtà, sincerità, instancabile godimento del bene: queste sono le dignità celesti. Duca, ministro, dignitario: queste sono le dignità umane. Gli uomini dell’antichità coltivavano in sé le dignità celesti e quelle umane venivano di conseguenza. Gli uomini d’oggi coltivano in sé le dignità celesti per bramosia di quelle umane e, appena ottenute quelle umane, tralasciano quelle celesti. La delusione di costoro sarà grande: sicuramente alla fine perderanno anche quelle. 157. Mencio disse: — Desiderare la nobiltà è un sentimento comune agli uomini. Ogni uomo ha la nobiltà in sé, (solo che) non ci pensa. Quella che gli uomini conferiscono non è la vera nobiltà: colui che (il ministro di Chin) Chao Meng ha fatto nobile, Chao Meng può fare ignobile. Nell’Ode (III, 13, 1) è detto: «Già siamo ebbri del tuo vino, già siamo sazi della tua virtù». Dice che sono sazi di carità e di giustizia e perciò non si curano delle carni grasse e dei cereali scelti degli uomini. Si stendono su di loro una buona reputazione e una vasta fama, perciò non ambiscono alle eleganti vesti ricamate degli uomini. 158. Mencio disse: — La carità vince la malvagità come l’acqua vince il fuoco. Ma oggi coloro che praticano la carità è come se spegnessero il fuoco di una carrata di legna con una tazza d’acqua: poiché non l’estinguono, dicono che l’acqua non vince il fuoco. Queste (teorie) sono di molto aiuto ai malvagi. Alla fine costoro perderanno sicuramento (anche quella poca carità che hanno). 159. Mencio disse: — I cinque cereali sono i grani migliori ma, se non sono maturi, valgon meno del loglio. Anche per la carità tutto sta nella maturazione.

160. Mencio disse: — (Il famoso arciere) I, nell’insegnare il tiro con l’arco, si faceva un dovere di tendere al massimo l’arma: anche l’allievo doveva porvi tutta la sua attenzione. Il maestro artigiano, nell’istruire gli altri, sicuramente usa il compasso e la squadra: anche l’apprendista deve usarli.

LIBRO VI KAO-TZU PARTE SECONDA 161. Un uomo del regno di Jên interrogò Wu Lu-tzu (discepolo di Mencio) dicendo: — Tra i riti e il nutrimento che è più importante? — I riti sono più importanti — rispose Lu-tzu. — Tra la soddisfazione del sesso e i riti che è più importante? — I riti sono più importanti. — Se mi procaccio il nutrimento secondo i riti, soffro la fame e muoio; se me lo procaccio senza far caso ai riti, l’ottengo. Devo procurarmelo secondo i riti? Se vado personalmente a ricevere la sposa (secondo i riti, ma con dispendio di danaro), non prendo moglie; se non vado personalmente a riceverla (poiché non spendo il danaro, che non ho), prendo moglie. Devo andare a riceverla personalmente? Wu Lu-tzu fu incapace di rispondere. Il giorno dopo andò nel regno di Tsou e riferì la discussione a Mencio. — A rispondere che difficoltà c’era? — disse questi. — Se non tieni conto della base e innalzi la sommità, anche un bastoncello d’un pollice può esser fatto più alto del pinnacolo d’una torre. Il metallo è più pesante della piuma: significa forse che diciamo ciò del metallo d’una fibbia e di una carrata di piume? Prendi ciò che v’è di più importante nel nutrimento e mettilo a paragone con ciò che v’è di più futile nei riti: come non risulterebbe più importante il nutrimento? Prendi ciò che v’è di più importante nella soddisfazione del sesso e mettilo a confronto con ciò che v’è di più futile nei riti: come non risulterebbe più importante la soddisfazione del sesso? Va a replicare e digli: se leghi le braccia al tuo fratello maggiore e gli porti via il cibo, ottieni il nutrimento; se non gliele leghi, non ottieni il nutrimento. Allora, gliele leghi? Se scavalchi il muro del vicino e gli rapisci la figlia vergine, prendi moglie; se non la rapisci, non prendi moglie. Allora, la rapisci? 162. Chiao di Ts’ao domandò: — «Tutti gli uomini possono essere degli Yao e degli Shun»183. È vero? — Certamente — rispose Mencio. — Chiao (io) ha inteso dire che il re Wên era alto dieci piedi e T’ang nove.

Ora Chiao, essendo alto nove piedi e quattro pollici, mangia il frumento e basta (non ha nessuna capacità). Che può fare (per essere come loro)? — Che c’entra questo? — rispose Mencio. — Opera anche tu come loro, ecco tutto. C’è qui un uomo che, quanto a forza, non era capace di alzare da terra un pulcino di papera. Dunque era un uomo debole. Oggi dice: «Sollevo cento chün». Dunque è un uomo forte. Infatti, se solleva un peso degno di Wu Huo, è un Wu Huo184. Perché l’uomo si lamenta di non potere? In realtà, non vuole. Camminare lentamente dietro un anziano significa avere la sottomissione del fratello minore, camminare rapidamente davanti ad un anziano significa non avere la sottomissione del fratello minore. Ora, camminare lentamente è cosa che l’uomo non può? È cosa che non vuole. La Via di Yao e di Shun è pietà filiale e sottomissione fraterna, null’altro. Mettiti i panni di Yao, pronuncia le parole di Yao, compi le azioni di Yao: sei Yao. Mettiti i panni di Chieh (Kuei), pronuncia la parola di Chieh, compi le azioni di Chieh: sei Chieh. — Se Chiao otterrà udienza dal principe di Tsou — disse l’altro — potrà aver licenza di fermarsi qui. Vorrebbe restare a ricevere l’insegnamento alla tua porta. — La Via è tal quale una grande strada: forse sarebbe difficile conoscerla? — disse Mencio (scontento della vaga richiesta). — Il difetto dell’uomo è di non cercarla. Torna a casa e cercala: troverai molti maestri. 163. Kung-sun Chou disse: — Kao-tzu sostiene che l’ode Hsiao P’ang è opera di un uomo di poco conto185. — Per quale motivo sostiene ciò? — chiese Mencio. — Per le lamentele (contenute nell’ode). — Come è meschino il vecchio Kao nell’interpretare le odi! — esclamò Mencio. — C’è qui un uomo contro cui uno di Yüeh tende l’arco per colpirlo. Cerca di dissuaderlo parlandogli con un sorriso, non altro che per il fatto che è un estraneo. Se fosse il fratello maggiore a tendere l’arco per colpirlo cercherebbe di dissuaderlo piangendo a calde lacrime, non altro che per il fatto che è un congiunto. I lamenti dell’ode Hsiao P’ang sono amore per il congiunto e questo amore è carità. È veramente meschino il vecchio Kao nell’interpretare le odi! —Perché nell’Ode K’ai Feng non vi sono lamenti?186. — Nell’Ode K’ai Feng la colpa del genitore è lieve, nell’Ode Hsiao P’ang la

colpa del genitore è grave. Quando la colpa del genitore è grave, non dolersene significa accrescere la distanza (tra genitore e figlio); quando la colpa del genitore è lieve, dolersene significa non saper sopportare. Accrescere la distanza non è pietà filiale, ma anche non saper sopportare non è pietà filiale. K’ung-tzu disse: «Shun era di somma pietà filiale! A cinquant’anni era desideroso d’affetto (dei genitori)». 164. Sung K’êng si stava recando nel regno di Ch’u. Mencio lo incontrò a Shihch’iu e gli domandò: — Il signore dove è in procinto di andare?187 — Ho inteso dire che i regni di Ch’in e di Ch’u fanno ricorso alle armi — rispose Sung K’êng. — Mi accingo a visitare il re di Ch’u per persuaderlo a desistere. Se costui si mostrerà scontento (del mio intervento), andrò alla corte del re di Ch’in per persuaderlo a desistere. Ho un argomento per mettere d’accordo i due re. — Ko (io) prega di interrogare non sui particolari — disse Mencio — ma gradirebbe udire le linee generali. Per persuaderli che cosa dirai? — Dirò che non ne trarranno profitto. — L’intenzione del signore è elevata — osservò Mencio — ma l’argomento è inadatto. Se persuadi i re di Ch’in e di Ch’u allegando il profitto, costoro, compiaciuti all’idea del profitto, per esso fermeranno i loro eserciti e i soldati saranno lieti di arrestarsi e si compiaceranno all’idea del profitto. I ministri mireranno al profitto nel servire il principe, i figli mireranno al profitto nel servire i padri, i fratelli minori mireranno al profitto nel servire i fratelli maggiori. Quando il principe, i ministri, i padri, i fratelli maggiori e minori alla fine si allontanano dalla carità e dalla giustizia e mirano al profitto nei reciproci rapporti, non s’è mai dato che (il principe) non vada in rovina. Il signore persuada i re di Ch’in e di Ch’u allegando la carità e la giustizia. Costoro, compiaciuti all’idea della carità e della giustizia, per esse fermeranno i loro eserciti e i soldati saranno lieti di arrestarsi e si compiaceranno all’idea della carità e della giustizia. I ministri penseranno alla carità e alla giustizia nel servire il principe, i figli penseranno alla carità e alla giustizia nel servire i padri, i fratelli minori penseranno alla carità e alla giustizia nel servire i fratelli maggiori. Quando il principe, i ministri, i padri, i figli, i fratelli maggiori e minori abbandonano l’idea del profitto e pensano alla carità e alla giustizia nei reciproci rapporti, non s’è mai dato che (il principe) non regni. Perché dovresti dire: profitto? 165.

Quando Mencio risiedeva a Tsou, il quarto fratello del principe di Jên, che reggeva il regno di Jên (in assenza di suo fratello), gli mandò un dono di sete. Mencio l’accettò senza ricambiare (con la visita d’uso per i ringraziamenti). Quando dimorava nella città di P’ing-lu, Ch’u-tzu, che era ministro (del regno di Ch’i), gli fece un dono di sete. Mencio l’accettò senza ricambiare. Qualche tempo dopo, da Tsou Mencio andò a Jên e fece visita al quarto fratello, mentre da P’ing-lu andò a (la capitale di) Ch’i senza visitare Ch’u-tzu. Wu Lu-tzu, tutto contento, si disse: «Lien (io) ha un’opportunità (di istruirsi)!» Poi domandò: — Il Maestro è andato a Jên ed ha fatto visita al quarto fratello, è andato a Ch’i ma non ha fatto visita a Ch’u-tzu. È forse perché costui è (soltanto) un ministro? — No — rispose Mencio. — Nei Documenti (V, 13, 12) è detto: «Offrire un dono (ad un superiore) comporta l’osservanza di molte regole di etichetta. Se tale osservanza non va alla pari con l’oggetto (del dono), si dice: non offerto, giacché nell’offerta non s’è posta l’intenzione di offrire». Questo perché l’offerta non è stata completa. Wu Lu-tzu fu soddisfatto e, quando qualcuno l’interrogò, disse: — Il quarto fratello (a causa della carica che ricopriva) non poteva andare a Tsou (per offrire personalmente il dono), ma Ch’u-tzu poteva ben recarsi a P’ing-lu. 166. Ch’un-yü K’un188 disse: — Chi pone innanzi tutto la reputazione e i servizi meritori lavora a beneficio degli altri (nella vita pubblica); chi pone in seconda linea la reputazione e i servizi meritori agisce a proprio beneficio. Tu, o Maestro, eri fra i tre primi ministri189, ma la tua reputazione e i tuoi servizi meritori non avevano ancora migliorato né il principe né il popolo che già li abbandonavi. L’uomo caritatevole è proprio così? — Restare in bassa condizione affinché il virtuoso non servisse l’indegno: così era Po-i — rispose Mencio. — Andare cinque volte da T’ang e cinque volte da Chieh (Kuei): così era I Yin. Non disdegnare un principe corrotto, non rifiutare una carica modesta: così era Hui di Liu-hsia. Tre saggi dalla Via dissimile, ma con un’unica sollecitudine. Quest’unica qual era? Io dico: la carità. I saggi sono caritatevoli, null’altro. Perché dovrebbero essere simili? — Al tempo del duca Mu di Lu, era al governo Kung I-tzu mentre Tzu-liu e Tzu-szu ricoprivano la carica di ministri, eppure Lu perdette molti territori. Se è così, il virtuoso non porta alcun vantaggio allo stato190. — Il principe di Yü non si servì di Pai-li Hsi e andò in rovina — osservò Mencio. — Il duca Mu di Ch’in se ne servì e divenne capo dei feudatari191. Non

s’avvalse del virtuoso e andò in rovina: come avrebbe preferito perdere dei territori! — Una volta — disse Ch’un-yü K’un — Wang Pao dimorò presso il fiume Ch’i e ad occidente del Ho (Fiume Giallo) tutti divennero bravissimi nel cantare alla sua maniera; Mien Chü abitò a Kao-t’ang e ad occidente di Ch’i tutti divennero bravissimi nel cantare alla sua maniera; le mogli di Hua Chou e di Ch’i Liang eccelsero nel piangere i mariti defunti e riformarono i costumi del regno192. Se qualcosa si ha nell’interno, essa traspare necessariamente all’esterno. Compiere le azioni del saggio senza (che ne seguano) i risultati meritori, K’un (io) non l’ha mai visto. Perciò, (oggi) non vi sono virtuosi: se ve ne fossero, K’un li avrebbe certamente conosciuti. — Quando K’ung-tzu era ministro della giustizia a Lu, non fu utilizzato193. Poco dopo vi fu il sacrificio. Quando non gli fu mandata la carne arrostita (del sacrificio stesso), se ne andò senza neanche togliersi il berretto di cerimonia. Chi non lo conosceva pensò che l’avesse fatto per la carne, chi lo conosceva pensò che l’avesse fatto per l’inosservanza del rito. Il fatto è che K’ung-tzu volle andarsene per una lieve mancanza, poiché non voleva allontanarsi senza una scusa. Non sempre il volgo capisce ciò che fa il saggio194. 167. Mencio disse: — I cinque capi dei feudatari furono colpevoli verso i tre imperatori195. I feudatari di oggi sono colpevoli verso i cinque capi e i dignitari odierni sono colpevoli verso i feudatari. La visita del Figlio del Cielo ai feudatari era detta «ispezione dei feudi», la visita dei feudatari alla corte del Figlio del Cielo era detta «relazione dell’ufficio». In primavera esaminavano l’aratura e ponevano riparo alle deficienze (dei semi), in autunno esaminavano il raccolto e aiutavano coloro a cui esso era insufficiente. Se, entrando nei confini d’un regno, (l’imperatore trovava che) le terre erano dissodate, regolati i campi e le lande, nutriti i vecchi e onorati i virtuosi, posti nelle magistrature uomini eminenti, allora attribuiva (al feudatario) una ricompensa consistente in territori. Ma se, entrando nei confini, (trovava che) le terre erano coperte di sterpi, i vecchi negletti e i virtuosi misconosciuti, gli esattori di dure tasse posti nelle magistrature, allora irrogava un rimprovero. Quando il feudatario per la prima volta non si recava a corte (per la relazione dell’ufficio), il suo rango veniva diminuito d’un grado, per la seconda volta veniva ridotto il suo territorio, per la terza volta egli stesso veniva rimosso ad opera delle sei armate196. Così il Figlio del Cielo infliggeva la punizione ma non l’eseguiva, i feudatari eseguivano la punizione ma non l’infliggevano. I cinque capi

trascinarono i feudatari a punire altri feudatari (e quindi usurparono una funzione imperiale). Per questo dico che i cinque capi dei feudatari furono colpevoli verso i tre imperatori. Dei cinque capi dei feudatari, il duca Huang fu il più potente. Nell’assemblea dei feudatari a Kuei-ch’iu legò la vittima e vi pose sopra lo scritto, ma non (l’uccise) facendo bagnare le bocche con il sangue197. Il primo comando diceva: «Manda a morte il reo d’empietà filiale; non sostituire il figlio costituito erede; non tenere la concubina in rango di moglie». Il secondo comando diceva: «Onora gli uomini degni e sostenta gli uomini di talento, affinché rifulgano i virtuosi». Il terzo comando diceva: «Rispetta i vegliardi e sii gentile con i giovani; non trascurare gli ospiti e i viandanti». Il quarto comando diceva: «I letterati non abbiano cariche ereditarie198 e i funzionari servano senza accumulare incarichi; nell’assumere i letterati scegli quelli adatti; non arrogarti il diritto (riservato all’imperatore) di mettere a morte un dignitario». Il quinto comando diceva: «Non costruire dighe pregiudizievoli (agli stati vicini); non imporre restrizioni al commercio del frumento; non conferire investiture senza il consenso (dell’imperatore)». Era poi detto: «Noi, uniti in questo patto, affermiamo che, dopo averlo stipulato, torneremo alle relazioni amichevoli». Tutti i feudatari odierni infrangono questi cinque comandamenti. Perciò dico che oggi i feudatari sono colpevoli verso i cinque capi. È colpa lieve lasciar perpetuare (senza rimostranze) la perversità del principe, ma è colpa grave favorire la perversità del principe. Tutti i dignitari odierni favoriscono la perversità dei principi. Perciò dico che oggi i dignitari sono colpevoli verso i feudatari. 168. Lu voleva porre Shen-tzu alla testa del suo esercito199. Mencio disse: — Non istruire il popolo (nei riti e nella giustizia) ed impiegarlo (nella guerra) significa condurlo al disastro. Un uomo che conduce il popolo al disastro non sarebbe stato tollerato ai tempi di Yao e di Shun. Anche se con una sola battaglia tu vincessi Ch’i e t’impossessassi di Nanyang, non ti sarebbe lecito. Shen-tzu, subitamente irritato, disse: — Questa è cosa che Ku-li (io) non capisce. — Te lo spiegherò chiaramente — disse Mencio. — Il territorio del Figlio del Cielo era di mille li di lato: se non fosse stato di mille li, (il reddito) non sarebbe stato bastante per intrattenere degnamente i feudatari. Il territorio dei feudatari era di cento li di lato: se non fosse stato di cento li, (il reddito) non sarebbe stato sufficiente ad assicurare l’osservanza dei canoni del tempio degli

antenati. Quando il duca Chou fu investito del feudo di Lu, questo era di cento li: il territorio non era insufficiente ed era limitato a cento li. Anche quando T’aikung200 fu investito del feudo di Ch”i, questo era di cento li: il territorio non era insufficiente ed era limitato a cento li. Oggi il territorio di Lu è di cinque volte cento li di lato. Tu credi che, se sorgesse un sovrano, Lu sarebbe compreso tra gli stati i cui territori sono da accrescere? O tra quelli i cui territori sono da diminuire? Togliere inutilmente a quello per dare a questo, il caritatevole non lo farebbe. A maggior ragione, farebbe morire gli uomini a tale scopo? Il saggio, nel servire il principe, si dedica a condurlo sulla retta via e a farlo tendere verso la carità, non altro. 169. Mencio disse: — Oggi chi serve il principe afferma: «Io sono in grado di mettere a cultura nuove terre per il principe (anche se non adatte, con maggior fatica del popolo) e di colmare la sua tesoreria». Quelli che oggi vengono chiamati eccellenti ministri, anticamente erano definiti spogliatori del popolo. Cercare di arricchire un principe che non segue la Via e non è incline alla carità, è arricchire un Chieh (Kuei). «Io sono in grado di procurare al principe l’alleanza di altri stati, in modo che le guerre siano sicuramente vinte». Quelli che oggi vengono chiamati eccellenti ministri, anticamente erano definiti spogliatori del popolo. Cercare di render potente in guerra un principe che non segue la Via e non è incline alla carità, è aiutare un Chieh. Chi percorre la Via di oggi senza riformare i costumi di oggi, anche a dargli l’impero non potrà conservarlo un sol mattino. 170. (Il cittadino del dominio imperiale di Chou) Pai Kuei disse: — (In fatto di imposte) vorrei esigere il ventesimo (del reddito). Che ne dici? — La tua misura va bene per i barbari Mai — rispose Mencio. — Che in uno stato di diecimila case vi sia un solo vasaio, è ammissibile? — No. Le terraglie non sarebbero bastanti all’uso. — I Mai non coltivano i cinque cereali ma soltanto il miglio, non hanno città fortificate, palazzi, case, templi degli antenati, riti per i sacrifici, né feudatari che offrono doni di sete e festini (agli ospiti), né funzionari ed altri subordinati. Per questo un ventesimo a loro basta. Ma, vivendo ora nell’Impero del Mezzo, come sarebbe possibile abolire le relazioni umane e fare a meno del principe? Se per scarsezza di vasai lo stato non può sussistere, a maggior ragione se mancasse il principe! Chi vuol alleggerire le imposte al disotto della misura di Yao e di Shun è un piccolo o grande Mai, chi vuol

aggravare le imposte oltre la misura di Yao e di Shun è un piccolo o grande Chieh. 171. Pai Kuei disse: — Tan (io) ha regolato le acque meglio di Yü201. — Sei in errore — osservò Mencio. — Yü regolò le acque secondo la natura dell’acqua, perché le fece sboccare nei quattro mari, mentre tu le hai fatte sboccare negli stati vicini. Quando l’acqua straripa si chiama inondazione e l’inondazione è il diluvio: è ciò che l’uomo caritatevole detesta. Tu sei in errore. 172. Mencio disse: — Se il saggio non ha fede, a che cosa s’aggrapperà? 173. Lu voleva affidare a Yo-chêng-tzu l’amministrazione del governo. Mencio disse: — Quando l’ho saputo non ho dormito per la contentezza. Kung-sun Chou domandò: — Yo-chêng-tzu è energico? — No. — Ha sapienza e ponderatezza? — No. — Ha molte cognizioni? — No. — Allora perché sei stato tanto contento da non dormire? — È un uomo che ama il bene — spiegò Mencio. — Amare il bene è sufficiente? — Amare il bene — disse Mencio — basta e avanza per governare l’impero. A maggior ragione per governare il regno di Lu! Poiché, se uno ama il bene, all’interno dei quattro mari tutti troveranno leggero venire da mille li (di distanza) per consigliarlo al bene. Se uno non ama il bene, la gente dice: «È un presuntuoso! (È uno che dice:) già lo sapevo da me!» Il tono e l’atteggiamento di presunzione tengono la gente al di là di mille li. Quando la brava gente si tiene distante mille li, si fanno avanti i calunniatori e gli adulatori. E quando costoro s’insediano, anche a voler tenere in ordine lo stato, è possibile? 174. (Il discepolo) Ch’ên-tzu disse: — In quali circostanze i saggi dell’antichità servivano nelle magistrature? — In tre casi accettavano l’ufficio, in tre casi l’abbandonavano — rispose Mencio. — Se il principe li riceveva con il massimo onore nel pieno rispetto dei riti e se, parlando essi, metteva in pratica i loro consigli, l’accettavano; se

(in seguito), pur non essendo scorretta l’etichetta, il principe non seguiva i loro consigli, l’abbandonavano. In secondo luogo, se il principe, benché non mettesse (subito) in pratica i loro consigli, li riceveva col massimo onore nel pieno rispetto dei riti, l’accettavano; se (in seguito) pure l’etichetta diveniva scorretta, l’abbandonavano. Da ultimo, se il saggio era rimasto digiuno da mane a sera e per la fame non aveva la forza di uscire di casa, mentre il principe, saputo ciò, diceva: «In tutto, non sono in grado di percorrere la sua Via, né di seguire i suoi consigli. Però mi vergogno di lasciarlo morire di fame nel mio territorio» e lo sostentava, egli poteva accettare per evitare la morte e basta. 175. Mencio disse: — Shun si rivelò in mezzo ai campi, Fu Yüeh fu chiamato alle magistrature tra i costruttori di baracche, Chiao Kê tra i venditori di pesce e di sale, Kuan I-wu dal carcere, Sun Shu-ao dalla riva del mare, Pai-li Hsi dal mercato202. Perciò, quando il Cielo sta per conferire gravi responsabilità ad un uomo, sicuramente prima tribola il suo cuore e la sua volontà, affatica i suoi muscoli e le sue ossa, affama il suo corpo, impoverisce la sua persona, sconvolge le sue imprese: in tal modo stimola il suo cuore, tempra il suo carattere e ripara alla sua incapacità. Gli uomini errano spesso, ma poi sono capaci di emendarsi; hanno afflizioni nel cuore ed incertezza nei pensieri, ma poi si sollevano; (i princìpi celesti per loro devono rifulgere) adempiuti nella bellezza e manifestati con le parole, ma poi li vedon chiari. Quando all’interno (dello stato) non vi sono famiglie rispettose delle leggi né saggi che coadiuvano (nel governo), quando all’esterno non vi sono regni ostili né preoccupazioni internazionali, lo stato sovente decade. Soltanto dopo si comprende che la vita è nel dolore e nelle preoccupazioni e la morte nella tranquillità e nei piaceri. 176. Mencio disse: — Vi sono molti modi d’insegnare. Il mio modo di ammaestrare colui che non è puro (respingendolo), è anch’esso un insegnamento203.

LIBRO VII CHIN HSIN PARTE PRIMA 177. Mencio disse: — Colui che va in fondo al proprio cuore conosce la sua natura. Conoscendo la sua natura conosce il Cielo204. Esercitare il proprio cuore, alimentare la propria natura: in tal modo si serve il Cielo. Non darsi pensiero di una vita lunga o breve e perfezionare sé stesso nell’attesa (della morte): in tal modo si tiene per fermo il decreto del Cielo. 178. Mencio disse: — Nulla accade senza un decreto del Cielo: accettiamo docilmente il vero decreto. Perciò, chi intende il decreto del Cielo non se ne sta sotto un muro pericolante (perché il suo destino scaturirebbe dalla sua negligenza). Morire per seguire fino in fondo la propria Via è il vero decreto; morire in ceppi (perché colpevoli di gravi delitti) non è il vero decreto. 179. Mencio disse: — Quando cerchiamo otteniamo, quando trascuriamo perdiamo. Il cercare porta vantaggio all’ottenere quando cerchiamo ciò che è in noi stessi (la carità, la giustizia, l’urbanità, la sapienza). Per cercare c’è un modo, per ottenere c’è il decreto del Cielo. Il cercare non porta alcun vantaggio all’ottenere quando cerchiamo ciò che è fuori di noi (la ricchezza, la nobiltà, il profitto, il successo). 180. Mencio disse: — Tutte le cose sono complete in noi. Esaminarsi e trovarsi veritieri (sul bene e sul male): non v’è gioia più grande. Agire sforzandosi d’essere benevoli: non si sarà mai più vicini alla ricerca della carità. 181. Mencio disse: — Agire senza capire e mettere in pratica senza esaminare: coloro che per tutta la vita vanno avanti così, senza conoscere la propria Via, sono una moltitudine. 182. Mencio disse: — All’uomo non è lecito essere senza pudore. Chi si vergogna d’essere stato senza pudore non avrà più (occasione di) vergogna205. 183. Mencio disse: — Nell’uomo il pudore è di grande importanza. Colui che è

abile nelle macchinazioni e negli inganni non si vergogna di nulla. Chi è dissimile dagli altri nel non aver pudore, in che è simile agli altri? 184. Mencio disse: — I virtuosi re dell’antichità amavano il bene e si dimenticavano del loro potere. I virtuosi letterati dell’antichità come avrebbero potuto, essi soli, non fare altrettanto? Gioivano della propria Via e si dimenticavano dell’altrui potere. Perciò, se re e duchi non li trattavano col massimo onore nel pieno rispetto dei riti, non ottenevano spesso di vederli. E se non ottenevano spesso di vederli, a maggior ragione avrebbero ottenuto di averli come ministri? 185. 206 Parlando con Sung Kou-chien , Mencio disse: — A te piace andare in giro? Ti parlerò di questo girovagare. Se la gente li comprende (i tuoi consigli) sii soddisfatto, se non li comprende sii soddisfatto lo stesso. — Che devo fare perché possa essere (sempre) soddisfatto? — chiese l’altro. — Onora la virtù e gioisci della giustizia — disse Mencio — e allora potrai essere soddisfatto. Poiché, il letterato nella povertà non perde il senso della giustizia, nella prosperità non s’allontana dalla Via. Nella povertà non perdere il senso della giustizia: è così che un letterato resta padrone di sé stesso; nella prosperità non discostarsi dalla Via: è così che il popolo non resta deluso. Quando gli antichi realizzavano le loro aspirazioni (nelle cariche pubbliche), ne spargevano i benefici sul popolo; quando non le realizzavano, perfezionavano sé stessi per essere guardati (come esempio) nel mondo. Nella povertà, quindi, miglioravano sé stessi in solitudine, nella prosperità miglioravano anche il mondo. 186. Mencio disse: — Aspettare un re Wên per poi sorgere è da gente comune. Un uomo di lettere, che eccelle in talento e sapienza, sorge anche senza un re Wên. 187. Mencio disse: — Innalzate uno ai fastigi delle casate Han o Wei207: se guarda sé stesso senza esaltarsi, è di gran lunga superiore agli altri. 188. Mencio disse: — Comandate al popolo per il suo agio: anche se fatica non si lamenterà. Mandatelo incontro alla morte per assicurargli la vita: anche morendo non biasimerà chi lo manda a morire. 189.

Mencio disse: — Il popolo di uno che è un capo dei feudatari appare esultante e compiaciuto, il popolo di uno che è un (vero) sovrano appare profondamente contento. Lo manda a morire e il popolo non lo biasima, lo avvantaggia e il popolo non gliene dà merito. Di giorno in giorno il popolo si converte al bene, senza nemmeno sapere chi lo sospinge. Poiché il saggio (cioè il santo) trasforma dovunque passa, santifica dovunque vive, scorre in alto e in basso insieme al Cielo e alla Terra. Chi dirà: pone scarso riparo (alle manchevolezze)? 190. Mencio disse: — Le parole di carità non penetrano così profondamente nell’uomo come la fama di carità. Un buon governo non conquista il popolo quanto un buon insegnamento: il popolo teme il buon governo e ama il buon insegnamento. Il buon governo prende la ricchezza del popolo, il buon insegnamento conquista il cuore del popolo. 191. Mencio disse: — Ciò di cui l’uomo è capace senza averlo appreso è istinto, ciò che l’uomo sa senza averlo meditato è intuito. Non v’è bambino che si porta in braccio che non sappia amare i suoi genitori; cresciuto in età, non v’è nessuno che non sappia rispettare i fratelli maggiori. Amare i genitori è carità, rispettare i più anziani è giustizia. Anche se una sola persona (li attua, questi due sentimenti) si diffondono nel mondo. 192. Mencio disse: — Quando Shun viveva nel profondo delle montagne, dimorando tra alberi e rocce, vagando tra cervi e cinghiali, ciò per cui differiva dai rozzi abitanti di quei monti remoti era poca cosa. Ma allorché udiva una buona parola o vedeva una buona azione, (il suo ardore di imitare) era come aprire le dighe del Kiang o del Ho, il cui abbondante flusso non può essere arrestato. 193. Mencio disse: — Non fare ciò che non (si deve) fare, non desiderare ciò che non (si deve) desiderare. Così e null’altro. 194. Mencio disse: — Se l’uomo ha intelligenza della virtù e conoscenza degli espedienti, esse gli vengono sempre dalle avversità e dalle tribolazioni. I ministri in disgrazia e i figli delle concubine (di basso rango) vivono nell’ansia continua di essere in pericolo e immersi nella previsione di sventure. Per questo diventano intelligenti.

195. Mencio disse: — Vi sono individui al servizio del principe i quali, nel servirlo, sono accondiscendenti e compiacenti; vi sono ministri, devoti alla tranquillità dello stato, che provano gioia nell’assicurare questa tranquillità; vi sono quelli che appartengono al popolo del Cielo208, i quali entrano nelle magistrature quando (la loro Via) può essere praticata nell’impero e poi la mettono (effettivamente) in pratica; vi sono uomini superiori che correggono sé stessi e così gli esseri sono corretti. 196. Mencio disse: — Il saggio ha tre gioie: il regnare sull’impero non è compreso fra esse. La prima gioia è che ambedue i genitori siano ancora in vita e che non vi siano screzi tra fratelli maggiori e minori. La seconda è, guardando in alto, di non doversi vergognare davanti al Cielo e, guardando in basso, di non doversi vergognare davanti agli uomini. La terza è di attirare a sé gli uomini dell’impero eccellenti per talento onde istruirli ed educarli. Il saggio ha tre gioie, ma fra esse non è compreso il regnare sull’impero. 197. Mencio disse: — Il saggio desidera un territorio vasto ed un popolo numeroso (per diffondere i suoi benefici), ma ciò di cui gioisce non consiste in questo. Il saggio gioisce di ergersi al centro dell’impero e di dar tranquillità ai popoli fra i quattro mari, ma ciò che gli è connaturale non consiste in questo. Ciò che è connaturale al saggio non s’accresce anche se egli compie grandi azioni né diminuisce anche se egli vive in povertà, per la ragione che è una quota determinata (dal Cielo). Ciò che è connaturale al saggio sono la carità, la giustizia, l’urbanità, la sapienza. Radicate nel cuore, si appalesano nel suo comportamento: gli traspaiono in pura armonia dal volto, danno una fiorente pienezza al suo dorso, gli si diffondono nelle quattro membra. Le quattro membra comprendono (il nostro intimo) senza ricever motto209. 198. Mencio disse: — Per sottrarsi all’imperatore Chou (Hsin), Po-i si era rifugiato sulle coste del mar settentrionale. Quando udì dell’ascesa del re Wên, sorse dicendo: «Perché non rivolgersi a lui? Ho udito che il Conte Occidentale benignamente nutre i vecchi». Per sottrarsi all’imperatore Chou (Hsin), T’aikung era andato ad abitare sulle coste del mar orientale. Quando udì dell’ascesa del re Wên, sorse dicendo: «Perché non rivolgersi a lui? Ho udito che il Conte Occidentale benignamente nutre i vecchi». Nell’impero v’era chi nutriva benignamente i vecchi, quindi gli uomini caritatevoli considerarono

giusto rivolgersi a lui. Nell’area residenziale di cinque mu, ai piedi delle mura, si piantavano i gelsi e le donne vi allevavano i bachi, così i vecchi ne avevano abbastanza per vestirsi di seta. Nella stagione (della riproduzione) non si facevano mancare cinque galline e due scrofe, così i vecchi ne avevano abbastanza per non esser privi di carne. Un uomo lavorava un campo di cento mu, così una famiglia di otto bocche poteva non soffrire la fame. Il significato delle parole «il Conte Occidentale benignamente nutre i vecchi» è questo: egli regolava i campi coltivabili e le aree residenziali, insegnava a piantare i gelsi e ad allevare gli animali, istruiva le mogli e i figli perché nutrissero i vecchi. I cinquantenni non stanno caldi senza seta, i settantenni non sono sazi senza carne. Non aver caldo e non essere sazi significa soffrire il freddo e la fame. Nel popolo del re Wên non c’erano vecchi che soffrissero il freddo e la fame. Quelle parole significano appunto ciò. 199. Mencio disse: — Mettete ordine nei campi e nelle terre arabili, alleggerite la percezione delle imposte: al popolo potrà essere assicurata la ricchezza. Se ne nutra secondo le stagioni e la spenda per i riti210: il reddito non potrà essere inferiore al consumo. Senza acqua né fuoco il popolo non vive: se al tramonto qualcuno bussa ad una porta per chiedere dell’acqua o del fuoco, nessuno glieli nega poiché ve n’è in abbondanza. Allorché i santi reggono l’impero, fanno sì che i legumi e il frumento si abbiano come l’acqua e il fuoco. Quando i legumi e il frumento si hanno come l’acqua e il fuoco, tra il popolo vi sarà qualcuno che non sia caritatevole? 200. Mencio disse: — K’ung-tzu salì sul monte orientale e vide piccolo il regno di Lu, salì sul T’ai-shan e vide piccolo l’impero. Così chi ha contemplato il mare non fa gran conto delle (altre) acque, chi è andato alla porta del santo (come discepolo) non tiene in gran considerazione le parole (degli altri uomini). Per guardare le acque c’è un metodo: bisogna osservare il flusso (per sapere se sono sorgive). Il sole e la luna sono corpi luminosi ed illuminano per la luce che traspare (da una minima fessura). L’acqua che scorre è cosa siffatta che, se non colma le cavità, non procede oltre. (Così) la determinazione del saggio alla Via è tale che egli non passa ad altro se non si è completamente impadronito dell’apprendimento precedente211. 201. Mencio disse: — Chi si leva al canto del gallo per dedicarsi con impegno al bene è un seguace di Shun. Chi si leva al canto del gallo per dedicarsi con

impegno al lucro è un seguace del (brigante) Chih. Se vuoi sapere la distinzione tra Shun e Chih, essa non è che quella che c’è tra il lucro e il bene. 202. Mencio disse: — Il filosofo Yang propugnava l’egoismo: se strappandosi un sol pelo, avesse avvantaggiato il mondo, non l’avrebbe fatto. Il filosofo Mo propugnava l’amore senza distinzioni: se, facendosi scorticare dal capo alle calcagna, avesse avvantaggiato il mondo, l’avrebbe fatto. (Il virtuoso di Lu) Tzu-mo si tenne nel mezzo (tra questi due eccessi). Tenendosi nel mezzo si avvicinò alla Via. Ma tenersi nel mezzo senza soppesare le circostanze è come attenersi ad uno (degli eccessi). Ciò che è deprecabile nell’attenersi ad uno è che si lede la Via212: si accoglie un principio e se ne tralasciano cento. 203. Mencio disse: — Il cibo sembra delizioso all’affamato e la bevanda sembra deliziosa all’assetato, i quali così non sentono il vero sapore del cibo e della bevanda: nuocciono (al gusto) la fame e la sete. Forse soltanto la bocca e lo stomaco sono danneggiati dalla fame e dalla sete? Ne ha danno anche il cuore umano. L’uomo, che riesce a non sentire i danni della fame e della sete come danni del cuore, non deve farsi un cruccio se non sta alla pari con gli altri (in altre cose). 204. Mencio disse: — Hui di Liu-hsia non avrebbe cambiato i suoi fermi propositi nemmeno per (la carica di uno de) i tre grandi ministri dell’impero. 205. Mencio disse: — Chi si prefigge una meta è paragonabile a colui che scava un pozzo: se scava fino a nove jên (circa 23 metri) ma non raggiunge la vena, è come se avesse sprecato il pozzo. 206. Mencio disse: — Yao e Shun (ebbero la Via) per dono naturale, T’ang e Wu acquisendola nella propria persona, i cinque capi dei feudatari simulandola. Avendo essi simulato tanto a lungo senza recedere, come si poteva sapere che non la possedevano? 207. Kung-sun Chou domandò: — I Yin disse: «Io non starò vicino a chi non obbedisce (ai princìpi della morale)» e relegò T’ai Chia a T’ung213: il popolo ne provò una grande gioia. Quando T’ai Chia fu divenuto virtuoso, lo fece tornare: il popolo ne provò una grande gioia. Quando l’uomo virtuoso è ministro, se il suo principe non è virtuoso può esiliarlo?

— Se è mosso dalle intenzioni di I Yin, lo può — rispose Mencio. — Se non è mosso dalle intenzioni di I Yin, è un usurpatore. 208. Kung-sun Chou domandò: — Nell’Ode (I, 112, 1) è detto: «Non mangia senza esserselo meritato». Il saggio non lavora la terra eppure mangia214. Perché? — Quando il saggio dimora in un regno — rispose Mencio — se il principe lo utilizza, gliene viene tranquillità, ricchezza, onore e gloria. Se i figli e i fratelli minori (cioè i giovani) seguono i suoi insegnamenti, divengono filiali, sottomessi ai fratelli maggiori, leali e sinceri. Quale prova più grande di questa che non mangia senza esserselo meritato? 209. Tien, figlio del re, interrogò dicendo: — Un letterato quale compito assolve?215 — Rende più elevati gli intenti — rispose Mencio. — Che significa: rende più elevati gli intenti? — (Rivolgerli) alla carità, alla giustizia e null’altro. Mettere a morte un solo innocente non è carità, prendere ciò che non spetta non è giustizia. Dove permanere? Nella carità. Qual’è la strada? La giustizia. Quando (la gente) permane nella carità e percorre la via della giustizia, è assolto il compito d’un grand’uomo. 210. Mencio disse: — Se a Chung-tzu216 offrissero il regno di Ch’i contro la giustizia, non l’accetterebbe. Tutti gli danno credito (per questo). Ma codesta è la giustizia di chi rifiuta un cestello di riso o una ciotola di minestra. Nell’uomo non v’è (colpa) più grande che disconoscere (come egli fece) le relazioni tra congiunti e parenti, tra principe e suddito, tra superiori e inferiori. Si può, per i suoi piccoli meriti, dargli credito per i grandi? 211. (Il discepolo) Tao Ying domandò: — Shun era Figlio del Cielo e Kao Yao ministro della giustizia. Se (il padre di Shun) Ku-sou avesse ucciso un uomo, (Kao Yao) che avrebbe fatto? — L’avrebbe senz’altro catturato — rispose Mencio. — Ma Shun non l’avrebbe proibito? — Come avrebbe potuto proibirlo? — osservò Mencio. — (Kao Yao) le leggi le aveva ricevute (e perciò non poteva infrangerle a beneplacito dell’imperatore).

— Ma allora che avrebbe fatto Shun? — Shun avrebbe considerato la rinuncia all’impero come l’abbandono di un paio di sandali logori. Si sarebbe caricato nascostamente del padre e sarebbe fuggito, andando ad abitare lungo le coste dell’oceano. Avrebbe vissuto là fino alla fine dei suoi giorni, felice e contento, dimentico dell’impero. 212. Mentre Mencio da (la città di) Fan si recava a Ch’i, vide da lontano il figlio del re di Ch’i. Sospirando disse: — La posizione sociale influenza lo spirito vitale come l’alimentazione influenza il corpo. Grande, invero, è l’influenza della posizione sociale! Eppure, non è egli in tutto e per tutto il figlio d’un uomo? Mencio disse: — La casa, la carrozza, le vesti del figlio d’un re sono a un dipresso simili a quelle degli altri uomini. Eppure, il figlio d’un re è come quello là: è la sua posizione sociale che lo rende così. A maggior ragione, (come dovrebbe essere) chi permane nella vasta dimora del mondo (la carità)? (Una volta) il principe di Lu andò a Sung. Alla porta Tiehchai (della fortezza di Sung) chiamò e i guardiani dissero: «Costui non è il nostro principe. Come mai la sua voce somiglia a quella del nostro principe?» Ciò non dipendeva da altro che dalla somiglianza della (loro) posizione sociale. 213. Mencio disse: — Nutrire (il saggio) senza amarlo significa trattarlo alla pari d’un maiale. Amarlo senza rispettarlo significa tenerlo come un cane o un cavallo. La venerazione e il rispetto (devono esistere) ancor prima di offrirgli un dono: se la venerazione e il rispetto non sono reali, il saggio non potrà essere trattenuto con vuote manifestazioni. 214. Mencio disse: — L’aspetto e la bellezza sono di natura celeste. Solo se si è santi si è capaci di mantenere ciò che l’aspetto promette. 215. Il re Hsüan di Ch’i voleva abbreviare il periodo di lutto. Kung-sun Chou disse: — Osservare il lutto per un anno (non) è meglio che farne a meno del tutto? — È come se ad uno che sta legando le braccia al fratello maggiore tu dicessi: delicatamente! delicatamente! — osservò Mencio. — Insegnagli piuttosto la pietà filiale e la sottomissione fraterna! Ad un figlio del re morì la madre. Il suo precettore pregò per lui affinché

potesse osservare il lutto per alcuni mesi217. — Che ne dici di questo? — chiese il discepolo. — Qui si vorrebbe osservare il lutto per l’intero periodo, ma non è permesso di farlo — rispose Mencio. — Anche un sol giorno in più è meglio che nulla. (In precedenza) mi riferivo a coloro che non osservano il lutto senza che nessuno glielo impedisca. 216. Mencio disse: — Cinque sono i modi in cui il saggio ammaestra: vi sono quelli che egli trasforma, come una pioggia nella giusta stagione; vi sono quelli dei quali perfeziona la virtù; vi sono quelli dei quali sviluppa il talento; vi sono quelli ai quali risponde se lo interrogano; vi sono quelli che (induce) a migliorarsi e a coltivarsi privatamente218. Questi sono i cinque modi in cui ammaestra il saggio. 217. Kung-sun Chou disse: — La Via è elevata e bella, ma è come salire al Cielo: sembra irraggiungibile. Perché non fai in modo che i tuoi discepoli la trovino accessibile e compiano un piccolo sforzo ogni giorno? — Il maestro artigiano non correggerebbe né cancellerebbe la linea tracciata a causa di un operaio inetto — rispose Mencio — né (l’arciere) I modificherebbe il suo modo di tender l’arco per un arciere inabile. Il saggio tende l’arco ma non scocca: (la conoscenza) sembra balzar fuori219. Si erge al centro della Via: chi è capace lo segua. 218. Mencio disse: — Quando nell’impero prevale la Via, votare sé stesso alla Via (nelle magistrature); quando nell’impero non prevale la Via, votare la Via a sé stesso (nella vita privata). Non ho mai inteso dire che per dedicarsi alla Via (si dipenda) dagli altri220. 219. Kung Tu-tzu disse: — Quando Kêng di Têng (fratello minore del principe di Têng) stava alla tua porta (per udire i tuoi insegnamenti), era il caso di trattarlo con riguardo, eppure tu non gli rispondevi. Perché? — Io non rispondo — disse Mencio — a tutti coloro che m’interrogano presumendo della loro nobiltà, che m’interrogano presumendo della loro virtù, che m’interrogano presumendo della loro età, che m’interrogano presumendo dei servizi resi, che m’interrogano presumendo dell’antica amicizia. Kêng di Têng ne aveva due (di queste presunzioni: la sua nobiltà e la sua virtù). 220.

Mencio disse: — Chi tralascia ciò che non gli è lecito tralasciare, non v’è nulla che non tralascerà. Chi tratta leggermente ciò che è importante, non v’è nulla che non terrà in poco conto. Chi avanza con precipitazione indietreggia in fretta. 221. Mencio disse: — Verso gli esseri (gli animali e le piante) il saggio è amorevole ma non caritatevole, verso il popolo è caritatevole ma non affettuoso. È affettuoso con i genitori e quindi è caritatevole con il popolo, è caritatevole con il popolo e quindi è amorevole con gli esseri. 222. Mencio disse: — Non v’è nulla che il sapiente non (cerchi di) conoscere, ma è sollecito verso ciò che si pone come importante. Non v’è nessuno che il caritatevole non (cerchi di) amare, ma pone come importante essere sollecito nel coltivare l’affetto per i virtuosi. La sapienza di Yao e di Shun non s’estendeva all’universalità delle cose, ma essi erano solleciti nell’anteporre ciò che è importante. La carità di Yao e di Shun non s’estendeva ad amare l’universalità degli uomini, ma essi erano solleciti nel coltivare l’affetto per i virtuosi. Non essere capaci di tenere il lutto di tre anni, ma ridursi a quello di tre o cinque mesi, mangiando a crepapelle e bevendo smodatamente, e chiedere poi d’essere istruiti sul precetto di non tagliare la carne coi denti221, significa non conoscere ciò che è importante.

LIBRO VII CHIN HSIN PARTE SECONDA 223. Mencio disse: — Come non era caritatevole il re Hui di Liang! L’uomo caritatevole per ciò che ama giunge a ciò che non ama, l’uomo non caritatevole per ciò che non ama giunge a ciò che ama222. — Che intendi dire? — gli chiese Kung-sun Chou. — Il re Hui di Liang — rispose Mencio — a causa del territorio fece massacrare il suo popolo gettandolo nella guerra. Fu duramente sconfitto, ma volle reiterare la guerra e, nel timore che (il suo popolo) non fosse capace di vincere, spinse il figlio che amava a sacrificarsi. Questo significa che per ciò che non amava giunse a ciò che amava223. 224. Mencio disse: — In Primavera ed Autunno non vi sono guerre giuste (perché combattute tra feudatari): ve ne sono alcune meno ingiuste delle altre. La correzione v’è quando il superiore (l’imperatore) punisce con le armi l’inferiore (il feudatario). Due stati nemici non si correggono fra loro. 225. Mencio disse: — Sarebbe meglio che non vi fosse il Libro dei Documenti piuttosto che credere a tutto ciò che è scritto in esso. Del Wu Ch’êng io accetto due o tre passi, non di più. L’uomo caritatevole non ha avversari sotto il cielo. Quando la somma carità combatte contro la somma malvagità, come accade che il sangue trascina i pestelli?224 226. Mencio disse: — Vi sono degli individui che affermano: «Sono esperto nello schierare un esercito, sono abile nel condurre una battaglia». Gran colpa! Se il principe dello stato ama la carità, sotto il cielo non ha avversari. Quando (T’ang) correggeva a meridione, i (barbari) Ti si lamentavano a settentrione; quando correggeva ad oriente, ad occidente si lamentavano i (barbari) I. Dicevano: «Perché ci lascia per ultimi (liberando prima gli altri)?» Quando il re Wu punì lo Yin, aveva trecento carri da guerra e tremila uomini della sua guardia225. Il re disse: «Non abbiate timore! Vi porto la tranquillità, non sono nemico dei cento cognomi!» E quelli chinarono il capo come (tori) che abbassano le corna226. Chêng (attaccare) significa chêng (correggere)227.

Quando ogni stato vuol essere corretto (dal caritatevole), c’è bisogno di combattere? 227. Mencio disse: — Il falegname e il carradore possono dare all’apprendista il compasso e la squadra, non possono dargli l’abilità. 228. Mencio disse: — Shun si nutriva di focacce secche e di verdure, come se dovesse andare avanti così per tutta la vita. Quando divenne Figlio del Cielo indossò vesti ricamate, suonò il liuto e fu servito da due mogli, come se fossero cose abituali. 229. 228 Mencio disse: — Da ora in poi so quanto sia grave uccidere il parente di qualcuno. Quando uno uccide il padre di un altro, quello ucciderà suo padre; quando uno uccide il fratello maggiore di un altro, quello ucciderà il suo fratello maggiore. Così, non li ha uccisi lui stesso ma per mezzo di un intermediario. 230. Mencio disse: — Gli antichi avevano istituito i posti di frontiera per resistere alla violenza. Oggi si pongono posti di frontiera per esercitare la violenza (mediante le imposte). 231. Mencio disse: — Se uno non segue lui stesso la Via, essa non sarà seguita nemmeno da sua moglie e dai suoi figli. Se comanda agli altri difformemente alla Via, non riuscirà a farsi obbedire nemmeno da sua moglie e dai suoi figli. 232. Mencio disse: — Un’annata di carestia non può causare la morte di chi è pieno di beni. Una generazione corrotta non può portare confusione in chi è pieno di virtù. 233. Mencio disse: — Un uomo amante del suo buon nome è capace di cedere un regno da mille carri da guerra. Ma se non è un tale uomo, gli si vede dal volto (il dispiacere di cedere) un cestello di riso o una ciotola di minestra. 234. Mencio disse: — Se (il principe) non ha fiducia nei caritatevoli e nei virtuosi, il regno sarà vuoto e spopolato: (infatti) senza i riti e la giustizia vi sarà disordine tra superiori ed inferiori, senza una (saggia) amministrazione degli affari il reddito non basterà al consumo.

235. Mencio disse: — Uomini non caritatevoli che abbiano ottenuto un regno ve ne sono stati, ma mai v’è stato un uomo non caritatevole che abbia ottenuto l’impero. 236. Mencio disse: — Il popolo è la cosa più importante, vengon poi gli esseri spirituali della terra e dei grani: il principe è il meno importante. Perciò, ingraziandosi la gente dei campi si diviene Figlio del Cielo, ingraziandosi il Figlio del Cielo si è fatti feudatari, ingraziandosi i feudatari si è fatti dignitari. Quando un feudatario mette in pericolo gli esseri spirituali della terra e dei grani229 viene dimesso e sostituito. Quando le vittime sono perfette, il miglio dei vassoi è puro e i sacrifici sono offerti nelle giuste stagioni, ma ciononostante si verificano siccità e inondazioni, si dismettono e si sostituiscono (gli altari de) gli esseri spirituali della terra e dei grani. 237. Mencio disse: — I santi uomini sono maestri di cento generazioni: tali furono Po-i e Hui di Liu-hsia. Per questo quando sentirono del modo di comportarsi di Po-i, i corrotti divennero onesti e i titubanti divennero risoluti; quando sentirono del modo di comportarsi di Hui di Liu-hsia, i meschini divennero magnanimi e gli avari divennero generosi. Costoro fiorirono cento generazioni addietro e per cento generazioni avvenire tutti coloro che ne udranno parlare si sentiranno stimolati ad elevarsi. Potrebbe accadere ciò se non fossero stati dei santi? E quanto più avranno influenzato i loro contemporanei che avevano biasimato! 238. Mencio disse: — La carità è l’uomo. Collegare l’una all’altro è la Via230. 239. Mencio disse: — Quando lasciò Lu, K’ung-tzu disse: «Lentamente muovo i passi». Era la maniera di partire dal paese dei propri genitori. Quando abbandonò Ch’i, tolse il riso dall’acqua (cotto a metà) e se ne andò. Era la maniera di partire da un paese straniero231. 240. Mencio disse: — Il saggio (Confucio) fu ridotto in strettezze tra Ch’ên e Ts’ai per difetto di comunicabilità tra superiori e inferiori232. 241. 233 Mai Chi disse: — La gente sparla molto di Chi (di me). — Nulla di male — lo consolò Mencio. — I letterati sono presi di mira dalle

malelingue. Nell’Ode (I, 26, 4) è detto: «Il mio afflitto cuore è colmo di tristezza, il rancore mi perseguita della folla dei meschini». (È il caso di) K’ung-tzu. Altrove (III, 3, 8) è detto: «Benché non estinguesse il loro rancore, pur non venne meno alla sua reputazione». (È il caso del) re Wên. 242. Mencio disse: — I virtuosi facevano sì che gli altri si illuminassero della loro luce. Oggi (molti) vogliono che gli altri si illuminino della loro tenebra. 243. Parlando al (discepolo) Kao-tzu, Mencio disse: — La pista di un sentiero di montagna, se improvvisamente viene percorsa, diventa una strada; se per breve tempo non viene percorsa, i rovi la ostruiscono. Ora, i rovi ostruiscono il tuo cuore. 244. (Il discepolo) Kao-tzu disse: — La musica di Yü era migliore di quella del re Wên. — Perché affermi ciò? — chiese Mencio. — Perché gli anelli delle sue campane sono consumati. — Questo forse basterebbe? I solchi alla porta della città sono fatti dal peso di un (solo) carro a due cavalli?234 245. Nel regno di Ch’i si soffriva la fame. (Il discepolo) Ch’ên Chên disse: — Il popolo crede che tu, o Maestro, farai aprire di nuovo i granai (della città) di T’ang. Temo che tu non possa riuscirvi per la seconda volta235. — Significherebbe fare come Fêng Fu — osservò Mencio. — Tra il popolo di Chin c’era un tale Fêng Fu, il quale era abilissimo nel catturare le tigri con le sole mani. Divenuto poi un buon letterato, andò in un paese selvaggio in cui una folla stava inseguendo una tigre: la belva s’era infilata in un anfratto della montagna e nessuno ardiva affrontarla. Quando videro Fêng Fu, corsero a dargli il benvenuto e lui, denudatesi le braccia, saltò giù dal carro. La folla fu compiaciuta, ma quelli che erano letterati risero di lui (perché non aveva resistito alla tentazione di ripetere le sue antiche gesta). 246. Mencio disse: — Che la bocca sia portata ai sapori, gli occhi ai colori, le orecchie ai suoni, il naso agli odori, le quattro membra agli agi e alle comodità, è natura. Ma, poiché v’è il decreto del Cielo (per cui non sempre è lecito soddisfare i desideri dei sensi), il saggio non dice: è natura. Che vi sia la carità tra padre e figlio, la giustizia tra principe e suddito, i riti tra ospite e

ospitante, la sapienza per (riconoscere) i virtuosi, il santo per (seguire) la Via celeste, è decreto del Cielo. Ma, poiché v’è la natura umana (per cui l’uomo ha in sé la capacità di perfezionarsi), il saggio non dice: è decreto del Cielo236. 247. (Il cittadino di Ch’i) Hao-shêng Pu-hai domandò: — Yochêng-tzu che uomo è? — Un uomo buono, un uomo sincero — rispose Mencio. — Che intendi per buono e che intendi per sincero? — chiese l’altro. — Dicesi buono colui che può essere desiderato — spiegò Mencio — dicesi sincero colui che ha (la bontà) in sé. Chi ne è ricolmo dicesi eccellente; chi, essendone ricolmo, ne risplende dicesi grande; chi, essendo grande, trasforma (gli altri) dicesi santo; chi è santo in grado inconoscibile dicesi essere spirituale. Yo-chêng-tzu si trova tra i primi due (gradini), ma al disotto degli altri quattro237. 248. Mencio disse: — Quelli che fuggono Mo sicuramente si rivolgono a Yang, quelli che fuggono Yang sicuramente si rivolgono ai dotti238. Quando vi si rivolgono, (bisogna) accoglierli senz’altro. A questo punto, discutere con costoro su Yang o su Mo è come inseguire un porcello fuggito e, quando è già rientrato nel recinto, procedere ad impastoiarlo. 249. Mencio disse: — Vi è il tributo della tela e della seta (in estate), il tributo dei cereali (in autunno) e il tributo delle prestazioni personali (in inverno). Il principe ne esige uno e rimanda gli altri due. Se ne esige due (insieme), il popolo soffre la fame. Se li esige tutti e tre (insieme), i padri e i figli si separano (a causa dell’estrema povertà). 250. Mencio disse: — Le cose che il feudatario ha preziose sono tre: il territorio, il popolo e gli affari di governo. Se considera suoi tesori le perle e le giade, sicuramente gli arriverà sventura. 251. P’êng-ch’êng Kuo239 serviva nelle magistrature di Ch’i. Mencio disse: — P’êng-ch’êng Kuo è un uomo morto! P’êng-ch’êng Kuo fu messo a morte. I discepoli domandarono: — Maestro, come sapevi che sarebbe stato fatto morire? — Era un uomo tale — rispose Mencio — che possedeva scarse capacità e non aveva mai appreso la grande Via dei saggi. È sufficiente per attirarsi la

morte. 252. Mencio si recò a Têng ed alloggiò nel Palazzo Superiore. Su una finestra era stato posto un sandalo non finito, che il custode del palazzo cercò senza trovarlo. Un tale apostrofò Mencio dicendo: — Così dunque i tuoi discepoli nascondono gli oggetti? — Credi che siano venuti per rubare delle scarpe? — chiese Mencio. — Oh, no! — disse l’altro. — Gli è che tu, o Maestro, avendo stabilito di istruirli, non t’informi dei loro precedenti e non respingi coloro che vengono a te. Sol che vengano con quell’intenzione (di istruirsi), tu li accogli senz’altro. 253. Mencio disse: — Vi sono cose che tutti gli uomini non tollerano (per compassione): se estendono tale sentimento a ciò che tollerano, è la carità. Vi sono cose che tutti gli uomini non fanno (per vergogna): se estendono tale sentimento a ciò che fanno, è la giustizia. Quando l’uomo si rende capace di dar pieno sviluppo al sentimento di non voler il danno altrui, la sua carità sarà più di quanto è necessario. Quando si rende capace di dar pieno sviluppo al sentimento di non scavar buchi e di non scalar mura (come un ladro), la sua giustizia sarà più di quanto è necessario. Quando l’uomo si rende capace di dar pieno sviluppo al fatto sostanziale di non dover accettare il «tu»240, dovunque vada praticherà la giustizia. Se un letterato parla quando non è lecito parlare, con il parlare vuol ottenere qualcosa; se non parla quando è lecito parlare, vuol ottenere qualcosa con il tacere. Sono tutte azioni del tipo scavar buchi e scalar mura. 254. Mencio disse: — Parlare di cose vicine per indicare quelle lontane: sono ottime parole. Attenersi all’essenziale e dispensare universalmente: è la Via ottima. Le parole del saggio non scendono al disotto della cintura241, ma v’è racchiusa la Via. Il saggio s’attiene al (dovere essenziale di) perfezionare sé stesso e l’impero è in pace. Il difetto dell’uomo è di trascurare il proprio campo per sarchiare quello degli altri, di pretendere dagli altri ciò che è gravoso e di caricare sé stesso con ciò che è leggero. 255. Mencio disse: — In Yao e Shun (la virtù) fu natura, in T’ang e Wu il ritorno ad essa. Colui che (come i santi Yao e Shun) nel comportamento e negli atti si conforma pienamente ai riti è al sommo di una virtù completa.

Piangendo i defunti manifesta il suo dolore, ma non per (apparire agli occhi de) i vivi; è costante nella virtù da cui mai non devia, ma non per ottenere emolumenti; nel parlare è sicuramente sincero, ma non perché questa è la condotta corretta (bensì perché gli viene spontaneo). Il saggio (come T’ang e Wu) agisce secondo le leggi celesti in attesa del decreto del Cielo. 256. Mencio disse: — Nel parlare ai grandi non dò loro molta importanza né mi curo della loro imponenza. Saloni alti molti cubiti e travi sporgenti molti piedi, se realizzassi le mie aspirazioni non li vorrei; piatti davanti a me per un’estensione di dieci piedi e centinaia di donne al mio servizio, se realizzassi le mie aspirazioni non li vorrei; inebriarmi di piaceri e di vino ed andare a caccia scorrazzando all’impazzata seguito da migliaia di carri, se realizzassi le mie aspirazioni non lo vorrei. In coloro (i grandi) è tutto ciò che io non vorrei, in me è tutto ciò che hanno statuito gli antichi. Perché dovrei sentirmi intimidito davanti a coloro? 257. Mencio disse: — Per alimentare il cuore (nella sua originaria bontà) nulla di meglio che aver pochi desideri. È raro che l’uomo di pochi desideri non lo mantenga vivo (il suo cuore originario), anche se talvolta accade. È raro che l’uomo di molti desideri lo mantenga vivo, anche se talvolta accade. 258. Tsêng Hsi era ghiotto di giuggiole e Tsêng-tzu (suo figlio) non soffriva di mangiarle (dopo la morte del padre, per non rinnovare il dolore della sua scomparsa). Kung-sun Chou domandò: — Tra la carne tritata o arrostita e le giuggiole, che cosa è meglio? — La carne tritata o arrostita — rispose Mencio. — Allora — insisté Kung-sun Chou — perché Tsêng-tzu mangiava la carne tritata o arrostita (che il defunto sicuramente gustava) ma non mangiava le giuggiole? — La carne tritata o arrostita era comune, le giuggiole erano particolari. (Dei morti) si evita il nome, non il cognome: il cognome è comune, il nome è particolare. 259. Wan Chang domandò: — Quando si trovava nel regno di Ch’ên, K’ung-tzu disse: «Torniamo! I letterati della mia scuola sono entusiasti ma superficiali, avanzano e afferrano ma non hanno dimenticato le loro abitudini

primitive»242. Perché K’ung-tzu, stando a Ch’ên, pensava agli entusiasti letterati di Lu? — Quando K’ung-tzu non trovava, per istruirli, uomini che si attenessero alla via di mezzo — rispose Mencio — era costretto (ad accettare) gli entusiasti e i prudenti. Gli entusiasti avanzano e afferrano, i prudenti non fanno talune cose243. K’ung-tzu come non avrebbe desiderato quelli che si attengono alla via di mezzo? Non avendo potuto sicuramente trovarli, pensava a quelli di seconda scelta. — Oso interrogare — disse Wan Chang. — Quali erano quelli che potevano definirsi entusiasti? — Quelli come Chin Chang, Tsêng Hsi e Mu Pi erano coloro che K’ung-tzu chiamava entusiasti. — Perché li chiamava entusiasti? — Le loro mire li portavano a gridare enfaticamente: «Gli antichi, gli antichi!» Ma, ad un semplice esame, le loro azioni non corrispondevano (a quelle degli antichi). Quando non trovava nemmeno gli entusiasti, desiderava prendere, per istruirli, gli uomini che considerano indegna di loro ogni impurità: sono i prudenti, che vengono dopo gli entusiasti. — K’ung-tzu disse: «Sono soltanto gli ipocriti da villaggio che io non rimpiango quando passano davanti alla mia porta e non entrano in casa mia. Gli ipocriti da villaggio sono i ladri della virtù»244 — domandò il discepolo. — Chi sono quelli che possono definirsi ipocriti da villaggio? — (Sono coloro che degli entusiasti dicono): «A che pro’ tutto questo gridare enfaticamente? Le loro parole non corrispondono alle loro azioni, le loro azioni non corrispondono alle loro parole. Eppure dicono: “Gli antichi, gli antichi!”» (E dei prudenti): «Nell’agire, perché sono così riservati e sprezzanti? Sono nati in questo secolo, siano di questo secolo! Possono migliorarlo». Coloro che, a mo’ degli eunuchi, si fanno laudatori del secolo sono gli ipocriti da villaggio. — (Tuttavia) nel villaggio tutti li considerano uomini sinceri — obbiettò Wan-tzu — e, ovunque vadano, si comportano da uomini sinceri. Perché K’ung-tzu li considerava ladri di virtù? — Biasimali e non avrai nulla a cui appigliarti, censurali e non avrai nulla da criticare. Si accomunano ai costumi rilassati e vanno d’accordo col secolo corrotto, ma nella condotta sembrano leali e sinceri, nell’agire sembrano integri e puri. Tutti li ammirano ed essi si considerano dei giusti, ma non si può farli entrare nella Via di Yao e di Shun. Per questo li definiva ladri di

virtù. K’ung-tzu disse: «Detesto ciò che sembra senza essere: detesto l’erbaccia perché temo che porti confusione nel frumento, detesto l’abilità di parola perché temo che porti confusione nella giustizia, detesto la maldicenza perché temo che porti confusione nella sincerità, detesto i suoni del regno di Chêng perché temo che portino confusione nella musica, detesto il colore purpureo perché temo che porti confusione nel rosso, detesto gli ipocriti da villaggio perché temo che portino confusione nei virtuosi». Il saggio restaura i princìpi perenni: quando i princìpi perenni sono corretti, il popolo si eleva; quando il popolo si eleva, non v’è più falsità e depravazione. 260. Mencio disse: — Da Yao e Shun a T’ang corrono cinquecento e più anni: Yü e Kao Yao li videro e ne conobbero (la Via), T’ang ne udì parlare e perciò la conobbe. Da T’ang al re Wên corrono cinquecento e più anni: I Yin e Lai Chu lo videro e ne conobbero (la Via), il re Wên ne udì parlare e perciò la conobbe. Dal re Wên a K’ung-tzu corrono cinquecento e più anni: T’ai-kung-wang e San I-shêng245 lo videro e ne conobbero (la Via), K’ung-tzu ne udì parlare e perciò la conobbe. Da K’ung-tzu ad oggi corrono (appena) cento e più anni: la generazione del santo non è lontana da questa, i luoghi dove egli visse sono molto vicini a questo. Non c’è dunque nessuno (che conosca la sua Via)? Non c’è proprio nessuno?246 * Attribuito a Mencio e al suo discepolo Wan Chang. 1. Il regno che poteva levare 10.000 carri da guerra era il dominio imperiale: questa prerogativa era stata usurpata dai grandi feudatari, come si desume anche dal n. 17. Mille carri potevano essere levati dai ministri imperiali e dai grandi stati, 100 carri dai piccoli stati e dai dignitari (vedi CS 23). 2. Sulla Torre degli Spiriti (Ling-t’aì), costruita dal re Wên, vedi CS 20. 3. Citazione del Libro dei Documenti (IV, 1, 3). Nella Dichiarazione le parole del testo sono riferite come pronunciate dal popolo. Il malvagio imperatore Chieh Kuei aveva detto: «Io ho l’impero come il cielo ha il sole. Quando il sole perirà anch’io perirò» (vedi CS 8). 4. Il senso del discorso è: tu nel governare sei in difetto come coloro che indietreggiano di cinquanta passi nella battaglia, non criticare i principi che hanno un governo peggiore del tuo. 5. Il mu equivale oggi a mq. 614, all’epoca dei Chou era di mq. 144. Al contadino era assegnata, per costruire le sue abitazioni, una superficie di cinque mu, metà della quale era situata nel campo comune (vedi nota 81 al n. 49) e metà nel villaggio. Per non sottrarre la terra alla coltivazione dei cereali, era permesso di piantare alberi soltanto intorno alle abitazioni, nel terreno ad esse destinato. 6. Il verbo che traduco «regnare» è la parola wang, la quale indica anche il titolo dell’imperatore. Il verbo quindi non si riferisce ai feudatari, i quali, come si leggerà anche in seguito, non regnavano nei loro stati ma li amministravano solamente (vedi CS 23): esso indica il «regnare come imperatore». Si tenga presente che lo scopo di Mencio era di indurre l’interlocutore ad assumere la dignità imperiale conquistando il cuore dei popoli con la carità e la giustizia e, quindi, pacificare l’impero con la sua autorità di designato dal Cielo. Tale è il significato che al verbo «regnare» deve attribuirsi anche nei discorsi successivi. 7. Su quanto detto nel precedente discorso.

8. Mencio cita le parole del saggio Kung-ming I (vedi n. 60). 9. I regni di Liang (o Wei), di Chao e di Han, sorti dalla spartizione del regno di Chin, erano detti «i tre Chin» (vedi CS 39). Qui il re parla non dell’antico regno di Chin ma del suo, che era stato potente sotto i suoi due predecessori. 10. Ad opera del regno di Ch’i, il re Hui subì tre sconfitte, nel 368, nel 353 e nel 341 (vedi CS 43): nell’ultima battaglia suo figlio fu fatto prigioniero e morì in cattività. La sconfitta ad opera del regno di Ch’in avvenne nel 340. Non si sa in quale anno, il regno di Ch’u gli tolse sette città. 11. Nel testo il verbo usato è chêng (attaccare, assalire), ma il commento spiega che esso deve essere inteso nel senso del suo omofono chêng (correggere, rendere retto). In proposito vedi n. 226. 12. Sulla partenza di Mencio da Liang dopo l’insediamento di Hsiang, successione di Hui, vedi BM 6. 13. Huang di Ch’i e Wên di Chin erano stati i due più potenti capi dei feudatari (vedi CS 35). Forse questo è il primo colloquio tra Mencio e Hsüan: evidentemente costui non conosceva bene il saggio, altrimenti non avrebbe ardito rivolgergli una simile domanda, che rivelava il suo desiderio di conoscere, per seguirne l’esempio, il segreto del loro successo. In sostanza, le aspirazioni di Hsüan non andavano al di là dell’acquisto della potenza d’un egemone. La domanda viene elusa da Mencio, che sperava di fare di lui un imperatore. 14. Il testo dice: pu wei (non fai) e il commento spiega: pu k’ên wei (non vuoi fare). Mi sembra più aderente al senso del discorso tradurre «non vuoi», che si contrappone più logicamente a «non puoi». 15. Il popolo ha una natura perseverante quando si conforma al senso morale conferitogli dal Cielo. In proposito vedi citazione del Libro dei Documenti riportata alla nota 131 a DI 403. 16. Come si vede, Mencio ha condotto il re Hsüan ad ammettere, a sostegno della tesi successivamente esposta, che un piacere riesce tanto più gradito quanto maggiore è il numero delle persone con le quali è condiviso. In altre parole: il principe può gustare i suoi piaceri solo se ne rende partecipe tutto il popolo. Al riguardo vedi n. 2. 17. Su T’ang e il conte di Ko vedi CS 10 ed il n. 56. Non si hanno notizie sulle relazioni del re Wên con i barbari K’un. 18. T’ai Wang è il titolo postumo di Tan-fu, avo del fondatore della dinastia Chou (vedi CS 15). Sui rapporti di costui con i barbari vedi nn. 21 e 22. Kou Chien era principe del regno di Yüeh. 19. Mencio cita questo passo della Grande Dichiarazione del re Wu con notevoli varianti. 20. Il Palazzo della Neve era una villa che serviva di base al re per le sue escursioni nel paese. Era situata nell’odierno distretto di Ling-chi, nello Shantung. 21. Trattasi del ministro di Ch’i nominato Yen Ying in BC 7 e Yen P’ingchung in DI 108. Si noti che Mencio non raccontava a Hsüan antiche storie della sua famiglia, in quanto il duca Ching (sul trono 547-489) apparteneva alla dinastia di Ch’i detronizzata nel 380 dall’antenato di Hsüan (vedi BM 7). 22. Cioè i principi dei piccoli stati dipendenti (fu yung) che non avevano accesso all’imperatore (vedi n. 133). 23. La musica shao era quella dell’imperatore Shun. Nel simbolismo della musica cinese, delle cinque note conosciute la quarta (chi) rappresentava gli affari di governo e la terza (chiao) il popolo. 24. Del Ming Tang (Sala Luminosa) si è già parlato (vedi PF 9). Questo palazzo era il simbolo dello splendore dei Chou: all’epoca di Mencio era fatiscente. 25. Il territorio di Ch’i, del quale qui si parla (da non confondersi, nonostante l’omofonia, con lo stato di Ch’i del re Hsüan), era stato occupato dall’avo Tan-fu che vi aveva fondato lo stato di Chou (vedi CS 15). 26. Si coltivava un campo su nove per il principe secondo il sistema del ching, di divisione cioè

della terra in nove appezzamenti, su cui erano installate otto famiglie, ognuna delle quali coltivava per sé un appezzamento, mentre il nono era coltivato in comune per soddisfare l’imposta (vedi nota 81 al n. 49). Gli emolumenti dei funzionari erano ereditari nel senso che i figli di costoro ricevevano un assegno per gli studi: quelli che dimostravano capacità e talento erano impiegati negli uffici, mentre agli altri veniva assicurata una pensione. 27. Su Kung Liu, avo dei Chou, che si trasferì da Tai a Pin, vedi CS 9. 28. Chu Hsi spiega: «Onorare i patrizi ed amare i parenti è la norma dei riti. Ma poiché i patrizi e i parenti non sono necessariamente dotati di virtù, allora bisogna far avanzare i virtuosi e servirsi di essi, ancorché estranei e lontani: questo è far sì che gli uomini di bassa estrazione sorpassino i patrizi e gli estranei sorpassino i parenti. Non è la norma dei riti. Perciò non si può non essere prudenti». 29. Su T’ang e l’imperatore Chieh Kuei vedi CS 10. L’imperatore Chou Hsin si suicidò dopo la sconfitta ad opera del re Wu (vedi CS 22). 30. L’i equivale a 20 liang (once) il cui peso odierno è di circa 37 grammi ciascuna. Presumibilmente il valore è epresso in argento. 31. Sul pretesto per l’attacco allo stato di Yen vedi n. 40. Sull’intera questione vedi BM 10-11. 32. Con l’annessione del grande stato di Yen, Ch’i aveva rotto il precario equilibrio con le altre grandi potenze dell’epoca, le quali ora erano disposte a dimenticare le loro discordie per unirsi contro Ch’i. Si verificava così la situazione sulla quale Mencio aveva ammonito Hsüan: «Con uno sopraffare otto» (vedi n. 7). 33. La citazione presenta qualche variante al testo originario. 34. Sull’episodio vedi BM 9. 35. Sull’episodio vedi CS 15. 36. Discepolo di Mencio dal cognome bisillabico Yo-chêng, di nome K’ê. La successiva affermazione del discepolo contrasta con quanto è noto per tradizione, e cioè che il padre morì quando Mencio era bambino (vedi BM 1). Sugli effetti della mancata visita del duca di Lu a Mencio vedi BM 14. 37. Secondo il rituale, nei sacrifici funebri per i genitori i letterati offrivano tre specie di cibarie: pesce, maiale e carne secca; i dignitari ne offrivano cinque: montone, maiale, pesce, carne secca e carne tritata. 38. Il senso del discorso è: quando morì il padre, Mencio gli fece un funerale adeguato alla sua condizione di letterato e di povero; quando morì la madre, le fece un funerale conforme alla sua condizione di dignitario e di persona agiata. 39. Kung-sun Chou, discepolo di Mencio, era nativo di Ch’i: per questo pone la sua domanda facendo riferimento ai due grandi ministri di Ch’i, Kuang Chung (vedi CS 34) e Yen-tzu (vedi nota 21 al n. 11). 40. Sull’opinione dei confuciani in merito a Kuang Chung vedi DI 62. 41. La dinastia Shang, fondata da T’ang, cambiò la denominazione in Yin nel 1388 a. C. sotto l’imperatore P’ang Kêng (vedi CS 13). Wu Ting fu il 200 imperatore della dinastia. 42. Su questi personaggi vedi CS 22 e 26. Wei Chung era il secondo figlio o fratello (chung = secondo fratello o figlio) del visconte di Wei. 43. Traduco «non provare emozioni» e «impassibilità», l’espressione del testo pu tung hsin, che letteralmente significa «non muovere (o commuovere) il cuore», ossia la mente. Chu Hsi così intende la domanda del discepolo: «(Per fare un capo dei feudatari o un imperacore) la responsabilità è grande e i doveri sono pesanti. Non hai timori e dubbi per cui si emozioni la tua mente?». 44. Meng Pên, cittadino di Ch’i, era famoso per il suo coraggio e la sua forza: non temeva né uomini né fiere ed era capace di strappare le corna dalla testa d’un toro. Il discepolo cita a sproposito l’esempio di Meng Pên, dato che l’impassibilità di costui derivava da coraggio fisico. Sull’impassibilità che consegue al perfezionamento di sé dopo aver corretto il proprio cuore vedi GS

7.

45. Sul filosofo Kao, avversario di Mencio, vedi nota 174 al n. 141. Mencio lo cita come esempio della facilità con cui si perviene all’impassibilità, anche da chi non segue la Via. 46. Nessuna notizia è data su Pei-kung Yu e su Meng Shê. Su quest’ultimo può azzardarsi l’ipotesi che sia lo stesso Meng Pên di cui s’è parlato prima. 47. In fatto di coraggio, Pei-kung Yu teneva soprattutto a prevalere sugli altri, Meng Shê a dominare sé stesso. Per la conoscenza, Tzu-hsia s’affidava completamente a Confucio, Tsêng-tzu cercava i princìpi nel proprio intimo. Secondo Mencio, Pei-kung e Meng somigliavano, per l’esteriorità o l’interiorità degli impulsi, rispettivamente ai due discepoli di Confucio. 48. Traduco con «spirito vitale» la parola ch’i (fiato, spirito vitale). Il ch’i è la parte inferiore, attiva, della psiche umana, sede della sensibilità, dell’istinto e delle passioni. La parte superiore è lo hsin (cuore, mente), di cui Mencio, parlerà in seguito, sede dell’intelletto e della volontà (vedi nota 14 a GS 7): Mencio la indicherà anche con la parola chih (volontà). 49. Chu Hsi spiega: «Kao-tzu dice che, se nelle parole v’è qualcosa di incomprensibile, bisogna lasciarle da parte e non si deve cercarne la ragione nell’intelletto; se nell’intelletto v’è qualcosa che lo turba, bisogna dominarlo fortemente e non si deve attingere ausilio dallo spirito vitale. Questa è la premura con cui tiene saldamente il proprio intelletto e non lo fa commuovere. Citato quel discorso. Meng-tzu lo giudica dicendo: quando costui afferma che ciò che non si è ottenuto dall’intelletto non si deve cercare nello spirito vitale, lo si può approvare perché mostra premura per il principale e noncuranza per il secondario; ma quando afferma che ciò che non si è trovato nelle parole non si deve cercare nell’intelletto, non lo si può approvare poiché, essendovi già stato un errore all’esterno, egli vi insiste trascurando il suo intimo. 50. Chu Hsi spiega: «Intendere le parole significa sforzarsi di comprenderne lo spirito. Fra tutte le parole del mondo non ve n’è alcuna di cui non si debba esaminare a fondo la ragione e conoscere il diritto e il torto, la giustezza o l’errore. Dello spirito vitale è pervaso il corpo. Originariamente è di per sé rigoglioso e fluido: langue perché lo si nutre in modo errato. Meng-tzu lo nutre con cura per ricondurlo alle sue qualità originarie. Solo comprendendo le parole, divengono chiare la Via e la giustizia del saggio e non si hanno dubbi sulle questioni di questo mondo. Educando lo spirito vitale, si eguaglia la Via e la giustizia del saggio e non si ha timore delle questioni di questo mondo. In tal modo l’uomo è all’altezza di grandi responsabilità e resta impassibile. L’insegnamento di Kao-tzu è diametralmente opposto: la sua impassibilità è stupida insensibilità e crudele indifferenza». 51. Il commento spiega che lo spirito vitale è originariamente senza limite e misura; non può piegarsi né cedere poiché è il corretto afflato (ch’i) del Cielo e della Terra, che l’uomo riceve per vivere. 52. L’ode riporta l’invocazione di un uccellino alla civetta affinché, dopo avergli rapito i piccoli, non distrugga anche il suo nido. Si tratta d’una metafora, con la quale il duca Chou giustifica la sua azione per la salvezza della dinastia Chou (il nido) contro Wu-kêng (la civetta), che aveva condotto alla rovina i suoi tre fratelli Kuan Shu, Ts’ai Shu e Ho Shu (vedi CS 27). 53. Sulla collaborazione nella coltivazione del campo comune vedi nota 81 al n. 49. 54. In proposito il commento cita il Chou Li (Riti dei Chou), secondo cui le residenze nelle quali non si coltivavano gelso e canapa erano tenute a corrispondere un tributo di tela (li pu) pari a quello dovuto da un villaggio di 25 famiglie; un uomo senza un’occupazione fissa doveva pagare un’imposta (fu pu) pari a quella dovuta per 100 mu di terra. All’epoca di Mencio di tali imposte, intese a colpire i ricchi, venivano gravati anche i mercanti. 55. Vedi DI 67. 56. Nella frase è richiamata l’attività delle Tre Potenze: il Cielo, la Terra e l’uomo. In effetti, qui si pone a confronto il valore del momento propizio per le circostanze predisposte dalla volontà divina, della situazione vantaggiosa del terreno e della concordia fra gli uomini. Nel discorso che segue mi avvarrò di queste espressioni.

57. L’episodio mostra che i rapporti tra Mencio e il re Hsüan non erano cordiali (vedi BM 10), tanto che Mencio rilevò questa inosservanza del re all’etichetta nei rapporti tra principe e saggio. Non sapendo dell’intenzione di Mencio di visitarlo, il re, che non voleva esser primo a far visita, prese la scusa d’una lieve indisposizione per invitarlo a corte. Rispondeva alla convenienza che Mencio, un maestro forestiero venuto per istruire, si recasse a corte di sua iniziativa, ma non che fosse convocato dal principe: se costui avesse desiderato di parlargli, per rispetto avrebbe dovuto muoversi egli stesso per recarsi da lui. Mencio rifiutò l’invito con la stessa scusa addotta dal re onde render chiaro che si trattava proprio d’una scusa ed indurre il re a rendersi conto della scorrettezza commessa. 58. Ching Chou era un dignitario di Ch’i. Le parole di scusa di Meng Chungtzu, cugino e discepolo di Mencio, avevano tolto all’atteggiamento del saggio il suo significato di ripulsa della convocazioce a corte. Perciò Mencio fu costretto a compiere un nuovo gesto che confermasse il precedente rifiuto. 59. Con queste parole Mencio allude a sé stesso, che in quel momento ncn ricopriva cariche ufficiali, a differenza di Kuan Chung al suo tempo. Chu Hsi annota: «Il signor Fan dice: “A Ch’i, Mencio aveva la posizione di maestro forestiero e non aveva i doveri ufficiali d’un funzionario: per questo parla in quel modo”». Sull’importanza di tale commento vedi BM 4. 60. Dato il valore dell’i (gr. 740 circa, vedi nota 30 al n. 16), i doni di cui si parla sarebbero stati, al peso odierno, rispettivamente di circa 74, 52 e 37 chili. Per indicare il metallo del dono nel testo è usata la parola chin (metallo, oro), ma può dubitarsi che si trattasse d’argento, che rappresentava la moneta dell’epoca. 61. Nessuna notizia si ha sul motivo della preoccupazione di Mencio per la sua vita. Chu Hsi si limita ad annotare: «A quel tempo v’era qualcuno che voleva fare del male a Meng-tzu, il quale assunse dei soldati per proteggersi contro di lui». 62. Sembra che la madre fosse a Ch’i insieme a Mencio: si deve quindi presumere che, alla sua morte, ne portò la salma a Lu. Il successivo discorso del discepolo Ch’ung Yü fa intendere che Mencio non si fermò a lungo a Lu, ma forse trascorse il triennio del lutto nella citata città di Ying, situata nella parte meridionale di Ch’i, nei pressi del confine fra i due stati. 63. Nel testo l’azione viene sempre descritta dal verbo fa, che significa «castigare un ribelle, ridurre all’ordine un dipendente», azioni queste riservate all’imperatore, ed anche «attaccare, invadere», Nel seguito del discorso traduco usando i verbi italiani che più si adattano a renderne il senso. 64. Sulla cessione del regno al ministro Tzu-chih da parte di Tzu-k’uai, principe di Yen, vedi BM 11. I governanti di Yen erano meritevoli d’essere castigati dall’imperatore, come è sottinteso dall’uso del verbo fa, di cui alla nota precedente) perché avevano ceduto ed accettato il feudo, di cui solo il Figlio del Cielo poteva disporre. 65. Il significato è: perché avrei consigliato Ch’i, che è eguale a Yen nel commettere azioni illegittime, di castigare Yen? 66. Dopo due anni di occupazione (vedi BM 11), il popolo di Yen si era sollevato contro Ch’i e aveva posto sul trono P’ing, figlio di Tzu-k’uai, poi noto con il nome di re Chao. Tale sollevazione segnava il fallimento della politica di conquista del re Hsüan, il quale non aveva dato ascolto ai consigli di Mencio, di cui ai nn. 17 e 18. 67. Kuan Shu, di nome Hsien, fratello del re Wu e del duca Chou, era stato inviato a sorvegliare Wu-kêng, figlio dell’imperatore Chou Hsin, al quale il re Wu aveva assegnato il feudo di Yin (vedi CS 27). 68. Chu Hsi annota: «A lungo Mencio era stato a Ch’i, ma la Via non era seguita. Perciò se ne andò». Sull’importanza di questo commento vedi BM 4. Le attuali dimissioni di Mencio, quindi, non devono essere collegate all’invasione di Yen, di cui si parla in queste pagine, bensì al fallimento della sua opera di persuasione svolta nella prima permanenza a Ch’i.

69. Si deve supporre che l’appannaggio consistesse in frumento. Un chung equivarrebbe oggi a lt. 662 circa. La sbalorditiva cifra di 10.000 chung sta qui ad indicare «un ricco appannaggio». In seguito Mencio dirà d’aver rinunciato a 100.000 chung: deve intendersi il suo maggior stipendio di ministro. Evidentemente il re Hsüan, che si era dimostrato così favorevole alle dimissioni di Mencio, trovava comodo averlo come modello per i suoi sudditi, ma non come ministro. 70. Il commentatore non fornisce notizie sui due personaggi Chi Sun e Tzu Shu-i. 71. Tzu-szu era il nipote di Confucio, Hsieh Liu un letterato di Lu e Shên Hsiang il figlio di Tzuchang, discepolo di Confucio. 72. Questo Kao-tzu era un discepolo di Mencio, da distinguersi dal filosofo Kao, di cui al n. 25. I due personaggi hanno cognomi diversi benché omofoni. 73. Ne sarebbero stati consolati tutti i popoli, perché egli intendeva far sorgere un sovrano che conquistasse l’impero con la carità e non con la violenza. 74. Mencio si riferisce all’insegnamento della storia: infatti, gli Hsia avevano retto l’impero per 439 anni e gli Shang per 644 anni. 75. La frase riflette la constatazione di Mencio che solo lui andava predicando che l’impero poteva essere riordinato con sistemi pacifici, mentre i consiglieri aulici dell’epoca, in un modo o nell’altro, propugnavano la violenza (vedi CS 42 e BM 15). 76. Questo dialogo, evidentemente, si svolse alla fine della seconda permanenza di Mencio a Ch’i (vedi BM 4 e 10). 77. I principi di Têng, per la modesta ascendenza materna del loro capostipite (vedi BM 9), guardavano con reverenza ai principi di Lu, eredi del grande duca Chou, fratellastro del capostipite stesso. Sembra inverosimile l’affermazione che i precedenti principi di Lu e di Têng non osservassero il lutto triennale per i genitori. 78. L’ultimo periodo è una citazione di DI 297. 79. Per riparare il tetto di paglia. D’inverno i contadini abitavano nel villaggi, nel periodo dei lavori campestri in capanne di paglia nei campi. 80. La frase può anche tradursi: «Se tieni alla ricchezza non essere caritatevole, se tieni alla carità non essere ricco». Yang Hu era il ribelle ministro della famiglia Chi di Lu (vedi BC 8). 81. Gli appezzamenti di terra dell’estensione indicata nel testo erano assegnati a ciascun capofamiglia. Per l’imposta gli Hsia prelevavano il prodotto di cinque mu (medio, non reale), cioè la decima parte del reddito del contadino, mentre gli Yin e i Chou incameravano il prodotto del campo comune del sistema del ching. Il ching era formato da un terreno di 630 mu sotto gli Yin e di 900 mu sotto i Chou, diviso in nove appezzamenti di 70 o 100 mu ciascuno, sui quali erano insediate otto famiglie ad ognuna delle quali era assegnato un appezzamento, mentre il nono, quello centrale, era coltivato in comune per soddisfare l’imposta. In realtà, il prelevamento del fisco nelle epoche Yin e Chou era pari all’undecima parte del prodotto totale del ching, se si tien conto che dal campo fiscale doveva detrarsi il terreno (rispettivamente di 14 e di 20 mu) riservato alle abitazioni delle otto famiglie (vedi nota 5 al n. 3) e in cui era scavato il pozzo (ching=pozzo): rimaneva così a disposizione dell’imposta, limitando la dimostrazione alle cifre relative alla dinastia Chou, un campo di 80 mu, con un carico di 10 mu per famiglia, la quale in sostanza coltivava 110 mu di terra e consegnava allo stato l’undecima parte del prodotto totale. Analogo calcolo può farsi, con diverse cifre, per l’imposta pagata sotto gli Yin. La singolarità di questo sistema consisteva in ciò che, lo stato cedendo un po’ più di terra e il contribuente fornendo un po’ di lavoro in più, ambedue le parti avevano la sensazione di ottenere l’intero dell’aliquota che a loro spettava: lo stato, infatti, introitava un’imposta pari ad 1/10 del reddito del contadino, mentre questi si teneva i 10/10 del reddito del suo campo. Per questo Mencio osserva che tutti e tre i sistemi possono ricondursi alla decima. La differenza tra il sistema tributario degli Yin e quello dei Chou stava in questo: nel primo la coltivazione del nono

campo era fatta in collaborazione (chu) tra le otto famiglie, per cui esse erano solidali di fronte al fisco; nel secondo la coltivazione del nono campo era ripartita (ch’ê) tra le otto famiglie, ciascuna delle quali rispondeva solo della propria quota d’imposta. Il sistema fu abolito dalla dinastia Ch’in.

Il ching. 82. Sull’ereditarietà degli emolumenti vedi nota 26 al n. 12. Mencio si occupa qui anche di questo argomento, insieme a quello della certezza delle imposte, in relazione ai suoi consigli sul modo di assicurare un reddito costante al popolo. 83. Il commento spiega: «La scuola hsiang aveva il compito di nutrire (cioè di aver cura de) i vecchi (affinché i giovani imparassero la reverenza per gli anziani), la scuola hsiao di istruire il popolo, la scuola hsü di esercitare nel tiro con l’arco: tutte queste erano scuole di villaggio. La scuola hsüeh era la scuola dello stato». 84. In modo da assettare la terra e da formare i ching, mediante l’apertura di fossi e canali, con appezzamenti di pari valore. All’epoca, tale sistemazione veniva intenzionalmente trascurata, in quanto la disparità delle terre rendeva più facili i brogli nella percezione delle imposte. 85. Il campo sacro, concesso ai funzionari per le necessità dei sacrifici, era esente da ogni gravame (cfr. Memorie sui Riti, III, 3, 11). Un campo di 25 mu era assegnato per i fratelli minori celibi, di età non superiore ai 16 anni, che non erano compresi nel gruppo genitori-capofamigliamoglie-figli, il cui mantenimento era assicurato dal campo di 100 mu. 86. Su Shêng Nung, il Divino Agricoltore, vedi CS 2. Hsü Hsing apparteneva alla scuola degli agricoltori (vedi CS 38). 87. Secondo il commentatore i nove fiumi sono: il T’u-hsieh, il T’ai-shih, il Ma-chieh, il Fu-fu, il Hu-su, il Chien, il Chieh, il Kou-p’an e il Kê-ching, tutti affluenti del Fiume Giallo. Anche il Ch’i è un suo affluente, mentre il T’a si getta nel T’u-hsieh sopra nominato: ambedue giungono al mare con le acque del Fiume Giallo. Per quanto riguarda gli ultimi fiumi di cui si parla nel testo, il commento rileva che il compilatore è incorso in errore, poiché in realtà solo il Han si getta nel Kiang (Yang-tzekiang), mentre il Ju e lo Szu affluiscono al Huai, che sfocia in mare. 88. Per tutti questi personaggi vedi CS 5. 89. Citazione, con varianti, di DI 202 e 203. 90. Citazione dell’ode II, 6, 1. 91. Sul filosofo Mo Ti, fautore dell’amore universale, vedi CS 37. Hsü Pi era un discepolo di Mencio. 92. I dotti erano 1 seguaci della scuola confuciana (vedi CS 38). La citazione è tratta dal Libro dei Documenti (V, 9, 9). Vedi anche GS 9. 93. La colpa ricade su chi ha il dovere di proteggere il bambino. Nel Libro dei Documenti l’intera frase così suona: «(Governa) come se proteggessi un pargolo e il popolo vivrà in pace e in ordine». In essa i confuciani riconoscevano una norma per i governanti di curare ed istruire il popolo, al quale, se tenuto nell’ignoranza, non poteva essere addossata la colpa di violare le regole del viver civile. 94. Il discepolo rimprovera il Maestro perché non si fa avanti per ottenere incarichi di governo. Mencio non si recava, senza essere chiamato, alla corte dei feudatari conformandosi, a differenza dei letterati della sua epoca, al riserbo degli antichi saggi.

95. La bandiera ornata di piume serviva per chiamare un dignitario, mentre il segnale per chiamare il guardaboschi era un berretto di pelle (vedi n. 138). 96. Su Chao Chien-tzu, dignitario di Chin, vedi BC 20. Wang Liang era il suo auriga, famoso per l’abilità nel condurre i carri. 97. Il discorso significa: Hsi è un pessimo arciere poiché non riesce a colpire l’animale quando l’inseguo secondo le regole, cioè da dietro, ed esso si presenta come un piccolo bersaglio; lo colpisce invece quando, infrangendo le regole, lo intercetto di fianco ed esso si presenta come un grosso bersaglio. 98. Chang I era uno degli esponenti della scuola dei politici, che propugnava la confederazione dei grandi stati sotto l’egemonia di Ch’in (vedi CS 38). Ching Ch’un e Kung-sun Yen erano seguaci della stessa scuola. Tutti erano originari di Wei (Liang). 99. Per render chiaro il discorso di Mencio traduco il commento: «All’epoca dei Regni Combattenti mancava del tutto la Via dei santi e dei virtuosi, di cui l’impero più non vedeva la pienezza della virtuosa professione. In sua vece vedeva professare l’inganno e l’intrigo da chi realizzava le proprie aspirazioni operando perversamente e brillando di fiamma temibile: di conseguenza costoro erano considerati grandi uomini. Essi non sapevano riguardare le questioni da saggi, appunto alla maniera delle mogli e delle concubine (le quali attendono che il marito dica loro che cosa devono fare). A che vale menzionarli?» Insomma, Mencio rimprovera ai letterati del suo tempo di seguire supinamente la volontà dei principi, come fanno le donne che non discutono gli ordini del marito. 100. Chou Hsiao, cittadino di Wei (Liang), era uno dei letterati vaganti, a cui ho già fatto cenno, che si aggiravano nelle corti offrendo consigli e servigi. 101. Il dono era un gesto di cortesia fatto per propiziarsi la persona che si andava a visitare: nel caso specifico era destinato al principe alla cui corte Confucio si recava, in segno di offerta dei propri servigi. Il dono presentato a tale scopo dai letterati era un fagiano. 102. Mencio cita liberamente alcuni passi delle Memorie sui Riti. Riporto qui di seguito il sunto che ne dà Chu Hsi: «Il feudatario s’avvale d’un campo di cento mu, che egli, indossando il berretto di cerimonia con il cordone azzurro, ara personalmente ponendo mano all’aratro, mentre il popolo lo aiuta portando a termine il lavoro. La messe è raccolta e posta nel granaio per rifornire di miglio il tempio degli antenati. Comanda alle donne della famiglia di allevare il baco nel recinto di gelsi intorno alla casa ducale e di mostrargli i bozzoli, che poi presenta alla moglie. Questa li riceve nell’acconciatura e negli abiti di cerimonia, ne trae tre fili e distribuisce i bozzoli alle dame dei tre palazzi, che ne ricavano i fili per gli ornamenti degli abiti da indossare nei sacrifici ai precedenti re e duchi… Se il letterato ha il campo sacrifica, se non ha il campo non compie l’offerta». Il letterato otteneva il campo sacro quando assumeva l’impiego: esser privo dell’impiego, quindi, era questione grave in quanto, senza il campo sacro, il letterato non poteva offrire i sacrifici agli antenati. Sull’argomento vedi anche PF 5 e n. 49. 103. Per Chin deve intendersi il regno di Wei, o Liang, sul quale vedi nota 9 al n. 5. È da tener presente che l’interlocutore di Mencio era cittadino di Wei. 104. Il discepolo P’êng Kêng domanda se non è eccessivo il comportamento di Mencio che è sussidiato, insieme ai suoi discepoli, dai feudatari ma non assume impieghi. È un modo indiretto di esortarlo ad entrare al servizio di un principe. 105. Citazione, con varianti, del Libro dei Documenti (V, 3, 7). 106. Tuan-kan Mu, cittadino di Wei, evitò di incontrare il duca Wên di Wei; Hsieh Liu, di cui al n. 43, impedì l’ingresso al duca Mu di Lu. 107. Sull’episodio vedi BC 8 e DI 435. 108. Chu Hsi annota che Yen era uno stato che appoggiava il governo crudele di Chou Hsin e Fei Lien era un ministro di questo imperatore. Il regno di Yen, di cui si parla, era situato nell’odierno Shantung e, nonostante l’omofonia, è da distinguersi dal grande regno di Yen che fu invaso dal re

Hsüan (vedi BM 10). 109. Per il commento di Chu Hsi in proposito vedi BC 29. 110. Su Yang Chu, il filosofo dell’egoismo, e Mo Ti, il filosofo dell’amore universale, di cui si è già parlato, vedi CS 37. 111. Ambedue i personaggi erano cittadini di Ch’i: il primo era un alto funzionario, il secondo apparteneva ad una nobile famiglia. 112. Li Lou, contemporaneo di Huang Ti, aveva una vista così acuta che riusciva a vedere un capello a cento passi di distanza. Kung Shu-tzu, vissuto all’epoca di Confucio, era un famoso artigiano di Lu, costruttore di meravigliosi oggetti meccanici. K’uan, vissuto in epoca di poco anteriore a quella di Confucio, era maestro di musica nello stato di Chin. I sei liu (tubi) costituivano il diapason cinese. La musica cinese conosceva cinque note. 113. Il commento spiega che la bontà è vuota quando si ha il sentimento degli antichi re ma non si attua la loro forma di governo; un modello è vuoto quando si attua la loro forma di governo ma non si ha il loro sentimento. 114. Li Wang e Yu Wang furono rispettivamente il decimo e dodicesimo imperatore della dinastia Chou, che provocarono la decadenza della dinastia (vedi CS 31). 115. Cioè Chou Hsin, ultimo imperatore Yin, per la sua condotta e per il destino che l’attendeva poteva specchiarsi nella condotta e nel destino di Chieh Kuei, ultimo imperatore Hsia (vedi CS 17). 116. Le tre dinastie (Hsia, Shang o Yin, Chou) acquistarono l’impero per la carità di Yü, di T’ang e di Wên e Wu e lo perdettero per la malvagità di Chieh Kuei, di Chou Hsin e di Li Wang e di Yu Wang. In realtà, mentre Mencio era in vita la dinastia Chou, anche se non deteneva più alcun potere, non aveva ancora perduto ufficialmente il trono, che le fu tolto nel 256 a. C. dai Ch’in (vedi CS 47). L’anacronismo è significativo perché pone in luce ciò che all’epoca si pensava della situazione politica dell’impero. 117. Cioè non conserveranno lo stato, i primi, e la dignità della casata, i secondi (vedi PF 3-4). 118. Cioè nell’individuo che si perfeziona, come detto in GS 8. 119. li fatto è riportato come esempio di sottomissione alla volontà divina. II regno di Ch’i era minacciato di guerra dal suo potente vicino, il regno barbaro di Wu. Il duca Ching rinunciò a tentare la via delle armi ed accettò le condizioni di pace, adducendo la ragione riportata nel testo. Questo duca Ching è quello di cui si parla in BC 7. 120. Tutto il discorso è una ripetizione, con qualche variante, di quello riportato in IM 20. 121. I due personaggi ritennero che la benignità del re Wên verso i vecchi fosse l’indice della sua carità. Po-i accolse con favore l’ascesa del re Wên, il Conte Occidentale, ma poi fu severissimo con il re Wu, quando questi detronizzò la dinastia Yin (vedi CS 25). T’ai-kung (o T’ai-kung-wang) era il titolo attribuito a Liu Shang, consigliere di Wên e tutore e suocero di Wu (vedi CS 20). 122. Sul discepolo Chiu (Jan Chiu), intendente della famiglia Chi, vedi BC 22. Sull’episodio narrato nel testo vedi DI 269. 123. In questo discorso Mencio allude apertamente a coloro che impedivano l’attuazione della sua dottrina del governo caritatevole: i cultori dell’arte militare, i fautori delle alleanze, i seguaci della scuola degli agricoltori (vedi BM 15 e CS 38 e 42). 124. Affinché le loro mani non si tocchino. La prescrizione è contenuta nelle Memorie sui Riti (I, pt. I, 3, 31). Ch’un-yü K’un, cittadino di Ch’i, era un sofista della scuola dei dialettici (vedi CS 38). 125. Yo-chêng-tzu è il discepolo di Mencio di cui si è già parlato (vedi n. 23). Tzu-ao è quel Wang Huan, che sembra non fosse persona gradita a Mencio (vedi ME 38 e 116). 126. Le tre mancanze alla pietà filiale erano: incoraggiare i genitori all’iniquità mediante adulazioni; non aiutarli nella povertà e nella vecchiaia rifiutando di assumere impieghi lucrativi; non prender moglie e restare senza discendenza, facendo così cessare i sacrifici agli antenati.

127. Con l’ultima frase Mencio indica la massima espressione del sentimento. È la citazione d’un brano della «Grande Prefazione» al Libro delle Odi, in cui è detto: «La poesia è il prodotto dell’inclinazione del cuore: quando (il sentimento) sta nel cuore è inclinazione, quando si manifesta nelle parole è poesia. Il sentimento si agita nell’interno e prende forma con le parole: quando queste sono insufficienti si esprime con esclamazioni e gemiti, quando questi sono insufficienti si esprime con il canto prolungato, quando questo è insufficiente inconsciamente le mani accennano gesti di danza e i piedi battono il suolo». 128. Sui rapporti di Shun con la famiglia vedi CS 5 e il n. 124. 129. Il contrassegno (fu) era un oggetto di legno o di giada, recante incisi dei caratteri, che veniva tagliato in due pezzi: ciascuna delle parti ne conservava uno. Il combaciare delle due metà dava la prova della buona fede e dell’identità dei messi delle parti nelle circostanze future. 130. Sul dignitario Tzu-ch’an vedi DI 107. 131. Cioè, principi e ministri formano un sol corpo. Al riguardo vedi IM 20. 132. Nel Libro del Rituale (XI, 5, 9) è detto: «Quando un dignitario se ne va (perché i suoi consigli non sono ascoltati), il principe fa tener pulito il suo tempio ancestrale. Perciò (il ministro) porta il lutto per tre mesi (alla morte del principe), come uno dei suoi sudditi. Di quale dignitario si parla? Di quello che ha lasciato il principe per un giusto motivo e con il quale non ha interrotto i rapporti». 133. Il discorso può anche tradursi «Non vi sono parole veramente funeste. Considera veramente funeste (solo) quelle che gettano nell’ombra l’uomo virtuoso». Chu Hsi, che suggerisce queste due versioni, confessa di non sapere a quale attenersi e avanza il dubbio che il testo sia lacunoso. 134. Hsü-tzu è il discepolo Hsü Pi. Per il discorso di Confucio sull’acqua, di cui Mencio dà qui una sua interpretazione, vedi DI 221. 135. Il commento annota che nel Chan Kuo T’sê (Raccolta di Ordini dei Regni Combattenti) è scritto: «I Ti faceva un vino che Yü beveva e gradiva. Tuttavia Yü disse: “Nelle generazioni future vi sarà chi perderà il regno a causa del vino”. Perciò destituì I Ti e smise di bere il buon vino». 136. Secondo il commento, la sovranità imperiale dei Chou andò perduta quando P’ing Wang trasferì la capitale da Hao a Lo, nel 770 a. C. (vedi CS 30). Le odi che ebbero fine sono quelle delle due sezioni Ya, che descrivono i fasti della dinastia Chou. 137. Il t’ao-wu era una favolosa belva simile ad una tigre, con il corpo lungo due piedi e la coda diciotto. Aveva il volto di uomo e le zanne di cinghiale. Anticamente veniva così chiamato un uomo crudele: gli annali di Ch’u ebbero tale titolo per le crudeli punizioni che vi sono ricordate. 138. I due personaggi furono i più potenti capi dei feudatari (vedi CS 35). 139. Cioè presso un allievo di Tzu-szu, nipote di Confucio. Mencio vuol significare che egli, appartenendo alla quinta generazione, poté godere dell’influenza di Confucio. Le cinque generazioni erano: Confucio, Tsêng-tzu (suo discepolo), TZU-SZU (discepolo di Tsêng-tzu vedi BC 32), maestro di Mencio (discepolo di Tzu-szu vedi BM 2), Mencio stesso. 140. I era un arciere dell’epoca dell’imperatore Yao, famoso nei secoli per la sua abilità. Nei riguardi di P’ang Meng, Chu Hsi annota che era uno dei servi della casa, i quali uccisero I. Deve ritenersi che costui trovò la morte in una congiura. 141. Hsi-tzu (la «Signora d’Occidente») era una povera fanciulla di meravigliosa bellezza, di nome Shih I, contemporanea di Confucio. Fu inviata dal principe di Yüeh al suo nemico principe di Wu, che se ne invaghì e per lei trascurò gli affari di governo. Su suggerimento del commentatore, in opposizione alla bellezza sopra citata, traduco con «uomo brutto» l’espressione del testo è jên (uomo malvagio). 142. Kung Hang-tzu era un dignitario di Ch’i. La frase del testo è costruita in modo che può intendersi che si trattava tanto del funerale del figlio quanto di quello di uno dei genitori del personaggio («celebrava il funerale da figlio»): alcuni traduttori si attengono a quest’ultima versione. Il dignitario (Consigliere della Destra) che si recò per le condoglianze a nome del principe era Wang

Huan (Tzu-ao), favorito del re Hsüan, di cui ai nn. 38 e 85. 143. I tre personaggi nominati sono Yü e Hou Chi, ministri di Shun (vedi CS 5), e Yen Hui, discepolo di Confucio. 144. Wu-ch’êng era una città del regno di Lu, dove Tsêng-tzu, discepolo di Confucio, aveva aperto una scuola. 145. Citazione del Libro dei Documenti (II, 2, 21). 146. Ch’ang Hsi fu discepolo di Kung-ming Kao, che a sua volta era stato discepolo di Tsêng-tzu. 147. Dal primo attentato Shun si salvò facendosi schermo con due graticci di bambù, dal secondo uscendo dal pozzo per un passaggio laterale segreto, che aveva scavato in precedenza. 148. Tutta la frase è una citazione del Libro dei Documenti (II, 1, 12), che non precisa il nome del ministro dei lavori. Huan-tou era ministro dell’istruzione di Yao e Kun il padre del futuro imperatore Yü (vedi CS 4). 149. Citazione del Ku Shu (Scritti Antichi). 150. Cioè al posto spettante all’imperatore. Shun sostituì Yao nel governo a causa della tarda età di costui (vedi CS 4). 151. Il Canone di Yao è uno dei capitoli del «Libro di Yü» nei Documenti. Oggi la frase citata è situata nel Canone di Shun (II, 1, 13). Gli otto suoni sono quelli del metallo, della pietra, della corda di seta, del bambù, della zucca, della terracotta, della pelle e del legno: materiali, questi, che formavano la parte sonora dei vari tipi di strumenti musicali. 152. L’ode riporta il lamento d’un ufficiale che è stato inviato in lontane contrade al servizio del sovrano e perciò non può prestare le sue cure filiali ai genitori. Per intendere le successive parole di Mencio, occorre conoscere i versi che completano la stanza: «I dignitari non sono leali ed io disimpegno il servizio come se fossi l’unico capace». 153. Il significato di quest’ultima frase è il seguente: normalmente è il padre che incammina il figlio sulla via della virtù, ma nel caso di Ku-sou e di Shun fu il figlio che vi istradò il padre. Perciò Ku-sou, che sotto ogni altro aspetto era oggetto di venerazione filiale da parte di Shun. per quanto riguarda la virtù si comportò da figlio. 154. Al riguardo cfr. IM 24. 155. Citazione del Libro dei Documenti (V, 1, pt. II, 7). 156. Quest’ultima frase significa: I, I Yin e il duca Chou non ebbero l’impero perché, al loro tempo, gli eredi al trono furono degne persone e quindi non furono destituiti dal Cielo, come accadde invece ai tiranni Chieh Kuei e Chou Hsin. 157. Questi tre erano figli di T’ang. Il testo è stato interpretato dai commentatori in due modi, a quanto ci dice Chu Hsi. Secondo Chao-tzu, cioè Chao Ch’i, filosofo dell’epoca Han (m. 201 d. C.), dovrebbe intendersi: «T’ai-ting era morto quando ancora non era salito al trono, Wai-ping (fu sul trono per) due anni e Chung-jên (fu sul trono per) quattro anni». Tale è la versione sostenuta anche negli «Annali dei Libri di Bambù» (vedi nota 1 a CS 12). Ch’êng-tzu, invece, argomentando che anticamente la parola nien (anno di tempo), usata nel testo, era spesso intercambiata con sui (anno d’età), interpreta il testo nel senso che «Wai-ping (aveva) due anni e Chung-jên quattro». Chu Hsi confessa di non sapere a quale versione attenersi. Infatti, a sfavore dell’una sta la certezza che, secondo le cronache, a T’ang succedette immediatamente T’ai Chia, figlio del defunto T’ai-ting; a sfavore dell’altra sta l’improbabilità che T’ang, morto più che centenario, lasciasse dei figli in così tenera età. A me sembra che, risultate inaccettabili queste due versioni, ne esista una terza: che nel testo si sottintenda per Wai-ping e Chung-jên il verbo «morire» già enunciato con riferimento a T’ang. Riconosco che l’interpretazione è audace poiché il verbo presente nella prima proposizione è p’êng, che indica il «morire dell’imperatore», mentre T’ai-ting, Wai-ping e Chung-jên imperatori non erano. In mancanza di altra soluzione, quindi, ho tradotto in tal senso. 158. I Yin era suddito del principe di Hsin, di cui T’ang sposò una figlia. All’epoca di Mencio si

raccontava, e la storia è riportata anche nello Shih Chi (Memorie Storiche), che I Yin, non trovando altro modo per venire a contatto con un principe che attuasse la sua Via, si adoperò per entrare al seguito della sposa, portandosi dietro le sue pentole per farsi notare da T’ang in virtù dei suoi manicaretti. 159. Le Istruzioni di I sono gli ammonimenti del ministro I Yin a T’ai Chia, nipote e successore di T’ang (vedi CS 12), e formano l’oggetto dell’omonimo capitolo del «Libro di Shang» nei Documenti. La citazione (IV, 4, 2) è riportata con qualche variante sul testo originario. Il palazzo di Mu era quello dove avevano luogo le atrocità di Chieh Kuei, la città di Po era il luogo dove si manifestò la virtù di T’ang. 160. Il guaritore di ulcere di Wei e l’eunuco Chi Huan di Ch’i, attendente al principe, erano persone poco raccomandabili. Lo stesso dicasi di Mi-tzu, di cui si parla più avanti. 161. Nella biografia di Confucio (vedi BC 15) il personaggio, un virtuoso dignitario del regno di Wei, è nominato Yen Cho-tsou e viene detto fratello maggiore della moglie del discepolo Tzu-lu. 162. Sull’episodio di Huan Tui e su Chên-tzu vedi BC 18 e 19. 163. L’episodio dell’attacco a Kuo è annotato negli annali Primavera ed Autunno sotto la data del 2° anno del duca Hsi di Lu (658 a. C.). Il pi era un disco di giada con un foro rotondo al centro, usato come distintivo di rango. Ch’ui-chi e Chiu erano due località dello stato di Chin, famose rispettivamente per le cave di giada e per l’allevamento dei cavalli. La storia di Pai-li Hsi è così narrata: estinto anche lo stato di Yü, come era nei piani di Chin, in occasione della spedizione contro Kuo, egli seguì il suo duca prigioniero a Chin. Inviato a Ch’in al seguito di una promessa sposa del duca Mu, fuggì in un altro stato, divenendo noto come allevatore di bestiame. Il duca Mu di Ch’in, informato delle sue grandi capacità, ne reclamò l’estradizione come servo fuggiasco, pagando, per non sollevare sospetti sull’importanza che attribuiva al saggio, il modico riscatto di cinque pelli d’agnello. Nominato primo ministro, in sette anni Pai-li Hsi fece del duca Mu il capo dei feudatari (vedi CS 35). 164. Il commentatore non dice quando avvenne questa partenza da Ch’i, in cui Confucio, in segno di insofferenza, fece mostra di tanta fretta: ritengo che l’episodio sia da riferirsi al momento in cui Confucio apprese che il duca Ching non si sarebbe servito di lui (vedi BC 7 e DI 463). La partenza da Lu, ovviamente, avvenne quando il duca Ting dimenticò i suoi doveri di principe a causa delle musicanti inviategli in dono dal predetto duca Ching (vedi BC 14). 165. Vedi nota 13 a PF 8. 166. Avendo gli emolumenti come base quello infimo, cioè il reddito d’un campo di cento mu, quale era assegnato ai contadini, il giuoco dei coefficienti attribuiti ai vari gradi faceva sì che la diversa categoria degli stati feudatari influisse sugli emolumenti dei principi e dei ministri, rimanendo in ogni caso eguali quelli degli altri gradi, come risulta dal seguente prospetto, in cui ho riportato i coefficienti tra parentesi:

Si calcolava che con 32.000 mu si potesse mantenere 2.880 persone, con 3.200 mu 288 persone, con 800 mu 72 persone, con 400 mu 36 persone, con 200 mu 18 persone e con 100 mu da 9 a 5 persone. 167. Meng Hsien-tzu, di cui si è già parlato in GS 10 era un virtuoso dignitario di Lu. Nessuna notizia è data su Yo-chêng Chiu e su Mu Chung. 168. Pi è la città che era stata feudo della famiglia Chi di Lu (vedi BC 12): evidentemente Hui, o i suoi avi, vi si era insediato col titolo di duca in seguito alla decadenza della casata dei Chi. Tzu-szu

era il nipote di Confucio. Su Yen Pang, J. LEGGE (The Works of Mencius, in op. cit.) avanza l’ipotesi che fosse il figlio di Yen Yüang, il discepolo prediletto di Confucio. Nessuna notizia è data su Wang Sun e Ch’ang Hsi. 169. Il duca P’ing di Chin fu sul trono dal 557 al 532 a. C. Hai T’ang era un virtuoso cittadino di Chin. 170. Sul significato di questa frase vedi n. 138. 171. Chu Hsi considera l’intero periodo lacunoso o erroneo, perché contrastante con il principio secondo cui non può essere punito il popolo che non è stato istruito ed ammonito. 172. Chu Hsi rileva che tanto nello Shih Chi quanto negli annali Primavera ed Autunno non v’è traccia di questo duca Hsiao di Wei e avanza l’ipotesi che si tratti del duca Chê, nipote di Ling. Si può osservare che Confucio rifiutò di entrare al servizio di costui (vedi BC 25). 173. Sul dono vedi nota 101 al n. 54. 174. Del filosofo Kao si è già parlato al n. 25. Sembra che si fosse applicato allo studio sia delle dottrine ortodosse (confuciane) sia di quelle eterodosse di Mo. Kao si opponeva alla visione ottimistica di Mencio sulla bontà originaria della natura umana. A chiarimento del testo Chu Hsi annota che secondo Kao-tzu la natura umana è priva di carità e di giustizia: bisogna prima forzarla e dominarla perché poi si perfezioni. 175. Come s’è accennato, la tesi di Mencio è che la natura dell’uomo è originariamente buona: tale tesi, alla sua epoca, sollevò molte controversie. Chu Hsi commenta: «Questo paragrafo dice che la natura è originariamente buona. Perciò, se ci atteniamo ad essa in noi non v’è cattiveria. Originariamente è aliena dal male, perciò dobbiamo contrastarla per poi commettere il male. Non è che all’origine sia indecisa nella sua sostanza, per cui possa fare qualsiasi cosa (cioè indifferentemente il bene o il male)». 176. «La vita — spiega Chu Hsi — si manifesta negli uomini e negli animali con la percezione e il movimento». 177. Poiché cane, bue e uomo hanno tutti le caratteristiche della vita di cui alla nota precedente. 178. Si ritiene che il discepolo Meng Chi-tzu fosse il fratello minore di Meng Chung-tzu, cugino di Mencio, di cui al n. 34. Egli rivolge la sua domanda al condiscepolo Kung Tu-tzu in relazione a quanto detto da Mencio nel precedente discorso. 179. Chu Hsi così interpreta questo passo dell’ode: «Se vi sono le cose (tra cui le doti conferite all’uomo) devono esservi le leggi (relative). Se v’è l’orecchio e l’occhio, v’è la virtù dell’udito e della vista; se v’è il padre e il figlio v’è il sentimento della clemenza e della pietà filiale. Poiché questa è la costante legge della sua natura, lo spirito dell’uomo non può fare a meno di amare quelle ammirevoli virtù». E conclude: «Riguardando la questione alla stregua di ciò, si può scorgere la bontà della natura umana». In altre parole: la natura dell’uomo è originariamente buona perché creata da Dio in possesso di alcune facoltà e delle leggi ad esse correlate. 180. Il commentatore non dà alcuna notizia sul personaggio. 181. I-ya, cuoco del duca Huang di Ch’i, era un buongustaio abilissimo nell’arte culinaria. 182. Tzu-tu è un giovane di cui canta una delle odi (I, 84): egli simboleggia la bellezza della gioventù maschile. 183. Chiao apparteneva alla casata degli antichi principi di Ts’ao, il cui feudo era stato estinto ad opera del regno di Sung nel 487, cioè oltre un secolo e mezzo prima. Si ritiene che la frase da lui pronunciata sia la citazione d’un antico detto. 184. Wu Huo era un uomo erculeo dell’antichità, il quale riusciva a sollevare un peso di mille chün, che, secondo le misure moderne, equivarrebbe a 18.000 chili. 185. Questo Kao-tzu era un cittadino di Ch’i, da non confondersi con il discepolo di Mencio, di cui porta lo stesso cognome, né con il filosofo Kao, contraddittore di Mencio, a cui è intitolato il presente Libro VI. L’ode Hsiao P’ang (II, 43) riporta il lamento di I-chiu, figlio di Yu Wang, privato dal padre dei suoi diritti di crede (vedi CS 29): si suppone che sia stata scritta dal tutore del giovane

principe. 186. L’ode K’ai Feng (I, 32) riporta il biasimo che sette fratelli rivolgono a sé stessi per l’irrequietezza della loro madre, insofferente della sua vedovanza. 187. Sung K’êng era uno dei tanti letterati girovaghi, che viaggiavano da uno stato all’altro per offrire i loro consigli ai principi. Il fatto che Mencio lo chiami hsien shêng (lett.: prima nato = senior, signore), lascia intendere che Sung K’êng era più anziano di lui. L’incontro avvenne probabilmente durante la seconda permanenza di Mencio nel regno di Sung, a cui apparteneva la città di Shih-ch’iu (vedi BM 13). 188. Di Ch’un-yü K’un, il sofista cittadino di Ch’i, si è già parlato al n. 78. 189. Il sofista parla della carica di primo ministro che Mencio ricoprì nello stato di Ch’i durante la sua prima permanenza (vedi BM 7). Lo Tzu Yüan così illustra la figura di questi tre primi ministri (san ching): «Appellativo di funzionari. All’epoca delle Tre Dinastie, sia l’imperatore che i feudatari ne stabilivano tre gradi: primo ministro superiore, primo ministro medio e primo ministro inferiore». La storia non dice di quale grado fosse la carica di Mencio. 190. Kung I-tzu fu un virtuoso ministro di Lu, Tzu-liu è quello stesso Hsieh Liu di cui si è fatto cenno al n. 43, Tzu-szu era il nipote di Confucio. L’interlocutore prima ha accusato Mencio di aver abbandonato l’ufficio senza aver fatto nulla di buono ed ora insinua che, se anche egli fosse rimasto al governo, nessun beneficio ne sarebbe venuto allo stato di Ch’i. 191. Su questi personaggi vedi n. 131. 192. Wang Pao e Mien Chü erano cittadini rispettivamente di Wei e di Ch’i. Hua Chou e Ch’i Liang, due ufficiali del regno di Ch’i, rimasero uccisi in battaglia. L’attacco del sofista si fa più pressante: ora egli nega che Mencio abbia alcuna virtù poiché, se ne avesse avuta, essa si sarebbe manifestata e avrebbe influenzato gli altri, come fecero i personaggi portati ad esempio. 193. Il duca Ting di Lu non ascoltò più i consigli di Confucio dopo che ebbe ricevuto in dono dal suo collega di Ch’i le ottanta musicanti (vedi BC 14). 194. Confucio non volle andarsene da Lu senza una scusa, colta nella lieve mancanza di etichetta, per non far trapelare il suo più grave dissidio con il duca Ting. Forse con queste parole Mencio ci fa intravedere, anche se non ci indica esplicitamente la scusa da lui addotta, il modo con cui egli stesso se ne andò da Ch’i, quando fu chiaro che il re Hsüan non intendeva seguire i suoi consigli (vedi BM 7). 195. Chu Hsi annota che i cinque capi dei feudatari furono i duchi Huang di Ch’i, Wên di Chin, Mu di Ch’in, Hsiang di Sung e il re Chuan di Ch’u (vedi CS 35). Osserva però che di questi cinque capi si dà anche un altro elenco, in cui sarebbero annoverati: K’un Wu sotto la dinastia Hsia, Ta Pêng e Shi Wei sotto la dinastia Shang, Huang di Ch’i e Wên di Chin sotto la dinastia Chou. Annota anche che i tre imperatori, di cui è cenno nel testo, sono Yü degli Hsia, T’ang degli Shang e Wên e Wu dei Chou. A me sembra che Mencio, richiamando nel suo discorso i fondatori delle tre dinastie in relazione ai capi dei feudatari, abbia voluto riferirsi al secondo elenco. 196. Le sei armate costituivano l’esercito dell’imperatore (vedi nota 52 a DI 157), che per la circostanza, come lascia intendere il seguito del discorso, erano formate da truppe fornite dai feudatari. 197. L’assemblea di Kuei-ch’iu si tenne nel 651. La ratifica d’un trattato avveniva nel corso d’una cerimonia durante la quale s’immolava una vittima sul bordo di una fossa quadrata, le si tagliava un orecchio e si raccoglieva il sangue in un vaso prezioso. Il presidente leggeva gli articoli del patto e quindi tutti i convenuti si bagnavano col sangue gli angoli della bocca (cha hsieh) in segno di giuramento. Poi la vittima veniva calata nella fossa, sopra di essa si poneva il testo del trattato (tsai shu) e la fossa veniva colmata. Nell’occasione di cui si parla nel testo, la cerimonia fu incompleta. 198. Si ammetteva che ai funzionari si riconoscessero come ereditari gli emolumenti (vedi nota 26 al n. 12), ma non le cariche, onde evitare che agli uffici fossero preposti degli indegni o degli

incapaci. 199. Il principe P’ing di Lu preparava il suo esercito al comando del ministro Shen Ku-li perché, approfittando di alcune difficoltà in cui si trovava il regno di Ch’i, intendeva riprendersi il territorio di Nan-yang, a sud del monte T’ai, che una volta apparteneva al suo feudo. 200. T’ai-kung era Liu Shang, primo principe di Ch’i (vedi CS 26). 201. All’epoca si erano verificate alcune limitate inondazioni. Pai Kuei aveva provveduto a far defluire le acque verso gli stati confinanti. Yü, ministro di Yao, aveva regolato le acque della grande inondazione facendole confluire al mare (vedi CS 4). 202. Shun coltivava i campi sul monte Li quando fu chiamato alla corte di Yao (vedi CS 5). Fu Yüeh fu cercato, in seguito ad un sogno dell’imperatore Wu Ting, e trovato sui monti Fu-yen, dove costruiva baracche (vedi CS 14). Chiao Kê, in epoca di disordini, si era dedicato al commercio del pesce e del sale: fu elevato dal re Wu (vedi CS 26). Kuan I-wu (Kuan Chung) fu tolto dalla prigione ed elevato dal duca Huang di Ch’i (vedi CS 34). Sun Shu-ao viveva in ritiro sulla costa quando fu chiamato e fatto ministro dal re Chuan di Ch’u; Pai-li Hsi fu ministro del duca Mu di Ch’in (vedi CS 35). 203. Il significato del discorso risulta chiaro dal commento di Chu Hsi: «Non considerare puro un uomo e respingerlo è quel che si dice l’ammaestramento dell’impuro: se colui ne è toccato, ritirandosi si esamina e si emenda. Anche in questo modo è ammaestrato». 204. Chu Hsi commenta: «Il cuore è l’intelligenza spirituale, con la quale l’uomo contiene tutti i princìpi ed è in corrispondenza con tutte le cose. È per natura che il cuore contiene i princìpi ed è il Cielo la fonte dei princìpi» (cfr. GS 5). 205. Il commento spiega: «Se l’uomo è capace di vergognarsi d’essere stato senza pudore e così può mutar condotta e seguire gli uomini buoni, per tutta la vita non avrà più occasione di vergognarsi». 206. Sung Kou-chien era uno dei tanti letterati girovaghi. 207. Le famiglie Han e Wei erano due delle tre potenti casate di dignitari di Chin (vedi CS 39), elevatesi al rango di feudatari. 208. Qui «il popolo» sta ad indicare gli uomini senza cariche ufficiali. La definizione «popolo del Cielo» vuol significare che trattasi di uomini che seguono i princìpi divini. 209. Al riguardo vedi IM 24. 210. Cioè, spenda solo per le occasioni rituali, quali i matrimoni, i funerali, ecc. 211. Traduco con questa perifrasi il passo del testo che letteralmente significa: «se non ha completato un capitolo non avanza». 212. La Via è lesa perché l’egoismo nuoce alla carità, l’amore senza distinzioni nuoce alla giustizia. 213. Sull’episodio vedi CS 12. La prima frase è una citazione del Libro dei Documenti (IV, 5, pt. I, 9). 214. Per render chiaro il discorso conviene che citi tutta la stanza dell’ode: «Non semini e non mieti, come ti prendi la messe di trecento ch’an? Non vai a caccia né d’estate né d’inverno, come scorgo nella tua corte appeso il tasso? Oh, il saggio non mangia senza esserselo meritato!» Evidentemente il discepolo prestava orecchio alle teorie della scuola degli agricoltori, per cui solo il lavoro della terra era vero lavoro, e non conosceva l’interpretazione che dell’ode è data nella «Piccola Prefazione», in cui è detto: «L’ode Fa T’an biasima la cupidigia. Coloro che detenevano le cariche erano cupidi e meschini, percepivano gli emolumenti senza esserseli meritati, (mentre) i saggi non potevano adire alle magistrature». 215. Chu Hsi dice che Tien era figlio del re di Ch’i: mi sembra che non possa essere che figlio o fratello del re Hsüan. Tien riconosceva l’utilità delle classi superiori (principi, ministri, dignitari) e di quelle inferiori (contadini, artigiani, commercianti) ma dubitava dell’utilità della classe intermedia

dei letterati. 216. Trattasi di quel Ch’ên Chung-tzu, cittadino di Ch’i, del cui ristretto senso di purezza si è già parlato al n. 61. 217. Si ritiene che si trattasse del figlio d’una concubina, al quale la moglie legittima del padre impediva, per gelosia, di osservare il lutto triennale. 218. Della prima categoria si portano come esempio i discepoli di Confucio Yen Hui e Tsêng-tzu; della seconda Jan Yu e Min Tzu-chien; della terza Tzu-lu e Tzu-kung; della quarta i discepoli Fan Chih dì Confucio e Wan Chang di Mencio. La quinta categoria è composta dalle persone che non hanno potuto essere allievi dei saggi, ma hanno inteso parlare della loro Via da altri, come Ch’ên Kang nel caso di Confucio (vedi DI 433) e I Chih nel caso di Mencio (vedi n. 51), Lo stesso Mencio dice di sé: «Io non ho potuto essere allievo di K’ung-tzu; indegnamente mi sono migliorato presso altri» (vedi n. 111). 219. Chu Hsi così spiega questo difficile passo: «Nell’istruire, il saggio impartisce le regole per studiare ma non rivela il segreto per ottenere (la Via), come l’arciere tende l’arco ma non scocca la freccia (cioè, insegna come si tira ma non compie l’azione del tirare, che sarebbe inutile poiché egli non può infondere all’allievo la sua abilità nel centrare il bersaglio: questa abilità l’allievo deve conquistarsela da sé - N.d.T.). Ciò che egli non ha rivelato sembra balzar fuori e (il discepolo) lo vede davanti a sé». In proposito vedi anche n. 227. 220. Nelle tre proposizioni il verbo che ho tradotto «votarsi, dedicarsi» è hsün, che letteralmente significa: «oggetto che si seppellisce insieme al defunto (come offerta votiva)». 221. Nelle Memorie sui Riti (I, pt. I, 3, 58) è detto: «La carne umida si taglia coi denti, la carne secca non si taglia coi denti». 222. Il discorso risulta chiaro se si tien presente la gradualità del sentimento enunciata nell’ultima parte del n. 221. Per «ciò che non ama» deve intendersi «ciò che ama meno». 223. Sulla morte del figlio di Hui vedi nota 10 al n. 5. Chu Hsi commenta: «A causa del territorio giunse al popolo, a causa del popolo giunse al figlio: in tutti i casi per ciò che non amava giunse a ciò che amava». 224. Mencio allude a quanto è detto nel capitolo Wu Ch’êng (Compimento delle Operazioni Militari) del «Libro di Chou» nei Documenti (V, 3, 9) della battaglia fra gli eserciti del re Wu e dell’imperatore Chou Hsin (vedi CS 22). Ecco il passo del testo: «Nel giorno chia-tzu, di primo mattino, Shou (cioè Chou Hsin) fece avanzare le sue orde, che erano come foresta, e le adunò a Muyeh (le lande di Mu). Ma esse non si opposero al nostro esercito: le prime file volsero le lance ed attaccarono quelli che erano dietro facendoli fuggire. Il sangue scorse da trascinare i pestelli». Per Mencio, evidentemente, non appariva credibile che tanti, come l’iperbolica espressione lascerebbe intendere, fossero i partigiani del crudele imperatore che gli rimasero fedeli, preferendo farsi uccidere piuttosto che volgere le armi a favore del virtuoso re Wu. 225. La notizia è tratta dalla prefazione al Libro dei Documenti (Pref. 33), in cui però è detto «trecento uomini» anziché «tremila», come nel testo. 226. Le ultime due frasi sono l’interpretazione che Mencio dà di un passo del Libro dei Documenti (V, 1, pt. II, 9). 227. Vedi nota 11 al n. 5. 228. Chu Hsi annota che il discorso fu forse tenuto in relazione a qualche fatto avvenuto in quei giorni. 229. Il significato è: con la sua cattiva condotta pone lo stato in pericolo di distruzione. In proposito vedi PF 3. 230. Chu Hsi commenta: «La carità è il principio per cui l’uomo è uomo. Ma la carità è un principio e l’uomo un essere. Unire il principio della carità alla persona dell’uomo è ciò che si chiama Via». 231. Sui due episodi vedi nota 164 al n. 132.

232. Sull’episodio vedi BC 21 e DI 380. Chu Hsi così commenta l’ultima frase: «Tanto i principi che i ministri erano malvagi e nulla si davano in comunicazione». In altre parole, i principi di quei paesi non espressero la loro volontà di onorare e di utilizzare il saggio e i ministri non lo raccomandarono per un impiego. 233. Nessuna notizia è data su questo personaggio. 234. La risposta di Mencio vuol dire che la maggior usura delle campane dell’imperatore Yü non basta a dar la prova che la sua musica fosse più eseguita perché migliore di quella del re Wên, in quanto le campane dell’uno erano già usate mille anni prima che fossero fuse quelle dell’altro. 235. Sembra che, in occasione di una precedente carestia, Mencio fosse riuscito a convincere il re di Ch’i ad aprire i suoi granai per sfamare il popolo. La nuova circostanza si verificò, probabilmente, in un’epoca in cui i rapporti tra Mencio e il re non erano più cordiali (vedi BM 4 e 10). 236. Chu Hsi così commenta questo difficile passo: «Ch’êng-tzu dice: “La carità, la giustizia, i riti, la sapienza, la Via celeste, sono insiti nell’uomo come doti conferite dal decreto del Cielo. Le doti ricevute possono essere ricche o povere, pure o impure, ma la natura umana è buona: si può studiare e raggiungere la perfezione. Perciò il saggio non dice che è (soltanto) decreto del Cielo”. Chang-tzu dice: “Yeng Ying (vedi BC 7) era sapiente, eppure non riconobbe K’ung-tzu (come virtuoso): questo non è il decreto del Cielo!”». Dopo altre considerazioni, Chu Hsi prosegue: «Ho appreso dal mio maestro che quelle elencate (i desideri dei sensi e le virtù) sono tutte cose che la natura umana ha in sé e sono ordinate dal Cielo. L’uomo di questo mondo considera le prime cinque come natura e, anche se non può soddisfarle, non s’astiene dal desiderarle e cercarle; considera le seconde come decreto del Cielo [cioè, che si hanno o non si hanno, secondo quanto disposto dal Cielo] e, se non le raggiunge una volta, non rinnova i suoi sforzi. Perciò Mencio parla dell’importanza delle une e delle altre, affinché sia dato maggior campo alle seconde e maggior limite alle prime». 237. Probabilmente il giudizio sul discepolo è da porsi in relazione a quanto detto ai nn. 86 e 173. 238. Cioè alla scuola confuciana. Vedi CS 38. 239. Di questo personaggio il commentatore dice soltanto che presunse delle sue capacità e si comportò in modo indebito: per questo andò incontro alla sventura. 240. All’epoca il pronome «tu» era usato nei confronti delle persone a cui non si doveva molta considerazione e rispetto. Vedi quanto ho detto in premessa sul modo di rivolgersi agli altri. 241. Secondo le Memorie sui Riti (I, pt. II, 3, 15), un ministro non doveva sollevare lo sguardo al disopra del collo della veste dell’imperatore né abbassarlo al disotto della cintura: la zona così delimitata era considerata più vicina agli occhi. L’espressione sta ad indicare le cose più vicine a noi e, quindi più note, più comuni. Di converso le cose più lontane sono quelle meno note, meno comuni, quali i grandi princìpi della Via. 242. La citazione di Wan Chang non riproduce esattamente le parole di Confucio, quali sono riportate in DI 113. 243. Citazione di DI 323. 244. La prima parte della citazione non è contenuta ne I Dialoghi. Per l’ultima frase vedi DI 447. 245. Kao Yao fu ministro di Shun. I Yin e Lai Chu furono ministri dell’imperatore T’ang. T’aikung-wang (Liu Shang) e San I-shêng furono ministri del re Wên. 246. È da notare la drammaticità di questa invocazione che chiude l’insegnamento di Mencio, la quale sembra il grido disperato di un’umanità sperduta echeggiante nella vuota tenebra di quei secoli. In effetti trecento e più anni, orridi di guerre e di massacri, dovevano passare dalla scomparsa di Confucio prima che un imperatore, Wu Ti della dinastia Han (sul trono 140-87 a. C.), desse nuovamente ascolto a chi gli parlava della Via dei santi.

APPENDICE ELENCO DEI NOMI CITATI NELLE OPERE TRADOTTE AI (duca) principe di Lu (sul trono 494-468). IM 20, DI 35, 61, 121, 287, 354. AO l’angolo sud-occidentale della casa, dedicato alla divinità. DI 53. AO uomo famoso per la sua forza, su istigazione del padre Han Cho uccise l’imperatore Hsiang. Fu messo a morte dal figlio di costui. DI 338. CARRO (CHÊNG) cronache dello stato di Chin. ME 110. CHANG vedi TZU-CHANG. DI 487. CH’ANG CH’IU saggio ritiratosi dal mondo. DI 466. CH’ANG HSI discepolo di Kung-ming Kao. ME 123, 134. CHANG I cittadino di Wei (Liang), esponente della scuola dei politici, propugnava la confederazione degli stati sotto l’egemonia di Ch’in. ME 53. CHAO cognome di una delle tre famiglie di dignitari di Chin, fra le quali nel 376 a. C. questo stato fu spartito. DI 344, ME 187. CHAO (duca) principe di Lu (sul trono 541-510). BC 6, DI 177. CHAO (re) principe di Ch’u (sul trono 515-489), voleva dare a Confucio il territorio di Shu-shê. BC 24. CH’AO figlio del principe di Sung e fratello di Nan-tzu. DI 133. CHAO CHIEN-TZU di nome dato YANG , dignitario di Chin. BC 20, ME 52. CHAO MENG primo ministro dello stato di Chin. ME 157. CHÊ principe di Wei, succedette al nonno duca Ling in seguito all’esclusione del padre K’uai-kuei. BC 25, DI 161, 305. CHÊN fiume del Honan. ME 91. CH’ÊN

stato situato a cavallo delle odierne regioni del Honan e dell’Anhwei, dato in feudo dal re Wu ai discendenti dell’imperatore Shun. Fu estinto nel 479 a. C. da Ch’u. BC 16, DI 113, 380, ME 240, 259. CH’ÊN CHÊN discepolo di Mencio. ME 35, 245. CH’ÊN CH’ÊNG-TZU di nome dato HÊNG

, dignitario di Ch’i, uccise il duca Chien di Ch’i. DI 354.

CH’ÊN CHIA ministro dello stato di Ch’i. ME 41. CH’ÊN CHUNG-TZU cittadino di Ch’i. ME 61, 210. CH’ÊN HSIANG cittadino di Sung emigrato a Têng, discepolo di Ch’ên Liang. ME 50. CH’ÊN K’ANG vedi CH’ÊN TZU-CH’IN. DI 433. CH’ÊN LIANG filosofo confuciano, maestro di Ch’ên Hsiang. ME 50. CH’ÊN TAI discepolo di Mencio. ME 52. CHÊN-TZU dignitario di Sung, ospitò Confucio nello stato di Ch’ên. BC 19, ME 130. CH’ÊN-TZU vedi CH’ÊN CHÊN. ME 42, 174. CH’ÊN TZU-CH’IN di nome dato K’ANG

, discepolo di Confucio. DI 496.

CH’ÊN WÊN-TZU dignitario di Ch’i. DI 110. CHÊNG titolo di un capitolo della I sezione del Libro delle Odi. DI 389. CHÊNG stato situato nell’odierno Honan, dato in feudo da Hsüan Wang al fratello Yu. Fu estinto nel 375 a. C. da Han. DI 389, ME 91. CH’ÊNG CHIEN ignoto personaggio. ME 47. CH’ÊNG T’UNG funzionario di Ch’i. ME 40. CH’ÊNG-YU HSING discepolo di Tsêng-tzu. ME 120. CHI

cognome di una famiglia di dignitari di Lu (vedi TRE CASATE). BC 6, ME 75. CHI fiume del Honan. ME 166. CHI monte dello Shantung. ME 128. CHI vedi TZU-SZU. BC 32. CHI vedi HOU CHI. DI 338, ME 118. CHI la quarta delle cinque note musicali, che simbolicamente rappresentava gli affari di governo. ME 11. CHI figlio dell’imperatore Yü, portato sul trono dal favore popolare invece del ministro I, designato da Yü alla successione. ME 128. CHI famoso cavallo dell’antichità. DI 367. CH’I stato situato nell’odierno Shantung, dato in feudo dal re Wu a Liu Shang (T’ai-kung-wang), la cui dinastia fu soppiantata nel 386 a. C. dalla famiglia Tien (o Ch’ên). Fu una delle grandi potenze dell’epoca dei Regni Combattenti. Fu estinto nel 221 a. C. da Ch’in. BC 6 et saepe, DI 141, BM 15, ME 5, 8, 20, 21, 24, 35, 38, 39, 43, 46, 56, 57, 85, 120, 165, 166, 168, 239, 245, 251. CH’I nome di un monte dello Shensi ed anche del territorio occupato da Tan-fu, che vi fondò lo stato di Chou. ME 12, 21, 22, 90. CH’I fiume del Honan, affluente del Fiume Giallo. ME 50. CH’I piccolo feudo assegnato dal re Wu ai discendenti della dinastia Hsia. IM 28, DI 49. CHI HUAN eunuco al servizio del principe di Ch’i. ME 130. CHI HUANG-TZU dignitario di Lu. BC 6, 11, 22, DI 464, ME 135. CHI K’ANG-TZU dignitario di Lu, figlio di Chi Huang-tzu. BC 22, 26, DI 36, 125, 259, 295, 296, 297, 421. CHI-KUA saggio dell’epoca Chou. DI 471. CH’I LIANG ufficiale dello stato di Ch’i, ucciso in battaglia. ME 166. CHI LU

denominazione di Tzu-lu per la sua dipendenza dalla famiglia Chi di Lu. DI 117, 255, 264, 421. CHI-SUI saggio dell’epoca Chou. DI 471. CHI SUN ignoto personaggio. ME 42. CH’I TIAO-K’AI di nome proprio TZU-JO , discepolo di Confucio. DI 97. CHI-TZU figlio dell’imperatore T’ai Ting, imprigionato da Chou Hsin, salvò la vita fingendosi pazzo. DI 461, ME 24. CHI TZU-CH’ÊNG dignitario di Wei. DI 286. CHI TZU-JAN fratello minore di Chi K’ang-tzu. DI 276. CHI WÊN-TZU dignitario di Lu. DI 111. CHIA-KU città in cui si tenne un convegno tra i duchi Ting di Lu e Ching di Ch’i, al quale assistette Confucio. BC 11. CHIANG cognome della moglie di Tan-fu. ME 112. CHIAO la terza delle cinque note musicali, che simbolicamente rappresentava il popolo. ME 11. CHIAO discendente della famiglia dei principi di Ts’ao. ME 162. CHIAO KÊ saggio ritiratosi dal mondo e divenuto commerciante di pesce, servì poi il re Wu come ministro. ME 24, 175. CHIEH (CHIEH KUEI) ultimo imperatore della dinastia Hsia, sconfitto da T’ang morì in esilio. ME 2, 15, 70, 128, 162, 166, 168, 170. CHIEH NI saggio ritiratosi dal mondo. DI 466. CHIEH YÜ saggio di Ch’u ritiratosi dal mondo, si fingeva pazzo. DI 465. CHIEN (duca) principe di Ch’i, ucciso da Ch’ên Ch’êng-tzu. DI 354. CHIH gran maestro di musica di Lu. DI 199, 469. CHIH (scritto anche ) famoso brigante, da alcuni individuato in un bandito dell’epoca dell’Imperatore Giallo, da altri nel fratello di Hui di Liu-hsia. ME 61, 201.

CH’IH vedi KUNG-HSI HUA. DI 99, 122. CHIH-WA dignitario di Ch’i. ME 37. CHIN stato situato nell’odierno Shansi, assegnato in feudo a Hsieh, nipote di Ch’êng Wang. Nel 376 a. C. fu spartito nei tre stati di Wei (Liang), Chao e Han. ME 5, 34. CH’IN piccolo stato situato nell’odierno Shensi, divenne una delle grandi potenze all’epoca dei Regni Combattenti ed alla fine estinse gli stati feudatari: il suo principe Ch’êng assunse la corona imperiale, fondando la dinastia Ch’in (221-207). BM 15, ME 5, 7, 152, 164. CHIN CHANG di nome dato LAO

, di nome proprio TZU-K’AI

, discepolo di Confucio. ME 259.

CHING antico nome dello stato di Ch’u. ME 50, 60. CHING dignitario, figlio del duca di Wei. DI 310. CHING (lett.: pozzo) sistema di ripartizione della terra: un appezzamento di un li quadrato era diviso in nove campi di cento mu ciascuno, di cui otto erano assegnati ad altrettante famiglie, mentre il nono, quello centrale, era coltivato in comune per pagare l’imposta. ME 12, 49. CHING (duca) principe di Ch’i (sul trono 547-489). BC 7, DI 289, 432, 463, ME 11, 47, 52, 68, 138. CH’ING strumento musicale composto di squadre di pietra appese per il vertice che si percuotevano. DI 374. CHING CHOU dignitario di Ch’i. ME 34. CHING CH’UN cittadino di Wei (Liang), seguace della scuola dei politici. ME 53. CHIU località di Chin famosa per l’allevamento dei cavalli. ME 130. CHIU vedi JAN YU. DI 99, 125, 269, ME 75. CHIU famoso giuocatore di scacchi. ME 149. CHIU fratellastro del duca Hsiang di Ch’i, fu fatto uccidere dal fratello duca Huang. DI 349, 350. CH’IU

nome dato di Confucio. BC 1 et saepe. CHOU città di Ch’i. ME 43, 44. CHOU nome del marchese di Ch’ên. ME 130. CHOU stato situato nell’odierno Shensi, fondato nel 1198 a. C. da Tan-fu ai piedi del monte Ch’i. GS 2, ME 90, 126, 138. CHOU terza dinastia (1122-256), che assunse la sua denominazione dal feudo dell’avo Tan-fu. Fondata dal re Wu regnò con 34 imperatori. Dopo un lunghissimo periodo di decadenza, fu estinta dallo stato di Ch’in. DI 389, ME 24, 45, 49, 68, 128, 133. CHOU (duca) di nome TAN , fratello del re Wu, fu reggente dell’impero per sette anni. Fu investito del feudo di Lu. PF 9, IM 18, 19, DI 152, 195, 269, 470, ME 24, 41, 47, 50, 60, 109, 128, 168. CHOU (CHOU HSIN) ultimo imperatore della dinastia Yin, sconfitto dal re Wu si suicidò. ME 15, 24, 60, 70, 74, 128, 132, 146, 198. CHOU HSIAO cittadino di Wei (Liang), letterato girovago. ME 54. CHOU JÊN antico storiografo. ME 421. CHOU NAN titolo d’un capitolo della I sezione del Libro delle Odi. DI 444. CH’U stato situato nell’odierno Hopeh, assegnato in feudo da Ch’êng Wang a Hsiung-i, discendente dell’imperatore Chuan Hsü. All’epoca dei Regni Combattenti si estese sulla parte sud-orientale dell’impero e divenne una delle grandi potenze. Fu estinto nel 223 a. C. da Ch’in. BM 15, ME 5, 7, 20, 34, 47, 56, 57, 152, 164. CHU CHANG saggio ritiratosi dal mondo. DI 468. CHU-FÊNG territorio della Cina orientale sottoposto ai barbari I. ME 90. CHÜ-FU città di Lu. DI 319. CH’Ü PO-YÜ dignitario di Wei. BC 17, DI 358. CH’U-TZU primo ministro di Ch’i. ME 121, 165.

CHUAN-YÜ stato dipendente, compreso nel territorio di Lu. DI 421. CHUANG strada della capitale di Ch’i. ME 57. CHUANG (re) principe di Ch’u (sul trono 613-591). ME 175. CHUANG PAO ministro del re Hsüan di Ch’i. ME 8. CHUANG-TZU di PIEN dignitario di Lu. DI 345. CH’ÜEH nome di una comunità. DI 379. CH’ÜEH maestro di musica del «quarto pasto» alla corte di Lu. DI 469. CH’UI-CHI località di Chin famosa per le sue giade. ME 130. CHÜN unità di peso, oggi equivalente a kg. 18 circa. ME 7, 162. CH’UN-YÜ K’UN cittadino di Ch’i, sofista. ME 78, 166. CHUNG misura di capacità, oggi equivalente a lt. 662 circa. ME 42, 61, 150. CH’UNG monte del Honan, dove fu esiliato Huan-tou. ME 125. CH’UNG città di Ch’i. ME 46. CHUNG-HU saggio dell’epoca Chou. DI 471. CHUNG-JÊN figlio dell’imperatore T’ang. ME 128. CHUNG-KUNG di cognome JAN

, di nome dato YUNG

, discepolo di Confucio. DI 120, 123, 255, 280, 304.

CHUNG-MU città di Chin, feudo della famiglia Chao. DI 441. CHUNG-NI nome proprio di Confucio. BC 1 et saepe. CHUNG-SHU YÜ vedi K’UNG WÊN-TZU. DI 352.

CHUNG-TU città di Lu, di cui Confucio fu governatore. BC 10. CHUNG-T’U saggio dell’epoca Chou. DI 471. CHUNG-TZU vedi CH’ÊN CHUNG-TZU. ME 210. CHUNG YU vedi TZU-LU. BC 12, DI 125, 276. CH’UNG-YÜ discepolo di Mencio. ME 39, 45. CONFUCIO (K’UNG FU-TZU) massimo esponente della scuola dei dotti, di cognome K’UNG

, di nome dato CH’IU

, di

nome proprio CHUNG-NI (551-479). Il nome europeo Confucio deriva dalla latinizzazione delle parole K’UNG FU-TZU (maestro K’ung). Vedi Biografia. CONTE OCCIDENTALE (HSI PO) titolo attribuito a Ch’ang (il re Wên) dall’imperatore Chou Hsin. ME 74, 198. DOCUMENTI (SHU) vedi LIBRO DEI DOCUMENTI. FAN città dello stato di Ch’i. ME 212. FAN (zio) zio materno del duca Wên di Chin. GS 10. FAN CHIH di nome dato HSÜ 321. FAN-SHÜN

, detto TZU-CHIH

, discepolo di Confucio. DI 21, 139, 299, 300, 306,

nome dell’imperatore Yao. ME 50, 126. FANG città dello stato di Lu. DI 347. FANG-SHU suonatore di tamburo alla corte di Lu. DI 469. FEI LIEN ministro di Chou Hsin, messo a morte dal duca Chou. ME 60. FÊNG FU cittadino di Chin, antico cacciatore di tigri divenuto letterato. ME 245. FU-HSIA territorio della Cina orientale sottoposto ai barbari I. ME 90. FU YÜEH

saggio ministro dell’imperatore Wu Ting. ME 175. FU YUNG (stato dipendente) designazione dei piccoli stati di estensione inferiore ai cinquanta li di lato: erano posti alle dipendenze di altri stati feudatari ed i loro principi non avevano accesso all’imperatore. ME 133. HAI T’ANG amico del duca P’ing di Chin. ME 134. HAN fiume affluente dello Yang-tze Kiang. ME 50, 60. HAN cognome di una delle tre famiglie di dignitari di Chin, tra le quali nel 376 a. C. questo stato fu spartito. ME 187. HAO-SHÊNG PU-HAI cittadino di Ch’i. ME 247. HO denominazione del Fiume Giallo. ME 60, 166, 192. HOU CHI titolo (ministro dell’agricoltura) di CH’I

, ministro degli imperatori Yao e Shun. Investito del

feudo di Tai, fu il capostipite della dinastia Chou. PF 9, ME 50, 118. HSI favorito del dignitario Chao Chien-tzu. ME 52. HSIA prima dinastia (2205-1766), regnò con 17 imperatori, di cui il primo fu Yü e l’ultimo Chieh Kuei. DI 389, ME 24, 49, 63, 128, 129. HSIANG fratellastro di Shun, attentò alla vita di costui chiudendolo in un pozzo. Shun gli dette in feudo Yupei. ME 124, 125, 146. HSIANG suonatore di ch’ing alla corte di Lu. DI 469. HSIANG (duca) principe di Lu (sul trono 572-540). BC 2. HSIANG (re) principe di Wei (Liang), figlio del re Hui. ME 6. HSIAO (duca) ignoto principe di Wei. ME 135. HSIAO P’ANG titolo di una delle odi (II, 43). ME 163. HSIEH ministro dell’istruzione di Shun. ME 51.

HSIEH piccolo stato situato nell’odierno Shantung. DI 344, ME 21, 35. HSIEH CHÜ-CHOU ministro dello stato di Sung. ME 57. HSIEH LIU ministro del duca Mu di Lu. ME 43, 58. HSIEN vedi YÜAN SZU. DI 333, 334. HSIEN-CH’IU MENG discepolo di Mencio. ME 126. HSIN fratello di Ch’ên Hsiang. ME 50. HSIN antico stato. ME 129. HSI-TZU (lett.: Signora d’Occidente), di nome SHIH I

, bella donna inviata in dono dal principe di

Yüeh al principe di Wu. ME 115. HSIU città dello stato di Ch’i. ME 46. HSÜ HSING cittadino di Ch’u emigrato a Têng, seguace della scuola degli agricoltori. ME 50. HSÜ PI discepolo di Mencio. ME 51, 107. HSÜAN (re) principe di Ch’i (sul trono 332-312?). BM 3, ME 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 36, 38, 41, 42, 92, 140, 215. HSÜN-YÜ popolo barbaro settentrionale. ME 10. HU HO ministro del re Hsüan di Ch’i. ME 7. HUA CHOU ufficiale di Ch’i, ucciso in battaglia. ME 166. HUAI fiume del Honan, affluente dello Yang-tze Kiang. ME 50, 60. HUAN-TOU ministro dell’istruzione di Yao, esiliato da Shun. ME 125. HUANG (duca) principe di Ch’i (sul trono 685-643), fu uno dei cinque capi dei feudatari. DI 348, 349, 350, ME 7, 34, 110, 167.

HUANG TUI ministro della guerra dello stato di Sung, fratello del discepolo Szu-ma Niu, attentò alla vita di Confucio. BC 18, DI 169, ME 130. HUI vedi YEN YÜANG. IM 8, DI 25, 100, 124, 128, 256, 271. HUI (re) principe di Wei (Liang) (sul trono 370-334), nel 356 a. C. si arrogò il titolo di wang (re). BM 3, ME 1, 2, 3, 4, 5, 223. HUI (duca) principe della città di Pi. ME 134. HUI di LIU-HSIA (LIU-HSIA HUI) appellativo di CHAN HUO , virtuoso dignitario di Lu. DI 392, 462, 468, ME 32, 132, 166, 204, 237. HU-LIEN vaso di giada ornato di pietre preziose, usato per offrire il miglio nel sacrificio del tempio ancestrale. DI 95. I distretto dello stato di Wei. DI 64. I nobile che usurpò il potere dell’imperatore Hsiang della dinastia Hsia. DI 338. Altro dello stesso cognome, famoso arciere dell’epoca di Yao. ME 113, 160, 217. I popoli barbari della Cina orientale, ed anche denominazione generica dei popoli non facenti parte dell’Impero del Mezzo. DI 45, ME 18, 50, 56, 226. I intendente di Shun e ministro di Yü, il quale lo designò a succedergli. Si ritirò davanti al figlio di Yü, favorito dal popolo. ME 50, 128. I unità di peso, oggi equivalente a gr. 740 circa. ME 16, 35. I CHIH seguace del filosofo Mo Ti. ME 51. II saggio ritiratosi dal mondo. DI 468. I YIN famoso saggio, ministro di T’ang. DI 300, ME 25, 34, 128, 129, 132, 166, 207, 260. I-YA famoso buongustaio, cuoco del duca Huang di Ch’i. ME 147. JAN CHIU vedi JAN YU. BC 22, 26, DI 129, 276, 345. JAN NIU

vedi JAN PO-NIU. ME 25. JAN PO-NIU di nome dato KÊNG

, discepolo di Confucio, nominato anche JAN NIU. DI 255.

JAN YU di nome dato CHIU , discepolo di Confucio, intendente di Chi K’ang-tzu. DI 46, 122, 161, 255, 265, 274, 278, 311, 316, 421. JAN-YU tutore del duca Wên di Têng, quando costui era principe ereditario. ME 48. JÊN piccolo stato situato tra Ch’i e Ch’u. ME 161, 165. JU fiume del Honan, affluente del Huai. ME 50. JU PEI cittadino di Lu. DI 454. JUNG popoli barbari della Cina occidentale. ME 50, 60. K’AI FÊNG titolo di una delle odi (I, 32). ME 163. KAN maestro di musica del «secondo pasto» alla corte di Lu. DI 469. K’ANG-TZU vedi CHI K’ANG-TZU. BC 26, DI 352. KAO CHAO-TZU dignitario di Ch’i, del quale Confucio fu ministro di casa. BC 7. KAO-T’ANG città dello stato di Ch’i. ME 166. KAO TSUNG titolo postumo dell’imperatore Wu Ting. DI 375. KAO-TZU discepolo di Mencio. ME 44, 243, 244. KAO-TZU cittadino di Ch’i. ME 163. KAO-TZU di nome PU-HAI , filosofo. Negava la teoria della bontà originaria della natura umana, sostenuta da Mencio. ME 25, 141, 142, 143, 144, 146. KAO YAO ministro della giustizia di Shun. DI 300, ME 50, 211, 260. KÊNG

fratello minore del principe di Têng. ME 219. KIANG denominazione del fiume Yang-tze Kiang. ME 60, 192. KO stato, il cui empio principe fu punito da T’ang. ME 10, 18, 56. KO città dello stato di Ch’i. ME 61. KOU CHIEN principe di Yüeh. ME 10. K’UAN maestro di musica dello stato di Chin. ME 62, 147. KUAN CHUNG di nome dato I-WU , primo ministro del duca Huang di Ch’i, di cui fece il capo dei feudatari. DI 62, 342, 349, 350, ME 24, 34. KUAN I-WU vedi KUAN CHUNG. ME 175. KUAN-SHU di nome HSIEN , fratello del re Wu, investito del feudo di Kuan. Fu condannato a morte per aver provocato una ribellione degli spodestati Yin contro il reggente duca Chou. ME 41. KUAN TSU titolo di una delle odi (I, 1). DI 60. KUANG città dove Confucio corse pericolo di morte perché scambiato con Yang Hu. BC 16, DI 210, 275. KUANG CHANG alto ufficiale di Ch’i. ME 61, 119. KUEI tavoletta oblunga di giada, conferita ai feudatari come simbolo di dignità e di autorità. DI 241, 258. KUEI-CH’IU città di Sung, dove nel 651 a. C. il duca Huang di Ch’i convocò un’assemblea di feudatari. ME 167. KUN fu imprigionato da Shun fino alla morte per la negligenza dimostrata nella bonifica dei territori sommersi dalla grande inondazione. Fu il padre dell’imperatore Yü. ME 125. K’UN popolo barbaro residente ai confini con il Tibet. ME 10. KUNG CHIH-CH’I ministro dello stato di Yü. ME 131. K’UNG CHÜ-HSIN governatore di P’ing-lu, città di Ch’i. ME 36. KUNG HANG-TZU

dignitario di Ch’i. ME 116. KUNG I-TZU ministro del duca Mu di Lu. ME 166. KUNG LIU progenitore della dinastia Chou, feudatario di Tai, nel 1797 a. C. si trasferì nel territorio di Pin. ME 12. KUNG SHU-TZU famoso artigiano di Lu. ME 62. KUNG TU-TZU discepolo di Mencio. ME 37, 60, 119, 145, 146, 155, 219. KUNG-HSI HUA di nome dato CH’IH

, detto TZU-HUA

, discepolo di Confucio. DI 180, 274, 278.

KUNG-MING CHIA cittadino di Wei. DI 346. KUNG-MING I cittadino di Lu. ME 47, 54, 60, 113. KUNG-MING KAO discepolo di Tsêng-tzu. ME 123. KUNG-PO LIAO cittadino di Lu. DI 370. KUNG-SHAN FU-JAO detto anche KUNG-SHAN PU-NIU , intendente della famiglia Chi di Lu, si ribellò impadronendosi della città di Pi. BC 9, DI 439. KUNG-SHU WÊN-TZU appellativo di KUNG-SUN PA , dignitario di Wei. DI 346, 351. KUNG-SUN CHAO dignitario di Wei. DI 493. KUNG-SUN CHOU discepolo di Mencio. ME 24, 25, 34, 38, 58, 79, 163, 173, 207, 208, 215, 217, 258. KUNG-SUN YEN cittadino di Wei (Liang), seguace della scuola dei politici. ME 53. K’UNG-TZU denominazione di Confucio (il filosofo K’ung). Saepe. K’UNG WÊN-TZU di nome dato YÜ

, detto CHUNG-SHU YÜ

, dignitario di Wei. DI 106.

KUNG-YEH CH’ANG discepolo di Confucio, al quale questi dette in sposa la figlia. DI 93. KUO stato situato nell’odierno Shansi, estinto da Chin. ME 130.

KU-SOU padre dell’imperatore Shun, attentò più volte alla vita del figlio: alla fine fu vinto dalla pietà filiale di costui. ME 89, 124, 126, 146, 211. LAI CHU ministro di T’ang. ME 260. LAO vedi CHIN CHANG. DI 211. LAO-TZU fondatore della scuola taoista, contemporaneo di Confucio. BC 5. LI nome di regno del decimo imperatore Chou. ME 63, 146. LI nome dato dell’imperatore T’ang. DI 497. LI nome dato di Po-yü, figlio di Confucio. BC 32, DI 260. LI unità di misura, all’epoca dei Chou corrispondente a 360 metri. GS 3 et saepe. LI LOU uomo famoso per l’acutezza della vista. ME 62. LIANG designazione dello stato di Wei derivante dal nome della capitale, Ta Liang, in cui il re Hui si trasferì nel 340 a. C. dopo essere stato sconfitto da Ch’in. BM 3. LIAO maestro di musica del «terzo pasto» alla corte di Lu. DI 469. LIBRO DEI DOCUMENTI (SHU CHING) raccolta di discorsi e di brani storici, divisa in cinque libri: I) Libro di T’ang (1 capitolo), II) Libro di Yü (4 capitoli), III) Libro di Hsia (4 capitoli), IV) Libro di Shang (11 capitoli), V) Libro di Chou (30 capitoli). BC 27 et saepe. LIBRO DELLE MUTAZIONI (I CHING) manuale di divinazione, in cui sono illustrati i 64 esagrammi, con brevi spiegazioni e glosse. BC 27, DI 163. LIBRO DELLE ODI (SHIH CHING) raccolta di 311 poesie selezionate da Confucio, delle quali 305 sono giunte sino a noi, divisa in quattro sezioni: I) Costumi dei Regni (Kuo Fêng, 160 poesie), II) Fasti Minori (Hsiao Ya, 80 poesie), III) Fasti Maggiori (Ta Ya, 31 poesie). IV) Laudi (Sung, 40 poesie). Alla raccolta sono premesse una «Grande Prefazione» e una «Piccola Prefazione», attribuite a Tzu-hsia, discepolo di Confucio. BC 27 et saepe. LIBRO DEL RITUALE (I LI) raccolta di norme dell’etichetta da osservarsi nelle più importanti cerimonie, divisa in 17 libri.

LIN femmina dell’unicorno, animale favoloso che appariva quando nell’impero viveva un uomo santo. BC 29. LIN FAN cittadino di Lu. DI 44, 46. LING (duca) principe di Wei (sul trono 534-493). BC 20, 21, 25, DI 352, 380, ME 135. LING-CH’IU città dello stato di Ch’i. ME 37. LIU (i sei) il diapason cinese. ME 62. LU stato situato nell’odierno Shantung, assegnato dal re Wu in feudo al fratello Tan (duca Chou), fu estinto nel 249 a. C. da Ch’u. BC 2 et saepe, DI 142, 309, ME 19, 39, 130, 135, 168, 173, 200, 239. LÜ sacrificio offerto agli esseri spirituali delle montagne. DI 46. LUNG-TZU virtuoso personaggio dell’antichità. ME 49, 147. MAI (scritto anche ) popoli barbari della Cina settentrionale. ME 170. MAI CHI ignoto personaggio. ME 241. MANG popoli barbari della Cina meridionale. ME 50. MEMORIE SUI RITI (LI CHI) raccolta di precetti sul civile comportamento nei vari rapporti sociali e nelle diverse circostanze, divisa in 46 libri. MENCIO (MENG-TZU) filosofo confuciano (372-289), di cognome MENG ed anche TZU-YÜ

, di nome KO

di nome proprio TZU-CHÊ

. Gli viene attribuito il libro Meng-tzu. Il nome europeo deriva

dalla latinizzazione delle parole Meng-tzu (il filosofo Meng). Vedi Biografia. MENG cognome di una famiglia di dignitari di Lu (vedi TRE CASATE). BC 6. MENG CHIH-FAN dignitario di Lu. DI 132. MENG CHI-TZU discepolo di Mencio, forse fratello minore di Meng Chung-tzu, cugino di Mencio. ME 145.

MENG CHIN-TZU dignitario di Lu. DI 188. MENG CHUANG-TZU dignitario di Lu, figlio di Meng Hsien-tzu. DI 489. MENG CHUNG-TZU cugino e discepolo di Mencio. ME 34. MENG HSIEN-TZU virtuoso dignitario di Lu. GS 10, ME 134. MENG I-TZU dignitario di Lu, discepolo di Confucio. DI 21. MENG KUNG-CH’AO dignitario di Lu. DI 344, 345. MENG ORIENTALE (TUNG MENG) montagna dello stato di Lu. DI 421. MENG PÊN cittadino di Ch’i, famoso per la forza e il coraggio. ME 25. MENG SHÊ uomo famoso per il coraggio. ME 25. MENG-TZU appellativo di Mencio (filosofo Meng). Saepe. MENG WU-PO dignitario di Lu, figlio di Meng I-tzu. DI 22, 99. MI-TZU ministro del duca Ling di Wei. ME 130. MIEN maestro di musica, cieco. DI 420. MIEN CHÜ cittadino di Ch’i. ME 166. MIN TZU-CHIEN di nome dato SUN

, discepolo di Confucio. DI 126, 255, 257, 266.

MIN-TZU vedi MIN TZU-CHIEN. DI 265, ME 25. MING TANG (Sala Luminosa), edificio nel quale i primi imperatori Chou ricevevano i feudatari ed offrivano i sacrifici alla divinità ed agli antenati. PF 9, ME 12. MING-TIAO

territorio della Cina orientale sottoposto ai barbari I. ME 90. MO TI filosofo (470-391), propugnò l’amore universale. ME 51, 60, 202, 248. MU località presso la capitale dell’imperatore Chieh Kuei. ME 129. MU (duca) principe di Lu (sul trono 409-377). ME 43, 137, 138, 166. MU (duca) principe di Ch’in (sul trono 659-621). ME 131, 166. MU (duca) principe di Tsou. ME 19. MU unità di misura, equivalente a mq. 144 all’epoca dei Chou. ME 3, 49, 133, 198. MU CHUNG amico di Meng Hsien-tzu. ME 134. MU PI discepolo di Confucio. ME 259. NAN JUNG vedi NAN-KUNG K’UO. DI 93, 258. NAN-KUNG K’UO discepolo di Confucio, fratello maggiore di Meng I-tzu, detto Nan (meridionale) o Nan-kung (del palazzo meridionale) dal luogo della sua abitazione. DI 338. NAN-TZU dissoluta moglie del duca Ling di Wei. BC 17, DI 145. NAN-YANG città contestata tra Ch’i e Lu. ME 168. NING WU-TZU dignitario di Wei, ministro del duca Wên di Chin, capo dei feudatari. DI 112. NIU monte dello stato di Ch’i. ME 148. PAI KUEI cittadino del dominio imperiale di Chou, di nome dato TAN PAI-LI HSI saggio ministro del duca Mu di Ch’in. ME 131, 175. P’ANG MENG allievo dell’arciere I, uccise il suo maestro. ME 113. PEI-KUNG I

. ME 170, 171.

cittadino di Wei. ME 133. PEI-KUNG YU uomo famoso per il coraggio. ME 25. P’ÊNG denominazione di CH’IEN K’ÊNG

, mitico virtuoso discendente dell’imperatore Chuan

Hsü. DI 148. P’ÊNG KÊNG discepolo di Mencio. ME 55. P’ÊNG-CH’ÊNG KUO ministro di Ch’i. ME 251. PI disco di giada con un foro rotondo al centro, usato come distintivo di rango. ME 131. PI città di Lu, roccaforte della famiglia Chi. BC 9, DI 126, 277, 421. PI CHAN ministro del duca Wên di Têng. ME 49. PI HSI intendente di Chao Chien-tzu, si ribellò impadronendosi della città di Chung-mu. BC 20, DI 441. P’I SHÊN ministro dello stato di Ch’êng. DI 341. PI-KAN terzo figlio dell’imperatore T’ai Ting e ministro di Chou Hsin, suo nipote: fu fatto trucidare da costui. DI 461, ME 24, 146. PI-YING località dove morì il re Wên. ME 90. PIN piccolo stato, feudo di T’ai Wang. ME 21, 22. P’ING (duca) principe di Chin (sul trono 557-532). ME 134. P’ING (duca) principe di Lu (sul trono 316-297). ME 23. P’ING-LU città di Ch’i. ME 36, 165. PO capitale del feudo di T’ang. ME 56, 129. PO dignitario di Ch’i. DI 342. PO-I figlio del principe di Ku-chu, rinunciò al trono e si ritirò in eremitaggio. Si lasciò morire di fame

per protesta contro i Chou. DI 114, 161, 432, 468, ME 25, 32, 61, 74, 132, 166, 198, 237. PO-K’UO saggio dell’epoca Chou. DI 471. PO-TA saggio dell’epoca Chou. DI 471. PO-NIU vedi JAN PO-NIU. DI 127. PO-YÜ di nome dato LI , figlio di Confucio. BC 32, DI 433, 444. PRIMAVERA ED AUTUNNO (CH’UN CHIU) annali scritti da Confucio, contenenti le cronache dal 722 al 481 avanti Cristo. BC 29, ME 60, 110, 224. SAN I-SHÊNG ministro del re Wên. ME 260. SAN-MIAO antico stato. ME 125. SAN-WEI montagna del Kansu. ME 125. SHANG vedi TZU-HSIA. DI 48. SHANG seconda dinastia (1766-1122), nel 1388 a. C. assunse la denominazione di Yin. Regnò con 28 imperatori, il primo dei quali fu T’ang e l’ultimo Chou Hsin, spodestato dal re Wu. ME 68. SHANG YANG esponente della scuola dei legisti al servizio dello stato di Ch’in, fu messo a morte nel 336 avanti Cristo. ME 15. SHAO musica dell’imperatore Shun. DI 65, 160, 389. ME 11. SHAO HU ministro di Ch’i, si uccise alla morte del suo principe Chiu. DI 349. SHAO LIEN barbaro orientale, saggio ritiratosi dal mondo. DI 468. SHAO NAN titolo di un capitolo della I sezione del Libro delle Odi. DI 444. SHÊ distretto dello stato di Ch’u. BC 23. SHÊ (duca) titolo assunto da Ch’ên Chu-liang, governatore del distretto di Shê nello stato di Ch’u. BC 23, DI 165, 318, 320. SHEN

intendente di Kung-shu Wên-tzu e poi dignitario di Wei. DI 351. SHEN CHÊNG discepolo di Confucio. DI 102. SHEN HSIANG figlio di Tzu-chang. ME 43. SHÊN NUNG (lett.: il Divino Agricoltore) secondo mitico imperatore, inventò l’aratro e insegnò l’agricoltura. ME 50. SHEN-TZU di cognome SHEN , di nome dato KU-LI , ministro di Lu. ME 168. SHIH vedi TZU-CHANG. DI 270. SHIH-CH’IU città dello stato di Sung. ME 164. SHIH-MÊN passo tra gli stati di Lu e di Ch’i. DI 373. SHIH SHU ministro dello stato di Chêng. DI 341. SHIH-TZU ministro del re Hsüan di Ch’i. ME 42. SHOU-YANG monte dello Shansi, dove morirono i fratelli Po-i e Shu-ch’i. DI 432. SHU antico stato confinante con quello di Ching (Ch’u). ME 50, 60. SHU cognome di una famiglia di dignitari di Lu (vedi TRE CASATE). BC 6. SHU-CH’I figlio del principe di Ku-chu, rinunciò al trono e si ritirò in eremitaggio. Si lasciò morire di fame per protesta contro i Chou. DI 114, 161, 432, 468. SHU-HSIA saggio dell’epoca Chou. DI 471. SHU-LIANG-HO nome del padre di Confucio. BC 1. SHU-SHÊ territorio che il re Chao di Ch’u voleva dare a Confucio. BC 24. SHU-SUN WU-SHU dignitario di Lu. DI 494, 495. SHU-YEH saggio dell’epoca Chou. DI 471. SHUN saggio imperatore, genero dell’imperatore Yao, di cui fu ministro, collega e successore. La sua epoca fu denominata Yü. IM 6, 17, DI 147, 202, 204, 300, 383, 497, ME 47, 50, 55, 60, 62, 63, 87, 89, 90,

121, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 132, 134,137, 146, 162, 163, 168, 170, 175, 192, 201, 206, 211, 222, 228, 255, 259, 260. SHUO KUA appendice al Libro delle Mutazioni scritta da Confucio. BC 27. SUN PIN stratega e generale al servizio dello stato di Ch’i. BM 15. SUN SHU-AO primo ministro del re Chuan di Ch’u. ME 175. SUNG (Laudi) titolo di una sezione del Libro delle Odi. DI 219. SUNG stato situato nell’odierno Honan, dato in feudo dal re Ch’êng a Chi, visconte di Wei, discendente degli Yin. Fu estinto nel 286 a. C. da Ch’i. BC 1, IM 28, DI 49, ME 35, 47, 48, 56, 130. SUNG K’ÊNG letterato girovago. ME 164. SUNG KOU-CHIEN letterato girovago. ME 185. SZU fiume dello Shantung, affluente del Huai, presso il quale fu seppellito Confucio. BC 31, ME 50. SZU vedi TZU-KUNG. DI 57, 125, 271. SZU-MA NIU di cognome HSIANG o anche HUANG (Szu-ma = ministro della guerra, era l’appellativo della famiglia), di nome dato K’ÊNG , di nome proprio TZU-NIU , discepolo di Confucio e fratello di Huang Tui. DI 281, 282, 293. TA fiume dello Shantung, affluente del T’u-hsieh. ME 50. TA HSIANG paese dello Shantung. DI 207. TAI fratello di Ch’ên Chung-tzu. ME 61. T’AI CHIA secondo imperatore della dinastia Shang, nipote di T’ang, fu esiliato a T’ung dal ministro I Yin, che lo richiamò dopo tre anni. ME 128, 207. TAI PU-SHÊNG ministro dello stato di Sung. ME 57. T’AI-KUNG-WANG (o T’AI-KUNG) titolo di Liu Shang, precettore, suocero e ministro del re Wu, che gli assegnò in feudo lo stato di Ch’i. ME 74, 168, 198, 260. T’AI-PO figlio maggiore di Tan-fu, rinunciò al feudo di Chou e si ritirò fra i barbari meridionali, dove fondò il regno di Wu. DI 185. T’AI-SHAN (scritto anche )

una delle montagne sacre, situata al confine tra gli stati di Lu e di Ch’i. DI 46, ME 7, 25, 200. T’AI-TING figlio dell’imperatore T’ang e padre di T’ai Chia. ME 128. T’AI WANG titolo postumo di Tan-fu. IM 18, ME 12, 21, 22. TAI YING-CHIH ministro di Sung. ME 59. TAN-CHU figlio dell’imperatore Yao. ME 128. TAN-FU proavo del re Wu, da Pin si trasferì ai piedi del monte Ch’i, dove fondò il regno di Chou. Gli fu attribuito il titolo postumo di T’ai Wang. ME 12. TAN-T’AI MIEH-MING discepolo di Confucio. DI 131. T’ANG città dello stato di Ch’i. ME 245. T’ANG denominazione dinastica dell’imperatore Yao. DI 204, BM 15, ME 128. T’ANG di nome dato LI , piccolo feudatario dello stato di Shang, vinse ed esiliò l’imperatore Chieh Kuei. Fondò la dinastia Shang. PF 2, DI 300, ME 15, 18, 24, 26, 34, 56, 70, 109, 128, 129, 162, 166, 206, 226, 255, 260. TAO YING discepolo di Mencio. ME 211. T’AO-WU cronache dello stato di Ch’u. ME 110. TÊNG piccolo stato situato nell’odierno Shantung, dato in feudo dal re Wu al fratellastro Shu Hsiu. DI 344, ME 22, 38, 47, 49, 252. TI sacrificio dedicato dagli imperatori Chou al capostipite. DI 50, 51. TI popoli barbari della Cina settentrionale. DI 45, ME 18, 21, 22, 50, 56, 60, 226. TIEH-CHAI nome della porta della città fortificata di Sung. ME 212. TIEN figlio del re di Ch’i. ME 209. TIEN CHI valente generale al servizio dello stato di Ch’i. BM 15. TING (duca) principe di Lu (sul trono 509-495). BC 8, DI 59, 317. TING (duca)

principe di Têng, padre del duca Wên. ME 48. T’O dignitario di Wei, oratore nel tempio ancestrale. DI 133, 352. TRE CASATE (SAN CHIA) famiglie di dignitari dello stato di Lu: Chi, Meng e Shu, discendenti del duca Huang di Lu (sul trono 711-692). Per ricordare la loro nobile origine aggiungevano al cognome la parola sun (nipoti). BC 6, DI 42, 354. TRE DINASTIE (SAN TAI) sono le dinastie che regnarono nel periodo feudale (Hsia, Shang o Yin, Chou). BM 15, ME 64. TSAI vedi TZU-KAO. DI 270. TS’AI stato situato nell’odierno Honan, dato in feudo dal re Wu al fratello Tu, fu estinto nel 447 a. C. da Ch’u. BC 23, DI 255, 469, ME 240. TSAI WO di nome dato YÜ , discepolo di Confucio. DI 61, 143, 255, 455, ME 25. TSAI YÜ vedi TSAI WO. DI 101. TS’AN vedi TSÊNG-TZU. PF 1, DI 81, 270. TS’ANG-LAN denominazione del fiume Han. ME 69. TSANG TS’ANG favorito del duca P’ing di Lu. ME 23. TSANG WÊN-CHUNG dignitario di Lu. DI 109, 392. TSANG WU-CHUNG dignitario di Lu. DI 345, 347. TS’AO il focolare, uno dei cinque luoghi della casa dove si offrivano sacrifici agli esseri spirituali. DI 53. TS’AO stato situato nell’odierno Shantung, dato in feudo dal re Wu al fratello Chên-to, nel 487 a. C. fu estinto da Sung. ME 162. TSÊNG HSI nome dato TIEN

, discepolo di Confucio, padre di Tsêng-tzu. DI 278, ME 80, 258, 259.

TSÊNG HSI nipote di Tsêng-tzu. ME 24. TSÊNG-TZU di nome dato TS’AN , di nome proprio TZU-YÜ , discepolo di Confucio. Gli vengono attribuiti il Libro della Pietà Filiale e il commento al Grande Studio. PF 1 et saepe, DI 3, 9, 81, 187, 188, 189, 190, 191, 302, 360, 487, 488, 489, 490, 491, ME 25, 34, 48, 50, 58, 80, 120, 258. TSÊNG YÜAN figlio di Tsêng-tzu. ME 80.

TSO CH’IU-MING (secondo alcuni dovrebbe essere TSO-CH’IU MING) storiografo di Lu, al quale sarebbe da attribuire il commento (Tso Chuan) agli annali Primavera ed Autunno di Confucio. DI 116. TSOU (scritto anche ) piccolo stato, patria di Mencio, situato nell’odierno Shantung. BM 1, ME 7, 19, 48, 161, 162, 165. TSOU (scritto anche ) città di Lu, in cui nacque Confucio. BC 2, DI 55. T’SUI-TZU dignitario di Ch’i, uccise il duca Kuang di Ch’i. DI 110. TUAN-KAN MU cittadino di Wei (Liang). ME 58. T’UNG località dello Shansi, dove fu sepolto T’ang. ME 128. TUNG-KUO famiglia di Ch’i. ME 34. TZU-AO vedi WANG HUÀN. ME 85, 86, 116. TZU-CH’AN nome proprio di KUNG-SUN CHIAO , dignitario di Chêng. DI 107, 341, 342, ME 91, 124. TZU-CHANG di cognome CHUAN-SUN , nome dato SHIH , discepolo di Confucio. DI 34, 39, no, 272, 284, 288, 292, 298, 375, 384, 420, 440, 472, 473, 474, 498, ME 25, 50. TZU-CHIEN di cognome FU , di nome dato PU-CH’I , discepolo di Confucio. DI 92. TZU-CHIH primo ministro di Tzu-k’uai, principe di Yen, al quale costui cedette il trono. ME 40. TZU-CH’IN vedi CH’ÊN TZU-CH’IN. DI 10. TZU-CHO JU-TZU comandante delle truppe di Chêng. ME 113. TZU-FU CHING-PO dignitario di Lu. DI 370, 494. TZU-HSI primo ministro del re Chao di Ch’u, dissuase costui dal dare a Confucio il territorio di Shu-shê. BC 24, DI 342. TZU-HSIA di cognome PO

, di nome dato SHANG

, discepolo di Confucio. DI 7, 24, 48, 130, 283, 300,

319, 474, 475, 476, 477, 478, 479, 480, 481, 482, 483, 484, ME 25, 50. TZU-HSIANG discepolo di Tsêng-tzu. ME 25. TZU-HUA

vedi KUNG-HSI HUA. DI 122. TZU-KAO di cognome KAO , di nome dato TSAI , discepolo di Confucio. DI 277. TZU-K’UAI principe di Yen (sul trono 320-314?), cedette il trono al ministro Tzu-chih. ME 40. TZU-KUNG di cognome TUAN-MU , di nome dato SZU , discepolo di Confucio. DI 10, 15, 29, 57, 95, 100, 103, 104, 106, 147, 161, 211, 217, 255, 265, 268, 277, 285, 301, 322, 326, 362, 363, 369, 381, 388, 402, 453, 458, 492, 493, 494, 495, 496, ME 25, 50. TZU-LIU vedi HSIEH LIU. ME 166. TZU-LU di cognome CHUNG , di nome dato YU , detto anche CHI LU , noto per il suo amore per il coraggio, discepolo di Confucio. Fu ucciso (480 a. C.) in una sommossa nello stato di Wei. BC 12, 30, IM 10, DI 98, 99, 105, 117, 145, 157, 165, 181, 216, 231, 253, 265, 267, 274, 278, 290, 303, 305, 330, 345, 355, 370, 373, 377, 380, 439, 442, 457, 466, 467, ME 24, 31, 58, 130. TZU-MO virtuoso personaggio di Lu. ME 202. TZU-SANG PO-TZU cittadino di Lu. DI 120. TZU SHU-I ignoto personaggio. ME 42. TZU-SZU di nome dato CHI , figlio di Po-yü e nipote di Confucio, fu discepolo di Tsêng-tzu. Gli viene attribuito L’Invariabile Mezzo. BC 32, BM 2, ME 120, 134, 137, 138, 166. TZU-TU ragazzo che simboleggia la bellezza della gioventù maschile. ME 147. TZU-WÊN primo ministro dello stato di Ch’u. DI 110. TZU-YU di cognome YEN , di nome dato YEN , discepolo di Confucio. DI 23, 92, 131, 438, 484, 485, 486, ME 25, 50. TZU-YÜ ministro dello stato di Chêng. DI 341. WAI-PING figlio dell’imperatore T’ang. ME 128. WAN CHANG discepolo di Mencio, collaboratore nella compilazione del libro Meng-tzu. BM 17, ME 56, 123, 124, 125, 127, 128, 129, 130, 131, 134, 135, 137, 138, 139, 259. WANG HUAN di nome proprio TZU-AO , favorito del re Hsüan di Ch’i, governatore della città di Kai e poi «consigliere della destra». ME 38. WANG LIANG

auriga del dignitario Chao Chien-tzu. ME 52. WANG PAO cittadino di Wei. ME 166. WANG SHUN personaggio considerato come servo dal duca Hui di Pi. ME 134. WANG-SUN CHIA dignitario di Wei. DI 53, 352. WEI fiume del Honan. ME 91. WEI stato situato a cavallo delle odierne regioni del Hopeh e del Honan, dato in feudo dal re Wu al fratello Fêng (K’ang Shu). Fu estinto nel 209 a. C. dal secondo imperatore della dinastia Ch’in. BC 16 et saepe, DI 309, 311, 374, ME 120, 130. WEI cognome di una delle tre famiglie di dignitari di Chin, tra le quali nel 376 a. C. questo stato fu spartito. DI 344. WEI stato sorto nel 376 a. C. dalla spartizione dello stato di Chin, dal 340 a. C. fu detto anche Liang. Nel 225 a. C. fu estinto da Ch’in. BM 15. WEI (visconte di) di nome CHI , fratellastro dell’imperatore Chou Hsin, antenato di Confucio. DI 461, ME 24, 146. WEI CHUNG secondo figlio (o fratello) di Chi visconte di Wei. ME 24. WEI-SHÊNG KAO cittadino di Lu. DI 115. WEI-SHÊNG MU saggio ritiratosi dal mondo. DI 366. WÊN fiume al confine tra gli stati di Lu e di Ch’i. DI 126. WÊN (duca) principe di Chin (sul trono 636-628), fu uno dei cinque capi dei feudatari. DI 348, ME 7, 110. WÊN (duca) principe di Têng. ME 20, 21, 22, 47, 48, 49, 50. WÊN (re) titolo postumo di Ch’ang, padre del re Wu. Feudatario di Chou, fu nominato «Conte Occidentale». Governò su due terzi dell’impero. PF 9, GS 3, IM 18, DI 204, 210, 493, ME 2, 9, 10, 12, 18, 24, 26, 47, 49, 60, 68, 74, 90, 109, 146, 162, 186, 198, 241, 244, 260. WÊN YEN appendice al Libro delle Mutazioni scritta da Confucio. BC 27. WU suonatore di tamburello alla corte di Lu. DI 469. WU

regno fondato da T’ai-po, dopo aver rinunciato al feudo di Chou. Nel 473 a. C. fu estinto da Yüeh. ME 10, 68. WU (re) di nome dato FA , figlio del re Wên, fondò la dinastia Chou. IM 18, 19, DI 493, 497, ME 10, 15, 17, 24, 56, 60, 70, 109, 146, 206, 226, 255. WU-CHÊNG città dello stato di Lu. DI 131, 438, ME 120. WU CH’ÊNG (Compimento delle Operazioni Militari) titolo d’un capitolo (V, 1) del Libro dei Documenti, che narra le gesta del re Wu. ME 225. WU CHI stratega e generale al servizio di Wei e poi di Ch’u. Nel 381 a. C. morì assassinato. BM 15. WU HUO uomo erculeo dell’antichità. ME 162. WU-LING città dello stato di Ch’i. ME 61. WU LU-TZU di nome dato LIEN , discepolo di Mencio. ME 165. WU-MA CH’I discepolo di Confucio. DI 177. WU TING ventesimo imperatore della dinastia Yin. ME 24. YANG secondo maestro di musica alla corte di Lu. DI 469. YANG-CHÊNG montagna del Honan. ME 128. YANG CHU filosofo pessimista (IV sec. a. C.), propugnò l’individualismo egoistico. ME 60, 202, 248. YANG FU discepolo di Tsêng-tzu. DI 490. YANG HU detto anche YANG HUO , intendente della famiglia Chi di Lu, della quale usurpò il potere. BC 8, DI 435, ME 49, 58. YAO saggio imperatore, la cui epoca fu detta T’ang. Negli ultimi anni del suo regno si associò Shun, al quale lasciò il trono. DI 147, 202, 203, 497, ME 47, 50, 55, 60, 62, 63, 121, 123, 124, 126, 127, 129, 132, 134, 137, 146, 162, 168, 170, 206, 222, 255, 259, 260. YEN stato situato nella Cina settentrionale, assegnato in feudo dal re Wu al suo ministro, duca Shao. Fu una delle grandi potenze all’epoca dei Regni Combattenti. Nel 314 a. C. fu occupato dal re Hsüan di Ch’i, a cui si ribellò. Fu estinto nel 222 a. C. da Ch’in. ME 17, 18, 40. YEN stato barbaro situato nell’odierno Shantung, aiutò l’imperatore Chou Hsin contro il re Wu. ME 60.

YEN cognome della madre di Confucio, la quale aveva nome CHÊNG-TSAI . BC 1. YEN CHO-TSOU detto anche YEN CHOU-YU, virtuoso dignitario di Wei, di cui Confucio fu ospite. BC 15. YEN CHOU-YU vedi YEN CHO-TSOU. ME 130. YEN HUI vedi YEN YÜANG. DI 121, 259, ME 118. YEN LU padre di Yen Yüang. DI 260. YEN PANG amico del duca Hui di Pi. ME 134. YEN P’ING-CHUNG vedi YEN YING. DI 108. YEN-TZU vedi YEN YING. ME 11, 24. YEN-TZU vedi YEN YÜANG. ME 118. YEN YING detto anche Yen P’ing-chung, primo ministro di Ch’i. BC 7. YEN YÜANG discepolo favorito di Confucio, di nome dato HUI , premorto al maestro. DI 117, 157, 215, 225, 255, 260. 261, 262, 263, 275, 279, 389, ME 25, 47. YIN denominazione assunta nel 1388 a. C. dalla dinastia Shang. GS 10, DI 389, ME 24, 63, 68, 128, 226. YIN stato dato in feudo dal re Wu a Wu-kêng, figlio dell’imperatore Chou Hsin. ME 41. YIN iniquo ministro dell’imperatore Yu Wang. PF 7, GS 10. YIN KUNG-TO cittadino di Wei, abile arciere, maestro di Yü Kung-szu. ME 113. YIN SHIH cittadino di Ch’i. ME 44. YING città dello stato di Ch’i. ME 39. YO-CHÊNG CHIU amico di Meng Hsien-tzu. ME 134. YO-CHÊNG-TZU discepolo di Mencio, dal cognome Yo-chêng, di nome dato K’Ê YU dodicesimo imperatore della dinastia Chou. ME 63, 146. YU

. ME 23, 85, 86, 173, 247.

vedi TZU-LU. DI 33, 270, 382. YÜ ministro di Yao e di Shun, bonificò le terre invase dalle acque. Salì al trono designato da Shun e fondò la dinastia Hsia. DI 205, 338, 497, ME 31, 50, 60, 108, 115, 118, 128, 171, 244, 260. YÜ stato situato nell’odierno Shansi, di cui si dice fossero principi gli avi di Shun: da esso fu detta Yü la designazione dinastica di Shun. Fu estinto dallo stato di Chin. DI 204, BM 15, ME 128, 131, 166. YÜ storiografo, dignitario di Wei. DI 385. YÜ montagna dello Shantung. ME 125. YU-CHOW antica provincia dell’odierno Hupeh. ME 125. YU JO discepolo di Confucio. DI 287, ME 25, 50. YU-PEI antico stato, situato nell’odierno Honan, dato in feudo da Shun al fratellastro Hsiang. ME 125. YU-TZU vedi YU JO. DI 2, 12, 13. YÜ CHUNG di nome CHUNG-YUNG , figlio di Tan-fu, insieme al fratello T’ai-po rinunciò al feudo di Chou e si ritirò fra i barbari meridionali. DI 468. YÜ KUNG-SZU comandante delle truppe di Wei, famoso arciere, allievo di Yin Kung-to. ME 113. YÜAN JAN conoscente di Confucio, seguace della scuola taoista. DI 378. YÜAN SZU di nome dato HSIEN , discepolo e intendente di Confucio. DI 122. YÜEH sobborgo della capitale di Ch’i. ME 57. YÜEH feudo dei discendenti dell’imperatore Shao K’ang, situato nelle odierne regioni del Kiangsu e del Chekiang, fu estinto nel 334 a. C. da Ch’u. ME 120, 163. YUNG titolo di un’ode (IV, 17). DI 42. YUNG vedi CHUNG-KUNG. DI 96, 120.

INDICE DELLE TAVOLE I Regni Combattenti K’ung Ch’iu L’inizio del commento, attribuito a Tsêng-tzu, de Il grande studio Frontespizio di una moderna edizione de I quattro libri Meng Ko Disco rituale pi