Socrate. Antologia di testi

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Socrate. Antologia di testi

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Socrate a cura di Antonio Capizzi La Nuova Italia

SO C RATE ANTOLOGIA DI TESTI

L A NU O V A

ITALIA

Scelta, traduzione, introduzione e note di Antonio Capizzi

Prima ristampa: settembre 1974 Printed in Italy

INTRODUZIONE

l.

Il pro blema so cra tic o

Chi era vera me nte So cra te? È u na doma nda alla quale ci nqua nt'a nni fa si sare bbe ri spo sto più fa cilme nte eli oggi . U na doma nda che è eli ve nta ta sempre più im baraz ­ za nte, e che al cuni ri te ngo no senza ri spo sta. U n primo pu nto fermo po trebbero e ssere al cu ni av ­ ve nime nti salie nti della sua vi ta. Co ntrariame nte a qua nto a ccade per altri filo sofi dell'epoca, sappiamo co n cer ­ tezza l 'a nno d �lla na sci ta e quel lo della mor te: 469 il pri ­ mo, 399 il se co ndo. Co no sciamo il nome e la profe ssio ne del padre e della madre, il demo eli appar te nenza, i nomi delle due mogli e dei tre figli; sappiamo che pre se par te ad alcu ne campag ne m ili tar i, che i n tempo eli pa ce no n la sciò mai A te ne se no n u na volta sola per re car si a ve ­ dere i giochi i stmi ci di Cori nto; ci ri sul ta no i nomi dei suo i di scepoli pri ncipali e delle scuole che e ssi fo ndaro no; ci è sta to trama nda to il suo a tteggiame nto i n oc ca sio ne eli u na grave de ci sio ne poli ti ca. I nfi ne, co no sciamo i da ti fo ndame ntali rela tivi al proce sso da cui u sd la sua co n­ da nna a mor te : l'a ccu sa, i nomi degli accu sa to ri, il ri sul­ ta to delle vo tazio ni, il suo a tteggiamento nell'occa sio ne . Da que sto primo pu nto ne ri caviamo un seco ndo; e cioè l'a tmo sfera poli tico -cul turale in . cui vi sse la sua no n breve vi ta . La riforma di Efi alte aveva da to i nizio alla v

« democrazia diretta » di Atene, tanto decantata e anche tanto discussa; e l'età di Pericle ne era stata la splendida fioritura. Gli Eupatridi, i discendenti della vecchia oligar­ chia, avevano accusato il colpo, ma non si erano conside­ rati soppiantati dal popolo: sapevano bene che, a parità di diritti e in regime di libera espressione del pensiero, emerge sempre chi sa usare efficacemente due armi, la potenza delle ricchezze e la forza delle parole: due armi che erano pur sempre nelle mani dei nobili, tanto è vero che la democrazia aveva espresso, come capo del suo stes­ so partito, l'aristocratico Pericle. Le cose avevano comin­ ciato a cambiare, e non solo di nome ma anche di fatto, quando la prosperità dei commerci aveva fatto emerge­ re dal popolo una classe di nuovi ricchi: mercanti, arma­ tori, imprenditori di ogni genere, avevano tolto di mano all'aristocrazia uno dei due monopòli, quello del denaro; e ben presto si erano serviti di quel denaro per mandare i figli in scuole che consentissero loro di strappare ai vec­ chi padroni anche il secondo privilegio, quello dell'abilità di parola. Tramite necessario di questo passaggio era sta­ ta una nuova classe di maestri, detti « sofisti », che sfrut­ tando abilmente la nuova miniera d'oro riuscirono (data soprattutto l'importanza della posta in palio, che era il predominio nelle cariche politiche) a ricavare notevoli ric­ chezze dal loro insegnamento: essendo interamente· vol­ to al trionfo nelle assemblee popolari, tale insegnamento si imperniava sulle discipline che riguardano il parlar bene; in particolare la grammatica per la correttezza del discor­ so, la retorica per lo stile piacevole e la capacità di su­ scitare passioni, e infine la dialettica (intesa spesso come eristica, arte del vincere ad ogni costo le discussioni) per la struttura logica del dibattito. Probabilmente si inse­ gnavano anche nozioni di astronomia e di mitologia per fare sfoggio di erudizione: per questo bastava attingere al­ la tradizione ionica, eleatica e pitagorica dei secoli prece­ denti. Sta di fatto che il fenomeno pedagogico-culturale

VI

della sofistica e il fenomeno politico dell'ascesa della bor­ ghesia al potere (esempio massimo ne fu il pellicciaio Oeo­ ne) ci si presentano come strettamente associati; e non a caso, prima e dopo il colpo di Stato aristocratico che ebbe come protagonisti Crizia e i cosiddetti Trenta Tiranni, i critici della democrazia diretta e della borghesia al po­ tere sono anche i critici della sofistica e dei suoi metodi. Che Socrate avesse a che fare, e non solo incidental­ mente, con tutto ciò, è fuori di dubbio: in tutta la sua vita egli non scrisse nulla (solo alla fine, in prigione ad attendere l'esecuzione, compose alcuni versi), e le pagine che contano per capire la sua personalità e il suo pensiero sono quelle che scrissero coloro che lo conobbero perso­ nalmente; il commediografo Aristofane, lo storico Seno­ fonte, il filosofo Platone. Neanche a farlo apposta, si tratta di tre scrittori che attaccarono violentemente, nei loro libri, la democrazia borghese e la sofistica che ne era il puntello: il « figlio del popolo» Aristofane, il ca­ valiere Senofonte e il nobile Platone, parente di Crizia e di Carmide, concordarono in questa violenta reazione alla nuova atmosfera politico-culturale. Dove c'è Socrate, c'è lotta tra vecchio e nuovo: ecco appunto la seconda verità accertata. Ma è proprio qui che cominciamo a non capire più niente: perché Aristofane, nelle Nuvole, mette Socrate a capo dei sofisti che, dietro pagamento, insegnano ai figli degli arricchiti come si possa far sembrare « migliore» il discorso « peggiore» (come si possa, cioè, dimostrare con argomenti inattaccabili una tesi falsa ma conveniente); mentre Platone e Senofonte, discepoli e amici di Socrate, respingono con sdegno il riavvicinamento, mostrandoci un Socrate che professa di non sapere, di non insegnare, di non farsi pagare, che crede solo al ragionamento giu­ sto prescindendo dai risultati, e che spesso, infine, non nasconde il suo disprezzo per i politici improvvisati e in­ competenti che con l'arte della chiacchiera si trascinano VII

dietro le assemblee popolari. Le vicende stesse della sua vita non ci aiutano molto: se è vero che troviamo tra i suoi discepoli l'oligarchico Crizia e tra i suoi accusatori il democratico Anito, è probabilmente anche vero quello che ci raccontano Platone e Senofonte sui guai che ebbe a passare durante il predominio dei Trenta. È certo, come ho detto prima, che Socrate si trovò nel pieno della lotta: ma da che parte stava, esattamente? Più in generale, le stesse difficoltà ci rendono oltre­ modo difficile ricostruire il suo vero pensiero. Non è pos­ sibile dar valore alla testimonianza di Aristotele o a quel­ le di tutti quegli scrittori che non lo conobbero di perso­ na: essi infatti hanno le notizie che abbiamo noi, e cioè notizie di seconda mano, attinte agli scritti di chi ha visto e sentito. Ma quelli che hanno visto e sentito sono trop­ po occupati chi a mettere in burla Socrate ancor vivo e vegeto, chi a difendere la memoria di Socrate morto in­ giustamente, per darci un quadro obiettivo di ciò che ef­ fettivamente egli pensava: del pensiero socratico Aristo­ fane ci dà la deformazione comica, Platone e Senofonte la sublimazione eroica. Ma, siamo sempre daccapo: chi era veramente Socrate, che cosa diceva, che cosa insegnava, che posizione prendeva sui problemi del suo mondo cul­ turale? A questa domanda le parodie e le apologie non sanno rispondere. E non basta: i tre scrittori che ci hanno in qualche modo parlato di Socrate per esperienza diretta lo hanno fatto, guarda combinazione, tutti in forma drammatica; e cioè essi non ci narrano le conversazioni di Socrate, ma lo fanno agire e parlare come personaggio di un contesto (commedia o dialogo) non narrativo e non espositivo. In tal modo, anche se decidessimo di dar credito a ciò che essi ci dicono di Socrate, ci troveremmo di fronte una nuova difficoltà: sapere se essi intendono davvero in­ formarci, o se per caso il persohaggio Socrate non espri­ ma quel pensiero in quel momento per esigenze interne VIII

dell'azione dialogata. Immaginiamo, per fare un esem­ pio paradossale, che andassero distrutti in un cataclisma tutti i libri di storia esistenti, e che noi per conoscere Giulio Cesare o Riccardo III d'Inghilterra avessimo a disposizione solo i due omonimi drammi di Shakespeare: che valore dovremmo dare alle battute che questi perso­ naggi pronunciano in quei drammi? Avendo la storia co­ me controllo, noi sappiamo che alcune di quelle frasi essi le dissero veramente ( « Anche tu, Bruto! », « Il mio regno per un cavallo! ») e altre furono inventate dallo scrittore per esigenze riguardanti l'azione drammatica da lui con­ cepita; ma se quel controllo ci venisse a mancare, ecco che noi, pur sospettando che alcune parti dei drammi possa­ no esserci utili, non sapremmo quali siano. Lo stesso ac­ cade per Le nuvole di Aristofane, per i Memorabili di Se­ nofonte, per il Pedone platonico: gli scrittori devono pure, in qualche modo, aver preso per base il Socrate storico, ad essi ben noto, per costruire il loro Socrate drammatico; salvo che non sappiamo dove, né come. Per Platone, poi, sorge una terza difficoltà: l'intera filosofia platonica ci è nota attraverso i suoi dialoghi, e in quei dialoghi, o almeno nella maggior parte di essi, essa viene esposta e dimostrata proprio dal personaggio chiamato Socrate. Ci si domanda, allora, se quei pensie­ ri siano di Platone, o di Socrate, o un po' dell'uno e un po' dell'altro; e, in quest'ultimo caso, come si possano di­ stinguere le opinioni del maestro da quelle del discepolo. Ciò che ho detto finora è sufficiente per dare un'idea di quanto complesso si sia sempre presentato il cosid­ detto « problema socratico ». Lo sforzo degli studiosi per orientarvisi dentro ha spesso messo in luce ulteriori dif­ ficoltà, al punto che oggi c'è chi dichiara che il Socrate storico per noi non esiste, e che Socrate non è che il « so­ cratismo », l'insieme dei pensieri fioriti nelle scuole co­ siddette « socratiche »: l'Accademia platonica, il cini­ smo, il gruppo megarico e quello cirenaica; e in fondo IX

tutta la filosofia fino ai nostri giorni, perché non c'è filo­ sofia che non nasca in qualche modo dalla riflessione so­ cratica.

2.

Tentat ivi di fallimento

r c s t rui r

i o

e il Socrate storico e loro

Nel secolo scorso gli studiosi, dallo Schleiermacher allo Zeller, dal Grote al Renan, negarono a Platone, pro­ prio perché ritenuto fonte filosofica e non storica, ogni valore come testimonianza sul pensiero di Socrate: la te­ stimonianza per eccellenza era quella di Senofonte, apparen­ temente disinteressato ed estraneo ai problemi dibattuti; e solo lo Hegel riteneva che Platone potesse completare Se­ nofonte, ma soltanto per quanto riguarda il metodo, e in genere tutto l'aspetto esterno del discorso socratico, non per i contenuti. Il Labriola e il Doring arrivarono a sostenere che Platone avesse attribuito a Socrate, sempli­ ce maestro di virtù e di costume, una cultura e una forma­ zione filosofica che questi non poteva avere. All'inizio del secolo il Joel demoll completamente la testimonianza di Senofonte, dimostrandola apologetica e fittizia: ciò costrinse gli studiosi di Socrate a ritornare all'esame del Socrate platonico e dei suoi rapporti col Socrate storico. I due massimi platonisti dell'università di Oxford, il Burnet e il Taylor, passarono all'estremo opposto, considerando socratico tutto ciò che il perso­ naggio Socrate dice nei vari dialoghi: conseguentemente attribuirono a Socrate tutte le dottrine centrali degli scritti platonici, dali'Apologia al Teeteto, e ridussero il pensiero originale di Platone a quelle dottrine che vengono espo­ ste là dove Socrate non è più il protagonista (nel Parme­ nide, nel Sofista, nel Politico, nel Timeo e nel Crizia) o x

addirittura non compare affatto (nelle Leggi). Platone, come Kant, sarebbe, secondo i due filologi inglesi, arri­ vato alla filosofia in tarda età, e non sarebbe sua neanche la dottrina delle idee, che pure Aristotele gli attribuisce chiaramente in molti passi: posizione senza dubbio inso­ stenibile, e di fatto rifiutata dalla maggior parte degli storici. Gli studiosi tedeschi, guidati dall'illustre storico della filosofia antica Teodoro Gomperz, pensarono piuttosto di ricorrere ad Aristotele:. non, però, ad Aristotele come testimone su Socrate, cosa impossibile per il principio (già citato) che su di un filosofo che non ha scritto nulla possono testimoniare validamente solo quelli che lo ascol­ tarono direttamente; ma ad Aristotele come fonte su Pla­ tone, che invece lo Stagirita conobbe molto bene e perso­ nalmente, rimanendo parecchi anni alla sua scuola. Si è visto che Aristotele parla sempre della dottrina delle idee come di qualcosa che è inseparabile da Platone : perciò gli studiosi tedeschi considerarono « platonici » i dialoghi dove tale dottrina compare, « socratici » invece quelli do­ ve non compare. E siccome la dottrina delle idee è pre­ sente nei dialoghi della maturità e della vecchiaia, lunghi o di media lunghezza, a cominciare dal Fedone, ecco che il pensiero socratico venne ricercato nei brevi e svelti dialoghi che Platone scrisse durante la giovinezza: l'Apo­ logia, il Critone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside; e tutti quelli che mettono in caricatura i sofisti, come il Gorgia, il Protagora, i due Ippia, l'Eutidemo, il primo libro della Repubblica (che fu composto molto prima degli altri, e che si chiamava forse Trasimaco). Ma, è stato giustamente osservato, Aristotele era qualificato ad attestare che Platone insegnava la dottrina delle idee; non che fu il primo ad insegnar/a: difatti Aristotele, per valutare l'originalità di quella dottrina, avrebbe dovuto sentire personalmente i discorsi di Socrate, accertandosi XJ

se la contenessero o no; il che, come sappiamo, non av­ venne. Altri pensarono di mettere a confronto Platone con Senofonte, accettando come socratici tutti i pensieri che fossero attestati da tutti e due i discepoli di Socrate: ma questo metodo fu seriamente compromesso allorché ven­ nero messi in evidenza certi influssi di Platone su Seno­ fonte; e fu dd tutto invalidato quando ci si accorse di un passo di Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, Il, 64 ), con­ fermato da un accenno di Platone (Simposio, 2 15 d), che attestava l'esistenza di un genere letterario, il « dialogo socratico �. dotato di una sua fisionomia ben definita, e al quale appartenevano tanto i dialoghi di Platone quanto quelli di Senofonte. Nel 1947 Olof Gigon pubblicò un li­ bro in cui si dimostrava che tutte le fonti su Socrate, compresi Platone e Senofonte, sono fonti poetiche assai più che storiche; che il Myoc; a-wxprt'ttx6c; era un genere fantastico e avventuroso, all'interno del quale i singoli autori lavoravano su un fondo leggendario e letterario comune; che Socrate nella realtà non fu un filosofo e non ebbe mai l'idea di fare filosofia come l'avevano intesa i naturalisti o i sofisti; che il Socrate fondatore della filo­ sofia fu una falsificazione avente per scopo di negare la derivazione della filosofia ateniese da quella delle colonie; che, in conclusione, di Socrate, al di fuori della trasfigu­ razione letteraria, sappiamo solo che prese parte a certe imprese militari, che fu poi accusato, giudicato e condan­ nato a morte: come dire che non sappiamo praticamente nulla. Dopo il libro del Gigon, la poca luce che si era cre­ duto di fare sul problema socratico si è spenta brusca­ mente.

XII

3. Il criterio formale e la determinazione dell'elemen­ to socratico in Platone Tutti gli studiosi più seri hanno accusato il colpo che la critica del Gigon ha portato alle ricerche su Socrate. Alcuni, pur riconoscendo la necessità di rivedere il pro­ blema da un nuovo angolo visuale, hanno un po' sottova­ lutato la difficoltà: si è cercato di proseguire, sia pure verso obiettivi più limitati, il confronto tra Platone e Senofonte, facendone scaturire, se davvero è impossibile trovare dot­ trine filosofiche vere e proprie, almeno alcuni punti fer­ mi rintracciabili nel modo di discutere, anziché nel conte­ nuto delle discussioni; e soprattutto Guido Calogero ha svolto interessanti indagini stù « principio del dialogo » cui va ridotto, in mancanza di punti fermi, lo spirito so­ cratico. Altri sono tornati ad usare come vaglio Aristotele, i cui scritti indubbiamente non sono « dialoghi socratici » né opere letterarie; ma si sono incontrati con le solite difficoltà: la testimonianza aristotelica è indiretta, e quin­ di priva di valore, se applicata a Socrate; mentre, se usa­ ta per giudicare Platone, è ancora più inutile di prima, dato che alla difficoltà dovuta al carattere filosofico degli scritti platonici si aggiunge ora l'altra dovuta al loro ca­ rattere letterario. Altri ancora sono tornati ad esaminare la parodia aristofanesca delle Nuvole, e in questo senso vanno giudicati particolarmente degni di nota gli scritti di Mario Montuori, imperniati sul fatto indiscutibile che le accuse di Aristofane coincidono con quelle di Anito e di Meleto, fornendoci così una base indiretta per arri­ vare alle dottrine che le avrebbero provocate: ma rimane il fatto che Aristofane attribuisce a Socrate le dottrine fi­ siche di Anassagora e le esercitazioni grammaticali di Protagora, il che limita la portata della sua « testimonian­ za indiretta », che è valida per conoscere la personalità di Socrate, ma non per ricostruime il pensiero. Infine il XIII

De Strycker ha cercato di sfuggire alle strettoie dell'ana­ lisi del Gigon ricorrendo brillantemente a passi di opere non socraticbe e non dialogate sia di Senofonte (come l'Anabasi e la Storia greca), sia di Platone (come la setti­ ma Lettera); da tutto ciò ha ricavato alcuni ragguagli si­ curi, ma scarsamente interessanti sul piano della ricostru­ zione speculativa, come la conferma dei rapporti con l'ora­ colo di Delfo e di qualche episodio del processo. Qualcuno ha del tutto abbassato le armi, ammettendo che il Socrate storico è ormai inattingibile: citerò Jean Patocka, V. de Magalhaes Vilhena, Victor Stern, Bernhard Wadenfels, Gerhard Graf. Personalmente, io non credo che la critica del Gigon abbia demolito ogni e qualsiasi criterio per scernere l'ele­ mento socratico nelle opere platoniche, ed eventualmente in quelle di Senofonte; credo invece che abbia demolito i criteri esterni di tale ricerca, e cioè il confronto della te­ stimonianza platonica con altre testimonianze. E per prima cosa va notato che, come osservavo più sopra, un'opera letteraria può contenere delle testimonianze autentiche, anche se è difficile scoprirle senza l'aiuto di testi storici. Qualche anno fa, rileggendo Dante, mi accorsi che questo scrittore faceva pronunciare da Virgilio e da Stazio discorsi filosofici tipici della scolastica medievale, e che i due poeti latini certamente non pronunciarono mai; ma osservai an­ che che, in altri luoghi, affioravano sulle labbra dei due personaggi danteschi asserzioni che corrispondevano in­ vece assai bene a passi dei loro scritti quali storicamente ci risultano: ad esempio il viaggio di Enea nell'oltretomba, l'invettiva contro la « sacra fame dell'oro », la profezia del secolo nuovo, l'inflessibilità del cielo di fronte alle pre­ ghiere, per quanto cpncerne Virgilio; e gli argomenti mi­ tologici della Tebaide e dell'Achilleide di Stazio. Esami­ nando da vicino i due gruppi di passi, mi accorsi anche che Dante intrOduce i discorsi « medievali » senza nessuna formula particolare, mentre « allude J> agli scritti dei due XIV

poeti, là dove in qualche modo ne riproduce n contenuto, con formule quali «cantai», « tu dici », «tu chiame », «dicesti », «espresso in alcun testo», ecc.; avverte cioè lo scrupolo di far capire al lettore l'allusione ad altra opera. Mi domandai allora se per caso anche Platone non usasse artifici consimili. È chiaro che non potevo verifi­ care l'ipotesi sui passi dove Platone fa parlare Socrate: mancavano le conferme esterne, e non potevo usare Se­ nofonte o Aristofane senza cadere in un circolo vizioso, presupponendo ciò che invece si doveva dimostrare. For­ tunatamente Socrate non è l'unico filosofo che sia anche personaggio dei «dialoghi»: vi compaiono, ed espon­ gono dottrine, anche Parmenide, Zenone, Protagora, Gor­ gia, Ippia, Prodico e Trasimaco; tutti filosofi di cui cono­ sciamo le dottrine attraverso fonti attendibili, e anche attraverso fr ammenti delle opere. Svolsi dunque su di loro l'analisi delle formule, e scoprii che Platone usa, per introdurre le cose che fa loro dire nei dialoghi, tre maniere diverse: a) . senza formula (allorché il personaggio si limita a parlare, nei dialoghi «propri») o con formula semplice (nei dialoghi «raccontati», quando il discorso dd per­ sonaggio è introdotto da un« disse» o simili); b) con formula iterativa (nei luoghi dove si fa cenno al fatto che ciò che il personaggio sta dicendo lo ha già detto «più volte» o lo dice «abitualmente»); c) con formula allusiva (che allude, appunto, a scritti del personaggio filosofo, lasciando intendere che conten­ gono ciò che Platone in quel punto riporta). Passando all'esame comparativo, e cioè al paragone con le fonti non platoniche e non dialogiche sullo stesso filosofo, potei dimostrare che le dottrine introdotte da Platone con le formule iterativa e allusiva trovano gene­ ralmente conferma in altre testimonianze; mentre quelle introd9tte senza formula o con formula semplice non la trovano mai. Avevo in tal modo dimostrato che Platone, xv

quando si riferisce a dottrine realmente professate dal personaggio fuori del dialogo, ne avverte il lettore con le formule speciali ( iterativa e allusiva); e potevo appli­ care questo criterio interno e formale ai passi dove ad esprimere opinioni è il personaggio Socrate, per verifì­ carne la storicità. Non avendo Socrate (come già si è detto) mai scritto nulla, la formula allusiva non gli viene mai applicata; resta dunque che sono socratiche le dot­ trine introdotte dal personaggio Socrate con formula iterativa, platoniche quelle introdotte senza formula o con formula semplice. Trovai in questo modo una serie di passi platonici contenenti dottrine socratiche; e non solo nei dialoghi giovanili, dove era ormai uso corrente cercarle, ma anche nel Pedone, nel Simposio, nel Teeteto e in altri dialoghi della maturità, quegli stessi dove viene esposta la platonica dottrina delle idee: osservai, anzi, che Platone amava partire da una dottrina socratica chia­ ramente caratterizzata ( « ricordi che non solo ora, ma sempre anche altrove abbiamo detto », ecc.) per costruir­ vi sopra, a mo' di sviluppo logico, una sua personale dot­ trina ( « se mi concedi questo, ti dimostrerò che », ecc.), come se avesse voluto ricordare sempre l'origine socra­ tica del suo pensiero. Il Socrate che usciva da questa ana­ lisi non differiva molto da quello che si era sempre pen­ sato essere il suo vero pensiero : concetti ma non idee, arte maieutica ma non teoria dell'amore, esortazione alla giustizia ma non teorizzazione dello Stato giusto, ecc.; salvo che quei punti di vista gli possono essere ora at­ tribuiti con una certa sicurezza di non cadere in grosso­ lani equivoci 1 • Socrate fu soprattutto la 0 ' che cosa ci fosse in Socrate di tanto eccezionale da indurre un uomo sapiente (come Platone) a ringraziare la sorte per averlo fatto nascere ai suoi tempi 4• Non posso negare che egli fosse un po' più sa­ piente di quelli che studiavano la natura : penso anzi che questi ultimi fossero non soltanto sciocchi, ma anche sa­ crileghi in questo loro voler spingere lo sguardo curioso nelle cose che la divina provvidenza ha voluto mantener segrete 5 . Nessuno potrebbe mettere in dubbio che chiun­ que faccia ricerche su questi argomenti è insensato, stu­ pido e pazzo : Socrate, quindi , dimostrò una certa saggez­ za nell'astenersi dal cercare ciò -che evidentemente non si può trovare; ma non soltanto da questo , temo. Molte delle sue azioni, del resto, non solo non furono lodevoli, ma addirittura condannabili : e in questo non fu migliore dei suoi contemporanei. Ne sceglierò una che tutti cono­ scono. Socrate ripeteva spesso: « Le cose che stanno so­ pra di noi non ci interessano 6 ». E allora, gettiamoci a terra, e le mani, che ci sono state date per creare cose belle, trasformiamole in piedi : non interessiamoci più del cielo, anche se siamo stati creati capaci di stare in piedi per contemplarlo; non interessiamoci neanche della lu­ ce. E dire che tutte le ragioni della nostra vita sono in ..

4 Secondo Plutarco (Vita di Mario, 48) Platone avrebbe detto che ringraziava la natura per tre ragioni : perché lo aveva fatto uomo e non animale; perché lo aveva creato maschio e non fenunina; e infine per­ ché gli aveva concesso di essere nn ateniese dei tempi di Socrate. s Passo interessantissimo, perché comincia qui a delinearsi la paura della scienza che spinse i teologi, per rutto il Medio Evo e nell'età moderna fino ai tempi di Galileo, a diffidare di ogni nuova scoperta: Lattanzio fu in fondo il precursore dei processi alle streghe. 6 È una frase che Tertulliano (Alle nazioni, II, 4, 15) riporta come detta da Epicuro, e che Minucio Felice (Ottavio, 13, 1-3), forse per errore, attribuisce a Socrate. Lattanzio riprende qui l'errata versione di Minucio Felice. 89

cielo ! Perciò, se con quella frase intendeva dire che non si doveva discutere delle cose celesti, la conseguenza era che non si potesse più comprendere neanche il perché di quelle che abbiamo sotto i piedi. E allora? Forse si espresse male ? Non sembra proprio : proprio questo in­ tendeva dire, che non ci si deve occupare della religione; ma, se l'avesse detto esplicitamente, nessuno lo avrebbe seguito. Chiunque è in grado di capire che un mondo co­ struito in modo così ammirevole deve essere regolato da una qualche provvidenza. Nulla può conservarsi senza una guida : una casa disabitata va in rovina, una nave senza ti­ moniere affonda, un corpo abbandonato dall'anima si de­ compone; e tanto meno potremo credere che una cosa così grande come il mondo possa essere stata fatta senza un artefice o possa continare ad esistere senza un gover­ no. Se poi la sua intenzione fosse stata per caso di com­ battere i culti popolari, non potrei fargliene una colpa: anzi, arriverei ad ammirarlo, se avesse trovato qualche cosa di meglio ; ma lui giurava per il cane e per l'oca 7! Buffone, come dice Zenone epicureo 8 ; sciocco, miserabile, disperato se volle mettere in burla la religione; pazzo se davvero considerò come divinità gli animali più brutti. Chi avrebbe più il coraggio di disprezzare le superstizioni degli Egiziani 9 , se Socrate le avesse confermate ad Atene con la sua autorità? E non toccò il fondo della stupidità allorché, prima di morire, tutto ciò che seppe dire agli amici fu che si doveva uccidere il gallo offerto ad Escu­ lapio? Di che cosa aveva paura ? Che Esculapio venisse

7 In realtà non si trattava di giuramenti, ma di intercalari carat­ teristici di Socrate: v. più sopra , p. 8 1 . 8 V . sopra, p. 88, n. 3. Lattanzio, fraintendendo Cicerone, con­ fonde Zenone di Cizio (stoico) con Zenone di Sidone (epicureo). 9 La religione egiziana rappresentava quasi tutte le divinità in forma di animali (Oro il falcone, Anubi lo sciacallo, il bue Api, la dea-gatto di Bubasti, lo scarabeo, ecc.), e ciò scandalizzava la religio­ sità antropomorfica dei Greci.

ad accusarlo di mancamento di promessa davanti al tri­ bunale di Radamanto 10? Se almeno fosse morto per una malattia, penserei che gli avesse dato di volta il cervello : ma dal momento che si comportò così nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, pazzi sono quelli che lo riten­ gono sapiente.

IO

Giudice infernale, con Eaco e Minosse, nella mitologia greca.

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II

IL PRECURSORE DI CRISTO

S. Giustino Martire, Seconda apologia, X, 5-8. Socrate, quello che più di tutti si sforzò di ragionare, fu accusato dei nostri stessi delitti : dissero infatti che introduceva nuove divinità e che non riconosceva gli dèi nei quali credeva lo Stato. In realtà egli, che non per nulla proponeva di bandire dallo Stato Omero e gli altri poeti 1, voleva allontanare gli uomini da quei demoni malvagi che, appunto nei canti dei poeti, si comportavano cosl male; e cercava di portarli a conoscere, mediante la ri­ cerca secondo ragione, il Dio ad essi ignoto, tanto è vero che disse: « Il padre e artefice di tutte le cose non è facile trovarlo; e, una volta che lo si è trovato, non sempre è possibile parlarne a tutti 2 » . È appunto ciò che ha fatto, con grande merito, il nostro Cristo. S. Kierkegaard, La malattia mortale (in Il concetto del­ l'angoscia. La malattia mortale, trad. di C . Fabro, Firen­ ze, Sansoni, 1965 ), pp. 309- 1 0.

1 Qui Giustino attribuisce a Socrate le idee che Plato� gli fa esporre nella Repubblica (libro Il, 377 d sgg.), e che sono invece prettamente platoniche. 2 Altro passo platonico (Timeo, 28 c) che esprime punti di vista non attribuibili a Socrate. 92

Il peccato è ignoranza. Questa è, come è noto, la de­ finizione socratica 3 la quale, come tutto ciò che ci ha la­ sciato Socrate, è sempre un'istanza degna di considerazio­ ne. Però riguardo a questo detto socratico è successo lo stesso che di molti altri detti socratici : gli uomini hanno imparato a sentire l'impulso di andar oltre. È innumere­ vole la massa di coloro che hanno provato l'impulso di andare oltre l'ignoranza socratica, probabilmente perché sentivano ch'era loro impossibile fermarsi ad essa; infatti, quanti saranno mai in ogni generazione coloro che sareb­ bero in grado di resistere per un solo mese ad esprimere esistenzialmente l'ignoranza su ogni cosa? Perciò io non intendo affatto di respingere la defini­ zione socratica col pretesto che non ci si possa fermare ad essa; ma tenendo in mente il punto di vista cristiano, voglio servirmi di quella per mettere in evidenza questo in tutto il suo rigorè, appunto perché la definizione so­ cratica è cosl autenticamente greca ; allora qui come sem­ pre, ogni altra definizione che non sia nel senso più stret­ to rigorosamente cristiana, cioè ogni definizione interme­ dia, si rivela nella sua vacuità. Ora, l'inconveniente della definizione socratica è ch'essa lascia indeterminato come si deve intendere più precisamente l'ignoranza stessa, la sua origine, ecc. Ciò vuoi dire : ammesso che il peccato sia ignoranza (o forse piuttosto, come direbbe il cristianesimo, stoltezza) - ciò che in un certo senso non si può affatto negare - si trat­ ta di · un'ignoranza primitiva, quindi dello stato di un 3 Anche Kierkegaard attribuisce a Socrate (ma non è il solo) un motivo platonico, quello in base al quale nessuno pecca di sua volontà, ma. solo per ignoranza di quello che sia il vero bene. I pass.i platonici contenenti questa dottrina (Apologia, 25 d 26 a; Protagora, 345 d-e; 358 b-e; 360 b-e; Gorgia, 488 a; Ippia Minore, 376 b-e; Menone, 77 b 78 b) non possono essere attribuiti al Socrate storico perché non contengono formule iterative (v. più sopra, pp. XV-XVI); perciò la cri­ tica di Kierkegaard colpisce, eventualmente, Platone e non Socrate. -

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9)

uomo che ha saputo e finora non ha potuto sapere nulla della verità, oppure si tratta di un'ignoranza acquisita, di un'ignoranza posteriore? In quest'ultimo caso il pecca­ to, in fondo, dev'essere posto in qualcos'altro che non nell'ignoranza, dev'essere indicato nell'attività dell'uomo che ha prodotto l'oscuramento della sua conoscenza. Ma anche ammesso questo, l'inconveniente ostinato e tena­ cissimo ritorna, non essendo chiaro se l'uomo in quel momento quando cominciò ad oscurare la sua conoscen­ za, ne era chiaramente cosciente. E se non lo era, la co­ noscenza era già un po' oscurata prima che cominciasse a lavorarci e la questione ritorna un'altra volta. Se invece si suppone ch'egli, quando cominciò ad oscurare la sua conoscenza, era chiaramente cosciente, allora il peccato (pur essendo, in quanto risultato, ignoranza) non consi­ ste nella conoscenza, ma nella volontà, e la questione che sorge ora è di precisare il rapporto fra la conoscenza e la volontà 4 • Di tutto ciò (e qui si potrebbe continuare a do­ mandare per parecchi giorni) la definizione socratica in fondo non si occupa. Socrate fu certamente un etico (il fondatore dell'etica, titolo che l'antichità assolutamente gli rivendica ), il primo, come egli è e sarà assolutamente il primo nel suo genere; ma egli comincia con l'ignoranza. Intellettualmente è l'ignoranza ciò a cui mira, il non sa­ per niente ; eticamente intende per ignoranza tutt'altra cosa e comincia poi da quella 5• Però, com'è naturale, So4 Lo scrittore pere di fatto da

danese distingue dunque un'ignoranza come non sa­ un'ignoranza come non voler sapere; scopre, giusta­ mente, in quest'ultima, e non nella prima, la fon te vera del peccato; e ne conclude che c'è peccato solo se c'è volontà, essendo l'elemento volitivo, e non quello conoscitivo, la radice dei valori. Intendendo ignoranza nel secondo senso, il concetto socratico e il concetto · cri­ stiano di peccato sono molto vicini. s La contraddizione che Kierkegaard vede i.n Socrate, in realtà non c'è: il concetto di ignoranza come inizio del sapere è di Socrate, mentre il concetto di ignoranza come fonte della colpa è, come ab­ biamo già visto, di Platone.

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crate non è un pensatore essenzialmente etico-religioso e ancora meno, ciò ch'è l'essenziale per il cristianesimo, un dogmatico.

lvi, pp. 3 1 4 - 1 5 . Ah, quando si vede qualcuno che assicura di aver com­ preso completamente come Cristo andava per il mondo in forma di servo umile, povero, disprezzato, schernito, come dice la Scrittura : lasciandosi sputare addosso ... ; quando poi vedo lo stesso uomo rifugiarsi così premurosa­ mente in un posto dove si sta bene e sistemarsi nella po­ sizione più sicura; quando lo vedo, con un'ansietà come se si trattasse della vita, evitare ogni soffio di vento con­ trario da destra o da sinistra, così felice, così artefice, co­ sì estremamente lieto - perché non gli manca nulla: così gongolante che persino ne ringrazia Dio con com­ mozione - di essere sotto ogni rispetto onorato e sti­ mato da tutti : allora dico spesso a me stesso e fra me stesso: « Socrate, Socrate, Socrate, è mai possibile che quest'uomo abbia compreso quanto dice di aver compre­ so? ». Così ho detto, desiderando nello stesso tempo che Socrate avesse ragione. Perché sembra veramente che il cristianesimo sia troppo severo, e non corrisponda nean­ che alla mia esperienza, nel ritenere un tal uomo un ipo­ crita. No, Socrate, te io posso comprendere; tu lo fai ap­ parire un pagliaccio; come un tipo ameno, ne fai un og­ getto di riso; tu non hai niente in contrario, anzi tu ap­ provi se io lo arrang�o e lo presento come un tipo comi­ co, purché lo faccia bene 6 • Socrate, Socrate, Socrate ! Certo bisognerebbe invoca­ re tre volte il tuo nome e non sarebbe troppo invocarlo

6 Interpretazione morale , anziché teoretica, dell'ironia socratica.

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dieci volte se potesse giovare a qualcosa. Si crede che il mondo abbia bisogno di una repubblica, oppure si crede di aver bisogno di un nuovo ordine sociale 7 o di una nuo­ va religione: ma nessuno pensa ch'è soprattutto di un Socrate che abbisogna il nostro mondo, smarrito nella massa delle conoscenze. Ma è chiaro; se ci si pensasse, ci sarebbe meno bisogno di lui, e tanto meno se ci pensasse­ ro molti. La cosa di cui un errore ha più bisogno è quel­ la a cui si pensa meno: naturalmente, perché altrimenti non sarebbe più un errore 8 • Quindi una correzione ironico-etica è ciò di cui il no­ stro tempo avrebbe molto bisogno, è forse l'unico ri­ medio di cui ha bisogno, perché è, evidentemente, ciò a cui si pensa meno ; è diventato estremamente necessario che noi, invece di andare oltre Socrate, ci accontentiamo di ritornare a questo principio socratico: che comprende­ re e comprendere sono due cose diverse 9 ; non come un ri­ sultato intellettuale che alla fine porta gli uomini nella più profonda miseria, perché annulla di nuovo la differenza fra comprendere e comprendere, ma come la concezione etica per la vita di ogni giorno. La definizione socratica, dunque, si aiuta così ! Se uno non fa il bene è segno che non lo ha neanche com­ preso; il suo comprendere è un'illusione; la sua assicura-

7 Tocchiamo qui la profonda divergenza tra Kierkegaard e Marx: per il primo è urgente innanzi tutto il rinnovamento interiore degli indi­ vidui; per i l secondo sono le strutture sociali e visibili che vanno tra­ sformate, affinché poi producano un nuovo tipo di uomo. 8 Variante del « Tu non mi cercheresti se non mi avessi già tro­ vato 1> : chi avverte la mancanza di un valore è già vicino ad esso, e ne ha quindi meno bisogno. 9 Viene qui messo in evidenza un doppio significato del concetto di « comprendere 1>: c'è un comprendere scientifico, intellettuale, astrat110; e c'è un comprendere profondo, che si identifica col fare ciò che si è compreso. Nel secondo senso è accettabile, anche su un piano cristiano, la definizione « socratica • del peccato come non compren­ sione, e quindi come ignoranza. 96

zione di aver compreso indica una direzione sbagliata: l'assi­ zione ripetuta di voler andare al diavolo se non aveva compreso dimostra una distanza astronomica nella quale sta facendo il giro più lungo possibile. Ma cosl la defini­ zione è esatta. Se uno fa ciò ch'è giusto, non pecca certa­ mente; e se non lo fa, non l'ha neanche compreso; se l'avesse compreso, in verità, si sentirebbe subito indotto a farlo, diventerebbe subito una raffigurazione viva del suo atto di comprensione : ergo, il peccato è ignoranza. H. Maier, Socrate, trad. di G. Sanna, Firenze , La Nuova Italia, 1 943, I, pp. 1-2.

Spessissimo Socrate è stato posto a lato a Gesù : e ve­ ramente, se vi è parallelo storico giustificato, è precisa­ mente questo. Chi vorrà capire l'essenza intima della ci­ viltà morale moderna, dovrà in ultima analisi far capo in­ fallibilmente a queste due personalità, a Socrate e a Ge­ sù. Ma come è difficile fissare la figura di Gesù tra le nebbie della tradizione antica, cosl anche la figura storica di Socrate sembra affatto sepolta sotto le scorie della tra­ 1 dizione letteraria 0• È vero che sino a non molto tempo addietro si pen­ sava diversamente. I critici della vita di Gesù usavano rammaricarsi accennando alla molto maggiore facilità che a loro offriva l'indagine storica su Socrate, e affer­ mando che mentre la figura di Cristo correva pericolo di dissolversi nel buio del mito, della leggenda e dell'inven­ zione tendenziosa, la vita e l'opera di Socrate s'illumina­ vano invece della piena luce della storia. Oggi i termini IO Come Socrate, anche Gesù non ha lasciato nulla di scritto, e anche per il suo pensiero vale la testimonianza delle sole persone che lo hanno conosciuto direttamente, con con:oeguente difficoltà di cernita tra le varie fonti canoniche e non canoniche. 97

sono completamente invertiti. Riesce sempre meglio alla critica storica di trarre dalle raccolte di detti e di fatti dei tre primi Vangeli alcuni tratti essenziali della figura sto­ rica di Gesù; né appare più ormai problema insolubile quello di allontanare il velame intessuto intorno alla per­ sonalità del Maestro dalla pia fede della primitiva comu­ nità cristiana. Al contrario, il Socrate storico si allon­ tana oggi da noi più che mai.

Th. Deman, Socrate et ]ésus, Paris, 1944, pp. 305-0 6. Socrate ha rappresentato per noi uno dei risultati più perfetti che il mondo possa raggiungere ; ma Gesù, in de­ finitiva, non è del mondo : lo domina solo perché vi pe­ netra dall'esterno. Il paragone tra Socrate e Gesù fu pos­ sibile in virtù dei contatti che Gesù ebbe col nostro mon­ do; ma doveva necessariamente risolversi nell'afferma­ zione della differenza più irriducibile. Non è che io vo­ glia diminuire Socrate, come per concedermi il piacere di una facile vittoria: rimango sempre sensibile alla sua bellezza e commosso per la sua grandezza. Tuttavia egli è solo, come ha detto Platone, il migliore degli uomini. Tra lui e Gesù le dissimiglianze non vanno intese come dovute soltanto a divergenze di ambiente e di genio : es­ se indicano in Gesù una bellezza e una grandezza che sor­ passano Socrate. G. Calogero, Ideale del dialogo o ideale della scienza? (con U. Spirito), Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1 966, pp. 67-68. Che cosa diventerebbe una storia della filosofia mo­ rale a cui fossero tolti i capitoli concernenti Socrate e Gesù Cristo? Essi non furono soltanto due persone ani98

mate dalle migliori intenzioni : furono due maestri di vi­ ta, attraverso due autentiche filosofie dd bene e del male, la concezione socratica dell'assoluto valore dell'exeta­ zein 11 e del nemo sua sponte peccat 12, e quella evangeli­ ca del nolite iudicare 13 e del dovere di comprensione nel­ la carità 14• Filosofie che nello stesso tempo sono due ben distinte concezioni della volontà d'intendere, l'una di esse accentuando l'esigenza di comprendere le altrui vi­ sioni delle cose e l'altra quella di comprendere le altrui sofferenze e infelicità. D'altronde, non solo esse son di­ verse pur muovendo dallo stesso principio, ma ciascuna di esse, presa per sé, non è poi soddisfacente del tutto, tanto è vero che la successiva riflessione morale si è sem­ pre nutrita dell'una e dell'altra, ma non ha mai, nono­ stante tutto, rinunciato a trovare una giustificazione an­ cor più profonda ed unitarià. Lo stesso maggiore filosofo morale dell'età moderna 15 che cosa ha fatto, attraverso tutte le sue faticose analisi della natura della ragion pra­ tica, se non cercare di rendere più rigoroso, e quindi più « assoluto », quello stesso principio dell'incondizionato dovere di rispetto dell'altruità, che è il tema dell'etica socratica come di quella evangelica?

I l E cioè dell'« interrogare » socratico: dell'analizzare, appunto, per capire meglio. 12 Anche Calogero, come Kierkegaard, ritiene socratica la dottrina dell'involontarietà del male. IJ Anche qui non sono d'accordo con Calogero : il