Il popolo al potere : il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici [1. ed.] 9788887307573, 8887307571

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Il popolo al potere : il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici [1. ed.]
 9788887307573, 8887307571

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Costanzo Preve

Il popolo al potere Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici Prefazione

Impuginazione Jeanne Cogolli Stampa Lineagrafica - Città di Castello (PG)

I edizione 2006 ISBN 88-87307-57-1

I libri della Ariana Editrice sono prodotti da Macro Edizioni, che ne cura la di-stribuzione e la commercializzazione.

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L'aggressiva politica di espansione imperialistica scelta dagli Stati Uniti dopo la fine del condominio bipolare con l'Unione Sovietica ha avuto almeno due importanti effetti che potremmo definire ri-spettivamente di ordine pratico e teorico. I primi hanno riguarda-to le popolazioni irachene, afgane e serbe bombardate con. l'ura-nio impoverito e il fosforo bianco, torturate nelle prigioni di Guantanamo e Abu Graib, sottoposte alle quotidiane vessazioni di un'occupazione militare. I secondi hanno invece visto scendere in campo una schiera di intellettuali e operatori dei mezzi di infor-mazione impegnati a risolvere un dilemma che potremmo sinte-tizzare nei seguenti termini: come mai gli Usa, considerati l'avan-guardia, il paese guida delle liberaldemocrazie nel mondo, sono anche il paese più bellicoso della terra, una "nazione guerriera", come li ha definiti qualcuno'? Non ci avevano spiegato che le de-mocrazie liberali sono tendenzialmente pacifiche, amano la pace in quanto essa rende possibili i commerci e il tranquillo godimento dei beni? Ed ancora, e soprattutto, può un simile sistema continuare a definirsi democratico o si è metamorfosato in qualcosa d'altro? 23

A questi interrogativi è possibile rispondere in molti modi. Trala-sciando, in questa sede, le prese di posizion.e puramente propa-gandistiche, interessate unicamente a gettare benzina sul fuoco e non certo a sviscerare i problemi - si pensi, per fare un esempio, ai pamphlet di Oriana Fallaci e di Magdi Allam - e concentrandoci sulle analisi serie, si può dire che quelle degli studiosi di orien. ta-mento liberale tendono, ovviamente, a riaffermare i punti alti del-la retorica liberaldemocratica e sono ben riassunte nel titolo di un saggio di Dino Cofrancesco: La democrazia liberale (e le altre)2. Per Cofrancesco, il compromesso tra liberalismo e democrazia, pur con tutte le sue precarietà e i suoi difetti, continua a costituire il tipo ideale, il modello cui debbono ispirarsi quanti vogliono muoIl popolo al potere Prefazione

versi sul terreno della democrazia nel nostro tempo senza cadere nella trappola del totalitarismo. Egli ne è talmente convinto da declassare, mettendole fra parentesi, le forme democratiche non riconducibili al liberalismo. 45

Il libro di Costanzo Preve che il lettore ha tra le mani si colloca, per contro,

in una prospettiva molto diversa, al punto che lo si potrebbe anche intitolare, in parte rovesciando l'ottica di Cofrancesco, La democrazia (e la democra‐ zia liberale). È quest'ultima, infatti, a costituire un problema, nel senso che, giudicata secondo i parametri di una democrazia senza aggettivazioni, risulta carente, apparendo molto liberale e molto poco democratica. Ma quali sono questi parametri? La risposta di Preve è che sono eminentemente antropologici e filosofici e non politologici o sociologici. Il politologo non dispone, a suo giudizio, degli strumenti necessari per penetrare fino alla sostanza della democrazia, ma può solo fermarsi all'analisi delle sue forme e istituzioni, cioè della sua scorza esterna. Il limite dell'approccio politologico alla politica, e quindi alla democrazia, è, sempre secondo Preve, che la politica, come sosteneva già Aristotele, non è una scienza in quanto la sua materia prima sono gli uomini e il modo in cui essi organizzano il loro stare insieme. Orbene, l'uomo non può essere inquadrato, incasellato in schemi scientifici perché è, marxianamente, un "ente naturale generico" (Gattungswesen); in lui c'è una "plasficità" che gli consente di sfuggire a ogni categorizzazione e di essere pertanto un continuo campo di sorprese che mettono in crisi ogni pretesa di scientificità. "La democrazia", scrive Preve, "è una pratica umana comunitaria, non un concetto scientifico". Dovrebbe allora essere chiaro perché, secondo Preve, la democrazia non è tanto il potere del popolo, come siamo abituati a ritenere, quanto il popolo al potere. Il primo tipo di definizione enfatizza, infatti, il dato istituzionale, strutturale della politica, mentre il secondo mette al centro coloro che concretamente la fanno. In altri termini, si dà democrazia non quando si è in presenza di un quadro istituzionale ritenuto democratico, ma in realtà liberale (un parlamento, libe re elezioni, partiti che si contendono il consenso dei cittadini, separazione dei poteri, stato di diritto, prevalenza della sfera privata su quella pubblica), bensì quando il popolo inteso non come indefinita e romantica unità mistica, ma in senso aristotelico come l'insieme dei più poveri e degli svantaggiati - può concretamente accedere al potere e far valere il suo peso nelle decisioni. Chi privilegia il primo aspetto (quello della rappresentanza), rischia seriamente di ridurre la democrazia a vuoto rito, a puro orpello, a «gioco politologico interminabile di simulazioni istituzionali». Questa è l'idea-cardine intorno a cui ruota il libro e che consente all'autore di sostenere che oggi, in Occidente, ci illudiamo di vivere in democrazia, mentre in realtà viviamo in regimi oligarchici che «si sono appropriati del concetto di popolo e in suo nome fanno gli interessi del grande capitale finanziario e dell'impero americano». La democrazia, quindi, è un compito, un traguardo che abbiamo davanti a noi, qualcosa da costruire

e non di già scontato e acquisito.

Si tratta di una tesi spiazzante e sconcertante per chi è assuefatto al politi‐ cally correct, che quotidianamente assorbiamo attraverso i mass-media e che tuttavia non sorprende chi ha una certa familiarità con gli scritti di Preve, il quale, nei suoi testi, predilige di solito i contenuti forti, i toni netti, perentori, e uno stile di scrittura che somiglia molto al linguaggio parlato, tipico del docente (di filosofia) quale egli è stato per molti anni. In effetti, leggendo la sua prosa, sembra quasi di vederlo mentre spiega ai suoi discenti Aristotele, Spinoza e Marx. Conoscendo il suo amore per la Grecia, crediamo, dicendo questo, di fargli un complimento, perché gli antichi greci valorizzavano molto la parola pronunciata in pubblico, in particolare quella detta negli spazi che formavano e delimitavano la vita activa, cioè la politica; non, dunque, una parola rivelata, che scende dall'alto - la parola di cui parla il profeta Isaia' e che, per i cristiani, si incarna in Gesù Cristo - ma la parola frutto di un dialogo razionale, quindi esposta alla critica, al dissenso e anche al fallimento, come nei casi dei processi a Socrate e allo stesso Nazareno. Questa diversità di parole, e di pratiche poIl popolo al potere Prefazione

litiche, può essere rappresentata, a livello simbolico, dalle città di Atene e Gerusalemme che Preve, seguendo una tradizione filoso-fica consolidata, assume in altri suoi scritti come simboli di questi differenti approcci alla politica". Preve, pertanto, non si stupirà se, richiamandoci alla sua concezione "ateniese", dopo aver letto/ ascoltato la sua parola, gli proponiamo, a nostra volta, alcuni ri-lievi che non intendono essere necessariamente critici, ma che anzi si inseriscono all'interno di un sostanziale apprezzamento del suo sforzo di rivitalizzazione della democrazia. Una prima osservazione si riferisce alla liquidazione, forse ec-cessivamente drastica e frettolosa, riservata nel saggio a politologi e sociologi (Mosca, Pareto, Michels e, in tempi a noi più vicini, Sartori e Bobbio), delle cui "trame" Preve dichiara senza mezzi termini di "farsi beffe". Probabilmente, la politologia e la sociologia avrebbero meritato una considerazione maggiore, soprattutto se si pensa che il politologo Colin Crouch, peraltro positivamente ci-tato da Preve, usando gli strumenti della sua vituperata "scien-za", si pone interrogativi non troppo dissimili da quelli sollevati da Preve circa la reale democraticità delle nostre democrazie, e se persino dalle opere di un sociologo

molto integrato e à page come Ralf Dahrendorf viene fuori un'immagine della nostra società de-cisamente inquietante: democrazie ridotte a spettacolo e i cittadi-ni a masse di inebetiti couch potatoes, immense megalopoli fasciate da colossali anelli d'asfalto intervallati da fast food e pornoshop, piccole enclaves di super-ricchi protette da guardie private e peri-ferie urbane degradate, dove la "colla" che tiene insieme la società si è ormai essiccata e le "legature" sociali non reggono più, al pun-to che ci si può chiedere, come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo: «Se sei disoccupato, perché non fumare marijuana, par-tecipare ai droga-party e andarsene in giro con automobili ruba-te? Perché non rapinare vecchie signore, battersi con le bande ri-vali e, se necessario, ammazzare qualcuno?»5. 67

Già, perché non farlo? In nome di che cosa astenersene quando da ogni parte, in forme esplicite o subliminali, ci viene trasmesso sempre lo stesso messaggio, e cioè che niente ha valore e tutto ha un prezzo? Se con politologi e sociologi Preve, almeno su questo tema, non va molto d'accordo, riesce comunque a trovare una buona sintonia con storici come Eric Hobsbawm e Luciano Canfora, nonché con un pensatore come Pietro Barcellona. Tutti autori non a caso collocabili in un'area di sinistra critica, cioè in un contesto dal quale proviene lo stesso Preve. Di Hobsbawm, Preve accetta la periodizzazione secolo breve/secolo lungo, mentre, con riferimen-to più diretto alla democrazia, si richiama a Canfora per quanto riguarda il rifiuto dell'idea formale di democrazia, vista da Canfora come ideologia del demos, vale a dire dei poveri, e non come forma di governo. L'importanza dell'educazione (paideía) alla democra-zia, e quindi l'esistenza di un homo democraticus come propedeutico al sorgere di una vera democrazia, è poi sottolineata anche da Barcellona in molti suoi saggi. Inutile aggiungere che Preve si è di certo anche nutrito delle pagine dedicate da Hannah Arendt alla democrazia greca. A questa rete di riferimenti, espliciti e impliciti, Preve aggiunge inoltre il suo tocco personale, la sua nota caratte-ristica: una scommessa sull'uomo. Pascal scommetteva su Dio, Preve scommette sull'uomo. A suo parere, può irnpostare correttamente il discorso sulla demo-crazia se non ci si sbarazza della negativa antropologia hobbesiana, cui aderiva un maestro celebrato della democrazia liberale come Norberto Bobbio, per aífermare e proporre una con-

cezione del-l'uomo che Preve fa filosoficamente risalire ad Aristotele, ma che si dipana anche in Cusano e Marx, in base alla quale l'uomo è un essere dotato di log-os, intendendo questo termine in tutta la sua estensione semantica, che comprende le nozioni di ragione, dialo-go e calcolo, e uno zoon polítilcon, ossia al contempo un animale politico, sociale e comunitario6. A partire da questi presupposti, Aristotele può definire l'uomo un ente intermedio fra la divinità e l'animalità. È questa sua natura a fondare la necessità della vita in comune e della democrazia, in quanto luogo di incontro di quegli Il popolo al potere Prefazione

esseri "aporetici' che sono gli uomini, la cui "plasticità" li apre alla verità e all'universale, sottraendoli allo scetticismo, al relativismo e a un differenzialismo assoluto, chiuso all'universale e al vero. Qui Preve inserisce una critica ad Alain de Benoist, ritenuto uno dei portatori di questo discorso, che ci sembra datata. Poteva essere plausibile vent'anni fa, ma non adesso. Pierre-André Taguieff, autore di quello che rimane, a tutt'oggi, il saggio più approfondito e serio sul percorso intellettuale di de Benoist, ha infatti rintracciato nella sua opera un itinerario di progressiva apertura all'universale e di superamento dei limiti del relativismo e del differenzialismo assoluto'. 8

Questa linea di ricerca ci pare ampiamente confermata dai libri pubblicati da de Benoist successivamente al testo di Tag-uieff, risalente a dodici anni fa. Basti pensare al lavoro sui diritti umani, dove il pensatore francese scrive, senza possibilità di equivoco, che una posizione relativista è insostenibile, e a quello su identità e comunità, in cui queste nozioni vengono proposte in un'accezione aperta e dinamica'. O ancora a Oltre il moderno (Arianna, Casalecchio 2005), che vede de Benoist schierarsi per un federalismo inteso nel senso di Althusius e per una democrazia imperniata su una effettiva partecipazione popolare. È strano che Preve, che pure, nella nota bibliografica finale, mostra di conoscere tali testi, non abbia colto queste evoluzioni dell'ultimo de Benoist. Oltre ad essere datata, questa critica è altresì foriera di gravi equivoci che possono nuocere non poco a quel tentativo, nel quale è attivamente e meritoriamente impegnato lo stesso Preve, di decostruzione della destra e della sinistra e di denuncia della loro natura di meri e vuoti simulacri all'ombra dei quali si riproduce il gioco delle parti neoliberale, globalizzatore e bombardatore. Continuando, infatti, a sostenere, contro le evidenze testuali, che de Benoist è un relativista e un differenzialista assoluto, si dà og-

gettivamente man forte a quanti sono interessati alla ghettizzazione di un pensiero che, se lasciato libero di circolare e presentato per quello che effettivamente è, potrebbe offrire un efficace contributo ad una rico struzione, a partire da un terreno in buona misura non coltivato, di un diverso e inedito panorama culturale e politico, di cui si sente la necessità in ambienti solitamente definiti alternativi o antagonisti, ma che non è ancora riuscito ad assumere una credibile configurazione. La dissipazione di ogni malinteso dovrebbe essere il primo passo da muovere in questa direzione. C'è, infine, un'altra questione che emerge dalle pagine di questo libro, che ci pare importante sottolineare. Non esiste democrazia, afferma Preve, senza un homo dernocratícus, ossia senza un tessuto connettivo diffuso fatto di uomini animati da passione civile, voglia di partecipazione, desiderio di sentirsi coinvolti quali soggetti consapevoli nel destino della propria "circostanza", del mondo che li circonda. Orbene, la realtà in cui siamo immersi sta marciando in una direzione esattamente opposta: sia la democrazia che l'uomo sono sempre più sviliti e resi irriconoscibili, a tal punto che rischia di venir meno la materia prima, per così dire, il presupposto stesso della discussione. Per quanto riguarda la democrazia, infatti, il modello che viene teorizzato, tanto nelle sedi accademiche quanto sugli organi di informazione di massa, e poi esportato e imposto ai refrattari, privilegia l'efficacia e la funzionalità agli interessi della superpotenza americana su ogni altra preoccupazione. In quest'ottica, non è importante che la gente, a tutti i livelli, sia infoimata, partecipi, discuta e decida, ma che lo Stato, liberato da fardelli sociali e trasformato in azienda, produca il risultato che da esso ci si attende, che è quello di agevolare il flusso mondiale di energia destinata a sostenere la way of lífe occidentale. È la cosiddetta "globalizzazione". I dissenzienti vengono inseriti nella categoria degli "Stati canaglia", con le tragiche conseguenze che ben conosciamo'. Cosa ci sia di democratico in tutto questo, a parte la retorica, è difficile dirlo. Alla deriva della democrazia, Preve oppone la sua scommessa sull'uomo, la persuasione che nell'uomo ci sia per definizione come una sorta di zona franca che gli consente di soffiarsi ai tentativi dei potenti di turno di inquadrarlo e controllarlo. Il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle — ma il no-

stro sguardo Il popolo

al potere Prefazione

potrebbe allargarsi alla storia in generale - sembrerebbe av-

valorare questa schema antropologico. I totalitarismi, che si prefiggevano appunto un controllo totale dell'uomo tendente alla creazione di un uomo nuovo, sono crollati sotto il peso o della sconfitta militare o di una implosione. Le loro pratiche hanno determinato reazioni di vario genere che alla fine li hanno travolti. I fatti hanno dimo-strato che il regime totalitario, descritto letterariamente in 1984, alla lunga non regge. Orwell aveva in mente l'URSS, rna è chiaro che il suo discorso è applicabile pure ai fascismi. Il Grande Fratello può anche arrivare a farsi "amare" dai suoi sudditi, come capita allo sfortunato protagonista al termine del romanzo, ma alla fine nell'animo dell'uomo scatta qualcosa che lo spinge a ribellarsi, a dire basta e a riaffermare la sua dignità umiliata e offesa. Il falli-mento storico della distopia orwelliarta - che peraltro conserva aspetti molto attuali: si pensi al tema della neolingua, e quindi alla manipolazione del linguaggio da parte del potere - non significa, però, come ci si vuol far credere, che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che la storia è perciò finita. Se l'utopia negativa di Orwell e stata sconfitta, quella di Aldous Huxley appare, al contrario, il pericolo più grave e insidioso. Il Brave New World da lui descritto ha tutta l'aria di essere il modello vincente. Le biotecnologie appli-cate all'uomo e la forza di penetrazione e seduzione della sfera mediatica conferiscono una sinistra plausibilità allo scenario di un mondo futuro popolato da post-umani, da cyborg completamente asserviti e lieti di esserlo, dove diventa estremamente difficile di-stinguere fra l'umano e il non umano - tema, questo, caro a un altro grande visionario, Philip K. Dick - e in cui l'ultimo esemplare della specie umana non può fare altro che impiccarsi. Di fronte a questa prospettiva, è possibile reagire con la fredda, distaccata indifferenza di un Houellebecq, con l'inquietudine di un Karnoouh o con l'esaltazione prometeica di Negri e Hardt", ma certo è che in un mondo siffatto non avrebbe molto senso scom-mettere, perché non ci sarebbe più nessuno disposto a farlo. Tut-tavia, è pur vero che, se questa è la tendenza che si vorrebbe far trionfare, non siamo ancora pervenuti a questi estremi. C'è anco-ra spazio per puntare sull'uomo e questo saggio di Preve è un ap-pello alla resistenza e urta dichiarazione di fiducia, che ci auguria-mo risulti contagiosa. Giuseppe Giaccio

Note 1 Cfr. GORDON POOLE, Nazione guerriera. Il milítarismo nella cultura degli Stati Uniti; Colonnese, Napoli 2002. 2 Rubbettino, Soveria Mantieni, 2003. 3 Cfr. Is 55, 10-11. 4 Si veda, ad esempio, COSTANZO PREVE, Filosofia del presente, Settimo Sigillo, Roma 2004; GIANO ACCAME-COSTANZO PREVE, Dove va la destra? Dove va la sinistra?, Settimo Sigillo, Roma 2004; cfr. anche LEO STRAUSS, Gerusalenznze e Atene, Einaudi, Torino 1998 e LEV SESTOV, Atene e Gerusalernme Saggio &filosofia religiosa, Bompiani, Milano 2005. 5 Cfr. RALF DAHRENDORF, Quadrare il cerchio, Laterza, Roma-Bari 2000, pag. 43, cfr. anche RALF DAHRENDORF, Libertà attiva, Laterza, Roma-Bari 2003. 6 Su questo aspetto comunitario Preve si sofferma nel saggio Elogio del comunitari:9mo, di prossima pubblicazione per le edizioni Controcorrente. 7 Cfr. PIERRE-ANDRE TAGUIEFF, Sulla Nuova destra, Vallecchi, Firenze 2004. 8 Cfr. ALAIN DE BENOIST, Au-delà des droits de l'homme, Krisis, Paris 2004, pag. 87 [ed. it. Settimo Sigillo, Roma 20041, nonché il dossier « Identità, differenza, libertà », in Diora‐

ma letterario, n. 274, novembre 2005, pagg. 1-18. 9 Queste cose sono state chiaramente spiegate da Francis Fukuyama, autore che è tutt'altro che un sovversivo, un comunista o un antiamericano, in Esportare la demo-crazia, Lindau, Torino 2005. 10 Di MICHEL HOUELLEBECQ si vedano Le particelle elementari e il più recente La possibilità di un'isola, entrambi editi da Bompiani; per quanto riguarda CLAUDE KARNOOUH, cfr. "No future. Tecnica e destino", in Trasgressiom; n. 40, pagg. 95-121; infine, di ANTONIO NEGRI e MICHAEL HARDT , hnpero, Rizzoli, Milano 2002, pag. 98.

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Premessa

I libri consacrati al problema storico della democrazia sono molto numerosi e sotto il loro peso è possibile sfondare molti scaffali. Accingendosi a trattare del problema della democrazia, e cercando di dire

qualcosa di sensato, il povero autore si accorge ben presto, sfogliando l'alluvionale bibliografia, che praticamente quasi tutto è già stato detto, in una vasta gamma di posizioni, in cui ad un polo stanno coloro che considerano la democrazia un semplice mito, del tutto irraggiung-ibile a causa della debolezza gr, egaria della natura umana e della fatale costituzione di dites oligarchiche estremamente minoritarie, e nell'altro invece sono fieramente schierati i sostenitori del primato dell'Occidente greco-romano-statunitense, proclamato oggi - sia pure, per fortuna, in assenza di una vera e propria investitura papale - l'unico esportatore autorizzato della democrazia nel mondo. Ho deciso di non farmi atterrire della nevrotica compulsione alla completezza e di non farmi spaventare dal fantasma opportunistico della cosiddetta "complessità", per cui, con il pretesto che le cose sono complesse, ci si sente autorizzati a galleggiare in una sorta di "centrismo furbesco". Nello stesso tempo, ho deciso di non scrivere un pamphlet, ma un vero e proprio saggio problematico, sia pure di modeste pretese. Un pamphlet non ha bisogno di argomentare troppo le proprie tesi sul piano storico, filosofico, economico e sociologico e il suo valore sta proprio nel collocarsi in un estremo. Un saggio problematico, invece, non può soltrarsi del tutto al terreno dell'argomentazione. Con questo, ho smesso da tempo di credere che, in quanto tale, un'argomentazione o, meglio, una serie articolata e ben connessa di argomentazioni possa realmente "convincere". L'essere convinti, lo sapeva già bene Platone, deriva da un'improvvisa illuminazione concettuale, che permette di vedere da un altro punto di vista la totalità delle cose - la totalità "olistica", per usare un Il popolo al potere Premessa

termine filosofico specifico - e questa illuminazione concettuale possibile ha, come premessa psicologica, un insieme di esperienze e non certo soltanto una catena ben strutturata di ragionamenti. Per dirla in modo telegrafico, le tesi scientifiche vere e proprie si "dimostrano", mentre le tesi puramente filosofiche possono soltanto essere "mostrate". Il saggista deve comunque "scommettere" sulla forza di convincimento dei propri argomenti. In proposito, gli antichi erano più saggi di noi, perché sapevano bene che la cosiddetta "retorica" non era sinonimo di discorso vuoto ed ampolloso, ma una buona tecnica per la comunicazione convincente delle proprie posizioni. Portata al livello della composizione di un saggio come questo, la "retori-

ca" si identifica con la scelta dell'esposizione. Per trattare il tema della democrazia, ho scelto una forma espositiva in cinque parti, un'introduzione, tre capitoli successivi dedicati rispettivamente agli aspetti storici, filosofici ed infine politici (attuali) del problema della democrazia e, per finire, una nota bibliografica generale, dal momento che il testo vero e proprio è stato lasciato di proposito senza note a piè pagina. In questa premessa, voglio anticipare brevemente al lettore la logica espositiva, che mi ha suggerito questa scelta. L'introduzione, scritta volutamente senza una scansione in paragrafi, espone immediatamente le tesi sulla democrazia, su cui poi ritorno in modo più analitico e problematico nei tre capitoli successivi. Dal momento che non credo nella cosiddetta "oggettività" di un testo di tipo saggistico, ritengo che un buon sostituto di questa inesistente oggettività sia l'immediata e chiara esplicitazione delle tesi portanti del libro; infatti io esplicito subito le tre tesi teoriche portanti del mio saggio, che poi discuto liberamente lungo tutta l'introduzione, che può dunque essere letta come un testo autonomo a sé stante. 14 15

I tre capitoli successivi sono dedicati a un "ritorno" e a un approfondimento analitico delle tesi già anticipate in forma apodittica nell'introduzione. Le ripetizioni sono inevitabili, ma a mio avviso non sono affatto dannose. Nel primo capitolo, propongo al lettore un breve excursus storico sulla democrazia, dalle sue origini greche fino al suo ripresentarsi in età moderna, da un lato, nel suo complesso intreccio con il liberalismo e con le varie forme di socialismo e di comunismo, dall'altro. Si tratta di eventi in genere già largamente noti al lettore acculturato, ma su cui è comunque bene tornare e ritornare, perché si finisce con lo scoprire sempre qualcosa di inedito. In proposito, non fingerò un'impossibile oggettività, ma espliciterò sempre in modo chiaro il mio giudizio storico. Il lettore scuserà la brevità un po' apodittica di molti di questi giudizi, ma l'alternativa a questa sinteticità apodittica sarebbe stata di fatto composta da un noioso ed interminabile appesantimento storiografico. Ci sono, per questo, centinaia di volumi monografici analitici. Nel secondo capitolo, propongo invece al lettore una serie di ragionamenti di tipo filosofico sulla democrazia. Con tutto il rispetto per la corporazione degli storici, considero questo secondo capitolo ancora più importante del primo. Dal momento che, come dirò già nell'introduzione, il problema della

democrazia non è primariamente istituzionale, ma antropologico - la democrazia è un insieme di pratiche comunitarie, il cui presupposto sociale è l'

uomo dernocratícus, che occorre educare ad essere tale - in questo secondo capitolo discuterò alcuni problemi filosofici, di cui due sono, a mio avviso, primari: esiste una natura umana, e questa natura umana è compatibile con la pratica della democrazia come governo delle leggi, autogoverno politico ed autogestione economica? E ancora: la democrazia è un valore universale ed universalistico, oppure l'urúversalismo è un mito filosofico occidentale infondato e bisogna accontentarsi, al massimo, di un civile relativismo differenzialistico ben temperato da un convenzionafismo consensuale? Nel terzo capitolo, infine, tornerò al tema già discusso nell'introduzione, cioè ad una interpretazione personale del momento storico e politico in cui stiamo vivendo. Analizzerò, ovviamente, alcune fra le interpretazioni più diffuse che si danno della contemIl popolo al potere Premessa 16 17

poraneità, come ad esempio la categoria della cosiddetta globalizzazione (che personalmente considero un mito). Non mi sottrarrò evidentemente al compito di proporre una mia persona-le concezione di democrazia, già anticipata nell'introduzione, in termini di costruzione di comunità fondate sull'informazione e sul potere di decisione integrale sui parametri complessivi della riproduzione della specie umana, specie che vive in un incrocio parti-colarissimo di natura e storia. Nell'intenzione dell'autore, questo saggio vorrebbe sfuggire al-l'alternativa "secca" fra ottimismo e pessimismo. Sulla questione della democrazia, non sono ottimista, in quanto pienamente coscien-te della forza inaudita delle oligarchie, che attualmente dominano il Pianeta, ed ho anche da tempo abbandonato l'illusione — su cui mi ero formato nei miei anni giovanili — dell'esistenza di un sog-getto sociale collettivo salvifico e/o su di una dottrina scientifica della previsione sociale; non sono però neppure pessimista, per-ché credo nella capacità reattiva e plastica della natura umana, che in genere sopravvive alle peggiori disillusioni e alle più terribili "bastonate" della storia. La mia scelta espositiva, purtroppo, non è senza difetti. Lo stes-so argomento può non essere trattato in modo unitario, ma essere ripreso in tutti e tre i

capitoli successivi. Ad esempio, nel primo capitolo viene sottoposto a critica il tentativo del comunismo stori-co novecentesco (1917-1991) di perseguire un'emancipazione so-ciale universalistica senza garantire la libertà d'espressione e la democrazia politica, mentre alcuni dei suoi presupposti filosofici, come il pensiero originale di Marx e il marxismo teorico successi-vo, vengono discussi solo nel secondo capitolo. Questo capita an-che per altri argomenti, ma è l'inevitabile conseguenza di una espo-sizione non cronologica. Tuttavia, credo sinceramente che il letto-re possa seguire con maggiore facilità le mie argomentazioni sulla base della separazione metodologica fra l'elemento storico e l'elemento filosofico, piuttosto che sulla base di una mescolanza inestricabile dei due elementi. Nella realtà, tuttavia, i due elementi sono strettamente intreccia-ti. Di questo, sono pienamente convinto. A fianco dell'approva-zione del lettore, cosa che ogni saggista ovviamente persegue, sa-rei anche e forse ancor più soddisfatto, se la lettura del mio mode-sto libro provocasse talvolta anche la sua "irritazione". L'irrita-zione produce adrenalina, e l'adrenalina induce alla risposta e alla reazione. Non ho mai cercato un'impossibile unanimità, virtù amata dalle due categorie complementari dei dittatori autoritari e degli sciocchi conformisti. Un saggista non deve farsi eleggere deputa-to, senatore o consigliere regionale, e non deve neppure essere scelto per far parte di un ben pagato team manageriale. Non deve, dun-que, vellicare servilmente i pregiudizi di chi gli sta sopra, sempli-cemente perché nessuno gli sta sopra. Il saggista vive in una dimensione orizzontale, che è poi esattamente anche la dimensione della democrazia. 19

Introduzione

Democrazia significa potere de/popolo. Personalmente, ne propongo subito un significato leggermente diverso: il popolo al potere. A prima vista, sembrerebbe un sofisma linguistico, ma non lo è. Se infatti traduco il termine greco demokratza come "potere del popolo" - che, lo ammetto, è la versione filologicamente più corretta, e non a caso è quella che si è imposta storicamente - il concetto centrale diventa quello di "potere", mentre, se si segue la mia proposta di traduzione, l'attenzione si sposta inevitabilmente sulla nozione di "popolo", sia nella sua dimensione storica, psicologica e diacronica (come esso si costituisce progressivamente, in un processo

di apprendimento individuale e collettivo), sia nella sua dimensione attuale, presente, sociologica e sincronica (come esso, di fatto, esercita il suo potere e come riesce a controllare i suoi eventuali rappresentanti e delegati). • In ogni caso, sia che democrazia significhi "potere del popolo" sia che significhi "popolo al potere" - e lo spostamento semantico dal primo al secondo significato, con l'impronta dinamica che inevitabilmente risuona, non può sfuggire al lettore attento - sembrerebbe a prima vista che si tratti di una nozione facilmente definibile, dal momento che i parametri concettuali da definire sono soltanto due, o al massimo tre: popolo, potere ed infine lo spazio problematico dei loro rapporti reciproci. Come è largamente noto, però, proprio [qui nascono le difficoltà. Il "popolo" può essere definito in termini I di cittadini attivi deliberanti in assemblea, oppure in termini di corpo elettorale, chiamato di tanto in tanto a scegliere un perso; nale politico specializzato nella disciplina chiamata "decisione po'\ litica". Inoltre, il "popolo" può essere esteso virtualmente a tutti - i la "onnicrazia", di cui parlò a suo tempo il pacifista italiano Aldo Capitini - oppure può essere fortemente limitato, come avveniva al tempo dell'antica Atene (in cui donne, schiavi e stranieri Il popolo al potere Introduzione

residenti erano esclusi dalla deliberazione politica) o al tempo del liberalismo ottocentesco pre-democratico (in cui il voto era strettamente censitario, quindi esplicitamente "proprietario"). A sua volta, il "potere" può legittimare la limitazione della libertà di opinione e di espressione pubblica delle opinioni (come nella filosofia politica di Hobbes e poi nella pratica costituzionale dei fascismi e dei comunismi novecenteschi) oppure può legittimarsi proprio sulla base della loro tutela (come nella filosofia politica di Spinoza e - almeno sulla carta - nella pratica costituzionale delle moderne liberaldemocrazie). Potremmo continuare a lungo, ma appesantiremmo inutilmente questa introduzione. Per ora, è sufficiente ricordare il punto di partenza che abbiamo proposto, cioè che la versione "il popolo al potere" è preferibile alla versione "potere del popolo", perché la prima evoca semanticamente un processo dinamico, mentre la seconda, tradizionale, si presta maggiormente a modelli statici di forme di Stato e di governo (di cui, peraltro, non intendo affatto contestare la legittimità e l'utilità, dal momento che, pur essendo a tutti gli effetti un "allievo infedele", vengo comunque dalla scuola di Norberto Bob-

bio). Solo in un secondo momento, è bene disaggregare nelle loro differenti (e contrastanti) componenti semantiche le due nozioni di popolo e di pote‐ re, sapendo bene, però, che il solo oggetto realmente esistente è la loro combinazione. 20 21

A questo punto, potrei immediatamente dare la "mia" definizione di democrazia, in modo che il lettore possa subito tenerne conto. Preferisco tuttavia non farlo, in piena consapevolezza, perché un saggio politico di tipo critico e problematico come questo non è un saggio di divulgazione scientifica, in cui vengono esposte in modo comprensibile e in un linguaggio comune le teorie dell'astronomia, della fisica, della chimica o della biologia. Nel caso della divulgazione scientifica - o delle cosiddette "scienze dure", per usare un termine, che trovo personalmente ridicolo, ma che viene usato continuamente - si ha a che fare con discipline, che fanno dell'esatta definizione dei concetti (la massa non è il peso, la velocità non è l'accelerazione ecc.) il terreno comune condiviso e concordato dall'intera comunità degli scienziati, dei ricercatori e degli specialisti. Nel nostro caso, invece, il concetto di democrazia è la "posta di gioco" di un eterno "campo di battaglia" (l'espressione "campo di battaglia", Karnpfflatz, non è stata proposta da un fanatico estremista, ma dal moderatissimo Immartuel Kant a proposito della filosofia, e quindi anche della filosofia politica). Trattandosi di una posta in gioco, è bene che io lasci ogni tentativo di definizione, sempre provvisoria e revocabile, alle ultime pagine di questo saggio. Michelangelo intuì che una buona scultura non risultava da una aggiunta alla pietra, ma da un processo per cui alla pietra si toglieva progressivamente tutto ciò che impediva alla forma ideale di emergere e di diventare visibile. Nello stesso modo, credo che il concetto di democrazia possa emergere meglio, se si toglierà progressivamente alle due pietre costituite dal "popolo" e dal "potere" tutto ciò che esse hanno di non-democratico. Se questo è vero, l'equivalente del lavoro dello scalpellino e dello scultore è il lavoro dello storico e del filosofo, quello, appunto, che proporrò nel primo e nel secondo capitolo di questo saggio. Se dunque riserverò consapevolmente alle ultime pagine le proposte di definizione della democrazia (il popolo al potere), è invece bene che anticipi subito in queste prime pagine le mie posizioni personali sulla questione. Esiste un'etica della comunicazione scritta e parlata, e questa etica si basa sulla sincerità e

sulla veridicità, prima ancora che sulla verità e sulla giustizia. La verità e la giustizia, infatti, ammesso che si tratti di concetti universali realmente esistenti, sono poste in gioco di complessi dibattiti dialogici di fatto irrisolvibili, mentre l'esplicitazione vendica delle proprie opinioni è qualcosa del tutto alla nostra portata. Il lettore deve sapere subito che cosa pensa l'autore del libro, che ha per le mani. Come è evidente, solo l'insieme delle argomentazioni storiche e filosofiche svolte successivamente potrà legittimare o delegittimare - a po‐ steriori le tre valutazioni seguenti, che cercherò di esporre nel modo più sintetico possibile. Il popolo al potere

Iniziamo dal primo punto, e facciamolo nel modo più esplicito, sincero e brutale possibile: oggi, qui ed ora, in Italia e, più general-mente, in Occidente, non viviamo in urta reale democrazia. Non sto dicendo che è incompleta, imperfetta, minacciata dall'apatia e dalla corruzione ecc. Simili formulazioni sorto, a mio avviso, mez-ze misure, inconseguenti sul piano teorico ed opportunistiche sul piano politico. Si tratta infatti di ovvietà e di vere e proprie tautologie, perché è evidente che la corruzione e l'a.patia sono patologie organiche di un corpo politico come la democrazia, che, in quanto tale, sarebbe sempre esistente anche in presenza di cor-ruzione, apatia, deformazioni burocratiche, manipolazione della classe politica professionale ecc.; no, in casi come questi è meglio rischiare l'unilateralità assertiva ed essere radicali: semplicemen-te, non viviamo per nulla in una democrazia. La democrazia oggi e un fantasma ch. kaittimazOne, così come, a mio avviso, erano fan-tasmi di legittimazione il carattere cristiano della socklas christzana del Medioevo auropeo o il riferimento al pensiero di Karl Marx del comunismo storico novecentesco, recentemente defunto (1917- 1991). Questo fantasma di legittimazione ha ovviamente bisogno, come del resto tutti i fantasmi di legittimazione esistiti nella storia, i di un nemico contro cui definirsi - il comunismo, il fascismo, il populismo, il totalitarismo, oggi il terrorismo islamico internazioS nale, domani chissà - ma questa operazione polemica è puramente ideologica e la costruzione di un fantasma ideologico non può so-stituire urta vera dottrina politica credibile. Il potere del popolo, o meglio il popolo al potere, presuppone un insieme di cittadini consapevoli, informati e soprattutto sovrani del contenuto della pro-

pria decisione politica. Oggi il presunto "cittadino" è suddito di &te onenti fo • es ro riazione: il gigantesco circo mediatico, il cui compito è appunto la disinformazione pianificata e progr, am_mata attraverso una pecu-liare tecnica di saturazione apparentemente "informativa" - si tratta di un vero e proprio mondo alla rovescia - e la presenza di mercati finanziari sottratti a qualsiasi sovranità statale e comu22 23 Introduzione

nitaria. Circo mediatico e mercati finanziari contribuiscono a crea-re una sinergia patologica in cui i titolari della democrazia - che, come vedremo ampiamente in seguito, non sono i singoli cittadini intesi come atomi astratti di sovranità, bensì i cittadini come liberi membri volontari di una comudtà sono del tutrdespropriati aéra-c-Onoseenza che della decisione. La conoscenza è espropriata dalla sapiente saturazione del "circo mediatico" - che solo gli illusi e i faziosi ritengono seriamente diviso in sinistra, centro e destra - mentre la decisione lo è dalla macchina, apparentemente anonima, fatale e impersonale, dei cosiddetti "mercati finanziari" (per cui le nazioni diventano aziende, e la nazione italiana diventa "Azienda Italia"). Ritornerò dettagliatamente su tutti i punti qui frettolosamente evocati e riassunti. Se, però, mi si chiede subito in che "mondo" viviamo, dal momento che nego che questo mondo sia una de-mocrazia, allora non intendo sottrarmi opportunisticamente alla domanda e risponderò così: viviamo in una oligarchia o, più esat-tamente, in un sistema oligarchico controllato congiuntamente da un circo mediatico e da una rete di mercati finanziari; un sistema di potere periodicamente legittimato da referendum elettorali di facciata, che ha incorporato residui costituzionali della tradizio-ne liberale classica, fondati sulla tutela, anche giuridica, della li-bertà di opinione e di organizzazione del cittadino (cittadino, pe-raltro, inteso come atorno portatore di libertà originaria, non come membro attivo di una comunità in divenire). Si hanno così tre elementi connessi, che ripeto ancora per chia-rezza: oligarchia (quindi né tirannide, né aristocrazia, né demo-crazia); residuo di una precedente legittimazione democratica ot-tocentesca (legittimazione referendaria di una classe politica omo-genea, che si spettacolarizza elettoralmente in un gioco della com-media dell'arte fra destra e sinistra, con la riduzione del popolo sovrano a corpo elettorale privo di sovranità); residuo di una pre-ce-

dente legittimazione liberale ottocentesca (garanzia delle liber-tà di opinione e di espressione, che il potere ha però sempre, in Il popolo al potere Introduzione

ultima istanza, la facoltà di annullare o di limitare in nome della sicurezza). Questo regime di oligarchia pseudodemocratica e pseudoliberale, ovviamente, non è in alcun modo una democrazia. Il lettore noterà che, usando la categoria di "oligarchia", mi sono rifatto esplicitamente al pensiero politico dei Greci antichi, e non a quello dei moderni (Hobbes, Locke, Constant ecc.). Si tratta, ovviamente, di una scelta volontaria, consapevole e meditata, in quanto chi scrive rifiuta esplicitamente il presupposto per cui il pensiero politico moderno abbia realizzato un progresso conoscitivo rispetto al pensiero politico classico. Io riconosco esplicitamente il progresso nella farmacologia, nella chirurgia, nell'ingegneria aeronautica ecc.; non credo, invece, nel progresso come categoria della filosofia della storia e, soprattutto, della semplice filosofia. Oggi viaggiamo e ci curiamo in modo indubbiamente più "progredito", ma non credo che Kant e Hegel abbiano realizzato un "progresso" rispetto a Platone e ad Aristotele. Questa è la ragione per cui utilizzo tranquillamente la categoria classica di "oligarchia", facendomi consapevolmente beffe delle raffinate trame politologiche contemporanee. Passiamo al secondo punto, che in realtà deriva consequenzialmente dal primo e ne è, dunque, un suo logico corollario. Se infatti non viviamo in una democrazia, ma in una oligarchia munita di apparati secondari e non essenziali di tipo pseudodemocratico e pseudoliberale, derivati da una fase storica precedente ed ormai già quasi del tutto consumata, e se questa presunta "democrazia" non è che un fantasma di legittimazione ideologica, ne consegue allora che questa (inesistente) democrazia non fa parte dei cosiddetti "diritti umani" universalistici da esportare militarmente in aree geografiche, religiose e politiche, che vengono dichiarate unilateralmente non-democratiche, per avere appunto il diritto di isolarle prima con embarghi economici e di invaderle militarmente poi, se non crollano da sole. 24 25

Per comprendere bene quanto ho appena scritto, bisogna ovviamente chiarire il problema filosofico del cosiddetto "universalismo", distinguendo l'universalismo scientifico (veramente esistente), l'universalismo filosofico (a mio avviso, anch'esso esistente), e infine lo pseudo-universalismo ideologico teso

a legittimare comportamenti unilaterali e particolaristici travestiti con un universalismo" inesistente e posticcio (di cui non bisogna stancarsi mai di denunciare la strumentalità). C'è poi il problema specifico della costituzione della teoria dei cosiddetti "diritti umani", diventata oggi una vera e propria religione umanistico-ecumenica dotata di apparati inquisitori e missionari. Questa teoria, che nasce su base giusnaturalistica ed ha perciò alle spalle una lunga e nobile tradizione, che sarebbe sciocco irridere o sottovalutare — infatti non ho alcuna intenzione di farlo — è oggi diventata, insieme con la sua premessa economica, la teoria della (già avvenuta) globalizzazione, una protesi bellica rivolta a distruggere quello che resta del diritto pubblico internazionale. In questa introduzione, comunque, la cui funzione è limitata alla esplicitazione veridica delle mie premesse di valore, è sufficiente insistere sul punto essenziale della questione, che riassumerò così: se il nostro prodotto politico occidentale di esportazione è una oligarchia, malamente travestita di inesistente democrazia, è del tutto falso e illegittimo far passare questo prodotto avariato per un diritto umano urtiversalistico primario come la penicillina o le benemerite tecniche di potabilizzazione delle acque. Siamo giunti così al terzo ed ultimo punto, da esplicitare immediatamente al lettore. I primi due punti, infatti, potrebbero essere definiti puramente "negativi", in quanto basati sulla critica, sulla denuncia e sulla demistificazione, mentre questo terzo ed ultimo punto può essere definito "positivo", in quanto apre pur sempre una prospettiva, sia pure difficile e non garantita. In proposito, sia ben chiaro che io non credo affatto che in sede storica e filosofica sia necessario essere "positivi" ad ogni costo, come afferma il noto «pensare positivo» di molti cantautori, piazzisti, preti, psicologi televisivi, scommettitori, politici ed altri bookmakers di vario tipo. Il pensiero-placebo non cura le patologie, tanto meno poi le patologie Il popolo al potere Introduzione

storiche e sociali. Se però questo mio ultimo terzo punto può esse-re definito "positivo", ciò avviene perché ritengo legittimo pensa-re sulla base di una scommessa, che, a sua volta, si basa su urta possibilità ontologica e sociale allo stesso tempo: la democrazia, intesa come popolo al potere o, più esattamente, come processo di costituzione storica e sociale di comunità, che intende esercitare il potere sulla riproduzione della propria esistenza, è possibile. In altre pa-

role, il popolo inteso come corpo elettorale passivizzato e manipolato dalle oligarchie mediatiche e da quelle finanziarie non andrà mai al potere, ma il popolo inteso come insieme plurale di comunità liberamente organizzate può andare al potere. Non si tratterà, ovviamente, di un potere definitivo, ed è anzi bene che non sia così. Il potere definitivo è un'aberrazione e una contraddizione in termini, perché la presunta ed inesistente definitività è un delirio di onnipotenza patologico imperfettamente mascherato da pesudo-legittimazioni "scientifiche", ma in realtà ideologiche. Sostenere che la democrazia, che per me è sempre e solo un pro-cesso dinamico di accesso del popolo al potere - mai definitivo e sempre revocabile - e non un semplice potere del popolo, definito in via esclusivamente istituzionale sulla base di sistemi elettorali dati, è qualcosa di possibile, significa entrare in un agorte filosofi-co interminabile - la Kamplatz, di cui ha parlato il grande Kant - con i due convergenti "partiti" di coloro che pensano o che la de-mocrazia è impossibile, oppure che la democrazia è forse possibi-le, ma certamente non auspicabile. Questi due partiti si sono affacciati prestissimo sulla scena della storia e si sono riprodotti fino ad oggi attraverso metamorfosi fa-cilmente riconoscibili. Coloro che sostengono che la democrazia è impossibile, lo fanno generalmente utilizzando due argomenti lar-gamente convergenti; l'argomento della natura necessariamente elitaria, minoritaria e oligarchica dei governanti, indipendentemen-te dal modo con cui vengono legittimati - elezione esterna o cooptazione interna - e l'argomento della complessità specialistica delle decisioni da prendere, una volta che si sia abbandonato il terreno "semplice" delle decisioni accessibili a tutti, come quelle da prendere nelle piccole comunità nomadi di pastori ed allevatori oppure nelle piccole comunità stanziali di cacciatori, raccoglitori ed agricoltori. Coloro, invece, che sostengono che la democrazia è (forse possibile, ma non per questo auspicabile, lo fanno basandosi sull'ignoranza del bene politico "vero", che caratterizza le mag-gioranze popolari, argomento che nella sua forma nobile e classica i risale addirittura a Socrate, mentre, nelle sue forme attuali, mette in guardia dal fatto che, di per sé, delle maggioranze elettorali non "illuminate" - si intende, non illuminate dallo pseudo-`, universalismo ideologico occidentale potrebbero scegliere "libera-mente" il fascismo, il comunismo, il populismo carismatico e auto-ritario e il fondamentalismo islamico, ebraico o indù. 26 27

Tratterò estesamente queste due grandi obiezioni alla democra-zia: l'obiezione dell'impossibilità e l'obiezione della non auspicabilità. Anticipo subito che non possono esistere confutazioni "definiti-ve" di queste due classi. A suo tempo, Protagora sostenne che la democrazia è un processo educativo, di cui tutti gli uomini sono capaci, in linea di principio, perché tutti gli uomini sono dotati, per natura, del senso comune politico associativo e comunitario minimo, che ne fa soggetti razionali. Aristotele, che pure da un punto di vista dottrinale non fu un partigiano della democrazia politica nel senso di Clistene e di Pericle, ne fu però un sostenitore filosofico, con la sua doppia definizione antropologica di uomo come animale politico, comurùtario e sociale (politikòn zoon) e come animale dotato di ragione (zoon logon echon). Ne parlerò successivamente. Ho voluto però anticipare subito questa concezione della democrazia come processo di educazione comunitaria resa possibile da una determinata concezione della natura umana, perché questa concezione è la inia e dunque il lettore ha il diritto di conoscerla subito. Dopo aver chiarito il mio punto di vista sul problema della de-mocrazia oggi, posso tirare un sospiro di sollievo, sapendo che in questo modo non mi lascerò alle spalle spiacevoli equivoci, che Il popolo al potere Introduzione

potrebbero rendere l'ulteriore lettura faticosa e ambigua. Ora, però, comincia il difficile, perché le affermazioni apodittiche devono essere seguite da argomenti in qualche modo convincenti. Questo sarà il compito dei tre capitoli tematici del mio saggio e dei commenti, che farò a proposito dei libri e degli autori, che segnalerò nella nota bibliografica generale, concepita come un vero e proprio capitolo indipendente. In ciò che resta di questa introduzione, invece, anticiperò in forma sintetica alcuni problemi, che devono rendere consapevole il lettore della complessità di un concetto apparentemente semplice come quello della "democrazia". La democrazia è infatti come la "prosa", di cui parla il protagonista del Borghese Gentiluomo di Molière, che vuole imparare le buone maniere e la cultura dei salotti e che scopre, nelle lezioni lautamente pagate che gli vengono impartite, di avere sempre parlato "in prosa" senza mai sapere che cosa esattamente significasse questa parola. Per la "democrazia" avviene esattamente lo stesso, anche se quasi sempre in modo più sgradevole e grottesco. Ad esempio, vi sono scuole di politologi (Mosca, Pareto, Michels), che in modo analitico e serioso scoprono l'esistenza di éldesminorita‐ rie ed oligarchiche e di "classi politiche" professionalizzate, che si autoripro-

ducono per cooptazione interna al di fuori di ogni controllo democratico, cosa perfettamente nota nei più piccoli particolari alle casalinghe e ai perdigiorno dei caffè, fra una chiacchiera sportiva e l'altra. Per fare un altro esempio, mentre il circo mediatico omologato e la corporazione universitaria dei politologi e degli opinionisti riempie le prime pagine dei giornali - dedicate alle tribù dei semicolti e alla classe politica mazzettara, laddove la cosiddetta "gente comune" la salta sistematicamente per dedicarsi unicamente alle pagine della cronaca criminale, della cronaca sportiva e del g-ossip sessuale e pecoreccio - con elogi alla democrazia, la gente comune ha spesso l'esattissima percezione che in realtà questa famosa "democrazia" non esista. In Italia, questa sensazione, assolutamente esatta nell'essenziale, viene generalmente diffamata con il tei mine spregiativo di qualunquismo. Ora, non intendo affatto negare che il qualunquismo esista, e sia negativo. Il dire che «i politici sono tutti quanti eguali» e che vogliono soltanto «toglierci i soldi dalle tasche, per metterli nelle loro», è fattualmente falso, perché in realtà la politica esprime anche e soprattutto interessi economici, sociali e culturali differenziati, e dunque anche parzialmente "rappresentabili" (nonostante tutte le critiche che si possono fare alla teoria della rappresentanza in nome della pratica comunitaria diretta della democrazia). Nello stesso tempo, il "qualunquista", sia pure in forma volgare, fastidiosa e semplificata, intercetta involontariamente un fatto reale, l'attuale omologazione del ceto politico professionale bipolare maggioritario - in cui i due poli sono in realtà diretti dai rispettivi "centri", che lasciano l'avanspettacolo identitario ed irrilevante alle pittoresche ali estreme ideologiche alla riproduzione sistemica dell'attuale forma di turbocapitalismo globalizzato, laddove i tifosi identitari della rispettiva militanza sportiva, apparentemente più colti e consapevoli dei precedenti, sono in realtà vittime di una serie di illusioni, ancora più grottesche del qualunquismo sopracitato. I caroselli domenicali di tifosi politici con il clacson schiacciato e lo sventolio di bandiere di partito, non sono un'alternativa alla tribù qualunquista dei borbottatori di caffè, che manderebbero tutto il ceto politico a lavorare nelle miniere di sale, ma 28 29

/ ne sono solo l'opposto complementare. La tribù dei tifosi e la tribù dei qualunquisti borbottoni sono l'espressione di una identica patologia della democrazia moderna, intesa come luogo della deci-

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--sione politica effettiva fatta da cittadini informati e consapevoli. Fatta questa premessa, posso ora elencare sommariamente una serie di problemi destinati ad essere ripresi più avanti. Un primo problema è dato dalla fisiologica oscillazione semantica e concettuale del termine "democrazia" da un semplice metodo procedurale rivolto a prendere decisioni politiche legittime - in altre parole, il metodo del conteggio della maggioranza dei voti liberamente espressi da un corpo elettorale di cittadini a pieno diritto - ad un contenuto vero e proprio; più esattamente, ad una forma sostanziale del perseguimento del bene politico comunque Il popolo al potere

inteso. Ho definito questa polarità fisiologica e, nello stesso tempo, talvolta addirittura tragicomica, perché vi sono decisioni, prese con ampia maggioranza democratica, che sono clamorosamente, anzi grottescamente sbagliate (questo è il lato comico) e, nello stesso tempo, comportano terribili conseguenze, in termini di perdita di vite umane in guerre catastrofiche e sbagliate (questo è il lato tragi-co). Qui, il problema storico e politico della democrazia diventa ipso facto un problema filosofico, e chi disprezza la filosofia, come inter-minabile perdita di tempo incapace di giungere a qualcosa di scien-tifico o almeno di certo, sega di fatto lo stesso ramo su cui è seduto. La separazione di forma e di contenuto è infatti - come già ben sapeva Aristotele - un'operazione mentale di astrazione assoluta-mente necessaria per chiarirsi le idee, ma nella realtà non esistono forme e contenuti isolati e completamente indipendenti le une dagli altri, per cui la separazione di cosiddette forme "buone" e di contenuti "cattivi" (o viceversa) si fonda su un errore prima concettuale e poi anche, necessariamente, pratico e politico. Il proceduralismo, che astrae dal contenuto della decisione presa in modo costituzio-nalmente legittimo, è solo l'altra faccia del presunto "corttenutismo", che prescinde dalla forma dispotica e tirannica con cui le decisioni politiche vengono prese (personalmente, vedo nel proceduralismo di Norberto Bobbio o nel contenutismo filo-stalirtiarto di Domenico Losurdo due patologie complementari e polari di un'identica tendenza a separare ontologicamente forma e contenuto).

La democrazia è indubbiamente anche procedura o, più esatta-mente, un

insieme di procedure. Identificata con il semplice prin-cipio di maggioranza, resta priva del concetto di tutela costituzio-nale di coloro che sono rimasti in minoranza e intendono organiz-zarsi in modo stabile e permanente, per potere in futuro diventare maggioranza. La somma dei principi di maggioranza e di tutela delle minoranze si chiama in genere "liberaldemocrazia" e indica un fatto assai più storico che teorico, cioè la progressiva fusione del principio liberale e di quello democratico; principi, che, prima di fondersi - una fusione peraltro sempre imperfetta, non definitiva e Introdu7ione

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piena di crepe - furono a lungo opposti, antagonistici e addirittura talvolta incompatibili, come al tempo della rivoluzione francese del 1789 o, ancor più, delle rivoluzioni democratiche dell'Ottocento. Di liberaldemocrazia però talvolta si muore, quando le liberaldemo-crazie formalmente costituzionali dichiarano guerre sanguinose e barbariche alle spalle dei loro stessi popoli a suo tempo convocati regolarmente in elezioni liberaldemocratiche formalmente perfet-te. Si tratta del problema della guerra o, più esattamente, del rap-porto fra guerra e democrazia, che sarà il secondo problema che segnalerò, sia pur sommariamente, in questa introduzione. La for-ma democratica e il contenuto guerresco - più esattamente, della guerra ingiusta in quanto guerra di aggressione non giustificata dalla legittima difesa contro un'invasione pretestuosa fondata su menzogne sono infatti i poli, che fanno saltare il proceduralismo, rivelandone la miseria. Lo scoppio della guerra del 1914 ne fu un esempio indimenticabile. Esiste un luogo comune apologetico del-le liberaldemocrazie, per cui sarebbero sempre e soltanto i dispotismi autoritari e totalitari a scatenare le guerre, mentre le liberaldemocrazie non lo farebbero mai. Si tratta di un fatto scandolosamente falso, oggi smentito, fra l'altro, dalla guerra del Kosovo del 1999 e dalla guerra contro l'Iraq del 2003, entrambe scatenate in piena violazione del diritto internazionale da stati formalmente liberaldemocratici. Questo costringe però a mettere meglio a fuoco il problema del rapporto fra democrazia e guerra (precisando ancora che, per guerra, intendo "guerra ingiusta di aggressione", dal momento che non sono affatto un "pacifista assoluto", e anzi sostengo integralmente il diritto alla guerra di legit-tima difesa e alla successiva resistenza, anche armata, contro l'il-legittimo invasore).

Come ricorderò nel primo capitolo, la meravigliosa democrazia ateniese di Clistene e di Pericle era anche una spietata macchina da guerra, e non lo era certo meno di quanto non lo fosse l'aristo-crazia castale e guerriera di Sparta. L'antica Roma non fu mai, in alcun momento, una democrazia - al massimo, fu una "costituzione Il popolo al potere Introduzione

mista", secondo i termini di Polibio - ma molto spesso fu proprio la sua componente sociale più "democratica" (i comizi centuriati, i populares ecc.) a spingere per dichiarare guerre di aggressione e di conquista, fonte di terre e di schiavi, in primo luogo, per tutti coloro che non ne possedevano ancora. È vero che nel mondo antico la guerra era quasi sempre percepita come una fisiologica normalità sociale, e non come un problema morale in sé e per sé - con alcune eccezioni interessanti, ma tutto sommato marginali - ma è anche vero che la conoscenza della storia antica deve metterci in guardia dall'inesistente coppia democrazia/pace e tirannia/guerra. Solo una democrazia filosoficamente universalistica può infatti coniugare metodo democratico e perseguimento della pace. Ma la democrazia universalistica è un'astrazione, perché democrazia vuol dire anche e soprattutto partecipazione, e la partecipazione fattualmente possibile è sempre e solo comunitaria, quindi spazialmente limitata. La "comunità mondiale" è, kantianamente parlando, un'idea della ragiort pura pratica, dunque qualcosa di astratto, a meno che si pensi - e, come vedremo nel terzo ed ultimo capitolo, vi sono molti sciocchi che lo pensano - che la comunità mondiale sia l'esito ineluttabile o di una globalizzazione liberistica economica del Pianeta o - ma per me è, paradossalmente, lo stesso - dell'azione demiurgica di un soggetto sociologico proletario portatore del segreto del destino dell'umanità. Occorre riconoscere apertamente che una comunità retta al suo interno da regole democratiche, può tranquillamente essere un fattore di aggressioni belliche, addirittura rafforzate dalla maggiore coesione interna che ha un "esercito democratico" rispetto ad uno aristocratico, oligarchico o tirannico. Qui, allora, si pone il terzo problema che intendo segnalare in questa introduzione: il rapporto fra democrazia ed u_niversalismo o, più esattamente, fra democrazia politica e universalismo filosofico. 32 33

La denuncia filosofica del carattere potenzialmente nichilistico della decisione democratica risale, come è noto, all'ateniese Socrate. Della figura di

Socrate si sono date ovviamente, nel corso della storia, moltissime interpretazioni e darò anch'io la mia, nel primo capitolo. È intuitivamente evidente che la semplice applicazione proceduralmente regolata del principio di maggioranza non garantisce né la soluzione più utile, né la soluzione moralmente migliore. Per questa ragione, difficilmente negabile anche dai relativisti e dai convenzionalisti più radicali, le costituzioni democratiche sono anche quasi sempre state costituzioni "protette", nel senso che si sono variamente dotate di una sorta di "cintura protettiva giusnaturalistica" sottratta in via di principio al gioco mutevole delle maggioranze e delle minoranze spesso casuali e contingenti. Questa cintura protettiva è sempre, a mio avviso, di tipo giusnaturalistico ed è di secondaria importanza, se le premesse di diritto naturale, sottratte alla sovranità delle decisioni democratiche a maggioranza, sono fondate su una religione rivelata e interpretata da un clero organizzato, oppure su una teoria filosofica razionalistica con pretese di validità universalistica. Vorrei insistere molto sulle parolette "secondaria importanza", perché il pensiero cosiddetto "laico", dominante fra gli intellettuali occidentali, presta, a mio avviso, un'attenzione eccessiva alle modalità di legittimazione di una norma, anziché al suo valore autonomo di verità e di giustizia. Per quanto mi riguarda, essendo diventato da tempo un "contenutista" radicale, poco mi importa se una norma politica e morale, che ritengo buona in sé sulla base evidentemente di una libera valutazione universalistica, sottoponibile al dialogo razionale di controllo, sia legittimata sulla base della rivelazione di Dio, di Allah, di Buddha, della filosofia indiana, greca o cinese. Il nesso fra filosofia e democrazia qui appare in piena luce. Siamo invece di fronte ad un apparente paradosso, su cui sarà necessario tornar-re con insistenza e pazienza. Da un lato, infatti, è dominante oggi L nella filosofia politica e giuridica occidentale una posizione di tipo ì relativistico, scettico e convenzionalistico, che nega ogni validità alle proposizioni universalistiche del diritto naturale, sostenendo appunto che lo stesso diritto naturale è una pura invenzione, in-

Il popolo al potere

deona di fare da base di riferimento al diritto positivo, la cui nor-; ma è

sempre autofondata ed autoreferenziale (posizioni simili si ; possono leggere in Hans Kelsen, che le ha sistematizzate in modo particolarmente accurato, ma anche in Benedetto Croce e in Norberto Bobbio). Dall'altro, gli stessi propugnatori relativisti e convenzionalisti — che spesso si nascondono ipocritamente sotto l'etichettatura innocente di "pluralisti" — non possono rinunciare alla cintura protettiva del diritto naturale, cioè alla cintura protettiva di norme fondamentali sottratte al puro gioco delle maggio-ranze elettorali. Questo giusnaturalismo che si vergogna o, se si vuole, questo giusnaturalismo a geometria variabile, basato sul prin-cipio «qui lo dico e qui lo nego», si presta splendidamente all'edi-ficazione dello pseudo-universalismo ideologico interventista dei diritti umani, da imporre con bombardamenti e corpi di spedizio-ne. Per usare un triste ossimoro, si tratta di un positivismo giuridi-co fattuale, che si maschera ideologicamente da giusnaturalismo à la carte, in cui il cliente decide sovranamente leggendo il menu che cosa sia diritto naturale e che cosa invece non lo sia. Ma questo è il triste scenario del mondo di questo inizio di terzo millennio, su cui sarà necessario ritornare dettagliatamertte nel terzo ed ultimo ca-pitolo, chiarendo che, se questo scenario storico-politico non sarà - rovesciato in tempi ragionevoli, nessuna democrazia — delegata o diretta, formale o sostanziale, individualistica o comunitaria — sarà possibile per noi e per i nostri discendenti. --Un quarto problema, strettamente connesso a quelli evocati in pre-cedenza, è dato dal rapporto fra politica e morale, rapporto in cui si inserisce ovviamente anche il tema della forma democratica di gover-no. Urta lunga tradizione occidentale di filosofia politica, che com-prende anche avversari filosofici della democrazia egualitaria — da Aristotele a Montesquieu, sostenitori, il primo, di urta democrazia limitata alla classe media e il secondo di una democrazia limitata all'aristocrazia nobiliare, quindi, se le parole hanno ancora un senso, di una non-democrazia — è concorde nell'affermare che la democrazia è u_na forma di governo, che richiede una particolare 34 35 Introduz one

"virtù" (areté, vfrtus) nei cittadini: la virtù politica, appunto. Si tratta allora di capire se questa specifica virtù politica sia solo una sorta di prolungamento comunitario di un insieme di virtù morali propriamente dette, o qualcosa di specifico, che in alcuni casi non è per nulla "morale", anzi. In

proposito, Niccolò Machiavelli è molto chiaro: «.., mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immagina-ti repubbliche e principati che non si sono mai visti, né conosciuti essere in vero. Perché egli è tanto discosto da come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene riuni inf-ra tanti che non sono buoni».

Non si potrebbe esprimere meglio e in modo più semplice una con-cezione sostanzialmente pessimistica della natura umana, da cui de-riva necessariamente -un "realismo politico", programmaticamente e quasi provocatoriamente anti-utopistico, che separa nettamente la politica dalla morale. Sulla base di un'analoga concezione pessi-mistica della natura umana, l'inglese Thomas Hobbes criticò le il-lusioni democratiche in nome di una sorta di dispotismo securitario, in cui appunto la sicurezza della vita umana era messa come fon-damento della politica, laddove il metodo democratico avrebbe potuto suscitare dei "centauri" estremisti e furiosi ispirati da messianesismi religiosi eversivi. Il filosofo francofortese Max Horkheimer, che scrisse note su Machiavelli estremamente acute e intelligenti, ha sostenuto in proposito che l'uomo non è affatto cattivo per natura (e neppure buono), ma al tempo di Machiavelli di fatto lo era, quindi il pensatore fiorentino era perfettamente le-gittimato a dirlo. Il rapporto fra politica e morale può essere graficamente visua-lizzato da una linea, in cui ad un estremo si pone la piena identi-ficazione dei due termini e all'estremo opposto la loro totale sepa-razione. Come accade quasi sempre nella realtà, si danno invece 11 popolo al potere Introduzione

varie mescolanze, e questo per una ragione estremamente semplice. Anche ammesso, infatti, che vi siano storicamente casi di tiranni o di assemblee aristocratiche e/o democratiche completamente e provocatoriamente amorali ed immorali, persino questi "mostri" scoprono ben presto che il riferi-

mento ai valori "morali" è una risorsa di legittimazione e di consenso per i loro stessi fini politici del tutto amorali ed immorali. Questo paradosso innesca molto spesso una dialettica politica particolare, dal momento che l'uomo, lungi dall'essere un ente ontologicamente immorale, è al contrario un ente, che inevitabilmente produce rappresentazioni "morali" della società. Ci ritornerò su esplicitamente nel secondo capitolo dedicato al rapporto fra democrazia e filosofia. Per ora, basti sottolineare che quanto affermo non è per una mia adesione alla dottrina di Kant - che considero generosa e civile, ma anche del tutto astratta e quindi inverosimile - ma in base a considerazioni di tipo prettamente darwiniano ed evoluzionistico. La produzione di norme morali, infatti, che la religione ha il compito di fondare, legittimare ed eternizzare - quindi nasce prima la morale, intesa come etica di conservazione del gruppo primitivo, e poi il simbolismo religioso eternizzante impedisce al gruppo primitivo di autodistruggersi con lo scatenamento di un atomismo aggressivo ed autoreferenziale. L'uomo non nasce dunque per nulla come lupo per l'altro uomo (uomo homini lupus), come sostenne a suo tempo Hobbes criticando Artistotele (tanto migliore di lui), ma, se proprio vogliamo ad ogni costo utilizzare metafore zoomorfe improprie - l'uomo è infatti un ente naturale generico, mentre l'animale è un ente naturale specifico, ma su questo torneremo - nasce come membro di un gregge senza pastore, che tiene insieme tutte le sue pecorelle con un legame sociale simbolico. Esiste una tradizione secolare di polemica liberale contro la democrazia egualitaria (Rousseau) e poi contro il comunismo politico novecentesco (Lenin), che accusa queste due forme politiche anti-liberali di soffrire di una specifica patologia filosofica deva36

stante: la patologia moralistica coercitiva, che vuole «costringere gli uomini ad essere liberi» (Rousseau) oppure, ancora peggio, che li vuole obbligare con la forza ad «edificare l'uomo nuovo comunista» (Lenin). Non nego la parziale fondatezza di queste critiche liberali al prescrittivismo coercitivo fondato sulle cosiddette "buone intenzioni" ed ammetto apertamente che, di per sé, le "buone intenzioni" non sono un argomento filosoficamente decisivo, anzi. Si è spesso negata la legittimità della comparazione fra il nazional-

socialsmo tedesco e lo stalinismo sovietico, sostenendo che è impropria, perché Stalin ha commesso i suoi crimini sulla base di buone intenzioni (l'universalismo egualitario comunista), mentre Hitler li ha commessi sulla base di intenzioni pessime (il razzismo ariano genocida verso ebrei, zingari, slavi ecc.). 37

A mio avviso, benché personalmente preferisca Stalin a Hitler - e non vedo perché devo nasconderlo pudicamente al lettore - accetto invece pienamente la legittimità della comparazione e considero il rifiuto di questa comparazione un residuo di bigottismo antifascista. Io non devo difendere posizioni politiche e storiografiche precostituite, ma scrivo questo saggio, per così dire, "con le mani libere". Non devo difendere il liberalismo contro il comunismo, perché considero il liberalismo una forma di oligarchia economica, ed io sono per la democrazia; però non devo neppure difendere il comunismo contro il liberalismo, perché considero il comunismo una forma di dispotismo sociale, ed io sono per la democrazia. Del liberalismo apprezzo il principio di libertà, e del comunismo il principio di eguaglianza. Si tratta di due principi, la cui fusione integrale è impossibile, e da lungo tempo ho smesso di credere nel principio alchemico della loro fusione aurea. La "pietra filosofale", beninteso, esiste, ma solo nella testa dei filosofi. E la fusione integrale è impossibile, per il semplice fatto che si tratta di due principi asimmetrici, che non si ricoprono spazialmente e temporalmente, in quanto si può essere più liberi di un altro, ma non si può essere più eguali di un altro. I due principi, dunque, danno luogo ad una dialettica di tipo tragico, in cui ogni conciliaIl popolo al potere

zione finale è impossibile e, quando invece sembra possibile, lo è sempre in forma instabile, fragile e provvisoria. Un quinto problema è certamente dato dal rapporto fra politica ed economia: a mio avviso, questo quinto problema deriva dal quar-to molto più di quanto generalmente non si creda, se, ad esempio, poniamo mente al fatto che Adarn Smith, considerato il fondatore dell'economia politica liberale moderna con il suo libro del 1776 La Ricchezza delle Nazioni, era un

professore di filosofia morale. Siamo infatti talmente abituati, attualmente, a considerare il regno del-l'economia come qualcosa di intrinsecamente immorale — del resto, non posso negare che anch'io condivido questa valutazione, in quan-to ciò che oggi è definito "economia", in realtà è solo "crematistica", arte di accumulare ricchezze — da avere dimenticato che, solo poco più di due secoli fa, l'economia nacque concettualmente come par-ticolare estensione della filosofia morale, in quanto si pensava che lo sviluppo degli "interessi" borghesi e capitalistici fosse meno di-struttivo, e quindi più morale, dello scatenamento delle "passio-ni" signorili, nobiliari e feudali. La storia degli ultimi due secoli ha invece dimostrato che così non è e che gli interessi sono altrettanto e più distruttivi delle passioni. È questo un grande argomento filo-sofico, difficilmente aggirabile, in favore della scuola anti-utilitaristica (Mauss, Caillois, Latouche, Salsano ecc.). n-orniamo ora al problema del rapporto fra politica ed econo-; mia: dove si inserisce la questione della democrazia? È bene che '; questo punto sia ben compreso, perché l' intero mio saggio, e non solo questa sommaria introduzione, presuppone la sua piena com-prensione. In proposito, mi riferirò alla classica impostazione di Karl Polanyi, vecchia di almeno mezzo secolo, ma tuttora, a mio avviso, insuperata. La tesi di Polanyi può essere riassunta così: il capitalismo è caratterizzato strutturalmente dalla separazione di principio fra economia e politica, nel senso che la riprochizione eco-nomica complessiva del sistema capitalistico è del tutto autonomizzata e largamente indipendente da qualsivoglia interven-to politico esterno, che è al massimo "correttivo"; nelle società 38 39 Introduzione

1. precapitalistiche, invece, l'economia era "incorporata" (embedded) in un insieme più ampio, che era nello schiavismo di tipo politico e

t\ nel feudalesimo europeo di tipo religioso. Esiste dunque una diffe-renza qualitativa di principio fra la decisione politica nell'antica , democrazia greca (o nelle società non democratiche dell'antico orien-i te o dell'Africa sub-sahariana) e la decisione politica nel capitali-tri s o; il primo tipo di decisione politica "mordeva" direttamente nei

i i contenuti economici, determinandoli in modo essenziale e non solo

, l sussidiario; il secondo tipo di decisione politica, invece, ha un rag-i ' g,io di intervento infinitamente minore, perché non "morde" nella vera e propria riproduzione capitalistica, ma al massimo ne influenza \-aspetti secondari di tipo distributivo. Ho qui riassunto la tesi di Polanyi in modo indubbiamente tele-grafico e semplificato, ma ritengo di non averla falsata. Dico que-sto perché, al tempo stesso, proclamo qui solennemente di condi-viderla praticamente in toto. Se infatti Polanyi ha ragione, come io ritengo, allora il problema principale di ogni filosofia politica de-gna di questo nome è la tematizzazione critica del rapporto fra politica ed economia e una teoria della democrazia, che non ne parli nemmeno, vale a malapena la carta su cui è scritta e, in ogni caso, non ci aiuta a capire quasi niente del mondo. Ad esempio, la filosofia politica di Norberto Bobbio è, a mio avviso, una delle peg-giori esistenti sul mercato delle idee, proprio perché è costruita sul presupposto metodologico e programmatico della separazione di principio fra politica ed economia. Il grande successo, che essa ha oggi — ma per quanto ancora? — è proprio dovuto non alle sue qualità, ma ai suoi difetti, in quanto la nuova classe politica, giun-ta dopo il 1992 al potere in Italia sulla base del principio del pri-mato assoluto dell'economia neoliberale sulla politica, deve appunto richiamarsi come ideologia politologica di legittimazione ad una teoria fondata proprio sulla separazione metodologica del-l'economia dalla politica; separazione metodologica, che, in un contesto storico di primato soverchiante della prima sulla secon-da, ne legittima appunto ex post l'esistenza. Il popolo al potere Introduzione

Un sesto problema, che deriva direttamente dal quinto, è dato dal problema storico e filosofico del rapporto della democrazia politica con il liberalismo, da un lato, e con il socialismo e il comunismo, dall'altro. Di questo rapporto si parlerà ovviamente a lungo nel primo e nel secondo capitolo, ma è bene anticipare subito alcuni rilievi di fondo. In proposito, ci sono due questioni cardinali, che bisogna immediatamente chiarire.

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In primo luogo, io rifiuto radicalmente il posizionamento topologico delle posizioni "ideali" in un segmento delimitato da un polp detto di sinistra e da un polo detto di destra. Non nego certamente l'esistenza storica di innumerevoli forze politiche, sociali, sindacali e culturali, che si sono autorappresentate secondo questa polarizzazione, perché negherei l'evidenza. Nego invece che oggi, qui ed ora, in Italia ed anche in Europa - per altre aree del mondo, come l'America Latina, andrei ovviamente più cauto - questo posizionamento topologico bipolare possa aiutarci a capire qualcosa, sia pure con i consueti aggiustamenti che - come a suo tempo sostenne il filosofo della scienza Imre Lakatos - vengono generalmente giustapposti a paradigmi traballanti. In termini sintetici e inequivocabili: no alla dicotomia sinistra/destra, eredità storica di un passato ormai trascorso e oggi semplice protesi politologica bipolare maggioritaria imposta ad un sistema elettorale privo di sovranità politica, il cui compito è quello di galvanizzare sostenitori identitari di tipo sportivo. Rifiuto dunque radicalmente di disegnare questo schema semplificato: estrema destra/ fascismo, destra moderata/liberalismo, centro virtuoso/democrazia, sinistra moderata/socialdemocrazia o socialismo, estrema sinistra/comunismo. Trasportando questo schema alla cultura, potremmo posizionare all'estremissima destra Julius Evola (più a destra del fascismo) e all'estremissima sinistra Amadeo Bordiga (più a sinistra del comunismo). Dal momento che sono un tollerante, credo che ognuno possa divertirsi anche con un gioco demenziale, quindi non ho nulla in contrario che si faccia il gioco sinistra/destra e che il vincitore possa scatenarsi per alcune ore in caroselli automobilistici con il clac‐ son premuto dopo lo spoglio elettorale rituale, in attesa che esperti economici bipartisan, pienamente omologati nello spazio centrista del centrodestra e del centro-sinistra, decidano gli stessi identiciprovvedimenti in nome della ceritralità teologica dei Mercati Finanziari divinizzati. Come c'è chi crede nel bambino buddista reincarnato vestito di arancione e nello scioglimento del sangue di san Germaro come succedaneo della mancata soluzione dell'annosa questione meridionale, nello stesso modo si può credere negli UFO, nel fatto che a buttar giù le Torri Gemelle di New York sia stato Bush in persona per avere il pretesto di dominare il mondo e, infine, nella vigenza storica attuale reale della dicotomia destra/sinistra. Per finire, ritengo che sia un presupposto necessario, per poter discutere sensatamen-

te di democrazia oggi, svincolare integralmente questa discussione dal fantasma identitario della dicotomia sportiva sinistra/destra. In secondo luogo, rifiuto di farmi invischiare in discussioni astratte sulla cosiddetta "compatibilità" - o viceversa, ma è assolutamente eguale, sulla cosiddetta "incompatibilità" - fra la democrazia, da un lato, e il liberalismo, il socialismo e il comunismo, dall'altro. Non parlo qui, volutamente, del cosiddetto "fascismo" - prescindendo dalle sue numerose e divergenti forme storiche differenziate, laddove fra il tedesco Hitler e il portoghese Salazar passa in realtà un oceano - perché, da un lato, era il fascismo stesso a sostenere di essere ostile e incompatibile con la democrazia e a non rivendicarla e, dall'altro, si potrebbe sempre incasellare il fascismo in una sorta di democrazia cesaristica di mobilitazione carismatica. Torniamo, però, al tema della compatibilità o meno. L'imposta zione migliore è quella che detta il vecchio e spesso trascurato buon senso: da un punto di vista astratto, formale, teorico e modellistico, la democrazia, intesa come metodo democratico di presa delle decisioni unito alla cintura protettiva giusnaturalistica di tutela dei diritti naturali di libertà del cittadino, è perfettamente compatibile sia con il liberalismo che con lo stesso comunismo; da un punto di vista storico, fattuale, concreto, bisogna verificare caso per caso se Il popolo al potere Introduzione

lo sia oppure no. Ad esempio, laddove il pensiero originale di Marx è, a mio avviso, pienamente compatibile con la democrazia, ed anzi il suo comunismo utopistico-scientifico - l'ossimoro è voluto e non casuale - non può che avere la democrazia come sua forma politica essenziale, il comunismo storico novecentesco realmente esistito - come direbbero insieme Machiavelli e Kant, il suo "essere" e non il suo "dover essere" - si è ripetutamente e recidivamente dimostrato ad abundantíam, anzi ad nauseam, come assolutamente incompatibile sia con il metodo democratico che, ancor più, con lo spirito democratico. Questo scollamento - per usare un eufemismo - fra teoria e pratica della democrazia, deve essere correttamente percepito come qualcosa di tragicamente consustanziale alla dimensione aporetica delle vicende umane.

Ci sarebbero ancora molti altre questioni da richiamare, ma ci torneremo sopra nella trattazione che seguirà. Per ora, è bene terminare con la segnalazione di un ultimo problema, che ho inteso lasciare consapevolmente per ultimo. Si tratta della segnalazione di un dubbio iperbolico sulla stessa esistenza della democrazia, non nel senso che la democrazia sia comunque illusoria ed impossibile, o possibile ma non auspicabile, ma nel senso di chiedersi se veramente gli esseri umani oggi organizzati in società e/o in comunità ne abbiano bisogno, oppure se in realtà si tratti di un bisogno inesistente, perché oggi la grande maggioranza delle persone non vuole democrazia intesa come somma di autogoverno politico e di autogestione economica ma sicurezza e buona amministrazione, rispetto dei parametri ambientali necessari ad una vita sana, garanzia economica contro la povertà, la disoccupazione e le malattie, ed è disposta a riconoscere come legittimo ogni governo "performativo" (nel senso di efficiente), non importa se oligarchico, dispotico, neoliberale o tecnocratico. È giusto porsi dubbi iperbolici. Il grande filosofo francese Cartesio, ad esempio, definiva dubbio metodico quello rivolto esclusivamente alle modalità della corretta conoscenza del mondo esterno delle cose e del mondo interno delle passioni, mentre definiva dubbio iperbolico quello che metteva in discussione persino l'esistenza del mondo esterno. Nello stesso modo, è giusto porsi il dubbio iperbolico sulla necessità della democrazia stessa, intesa sia come metodo per la presa delle decisioni collettive legittime sia come processo culturale e antropologico per la costituzione processuale di individui liberati e di comunità solidali. 4?

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Cercherò di rispondere a questo dubbio iperbolico per tutto il corso del saggio, però è bene che, per correttezza, anticipi subito la mia risposta al lettore in questa introduzione. Ebbene sì, la democrazia è non solo opportuna, ma necessaria; non lo sarebbe, se esistesse una "scienza politica", così come esistono scienze fisiche, chimiche o biologiche. Già Platone sognava una scienza politica di tipo pitagorico, e il pitagorismo era di fatto l'equivalente greco del modello galileiano del moderno metodo scientifico. Anche il marxismo di partito del Novecento - ma non Marx, come vedremo - ha seguito il mito della cosiddetta (ed inesistente) "direzione scientifica della società". Io stesso, nei miei verdi anni, ho seguito in un Paese dell'Est un corso demenziale di "comunismo scientifico". rTà democrazia, nel doppio significato for-

male di metodo democratico e sostanziale di profilo antropologico democratico diffuso, è necessaria proprio perché la politica non è in alcun modo una scienza, e non può diventarlo. Una volta capito questo punto essenziale, il resto segue facile facile. Per questa ragione, posso chiudere qui questa breve introduzione. 45

Democrazia e storia. Riflessioni su una vicenda bimillenaria Questo primo capitolo propone al lettore alcune considerazioni di tipo storico sulle vicende dell'idea democratica nei secoli. Da un punto di vista logico, sarebbe stato forse preferibile inver-tire l'ordine di successione dei miei primi due capitoli, perché le istituzioni storiche presuppongono un certo modo preliminare di risolvere il problema simbolico del rapporto fra macrocosmo na-turale e microcosmo sociale, rapporto che, prima di essere "poli-tico" in senso stretto, è sempre religioso o filosofico. Tuttavia, il lettore medio, che non pratica professionalmente la storia della filosofia occidentale come disciplina specifica — disciplina, che personalmente ho insegnato per trentacirtque anni nei licei italiani — sarà indubbiamente agevolato dal poter avvicinare prima gli eventi storici e dal potere poi ritornarvi sopra, riflettendo sui loro presup-posti filosofici e religiosi. Ad esempio, un'esposizione logica avreb-be dovuto prima discutere l'originario pensiero di Marx sulla democrazia e passare poi all'esame dei rapporti fra la democrazia e il comunismo storico novecentesco. Se ho scelto di invertire, volu-tamente, questa logica, l'ho fatto perché la maggioranza delle perso-ne entra prima in contatto con i fatti storici novecenteschi ispirati al cosiddetto "marxismo" — che Marx non si sognò mai di edificare e di sistematizzare — e soltanto dopo sente il bisogno di riflettere su questioni teoriche e dottrinali. Una discussione storica sulla democrazia presuppone migliaia di pagine, non un modesto capitolo di un saggio relativamente breve. Dal momento che, però, sui rapporti fra storia e democra-zia esistono trattati esaurienti, che si

possono trovare segnalati in qualunque bibliografia informatica o cartacea, e a cui il lettore può accedere agevolmente, non mi sono certo lasciato spaventare dal

11 popolo al potere

fantasma della mancata completezza. Mi soffermerò allora su tre argomenti esemplari, tralasciandone altri forse altrettanto e più degni di essere presi in esame: il modello della democrazia degli antichi Greci, la complessa storia dell'intreccio fra democrazia e liberalismo nel mondo moderno e, infine, le ragioni del sostanziale fallimento del comunismo storico novecentesco (19171991) nella coniugazione della democrazia e del socialismo. Sul problema della democrazia oggi e del perché, a mio avviso, non viviamo affatto in una democrazia - semmai, la democrazia è un compito da svolgere e un terreno da conquistare, non certo qualcosa di già esistente e che Va semplicemente "migliorato", "estenso" o "perfezionato" - dirò pochissimo qui, perché intendo sviluppare questo tema nel terzo ed ultimo capitolo.

Le ragioni della perenne attualità della filosofia politica degli antichi Greci e del fascino evocato dalla loro idea di democrazia Non c'è dubbio che permanga anche oggi un peculiare fascino per il model-

lo democratico dell'antica Atene, anche se non durò a lungo e venne abolito dopo la conquista macedone (e romana) per essere sostituito da una classica oligarchia di ricchi. In genere, le ragioni di questo fascino perdurante sono legate alla preferenza ideale che si ha per una vera e propria "democrazia diretta", in cui tutti i cittadini vengono convocati in assemblea per decidere a maggioranza su questioni vitali, di fronte ad una "democrazia delegata", necessariamente inquinata e corrotta dallo specialismo politico e dalle burocrazie professionali. Il modello ateniese di de-mocrazia diretta è, infatti, così attraente che quasi sempre si tra-scurano i suoi difetti strutturali, come l'esclusione delle donne e degli schiavi. In genere, si archivia la cosa con un sospiro rasse-gnato, seguito da discorsi di questo tipo: sarebbe bello che ci potesDemocrazia e storia

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se essere ancora urta democrazia come quella, ma oggi purtroppo è impossibile, ci sono Paesi con milioni di persone, non si può certo essere convocati tutti in una piazza, i problemi da risolvere sono "complessi" e richiedono uno specialismo, che si acquisisce con studi particolari; oggi, al massimo, l'utopia della consultazione si-multanea dei cittadini può essere pensata tecnologicamente attra-verso l'uso della rete informatica. Dalla democrazia dell' ag-orà alla democrazia del web. C'è però una differenza non da poco: i cittadini delle agorà formavano una comunità reale, si vedevano, si toccavano, si amavano e si odiava-no, mentre gli utenti del web formano soltanto una comunità vir-tuale, che ha alle spalle la manipolazione del circo mediatico con le sue tecniche di saturazione e, soprattutto, la soverchiartte fata-lità dei cosiddetti mercati finanziari, la nuova divinità di oggi. Chi sostiene che l' agorà di oggi è il web, confonde, a mio avviso, una virtualità con urta realtà. Chi scrive, non è un "credente" in que-sta pur generosa utopia tecnologica. Non nego che, per una maggioranza di persone, il fascino della democrazia antica sia legato all'utopia della democrazia diretta contro il triste realismo procedurale e professionale della demo-crazia delegata. Non è questo, il mio caso. La democrazia diretta che decide in tempo reale a maggioranza semplice è, però, la stessa democrazia, che, come ha a suo tempo rilevato Hans Kelsen, posta di fronte alla scelta fra Barabba e Gesù, vota per la libera-zione di Barabba e la crocifissione di Gesù. In proposito, Kelsen,

\ che sostiene che il relativismo scettico è il presupposto filosofico 'ynplicito di ogni ricorso alla decisione politica da prendere a mag-gioranza - quindi "democraticamente", se la democrazia è il me-todo per la presa di decisioni collettive a maggioranza - osserva che il ricorso alla scelta del popolo di Gerusalemme presuppone ;che Ponzio Pilato non sapesse o non volesse rispondere alla do--manda «che cos'è la verità?». Se infatti Pilato avesse saputo, o creduto di sapere, che cos'era la verità, avrebbe assolto Gesù e non ne avrebbe certamente delegato la crocifissione alla maggioIl popolo al potere

ranza delle mani alzate della plebe gerosolimitana. Più di mezzo secolo dopo Kelsen, il filosofo americano Richard Rorty, nemico dell'esistenza degli universali, sostiene che, con la fine della credenza nella metafisica, la democrazia può finalmente sostituire la filosofia - spodestata dal trono illegittimamente occupato della via privilegiata per la conoscenza della verità, in quanto la democrazia come metodo politico e sociale ha proprio, come presupposto, la radicale inesistenza della verità - e la filosofia deve limitarsi ad essere una sorta di "civile conversazione", programmaticamente privata di ogni pretesa veritativa e, quindi, normativa. La sola normatività possibile può e deve scaturire da un gioco regolato di maggioranze e minoranze. Il lettore è avvertito: il mio saggio è tutto costruito contro le opinioni di Hans Kelsen e di Richard Rorty, e questo non certo perché sostenga la persecuzione ideologica dei dissenzienti, in quanto non ritengo affatto di "possedere" la verità e, anche se la possedessi (in tal caso, sarei o una bestia o un dio) non sosterrei egualmente un punto di vista dispotico, perché ritengo che si possano tenere insieme metodo democratico, tolleranza verso i dissenzienti e fiducia nell'esistenza della verità filosofica. In proposito, nel discorso di Kelsen ci sono, a mio avviso, due "buchi"; due cose, cioè, che non dice e che impediscono di comprendere, nella loro realtà storica; Pilato, Barabba e Gesù. Il lettore mi scuserà, se ne parlo subito allontanandomi dal discorso sui Greci, ma è bene non lasciare equivoci. In primo luogo, Kelsen può suggerire l'intrigante dilemma su Barabba e Gesù solo sulla base di una radicale destoricizzazione della situazione storica concreta della Palestina di quei tempi. Questa destoricizzazione, peraltro, sta sempre alla base delle considerazioni formalistiche del problema, da Kelsen a

I3obbio. Ponzio Pilato non era un "libero decisore" razionale, ma un funzionario imperiale romano, che aveva l'ordine esplicito di non creare disordini inutili e di collaborare il più possibile con il sinedrio governativo ebraico, composto da sadducei e farisei moderati, alcuni dei 48 49 Democrazia e storta

quali proteggevano anche i partigiani zeloti fuorilegge, mentre non avrebbero ovviamente potuto sopportare la predicazione pacifista, ma pur sempre messianica, di Gesù di Nazareth, che intendeva "purificare il tempio" (traduzione: colpire la loro gestione mafiosa e privatistica delle decime) e "proclamare l'armo di misericordia del Signore" (traduzione: cancellare i debiti pregressi e liberare gli schiavi senza pagare compensazioni). A Kelsen non interessa affatto il contesto storico e non è per lui di alcun valore il fatto che gli zeloti avessero coinvolto i loro sostenitori per far assolvere Barabba, partigiano zelota dell' zntOda ebraica, che aveva appena pugnalato un soldato romano; a lui interessa il formalismo puro, cioè che sia la maggioranza a votare Barabba contro Gesù, e che Pilato comunque non intervenga perché non conosce la verità. Pilato, in quel caso, non è intervenuto non certo perché non conoscesse la verità, che non consisteva in una tesi filosofica universalistica, bensì in un semplice accertamento giudiziario, ma perché aveva ricevuto ordini ferrei da Tiberio di non scontentare gli ebrei e di cercare il consenso della plebaglia egemonizzata dal Sirtedrio. Il problema, infatti, era giudiziario, non filosofico: per Pilato, il "proclamarsi messia" non era un reato penale, perché non era neppure di fatto un reato, laddove invece pugnalare un soldato occupante era un reato penale, punito con la crocifissione; dal momento, però, che gli ebrei consideravano un reato punibile con la morte l'autoproclarnazione messianica - anche se preferivano una bella lapidazione popolare alla crocefissione romana - Pilato acconsentì, per ragioni non scettico-relativistiche (come suggerisce erroneamente Kelsen), ma di semplice opportunismo politico. Bisognava, però, inventarsi un cartello di condanna "zelotico", perché un semplice cartello di condanna filosofico avrebbe comportato la punizione di un mero reato di opinione, che nel mondo di Pilato non esisteva, trattandosi di un mondo politeistico e pluralistico pullulante di epicurei, stoici, platonici, pitago-

rici ecc. Scrivere sul cartello della croce "INRI" ("Gesù Nazareno Re dei Il popolo al potere Democrazia e storia

Giudeí"), significava esprimere una motivazione penale e non fi-losofica, perché "Re dei Giudei", in quel contesto storico specifico — per cui Kelsen non ha il minimo interesse — significava capo armato messianico del partito degli zeloti, i "terroristi" dell'epo-ca. Gesù di Nazareth fu dunque crocifisso come "terrorista", non come predicatore di pace o come sostenitore del monoteismo, dal momento che, se c'era qualcosa di perfettamente "legale" nel mondo antico, era proprio il monoteismo stesso in tutte le sue versioni. In secondo luogo, Kelsen dimentica che Pilato non è per nulla l'espressione del cosiddetto pensiero greco o della sapienza filoso-fica greca, in cui lo scetticismo era certo presente, ma solo come corrente minoritaria e marginale. Il romano Pilato conosceva cer-tamente bene il latino e il greco, il diritto romano e la filosofia gre-ca, ma era un uomo che veniva dopo tre secoli non di ellenismo classico, ma di età ellenistica. Per l'ellenismo classico, l'esistenza filosofica della verità faceva parte del tessuto culturale fondativo della sua civiltà, anche se non mi sogno, ovviamente, di negare l'esistenza di posizioni alla Richard Rorty, che identificavano l'in-tera realtà con il linguaggio (v. Gorgia ecc.). Per i Greci antichi:Th

logos era, ad un tempo, linguaggio e

ragione e il corretto linguag-, gio esprimeva la corretta ragione delle cose. 50

Ho aperto questa parentesi sull'uso improprio che il relativista Kelsen fa a proposito della scelta democratica fra Gesù e Barabba, per rilevarne il carattere radicalmente fuorviante; però mi è anche servita per poter finalmente esplicitare il mio personale punto di vista sulla natura del fascino profondo, che il pensiero politico dei Greci ancora ha per noi. Questo fascino — lo ripeto — non risiede primariamente nell'immagine di un'assemblea brulicante di citta-dini infervorati, sempre disposti a farsi abbindolare da demago-ghi, g-uerrafondai e furbacchioni, che spesso prendevano decisioni democratiche a maggioranza assolutamente criminali, come lo sterminio degli abitanti di Melo, che si erano rifiutati di aderire all'alleanza ateniese contro Sparta. Questo fascino, per me, risie- de nel fatto che i Greci credevano nell'esistenza del bene politico, erano "sostanzialisti" e non solo "foi-

nialisti", e ciò può essere facil-mente dimostrato esaminando il loro modo di classificare i regimi politici. Come è noto, per loro fortuna i Greci non erano ancora impri-aionati dalla dicotomia classificatoria Destra/Sinistra e si orienz7

tavano invece sulla base di due parametri combinati, la qualità di chi governava e il modo in cui governava. La combinazione del binomio quantità-qualità non è, a mio avviso, qualcosa di storico e obsoleto, e dunque oggi tramontato ed inapplicabile, ma qualcosa di assolutamente attuale, certo più attuale di Hobbes e di Locke. Riguardo a chi governava, le possibilità erano tre: uno solo (monarchia), pochi (aristocrazia), molti (politeía, nel senso di democrazia costituzionalmente garantita da buone leggi e pra-ticata da cittadini forniti di educazione e di virtù politica). Per quanto riguarda il come, si poteva governare bene in tutti e tre i modi e si poteva, invece, governare male nelle tre distinte degenerazioni di questi modi (la tirannide come degenerazione della monarchia, l'oligarchia come degenerazione dell'aristocra-í zia, la democrazia corrotta dalla demagogia come degenerazioti,' ne

della politeia).

Trascuro qui le modificazioni di questa teoria da Aristotele a Polibio, ricordando soltanto che l'insistenza sul numero tre è forse dovuta all'influsso di Pitagora e della scuola pitagorica, a meno che si voglia addirittura risalire al trifunzionalismo indoeuropeo stu-diato da Dumézil; interessa, invece, sottolineare che questa teo-ria presuppone l'esistenza di qualcosa chiamato "bene politico", e che il problema della democrazia come metodo di governo è subordinato al problema del corretto esercizio del bene politico stes-so. Come vedremo più avanti, non è giusto dire, ad esempio, che Socrate è stato un "nemico della democrazia", anche se questa frase viene spesso ripetuta ed io stesso, per superficialità e fretta, me la sono talvolta lasciata scappare. Socrate poneva il problema del corretto esercizio del bene politico, e lo poneva come patriota Il popolo al potere

ateniese, non come traditore e collaborazionista con gli Spartani. Questa concezione contenutistica del bene politico non significa, ovvia-

mente, che chi la difende sappia già perfettamente in cosa consiste il bene politico stesso e lo voglia imporre con le buone o con le cattive. So bene che l'odierna dittatura del relativismo ha imposto un ridicolo stereotipo diffamatorio, per cui chi difende la tesi filosofica dell'esistenza del bene politico e della sua compatibilità con la democrazia non limitata a metodo nichilistico, ma intesa come educazione libera al bene, è visto come un potenziale sostenitore del totalitarismo: come, credi che esista una verità? Ma allora sei come Stalin! Ma allora sei come Hitler! Ma allora sei come Poi Pot! Ma allora, nella migliore delle ipotesi, sei come Ratzinger! Come è noto, questo è l'odierno dogma principale della dittatura della religione del "politicamente corretto", la dittatura del relativismo metodologico, visto come indispensabile presupposto del liberalismo e della democrazia. Ebbene sì, lo ammetto e non lo nascondo: io sono un consapevole avversario della dittatura del relativismo e non credo affatto che questa mia avversione mi porti a Poi Pot (la verità è il comunismo egualitario contadino imposto con i fucili) oppure a Bin Laden (la verità è il califfato universale voluto da Allah). Per questa ragione, mi faccio beffe di chi mi vorrebbe incatenare fino alla morte alla sua personale elaborazione del lutto del suo precedente mostruoso comunismo operaistico, seguita dalla sua riscoperta di Hobbes, Locke, Rawls, Bobbio o Habermas, e proclamo apertamente il mio ritorno alla concezione contenutistica dei Greci.

Tre significati possibili del termine "democrazia" ricavati dal patrimonio classico dei Greci antichi Dal momento che sono già molto numerosi gli studi filologici rivolti a chiarire le origini del termine democrazia - il termine damos, Democrazia e Storia

inteso come parte del popolo, è già presente nelle tavolette micenee sEírfte—in lineare B in epoca_preomerica - non seguirò questa via, - ma proporrò quelli che ritengo i tre significati principali, che la tradizione classica ha consegnato alla cultura occidentale posteriore: la democrazia come elemento specifico della tradizione occidentale contrapposta al dispotismo orientale, la democra-

zia come/ spazio del conflitto sociale addomesticato e reso gestibile senza guerra civile e, infine, la democrazia non come specifica forma dZ governo o di Stato, ma come prevalenza del demos, identificato\ con la parte più povera e più numerosa della comunità politica. I tre significati, ovviamente, si intrecciano e non si trovano mai isolati, ma è possibile distinguerli nettamente per chiarezza. Nel primo significato, il termine "democrazia" connota una comunità di uomini liberi ed eguali, contrapposta ad un dispotism-o, in cui solo la parola del Re è legge: Dal punto di vista storico, questo significato che contrappone l'Occidente, terra della democrazia e della libertà, all'Oriente, terra del dispotismo, è chiaramente sorto come ideologia identitaria greca al tempo delle guerre persiane e lo si trova già presente nelle Storie di Erodoto. Da allora, questa ideologia occidentalistica identitaria ha avuto una lunga storia, che, se inizia con Maratona e Salamina, e quindi con Milziade e Temistocle, è ben presente oggi nella saturazione mediatica inneggiante a Bush e a Blair nella loro lotta contro Bin Laden e Saddam Hussein, anche se, ovviamente, è possibile arricchirla oggi con le polemiche contro il fascismo-comunismo e contro il fondamentalismo religioso ostile alla modernità occidentale, sempre identificata con il relativismo etico e filosofico (solo, però, per gli intellettuali del coro, perché per le masse arruolabili si propone, invece, un fondamentalismo cristiano di tipo veterotestamentario). La democrazia diventa dunque una risorsa simbolica dell'ideologia occidentalistica identitaria, in una grande narrazione continua, che va da Erodoto alle truppe imperiali mandate a bombardare i cosiddetti stati-canaglia, quelli appunto che non applicano la "de52 53 Il popolo

al potere

mocrazia" intesa come il primo dei diritti umani imprescrittibili. Che cosa pensare, di questo arruolamento simbolico dei Greci o, più esattamente, degli Ateniesi del tempo di Pericle e di Socrate? Tutto il male possibile, evidentemente; non solo per l'evidente stra-volgimento ideologico che sta sotto questa operazione di arruola-mento occidentale retroattivo, ma per alcune solide ragioni stori-che, che cercherò di ricordare

subito. Da un lato, l'ideologia della guerra dell'Occidente contro l'Oriente non ha mai contraddistinto la cultura politica della pofis di Atene, ma semmai il profilo bellico di Alessandro il Macedone, che represse militarmente in modo sanguinoso sia la Persia di Dario III sia l'Atene di Demostene, per cui Alessandro può essere legittimamente considerato il seppellitore dell'ellenismo classico, pur essendo ovviamente anche l'iniziatore di quello spirito ellenistico - ellenistico, non ellenico - tipico dei grandi imperi orientali dei diadochi successivi, il cui potere è oligarchico e/o tirannico, ma certo non democratico. Dall'altro,. e questo secondo aspetto è più importante ancora del primo, non bi-sog,ria dimenticare che le attuali legittimazioni occidentalistiche di tipo imperiale non sono per nulla di tipo "greco", cioè razionalistico e filosofico, ma di tipo ebraico-mesopotamico: basti pensare al gran-de agitare della Bibbia, preferibilmente veterotestamentaria, da parte di Bush e del suo concerto propagandistico neo-conservatore. Que-sto Occidente di Giuditta e di Davide, però, non è l'Occidente di Socrate e di Platone, che ai loro tempi ragionavano sulla base del logos e non della realizzazione del mandato divino. In conclusione, l'ideologia occidentalistica della democrazia come proprietà priva-ta da generalizzare in un mondo caratterizzato da una sorta di "dispotismo orientale" (da Hegel a Wittfogel), è un idolo pagano da lasciare ai bevitori di sangue umano. Nel secondo significato, il termine "democrazia" indica non solo un metodo, ma soprattutto una forma razionale del bene politico, che viene individuato in unagestionedella_riproduziene della co-munità,.~/onia), che non, :ne permetta l'esplosione e_la dissolu-zione__ a,. causa .delle cl i scoild i e civili (sta‐ seis,ianykis), Questo e, Democrazia e storia 54 55

realtà, il vero ed autentico significato storico ed è bene, pertanto, chiarirne meglio la natura e le caratteristiche. Se solo lo si capisce, cadono tutte le inutili teorie formalistiche e relativistiche sulla modellizazione politologica interminabile delle forme istituzionali del "potere del popolo", e viene invece in primo piano la visibilità dell'accesso del popolo al potere. E il popolo accede al potere in un solo modo e per una sola ragione: quando la dinamica caotica ed illimitata (apeiron) del potere del denaro lasciato a sé stesso porta alla minaccia attuale e presente della dissoluzione della i comunità stessa. Certo, accedendo al potere, il popolo commette i abusi e crimini, che occorre poter correggere anche e soprattutto con la libertà di critica alla Socrate, questo "moscone fasti-

dioso" / del nobile cavallo degli Ateniesi. Se il popolo accede al potere, però, l ciò avviene perché esiste un allarme ineludibile. Non c'è qui lo spazio per descrivere nei dettagli i due principali momenti storici della costituzione della democrazia ateniese, cioè prima la riforma di Solone e poi quella di Clistene. lettore è invitato ad andare a leggere un buon libro di storia greca. Appare però chiaro che Solone deve intervenire contro lo scatenamento del potere delle ricchezze, che porta alla schiavitù per debiti una parte rilevante di cittadini, e che il suo intervento non è sufficiente, in quanto lascia in piedi una costituzione oligarchica e non interamente democratica. Saranno poi le riforme di Clistene, poco prima dello scoppio della prima guerra persiana (quella conclusasi a Maratona), a portare veramente il popolo ateniese al potere, e questo avviene attraverso l'applicazione del principio - probabilmente pitagorico - della "mescolanza" (anamixis), in cui vengono sciolte le vecchie tribù religiose identitarie, vengono pubblicizzati i precedenti culti privati - dietro ai capolavori artistici dell'Acropoli vi è proprio questa pubblicizzazione della religione olimpica - e soprattutto vengono mescolati in strutture politiche artificiali (i demi) i citta-dini della costa (paraliaci), i cittadini della pianura e del nucleo urbano (pedíaci) e i cittadini delle zone povere della montagna e dell'interno dell'Attica (acriti). Non si insisterà mai abbastanza Il popolo al potere Democrazia e storia

sulla crucialità del principio pitagorico della anamixis, in quanto è proprio la "mescolanza" artificialmente costruita dalla ragione (logos), dall'eguaglianza di tutti i "mescolati" di fronte alla legge (isonomía) e del loro comune accesso alla parola nelle assemblee pubbliche, in cui si realizza la comune decisione politica (isegoría), a rendere possibile il salvataggio della concordia civile (omonoía). Giustamente, gli odierni abitanti di Atene hanno battezzato le due principali piazze della loro città "Costituzione" (Syntagrna) e "Concordia" (Omonola). Da entrambe le piazze, alzando lo sguardo, è possibile vedere l'Acropoli. Questa democrazia antica è certamente inter-classista, per dirla in linguaggio moderno, ma resta una democrazia, in cui, essendo l'economia ancora incorporata (embedded) nella decisione politica, il potere della decisione era ancora reale, non illusorio. A rigore, infatti, il "potere del popolo" 2

puramente inteso si direbbe in greco laokratí a, mentre la demokratía propriamente detta dovrebbe essere tradotta come "il potere del popolo politicamente organizzato dalle leggi", oppure, come preferirei personalmente, l'accesso del popolo ad un potere politicamente garantito da leggi comunitarie. Il politíkòn zoon, di cui parla Aristotele, è infatti certamente un animale politico, ma, essendo l'antica polís una comunità e non una semplice "società civile", in senso moderno si può tradurre questo termine in tre modi, tutti legittimi: animale politico, animale sociale, animale comu- nitario. Solo con la filosofia politica di Hobbes i tre termini si separano concettualmente, e questo avviene perché si erano separati prima socialmente. --Nel terzo significato, il termine "democrazia" non indica una specifica forma di governo o di Stato, ma lo stato di fatto della prevalenza del den-zos, identificato con la parte più povera e più numerosa della comunità politica. Aristotele, del resto, dice apertamente (cito a memoria) che «la democrazia è il potere dei molti, che sono anche i più poveri». In un suo recente libro sulla democrazia, Luciano Canfora ha sostenuto proprio questa tesi: la democrazia non è una forma, non è un tipo di costituzione, poichè è presente «nelle più diverse forme politico-costituzionali», dove e quando si fa sentire con più efficacia l'azione della parte popolare. Non si può essere più lontani dalla tipologia formalistica alla Norberto Bobbio, o da chi afferma che gli USA sono «la più grande democrazia del mondo»; si dirà che Canfora è un marxista, però anche Benedetto Croce, che non era certo un marxista, ma un liberale quasi puro, sosteneva che la democrazia non è un regime politico, bensì un modo di essere nei rapporti di classe, sbilanciato in direzione della «prevalenza del denzos» , per dirla con Aristotele. 56 57

Questo terzo significato sembra logicamente incompatibile con il secondo, che allude ad una tecnica di neutralizzazione parziale del conflitto di classe attraverso la mescolanza artificiale (anamaís) di poveri, ricchi e classe media, mentre il terzo significato allude piuttosto a quella che il pensiero comunista rtovecentesco — Lenin, in primo luogo — connotava come «dittatura democratica del proletariato». A mio avviso, senza negare del tutto la differenza dei due significati — il secondo dà luogo ad una mescolanza, il terzo a una prevalenza — ritengo che essi siano molto più complementari di quanto sembri a prima vista. La mescolanza promossa dalla riforma di Clistene comporta di

fatto una specifica prevalenza numerica del demos, che in una democrazia in qualche modo "diretta", pur appoggiandosi ad élítes di comando (v. il gruppo di Pericle ecc.), riesce ad affermare i suoi interessi. La fine della democrazia ateniese si verificherà quando, in seguito alla conquista macedone, i "teti" (i cittadini a pieno diritto, ma economicamente poveri) saranno esclusi dalla stessa costituzione politica, che da democratica diventa oligarchica.

Sul fatto che le conquiste romane, prima repubblicane e poi imperiali, favorissero sempre sistematicamente la parte oligarchica contro quella democratica non mi soffermo, perché si tratta di cose dettagliatamente spiegate in qualsiasi buon manuale di storia antica.

Democrazia e storia

Il principio democratico e il processo a Socrate Il principio democratico di maggioranza, la tecnica di mescolanza fra i cittadini e la stessa prevalenza del demos non garantiscono di per sé il bene politico. Si tratta di una ovvietà assoluta, ma, come spesso \.„ avviene nel dibattito teorico, l'ovvietà deve essere il punto di partenza per un pensiero radicale, che prenda cioè le cose alla radice. E la radice sta nel fatto che il principio di maggioranza puro è razionalmente infondato, in quanto la maggioranza decisionale è una pura forma, non un contenuto - il bene politico non può essere pura forma, se non presso i formalisti ipocriti e ogni principio di maggioranza deve essere "coperto" da una cintura protettiva, non importa se esplicita o implicita - quelle implicite sono le più ipocrite, perché negano spesso di essere tali - e questa cintura protettiva non può essere giuridica o giudiziaria, ma deve essere religiosa e/o filosofica. Allora, dirà il virtuoso lettore laico, liberale, relativista e nemico delle filosofie veritative identificate con ideologie di legittimazione del potere, Lei non vuole una democrazia pura, ma una democrazia protetta! Proprio così, caro lettore: io voglio proprio una democrazia protetta, si tratta però di capire quale tipo di "protezione" si concepisce e, prima di scandalizzarsi per questa razionalissima affermazione, è bene cercare di pensare radicalmente le cose. Se è vero che il principio di maggioranza puro è una semplice procedura formale, che non garantisce il bene politico - è infatti possibile immaginare un despota illuminato che abolisca la pena di morte e la tortura,

mentre una maggioranza di plebei imbestialiti può approvare lo squartamento pubblico del reo - mi sembra che le possibilità siano due, e solo due: o si sceglie la via del potere assegnato ad una minoranza convinta di sapere che cosa sia il bene politico (i filosofi-re di Platone, il partito giacobino della virtù politica di Robespierre, il partito bolscevico del comunismo scientifico di Lenin ecc.), oppure si innesca un processo educativo, in grado di portare in tempi ragionevoli la maggioranza dei cittadini a praticare il bene politico. Come si vede, l'affermazione dell'esistenza del bene politico non comporta necessariamente il sequestro del potere da parte di minoranze illuminate - o che si autoproclamano tali, in nome di una conoscenza privilegiata, delle idee eterne in Platone, della virtù politica naturale in Robespierre, della direzione necessaria della storia in Lenin ecc. - ma è compatibile con una concezione processuale dell'educazione della maggioranza del popolo. 59

Il principio liberale della garanzia della più piena libertà di opinione è in tal senso necessario per praticare questo principio educativo. La libertà è anche libertà di sbagliare o, come scrisse Rosa Luxemburg, la libertà è sempre libertà di chi la pensa diversamente, il che non esclude che spesso chi la pensa diversamente pensa anche infondate e disinformate sciocchezze. Il fatto è che la sciocchezza resta tale anche se è espressa liberamente, però deve essere depenalizzata. La tutela della libera espressione di sciocchezze non può essere raggiunta allraverso vie ontologiche e filosofiche di tipo relativistico - per cui sarebbe impossibile, in via di principio, distinguere fra sciocchezze e verità, in quanto non c'è nulla al di fuori del linguaggio e dei suoi usi, mettendo così il penoso dilettante Wittgenstein al di sopra di Platone - ma esclusivamente attraverso il sistema delle nonne giuridiche di garanzia. Si tratta di un problema giuridico, non filosofico. Tutto questo, ovviamente, è possibile soltanto in una democrazia "moderna", in cui il principio anomico della società civile astratta ha sostituito il principio comunitario dell'antica Atene. Questo principio consiste nel "poter dire qualunque cosa" e non è attualmente assolutamente garantito, perché non è, per ora, legalmente permesso dire pubblicamente che Hitler aveva ragione e che Bin Laden oggi ha ragione. Personalmente, credo fermamente che Hitler avesse torto e che anche Bui Laden ce l'abbia - in ogni caso, meno di Bush - ma credo anche che la punizione giudiziaria di chi lo afferma sia incompatibile

con una affermazione radicale della libertà liberale moderna. Il politicamente corretto ha sostituito oggi la Santa Inquisizione di ieri, e questo è indubbiamente

Il popolo al potere

un progresso - l'essere licenziati per opinioni negazionistiche sui campi di concentramento hitleriani è indubbiamente più "civile" dell'essere scottati con tenaglie roventi - ma, come si vede, neppure lo Stato liberaldemocratico contemporaneo è in grado di permetter-si uno scambio di opinioni a 360 gradi, e questo perché tutte le società - ripeto, tutte - hanno un implicito fondamento religioso: si tratta di sapere quale esso sia. Nell'Europa attuale, l'unico fondamento religioso ecumenico è la religione dell'Olocausto e del giudeocentrismo metafisico di espiazione, quindi è sottratto, sul piano giuridico e giudiziario, alla sfera della libertà d'opinione. Va da sé - ma, con questi chiari di luna, è sempre meglio dirlo - che, per quanto mi riguarda, lo sterminio genocida di Hitler è veramente esi-stito e non può in alcun modo essere "contestuali7zato", giustificato, scusato, relativizzato, comparato ecc. Semplicemente, ritengo che do-vrebbe essere consentito legalmente anche dire il contrario. Diritto di libertà significa anche diritto alla sciocchezza. Io sarei contrario, ad esempio, a punire penalmente la sciocchezza di chi sostiene che l'im-pero americano è benefico per tutti i popoli del mondo, ma qui si pone un problema di tipo squisitamente storico; non esistono liberaldemocrazie pure, in quanto non esistono società politiche sen-za fondamento religioso presupposto sottratto alla punibilità giudiziaria: in Iran, è penalmente proibito dire che Allah non esiste e che, quindi, Maometto non era il suo profeta; in Europa è legalmente possibile farsi beffe di Dio, di Allah e di Maometto, ma è legalmente proibito dire che l'Olocausto non c'è stato.

Se insisto tanto su questo fatto, apparentemente marginale - ma il lettore si sarà già accorto che marginale non lo è per nulla - è per sottolineare un concetto assolutamente incomprensibile per il pen-siero cosiddetto "laico", e_cioèe-he...,nenesi_tono, e non-possono esistere, società senza un implicito fondamento religioso. Si tratla solo di esaminare quanto e come questo fon amen órefigioso sia stato secolarizzato. Per capire meglio, visto che le società antiche

non erano liberaldemocratiche, perciò erano anche più sincere e meno ipocrite, converrà ritornare brevemente sul processo a Gesù 60 6 1 Democrazia e storia

di Nazareth, studiandone le analogie e le differenze con il proces-so, che la democrazia ateniese, restaurata dopo la parentesi di-spotica dei Trenta Tiranni, fece a Socrate. Presupponiamo, ovvia-mente, ciò che non è affatto scontato, cioè che sia i Vangeli sia l'Apolog-ia di Socrate siano testi storici (almeno in parte) e non com-posizioni letterarie di fantasia completamente inventate. Il lettore paziente mi permetterà di ritornare ancora una volta sul rapporto fra il processo a Gesù di Nazareth e il principio de-mocratico di maggioranza della plebaglia, che urlava «Liberate Barabba!», perché l'intollerabile impostazione destoricizzante di Hans Kelsen ne impedisce la comprensione e, del resto, le varie Chiese cristiane - cattolici, protestanti, ortodossi, settari di ogni genere ecc. - divergono su tutto, ma c'è un punto su cui concor-dano trionfalmente: il silenzio imbarazzato sul cosiddetto "Gesù storico". Se utilizziamo i Vang-elí come documenti (almeno parzialmente) storici e li integriamo con la conoscenza storica del significato semantico dei termini nel contesto politico della Palestina e del giudaismo messianico del tempo, in cui il messianesimo si maniie-stava in ahneno tre forme diverse (farisei, esseni e zeloti), alcune cose si possono sapere in modo relativamente certo: Gesù non pote-va essere condannato a morte per "autoproclamazione messianica" (in quanto ad essere "figlio di Dio", mi spiace, ma ritengo che nep-pure lui pensasse di essere tale), per il semplice fatto che l'autoproclamazione messianica, praticata senza commettere vio-lenze fisiche, non era un reato penale per l'autorità romana, per la quale era invece reato penale il "terrorismo" (INRI). Pilato, che aveva avuto l'ordine tassativo di non infastidire il Sinedrio ebraico collaborazionista, accettò, dietro la pressione decisiva di quest'ul-timo, di trasformare l'accusa di "autoproclamazione messianica", che non era un reato penale per la legge romana, in "terrorismo", che era invece un reato penale punibile con la crocefissione. La condanna di Pilato non è dunque dovuta a un suo "scetticismo" (che cos'è la verità ecc.), ma al fatto che, per nort avere ulteriori Il popolo al potere

Democrazia e storia

problemi - che comunque vennero, vedi la rivolta ebraica degli anni '67-'70 finse demagogicamente di ascoltare i "compagnucci" di Barabba confluiti sulla piazza. In ogni caso, per potersi proclamare o credere di essere un messia, l'inviato da Dio in grado di proclamare veramente la purificazione del tempio e l'anno di misericordia del Signore, bisogna prima essere inserito in una società messianico-religiosa, cioè in una "Società del Libro", in cui si srotolano nelle sinagoghe i papiri arrotolati del profeta Isaia e si legge con aria ispirata una citazione sacra. I Greci, caro lettore, non erano una "Società del Libro", quindi non avevano un clero sacerdotale, che pretendesse di avere il monopolio della corretta interpretazione della citazione sacra. Per ragioni storiche, che non ho qui il tempo di chiarire, i Greci non avevano libri sacri di riferimento teologico da interpretare, ma disponevano solo di un ricchissimo patrimonio mitologico da "decostruire" razionalmente (uso qui, volutamente, un termine filosofico contemporaneo). Questo non significa, ovviamente, che essi fossero "laici" - o in qualche modo "precursori" del pensiero laico, scettico e relativista di David Hume o di Hans Kelsen, e quindi non "religiosi" - i Greci erano invece religiosissimi, ma la religione se la gestivano da soli in modo direttamente comunitario, non attraverso la mediazione di un clero professionale organizzato. Per dirla in modo (solo apparentemente) ovvio e banale, i Greci non erano ebrei e non erano neppure ancora cristiani o musulmani, anche se i loro discendenti lo diventarono. I Greci non erano neppure "liberali", e lo capiremo meglio riflettendo sul "democratico" processo a Socrate, che può anche essere inteso, ovviamente, come un processo in cui il giudice è la religione e l'imputato è la filosofia, ma che in realtà è un processo che la comunità istruisce contro l'individuo; individuo, che non cessa comunque mai di sentirsi parte della comunità stessa. 62 63

Non affermo, ovviamente, nulla di nuovo - cose simili le hanno già dette in molti, fra cui il grande Hegel - ma è sempre importante tornarci sopra, riflettendo in particolare sul vero e proprio abba glio in cui cade lo studioso americano I.F. Stone, il cui fraintendimento ci porterà nel cuore della questione. Il filosofo Socrate fu condannato a morte nel 399 a.C. da una nurnerosissima giuria popolare di cittadini aterúesi (nella democrazia ateniese non esisteva

una corporazione professionale di magistrati vincitori di concorsi pubblici, come oggi). Socrate si difese da solo, ma alla fine fu condannato e dovette bere un veleno (la cicuta). Nella sua difesa - mi rifaccio qui all'Apoloco,ía di So‐ crate scritta da Platone, testo considerato in genere storicamente attendibile Socrate alluse ad una "vecchia accusa" (il non credere agli Dei della poils, come si desume dalla commedia Le Nuvole di Aristofane) e a una "nuova accusa" (la corruzione dei giovani). La condanna finale a morte fu decisa, sostanzialmente, in base alla seconda accusa; fu quindi una condanna politica, perché la corruzione dei giovani, in quel particolare contesto storico, era identificata con la propaganda antidemocratica. Socrate respinse entrambe le accuse, si proclamò innocente per la prima e, in quanto alla seconda, finì con il provocare i giurati, sostenendo che, anziché essere condannato, avrebbe dovuto essere mantenuto a vita dallo Stato come pensionato per meriti eccezionali. Alla fine, fu condannato, imprigionato e dopo qualche tempo bevve il veleno. Oltre alla Apologia di Socrate, abbiamo anche un dialogo platonico, in cui Socrate rifiuta di fuggire pur potendolo fare (il Crítone), e un altro consacrato alle ultime ore di Socrate e alla "morte esemplare del filosofo" (il Fedone). In questa sede, non ci interessa l'annoso problema del rapporto fra l'autentico Socrate e l'interpretazione posteriore che ne dà Platone, ma la questione del rapporto fra democrazia e decisione ingiusta, in quanto è evidente che Socrate fu condannato a morte in modo perfettamente legale e in base al principio di maggioranza di una giuria popolare, che possiamo considerare abbastanza "rappresentativa" dell'Atene dell'epoca e, nello stesso tempo, la sua quarantennale attività critica, maieutica e dialogica rivolta alla discussione del bene politico non ci appare un "reato" e, tanto meno, un reato penale meriteIl popolo al potere Democrazia e storta

vole della morte. Nella sensibilità liberale moderna, si poteva trat-tare al massimo di un leggero "reato d'opinione", che è peraltro una vera contraddizione in termini, perché nel costituzionalismo liberale ideale nessuna opinione dovrebbe essere un "reato". Il prin-cipio della libertà liberale potrebbe, infatti, essere enunciato in que-sto duplice modo: ogni proprietà privata è legittima, se acquisita secondo le regole; og,ni sciocchezza può essere detta (con la sola eccezione della diffamazione ad personanz), in quanto la sciocchez-za è giuridicamente legittima e giudiziariamente non punibile. Il nesso

proprietà/sciocchezza è quindi il pilastro filosofico della li-bertà liberale concettualmente ricostruita, dal momento che l'eco-nomia (la proprietà) è un fatto, mentre la filosofia (sciocchezza) è solo un'opinione. In base a questa concezione liberale della libertà, lo studioso ame-ricano I.F. Stone ha riscritto l' Apología di Socrate. In breve, Stone sostiene che Socrate ha sbagliato completamente la strategia difen-siva e che l'ha sbagliata non per stupidità, ma perché probabilmen-te non aveva più voglia di vivere. Secondo Stone, se Socrate, anzi-ché provocare i giurati rivendicando la sostanza del suo insegna-mento - cioè la critica alla democrazia come metodo inadatto per il conseg-uimento di quella particolare arte specialistica denominata "bene politico" - ne avesse rivendicato soltanto laforma - il diritto cioè di esprimere liberamente le proprie opinioni, giuste o sbaglia-te che fossero, in nome della tradizione libertaria della schiettezza ateniese - avrebbe potuto essere assolto, e lo sarebbe probabilmen-te stato. 64 65

L'errore di Stone è interessantissimo, in quanto, a mio avviso, si tratta di un tipico errore proiettivo-retroattivo, in cui il liberale americano contemporaneo è talmente convinto, e impregnato del-la propria concezione di libertà di opinione come sovrano arbi-trio illimitato, di poter dire legalmente qualunque cosa - anche se negli Stati Uniti ci sono moltissime cose, che non si possono legalmente dire, come ad esempio che Bin Laden ha ragione - da essere convinto, in buona fede, che il vecchio Socrate fosse un pensatore "eterno", che solo casualmente parlava greco anziché inglese. La democrazia antica non era una democrazia liberale, ma co-munitaria. A Socrate non sarebbe mai venuto in mente, non es-sendo ancora stati tradotti in greco Spinoza e Locke, che la liberi:à potesse essere difesa sostenendo che ognuno può dire quello che vuole, purché non violi fattualmente le leggi con atti criminali. La separazione fra proprietà (da garantire in tutti i modi) e scioc-chezza (da tollerare, se non si concretizza in atti veri e propri) presuppone che il mondo dell'economia sia, ad un tempo, libera-lizzato e sovrano e che l'economia, appunto, non sia più incolpo-rata (embedded) nella sfera della decisione politica. Ritornerò su que-sto negli ultimi paragrafi di questo primo capitolo, in cui seguirò la triste parabola dell'ascesa e della caduta del comunismo storico novecentesco; per ora, basterà tornare ancora un poco sul caso

_Socrate. Ai tempi di Socrate, la rivendicazione del proprio diritto alla li-bertà non era pensabile nei termini di un diritto astratto, formal-mente garantito, di poter dire qualunque cosa, ma nei termini di "discorso giusto" rispetto a "discorso ingiusto". In altre parole, la libertà democratica era pensata insieme alla nozione e alla pratica di bene polllíco. Si dirà che tutto ciò non va bene, perché in questo modo non può essere fondata la tolleranza. Sono perfettamente d'accordo. A mio avviso, la libertà deve comprendere anche la libertà, giuridicamente garantita e giudiziariamente non punibile, di poter dire terribili sciocchezze, ma questo - si noti bene - non certo perché non è possibile relativisticamente distinguere fra ve-rità e menzogna, saggezza e sciocchezza ecc., ma per un semplice fatto di possibilismo e di convenzionalismo giuridico e giudiziario. Il Socrate di Stone è ovviamente un Socrate inesistente ed imíT&Z-sibile, ma, proprio attraverso l'errore di Stone, è possibile com-prendere la differenza fra democrazia degli antichi e democrazia dei moderni. Questa differenza non risiede affatto, come opirtava erroneamente Benjamin Constant, nel libero godimento della pro-

pria proprietà individuale contrapposto al principio della parteci: pazione pubblica assembleare. La democrazia di cui parla Constant non è, ovviamente, una democrazia — del resto, Constant parla di «libertà dei moderni», perché ha ancora il pudore di non chiamarla democrazia, pudore scomparso nei suoi seguaci attuali ma un semplice liberalismo non democratico. E questo ci introduce ad un diverso periodo storico.

Una parentesi sul rapporto storico fra religione cristiana e principio democratico Nel chiacchericcio semicolto che ha sostituito oggi il dibattito culturale, chiacchericcio in genere egemonizzato dai cosiddetti laici, nome con cui oggi vengono quasi sempre indicati semplicemente i sostenitori incondizio-

nati della globalizzazione neoliberale, che però mangiano con la forchetta anziché direttamente con le mani, comportamento in genere attribuito ai "populisti", il rapporto fra religione cristiana (e, in genere, monoteistica) e il principio democratico viene di solito risolto con uno stereotipo negativo. In breve, si sostiene che democrazia e religione sono incompatibili, perché il presupposto del metodo democratico è il relativismo valoriale, condizione per accettare il metodo della decisione a maggioranza, mentre la religione cristiana, ritenendo di interpretare la rivelazione divina — o, se si vuole, il diritto naturale cristiano inteso come elaborazione filosofica terrena di questa stessa rivelazione ultraterrena — non può certo "mettere ai voti" valori morali e religiosi non trattabili come la vita (e quindi aborto, eutanasia ecc.). La religione sarebbe perciò incompatibile con la democrazia, perché imporrebbe una "cintura protettiva" di valori sottratti_alla conta dei voti. Metafisica e democrazia sarebbero, di conseguenza, incompatibili. Ho già ricordato nelle pagine precedenti Hans Kelsen e Richard Rorty, ma i nomi potrebbero essere molto più numerosi e appesantirebbero, inutilmente, questo saggio.

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Chiediamocelo: è veramente così? Per rispondere a questa domanda cruciale, bisogna ricordare il significato del termine democrazia come "prevalenza del demos", e il demos non è poi molto lontano da quello che la religione cristiana chiama "i poveri". Certo, i poveri del Cristianesimo (e dell'Islam) sono un demos sui generis, un demos senza diritti politici, e un demos senza diritti politici e affidato alla benevolenza dei benefattori non è più un demos, ma solo un aggregato sociale pre-politico o post-politico. Non ho certo difficoltà ad ammetterlo. So anzi molto bene che, in questo periodo di smantellamento neoliberale dello stato sociale europeo novecentesco, va molto di moda la beneficienza e la retorica compassionevole per i piccoli africani senza cibo sufficiente. I piccoli africani affamati sono, in realtà, un vero scandalo sociale e morale intollerabile, ma i politicanti neoliberali ipocriti che se ne riempiono la bocca hanno in testa ben altro. In ogni caso, se interpretiamo la democrazia non solo ma anche come prevalenza degli interessi del demos, costituito in Maggioranza dai più poveri, anche il problema storico del rapporto fra cristianesimo e democrazia cambia e si può fondare su principi più convincenti. È impossibile qui ripercorrere, pur se sommariamente, duemila anni di reli-

gione cristiana e sarebbe ridicolo anche il solo tentarlo. Alcune cose elementari possono, però, essere telegraficamente ricordate: le prime comunità cristiane erano, in massima parte, comunità "democratiche", riunivano insieme quasi sempre i più poveri e si autoamministravario in modo generalmente hutetno e solidale; con Costantino e Teodosio — legalizzatore del Cristianesimo, il primo; impositore autoritario di esso come obbligatorio, il secondo — il cristianesimo è certamente incorporato nella struttura di legittimazione classista tardoschiavista e proto-feudale della società, ma continua ad animare strutture assistenziali per il demos povero (anzi, è per questo che, a mio avviso, gli si dà tanto spazio, come per altro avviene anche oggi); con il consolidamento istituzionale del feudalesimo (v. Carlo Magno), il Cristianesimo diventa la base simbolica di una società tripartita gerarchica e non certa-

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mente democratica (bellatores, oratores e laboratores), ma è sempre sul suo terreno che si sviluppano correnti pauperistiche a base de-mocratica, dalle eresie al francescanesimo. Si potrebbe, ovviamen-te, continuare a lungo, ma il succo è questo: il cristianesimo non si basa certo su di una forma democratica, anzi adotta la forma monarchica - e spesso inevitabilmente tirannica - del papato, forma la cui sostanziale insostenibilità teorica e sociale è tale da provocare necessariamente scismi a raffica (ortodossi, protestanti, sette ecc.), ma nello stesso tempo vi sono momenti storici, in cui, di fatto, sostie-ne la prevalenza del demos, anche se sempre in una forma non de-mocratica (nessun principio di maggioranza, semmai patemalismo sociale). A proposito del principio democratico della votazione a mag-gioranza, c'è comunque un fatto grottesco e rivelatore da segnala-re. Nel Concilio di Nicea del 325 d.C. furono poste le basi teologi-che della posteriore religione cristiana organizzata contando le teste dei vescovi presenti, e le teste di chi considerava Gesù un vero e proprio Dio in terra furono casualmente - il lettore ha letto bene: casualmente - più numerose di chi lo riteneva un semplice "uomo", tipo Maometto. Mi scuso con l'eventuale lettore teologo, per avere brutalmente semplificato, ma il succo della questione resta chiaro: l'istituzione divina che rifiuta la conta casuale dei voti è sorta sulla base di un conteggio dei voti ca-

suale e, per di più, cinicamente manipolato da Costantino, su motivazioni di pura opportunità (un Costantino, sia detto del tutto en passant, che non si era neppure ancora convertito alla religione cristia-na). Personalmente, dal momento che sono anch'io un teologo dilettante di scuola spinoziana, ritengo che un Gesù di Nazareth redívivus si sarebbe fortemente stupito per il risultato finale del Concilio di Nicea, ma mi rendo conto che gigantesche schiere di sacerdoti cattolici, protestanti ed ortodossi, che maneggiano l'aramaico, il siriaco e il copto come io posso maneggiare il fran-cese, mi zittirebbero immediatamente, inchiodandomi alla mia ignoranza. Poco male. Ciò che conta è che il lettore sia consapevole del fatto che persino le istituzioni programmaticamente meno democrati-che e che si considerano direttamente "ispirate" da Dio devono poi fare i conti con la casualità contingente del principio democra-tico stesso. È infatti sicuro che, se in un prossimo futuro la Chies,a cattolica farà sposare gli svelti pretini e i seriosi pretoni ed am-metterà anche il sesso femminile nel campo dell'ordine sacro - si tratta di due innovazioni, che mi sentirei sinceramente di consi-gliare all'intelligente teologo tedesco asceso al trono di Pietro, e parla uno che ha simpatia per la religione cristiana - ciò avverrà in base al principio democratico di maggioranza, sia pure limitato all'oligarchia di cardinali e di vescovi, e in totale assenza di refr-rendum presso il confusionario e contraddittorio popolo dei fedeli. È infatti difficile sfuggire al principio di maggioranza e al fattore di contingenza e di casualità storica, che esso porta inevitabilmen-te con sé, anche quando ufficialmente ci si ispira non alla conta dei voti, ma alla verità divina. 68 69

Le origini nvoluzionarie della democrazia moderna: la rivolta dei contadini tedeschi del 1525, la rivoluzione inglese del 1640, la rivoluzione francese del 1789 La democrazia moderna non ha avuto origini, per così dire, fisiologiche ed evolutive, ma rivoluzionarie. Mi rendo perfetta-mente conto che oggi lo stesso concetto di rivoluzione gode di cattiva stampa ed è fortemente discreditato, ma questo è, a mio parere, soltanto il frutto di un momento storico limitato e contin-gente, nato dall'incontro fra l'euforia degli eterni contro-rivolu-zionari

e il pentimento vergognoso e imbarazzato degli ex-rivo-luzionari in cerca di rilegittimazione culturale e, soprattutto, di onorato e ben pagato riciclaggio sociale e politico. Questa tragicomica sinergia ha comportato la rilegittirnazione di fatto sia del pensiero controrivoluzionario classico, nelle sue due punte mas sime di Burke (la rivoluzione è lo stravolgimento astratto e razionalistico di un corso evolutivo naturale della storia) e di de Maistre (la rivoluzione è un atto intimamente ateo e blasfemo, che viola ad un tempo la legge umana e la legge divina), sia del pensiero controrivoluzionario moderno, da Talmon (il principio democratico inteso come prevalenza numerica del demos è totalitario per sua stessa natura, solo il principio liberale ci può salvare) ai cosiddetti "nuovi filosofi" francesi, che non fanno peraltro che volgarizzare in modo mediatico, per una platea di ex-sessantottini semianalfabeti, temi a suo tempo trattati molto più nobilmente da Hegel e poi da Merleau-Ponty (il perseguimento della virtù politica astratta, prima giacobina in Robespierre e poi bolscevica in Lenin e Stalin, si rovescia dialetticamente e inevitabilmente in terrore politico generalizzato e senza legge). Non sono affatto indignato per questo attuale furoreggiare del pensiero contro-rivoluzionario, dal momento che ritengo giusto che, per citare un proverbio popolare, chi è causa del suo mal pianga se stesso e il comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991) è stato, nell'essenziale, causa del suo male. L'opportunismo conformistico del ceto intellettuale, prima "rivoluzionario" con rauche grida di palingenesi sociale e di distruzione della tradizione seguite poi da striduli appelli al neoliberismo economico e all'adesione all'impero americano bornbardatore, non mi stupisce neppure; come direbbe don Abbondi°, le ho viste io, quelle facce, le ho viste per quarant'anni e so bene che il loro animale totemico è il pesce che si sposta in grandi banchi. Al confronto, le pecore sono animali individualisti, perché ogni tanto qualcuna va per conto suo. 70 71

Come direbbe l'immortale Eduardo de Filippo, «ha da passare la nottata». Il fatto che sia di moda la lettura giacobina del 1789 di Albert Socoul oppure la lettura girondina degli stessi eventi di Frarmis Furet, non è dovuto per nulla ad una maggiore "scientificità" storiografica dell'una rispetto all'altra, o viceversa, ma semplicemente al trend conformistico delle tribù dei professori uni-

ver sitari e dei giornalisti (ovviamente, so che in entrambe queste categorie vi sono rilevanti eccezioni, ma le eccezioni, appunto, confermano la regola). Temo, a causa della mia età già relativamente avanzata, di perdermi il prossimo trend storico, ma mi sento pascalianamente di scommettere che un ventenne di oggi ne sarà spettatore e, forse, anche coautore. In ogni caso, lasciamoci sovranamente alle spalle l'attuale dittatura del politicamente corretto neoliberale e cerchiamo di impostare il problema storico della costituzione della democrazia nei tempi moderni. Per "tempi moderni", intendo esattamente ciò che si intende nei manuali di storia, cioè il periodo storico, che si apre dopo il 1492 e che ha una chiara "accelerazione" dopo il Seicento, con l'emergere della borghesia come classe sociale dominante e con la progressiva costituzione dei rapporti sociali capitalistici di produzione (segnalando, ovviamente, che questi due fenomeni non avvengono in modo istantaneo e "puntiforme", in un certo momento, ma coesistono con il mantenimento di foune culturali ed economiche signorili e comunitarie). In estrema sintesi, se si mettono in successione il 1525 (Germania), il 1640 (Inghilterra) e infine il 1789 (Francia), trascurando qui altri, pur interessantissimi, eventi minori di questo tipo in altri Paesi, si può notare che il principio democratico passa da una legittimazione soltanto biblico-religiosa (Germania 1525) ad una legittimazione mista, in parte biblica e in parte giusnaturalistica e contrattualistica (Inghilterra 1640), fino ad una leg,ittimazione integralmente giusnaturalistica e contrattualistica senza più alcun esplicito residuo religioso (Francia 1789). Questa, almeno, è la lettura storica, che propongo al lettore nel presente saggio e che ho scelto, fra molte altre possibili, per la sua chiarezza e la sua pertinenza. Si ha allora la seguente successione: religione al 100% (Germania 1525), religione e filosofia al 50`)/0 (Inghilterra 1640) e, infine, filosofia al 100% (Francia 1789). Nello stesso tempo, segnalo al lettore che non intendo affermare che la religione sparisce e la filosofia si impone, per cui la "modernità" deve essere interpretata Il popolo al potere Democrazia e storia

come tramonto della religione. Questo è quello che appunto pensano i cosiddetti "laici", che credono di essere senza religione, laddove sono i fedeli quasi sempre acritici di una forma secolarizzata di deismo inglese. In accordo con Cari Schmitt, ritengo che, nell'essenziale, tutte le principali categorie politiche della tradizione occidentale moderna - il discorso chiaramente non vale per il mondo musulmano, l'India, la Cina ecc. - sono prodotti derivati da una secola-

rizzazione di precedenti categorie religiose. Mentre la tradizione cinese, per fare solo questo esempio, è sostanzialmente unitaria da almeno tremila anni, la tradizione occidentale ha avuto la rottura storica dell'instaurazione del cristianesimo; a tale proposito, sia che la si voglia interpretare come regresso e decadenza (Nietzsche), sia che la si voglia interpretare "dialetticamente" come relativo progresso (Hegel), è comunque indiscutibile che la rottura c'è stata. Torniamo al nostro problema della genesi della democrazia moderna. Ricordo qui al lettore che, per me, la democrazia non è primariamente uno stato istituzionale di potere del popolo, ma un movimento di accesso del popolo al potere e che, di conseguenza, in accordo con un ampio spettro di pensatori che vanno da Aristotele a Benedetto Croce, essa non è una forma di governo o di Stato, ma una prevalenza economico-sociale del demos (in un ampio spettro di "mescolanze" istituzionali, che ne sono però solo la tecnica e non l'essenza). Sulla base di queste due cruciali segnalazioni teoriche e metodologiche, che escludono radicalmente i modelli politologici di tipo formale alla Giovanni Sartori e alla Norberto Bobbio, modelli costruiti sulla separazione di principio fra economia e politica, discuterò ora, in estrema sintesi, le rivoluzioni democratiche del 1525, del 1640 e soprattutto del 1789. In quanto alla rivoluzione russa del 1917, me ne occuperò sempre in questo capitolo, ma in un paragrafo successivo. 72 73

La rivoluzione dei contadini tedeschi del 1525 ha avuto una grande importanza storica, e non solo per la storia nazionale della Germania. C'è chi afferma che la sua violenta repressione ha compromesso per tre secoli l'affermazione della democrazia in Ger mania, contribuendo a creare una mentalità d'ordine, gerarchica e servile nel popolo tedesco. Non lo credo. Credo ovviamente alla "lunga durata" alla Braudel, ma non a questa specifica "lunga durata". Se proprio mi si chiede qual è stata la data cruciale per la sconfitta della democrazia moderna in Germania, sarei portato a dire il 1848- 49 e poi l'incapacità del partito liberale tedesco, negli anni Sessanta e Settanta, dell'Ottocento ad opporsi validamente a Bismarck. Non risalirei dunque tanto lontano, al 1525 di Thomas Miinzer. Miinzer, definito da Ernst Bloch - caposcuola indiscusso del marxismo utopico del Novecento - il "teologo della rivoluzione", cadde vittima della repressione delle forze feudali tedesche - che erano forze cattoliche e luterane alleate, e questa "alleanza" vorrà pur dire qualcosa - e lo stesso Martiri Lutero approvò

questa sanguinosissima repressione, ovviamente con acconce citazioni bibliche di tipo paolino sulla sacralità del potere. Citazioni bibliche opposte, anche se ricavate ovviamente dallo stesso Libro sacro di legittimazione e riferimento, erano state ampiamente usate dal teologo Miinzer per incitare i contadini alla lotta armata contro i signori feudali. È evidente che Miinzer non fa parte della storia della democrazia moderna come teoria del suffragio universale e come forma di Stato e di governo, ma ne fa parte, se si intende ovviamente la democrazia come movimento per la prevalenza del demos. Mi_inzer è del tutto estraneo alla cultura umanistica rinascimentale, cultura che aveva finito per fare l'apologia della ricchezza, anche se certamente non della ricchezza volgare dei parvenus. Egli era invece un erede del pauperismo medioevale, ma non di quello quietistico alla Francesco d'Assisi, quanto del pauperismo rivoluzionario attivo di Jan Hus e degli hussiti cechi (a loro volta eredi di John Wycliff e dei lollardi inglesi del 1381). Data la natura comunitaria del pauperismo medioevale, ideologia non certo di operai e di piccola borghesia industriale moderna, ma di contadini ed artigiani poveri, la rivendicazione democratica di Miinzer non poteva certo dirigersi in direzione di uno Stato sociale moderno di tipo socialdemocratico o comunista, ma era rivolta necessariamente ad come tramonto della relig,ione. Questo è quello che appunto pensano i cosiddetti "laici", che credono di essere senza religione, laddove sono i fedeli quasi sempre acritici di una forma secolarizzata di deismo inglese. In accordo con Carl Schmitt, ritengo che, nell'essenziale, tut-te le principali categorie politiche della tradizione occidentale moder-na - il discorso chiaramente non vale per il mondo musulmano, l'India, la Cina ecc. - sono prodotti derivati da una secolarizzazione di precedenti categorie religiose. Mentre la tradizione cinese, per fare solo questo esempio, è sostanzialmente unitaria da almeno tre-mila anni, la tradizione occidentale ha avuto la rottura storica dell'instaurazione del cristianesimo; a tale proposito, sia che la si voglia interpretare come regresso e decadenza (Nietzsche), sia che la si voglia interpretare "dialetticamente" come relativo progresso (Hegel), è comunque indiscutibile che la rottura c'è stata. Torrùamo al nostro problema della genesi della democrazia mo-derna. Ricordo qui al lettore che, per me, la democrazia non è primariamente uno stato istituzionale di potere del popolo, ma un movúnento di accesso del popolo al potere e che, di conseguenza, in accordo con un ampio spettro di pensatori che vanno da Aristotele a Benedetto Croce, essa non è una forma di go-

verno o di Stato, ma una prevalenza economico-sociale del demos (in un ampio spettro di "mescolanze" istituzionali, che ne sono però solo la tecnica e non l'essenza). Sulla base di queste due cruciali segnalazioni teoriche e metodologiche, che escludono radicalmente i modelli politologici di tipo formale alla Giovanrú Sartori e alla Norberto Bobbio, modelli costruiti sulla separazione di principio fra economia e politica, discuterò ora, in estrema sintesi, le rivolu-zioni democratiche del 1525, del 1640 e soprattutto del 1789. In quanto alla rivoluzione russa del 1917, me ne occuperò sempre in questo capitolo, ma in un paragrafo successivo. 72 73

La rivoluzione dei contadini tedeschi del 1525 ha avuto una gran-de importanza storica, e non solo per la storia nazionale della Germania. C'è chi afferma che la sua violenta repressione ha com-promesso per tre secoli l'affermazione della democrazia in Ger- mania, contribuendo a creare una mentalità d'ordine, gerarchica e servile nel popolo tedesco. Non lo credo. Credo ovviamente alla "lun-ga durata" alla Braudel, ma non a questa specifica "lunga durata". Se proprio mi si chiede qual è stata la data cruciale per la sconfitta della democrazia moderna in Germania, sarei portato a dire il 1848- 49 e poi l'incapacità del partito liberale tedesco, negli anni Sessanta e Settanta, dell'Ottocento ad opporsi validamente a Bismarck. Non risalirei dunque tanto lontano, al 1525 di Thomas Múnzer. Miinzer, definito da Ernst Bloch - caposcuola indiscusso del marxisrno utopico del Novecento - il "teologo della rivoluzione", cadde vittima della repressione delle forze feudali tedesche - che erano forze cattoliche e luterane alleate, e questa "alleanza" vorrà pur dire qualcosa - e lo stesso Martin Lutero approvò questa sanguinosissima repressione, ovviamente con acconce citazioni bibliche di tipo paolino sulla sacralità del potere. Citazioni bibliche opposte, anche se rica-vate ovviamente dallo stesso Libro sacro di legittimazione e riferi-mento, erano state ampiarnente usate dal teologo Miinzer per inci-tare i contadini alla lotta armata contro i sig-,nori feudali. È evidente che Miinzer non fa parte della storia della democra-zia moderna come teoria del suffragio universale e come forma di Stato e di governo, ma ne fa parte, se si intende ovviamente la democrazia come movimento per la prevalenza del demos. Mtinzer è del tutto estraneo alla cultura umanistica ri-

nascimentale, cultu-ra che aveva finito per fare l'apologia della ricchezza, anche se certamente non. della ricchezza volgare dei paroenus. Egli era invece un erede del pauperismo medioevale, ma non di quello quietistico alla Francesco d'Assisi, q-uanto del pauperismo rivolu-zionario attivo di Jan Hus e degli hussiti cechi (a loro volta eredi di John Wycliff e dei lollardi inglesi del 1381). Data la natura comu-nitaria del pauperismo medioevale, ideologia non certo di operai e di piccola borghesia industriale moderna, ma di contadini ed arti-gia.ni poveri, la rivendicazione democratica di Miinzer non pote-va certo dirigersi in direzione di uno Stato sociale moderno di tipo socialdemocratico o comunista, ma era rivolta necessariamente ad Il popolo al potere Democrazia e storia

una concezione e a una pratica della giustizia comunitaria, nel quadro di rapporti feudali dati per presupposti. Questo "feudalesimo senza feudatari" - uso questo ossimoro proprio per sottolinearne la natura impraticabile - però non guardava avanti, ma indietro, verso un modello di rapporti feudali ideali a basso costo, a bassa repressione e ad alto tasso di umanità paternalistica. Tutto questo era impossibile nel 1525, in quanto l'incipiente inflazione dovuta (anche e non solo) all'arrivo dell'oro americano, inflazione sommata al prevalere dei redditi mobili dei mercanti rispetto ai redditi fissi dei proprietari terrieri, costringeva le classi feudali e signorili a "torchiare" maggiormente i loro servi della gleba, che in questo modo vedevano peggiorare le loro condizioni di vita rispetto ai loro nonni e bisnonni; peggioramento verificato attraverso la tradizione orale della trasmissione della memoria familiare e comunitaria, fonte immensamente più "scientifica" dell'odierna produzione alluvionale della corporazione universitaria degli storici contemporaneisti ossessionati dalla propria identità ideologica. 74 75

Miinzer non può far riferimento a teorie politiche moderne non ancora esistenti. Il suo riferimento è integralmente biblico-religioso, ed egli allora saccheggia il testo biblico per trovare le citazioni esatte, che possano legittimare il suo pauperismo rivoluzionario. Niente di più facile, ovviamente, in quanto il "citazionismo selettivo" - dalla Bibbia al Corano, alle opere di Marx ed Engels ecc. - si presta letteralmente a qualsiasi cosa (ecco perché metto subito in guardia il lettore da qualsiasi fascinazione verso tale pratica, che è sempre lo scrigno dell'arbitrio più scandaloso: molto meglio la razionalità dialogica so-

cratica, strutturalmente non citazionista). Del resto, la Chiesa medioevale era sempre stata concorde nel definire le Sacre Scritture il lzber aeretincorum (libro degli eretici) per eccellenza. Questo era possibile, perché nelle scritture bibliche sono raccolti insieme testi che rappresentano il punto di vista delle caste sacerdotali insieme con testi, che, sia pure in maniera spesso mediata, rappresentano invece il punto di vista dei dominati, dei poveri e degli sfruttati. La Bibbia è un libro, in cui sia i dominanti che i dominati pos sono trovare le loro citazioni giuste, ed è pertanto un testo ideologico di legittimazione "misto", che può servire sia alla consacrazione sacrale del potere più oligarchico, sia all'incitamento alla prevalenza del demos. Thomas Miinzer morì fra i più atroci tormenti. Nello stesso tempo, però, credo che lo si possa tranquillamente annoverare fra gli eroi fondatori della democrazia moderna. Certo, non della democrazia secondo Bobbio o Sartori, ma certo della democrazia nel senso di Rosenberg o di Canfora, una democrazia di "accesso" nel senso dinamico del termine. Nei ricordi scolastici della maggioranza dei lettori, la rivoluzione inglese del 1640 sarà certamente legata alla figura di Oliver Cromwell e alla decapitazione di Carlo I Stuart, preludio della ben più famosa decapitazione di Luigi XVI, più di cento anni dopo. Oggi i re non si decapiterebbero più e sono diventati i te‐ stimonz;ils mediatici sorridenti delle grandi liberaldemocrazie europee attuali. In base alla mia personale sensibilità umanitaria e al mio rifiuto della pena di morte, sono ben contento che i re non vengano più decapitati e possano consacrarsi liberamente al golf, alle regate veliche e agli adulteri mediatici reciproci, ma in un saggio storico come questo devo rilevare che essi non vengono più decapitati dal popolo, perché la decapitazione è riservata a coloro che contano qualcosa, mentre i re oggi non contano più niente, e non perché li abbiano spodestati le plebi barbariche e scarmigliate, ma perché li hanno spodestati i mercati finanziari e le multinazionali. Gira gira, si torna sempre all'economia. Nell'Inghilterra del 1640 il re contava invece moltissimo, perché incarnava il centro politico sovrano dell'unità della classe nobiliare e della Chiesa episcopale anglicana, che ne sacralizzava-il potere. Quando scoppiò la guerra civile fra il Re e il Parlamento, i "poveri" stavano da entrambe le parti, ma dalla parte del Re stavano soltanto i poveri assistiti e incorporati nelle clientele tribali nobiliari, mentre i poveri decisi ad emanciparsi attraverso il commercio e l'artigianato stavano in maggioranza dalla parte del Parlamento.

Il popolo al potere Democrazza

e storia

La cultura ufficiale inglese ha largamente rimosso l'intermezzo rivoluzionario del ventenni° 1640-1660 e, a mio avviso, lo ha fatto perché questo ventenni° non ha avuto nulla di "liberale", ma ha visto uno scenario di confronto diretto fra autocrazia e democra-zia, in cui il liberalismo brilla per la sua totale assenza. Dal mo-mento che il mito fondatore dell'Inghilterra moderna deve essere a tutti i costi "liberale" - e vi è qui un curioso totalitarismo ideologico, che dovrebbe essere tenuto d'occhio con maggiore attenzione - si è inventato che la Grande Rivoluzione inglese è stata quella del 1688-89; rivoluziorie, che ha avuto la curiosa caratteristica di non essere affatto tale, ma di essere consistita in un cambio della guar-dia pilotato all'interno di una ristrettissima oligarchia borghese-nobiliare, il cui cantore, John Locke, era anche azionista di una compagnia per la tratta degli schiavi negri dall'Africa all'Ameri-ca. Questo "fatterello" biografico di Locke può essere considerato importante oppure irrilevante, a piacere. Personalmente, lo consi-dero rilevante, così come considero rilevanti le adesioni di Gentile al fascismo, di Heidegger al nazionalsocialismo e di Lukàcs allo stalinismo (il che non chiude, ovviamente, ma semmai apre, il di-scorso sulla valutazione teorica e critica del loro pensiero). In ogni caso, la rivoluzione inglese è stata quella del 1640, non quella del 1689, che, per quanto mi riguarda, lascio tutta ai miti liberali di fondazione. 76 77

La caratteristica ideologica della rivoluzione inglese del 1640 sta allora nel suo carattere "misto", nel fatto cioè che a un 50°/0 di citazioni bibliche provenienti dalla cultura protestante puritana si unisce un 50°/0 di argomenti derivati dal giusnaturalismo e dal contrattualismo, cioè dalle nuove filosofie del diritto naturale e del patto sociale. Questa mescolanza è veramente di estremo interes-se. Il filosofo Hobbes, che provava verso la rivoluzione inglese un odio tanto più profondo quanto più sublimato in filosofia politica apparentemente "scientifica", odiava ovviamente sia la compo-nente biblico-messianica che la componente giusnaturalistico-egualitaria, e il succo della sua teoria politica consiste nel proporre la messa fuori legge integrale della libertà d'opinione, in quanto l'espressione pubblica delle opinioni messianiche e/o giusnaturalistiche avrebbe portato al sicuro dominio di quelli che chiamava i "centauri", cioè i mostri sediziosi rivoluzionari metà bestie e metà uomini. Oliver Cromwell, che nell'essenziale finì per condividere il punto di vista di Hobbes,

lasciò "sfogare" ed utiliz-zò per i suoi fini i messianici biblici apocalittici (la setta della Quin-ta Monarchia del colonnello Harrison, poi debitamente impiccato da Carlo II nella restaurazione), i giusnaturalisti egualitari (i Li-vellatori di Lilburne, i cui quadri militari fece impiccare lui stesso senza aspettare la restaurazione monarchica) e infine i comunisti comunitaristi della proprietà pubblica e del consumo comune (gli Zappatori di Winstanley, attivi nel periodo "rivoluzionario" pri-ma del riflusso e della normalizzazione). Non a caso, Hobbes, che si trovava in Olanda durante la rivoluzione, tornò in patria dopo normalizzazione di Cromwell, resosi conto che il periodo tur-bolento della prevalenza del demos era finito e regnava ormai il binomio di Ordine e Proprietà. Non essendo un seg-uace di Sartori e di Bobbio, Hobbes sapeva bene che la democrazia non era una forma di Stato o di governo, ma una situazione di predominio del demos. Che poi il demos fosse normalizzato dal capo militare puri-tano Cromwell oppure da un Re unto dal Signore, che pretende di governare in nome di un diritto divino, ebbene questo può interes-sare solo a un maniaco delle forme istituzionali, non certo ad un uomo pratico che andava al sodo come Thomas Hobbes. La lettura dei verbali dei dibattiti di Putney, tenuti nel 1647 da delegati dell'esercito di nuovo modello di Cromwell, in cui si scon-trano in modo palese i "moderati", fautori di quello che sarebbe stato chiamato qualche decennio dopo "liberalismo", e i "radica-li", fautori di quello che sarebbe stato chiamato parecchi decerueti dopo "pensiero democratico", resta a tutt'oggi estremamente ri-velatrice. I richiami alla Bibbia ci sono ancora, ma sono marginali e sporadici, laddove nei discorsi di Miinzer del 1525 erano addi-rittura ossessivi. Il tessuto del discorso è invece quasi interamente Il popolo al potere Democrazia e storia

filosofico e si incentra su due opposte interpretazioni del diritto naturale e del contratto sociale. I radicali - in massima parte membri del partito dei Livellatori - sostenevano una interpretazione del contratto sociale di tipo democratico, fondata sul suffragio universale (con qualche restrizione), unita ad una interpretazione del diritto naturale basata sull'intervento politico organizzato contro la povertà. I moderati - in massima parte uomini di Cromwell e presbiteriani di vario tipo - interpretavano il patto sociale come patto fra proprietari,

da cui discendeva ovviamente il rifiuto netto del principio democratico del suffragio universale, mentre davano una interpretazione individualistica alla teoria del diritto naturale, che i politologi moderni hanno poi battezzato come "individualismo possessivo". «Chi, dei due, ha vinto?», mi chiederà il lettore curioso. Non voglio dirglielo, in questa sede, per ragioni di susperise, e lo rimando alla lettura di un buon manuale di storia. Qualora, però, il lettore sospettasse che ha vinto il liberalismo senza democrazia, credo che non sarebbe poi tutto sommato troppo lontano dal vero. Passiamo ora alla grande Rivoluzione Francese del 1789. Su questo evento storico esiste una bibliografia critica alluvionale, in cui si perderebbe anche Teseo munito del filo di Arianna. Ciò non è un caso, perché nella valorizzazione della rivoluzione del 1789 si incontrano l'orgoglio nazionale francese - che è grandissimo e che, personalmente, vedo con grande simpatia ed approvazione, in questi tempi di americanolatria - e l'albero genealogico del comunismo storico novecentesco, che ha sempre visto, nei giacobini, dei precursori dei bolscevichi con la parrucca e il codino invece che con la giacca operaia di pelle. Discuterò più avanti la plausibilità o meno della teoria neoliberale e postmoderna, oggi diffusissima e data quasi per ovvia, che istituisce un simbolico filo diretto di tipo totalitario-dittatoriale fra Platone, Rousseau, Robespierre, Hegel, Marx e Lenin. L'egemonia di questa grande narrazione demonizzante nel chiacchericcio semicolto durerà ancora qualche anno - non molti, a occhio e croce - e personalmente la considero un ragionevole prezzo "ideologico" da pagare dopo il crollo tragicomico e criminale del comunismo storico novecentesco, recentemente defunto. Non è di questo, però, che voglio parlare ora. Si tratta invece di inquadrare il problema del rapporto fra la Rivoluzione Francese del 1789 e la democrazia, nel doppio aspetto di teoria (istituzionalizzazione del principio di maggioranza a suffragio universale) e di pratica (partecipazione popolare, resa possibile da movimenti sociali, che portano alla prevalenza del demos). 78 79

La tradizione liberale non vede, ovviamente, di buon occhio la Rivoluzione Francese, a causa della sua deriva "terrorista" del triennio 1792-1794, e ne salva soltanto la presa della Bastiglia - in genere, destoricizzata e considerata il simbolo astorico dell'affermazione dei diritti dell'uomo - e il periodo girondi-

no. La tradizione socialista e comunista, invece, l'ha "arruolata" nel suo pedigreegenealogico, mentre il pensiero conservatore l'ha in genere demonizzata come frutto dello scatenamento del pensiero ateo e materialistico, che distrugge ogni tradizione e ogni sensata gerarchia sociale. Questo "triangolo polemico storiografico" dura da due secoli e, a mio avviso, continuerà per altri secoli. Si tratta, con tutta evidenza, di uno scontro fra punti di vista politici attuali, che si "travestono" da punti di vista storiografici del passato. In poche parole, una recita in costume storiografica con evidenti riflessi politici attuali. Non intendo entrare in questo nido di vespe, ma semplicemente sintetizzare il mio personale punto di vista, necessariamente "di parte". Dal punto di vista della storia della democrazia intesa come prevalenza del demos, la Rivoluzione Francese ne fa ovviamente parte, anche se dopo il 1794 il demos sanculotto parigino è del tutto espropriato e si attua una sorta di "restaurazione" borghese, prima con il Direttorio e poi con l'Impero di Napoleone. Tutto questo è largamente noto. Anche da un punto di vista formale-bobbiano, non c'è dubbio che la costituzione giacobina - peraltro rimasta sulla carta e mai entrata in vigore - sancisce per la prima volta non solo il suffragio universale, ma anche la tutela pubblica dei Il popolo al potere Democrazia e storia

cosiddetti "diritti sociali", e questo un secolo e mezzo prima del welfare novecentesco. Si può amare oppure odiare Robespierre — personalmente, ne sono un estimatore — ma è storicamente indiscutibile che egli fosse un sostenitore sia del suffragio universale, sia della tutela pubblica dei diritti sociali della popolazione povera. È meno noto il fatto che fosse anche un avversario della pena di morte e che votò con-tro la sua approvazione in sede di assemblea legislativa, anche se poi i paradossi della storia "concreta" lo portarono ad avallare l'uso smodato della ghigliottina contro gli oppositori, senza peral-tro dimenticare che, in gran parte, i ghigliottinatori più feroci e crudeli si riciclarono velocemente poi come termidoriani e bonapartisti, esattamente come, in gran parte, gli apparati "co-munisti" dopo il crollo del baraccone burocratico si sono riciclati come funzionari locali dell'impero americano. I manuali di storia sono in proposito sempre reticenti, perché contengono capitoli pit-toreschi su battaglie, paci e scandali di corte, ma tacciono virtuo-samente sui

giganteschi fenomeni di riciclaggio opportunistico di massa. Il lettore deve, a mio avviso, dedurre da questi silenzi il fatto, scandaloso ma inoppugnabile, che gli storici professionali tacciono in genere proprio le cose più interessanti e che solo le "controstorie" valgono la pena di essere lette. 80 81

La Rivoluzione Francese, o più esattamente i "partiti" che si sono affrontati al suo interno, ha visto il tramonto pressoché integrale della legittimazione ideologica biblico-messianica e l'avvento ge-neralizzato di una legittimazione integralmente filosofica, nella forma della combinazione fra diritto naturale e patto sociale, cioè fra giusnaturalismo e contrattualismo. Non scenderò qui nei parti-colari; voglio invece far notare solo un fatto poco noto, recentemente messo in luce molto bene dalla storica francese Florence Gauthier, per cui mentre oggi il termine "sociale" appare a prima vista rivolu-zionario e di sinistra, quando invece il termine "naturale" sembra legato alle giustificazioni conservatrici e tradizionaliste di un si-stema economicamente disegualitario, a quei tempi le cose erano esattamente invertite. Il riferimento alla "società" e ai suoi diritti era tipico degli ideologi termidoriani e del Direttorio, mentre il ri-ferimento rigoroso ed esclusivo alla "natura", e quindi al diritto naturale interpretato in senso rivoluzionario, era tipico della cor-rente giacobina più radicale. Chi conosce la filosofia di Rousseau non se ne stupirà, invece tutti coloro che si riempiono la bocca con l'insulsa paroletta multiuso "sociale" hanno di che riflettere, se vogliono farlo.

Il "secolo lungo". Dal 1789 al 1914. Liberalismo, democrazia, economicizzazione del conflitto e nazionalizzazione delle masse Lo storico inglese Eric Hobsbawm, il grande divulgatore che ha coniato la fortunatissima formula di "secolo breve" per indicare il Novecento ("secolo breve", nel senso che un intero ciclo si sarebbe aperto, sviluppato e concluso fra il 1914 ed il 1991, quindi in settantasette anni e non in cento), ha invece periodizzato il prece-dente "secolo lungo" (durato cioè ben cento e venticinque anni, dal 1789 al 1914) in tre parti successive: l'età delle rivoluzioni, l'età delle nazioni e della borghesia e, infine, l'età dell'imperialismo. Tutte le periodizza-

zioni devono sempre essere prese con le molle per non diventarne prigionieri, ma questa mi sembra a prima vista sensata, quindi mi ispirerò ad essa nel seguente breve paragrafo. Il "secolo lungo" è stato un tale intreccio di eventi complessi da non sopportare evidentemente semplificazioni. Nel contesto del mio discorso è possibile però sostenere ragionevolmente che que-sto "secolo lungo" è stato caratterizzato, nei Paesi detti "centra-li" di quei tempi, da una lunga lotta fra liberalismo e democra-zia, in cui il liberalismo e la democrazia furono instabilmente alleati solo nel primissimo periodo (1815-1848), e nel resto del mondo dal fenomeno del colonialismo, che, divenendo poi imperialismo vero e proprio, contribuì anche potentemente — e, a mio avviso, in Il popolo al potere Democrazia e storia

modo decisivo - all'integrazione "democratica" delle masse nel liberalismo. Questo non significa che la "democrazia" nel "secolo lungo" sia stata "regalata" alle masse dalle oligarchie liberali come dono avvelenato e cavallo di Troia, per poterle integrare meglio nella propria logica imperialista, ma non significa neppure che sia bene il tacere virtuosamente anche questo secondo aspetto. L'intreccio fra le rivendicazioni democratiche rivoluzionarie, da un lato, e le sapienti concessioni oligarchiche di integrazione, dall'altro, caratterizza in modo strutturale il "secolo lungo". Per poter capire meglio questo intreccio, che vede prima il padrone liberale scacciare violentemente di casa la cameriera democratica e lo vede poi riaccoglierla in casa e addirittura sposarla, bisogna utilizzare due concetti, proposti rispettivamente da Baurnan e da Mosse: l'economicizzazione del conflitto e la nazionalizzazione delle masse. Li tratterò separatamente per comodità di esposizione, ma deve essere chiaro che nella realtà storica essi fanno tutt'uno. 82 83

La rivoluzione industriale, nata in Inghilterra e poi diffusasi progressivamente negli altri Paesi europei, ha costituito una classe sociale, che, in quanto tale, non esisteva in precedenza: la classe operaia, salariata e proletaria. Certo, essa non è mai stato un solo soggetto unico e compatto, e questa unificazione simbolica e largamente fantasrnatica è stata un prodotto ideologico

del movimento politico prima socialista e poi comunista. Nello stesso tempo, così come mi sembra accettabile il parlare di borghesia - sapendo perfettamente che nella realtà ci sono state molte distinte "borghesie" differenti nello stesso modo ritengo si possa parlare anche di classe operaia, salariata e proletaria. Insisto nel ripetere sempre il trinomio "classe operaia, salariata e proletaria" perché, a mio avviso, questo trinomio simbolico unisce una categoria sociologica (la classe operaia), una categoria economica (la classe salariata) e una categoria storico-filosofica (la classe proletaria, frutto dell'espropriazione capitalistica delle precedenti comunità contadine ed artigiane e vista come l'emancipatrice universalistica dell'intera umanità). Il trinomio simbolico effettua in questo modo quella "unificazione ideale", sia pure del tutto fantasmatica, che ha sorretto la più grande utopia egualitaria prodotta dalla storia dell'umanità: il comunismo storico novecentesco. I movimenti di resistenza della classe operaia, salariata e proletaria al capitalismo sono quasi sempre stati interpretati dalla pulgata filosofica corrente come una forma di "progressismo". Niente di più errato, o almeno di più contestabile. Il "progressismo" è sempre e solo stato un'ideologia o, più propriamente, un insieme di ideologie caratterizzante la borghesia capitalistica, che trova la sua identità fondamentale nel far sempre "procedere" un'illimitata produzione di sempre nuove merci e di sempre nuovi servizi, ed ha perciò bisogno come il pane di una visione del mondo basata sulla "temporalizzazione" lineare illimitata anche del tempo storico. In altre parole, il "tempo" progredisce illimitatamente, perché deve anche contestualmente progredire, cioè continuare, intensificarsi ed approfondirsi la produzione capitalistica illimitata di sempre nuovi beni e servizi. L'ideologia del progresso è quindi solo la "faccia colta" dell'ideologia dello sviluppo e, in quanto tale, resta del tutto estranea alla classe operaia, salariata e proletaria nel suo primo periodo costitufivo, quando essa ancora "guarda indietro" alla sua precedente condizione comunitaria - più esattamente, subalterna ma comunitaria - di tipo contadino e/o artigiano, ma le resta estranea solo fino a quando non inizia l'integrazione consumistica. Il "progresso della produzione" del lato borghese diventa così il "progresso del consumo" del lato operaio, salariato e proletario. Il lettore noti bene che in queste mie osservazioni non c'è la minima condanna rnoralistica, pauperistica ed ascetica del fatto che i dominati comincino a "consumare" - consumano, anzi, in genere troppo poco e male, roba merceologicamente mediocre con intrattenimenti di pessima qualità, e sono dunque

favorevole al fatto che in futuro possano consumare più e meglio, in modo meno inquinante per l'ambiente e meno degradante per l'individuo e le Il popolo al potere

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comunità - e non c'è neppure l'apologia del "tempo in cui Berta filava", in cui certamente Berta filava, ma c'erano anche i roghi degli eretici e delle streghe, i macelli delle carestie e delle pestilen-ze, le operazioni chirurgiche senza anestesia e con il fazzoletto fra i denti, le violenze dei padri sulle figlie ecc.; io, qui, mi limito a constatare un fatto, che il politicamente corretto di sinistra tende a negare, e cioè che la cultura della classe operaia, salariata e proletaria è originariamente "reazionaria", e per questo ribelle, men-tre attraverso l'economicizzazione del conflitto e l'integrazione consumistica diventa "progressista", e per questo innocua, riformista e anti-rivoluzionaria. L'economicizzazione del conflitto di classe accompagna il sem-pre minor timore che le oligarchie capitalistiche liberali hanno delle rivendicazioni democratiche. Camillo Benso di Cavour poteva an-cora temerle, ma Giovanni Giolitti già non più. Il socialismo na-scente è un fattore di potenziale eversione, e come tale viene trat-tato, mentre il socialismo organizzato e consolidato è un fattore di integrazione, e come tale viene correttamente inteso dai cosiddetti "liberali illuminati". La semplice economicizzazione del conflitto - il conflitto cioè spostato dalla produzione alla distribuzione, dallo stile di vita complessivo della comunità alla più equa ripartizione del reddito - non sarebbe tuttavia bastata, per conseguire la piena integrazione delle rivendicazioni "democratiche" nella società li-berale: ci voleva anche una vera e propria "nazionalizzazione delle masse". 84 85

Questa nazionalizzazione delle masse avvenne nell'età detta "dell'imperialismo", attraverso i tre fenomeni congiunti del pro-gressivo aumento del tenore di vita e di consumi della classe ope-raia, salariata e proletaria (con la con-

nessa apertura di canali con-trollati di promozione sociale individuale), del servizio militare obbligatorio generalizzato e, soprattutto, della scolarizzazione ele-mentare obbligatoria. La sinerg-ia di economicizzazione redistributiva del conflitto di classe, di servizio militare maschile obbligatorio e infine di scolarizzazione elementare diffusa, porta a quella che potremo chiamare, seguendo Mosse, la "nazionalizzazione delle masse". Poniamoci alcune domande finali in modo telegrafico e riassunti-vo. Il "secolo lungo", durato dal 1789 al 1914, ha visto il generoso regalo della democrazia da parte delle oligarchie liberali dominanti? No, non lo si può dire. La democrazia intesa come somma di suf-fragio universale e di aumento del tenore di vita dei dominati - metto qui, volutamente, insieme l'aspetto politico e quello economico - è stata anche e soprattutto una faticosa conquista costata rivolte, repressioni, scioperi, sangue, licenziamenti, esili ed emarginazioni, che hanno coinvolto milioni di persone. Nello stesso tempo, però, l'affermarsi dell'economicizzazione del conflitto di classe e la pro-gressiva nazionalizzazione delle masse, avvenuta nell'ultima e decisiva parte del secolo lungo stesso (grosso modo, 1870-1914), hanno portato ad una situazione del tutto imprevista dai teorici ottocenteschi della democrazia (Mazzini) e dai primi teorici del cosiddetto "marxismo" (Engels, Kautsky ecc.). Il "secolo lungo", in poche parole, ha visto l'affermarsi della democrazia? Dipende. Della democrazia come forma istituziona-le in parte sì, anche se il suo perfezionamento formale - suffragio femminile, istituzionalizzazione della spesa sociale ecc. - ha dovuto aspettare il successivo "secolo breve". Della democrazia come po-tere popolare generalizzato certamente no, perché le grandi deci-sioni strategiche sulla g-uerra e sulla pace se le sono tenute sempre ben strette le oligarchie liberali dominanti. Della democrazia come prevalenza politica e sociale del demos neppure, in quanto il demos non è composto da masse plebee irredimibili - come sostenevano Nietzsche, Ortega y Gassett e Pareto - ma da una comunità di cittadini consapevoli degli affari nazionali e internazionali. E con questo, siamo arrivati alle soglie del "secolo breve". "Seco-lo breve", che non nasce da un placido parto casalingo, ma da un lago di sangue. Si tratta di vedere chi siano stati, i responsabili di questo lago di sangue. E questo ci porta al prossimo cruciale para-grafo. Il popolo al potere

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Il "secolo breve". Dal 1914 al 1991. La vicenda del comunismo storico novecentesco e la vittoria tennistica finale del capitalismo Abbiamo visto nel paragrafo precedente che il "secolo lungo" 1789-1914 è stato caratterizzato da un certo sviluppo della democrazia, ma che questo sviluppo si è infine arenato in una integrazione subalterna del demos attraverso la triplice trappola dell'economicizzazione del conflitto di classe, della nazionalizzazione colonialistica ed imperialistica delle masse e, infine, dell'adozione di una variante particolarmente impoverita, subalterna e penosa dell'ideologia borghese del progresso, variante impropriamente e grottescamente denominata "socialismo". 86 87

I due fenomeni storici novecenteschi, che riassumerò sotto l'etichetta semplificatrice di "fascismo" e di "comunismo" sono stati entrambi, a mio avviso, prodotti politici, sociali e culturali della piccola borghesia, laddove invece "spontaneamente" — mi si conceda un termine un po' improprio — la classe operaia, salariata e proletaria è piuttosto socialdemocratica e socialista (perché sa perfettamente che, da sola, è a malapena in grado di gestire una cooperativa di consumo e che la sua cosiddetta "missione universalistica" è una utopica invenzione di intellettuali piccolo-borghesi in cerca di assoluto), mentre la vera classe borghese e imprenditoriale è invece "spontaneamente" liberale (perché è interessata alla prevalenza del mercato sullo stato e, di conseguenza, preferisce Locke a Hegel). Questo non significa, ovviamente, che i due fenomeni del fascismo e del comunismo abbiano avuto la stessa base di massa e la stessa base di classe, anche se non è un caso che entrambi si siano assestati sulla base di classe e si siano configurati politicamente in uno Stato autoritario a partito unico. Entrambi si sono basati su di una Medita "democrazia di mobilitazione popolare organizzata", che ovviamente non aveva nulla a che fare con la liberaldemocrazia propriamente detta, che, a sua volta, non ave va saputo, voluto o potuto impedire il bagno di sangue del 1914 e che perciò, a mio avviso, ha ampiamente meritato la bastonata storica, che ha ri-

cevuto dal fascismo e dal comunismo. In questo paragrafo parlerò solo di quest'ultimo, non certo perché il fascismo non sia interessante, ma perché, in generale, le varie forme di fascismo, pur facendo spesso ricorso alla mobilitazione carismatica delle masse e pur prendendo spesso reali provvedimenti sociali in favore del demos, si sono sempre dichiarate fieramente ed esplicitamente anti-democratiche, laddove invece il comunismo ha sempre accettato a parole il principio democratico, pur violandolo ovviamente nei fatti. Più di quarant'anni di esperienza personale mi hanno portato all'irrevocabile persuasione che sia del tutto impossibile, per ora, discutere "oggettivamente" del fenomeno storico del comunismo storico novecentesco e tentare di darne un'interpretazione storiografica comune. La cosiddetta "memoria condivisa" è solo un delirio totalitario politicamente corretto del provvisorio neoliberalismo trionfante, che vorrebbe "succhiare" nel suo modello conformistico tutti i punti di vista anomali, ma sono appunto i punti di vista anomali i soli che abbiano un minimo di interesse. Altra cosa è il mantenimento mummificato di una guerra civile fra fascisti e antifascisti, finita più di sessant'anni fa, che dovrebbe invece essere concordemente chiusa per poter passare all'esame delle nuove contraddizioni storiche, culturali e sociali. La valutazione globale del comunismo storico novecentesco all'interno del quadro generale della storia dell'umanità, della storia moderna, della storia contemporanea e della storia del Novecento — ho volutamertte ricordato tutte e quattro queste distinte dimensioni — sia essa positiva o negativa, è frutto di una intuizione (o, più esattamente, di una intuizione olistica sulla totalità del corso temporale della storia umana) e non è mai il risultato di un insieme di argomentazioni. Chi valuta negativamente il comunismo come fenomeno globale, lo farebbe anche se, per ipotesi, esso fosse difeso dai più grandi geni dell'umanità, da Platone a Darwin, da Hegel Il popolo al potere Democrazia e sto a

a Freud; mentre chi lo valuta positivamente non cambierebbe idea, anche se la sua legittimazione si basasse sulle profezie di Nostradamus o sulla lettura dei fondi di caffè. Il "giudizio" olistico sul comunismo come fenomeno storico non è infatti di ordine sto-rico, ma metastorico, e ciò che è di fatto metastorico viene prima intuito e solo dopo argomentato (in analogia — mi arrischio a

dirlo — con l'esistenza di Dio o con la sua negazione). Chi lo rivendica o lo rimanda ad un auspicato futuro, lo fa in nome di una concezione egualitaria della società, che nessun battage pubblicitario contro il totalitarismo potrà mai minimamente scalfire. Chi invece lo abor-risce, farà sempre riferimento alla natura umana (che sarebbe egoistica, competitiva, acquisitiva ed invididualistica e non sop-porterebbe a lungo livellamenti forzati), alla libertà di opinione (che non può essere conculcata a lungo perché salta sempre fuori come una molla compressa), all'efficienza economica (viva il mer-cato allocatore ideale dei fattori produttivi, abbasso la pianifica-zione inefficiente ed autoritaria) ecc.; in questo paragrafo, quindi, non cercherò minimamente di "convincere" il lettore della natura positiva o negativa del comunismo storico novecentesco. Mi limi-terò, invece, a snocciolare alcune mie profonde convinzioni in pro-posito, in forma necessariamente apodittica. Non pretendo, su un argomento come questo, di dire il "vero", ma prometto di essere veridico, cioè sincero. 88 89

C'è subito una leggenda metropolitana da sfatare: che Karl Marx sia stato il "teorico", e quindi il fondatore del comunismo storico novecentesco, buono o cattivo che lo si voglia giudicare. Così non è. Non vorrei ora che il lettore sospettoso pensasse che in questo modo io intenda "innocentizzare" o assolvere Marx da questa re-sponsabilità storica. Non si tratta di ciò che io voglio o non voglio; si tratta di qualcosa, che è ricostruibile filologicamente con un altissimo grado di oggettività, se ovviamente si è ancora sensibili all'argomentazione razionale e non si ha consacrato la propria anima alla guerra di religione. Il bolscevismo di Lenin, che fu poi ribattezzato "comunismo" solo dopo la rivoluzione del 1917, non può essere definito un'applicazione ortodossa delle teorie di Marx e neppure un'eresia rispetto al barbuto padre fondatore, ma è inquadrabile come un'eresia rispetto al canone marxista della Se-conda Internazionale (1889-1914), canone fissato da Karl Kautsky dopo la morte di Marx. Il bolscevismo di Lenin, diventato poi "comunismo" per antonomasia, è, a mio avviso, non certo la "applicazione" della te-oria originaria di Marx e di Engels, ma la "risposta", da parte po-polare, al bagno di sangue della guerra del 1914, scatenato dalle oligarchie nobiliari e borghesi, che erano riuscite a portarsi dietro le rispettive plebi, già addomesticate dalla economicizzazione

del conflitto e dalla nazionalizzazione imperialistica delle masse. In accordo sostanziale con il sociologo Thorstein Veblen, dirò anch'io che, per fare la guerra con un certo consenso, basta «appoggiarsi allo spirito sportivo delle masse». Il nesso fra l'agonismo dello spi-rito sportivo e l'agortismo dello spirito bellico è talmente forte che solo l'ipocrisia, unita all'incurabile ingenuità dei creduloni di pro-fessione, può dirnenticare che lo sport moderno è nato in singolare ed inquietante unità di tempo e di luogo con la guerra moderna e che il cosiddetto "spirito olimpico" è, al massimo, una risorsa ide-ologica preziosa per costruttori di stadi e di impianti sportivi vari, estivi o invernali che siano. Il comunismo storico novecentesco, questa eresia politica bolscevica rispetto al canone ortodosso "marxista" — ma Marx non era marxista, per sua stessa esplicita ammissione — elaborato nel ventenni° 1875-1895 sotto l'influenza della grande depressione economica 1873-1896 — si prega il lettore di fare attenzione alla coincidenza — è stato "democratico", oppure è stato l'incubo tota-litario e dispotico meno democratico che sia mai esistito nella sto-ria umana dalle caverne e dalle palafitte ad oggi? È evidente che la risposta sarà influenzata dall'intuizione olistica preliminare; intuizione, a sua volta, impermeabile ad ogni argomentazione, e tuttavia la risposta non è difficile: dal punto di vista della teoria costituzionalistica dello stato liberale, poi integrata dal principio Il popolo al potere Democrazia e storia

democratico del suffragio universale, il comunismo storico novecentesco è stato un regime non democratico, basato su una legittimazione ideologica pseudoscientifica, che si presentava come una vera e propria religione inquisitoria ed intollerante fondata sulla presunta conoscenza delle leggi inesorabili della storia universale e dell'ineluttabile esito finale-comunista, verso cui queste leggi portavano; dal punto di vista della prevalenza del demos, cioè dei più poveri, al di là delle forme costituzionali ampiamente illusorie ed anzi fastidiosamente ipocrite, il comunismo storico novecentesco è stato, invece, un fenomeno democratico a tutti gli effetti. Sono perfettamente consapevole che una simile formulazione non può soddisfare il lettore, che potrebbe vederci una forma di ipocrisia, tipica della forma sintattica.., da un lato... all'altro, travestimento della cosiddetta "complessità". Passerò allora all'uso delle categorie della filosofia politica greca ap-

plicate alla contemporaneità novecentesca. Sulla base di queste categorie, il comunismo storico rtovecentesco può essere definito come una forma di dispotismo sociale - o di tirannia sociale - che utilizza forme democratiche di inquadramento e di mobilitazione del popolo con cui viene realizzata una vera e propria dittatura della politica sull'economia, in vista della creazione di una struttura sociale egualitaria fortemente instabile e provvisoria, che infine crolla proprio sulla base delle dinamiche sociali precedentemente innescate e provocate. Questa definizione apparirà certamente troppo elaborata. Rispondiamo senza ipocrisia: è stato, il comunismo storico novecentesco, un fenomeno democratico, al di là dei sofismi nati dal doppio significato del termine? La risposta deve essere chiara: no, non lo è stato. Allora, se non lo è stato, ogni sua riproposizione (o "rifondazione") appare ambigua e francamente sconsigliabile. Questa affermazione, che voglio netta e decisa, sarà capita meglio alla luce delle considerazioni storiche, che seguiranno. 90 91

È un fatto, e non certo una malevola opinione, che nel corso di tutta la sua storia il comunismo storico novecentesco veramente esistito - non parlo di quello scientifico-utopico di Karl Marx - non sia mai riuscito ad "ereditare" quella conquista spirituale universalistica, che è la garanzia giuridica dell'espressione della libertà d'opinione. I regimi comunisti hanno sempre addotto il pretesto dell'accerchiamento militare capitalistico, dello spionaggio e dell'uso eversivo dei "dissidenti", pretesto indubbiamente fondato, ma che finiva, di fatto, con il trasformare una società civile in un aggregato sottoposto ad emergenza permanente. Ora, remergenzialismo permanente" non è una dottrina politica seria; ci stanno sotto, inevitabilmente, una mancanza di consenso politico e, soprattutto, una carenza strutturale di egemonia culturale. È evidente che un sistema flessibile, in grado di tollerare il dissenso, è storicamente più forte, e quindi strategicamente vincente, rispetto ad un sistema rigido, che opprime oppure si spezza e non riesce ad assorbire, integrare e metabolizzare il fisiologico dissenso, che nasce dal fatto che l'uomo, essendo un ente naturale gene rico e non specifico come gli altri animali, è anche un •

ente antropologicamente dissenziente, perché il suo dire "no" anziché "sì" è

altrettanto fisiologico del suo mangiare, bere, sudare. Se il sistema socialista del comunismo storico novecentesco si fosse permesso la costituzione legale del Partito della Restaurazione Capitalistica, del Partito Religioso di Dio Padre, del Partito Liberale della Proprietà Privata, del Partito della Diseguaglianza Competitiva, del Partito del Lusso Provocatorio alla Faccia dei Plebei Invidiosi ecc., oggi forse esisterebbe ancora; ma appunto non poteva permettersi tutto questo, perché la sua fragilità gli imponeva non di "collettivizzare" o di "totalistizzare", come credono ingenuamente coloro che non hanno mai messo piede nei Paesi comunisti ai tempi del Grande Baraccone, bensì di individualizzare e di atomizzare all'estremo la società, M modo che fosse impossibile l'aggregazione di collettività ostili. Il tessuto reale e non ideologico era allora una sorta di "individualismo deresponsabilizzato generale", non certo il controllo occhiuto del Grande Fratello ideologico onnipresente, come favoleggia la teoria occidentale del totalitarismo. Il popolo al potere Democrazia e storia

A suo tempo, Norberto Bobbio sostenne che il comunismo stori-co novecentesco, che egli erroneamente riteneva in qualche modo legato a Marx, era privo di una teoria politica. Non lo credo. La teoria politica di Marx c'era, ed era urta combinazione di suffragio universale e di democrazia diretta di tipo consiliare. Comunque questa teoria non fu mai applicata, non certo per errore, ignoranza o tradimento, ma per il fatto che presentava aspetti utopici, a mio avviso totalmente inapplicabili (fino alla teoria, del tutto irrealistica, della cosiddetta "estinzione dello Stato"). La teoria politica del co-munismo storico novecentesco era invece, secondo me, una ripresa integrale socialista della teoria seicentesca di Thomas Hobbes. Come nel modello di Hobbes, il popolo si legava in un patto di unione, che diventava però immediatamente un patto di soggezione ad una au-torità assoluta e dispotica non revocabile (pactumsubjectionis). Il patto che legava il popolo socialista al partito comunista era un tipico esempio di patto hobbesiano, che, una volta istituito, non era più revocabile. Inoltre, come nel modello di Hobbes, la libertà di opinio-ne e di espressione era scartata come fonte potenziale perenne di sedizione (i "centauri" di Hobbes, i "controrivoluzionari" di Stalin ecc.) e veniva persino impedita la libera discussione sulla corretta interpretazione degli stessi libri di riferimento (la Bibbia in Hobbes, i classici del mardsmo nel comunismo). È allora possibile dare una risposta relativamente chiara all'interrogativo su quale sia stata la teoria politica del comunismo storico novecentesco: è stata un'ap-plicazione popolare — popolare nel senso di prevalenza degli inte-ressi sociali del dernos — della teoria di Hobbes.

Naturalmente, Lenin non voleva tutto questo. Nonostante il fatto che il suo pensiero non derivasse direttamente da Marx, ma da una particolare eresia russa del canone marxista elaborato da Kautsky, egli era legato all'utopia marxiana (di probabile origine russoviana) della democrazia diretta consiliare rivolta all'autogoverno politico delle masse ed all'autogestione economica dei produttori. Ritenen-do (erroneamente) che il mercato potesse essere riassorbito nel pia-no senza particolari traumi e che la classe operaia, salariata e prole92 93

taria fosse il soggetto storico rivoluzionario egemone nel passaggio dal capitalismo al socialismo — che egli, ancor più erroneamente, assimilava ad un processo naturale, donde la sua preferenza per la filosofia del cosiddetto "materialismo dialettico" — Lenin poteva, da un lato, scrivere l'utopia consiliare intitolata Stato e Rivoluzione e, dall'altro, sostenere un accentramento dispotico del potere del-lo Stato e del partito, che alla fine, inevitabilmente, non potevano che identificarsi. Da un punto di vista dialettico, l'estremo anarchismo è segreta-mente solidale con l'estremo dispotismo, in quanto i due poli si ro-vesciano l'uno nell'altro nel contesto di una crisi sociale strutturale. Questa è la ragione per cui, anche ammesso che la democrazia non sia una forma di Stato o di governo, ma solo una prevalenza di fatto del demos, sarebbe bene che il demos (o la sua dirigenza) capisse che è preferibile un criterio di "mescolanza" (anami‐ xls), come già Clistene e Pericle avevano capito ai loro tempi. La dissoluzione del comunismo storico novecentesco, in ogni caso, non è stata in primo luogo una dissoluzione dovuta al suo sistema politico dispotico, anche se ho fatto notare che il rigido perde, in genere, contro il flessibile, perché il flessibile assorbe ed integra le opposizioni, mentre il rigido o le spacca o ne viene spac-cato. Questa dissoluzione non è neppure spiegata adeguatamente da ragioni "esterne" (corsa agli armamenti imposta da Ronald Reagan, pressione ideologica consumistica occidentale ecc.). Come già avvenne nel caso del crollo del vecchio impero romano, anche nel caso del comunismo le cause interne prevalgono sulle cause esterne. Certo, i "barbari" fuori dei confini contano, ma, se la so-cietà interna non fosse stata in via di dissoluzione, la baracca avreb-be in qualche modo tenuto. La ragione interna sta, a mio av-

viso, nella assoluta, tragicomica, irredimibile, incurabile incapacità del-la classe operaia, salariata e proletaria di produrre una sintesi cul-turale e sociale credibile. Non basta stare "sotto", così come non basta stare "sopra", per essere universalistici. La classe subalterna massacra la vecchia borghesia, impone la sua dittatura, ma poi, Il popolo al potere Democrazia e storia

per far funzionare la baracca, deve mandare i propri figli a scuola, e questi figli, una volta ingegneri e medici, diventano classe media e sbaraccano appena possono il vecchio dispotismo egualitario, edificato dal nonno contadino povero e dal padre operaio specializzato. Questo sbaraccamento avviene peraltro — i fatti del triennio 1989-91 sono inequivocabili — nel quadro di una totale inattività della classe operaia di fabbrica propriamente detta, che non muove un dito per impedire la privatizzazione selvaggia (le cose sono andate un po' diversamente in Cina, dove la direzione politica della classe operaia cinese — la cosiddetta "Banda dei Quattio" — è stata invece distrutta militarmente subito dopo la morte di Mao nell'ottobre 1976). Questa passività della classe operaia dei Paesi ex-comunisti deve essere spiegata. In proposito, preferisco azzardare una possibile sciocchezza, piuttosto che rifugiarmi misticamente nell'insondabile "complessità" degli eventi storici. Al di là di momenti storicamente eccezionali e non ripetibili — come lo stachanovismo staliniano, che fu effettivamente un vero movimento di massa interno alla classe operaia — la classe operaia, salariata e proletaria è una classe sociale spontaneamente socialista e socialdemocratica, non certo "comunista". Il comunismo resta un'utopia sorta dalla coscienza inquieta della piccola borghesia primo-novecentesca, e questo ne spiega ad un tempo la forza ideologica e la fragilità sociale. La vittoria con punteggio tennistico del capitalismo sul comunismo ci introduce al nuovo secolo e al nuovo millennio. Questa, però, non è più "storia storica", cioè storia del passato, ma storia del presente, per cui sarà l'oggetto del terzo ed ultimo capitolo.

Considerazioni storiche finali 94 95

È, la storia, maestra di vita, magístra vitae? Lo si ripete spesso, sulla base non tanto dei cosiddetti "corsi e ricorsi" storici — ciclicità, cui personalmente non credo, perché credo nella produzione di soglie irreversibili sia nella natura che nella società — quanto dello studio delle analogie fra passato e presente. Nicolò Machiavelli ha portato lo studio sistematico delle analogie storiche al punto di poter illudersi di aver scoperto una scienza della natura umana o, meglio, delle costanti dei suoi comportamenti in situazioni analoghe. Per ora, finiamo il nostro discorso con alcune ulteriori considerazioni sul rapporto fra storia e democrazia. La storia ci dice che il problema della democrazia è appunto "storico", nel senso che ritorna sempre nel corso del tempo e non può essere eliminato attraverso utopie tecnocratiche di potere dei cosiddetti "migliori" (che Platone chiamava lo smzkrotaton meros, la parte più piccola, e Marsilio da Padova la pars valentrar). Come nella respirazione dei polmoni, in cui inspirazione e espirazione si susseguono strutturalmente, allo stesso modo nella storia, fino ad ora, anziché un'inesistente linearità prog-ressistica orientata ad un scopo finale, si è assistito piuttosto ad una particolare ciclicità, in cui oligarchia e democrazia si sono succedute con vari gradi di mescolanza. Se questo è vero, sia il partito teorico dei formalisti (la democrazia è una forma di governo basata sulla presa delle decisioni pubbliche a maggioranza), sia il partito teorico dei sostanzialisti (la democrazia non è una forma di Stato o di governo, ma è la prevalenza del dernos, costituito dai più poveri e dominati) non possono pretendere di avere completamente ragione. Potremmo allora tentare una (provvisoria e revocabile) definizione: la democrazia è la prevalenza costituzionale del demos. Come tutte le definizioni, anche questa presenta punti deboli, ma almeno segnala che una prevalenza non costituzionale del demos, oppure una costituzione che ne comporti la soggezione — anche se questa soggezione fosse legittimata da periodici ricorsi alle elezioni a suffragio universale, come negli Stati Uniti di oggi — produce, in entrambi i casi, una situazione di non-democrazia. Finiamo dunque questo primo capitolo storico con la segnalazione di un'aporia e non con una cosiddetta "soluzione". Poco

Il popolo al potere

male. Il lettore deve diffidare dai saggi, che gli presentano la verità bella e confezionata. A suo tempo, il filosofo Platone si indignò contro il tiranno di Siracusa Dionisio, perché quest'ultimo voleva che Platone gli compendiasse in un libretto tascabile tutta l'arte del buongoverno. L'indignazione di Platone era assolutamente giustificata. Così come il bene politico non consiste in una formula-zione compendiabile in modo sintetico, ma in una lunghissima pratica educativa svolta sia da soli sia in comunità, nello stesso modo la Democrazia non consiste in una serie di definizioni alla Bobbio o alla Sartori, ma in una pratica educativa comunitaria, in cui l'aspetto antropologico prevale necessariamente su quello isti-tuzionale. Con questo, però, è giunto il momento di passare ad un esame dei rapporti fra democrazia e filosofia.

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Democrazia e filosofia.

Riflessioni su una vicenda bimillenaria In questo secondo capitolo, il lettore troverà un "ritorno" su molti temi già trattati nel primo. Ciò è stato fatto consapevolmente, per-ché il tema della democrazia è certamente un tema storico o, più esattamente, storico-politico, ma è anche e soprattutto antropolo-,ico e filosofico. Inoltre, chi scrive è un filosofo di formazione e di professione e si trova comprensibilmente molto più a suo agio nella trattazione di argomenti filosofici, piuttosto che nella tratta-zione di argomenti storici. Grazie, però, alla benemerita e mai abbastanza lodata riforma di Giovanni Gentile del 1923 - che deve essere valutata, a mio avviso, indipendentemente dal contenzioso simbolico ed emozionale fra fascismo e antifascismo - chi scrive si è guadagnato lo stipendio e la pensione insegnando insieme la filosofia e la storia, cosa sostanzialmente buona, perché il filosofo senza storia e lo storico senza filosofia g-uadagnano forse qualcosa in specialismo - da sfruttare, però, molto più a livello di ricerca urúversitaria che di educazione liceale - ma perdono indubbiamente molto nell'illusione che la storia consista in tecnica archivistica e la filosofia in analisi del linguaggio. Fatta questa autobiografica precisazione, che è anche un grido di allarme verso l'attuale distruzione della dimensione storica del-l'insegnamento in direzione di un eterno presente computerizza-to e di una formazione orientata unicamente alle cosiddette "ri-chieste del mercato" - che poi cambiano, ovviamente, ogni cinque armi e non possono orientare un asse educativo reale - in questo secondo capitolo il lettore troverà gli elementi di una vera e propria fondazione filosofica del problema della democrazia. Esami-nerò allora, nell'ordine, i tre problemi del rapporto fra democra-zia e verità, del rapporto fra democrazia e natura umana e, infine, 97 Il popolo al potere Democrazia e filosofia

del rapporto fra filosofia e universalismo. A questo punto, il problema diventerà anche politico, perché passerò dal problema filosofico dell'universalismo al problema politico della cosiddetta "universalità dei diritti umani", con conseguente distruzione di fatto del precedente diritto internazionale

fra Stati in nome del preteso "intervento umanitario". In questa ideologia interventista, ovviamente anche la democrazia è coinvolta, perché si pretende che essa sia il primo e più importante dei diritti umani universalistici da esportare. Preavverto subito il lettore che mi opporrò esplicitamente a questa infondata pretesa, e questo non in nome di un relativismo cinico, ma proprio in nome delle ragioni di una universalità più comprensiva delle differenze fra individui, popoli e nazioni. Qui trovo soggettivamente il nucleo teorico e morale di questo mio saggio. Nella seconda parte del capitolo, dopo aver aperto un'importante parentesi sul pensiero originale di Marx — da me interpretato come una forma di universalismo, sia pure imperfetto e pertanto ampiamente correggibile, per chi non si pone in un'ottica citatologica, talmudistica e religiosa — tratterò il rapporto, che si stabilisce fra la democrazia, da un lato, e l'individualismo e il comunitarismo, dall'altro. Questa trattazione, con cui concluderò il secondo capitolo, sarà anche l'introduzione al terzo, in cui prenderò in esame la cosiddetta "attualità".

Il rapporto fra democrazia e verità 98 99

Abbiamo visto che Socrate è stato condannato per tradimento e Gesù di Nazareth per terrorismo, mentre, ad un esame storico più attento, si ricava che Socrate non era un traditore e Gesù non era un terrorista. Socrate era un patriota ateniese, che riteneva di svolgere un dovere civico comunitario facendo la parte del "moscone", che infastidiva utilmente il nobile cavallo della poiís degli Ateniesi, mentre Gesù era un pacifista messianico, che invitava alla conversione per poter effettuare una purificazione del tempio e per poter proclamare un anno di misericordia del Signore. In entrambi i casi, secondo la legislazione ben intesa degli Ateniesi e dei Romani, Socrate e Gesù avrebbero dovuto essere assolti, non essendo incorsi in un reato penale, ma ragioni politiche, e politiche in quanto extra-filosofiche, ne imposero la condanna a morte per veleno e per crocifissione, sotto la spinta "democratica" delle urla scomposte della folla gerosolimitana e dei voti maggioritari della giuria dei giudici popolari ateniesi (il cui livello di "competenza" è

ben descritto nella commedia di Aristofane Le Vespe). Da questo doppio esempio storico molti hanno tratto la conclusione che la democrazia, in quanto semplice metodo per la presa delle decisioni pubbliche, deve essere neutrale rispetto al tema della verità, perché non spetta al metodo democratico decidere se la verità — ma anche il bene, il bello e il giusto — esista veramente o invece sia solo un'inesistente illusione metafisica. La questione, però, non si chiude qui, anzi semmai qui si apre, ed ora cercherò di tracciarne alcune coordinate iniziali. Non posso certo, in questa sede, fare l'elenco dei significati, cké il termine "verità" ha assunto nella storia millenaria della filosofia occidentale; però, per chiarezza verso il lettore, devo esplicitare in questo paragrafo il significato, che io personalmente propongo. Per "verità", intendo una pretesa universale di validità di una proposizione rivolta alle modalità di esistenza e di riproduzione di una comunità umana, in base ad un giudizio di tipo etico e politico. Questa definizione, volutamente limitata alla sfera dei rapporti sociali, esclude esplicitamente molti altri tipi di proposizioni generalmente intese come veritative, cioè quelle che io definisco come sincere e veridiche (del tipo: è vero che ti amo), come esatte (del tipo: è esatto che quattro più quattro fa otto) ed infine come certe (del tipo: è certo che il pianeta Mercurio fa parte del sistema solare). Distinguendo da un lato il "vero" e dall'altro, invece, il veridico, l'esatto e il certo, oltre che quello che potremo definire reale o fattuale in base ai cinque sensi (del tipo: è vero che questo è popolo al potere

Democrazia e filosofia

un bastone e questa è una bicicletta, perché abbiamo in comune una ling-ua per connotarli e la vista e il fatto per verificarli), tolgo di mezzo molti equivoci semantici, che mettono sullo stesso piano la presunta "verità" dell'esistenza di un bastone, della fusione nu-cleare, di un teorema di geometria ecc.; con questo, non pretendo di aver scoperto nulla di veramente nuovo, perché si tratta grosso modo della concezione di verità di Hegel, secondo cui propria-mente "vero" è solo un concetto, laddove i bastoni, le pozzanghe-re,

le rocce ed anche il teorema di Pitagora non sono concetti. Non c'è, in questo, alcun disprezzo implicito verso la cosiddetta "scienza", intesa come scienza galileiana moderna (astronomia, fisica, chimica, biologia ecc.). Semplicemente, al valore di even-tuale verità o falsità — che io preferisco chiamare certezza, in quanto appunto "accertabile" da protocolli unanimente stabiliti dalla co-munità degli scienziati specialisti — delle proposizioni scientifiche è possibile applicare metodi epistemologici di verificazione e/o fal-sificazione (Popper, Lakatos ecc.), mentre per le cosiddette verità filosofiche tutto questo non è possibile. È appunto qui, allora, che sopraggiunge il problema della democrazia. - 100 101

Nei campi del veridico, dell'esatto e del certo, a mio avviso, non vige nessun principio democratico. Sebbene a suo tempo il filosofo americano Dewey abbia parlato del nesso fra scienza e democra-zia, intendendo probabilmente il principio del libero scambio di informazioni che deve vigere all'interno delle comunità scientifi-che, a mio parere il progetto scientifico in quanto tale è estraneo ad ogni democrazia. Non si tratta soltanto del fatto storico inne-gabile, per cui la scienza tedesca fioriva sotto Hitler, la scienza sovietica fioriva sotto Stalin e l'opinione personale degli scienziati del progetto Manhattan, che costruirono le sciagurate e criminali bombe atomiche, non fu tenuta in nessun conto e la decisione di sganciarle su Hiroshima e Nagasaki fu "democraticamente" pre-sa da una piccolissima oligarchia criminale di militari e politici, meritevoli della pena di morte e che invece ebbero riconoscimenti ed onori, mentre i loro colleghi tedeschi furono impiccati non per aver commesso crimini peggiori, ma unicamente per il fatto con-tingente di aver perso, per aver avuto alle spalle un industria e dei pozzi di petrolio più piccoli. Si tratta del fatto che le verifiche delle proposizioni esatte (o inesatte) vengono fatte non in base al princi-pio di maggioranza, ma in base ai criteri di coerenza dei calcoli, e invece le verifiche delle proposizioni certe vengono fatte anch'es-se non certo in base al principio di maggioranza, ma in base ai canoni concordati della verificabilità e/o della falsificabilità epistemologica. In tutti questi casi, e in altri consimili, la cosiddetta "verità" non c'entra assolutamente nulla, dal momento che i para-metri sono differenti e, comunque, non filosofici. È assurdo sostene-re che la filosofia, ammesso che funzioni secondo le regole degli scacchi, perda se le si impongono le regole del bridge o del poker. Con questo, fine della digres-

sione metodologica. Tornando al significato strettamente filosofico di "verità", che ho proposto in precedenza — verità come pretesa universale di validità, rivolta esclusivamente ad una riproduzione di tipo umano, comunitario e sociale — è proprio il suo significato umano e sociale che ci costringe a far intervenire il concetto di democrazia. Mentre la risoluzione corretta del teorema di Pitagora non è in alcun modo democratica, ma deriva da una aristocrazia del sapere matematico, l'applicazione eventuale del sapere pitagorico alla mescolanza fra le classi sociali di Atene, per garantire la concordia dei cittadi-ni (oinonoia ton politòn), interpella direttamente l'uso del metodo democratico. In base a ragionamenti di questo tipo, mi sento di affermare che il miglior modo di garantire il bene politico è la con-nessione di questo sia con il metodo democratico che con l'affer-mazione dell'esistenza della "verità". Attenzione! L'affermazione dell'esistenza della verità è un'affer-mazione di tipo ontologico ed assiologico generale — concernente, appunto, la realtà materiale ed i valori morali connessi — e non comporta affatto né che io possa pretendere di conoscerla in modo assoluto, né, tanto meno, che sia legittimato ad imporla con meto-di variamente "educativi", nel senso di dispotici e coercitivi. Si

Il popolo al potere Democrazia e filosofia

tratta di questioni in via di principio distinte. Di questo non sembrano consapevoli i pensatori relativisti come Hans Kelsen e Richard Rorty - sarebbero moltissimi, ma mi limito a citare solo questi due per brevità - i quali sostengono che l'affermazione di una posizione filosofica "veritativa" è l'inevitabile anticamera del dispotismo politico, perché se io sono certo di possedere la verità vorrò poi imporla, mentre se sono uno scettico relativista assumerò un atteggiamento più tollerante, non potendo o non volendo imporre un "bene politico", di cui affermo l'assoluta inesistenza.

La posizione Kelsen-Rorty è, a mio avviso, errata per un insieme di ragioni, di cui qui ricorderò solo la ragione storica e la ragione psicologica. In primo luogo, se vogliamo studiare la storia della filosofia, vediamo che, ad esempio, il grande filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza era contemporaneamente sostenitore di una teoria integralmente democratica della società (si veda il suo Trattato Teologico-politico del 1670) e di una teoria fortemente veritativa della filosofia (si veda la sua Etica). Non c'era, in Spinoza, alcuna contraddizione. Egli non condivideva la teoria pessimistica di Hobbes sulla natura umana; non riteneva, di conseguenza, che la sicurezza della vita e dei beni potesse essere conseguita soltanto impedendo giuridicamente e giudiziariamente la libertà d'espressione delle opinioni politiche e religiose; esprimeva una valutazione cautamente ottimistica anche sulle decisioni politiche effettuate con metodo democratico - in questo, simile al vecchio filosofo greco Protagora - e, nello stesso tempo, tutto ciò non entrava per nulla in conflitto con la sua profonda convinzione dell'esistenza di un' unica e universale struttura veritativa del mondo naturale e sociale. Il fatto, poi, che questa struttura venisse espressa da Spinoza con l'adesione ad un modello deterministico e meccarùcistico del mondo - modello, che le scienze contemporanee hanno radicalmente modificato, per cui possiamo supporre che, se Spinoza vivesse oggi, lo modificherebbe spontaneamente egli stesso - non è per nulla rilevante, ai fini della nostra discussione. Il modello "scientifico"

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adottato ha a che fare con il "certo" proposto in quell'epoca, sempre revocabile ed aggiornabile in base al progresso conoscitivo delle scienze della natura, mentre la posizione "filosofica" veritativa ha come parametro non l'accertamento epistemologicamente corretto, ma l'idea di esistenza oggettiva del bene pubblico come categoria normativa e universalistica. Quanto detto fin qui è ancora, però, largamente preliminare. Il punto centrale della questione sta nel fatto che, mentre le "verità scientifiche" - con cui intendiamo non le verità vere e proprie, ma le universalità esatte e certe, stabilite in base ai vari metodi delle scienze particolari - possono essere enunciate da minoranze illuminate e competenti e, una volta enunciate, è possibile "gettare via la scala in cui si è saliti" - utilizzo qui la nota frase del confusionario incorreggibile Wittgenstein, il più radicale teorico della risoluzione integrale della realtà in linguaggio e, appunto per questo, il filosofo più stimato dall'attuale

comunità nichilista dei filosofi accademici - nelle verità umane e sociali ciò che conta non è che vengano "dette", ma che vengano assimilate perché ritenute convincenti. E il processo dialogico di progressivo convincimento - convincimento da non confondere con l'apprendimento scientifico vero e proprio non può che essere definito "democrazia". La democrazia è dunque assai più solidale con una teoria veritativa della filosofia che con una concezione relativistica e convenzionalistica di essa. C'è poi un secondo aspetto psicologico da tenere presente. L'affermazione che lo scettico relativista sarebbe anche libertario e tollerante (non credo in nulla, dunque non posso e non voglio imporre di credere in qualcosa) non corrisponde assolutamente alla stragrande maggioranza dei casi storici concreti; chi, infatti, crede alla cosiddetta "verità" non deve essere assimilato all'inquisitore medioevale armato di tenaglie roventi o al commissario bolscevico armato di pistola: costoro non avevano la minima idea dello spazio conflittuale, che si apre fra il campo della verità filosofica - dialogica, razionalista, e quindi metodologicamente libera per sua natura - e la pseudo-verità religiosa ed ideologica, che si

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Il popolo al potere

può e si deve "imporre" con il potere. Una simile verità è la verità dello sciagurato Agostino di Ippona, il quale disse esplicitamente che la verità cristiana, essendo appunto "vera", deve essere impo-sta a bastonate, se non peggio. La verità non è l'opportunità della vaccinazione antivaiolosa, che non viene decretata sulla base della conoscenza del bene politico, ma dell'utile profilattico stabilito da competenze mediche specialistiche di tipo non democratico. La ve-rità filosofica comprende nel suo concetto non solo l'enunciazione, ma anche il libero convincimento. Dal momento che il convinci-mento al 100`)/0 è non solo impossibile, ma anche indesiderabile - urta società "convinta" al 100°/0 marcirebbe nella sua staticità ed impedirebbe ogni innovazione, dal momento che la verità impli-ca, nel suo stesso concetto, un processo di innovazioni permanen-ti, che la approfondiscono, la concretizzano e la determinano sem-pre meglio, processo infinito per sua stessa natura

- è fondamen-tale che ad essa si accompagni il diritto all'errore, che può giunge-re anche al diritto alla sciocchezza e all'idiozia sociale. In genere, il diritto alla sciocchezza viene limitato, in nome del-la distinzione fra sciocchezze innocue e sciocchezze pericolose. Affermazioni come «la lettura dei fondi di caffè è più scientifica della biologia molecolare» o «la terra è piatta e bisogna fare at-tenzione a non precipitare fuori», sono di solito considerate in-nocue. Affermazioni, invece, come «i neri africani, essendo una razza inferiore, possono essere linciati per strada», sono giustamente considerate sciocchezze inaccettabili, in quanto pericolo-se, perché ci sarebbero sicuramente degli idioti, che se ne fareb-bero influenzare. Ln ogni caso, l'eventuale pericolosità sociale della sciocchezza è, a mio avviso, un problema giudiziario, da affron-tare in base alla categoria di utilità, e non un problema filosofico vero e proprio. Lo spazio della democrazia è allora definibile anche come uno spazio educativo comunitario, in cui la sciocchezza socialmente pericolosa vede progressivamente restringere il proprio campo di intervento e diventa a poco a poco innocua come la credenza nel-

Democrazia e filosofia

le disgrazie provocate dai gatti neri che ci traversano la strada. Lungi dal provocare comportamenti autoritari e totalitari, il cre-dere nella verità, intesa come validità universale comune di pro-posizioni riguardanti la comunità politica e sociale, è invece uno stimolo permanente per l'approfondimento anche istituzionale della democrazia. Con questo, non intendo affatto proporre un'impossibile equazione "democrazia = verità". Non lo penso affatto; penso, invece, ad un processo asintotico sempre aperto e interminabile (Kant), ma che nello stesso tempo si determina an-che spazialmente e temporalmente (Hegel ed anche il Marx au-tentico).

Un'appendice al problema del rapporto fra democrazia e verità.

Il rapporto fra democrazia e tolleranza Dal momento che la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente da noi - anche il despota più tirannico garantisce, di regola, la libertà di chi la pensa come lui - è evidente che un regime politico di libertà deve fondarsi sulla tolleranza. Che cos'è, però, la tolleranza? Come avviene per il concetto di tempo in Ago-stino di Ippona, tutti credono di sapere cos'è, ma, quando si tratta di definirne la natura e i limiti, iniziano i problemi, che a volte sono insolubili. Tutti noi tolleriamo che i nostri amici mangino il gorgonzola, anche se non ci piace il suo odore, ma è dubbio che una moglie tolleri un marito, che non si lava i denti e non si cambia i calzini sporchi per mesi. Vi sono, allora, dei "limiti" per la tolleranza. Ho scelto volutamente di iniziare con un esempio tratto dalla vita quotidiana anziché dalla storia della filosofia, per sottolineare come la "tolleranza" implichi un giudizio negativo, o almeno di non condivisione attiva, e nello stesso tempo un giudizio di legittimità 105

104 Il popolo al potere Democrazia e filosofia

e di legalità di un comportamento e di un sistema di idee filosofiche e religiose. Il concetto di tolleranza contiene, allora, nella sua stessa formulazione, i criteri con cui ne vengono stabiliti i limiti, ma c'è qui un'asimmetria, cui generalmente non si presta sufficiente attenzione. Mentre, infatti, il concetto di tolleranza sottintende filosoficamente la consapevolezza dell'incertezza e dell'incompletezza della propria eventuale concezione di -verità - mi riferisco qui al tollerante veritativo, quale io sono, e non al tollerante scettico - che ha dunque sempre bisogno di essere integrata o confutata da una libera critica dialogica pubblica, il concetto di limiti della tolleranza non è mai filosofico, ma sempre e solo giuridico e giudiziario ed ha a che fare esclusivamente con la sicurezza pubblica di urta comunità. L'asimmetria può dunque essere riassunta così: tolleranza (concetto filosofico), limiti della tolleranza (concetto giuridico e giudiziario). 106 107

Ancora una volta, voglio far notare che la posizione, per cui chi crede all'esistenza filosofica o religiosa della verità è potenzialmente un intollerante, e dunque non potrà mai diventare un buon democratico, perché il buon democratico può soltanto essere uno scettico relativista prag-matico, non sta né in cielo né in terra. Spinoza non rientra nei canoni scettici e relativistici di Hans Kelsen e di Richard Rorty, eppure è stato il fondatore della teoria politica della democrazia moderna e anche della concezione moderna di tolleranza religiosa. Il nucleo del suo ragionamento (sviluppato nel suo Tractatus theologicopolitícus) sta nel fatto che tutti i testi religiosi - la Bibbia, in particolare hanno un contenuto volto all'orientamento morale della gente, non un contenuto filosofico o scientifico, che pretenda di "descrivere il mondo così com'è"; da ciò deriva la conclusione pratica che non ha senso impedire con la forza la libera espressione di opinioni su un oggetto di fatto inesistente, cioè il commento differenziato su un mondo che non esiste. Per Spinoza, il solo mondo ontologicamente esistente era quello ricostruibile concettualmente sulla base del metodo filosofico e scientifico - per lui, i due metodi erano una cosa sola, perché credeva in un'unica "filosofia scientifica" - ed era un mondo radicalmente non antropomorfizzato di strutture interamente deterministiche e meccanicistiche. La libertà derivava proprio non dall'arbitrio di credere nelle più inverosimili sciocchezze, ma dalla consapevolezza dell'esistenza di questa struttura oggettiva del mondo. Allo stesso tempo, Spinoza affermava la più completa e integrale libertà di esprimere in pubblico qualsiasi sciocchezza, in assenza di qualsivoglia "polizia del pensiero", cristiana o marxista-leninista, intenzionata ad impedirla giudiziariamente o moralisticamente. Mi sono soffermato un po' a lungo su Spinoza, perché sono personalmente uno spinoziano - integrato dal pensiero di Hegel e di Marx - e il lettore ha diritto di conoscere i miei riferimenti "nobili" nella tradizione europea. Voglio invece far notare un fatto, che ho sempre trovato di inconsapevole ed irresistibile comicità, cioè il modo in cui, in genere, le storie scolastiche della filosofia occidentale segnalano la nascita e lo sviluppo dell'idea di tolleranza. Secondo queste tragicomiche storie, l'idea di tolleranza nasce più o meno come nascono i funghi dopo la pioggia. Il giorno prima non c'è, e il giorno dopo improvvisamente c'è. Eureka! Alleluia! Prima regnavano i roghi per gli eretici, le conversioni forzate, le espulsioni religiose di massa, l' Indice dei libri proibiti, le devastazioni delle stamperie; poi, un certo giorno, nascono individui illuminati come l'inglese Locke e il francese Voltaire, che improvvisamente proclamano: «Basta! Basta con l'oscurantismo! Non siamo d'accordo

con quello che tu dici, ma ci batteremo fino alla morte, perché ti si permetta di dirlo liberamente e legalmente!». In questa rappresentazione fiabesca, il liberalismo politico e filosofico viene "scoperto", così come vengono scoperte la teoria della relatività, la penicillina e la pirateria informatica. La realtà è ben diversa. La cosiddetta "tolleranza" nasce dal fatto che, ad un certo punto dello sviluppo storico ed economico dell'Occidente europeo ed americano (e solo di quello), il dissenso filosofico e soprattutto religioso era divenuto irrilevante per la legittimazione culturale della riproduzione sociale complessiva. La tolleranza, dunIl popolo al potere

Democrazia e filosofia

que, ha come sua matrice 1' írrilevanza. Il legame sociale invisibile o, se si vuole, la forza di gravitazione, che regge il compattamento della società, era ormai data dai soldi che uno aveva in tasca, e non da una rete simbolica "olistica", che teneva unita la colletti-vità sulla base di una religiosità condivisa. Viene dunque tollera-to quello che prima non lo era, appunto perché è diventato irrile-vante, mentre prima non era ammesso proprio per la sua rilevanza. Dante e Petrarca trovavano probabilmente "normali" i processi inquisitori, non certo perché erano meno "intelligenti" o più "incivili" di Locke e di Voltaire, ma perché avevano una diversa percezione di che cos'era veramente "rilevante" nella loro società. Detto questo, e rivelata l'origine sociale dell'idea e della pratica della tolleranza, è bene confermare che essa è buona lo stesso, ed è perciò bene difenderla. L'idea di tolleranza, però, non è di per sé democratica - in genere, le maggioranze si distinguono per la loro tendenza all'intolleranza più bieca ma liberale, appunto perché è individualistica ed ha la sua radice nel diritto naturale primario dell'individuo all'espressione incondizionata della propria visione del mondo filosofica e religiosa. 108 109

Non vedo, comunque, nulla di male nel rilevare l'intirna omoge-neità dell'idea di tolleranza con la pratica economica del mercato. Un mercato delle merci veramente efficiente non può, infatti, ne-gare a lungo la parallela esistenza di un mercato delle idee e delle opinioni. Certo, questo comporta, di fatto, anche una patologica "mercificazione delle opinioni" - mercificazione, che sta alla base dell'odierno circo mediatico della manipolazione industrialmente organizzata - e allora il relativismo fa anch'esso un salto di quali-tà. Il relativismo tipico di alcune minoranze scettiche di cosiddetti ,'apoti" - gli apoti, secondo Papini, erano l'élite di chi non beveva le panzane diffuse dai dominanti e credute dai dominati babbioni - diventa oggi un vero e proprio relativismo di massa. Ancora una volta, come per il caso della genesi storica reale dell'idea di tolle-ranza, questo avviene per ragioni strutturali; se infatti l'unica real- tà è la merce, e il potere d'acquisto di ogni merce è relativo al pro-prio potere d'acquisto, ne deriverà, prima o poi, una vera e pro-pria "caduta degli assoluti" filosofici e religiosi. Questa "caduta degli assoluti" non avviene, però, a causa della vittoria filosofica di Kelsen e di Rorty contro Platone e Hegel, come crede la corpo-razione dei semicolti lettori delle pagine culturali dei quotidiani "laici" e "postmoderni", ma perchè l'unico Assoluto ancora in pie-di è'appunto solo il Relativo, cioè il relativo al potere d'acquisto di beni e di servizi, differenziato per reddito. Torniamo al nostro problema della tolleranza. Nessuno si sogne-rebbe mai di avere "tolleranza" per una diagnosi clamorosamente sbagliata di un medico o per un calcolo clamorosamente inesatto di un ingegnere edile. Se allora il concetto di "tolleranza", inapplicabile nella scienza e nella tecnologia, viene invece impiegato per la reli-gione, la filosofia e la politica, ne consegue che né la religione, né la filosofia, né la politica sono scienze e/o tecnologie, e devono anche sapere di non esserlo. Ci sono stati, in passato, onesti sostenitori, in buona fede, della scienza teologica, della scienza filosofica e, so-prattutto, della scienza politica; a monte di queste concezioni, sta l'errata idea della "trasparenza" o, più esattamente, della traspa-renza integrale della realtà, basata, a sua volta, sulla sua integrale conoscibilità. A rafforzare l'idea del raggiungimento definitivo di questa mitica trasparenza integrale, c'è la teoria della conoscenza di tipo "realistico" (adgequatio rei et intellectus, in Tommaso d'Aquino; Widerspieg-elungstheorie, in Lenin). Queste teorie dell'adeguamento (adaequatio) o del rispecchiamento

(Wderspieg-elung) si basano sul fatto che si ritiene che anche la filo-sofia, e non solo le cosiddette scienze sperimentali, possa giungere al rispecchiamento integrale di un mondo esterno, che esiste indi-pendentemente da noi e che si tratta allora di scoprire, nel senso di riprodurre con sempre maggiore esattezza. Ho sostenuto, però, nel paragrafo precedente che, mentre l'esattezza e la certezza sono in un certo senso dei processi progressivi di rispecchiamento - il sistema solare sta lì indipendentemente da me, ed io Io conosco Il popolo al potere Democrazia e filosofia

sempre meglio con il miglioramento delle osservazioni e delle apparecchiature — la verità non può essere l'adeguamento e/o il rispecchiamento di una realtà indipendente dalla nostra esistenza, a meno che non si creda appunto nell'esistenza indipendente di Dio e delle sue leggi morali (Tommaso d'Aquino, Ratzinger ecc.) oppure nell'esistenza, indipendente da noi, di leggi sociali deterministiche e teleologiche, che ci porteranno inevitabilmente al comunismo (Lenin, Stalin, Mao Tse Tung ecc.). La verità filosofica è dunque solidale con una teoria della conoscenza basata non sull'adeguamento/rispecchiamento di una realtà esterna — teoria, peraltro, anch'essa inadatta per l'esattezza matematica e adatta solo in parte per le scienze fisico-chimiche — ma con una teoria della costruzione sociale progressiva condivisa. Si dirà che la teoria della verità come costruzione sociale universalistica condivisa, è tipica anche degli scettici e dei relafivisti. Non è vero. Per i relativisti, ogni costruzione sociale è, in via di principio, incommensurabile e inconfrontabile con le altre, e in questo risiede propriamente lo scetticismo relativistico: dire che la verità è l'oggetto di una costruzione sociale universalistica condivisa — teoria, che personalmente attribuisco a Hegel, anche se l'ha espressa con un linguaggio diverso — e non un riflesso/ rispecchiamento "scientifico", significa non solo stabilire la differenza di principio fra scienza e filosofia — con grande vantaggio di entrambe — ma anche legittimare la tolleranza come precondizione trascendentale del dialogo, e dunque del confronto democratico, che è semplicemente il dialogo applicato alla comunità politica. 110 111

Oggi il principio liberale (e universalistico) della tolleranza è il pericolo

anche e soprattutto nelle nostre società occidentali. A causa della cosiddetta "lotta al terrorismo internazionale" e soprattutto dopo l'illegittima aggressione degli USA all'Iraq — fatta ex ante, per contrastare le famose e inesistenti armi di distruzione di massa, e legittimata ex post, come benefica esportazione della democrazia come diritto umano universale, da imporre anche ai recalcitranti — il vecchio principio liberale della tolleranza verso opinioni, che pure non si condividono, sta sparendo nell'indifferenza più bovina delle plebi televisive manipolate. Dire infatti, ad esempio, che «Bin Laden ha ragione» — opinione, che personalmente non condivido, ma che, per me, ha la stessa consistenza epistemologica e morale della legalissima ed approvata opinione, per cui «Bush ha ragione» — è oimai oggetto di discriminazione penale. Se questo è vero, il principio liberale, semplicemente, è morto e, insieme con il principio liberale della separazione fra opinioni (condannabili, ma legittime) e fatti (leciti o illeciti), cade anche la democrazia. Il presupposto della libera espressione delle opinioni è la condizione trascendentale a priori — uso qui l'ottimo linguaggio di Immanuel Kant — per il dibattito pubblico, che porta alla decisione democratica. Siamo tornati ai "centauri" di Hobbes e allo Stato, che decide per decreto cosa può essere legalmente detto — detto, non fatto — e cosa no. Tempi duri per la libertà e per la democrazia.

Il rapporto fra democrazia e natura umana La questione dell'esistenza e, soprattutto, della conoscibilità di quella particolare entità definibile come "natura umana", è assolutamente cruciale, per risolvere o almeno impostare correttamente il problema della democrazia. Per "natura umana", intendo quella particolare sintesi fra "prima natura" (o natura biologica) e "seconda natura" (o natura sociale), che diventa però in realtà una cosa unica, per cui, a rigore, né la sola natura biologica né la sola natura sociale esistono. Definirò Hologísmo la tendenza (errata) ad ipostatizzare, cioè a considerare isolatamente, la sola natura biologica e storzdsmo la tendenza (errata) a considerare isolatamente la sola natura sociale. Biologismo e storicismo, apparentemente opposti e contraddittori, sono in realtà due aspetti complementari dello stesso errore. Il popolo al potere Democrazia e filosofia

Tutto questo, apparentemente, non c'entra con la questione po-litica della democrazia. Non è così. I nemici teorici della democra-zia hanno a loro disposizione due presupposti filosofici - o pseudoscientifici - sulla natura umana, che spesso non rendono espliciti, ma che stanno egualmente alle spalle del loro atteggia-mento antidemocratico: in primo luogo, possono sostenere che la natura umana esiste, ma è egoista, malvagia e per nulla "sociale", quindi occorre un potere forte e dispotico per tenerla a freno e mantenere l'ordine, laddove la democrazia condurrebbe presto al-l'anarchia e al suo esito complementare, il dispotismo senza legge; i_n secondo luogo, e in modo solo apparentemente incompatibile con il primo atteggiamento, possono sostenere che qualcosa chia-mato "natura umana" non esiste affatto, ed è dunque possibile una tecnologia sociale artificiale basata sulla manipolazione illi-mitata, non importa se diretta ad una sorta di zoo umano globalizzato al servizio della mercificazione universale o di una utopia totalitaria di massificazione ideologica e un controllo poli-tico assoluto. Dal mio punto di vista, le utopie del consumismo capitalistico generalizzato e del comunismo politico da caserma e da convento sono politicamente opposte, ma filosoficamente com-plementari. — È dunque cruciale il tema del nesso fra natura umana e demo-crazia. Non a caso, questo nesso fu impostato in modo veramente geniale da Aristotele, che individuò nella natura umana qualcosa di intermedio fra gli animali e le divinità. La concezione del carat-tere "intermedio" della natura umana, non cessa di stupirmi per la sua incredibile precisione. In quanto "intermedio" fra gli ani-mali e le divinità, l'uomo è perennemente in tensione fra queste due polarità. I due elementi, che costituiscono questo carattere intermedio, sono per Aristotele la razionalità e la socialità, entrambe innate, il cui passaggio dal carattere innato al carattere pienamente acquisito è descrivibile filosoficamente come passaggio dalla po-tenza (dynamis) all'atto (energ-heía), ed è invece descrivibile politi-camente come educazione (paideza). 112 113

L'elemento della razionalità è definito da Aristotele in termini di Zoon logon echon, cioè di "animale dotato di logosl' . Il termine logos, tuttavia, è polisemantico, perché sig,nifica insieme ragione, linguag-gio e calcolo, oltre che conoscenza possibile della struttura ripro-duttiva del mondo naturale e sociale. In quanto animale razionale, dialogico e calcolante, l'uomo non presenta difficoltà insormontabili e derivanti da impedimenti insiti nella sua na-

tura, per giungere col-lettivamente ad una società razionale e dialogica. Essa può essere chiamata "democrazia", nella misura in cui l'associazione democratica del popolo, che in questo modo accede al potere, può esse-re definita come demos, e questo anche se, nello specifico, Aristotele non era favorevole al potere di "tutto il popolo", ma solo della "classe media" in quanto sua parte migliore. L'elemento della socialità è, invece, definito da Aristotele «zoon poldikàn», termine in genere tradotto come "animale politico". Per-. sonalmente, ritengo legittime tre diverse traduzioni complementari e convergenti: animale politico, animale sociale e animale comuni-tario. Per Aristotele, infatti, la dimensione comunitaria faceva tut-funo con quella che oggi chiameremmo dimensione sociale, in quan-to a quei tempi non era ancora pensabile, e pertanto neppure concettualizzabile, la separazione fra società (Gesellschaft) e comunità (Gemeínschaft) e, di conseguenza, fra individualismo e comunitarismo. Ritornerò più avanti su questi due punti di vista; per ora, basti ricordare che il "politico", per Aristotele, si fonda su una certa concezione della natura umana (la sua natura raziona-le intermedia fra animali e divinità) e, di conseguenza, della co-munità politica e sociale (solo gli animali e le divinità potrebbero, infatti, vivere isolati). Senza distruggere e deformare questa mirabile concezione an-tropologica di Aristotele, è impossibile fondare filosoficamente l'in-dividualismo politico moderno, che sta alla base della società ca-pitalistica. Bisogna colpire al cuore questa concezione, ed è ap-punto quello che farà il filosofo inglese del Seicento Thomas Hobbes. Per Hobbes, la concezione di Aristotele è addirittura un "moIl popolo al potere Democrazia e filosofia

stro" (una Empusa metafisica), e come mostruosità deve essere trattata. Al contrario, per instaurare una società politica stabile e sicura - e, per essere stabile e sicura, non potrà essere democratica e neppure consentire la libera espressione pubblica di opinioni non• autorizzate, e quindi pericolose - bisogna partire dal fatto che l'uomo, per natura, è cattivo (holm hominí lupus) e, da questa base, si può poi disegnare una società sicura. Ho già rilevato che il modello politico di Hobbes, che come vedremo non è quello di Marx, sarà invece quello del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991). La schizofrenia di questo modello sta nel fatto

che, mentre da un lato si ostentava teoricamente una concezione ottimistica della natura umana ricavata da Rousseau e da Marx, dall'altro ci si ispirava, nel concreto, ad una concezione fortemente pessimistica di tipo hobbesiano, secondo la quale, se la gente non veniva tenuta sempre sotto controllo, si sarebbe lasciata andare verso l'anarchismo e/o verso la restaurazione del capitalismo. L'homo comunisticus novecentesco nascondeva così, sotto la maschera ottimistica russoviana, un volto pessimistico hobbesiano. Detto ciò, però, bisogna aggiungere che questo era dovuto al "difetto di fabbricazione" strutturale della macchina politica del comunismo novecentesco, cioè all'incurabile incapacità di egemonia culturale del soggetto operaio, salariato e proletario, il soggetto meno egemone dal tempo delle piramidi egizie e degli zigg-urat babilonesi. A questo punto, bisogna cercare di impostare la questione della natura umana in modo filosoficamente corretto. Mi permetto, allora, di iniziare con una citazione latina di Nicola Cusano, pensatore cristiano del Quattrocento. Si tratta di un bel latino medioevale di facile comprensione: «... polest igitur homo esse humanus deus atque deus humaniter,potest esse humanus ang-elus, humana bestia, humanus leo cui ursus, cui a/1nd quodcumque». 114 115

Per Cusano, tuttavia, il fatto che l'uomo potesse essere un dio umano o in forma umana, un angelo umano, una bestia umana, un leone o un orso umano, o qualsiasi altra cosa, non significa che fosse una sorte di recipiente vuoto che veniva riempito dalle circostanze. Cusano aveva infatti un concetto universalistico di "umanità" a fianco di quello di uomo, ed infatti diceva: «... non ergo activae creationts humanitatts alius extatfints quam humanítas».

Questo significa avere un concetto ben preciso di umanità, perché, secondo Cusano, non esiste nessun altro fine della creazione attiva dell'umanità all'infuori dell'umarùtà stessa. Non si poteva dire meglio. Il carattere "plastico" e non predeterminato di quello che in seguito Marx, sulla scorta dell'idealismo di Hegel, definirà "ente naturale generico" (Gattung-swesen), deriva appunto dalla differenza ontologica fra il generico e lo specifico. L'animale è, infatti, un ente naturale specifico, in quanto la termite non fa termitai romanici, gotici e barocchi e la formica non fa formicai schiavistici, feudali, capitalistici e comunisti, ma sia la termite

che la formica producono le loro condizioni di vita secondo l'informazione genetica rigida, predeterminata dalla loro specie. L'uomo, invece, in quanto specificamente animale razionale e sociale, si produce nella sua plastica e creativa genericità, e in questa genericità si perde e si ritrova, nel processo correlato di alienazione (Entfremdung) e di autocoscienza (Selbstbewusstein). Inoltre, l'umanità ha un fine in se stessa e non esistono fini sovrapposti esterni ad essa, del tipo regno di Dio o comunismo. L'idea, poi, che il fine dell'umanità, anziché l'umanità stessa, sia la crescita economica illimitata con la diversificazione esportenziale dei consumi, rappresenta una forma di idolatria, nei confronti della quale il Baal ed il Moloch degli antichi erano ancora benevole divinità razionali. C'è, allora, un filo, che collega idealmente Aristotele, Cusarto, Spinoza, Hegel e Marx? A mio avviso, sì, anche se ovviamente non credo alle cosiddette "grandi narrazioni continue", giustamente criticate da Jean-Frarmis Lyotard. In questa concezione, il metodo democratico resta lo scenario migliore per il processo Il popolo al potere

educativo, che progressivamente costituisce l'umanità, intesa come società universalistica razionale. Questo processo, tuttavia, è, per sua natura, interminabile e, nello stesso tempo, si determina spazialmente e temporalmente di volta in volta. Esiste, dunque, una natura umana e la sua esistenza è una ga-ranzia contro ogni utopia regressiva di fine della storia. Ogni vol-ta, i provvisori vincitori di un set tennistico proclamano finita per sempre la partita e ogni volta trovano intellettuali ambiziosi e gior-nalisti ben pagati, pronti a dar loro ragione. La natura umana, però, si vendica sempre di loro. È la natura umana, il fattore di apertura della storia", non le classi sociali investite di missioni salvifiche metastoriche.

Un'appendice al problema del rapporto fra democrazia e natura umana. La critica al mito prometeico del cosiddetto uomo nuovo

Esiste una pericolosa deformazione della teoria della natura umana, che storicamente è servita da legittimazione filosofica agli esperimenti ingeg-neristici e tecnologici, che hanno puntato sulla indefinita plasmabilità dell'uomo stesso: si tratta del mito del co-siddetto uomo nuovo, l'uomo portatore di progetti utopici e prometeici, in grado di sostituire Dio. Questa concezione dell'uomo nuovo deriva probabilmente dalla concezione religiosa dell' uomo dilato dopo l'iniziazione misterica ad una gnosi salvifica. Ancora una volta, l'apparente ateismo del-la teoria dell'uomo nuovo (da Ernst Bloch ad Ernesto Che Guevara) non sarebbe che una secolarizzazione imperfetta della teoria ultrareligiosa dell'uomo rimi° dopo la conversione salvifica. Tutto questo eliminerebbe, di fatto, il tragico dalla vita umana, perché il tragico si basa, appunto, sulla consapevolezza che la vita umana è strutturalmente aporetica e non è possibile, in essa, alcuna vera 116 117 Democrazia e filosofia

salvezza definitiva. In modo a mio avviso molto convincente, Cornelius Castoriadis ha sostenuto che la tragedia greca e, più in crenerale, il teatro tragico come cerimonia pubblica civica erano strutturalmente democratici, perché riconfermavano il carattere indefinitamente ed infinitamente aporetico della condizione uma-na, cui la democrazia non apportava una "soluzione", ma soltan-to urto scenario concordato. Sul rapporto molto stretto fra il teatro greco — sia tragico che comico — e la democrazia politica, molto è stato scritto e vi sono pochi dubbi sul nesso con la filosofia. Personalmente, sono tal-mente convinto di questo nesso che considero l'attuale crisi della democrazia politica intimamente legata alla crisi della pratica "veritativa" della filosofia, dichiarata dalla corporazione accade-mica dei filosofi in conformistica transumanza da una pratica "continentale" ad una pratica "analitica" — metafora del loro passaggio spirituale dall'Occidente europeo al vero e proprio post-Occidente americano — ed intimamente legata anche alla crisi del teatro, ridotto ormai al dominio delle simulazioni surreali di un Menandro postmoderno. Per capire la crisi della democrazia, i politologi formalisti alla Sartori e alla Bobbio sono del tutto inuti-li, mentre è molto più istruttivo leggere i palinsesti delle reti te-levisive dette "generaliste" e il chiacchericcio scetticheggiante dei paginoni culturali (?) dei quotidiani del "politicamente corretto" laico di centro-sinistra, tipo Ulivo Mondiale o Riformismo

Globale. Torniamo, però, alla vuota utopia dell'uomo nuovo, che, sosti-tuendosi all'uomo vecchio, dovrebbe riuscire a costruire il vero mon-do nuovo. Come ho detto, non ce l'ho affatto con gli utopisti con-fusionari, siano essi specialisti in filosofia come Ernst Bloch oppu-re uomini pratici e rivoluzionari generosi come Ernesto Che Guevara; intendo semplicemente ribadire che l'uomo nuovo non esiste, è una utopia burocratica, e le utopie burocratiche non ser-vono alla pratica democratica, che, come ha rilevato Castoriadis, si nutre piuttosto di autocritica comica e di aporeticità tragica. In proposito, può essere interessante segnalare che l'utopia dell'uoIl popolo al potere Democrazia e filosofia

mo nuovo che riparte da zero, oltre ad avere la sua matrice nella palingenesi religiosa, ha anche un pedig-ree insospettabile, cioè la teoria ultraborghese e ultracapitalistica della tabula rasa di John Locke. In sede di pura e semplice teoria della conoscenza, ritengo che la teoria di Leibniz delle cosiddette "piccole percezioni" fosse più giusta delle teorie di Cartesio sulle "idee innate" e delle teorie di Locke sulla cosiddetta tabula rasa. Da quello che riesco a capire, sono d'accordo con lo scienziato americano Steven Pinker e con il linguista Noam Chomsky sulla struttura innatistica di molte capacità non solo conoscitive, ma anche morali della natura umana, e non ritengo affatto questo particolare "innatismo" in contrasto con la libertà umana. Non è questo, però, il tema del presente saggio. Dal momento che parliamo di democrazia, è invece interessante studiare geneticamente - nel senso di genesi storica e sociale temporalmente determinata - l'origine della teoria di Locke della tabula rasa, cioè il fatto che la nostra mente sarebbe un recipiente vuoto, su cui il mondo esterno "scrive" la nostra intera costruzione del mondo. I sostenitori, spesso ultracomunisti, dell'uomo nuovo hanno infatti in comune con Locke la teoria della tabula rasa, su cui la storia scriverebbe l'intera vicenda dell'emancipazione umana finale. 118 119

Da come la vedo io, la critica di Locke all'idea di sostanza non è che una metafora della sua critica sociale alle società "sostanziali", cioè comunitarie, di

tipo feudale e/o popolare. Dal momento, cioè, che le società "sostanziali", quindi comunitarie, dovevano essere sostituite da una nuova società non più sostanziale, ma retta da una rete di rapporti mercantili, qual era la nascente società capitalistica inglese, la metafora filosofica di sostanza era invitata a sgombrare la scena della pura teoria, così come le comunità sostanziali erano invitate a sgombrare la scena, invasa dalla nuova produzione sociale individualistica delle merci. Nello stesso tempo, il dire che la mente umana, anziché poggiare su un fondamento sostanziale come la "natura umana", era un foglio bianco (tabula rasa), significava che a scriverci sopra sarebbe stata la nuova società borghese-capitalistica. Non c'è nulla di più ridicolo, soprattutto nella storia sociale della filosofia e dei suoi pervertimenti ideologici, dell'assistere al passaggio di "testimone" dello stesso contenuto simbolico dal capitalismo liberale più radicale all'estremismo utopicomessianico più integrale. Dalla tabula rasa all' uonzo nuovo c'è solo un passo. L'interminabile battaglia fra l'uomo vecchio e l' uomo nuovo è solo un canovaccio di una commedia dell'arte, che vede impegnate due "maschere di carattere" (Charaktermasken): la Tradizione e il Progresso. In quanto alla Tradizione, nessuno è in grado di fissarne temporalmente il punto d'inizio, cioè da dove possiamo farla cominciare perché diventi normativa di determinati comportamenti etico-politici; in quanto al Progresso, nessuno sa dire dove dovrebbe arrivare e soprattutto perché. La democrazia non ha bisogno di questo canovaccio, soprattutto se la Tradizione si dichiara "di destra" e il Progresso si proclama fieramente "di sinistra".

Il rapporto fra democrazia ed universalismo È, la democrazia, un valore universale? Ecco la tipica domanda da un milione di dollari. Per poter impostare la discussione e dare anche la mia risposta per quello che vale - bisogna prima ripercorrere brevemente la vecchia questione filosofica dell'esistenza o meno degli "universali". Come è noto, le alternative fondamentali, in proposito, furono date nell'antichità greca dal triangolo filosofico costituito dai sofisti, da Platone e da Aristotele. La posizione dei sofisti era che non esiste, in realtà, alcun "universale" e che ciò che viene frettolosamente battezzato come tale non è che il prodotto di

una convenzione sociale relativa al tempo ed allo spazio. Come scrisse Erodoto, gli indiani Calani usavano mangiare i loro morti per non lasciarli Il popolo al potere Democrazia e filosofia

ai vermi, i Greci facevano il contrario; ognuno considerava il com-portamento dell'altro orribile e non era possibile trovare un crite-rio razionale, che desse ragione agli uni e torto agli altri, o vicever-sa. La posizione di Platone, invece, era che l'Universale esisteva ve-ramente ed era possibile coglierlo con il metodo della dialettica, an-che se non valeva la pena farlo per tutte le cose esistenti (dall'ac-qua marina al bastone), ma solo per cose come il Vero, il Giusto, il Bello. La posizione di Aristotele, intermedia fra quella dei sofisti e di Platone, era che l'universale era una realtà solo virtuale e meri-tale, non separata dalle realtà particolari, in quanto frutto di un'operazione di astrazione; che poi questa costruzione astrattiva, una volta portata a termine, fosse in qualche modo "revocabile" - si accerta che cosa sia il Bene Politico in senso universalistico, ma poi la generazione posteriore smonta questa universalità e ne fa un'altra - oppure no, è concetto legato all'interpretazione, che diamo noi di Aristotele. Per farla breve in questa sede, la mia per-sonale interpretazione di Aristotele è che egli era molto più vicino a Platone che ai sofisti. La religione cristiana e poi quella musulrnana favorirono, ovvia-mente, la posizione universalistica. È chiaro irtfatti che, se Dio esi-ste, le sue "idee" sono necessariamente universali. L'universale, anzi, può essere definito come il fatto che le opinioni di Dio coincidono con le sue verità, dal momento che Dio è l'unico ente possibile che coincide con l'Essere, e l'Essere è l'unica realtà in cui l'opinione coin-cide con la verità. È vero che nel Medioevo ci furono posizioni filo-sofiche nominalistiche, che criticavano l'idea dell'esistenza degli universali - francescanesimo spirituale e pauperistico, Guglielmo da Occam ecc. - ma, a guardare bene, neppure questo nominalismo estremo negava veramente l'universale, in quanto lo vedeva signatus (cioè incarnato e determinato) nel singolo individuo partecipe del-l'universale stesso: la Chiesa invisibile dei veri cristiani opposta alla Chiesa ufficiale, falsamente universalistica; il vero francesca-no spirituale che seg-uiva la paupertas e la sírnplícitas di Cristo ecc.

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Questo nominalismo alla Occam non ha, dunque, nulla a che vedere con il nominalismo anti-universalistico alla Kelsen o alla Rorty. Ho aperto questa parentesi filosofica per far notare al lettore come, in un certo senso, tutto il pensiero moderno - da Hobbes in poi - in quanto pensiero anti-greco e anti-cristiano, nasca e si sviluppi come anti-universalismo filosofico programmatico, e come persino pensatori apertamente universalisti come Spinoza, Kant, Hegel e Marx facciano parte di una minoranza e non della corrente principale. Questo non è un caso, perché l'avvento del dominio della merce capitalistica generalizzata fa venir meno la necessità di legittimazione sociale ín nome di universalità reli-giose e, di riflesso, relatívizza il rapporto del singolo individuo con la totalità sociale, riducendolo al relativo potere di disposi-zione sulle merci prodotte, unito al relativo potere di acquisto sulle merci vendute. Nello stesso tempo, in questa nuova orgia bacchica di relativismo nichilistico, resta paradossalmente la sola pretesa universalistica che interessi al sistema economico capitali-stico, il fatto cioè che questo sistema possa, sappia e debba esten-dersi all'intero Pianeta. Tutto è dunque rela‐ tivo e la sola cosa univer-sale è la prescrizione, più o meno coattiva, alla globalizzazione. All'inizio, nell'età moderna propriamente detta, prima che si ge-neralizzasse l'espansione imperialistica europea nel mondo inter-no, si tratta solo di urta sorta di guerra civile ideologica europea fra assolutismo e liberalismo, poi fra liberalismo e democrazia, e infine fra liberaldemocrazia e comunismo. Le cose cambiano quan-do, per ragioni geografiche, la guerra civile ideologica europea diventa mondiale con l'imperialismo e, in seguito, cori la globalizzazione. Dal punto di vista filosofico, la domanda può es-sere posta in questo modo: concetti e realtà, che il mondo europeo, e poi europeo-americano, hanno ritenuto "universali", lo sono veramente, quando pretendono di estendersi al mondo arabo, al-l'India, alla Cina, al Giappone ecc.? Questo presuppone, dunque, che tutte le culture del mondo siano reciprocamente traducibili e commensurabili, una volta, Il popolo al potere Democrazia e filosofia

ovviamente, che si siano fatte le traduzioni e le "inculturazioni" necessarie. I missionari cristiani e musulmani, ad esempio, sanno bene che devono "in-

culturarsi" - questa è esattamente la parola che utilizzano - in un dato ambiente, per poter aver successo nel loro proselitismo nell'ambiente politeista circostante, ma poi, una volta "inculturati", iniziano ad affermare il loro "universalismo" da sempre professato. Sono, però, realmente traducibili e commensurabili, le varrie culture mondiali, o sono reciprocamente incommensurabili al punto che le "differenze", di cui sono portatrici, non potranno mai essere conciliate? Esiste una posizione radicalmente relativista, definita "posizione Kuhn-Whorf", che sostiene la radicale incommensurabilità fra le culture. Kuhn è un epistemologo, che ha studiato i paradigmi scientifici delle scienze naturali, giungendo alla conclusione che sono tra loro incommensurabili e che, pertanto, la loro successione non è dovuta ad opere di reciproco convincimento, ma a vere e proprie "rivoluzioni" scientifiche, per cui, ad un certo punto, un modello è abbandonato da una comunità scientifica e si passa poi ad un altro, e così via all'infinito. Whorf è invece un linguista, che ha studiato in particolare le lingue degli Indiani d'America, giungendo alla conclusione che i nomi degli oggetti possono essere tradotti, ma le concezioni del mondo no: il fatto che queste concezioni siano intraducibili, porta alla conclusione che i vari modelli religiosi e filosofici sono incommensurabili, per cui questa incommensurabilità, dimostrata per via epistemologica (Kuhn) e linguistica (Whorf), rende improponibile ogni pretesa universalistica. Questa introduzione filosofica mi sembra sommaria, ma sufficiente. Allora, si pone la domanda: alla luce delle considerazioni sopra svolte, possiamo considerare la democrazia un'idea universalistica, ovvero universalizzabile, oppure è meglio che abbandoniamo l'infondata pretesa eurocentrica, di fatto colonialistica e imperialistica? Dirò subito la mia opinione in proposito: personalmente, credo all'esistenza filosofica degli universali veritativi; credo ai processi progressivi di confrontabilità, commensurabilità e traducibilità delle culture, sulla base dell'esistenza di una generica comune natura umana e, nello stesso tempo, non credo che la specifica forma assunta dalla democrazia greca e poi europea possa, in quanto tale, avere la pretesa di universalità, tanto meno poi di universalizzazione coattiva e prescrittiva, che considero assolutamente inaccettabile e contro cui è legittima addirittura una guerra giusta di difesa, se per caso un esercito o un'alleanza di eserciti, più o meno "volonterosi", la vuole imporre. Il problema

può allora essere utilmente scomposto in tre parti:

1. 2.

perché è plausibile sostenere l'esistenza di universali veritativi; perché l'idea di democrazia è un universale veritativo universalizzabile (senza violenza), ma le forme politiche occidentali di democrazia, comprese le migliori, non lo sono;

3.

perché è necessario opporsi nettamente ad ogni "esportazione" della democrazia in Paesi in vario modo recalcitranti.

Iniziamo dal primo punto. Il grande filosofo tedesco Kant si pose, a suo tempo, la domanda: che cosa posso sperare? Ovviamente, per "sperare", egli intendeva una speranza razionale, non certo che i coccodrilli potessero laurearsi in filosofia, oppure che il fango potesse diventare oro. Ebbene, per Kant era possibile, razionalmente, sperare che il genere umano potesse gradatamente progredire verso il meglio. Si noterà che Kant presuppone qui almeno due "universali", cioè il "genere umano" e il "meglio", ed è perciò curioso che talvolta i relativisti e gli scettici utilizzino il cosiddetto "criticismo" kantiano contro gli universalisti filosofici dichiarati, come Hegel e Marx. Ora, io credo che Kant imposti benissimo la questione: noi non possiamo essere sicuri che un processo virtuoso di universalizzazione mondiale di quanto riteniamo essere razionalmente il "bene politico" possa compiersi, ma possiamo legittimamente sperare che questo avvenga. I nostri "avversari filosofici" - non nemici, in filosofia si hanno solo avversari, mai nemici 123 122

Il popolo al potere

sono di due tipi: coloro che sono sicuri che questo non avverrà mai (caratte-

re malvagio della natura umana) e coloro che sono sicuri che ciò infallibilmente avverrà (messianici religiosi di vario tipo, marxisti-leninisti sopravvissuti ecc.). Quali sono le basi razionali, che sorreggono questo sperare? Direi le caratteristiche della natura umana razionale e sociale, così come sono state precedentemente ricordate nelle concezioni di Aristotele e di Cusano. A differenza dell'ipotesi ultrarelativista di Kuhn-VVhorf, è possibile sostenere che le diverse culture storiche e geografiche siano reciprocamente traducibili e commensurabili. Il filosofo india-no Raimundo Panikkar, che per conto dell'UNESCO si occupa da decenni della commensurabilità filosofica delle culture mondiali, ha in proposito parlato di enneneutíca día-topica e di equivalente omeomorfo. Niente paura, si tratta di concetti semplicissimi. L'ermeneutica dia-topica (l'interpretazione e la traduzione da un luogo all'altro) sigmifica che occorre tradurre non solo le parole (dal kg-os greco al karma indiano al tao cinese ecc.), ma anche il contesto generale di significato, che fa da presupposto all'esatta comprensio-ne, e l'equivalente omeomorfo è appunto la ricerca dell'equivalente concettuale di idee, sorte in contesti storici e geografici indipendenti (ad esempio, proprio il log-os greco e il tao cinese). Kuhn e Whorf avrebbero ragione, se non esistesse un'unità ra-zionale del genere umano, che sta sotto (e sopra) le varie culture storiche. Certo, pensare che Confucio, Buddha, Platone e Gesù di Nazaret_h potrebbero capirsi im_mediatamente dopo aver indossa-to le rispettive cuffie per la traduzione simultanea (se possibile tra-dotta in un inglese positivistico e operazionistico) è una sciocchez-za. Ci vorrebbe il tempo necessario per l'apprendimento di tutte le ling-ue straniere, ma alla fine sono sicuro che si capirebbero: è solo questione di pazienza e di intelligenza. In sostanza, se è vero che l'uomo è un ente sociale (polítzkòn zoon), un ente razionale (zoon log-on echon), un ente naturale generico (Gattungswesen) e che, infi-ne, ciò che c'è di specificamente umano in questa genericità è pro-prio il fatto che la sua natura sociale e razionale ci consente di Democrazia e filosofia

124 125

sperare che il genere umano vada verso il meglio (Kant) e possa diventare un angelo umano, anziché una bestia umana (Cusano), allora la tesi filosofica

dell'universalismo veritativo ha dalla sua un ottimo apparato argomentativo. Passiamo al secondo punto. In base alle considerazioni svolte in precedenza, la democrazia ha, nel suo stesso concetto, la proprie-tà di contenere l'aspetto generico e l'aspetto specifico. L'aspetto generico, perchè è un metodo per la risoluzione pacifica e concor-data dei conflitti sociali interni alla comunità politica mediante il metodo della presa delle decisioni a maggioranza, sulla base della "mescolanza" dei cittadini, precedentemente riuniti in aggregati direttamente comunitari (tribù, famiglie, stirpi, gruppi linguistici e religiosi ecc.). L'aspetto specifico, perchè non è una forma di governo e di Stato, ma una manifestazione pratica e concreta di prevalenza del demos, inteso come l'insieme dei più poveri e svantaggiati. Questi due aspetti si trovano in forme diverse nella storia di qua-si tutte le culture, dalle isole del Pacifico all'antica Cina, dall'anti-ca India all'antica Persia. Certo, il fatto di giudicare a maggioran-za, oppure di far prevalere il demos non comporta assolutamente la prevalenza del Giusto. Socrate è condannato per tradimento (inesistente), Gesù per terrorismo (inesistente), i vecchi Esquimesi erano accompagnati, a maggioranza democratica, a morire sulla banchisa polare e a maggioranza sono sempre stati fatti riti di sa-crifici umani fra le grida entusiaste dell'eterna irredimibile pleba-glia (il lettore è avvertito, una volta per tutte, che uso il termine plebe in senso spirituale e morale, e non nel senso dell'anagrafe tributaria). Nello stesso tempo, è possibile razionalmente sperare che la plebe possa diventare popolo proprio sulla base dell'educa-zione democratica. Ecco, allora, -una nuova definizione di democrazia: la democrazia è quel processo educativo comunitario, in cui, sulla base della natura razionale e sociale dell'ente naturale generico, la plebe diventa popolo, e il popolo va al potere, in quan-to rappresentante del genere umano. I

Il mito pseudo-universalista dell'esportazione coloniale e violenta della democrazia Nel 1991, l'anno epocale della tragicomica dissoluzione del comunismo sto-

rico novecentesco veramente esistito, si aprì anche un festíval internazionale di coreutica politica, in cui ci si scatenò in una vasta gamma di danze tribali, dai cori funebri di prefiche piangenti più o meno stalinoformi fino alle danze della pioggia di entusiasti intellettuali neoliberali, che portavano ancora sul sedere la polvere dei banchi delle assemblee sessantottine inneggianti a un comunismo ancora più egualitario di quello di Beria e di Poi Pot. Al termine di questa orgia coreutica, e dopo aver consumato la sbronza per la fine delle fastidiose grandi-narrazioni e per l'avvento di un eterno presente senza storia, ci si accorse che il mondo era cambiato. Al mondo delle utopie, smentite dal duro verdetto della Storia e soprattutto dei grandi magazzini gravidi di merci, subentrò il mondo della fine del diritto internazionale moderno. Il diritto internazionale moderno era nato nel 1648 con le paci di Westfalia, non tanto sulla base della assoluta sovranità territoriale degli Stati con annesso diritto incontrovertibile di eseguire i peggiori genocidi interni, quanto sulla base della fine delle guerre di religione o, più esattamente, della fine — almeno auspicata, se non proprio realizzata — della legittimazione della "esportazione armata della religione giusta contro quella sbagliata" come motivazione necessaria e sufficiente per una guerra fra Stati. La nascita di un vero e proprio diritto internazionale moderno non portò, ovviamente, alla fine delle guerre, che anzi per quasi due secoli sembrarono infittirsi, anche perché al vecchio teatro bellico europeo si aggiunse la competizione coloniale, che vide infine l'affermazione dell'Inghilterra come superpotenza marittima mondiale. Nello stesso tempo, l'eliminazione almeno di una particolare tipologia di guerre, quelle a legittimazione religiosa, deve essere considerata come un fatto universalisticamente positivo. La sola

guerra giusta diventava dunque la guerra di difesa pro aris et focz:s contro un'aggressione ingiustificata e motivata con false accuse, 126

mentre cessava di essere "giusta" quella fatta per esportare la "vera religione" o, peggio, la "unica e vera interpretazione della vera religione". I contemporanei videro, correttamente, nella logica dei trattati di Westfalia del 1648, la vittoria della concezione eaiusnaturalistica di Grozio. Il 1991 vide, invece, la restaurazione, prima furbesca ed implicita e poi sem-

pre più aperta e spudorata, della dottrina della guerra giusta come guerra della "vera religione" contro gli infedeli. Ma qual era, questa nuova religione? Non certo una variante delle vecchie religioni monoteistiche di origine "abramitica", che la nuova legittimazione "laica" e postmetafisica del potere economico aveva già da tempo spodestato, riducendole a grandi agenzie rituali per la gestione organizzata degli inestirpabili bisogni delle masse di dare un senso al mondo — l'

homo sapiens è infatti, per sua natura, un

portatore di Sinngebung, cioè di produzione di senso a ciò che, per sua natura puramente "scientifica", non lo avrebbe — oppure a strutture caritative deputate a supplire lo smantellamento neoliberale del vecchio welture assistenziale. Il circo mediatico torna sempre su Ratzinger benedicente e sul Dalai Lama orante e sorridente, ma deve anche sempre essere ben chiaro allo spettatore che la sola cosa che conta sono le decisioni anonime dei mercati finanziari internazionali. Non esiste più il Dictatus papae di Gregorio VII, ma solo il Díctatus

FMI e WTO, che non è più scritto in latino, ma in inglese. L'uomo non è più religatus da invisibili lacci ultraterreni, ma da visibilissimi lacci economici e finanziari. Di fronte a questa realtà innegabile, anche la religione deve cambiare forma o, più esattamente, deve nascere una nuova religione. Questa nuova religione (nova

religM è la religione dei diritti un-

zani Come le altre, ha un clero e, più esattamente, un clero secolare (gli apparati mediatici, in particolare quelli televisivi) e un clero regolare (gli apparati universitari di storia, filosofia e scienze politiche e sociali, incaricati di dare ragione al vincitore con acconci argomenti 127

Il popolo al potere

di vario tipo). Il popolo dei fedeli, che sta sotto questo doppio clero, non può ovviamente essere un popolo di cittadini democratici, ma è integralmente post-democratico - uso qui la corretta espressione di Colin Crouch - cioè un aggregato di individui, resi prima politi-camente impotenti e poi artificial-

mente risocializzati in cerimonie pubbliche di autorappresentazione estatica (sostanzialmente, com-plementari: le elezioni uninominali maggioritarie con classi politiche preventivamente omogeneizzate e i concerti rock, se possibile ispira-ti ipocritamente a cause filantropiche). 11 sovrano, il clero e i fedeli devono comunque essere simbolicamente unificati da una sola reli-gione, quella appunto dei Diritti Umani, ed essendo questi univer-sali per definizione - che cosa c'è di più universale dell'uomo stes-so? - da questa religione deriva necessariamente il diritto di invia-re nella terra degli infedeli dei missionari armati, con il clero debitamente incorporato (embedded) nelle strutture militari. Distruzione del diritto internazionale e professione di questa nuo-va religione dei diritti umani, vanno ovviamente insieme. Gli intel-lettuali, che hanno rifiutato di far parte di questo nuovo clero seco-lare e regolare sono davvero pochi - ricordo qui il francese Alain de Benoist e l'italiano Danilo Zolo, ma avrò anche la presunzione di autocitarmi, pur sapendo che non è troppo di buon gusto - e sono comunque esclusi dal circo mediatico, se non come periferiche lunatic fring-es (frange folli e pittoresche). Per fortuna, si va facen-do lentamente strada, anche se per ora solo presso piccole minoranze coraggiose, l'idea che questa nuova religione espansionisti-ca è un nemico - si noti bene: non un avversario filosofico cavalle-resco, ma un nemico odioso e pericoloso - ed è, anzi, oggi forse il nemico principale di quello, che mi ostino a pensare si possa con-tinuare a chiamare "genere umano". Questa apparente "religione umanistica" non è il frutto di un presunto superamento filosofico universalistico della vecchia su-perstizione, ma la secolarizzazione di un vero e proprio monoteismo idolatrico. Se questo poi realizzi un triste "inveramento" del laicismo illuministico oppure, invece, un suo abbietto tradimento 128 129 Denzocrazia e filosofia

- personalmente, opto per la seconda soluzione - lo lascio alla libera interpretazione del lettore, che presuppongo colto e, soprat-tutto, libero nei giudizi e nei convincimenti personali.

Credo di essermi espresso con sufficiente chiarezza. Detto questo, non ritengo che il modo migliore di opporsi politicamente alla religione idolatrica dei diritti umani, con annesso bombardamento a geometria variabile, in cui è il potere a decidere chi è umano e chi non lo è - il che mi ricorda irresistibilmente il personaggio comico del ragionier Fantozzi di Paolo Villaggio, che borbotta querimoniosamente «com'è umano, lei!» - sia la riproposizione del relativismo. Certo, so bene che chi propone di fatto una forma sofisticata di relativismo differenzialistico sul diritto di ogni cultu-ra a non essere forzatamente "omologata" da un'altra con prete-sti pseudo-universalistici, lo fa spinto da sacrosante rag,ioni filosofi-che e politiche (ad esempio, il benemerito pensatore "differenzialista" Alain de Benoist). Credo però che questa via, più che giustificabile se si pensa alla congiuntura storica barbarica in cui ci troviamo, non sia filosoficamente la migliore; essa comporterebbe, di fatto e di diritto, l'abbandono di tutte quelle argomentazioni universalistiche, cui ho fatto riferimento nei paragrafi precedenti. Il problema, a mio avviso, è quello di non buttare via il bambino con l'acqua sporca. La religione interventista ed imperialista dei diritti umani a geometria variabile degli USA, secondo la quale l'assistenza sanitaria pubblica gratuita non è un diritto umano, mentre la pornografia televisiva intervallata dalla pubblicità lo è, è indubbiamente acqua sporca. Nello stesso tempo, l'ideale kantiano (e marxiano) dell'unificazione pacifica del genere uma-no sulla base del diritto internazionale - quindi senza "sciogliere" popoli e nazioni in un unico frullato multiculturale mondiale americanizzato - non è acqua sporca, ma resta u_n bambino. Gra-cile, ma pur sempre un bambino. Faccio qui il noto esempio della ablazione del clitoride delle fem-mine in certe culture. Vi sono, però, anche culture che annegano le bambine appena nate o negano l'assistenza sanitaria agli anziaIl popolo al potere

ni. Come si può sostenere che il diritto assoluto alla differenza rende impossibile affermare l'esistenza di un universale veritativo e normativo? Secondo me, è vero che l'infibulazione femminile è cattiva e che la sua cessazione concordata è buona. Nessun relativista potrà mai convincermi del contrario, e non potrà farlo, perché dovrebbe convincermi del fatto che un'abitudine sociale, sorta in un determinato contesto storico per sancire una determina-

ta inferiorità femminile - in questo caso, lo scoraggiamento della sua sess ualità - non può essere criticata con motivazioni universalistiche. Se così fosse, come potremmo criticare gli Aztechi, se fanno sacrifici umani? Come potremmo criticare gli antichi Romani, che schiavizzavano intere popolazioni? Come potremmo criticare gli Indù, se praticavano il rogo delle vedove sulla pira del marito defunto? Come potremmo criticare gli stessi bombardatori odierni, catafratti nella loro stolida sensazione razzista di superiorità culturale? È evidente che non potremmo. Bisogna, allora, separare nettamente la critica della religione idolatrica dei diritti umani, del loro clero corrotto e supponente e del loro popolo cognitivamente ed emozionalmente piallato dalla manipolazione televisiva, dal problema filosofico della verità, della natura umana e dell'universalismo dialogico e pacifico correttamente inteso. Terminiamo ora la discussione filosofica sulla democrazia con due temi ulteriori: un "ritorno" sull'originale pensiero di Marx e una discussione sul rapporto fra democrazia ed individualismo prima, e comunitarismo poi.

Il pensiero originale di Karl Marx e il tema della democrazia politica Il problema del rapporto fra il pensiero originale di Marx ed il tema della democrazia politica è, a mio avviso, cruciale e un continuo "ritorno" su di esso è un dovere etico e intellettuale. 130 131 Democrazia e filosofia

Il fatto che trent'anni fa il marxismo fosse di moda e invece oggi provochi smorfie di compatimento neo-liberale nella comunità intellettuale politicamente corretta, è per me del tutto irrilevante. Fra mezzo secolo se ne riparlerà. Come ho già fatto notare nel primo capitolo, non si tratta di una operazione ideologica per "innocentizzare" Marx dei crimini commessi a suo nome. Io sono uno studioso, non un commissario di polizia o un giudice istruttore. Si tratta di ristabilire i termini minimi del problema, che consistono nella chiara separazione metodologica e concettuale fra il paradigma originale di Marx e le

vicende politiche del cosiddetto "comunismo storico" novecentesco. In proposito, scusandomi per l'inevitabilità di alcune ripetizioni, riassumerò le vicende di quest'ultimo in tre punti - storico, politico e sociale - e da questo utile riassunto risulterà una differenza radicale con il pensiero originale di Marx. C'è, però, una premessa da fare. Io non prometto al lettore di 'riassumere il vero Marx. Nessuno potrebbe farlo e nessuno lo ha fatto mai, neppure il suo grande amico e collaboratore Engels. E nessuno potrebbe farlo, perché Marx a differenza, per esempio, dei filosofi Spinoza e Kant e degli economisti Smith e Ricardo - non ha maisistematizzato il suo pensiero, lasciandolo aperto come un cantiere in costruzione. Da questo cantiere è possibile desumere progetti diversi ed addirittura opposti, anche se in questa sede non c'è ovviamente lo spazio per dimostrarlo (ma non è difficile farlo). Marx non si autopercepiva come un dottrinario "perfetto" - malgrado i suoi sciagurati seguaci lo abbiano eretto a sostituto mortale di una divinità salvifica ed infallibile - ma come uno dei primi scopritori di un continente scientifico nuovo e non ancora esplorato (uso qui la metafora, a suo tempo proposta da Louis Althusser). Ogni esposizione di Marx è dunque necessariamente una interpretazione. Chi vi promette il vero Marx, deve essere invitato a consacrarsi alle profezie di Nostradamus. Torniamo ora al comunismo storico novecentesco, di cui mi sono già occupato nel precedente capitolo. Oggi, il bilancio di questo Il popolo al po ere Democrazia e filosofia

gigantesco fenomeno è offuscato e, a mio avviso, reso in concreto impossibile, dal fatto che ogni commentatore si muove sulla base di pregiudizi, derivati dal suo essere preventivamente filocomunista

1.

anticomunista, di sinistra o di destra ecc.; i più astiosi, e pertanto i più inattendibili, sono gli ex-comunisti riciclati e pentiti; i mai-sta-ticomunisti, non importa se religiosi, anarchici o liberali, sono in proposito mille volte più credibili. Passiamo ora, però, alla sintesi in tre punti della questione del comunismo storico novecentesco, la cui fine ha dato luogo al festiva/ coreutico, di cui ho parlato.

Dal punto di vista storico, il comunismo novecentesco non deri-va né da Marx né dal canone marxista ortodosso costruito fra il 1875 ed il 1895 da Engels e da Kautsky, che ipotizzava la forma-zione della nuova società comunista come frutto inevitabile della crescita delle forze produttive sociali, a

partire dai punti alti della società capitalistica sviluppata. Si trattava di una concezione in-dubbiamente influenzata dall'evoluzionismo di Darwin e non è, allora, un caso che Engels abbia proposto una teoria filosofica unificata della natura e della storia umana, basata su categorie concettuali e ontologiche comuni e addirittura su presunte leggi della dialettica unificate (lo sciagurato "materialismo dialettico"). Questa ipotesi evoluzionistica si è comunque - almeno per ora - rivelata del tutto errata. Non a caso, aggiungo io, perché l'unifica-zione ontologica delle leggi di movimento - ammesso che esistano - della natura e della storia, lungi dall'essere qualcosa di scientifico

2.

di "avanzato", non è che la grottesca riproduzione della conce-zione dei primitivi, per i quali le leggi del macrocosmo naturale erano le

stesse di quelle del microcosmo storico e sociale umano. In og,ni caso, la rivoluzione del 1917 ruppe con questo schema evo-luzionistico - ma anche Darwin ipofizzava le rotture improvvise -

3.

Lenin sostenne che, nell'epoca dell'imperialismo, la rivoluzione non sarebbe più iniziata nei punti alti dello sviluppo capitalistico, bensì nei punti deboli dell'anello della catena mondiale imperialistica. Nel linguaggio dell'epistemologo Kuhn, si tratta di un tipico caso di crisi scientifica, che dà poi luogo ad una rivoluzione scientifica,

132 133

cioè a un paradigma completamente nuovo. Lenin non era consa-pevole della novità di questo nuovo paradigma e si autopercepiva, erroneamente, come un "ortodosso", laddove nessuno era più "revisionista" di lui; ma questo fa parte della storia delle ideologie, intese come forme di falsa coscienza individuale e/o organizzata. In ogni caso, la rivoluzione comunista del 1917 non c'entra nulla con il modello di Marx, anche se, ovviamente, poi si legittima sulla base di una interpretazione "autentica" e di una canonizzazione expost del suo pensiero sacralizzato. La sua legittimazione sta tut-ta nell'essere stata una risposta storica determinata - a rrùo avviso legittima, e non intendo certo nascondere la mia opinione, perché oggi non è di moda nel circo intellettuale politicamente corretto - al bagno di sangue del 1914, anno in cui inizia la guerra civile europea (che non inizia dunque nel 1917, come sostiene erronea-mente lo storico tedesco Ernest Nolte).

Dal punto di vista politico, cioè delle forrne politiche di governo e di Stato, il comunismo non fu un fenomeno democratico. Si trattò di un tipico rovesciamento dialettico dell'anarchismo in tirannide - o, se si vuole, di Bakunin in Hobbes - fenomeno peraltro ampiamente previsto e tematizzato nella filosofia politica greca classica. Un'ini-ziale concezione, sostanzialmente anarchica, del potere (si legga Stato e Rivoluzione di Lenin), che lo vede come qualcosa di intima-mente semplice e trasparente - per cui, come sostenne Lenin, anche una cuoca sarebbe in grado di dirigere lo Stato - e decentrato al massimo in consigli di lavoratori, che praticano, insieme e con-giuntamente, l'autogestione economica delle unità produttive e l'auto-governo politico delle comunità territoriali, si rovescia dialetticamente - non certo per la malvagità dei burocrati, ma per la sua totale ed utopica inapplicabilità - in un dispotismo di tipo hobbesiano, in cui il nuovo Leviatano, cioè il partito comunista, concentra in sé il potere economico, politico ed ideologico, si solliae ad ogni contratto politico revocabile democraticamente con elezio-ni a suffragio universale e nega ogni diritto all'espressione pubblica, non solo alle varie forme di anti-comunismo e di non-comunismo, Il popolo al potere Democrazia e filosofia

ma anche alla stessa libera interpretazione del pensiero dello stesso Marx (come, peraltro, già fatto da Hobbes a proposito della Bibbia cristiana). Dal punto di vista sociale, il comunismo fu invece un fenomeno democratico, se il termine "democratico" è inteso alla Aristotele, Rosenberg e Canfora come prevalenza del dernos, e non come forma di governo e di Stato. Del resto, basta osservare spassionatamente i fenomeni di impoverimento sociale di massa nei Paesi ex-comunisti dopo il triennio 1989-91 e i connessi fenomeni di arricchimento gangsteristico di nuovi robber barons (baroni ladri), per rendersene conto. Cosa fu, dunque, in termini sociali, lo stalinismo? Qui ci sono, a mio avviso, due sole interpretazioni. Per la prima, lo stalinismo fu la presa del potere di una nuova ed inedita classe sfruttatrice, la burocrazia mista dello Stato e del partito (in questa interpretazione, convergono, di fatto, i critici liberali di destra del comunismo e i critici trotzkisti di sinistra). Per la seconda, invece, lo stalinismo, nonostante i suoi errori ed orrori, fu nell'essenziale una vera forma storica di prevalenza del demos, cioè del popolo così com'era, non del popolo virtuoso sognato dagli utopisti. La mia personale interpretazione è "mista", un 70°/0 della seconda ed un 30`)/0 della prima.

Che cosa fu il triennio 1989-91? Non certo il trionfo metafisico dell'eterna libertà contro lo spettro vampiresco del totalitarismo eterno. Lasciamo queste mitologie al circo mediatico-universitario. Il triennio fatale fu una vera e propria "controrivoluzione passiva", almeno quanto il 1917 fu una "rivoluzione attiva". La classe media sovietica, creata proprio dalla stessa industrializzazione stalinista dei piani quinquennali, che realizzarono così l'equivalente socialista della "accumulazione primitiva del capitale", di cui aveva parlato Marx, rovesciò il precedente baraccone livellato e "socialmente democratico", gestito da una alleanza instabile fra burocrati e operai, e promosse una restaurazione capitalistica, che si realizzò ovviamente in forma mafiosa e selvaggia. Mi scuso con il lettore per questa parentesi, volutamente ripetitiva, e passo finalmente al rapporto fra Marx e la democrazia. E, però, necessaria una ulteriore piccola premessa filosofica. Il pensiero di Marx è generalmente connotato come "materialismo storico": è, questa, la formulazione condivisa dalla stragrande maggioranza della comunità dei marxisti, anche e soprattutto perché era quella "approvata" dai padri fondatori. Personalmente, mi.permetto di dissentire. "Storico", il pensiero di Marx lo era certamente, anche se, nello stesso tempo, si basava su premesse naturalistiche (uomo come ente naturale generico); per questa ragione era storico, ma non storicistico, cosa che generalmente non entra nella zucca dura dei marxisti dogmatici; che fosse poi anche "materialistico", su questo si possono avere legittimi dubbi. Le cosiddette "forze materiali" della dinamica storica, di cui parla Marx (forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologie e sistemi ideologici) erano, infatti, tanto materiali quanto spirituali. Se per materialista si intende ateo, e per ateo si intende non teista ma antiteista, cioè negatore di una divinità intesa come soggettività progettante secondo un piano finalistico, allora Marx era certamente materialista. Se per materialista si intende qualcuno per cui il mondo è costituito da spazio, tempo, materia ed energia, allora Marx era certamente materialista, ma lo sono anche tutte le enciclopedie scientifiche divulgative. Usato in questi due sensi, il termine "materia" è ambiguo e riduzionistico, perché lascia pensare che Marx si occupi della stessa "materia", di cui si occupano gli astronomi, i fisici, i chimici e i biologi. Questa ambiguità sembra fatta apposta per scatenare pittoresche e teologiche dispute fra affermatori e negatori di Dio: dispute, che rispetto e a cui anzi a volte prendo parte, ma che non

c'entrano niente con ciò di cui stiamo trattando. Nella mia interpretazione, il pensiero di Marx, che era laureato in filosofia e non in chimica, non c'entra niente con la "materia". Filosoficamente parlando, si trattava di una particolare founa di idealismo storico, la terza dopo quelle di Fichte e di Hegel — l'idealismo di 135 134

Il popolo al potere

Schelling non c'entra, perché non è un idealismo storico - basata sulla nozione di ente naturale generico (Gattungswesen), la cui storicità si definisce e si determina attraverso una serie di alienazioni (Entftemdung-en), che sono ovviamente sia materiali che spirituali. Scientificamente parlando, si trattava di una particolare forma di strutturalismo storico, del tutto originale e inedita, quindi la prima di una possibile serie successiva, basata su un concetto planetario (il modo di produzione) e su tre concetti satellitari (le forze produttive sociali, i rapporti sociali di produzione, le ideologie e i sistemi ideologici). Se in questa somma di idealismo e di strutturalismo storico qualcuno ci vuole vedere anche la "materia" nel senso di Newton e di Lavoisier, si accomodi pure, ma io non c'entro, non c'ero e, se c'ero, dormivo. Ho fatto questa piccola premessa filosofica, che non ha nulla a che fare direttamente con il problema della democrazia, ma c'entra indirettamente. Se infatti si "carica" sul pensiero di Marx una sulfurea soma nichilistica - è il caso, a mio avviso, di interpreti pur geniali come Cornelio Fabro o Augusto Del Noce - si finirà con il non riuscire più a determinare con esattezza neppure il suo rapporto con la democrazia. Il pensiero di Marx comprendeva invece, a mio parere, sia il concetto di democrazia come forma politica basata sulla decisione a maggioranza integrata dal principio liberale della pubblica espressione di libere opinioni dissenzienti con la maggioranza stessa, sia il concetto di democrazia come prevalenza del demos. Ritengo che li unisse, non perché io sia un suo simpatizzante, e quindi sospetto di scarsa "oggettività", ma perché in Marx c'era il forte convincimento che la maggioranza del demos, formata da operai, salariati e proletari, si sarebbe armonicamente unita con le forze intellettuali sprigionate dalla stessa produzione capitalistica, dalla scienza e dalla tecnologia moderne - che Marx connotava con il termine inglese generai intellect - e che, pertanto, la sua "dittatura del proletariato" - termine che Marx indiscutibilmente ha usato non sarebbe stata la dittatura rninoritaria e dispotica di un gruppo di persone "co136 137 Democrazia e filosofia

muniste", ma semplicemente l'espressione della stragrande maggioranza della

popolazione attiva dei cittadini. Marx era, in proposito, non solo un accanito propugnatore del suffragio universale, ma anche della cosiddetta "capacità politica della classe operaia", che a quei tempi voleva dire che la classe operaia avrebbe fatto molto bene a formare un suo partito politico indipendente, presentandosi alle elezioni. Quanto dico, è filologicamente e storicamente accertabile; non è dunque solo una interpretazione soggettiva. Marx diagnosticava e pronosticava una cosa, che nei fatti poi non è avvenuta. Egli pensava che si sarebbe formato un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, che avrebbe rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione attiva e avrebbe così, congiuntamente, vinto facilmente le elezioni democratiche (democrazia formale) e assicurato la prevalenza del demos, divenuto nel frattempo maggioritario nella società (democrazia sostanziale). Questo non si è verificato, come ormai sanno anche i bambini, ma questa utopia scientifica - l'ossimoro naturale è volontario - resta a tutti gli effetti un'utopia democratica nel nostro doppio significato del termine.

Il rapporto fra la democrazia politica e l'individualismo liberale Apparentemente, il rapporto fra la democrazia politica e l'individualismo liberale è la cosa più semplice di questo mondo e, in genere, viene compendiato in questo modo da tutti coloro che amano le semplificazioni rassicuranti: in principio, il liberalismo era contro la democrazia, perché non accettava il suffragio universale maschile e femminile e si fondava su elezioni ferocemente ristrette e censitarie; poi si è convinto ad accettare il suffragio universale e da allora c'è la liberaldemocrazia, così sono tutti felici e contenti. In quanto alla liberaldemocrazia, si tratta del principale Il popolo al potere Democrazia e filosofia

prodotto di esportazione dell'Occidente verso il resto del mondo; un segno universalistico della modernità, che solo gli "Stati cana-glia" (rog-ue states) si rifiutano di accogliere con gratitudine, ma in questo caso, dove non basteranno le esortazioni pacifiche, arrive-ranno gli embarghi prima e le bombe poi.

Chi la pensa così, effettivamente ha sprecato i suoi soldi comprando questo libro. Peccato. Chi invece non si accontenta del rassicurante Inoltra liberale, è invitato a problematizzare maggiormente il proble-ma storico e filosofico del rapporto triangolare fra individualismo, liberalismo e democrazia. La democrazia greca nacque come democrazia di cittadini (po/ítaz), non di individui adiotal). A rigore, il termine "individuo", che signi-fica appunto individuo, non ulteriormente divisibile, e che corri-sponde al 100`)/0 al greco a-tomon (non ulteriormente divisibile), non esiste neppure in greco antico; esiste invece il termine idiotes per connotare il singolo privato (zdíos, eguale nel senso di indifferenziato, non di differenziato ma eguagliato dalla legge). Questa precisa-zione etimologica non è affatto inutile. Dal momento che la demo-crazia greca era una democrazia comurùtaria, e non una società di individui, il privato che si disinteressava del pubblico era ap-punto etimologicamente un idiota, e questo proprio nel senso mo-derno del termine; democrazia e individualismo erano dunque, per i Greci antichi, realtà incompatibili. La gloriosa storia dell'in-dividualismo inizia, quindi, con un Grande Idiota come fondatore ed eroe eponimo. 138 139

Tutto questo fa parte, però, del mondo antico, comunitario e precapitalistico. Nel mondo moderno, che si svincola progressiva-mente dalla società tripartita degli ordínes medioevali, l'in-dividuo è quella unità psicologica ed esistenziale (Montaigne), che comin-cia a riflettere liberamente sul mondo e trova nello scetticismo la sua filosofia naturale. Senza un sano e preliminare scetticismo, infatti, sarebbe stato impossibile criticare la società degli ordi‐ nes. Quando però lo scettico diventa imprenditore, in primo luogo di se stesso e del suo tempo libero (Robinson Crusoe), lo scetticismo non basta più e si afferma la visione utilitaristica del mondo. L' utile come categoria economica, ovviamente è vecchio come il cucco e non lo scopre certo la borghesia (v. 1' ofehnzon di Aristotele, che però distin-oue fra l'economia, buona, e la crematistica, cattiva); solo la bor-ghesia, però, può unificare concettualmente l'economia e la crematistica, cioè la cura dell' ozkos (la casa comprensiva dei suoi abitanti) con la ricerca dei chremata, i soldi, di cui l'immortale eco-nomista Vespasiano disse poi che «non puzzano» (pecunía non olet). L'individuo moderno si forma appunto unificando non solo concettualmente, ma anche psicologicamente, l'economia e la crematistica, che il pensiero

greco teneva ancora ben distinte. Da questa unificazione psicologica nascono sia la psicologia dell'imprendi-tore creativo e soddisfatto, in un primo tempo ascetico e poi, inve-ce, consumatore vistoso e scialacquatore — ma questo mutamento psicologico dipende solo dalle diverse fasi dell'accumulazione primitiva del capitale — sia la psicologia dell'anima bella e della coscienza infelice, che, fra l'altro, darà poi luogo al pensiero di Marx, che si origina da un momento della coscienza infelice borghese, e non dalla classe operaia, salariata e proletaria, che non si sente certo "alienata", ma solo "sfruttata" e troverà poi nell'integrazio-ne, allraverso la società dei consumi, un parziale rimedio contro lo sfruttamento nel luogo di lavoro. Questo individuo moderno liberale è anche ferocemente classista. Su tale punto, colgono molto più nel segno le controstorie critiche del liberalismo alla Domenico Losurdo di quanto lo facciano invece le rassicuranti apologetiche della fine neoliberale della storia. Il liberalismo si costituisce, storicamente, sulla base di una presa di distanza addirittura "razzista" non solo dai popoli di colore, di cui si legittima in genere la schiavitù — l'esempio di Locke è addirittura scandaloso — ma anche dalle classi popolari dei lavoratori "sociali". Su questo, purtroppo, la documentazione è innegabile e impres-sionante. Non si tratta di opinioni malevole di marxisti attardati, ma di realtà documentali e documentabili, che si è sempre preferi-to nascondere, come si nasconde la polvere sotto il tappeto. il popolo al potere

Nel corso soprattutto del "secolo lungo" (1789-1914), il liberalismo è progressivamente costretto ad accettare il metodo democratico, ma ne accetta, appunto, soltanto la forma (il suffragio universale) e non il contenuto (l'accesso del popolo al potere). Il liberalismo è infatti incompatibile con la prevalenza del demos. Il demos deve poter votare, ma non poter decidere delle cose veramente importanti (pace e guerra, alleanze militari, segreti di stato, arca‐ na imperzi ecc.). Il problema diventa, allora, quello di far votare la gente, anzi di incitarla a votare in massa, per legittimare meglio, simbolicamente, le decisioni che poi prenderà il potere, e, nello stesso tempo, di fare in modo che il voto non decida, o non decida comunque che questioni secondarie. La dittatura dell'economia è una forma di monoteismo idolatrico, che non permette culti pubblici diversi dal proprio. A questo punto, però, per poterci capire qualcosa, bisogna passare dalla storia politica del liberalismo alla storia filosofica, sociale e psicologica dell'individualismo. Qui si troverà, forse, la chiave per comprendere il mistero della società degli individui, che ha sostituito la comunità dei cittadini. Il fatto che il pensiero politico borghese moderno sia nato con Hobbes, sulla base anti-aristotelica dell'ipotesi dell'individuo egoista e malvagio da tenere a bada con un incontrollato

potere dispotico, ha indotto molti commentatori frettolosi a identificare l'individualismo borghese con l'egoismo possessivo. Non è esatto. Il pensiero di Hobbes è un pensiero dell'emergenza, non della normalità, e ne è prova la fine ingloriosa del comunismo storico novecentesco, malato e morto di emergenzialismo e incapace di approdare ad una sua comunistica normalità. L'economia politica di Smith, a sua volta basata sulla psicologia associativa e sulla filosofia utilitaristica di David Hume, esprime invece un momento già normale ed assestato, quindi non più emergenzialistico, della società capitalistica. Lungi dal fondarsi sull'egoismo, essa si fonda invece sulla reciproca simpatia fra venditore e compratore, perché soltanto immedesimandosi "simpateticamente" nel potenzia-

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ll popolo al potere Democrazia e filosofia

Questo individuo intermedio è dotato di inesausta creatività. E l'individuo esploratore, l'individuo romanziere realista e pittore verista ed impressionista, l'individuo capitano d'industria e, infi-ne, anche l'individuo rivoluzionario. La creatività, che lo spinge a salire in alto e a rifuggere dalla caduta in basso, produce Hegel e Beethoven, Dickens e Balzac, e centinaia di altri Individui con la maiuscola, in cui il termine indíoduo non significa solo "non ulte-riormente divisibile", ma anche centro motore e demiurgico di ener-gia creativa. Ln questa fase, il capitalismo non può ancora funzionare senza il motorino d'avviamento della classe borghese. Una volta avvia-to, però, può andare avanti in modo tecnico - come direbbe Heidegger - e cioè impersonale ed anonimo. La logica tecnica e post-metafisica del capitalismo lo porta, però, anche a un radi-cale mutamento nella forma di esistenza dell'individuo stesso. È giunto il momento dell'esplosione dell'unità cartesiana del sog-getto (già segnalata filosoficamente da Nietzsche e da Simmel), della crisi di coscienza dell'imprenditore borghese (esemplari sono i romanzi di Thomas Mann), dell'io minimo e dell'individuo narcisistico (si vedano gli studi di Christopher Lasch), fino alla crisi dell'individuo pubblico prima negli USA e poi anche in Eu-ropa. 142 143

La borghesia perde la sua natura intermedia, e quindi dialettica, perché la logica ferrea che presiede al suo stesso sviluppo è pro-prio la sua autodissoluzione, in un inedito capitalismo mondiale globalizzato senza classi, caratterizzato ormai soltanto da diffe-renziali g,iganteschi di sapere, di potere e di reddito (differenziali, che non sono però più classi). In questo modo, il libe-

ralismo ucci-de se stesso, perché non c'è più liberalismo, se l'individuo che lo sorreggeva deperisce antropologicamente fino ai minimi termini. Se ci si ferma a livello della superficie politica, tutto ciò non è affat-to visibile. Se invece si prende in considerazione la crisi dell'arte, della religione e della filosofia - le tre dimensioni, che Hegel consi-derava giustamente "assolute" - si comincerà a capire qualcosa di più sulle dinamiche autodistruttive dell'individualismo utilitaristico moderno, il cui tramonto non è segnalato dalla sua sconfitta - come è successo nel caso del comunismo storico novecentesco ma proprio dalla sua vittoria. Il liberalismo ha creduto di vincere la democrazia mangiandola, e alla fine sta morendo di indigestione proprio in conseguenza di questo suo pasto smodato. È giunto il momento di riflettere brevemente sul rapporto fra la democrazia e quello che viene spesso confusamente definito "comunitarismo".

Il rapporto fra la democrazia politica e il comurútarismo moderno Il comunitarismo ha, in Italia e in Europa, una cattiva fama, per-- ché da tempo è divenuto ostaggio della guerra tribale fra Destra e Sinistra, guerra in cui le rispettive tifoserie non sono più da tempo interessate al bel gioco e in cui il solo g-rido che si alza dalle curve degli irriducibili è il vecchio: «De-vi mo-rire!». Vi sono ovviamen-te, per questo, ragioni storiche reali, che appartengono però ad un tempo storico integralmente trascorso e mantenuto in vita in una bara refrigerata per esclusive ragioni di manipolazione neoliberale. Ci fu prima il riflesso ideologico dello scontro imperialistico fra la Germania guglielmina e l'Inghilterra tardovittoriarta, in cui giganteschi interessi materiali di tipo industriale, bancario e fi-nanziario si nascondevano dietro barbuti professori universitari, che contrapponevano la comunità tedesca (Gemein‐ schaft) alla ar-tificiale e decadente società francese e anglosassone (Gesell‐ schaft). Ci fu poi chi giunse al potere invocando un mandato della co-munità popolare ( Volksgemeinschaft), fondata non sulla demo-crazia, ma sul sangue ed il suolo (Blut und Boden). Su questo, bisogna essere assolutamente chiari e non lasciare spazio ad equi-voci: Dio ce ne scampi e liberi, da queste pretese comunità popo-lari, fondate su un preteso radicamento territoriale, e

questo non Il popolo al potere Democrazia e filosofia

solo per le loro versioni hard alla Adolf Hitler, ma anche per le versioni più soft, che oggi vanno per la maggiore! Il comunitarismo anglosassone odierno, che mi sembra un fenomeno culturale prevalentemente universitario, all'interno del dibattito senza fine e senza esiti possibili fra individualismo e comunitarismo - trattandosi di due polarità dialettiche in stretta correlazione essenziale, in cui l'una non può semplicemente stare senza l'altra - è oggi rifluito in una posizione, che definirei di "neoliberismo sociale". È proprio la sua natura universitaria, strutturalmente subalterna a quella che è, di volta in volta, l'ideologia dominante in una data società - la teologia, prima, poi il giusnaturalismo e il contrattualismo, l'utilitarismo e il positivismo ed oggi il neoliberismo, nelle sue varie formulazioni - che rende per ora impossibile, al comunitarismo, produrre un suo profilo indipendente. Chi scrive, propende per una particolare sintesi di comunitarismo e di individualismo, in cui però il comunitarismo conta per l'80°/0 e l'individualismo per il restante 20%. Ho preferito esplicitare subito il mio punto di vista, in forma volutamente un po' goffa e ridicola, per essere onesto verso il lettore, che comunque lo avrà già certamentecapito leggendo le pagine precedenti. Senza ripetere ancora argomentazioni già svolte in precedenza, mi limiterò a ricordare in positivo il fondamento razionale del comunitarismo e a discutere in negativo le due grandi obiezioni razionali, che gli possono essere fatte: l'obiezione "relativistica" e l'obiezione "organistica". 144 145

L'uomo è un essere ad un tempo finito e infinito. Su questo, la mia posizione si ispira a Kant e ad Hegel, trascurando qui le loro soluzioni alternative, e diametralmente opposte, di coniugare i due termini. In quanto essere infinito, l'uomo si determina in rapporto ad una astrazione indeterminata (apeíron), qual è il concetto di genere umano. In quanto essere finito o, più esattamente, in quanto ente, in cui l'infinito si determina concretamente solo nel finito, l'uomo è membro di una particolare comunità, all'interno della quale si costituisce il concetto e la pratica della virtù (areté, virtus). La stessa virtù politica può soltanto manifestarsi come virtù comunitaria e questa è, come è noto, la posizione di tutte le scuole filosofiche greche (con la

sola parziale eccezione del cosmopolitismo stoico, che però pensava anche la cosrnopolls come comunità, e non come insieme aggregato di atomi individuali irrelati). Il pensiero moderno ha, in genere, respinto questa concezione comunitaria greca di virtù politica, perché il suo telos interno immanente era quello di sciogliere le varie comunità precapitalistiche per instaurare una nuova comunità puramente virtuale: la comunità dei portatori astratti di capacità lavorativa "libera", da vendere come merce in un mercato. Si tratta di un fatto, che Marx ha saputo, a suo tempo, inquadrare molto bene, sia sul piano storico che su quello logico, e che dovrebbe essere riconosciuto come vero anche da coloro che hanno dato e danno un giudizio politico inesorabilmente negativo del comunismo storico novecentesco, del cui destino dissolutivo Marx è inevitabilmente divenuto ostaggio (come lo era precedentemente, nell'epoca del bovino conformismo pseudo-marxista dei cori dei sessantottini urlanti). La comunità virtuale del nuovo individualismo è, a suo modo, una "società", perché l'elemento della societas, cioè della natura sociale dell'uomo, non va del tutto perduta nel mondo della merce. È bene affermare qui solennemente, contro tutti i cantori apocalittici dell'imbestialimento definitivo e irrevocabile dell'uomo, che l'uomo, in quanto ente naturale generico e perciò libero, non può essere addomesticato, se non imperfettamente e per un tempo molto breve. Io non ho paura delle utopie negative tipo Brave New World di Huxley o 1984 di Orwell, che sono altrettanto irrealistiche e inapplicabili delle utopie positive rassicuranti. In entrambi i casi, io do loro un valore letterario e fantastico, ma non filosofico e, tanto meno, scientifico. Non si tratta allora di "ritornare" ai Greci, saltando la parentesi alienante della modernità e della attuale post-modernità. C'è, in questo mito dell'origine incorrotta e posteriormente decaduta, un nucleo religioso rispettabile, ma non è il mio. All'origine non si ritorna, anche perché, sostanzialmente, l'Origine non esiste. Ogni Il popolo al potere Denzocrazia

e filosofia

presunta "origine" è sempre e solo un punto nello spazio e nel tempo della vicenda umana, che si decide con un atto volontario di consacrare, sulla base del terrore che si prova nei confronti del carattere nichilista e dissolutore del tempo stesso, chronos, colui che tutto divora. Il nostro congedo dai Greci è irreversibile e irre-vocabile, e mi permetto di ricordare qui la mia personale

compe-tenza di neoellenista, per segnalare come questo senso di congedo irrevocabile sia al centro della grande lirica greca moderna (Kavafis, Seferis ecc.). I Greci hanno però saputo porre storicamen-te, quindi in modo necessariamente determinato e limitato, un pro-blema universale, e questo problema è quello della comunità (koinonla), che si definisce in base a ciò che è comune (koinòn) a tutti gli uomini, quegli animali politici e razionali, la cui comunità è proprio l'unione di generico e di specifico. In questa ottica, l'individualismo non appare come una follia "secessionistica", ma come una patologia inerente ad una cattiva comunità. Se infatti si decide di estraniarsi dalla propria comunità e di effettuare un "esodo" verso altri lidi, bisogna chiedersi se e in che misura fosse una cattiva comunità. Il diritto alla protesta in-dividuale contro la cattiva comunità deve essere garantito inte-gralmente, come momento di esistenza fisiologica della comunità stessa. In proposito, è dovere di ogni persona, che si definisca in qualche modo "comunitarista", prendere in considerazione le due principali obiezioni possibili all'idea e alla pratica di comu-nità: l'obiezione relativista e l'obiezione organicista. 146 147

La prima obiezione si può compendiare così: chi sostiene il pri-mato della comunità sull'idea di società astratta universale, è certa-mente più "radicato" dell'universalista astratto, ma non può sfug-gire al relativismo dei valori, che ne discende necessariamente; in una comunità di tagliatori di teste, infatti, la più grande virtù co-mimitaria etico-politica è quella di appendere il maggior numero di teste tagliate ai nemici fuori della propria capanna; inoltre, al-l'interno della propria comunità, non è possibile neppure criticare i valori comunitari sbagliati, perché manca un punto di vista ester- no, che renderebbe pensabile ed esprimibile linguisticamente que-sta critica; il comunitarismo è dunque una forma di relativismo nichilistico, che non può essere accettato. Si tratta di un'obiezione importante, che merita una presa in esame spregiudicata, ma non, a mio avviso, risolutiva. Il caso del-la comunità dei tagliatori di teste — o dei seguaci della dea Khalì, che facevano sacrifici umani e che il governo inglese mise fuori legge il nome della superiore civiltà occidentale; superiorità, che a quei tempi era sostenuta sulla base della teoria evoluzionistica — è un caso del tutto astratto, a meno che i tagliatori di teste vivano in un'isola su cui non sbarca mai nessuno. Nella realtà, tutte le civiltà umane si toccano e si intersecano, e fra di esse si stabilisce inevita-bilmente un campo di rapporti

reciproci, in cui l'universalismo del genere umano non è un prodotto imperialistico — o almeno, non è inevitabile che lo sia — ma un luogo di scambi simbolici individuali e comunitari. Come essere sociale determinato, il membro della 'tribù dei tagliatori di teste può ritenere socialmente virtuosa la decapitazione, ma, come essere razionale altrettanto determinato, può giungere consensualmente all'abbandono di questa pratica. In quanto pratica rituale, il taglio delle teste può essere sostituito da altre pratiche. Certo, chi nega filosoficamente l'esistenza di un universalismo veritativo non potrà mai concordare sul fatto che il gioco degli scacchi sia meglio del taglio delle teste. Per questa ragione, nel presente saggio si è dedicato tanto spazio ai temi filosofici. Chi invece se la sente di scommettere razionalmente sul successo di un processo progressivo di universalizzazione sorto dall'incontro di comunità diverse in dialogo reciproco — da non confondere con l'esportazione armata di comportamenti prescrittivi da parte di una particolare comunità, che si autoproclama società universale e lo può fare unicamente sulla base prima di cannoniere (Inghilterra vittoriana) e poi di bombardieri strategici (USA) — non nutrirà infondati timori. Certo, non c'è qui alcun determinismo, nè teolo-gia. Non si può essere sicuriche i tagliatori di teste passeranno a riti Il popolo al potere Democrazia e filosofia

universalisticamente più accettabili. Seguendo Kant, però, possiamo sperare che il genere umano vada verso il meglio; seguendo Fichte, possiamo sperare che l'Io umano - cioè il genere umano concettualmente unificato - potrà progressivamente superare il Non-Io, ossia gli ostacoli che egli stesso, inconsapevolmente, pone di fronte a sé. È invece sicuro che l'imposizione imperialista di valori particolari, la cui universalità è un fatto balistico e non filosofico, non può portare ad una universalizzazione del genere umano. La seconda obiezione si può compendiare così: la comunità può essere soffocante verso l'individuo, perché non si limita mai a richiamarlo semplicemente ai suoi doveri solidali verso il gruppo in difficoltà, ma finisce con il ficcare il naso nella sua vita privata, nelle sue opinioni politiche e religiose e nei suoi comportamenti sociali e sessuali; la comunità diventa allora una sorta di iperfamiglia protettiva e censoria, un Superio, che scoraggia la stessa formazione di un Io indipendente ed equilibrato; l'esempio delle comunità contadi-

ne tradizionali è, in proposito, allucinante: chi non è conformista, è espulso dal gruppo; bisogna allora dare un giudizio più equilibrato e positivo sui vantaggi dell'individualismo. Si tratta di un'obiezione assolutamente razionale, ma essa, appunto, colpisce soltanto le comunità organicistiche tradizionali, che però, molto spesso, come testimoniano gli antropologi che hanno vissuto a lungo in contatto con esse, sono poi di fatto molto più "libertarie" e meno repressive di quanto si creda, per cui il cosiddetto "non-conformismo" di individui eccentrici è ampiamente permesso e tollerato. Non sta qui, comunque, il cuore della questione. Il fatto è che la costituzione, per molti aspetti individualistica, del soggetto moderno, in Occidente è ormai un fatto storico irreversibile, e in essa non ci sono soltanto egoismo ed anomia, ma anche indipendenza e creatività. Un nuovo comunitarismo non deve, quindi, tendere a "restaurare" un'impossibile e regressiva totalità organica, in cui l'individuo "sparisce" nel collettivo. Dio ce ne scampi e liberi. Questa utopia collettivistica della trasparenza ha già fatto (cattiva) prova di sé in tempi recenti, è stata sconfitta, e resta nell'insieme senza rimpianti. Il collettivismo è, quindi, una patologia del comunitarismo, non una sua legittima manifestazione. Il collettivismo conformistico e coercitivo è, infatti, solo l'altra faccia dell'individualismo egoistico e anomico. Come sempre avviene per le patologie complementari ed antitetico-polari, esse si rafforzano nel loro interminabile scontro nichilistico. Con una formula filosofica necessariamente imperfetta, possiamo dire che la libera individualità moderna, irreversibilmente costituita sulla base del diritto di un libero rapporto fra il singolo e l'universale, aspira ad una comunità legalmente costituita, non prescrittiva e non coercitiva. Sono arrivato alla fine anche di questo secondo capitolo filosofico. È ora possibile affrontare il terzo ed ultimo, in cui il tema della democrazia verrà collocato dentro le coordinate storiche e politiche della realtà contemporanea. L'analisi storica e la critica filosofica hanno sgombrato molte macerie, che impedivano la libera comprensione, ma, in un certo senso, il "difficile" viene adesso. Si tratta, infatti, di affrontare temi "caldi", su cui non esiste il minimo consenso, né nella comunità degli studiosi e degli intellettuali, né, soprattutto,

nella comunità politica dei cittadini. È dunque impossibile "non essere di parte". Poco male. Non essere di parte è impossibile, perché tutti noi siamo "parte" dell'umanità. Esserne consapevoli ed evitare deliri di onnipotenza, è quindi il primo principio metodologico, che seguirò. 149

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La democrazia nell'epoca della globalizzazione I due capitoli precedenti sono stati scritti per fornire al lettore un ricco materiale di informazione problematica ed aporetica. Mi spiego meglio. A proposito del tema della democrazia, in cui tutti, più o meno, pensano già di sapere tutto, il problema non è quello di fornire materiale di chiarimento divulgativo - come si fa opportunamente per la deriva dei continenti, per le ipotesi cosmologiche o per le frontiere dell'ingeg,neria genetica - e nemmeno quello di scrivere un pamphlet di rapido uso e consumo (del tipo: la democrazia non esiste, e se esiste fa schifo; oppure: la democrazia è la pupilla degli occhi del nostro Occidente e, se gli altri non lo capiscono con le buone, lo capiranno a bastonate). Il problema non è neppure istituzionale o politologico. Non c'è nulla di più facile, e nello stesso tempo di più inutile, dell'elencare forme di Stato e di governo, che magari sulla carta sembrano quasi perfette e poi crollano come un castello di carta, non appena i pochissimi oligarchi, titolari degli arcana imperi/ e del diritto unilaterale di de-cidere quale sia lo stato di emergenza, fanno saltare il tavolo delle regole del gioco fra lo stupore impotente degli sciocchi, che hanno veramente creduto alla favola per bambini, per cui le regole del gioco sorto più importanti del tessuto umano e sociale dei cittadini che costituiscono una comunità. No al ptzmphlet, dunque, e soprattutto no ai soliti testi politologici ed istituzionali sulla democrazia. Per questo, esistono sul mercato opere brevi, leggibi-

lissime e spiritosissime, in un arco di posizioni, che vanno dall'equazione fra democrazia e merda e democrazia e oro, ed anche ponderosi tomi di diritto costituzionale. Di questi torrú di diritto costituzionale, che raramente valgono la carta su cui sono scritti - ricordo solo che l'Italia nel 1999 ha aggredito un Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

Paese vicino, sulla base di pretesti smentiti dagli osservatori ufficiali dell'OCSE presenti sul posto e in aperta violazione della Costituzione, della Carta dell'ONU e della stessa Carta di istituzione della NATO, senza che la supponente casta dei costituzionalisti facesse un doveroso harakiri rituale - dirò quello che un personaggio del romanzo umoristico di Jerome K. jerome, Tre uomini a zonzo, dice della grammatica tedesca: «L'ho studiata da giovane, ma da allora non l'ho più toccata, e da allora mi sono sentito molto meglio». Il mio

testo è invece aporetico e problematico, ed è quindi fatto apposta per innervosire i temperamenti frettolosi, dogmatici ed autoritari, che vogliono ad ogni costo una soluzione veloce e tascabile, ma credo anche possa piacere a tutti coloro che sono in grado di percepire l'estrema ricchezza delle differenze del mondo storico e sociale. La democrazia è un tema problematico ed aporetico eccellente. I suoi lati positivi e i suoi lati negativi non possono essere separati con la lama di un coltello, ma coesistono intimamente insieme. La democrazia, essendo una pratica politica in corso e non un obiettivo statico e conclusivo da perseguire, è indistinguibile dalle forme della sua messa in atto attiva. Tutto questo è però già noto al lettore attento dei miei due primi capitoli. Ora viene il difficile, e il difficile è l'analisi del presente storico in cui viviamo. Ho sempre pensato che la comprensione della storia dell'antico Egitto fosse molto più facile della comprensione della storia del Novecento, e non certo perché, come molti dicono, «non potremmo essere obiettivi, saremmo inevitabilmente di parte». Benedetto Croce ha ragione, quando afferma che tutta la storia è storia contemporanea, perché persino nel nostro modo di riflettere su Pericle e sui Gracchi ci portiamo inevitabilmente dietro il nostro personale modo di vedere i problemi del presente in cui siamo immersi. La vera difficoltà posta dalla comprensione del presente è quella della prospettiva. Del resto, è noto che una persona dalla vista normale non può portare la pagina che legge ad un centimetro dai suoi occhi, ma deve allontanarla maggiormente.

Il lettore può essere però sicuro che non mi sottrarrò alla difficoltà di valutazione del presente. Ho ritenuto necessario cercare di definire, anche se in modo sommario ed incompleto, i tre concetti di modernità, post-modernità e globalizzazione, perché è al loro interno che si pone il problema della pratica della democrazia oggi. Segue l'insieme di argomentazioni, in base alle quali io ritengo che oggi non si possa dire che viviamo veramente in una democrazia almeno in Italia e in gran parte dell'Europa - perché vi sono due fattori, che impediscono la vera presa comunitaria di decisioni politiche reali, cioè il fattore interno della dittatura dell'economia finanziaria e il fattore esterno della dittatura imperiale della superpotenza americana. So bene che questi saranno i paragrafi più odiosi ed irritanti, per il lettore che si ispira alla vulgata conformistica del politicamente corretto di oggi. Questa vulgata conformistica preferisce, in proposito, la seguente formulazione soporifera e rassicurante: siamo in democrazia e solo un malato di mente estremista potrebbe dubitarne, anche se ovviamente ci sono problemi difficili e complessi da affrontare. Nel caso che riuscissi ad irritare questo lettore "positivo", istituzionale, politicamente corretto, occidentale e conformista, ne avrei veramente piacere, anche se si tratterebbe di un piacere subalterno, del tipo «me le ha date, ma quante gliene ho dette!». Bisogna infatti sapere, ma non ci vuole poi molto a capirlo, che quanto dico per ora path. oppo non è al potere: al potere ci sono gli altri. E gli altri sono tutti coloro che si sono appropriati del concetto di "popolo" e, in suo nome, fanno gli interessi del grande capitale finanziario e dell'impero americano unilaterale e potentemente armato. Per andare al potere, il popolo deve essere informato ed educato. È dunque inevitabile che chi lo vuole escludere dalle decisioni che lo concernono, deve far sì che non sia né informato né educato. Il sistema mediatico deve allora diventare una gigantesca macchina di disinformazione pianificata ed articolata, il sistema scolastico deve diventare una gigantesca macchina limitata alla for153 152 Il popolo al potere La

democrazia nell'epoca della globalizzaz one

mazione professionale contingente, e tutto deve diventare "for-mazione professionale", dal corso per idraulici ai più prestigiosi master post-universitari.

Mi è sembrato giusto, quindi, dedicare due paragrafi specifici al sistema mediatico e al sistema scolastico, senza troppo scendere in dettagli, pur importanti, ma limitando-mi a mostrare le logiche immanenti in questi due apparati. Dopo aver analizzato anche alcuni altri problemi - fra cui quello cruciale del rapporto fra ecologia, derriocrazia e società -116 scelto di concludere il mio saggio con una tesi, che ho voluto la più chia-ra e più esplicita possibile e che qui riassumo: «Gli ostacoli che il tempo presente oppone alla pratica della democrazia sono gigan-teschi; ogni affrettata dichiarazione di ottimismo è irresponsabile e da evitare; la democrazia, comunque, resta antropologicamente e socialmente possibile; essa è però anche necessaria, perché la politica non è una scienza e, non essendo una scienza, non può essere delegata ad una corporazione di specialisti, che si autoriproducono per cooptazione interna».

Definizioni del Moderno. La democrazia nell'epoca della modernità La democrazia è urta pratica umana comunitaria, non un con-cetto scientifico. Ln quanto pratica umana comunitaria, ha neces-sariamente coordinate spaziali e temporali ed è, pertanto, sempre qua ed ora, oppure /à ed allora. C'è stata una democrazia dei Greci antichi, una democrazia dei Comuni medioevali, una democrazia del "secolo lungo" (1789-1914), una democrazia del "secolo bre-ve" (1914-1991) e così via. Per definire in qualche modo la democrazia oggi, bisogna soffermarsi un poco sulle due nozioni di mo-dernità e di post-modernità, tenendo conto, però, che sul loro cor-retto uso non c'è affatto accordo fra gli studiosi di storia e di scien-ze sociali, perché alcuni usano la nozione di post-modernità per dire che la modernità è finita e che noi siamo ormai al di là di essa, mentre altri studiosi rifiutano, di fatto e di diritto, la stessa nozio-ne di postrnodernità e si accontentano di dare la loro personale spiegazione della modernità, individuandone le principali carat-teristiche. Per non fare torto a nessuno, ho deciso di esaminare le due nozioni separatamente, concludendo però og,rti paragrafo con l'esplicitazione della mia personale accezione. 154 155

Nei libri di storia, la modernità, o meglio l'età moderna, comin-cia nel 1492, ma si tratta chiaramente di una data convenzionale. Il "nuovo mondo" cominciò ad essere veramente "avvertito" da-gli Europei non prima del ventennio 1510-1530, e in ogni caso questa periodizzazione non vale per l'Asia, per gran parte del-l'Africa - se non per l'inizio della tratta degli schiavi - e per la stessa Europa orientale. In quanto al cosiddetto "Medio Oriente", la periodizzazione moderna non è segnata dalla scoperta dell'Ame-rica, ma dall'occupazione ottomana e dalla fissazione della fron-tiera - ancor oggi esistente - fra Turchi ed Arabi, da un lato, e • Persiani dall'altro. Potremmo continuare, ma il punto essenziale della questione sta nel fatto che la periodizzazione stessa della modernità non sfugge all'eurocentrismo e al suo inevitabile imperialismo culturale. Nell'uso comune dei giornalisti e dei saggisti, la cosiddetta "mo-dernità" è una sorta di concetto-ripostiglio, in cui ognuno mette ciò che vuole, per potersi così autodefinire "moderno" o nuovo. Dal momento che nel contrasto simbolico fra "vecchio" e "nuovo" il secondo termine trionfa sul primo, poichè si dimentica spesso che 1' antico, in quanto tale, non è per niente vec‐ chio, anzi di frequente è immensamente più attuale del "recente" - in filosofia, ad esempio, l'antico Platone è, a mio avviso, immensamente più attuale del recentissimo Sartre - ognuno fa passare per "moderno" la sua personale arbitraria scala di preferenze. In questo carnevale per-manente di futuristi confusionari, è inevitabile che la definizione di moderno" - e quella correlata di "democrazia moderna" - diventi la posta in gioco di una vera e propria lotta, prima nobilmente filosofica e poi popolarmente ideologica.

Il popolo al potere

Nell'accezione comune dell'opinione pubblica occidentale media, il Moderno viene in generale definito attraverso due coordinate: la prevalenza del privato sul pubblico e la prevalenza del politico sul religioso. Ho parlato di "prevalenza" anziché di "separazione", come si fa in genere, per sottolineare come, dietro l'espressione neutrale di "separazione", ci sia in realtà un vero e proprio postulato individualistico e laicistico. Non sto dicendo che è un male - può, infatti, a volte essere un male e a volte un bene - ma semplicemente che c'è. Per questa ragione, è bene discuterne qui separatamente.

A proposito della prevalenza del privato sul pubblico - e dunque, di conseguenza, dell'individualismo sul comunitarismo - la formulazione insuperabile di questa prevalenza è stata data, quasi due secoli fa, da Benjamin Constant e da allora non mi sembra che sia stata sostituita da varianti migliori. Secondo Constant, la libertà, per gli antichi, era fondamentalmente una libertà dell'uomo pubblico, che comportava la sua partecipazione attiva all'attività politica, sia come semplice cittadino (polites) sia come benefattore della comunità (everg-hetes). Da questo carattere pubblico della libertà antica derivava, ovviamente, il carattere diretto della democrazia, ma anche la gestione aristocratica ed oligarchica implicava comunque l'attività diretta e collegiale dei governanti. La libertà dei moderni è invece, fondamentalmente, il diritto di godersi pacificamente le ricchezze personali, coltivando le proprie inclinazioni nella sfera privata. In proposito, sottolineo come Constant, definito in genere un classico del liberalismo non democratico e pre-democratico, abbia invece formulato il principio dell'individualismo privatistico, in modo da farlo adattare anche alla liberaldemocrazia successiva. Ciò che conta, per Constant, non è infatti tanto il liberalismo, quanto l'individualismo. A proposito della prevalenza del politico sul religioso, la formulazione "laica" di questa supremazia insiste sulla separazione fra peccato e reato, cioè fra l'eventuale violazione etica sanzionata dalla religione e la violazione della legge civile e penale sanzionata 156

invece dall'apparato giudiziario pubblico, considerato "neutrale" rispetto ai diversi credo di tipo religioso. Apparentemente, la distinzione è chiarissima, ma, se si scava un po' in profondità, possono nascere dei problemi. Al di là, infatti, del fatto religioso in sé, inteso come fede in una rivelazione data fatto, che, in quanto tale, sfugge e deve sfuggire, per sua natura, alla cosiddetta "razionalità", che infatti non ha nulla da dire né pro né contro - la distinzione fra il male e il bene o, se vogliamo, fra il lecito e l'illecito viene fatta sia dai religiosi sia dai laici, sulla base comune di una certa concezione di diritto naturale, che è sempre presupposta da entrambi come base implicita o esplicita del diritto positivo. È, infatti, sulla base di diverse concezioni del diritto naturale presupposto ed implicito che poi i due schieramenti si dividono, e solo secondariamente e sussidiariamente la divisione avviene sulla base di richiami letterali ad un testo sacro (si veda l'esempio dell'aborto e dell'eu-

tanasia). A questo punto, non esistono e non possono esistere politiche "pure", che non siano cioè in qualche misura forme secolarizzate in un precedente contenuto religioso, diversamente destrutturato e decostruito. Il "laicismo", così come noi lo conosciamo, è in genere una specifica forma di secolarizzazione di un precedente contenuto semi-religioso, quello prodotto dal deismo razionale francese (Voltaire) e inglese (Locke). In quanto specifica forma di secolarizzazione di un precedente monoteismo europeo, questo "laicismo" non può pretendere di essere univocamente universalistico, come se si trattasse di un metodo "neutro" rispetto ai valori. Quanto ho appena notato non intende essere un argomento contro il laicismo né, tanto meno, un argomento in favore del clericalismo. Nell'essenziale, io mi ritengo un "laico", in quanto non aderente ad una specifica religione rivelata - anche se, ovviamente, mi riservo il sovrano diritto di giudicarne alcune migliori ed alcune peggiori, e non dico quali, perché certamente stupirei il lettore - intendo solo mettere in guardia dall'eccessiva presunzione occidentalistica di credere che il laicismo sia un'invenzione "neutra" rispetto ai valo-

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Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

ri, come lo possono essere la penicillina o la vaccinazione antivaiolosa. Tutto questo, però, è ancora largamente secondario, sussidiario e preliminare rispetto al vero problema, che è quello della ridefinizione radicale, che propongo del concetto di "laicismo". Nella mia impostazione teorica, il laicismo moderno non consiste tanto nella separazione e nella conseguente prevalenza della poli-tica sulla religione - derubricata a fatto "privato" di fede, e dunque anche "privata" della sua interpretazione del diritto naturale - quanto nella separazione e nella conseguente prevalenza del-l'economia sulla religione. È questo, infatti, il prodotto di un cu-rioso occultamento, su cui si fonda il laicismo non solo italiano (faccio qui solo l'esempio del guru del sistema mediatico Euge-nio Scalfari). La prevalenza dell'economia sulla religione viene fatta passare per prevalenza della sfera politica pubblica su quella privata re-ligiosa. Mi rendo conto che tutto questo può sembrare strano ed estremistico, ma lo sembrerà molto meno, se si studierà con at-tenzione la genesi storica e ideologica del laicismo moderno. h) una prima fase, infatti, il contrattualismo politico proclamò la propria superiorità razionale sul tradizionalismo religioso, in base al ragionamento, per cui lo stesso contrattualismo si fondava su un appello alla maggioranza dei potenziali cittadini chiamati alla stipulazione del contratto sociale,. mentre il tradizionalismo reli-gioso si rivolgeva non ai cittadini, ma solo ai sudditi del monarca investito da uno (pseudo) diritto divino: in questa fase, effettiva-mente, c'era una superiorità della politica sulla religione. In una seconda fase, tuttavia, che inizia verso la metà del Settecento, l'utilitarismo di Hume sostituisce il contrattualismo di Locke nel-la fondazione filosofica della società moderna. Gli uomini non si associano più liberamente in una comunità politica, sulla base di un contratto, ma sulla base di legami reciproci di tipo esclusiva-mente economico. È la "mano invisibile" del mercato, infatti, non la mano visibile del contratto politico, a legare veramente gli uo-mini fra di loro in società. Se questo è vero, ed è storicamente documentabile che lo è, allora è l'economia capitalistica a preten-dere di essere la vera "seconda natura" artificiale dell'uomo, e non il contratto politico fra i cittadini. La stessa critica di Hume alla categoria filosofica di causalità, a mio avviso, non è che una metafora sofisticata del fatto che non è un contratto politico a causare il legame sociale: questo legame sociale si costituisce da solo, senza alcuna causa esterna,

sulla base di una tendenza naturale innata dell'uomo a scambiare, cioè a vendere e a comprare. La preferenza di David Hume per il concetto di natura umana spontaneamente mercantile, anziché per il concetto di patto so-ciale e di contratto politico, dimostra indubbiamente una grande intelligenza e, soprattutto, una magnifica preveggenza. È noto che tutta l'economia politica - dicendo "tutta", intendo proprio tutta, non solo una sua scuola particolare - si basa concettualmente su un unico fondamento filosofico "monoteistico": la società umana in generale, minimo comun denominatore di tutte le varie socie-tà storiche e geografiche particolari, trova il suo legame sociale spontaneo nel mercato, cioè nell'atto di scambiare, comprare e vendere. Il politico esiste, ma esiste solo nella misura in cui "se-gue", quindi viene dopo questa fondazione. Le varie religioni sono, a questo punto, rispettate, ma unicamente se non mettono in discussione questa fondazione sacra della società come mer-cato. Tutte le religioni storiche vengono perciò svuotate, una ad una, da residue pretese "sostantivistiche" sulla struttura della società; infatti, storicamente, sono stati "secolarizzati" prima il protestantesimo e l'ebraismo, il cattolicesimo e l'ortodossia sono già a buon punto, mentre l'islamismo continua a difendere un certo intreccio fra politica, economia e religione, ed è per questo che il pensiero laico occidentalista lo odia in modo particolare. In tutta questa bella operazione, di cui, appunto perché è sotto gli occhi di tutti, non si accorge nessuno - ma già Hegel diceva che il noto, proprio perché è noto, non per questo è conosciuto - c'è però un difetto di fabbricazione e di struttura. Un solo difetto, ma tale da far cadere l'aereo ed affondare la nave. È infatti vero che Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzagione

esiste la natura umana, ma non è affatto vero che la natura umana è "naturalmente" mercantile. Lo stesso scambio, ammesso che sia naturale - e posso concedere che lo sia - non è detto debba assumere ad ogni costo una forma mercantile. La forma del "dono" è stata rilevata storicamente ed antropologicamente ancora più di quanto lo sia stata la forma della merce, in particolare la riduzione della forza-lavoro umana a merce. La presente globalizzazione, che dal punto di vista filosofico è una vera e propria anglo-balizzazione, sembra per ora generalizzare la concezione di

natura umana di David Hume. Per quanto tempo ancora? Non lo sappiamo; la sola cosa certa è che la teoria della fine della storia è oggi solo una grottesca modalità di riciclaggio dei tifosi di Stalin in nuovi supporter delle multinazionali. Premesso tutto questo, ovviamente, il discorso sulla definizione di Modernità non è affatto chiuso, anzi è appena aperto. Una volta respinto, infatti, il luogo comune, che ci impone il conformismo politicamente corretto dell'occidentalismo trionfante, inizia la riflessione problematica. A tale proposito, visto che lo spazio concessomi mi impedirebbe di discutere analiticamente tutte le proposte di definizione presenti nel mercato librario occidentale, mi limiterò a segnalarne soltanto due, che condivido personalmente in buona parte: quelle di Zygmunt Bauman e di John Gray. Nel linguaggio di Bauman, il "moderno" non è un tempo storico che dura già da mezzo millennio, ma semplicemente il campo problematico dell'interpretazione del mondo di oggi, cioè della "finestra temporale" contemporanea, e questo mondo di oggi sarebbe caratterizzato da una condizione «liquida» (questa è la sua espressione), cioè dal fatto che «... con il mondo che corre ad alta velocità ed in crescente accelerazione non si può più fare affidamento su schemi di riferimento che si pretendono utili in base alla loro presunta durata nel tempo».

Come si vede, un profilo antropologico non incompatibile con quanto afferma Giinther Anders (l'uomo è "antiquato", perché non è più in grado di correre alla velocità impostagli dal cosiddetto "pro160

gresso" economico e soprattutto tecnologico) e con quanto sostiene Christopher Lasch (l'identità dell'Io post-borghese tende al rninimalismo, perché ormai la riproduzione sistemica globale non ha più bisogno di identità forti). Questa nuova "liquidità" è, di fatto, incompatibile con le grandi strutture di pensiero religiose e filosofiche, che la Storia ha conosciuto in passato. Bauman non dà soluzioni, ma si accontenta di proporre al suo lettore una diagnosi del presente, che parta dal suo sintomo principale: la "liquidità", appunto. 161

John Gray è un filosofo liberale inglese, che non ha ovviamente alcuna sim-

patia per Bin Laden e per il fondamentalismo messiarúco dell'Islam politico. Nello stesso tempo, si rifiuta di definire la cosiddetta "modernità" in base all'addizione proposta in genere dal sistema mediatico-universitario: modernità = tecnologia + laicità. Gray fa opportunamente notare che la cosiddetta "laicità occidentale", sempre incapace di relativizzarsi e di confrontarsi con altre forme di pensiero, invoca in genere la stessa pretesa di assolutezza universalistica - sia pure rovesciata di 180% - invocata da Bin Laden, che utilizza la stessa strumentazione (anche se ovviamente rovesciata) ideologica e tecnologica usata dai suoi avversari occidentali. Con questo, Gray non intende assolutamente "dare ragione a Bin Laden", ma semplicemente proporre che il solo modo coerente di definire la modernità presente è l'utilizzo massiccio della tecnologia e dell'ideologia, al di là degli scopi "metafisici", che questo meccanismo sostiene di perseguire. È interessante, ed è probabilmente una conseguenza non voluta, che il filosofo analitico ultra-anglosassone Gray finisca con il convergere, inconsapevolmente, con la diagnosi di Martin Heidegger, per il quale aspetto tipico del tempo presente, o "moderno" che dir si voglia, è la cosiddetta risoluzione finale della lunga storia della metafisica occidentale in "tecnica planetaria". Il termine "tecnica", naturalmente, non significa insieme di macchinari, tecnologie e modalità produttive industriali, ma connota una situazione di generalizzata irresponsabilità e, soprattutLa democrazia nell'epoca della globalizzazione Il popolo al potere

to, di impotenza dei progetti "umanistici" di intervento, a causa del peso soverchiante assunto dai meccanismi riproduttivi di un insieme sociale autonomizzato (cui Heidegger dà il nome tedesco di Gestell, per indicare una sorta di imposizione anonima di un impianto, che si guida ormai da solo). A mio avviso, Bauman, Gray e Heidegger hanno sostanzial-mente ragione, almeno nell'interpretazione che mi permetto di dare. La metafisica laica del progresso, che è per me solo la co-pertura pseudo-filosofica della produzione illimitata di merci e servizi trasfigurata in progetto prometeico umano, non è piìi universalistica di quanto possano aspirare ad esserlo Finduismo shivaitico o le varie forme di messianesimo settario: ha avuto semplicemente più "successo", almeno per ora, ma, per chi ha una concezione veritativa della filosofia, il successo non è un argomento o, quanto meno, è solo un elemento problematico da discutere e non un argomento definitivo. C'è chi ha inter-

pretato Hegel come un teorico dell'equazione di verità e di successo o, più esattamente, di verità filosofica e di successo storico, ma co-storo sono, a mio avviso, solo dei confusionari, perché confon-dono l'idealismo tedesco con il pragmatismo americano. Il tes-suto filosofico del comunismo storico novecentesco era una for-ma di pragmatismo storicistico travestito da materialismo mes-sianico, e infatti il suo tragicomico fallimento ha comportato au-tomaticamente il pittoresco autoscioglimento sia del clero dei sa-cerdoti che del popolo dei fedeli, passati in massa al provvisorio vincitore. È questa la logica di ogni pragmatismo consequenziale con le sue premesse. Il vero è ciò che sembra funzionare, ma, appunto, qual è il raggio temporale, che permette di dire che funziona veramente? Il Moderno è dunque urta posta in gioco di interpretazioni inter-minabili, di cui nessuna può dirsi risolutiva. Così deve essere in-terpretata anche la forma democratica della modernità.

Definizioni del Post-Moderno. 162 163

La democrazia nel tempo della post-modernità Post-Moderno significa un tempo che viene dopo il Moderno. Abbiamo visto che sia Bauman che Gray rifiutano sostanzialmente questa formulazione, limitandosi ad una interpretazione "dialetti-ca" della modernità. Se così fosse, però, la cultura contemporanea da quasi trenfarmi sarebbe in balia di una illusione inesistente, per-ché continuerebbe ad usare un termine, che non corrisponde a nul-la. Per evitare confusioni ulteriori, bisogna cercare di proporre una definizione ragionevole e condivisibile di post-modemo. Il post-moderno può essere allora definito come una interpretazione della modernità, che ne vede contestualmente anche il tramonto e il pas-saggio ad una nuova fase storica, appunto post-moderrta. Non intendo qui polemizzare con chi vede nel post-modemo la fine della Storia, perché è stato tipico di alcune concezioni messianiche della modernità, come ad esempio il marxismo-leninismo, proporre teorie fondate sulla fine della Storia. Il fatto che per alcuni la fine della storia umana sia il comunismo mondializzato e per altri sia il capitalismo globalizzato, è certo importante per la classe dei politici e degli operatori mediatici, ma è del tutto privo di interesse per i filosofi, che conservano la capa-cità di diagnosticare lo stesso vizio

concettuale in teorie apparen-temente opposte, ma in realtà complementari e antitetico-polari. Mi limiterò allora a ricordare le due accezioni di post-modemità proposte da due pensatori francesi, Alain de Benoist e Jean-Franois Lyotard, integrandole con una mia valutazione personale. Per Alain de Benoist, la post-modernità è sostanzialmente l'epo-ca storica del tramonto della dicotomia sinistra/destra o, più esat-tamente, del tramonto della pertinenza sociale e politica di questi schieramenti, per trattare il "contenzioso" che sorge inevitabil-mente dai contrasti sociali stessi. La dicotomia sinistra/destra nac-que da un processo storico ben preciso, in cui la verticalità religio-sa della legittimazione simbolica dell'insieme sociale fu sostituita Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globaltzzazione

dalla nuova orizzontalità - il piano Sinistra/Destra è appunto un piano orizzontale - cui corrispondeva storicamente la società borghese-capitalistica, una società di eguali formali e di diseguali sostanziali. Questa nuova configurazione, orizzontale e non verticale, in cui l'orizzontalità diventa il piano di scorrimento di due nuovi partiti metafisico-sociologici, il partito dell'eguaglianza e il partito della diseguaglianza, ha permesso a commentatori come Norberto Bobbio di individuare nell'opposizione eguaglianza /diseguaglianza la linea di separazione metastorica e metapolitica fra Sinistra e Destra. Secondo de Benoist, tutto ciò è diventato obsoleto con la nuova epoca storica, da lui definita post-moderna, in cui la sinerg,ia fra nuovo turbocapitalismo totalitario - la cui legittimazione neoliberale assume di fatto una funzione totalitaria - e il crollo del comunismo fanno saltare i presupposti ideologici della vecchia dicotomia, così che la nuova, ammesso che ci sia, è fra il totalitarismo neoliberale, che ricicla il vecchio binomio antifascismo/anticomunismo ormai funzionale alla sua dittatura, e le nuove forme differenziate e incomponibili di comunitarismo politico e sociale, che gli si oppongono. Alain de Benoist è arrivato a questa conclusione attraverso una radicale "decostruzione", durata più di trent'anni, della tradizione culturale di destra, così come - mi si permetta un riferimento autobiografico personale - sono arrivato anchio a conclusioni simili attraverso una radicale decostruzione

della tradizione culturale di sinistra. Il fatto, però, che io resti un difensore dell'universalismo, mentre de Benoist non lo è, dimostra che le rispettive convergenti decostruzioni non sono state in grado di sciogliere il nucleo metafisico originario, e questo può essere un interessante argomento di ragionamento e di discussione. Per Jean-Francois Lyotard, la post-modernità è fondamentalmente l'epoca della fine delle grandi narrazioni. Le grandi narrazioni sono quei racconti metastorici di salvezza e di emancipazione umana, che danno un senso al divenire storico, che di per sé non ce l'avrebbe. 164 165

La prima grande narrazione è, ovviamente, quella cristiana, modello di ogni posteriore promessa soteriologica. Una prima secolarizzazione di questa grande narrazione è l'intreccio fra la grande narrazione illuministica di affermazione progressiva della ragione nel mondo e la grande narrazione capitalistica del consumo garantito a tutti. Una seconda secolarizzazione è la successione della concezione speculativa hegeliana della realizzazione dell'idea universale attraverso la dialettica storica "negativa", e poi della posteriore concezione marxiana della realizzazione di una società mondiale universale senza classi, attraverso il rovesciamento della "negatività" capitalistica stessa. Per Lyotard, al mondo delle illusioni grandi-narrative - tipico della modernità - succede il mondo della performatività, cioè dell'efficienza sistemica, ottenuta mediante una sintesi di tecnologia e di integrazione sociale consumistic a. Lyotard e de Benoist sono entrambi figli della cultura parigina. Il primo ha decostruito la delusione provata dal personale disincanto verso la propria precedente adesione alla forma più radicale possibile di marxísmo, cioè il consiliarismo del gruppo Socialismo ou Barbarie. Il secondo ha invece decostruito il proprio precedente impossibile tentativo di creare un sistema coerente del "mondo visto da destra". Questa onesta radicalità è possibile solo sulle rive della Senna, perché in Italia la lunghissima tradizione dell'ipocrisia e della mediazione "centrista" ha reso e tuttora rende impossibili le diagnosi radicali. Soltanto le diagnosi radicali, però, sono interessanti e feconde, laddove il pensiero consociativo ed autocensorio assomiglia ad un motore in folle, in cui non vengono mai innestate le marce. Con questo, non intendo dire che Lyotard ha ragione; è chiaro, infatti, che le "grandi narrazioni" sono astrazioni sempre moltiplicabili a piacere - ad esempio, la grande narrazione messianica imperiale di Bush è tuttora in corso - e che il fatto che il ceto deluso degli intellet-

tuali rifluiti non creda più in esse non significa che la gente comune se ne sia liberata e si accontenti di un consumismo performativo, peraltro oggi sempre

più Il popolo al potere La

democrazia nell'epoca della globalizzazione

ridotto perchè, per consumare, bisogna prima lavorare ed essere pagati adeguatamente, mentre i salari, ottenuti con il lavoro fles-sibile, precario, instabile e sempre più decentrato in Cina e in Romania, non sembrano in grado di sorreggere l'edortismo "postmoderno" lyotardiano. Il discorso potrebbe continuare a lungo, ma ci farebbe uscire troppo dal tema. Per ora, basterà tenere a mente gli stimoli che ci vengono da un Bauman, da un Gray, da un de Benoist, da un Lyotard. Per guarito mi riguarda, e scusandomi per la brutale semplificazione, ritengo che siamo ancora nella modernità, da me definita come il tempo dell'egemonia dell'economia sulla ri-produzione globale della società — secondo il modello filosofico di David Hume e il modello economico di Adam Smith — e che la nozione di post-modernità non ne indichi un vero e proprio superamento, ma soltanto una fase storica interna ad essa. Si trat-ta, però, di una fase dai caratteri veramente nuovi e peculiari, che sarebbe sciocco non tenere in adeguata considerazione.

Il mito della globalizzazione. Una prescrizione che si traveste da descrizione Secondo urta definizione proposta dall'OCSE, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la globalizzazione è «quel processo, mediante il quale i mercati e la produzione nei diversi Paesi sono sempre più interdipendenti, in corrispondenza della dinamica degli scambi di beni e servizi e dei movimenti di capitali e tecnologie».

Come si vede, la definizione identifica di fatto se stessa con l'interdipendenza economica e tecnolog,ica, per cui si può parlare di un'equazione di questo tipo: globalizzazione = interdipendenza.

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Molti economisti e storici dell'economia, come Elvio Dal Bosco, hanno rilevato che non si tratta affatto di una novità nella storia del capitalismo, ma della semplice ripresa di una tendenza secola- re, che ha avuto soltanto un'interruzione parziale nella parentesi "neo-mercantilistica" del periodo 19141950; tuttavia, non vi sono dubbi sul fatto che le analogie storiche sono sempre improprie, perché i fenomeni non si ripresentano mai veramente eguali. Pos-siamo, allora, partire dal fatto che il processo, oggi chiamato "globalizzazione", presenta alcune novità e non è una semplice ripresentazione di fenomeni passati. Se accettiamo l'equazione "globalizzazione = interdipendenza neoliberale", ci accorgiamo subito che esiste la sostituzione di un indicativo con un imperativo, di una descrizione con una pre-scrizione, cioè di una affermazione descrittiva (del tipo: esiste qualcosa chiamato globalizzazione) con una prescrizione impe-rativa (cioè: globalizzatevil). Il tutto è presentato in forma reli-giosa, nella veste di un destino inevitabile e inesorabile, con me-tafore naturalistiche come "il turbine della globalizzazione", "la corrente della globalizzazione" e così via. Esattamente come av-veniva nel caso del defunto e non rimpianto materialismo dialettico sovietico, le prescrizioni sociali vengono presentate come casi par-ticolari di metafore naturali: si tratta della riproposizione — che sarebbe ridicola, se non fosse tragicomica — del vecchio modello del pensiero primitivo, che inseriva il microcosmo umano e sociale in un macrocosmo naturale ineluttabile. Evidentemente, questo co-dice paleolitico funziona sempre, alla faccia del razionalismo gre-co posteriore. In quanto dittatura neoliberale del mercato, la globalizzazione è incompatibile con la democrazia. La democrazia implica un plu-ralismo di posizioni, rivolto ad "addomesticare" il conflitto, lad-dove la globalizzazione è solidale con un vero e proprio "pensiero unico". Penso, però, che sia un errore riduzionistico identificare semplicemente il pensiero unico con il neoliberismo economico: nessun "pensiero unico" si è mai limitato al semplice fattore eco-nomico: il pensiero unico segue una logica monoteistica e, per di più, di un monoteismo rigido e intollerante. Una religione del mer-cato di questo tipo non sopporta la concorrenza di altre religioni Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

rivali e si limita, al massimo, a tollerarne i culti in cripte e catacombe esclu-

se dall'informazione erogata dal circo mediatico unificato. Il pensiero unico della dittatura neoliberale della globalizzazione presenta un aspetto economico (il neoliberismo, appunto, contrapposto ad un ventaglio di figure diaboliche come il comunismo, il keynesismo, il populismo sociale, il protezionismo ecc.), un aspetto politico (la preferenza per il sistema elettorale bipolare maggioritario, con contestuale formazione di due direzioni "centriste responsabili" in entrambi i poli, invitati ad enfatizzare le loro differenze identitarie sulla base di profili culturali estranei alla "polpa" economica) e, infine, un aspetto culturale (un multiculturalismo alla Benetton, caratterizzato da girotondi di bambini bianchi, neri e cinesi, unificati da un comune accesso ad un'unica società dei consumi, in cui l'unica diseguaglianza "razziale" non è più la pelle, ma la differenza dei redditi). Questo pensiero unico tende al monolirtguismo (unica lingua globale, la lingua inglese; le altre, solo per folklore locale, mafia italiana, grosso e grasso matrimonio greco, corride spagnole, birrerie tedesche, cultura sofisticata francese ecc.), all'ecumenismo religioso unificato (onora il tuo Dio come vuoi, purché questo Dio non abbia obiezioni etiche ed economiche verso la globalizzazione e la società mondiale dei consumi) e ad un unico bilancio "condiviso" del passato storico (il Novecento fu orrendo, perché funestato dal totalitarismo nazista e comunista, l'utopia è però stata defniltivamente falsificata e si tratta solo di estendere i diritti umani universali a pochi Stati-canaglia recalcitranti). 168 169

Questo pensiero unico idolatrico - la religione del mercato è infatti una vera e propria idolatria in senso letterale - è incompatibile sia con la democrazia intesa come autogoverno delle piccole comunità, sia con la democrazia intesa come forma di governo politica degli Stati nazionali moderni, sia, infine, con la democrazia intesa come prevalenza del demos, cioè della parte più povera della popolazione. Si tratta di tre incompatibilità distinte e nello stesso tempo in correlazione tra loro, per cui l'unica interconnessione, che personalmente vedo nella globalizzazione, è proprio questa. È pertanto logico e del tutto normale che, quello che è spesso impropriamente chiamato movimento anti-globalizzazione e No Global, non sia un movimento "puro" e unitario, ma un'alleanza quasi sempre instabile tra chi difende le comunità, chi difende lo Stato nazionale - inteso come somma di sovranità monetaria e di sistemi di wellizre - e infine chi difende gli interessi del demos inteso

come aggregato degli economicamente svantaggiati. Queste tre componenti parlano tre lingue diverse, mentre il partito unico della globalizzazione ne parla una sola: l'inglese operazionale dei mercati finanziari. C'è dunque bisogno di una specie di "servizio di interpretariato", per far parlare e decidere insieme queste tre componenti distinte. In estrema sintesi, la democrazia, nell'epoca della globalizzazione, si pone, per ora, come un problema di mediazione linguistica. L'avversario dispone già di una lingua veicolare, noi invece dobbiamo generalizzarne l'apprendimento. I sostenitori in buona fede dei vantaggi della globalizzazione economica neoliberale, come l'economista indiano Amartya Sen, affermano che la globalizzazione all'inizio può effettivamente dare qualche problema, ma a medio e a lungo termine sarà benefica, perché incrementerà l'industrializzazione e la specializzazione produttiva in aree fino ad oggi sottosviluppate. Si tratta quasi sempre del vecchio argomento dei cosiddetti "costi comparati", già ampiamente usato nel Settecento: al Portogallo conviene produrre vino, perché costa meno che in Inghilterra, e all'Inghilterra prodotti tessili manufatti, che costano meno che in Portogallo, in modo che il reciproco scambio alla fine conviene a tutti e due. Chi sostiene oggi che conviene lasciar chiudere il tessile italiano, perché costa di più che in Cina e in Romania, e rifarsi con una buona tecnologia di esportazione - o addirittura con la moda di lusso italiana, che la nuova famelica classe media post-comunista cinese e romena è disposta a comprare ad ogni costo - ripropone pari pari la teoria dei costi comparati. È però da dimostrare che la teoria dei costi comparati, che in due secoli non Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

ha garantito al mondo una crescita sana ed equilibrata, riuscireb-be ora, per miracolo, a garantirla sotto l'etichetta magica di "globalizzazione". Non c'è dubbio che, agli ingegneri informatici indiani della Silicon Valley locale di Hyderabad, la "globalizzazione" conviene. È già più dubbio che convenga ai lavoratori messicani delle maquiladoras, sottoposti a condizioni e ad orari di lavoro, che ricordano l'Inghil-terra dell'inizio della prima rivoluzione industriale. Il discorso po-trebbe continuare, ma questo non è un saggio di tipo economico, ed è allora più opportuno tornare al nostro problema. modo migliore di concludere consiste nello specificare il (mancato ed impossibile) rapporto fra la democrazia e i tre diversi soggetti storici, sociali e comunitari prima indicati.

Per quanto riguarda il rapporto fra la globalizzazione e le comu-nità locali, è evidente che essa annulla ogni possibile democrazia. Democrazia, per le comunità locali, significa soprattutto autodeterminazione sui sistemi produttivi e sugli ecosistemi am-bientali, in cui queste comunità vivono e si riproducono. Il motto proposto per l'autoderminazione democratica delle comunità lo-cali è «agh-e localmente, pensare globalmen‐ te», ed è difficile trovarne uno più appropriato. Si pensa globalmente in termini di ambiente e di sviluppo sostenibile e si agisce localmente in termini di difesa del territorio e del suo ecosistema. Al di fuori di questo quadro, si en-tra in un sistema orwelliano, in cui verrebbe chiamata "democra-zia" la costrizione ad adeguarsi a scelte presunte "sistemiche" fat-te altrove. È vero che, se si agisce localmente e non si pensa global-mente, qualsiasi comunità può essere tacitata e corrotta spostan-do altrove il suo problema (tipo: «Tu non vuoi l'inceneritore e, siccome hai un deputato locale potente, lo spostiamo in un posto, in cui il deputato locale conta come il due di picche»). È questa la ragione, per cui un agire locale senza un pensiero globale non ri-solve il problema. 170 171

Per quanto riguarda il rapporto fra la globalizzazione e la sovra-nità dello Stato nazionale, è evidente che esso oggi ruota sui pro- getti di ridimensionamento e/o di smantellamento del welfare. C'è chi non teme questi progetti, anzi ne è segretamente contento, per-ché pensa che così si possa superare la passività assistenzialistica prodotta dallo statalismo e si possa quindi tornare al cooperativismo volontario ottocentesco delle origini. Io non condivido affatto questa opinione, la considero anzi una pericolosa sciocchezza. Il welfare non fu principalmente un regalo keynesiano, attuato in deficit del bilancio pubblico, e neppure urta "toppa" messa ad un abito sdrucito. Non fu neppure una semplice mossa di arginamento del comunismo e delle sue possibili seduzio-ni, anche se non trascurerei di esaminare questa eventualità. Il welfarre fu essenzialmente una conquista democratica, un'attenuazione vir-tuosa del "regno della necessità". La prevalenza del capitale finanziario, e delle sue esigenze globalizzate di concentrare rapidamente gigantesche somme di denaro per le strategie di tipo bellico, porta naturalmente a un impoverimento del welfare e delle sue spese, con-siderate "improduttive". Si vorrebbe allora una democrazia, che accettasse, ed anzi favorisse fra canti popolari, lo smantellamento del wellare. Questo mi ricorda irresistibilmente la

setta russa dei co-siddetti Skoptsy, i cui aderenti si castravano cantando g,ioiosi litanie ortodosse da vecchi credenti. Per quanto riguarda, infine, la globalizzazione nel suo rappor-to con la prevalenza del dernos, le statistiche parlano da sole, poichè da esse si evince l'aumento del differenziale dei redditi fra la parte più ricca e la parte più povera della popolazione e il fatto che ormai il bilancio di una multinazionale media è molto più alto di quello di un popoloso Stato asiatico o africano. Chi non si fida delle opinioni e sostiene che invece la matematica non è un'opinione, è invitato a dare un occhiata alle statistiche del cosiddetto "sviluppo". C'è chi crede che la globalizzazione faccia bene all'agricoltura: chi lo crede, è invitato a riflettere sul-le ragioni, che spingono gli emigranti poveri ad affollarsi su barconi sfondati, pagando per questo un prezzo superiore a quello pagato dal turista europeo medio, che fa il percorso inverso sul Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

Mediterraneo in una confortevole cabina di una nave da crociera. È anche vero, però, che solo chi "pensa globalmente" è in grado di istituire questo scandaloso rapporto. L'affermazione, per cui la globalizzazione, al di là dei buoni propositi, è negativa, non è dunque settaria ed estremistica, ma è purtroppo un'affermazione fattuale. A questo punto, però, il ragionamento deve articolarsi ulteriormente, prendendo separatamente in esame gli aspetti interni, prima, e gli aspetti esterni, poi, di questo svuotamertto della sovranità delle decisioni democratiche.

L'elemento interno dello svuotamento della sovranità democratica: il tramonto della sovranità dello Stato nazionale Lo Stato nazionale non gode oggi di buona stampa, il che non significa, ovviamente, che sia di per sé cattivo, perchè questo non è, infatti, mai dovuto al fatto che una cosa sia buona o cattiva in sé, ma soltanto al fatto che il clero mediatico ed universitario decidano o meno, sempre su mandato di chi sta

"più in alto" di loro, se parlare bene o male di qualcosa. Oggi, la parola d'ordine politicamente corretta è più o meno questa: «Abbasso lo Stato nazionale!». La nazione è una creazione artificiale, la cui inesistente "tradizione" è stata letteralmente inventata da un manipolo fanatico di intellettuali romantici; lo Stato nazionale è stato il grande responsabile del nazionalismo imperialistico, che ha prodotto i bagni di sangue del Novecento; viva la convivenza multi-etnica, multi-culturale e multi-nazionale; bombardiamo i gruppi tribali incapaci di attuarla, come la civiltà dei diritti umani pretende; viva un mondo globalizzato senza più nazioni, in cui tutti abbiano una sola lingua e un solo magnifico e simbolico concerto rock, naturalmente dedicato alla pace ed all'invio di cibo e di medicine ai poveri negretti! 172 173

Chi, come me, crede ancora ad una versione migliorata della teoria delle strutture sociali e dei modi di produzione ricavata da Marx, interpreta questo unanime odio verso lo Stato nazionale in termini di diversa fase del processo di accumulazionecapitalistica. Ci fu un primo momento mercantilistico, in cui si ponevano dazi e dogane terribili per favorire la propria accumulazione - si vedano le guerre navali del Seicento fra la "liberista" Olanda e la "mercantilistica" Inghilterra - cui seguì una seconda fase liberistico-nazionale, in cui dominò il mito del libero scambio e dell'ideologia economica dei virtuosi costi comparati, e infine si è giunti ora alla terza fase finale di una globalizzazione neoliberista, basata sulla "mano invisibile" di un mercato puro mondiale senza più sopravvivenze fastidiose di Stati nazionali, populismi leghisti, donne con il velo ecc. Chi studia, in modo concreto e non mitologico, l'attuale sistema economico mondiale, sa bene che la cosiddetta "globalizzazione mercantile superstatuale", dominata da transnazionali meticce non più radicate in territori statualmente determinati, è un mito. Al contrario, lo Stato nazionale esiste ancora ed è talvolta addirittura rafforzato, ma non più come centro culturale: esso sostiene e supporta, con interventi militari e diplomatici continui, l'azione non di generiche transnazionali meticce, ma delle proprie multinazionali. In proposito, gettare via affrettatamente la teoria dell'imperialismo di Lenin, con la scusa della tragicomica dissoluzione delle miserabili e criminali burocrazie del defunto comunismo storico novecentesco, sarebbe un grave errore, anche se so bene che la mia, per usare l'espressione di Luigi Einaudi, è una "predica inutile".

In ogni caso, c'è un punto da cui partire, che, essendo di carattere storico, dovrebbe ottenere il consenso di tutti i lettori: così come storicamente la democrazia antica ebbe come luogo geografico e politico di insediamento la poEs, nello stesso modo storicamente la democrazia moderna ha avuto, come luogo geografico e politico di insediamento, lo stato nazionale. Non c'è infatti democrazia senza un determinato insediamento storico, e questo è naturale, se Il popolo al potere

pensiamo che l'uomo, questo ente naturale generico caratterizza-to antropologicamente dalla razionalità e dalla socialità, esercita concretamente tale genericità nella forma ontologica della storicità. Il concetto universale di "democrazia" dunque esiste, ma, di fatto, solo nella sua determinazione storica specifica. Il lettore che cono-sce la storia della filosofia sa che non faccio che applicare la con-cezione di universale presente in Aristotele e in Hegel, con sovrana indifferenza nei confronti di tutti i relativismi, da Gorgia a Wittgenstein, fino a Kelsen e a Rorty. Il pensiero politico moderno ha infatti elaborato due categorie, che avrebbero dovuto funzionare in modo complementare: una te-oria dello Stato nazionale democratico, in grado di esercitare una sovranità reale sull'organizzazione pubblica della convivenza dei propri cittadini, e una teoria dell'organizzazione internazionale come luogo di mediazione fra conflitti interstatuali (si pensi al-l'utopia della "pace perpetua" di Kant). È allora evidente che non esiste più alcuna democrazia, se entrambe le istituzioni lo Stato nazionale e l'Organizzazione internazionale - vengono svuotate di ogni sovranità (lo Stato nazionale) e di ogni neutralità mediatri-ce (l'Organizzazione internazionale). È questa, appunto, la si-tuazione attuale, in cui l'ONU conta come il due di picche, con la sua pletorica e corrotta burocrazia multicolore sotto ricatto e sotto schiaffo da parte dell'impero americano unilaterale, e in cui gli Stati nazionali piccoli e medi non hanno più alcuna so-vranità economica, perché è stata loro tolta da centri oligarchici auto-cooptati, che regolano il commercio e il sistema finanziario mondiale. Iniziamo dall'aspetto interno. Il sociologo inglese Colin Crouch, che non è affatto un "estremista" anarchico o marxista-leninista, ma solo un con-

vinto sostenitore della positività sociale delle politi-che del welfare moderno per impedire la dissoluzione del legame sociale, parla della situazione affilale come di una post-democrazia. Ora, se le parole hanno ancora un senso, post-denzocrazza significa che la democrazia prima c'era e adesso non c'è più. Intendendo la 174 La democrazia nell'epoca della globalizzazione

democrazia come una mescolanza (anama-z:s) di istituzioni politiche basate sul suffragio universale e sulla garanzia giusnaturalistica delle libertà individuali di opinione e di espressione, da un lato, e di prevalenza del demos economicamente svantaggiato, dall'altro - il lettore sa che questa è la mia concezione di democrazia - bisogna dire che Crouch ha ragione. La democrazia non c'è più e, per ora, vi-viamo in una post-democrazia. La democrazia, oggi, coincide di fatto con la resistenza popolare alla legittimazione delle istituzioni post-democratiche. Nella ricostruzione storica di Crouch, la fase democratica propria-mente detta coincide con i grandi compromessi politici e sociali a sfondo egualitario, che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra in Europa e negli USA che lo storico Hobsbawm definisce «i trenta anni gloriosi» 1945-1975 compromessi che sarebbero stati portati al loro massimo punto di tensione e di estensione dai movimenti . del 1968 e seguenti, per essere poi stroncati e condannati al riflus-so dalla crisi petrolifera degli anni Settanta e dal reaganismo-thatcherismo degli anni Ottanta. Dopo la svolta epocale di que-gli anni, sarebbe arrivato il tempo della divinizzazione del dio-azienda e della finanziarizzazione del capitale globale, tempo caratterizzato dall'apatia del cittadino, dal declino dell'uomo pubblico, dal cinismo antipolitico generalizzato e dall'aumento esponenziale delle pratiche di manipolazione mediatica dell'opi-nione pubblica e della costruzione "pubblicitaria" del consenso plebiscitario. Non sono sicuro di condividere interamente la ricostruzione storiografica alla Hobsbawm-Crouch. Per fare solo due esempi, ritengo, in primo luogo, che una fantomatica fase keynesiana unifi-cata mondiale non sia mai esistita - solo il keynesianesimo europeo fu infatti sociale e assistenzia-

le, quello americano fu sempre e solo esclusivamente militare - e, in secondo luogo, che il movimento sessantottino, a differenza di quanto ritiene Crouch, fu sistemico e non anti-sistemico, in quanto si trattò di un movimento indivi-dualistico anti-borghese e ultra-capitalistico, che tendeva ad abo175

Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

lire gli ultimi ostacoli "tradizionali", che impedivano il dominio post-classista della "merce pura". In questa sede, però, questi sono solo dettagli.

Nell'essenziale, posso dire che Crouch ha perfettamente ragione. Post-democrazia significa non-più-democrazia, e non-più-democrazia significa non democrazia. In questi casi, bisogna dire pane al pane e vino al vino, senza fare la minima concessione al galateo politologico ipocrita in uso. Ovviamente, Crouch analizza solo il lato interno della questione e non quello esterno, cioè l'aspetto imperiale, che a mio avviso è invece quello dominante. Lo farò io, nel prossimo paragrafo.

L'elemento esterno dello svuotamento della democrazia contemporanea: il configurarsi di un impero ideologico svincolato dà diritto internazionale Il diritto internazionale non ha, come suo scopo, l'unificazione etica e morale del mondo, ma solo la codificazione giuridica di un insieme di regole, atte a favorire la coesistenza pacifica fra gli Stati e la regolazione consensuale dei loro conflitti, così come il diritto interno non ha come scopo la fissazione del confine fra verità e menzogna, oppure fra opinioni fondate ed intelligenti e opinioni infondate e stupide, ma solo la libertà, la sicurezza e le tutele sociali dei cittadini. Il bene politico, l'esistenza della verità, la corretta interpretazione della natura umana, la disputa fra ontologia veritativa universale e relativismo convenzionalistico ecc., non sono di competenza della sfera giuridica e tanto meno di quella giudiziaria, né a livello interno né a livello internazionale. Ogni altra impostazione porta, a livello interno, allo Stato ideologico e, a livello esterno, alle guerre di religione comunque mascherate (la fede nei cosiddetti "diritti umani" è infatti una religione come le altre, con una sua inquisizione armata, che stabilisce quali siano i "veri" diritti umani e quali invece non lo siano). Da un punto di vista concettuale, l'opposto incompatibile con la nozione di diritto internazionale fra Stati è l'Impero. 176 177

Il diritto internazionale, come dice il termine stesso, è un diritto internazionale, cioè fra (Mter) nazioni distinte (nationes). Pluralismo nazionale e diritto internazionale fanno tutt'uno. L'impero (imperium) contiene, invece, una vocazione universalistica implicita, perché ritiene di avere un

mandato per comandare (imperare) sugli altri e, se si comanda, si comanda sempre con una mescolanza fra forza e consenso, ma fra i due termini la forza è l'elemento dominante, perché è con essa che gli imperi si acquisiscono e si mantengono, ed è per carenza di forza che si perdono. L'esempio dell'impero sovietico, che prima decadde per la perdita di consenso dell'ideologia comunista e poi si disgregò perché questa ideologia sovranazionale era il cemento della sua stessa forza, è indicativo. Vi sono stati, però, nella storia imperi a vocazione imperialistica 'espansiva, come l'impero romano, e imperi a fondazione universalistica ma non espansiva, come l'impero cinese. L'impero romano si dotò di una ideologia imperialistica espansiva sulla base dei due fondamenti della pace e del diritto, la pax romana e lo jus romanum. In quanto alla pace romana, essa era molto spesso un "deserto" - così si esprime Tacito - e, in quanto al diritto, si trattava della codificazione di urto schiavismo priva tistico, autolegittimato a sciogliere con la forza tutte le comunità umane non privatistiche e non schiavistiche. Nello stesso tempo, esistevano le foreste germaniche, i deserti, gli oceani ecc., e l'universalismo espansionistico dell'impero romano era reso impossibile da ragioni geografiche e tecnologiche. Anche l'impero ottomano ebbe una prima fase di espansionismo pseudo-universalistico - l'ideologia g-hazi della diffusione mondiale dell'islamismo, considerata la "vera" religione - ma, dopo il ciclo di guerre 1683-1699 in cui fu sconfitto per la prima volta in modo strategico e non solo occasionale, accettò la logica del diritto internazionale di Westfalia. L'impero austriaco e poi austro-ungarico non ebbe mai una logica universalistico-espansionistica, anche se Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

o i ente, fece guerre di tipo espansionistico. Lo stesso impero brit co, che si legittimava all'interno e all'esterno come portato-re della civiltà occidentale - ricostruita artificialmente come civiltà greco-romana-anglosassone - del mare libero e del libero comrnercio mondiale mutualmente benefico, non è mai potuto diventare un vero impero mondiale per la continua esistenza di rivali paragonabili (la Francia, la Germania, la Russia ecc.). Le cose sembrano a prima vista diverse, per quanto riguarda gli Stati

Uniti d'America oggi. Certo, esistono ancora potenze atomi-che in grado di scoraggiarne eventuali atti unilaterali di aggressio-ne - come, ad esempio, la Cina e la stessa Russia post-sovietica - ma tutte le potenze militarmente inadeg-uate vengono ormai rego-larmente attaccate (Iugoslavia, nel 1999; Irak, nel 2003 ecc.), in piena assenza di legalità internazionale e ridicolizzando urta ONU diretta da una banda corrotta di zio Tom anglofoni. Per dominare il mondo, infatti, non è sufficiente una ideologia di legittimazione unilaterale pseudo-universalistica, ma ci vuole anche e soprattut-to la tecnologia necessaria. Secondo l'analisi dell'economista egiziano Samir Amin, il presupposto materiale del progetto imperia-le di dominio globale del mondo è il possesso di cinque monopoli: il controllo delle tecnologie, il controllo dei flussi finanziari inter-nazionali, il controllo dell'accesso alle risorse naturali del Pianeta, il controllo dei mezzi di informazione e, infine, il controllo dei mez-zi di distruzione di massa. 178 179

Dal momento che condivido nell'essenziale la diagnosi di Samir Amin, ne deduco che la chiave teorica più adatta per interpretare gli eventi della storia contemporanea stia nella dinamica bipolare fra il tentativo degli USA di conservare il dominio su questi cinque monopoli - dominio, che ovviamente non può mai essere assoluto, ma deve essere almeno soverchiante - e il tentativo di altri fattori storici (individui, comunità, classi, popoli, nazioni, alleanze geopolitiche fra Stati ecc.) di contrastare, impedire, svuotare e, se possibile, ribaltare questo processo monopolitico imperiale. Come si può vedere agevolmente, in questa constatazione, che qualunque Machiavelli o Polibio farebbero, se fossero ancora vivi, non vi è nessun anti-americanismo preconcetto, c'è soltanto una diagno-si realistica dell'odierna situazione mondiale nei rapporti fra po-poli e Stati. In breve: è un fatto che il dominio monopolistico degli USA sia soverchiante e sproporzionato rispetto al potere di tutti gli altri; è un fatto che, per ora, tutti gli altri non sappiano, non possano o non vogliano esercitare un potere di coalizione in grado di scoraggiare la situazione imperiale; è invece un' opi‐ nione, e non un fatto, se questo dominio imperiale americano e questa correlata incapacità di coalizione mondiale di tutti gli altri sia un bene oppure un male. Dal momento che quest'ultima è un'opinione e non un fatto, espri-merò, come è mio diritto, l'opinione che ho io in proposito: il dominio imperiale

americano sul mondo, necessariamente basato sullo svuotamento della sovranità sia degli Stati nazionali che dell'orga-nizzazione internazionale di mediazione e di compensazione, è un nide. Non è un "male assoluto", perché tutti i mali sono relativi agli uomirú c_he li hanno commessi - più esattamente, il male è assoluto, ma la sua esistenza empirica determinata è sempre relativa al tempo e allo spazio (vedi, ad esempio, Hiroshima e Auschwitz) - ma è un male soprattutto rispetto alla democrazia come bene po-litico. Una buona vita (eu zeín), scopo della comunità politica, non può essere perseguita in assenza di libertà (eleutheria). Un impero che si fonda sul possesso di cinque monopoli, toglie, di conseguen-za, la libertà a tutti gli altri. Tutto questo mi sembra talmente evidente che non cesso di stu-pirmi, quando ascolto e leggo le scomposte accuse di anti-ameri-cartismo a tutti coloro che ricordano queste assolute ovvietà. Leg-go talvolta che, a sessant'anni dalla fine della seconda guerra mon-diale (1945-2005) e in totale assenza di impero comunista sovieti-co nel frattempo defunto, i giornali parlano di armi atomiche e chimiche segrete stoccate a Sigonella, ad Aviano, all'isola di La Maddalena ecc., in pieno spregio della sovrarútà territoriale italia-na, e queste notiziole passano in secondo piano di fronte al Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

chiacchericcio trash del ceto politico narcisisticamente onnipresente nella simulazione mediatica di destra (v. Primo Piano) e di sinistra (v. Ballarò). Sembra che i soli pericoli per la "democrazia" vengano dai conflitti di interesse fra capitalisti, dalle intercettazioni telefoniche ai banchieri e dall'arrembaggio dei deputati peones passati dalle pezze sul sedere agli strapuntini imbottiti dei salotti romani farciti di attori, registi, portaborse, guitti e signorine di piccole virtù. Personalmente, non credo a una "democrazia", che coesiste con armi atomiche e chimiche stoccate in basi militari straniere supersegrete, la cui stanza dei bottoni sta in lontani bunker del Montana o dell' Iowa. L'attuale impero americano è ideocratico, nel senso che la sua pretesa di potere mondiale (kratos) si fonda ideologicamente su una certa idea del mondo: un mondo senza confini (borders) chiusi, e un mondo in cui le cosiddette "frontiere" (frontiers) non sono limiti alla propria espansione, ma solo linee simboliche di oltrepassamento consentito, in nome, ovviamente, dei

propri valori nazionali eretti a valori universali da esportare. Questa concezione religiosa, come è noto, ha avuto la sua genesi storica nel puritanesimo protestante inglese del Seicento, che ha abituato i primi coloni sbarcati sulla costa americana a pensarsi attraverso la mediazione simbolica del popolo ebraico veterotestamentario, in fuga dall'Egitto per occupare poi militarmente la Terra Promessa, sterminandone le tribù che vi erano insediate. Questa mediazione simbolica, per cui un Dio esclusivista stringe un patto speciale con il suo popolo, e solo con il suo, non ha nulla a che fare con la tradizione occidentale greca, ma trova le sue origini nell'area mesopotamica, prima sumerico-accadica e poi assiro-babilonese. Alla luce, infatti, di qualsiasi analisi filosofica razionalistica, l'idea universalistica di Dio è incompatibile con una investitura esclusivistica di un solo popolo, presunto "eletto". Personalmente, devo dire di avere una certa conoscenza comparativa delle varie culture, che si sono sviluppate nel mondo, e di non conoscere nulla di più abbietto e ingiustificato della teoria antropomorfica della "preferenza" della divinità per un popolo. 180 181

Con questo, e lo voglio precisare per evitare possibili incresciosi equivoci, non intendo affatto esprimere un giudizio etico e filosofico negativo sull'intera tradizione ebraica. Non è così; nel monoteismo ebraico si è infatti aperta, fin dall'inizio, una dialettica fra una interpretazione esclusivistica e tribale della preferenza divina ed una interpretazione universalistica e messianica, che, partendo dall'unicità della divinità, ne derivava anche l'unicità di una concezione universalistica ed egualitaria di umanità e di genere umano. È anzi stato probabilmente lo sradicamento forzato del popolo ebraico dalla sua terra a nutrire per secoli l'idea di una nuova terra ideale, che fosse patria comune per tutti. il progetto sionista è, a mio avviso, qualcosa che non ha nulla a che fare con questo messianesimo universalistico: è solo il triste progetto di colonizzazione di una terra già largamente occupata — in cui gli Ebrei erano il 2°/0 della popolazione totale e in cui vivevano in pacifica coesistenza con gli altri, all'interno del benemerito impero ottomano multinazionale, multietnico, multilinguistico e multireligioso — progetto, che presupponeva l'espulsione massiccia dei suoi abitanti. Qui, però, mi fermo, perché non è questo l'oggetto del mio saggio. Non è questo l'oggetto, ma è bene averne parlato, perché il tema della democrazia "sfonda", inevitabilmente, tutti i confini disciplinari. La logica dell'impe-

ro ideocratico americano è, infatti, una logica di appropriazione privata della divinità. Tutto questo non mi stupisce affatto, perché una società basata sul fondamento della proprietà privata deve per forza, simbolicamente, giungere all'estensione di questo principio proprietario a tutti gli ambiti del mondo ideale, e quindi anche alla proprietà privata della divinità. Qui sta infatti, a mio avviso, la chiave interpretativa del cosiddetto "carattere religioso" della società americana; lo stesso Marx aveva, genialmente, parlato della merce come di qualcosa di "sensibilmente sovraserisibile". La merce è indubbiamente sensibile, ma l'idea che essa esista da sempre — il che, storicamente, non è affatto vero — e che, di conseguenza, debba esistere per sempre, è mistico-religiosa, e quindi sovrasensibile. La democrazia nell'epoca della globalizzazione Il popolo al potere

Presa in mezzo fra lo svuotamento della sovranità dello Stato na-zionale moderno e l'estensione dell'impero ideocratico americano fondato sui cinque monopoli, la democrazia non può vivere o, più esattamente, può vivere solo come democrazia di resistenza. Inol-tre, la democrazia presuppone, per essere esercitata, un cittadino informato ed educato; è allora logico che, chi la vuole rendere im-possibile, lavori in modo sistematico per la disinformazione e la diseducazione. Accennerò a questi due fenomeni nei prossimi due paragrafi.

Democrazia e informazione. La simulazione di un mondo parallelo virtuale creato dai grandi apparati mediatici Lo scrittore tedesco Martin Walser ha recentemente auspicato che si possa prima o poi produrre, contro il sistema mediatico pre-so nel suo complesso, una sollevazione di massa simile a quella verificatasi a suo tempo, secondo lui, contro la religione. Non oso sperare che un avvenimento tanto auspicabile e positivo possa verificarsi presto, ma non posso neppure fare a meno di sognarlo. Il sistema mediatico di oggi è, infatti, un sistema sostanzialmente unificato e solo gli ingenui e i superficiali pensano veramente che esso rifletta un vero pluralismo di punti di vista etici, economici, politici e religiosi.

Una simile affermazione, volutamente provocatoria e tranchante, richiede una spiegazione. Non intendo, ovviamente, negare il fat-to che esistano giornalisti con diverse opinioni politiche e diversi livelli di competenza professionale. Lo zoo mediatico comprende personaggi complessi, curiosi e intelligenti - faccio qui solo l'esem-pio dell'italiano Tiziarto Terzani, ma i nomi sarebbero certamente centinaia - insieme a veri e propri scag,nozzi stipendiati da appa-rati economici e militari. Non si tratta di vedere i singoli alberi, ma di guardare la foresta. 182 183

Il sistema mediatico di oggi è una vera e propria "Chiesa dell'in-formazione", che ha sostituito il vecchio clero religioso nella funzio-ne di mediazione simbolica fra dominanti e dominati e nella funzio-ne di interpretazione teologica della divinità monoteistica attuale (il mercato, per chi non l'avesse ancora capito). Come tutte le Chiese, questo sistema dispone di una gerarchia, di un sistema inquisitorio (l'opinione pubblica), di un codice punitivo delle infrazioni (il politi-camente corretto), di un sistema simbolico di atti leciti ed illeciti (parlare male degli Ebrei è proibito, parlare male dei Musulmani è con-sentito), di tecniche di esclusione e di silenziamento dei nuovi ereti-ci e dei nuovi apostati ecc.; è, pertanto, necessario studiarlo par-tendo da un solo principio metodologico: tutto ciò che il sistema mediatico dice di se stesso è falso. Non si tratta di un'esagerazione paranoide, ma di una semplice cautela epistemologica. Bisogna, tuttavia, guardarsi anche dal catastrofismo apocalittico e dal pensare che il sistema mediatico sia un mostro onnipotente, in grado di "lavare" il cervello umano. Coloro che lo dirigono, si ripromettono proprio questo scopo orwelliano, ma il suo risultato è reso ontologicamente e psicologicamente impossibile dalla natu-ra "generica" e plastica della natura umana, che reaszkce ad ogni strategia di addomesticamento. Non bisogna allora contare su al-cuna presunta potenza sociologicamente e politicamente definita, tipo il proletariato, i partiti comunisti, la tradizione borghese, l'umanesimo occidentale, il ceto dei colti, dei semicolti e dei similcolti ecc., ma fidarsi solo di una scommessa razionale sulla vecchia e buona natura umana, e so/o su quella. La natura umana - plastica, reattiva e generica, razionale e sociale - è il so/o fattore metastorico di resistenza, e la stessa democrazia, lungi dall'essere "originaria", è solo la forma migliore di socializzazione politica. L'uomo è un ente naturalmente affamato di informazioni, per-ché gli permettono di situarsi nel mondo naturale e sociale. Se è informato dell'eventuale

arrivo di tempeste, carestie, invasioni e pericoli, potrà organizzarsi per tempo per limitarne i danni. La sua natura "gratuita" lo porta comunque ad informarsi anche di Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della global zzazione

cose non direttamente legate alla sua sopravvivenza individuale e di gruppo, e ciò avviene proprio per la sua natura "generica" e proiettiva. Se fosse una formica, potrebbe disinteressarsi di ciò che accade in un formicaio agli antipodi del Pianeta, ma, in quanto ente naturale generico, che progetta e cerca di dare un senso al mondo, il che implica anche l' immedesimarsi negli altri, è evidente che una carestia, un'epidemia o una guerra civile lo impressionano, anche se non ci fosse alcuna possibilità di diffusione di questi eventi nel suo ambiente naturale e sociale più prossimo. L'informazione fa dunque parte del corredo biologico e naturale dell'uomo negli stessi termini della teoria dell'evoluzione e dell'adattamento, ma, quando l'informazione diventa un fatto "sociale", si verifica, ovviamente, anche un processo di "privatizzazione" di gruppo dell'informazione stessa. Questo processo di privatizzazione dell'informazione può, tuttavia, assumere due forme fondamentali, apparentemente opposte ma in realtà complementari: la restrizione dell'informazione e la saturazione dell'informazione stessa. Lo scopo manipolativo da raggiungere è il medesimo, ma le tecniche per raggiungerlo possono variare, apparentemente, di 180 gradi. La storia del Novecento è, a questo proposito, un vero parco naturale didattico. 184 185

I sistemi detti impropriamente "totalitari" (comunismo, fascismo ecc.) hanno utilizzato il sistema della gestione centralizzata e censoria dell'infolmazione, concentrandola tutta in un unico centro direzionale fortemente ideologico. Questo sistema, darwinianamente debolissimo, sembra fatto apposta per produrre effetti modestissimi, in quanto permette la concentrazione del dissenso nello stesso punto in cui vorrebbe concentrare il consenso, l'emittente ideologico-politica. Questa emittente vorrebbe che si credesse a tutto ciò che dice e, di fatto, il risultato è che nessuno crede a niente di ciò che dice, al di fuori di una percentuale minoritaria di tifosi ideologici e di creduloni professionali. Chi scrive, ha verificato ampiamente questo assunto, viaggiando nei Paesi detti "socialisti" e nella Grecia dei colonnelli fascisti. La gente non credeva in nulla di ciò che sentiva, neppure in ciò che era acci‐

dentalmente vero. È evidente che la manipolazione totalitaria funziona solo in momenti di mobilitazione parossistica, necessariamente molto brevi: nella storia evolutiva della manipolazione, essa assomiglia all'iguanodonte, non all'homo sainens. La manipolazione attuata oggi dal circo mediatico si fonda sempre, ovviamente, sulla distorsione per selezione — il video fa vedere solo immagini compatibili con la legittimazione ideologica del potere — ma il suo tessuto fondamentale va al di là della pur necessaria distorsione per selezione, in quanto è fondato sulla delimitazione ferrea di un "campo consentito" di opinioni plurali, la cui pluralità ha, in ultima istanza, come minimo comun denominatore, la compatibilità con la monistica unicità del potere. Farò qui solo l'esempio della copertura mediatica dell'aggressione militare all'Irak del 2003, per evidenziare tre elementi di questa manipolazione: l'oblio scientificamente programmato, la distorsione per selezione e, infine, la delimitazione del campo consentito di opinioni. Il lettore abbia pazienza, ma si tratta di questioni, che hanno per me un'importanza assolutamente capitale. Iniziamo dall'oh/io scientificamente programmato. Come è noto, nei sei mesi precedenti il mese di guerra vera e propria USA-Irak (dall'ottobre del 2002 al marzo del 2003), il circo mediatico sapeva perfettamente che la guerra era già stata pianificata e decisa, alla faccia del diritto internazionale; allora ha simulato la credibilità delle due motivazioni addotte per legittimare l'aggressione: l'esistenza delle famose armi di distruzione di massa, da parte di Saddam Hussein, e l'esistenza di una collusione fra Iraq e Al Qaeda nell'azione dell'Il settembre 2001 a New York. Entrambe queste motivazioni si sono dimostrate prive di qualsiasi fondamento; tuttavia, anziché connotare gli aggressori come criminali contro l'umanità, la pace e le leggi di guerra, il circo mediatico ha contato sulla volatilità e sulla memoria corta della plebe televisiva saturata, ed è passato in blocco alla nuova motivazione: l'esportazione della democrazia e l'instaurazione di un nuovo Medio Oriente "democratico" (traduIl popolo al potere La democraz a nell'epoca della globalizzazione

zione: che accetti la colonizzazione di Israele in Cisgiordania e il prezzo del petrolio fissato dagli USA). L'homo videns- per dirla con l'ultimo Popper cioè il plebeo rintronato dal piccolo schenno, non è fatto per ricordare; non ha più la memoria di un elefante, ma quella di una farfalla (il lettore etologo ed esperto in comportamento ani-male mi scuserà, se ho scelto male l'esem-

pio). Passiamo alla distorsione per selezione. Nel marzo e nell'aprile del 2003, i mesi dell'aggressione, ho approfittato del nuovo tempo libero legato alla condizione di pensionato, per vedere tutti i no-stri telegiornali e anche alcuni stranieri, tra cui la rete in lingua araba Al lazeera. Sembrava di osservare due realtà distinte e incommensurabili. Nel nostro principale canale televisivo, una si-gnora isterica in carriera gridava, mostrando delle luci e dei fuochi in lontananza, nella notte di Bagdad: «Vedete! Sono i bombar-damenti! Vedete! Hanno colpito i palazzi di Saddam! Vedete! Han-no colpito il covo del dittatore!». Sembrava un videogioco, ed era a tutti gli effetti un videogioco. Se passavo, però, ad Al Jazeera, vedevo, per ore e ore, soldati iracheni che si battevano come pote-vano, ufficiali che dicevano che avrebbero forse perduto, ma poi avrebbero organizzato una resistenza destinata a durare anni, e, soprattutto, corridoi di ospedale pieni di morti e feriti, bambini senza più gambe ecc. Cambiavo canale e subito, passando dalla lingua araba alla più familiare lingua italiana, rivedevo la signora isterica in carriera, che mi mostrava le luci dei videogiochi rassicu-randomi sul fatto che il dittatore aveva ormai le ore contate. Mi rendo conto che questa tecnica della distorsione attraverso la sapiente selezione di immagini è vecchia come il cucco. Se, però, capita di essere uno spettatore diretto, e indignato, allora le cose effettivamente cambiano e la furia lucida contro il circo mediatico aumenta. 186 187

Concludiamo, infine, con la dell/n/fazione del campo consentilo di opi‐ nioni dichiarate accettabili. Questa delimitazione è, in realtà, lo strumento tecnico fondamentale del funzionamento del circo mediatico e non c'è bisogno neppure che mi ci fermi sopra troppo, perché Noam Chomsky ne ha illustrato dettagliatamente il fun-zionamento. Farò, allora, solo l'esempio della guerra irachena, dato che mi ha coinvolto direttamente. In tutto il circo mediatico italiano - e, dicendo tutto, intendo tutti e sette i canali televisivi nazionali (i tre statali, i tre privati berlusconiani e La 7), tutti i giornali e tutti i politici, da Alessandra Mussolini a Fausto Bertinotti, senza alcuna eccezione - la perimetrazione delle posizioni possibili sulla guerra è ferrea: va dalla guerra legittima (che definirò guerra) alla guerra ingiusta, sbagliata, inopportuna ecc. (che definirò pace). Ci sono dunque, da un lato, i "moderati", la cui mo-

derazione, chissà per-ché, consiste nel legittimare la guerra, e i "pacifisti", il cui pacifi-smo consiste nel salmodiare come pecore in processione, in cortei pieni di giovani mascherati e dipinti, alcuni in trampoli, ai cui fian-chi si muovono altri giovani catafratti, che rompono vetrine ampia-mente assicurate. Chi invade il campo perimetrato dell'informa-zione, come chi scrive, non fa parte né del popolo dei moderati né di quello dei pacifisti, perché sostiene integralmente la legittima resistenza, anche armata, del popolo iracheno, e la sostiene non in base ad affabulazioni sociologiche pseudo-marxiste, ma in nome della dottrina giusnaturalistica della guerra giusta, risa-lente addirittura a Ugo Grozio, è escluso dalla tribuna mediatica "pluralistica" ed inserito d'ufficio nel sordido mondo dei fanati-ci, degli estremisti e addirittura dei sospetti fiancheggiatori dei terroristi. A suo tempo, Noam Chomsky descrisse qualcosa di simile, a proposito del rapporto fra tutto il circo mediatico americano e la guerra del Vietnam 19641975. Era consentito dire sia che si era per la guerra sia che si era contro: la sola cosa non consentita, ritenuta riprovevole e folle, era sostenere che i Vietnamiti aveva-no ragione. Nel processo di americanizzazione del circo media fico europeo, un tempo strisciante ed oggi galoppante, sta avvenen-do qualcosa del genere, in un clima di omertà generale di tutto il ceto politico (e quando dico tutto intendo tutto, da Alessandra Mussolini a Fausto Bertinotti, e mi dispiace se qualche lettore idenIl popolo al potere La democrazia

nell'epoca della globalizzazione

titano riterrà questa opinione "qualunquista": meglio qualunquista che connivente). Il sistema mediatico, sia pure con le tre caratteristiche strutturali che ho segnalato, non è e non sarà mai il Grande Fratello. È, però, una sofisticata macchina, programmata per la disinformazione e per la passivizzazione atomizzata dell'individuo isolato e inchiodato davanti allo schermo televisivo. In molti casi, la passivizzazione prevale addirittura sulla disinformazione. Dal momento che sono in vena di raccontare episodi autobiografici, ne ricorderò uno. Qualche tempo fa, fui ospite di un noto talk-show televisivo, diretto dal sapiente istrione ex-comunista riciclato in neo-conservatore Giuliano Ferrara. Il giorno dopo, ricevetti molte congratulazioni da parte di persone

che mi avevano "visto" alla televisione, deducendo per questo che fossi una persona molto più importante di quanto avessero creduto fino a quel momento. Chiesta a costoro la loro opinione su quanto avevo sostenuto, mi accorsi che pochissimi ricordavano - a distanza di meno di un giorno - il contenuto o anche solo l'argomento del dibattito: l'unica cosa che rammentavano era, appunto, di avermi "visto". Solo allora mi resi pienamente conto dell'esattezza della diagnosi, emessa da Martin Heidegger fin dal 1927 in Essere e Tempo, secondo il quale i tempi moderni erano caratterizzati dalla chiacchiera (Gerede), dalla curiosità (Neugier) e, soprattutto, dall'equivoco (Zwez‐ deutigkeit). Il risultato della saturazione mediatica è, infatti, una sorta di stato permanente di equivoco, cioè un invito permanente a non approfondire. Del resto, anche Louis Althusser, il filosofo marxista noto quasi esclusivamente per aver ucciso la moglie in un momento di follia, e per questo ritenuto poi penalmente non punibile, "fotografò" la situazione, poco prima di morire, dicendo in una intervista: «Io sono famoso per la mia notorietà». Il sistema mediatico attuale è inguaribile ed incorreggibile. Non ha senso spostarlo a destra e/o a sinistra. Il suo scopo è la gestione flessibile della disattenzione pubblica e della saturazione dell'attenzione privata. Dal momento che il suo telos immanente è la disinformazione, solo un ingenuo può veramente pensare che, così com'è, possa essere compatibile con la democrazia. Non lo è. 188 189

La democrazia, che continuo a ritenere possibile e necessaria, si affermerà senza e contro il sistema mediatico.

Democrazia e istruzione. La fine dell'idea di scuola e di università sorta nell'epoca dell'Illuminismo e del Romanticismo europei La scuola moderna, e per "scuola moderna" intendo fondamentalmente il sistema di insegnamento pubblico sottratto al monopolio degli apparati religiosi di vario tipo, nasce simbolicamente da un corso di lezioni sulla pedagogia tenuto da Immanuel Kant, i cui appunti furono raccolti dai suoi studenti. In questo corso di lezioni, Kant sostenne che un progetto ideale universalistico di

insegnamento scolastico non avrebbe dovuto essere realizzato dai Principi o dai genitori degli allievi: i Principi, infatti, hanno come criterio di orientamento la forza e gli interessi dello Stato, mentre i genitori sono inevitabilmente orientati dalla prospettiva del successo economico e di carriera dei figli. L'insegnamento e l'educazione, però, rilevava Kant, non hanno di mira l'adeguamento (Anpassung-) al mondo così com'è, ma devono avere come proprio scopo (telos) l'idea di un mondo migliore. Così, il problema dell'educazione moderna è posto in modo insuperabile. È vero che, circa un decennio dopo le lezioni kantiane, furono i Principi ad organizzare il nuovo e inedito sistema scolastico, che sorse quasi simultaneamente nella Francia napoleonica e nella Prussia dei riformatori. In estrema sintesi, il moderno liceo classico nacque in Prussia e il moderno liceo scientifico nacque in Francia. Queste due magnifiche scuole non sorsero certo sulla base di sterili (e allucinanti) dibattiti sulla superiorità o sull'inferiorità del greco rispetto alla matematica o del latino rispetto alle scienze naturali. La magnifica generazione di pedagogisti e di studiosi, Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

che creò il liceo moderno, volle una scuola generalista e il massimo modello dell'antichità era il Liceo di Aristotele, dove venivano pra-ticate con la stessa serietà le scienze naturali, la filosofia e le scien-ze politiche. Nel Liceo di Aristotele, infatti, era inconcepibile l'esi-stenza di un chiacchiericcio specialistico sulla "superiorità" dello studio degli animali o dello studio comparativo delle costituzioni politiche. L'unica superiorità concepita era il modello per cui il sapere era fine a se stesso, anche se nessuno negava che le ricadute tecniche fautrici dell'innovazione erano gradite ed approvate. Il modello del liceo moderno è dunque questo: l'educazione è fine a se stessa e deve tendere ad un mondo migliore di quello presente. Questo principio lega insieme armonicamente il princi-pio illuministico della razionalità e il principio romantico dell'eman-cipazione. Si tratta di un liceo "borghese", quindi classista e non universalistico? Su questo bisogna intendersi e, per farlo, occorre evitare un tipico errore filosofico, in cui cadono tutti gli storicisti: la confusione fra genesi particolare (Genesís) e validità universale (Gel‐ tung). L'abolizione della tortura, ad esempio, ha certamente avuto una genesi storica particolaristica, perché la nuova classe borghese, a differenza della vecchia classe feudale, non era più in-teressata a mantenere l'ordine tagliando a pezzi i corpi dei ribelli, ma era invece interessata a nuove forme di disci-

plinamento pro-duttivo, modellate sul nuovo sistema di fabbrica Vizctory system). Da qui, il conseguente "incivilimento" delle pene ed anche il nuo-vo processo penale, non più inquisitorio, quindi senza tortura, dal momento che non dovevano più esserci schiavi e servi della gleba, ma solo uomini formalmente eguali. Nello stesso tempo, l'aboli-zione della tortura, pur essendo "borghese" ed avendo così una genesi storica particolare, aveva però anche una validità univer-sale, in quanto si avvicinava maggiormente a un ideale di umani-tà civilizzata e pacifica. 190 191

Non ho mai incontrato uno storicista — e in vita mia ne ho conosciuti molti, ad abundantíam, anzi ad nauseam — che riuscisse a capire concettualmente questa semplicissima distinzione fra ge- nesi e validità, cioè fra genesi particolare e validità universale. La riforma Gentile ha avuto la sua genesi nel primo governo Mussolini? E allora, in nome dell'antifascismo, aboliamola, distruggiamola e facciamo un'unica rete di scuole professionali calibrate sulle co-siddette "esigenze del mercato". Il liceo umanistico è un liceo bor-ghese? Distruggiamolo, in nome di una scuola-supermercato à /a carte, in cui lo studente potrà sovranamente scegliere in base ai propri "interessi", così l'aula di ascolto di musica rock- si riempirà certamente di più dell'aula di fisica o di letteratura. Chi ha distrutto, con il tempo, questo insuperabile e mai tanto stimato modello di scuola? Esiste una corrente polemica, che dà la colpa al cosiddetto Sessantotto e all'arrivo di plebi irredimibili, che volevano il voto unico, la fine della selezione meritocratica, todos caballeros (quindi, di fatto, nessun ea‐ ballero), Io sbeffeggiamento degli insegnanti, lo spinello facile e l'involgarimento dei costumi. Tuttavia, io ho fatto l'insegnante liceale per ben trentacinque anni (dal 1967 al 2002), ho vissuto giorno per giorno lo smantellamento progressivo del vecchio liceo generalista — non importa, se classico o scientifico: per me, sono sempre stati egualmente educativi — e non condivido questa teoria elitaria alla Julius Evola e alla Tocqueville sul catastrofico avvento delle plebi "democratiche" spinte dal regressivo principio dell'invidia. Non nego che lati ple-bei di questo tipo ci siano anche stati, ma non ne hanno costituito, a mio avviso, l'aspetto centrale. Il vettore dell'autodistruzione del liceo europeo basato su un modello di edu-

cazione generalista e non professionale, non è stato primariamente l'avvento sociale della nuova plebe "democratica". Questa autodistruzione si è invece basata su di un suicidio cultura-le e sociale della stessa classe media borghese, all'interno di un passaggio storico ed epocale fra un tardo-capitalismo ancora tar-do-borghese e un vero e proprio nuovo capitalismo senza classi, inevitabilmente post-borghese e post-proletario. Essendo la bor-ghesia e il proletariato classi complementari, che procedono sem-pre in coppia come i carabinieri di una volta, il tramonto dell'urta Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

comporta anche il tramonto dell'altro. Si profila una nuova società, caratterizzata da differenziali di ricchezza, di potere e di sapere ancora più feroci dei precedenti, ma anche dalla sparizione graduale di identità collettive e culturali di tipo specificatamente "classista". Le attuali riforme scolastiche, che un serio esame comparativo constaterebbe essere molto simili in tutto il mondo, quindi non solo contingenti e casuali, segnano la fine del sogno kantiano di un sistema scolastico non direttamente basato sulle esigenze dei principi o dei genitori, ma fondato su un' idea universale di educazione. Il nuovo lavoro, flessibile e precario, dà infatti luogo ad una modernità "liquida" - uso qui il termine proposto da Bauman - in cui l'identità non è più definita dal modello di un Io consolidato - modello che ha funzionato da Platone a Freud - ma sul modello di un "io minimo", integralmente plasmato sulle esigenze esterne del mercato. Quando la borghesia c'era ancora (Giovanni Gentile) era possibile riprendere gli ideali umanistici, ora che non c'è più (Luigi Berlinguer, Tullio De Mauro, Silvio Berlusconi, Letizia Moratti: chi li distingue, mostra di non aver capito proprio niente!), tutti corrono incontro a chi applica meglio il nuovo "regno delle tre i" (inglese, impresa, informatica). Questo processo distruttivo risparmia parzialmente la scuola elementare, che non può, per sua natura, fare completamente a meno di un'istruzione generalista (leggere, scrivere, far di conto). Anche qui la barbarie pedagogica cerca, ovviamente, di distruggere l'ortografia, la calligrafia, l'analisi logica e grammaticale, la sintassi ecc., in nome del principio falsamente anti-autoritario del "tutto va bene" (everything- g-oes). Le persone di normale intelligenza e sensibilità, che ignorano la produzione specialistica dei pedagogisti pazzi, sperano ovviamente in una inversione di tendenza, ma noto che essa

tarda a giungere anche qui. C'è, in questo, una spiegazione sociologico-storica. Le classi dirigenti hanno sempre mantenuto il controllo sui grandi processi di riconversione economica e finanziaria, mentre hanno abbandonato la scuola - settore che non dava profitti, quindi ipso facto irrilevante - alla plebe sociologica sessantottina "di sinistra", che ha potuto così attuare in corpore vili l'applicazione della propria visione del mondo sociologica e nichilistica. Uno sciame di cavallette scolarizzate ha cercato prima di applicare al sistema scolastico il principio fordista della catena di montaggio ed è passato poi al suo apparente contrario, cioè al modello di una scuola-azienda, che compete sul mercato con altre scuole proponendo corsi di astrologia, lezioni di birmano, sedute di kamasutra per adolescenti disinibiti. Si dirà che non c'è nulla di più contrario e incompatibile del modello di una scuola fordista, in cui tutti gli studenti sono pensati come futura forza-lavoro in formazione e del modello della scuola-impresa, che invade il mercato di dé‐ phants pubblicitari M concorrenza con altre scuole; chi si stupisce di questo, però, non conosce il principio dialettico, che definirò Unità Ontologica della Idiozia (UOI). Il portatore della UOI è un polivalente e manifesta la propria incurabile idiozia in modo "pluralistico", così come è pluralistico un ballo in maschera di pagliacci. Il sistema universitario è più importante di quello della scuola secondaria per la riproduzione economica, perché in esso si fa anche e soprattutto ricerca ed innovazione, si formano gli operatori tecnici e scientifici e si seleziona il personale dirigente. Anche qui, il crollo della vecchia università, prima erasmiana e poi positivistica, ha prodotto una sorta di caos aziendale programmato, spingendo verso l'alto e soprattutto verso costi sempre più insostenibili i titoli di studio spendibili veramente sul mercato (tutti dottori, quindi nessun dottore, per cui il minimo per beccare un buon stipendio è il master, e il ma‐ ster ognuno se lo paga da sé). Potrei continuare, ma credo che il lettore abbia già colto il centro del problema. Ad un popolo disinformato dal circo mediatico deve corrispondere un popolo diseducato da un sistema formativo, che ha sostituito un modello universalistico di origine borghese con un modello aziendale di origine post-borghese e post-proletaria. In queste condizioni, la sola democrazia possibile è una democrazia di resistenza. 193

192 La democrazia nell'epoca della globalizzazione Il popolo al potere

La tentazione dell'esodo individuale e della secessione comunitaria Il diritto alla secessione, individuale e di gruppo, da una comu-nità, in cui per varie ragioni non ci si riconosce più, è un diritto democratico altrettanto importante del diritto alla costituzione di una nuova comunità o all'integrazione in una già esistente. Credo che, su questo punto, non sia consentito lasciare equivoci. È inve-ce più interessante studiare le ragioni, per cui secessioni di questo tipo sono già avvenute in passato. La scuola filosofica di Epicuro, denominata "il Giardino", è un esempio di secessione post-democratica. In una Atene, privata ormai di ogni sovranità politica nella nuova situazione storica prodotta dal sorgere degli imperi ellenistici autocratici, era legittimo che un gruppo di amici - gli epicurei si chiamavano l'un l'altro "amici" e praticavano una solidarietà reciproca, che giungeva talvolta, di fatto, alla comunità dei beni - potesse pensare ed attuare un "esodo dal pubblico". Non è infatti vero che il "pubblico" esista sempre e non sia, quindi, giustificato "secedere" da esso. Quando il pubblico diventa il luogo di una manipolazione dall'al-to, che non lascia speranze reali di rovesciamento in un tempo "ge-nerazionale" - chiamo "tempo generazionale" la porzione di tem-po storico alla portata di azioni di modificazione di una determinata generazione - è più che giustificata una secessione. Solo una tribù di masochisti può approvare la messa in atto di sacrifici, che si sanno completamente inutili. Il principio dell'Utopia alla Ernst Bloch resta valido come prospettiva, ma non è giusto imporlo come principio operativo, in assenza di ragionevoli speranze di effica-cia trasformativa. Non è, di per sé, individualismo egoistico dire che ogni persona ha il diritto di non impegnare la propria vita in attività pubbliche prive di prospettive. 194 195

Siamo, oggi, in una situazione di questo tipo? Se pensassi vera-mente di sì e che non ci sia più nulla da fare, non scriverei un saggio sulla democrazia, ma un manuale di sopravvivenza sotto la tirannia. Credo, dunque, che vi siano possibilità concrete di atti-vità pubblica democratica, e non solo di testimonianza a futura memoria, ma, nello stesso tempo, esprimo il mio fasti-

dio e la mia ripug-nanza per tutte le forme di ottimismo artificiale, per cui «c'è sempre qualcosa da fare». Eh no! Ci sono situazioni storiche bloc-cate; certo, non per sempre, ma bloccate almeno per un tempo ge-nerazionale. In questi casi, l'esodo mi sembra consentito. Se si vuo-le, infatti, sperimentare una forma di vita comunitaria di gruppo prima che giunga la propria morte individuale, è del tutto giustifi-cata la formazione di comunità protette derivate da una secessione. Per fare un solo esempio storico, il monachesimo occidentale bene-dettino nacque da una scelta di secessione dalla società tardoro-mana dilaniata dalla guerra greco-gotica (535-553). Ho accennato, nei due paragrafi precedenti, alla manipolazione mediatica onnipervasiva e soffocante e alla distruzione di un si-stema scolastico educa tivo, sostituito da una sorta di "formazione permanente" eterodiretta dal mercato: è un quadro desolato, an-che perché la sproporzione di forze è tale da non lasciare soverchie speranze in una inversione di tendenza storica a breve termine. Allora, che fare? La questione non può essere risolta con prescrizioni apodittiche, in questa sede, ma soltanto impostata. Credo che, nella realtà, non si ponga mai una opposizione "secca" fra secessione e partecipa-zione, ma si diano concretamente varie forme di mescolanza fra i due estremi. Ogni partecipazione democratica comunitaria, infat-ti, presuppone che sia avvenuta in precedenza una secessione da una pseudo-partecipazione manipolata. Questa secessione può, a sua volta, dar luogo o ad un isolamento volontario di lungo perio-do in "comunità protette", in cui attuare tranquillamente le forme di vita preferite, o a nuove forme di aggregazione politica, incom-patibili con l'inserimento volontario subalterno nel quadro sociale e politico precedente. In proposito, non si possono e non si devono dare ricette valide per tutto (e dunque per nulla), ma occorre discu-tere, caso per caso, se e fino a che punto un esodo sia giustificato e Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

una secessione opportuna. Posso, qui, dire soltanto che cosa ho deciso di fare concretamente io stesso, senza pretendere che abbia un valore universalistico estendibile a tutti. Personalmente, ho effettuato una secessione personale dalla partecipazione al sistema elettorale italiano, a partire almeno dal 1992, e questo non certo per ragioni di astensionismo anarchico e

vetero-comunista - figuriamoci! - in quanto in qualunque momento mi riservo di ritornare a votare, se lo ritenessi utile o opportuno, ma perchè sono arrivato alla conclusione che l'attuale sistema elettorale italiano costituisce in realtà un partito unico filo-americano, in cui le alternative sono in gran parte fasulle. Mi rendo conto che, con questa affermazione, posso irritare una parte dei miei possibili lettori, ma preferisco la sincerità irritante all'ipocrisia soporifera e compromissoria. Ho anche effettuato una secessione, a volte dolorosa, con la comunità informale del cosiddetto "popolo di sinistra", cui avevo appartenuto per decenni, e questo non certo perché nel frattempo io sia divenuto "di destra" - ri-figuriamoci! - ma perché sono giunto alla conclusione, che sono peraltro sempre pronto a rimettere in discussione, che la dicotomia fra Destra e Sinistra è obsoleta, non è più in grado di descrivere le nuove contraddizioni storiche e sociali, e dunque di consentire la nostra collocazione in esse, e infine che questa dicotomia è ormai una protesi politologica artificiale, che viene reimposta durante la simulazione elettorale per attivizzare e galvanizzare il popolo dei fedeli identitari. Questa opinione non è accettata ed è considerata sufficiente per emanare decreti di impurità e di esilio spirituale. 196 197

Potrei continuare, ma non è necessario farlo, in quanto, con l'esplicitazione pubblica di alcune mie secessioni personali, ho voluto ricordare al lettore che certamente anch'egli ha provato l'esperienza di esodi e di secessioni, magari diversi dai miei, ma a volte egualmente traumatici. L'esodo è infatti quasi sempre di due tipi interconnessi: esiste un esodo dalla propria prece‐ dente identità', quasi sempre maturata in gioventù e poi mantenuta per anni o per de cenni, e un esodo dalla propria precedente conzunità eletti‐ va, di tipo religioso, ideologico, politico. La capacità di secessione è un segnale di forza, non di debolezza: rivela che la propria identità non è necessariamente rigida e paranoica, ma aperta a nuove esperienze e a nuove rimesse in discussione. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il cosiddetto "pentimento", modalità non a caso privilegiata dalla tradizione gesuitica, clericale e controrifoimistica italiana, cui si sono recentemente unite le bande di ex-comunisti in riciclaggio professionale collettivo. L'esodo permette la costituzione di nuove possibili aggregazioni. D'altra parte, la Storia è composta da simili fenomeni ed è intessuta di processi dia-

lettici di secessioni meditate e razionali e di nuove aggregazioni, altrettanto meditate e razionali. Sarebbe strano che la storia della democrazia ignorasse questa dialettica.

Natura e società. La democrazia oggi fra ecologia naturale ed eguaglianza sociale Il rapporto degli uomini con la natura è strutturalmente ed inevitabilmente mediato dal rapporto sociale e politico, che gruppi di uomini stabiliscono con altri gruppi di uomini, sia all'interno che all'esterno della propria comunità. Non può, dunque, esistere una "democrazia ecologica", che non sia anche congiuntamente una "democrazia sociale". Persino Robinson Crusoe non può sfuggire a un determinato rapporto "sociale" con la natura dell'isola deserta in cui è naufragato, perché la sua "socialità" si manifesta attraverso l'educazione precedentemente ricevuta (si costruisce una capanna ecc.). Egli ha anche modo di rifornirsi di attrezzi e strumenti dalla sua nave, finché questa non resta incagliata e sparisce fra i flutti, e il suo rapporto con la natura circostante è mediato dall'uso di tali attrezzi. Chi immagina una sorta di "robinsonismo originario" di tipo pre-sociale - e tutta l'economia politica si basa ll popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizwzione

su questo errato presupposto - non sarà filosoficamente in grado di comprendere il rapporto fra natura e società. In questo paragrafo, non considero necessario fare un lungo rias-sunto divulgativo sul problema ecologico, presupponendo nel letto-re una conoscenza delle sue coordinate basilari. Non sono un esperto dello "sviluppo sostenibile", perciò non sono in grado di stabilire, volta per volta, i limiti del cosiddetto "impatto ambientale" (im-pianti chimici inquinanti, linee ferroviarie ad alta velocità, tralicci elettrici, depositi di rifiuti tossici ecc.). Ritengo che in questo cam-po si abbia a che fare con un sapere inevitabilmente specialistico, che va al di là delle mie competenze esclusivamente storiche e filo-sofiche; mi considero, però, in grado di impostare in modo raziona-le il problema del rapporto fra ecologia e democrazia. Questo pro-blema presenta vari aspetti, allora la cosa migliore è esaminarli uno per urto, anche se in modo inevitabilmente sommario.

In primo luogo, ritengo legittimo che una comunità, insediata in un determinato territorio, in cui vive e da cui trae anche risorse naturali, non possa essere esautorata da pronunciamenti esterni di carattere "tecnico", che la esproprino dei suoi poteri decisionali di autogoverno. Non nego assolutamente che ci sia anche un aspetto propriamente "tecnico" di competenza di geologi, di agronorni, di medici ecc.; constato soltanto che questa competenza non è mai completamente "neutra" e che gli stessi esperti dicono molto spesso cose opposte. Il giorno in cui scrivo queste righe, leggo sui quotidia-ni pareri diametralmente opposti sulla cosiddetta "influenza aviaria" dei polli: c'è chi tratteggia scenari catastrofici da vera e propria pandemia mortale e chi, invece, sostiene tesi ottimistiche e minimizzatrici. Ebbene, tutti i pareri che ho letto, dai più pessimisti-ci ai più ottimistici, sono di professori universitari di medicina e di veterinaria, cioè di cosiddetti "competenti" al massimo livello. In questa situazione, è più che normale che le comunità locali si ispirino a quel principio di responsabilità e di cautela, che Hans Jonas afferma essere il principale fondamento per la progettazione in-dustriale e sociale. 198 199

In secondo luogo, so bene che l'aureo principio "pensare global-mente, agire localmente" è più facile enunciarlo virtuosamente che praticarlo concretamente. Pensare globalmente è difficilissimo, perché comporta conoscenza, informazione, educazione e sensi-bilità etica. Agire localmente è, invece, molto più facile e, in gene-re, l'agire locale di tipo ecologico si ispira al più terrificante egoi-smo comunitario (esempio: non vogliamo nel nostro territorio niente di potenzialmente pericoloso, ma, se lo spostate anche solo di die-ci chilometri, non abbiamo più obiezioni, togliamo i blocchi stra-dali e facciamo una bella processione di ringraziamento alla Ma-donna). Non è un caso che un autore come Wolfgang Harich, al-lievo di Ernst Bloch e a suo tempo perseguitato politico nella Germa-nia Orientale, abbia sostenuto che solo una «dittatura ecologica il-luminata» potrebbe salvare il Pianeta, perché un sistema di democrazia locali non avrebbe potuto evitare lo scaricabarile egoistico, tipo: vogliamo l'energia atornica, ma non le centrali atomiche; vo-gliamo l'energia del carbone, ma non le centrali del carbone. Posso capire che uno studioso disincantato come Harich sia giun-to a questa conclusione. Nello stesso tempo, si tratta di una fuga in avanti completamente illusoria. Nessun dittatore "illuminato" ci salverà mai da una catastrofe ecologica, se non ci sarà prima una pressione democratica, orientata a cambiare i

modelli di vita e di consumo. Il fatto è che a livello mondiale, per ora, questa pressio-ne non la si vede. L'India e la Cina, ad esempio, stanno facendo passi da gigante in direzione di un modello dei consumi altamente inquinante (ad es., l'automobile individuale). Si ha allora un para-dosso, che cercherò di enunciare così: da un punto di vista razio-nale, una maggioranza di persone è già in grado di capire che sa-rebbe opportuno modificare radicalmente stile di vita e di consu-mo, ma, da un punto di vista sociale e, di conseguenza, politi‐ co, le cose stanno andando nel senso opposto, in direzione di un sempre maggiore sconvolgimento degli equilibri ecologici del Pianeta. A volte, infatti, sulla stessa pagina di un quotidiano si leggono arti-coli inconsapevolmente affiancati, in cui l'uno mette in guardia Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

dal deterioramento ecologico di un determinato territorio, mentre l'altro inneggia in modo lirico alla produzione di un nuovo modello di automobile, previsto in milioni di esemplari. Non penso si tratti solo di ipocrisia, nonostante io sia un avversario radicale del circo mediatico. Penso che ci sia, su questo, una vera confusione, dovuta all'assenza di una concezione comune dello sviluppo umano, ed è appunto di questa assenza che occorre parlare, perché la democrazia è pur sempre un metodo per prendere decisioni politiche condivise da maggioranze informate ed educate, e questa condivisione "formale" non può avvenire in assenza di una ben più importante condivisione "sostanziale" su che cosa propriamente significhi il termine di "sviluppo umano". A questo proposito, l'insufficienza convergente e complementare dei modelli di crescita del capitalismo reale e del comunismo reale pesa ancora fortemente, pur se è bene ricordare che il capitalismo reale è oggi una realtà attuale, mentre il comunismo novecentesco è ormai un dato puramente storico, anche e soprattutto in Paesi come la Cina. Siamo tutti stanchi e disgustati del chiacchericcio inconcludente sul periodico aprirsi e chiudersi mediatico del buco dell'ozono. Siamo tutti delusi dalla modestia dei risultati ottenuti negli ultimi due decenni dal movimento "verde", la cui parte "fondamentalista" si è di fatto chiusa in una nicchia testimoniale e catastrofistica, mentre la parte "riformista" ha finito con il costituire irrilevanti protagonismi politici di fiancheggiamento alle forze cosiddette "normali" (ove normalità è uguale a indifferenza assoluta per le questioni ambientali di fondo e non solo di immagine turistica). Siamo tutti stanchi, disgustati e delusi, ma ci rendiamo anche conto che, in linea di massima, se

un problema è radicale anche le risposte lo devono essere. 200 201

La radice, anzi la sola vera radice di fondo, sta nel mutamento generalizzato nella concezione dominante dello sviluppo umano, che per sua natura è "fisiofago" - nel senso che mangia la natura circostante - tuttavia non è possibile cambiare una concezione, se non si cambiano prima le condizioni sociali strutturali, che le fanno da supporto e da amplificazione. È, questo, un principio, che dovrebbe essere accettato anche da chi non condivide ed anzi avversa la concezione marxiana del rapporto fra struttura e sovrastruttura (che io invece accetto, in base non alla sua presunta "rivoluzionarietà", ma alla sua maggiore razionalità rispetto a tutte le altre concezioni a me note). Le condizioni sociali strutturali del mondo attuale sono caratterizzate da una logica, in cui esiste una sorta di "pendolarismo" fra la miseria, che ci fa accettare qualunque tipo di sviluppo pur di uscire da essa, e l'integrazione consumistica occidentale, che sorregge questo tipo di sviluppo. Pensiamo allora, forse, di convincere la gente con la diffusione di libretti ed opuscoli ispirati allo sviluppo compatibile e alla rinuncia volontaria al modello consumistico di integrazione sociale? Il lettore mi permetterà qui una breve parentesi autobiografica. A suo tempo, ho passato un periodo di studi universitari in Germania, ed è stato l'unico della mia vita in cui ho fatto l'operaio. La vera classe operaia - da non confondere con il modello idealtipico della ideologia marxista-leninista - è uno dei gruppi sociali meno rivoluzionari che esistano, ma è anche un gruppo estremamente socializzato e socializzabile, in cui è facile stabilire amicizie, laddove gli intellettuali sono, di regola, complessati, competitivi e suscettibili. Per farla corta, diventai amico di un operaio specializzato turco, uomo evoluto, che parlava un buon tedesco e leggeva anche la pagina letteraria del maggiore quotidiano di Istambul. Bene, costui lavorava in un impianto chimico bestialmente inquinante, i cui lavoratori si ammalavano regolarmente di tumori vari. Egli era perfettamente consapevole di questo pericolo, ma nello stesso tempo lo considerava un prezzo più che ragionevole da pagare, per poter spedire nel suo villaggio in Anatolia il denaro sufficiente per mantenere la numerosa famiglia allargata. La sua filosofia era il carpe diem oraziano, e raramente ho potuto conoscere una persona tanto serena e socievole. Riflettiamo un attimo. Se un simile atteggiamento era riscontrabile in un la-

voratore turco evoluto e scolarizzato nella Germania degli anni Sessanta del Novecento, che cosa può avvenire in quei tre Il popolo al potere La democrazia nell'epoca della globalizzazione

quarti del mondo povero, in cui le industrie inquinanti locali e soprattutto estere collocano i loro terribili impianti? La risposta è purtroppo semplice: queste industrie troveranno sempre dei lavoratori, pronti a fare qualunque cosa pur di uscire dalla miseria più nera e poter poi accedere ai vari livelli dell'integrazione consumistica proposta "universalmente" dal modello sociale della globalizzazione neoliberista. Bisogna dunque uscire dal pendolarismo maledetto fra miseria e consumismo, ma nessuno sa esattamente come. Per adesso, in mancanza di un vero e proprio movimento mondiale, che si sappia assumere il compito di un mutamento radicale condiviso dei modi di vivere e di produrre, la "morale provvisoria" che possiamo adottare consiste nell'appoggiare le comunità locali, che in varie parti del mondo si oppongono all'espropriazione dei loro territori e all'annullamento delle loro forme di vita comunitaria. Sarà ovviamente impossibile evitare il battage mediatico e culturale del circo intellettuale, che parlerà di posizioni reazionarie, retrograde, nemiche del progresso, ispirate ad una critica romantica della scienza e della tecnica ecc. Basterà solo non farsi spaventare, e il non farsi spaventare diventerà sempre di più la premessa psicologica indispensabile per poter mantenere, in futuro, una posizione razionale sulle questioni ecologiche e sociali.

La democrazia è possibile e necessaria. Il suo enigma non è istituzionale, ma antropologico Avviandomi alla conclusione di questo saggio e praticando quella estrema forma di narcisismo che è l'autorecensione positiva, devo dire di essere abbastanza soddisfatto del lavoro svolto. 202 203

Non ho, ovviamente, "risolto" il problema storico e teorico della democrazia, ma non era affatto questo che mi proponevo. Volevo aprire un campo di discussione problematica di tipo storico e filosofico, e ritengo di essere riuscito a farlo. Chi, invece, avrebbe deside rato un brillante pamphlet unilate-

rale, non se ne abbia a male, perché, con una buona ricerca bibliografica su Internet, troverà certamente altri titoli che lo soddisferanno. Posso allora riassumere in due punti le mie conclusioni, peraltro già ossessivamente anticipate nel corso della trattazione: non viviamo in una democrazia ed è bene non credere a tutti coloro che vogliono rassicurarci, dicendo che in fondo, viviamo in una democrazia, sia pure limitata, minacciata, imperfetta, migliorabile ecc.; nello stesso tempo, la democrazia non è un mito o una semplice ideologia di copertura di contenuti oligarchici insuperabili, ma è qualcosa di auspicabile, possibile e addirittura necessario. Non viviamo in una democrazia. So perfettamente che il lettore pio e timorato di Dio e/o della nuova divinità idolatrica denominata "Politicamente Corretto Occidentale" avrebbe preferito una formulazione più moderata e possibilistica, del tipo appunto democrazia imperfetta, democrazia minacciata, democrazia migliorabile e così via, salmodiando il mantra della rassicurazione dei nuovi benpensanti unificati della ex-destra e della ex-sinistra, oggi entrambe ampiamente "frollate". Certo, non ho nulla da dire a tutti quei maestri di tau‐ tolog-ia, che sostengono che, se il popolo convocato regolarmente al voto come corpo elettorale decide a maggioranza di rinunciare alla sovranità della decisione partecipata, accettando l'espropriazione della propria natura di demos razionale e sociale attraverso il dominio dei mercati finanziari e l'esistenza, a sessant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, di basi atomiche imperiali americane sul suo territorio, allora il metodo democratico consiste proprio nella rinuncia cortsensuale alla democrazia come contenuto. Di fronte a simili ipocriti, confesso di preferire i sostenitori espliciti delle dittature illuminate, anche se, ovviamente, il lettore sa che non condivido neppure tali tesi. Non conosco, però, nessuno peggiore dell'ipocrita. Se qualcuno insiste nel definire la democrazia una procedura di assenso elettorale maggioritario all'asservimento e alla rinuncia all'autodeterminazione nazionale, sappia che fra noi Il popolo al potere Nota bIbliografica generale

ci sarà soltanto, come argomento comune, il gossip da bar sugli eventi sportivi e sulle prodezze sessuali dei divi e dei presentatori televisivi. Non siamo in democrazia, anche qualora usassimo questo ter-mine nel senso inteso da Colin Crouch o, meglio, nel senso della corrente Rosenberg-

Canfora, cioè democrazia come prevalenza del dernos. L'attuale dinamica della cosiddetta globalizzazione è infatti il più grande processo di polarizzazione, che sia mai esistito nella storia mondiale dalle caverne ad oggi, fra arricchimento di una mi-noranza e impoverimento di una maggioranza — su questo, vi sono statistiche eloquenti per tutti coloro che pensano che la filosofia sia un'opinione, la matematica invece una certezza — mettendo pure fra parentesi (ma non ho inteso farlo) la catastrofe ecologica. Ed è tutto, su questo punto. La democrazia, intesa come ascesa del popolo al potere, resta invece qualcosa di auspicabile, possibile e necessario. Auspicabile, perché la politica non è una vera e propria "scien-za esatta", ma è il luogo del confronto fra gruppi umani caratte-rizzati dalla razionalità e dalla socialità. Possibile, perché non hanno fondamento, a mio avviso, le conce-zioni pessimistiche sull'uomo come lupo umano irredimibile. Necessario, perché solo la pratica comunitaria della democrazia può influire su quel decisivo livello della identità umana che è la socializzazione pacifica e razionale. Ogni altra antropologia sa-rebbe una civilizzazione dell'obbedienza eterodiretta, non i_mporta se da tiranni crapuloni o da saggi illuminati. L'enigma della demo-crazia non è infatti istituzionale, formale, ma sostanziale. Senza una maggioranza di tipi umani e psicologici "democratici", la democrazia resta un gioco politologico interminabile di simulazioni istituzionali, funzionali alle tecnocrazie economiche. E, con questo, posso chiudere.

Nota bibliografica generale 204 205

Ho volutamente rinunciato ad appesantire il testo con delle note a piè pagina, ma nello stesso tempo ritengo opportuno segnalare i principali testi, cui faccio esplicito riferimento nello svolgimento delle mie argomentazioni. Resta inteso che il lettore non vi troverà una bibliografia critica esaustiva sul tema della democrazia e degli altri temi collaterali trattati, ma soltanto la segnalazione commentata di alcune delle opere da me effettivamente prese in considerazione. Il tema della democrazia è anche e soprattutto un tema di filosofia politica. In proposito, segnalo l'ottima sintesi di Francesco Valentini, Il pensiero poli-tico contemporaneo (Laterza, Bari-Roma 1979).

Una opinione "estrema" e radicalmente critica sulla democrazia, di cui condivido nell'essenziale il lato di "stroncatura", è esposta nel pamphlet di Massimo Fini., Sudditi. Manife‐ sto contro la democrazia (Marsilio, Venezia 2004). Preferisco mille volte Fini alle soporifere elencazioni classificatorie, che pre-suppongono un'equazione fra il sistema democratico e la nostra condizione attuale (cfr. Giovanni Sartori, Democrazzq e definizioni, Il Mulino, Bologna 1976 ed anche Norberto Bobbio, Elementi di Einaudi Scuola, Milano 1998). Nessuno se ne abbia a male: 171111.C115 Plato, sed mag-is amica veritas. Ogni separazione dei meccanismi istituzionali dal più generale contesto sociale e comunitario serve solo ad esercitazioni scolastiche e/o ad operazioni di apologetica mediatica. A proposito della concezione della democrazia come prevalenza del demos, i miei due testi di riferimento fondamentali sono stati Arthur Rosenberg, De-mocrazzq e socialismo. Storta politica degli ultimi cento e cznquant 'anni (1789-1937) (De Donato, Bari 1971 - ma il libro è de11938) e Luciano Canfora, democrazia. Storia di un'ideolo‐ gia (Laterza, Bari-Roma 2004). Si tratta di posizioni assoluta-mente insopportabili alla lettura per un seguace del "bobbianesimo", della "bobbiofilia" e della "bobbiolatria" politicamente corretta di oggi. Io le condivi-do nell'essenziale, ma ritengo che vadano integrate con un apprezzamento maggiormente positivo di una forma politica democratica di tipo comunitario. Chi, invece, crede ad una sorta di armonica complementarietà storica fra il liberalismo e la democrazia, può utilmente leggere Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo (Laterza, Bari-Roma 2005). L'irritazione del lettore pio e timorato della vulgata neolíbendeè garantita. Il popolo al potere Nota

biblio grafica generale

A proposito dei Greci antichi, evito l'elencazione della sterminata bibliografia e mi limito a tre sole segnalazioni. Chi vuole leggere ulteriori argomenti, che scoraggiano l'arruolamento involontario di questi nostri lontani progenitori nell'immagine imperiale di un Occidente superiore al resto del mondo, può utilmente leggere Marcel Detienne, Les g-recs et nous (Perrin, Paris 2005). L'interessante interpretazione neoliberale ed anglosassone di Socrate, più volte citata, è quella di I.F. Stone, The

Triti/ of Socrates (LittleBrown, New York 1987).

Infine, fra le molte esistenti, 1' interpretazione di Platone, che mi ha convinto di più è quella di Alessandro Biral, Platone e la conoscenza alisé(Laterza, Bari-Roma 1997). Biral sostiene che in Platone non c'è la prevalenza del momento intellettuale puro e semplice sugli altri — il logistikòn si il desiderativo, 1' epithymilikòn, e su quello del coraggio virile, il thymoezdès — ma un modello di equilibrio armonico dei tre, che ha nel profilo antropologico di ognuno il suo centro. Personalmente, ritengo che Biral abbia ragione. Se questo è vero, ne consegue che una interpretazione maggiolmente "democratica" di Platone diventa possibile, senza dover effettuare stravolgimenti filologici e interpretativi. Il mio saggio insiste molto sul nesso fra democrazia e comunitarismo. Per un primo orientamento problematico su questo tema, si veda Valentina Pazé, Il comunitari:~ (Laterza, Ba-

ri-Roma 2004). Sul tema dell'individualismo si veda Robert Putnam, Capitale sociale ed individua‐ lismo (Il Mulino, Bologna 2004). Fondamentali anche i due studi di Christopher Lasch: La cultura del narcisi:9mo (Bompiani, Milano 1981) e L'io minimo (Feltrinelli, Milano 1985). Sulla definizione di Modernità e di Moderno, la bibliografia è sterminata; io mi sono limitato a segnalare Zygmunt Bauman, Intervista sull'identità (Laterza, Bari-Roma 2005) e John Gray, Al Qaeda e il signhTcato della modernità (Fazi, Roma 2004). A proposito del Post-Moderno, ho applicato lo stesso "rasoio di Occam", nel senso della ferrea autolimitazione, nella segnalazione, a due soli autori: Jean-Francois Lyotard, La condi‐ zione post-moderna (Feltrinelli, Milano 1982) e Alain de Benoist, Le sfide della post-modernità (Arianna, Casalecchio 2003). A mio avviso, la metafora che indica meglio la situazione attuale, al di là del fatto se essa sia moderna o post-moderna, è quella del selfservice usata da Gilles Lipovetsky (cfr. L'ere du vide, Gallimard, Paris 1983). L'uomo moderno/post-moderno si serve ormai da solo, senza più riti di camerieri in marsina, tuttavia questo non comporta affatto l'avvento di un maggiore egualitarismo o di una maggiore giustizia sociale, ma solo di una maggiore "informalità" pseudo-democratica: il fatto che ci si serva di caviale o di una salsiccia di seconda mano è infatti interamente demandato ai differenziali sempre crescenti di reddito. 206 207

Sul rapporto della democrazia con il cosiddetto "relativismo" dei valori e degli stili di vita, mi sono riferito a Hans Kelsen,fondamenti della democrazia (Il Mulino, Bologna 1966) e a Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia (Laterza, Bari-Roma 2003). Non ho, intenzionalmente, lasciato dubbi al lettore sulla mia posizione fortemente critica verso tutte queste forme di relativismo, che sono state alla base del cosiddetto "pensiero debole" italiano dell'ultimo ventennio, segnato dalla riconversione del ceto intellettuale italiano e dall'operaismo fanatico al neoliberalismo, altrettanto e forse ancor più fanatico. Sulla nozione di post-democrazia, v. Colin Crouch, Post-democrazia (Laterza, Bari-Roma 2003). A proposito della cosiddetta "globalizzazione", v. Edward Goldsmith (a cura di), Processo alla globalizzazione (Arianna, Casalecchio 2003) e Elvio Dal Bosco, La leggenda dello globalizzazíone (Bollati Boringhieri, Torino 2004). Nel bel saggio di Dal Bosco sono anche indicati in dettaglio i cinque monopoli segnalati da Samir Amin. Sul giusnaturalismo politico, v. Florence Gauthier, Triornphe et mort dii drolt natu‐ re/ en révolution (PUF, Paris 1992). Sul rapporto fra Marx e la democrazia, consiglio Jacques Texier, Rivoluzione e democrazia. Marx, Engels e l'Europa continenta‐ le (Biblioteca, Gaeta 1993). Sul tema della natura umana, v. Steven Pinker, Tabula Rasa (Mondadori, Milano 2005). Questi tre riferimenti segnalano anche le mie personali posizioni sui

relativi temi. Sulla questione dell'esportazione militare dei cosiddetti "diritti umani", la mia posizione è simile a quella di Alain de Benoist, Oltre i diritti dell'uomo (Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004) e di Danilo Zolo, Chi

dice umanità (Einaudi, Torino 2000).

Per finire, sul tema dell'universalismo i criteri comparativi proposti da Raimundo Paníkkar sono esposti in AA.VV., Il ritorno dell'etnocentrismo (Bollati Boringhieri, Torino 2004). Per la tesi relativistica Kuhn-VVhorf, si veda invece la rivista "Metamorfosi" (Franco Angeli, n. 7, Milano 1988).

Indice

Prefazione 3 Premessa 13 Introduzione 19 Democrazia e storia. Riflessioni su una vicenda bimillenaria 45 Democrazia e filosofia. Riflessioni su urta vicenda bimillenaria 9 7 La democrazia nell'epoca della globalizzazione 151