Il popolo al potere : Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici [CORRETTO] 8887307571, 9788887307573

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Il popolo al potere : Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici [CORRETTO]
 8887307571, 9788887307573

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C ostan zo P reve

Il popolo al potere Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici

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Impaginazione

Jeanne Cogolli

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Lineagrafica - Città di Castello (PG)

I edizione 2006 ISBN 88-87307-57-1

I libri della Arianna Editrice sono prodotti da Macro Edizioni, che n e cura la di­ stribuzione e la com m ercializzazione.

© Arianna Editrice

Redazione

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P refazione

L'aggressiva politica di espansione imperialistica scelta dagli Stati Uniti dopo la fine del condominio bipolare con l'Unione Sovietica ha avuto almeno due importanti effetti che potremmo definire ri­ spettivamente di ordine pratico e teorico. I primi hanno riguarda­ to le popolazioni irachene, afgane e serbe bombardate con l'ura­ nio im poverito e il fosforo bianco, torturate nelle p rigion i di Guantanamo e Abu Graib, sottoposte alle quotidiane vessazioni di un'occupazione militare. I secondi hanno invece visto scendere in campo ima schiera di intellettuali e operatori dei m ezzi di infor­ mazione impegnati a risolvere un dilemma che potremmo sinte­ tizzare nei seguenti termini: come mai gli Usa, considerati l'avan­ guardia, il paese guida delle liberaldemocrazie nel mondo, sono anche il paese più bellicoso della terra, una "nazione guerriera", come li ha definiti qualcuno1? Non ci avevano spiegato che le de­ mocrazie liberali sono tendenzialmente pacifiche, amano la pace in quanto essa rende possibili i commerci e il tranquillo godimento dei beni? Ed ancora, e soprattutto, può un simile sistema continuare a definirsi democratico o si è metamorfosato in qualcosa d'altro? A questi interrogativi è possibile rispondere in molti modi. Trala­ sciando, in questa sede, le prese di posizione puramente propa­ gandistiche, interessate unicamente a gettare benzina sul fuoco e non certo a sviscerare i problemi - si pensi, per fare un esem pio, ai pamphlet di Oriana Fallaci e di Magdi Allam - e concentrandoci sulle analisi serie, si può dire che quelle degli studiosi di orienta­ mento liberale tendono, ovviamente, a riaffermare i punti alti del­ la retorica liberaldemocratica e sono ben riassunte nel titolo di un saggio di Dino Cofrancesco: La democrazia liberale (e le altre)1. Per Cofrancesco, il compromesso tra liberalism o e democrazia, pur con tutte le sue precarietà e i suoi difetti, continua a costituire il tipo ideale, il modello cui debbono ispirarsi quanti vogliono muo­

Il popolo al potere

versi sul terreno della democrazia nel nostro tempo senza cadere nella trappola del totalitarismo. Egli ne è talmente convinto da declassare, mettendole fra parentesi, le forme democratiche non riconducibili al liberalismo. Il libro di Costanzo Preve che il lettore ha tra le mani si colloca, per contro, in una prospettiva molto diversa, al punto che lo si potrebbe anche in titolare, in parte rovesciando l'ottica di Cofrancesco, La democrazia (e la democrazia liberale). È quest'ultima, infatti, a costituire un problema, nel senso che, giudicata se­ condo i parametri di una democrazia senza aggettivazioni, risulta carente, apparendo molto liberale e molto poco democratica. Ma quali sono questi parametri? La risposta di Preve è che sono emi­ nentemente antropologici e filosofici e non politologici o sociologici. Il politologo non dispone, a suo giudizio, degli strumenti necessari per penetrare fino alla sostanza della democrazia, ma può solo fermarsi all'analisi delle sue forme e istituzioni, cioè della sua scor­ za esterna. Il limite dell'approccio politologico alla politica, e quindi alla democrazia, è, sempre secondo Preve, che la politica, come sosteneva già Aristotele, non è una scienza in quanto la sua mate­ ria prima sono gli uomini e il modo in cui essi organizzano il loro stare insiem e. O rbene, l'uom o non può essere inquadrato, incasellato in schemi scientifici perché è, marxianamente, un "ente naturale generico" (Gattungswesen); in lui c'è ima "plasticità" che gli consente di sfuggire a ogni categorizzazione e di essere pertan­ to un continuo campo di sorprese che mettono in crisi ogni prete­ sa di scientificità. "La democrazia", scrive Preve, "è una pratica umana comunitaria, non un concetto scientifico". Dovrebbe allo­ ra essere chiaro perché, secondo Preve, la democrazia non è tanto il potere del popolo, come siamo abituati a ritenere, quanto il po­ polo al potere. Il primo tipo di definizione enfatizza, infatti, il dato istituzionale, strutturale della politica, mentre il secondo mette al centro coloro che concretamente la fanno. In altri termini, si dà democrazia non quando si è in presenza di un quadro istituziona­ le ritenuto democratico, ma in realtà liberale (un parlamento, libe­ 4

Prefazione

re elezioni, partiti che si contendono il consenso dei cittadini, se­ parazione dei poteri, stato di diritto, prevalenza della sfera priva­ ta su quella pubblica), bensì quando il popolo - inteso non come indefinita e romantica unità mistica, ma in senso aristotelico come l'insieme dei più poveri e degli svantaggiati - può concretamente accedere al potere e far valere il suo peso nelle decisioni. Chi privi­ legia il primo aspetto (quello della rappresentanza), rischia seria­ mente di ridurre la democrazia a vuotò rito, a puro orpello, a «gioco politologico interminabile di sim ulazioni istituzionali». Questa è l'idea-cardine intorno a cui ruota il libro e che consente all'autore di sostenere che oggi, in Occidente, ci illudiamo di vivere in dem o­ crazia, mentre in realtà viviam o in regimi oligarchici che «si sono appropriati del concetto di popolo e in suo nome fanno gli interes­ si del grande capitale finanziario e dell'im pero americano». La democrazia, quindi, è un compito, un traguardo che abbiamo da­ vanti a noi, qualcosa da costruire e non di già scontato e acquisito. Si tratta di una tesi spiazzante e sconcertante per chi è assuefat­ to al politicali'y correct, che quotidianamente assorbiamo attraver­ so i m ass-m edia e che tuttavia non sorprende chi ha una certa familiarità con gli scritti di Preve, il quale, nei suoi testi, predilige di solito i contenuti forti, i toni netti, perentori, e uno stile di scrit­ tura che somiglia molto al linguaggio parlato, tipico del docente (di filosofia) quale egli è stato per molti anni. In effetti, leggendo la sua prosa, sembra quasi di vederlo mentre spiega ai suoi discenti Aristotele, Spinoza e Marx. Conoscendo il suo amore per la Gre­ cia, crediamo, dicendo questo, di fargli un complimento, perché gli antichi greci valorizzavano m olto la parola pronunciata in pubblico, in particolare quella detta negli spazi che formavano e delimitavano la vita adiva, cioè la politica; non, dunque, ima pa­ rola rivelata, che scende dall'alto - la parola di cui parla il profeta Isaia3e che, per i cristiani, si incarna in Gesù Cristo - ma la parola frutto di un dialogo razionale, quindi esposta alla critica, al dis­ senso e anche al fallimento, come nei casi dei processi a Socrate e allo stesso Nazareno. Questa diversità di parole, e di pratiche po­ 5

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litiche, può essere rappresentata, a livello simbolico, dalle città di Atene e Gerusalemme che Preve, seguendo una tradizione filoso­ fica consolidata, assume in altri suoi scritti come simboli di questi differenti approcci alla politica4. Preve, pertanto, non si stupirà se, richiamandoci alla sua concezione "ateniese", dopo aver letto/ ascoltato la sua parola, gli proponiamo, a nostra volta, alcuni ri­ lievi che non intendono essere necessariamente critici, ma che anzi si inseriscono aH'intemo di un sostanziale apprezzamento del suo sforzo di rivitalizzazione della democrazia. Una prima osservazione si riferisce alla liquidazione, forse ec­ cessivamente drastica e frettolosa, riservata nel saggio a politologi e sociologi (Mosca, Pareto, Michels e, in tempi a noi più vicini, Sartori e Bobbio), delle cui "trame" Preve dichiara senza m ezzi termini di "farsi beffe". Probabilmente, la politologia e la sociologia avrebbero meritato una considerazione maggiore, soprattutto se si pensa che il politologo Colin Crouch, peraltro positivamente ci­ tato da Preve, usando gli strumenti della sua vituperata "scien­ za", si pone interrogativi non troppo dissimili da quelli sollevati da Preve circa la reale democraticità delle nostre democrazie, e se persino dalle opere di un sociologo molto integrato e. àia page com e Ralf Dahrendorf viene fuori un'immagine della nostra società de­ cisamente inquietante: democrazie ridotte a spettacolo e i cittadi­ ni a masse di inebetiti couch potatoes, immense megalopoli fasciate da colossali anelli d'asfalto intervallati da fa st food e pornoshop, piccole enclaves di super-ricchi protette da guardie private e peri­ ferie urbane degradate, dove la "colla" che tiene insieme la società si è ormai essiccata e le "legature" sociali non reggono più, al pun­ to che ci si può chiedere, come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo: «Se sei disoccupato, perché non fumare marijuana, par­ tecipare ai droga-party e andarsene in giro con automobili ruba­ te? Perché non rapinare vecchie signore, battersi con le bande ri­ vali e, se necessario, ammazzare qualcuno?»5. Già, perché non farlo? In nome di che cosa astenersene quando da ogni parte, in forme esplicite o subliminali, ci viene trasmesso 6

Prefazione

sempre lo stesso m essaggio, e cioè che niente ha valore e tutto ha un prezzo? Se con politologi e sociologi Preve, almeno su questo tema, non va molto d'accordo, riesce comunque a trovare una buona sintonia con storici come Eric Hobsbawm e Luciano Canfora, nonché con un pensatore come Pietro Barcellona. Tutti autori non a caso collocabili in un'area di sinistra critica, cioè in un contesto dal quale proviene lo stesso Preve. D i H obsbaw m , Preve accetta là periodizzazione secolo breve/secolo lungo, mentre, con riferimen­ to più diretto alla democrazia, si richiama a Canfora per quanto riguarda il rifiuto dell'idea formale di democrazia, vista da Canfora come ideologia del demos, vale a dire dei poveri, e non come forma di governo. L'importanza dell'educazione (paideia) alla democra­ zia, e quindi l'esistenza di un homo democraticus come propedeutico al sorgere di una vera dem ocrazia, è poi sottolineata anche da Barcellona in molti suoi saggi. Inutile aggiungere che Preve si è di certo anche nutrito delle pagine dedicate da Hannah Arendt alla democrazia greca. A questa rete di riferimenti, espliciti e impliciti, Preve aggiunge inoltre il suo tocco personale, la sua nota caratte­ ristica: una scommessa sull'uomo. Pascal scommetteva su Dio, Preve scommette sull'uomo. A suo parere, non si può impostare correttamente il discorso sulla demo­ crazia se non ci si sbarazza della negativa antropologia hobbesiana, cui aderiva un maestro celebrato della democrazia liberale come Norberto Bobbio, per affermare e proporre una concezione del­ l'uomo che Preve fa filosoficamente risalire ad Aristotele, ma che si dipana anche in Cusano e Marx, in base alla quale l'uom o è un essere dotato di logos, intendendo questo termine in tutta la sua estensione semantica, che comprende le nozioni di ragione, dialo­ go e calcolo, e uno zoon politikon, ossia al contempo un animale politico, sociale e comunitario6. A partire da questi presupposti, Aristotele può definire l'uomo un ente intermedio fra la divinità e l'animalità. E questa sua natura a fondare la necessità della vita in comune e della democrazia, in quanto luogo di incontro di quegli 7

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esseri "aporetici" che sono gli uomini, la cui "plasticità" li apre alla verità e all'u n iversale, sottraendoli allo scetticism o, al relativismo e a un differenzialismo assoluto, chiuso all'universale e al vero. Qui Preve inserisce ima critica ad Alain de Benoist, rite­ nuto uno dei portatori di questo discorso, che ci sembra datata. Poteva essere plausibile vent'anni fa, ma non adesso. Pierre-André Taguieff, autore di quello che rimane, a tutt'oggi, il saggio più ap­ profondito e serio sul percorso intellettuale di de Benoist, ha infat­ ti rintracciato nella sua opera un itinerario di progressiva apertu­ ra all'universale e di superamento dei lim iti del relativismo e del differenzialismo assoluto7. Questa linea di ricerca ci pare ampiamente confermata dai libri pubblicati da de Benoist successivamente al testo di Taguieff, risa­ lente a dodici anni fa. Basti pensare al lavoro sui diritti umani, dove il pensatore francese scrive, senza possibilità di equivoco, che una posizione relativista è insostenibile, e a quello su identità e comunità, in cui queste nozioni vengono proposte in un'accezio­ ne aperta e dinam ica8. O ancora a O ltre il moderno (Arianna, Casalecchio 2005), che vede de Benoist schierarsi per un federalismo inteso nel senso di Althusius e per una democrazia imperniata su una effettiva partecipazione popolare. E strano che Preve, che pure, nella nota bibliografica finale, mostra di conoscere tali testi, non abbia colto queste evoluzioni dell'ultimo de Benoist. Oltre ad essere datata, questa critica è altresì foriera di gravi equivoci che possono nuocere non poco a quel tentativo, nel quale è attivamen­ te e meritoriamente impegnato lo stesso Preve, di decostruzione della destra e della sinistra e di denuncia della loro natura di meri e vuoti simulacri all'ombra dei quali si riproduce il gioco delle par­ ti neoliberale, globalizzatore e bombardatore. Continuando, in­ fatti, a sostenere, contro le evidenze testuali, che de Benoist è un relativista e un differenzialista assoluto, si dà oggettivamente man forte a quanti sono interessati alla ghettizzazione di un pensiero che, se lasciato libero di circolare e presentato per quello che effet­ tivamente è, potrebbe offrire un efficace contributo ad una rico­ 8

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struzione, a partire da un terreno in buona misura non coltivato, di un diverso e inedito panorama culturale e politico, di cui si sen­ te la necessità in ambienti solitamente definiti alternativi o anta­ gonisti, m a che non è ancora riuscito ad assumere una credibile configurazione. La dissipazione di ogni malinteso dovrebbe essere il prim o passo da muovere in questa direzione. C'è, infine, un'altra questione che emerge dalle pagine di questo libro, che ci pare importante sottolineare. N on esiste democrazia, afferma Preve, senza un homo democraticus, ossia senza un tessuto connettivo diffuso fatto di uomini animati da passione civile, voglia di partecipazione, desiderio di sentirsi coinvolti quali soggetti con­ sapevoli nel destino della propria "circostanza", del mondo che li circonda. Orbene, la realtà in cui siamo immersi sta marciando in ima direzione esattamente opposta: sia la democrazia che l'uom o sono sempre più sviliti e resi irriconoscibili, a tal punto che rischia di venir meno la materia prima, per così dire, il presupposto stesso della discussione. Per quanto riguarda la democrazia, infatti, il modello che viene teorizzato, tanto nelle sedi accademiche quanto sugli organi di informazione di massa, e poi esportato e im posto ai refrattari, privilegia l'efficacia e la funzionalità agli interessi della superpotenza americana su ogni altra preoccupazione. In quest'ot­ tica, non è importante che la gente, a tutti i livelli, sia informata, partecipi, discuta e decida, ma che lo Stato, liberato da fardelli so­ ciali e trasformato in azienda, produca il risultato che da esso ci si attende, che è quello di agevolare il flusso mondiale di energia desti­ nata a sosten ere la w ay o f life occid en tale. È la co sid d etta "globalizzazione". I dissenzienti vengono inseriti nella categoria degli "Stati canaglia", con le tragiche conseguenze che ben conosciamo9. Cosa ci sia di democratico in tutto questo, a parte la retorica, è difficile dirlo. Alla deriva della democrazia, Preve oppone la sua scommessa sull'uomo, la persuasione che nell'uomo d sia per defi­ nizione come una sorta di zona franca che gli consente di sottrarsi ai tentativi dei potenti di turno d i inquadrarlo e controllarlo. Il secolo che d siamo appena lasdati alle spalle - ma il nostro sguardo 9

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potrebbe allargarsi alla storia in generale - sembrerebbe avvalorare questa schema antropologico. I totalitarismi, che si prefiggevano appunto un controllo totale dell'uomo tendente alla creazione di un uomo nuovo, sono crollati sotto il peso o della sconfitta militare o di una implosione. Le loro pratiche hanno determinato reazioni di vario genere che alla fine li hanno travolti. I fatti hanno dimo­ strato che il regime totalitario, descritto letterariamente in 1984, alla lunga non regge. Orwell aveva in mente l'URSS, ina è chiaro che il suo discorso è applicabile pure ai fascismi. Il Grande Fratello può anche arrivare a farsi "amare" dai suoi sudditi, come capita allo sfortunato protagonista al termine del romanzo, ma alla fine nell'animo dell'uomo scatta qualcosa che lo spinge a ribellarsi, a dire basta e a riaffermare la sua dignità umiliata e offesa. Il falli­ mento storico della distopia orwelliana - che peraltro conserva aspetti molto attuali: si pensi al tema della neolingua, e quindi alla manipolazione del linguaggio da parte del potere - non significa, però, come ci si vuol far credere, che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che la storia è perciò finita. Se l'utopia negativa di Orwell e stata sconfitta, quella di Aldous Huxley appare, al contrario, il pericolo più grave e insidioso. Il Brave New World da lui descritto ha tutta l'aria di essere il modello vincente. Le biotecnologie appli­ cate all'uomo e la forza di penetrazione e seduzione della sfera mediatica conferiscono una sinistra plausibilità allo scenario di un mondo futuro popolato da post-umani, da cyborg completamente asserviti e lieti di esserlo, dove diventa estremamente difficile di­ stinguere fra l'umano e il non umano - tema, questo, caro a un altro grande visionario/ Philip K. Dick - e in cui l'ultimo esemplare della specie umana non può fare altro che impiccarsi. Di fronte a questa prospettiva, è possibile reagire con la fredda, distaccata indifferenza di un Houellebecq, con l'inquietudine di un Kamoouh o con l'esaltazione prometeica di Negri e Hardt10, ma certo è che in un mondo siffatto non avrebbe molto senso scom­ mettere, perché non ci sarebbe più nessuno disposto a farlo. Tut­ tavia, è pur vero che, se questa è la tendenza che si vorrebbe far io

Prefazione

trionfare, non siamo ancora pervenuti a questi estremi. C'è anco­ ra spazio per puntare sull'uomo e questo saggio di Preve è un ap­ pello alla resistenza e ima dichiarazione di fiducia, che ci auguria­ mo risulti contagiosa. Giuseppe Giaccio

Note 1 2 3 4

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Cfr. GORDON POOLE, N azioneguerriera. I l m ilitarism o nella cultura degliS ta ti U niti, Colonnese, Napoli 2002. Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003. Cfr. Is 55, 10-11. Si veda, ad esempio, COSTANZO PREVE, Filosofia del presente, Settimo Sigillo, Roma 2004; GIANO ACCAME-COSTANZO PREVE, Dove va la destra? D ove va la sinistra?, Settimo Sigillo, Roma 2004; cfr. anche LEO STRAUSS, Gerusalemmee Atene, Einaudi, Torino 1998 e LEV SESTOV, Atene e Gerusalemme. Saggio d ifilosofia religiosa, Bompiani, Milano 2005. Cfr. RALF DAHRENDORF, Q m drare il cerchio, Laterza, Roma-Bari 2000, pag. 43, cfr. anche RALF DAHRENDORF, Libertà attiva, Laterza, Roma-Bari 2003. Su questo aspetto comunitario Preve si sofferma nel saggio Elogio d elcomunitarismo, di prossima pubblicazione per le edizioni Controcorrente. Cfr. PIERRE-ANDRÉ TAGUIEFF, Sulla Nuova destra, Vallecchi, Firenze2004. Cfr. ALAIN DE BENOIST, Au-delà des droits de l'homme, Krisis, Paris 2004, pag. 87 [ed. it. Settimo Sigillo, Roma 2004], nonché il dossier « Identità, differenza, libertà », in Diorama letterario, n. 274, novembre 2005, pagg. 1-18. Queste cose sono state chiaramente spiegate da Francis Fukuyama, autore che è tutt'altro che un sovversivo, un comunista o un antiamericano, in Esportare la demo­ crazia, Lindau, Torino 2005. Di MICHEL HOUELLEBECQ si vedano Le particelle elem entari e il più recente La possibilità d i un'isola, entrambi editi da Bompiani; per quanto riguarda CLAUDE KARNOOUH, cfr. "No future. Tecnica e destino", in Trasgressioni, n. 40, pagg. 95-121; infine, di ANTONIO NEGRI e MICHAEL HARDT, Impero, Rizzoli, Milano 2002, pag. 98.

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Prem essa

I libri consacrati al problema storico della democrazia sono m ol­ to numerosi e sotto il loro peso è possibile sfondare m olti scaffali. Accingendosi a trattare del problema della democrazia, e cercan­ do di dire qualcosa di sensato, il povero autore si accorge ben pre­ sto, sfogliando l'alluvionale bibliografia, che praticamente quasi tut­ to è già stato detto, in una vasta gamma di posizioni, in cui ad un polo stanno coloro che considerano la democrazia un semplice mito, del tutto irraggiungibile a causa della debolezza gregaria della na­ tura umana e della fatale costituzione di élites oligarchiche estremamente minoritarie, e nell'altro invece sono fieramente schierati i sostenitori del primato dell'Occidente greco-romano-statunitense, proclamato oggi - sia pure, per fortuna, in assenza di una vera e propria investitura papale - l'unico esportatore autorizzato della democrazia nel mondo. Ho deciso di non farmi atterrire della nevrotica compulsione alla completezza e di non farmi spaventare dal fantasma opportunisti­ co della cosiddetta "complessità", per cui, con il pretesto che le cose sono complesse, ci si sente autorizzati a galleggiare in una sorta di "centrismo furbesco". Nello stesso tempo, ho deciso di non scrivere un pamphlet, ma un vero e proprio saggio problematico, sia pure di modeste pretese. Un pamphlet non ha bisogno di argomentare trop­ po le proprie tesi sul piano storico, filosofico, economico e sociologico e il suo valore sta proprio nel collocarsi in un estremo. Un saggio problematico, invece, non può sottrarsi del tutto al terreno dell'ar­ gomentazione. Con questo, ho smesso da tempo di credere che, in quanto tale, un'argomentazione o, meglio, una serie articolata e ben connessa di argomentazioni possa realmente "convincere". L'esse­ re convinti, lo sapeva già bene Platone, deriva da un'improvvisa illuminazione concettuale, che permette di vedere da un altro pun­ to di vista la totalità delle cose - la totalità "distica", per usare un 13

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termine filosofico specifico - e questa illuminazione concettuale possibile ha, come premessa psicologica, un insieme di esperienze e non certo soltanto una catena ben strutturata di ragionamenti. Per dirla in modo telegrafico, le tesi scientifiche vere e proprie si "dimostrano", mentre le tesi puramente filosofiche possono sol­ tanto essere "mostrate". Il saggista deve comunque "scommettere" sulla forza di convin­ cimento dei propri argomenti. In proposito, gli antichi erano più saggi di noi, perché sapevano bene che la cosiddetta "retorica" non era sinonimo di discorso vuoto ed ampolloso, ma una buona tecnica per la comunicazione convincente delle proprie posizioni. Portata al livello della composizione di un saggio come questo, la "retorica" si identifica con la scelta dell'esposizione. Per tratta­ re il tema della democrazia, ho scelto una forma espositiva in cin­ que parti, un'introduzione, tre capitoli successivi dedicati rispetti­ vamente agli aspetti storici, filosofici ed infine politici (attuali) del problema della democrazia e, per finire, una nota bibliografica generale, dal momento che il testo vero e proprio è stato lasciato di proposito senza note a piè pagina. In questa premessa, voglio an­ ticipare brevemente al lettore la logica espositiva, che mi ha sug­ gerito questa scelta. L'introduzione, scritta volutamente senza ima scansione in pa­ ragrafi, espone immediatamente le tesi sulla democrazia, su cui poi ritorno in modo più analitico e problematico nei tre capitoli successivi. Dal momento che non credo nella cosiddetta "oggetti­ vità" di un testo di tipo saggistico, ritengo che un buon sostituto di questa inesistente oggettività sia l'immediata e chiara esplicitazione delle tesi portanti del libro; infatti io esplicito subito le tre tesi teo­ riche portanti del mio saggio, che poi discuto liberamente lungo tutta l'introduzione, che può dunque essere letta come un testo autonomo a sé stante. I tre capitoli successivi sono dedicati a un "ritorno" e a un ap­ profondimento analitico delle tesi già anticipate in forma apodittica nell'introduzione. Le ripetizioni sono inevitabili, ma a mio avviso 14

Premessa

non sono affatto dannose. N el primo capitolo, propongo al lettore un breve excursus storico sulla democrazia, dalle sue origini gre­ che fino al suo ripresentarsi in età moderna, da un lato, nel suo complesso intreccio con il liberalismo e con le varie forme di socia­ lismo e di comuniSmo, dall'altro. Si tratta di eventi in genere già largamente noti al lettore acculturato, ma su cui è comunque bene tornare e ritornare, perché si finisce con lo scoprire sempre qual­ cosa di inedito. In proposito, non fingerò un'impossibile oggettivi­ tà, ma esplicherò sempre in modo chiaro il mio giudizio storico. Il lettore scuserà la brevità un po' apodittica di molti di questi giudi­ zi, ma l'alternativa a questa sinteticità apodittica sarebbe stata di fatto com posta da un noioso ed interminabile appesantim ento storiografico. Ci sono, per questo, centinaia di volum i monografici analitici. N el secondo capitolo, propongo invece al lettore ima serie di ra­ gionamenti di tipo filosofico sulla democrazia. Con tutto il rispetto per la corporazione degli storici, considero questo secondo capitolo ancora più importante del primo. Dal momento che, come dirò già nell'introduzione, il problema della democrazia non è primariamente istituzionale, ma antropologico - la democrazia è un insieme di pratiche comunitarie, il cui presupposto sociale è l'homo democraticus, che occorre educare ad essere tale - in questo secondo capitolo di­ scuterò alcuni problemi filosofici, di cui due sono, a mio avviso, primari: esiste una natura umana, e questa natura umana è com­ patibile con la pratica della democrazia come governo delle leggi, autogoverno politico ed autogestione economica? E ancora: la de­ m ocrazia è un valore universale ed un iversalistico, oppure l'universalismo è un mito filosofico occidentale infondato e bisogna accontentarsi, al massimo, di un civile relativismo differenzialistico ben temperato da un convenzionalismo consensuale? N el terzo capitolo, infine, tornerò al tema già discusso nell'intro­ duzione, cioè ad ima interpretazione personale del momento sto­ rico e politico in cui stiamo vivendo. Analizzerò, ovviamente, al" cime fra le interpretazioni più diffuse che si danno della contem15

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poraneità, come ad esem p io la categoria d ella cosid d etta globalizzazione (che personalmente considero un m ito). N on mi sottrarrò evidentemente al compito di proporre una mia persona­ le concezione di democrazia, già anticipata nell'introduzione, in termini di costruzione di comunità fondate sull'informazione e sul potere di decisione integrale sui parametri com plessivi della ripro­ duzione della specie umana, specie che vive in un incrocio parti­ colarissimo di natura e storia. / Nell'intenzione dell'autore, questo saggio vorrebbe sfuggire al­ l'alternativa "secca" fra ottimismo e pessimismo. Sulla questione della democrazia, non sono ottimista, in quanto pienamente coscien­ te della forza inaudita delle oligarchie, che attualmente dominano il Pianeta, ed ho anche da tempo abbandonato rillusione - su cui mi ero formato nei miei anni giovanili - dell'esistenza di un sog­ getto sociale collettivo salvifico e /o su di una dottrina scientifica della previsione sociale; non sono però neppure pessim ista, per­ ché credo nella capacità reattiva e plastica della natura umana, che in genere sopravvive alle peggiori disillusioni e alle più terribili "bastonate" della storia. La mia scelta espositiva, purtroppo, non è senza difetti. Lo stes­ so argomento può non essere trattato in modo unitario, ma essere ripreso in tutti e tre i capitoli successivi. Ad esempio, nel primo capitolo viene sottoposto a critica il tentativo del comuniSmo stori­ co novecentesco (1917-1991) di perseguire un'emancipazione so­ ciale universalistica senza garantire la libertà d'espressione e la democrazia politica, mentre alcuni dei suoi presupposti filosofici, come il pensiero originale di Marx e il marxismo teorico successi­ vo, vengono discussi solo nel secondo capitolo. Questo capita an­ che per altri argomenti, ma è l'inevitabile conseguenza di una espo­ sizione non cronologica. Tuttavia, credo sinceramente che il letto­ re possa seguire con maggiore facilità le mie argomentazioni sulla base della separazione metodologica fra l'elemento storico e l'ele­ mento filosofico, piuttosto che sulla base di una m escolanza inestricabile dei due elementi. 16

Premessa

Nella realtà, tuttavia, i due elementi sono strettamente intreccia­ ti. Di questo, sono pienamente convinto. A fianco dell'approva­ zione del lettore, cosa che ogni saggista ovviamente persegue, sa­ rei anche e forse ancor più soddisfatto, se la lettura del m io m ode­ sto libro provocasse talvolta anche la sua "irritazione". L'irrita­ zione produce adrenalina, e l'adrenalina induce alla risposta e alla reazione. Non ho mai cercato un'impossibile unanimità, virtù amata dalle due categorie complementari dei dittatori autoritari e degli sciocchi conformisti. Un saggista non deve farsi eleggere deputa­ to, senatore o consigliere regionale, e non deve neppure essere scelto per far parte di un ben pagato team manageriale. N on deve, dun­ que, vellicare servilmente i pregiudizi di chi gli sta sopra, sem pli­ cemente perché nessuno gli sta sopra. Il saggista vive in una di­ mensione orizzontale, che è poi esattamente anche la dim ensione della democrazia.

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Introduzione

Democrazia significa potere delpopolo. Personalmente, ne propongo subito un significato leggermente diverso: il popolo al potere. A prima vista, sembrerebbe un sofisma linguistico, ma non lo è. Se infatti traduco il termine greco demokratia come "potere del popolo" - che, lo ammetto, è la versione filologicamente più corretta, e non a caso è quella che si è imposta storicamente - ii concetto centrale diventa quello di "potere", mentre, se si segue la mia proposta di traduzione, l'attenzione si sposta inevitabilmente sulla nozione di "popolo", sia nella sua dimensione storica, psicologica e diacronica (come esso si costituisce progressivamente, in un processo di ap­ prendim ento individuale e collettivo), sia nella sua dim ensione attuale, presente, sociologica e sincronica (come esso, di fatto, eser­ cita il suo potere e come riesce a controllare i suoi eventuali rap­ presentanti e delegati). “" In ogni caso, sia che democrazia significhi "potere del popolo" sia che significhi "popolo al potere" - e lo spostamento semantico dal primo al secondo significato, con l'impronta dinamica che inevita­ bilmente risuona, non può sfuggire al lettore attento - sembrerebbe à prima vista che si tratti di ima nozione facilmente definibile, dal momento che i parametri concettuali da definire sono soltanto due, o al massimo tre: popolo, potere ed infine lo spazio problematico dei loro rapporti reciproci. Come è largamente noto, però, proprio qui nascono le difficoltà. Il "popolo" può essere definito in termini di cittadini attivi deliberanti in assemblea, oppure in termini di corpo elettorale, chiamato di tanto in tanto a scegliere un perso­ nale politico specializzato nella disciplina chiamata "decisione po­ litica". Inoltre, il "popolo" può essere esteso virtualmente a tutti la "onnicrazia", di cui parlò a suo tempo il pacifista italiano A ldo Capitini - oppure può essere fortem ente lim itato, come avveni­ va al tem po dell'antica Atene (in cui donne, schiavi e stranieri 19

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residenti erano esclusi dalla deliberazione politica) o al tempo del liberalismo ottocentesco pre-democratico (in cui il voto era strettamente censitario, quindi esplicitamente "proprietario")- A sua vol­ ta, il "potere" può legittimare la limitazione della libertà di opinio­ ne e di espressione pubblica delle opinioni (come nella filosofia politica di Hobbes e poi nella pratica costituzionale dei fascismi e dei comuniSmi novecenteschi) oppure può legittimarsi proprio sulla base della loro tutela (come nella filosofia politica di Spinoza e almeno sulla carta - nella pratica costituzionale delle moderne liberaldemocrazie). Potremmo continuare a lungo, ma appesantiremmo inutilmente questa introduzione. Per ora, è sufficiente ricordare il punto di par­ tenza che abbiamo proposto, cioè che la versione "il popolo al pote­ re" è preferibile alla versione "potere del popolo", perché la prima evoca semanticamente un processo dinamico, mentre la seconda, tradizionale, si presta maggiormente a modelli statici di forme di Stato e di governo (di cui, peraltro, non intendo affatto contestare la legittimità e l'utilità, dal momento che, pur essendo a tutti gli effetti u n "allievo infedele", vengo comunque dalla scuola di Norberto Bobbio). Solo in un secondo momento, è bene disaggregare nelle loro differenti (e contrastanti) componenti semantiche le due nozioni di popolo e di potere, sapendo bene, però, che il solo ogget­ to realmente esistente è la loro combinazione. A questo punto, potrei immediatamente dare la "mia" defini­ zione di democrazia, in modo che il lettore possa subito tenerne conto. Preferisco tuttavia non farlo, in piena consapevolezza, per­ ché un saggio politico di tipo critico e problemàtico come questo non è un saggio di divulgazione scientifica, in cui vengono esposte in modo comprensibile e in un linguaggio comune le teorie dell'astronomia, della fisica, della chimica o della biologia. Nel caso della divulgazione scientifica - o delle cosiddette "scienze dure", per usare un termine, che trovo personalmente ridicolo, ma che viene usato continuamente - si ha a che fare con discipline, che fanno dell'esatta definizione dei concetti (la massa non è il peso, la 20

Introduzione

velocità non è l'accelerazione ecc.) il terreno comune condiviso e concordato dall'intera comunità degli scienziati, dei ricercatori e degli specialisti. N el nostro caso, invece, il concetto di democrazia è la "posta di gioco" di un eterno "campo di battaglia" (l'espres­ sione "campo di battaglia", Kampfplatz, non è stata proposta da un fanatico estremista, ma dal moderatissimo Immanuel Kant a proposito della filosofia, e quindi anche della filosofia politica). Trattandosi di ima posta in gioco, è bene che io lasci ogni tentativo di definizione, sempre provvisoria e revocabile, alle ultime pagine di questo saggio. Michelangelo intuì che ima buona scultura non risultava da una aggiunta alla pietra, ma da un processo per cui alla pietra si toglieva progressivamente tutto ciò che im pediva alla forma ideale di emergere e di diventare visibile. N ello stesso m odo, credo che il concetto di democrazia possa emergere m eglio, se si toglierà progressivamente alle due pietre costituite dal "popolo" e dal "potere" tutto ciò che esse hanno di non-democratico. Se que­ sto è vero, l'equivalente del lavoro dello scalpellino e dello scultore è il lavoro dello storico e del filosofo, quello, appunto, che propor­ rò nel primo e nel secondo capitolo di questo saggio. Se dunque riserverò consapevolmente alle ultime pagine le pro­ poste di definizione della democrazia (il popolo al potere), è inve­ ce bene che anticipi subito in queste prime pagine le mie posizioni personali sulla questione. Esiste un'etica della comunicazione scritta e parlata, e questa etica si basa sulla sincerità e sulla veridicità, prima ancora che sulla verità e sulla giustizia. La verità e la giusti­ zia, infatti, ammesso che si tratti di concetti universali realmente esistenti, sono poste in gioco di complessi dibattiti dialogici di fatto irrisolvibili, mentre l'esplicitazione veridica delle proprie opinioni è qualcosa del tutto alla nostra portata. Il lettore deve sapere subito che cosa pensa l'autore del libro, che ha per le mani. Come è evi­ dente, solo l'insieme delle argomentazioni storiche e filosofiche svolte successivamente potrà legittimare - o delegittimare - a posteriori le tre valutazioni seguenti, che cercherò di esporre nel modo più sin­ tetico possibile. 21

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Iniziamo dal primo punto, e facciamolo nel modo più esplicito, sincero e brutale possibile: oggi, qui ed ora, in Italia e, più general­ mente, in Occidente, non viviamo in ima reale democrazia. Non sto dicendo che è incompleta, imperfetta, minacciata dall'apatia e dalla corruzione ecc. Simili formulazioni sono, a mio avviso, mez­ ze misure, inconseguenti sul piano teorico ed opportunistiche sul piano politico. Si tratta infatti di ovvietà e di vere e proprie tautologie, perché è evidente che la corruzione e l'apatia sono patologie organiche di un corpo politico come la democrazia, che, in quanto tale, sarebbe sempre esistente anche in presenza di cor­ ruzione, apatia, deformazioni burocratiche, manipolazione della classe politica professionale ecc.; no, in casi come questi è meglio rischiare l'unilateralità assertiva ed essere radicali: semplicemen­ te, non viviamo per nulla in ima democrazia. La democrazia oggi è un fantasma di legittimazione, così come, a mio avviso, erano fan­ tasmi di legittimazione il carattere cristiano della societas christiana del Medioevo auropeo o il riferimento al pensiero di Karl Marx del comuniSmo storico novecentesco, recentemente defunto (19171991). Questo fantasma di legittimazione ha ovviamente bisogno, come del resto tutti i fantasmi di legittimazione esistiti nella storia, di un nemico contro cui definirsi - il comuniSmo, il fascismo, il populismo, il totalitarismo, oggi il terrorismo islamico intemazio­ nale, domani chissà - ma questa operazione polemica è puramente ideologica e la costruzione di un fantasma ideologico non può so­ stituire ima vera dottrina politica credibile. Il potere del popolo, o m eglio il popolo al potere, presuppone un insieme di cittadini consapevoli, informati e soprattutto sovrani del contenuto della propria decisione politica. Oggi il presunto "cittadino" è suddito di ctae imponenti forze-dùespropriazione: il gigan tesco circo m ed iatico, il cui com pito è appunto la disinformazione pianificata e programmata attraverso una pecu­ liare tecnica di saturazione apparentemente "informativa" - si tratta di un vero e proprio mondo alla rovescia - e la presenza di mercati finanziari sottratti a qualsiasi sovranità statale e comu22

Introduzione

nitaria. Circo mediatico e mercati finanziari contribuiscono a crea­ re una sinergia patologica in cui i titolari della democrazia - che, come vedremo ampiamente in seguito, non sono i singoli cittadini intesi come atomi astratti di sovranità, bensì i cittadini come liberi membri volontari di ima comunità - sono del tutt^eipropnatì sia dèTTà^onoscenza che della decisione. La conoscenza è espropriata dalla sapiente saturazione del "circo mediatico" - che solo gli illusi e i faziosi ritengono seriamente diviso in sinistra, centro e destra mentre la decisione lo è dalla macchina, apparentemente anonima, fatale e impersonale, dei cosiddetti "mercati finanziari" (per cui le nazioni diventano aziende, e la nazione italiana diventa "Azienda Italia"). Ritornerò dettagliatamente su tutti i punti qui frettolosamente evocati e riassunti. Se, però, mi si chiede subito in che "mondo" viviam o, dal momento che nego che questo mondo sia una de­ mocrazia, allora non intendo sottrarmi opportunisticamente alla domanda e risponderò così: viviam o in una oligarchia o, più esat­ tamente, in un sistema oligarchico controllato congiuntamente da un circo mediatico e da una rete di mercati finanziari; un sistema di potere periodicamente legittimato da referendum elettorali di facciata, che ha incorporato residui costituzionali della tradizio­ ne liberale classica, fondati sulla tutela, anche giuridica, della li­ bertà di opinione e di organizzazione del cittadino (cittadino, pe­ raltro, inteso come atomo portatore di libertà originaria, non come membro attivo di ima comunità in divenire). Si hanno così tre elem enti connessi, che ripeto ancora per chia­ rezza: oligarchia (quindi né tirannide, né aristocrazia, né demo­ crazia); residuo di una precedente legittim azione democratica ot­ tocentesca (legittim azione referendaria di una classe politica omo­ genea, che si spettacolarizza elettoralmente in un gioco della com­ media dell'arte fra destra e sinistra, con la riduzione del popolo sovrano a corpo elettorale privo di sovranità); residuo di una pre­ cedente le g ittim a z io n e liberale ottocentesca (garanzia delle liber­ tà di opinione e di espressione, che il potere ha però sempre, in 23

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ultima istanza, la facoltà di annullare o di limitare in nome della sicurezza). Questo regime di oligarchia pseudodemocratica e pseudoliberale, ovviamente, non è in alcun modo ima democrazia. Il lettore note­ rà che, usando la categoria di "oligarchia", mi sono rifatto esplici­ tamente al pensiero politico dei Greci antichi, e non a quello dei moderni (Hobbes, Locke, Constant ecc.). Si tratta, ovviamente, di ima scelta volontaria, consapevole e meditata, in quanto chi scri­ ve rifiuta esplicitamente il presupposto per cui il pensiero politico moderno abbia realizzato un progresso conoscitivo rispetto al pen­ siero politico classico. Io riconosco esplicitamente il progresso nel­ la farmacologia, nella chirurgia, nell'ingegneria aeronautica ecc.; non credo, invece, nel progresso come categoria della filosofia della storia e, soprattutto, della semplice filosofia. Oggi viaggiamo e ci curiamo in modo indubbiamente più "progredito", ma non credo che Kant e Hegel abbiano realizzato un "progresso" rispetto a Pla­ tone e ad Aristotele. Questa è la ragione per cui utilizzo tranquilla­ mente la categoria classica di "oligarchia", facendomi consapevol­ mente beffe delle raffinate trame politologiche contemporanee. Passiamo al secondo punto, che in realtà deriva consequenzialmente dal primo e ne è, dunque, un suo logico corollario. Se infatti non viviamo in una democrazia, ma in una oligarchia munita di appa­ rati secondari e non essenziali di tipo pseudodem ocratico e pseudoliberale, derivati da una fase storica precedente ed ormai già quasi del tutto consumata, e se questa presunta "democrazia" non è che un fantasma di legittimazione ideologica, ne consegue allora che questa (inesistente) democrazia non fa parte dei cosid­ detti "diritti umani" universalistici da esportare militarmente in aree geografiche, religiose e politiche, che vengono dichiarate uni­ lateralmente non-democratiche, per avere appunto il diritto di iso­ larle prima con embarghi economici e di invaderle militarmente poi, se non crollano da sole. Per comprendere bene quanto ho appena scritto, bisogna ovvia­ mente chiarire il problema filosofico del cosiddetto "universalismo", 24

Introduzione

distinguendo l'universalism o scientifico (veram ente esistente), l'universalismo filosofico (a mio avviso, anch'esso esistente), e infi­ ne lo pseudo-universalismo ideologico teso a legittimare com por­ tamenti unilaterali e particolaristici travestiti con un universalism o" inesistente e posticcio (di cui non bisogna stancarsi m ai di d en u n ­ ciare la strumentalità). C'è poi il problema specifico della costituzione della teoria dei co­ siddetti "diritti umani", diventata oggi una vera e propria religione umanistico-ecumenica dotata di apparati inquisitori e missionari. Questa teoria, che nasce su base giusnaturalistica ed ha perciò alle spalle una lunga e nobile tradizione, che sarebbe sciocco irridere o sottovalutare - infatti non ho alcuna intenzione di farlo - è oggi diventata, insieme con la sua premessa economica, la teoria della (già avvenuta) globalizzazione, una protesi bellica rivolta a distrug­ gere quello che resta del diritto pubblico intemazionale. In questa introduzione, comunque, la cui funzione è limitata alla esplicitazione veridica delle m ie premesse di valore, è sufficiente insistere sul punto essenziale della questione, che riassumerò così: se il nostro prodotto politico occidentale di esportazione è ima oligarchia, malamente travestita di inesistente democrazia, è del tutto falso e illegittimo far passare questo prodotto avariato per un diritto umano universalistico primario come la penicillina o le benemerite tecniche di potabilizzazione delle acque. Siamo giunti così al terzo ed ultimo punto, da esplicitare imme­ diatamente al lettore. I primi due punti, infatti, potrebbero essere definiti puramente "negativi", in quanto basati sulla critica, sulla denuncia e sulla dem istificazione, mentre questo terzo ed ultim o punto può essere definito "positivo", in quanto apre pur sempre una prospettiva, sia pure difficile e non garantita. In proposito, sia ben chiaro che io non credo affatto che in sede storica e filosofica sia necessario essere "positivi" ad ogni costo, come afferma il noto «pensare positivo» di m olti cantautori, piazzisti, preti, psicologi televisivi, scommettitori, politici ed altri bookmakers di vario tipo. Il pensiero-placebo non cura le patologie, tanto meno poi le patologie 25

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storiche e sociali. Se però questo mio ultimo terzo punto può esse­ re definito "positivo", ciò avviene perché ritengo legittimo pensa­ re sulla base di una scommessa, che, a sua volta, si basa su una possibilità ontologica e sociale allo stesso tempo: la democrazia, intesa come popolo al potere o, più esattamente, come processo di costituzione storica e sociale di comunità, che intende esercitare il potere sulla riproduzione della propria esistenza, è possibile. In altre parole, il popolo inteso come corpo elettorale passivizzato e manipolato dalle oligarchie mediatiche e da quelle finanziarie non andrà mai al potere, ma il popolo inteso come insieme plurale di comunità liberamente organizzate può andare al potere. Non si tratterà, ovviamente, di un potere definitivo, ed è anzi bene che non sia così. Il potere definitivo è un'aberrazione e una contraddi­ zione in termini, perché la presunta ed inesistente definitività è un delirio di onnipotenza patologico imperfettamente mascherato da pesudo-legittimazioni "scientifiche", ma in realtà ideologiche. Sostenere che la democrazia, che per me è sempre e solo un pro­ cesso dinamico di accesso del popolo al potere - mai definitivo e sempre revocabile - e non un semplice potere del popolo, definito in via esclusivamente istituzionale sulla base di sistem i elettorali dati, è qualcosa di possibile, significa entrare in un agone filosofi­ co interminabile - la Kampfplatz, di cui ha parlato il grande Kant con i due convergenti "partiti" di coloro che pensano o che la de­ mocrazia è impossibile, oppure che la democrazia è forse possibi­ le, ma certamente non auspicabile. Questi due partiti si sono affacciati prestissimo sulla scena della storia e si sono riprodotti fino ad oggi attraverso metamorfosi fa­ cilmente riconoscibili. Coloro che sostengono che la democrazia è impossibile, lo fanno generalmente utilizzando due argomenti lar­ gamente convergenti; l'argomento della natura necessariamente elitaria, minoritaria e oligarchica dei governanti, indipendentemen­ te dal modo con cui vengono legittim ati - elezione esterna o cooptazione interna - e l'argomento della complessità specialistica delle decisioni da prendere, una volta che si sia abbandonato il 26

Introduzione

terreno "semplice" delle decisioni accessibili a tutti, come quelle da prendere nelle piccole comunità nomadi di pastori ed allevatori oppure nelle piccole comunità stanziali di cacciatori, raccoglitori ed agricoltori. Coloro, invece, che sostengono che la democrazia è forse possibile, ma non per questo auspicabile, lo fanno basandosi sulbignoranza del bene politico "vero", che caratterizza le mag­ gioranze popolari, argomento che nella sua forma nobile e classica risale addirittura a Socrate, mentre, nelle sue forme attuali, mette in guardia dal fatto che, di per sé, delle m aggioranze elettorali non "illum inate" - si intende, non illum inate dallo pseudo­ universalismo ideologico occidentale - potrebbero scegliere "libera­ mente" il fascismo, il comuniSmo, il populismo carismatico e autojritario e il fondamentalismo islamico, ebraico o indù. Tratterò estesamente queste due grandi obiezioni alla democra­ zia: l'obiezione dell'impossibilità e l'obiezione della non auspicabilità. Anticipo subito che non possono esistere confutazioni "definiti­ ve" di queste due classi. A suo tempo, Protagora sostenne che la democrazia è un processo educativo, di cui tutti gli uom ini sono capaci, in linea di principio, perché tutti gli uomini sono dotati, per natura, del senso comune politico associativo e comunitario minimo, che ne fa soggetti razionali. Aristotele, che pure da un punto di vista dottrinale non fu un partigiano della democrazia politica nel senso di d isten e e di Pericle, ne fu però un sostenitore filosofico, con la sua doppia definizione antropologica di uom o come animale politico, comunitario e sociale {politikòn zoori) e come animale dotato di ragione (zoon logon echori). N e parlerò successivam ente. Ho voluto però anticipare subito questa concezione della democrazia come processo di educazione comunitaria resa possibile da una determinata concezione della natura umana, perché questa concezione è la mia e dunque il lettore ha il diritto di conoscerla subito. Dopo aver chiarito il mio punto di vista sul problema della de­ mocrazia oggi, posso tirare un sospiro di sollievo, sapendo che in questo m odo non mi lascerò alle spalle spiacevoli equivoci, che 27

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potrebbero rendere l'ulteriore lettura faticosa e ambigua. Ora, però, comincia il difficile, perché le affermazioni apodittiche devono essere seguite da argomenti in qualche modo convincenti. Questo sarà il compito dei tre capitoli tematici del mio saggio e dei com­ menti, che farò a proposito dei libri e degli autori, che segnalerò nella nota bibliografica generale, concepita come un vero e pro­ prio capitolo indipendente. In ciò che resta di questa introduzio­ ne, invece, anticiperò in forma sintetica alcuni problemi, che de­ vono rendere consapevole il lettore della complessità di un concet­ to apparentemente semplice come quello della "democrazia". La democrazia è infatti come la "prosa", di cui parla il protagonista del Borghese Gentiluomo di Molière, che vuole imparare le buone maniere e la cultura dei salotti e che scopre, nelle lezioni lautamente pagate che gli vengono impartite, di avere sempre parlato "in pro­ sa" senza mai sapere che cosa esattamente significasse questa pa­ rola. Per la "democrazia" avviene esattamente lo stesso, anche se quasi sempre in modo più sgradevole e grottesco. Ad esempio, vi sono scuole di politologi (Mosca, Pareto, Michels), che in modo ana­ litico e serioso scoprono 1'esistenza di élites minoritarie ed oligarchiche e di "classi politiche" professionalizzate, che si autoriproducono per cooptazione interna al di fuori di ogni controllo democratico, cosa perfettamente nota nei più piccoli particolari alle casalinghe e ai perdigiorno dei caffè, fra una chiacchiera sportiva e l'altra. Per fare un altro esem pio, mentre il circo mediatico om ologato e la corporazione universitaria dei politologi e degli opinionisti riempie le prime pagine dei giornali - dedicate alle tribù dei semicolti e alla classe politica mazzettara, laddove la cosiddetta "gente comune" la salta sistematicamente per dedicarsi unicamente alle pagine del­ la cronaca criminale, della cronaca sportiva e del gossip sessuale e pecoreccio - con elogi alla democrazia, la gente comune ha spesso l'esattissima percezione che in realtà questa famosa "democrazia" non esista. In Italia, questa sensazione, assolutamente esatta nel­ l'essenziale, viene generalmente diffamata con il termine spregiativo di qualunquismo. Ora, non intendo affatto negare che il qualunqui­ 28

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smo esista, e sia negativo. Il dire che «i politici sono tutti quanti eguali» e che vogliono soltanto «toglierci i soldi dalle tasche, per metterli nelle loro», è fattualmente falso, perché in realtà la politi­ ca esprime anche e soprattutto interessi economici, sociali e cultu­ rali differenziati, e dunque anche parzialmente "rappresentabili" (nonostante tutte le critiche che si possono fare alla teoria della rappresentanza in nome della pratica comunitaria diretta della democrazia). N ello stesso tempo, il "qualunquista", sia pure in forma volgare, fastidiosa e semplificata, intercetta involontariamente un fatto reale, Fattuale omologazione del ceto politico professionale bipolare maggioritario - in cui i due poli sono in realtà diretti dai rispettivi "centri", che lasciano l'avanspettacolo identitario ed irrilevante alle pittoresche ali estreme ideologiche - alla riproduzione sistemica dell'attuale forma di turbocapitalismo globalizzato, lad­ dove i tifosi identitari della rispettiva militanza sportiva, apparente­ mente più colti e consapevoli dei precedenti, sono in realtà vittim e di ima serie di illusioni, ancora più grottesche del qualunquismo sopracitato. I caroselli dom enicali di tifosi politici con il clacson schiacciato e lo sventolio di bandiere di partito, non sono un'alter­ nativa alla tribù qualunquista dei borbottatori di caffè, che man­ derebbero tutto il ceto politico a lavorare nelle miniere di sale, ma ne sono solo l'opposto complementare. La tribù dei tifosi e la tribù dei qualunquisti borbottoni sono l'espressione di ima identica pa­ tologia della democrazia moderna, intesa come luogo della deci­ sione politica effettiva fatta da cittadini informati e consapevoli. Fatta questa premessa, posso ora elencare sommariamente una serie di problemi destinati ad essere ripresi più avanti. Un primo problema è dato dalla fisiologica oscillazione semantica e concettuale del termine "democrazia" da un sem plice m etodo procedurale rivolto a prendere decisioni politiche legittim e - in altre parole, il metodo del conteggio della maggioranza dei voti liberamente espressi da un corpo elettorale di cittadini a pieno diritto - ad un contenuto vero e proprio; più esattamente, ad ima forma sostanziale del perseguimento del bene politico comunque 29

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inteso. Ho definito questa polarità fisiologica e, nello stesso tempo, talvolta addirittura tragicomica, perché vi sono decisioni, prese con ampia maggioranza democratica, che sono clamorosamente, anzi grottescamente sbagliate (questo è il lato comico) e, nello stesso tempo, comportano terribili conseguenze, in termini di perdita di vite umane in guerre catastrofiche e sbagliate (questo è il lato tragi­ co). Qui, il problema storico e politico della democrazia diventa ipso facto un problema filosofico, e chi disprezza la filosofia, come inter­ minabile perdita di tempo incapace di giungere a qualcosa di scien­ tifico o almeno di certo, sega di fatto lo stesso ramo su cui è seduto. La separazione di forma e di contenuto è infatti - come già ben sapeva Aristotele - un'operazione mentale di astrazione assolutamente necessaria per chiarirsi le idee, ma nella realtà non esistono forme e contenuti isolati e completamente indipendenti le une dagli altri, per cui la separazione di cosiddette forme "buone" e di conte­ nuti "cattivi" (o viceversa) si fonda su un errore prima concettuale e poi anche, necessariamente, pratico e politico. Il proceduralismo, che astrae dal contenuto della decisione presa in modo costituzio­ nalmente legittimo, è solo l'altra faccia del presunto "contenutismo", che prescinde dalla forma dispotica e tirannica con cui le decisioni politiche vengono prese (personalmente, vedo nel proceduralismo di Norberto Bobbio o nel contenutismo filo-staliniano di Domenico Losurdo due patologie complementari e polari di un'identica ten­ denza a separare ontologicamente forma e contenuto). La democrazia è indubbiamente anche procedura o, più esatta­ mente, un insieme di procedure. Identificata con il semplice prin­ cipio di maggioranza, resta priva del concetto di tutela costituzio­ nale di coloro che sono rimasti in minoranza e intendono organiz­ zarsi in modo stabile e permanente, per potere in futuro diventare maggioranza. La somma dei principi di maggioranza e di tutela delle minoranze si chiama in genere "liberaldemocrazia" e indica un fatto assai più storico che teorico, cioè la progressiva fusione del principio liberale e di quello democratico; principi, che, prima di fondersi - ima fusione peraltro sempre imperfetta, non definitiva e 30

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piena di crepe - furono a lungo opposti, antagonistici e addirittura talvolta incompatibili, come al tempo della rivoluzione francese del 1789 o, ancor più, delle rivoluzioni democratiche dell'Ottocento. Di liberaldemocrazia però talvolta si muore, quando le liberaldemocrazie formalmente costituzionali dichiarano guerre sanguinose e barbariche alle spalle dei loro stessi popoli a suo tempo convocati regolarmente in elezioni liberaldemocratiche formalmente perfet­ te. Si tratta del problema della guerra o, più esattamente, del rap­ porto fra guerra e democrazia, che sarà il secondo problema che segnalerò, sia pur sommariamente, in questa introduzione. La for­ ma democratica e il contenuto guerresco - più esattamente, della guerra ingiusta in quanto guerra di aggressione non giustificata dalla legittima difesa contro un'invasione pretestuosa fondata su menzogne - sono infatti i poli, che fanno saltare il proceduralismo, rivelandone la miseria. Lo scoppio della guerra del 1914 ne fu un esempio indimenticabile. Esiste un luogo comune apologetico del­ le liberaldem ocrazie, per cui sarebbero sem pre e soltanto i dispotismi autoritari e totalitari a scatenare le guerre, mentre le liberaldem ocrazie non lo farebbero m ai. Si tratta di un fatto scandolosamente falso, oggi smentito, fra l'altro, dalla guerra del Kosovo del 1999 e dalla guerra contro l'Iraq del 2003, entrambe scatenate in piena violazione del diritto intem azionale da stati formalmente liberaldemocratici. Questo costringe però a mettere m eglio a fuoco il problema del rapporto fra democrazia e guerra (precisando ancora che, per guerra, intendo "guerra ingiusta di aggressione", dal momento che non sono affatto un "pacifista as­ soluto", e anzi sostengo integralmente il diritto alla guerra di legit­ tima difesa e alla successiva resistenza, anche armata, contro l'il­ legittimo invasore). Come ricorderò nel primo capitolo, la meravigliosa democrazia ateniese di d isten e e di Pericle era anche una spietata macchina da guerra, e non lo era certo meno di quanto non lo fosse l'aristo­ crazia castale e guerriera di Sparta. L'antica Roma non fu mai, in alcun momento, una democrazia - al massimo, fu una "costituzione 31

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mista", secondo i termini di Polibio - ma molto spesso fu proprio la sua componente sociale più "democratica" (i comizi centuriati, i populares ecc.) a spingere per dichiarare guerre di aggressione e di conquista, fonte di terre e di schiavi, in primo luogo, per tutti coloro che non ne possedevano ancora. E vero che nel mondo an­ tico la guerra era quasi sempre percepita come una fisiologica nor­ malità sociale, e non come un problema morale in sé e per sé - con alcune eccezioni interessanti, ma tutto sommato marginali - ma è anche vero che la conoscenza della storia antica deve metterci in guardia dall'inesistente coppia democrazia/pace e tirannia/guer­ ra. Solo ima democrazia filosoficamente universalistica può infat­ ti coniugare metodo democratico e perseguimento della pace. Ma la democrazia universalistica è un'astrazione, perché democrazia vuol dire anche e soprattutto partecipazione, e la partecipazione fattualm ente possibile’ è sempre e solo comunitaria, quindi spazialmente limitata. La "comunità mondiale" è, kantianamente parlando, un'idea della ragion pura pratica, dunque qualcosa di astratto, a meno che si pensi - e, come vedremo nel terzo ed ultimo capitolo, vi sono molti sciocchi che lo pensano - che la comunità mondiale sia l'esito ineluttabile o di una globalizzazione liberistica economica del Pianeta o - ma per me è, paradossalmente, lo stesso dell'azione demiurgica di un soggetto sociologico proletario por­ tatore del segreto del destino dell'umanità. Occorre riconoscere apertamente che una comunità retta al suo interno da regole de­ mocratiche, può tranquillamente essere un fattore di aggressioni belliche, addirittura rafforzate dalla maggiore coesione interna che ha un "esercito democratico" rispetto ad uno aristocratico, oligarchico o tirannico. Qui, allora, si pone il terzo problema che intendo segnalare in questa introduzione: il rapporto fra demo­ crazia ed universalismo o, più esattamente, fra democrazia politi­ ca e universalismo filosofico. La denuncia filosofica del carattere potenzialmente nichilistico della decisione democratica risale, come è noto, all'ateniese Socra­ te. Della figura di Socrate si sono date ovviamente, nel corso della 32

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storia, moltissime interpretazioni e darò anch'io la mia, nel primo capitolo. È intuitivamente evidente che la semplice applicazione proceduralmente regolata del principio di maggioranza non ga­ rantisce né la soluzione più utile, né la soluzione moralmente m i­ gliore. Per questa ragione, difficilm ente negabile anche dai relativisti e dai convenzionalisti più radicali, le costituzioni dem o­ cratiche sono anche quasi sempre state costituzioni "protette", nel senso che si sono variamente dotate di ima sorta di "cintura pro­ tettiva giusnaturalistica" sottratta in via di principio al gioco m u­ tevole delle maggioranze e delle minoranze spesso casuali e con­ tingenti. Questa cintura protettiva è sempre, a mio avviso, di tipo giusnaturalistico ed è di secondaria importanza, se le premesse di diritto naturale, sottratte alla sovranità delle decisioni democrati­ che a maggioranza, sono fondate su una religione rivelata e inter­ pretata da un clero organizzato, oppure su ima teoria filosofica razionalistica con pretese di validità universalistica. Vorrei insi­ stere molto sulle parolette "secondaria importanza", perché il pen­ siero cosiddetto "laico", dominante fra gli intellettuali occidentali, presta, a mio avviso, un'attenzione eccessiva alle m odalità di legittimazione di una norma, anziché al suo valore autonomo di verità e di giustizia. Per quanto mi riguarda, essendo diventato da tem po u n "contenutista" radicale, poco mi importa se una norma politica e morale, che ritengo buona in sé sulla base evidentemente di ima Ubera valutazione universalistica, sottoponibile al dialogo razio­ nale di controllo, sia legittimata sulla base della rivelazione di Dio, di Allah, di Buddha, della filosofia indiana, greca o cinese. Il nesso fra filosofia e democrazia qui appare in piena luce. Siamo invece di fronte ad un apparente paradosso, su cui sarà necessario torna­ re con insistenza e pazienza. Da un lato, infatti, è dominante oggi nella filosofia poHtica e giuridica occidentale ima posizione di tipo relativistico, scettico e convenzionalistico, che nega ogni validità alle proposizioni universaUstiche del diritto naturale, sostenendo appunto che lo stesso diritto naturale è una pura invenzione, in­ 33

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degna di fare da base di riferimento al diritto positivo, la cui nor­ ma è sempre autofondata ed autoreferenziale (posizioni simili si possono leggere in Hans Kelsen, che le ha sistematizzate in modo particolarmente accurato, ma anche in Benedetto Croce e in Norberto Bobbio). Dall'altro, gli stessi propugnatori relativisti e convenzionalisti - che spesso si nascondono ipocritamente sotto retichettatura innocente di "pluralisti" - non possono rinunciare alla cintura protettiva del diritto naturale, cioè alla cintura protet­ tiva di norme fondamentali sottratte al puro gioco delle maggio­ ranze elettorali. Questo giusnaturalismo che si vergogna o, se si vuole, questo giusnaturalismo a geometria variabile, basato sul prin­ cipio «qui lo dico e qui lo nego», si presta splendidamente all'edi­ ficazione dello pseudo-universalismo ideologico interventista dei diritti umani, da imporre con bombardamenti e corpi di spedizio­ ne. Per usare un triste ossimoro, si tratta di un positivismo giuridi­ co fattuale, che si maschera ideologicamente da giusnaturalismo à la carte, in cui il cliente decide sovranamente leggendo il menu che cosa sia diritto naturale e che cosa invece non lo sia. Ma questo è il triste scenario del mondo di questo inizio di terzo millennio, su cui sarà necessario ritornare dettagliatamente nel terzo ed ultimo ca­ pitolo, chiarendo che, se questo scenario storico-politico non sarà rovesciato in tempi ragionevoli, nessuna democrazia - delegata o diretta, formale o sostanziale, individualistica o comunitaria - sarà possibile per noi e per i nostri discendenti. " Un quarto problema, strettamente connesso a quelli evocati in pre­ cedenza, è dato dal rapporto fra politica e morale, rapporto in cui si inserisce ovviamente anche il tema della forma democratica di gover­ no. Una lunga tradizione occidentale di filosofia politica, che com­ prende anche avversari filosofici della democrazia egualitaria - da Aristotele a Montesquieu, sostenitori, il primo, di una democrazia limitata alla classe media e il secondo di una democrazia limitata all'aristocrazia nobiliare, quindi, se le parole hanno ancora un senso, di ima non-democrazia - è concorde nell'affermare che la democrazia è ima forma di governo, che richiede una particolare 34

Introduzione

"virtù" (areté\ virtus) nei cittadini: la virtù politica, appunto. Si tratta allora di capire se questa specifica virtù politica sia solo una sorta di prolungamento comunitario di un insieme di virtù morali propriamente dette, o qualcosa di specifico, che in alcuni casi non è per nulla "morale", anzi. In proposito, Niccolò Machiavelli è molto chiaro: «... mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immagina­ ti repubbliche e principati che non si sono mai visti, né conosciuti essere in vero. Perché egli è tanto discosto da come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene riuni infra tanti che non sono buoni». Non si potrebbe esprimere meglio e in modo più semplice una con­ cezione sostanzialmente pessimistica della natura umana, da cui de­ riva necessariamente un "realismo politico", programmaticamente e quasi provocatoriamente anti-utopistico, che separa nettamente la politica dalla morale. Sulla base di un'analoga concezione pessi­ mistica della natura umana, l'inglese Thomas Hobbes criticò le il­ lusioni democratiche in nome di una sorta di dispotismo securitario, in etti appunto la sicurezza della vita umana era messa come fon­ damento della politica, laddove il metodo democratico avrebbe potuto suscitare dei "centauri" estremisti e furiosi ispirati da messianesismi religiosi eversivi. Il filosofo francofortese Max Horkheimer, che scrisse note su Machiavelli estremamente acute e intelligenti, ha sostenuto in proposito che l'uomo non è affatto cattivo per natura (e neppure buono), ma al tempo di Machiavelli di fatto lo era, quindi il pensatore fiorentino era perfettamente le­ gittimato a dirlo. Il rapporto fra politica e morale può essere graficamente visua­ lizzato da una linea, in cui ad un estremo si pone la piena identi­ ficazione dei due termini e all'estremo opposto la loro totale sepa­ razione. Come accade quasi sempre nella realtà, si danno invece 35

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varie mescolanze, e questo per una ragione estremamente sempli­ ce. Anche ammesso, infatti, che vi siano storicamente casi di ti­ ranni o di assemblee aristocratiche e /o democratiche compietamente e provocatoriamente amorali ed immorali, persino questi "mostri" scoprono ben presto che il riferimento ai valori "morali" è una risorsa di legittimazione e di consenso per i loro stessi fini politici del tutto amorali ed immorali. Questo paradosso innesca molto spesso una dialettica politica particolare, dal momento che l'uomo, lungi dall'essere un ente ontologicamente immorale, è al contrario un ente, che inevitabilmente produce rappresentazioni "morali" della società. Ci ritornerò su esplicitamente nel secondo capitolo dedicato al rapporto fra democrazia e filosofia. Per ora, basti sottolineare che quanto affermo non è per una mia adesione alia dottrina di Kant - che considero generosa e civile, ma anche del tutto astratta e quindi inverosimile - ma in base a considerazioni di tipo prettamente darwiniano ed evoluzionistico. La produzione di norme morali, infatti, che la religione ha il compito di fondare, legittimare ed eternizzare - quindi nasce prima la morale, intesa come etica di conservazione del gruppo primitivo, e poi il simbolismo religioso etemizzante - impedisce al gruppo primitivo di autodistruggersi con lo scatenamento di un atomismo aggressivo ed autoreferenziale. L'uomo non nasce dunque per nulla come lupo per l'altro uomo (homo homini lupus), come sostenne a suo tempo Hobbes criticando Artistotele (tanto migliore di lui), ma, se proprio vogliamo ad ogni costo utilizzare metafore zoomorfe improprie - l'uomo è infatti un ente naturale generico, mentre l'animale è un ente naturale specifico, ma su questo torneremo - nasce come membro di un gregge senza pastore, che tiene insieme tutte le sue pecorelle con un legame sociale simbolico. Esiste una tradizione secolare di polemica liberale contro la de­ mocrazia egualitaria (Rousseau) e poi contro il comuniSmo politi­ co novecentesco (Lenin), che accusa queste due forme politiche anti-liberaìi di soffrire di una specifica patologia filosofica deva36

Introduzione

Stante: la patologia moralistica coercitiva, che vuole «costringere gli uomini ad essere liberi» (Rousseau) oppure, ancora peggio, che li vuole obbligare con la forza ad «edificare l'uomo nuovo comu­ nista» (Lenin). Non nego la parziale fondatezza di queste critiche liberali al prescrittivismo coercitivo fondato sulle cosiddette "buo­ ne intenzioni" ed ammetto apertamente che, di per sé, le "buone intenzioni" non sono un argomento filosoficamente decisivo, anzi. Si è spesso negata la legittim ità della com parazione fra il nazionalsocialsmo tedesco e lo stalinismo sovietico, sostenendo che è impropria, perché Stalin ha commesso i suoi crimini sulla base di buone intenzioni (l'universalismo egualitario comunista), mentre Hitler li ha commessi sulla base di intenzioni pessime (il razzismo ariano genocida verso ebrei, zingari, slavi ecc.). A mio avviso, benché personalmente preferisca Stalin a Hitler - e non vedo perché devo nasconderlo pudicamente al lettore - accetto invece pienamente la legittimità della comparazione e considero il rifiuto di questa comparazione un residuo di bigottismo antifasci­ sta. Io non devo difendere posizioni politiche e storiografiche precostituite, ma scrivo questo saggio, per così dire, "con le mani libere". N on devo difendere il liberalismo contro il comuniSmo, perché considero il liberalismo una forma di oligarchia economi­ ca, ed io sono per la democrazia; però non devo neppure difende­ re il comuniSmo contro il liberalismo, perché considero il comuni­ Smo una forma di dispotismo sociale, ed io sono per la democra­ zia. Del liberalismo apprezzo il principio di libertà, e del comuni­ Smo il principio di eguaglianza. Si tratta di due principi, la cui fusione integrale è impossibile, e da lungo tempo ho smesso di cre­ dere nel principio alchemico della loro fusione aurea. La "pietra filosofale", beninteso, esiste, ma solo nella testa dei filosofi. E la fusione integrale è impossibile, per il semplice fatto che si tratta di due principi asimmetrici, che non si ricoprono spazialmente e temporalmente, in quanto si può essere più liberi di un altro, ma non si può essere più eguali di un altro. I due principi, dunque, danno luogo ad ima dialettica di tipo tragico, in cui ogni concilia­

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zione finale è impossibile e, quando invece sembra possibile, lo è sempre in forma instabile, fragile e provvisoria. Un quinto problema è certamente dato dal rapporto fra politica ed economia: a mio avviso, questo quinto problema deriva dal quar­ to molto più di quanto generalmente non si creda, se, ad esempio, poniamo mente al fatto che Adam Smith, considerato il fondatore dell'economia politica liberale moderna con il suo libro del 1776 La Ricchezza delle Nazioni, era un professore di filosofia morale. Siamo infatti talmente abituati, attualmente, a considerare il regno del­ l'economia come qualcosa di intrinsecamente immorale - del resto, non posso negare che anch'io condivido questa valutazione, in quan­ to ciò che oggi è definito "economia", in realtà è solo "crematistica", arte di accumulare ricchezze - da avere dimenticato che, solo poco più di due secoli fa, l'economia nacque concettualmente come par­ ticolare estensione della filosofia morale, in quanto si pensava che lo sviluppo degli "interessi" borghesi e capitalistici fosse meno di­ struttivo, e quindi più morale, dello scatenamento delle "passio­ ni" signorili, nobiliari e feudali. La storia degli ultimi due secoli ha invece dimostrato che così non è e che gli interessi sono altrettanto e più distruttivi delle passioni. È questo un grande argomento filo­ sofico, difficilmente aggirabile, in favore della scuola anti­ utilitaristica (Mauss, Caillois, Latouche, Saisano ecc.). n o m ia m o ora al problema del rapporto fra politica ed econo­ mia: dove si inserisce la questione della democrazia? È bene che questo punto sia ben compreso, perché l ' intero mio saggio, e non solo questa sommaria introduzione, presuppone la sua piena com­ prensione. In proposito, mi riferirò alla classica impostazione di Karl Polanyi, vecchia di almeno mezzo secolo, ma tuttora, a mio avviso, insuperata. La tesi di Polanyi può essere riassunta così: il capitalismo è caratterizzato strutturalmente dalla separazione di principio fra economia e politica, nel senso che la riproduzione eco­ nom ica com plessiva del sistema capitalistico è del tutto autonomizzata e largamente indipendente da qualsivoglia interven­ to politico esterno, che è al massimo "correttivo"; nelle società 38

Introduzione

precapitalistiche, invece, l'economia era "incorporata" (embedded) in un insieme più ampio, che era nello schiavismo di tipo politico e nel feudalesimo europeo di tipo religioso. Esiste dunque una diffe­ renza qualitativa di principio fra la decisione politica nell'antica democrazia greca (o nelle società non democratiche dell'antico orien­ te o dell'Africa sub-sahariana) e la decisione politica nel capitali­ smo; il primo tipo di decisione politica "mordeva" direttamente nei contenuti economici, determinandoli in modo essenziale e non solo sussidiario; il secondo tipo di decisione politica, invece, ha un rag­ gio di intervento infinitamente minore, perché non "morde" nella vera e propria riproduzione capitalistica, ma al massimo ne influenza «aspetti secondari di tipo distributivo. Ho qui riassunto la tesi di Polanyi in modo indubbiamente tele­ grafico e semplificato, ma ritengo di non averla falsata. Dico que­ sto perché, al tempo stesso, proclamo qui solennemente di condi­ viderla praticamente in toto. Se infatti Polanyi ha ragione, come io ritengo, allora il problema principale di ogni filosofia politica de­ gna di questo nome è la tematizzazione critica del rapporto fra politica ed economia e una teoria della democrazia, che non ne parli nemmeno, vale a malapena la carta su cui è scritta e, in ogni caso, non ci aiuta a capire quasi niente del mondo. Ad esempio, la filosofia politica di Norberto Bobbio è, a mio avviso, una delle peg­ giori esistenti sul mercato delle idee, proprio perché è costruita sul presupposto metodologico e programmatico della separazione di principio fra politica ed economia. Il grande successo, che essa ha oggi - ma per quanto ancora? - è proprio dovuto non alle sue qualità, ma ai suoi difetti, in quanto la nuova classe politica, giun­ ta dopo il 1992 al potere in Italia sulla base del principio del pri­ mato assoluto dell'economia neoliberale sulla politica, deve ap­ punto richiamarsi come ideologia politologica di legittimazione ad ima teoria fondata proprio sulla separazione metodologica del­ l'economia dalla politica; separazione metodologica, che, in un contesto storico di primato soverchiante della prima sulla secon­ da, ne legittima appunto ex post l'esistenza. 39

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Un sesto problema, che deriva direttamente dal quinto, è dato dal problema storico e filosofico del rapporto della democrazia politica con il liberalismo, da un lato, e con il socialismo e il comu­ niSmo, dall'altro. Di questo rapporto si parlerà ovviamente a lun­ go nel primo e nel secondo capitolo, ma è bene anticipare subito alcuni rilievi di fondo. In proposito, ci sono due questioni cardina­ li, che bisogna immediatamente chiarire. In primo luogo, io rifiuto radicalmente il posizionam ento topologico delle posizioni "ideali" in un segmento delimitato da un polo detto di sinistra e da un polo detto d i destra. Non nego certamente 1'esistenza storica di innumerevoli forze politiche, so­ ciali, sindacali e culturali, che si sono autorappresentate secondo questa polarizzazione, perché negherei l'evidenza. Nego invece che oggi, qui ed ora, in Italia ed anche in Europa - per altre aree del mondo, come l'America Latina, andrei ovviamente più cauto questo posizionamento topologico bipolare possa aiutarci a capire qualcosa, sia pure con i consueti aggiustamenti che - come a suo tempo sostenne il filosofo della scienza Imre Lakatos - vengono generalmente giustapposti a paradigmi traballanti. In termini sin­ tetici e inequivocabili: no alla dicotomia sinistra/destra, eredità storica di un passato ormai trascorso e oggi semplice protesi politologica bipolare maggioritaria imposta ad un sistema eletto­ rale privo di sovranità politica, il cui compito è quello di galvaniz­ zare sostenitori identitari di tipo sportivo. Rifiuto dunque radical­ mente di disegnare questo schema semplificato: estrema destra/ fascismo, destra moderata/liberalismo, centro virtuoso/democra­ zia, sinistra moderata/socialdemocrazia o socialismo, estrèma si­ nistra/ comuniSmo. Trasportando questo schema alla cultura, po­ tremmo posizionare all'estremissima destra Julius Evola (più a destra del fascismo) e all'estremissima sinistra Amadeo Bordiga (più a sinistra del comuniSmo). Dal momento che sono un tolle­ rante, credo che ognuno possa divertirsi anche con un gioco demenziale, quindi non ho nulla in contrario che si faccia il gioco sinistra/destra e che il vincitore possa scatenarsi per alcune ore in 40

Introduzione

caroselli automobilistici con il clacson premuto dopo lo spoglio elet­ torale rituale, in attesa che esperti economici bipartisan, pienamente omologati nello spazio centrista del centro-destra e del centro-si­ nistra, decidano gli stessi identici provvedimenti in nome della cen­ tralità teologica dei Mercati Finanziari divinizzati. Come c'è chi crede nel bambino buddista reincarnato vestito di arancione e nel­ lo scioglimento del sangue di san Gennaro come succedaneo della mancata soluzione dell'annosa questione meridionale, nello stes­ so modo si può credere negli UFO, nel fatto che a buttar giù le Torri Gemelle di N ew York sia stato Bush in persona per avere il pretesto di dominare il mondo e, infine, nella vigenza storica at­ tuale reale della dicotomia destra/sinistra. Per finire, ritengo che sia un presupposto necessario, per poter discutere sensatamente di democrazia oggi, svincolare integralmente questa discussione dal fantasma identitario della dicotomia sportiva sinistra/destra. In secondo luogo, rifiuto di farmi invischiare in discussioni astratte sulla cosiddetta "compatibilità" - o viceversa, ma è assolutamente eguale, sulla cosiddetta "incompatibilità" - fra la democrazia, da un lato, e il liberalismo, il socialismo e il comuniSmo, dall'altro. Non parlo qui, volutamente, del cosiddetto "fascismo" - prescindendo dalle sue numerose e divergenti forme storiche differenziate, laddove fra il tedesco Hitler e il portoghese Salazar passa in realtà un oceano - perché, da un lato, era il fascismo stesso a sostenere di essere ostile e incompatibile con la democrazia e a non rivendicar­ la e, dall'altro, si potrebbe sempre incasellare il fascismo in una sorta di democrazia cesaristica di mobilitazione carismatica. Torniamo, però, al tema della compatibilità o meno. L'impostazione migliore è quella che detta il vecchio e spesso trascurato buon sen­ so: da un punto di vista astratto, formale, teorico e modellistico, la democrazia, intesa come metodo democratico di presa delle deci­ sioni unito alla cintura protettiva giusnaturalistica di tutela dei diritti naturali di libertà del cittadino, è perfettamente compatibile sia con il liberalismo che con lo stesso comuniSmo; da un punto di vista storico, fattuale, concreto, bisogna verificare caso per caso se 41

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10 sia oppure no. Ad esempio, laddove il pensiero originale di Marx è, a mio avviso, pienamente compatibile con la democrazia, ed anzi 11 suo comuniSmo utopistico-scientifico - l'ossimoro è voluto e non casuale - non può che avere la democrazia come sua forma politi­ ca essenziale, il comuniSmo storico novecentesco realmente esistito - come direbbero insieme Machiavelli e Kant, il suo "essere" e non il suo "dover essere" - si è ripetutamente e recidivamente dimostrato ad abundantiam, anzi ad nauseam, come assolutamente incompati­ bile sia con il metodo democratico che, ancor più, con lo spirito democratico. Questo scollamento - per usare uh eufemismo - fra teoria e pratica della democrazia, deve essere correttamente per­ cepito come qualcosa di tragicamente consustanziale alla dimen­ sione aporetica delle vicende umane. Ci sarebbero ancora molti altre questioni da richiamare, ma ci torneremo sopra nella trattazione che seguirà. Per ora, è bene ter­ minare con la segnalazione di un ultimo problema, che ho inteso lasciare consapevolmente per ultimo. Si tratta della segnalazione di un dubbio iperbolico sulla stessa esistenza della democrazia, non nel senso che la democrazia sia comunque illusoria ed impos­ sibile, o possibile ma non auspicabile, ma nel senso di chiedersi se veramente gli esseri umani oggi organizzati in società e /o in co­ munità ne abbiano bisogno, oppure se in realtà si tratti di un biso­ gno inesistente, perché oggi la grande maggioranza delle persone non vuole democrazia - intesa come somma di autogoverno poli­ tico e di autogestione economica - ma sicurezza e buona ammini­ strazione, rispetto dei parametri ambientali necessari ad una vita sana, garanzia economica contro la povertà, la disoccupazione e le malattie, ed è disposta a riconoscere come legittimo ogni gover­ no "performativo" (nel senso di efficiente), non importa se oligarchico, dispotico, neoliberale o tecnocratico. È giusto porsi dubbi iperbolici. Il grande filosofo francese Cartesio, ad esempio, definiva dubbio metodico quello rivolto esclusivamente alle modalità della corretta conoscenza del mondo esterno delle cose e del mondo interno delle passioni, mentre definiva dubbio 42

Introduzione

iperbolico quello che metteva in discussione persino 1'esistenza del mondo esterno. Nello stesso modo, è giusto porsi il dubbio iperbolico sulla necessità della democrazia stessa, intesa sia come metodo per la presa delle decisioni collettive legittime sia come processo culturale e antropologico per la costituzione processuale di indivi­ dui liberati e di comunità solidali. Cercherò di rispondere a questo dubbio iperbolico per tutto il corso del saggio, però è bene che, per correttezza, anticipi subito la mia risposta al lettore in questa introduzione. Ebbene sì, la de­ mocrazia è non solo opportuna, ma necessaria; non lo sarebbe, se esistesse ima "scienza politica", così come esistono scienze fìsiche, chimiche o biologiche. Già Platone sognava una scienza politica di tipo pitagorico, e il pitagorismo era di fatto l'equivalente greco del modello galileiano del moderno metodo scientifico. Anche il marxismo di partito dei Novecento - ma non Marx, come vedremo ha seguito il mito della cosiddetta (ed inesistente) "direzione scien­ tifica della società". Io stesso, nei miei verdi anni, ho seguito in un Paese dell'Est un corso demenziale di "comuniSmo scientifico". PTa democrazia, nel doppio significato formale di metodo demo­ cratico e sostanziale di profilo antropologico democratico diffuso, è necessaria proprio perché la politica non è in alcun modo ima scienza, e non può diventarlo. Una volta capito questo punto essenziale, il resto segue facile facile. Per questa ragione, posso chiudere qui questa breve intro­ duzione.

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Democrazia e storia. Riflessioni su una vicenda bimillenaria Questo primo capitolo propone al lettore alcune considerazioni di tipo storico sulle vicende dell'idea democratica nei secoli. Da un punto di vista logico, sarebbe stato forse preferibile inver­ tire l'ordine di successione dei miei primi due capitoli, perché le istituzioni storiche presuppongono un certo modo preliminare di risolvere il problema simbolico del rapporto fra macrocosmo na­ turale e microcosmo sociale, rapporto che, prima di essere "poli­ tico" in senso stretto, è sempre religioso o filosofico. Tuttavia, il lettore medio, che non pratica professionalmente la storia della filosofia occidentale come disciplina specifica - disciplina, che personalmente ho insegnato per trentacinque anni nei licei italiani sarà indubbiamente agevolato dal poter avvicinare prima gli eventi storici e dal potere poi ritornarvi sopra, riflettendo sui loro presup­ posti filosofici e religiosi. Ad esempio, un'esposizione logica avreb­ be dovuto prima discutere Toriginario pensiero di Marx sulla de­ mocrazia e passare poi all'esame dei rapporti fra la democrazia e il comuniSmo storico novecentesco. Se ho scelto di invertire, volu­ tamente, questa logica, l'ho fatto perché la maggioranza delle perso­ ne entra prima in contatto con i fatti storici novecenteschi ispirati al cosiddetto "marxismo" - che Marx non si sognò mai di edificare e di sistematizzare - e soltanto dopo sente il bisogno di riflettere su questioni teoriche e dottrinali. Una discussione storica sulla democrazia presuppone migliaia di pagine, non un modesto capitolo di un saggio relativamente breve. Dal momento che, però, sui rapporti fra storia e democra­ zia esistono trattati esaurienti, che si possono trovare segnalati in qualunque bibliografia informatica o cartacea, e a cui il lettore può accedere agevolmente, non mi sono certo lasciato spaventare dal 45

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fantasma della mancata completezza. Mi soffermerò allora su tre argomenti esemplari, tralasciandone altri forse altrettanto e più degni di essere presi in esame: il modello della democrazia degli antichi Greci, la complessa storia dell'intreccio fra democrazia e liberalismo nel mondo moderno e, infine, le ragioni del sostanziale fallimento del comuniSmo storico novecentesco (1917-1991) nella coniugazione della democrazia e del socialismo. Sul problema della democrazia oggi e del perché, a mio avviso, non viviamo affatto in una democrazia - semmai, la democrazia è un compito da svolgere e un terreno da conquistare, non certo qualcosa di già esistente e che va semplicemente "migliorato", "estenso" o "perfezionato" - dirò pochissimo qui, perché intendo sviluppare questo tema nel terzo ed ultimo capitolo.

Le ragioni della perenne attualità della filosofia politica degli antichi Greci e del fascino evocato dalla loro idea di democrazia Non c'è dubbio che permanga anche oggi un peculiare fascino per il modello democratico dell'antica Atene, anche se non durò a lungo e venne abolito dopo la conquista macedone (e romana) per essere sostituito da una classica oligarchia di ricchi. In genere, le ragioni di questo fascino perdurante sono legate alla preferenza ideale che si ha per una vera e propria "democrazia diretta", in cui tutti i cittadini vengono convocati in assemblea per decidere a maggioranza su questioni vitali, di fronte ad una "democrazia delegata", necessariamente inquinata e corrotta dallo specialismo politico e dalle burocrazie professionali. Il modello ateniese di de­ mocrazia diretta è, infatti, così attraente che quasi sempre si tra­ scurano i suoi difetti strutturali, come l'esclusione delle donne e degli schiavi. In genere, si archivia la cosa con un sospiro rasse­ gnato, seguito da discorsi di questo tipo: sarebbe bello che ci potes­

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se essere ancora una democrazia come quella, ma oggi purtroppo è impossibile, ci sono Paesi con milioni di persone, non si può certo essere convocati tutti in ima piazza, i problemi da risolvere sono "complessi" e richiedono uno specialismo, che si acquisisce con studi particolari; oggi, al massimo, l'utopia della consultazione si­ multanea dei cittadini può essere pensata tecnologicamente attra­ verso l'uso della rete informatica. Dalla democrazia dell 'agorà alla democrazia del web. C'è però ima differenza non da poco: i cittadini delle agorà formavano ima comunità reale, si vedevano, si toccavano, si amavano e si odiava­ no, mentre gli utenti del web formano soltanto una comunità vir­ tuale, che ha alle spalle la manipolazione del circo mediatico con le sue tecniche di saturazione e, soprattutto, la soverchiante fata­ lità dei cosiddetti mercati finanziari, la nuova divinità di oggi. Chi sostiene che l'agorà di oggi è il web, confonde, a mio avviso, ima virtualità con ima realtà. Chi scrive, non è un "credente" in que­ sta pur generosa utopia tecnologica. Non nego che, per una maggioranza di persone, il fascino della democrazia antica sia legato all'utopia della democrazia diretta contro il triste realismo procedurale e professionale della demo­ crazia delegata. Non è questo, il mio caso. La democrazia diretta che decide in tempo reale a maggioranza semplice è, però, la stessa democrazia, che, come ha a suo tempo rilevato Hans Kelsen, posta di fronte alla scelta fra Barabba e Gesù, vota per la libera­ zione di Barabba e la crocifissione di Gesù. In proposito, Kelsen, che sostiene che il relativismo scettico è il presupposto filosofico \m plicito di ogni ricorso alla decisione politica da prendere a mag­ gioranza - quindi "democraticamente", se la democrazia è il m e­ to d o per la presa di decisioni collettive a maggioranza - osserva |che il ricorso alla scelta del popolo di Gerusalemme presuppone Iche Ponzio Pilato non sapesse o non volesse rispondere alla do'ìiranda «che cos'è la verità?». Se infatti Pilato avesse saputo, o creduto di sapere, che cos'era la verità, avrebbe assolto Gesù e non ne avrebbe certamente delegato la crocifissione alla maggio­ 47

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ranza delle mani alzate della plebe gerosolimitana. Più di mezzo secolo dopo Kelsen, il filosofo americano Richard Rorty, nemico del­ l'esistenza degli universali, sostiene che, con la fine della credenza nella metafisica, la democrazia può finalmente sostituire la filosofia spodestata dal trono illegittimamente occupato della via privile­ giata per la conoscenza della verità, in quanto la democrazia come metodo politico e sociale ha proprio, come presupposto, la radicale inesistenza della verità - e la filosofia deve limitarsi ad es­ sere una sorta di "civile conversazione", programmaticamente privata di ogni pretesa veritativa e, quindi, normativa. La sola normatività possibile può e deve scaturire da un gioco regolato di maggioranze e minoranze. Il lettore è avvertito: il mio saggio è tutto costruito contro le opi­ nioni di Hans Kelsen e di Richard Rorty, e questo non certo perché sostenga la persecuzione ideologica dei dissenzienti, in quanto non ritengo affatto di "possedere" la verità e, anche se la possedessi (in tal caso, sarei o ima bestia o un dio) non sosterrei egualmente un punto di vista dispotico, perché ritengo che si possano tenere in­ sieme metodo democratico, tolleranza verso i dissenzienti e fidu­ cia nell'esistenza della verità filosofica. In proposito, nel discorso di Kelsen ci sono, a mio avviso, due "buchi"; due cose, cioè, che non dice e che impediscono di comprendere, nella loro realtà sto­ rica; Pilato, Barabba e Gesù. Il lettore mi scuserà, se ne parlo subi­ to allontanandomi dal discorso sui Greci, ma è bene non lasciare equivoci. In primo luogo, Kelsen può suggerire l'intrigante dilemma su Barabba e Gesù solo sulla base di una radicale destoricizzazione della situazione storica concreta della Palestina di quei tempi. Questa destoricizzazione, peraltro, sta sempre alla base delle con­ siderazioni formalistiche del problema, da Kelsen a Bobbio. Ponzio Pilato non era un "libero decisore" razionale, ma un funzionario imperiale romano, che aveva l'ordine esplicito di non creare disor­ dini inutili e di collaborare il più possibile con il sinedrio governa­ tivo ebraico, composto da sadducei e farisei moderati, alcuni dei 48

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quali proteggevano anche i partigiani zeloti fuorilegge, mentre non avrebbero ovviamente potuto sopportare la predicazione pacifi­ sta, ma pur sempre messianica, di Gesù di Nazareth, che intende­ va "purificare il tempio" (traduzione: colpire la loro gestione mafiosa e privatistica delle decime) e "proclamare Fanno di mise­ ricordia del Signore" (traduzione: cancellare i debiti pregressi e liberare gli schiavi senza pagare compensazioni). A Kelsen non interessa affatto il contesto storico e non è per lui di alcun valore il fatto che gli zeloti avessero coinvolto i loro soste­ nitori per far assolvere Barabba, partigiano zelota àeSS.'intifada ebrai­ ca, che aveva appena pugnalato un soldato romano; a lui interes­ sa il formalismo puro, cioè che sia la maggioranza a votare Barabba contro Gesù, e che Pilato comunque non intervenga perché non conosce la verità. Pilato, in quel caso, non è intervenuto non certo perché non conoscesse la verità, che non consisteva in una tesi filosofica universalistica, bensì in uh semplice accertamento giudi­ ziario, ma perché aveva ricevuto ordini ferrei da Tiberio di non scontentare gli ebrei e di cercare il consenso della plebaglia egemonizzata dal Sinedrio. Il problema, infatti, era giudiziario, non filosofico: per Pilato, il "proclamarsi messia" non era un reato pe­ nale, perché non era neppure di fatto un reato, laddove invece pu­ gnalare un soldato occupante era un reato penale, punito con la crocifissione; dal momento, però, che gli ebrei consideravano un reato punibile con la morte l'autoproclamazione messianica - anche se preferivanq una bella lapidazione popolare alla crocefissione romana - Pilato acconsentì, per ragioni non scettico-relativistiche (come suggerisce erroneamente Kelsen), ma di semplice opportu­ nismo politico. Bisognava, però, inventarsi un cartello di condanna "zelotico", perché un semplice cartello di condanna filosofico avrebbe com­ portato la punizione di un mero reato di opinione, che nel mondo di Pilato non esisteva, trattandosi di un mondo politeistico e pluralistico pullulante di epicurei, stoici, platonici, pitagorici ecc. Scrivere sul cartello della croce "INRI" ("Gesù Nazareno Re dei 49

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Giudei"), significava esprimere ima motivazione penale e non fi­ losofica, perché "Re dei Giudei", in quel contesto storico specifico : - per cui Kelsen non ha il minimo interesse - significava capo armato messianico del partito degli zeloti, i "terroristi" dell'epo­ ca. Gesù di Nazareth fu dunque crocifisso come "terrorista", non come predicatore di pace o come sostenitore del monoteismo, dal momento che, se c'era qualcosa di perfettamente "legale" nel :i mondo antico, era proprio il monoteismo stesso in tutte le sue ; versioni. In secondo luogo, Kelsen dimentica che Pilato non é per nulla l'espressione del cosiddetto pensiero greco o della sapienza filoso: fica greca, in cui lo scetticismo era certo presente, ma solo come corrente minoritaria e marginale. Il romano Pilato conosceva certamente bene il latino e il greco, il diritto romano e la filosofia gre­ ca, ma era un uomo che veniva dopo tre secoli non di ellenismo classico, ma di età ellenistica. Per l'ellenismo classico, l'esistenza filosofica della verità faceva parte del tessuto culturale fondativo ■della sua civiltà, anche se non mi sogno, ovviamente, di negare l'esistenza di posizioni alla Richard Rorty, che identificavano l'in­ tera realtà con il linguaggio (v. Gorgia ecc.). Per i Greci antichi/ìb] logos era, ad un tempo, linguaggio e ragione e il corretto linguag-1 {gio esprimeva la corretta ragione delle cose. / Ho aperto questa parentesi sull'uso improprio che il relativista Kelsen fa a proposito della scelta democratica fra Gesù e Barabba, per rilevarne il carattere radicalmente fuorviante; però mi è anche servita per poter finalmente esplicitare il mio personale punto di {vista sulla natura del fascino profondo, che il pensiero politico dei Greci ancora ha per noi. Questo fascino - lo ripeto - non risiede primariamente nell'immagine di un'assemblea brulicante di citta­ dini infervorati, sempre disposti a farsi abbindolare da demago­ ghi, guerrafondai e furbacchioni, che spesso prendevano decisio­ ni democratiche a maggioranza assolutamente criminali, come lo sterminio degli abitanti di Melo, che si erano rifiutati di aderire all'alleanza ateniese contro Sparta. Questo fascino, per me, risie­ 50

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de nel fatto che i Greci credevano nell'esistenza del bene politico, erano "sostanzialisti" e non solo "formalisti", e ciò può essere facil­ mente dimostrato esaminando il loro modo di classificare i regimi politici. Come è noto, per loro fortuna i Greci non erano ancora impri­ gionati dalla dicotomia classificatoria D estra/Sinistra e si orien­ tavano invece sulla base di due parametri combinati, la qualità di chi governava e il m odo in cui governava. La combinazione del binomio quantità-qualità non è, a mio avviso, qualcosa di storico e obsoleto, e dunque oggi tramontato ed inapplicabile, ma qualcosa di assolutam ente attuale, certo più attuale di Hobbes e di Locke. Riguardo a chi governava, le possibilità erano tre: uno solo (monarchia), pochi (aristocrazia), molti {politela, nel senso di democrazia costituzionalmente garantita da buone leggi e pra­ ticata da cittadini fomiti di educazione e di virtù politica). Per quanto riguarda il come, si poteva governare bene in tutti e tre i modi e si poteva, invece, governare m ale nelle tre distinte degenerazioni di questi modi (la tirannide come degenerazione della monarchia, l'oligarchia come degenerazione dell'aristocra­ zia, la democrazia corrotta dalla demagogia come degenerazio­ ne della politeid). Trascuro qui le modificazioni di questa teoria da Aristotele a Polibio, ricordando soltanto che l'insistenza sul numero tre è forse dovuta all'influsso di Pitagora e della scuola pitagorica, a meno che si voglia addirittura risalire al trifunzionalismo indoeuropeo stu­ diato da Dumézil; mi interessa, invece, sottolineare che questa teo­ ria presuppone 1'esistenza di qualcosa chiamato "bene politico", e che il problema della democrazia come metodo di governo è su­ bordinato al problema del corretto esercizio del bene politico stes­ so. Come vedremo più avanti, non è giusto dire, ad esempio, che Socrate ò stato un "nemico della democrazia", anche se questa frase viene spesso ripetuta ed io stesso, per superficialità e fretta, me la sono talvolta lasciata scappare. Socrate poneva il problema del corretto esercizio del bene politico, e lo poneva come patriota

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ateniese, non come traditore e collaborazionista con gli Spartani. Questa concezione contenutistica del bene politico non signifi­ ca, ovviamente, che chi la difende sappia già perfettamente in cosa consiste il bene politico stesso e lo voglia imporre con le buo­ ne o con le cattive. So bene che l'odierna dittatura del relativismo ha imposto un ridicolo stereotipo diffamatorio, per cui chi difen­ de la tesi filosofica dell'esistenza del bene politico e della sua com­ patibilità con la democrazia non limitata a metodo nichilistico, ma intesa come educazione libera al bene, è visto come un po­ tenziale sostenitore del totalitarismo: come, credi che esista una verità? Ma allora sei come Stalin! Ma allora sei come Hitler! Ma allora sei come Poi Pot! Ma allora, nella migliore delle ipotesi, sei come Ratzinger! Come è noto, questo è l'odierno dogma principale della dittatu­ ra della religione del "politicamente corretto", la dittatura del relativismo metodologico, visto come indispensabile presupposto del liberalismo e della democrazia. Ebbene sì, lo ammetto e non lo nascondo: io sono un consapevole avversario della dittatura del relativismo e non credo affatto che questa mia avversione mi porti a Poi Pot (la verità è il comuniSmo egualitario contadino imposto con i fucili) oppure a Bin Laden (la verità è il califfato universale voluto da Allah). Per questa ragione, mi faccio beffe di chi mi vor­ rebbe incatenare fino alla morte alla sua personale elaborazione del lutto del suo precedente mostruoso comuniSmo operaistico, seguita dalla sua riscoperta di Hobbes, Locke, Rawls, Bobbio o Habermas, e proclamo apertamente il mio ritorno alla concezione contenutistica dei Greci.

Tre significati possibili del termine "democrazia" ricavati dal patrimonio classico dei Greci antichi Dal momento che sono già molto numerosi gli studi filologici rivolti a chiarire le origini del termine democrazia- il termine damos, 52

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inteso comeparte del popolo, è già presente nelle tavolette micenee ~scntte in~lineare„ B. in epocagpreomerica - non ségmrÒ'questa via? ina"proporrò quelli che ritengo i tre significati principali, che la tradizione classica ha consegnato alla cultura occidentale poste­ riore: la democrazia come elemento specifico della tradizione Oc­ cidentale contrapposta al dispotismo orientale, la democrazia cornei spazio del conflitto sociale addomesticato e reso gestibile senza guerra civile e, infine, la democrazia non come specifica forma d| governo o di Stato, ma come prevalenza del demos, identificate), con la parte più povera e più numerosa della comunità politica. I tre significati, ovviamente, si intrecciano e non si trovano mai iso­ lati, ma è possibile distinguerli nettamente per chiarezza. Nel primo significato, il termine "democrazia" connota una comunità di uomini liberi ed eguali, contrapposta ad un dispotismo, in cui solo la parola del Re è legge: Dal punto di vista storico, questo significato che contrappone l'Occidente, terra della de­ mocrazia e della libertà, all'Oriente, terra del dispotismo, è chia­ ramente sorto come ideologia identitaria greca al tempo delle guerre persiane e lo si trova già presente nelle Storie di Erodoto. Da allora, questa ideologia occidentalistica identitaria ha avuto una lunga storia, che, se inizia con Maratona e Salamina, e quin­ di con Milziade e Temistocle, è ben presente oggi nella saturazio­ ne mediatica inneggiante a Bush e a Blair nella loro lotta contro Bin Laden e Saddam Hussein, anche se, ovviamente, è possibile arricchirla oggi con le polemiche contro il fascismo-comunismò e contro il fondamentalismo religioso ostile alla modernità occi­ dentale, sempre identificata con il relativismo etico e filosofico (solo, però, per gli intellettuali del coro, perché per le masse arruolabili si propone, invece, un fondamentalismo cristiano di tipo veterotestamentario). La democrazia diventa dunque una risorsa simbolica dell'ideolo­ gia occidentalistica identitaria, in ima grande narrazione continua, che va da Erodoto alle truppe imperiali mandate a bombardare i cosiddetti stati-canaglia, quelli appunto che non applicano Fa "de­ 53

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mocrazia" intesa come il primo dei diritti umani imprescrittibili. Che cosa pensare, di questo arruolamento simbolico dei Greci o, più esattamente, degli Ateniesi del tempo di Pericle e di Socrate? Tutto il male possibile, evidentemente; non solo per Tevidente stra­ volgimento ideologico che sta sotto questa operazione di arruola­ mento occidentale retroattivo, ma per alcune solide ragioni stori­ che, che cercherò di ricordare subito. Da un lato, l'ideologia della guerra dell'Occidente contro l'Oriente non ha mai contraddistinto la cultura politica della polis di Atene, ma semmai il profilo bellico di Alessandro il Macedone, che represse militarmente in modo sanguinoso sia la Persia di Dario III sia l'Atene di Demostene, per cui Alessandro può essere legittimamente considerato il seppellitore delTellenismo classico, pur essendo ovviamente anche l'iniziatore di quello spirito ellenistico - ellenistico, non ellenico - tipico dei grandi imperi orientali dei diadochi successivi, il cui potere è oligarchico e /o tirannico, ma certo non democratico. Dall'altro, e questo secondo aspetto è più importante ancora del primo, non bi­ sogna dimenticare che le attuali legittimazioni occidentalistiche di tipo imperiale non sono per nulla di tipo "greco", cioè razionalistico e filosofico, ma di tipo ebraico-mesopotamico: basti pensare al gran­ de agitare della Bibbia, preferibilmente veterotestamentaria, da parte di Bush e del suo concerto propagandistico neo-conservatore. Que­ sto Occidente di Giuditta e di Davide, però, non è l'Occidente di Socrate e di Platone, che ài loro tempi ragionavano sulla base del logos e non della realizzazione del mandato divino. In conclusione, l'ideologia occidentalistica della democrazia come proprietà priva­ ta da generalizzare in un mondo caratterizzato da una sorta di "dispotismo orientale" (da Hegel a Wittfogel), è un idolo pagano da lasciare ai bevitori di sangue umano. Nel secondo significato, il termine "democrazia" indica non solo un metodo, ma soprattutto una forma razionale del bene politico, che viene individuato in una gestione della riproduzione della co­ munità (.koinoniis . che non ne germetta Tesglqsione-e la dissoluzion.e a cgt^audells-dàecordie civili {shiseis, iarachès). Questorerin54

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realtà, il vero ed autentico significato storico ed è bene, pertanto, chiarirne meglio la natura e le caratteristiche. Se solo lo si capisce, cadono tutte le inutili teorie formalistiche e relativistiche sulla modellizazione politologica interminabile delle forme istituzionali del "potere del popolo", e viene invece in primo piano la visibilità dell'accesso del popolo al potere. E il popolo accede al potere sem-' pre in un solo modo e per una sola ragione: quando la dinamica caotica ed illimitata (apeiron) del potere del denaro lasciato a sé stesso porta alla minaccia attuale e presente della dissoluzione della comunità stessa. Certo, accedendo al potere, il popolo commette abusi e crimini, che occorre poter correggere anche e soprattutto con la libertà di critica alla Socrate, questo "moscone fastidioso" del nobile cavallo degli Ateniesi. Se il popolo accede al potere, però, ciò avviene perché esiste un allarme ineludibile. Non c'è qui lo spazio per descrivere nei dettagli i due principalf momenti storici della costituzione della democrazia ateniese, cioè prima la riforma di Solone e poi quella di distene. Il lettore è invita­ to ad andare a leggere un buon libro di storia greca. Appare però chiaro che Solone deve intervenire, contro lo scatenamento del potère delle ricchezze, che portatila schiavitù per debiti una parte rile­ varne di cittadini, e che il suo intervento non è sufficiente, in quanto" lascia ih piedi' una costituzione oligarchica e non interamente de­ mocratica. Saranno poi le riformejdid is t e ne. poco prima dello scop­ pio della prima guerra persiana (quella conclusasi a Maratona), a portare veramente il popolo ateniese al potere, e questo avviene attraverso 1 applicazione dei principio - probabilmente pitagorico della "mescolanza" {anamixis), in cui vengono sciolte le vecchie tribù religiose identitarie, vengono pubblicizzati i precedenti cura privati - dietro ai capolavori artistici dell'Acropoli vi è proprio questa pubblicizzazione della religione olimpica - e soprattutto vengono mescolati in strutture politiche artificiali (i demi) i citta­ dini della costa {paralitici), i cittadini della pianura e del nucleo urbano (pediaci) e i cittadini delle zone povere della montagna e dell'interno dell'Àttica {aeriti). Non si insisterà mai abbastanza 55

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sulla crucialità del principio pitagorico della anamixis, in quanto è proprio la "mescolanza" artificialmente costruita dalla ragione {logos), dall'eguaglianza di tutti i "mescolati" di fronte alla legge {isonomid) e del loro comune accesso alla parola nelle assemblee pubbliche, in cui si realizza la comune decisione politica {isegorià), a rendere possibile il salvataggio della concordia civile (omonoia). Giustamente, gli odierni abitanti di Atene hanno battezzato le due principali piazze della loro città "Costituzione" {Syntagma) e "Con­ cordia" {Omonoia). Da entrambe le piazze, alzando lo sguardo, è possibile vedere l'Acropoli. Questa democrazia antica è certamente inter-classista, per dirla in linguaggio moderno, ma resta una de­ mocrazia, in cui, essendo l'economia ancora incorporata {embedded) nella decisione politica, il potere della decisione era ancora reale, non illusorio. A rigore, infatti, il "potere del popolo" puramente inteso si direbbe in greco laokratia, mentre la demokratia propria­ mente detta dovrebbe essere tradotta come "il potere del popolo politicamente organizzato dalle leggi", oppure, come preferirei personalmente, l'accesso del popolo ad un potere politicamente garantito da leggi comunitarie. Il politikòn zoon, di cui parla Aristotele, è infatti certamente un animale politico, ma, essendo l'antica polis una comunità e non una semplice "società civile", in senso moderno si può tradurre questo termine in tre modi, tutti legittimi: animale politico, animale sociale, animale comu­ nitario. Solo con la filosofia politica di Hobbes i tre termini si Separano concettualmente, e questo avviene perché si erano se­ parati prima socialmente. "-Nel terzo significato, il termine "democrazia" non indica una specifica forma di governo o di Stato, ma lo stato di fatto della prevalenza del demos, identificato con la parte più povera e più numerosa della comunità politica. Aristotele, del resto, dice aper­ tamente (cito a memoria) che «la democrazia è il potere dei mol­ ti, che sono anche i più poveri». In un suo recente libro sulla democrazia, Luciano Canfora ha sostenuto proprio questa tesi: la democrazia non è unaforma, non è un tipo di costituzione, poiché 56

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è presente «nelle più diverse forme politico-costituzionali», dove e quando si fa sentire con più efficacia l'azione della parte popola­ re. Non si può essere più lontani dalla tipologia formalistica alla Norberto Bobbio, o da chi afferma che gli USA sono «la più gran­ de democrazia del mondo»; si dirà che Canfora è un marxista, però anche Benedetto Croce, che non era certo un marxista, ma un liberale quasi puro, sosteneva che la democrazia non è un regi­ me politico, bensì un modo di essere nei rapporti di classe, sbilan­ ciato in direzione della «prevalenza del demos», per dirla còn Aristotele. Questo terzo significato sembra logicamente incompatibile con il secondo, che allude ad una tecnica di neutralizzazione parzia­ le del conflitto di classe attraverso la m escolanza artificiale (anamixis) di poveri, ricchi e classe media, mentre il terzo significato allude piuttosto a quella che il pensiero comunista novecentesco Lenin, in primo luogo - connotava come «dittatura democratica del proletariato». A mio avviso, senza negare del tutto la diffe­ renza dei due significati - il secondo dà luogo ad una mescolan­ za, il terzo a una prevalenza - ritengo che essi siano molto più complementari di quanto sembri a prima vista. La mescolanza promossa dalla riforma di d iste n e comporta di fatto una speci­ fica prevalenza numerica del demos, che in una democrazia in qualche modo "diretta", pur appoggiandosi ad élites di coman­ do (v. il gruppo di Pericle ecc.), riesce ad affermare i suoi interes­ si. La fine della democrazia ateniese si verificherà quando, in seguito alla conquista macedone, i "teti" (i cittadini a pieno dirit­ to, ma economicamente poveri) saranno esclusi dalla stessa co­ stituzione politica, che da democratica diventa oligarchica. Sul fatto che le conquiste romane, prima repubblicane e poi im periali, favorissero sem p re sistem a tica m en te la p a rte nligarchica contro quella democratica non mi soffermo, perché si tratta di cose dettagliatamente spiegate in qualsiasi buon ma­ nuale di storia antica.

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Il principio democratico e il processo a Socrate lì principio democratico di maggioranza, la tecnica di mescolan­ za fra i cittadini e la stessa prevalenza del demos non garantiscono di per sé il bene politico. Si tratta di una ovvietà assoluta, ma, come spesso avviene nel dibattito teorico, l'ovvietà deve essere il punto di partenza per un pensiero radicale, che prenda cioè le cose alla radice. E la radice sta nel fatto che il principiò di maggioranza puro è razionalmente infondato, in quanto la maggioranza deci­ sionale è una pura forma, non uri contenuto - il bene politico non può essere pura forma, se non presso i formalisti ipocriti - e ogni principio di maggioranza deve essere "coperto" da una cintura protettiva, non importa se esplicita o implicita - quelle implicite sono le più ipocrite, perché negano spesso di essere tali - e questa cintura protettiva non può essere giuridica o giudiziaria, ma deve essere religiosa e /o filosofica. Allora, dirà il virtuoso lettore laico, liberale, relativista e nemico delle filosofie veritative identificate con ideologie di legittimazione del potere, Lei non vuole una democrazia pura, ma una democra­ zia protetta! Proprio così, caro lettore: io voglio proprio una de­ mocrazia protetta, si tratta però di capire quale tipo di "protezio­ ne" si concepisce e, prima di scandalizzarsi per questa razionalis­ sima affermazione, è bene cercare di pensare radicalmente le cose. Se è vero che il principio di maggioranza puro è ima semplice procedura formale, che non garantisce il bene politico - è infatti possibile immaginare un despota illuminato che abolisca la pena di morte e la tortura, mentre una maggioranza di plebei imbestialiti può approvare lo squartamento pubblico del reo - mi sembra che le possibilità siano due, e solo due: o si sceglie la via del potere assegnato ad ima minoranza convinta di sapere che cosa sia il bene politico (i filosofi-re di Platone, il partito giacobino della virtù politica di Robespierre, il partito bolscevico del comuniSmo scien­ tifico di Lenin ecc.), oppure si innesca un processo educativo, in grado di portare in tempi ragionevoli la maggioranza dei cittadini a

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praticare il bene politico. Come si vede, l'affermazione dell'esistenza del bene politico non comporta necessariamente il sequestro del potere da parte di minoranze illuminate - o che si autoproclamano tali, in nome di una conoscenza privilegiata, delle idee eterne in Platone, della virtù politica naturale in Robespierre, della direzione necessaria della storia in Lenin ecc. - ma è compatibile con una concezione processuale dell'educazione della maggioranza del popolo. Il principio liberale della garanzia della più piena libertà di opi­ nione è in tal senso necessario per praticare questo principio educativo. La libertà è anche libertà di sbagliare o, come scrisse Rosa Luxemburg, la libertà è sempre libertà di chi la pensa diver­ samente, il che non esclude che spesso chi la pensa diversamente pensa anche infondate e disinformate sciocchezze. Il fatto è che la sciocchezza resta tale anche se è espressa liberamente, però deve essere depenalizzata. La tutela della libera espressione di sciocchezze non può essere raggiunta attraverso vie ontologiche e filosofiche di tipo relativistico - per cui sarebbe impossibile, in via di principio, distinguere fra sciocchezze e verità, in quanto non c'è nulla al di fuori del linguaggio e dei suoi usi, mettendo così il penoso dilettante Wittgenstein al di sopra di Platone - ma esclusivamente attraverso il sistema delle norme giuridiche di garanzia. Si tratta di un pro­ blema giuridico, non filosofico. Tutto questo, ovviamente, è possibile soltanto in una democrazia "moderna", in cui il principio anomico della società civile astratta ha sostituito il principio comunitario dell'antica Atene. Questo principio consiste nel "poter dire qualunque cosa" e non è at­ tualmente assolutamente garantito, perché non è, per ora, legal­ mente permesso dire pubblicamente che Hitler aveva ragione e che Bin Laden oggi ha ragione. Personalmente, credo fermamente che Hitler avesse torto e che anche Bin Laden ce l'abbia - in ogni caso, meno di Bush - ma credo anche che la punizione giudiziaria di chi lo afferma sia incompatibile con ima affermazione radica­ le della libertà liberale moderna. Il politicamente corretto ha sosti­ tuito oggi la Santa Inquisizione di ieri, e questo è indubbiamente 59

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un progresso - l'essere licenziati per opinioni negazionistiche sui campi di concentramento hitleriani è indubbiamente più "civile" dell'essere scottati con tenaglie roventi - ma, come si vede, neppure 10 Stato liberaldemocratico contemporaneo è in grado di permetter­ si uno scambio di opinioni a 360 gradi, e questo perché tutte le società - ripeto, tutte - hanno un implicito fondamento religioso: si tratta di sapere quale esso sia. Nell'Europa attuale, l'unico fonda­ mento religioso ecumenico è la religione dell'Olocausto e del giudeocentrismo metafisico di espiazione, quindi è sottratto, sul piano giuridico e giudiziario, alla sfera della libertà d'opinione. Va da sé - ma, con questi chiari di luna, è sempre meglio dirlo - che, per quanto mi riguarda, lo sterminio genocida di Hitler è veramente esi­ stito e non può in alcun modo (ssere "contestualizzato", giustificato, scusato, relativizzato, comparato ecc. Semplicemente, ritengo che do­ vrebbe essere consentito legalmente anche dire il contrario. Diritto di libertà significa anche diritto alla sciocchezza. Io sarei contrario, ad esempio, a punire penalmente la sciocchezza di chi sostiene che l'im­ pero americano è benefico per tutti i popoli del mondo, ma qui si pone un problema di tipo squisitamente storico; non esistono liberaldemocrazie pure, in quanto non esistono società politiche sen­ za fondamento religioso presupposto sottratto alla punibilità giudiziaria: in Iran, è penalmente proibito dire che Allah non esiste e che, quindi, Maometto non era il suo profeta; in Europa è legalmente possibile farsi beffe di Dio, di Allah e di Maometto, ma è legalmente proibito dire che l'Olocausto non c'è stato. Se insisto tanto su questo fatto, apparentemente marginale - ma 11lettore si sarà già accorto che marginale non lo è per nulla - è per sottolineare un concetto assolutamente incomprensibile per il pen­ siero cosiddetto "laico", e nieè-ehemon esistono, e non possono esistere, società senza un implicito fondamento religioso7ì5nJattà solo dfelaminare quanJo~è~cóme questodraìHSnHitÒ^feligioso sia stato secolarizzato. Per capire meglio, visto che le società antiche non erano liberaldemocratiche, perciò erano anche più sincere e meno ipocrite, converrà ritornare brevemente sul processo a Gesù

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di Nazareth, studiandone le analogie e le differenze con il proces­ so, che la democrazia ateniese, restaurata dopo la parentesi di­ spotica dei Trenta Tiranni, fece a Socrate. Presupponiamo, ovvia­ mente, ciò che non è affatto scontato, cioè che sia i Vangeli sia XApologia di Socrate siano testi storici (almeno in parte) e non com­ posizioni letterarie di fantasia completamente inventate. Il lettore paziente mi permetterà di ritornare ancora una volta sul rapporto fra il processo a Gesù di Nazareth e il principio de­ mocratico di maggioranza della plebaglia, che urlava «Liberate Barabba!», perché l'intollerabile impostazione destoricizzante di Hans Kelsen ne impedisce la comprensione e, del resto, le varie Chiese cristiane - cattolici, protestanti, ortodossi, settari di ogni genere ecc. - divergono su tutto, ma c'è un punto su cui concor­ dano trionfalmente: il silenzio imbarazzato sul cosiddetto "Gesù storico". Se utilizziamo i Vangeli come documenti (almeno parzialmente) storici e li integriamo con la conoscenza storica del significato semantico dei termini nel contesto politico della Palestina e del giudaismo messianico del tempo, in cui il messianesimo si manife­ stava in almeno tre forme diverse (farisei, esserti e zeloti), alcune cose si possono sapere in modo relativamente certo: Gesù non pote­ va essere condannato a morte per "autoproclamazione messianica" (in quanto ad essere "figlio di Dio", mi spiace, ma ritengo che nep­ pure lui pensasse di essere tale), per il sem plice fatto che l'autoproclamazione messianica, praticata senza commettere vio­ lenze fisiche, non era un reato penale per l'autorità romana, per la quale era invece reato penale il "terrorismo" (INRI). Pilato, che aveva avuto l'ordine tassativo di non infastidire il Sinedrio ebraico collaborazionista, accettò, dietro la pressione decisiva di quest'ul­ timo, di trasformare l'accusa di "autoproclamazione messianica", che non era un reato penale per la legge romana, in "terrorismo", che era invece un reato penale punibile con la crocefissione. La condanna di Pilato non è dunque dovuta a un suo "scetticismo" (che cos'è la verità ecc.), ma al fatto che, per non avere ulteriori 61

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problemi - che comunque vennero, vedi la rivolta ebraica degli anni '67-70 - finse demagogicamente di ascoltare i "compagnucci" di Barabba confluiti sulla piazza. In ogni caso, per potersi proclama­ re o credere di essere un messia, rinviato da Dio in grado di pro­ clamare veramente la purificazione del tempio e Fanno di miseri­ cordia del Signore, bisogna prima essere inserito in una società messianico-religiosa, cioè in una "Società del Libro", in cui si srotolano nelle sinagoghe i papiri arrotolati del'profeta Isaia e si legge con aria ispirata una citazione sacra. I Greci, caro lettore, non erano una "Società del Libro", quindi non avevano un clero sacerdotale, che pretendesse di avere il monopolio della corretta interpretazione della citazione sacra. Per ragioni storiche, che non ho qui il tempo di chiarire, i Greci non avevano libri sacri di riferimento teologico da interpretare, ma disponevano solo di un ricchissimo patrimonio mitologico da "decostruire" razionalmente (uso qui, volutamente, un termine fi­ losofico contemporaneo). Questo non significa, ovviamente, che essi fossero "laici" - o in qualche modo "precursori" del pensiero laico, scettico e relativista di David Hume o di Hans Kelsen, e quindi non "religiosi" - i Greci erano invece religiosissimi, ma la religione se la gestivano da soli in modo direttamente comunitario, non at­ traverso la mediazione di un clero professionale organizzato. Pei dirla in modo (solo apparentemente) ovvio e banale, i Greci non erano ebrei e non erano neppure ancora cristiani o musulmani, anche se i loro discendenti lo diventarono. I Greci non erano nep­ pure "liberali", e lo capiremo meglio riflettendo sul "democrati­ co" processo a Socrate, che può anche essere inteso, ovviamente, come un processo in cui il giudice è la religione e l'imputato è la filosofia, ma che in realtà è un processo che la comunità istruisce contro l'individuo; individuo, che non cessa comunque mai di sen­ tirsi parte della comunità stessa. Non affermo, ovviamente, nulla di nuovo - cose simili le hanno già dette in molti, fra cui il grande Hegel - ma è sempre importante tornarci sopra, riflettendo in particolare sul vero e proprio abba­ 62

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glio in cui cade lo studioso americano I.F. Stone, il cui fraintendi­ mento ci porterà nel cuore della questione. Il filosofo Socrate fu condannato a morte nel 399 a.C. da una numerosissima giuria popolare di cittadini ateniesi (nella democra­ zia ateniese non esisteva una corporazione professionale di magi­ strati vincitori di concorsi pubblici, come oggi). Socrate si difese da solo, ma alla fine fu condannato e dovette bere un veleno (la cicuta). Nella sua difesa - mi rifaccio qui alYApologia d i Socrate scritta da Platone, testo considerato in genere storicamente attendibile Socrate alluse ad una "vecchia accusa" (il non credere agli Dei della polis, come si desume dalla commedia Le Nuvole ài Aristofane) e a una "nuova accusa" (la corruzione dei giovani). La condanna finale a morte fu decisa, sostanzialmente, in base alla seconda ac­ cusa; fu quindi una condanna politica, perché la corruzione dei giovani, in quel particolare contesto storico, era identificata con la propaganda antidemocratica. Socrate respinse entrambe le accu­ se, si proclamò innocente per la prima e, in quanto alla seconda, finì con il provocare i giurati, sostenendo che, anziché essere con­ dannato, avrebbe dovuto essere mantenuto a vita dallo Stato come pensionato per meriti eccezionali. Alla fine, fu condannato, impri­ gionato e dopo qualche tempo bevve il veleno. Oltre alla Apologia d i Socrate, abbiamo anche un dialogo platoni­ co, in cui Socrate rifiuta di fuggire pur potendolo fare (il Critone), e un altro consacrato alle ultime ore di Socrate e alla "morte esem­ plare del filosofo" (il Fedone). In questa sede, non ci interessa rannoso problema del rapporto fra l'autentico Socrate e l'inter­ pretazione posteriore che ne dà Platone, ma la questione del rap­ porto fra democrazia e decisione ingiusta, in quanto è evidente che Socrate fu condannato a morte in modo perfettamente legale e in base al principio di maggioranza di una giuria popolare, che possiamo considerare abbastanza "rappresentativa" dell'Atene dell'epoca e, nello stesso tempo, la sua quarantennale attività cri­ tica, maieutica e dialogica rivolta alla discussione del bene politico non ci appare un "reato" e, tanto meno, un reato penale merite63

Jl popolo al potere

vole della morte. Nella sensibilità liberale moderna, si poteva trat­ tare al massimo di un leggero "reato d'opinione", che è peraltro una vera contraddizione in termini, perché nel costituzionalismo liberale ideale nessuna opinione dovrebbe essere un "reato". Il prin­ cipio della libertà liberale potrebbe, infatti, essere enunciato in que­ sto duplice modo: ogni proprietà privata è legittima, se acquisita secondo le regole; ogni sciocchezza può essere detta (con la sola eccezione della diffamazione adpersonanì), in quanto la sciocchez­ za è giuridicamente legittima e giudiziariamente non punibile. Il nesso proprietà/sciocchezza è quindi il pilastro filosofico della li­ bertà liberale concettualmente ricostruita, dal momento che l'eco­ nomia (la proprietà) è un fatto, mentre la filosofia (sciocchezza) è solo un'opinione. In base a questa concezione liberale della libertà, lo studioso ame­ ricano I.F. Stone ha riscritto YApologia di Socrate. In breve, Stone sostiene che Socrate ha sbagliato completamente la strategia difen­ siva e che l'ha sbagliata non per stupidità, ma perché probabilmen­ te non aveva più voglia di vivere. Secondo Stone, se Socrate, anzi­ ché provocare i giurati rivendicando la sostanza del suo insegna­ mento - cioè la critica alla democrazia come metodo inadatto per il conseguimento di quella particolare arte specialistica denominata "bene politico" - ne avesse rivendicato soltanto \&forma - il diritto cioè di esprimere liberamente le proprie opinioni, giuste o sbaglia­ te che fossero, in nome della tradizione libertaria della schiettezza ateniese - avrebbe potuto essere assolto, e lo sarebbe probabilmen­ te stato. L'errore di Stone è interessantissimo, in quanto, a mio avviso, si tratta di un tipico errore proiettivo-retroattivo, in cui il liberale americano contemporaneo è talmente convinto, e impregnato del­ la propria concezione di libertà di opinione come sovrano arbi­ trio illim itato, di poter dire legalmente qualunque cosa - anche se negli Stati Uniti ci sono moltissime cose, che non si possono legalmente dire, come ad esempio che Bin Laden ha ragione da essere convinto, in buona fede, che il vecchio Socrate fosse un 64

Democrazìa e storia

pensatore "eterno", che solo casualmente parlava greco anziché inglese. La democrazia antica non era una democrazia liberale, m a co­ munitaria. A Socrate non sarebbe mai venuto in mente, n on es­ sendo ancora stati tradotti in greco Spinoza e Locke, che la libertà potesse essere difesa sostenendo che ognuno può dire quello che vuole, purché non violi fattualmente le leggi con atti criminali. La separazione fra proprietà (da garantire in tutti i m odi) e scioc­ chezza (da tollerare, se non si concretizza in atti veri e propri) presuppone che il mondo dell'economia sia, ad un tempo, liberalizzato e sovrano e che l'economia, appunto, non sia più incorpo­ rata (embedded) nella sfera della decisione politica. Ritornerò su que­ sto negli ultim i paragrafi di questo primo capitolo, in cui seguirò la triste parabola dell'ascesa e della caduta del comuniSmo storico novecentesco; per ora, basterà tornare ancora un poco sul caso Socrate. Ai tempi di Socrate, la rivendicazione del proprio diritto alla li­ bertà non era pensabile nei termini di un diritto astratto, formal­ mente garantito, di poter dire qualunque cosa, ma nei termini di "discorso giusto" rispetto a "discorso ingiusto". In altre parole, la libertà democratica era pensata insieme alla nozione e alla pratica di bene politico. Si dirà che tutto ciò non va bene, perché in questo modo non può essere fondata la tolleranza. Sono perfettamente d'accordo. A m io avviso, la libertà deve comprendere anche la libertà, giuridicamente garantita e giudiziariamente non punibile, di poter dire terribili sciocchezze, ma questo - si noti bene - non certo perché non è possibile relativisticamente distinguere fra ve­ rità e menzogna, saggezza e sciocchezza ecc., ma per un sem plice fatto di possibilism o e di convenzionalismo giuridico e giudiziario. Il Socrate di Stone è ovviamente un Socrate inesistente ed im p os­ sibile, ma, proprio attraverso l'errore di Stone, è possibile confprendere la differenza fra democrazia degli antichi e democrazia dei moderni. Questa differenza non risiede affatto, come opinala erroneamente Benjamin Constant, nel libero godimento della pijb65

Il popolo al potere

pria proprietà individuale contrapposto al principio della parteci­ pazione pubblica assembleare. La democrazia di cui parla Constant non è, ovviamente, ima democrazia - del resto, Constant parla di «libertà dei moderni», perché ha ancora il pudore di non chia­ marla democrazia, pudore scomparso nei suoi seguaci attuali ma un semplice liberalismo non democratico. E questo ci introdu­ ce ad un diverso periodo storico.

Una parentesi sul rapporto storico fra religione cristiana e principio democratico Nel chiacchericcio semicolto che ha sostituito oggi il dibattito cul­ turale, chiacchericcio in genere egemonizzato dai cosiddetti laici, nome con cui oggi vengono quasi sempre indicati semplicemente i sostenitori incondizionati della globalizzazione neoliberale, che però mangiano con la forchetta anziché direttamente con le mani, comportamento in genere attribuito ai "populisti", il rapporto fra religione cristiana (e, in genere, monoteistica) e il principio demo­ cratico viene di solito risolto con imo stereotipo negativo. In breve, si sostiene che democrazia e religione sono incompatibili, perché il presupposto del metodo democratico è il relativismo valoriale, con­ dizione per accettare il metodo della decisione a maggioranza, mentre la religione cristiana, ritenendo di interpretare la rivela­ zione divina - o, se si vuole, il diritto naturale cristiano inteso come elaborazione filo so fica terrena di questa stessa ^rivelazione ultraterrena - non può certo "mettere ai voti" valori inorali e reli­ giosi non trattabili come la vita (e quindi aborto, eutanasia ecc.). La religione sarebbe perciò incompatibile con la democrazia, per­ ché imporrebbe ima "cintura protettiva" di valori sottratti_alla con­ ta dei voti. Metafisica e democrazia sarebbero, di conseguenza, in­ compatibili. Ho già ricordato nelle pagine precedenti Hans Kelsen e Richard Rorty, ma i nomi potrebbero essere molto più numerosi e appesantirebbero, inutilmente, questo saggio. 66

Democrazia e storia

Chiediamocelo: è veramente così? Per rispondere a questa do manda cruciale, bisogna ricordare il significato dèi termine demo­ crazia come "prevalenza del demos", e il demos non è poi m olto lontano da quello che la religione cristiana chiama "i poveri". Certo, i poveri del Cristianesimo (e dell'Islam) sono un demos sui generis, un demos senza diritti politici, e un demos senza diritti politici e affidato alla benevolenza dei benefattori non è più un demos, ma solo un aggregato sociale pre-politico o post-politico. Non ho certo difficoltà ad ammetterlo. So anzi molto bene che, in questo periodo di sm antellam ento n eolib erale d ello stato sociale europeo novecentesco, va molto di moda la beneficienza e la retorica com­ passionevole per i piccoli africani senza cibo sufficiente. I piccoli africani affamati sono, in realtà, un vero scandalo sociale e morale intollerabile, ma i politicanti neoliberali ipocriti che se ne riempio­ no la bocca hanno in testa ben altro. In ogni caso, se interpretiamo la democrazia non solo ma anche come prevalenza degli interessi del demos, costituito in maggioranza dai più poveri, anche il pro­ blema storico del rapporto fra cristianesimo e democrazia cambia e si può fondare su principi più convincenti. È impossibile qui ripercorrere, pur se sommariamente, duemila anni di religione cristiana e sarebbe ridicolo anche il solo tentarlo. Alarne cose elementari possono, però, essere telegraficamente ri­ cordate: le prime comunità cristiane erano, in massima parte, co­ munità "democratiche", riunivano insieme quasi sempre i più p ò veri e si autoamministravano in modo generalmente fraterno è soli­ dale; con Costantino e Teodosio - legalizzatore del Cristianesimo, il primo; impositore autoritario di esso come obbligatorio, il secondo il cristianesim o è certam ente incorporato nella struttura di legittimazione classista tardo-schiavista e proto-feudale della società, ma continua ad animare strutture assistenziali per il demos pove-„. ro (anzi, è per questo che, a m io avviso, gli si dà tanto spazio; come per altro avviene anche oggi); con il consolidamento istitu­ zionale del feudalesimo (v. Carlo Magno), il Cristianesimo diventa la base simbolica di una società tripartita gerarchica e non certa­ 67

I! popolo al potere

mente democratica (bellatores, oratores e laboratores), ma è sempre sul suo terreno che si sviluppano correnti pauperistiche a base de­ mocratica, dalle eresie al francescanesimo. Si potrebbe, ovviamen­ te, continuare a lungo, ma il succo è questo: il cristianesimo non si basa certo su di una forma dem ocratica, anzi adotta la forma monarchica - e spesso inevitabilmente tirannica - del papato, forma la cui sostanziale insostenibilità teorica e sociale è tale da provocare necessariamente scismi a raffica (ortodossi, protestanti, sette ecc.), ma nello stesso tempo vi sono momenti storici, in cui, di fatto, sostie­ ne la prevalenza del demos, anche se sempre in una forma non de­ mocratica (nessun principio di maggioranza, semmai paternalismo sociale). A proposito del principio democratico della votazione a mag­ gioranza, c'è comunque un fatto grottesco e rivelatore da segnala­ re. Nel Concilio di Nicea del 325 d.C. furono poste le basi teologi­ che della posteriore religione cristiana organizzata contando le teste dei vescovi presenti, e le teste di chi considerava Gesù un vero e proprio Dio in terra furono casualmente - il lettore ha letto bene: casualmente - più numerose di chi lo riteneva un semplice "uomo", tipo Maometto. Mi scuso con l'eventuale lettore teologo, per avere brutalmente semplificato, ma il succo della questione resta chiaro: l'istituzione divina che rifiuta la conta casuale dei voti è sorta sulla base di un conteggio dei voti casuale e, per di più, cinicamente m anipolato da Costantino, su m otivazioni di pura opportunità (un Costantino, sia detto del tutto en passant, che non si era neppure ancora convertito alla religione cristia­ na). Personalmente, dal momento che sono anch'io un teologo dilettante di scuola spinoziana, ritengo che un Gesù di Nazareth redivivus si sarebbe fortemente stupito per il risultato finale del Concilio di Nicea, ma mi rendo conto che gigantesche schiere di sacerdoti cattolici, protestanti ed ortodossi, che m aneggiano l'aramaico, il siriaco e il copto come io posso maneggiare il fran­ cese, mi zittirebbero immediatamente, inchiodandom i alla mia ignoranza. 68

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Poco male. Ciò che conta è che il lettore sia consapevole del fatto che persino le istituzioni programmaticamente meno democrati­ che e che si considerano direttamente "ispirate" da D io devono poi fare i conti con la casualità contingente del principio democrà­ tico stesso. È infatti sicuro che, se in un prossimo futuro la Chiesa cattolica farà sposare gli svelti pretini e i seriosi pretoni ed am­ metterà anche il sesso femminile nel campo dell'ordine sacro - si tratta di due innovazioni, che mi sentirei sinceramente di consi­ gliare all'intelligente teologo tedesco asceso al trono di Pietro, e parla imo che ha simpatia per la religione cristiana - ciò avverrà in base al principio democratico di maggioranza, sia pure lim itato all'oligarchia di cardinali e di vescovi, e in totale assenza di refe­ rendum presso il confusionario e contraddittorio popolo dei fedeli. È infatti difficile sfuggire al principio di maggioranza e al fattore di contingenza e di casualità storica, che esso porta inevitabilm en­ te con sé, anche quando ufficialmente ci si ispira non alla conta dei voti, ma alla verità divina.

Le origini rivoluzionarie della democrazia moderna: la rivolta dei contadini tedeschi del 1525, la rivoluzione inglese del 1640, la rivoluzione francese del 1789 La democrazia moderna non ha avuto origini, per così dire, fisiologiche ed evolutive, ma rivoluzionarie. Mi rendo perfetta­ mente conto che oggi lo stesso concetto di rivoluzione gode di cattiva stampa ed è fortemente discreditato, ma questo è, a m io parere, soltanto il frutto di un momento storico lim itato e contin­ gente, nato dall'incontro fra l'euforia degli eterni contro-rivolu­ zionari e il pentimento vergognoso e imbarazzato degli ex-rivo­ luzionari in cerca di rilegittim azione culturale e, soprattutto, di onorato e ben pagato riciclaggio sociale e p olitico. Q uesta tragicomica sinergia ha comportato la rilegittimazione di fatto sia del pensiero controrivoluzionario classico, nelle sue due punte mas­

Il popolo al potere

sime di Burke (la rivoluzione è lo stravolgim ento astratto e razionalistico di un corso evolutivo naturale della storia) e di de Maistre (la rivoluzione è un atto intimamente ateo e blasfemo, che viola ad un tempo la legge umana e la legge divina), sia del pensiero controrivoluzionario moderno, da Talmon (il principio democrati­ co inteso come prevalenza numerica del demos è totalitario pei sua stessa natura, solo il principio liberale ci può salvare) ai cosid­ detti "nuovi filosofi" francesi, che non fanno peraltro che volga­ rizzare in m odo m ediatico, per una platea di ex-sessantottini semianalfabeti, temi a suo tempo trattati molto più nobilmente da Hegel e poi da Merleau-Ponty (il perseguimento della virtù politi­ ca astratta, prima giacobina in Robespierre e poi bolscevica in Lenin e Stalin, si rovescia dialetticamente e inevitabilmente in terrore politico generalizzato e senza legge). Non sono affatto indignato per questo attuale furoreggiare del pensiero contro-rivoluzionario, dal momento che ritengo giusto che, per citare un proverbio popolare, chi è causa del suo mal pianga se stesso e il comuniSmo storico novecentesco recentemente de­ funto (1917-1991) è stato, nell'essenziale, causa del suo male. L'op­ portunismo conformistico del ceto intellettuale, prima "rivoluzio­ nario" con rauche grida di palingenesi sociale e di distruzione della tradizione seguite poi da striduli appelli al neoliberismo economi­ co e all'adesione all'impero americano bombardatore, non mi stu­ pisce neppure; come direbbe don Abbondio, le ho viste io, quelle facce, le ho viste per quarant'anni e so bene che il loro animale totemico è il pesce che si sposta in grandi banchi. Al confronto, le pecore sono animali individualisti, perché ogni tanto qualcuna va per conto suo. Come direbbe l'immortale Eduardo de Filippo, «ha da passare la nottata». Il fatto che sia di moda la lettura giacobina del 1789 di Albert Socoul oppure la lettura girondina degli stessi eventi di Francois Furet, non è dovuto per nulla ad ima maggiore "scienti­ ficità" storiografica dell'ima rispetto all'altra, o viceversa, ma sem­ plicemente al trend conformistico delle tribù dei professori univer­ 70

Democrazia e storia

sitari e dei giornalisti (ovviamente, so che in entrambe queste cate­ gorie vi sono rilevanti eccezioni, ma le eccezioni, appunto, confer­ mano la regola). Temo, a causa della mia età già relativamente avanzata, di perderm i il prossim o trend storico, ma mi sento pascalianamente di scommettere che un ventenne di oggi ne sarà spettatore e, forse, anche coautore. In ogni caso, lasciam oci sovranamente alle spalle l'attuale dittatura del politicam ente cor­ retto neoliberale e cerchiamo di impostare il problema storico del­ la costituzione della democrazia nei tempi moderni. Per "tempi moderni", intendo esattamente ciò che si intende nei manuali di storia, cioè il periodo storico, che si apre dopo il 1492 e che ha una chiara "accelerazione" dopo il Seicento, con l'emergere del­ la borghesia come classe sociale dominante e con la progressiva costituzione dei rapporti sociali capitalistici di produzione (segna­ lando, ovviamente, che questi due fenomeni non avvengono in modo istantaneo e "puntiforme", in un certo momento, ma coesistono con il mantenimento di forme culturali ed economiche signorili e comu­ nitarie). In estrema sintesi, se si mettono in successione il 1525 (Germa­ nia), il 1640 (Inghilterra) e infine il 1789 (Francia), trascurando qui altri, pur interessantissimi, eventi minori di questo tipo in altri Paesi, si può notare che il principio democratico passa da una legittimazione soltanto biblico-religiosa (Germania 1525) ad una legittimazione mista, in parte biblica e in parte giusnaturalistica e contrattualistica (Inghilterra 1640), fino ad una legittimazione in­ tegralmente giusnaturalistica e contrattualistica senza più alcun esplicito residuo religioso (Francia 1789). Questa, almeno, è la let­ tura storica, che propongo al lettore nel presente saggio e che ho scelto, fra molte altre possibili, per la sua chiarezza e la sua perti­ nenza. Si ha allora la seguente successione: religione al 100% (Ger­ mania 1525), religione e filosofia al 50% (Inghilterra 1640) e, infi­ ne, filosofia al 100% (Francia 1789). N ello stesso tempo, segnalo al lettore che non intendo affermare che la religione sparisce e la filosofia si impone, per cui la "modernità" deve essere interpretata 71

Il popolo al potere

come tramonto della religione. Questo è quello che appunto pensano i cosiddetti "laici", che credono di essere senza religione, laddove sono i fedeli quasi sempre acritici di ima forma secolarizzata di deismo inglese. In accordo con Cari Schmitt, ritengo che, nell'essenziale, tut­ te le principali categorie politiche della tradizione occidentale modèr­ na - il discorso chiaramente non vale per il mondo musulmano, l'India, la Cina ecc. - sono prodotti derivati da una secolarizzazione di precedenti categorie religiose. Mentre la tradizione cinese, per fare solo questo esempio, è sostanzialmente unitaria da almeno tre­ mila anni, la tradizione occidentale ha avuto la rottura storica dell'instaurazione del cristianesimo; a tale proposito, sia che la si voglia interpretare come regresso e decadenza (Nietzsche), sia che la si voglia interpretare "dialetticamente" come relativo progresso (Hegel), è comunque indiscutibile che la rottura c'è stata. Torniamo al nostro problema della genesi della democrazia mo­ derna. Ricordo qui al lettore che, per me, la democrazia non è primariamente uno stato istituzionale di potere del popolo, ma un movimento dì accesso del popolo al potere e che, di conseguenza, in accordo con un am pio spettro d i pensatori che vanno da Aristotele a Benedetto Croce, essa non è una forma di governo o di Stato, ma ima prevalenza economico-sociale del demos (in un ampio spettro di "mescolanze" istituzionali, che ne sono però solo la tecnica e non l'essenza). Sulla base di queste due cruciali segnalazioni teòriche e metodologiche, che escludono radicalmente i modelli politologici di tipo formale alla Giovanni Sartori e alla Norberto Bobbio, m odelli costruiti sulla separazione di principio fra economia e politica, discuterò ora, in estrema sintesi, le rivolu­ zioni democratiche del 1525, del 1640 e soprattutto del 1789. In quanto alla rivoluzione russa del 1917, me ne occuperò sempre in questo capitolo, ma in un paragrafo successivo. La rivoluzione dei contadini tedeschi del 1525 ha avuto una gran­ de importanza storica, e non solo per la storia nazionale della Germania. C'è chi afferma che la sua violenta repressione ha com­ promesso per tre secoli l'affermazione della democrazia in Ger72

Democrazia e storia

marna, contribuendo a creare ima mentalità d'ordine, gerarchica e servile nel popolo tedesco. Non lo credo. Credo ovviamente alla "lun­ ga durata" alla Braudel, ma non a questa specifica "lunga durata". Se proprio mi si chiede qual è stata la data cruciale per la sconfitta della democrazia moderna in Germania, sarei portato a dire il 184849 e poi l'incapacità del partito liberale tedesco, negli anni Sessanta e Settanta, dell'Ottocento ad opporsi validamente a Bismarck. Non risalirei dunque tanto lontano, al 1525 di Thomas Miinzer. Miinzer, definito da Ernst Bloch - caposcuola indiscusso del marxismo utopico del Novecento - il "teologo della rivoluzione", cadde vittima della repressione delle forze feudali tedesche - che erano forze cattoliche e luterane alleate, e questa "alleanza" vorrà pur dire qualcosa - e lo stesso Martin Lutero approvò questa sanguinosissima repressione, ovinamente con acconce citazioni bibliche di tipo paolino sulla sacralità del potere. Citazioni bibliche opposte, anche se rica­ vate ovviamente dallo stesso Libro sacro di legittimazione e riferi­ mento, erano state ampiamente usate dal teologo Miinzer per inci­ tare i contadini alla lotta armata contro i signori feudali. È evidente che Miinzer non fa parte della storia della democra­ zia moderna come teoria del suffragio universale e come forma di Stato e di governo, ma ne fa parte, se si intende ovviam ente la democrazia come movimento per la prevalenza del demos. M iinzer è del tutto estraneo alla cultura umanistica rinascimentale, cultu­ ra che aveva finito per fare l'apologià della ricchezza, anche se certamente non della ricchezza volgare dei parvenus. Egli era in­ vece un erede del pauperism o m edioevale, ma non di quello quietistico alla Francesco d'Assisi, quanto del pauperismo rivolu­ zionario attivo di Jan Hus e degli hussiti cechi (a loro volta eredi di John Wycliff e dei lollardi inglesi del 1381). Data la natura comu­ nitaria del pauperismo medioevale, ideologia non certo di operai e di piccola borghesia industriale moderna, ma di contadini ed arti­ giani poveri, la rivendicazione democratica di Miinzer non pote­ va certo dirigersi in direzione di imo Stato sociale moderno di tipo socialdemocratico o comunista, ma era rivolta necessariamente ad 73 ::

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come tramonto della religione. Questo è quello che appunto pensano i cosiddetti "laici", che credono di essere senza religione, laddove sono i fedeli quasi sempre acritici di una forma secolarizzata di deismo inglese. In accordo con Cari Schmitt, ritengo che, nell'essenziale, tut­ te le principali categorie politiche della tradizione occidentale moder­ na - il discorso chiaramente non vale per il mondo musulmano, l'India, la Cina ecc. - sono prodotti derivati da ima secolarizzazione di precedenti categorie religiose. Mentre la tradizione cinese, per fare solo questo esempio, è sostanzialmente unitaria da almeno tre­ mila anni, la tradizione occidentale ha avuto la rottura storica dell'instaurazione del cristianesimo; a tale proposito, sia che la si voglia interpretare come regresso e decadenza (Nietzsche), sia che la si voglia interpretare "dialetticamente" come relativo progresso (Hegel), è comunque indiscutibile che la rottura c'è stata. Torniamo al nostro problema della genesi della democrazia mo­ derna. Ricordo qui al lettore che, per me, la democrazia non è primariamente uno stato istituzionale di potere del popolo, ma un movimento di accesso del popolo al potere e che, di conseguenza, in accordo con un am pio spettro di pensatori che vanno da Aristotele a Benedetto Croce, essa non è una forma di governo o di Stato, ma una prevalenza economico-sociale del demos (in un ampio spettro di "mescolanze" istituzionali, che ne sono però solo la tecnica e non l'essenza). Sulla base di queste due cruciali segnalazioni teoriche e metodologiche, che escludono radicalmente i modelli politologici di tipo formale alla Giovanni Sartori e alla Norberto Bobbio, m odelli costruiti sulla separazione di principio fra economia e politica, discuterò ora, in estrema sintesi, le rivolu­ zioni democratiche del 1525, del 1640 e soprattutto del 1789. In quanto alla rivoluzione russa del 1917, me ne occuperò sempre in questo capitolo, ma in un paragrafo successivo. La rivoluzione dei contadini tedeschi del 1525 ha avuto ima gran­ de importanza storica, e non solo per la storia nazionale della Germania. C'è chi afferma che la sua violenta repressione ha com­ promesso per tre secoli l'affermazione della democrazia in Ger­ 72

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mania, contribuendo a creare una mentalità d'ordine, gerarchica e servile nel popolo tedesco. Non lo credo. Credo ovviamente alla "lun­ ga durata" alla Braudel, ma non a questa specifica "lunga durata". Se proprio mi si chiede qual è stata la data cruciale per la sconfitta delia democrazia moderna in Germania, sarei portato a dire il 184849 e poi rincapacità del partito liberale tedesco, negli anni Sessanta e Settanta, dell'Ottocento ad opporsi validamente a Bismarck. Non risalirei dunque tanto lontano, al 1525 di Thomas Munzer. Mùnzer, definito da Ernst Bloch - caposcuola indiscusso del marxismo utopico del Novecento - il "teologo della rivoluzione", cadde vittima della repressione delle forze feudali tedesche - che erano forze cattoliche e luterane alleate, e questa "alleanza" vorrà pur dire qualcosa - e lo stesso Martin Lutero approvò questa sanguinosissima repressione, ovviamente con acconce citazioni bibliche di tipo paolino sulla sacralità del potere. Citazioni bibliche opposte, anche se rica­ vate ovviamente dallo stesso Libro sacro di legittimazione e riferi­ mento, erano state ampiamente usate dal teologo Mùnzer per inci­ tare i contadini alla lotta armata contro i signori feudali. E evidente che Mùnzer non fa parte della storia della democra­ zia moderna come teoria del suffragio universale e come forma di Stato e di governo, ma ne fa parte, se si intende ovviam ente la democrazia come movimento per la prevalenza del demos. Mùnzer è del tutto estraneo alla cultura umanistica rinascimentale, cultu­ ra che aveva finito per fare 1'apologia della ricchezza, anche se certamente non della ricchezza volgare dei parvenus. Egli era in­ vece un erede del pauperism o m edioevale, ma non di quello quietistico alla Francesco d'Assisi, quanto del pauperismo rivolu­ zionario attivo di Jan Hus e degli hussiti cechi (a loro volta eredi di John Wycliff e dei lollardi inglesi del 1381). Data la natura comu­ nitaria del pauperismo medioevale, ideologia non certo di operai e di piccola borghesia industriale moderna, ma di contadini ed arti­ giani poveri, la rivendicazione democratica di Mùnzer non pote­ va certo dirigersi in direzione di uno Stato sociale moderno di tipo socialdemocratico o comunista, ma era rivolta necessariamente ad 73

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una concezione e a una pratica della giustizia comunitaria, nel quadro di rapporti feu d ali dati per p resu p p osti. Q uesto "feudalesimo senza feudatari" - uso questo ossimoro proprio per sottolinearne la natura impraticabile - però non guardava avanti, ma indietro, verso un modello di rapporti feudali ideali a basso costo, a bassa repressione e ad alto tasso di umanità paternalistica. Tutto questo era impossibile nel 1525, in quanto l'incipiente infla­ zione dovuta (anche e non solo) alTarrivo dell'oro americano, in­ flazione sommata al prevalere dei redditi mobili dei mercanti ri­ spetto ai redditi fissi dei proprietari terrieri, costringeva le classi feu­ dali e signorili a "torchiare" maggiormente i loro servi della gleba, che in questo modo vedevano peggiorare le loro condizioni di vita rispetto ai loro nonni e bisnonni; peggioramento verificato attraver­ so la tradizione orale della trasmissione della memoria familiare e comunitaria, fonte immensamente più "scientifica" delTodiema produzione alluvionale della corporazione universitaria degli stori­ ci contemporaneisti ossessionati dalla propria identità ideologica. Mùnzer non può far riferimento a teorie politiche moderne non ancora esistenti. Il suo riferimento è integralmente biblico-religioso, ed egli allora saccheggia il testo biblico per trovare le citazioni esat­ te, che possano legittimare il suo pauperismo rivoluzionario. Niente di più facile, ovviamente, in quanto il "citazionismo selettivo" dalla Bibbia al Corano, alle opere di Marx ed Engels ecc. - si presta letteralmente a qualsiasi cosa (ecco perché metto subito in guardia il lettore da qualsiasi fascinazione verso tale pratica, che è sempre lo scrigno dell'arbitrio più scandaloso: molto meglio la razionalità dialogica socratica, strutturalmente non citazionista). D el resto, la Chiesa m edioevale era sempre stata concorde nel definire le Sacre Scritture il liber aerethicorum (libro degli eretici) per eccellenza. Questo era possibile, perché nelle scritture bibliche sono raccolti in­ sieme testi che rappresentano il punto di vista delle caste sacerdota­ li insieme con testi, che, sia pure in maniera spesso mediata, rappre­ sentano invece il punto di vista dei dominati, dei poveri e degli sfrut­ tati. La Bibbia è un libro, in cui sia i dominanti che i dominati pos­ 74

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sono trovare le loro citazioni giuste, ed è pertanto un testo ideolo­ gico di legittimazione "misto", che può servire sia alla consacra­ zione sacrale del potere più oligarchico, sia all'incitam ento alla prevalenza del demos. Thomas Miinzer morì fra i più atroci tormenti. Nello stesso tem­ po, però, credo che lo si possa tranquillamente annoverare fra gli eroi fondatori della democrazia moderna. Certo, non della dem o­ crazia secondo Bobbio o Sartori, ma certo della democrazia nel senso, di Rosenberg o di Canfora, ima democrazia di "accesso" nel senso dinamico del termine. Nei ricordi scolastici della maggioranza dei lettori, la rivoluzio­ ne inglese del 1640 sarà certamente legata alla figura di Oliver Cromwell e alla decapitazione di Carlo I Stuart, preludio della ben più famosa decapitazione di Luigi XVI, più di cento anni dopo. Oggi i re non si decapiterebbero più e sono diventati i testimonials mediatici sorridenti delle grandi liberaldemocrazie europee attua­ li. In base alla mia personale sensibilità umanitaria e al mio rifiuto della pena di morte, sono ben contento che i re non vengano più decapitati e possano consacrarsi liberamente al golf, alle regate veliche e agli adulteri mediatici reciproci, ma in un saggio storico come questo devo rilevare che essi non vengono più decapitati dal popolo, perché la decapitazione è riservata a coloro che contano qualcosa, mentre i re oggi non contano più niente, e non perché li abbiano spodestati le plebi barbariche e scarmigliate, ma perché li hanno spodestati i mercati finanziari e le multinazionali. Gira gira, si toma sempre all'economia. Nell'Inghilterra del 1640 il re conta­ va invece moltissimo, perché incarnava il centro politico sovrano dell'unità della classe nobiliare e della Chiesa episcopale anglica­ na, che ne sacralizzava il potere. Quando scoppiò la guerra civile fra il Re e il Parlamento, i "poveri" stavano da entrambe le parti, ma dalla parte del Re stavano soltanto i poveri assistiti e incorpo­ rati nelle clientele tribali nobiliari, mentre i poveri decisi ad eman­ ciparsi attraverso il commercio e l'artigianato stavano in m aggio­ ranza dalla parte del Parlamento. 75

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La cultura ufficiale inglese ha largamente rimosso l'intermezzo rivoluzionario del ventennio 1640-1660 e, a mio avviso, lo ha fatto perché questo ventennio non ha avuto nulla di "liberale", ma ha visto uno scenario di confronto diretto fra autocrazia e democra­ zia, in cui il liberalismo brilla per la sua totale assenza. Dal m o­ mento che il mito fondatore dell'Inghilterra moderna deve essere a tutti i costi "liberale" - e vi è qui un curioso totalitarismo ideologico, che dovrebbe essere tenuto d'occhio con maggióre attenzione - si è inventato che la Grande Rivoluzione inglese è stata quella del 1688-89; rivoluzione, che ha avuto la curiosa caratteristica di non essere affatto tale, ma di essere consistita in un cambio della guar­ dia pilotato all'interno di una ristrettissima oligarchia borghese­ nobiliare, il cui cantore, John Locke, era anche azionista di una compagnia per la tratta degli schiavi negri dall'Africa all'Ameri­ ca. Questo "fatterello" biografico di Locke può essere considerato importante oppure irrilevante, a piacere. Personalmente, lo consi­ dero rilevante, così come considero rilevanti le adesioni di Gentile al fascismo, di Heidegger al nazionalsocialismo e di Lukàcs allo stalinismo (il che non chiude, ovviamente, ma semmai apre, il di­ scorso sulla valutazione teorica e critica del loro pensiero). In ogni caso, la rivoluzione inglese è stata quella del 1640, non quella del 1689, che, per quanto mi riguarda, lascio tutta ai miti liberali di fondazione. La caratteristica ideologica della rivoluzione inglese del 1640 sta allora nel suo carattere "misto", nel fatto cioè che a un 50% di citazioni bibliche provenienti dalla cultura protestante puritana si unisce un 50% di argomenti derivati dal giusnaturalismo e dal contrattualismo^ cioè dalle nuove filosofie del diritto naturale e del patto sociale. Questa mescolanza è veramente di estremo interes­ se. Il filosofo Hobbes, che provava verso la rivoluzione inglese un odio tanto più profondo quanto più sublimato in filosofia politica apparentemente "scientifica", odiava ovviamente sia la compo­ nente biblico-m essianica che la com ponente giusnaturalisticoegualitaria, e il succo della sua teoria politica consiste nel proporre 76

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la messa fuori legge integrale della libertà d'opinione, in quanto l'esp ression e pu bblica d elle o p in ion i m essian ich e e /o giusnaturalistiche avrebbe portato al sicuro dominio di quelli che chiamava i "centauri", cioè i mostri sediziosi rivoluzionari metà bestie e metà uomini. Oliver Cromwell, che nell'essenziale finì per condividere il punto di vista di Hobbes, lasciò "sfogare" ed utiliz­ zò per i suoi fini i messianici biblici apocalittici (la setta della Quin­ ta Monarchia del colonnello Harrison, poi debitamente impiccato da Carlo II nella restaurazione), i giusnaturalisti egualitari (i Li­ vellatori di Lilbume, i cui quadri militari fece impiccare lui stesso senza aspettare la restaurazione monarchica) e infine i comunisti comunitaristi della proprietà pubblica e del consumo comune (gli Zappatori di W instanley, attivi nel periodo "rivoluzionario" pri­ ma del riflusso e della normalizzazione). Non a caso, Hobbes, che si trovava in Olanda durante la rivoluzione, tornò in patria dopo la normalizzazione di Cromwell, resosi conto che il periodo tur­ bolento della prevalenza del demos era finito e regnava ormai il binomio di Ordine e Proprietà. Non essendo un seguace di Sartori e di Bobbio, Hobbes sapeva bene che la democrazia non era una forma di Stato o di governo, ma una situazione di predominio del demos. Che poi il demos fosse normalizzato dal capo militare puri­ tano Cromwell oppure da un Re unto dal Signore, che pretende di governare in nome di un diritto divino, ebbene questo può interes­ sare solo a un maniaco delle forme istituzionali, non certo ad un uomo pratico che andava al sodo come Thomas Hobbes. La lettura dei verbali dei dibattiti di Putney, tenuti nel 1647 da delegati dell'esercito di nuovo modello di Cromwell, in cui si scon­ trano in mòdo palese i "moderati", fautori di quello che sarebbe stato chiamato qualche decennio dopo "liberalismo", e i "radica­ li", fautori di quello che sarebbe stato chiamato parecchi decenni dopo "pensiero democratico", resta a tutt'oggi estremamente ri­ velatrice. I richiami alla Bibbia ci sono ancora, ma sono marginali e sporadici, laddove nei discorsi di Miinzer del 1525 erano addi­ rittura ossessivi. Il tessuto del discorso è invece quasi interamente 77

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filosofico e si incentra su due opposte interpretazioni del diritto naturale e del contratto sociale. I radicali - in massima parte membri del partito dei Livellatori - sostenevano ima interpretazione del contratto sociale di tipo democratico, fondata sul suffragio uni­ versale (coh qualche restrizione), unita ad una interpretazione del diritto naturale basata sull'intervento politico organizzato contro la povertà. I moderati - in massima parte uomini di Cromwell e presbiteriani di vario tipo - interpretavano il patto sociale come patto fra proprietari, da cui discendeva ovviamente il rifiuto netto del principio democratico del suffragio universale, mentre dava­ no una interpretazione individualistica alla teoria del diritto natu­ rale, che i politologi moderni hanno poi battezzato come "indivi­ dualismo possessivo". «Chi, dei due, ha vinto?», mi chiederà il lettore curioso. Non voglio dirglielo, in questa sede, per ragioni di suspense, e lo riman­ do alla lettura di un buon manuale di storia. Qualora, però, il let­ tore sospettasse che ha vinto il liberalismo senza democrazia, cre­ do che non sarebbe poi tutto sommato troppo lontano dal vero. Passiamo ora alla grande Rivoluzione Francese del 1789. Su que­ sto evento storico esiste una bibliografia critica alluvionale, in cui si perderebbe anche Teseo munito del filo di Arianna. Ciò non è un caso, perché nella valorizzazione della rivoluzione del 1789 si incontrano l'orgoglio nazionale francese - che è grandissimo e che, personalmente, vedo con grande simpatia ed approvazione, in questi tempi di americanolatria - e l'albero genealogico del comu­ niSmo storico novecentesco, che ha sempre visto, nei giacobini, dei precursori dei bolscevichi con la parrucca e il codino invece che con la giacca operaia di pelle. Discuterò più avanti la plausibilità o meno della teoria neoliberale e postmoderna, oggi diffusissima e data quasi per ovvia, che istituisce un simbolico filo diretto di tipo totalitario-dittatoriale fra Platone, Rousseau, Robespierre, Hegel, Marx e Lenin. L 'egem onia d i questa grande narrazione demonizzante nel chiacchericcio semicolto durerà ancora qualche anno - non molti, a occhio e croce - e personalmente la considero 78

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un ragionevole prezzo "ideologico" da pagare dopo il crollo tragicomico e criminale del comuniSmo storico novecentesco, re­ centemente defunto. N on è di questo, però, che voglio parlare ora. Si tratta invece di inquadrare il problema del rapporto fra la Rivolu­ zione Francese del 1789 e la democrazia, nel doppio aspetto di teo­ ria (istituzionalizzazione del principio di maggioranza a suffragio universale) e di pratica (partecipazione popolare, resa possibile da movimenti sociali, che portano alla prevalenza del demos). La tradizione liberale non vede, ovviamente, di buon occhio la Rivoluzione Francese, a causa della sua deriva "terrorista" del triennio 1792-1794, e ne salva soltanto la presa della Bastiglia - in genere, destoricizzata e considerata il simbolo astorico dell'affermazione dei diritti delTuomo - e il periodo girondino. La tradizione socialista e comunista, invece, l'ha "arruolata" nel suo pedigree genealogico, mentre il pensiero conservatore l'ha in genere dem onizzata com e frutto dello, scatenamento del pensiero ateo e m aterialistico, che distrugge ogni tradizione e ogni sensata gerarchia sociale. Que­ sto "triangolo polem ico storiografico" dura da due secoli e, a mio avviso, continuerà per altri secoli. Si tratta, con tutta eviden­ za, di uno scontro fra punti di vista politici attuali, che si "trave­ stono" da punti di vista storiografici del passato. In poche parole, una recita in costume storiografica con evidenti riflessi politici at­ tuali. Non intendo entrare in questo nido di vespe, ma sem plicemente sintetizzare il m io personale punto di vista, necessaria­ mente "di parte". Dal punto di vista della storia della democrazia intesa come pre­ valenza del demos, la Rivoluzione Francese ne fa ovviamente par­ te, anche se dopo il 1794 il demos sanculotto parigino è del tutto espropriato e si attua ima sorta di "restaurazione" borghese, pri­ ma con il Direttorio e poi con l'Impero di Napoleone. Tutto questo è largamente noto. Anche da un punto di vista formale-bobbiano, non c'è dubbio che la costituzione giacobina - peraltro rimasta sulla carta e mai entrata in vigore - sancisce per la prima volta non solo il suffragio universale, ma anche la tutela pubblica dei 79

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cosiddetti "diritti sociali", e questo un secolo e mezzo prima del welfare novecentesco. Si può amare oppure odiare Robespierre - personalmente, ne sono un estimatore - ma è storicamente indiscutibile che egli fosse un sostenitore sia del suffragio universale, sia della tutela pubblica dei diritti sociali della popolazione povera. E meno noto il fatto che fosse anche un avversario della pena di morte e che votò con­ tro la sua approvazione in sedè di assemblea legislativa, anche se poi i paradossi della storia "concreta" lo portarono ad avallare l'uso smodato della ghigliottina contro gli oppositori, senza peral­ tro dimenticare che, in gran parte, i ghigliottinatori più feroci é crudeli si riciclarono velocem ente poi com e term idoriani e bonapartisti, esattamente come, in gran parte, gli apparati "co­ munisti" dopo il crollo del baraccone burocratico si sono riciclati come funzionari locali dell'impero americano. I manuali di storia sono in proposito sempre reticenti, perché contengono capitoli pit­ toreschi su battaglie, paci e scandali di corte, ma tacciono virtuo­ samente sui giganteschi fenomeni di riciclaggio opportunistico di massa. Il lettore deve, a mio avviso, dedurre da questi silenzi il fatto, scandaloso ma inoppugnabile, che gli storici professionali tacciono in genere proprio le cose più interessanti e che solo le "controstorie" valgono la pena di essere lette. La Rivoluzione Francese, o più esattamente i "partiti" che si sono affrontati al suo interno, ha visto il tramonto pressoché integrale della legittimazione ideologica biblico-messianica e l'avvento ge­ neralizzato di una legittimazione integralmente filosofica, nella forma della combinazione fra diritto naturale e patto sociale; cioè fra giusnaturalismo e contrattualismo. Non scenderò qui nei parti­ colari; voglio invece far notare solo un fatto poco noto, recentemen­ te messo in luce molto bene dalla storica francese Florence Gauthier, per cui mentre oggi il termine "sociale" appare a prima vista rivolu­ zionario e di sinistra, quando invece il termine "naturale" sembra legato alle giustificazioni conservatrici e tradizionaliste di un si­ stema economicamente disegualitario, a quei tempi le cose erano 80

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esattamente invertite. Il riferimento alla "società" e ai suoi diritti era tipico degli ideologi termidoriani e del Direttorio, mentre il ri­ ferimento rigoroso ed esclusivo alla "natura", e quindi al diritto naturale interpretato in senso rivoluzionario, era tipico della cor­ rente giacobina più radicale. Chi conosce la filosofia di Rousseau non se ne stupirà, invece tutti coloro che si riempiono la bocca con l'insulsa paroletta m ultiuso "sociale" hanno di che riflettere, se vogliono farlo.

Il "secolo lungo". Dal 1789 al 1914. Liberalismo, dem ocrazia, econom icizzazione del conflitto e nazionalizzazione delle m asse Lo storico inglese Eric Hobsbawm, il grande divulgatore che ha coniato la fortunatissima formula di "secolo breve" per indicare il Novecento ("secolo breve", nel senso che un intero ciclo si sarebbe aperto, sviluppato e concluso fra il 1914 ed il 1991, quindi in settantasette anni e non in cento), ha invece periodizzato il prece­ dente "secolo lungo" (durato cioè ben cento e venticinque anni, dal 1789 al 1914) in tre parti successive: l'età delle rivoluzioni, l'età delle nazioni e della borghesia e, infine, l'età dell'imperialismo. Tutte le periodizzazioni devono sempre essere prese con le molle per non diventarne prigionieri, ma questa mi sembra a prima vista sensata, quindi mi ispirerò ad essa nel seguente breve paragrafo. Il "secolo lungo" è stato un tale intreccio di eventi complessi da non sopportare evidentem ente sem plificazioni. N el contesto del mio discorso è possibile però sostenere ragionevolm ente che que­ sto "secolo lungo" è stato caratterizzato, nei Paesi detti "centra­ li" di quei tem pi, da una lunga lotta fra liberalismo e democra­ zia, in cui il liberalismo e la democrazia furono instabilmente alle­ ati solo nel primissimo periodo (1815-1848), e nel resto del mondo dal fenomeno del colonialismo, che, divenendo poi imperialismo vero e proprio, contribuì anche potentemente - e, a mio avviso, in 81

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m odo decisivo - all'integrazione "democratica" delle masse nel liberalismo. Questo non significa che la "democrazia" nel "secolo lungo" sia stata "regalata" alle masse dalle oligarchie liberali come dono av­ velenato e cavallo di Troia, per poterle integrare meglio nella pro­ pria logica imperialista, ma non significa neppure che sia bene il tacere virtuosamente anche questo secondo aspetto. L'intreccio fra le rivendicazioni dem ocratiche rivoluzionarie, da u n lato, e le sapienti concessioni oligarchiche di integrazione, dall'altro, caratte­ rizza in modo strutturale il "secolo lungo". Per poter capire meglio questo intreccio, che vede prima il padrone liberale scacciare vio­ lentemente di casa la cameriera democratica e lo vede poi riaccoglierla in casa e addirittura sposarla, bisogna utilizzare due concetti, pro­ posti rispettivamente da Bauman e da Mosse: l'economicizzazione del conflitto e la nazionalizzazione delle masse. Li tratterò separa­ tamente per comodità di esposizione, m a deve essere chiaro che nella realtà storica essi fanno tutt'uno. La rivoluzione industriale, nata in Inghilterra e poi diffusasi pro­ gressivamente negli altri Paesi europei, ha costituito una classe sociale, che, in quanto tale, non esisteva in precedenza: la classe operaia, salariata e proletaria. Certo, essa non è mai statò un solo soggetto unico e compatto, e questa unificazione simbolica e lar­ gamente fantasmatica è stata un prodotto ideologico del m ovi­ mento politico prima socialista e poi comunista. Nello stesso tem­ po, così come mi sembra accettabile il parlare di borghesia - sapendo perfettamente che nella realtà d sono state molte distinte "borghesie" differenti - nello stesso modo ritengo si possa parlare anche di dasse operaia, salariata e proletaria. Insisto nel ripetere sempre il trinomio "dasse operaia, salariata e proletaria" perché, a mio avviso, questo trinomio simbolico unisce una categoria sodologica (la dasse ope­ raia), una categoria economica (la dasse salariata) e ima categoria storico-filosofica (la classe proletaria, frutto dell'espropriazione ca­ pitalistica delle precedenti comunità contadine ed artigiane e vi­ sta come l'emancipatrice universalistica delTintera umanità). Il 82

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trinomio simbolico effettua in questo modo quella "unificazione ideale", sia pure del tutto fantasmatica, che ha sorretto la più gran­ de utopia egualitaria prodotta dalla storia dell'umanità: il comu­ niSmo storico novecentesco. I movimenti di resistenza della classe operaia, salariata e prole­ taria al capitalismo sono quasi sempre stati interpretati dalla zmlgata filosofica corrente come una forma di "progressismo". N iente di più errato, o almeno di più contestabile. Il "progressismo" è sem­ pre e solo stato un'ideologia o, più propriamente, un insiem e di ideologie caratterizzante la borghesia capitalistica, che trova la sua identità fondamentale nel far sempre "procedere" un'illim ita­ ta produzione di sempre nuove merci e di sempre nuovi servizi, ed ha perciò bisogno come il pane di ima visione del m ondo basa­ ta sulla "temporalizzazione" lineare illim itata anche del tem po storico. In altre parole, il "tempo" progredisce illim itatam ente, perché deve anche contestualm ente progredire, cioè continuare, intensificarsi ed approfondirsi la produzione capitalistica illim i­ tata di sempre nuovi beni e servizi. L'ideologia del progresso è quindi solo la "faccia colta" dell'ideologia dello sviluppo e, in quanto tale, resta del tutto estranea alla classe operaia, salariata e proletaria nel suo primo periodo costitutivo, quando essa anco­ ra "guarda indietro" alla sua precedente condizione comunitaria - più esattamente, subalterna ma comunitaria - di tipo contadino e /o artigiano, ma le resta estranea solo fino a quando non inizia l'integrazione consumistica. Il "progresso della produzione" del lato borghese diventa così il "progresso del consumo" del lato ope­ raio, salariato e proletario. D lettore noti bene che in queste mie osservazioni non c'è la mini­ ma condanna moralistica, pauperistica ed ascetica del fatto che i dominati comincino a "consumare" - consumano, anzi, in genere troppo poco e m ale, roba m erceologicam ente m ediocre con intrattenimenti di pessim a qualità, e sono dunque favorevole al fatto che in futuro possano consumare più e m eglio, in modo meno inquinante per l'ambiente e meno degradante per l'individuo e le 83

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comunità - e non c'è neppure l'apologià del "tempo in cui Berta filava", in cui certamente Berta filava, ma c'erano anche i roghi degli eretici e delle streghe, i macelli delle carestie e delle pestilen­ ze, le operazioni chirurgiche senza anestesia e con il fazzoletto fra i denti, le violenze dei padri sulle figlie ecc.; io, qui, m i limito a constatare un fatto, che il politicamente corretto di sinistra tende a negare, e cioè che la cultura della classe operaia, salariata e pro­ letaria è originariamente "reazionaria", e per quésto ribelle, men­ tre attraverso l'econom icizzazione del conflitto e l'integrazione consumistica diventa "progressista", e per questo innocua, riformista e anti-rivoluzionaria. L'economicizzazione del conflitto di classe accompagna il sem­ pre minor timore che le oligarchie capitalistiche liberali hanno delle rivendicazioni democratiche. Camillo Benso di Cavour poteva ain­ cora temerle, ma Giovanni Gioliti! già non più. Il socialismo na­ scente è un fattore di potenziale eversione, e come tale viene trat­ tato, mentre il socialismo organizzato e consolidato è un fattore di integrazione, e come tale viene correttamente inteso dai cosiddetti "liberali illuminati". La semplice economicizzazione del conflitto - il conflitto cioè spostato dalla produzione alla distribuzione, dallo stile di vita complessivo della comunità alla più equa ripartizione del reddito - non sarebbe tuttavia bastata, per conseguire la piena integrazione delle rivendicazioni "democratiche" nella società li­ berale: ci voleva anche una vera e propria "nazionalizzazione delle masse". Questa nazionalizzazione delle m asse avvenne nell'età detta "dell'imperialismo", attraverso i tre fenomeni congiunti del pro­ gressivo aumento del tenore di vita e di consumi della classe ope­ raia, salariata e proletaria (con la connessa apertura di canali con­ trollati di promozione sociale individuale), del servizio militare obbligatorio generalizzato e, soprattutto, della scolarizzazione ele­ mentare obbligatoria. La sinergia di economicizzazione redistributiva del conflitto di classe, di servizio militare maschile obbligatorio e infine di scolarizzazione elementare diffusa, porta a quella che 84

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potremo chiamare, seguendo Mosse, la "nazionalizzazione delle masse". Poniamoci alcune domande finali in modo telegrafico e riassunti­ vo. Il "secolo lungo", durato dal 1789 al 1914, ha visto il generoso regalo della democrazia da parte delle oligarchie liberali dominanti? No, non lo si può dire. La democrazia intesa come somma di suf­ fragio universale e di aumento del tenore di vita dei dominati - metto qui, volutamente, insiem e l'aspetto politico e quello econom ico è stata anche e soprattutto una faticosa conquista costata rivolte, repressioni, scioperi, sangue, licenziamenti, esili ed emarginazioni, che hanno coinvolto milioni di persone. N ello stesso tempo, però, raffermarsi dell'economicizzazione del conflitto di classe e la pro­ gressiva nazionalizzazione delle m asse, avvenuta nell'ultim a e decisiva parte del secolo lungo stesso (grosso m odo, 1870-1914), hanno portato ad una situazione del tutto imprevista dai teorici ottocenteschi della democrazia (Mazzini) e dai primi teorici del cosiddetto "marxismo" (Engels, Kautsky ecc.). Il "secolo lungo", in poche parole, ha visto l'afferm arsi della democrazia? Dipende. Della democrazia come forma istituziona­ le in parte sì, anche se il suo perfezionamento formale - suffragio femminile, istituzionalizzazione della spesa sociale ecc. - ha dovuto aspettare il successivo "secolo breve". Della democrazia come po­ tere popolare generalizzato certamente no, perché le grandi deci­ sioni strategiche sulla guerra e sulla pace se le sono tenute sempre ben strette le oligarchie liberali dominanti. Della democrazia come prevalenza politica e sociale del demos neppure, in quanto il demos non è composto da masse plebee irredimibili - come sostenevano Nietzsche, Ortega y Gassett e Pareto - ma da una comunità di cittadini consapevoli degli affari nazionali e intem azionali. E con questo, siamo arrivati alle soglie del "secolo breve". "Seco­ lo breve", che non nasce da un placido parto casalingo, ma da un lago di sangue. Si tratta di vedere chi siano stati, i responsabili di questo lago di sangue. E questo ci porta al prossimo cruciale para­ grafo. 85

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Il "secolo breve". Dal 1914 al 1991. La vicenda del comuniSmo storico novecentesco e la vittoria tennistica finale del capitalismo Abbiamo visto nel paragrafo precedente che il "secolo lungo" 1789-1914 è stato caratterizzato da un certo sviluppo della demo­ crazia, ma che questo sviluppo si è infine arenato in una integra­ zion e subalterna d el demos attraverso la trip lice trappola dell'economicizzazione del conflitto di classe, della nazionalizza­ zione colonialistica ed imperialistica delle masse e, infine, dell'ado­ zione di una variante particolarmente im poverita, subalterna e penosa dell'ideologia borghese del progresso, variante impropria­ mente e grottescamente denominata "socialismo". I due fenomeni storici novecenteschi, che riassumerò sotto l'eti­ chetta semplificatrice di "fascismo" e di "comuniSmo" sono stati entrambi, a mio avviso, prodotti politici, sociali e culturali della pic­ cola borghesia, laddove invece "spontaneamente" - mi si conceda un termine un po' improprio - la classe operaia, salariata e proletaria è piuttosto socialdemocratica e socialista (perché sa perfettamente che, da sola, è a malapena in grado di gestire una cooperativa di consumo e che la sua cosiddetta "missione universalistica" è una utopica invenzione di intellettuali piccolo-borghesi in cerca di assoluto), mentre la vera classe borghese e imprenditoriale è inve­ ce "spontaneamente" liberale (perché è interessata alla prevalen­ za del mercato sullo stato e, di conseguenza, preferisce Locke a Hegel). Questo non significa, ovviamente, che i due fenomeni del fascismo e del comuniSmo abbiano avuto la stessa base di massa e la stessa base di classe, anche se non è un caso che entrambi si siano assestati sulla base di classe e si siano configurati politicamente in uno Stato autoritario a partito unico. Entrambi si sono basati su di ima inedita "democrazia di mobilitazione popolare organizzata", che ovviamente non aveva nulla a che fare con la liberaldemocrazia propriamente detta, che, a sua volta, non ave­

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va saputo, voluto o potuto impedire il bagno di sangue del 1914 e che perciò, a mio avviso, ha ampiamente meritato la bastonata storica, che ha ricevuto dal fascismo e dal comuniSmo. In questo paragrafo parlerò solo di quest'ultimo, non certo perché il fasci­ smo non sia interessante, ma perché, in generale, le varie forme di fascismo, pur facendo spesso ricorso alla mobilitazione carismati­ ca delle masse e pur prendendo spesso reali provvedimenti sociali in favore del dem os, si sono sempre dichiarate fieramente ed espli­ citamente anti-democratiche, laddove invece il comuniSmo ha sem ­ pre accettato a parole il principio democratico, pur violandolo ovviamente nei fatti. Più di quarant'anni di esperienza personale mi hanno portato all'irrevocabile persuasione che sia del tutto impossibile, per ora, discutere "oggettivamente" del fenomeno storico del comuniSmo storico n ovecen tesco e tentare d i darne u n 'in terp retazion e storiografica comune. La cosiddetta "memoria condivisa" è solo un delirio totalitario politicam ente corretto d el p rovvisorio neoliberalismo trionfante, che vorrebbe "succhiare" nel suo mo­ dello conformistico tutti i punti di vista anomali, ma sono appun­ to i punti di vista anomali i soli che abbiano un minimo di interes­ se. Altra cosa è il mantenimento mummificato di una guerra civile fra fascisti e antifascisti, finita più di sessantanni fa, che dovrebbe invece essere concordemente chiusa per poter passare all'esam e delle nuove contraddizioni storiche, culturali e sociali. La valutazione globale del comuniSmo storico novecentesco all'in­ terno del quadro generale della storia dell'umanità, della storia mo­ derna, della storia contemporanea e della storia del Novecento - ho volutamente ricordato tutte e quattro queste distinte dim ensioni sia essa positiva o negativa, è frutto di ima intuizione (o, più esat­ tamente, di una intuizione distica sulla totalità del corso tem po­ rale della storia umana) e non è mai il risultato di un insiem e di argomentazioni. Chi valuta negativam ente il comuniSmo com e fenomeno globale, lo farebbe anche se, per ipotesi, esso fosse dife­ so dai più grandi geni dell'umanità, da Platone a Darwin, da H egel 87

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a Freud; mentre chi lo valuta positivam ente non cambierebbe idea, anche se la sua legittim azione si basasse sulle profezie di Nostradamus o sulla lettura dei fondi di caffè. Il "giudizio" olistico sul comuniSmo come fenomeno storico non è infatti di ordine sto­ rico, ma metastorico, e ciò che è di fatto metastorico viene prima intuito e solo dopo argomentato (in analogia - mi arrischio a dirlo con 1'esistenza di Dio o con la sua negazione). Chi lo rivendica o lo rimanda ad un auspicato futuro, lo fa in nome di una concezione egualitaria della società, che nessun battage pubblicitario contro il totalitarismo potrà mai minimamente scalfire. Chi invece lo abor­ risce, farà sempre riferimento alla natura umana (che sarebbe egoistica, competitiva, acquisitiva ed invididualistica e non sop­ porterebbe a lungo livellamenti forzati), alla libertà di opinione (che non può essere conculcata a lungo perché salta sempre fuori come una molla compressa), airefficienza economica (viva il mer­ cato allocatore ideale dei fattori produttivi, abbasso la pianifica­ zione inefficiente ed autoritaria) ecc.; in questo paragrafo, quindi, non cercherò minimamente di "convincere" il lettore della natura positiva o negativa del comuniSmo storico novecentesco. Mi limi­ terò, invece, a snocciolare alarne mie profonde convinzioni in pro­ posito, in forma necessariamente apodittica. N on pretendo, su un argomento come questo, di dire il "vero", ma prometto di essere veridico, cioè sincero. C'è subito ima leggenda metropolitana da sfatare: che Karl Marx sia stato il "teorico", e quindi il fondatore del comuniSmo storico novecentesco, buono o cattivo che lo si voglia giudicare. Così non è. Non vorrei ora che il lettore sospettoso pensasse che in questo modo io intenda "irtnocentizzare" o assolvere Marx da questa re­ sponsabilità storica. Non si tratta di ciò che io voglio o non voglio; si tratta di qualcosa, che è ricostruibile filologicamente con un al­ tissimo grado di oggettività, se ovviamente si è ancora sensibili all'argomentazione razionale e non si ha consacrato la propria anima alla guerra di religione. Il bolscevismo di Lenin, che fu poi ribattezzato "comuniSmo" solo dopo la rivoluzione del 1917, non 88

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può essere definito un'applicazione ortodossa delle teorie di Marx e neppure un'eresia rispetto al barbuto padre fondatore, ma è inquadrabile come un'eresia rispetto al canone marxista della Se­ conda Internazionale (1889-1914), canone fissato da Karl Kautsky dopo la morte di Marx. Il bolscevism o di L enin, diventato poi "comuniSmo" per antonomasia, è, a mio avviso, non certo la "applicazione" della te­ oria originaria di Marx e di Engels, ma la "risposta", da parte po­ polare, al bagno di sangue della guerra del 1914, scatenato dalle oligarchie nobiliari e borghesi, che erano riuscite a portarsi dietro le rispettive plebi, già addomesticate dalla economicizzazione del conflitto e dalla nazionalizzazione imperialistica delle m asse. In accordo sostanziale con il sociologo Thorstein Veblen, dirò anch'io che, per fare la guerra con un certo consenso, basta «appoggiarsi allo spirito sportivo delle masse». Il nesso fra l'agonismo dello spi­ rito sportivo e l'agonismo dello spirito bellico è talmente forte che solo l'ipocrisia, unita all'incurabile ingenuità dei creduloni di pro­ fessione, può dimenticare che lo sport moderno è nato in singolare ed inquietante unità di tempo e di luogo con la guerra moderna e che il cosiddetto "spirito olimpico" è, al massimo, una risorsa ide­ ologica preziosa per costruttori di stadi e di impianti sportivi vari, estivi o invernali che siano. Il com uniSm o storico n ovecen tesco, questa eresia p olitica bolscevica rispetto al canone ortodosso "marxista" - ma Marx non era marxista, per sua stessa esplicita ammissione - elaborato nel ventennio 1875-1895 sotto l'influenza della grande depressione economica 1873-1896 - si prega il lettore di fare attenzione alla coincidenza - è stato "democratico", oppine è stato l'incubo tota­ litario e dispotico meno democratico che sia mai esistito nella sto­ ria umana dalle caverne e dalle palafitte ad oggi? È evidente che la risposta sarà influenzata dall'intuizione d istica preliminare; intuizione, a sua volta, impermeabile ad ogni argomentazione, e tuttavia la risposta non è difficile: dal punto di vista della teoria costituzionalistica dello stato liberale, poi integrata dal principio 89

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dem ocratico del suffragio un iversale, il comuniSmo storico novecentesco è stato un regime non democratico, basato su una legittimazione ideologica pseudoscientifica, che si presentava come una vera e propria religione inquisitoria ed intollerante fondata sulla presunta conoscenza delle leggi inesorabili della storia univer­ sale e dell'ineluttabile esito finale-comunista, verso cui queste leggi portavano; dal punto di vista della prevalenza del demos, cioè dei più poveri, al di là delle forme costituzionali ampiamente illusorie ed anzi fastidiosamente ipocrite, il comuniSmo storico novecentesco è stato, invece, un fenomeno democratico a tutti gli effetti. Sono perfettamente consapevole che una simile formulazione non può soddisfare il lettore, che potrebbe vederci una forma di ipocri­ sia, tipica della forma sintattica... da un lato... all'altro, travesti­ mento della cosiddetta "complessità". Passerò allora all'uso delle categorie della filosofia politica greca applicate alla contemporanei­ tà novecentesca. Sulla base di queste categorie, il comuniSmo stori­ co novecentesco può essere definito come una forma di dispotismo sociale - o di tirannia sociale - che utilizza forme democratiche di inquadramento e di mobilitazione del popolo con cui viene realizzata una vera e propria dittatura della politica sull'economia, in vista della creazione di una struttura sociale egualitaria fortemente in­ stabile e provvisoria, che infine crolla proprio sulla base delle di­ namiche sociali precedentemente innescate e provocate. Questa definizione apparirà certamente troppo elaborata. Rispon­ diamo senza ipocrisia: è stato, il comuniSmo storico novecentesco, un fenomeno democratico, al di là dei sofismi nati dal doppio signi­ ficato del termine? La risposta deve essere chiara: no, non lo è stato. Allora, se non lo è stato, ogni sua riproposizione (o "rifondazione") appare ambigua e francamente sconsigliabile. Questa affermazio­ ne, che voglio netta e decisa, sarà capita m eglio alla luce delle con­ siderazioni storiche, che seguiranno. E un fatto, e non certo una malevola opinione, che nel corso di tutta la sua storia il comuniSmo storico novecentesco veramente esistito - non parlo di quello sdentifico-utopico di Karl Marx - non 90

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sia mai riuscito ad "ereditare" quella conquista sp iritu ale universalistica, che è la garanzia giuridica dell'espressione della li­ bertà d'opinione. I regimi comunisti hanno sempre addotto il prete­ sto dell'accerchiamento militare capitalistico, dello spionaggio e del­ l'uso eversivo dei "dissidenti", pretesto indubbiamente fondato, ma che finiva, di fatto, con il trasformare una società civile in un aggre­ gato sottoposto ad emergenza permanente. Ora, r"emergenzialismo permanente" non è una dottrina politica seria; ci stanno sotto, inevitabilmente, una mancanza di consenso politico e, soprattut­ to, una carenza strutturale di egemonia culturale. È evidente che un sistema flessibile, in grado di tollerare il dissen­ so, è storicamente più forte, e quindi strategicamente vincente, ri­ spetto ad un sistema rigido, che opprime oppure si spezza e non riesce ad assorbire, integrare e metabolizzare il fisiologico dissen­ so, che nasce dal fatto che l'uom o, essendo un ente naturale gene­ rico e non sp ecifico com e g li altri anim ali, è anche un ente antropologicamente dissenziente, perché il suo dire "no" anziché "sì" è altrettanto fisiologico del suo mangiare, bere, sudare. Se il sistema socialista del comuniSmo storico novecentesco si fosse per­ messo la costituzione legale del Partito della Restaurazione Capi­ talistica, del Partito Religioso di Dio Padre, del Partito Liberale della Proprietà Privata, del Partito d ella D iseg u a g lia n za Competitiva, del Partito del Lusso Provocatorio alla Faccia dei Ple­ bei Invidiosi ecc., oggi forse esisterebbe ancora; ma appunto non poteva permettersi tutto questo, perché la sua fragilità gli im pone­ va non di "collettivizzare" o di "totalistizzare", come credono in­ genuamente coloro che non hanno mai m esso piede nei Paesi co­ munisti ai tempi del Grande Baraccone, bensì di individualizzare e di atomizzare all'estremo la società, in modo che fosse im possi­ bile l'aggregazione di collettività ostili. Il tessuto reale e non ideo­ logico era allora una sorta di "individualismo deresponsabilizzato generale", non certo il controllo occhiuto del Grande Fratello ide­ ologico onnipresente, come favoleggia la teoria occidentale del to­ talitarismo.

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A suo tempo, Norberto Bobbio sostenne che il comuniSmo stori­ co novecentesco, che egli erroneamente riteneva in qualche modo legato a Marx, era privo di una teoria politica. Non lo credo. La teoria politica di Marx c'era, ed era una combinazione di suffragio universale e di democrazia diretta di tipo consiliare. Comunque questa teoria non fu mai applicata, non certo per errore, ignoranza o tradimento, ma per il fatto che presentava aspetti utopici, a mio avviso totalmente inapplicabili (fino alla teoria, del tutto irrealistica, della cosiddetta "estinzione dello Stato"). La teoria politica del co­ muniSmo storico novecentesco era invece, secondo me, una ripresa integrale socialista della teoria seicentesca di Thomas Hobbes. Come nel modello di Hobbes, il popolo si legava in un patto d i unione, che diventava però immediatamente un patto di soggezione ad una au­ torità assoluta e dispotica non revocabile (pactum subjectionis). Il patto che legava il popolo socialista al partito comunista era un tipico esempio di patto hobbesiano, che, una volta istituito, non era più revocabile. Inoltre, come nel modello di Hobbes, la libertà di opinio­ ne e di espressione era scartata come fonte potenziale perenne di sedizione (i "centauri" di Hobbes, i "controrivoluzionari" di Stalin ecc.) e veniva persino impedita la libera discussione sulla corretta interpretazione degli stessi libri di riferimento (la Bibbia in Hobbes, i classici del marxismo nel comuniSmo). È allora possibile dare una risposta relativamente chiara all'interrogativo su quale sia stata la teoria politica del comuniSmo storico novecentesco: è stata un'ap­ plicazione popolare - popolare nel senso di prevalenza degli inte­ ressi sociali del demos - della teoria di Hobbes. Naturalmente, Lenin non voleva tutto questo. Nonostante il fatto che il suo pensiero non derivasse direttamente da Marx, ma da ima particolare eresia russa del canone marxista elaborato da Kautsky, egli era legato all'utopia marxiana (di probabile origine russoviana) della democrazia diretta consiliare rivolta all'autogoverno politico delle masse ed all'autogestione economica dei produttori. Ritenen­ do (erroneamente) che il mercato potesse essere riassorbito nel pia­ no senza particolari traumi e che la classe operaia, salariata e prole­ 92

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taria fosse il soggetto storico rivoluzionario egemone nel passaggio dal capitalismo al socialismo - che egli, ancor più erroneamente, assimilava ad un processo naturale, donde la sua preferenza per la filosofia del cosiddetto "materialismo dialettico" - Lenin poteva, da un lato, scrivere l'utopia consiliare intitolata Stato e Rivoluzione e, dall'altro, sostenere un accentramento dispotico del potere del­ lo Stato e del partito, che alla fine, inevitabilmente, non potevano che identificarsi. Da un punto di vista dialettico, l'estremo anarchismo è segreta­ mente solidale con l'estremo dispotismo, in quanto i due poli si ro­ vesciano l'uno nell'altro nel contesto di una crisi sociale strutturale. Questa è la ragione per cui, anche ammesso che la democrazia non sia una forma di Stato o di governo, ma solo una prevalenza di fatto del demos, sarebbe bene che il demos (o la sua dirigenza) capisse che è preferibile un criterio di "mescolanza" {anamixis), come già d isten e e Pericle avevano capito ai loro tempi. La dissoluzione del comuniSmo storico novecentesco, in ogni caso, non è stata in primo luogo una dissoluzione dovuta al suo sistema politico dispotico, anche se ho fatto notare che il rigido perde, in genere, contro il flessibile, perché il flessibile assorbe ed integra le opposizioni, mentre il rigido o le spacca o ne viene spac­ cato. Questa dissoluzione non è neppure spiegata adeguatamente da ragioni "esterne" (corsa agli armamenti imposta da Ronald Reagan, pressione ideologica consumistica occidentale eco.). Come già avvenne nel caso del crollo del vecchio impero romano, anche nel caso del comuniSmo le cause interne prevalgono sulle cause esterne. Certo, i "barbari" fuori dei confini contano, ma, se la so­ cietà interna non fosse stata in via di dissoluzione, la baracca avreb­ be in qualche modo tenuto. La ragione interna sta, a mio avviso, nella assoluta, tragicomica, irredimibile, incurabile incapacità del­ la classe operaia, salariata e proletaria di produrre una sintesi cul­ turale e sociale credibile. Non basta stare "sotto", così come non basta stare "sopra", per essere universalistici. La classe subalterna massacra la vecchia borghesia, impone la sua dittatura, ma poi, 93

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per fax funzionare la baracca, deve mandare i propri figli a scuo­ la, e questi figli, una volta ingegneri e medici, diventano classe m edia e sbaraccano appena p osson o il vecchio dispotism o egualitario, edificato dal nonno contadino povero e dal padre ope­ raio specializzato. Questo sbaraccamento avviene peraltro - i fatti del triennio 1989-91 sono inequivocabili - nel quadro di ima totale inattività della classe operaia di fabbrica propriamente detta, che non muove un dito per impedire la privatizzazione selvaggia (le cose sono andate un po' diversamente in Cina, dove la direzione politica della classe operaia cinese - la cosiddetta "Banda dei Quattro" - è stata invece distrutta militarmente subito dopo la morte di Mao nell'ottobre 1976). Questa passività della classe operaia dei Paesi ex-comunisti deve essere spiegata. In proposito, preferisco azzardare una possibile sciocchezza, piuttosto che rifugiarmi misticamente nell'insondabile "complessità" degli eventi storici. Al di là di momenti storicamente eccezionali e non ripetibili - come lo stachanovismo staliniano, che fu effettivamente un vero movimento di massa interno alla classe operaia - la classe operaia, salariata e proletaria è una classe sociale spontaneamente socialista e socialdemocratica, non certo "comu­ nista". Il comuniSmo resta un'utopia sorta dalla coscienza inquie­ ta della piccola borghesia primo-novecentesca, e questo ne spiega ad un tempo la forza ideologica e la fragilità sociale. La vittoria con punteggio tennistico del capitalismo sul comuni­ Smo ci introduce al nuovo secolo e al nuovo millennio. Questa, però, non è più "storia storica", cioè storia del passato, ma storia del presente, per cui sarà l'oggetto del terzo ed ultimo capitolo.

Considerazioni storiche finali È, la storia, maestra di vita, magistra vitaét Lo si ripete spesso, sulla base non tanto dei cosiddetti "corsi e ricorsi" storici - ciclicità, cui personalmente non credo, perché credo nella produzione di 94

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soglie irreversibili sia nella natura che nella società - quanto dello studio delle analogie fra passato e presente. Nicolò M achiavelli ha portato lo studio sistem atico delle analogie storiche al punto di poter illudersi di aver scoperto una scienza della natura umana o, meglio, delle costanti dei suoi comportamenti in situazioni analo­ ghe. Per ora, finiamo il nostro discorso con alcune ulteriori consi­ derazioni sul rapporto fra storia e democrazia. La storia ci dice che il problema della democrazia è appunto "storico", nel senso che ritorna sempre nel corso del tempo e non può essere eliminato attraverso utopie tecnocratiche di potere dei cosiddetti "migliori" (che Platone chiamava lo smikrotaton meros, la parte più piccola, e Marsilio da Padova la pars valentior). Come nella respirazione dei polmoni, in cui inspirazione e espirazione si susseguono strutturalmente, allo stesso modo nella storia, fino ad ora, anziché un'inesistente linearità progressistica orientata ad un scopo finale, si è assistito piuttosto ad ima particolare ciclicità, in cui oligarchia e democrazia si sono succedute con vari gradi di mescolanza. Se questo è vero, sia il partito teorico dei formalisti (la democra­ zia è una forma di governo basata sulla presa delle decisioni pub­ bliche a maggioranza), sia il partito teorico dei sostanzialisti (la democrazia non è una forma di Stato o di governo, ma è la preva­ lenza del demos, costituito dai più poveri e dominati) non possono pretendere di avere completamente ragione. Potremmo allora ten­ tare una (provvisoria e revocabile) definizione: la democrazia è la prevalenza costituzionale del demos. Come tutte le definizioni, anche questa presenta punti deboli, ma almeno segnala che una prevalenza non costituzionale del demos, oppure una costituzione che ne comporti la soggezione - anche se questa soggezione fosse legittimata da periodici ricorsi alle elezioni a suffragio universale, come negli Stati Uniti di oggi - produce, in entrambi i casi, ima situazione di non-democrazia. Finiamo dunque questo primo capitolo storico con la segnala­ zione di un'aporia e non con una cosiddetta "soluzione". Poco 95

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male. Il lettore deve diffidare dai saggi, che gli presentano la verità bella e confezionata. A suo tempo, il filosofo Platone si indignò contro il tiranno di Siracusa Dionisio, perché quest'ultimo voleva che Platone gli compendiasse in un libretto tascabile tutta l'arte del buongoverno. L'indignazione di Platone era assolutamente giustificata. Così come il bene -politico non consiste in una formula­ zione compendiabile in modo sintetico, ma in una lunghissima pratica educativa svolta sia da soli sia in comunità, nello stesso modo la Democrazia non consiste in una serie di definizioni alla Bobbio o alla Sartori, ma in una pratica educativa comunitaria, in cui l'aspetto antropologico prevale necessariamente su quello isti­ tuzionale. Con questo, però, è giunto il momento di passare ad un esame dei rapporti fra democrazia e filosofia.

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Democrazia e filosofia. Riflessioni su una vicenda bimillenaria In questo secondo capitolo, il lettore troverà un "ritorno" su molti temi già trattati nel primo. Ciò è stato fatto consapevolmente, per­ ché il tema della democrazia è certamente un tema storico o, più esattamente, storico-politico, ma è anche e soprattutto antropolo­ gico e filosofico. Inoltre, chi scrive è un filosofo di formazione e di professione e si trova comprensibilm ente m olto più a suo agio nella trattazione di argomenti filosofici, piuttosto che nella tratta­ zione di argom enti storici. Grazie, però, alla benemerita e mai abbastanza lodata riforma di Giovanni Gentile del 1923 - che deve essere valutata, a mio avviso, indipendentemente dal contenzioso simbolico ed emozionale fra fascismo e antifascismo - chi scrive si è guadagnato lo stipendio e la pensione insegnando insiem e la filosofia e la storia, cosa sostanzialmente buona, perché il filosofo senza storia e lo storico senza filosofia guadagnano forse qualcosa in specialismo - da. sfruttare, però, molto più a livello di ricerca universitaria che di educazione liceale - ma perdono indubbiamente molto nell'illusione che la storia consista in tecnica archivistica e la filosofia in analisi del linguaggio. Fatta questa autobiografica precisazione, che è anche un grido di allarme verso l'attuale distruzione della dimensione storica del­ l'insegnamento in direzione di un eterno presente computerizza­ to e di una formazione orientata unicamente alle cosiddette "ri­ chieste del mercato" - che poi cambiano, ovviamente, ogni cinque anni e non possono orientare un asse educativo reale - in questo secondo capitolo il lettore troverà gli elementi di una vera e pro­ pria fondazione filosofica del problema della democrazia. Esami­ nerò allora, nell'ordine, i tre problemi del rapporto fra democra­ zia e verità, del rapporto fra democrazia e natura umana e, infine, 97

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del rapporto fra filosofia e universalismo. A questo punto, il pro­ blema diventerà anche politico, perché passerò dal problema filo­ sofico dell'universalismo al problema politico della cosiddetta "uni­ versalità dei diritti umani", con conseguente distruzione di fatto del precedente diritto intemazionale fra Stati in nome del preteso "intervento umanitario". In questa ideologia interventista, ovvia­ mente anche la democrazia è coinvolta, perché si pretende che essa sia il primo e più importante dei diritti umani universalistici da esportare. Preavverto subito il lettore che mi opporrò esplicitamente a que­ sta infondata pretesa, e questo non in nome di un relativismo cini­ co, ma proprio in nome delle ragioni di una universalità più com­ prensiva delle differenze fra individui, popoli e nazioni. Qui trovo soggettivamente il nucleo teorico e morale di questo mio saggio. Nella seconda parte del capitolo, dopo aver aperto un'importante parentesi sul pensiero originale di Marx - da me interpretato come ima forma di universalismo, sia pure imperfetto e pertanto am piam ente correggibile, per chi non si pone in un'ottica citatologica, talmudistica e religiosa - tratterò il rapporto, che si stabilisce fra la democrazia, da un lato, e l'individualism o e il comunitarismo, dall'altro. Questa trattazione, con cui conclude­ rò il secondo capitolo, sarà anche l'introduzione al terzo, in cui prenderò in esame la cosiddetta "attualità".

Il rapporto fra democrazia e verità Abbiamo visto che Socrate è stato condannato per tradimento e Gesù di Nazareth per terrorismo, mentre, ad un esame storico più attento, si ricava che Socrate non era un traditore e Gesù non era un terrorista. Socrate era un patriota ateniese, che riteneva di svol­ gere un dovere civico comunitario facendo la parte del "mosco­ ne", che infastidiva utilmente il nobile cavallo della polis degli Ateniesi, mentre Gesù era un pacifista messiànico, che invitava 98

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alla conversione per poter effettuare una purificazione del tem pio e per poter proclamare un anno di misericordia del Signore. In entrambi i casi, secondo la legislazione ben intesa degli A teniesi e dei Romani, Socrate e Gesù avrebbero dovuto essere assolti, non essendo incorsi in un reato penale, ma ragioni politiche, e politi­ che in quanto extra-filosofiche, ne imposero la condanna a morte per veleno e per crocifissione, sotto la spinta "democratica" delle urla scomposte della folla gerosolimitana e dei voti maggioritari della giuria dei giudici popolari ateniesi (il cui livello di "compe­ tenza" è ben descritto nella commedia di Aristofane Le Vespe). Da questo doppio esempio storico m olti hanno tratto la conclu­ sione che la democrazia, in quanto semplice metodo per la presa delle decisioni pubbliche, deve essere neutrale rispetto al tema del­ la verità, perché non spetta al m etodo democratico decidere se la verità - ma anche il bene, il bello e il giusto - esista veramente o invece sia solo un'inesistente illusione metafisica. La questione, però, non si chiude qui, anzi semmai qui si apre, ed ora cercherò di tracciarne alcune coordinate iniziali. Non posso certo, in questa sede, fare l'elenco dei significati, il termine "verità" ha assunto nella storia millenaria della filosofia occidentale; però, per chiarezza verso il lettore, devo esplicitare in questo paragrafo il significato, che io personalmente propongo. Per "verità", intendo una pretesa universale di validità di ima proposizione rivolta alle modalità di esistenza e di riproduzione di una comunità umana, in base ad un giudizio di tipo etico e politico. Questa definizione, volutamente limitata alla sfera dei rap­ porti sociali, esclude esplicitamente molti altri tipi di proposizioni generalmente intese come veritative, cioè quelle che io definisco come sincere e veridiche (del tipo: è vero che ti amo), come esatte (del tipo: è esatto che quattro più quattro fa otto) ed infine come certe (del tipo: è certo che il pianeta Mercurio fa parte del sistema solare). D istinguendo da un lato il "vero" e dall'altro, invece, il veridico, l'esatto e il certo, oltre che quello che potremo definire reale o fattuale in base ai cinque sensi (del tipo: è vero che questo è 99

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un bastone e questa è una bicicletta, perché abbiamo in comune una lingua per connotarli e la vista e il fatto per verificarli), tolgo di mezzo molti equivoci semantici, che mettono sullo stesso pianò la presunta "verità" dell'esistenza di un bastone, della fusione nu­ cleare, di un teorema di geometria ecc.; con questo, non pretendo di aver scoperto nulla di veramente nuovo, perché si tratta grosso modo della concezione di verità di Hegel, secondo cui propria­ mente "vero" è solo un concetto, laddove i bastoni, le pozzanghe­ re, le rocce ed anche il teorema di Pitagora non sono concetti. Non c'è, in questo, alcun disprezzo implicito verso la cosiddetta "scienza", intesa come scienza galileiana moderna (astronomia, fisica, chimica, biologia ecc.). Semplicemente, al valore di even­ tuale verità o falsità - che io preferisco chiamare certezza, in quanto appunto "accertabile" da protocolli unanimente stabiliti dalla co­ munità degli scienziati specialisti - delle proposizioni scientifiche è possibile applicare metodi epistemologici di verificazione e /o fal­ sificazione (Popper, Lakatos ecc.), mentre per le cosiddette verità filosofiche tutto questo non è possibile. È appunto qui, allora, che sopraggiunge il. problema della democrazia. N ei campi del veridico, dell'esatto e del certo, a mio avviso, non vige nessun principio democràtico. Sebbene a suo tempo il filosofo americano D ewey abbia parlato del nesso fra scienza e democra­ zia, intendendo probabilmente il principio del libero scambio di informazioni che deve vigere all'interno delle comunità scientifi­ che, a mio parere il progetto scientifico in quanto tale è estraneo ad ogni democrazia. Non si tratta soltanto del fatto storico inne­ gabile, per cui la scienza tedesca fioriva sotto Hitler, la scienza sovietica fioriva sotto Stalin e l'opinione personale degli scienziati del progetto Manhattan, che costruirono le sciagurate e criminali bombe atomiche, non fu tenuta in nessun conto e la decisione di sganciarle su Hiroshima e Nagasaki fu "democraticamente" pre­ sa da una piccolissim a oligarchia criminale di militari e politici, meritevoli della pena di morte e che invece ebbero riconoscimenti ed onori, mentre i loro colleghi tedeschi furono impiccati non per 100

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aver commesso crimini peggiori, ma unicamente per il fatto con­ tingente di aver perso, per aver avuto alle spalle un industria e dei pózzi di petrolio più piccoli. Si tratta del fatto che le verifiche delle proposizioni esatte (o inesatte) vengono fatte non in base al princi­ pio di maggioranza, ma in base ai criteri di coerenza dei calcoli, e invece le verifiche delle proposizioni certe vengono fatte anch'esse non certo in base al principio di maggioranza, ma in base ai canoni concordati della verificabilità e /o della falsificabilità epistemologica. In tutti questi casi, e in altri consimili, la cosiddetta "verità" non c'entra assolutamente nulla, dal momento che i para­ metri sono differenti e, comunque, non filosofici. È assurdo sostene­ re che la filosofia, ammesso che funzioni secondo le regole degli scacchi, perda se le si impongono le regole del bridge o del poker. Con questo, fine della digressione metodologica. Tornando al significato strettamente filosofico di "verità", che ho proposto in precedenza - verità come pretesa universale di validità, rivolta esclusivamente ad una riproduzione di tipo umano, comunitario e sociale - è proprio il suo significato umano e sociale che ci costringe a far intervenire il concetto di democrazia. Mentre la risoluzione corretta del teorema di Pitagora non è in alcun m odo democratica, ma deriva da una aristocrazia del sapere matemati­ co, l'applicazione eventuale del sapere pitagorico alla mescolanza fra le classi sociali di Atene, per garantire la concordia dei cittadi­ ni (iomonoia fon politoti), interpella direttamente l'uso del metodo democratico. In base a ragionamenti di questo tipo, mi sento di affermare che il miglior modo di garantire il bene politico è la con­ nessione di questo sia con il metodo democratico che con l'affer­ mazione dell'esistenza della "verità". Attenzione! L'affermazione dell'esistenza della verità è un'affer­ mazione di tipo ontologico ed assiologico generale - concernente, appunto, la realtà materiale ed i valori morali connessi - e non comporta affatto né che io possa pretendere di conoscerla in modo assoluto, né, tanto meno, che sia legittimato ad imporla con m eto­ di variamente "educativi", nel senso di dispotici e coercitivi. Si

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tratta di questioni in via di principio distinte. Di questo non sem­ brano consapevoli i pensatori relativisti come Hans Kelsen e Richard Rorty - sarebbero moltissimi, ma mi limito a citare solo questi due per brevità - i quali sostengono che l'affermazione di una posizione filosofica "veritativa" è l'inevitabile anticamera del dispotism o politico, perché se io sono certo di possedere la verità vorrò poi imporla, mentre se sono imo scettico relativista assu­ merò un atteggiamento più tollerante, non potendo o non volen­ do imporre un "bene politico", di cui affermo l'assoluta inesi­ stenza. La posizione Kelsen-Rorty è, a mio avviso, errata per un insieme di ragioni, di cui qui ricorderò solo la ragione storica e la ragione psicologica. In primo luogo, se vogliam o studiare la storia della filosofia, vediamo che, ad esempio, il grande filosofo ebreo olan­ dese Baruch Spinoza era contemporaneamente sostenitore di una teoria integralmente democratica della società (si veda il suo Trat­ tato Teologico-politico del 1670) e di una teoria fortemente veritativa della filosofia (si veda la sua Etica). Non c'era, in Spinoza, alcuna contraddizione. Egli non condivideva la teoria pessim istica di Hobbes sulla natura umana; non riteneva, di conseguenza, che la sicurezza della vita e dei beni potesse essere conseguita soltanto impedendo giuridicamente e giudiziariamente la libertà d'espres­ sione delle opinioni politiche e religiose; esprimeva una valutazio­ ne cautamente ottimistica anche sulle decisioni politiche effettua­ te con metodo democratico - in questo, simile al vecchio filosofo greco Protagora - e, nello stesso tempo, tutto ciò non entrava per nulla in conflitto con la sua profonda convinzione dell'esistenza di un 'unica e universale struttura veritativa del mondo naturale e so­ ciale. Il fatto, poi, che questa struttura venisse espressa da Spinoza con l'adesione ad un modello deterministico e meccanicistico del mondo - modello, che le scienze contemporanee hanno radicalmente modificato, per cui possiamo supporre che, se Spinoza vivesse oggi, lo modificherebbe spontaneamente egli stesso - non è per nulla rilevante, ai fini della nostra discussione. Il modello "scientifico" 102

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adottato ha a che fare con il "certo" proposto in quell'epoca, sem­ pre revocabile ed aggiornabile in base al progresso conoscitivo delle scienze della natura, mentre la posizione "filosofica" veritativa ha come parametro non 1'accertamento epistemologicamente corretto, ma l'idea di esistenza oggettiva del bene pubblico come categoria normativa e universalistica. Quanto detto fin qui è ancora, però, largamente preliminare. Il punto centrale della questione sta nel fatto che, mentre le "verità scientifi­ che" - con cui intendiam o non le verità vere e proprie, ma le universalità esatte e certe, stabilite in base ai vari metodi delle scienze particolari - possono essere enunciate da minoranze illuminate e competenti e, una volta enunciate, è possibile "gettare via la scala in cui si è saliti" - utilizzo qui la nota frase del confusionario incorreg­ gibile Wittgenstein, il più radicale teorico della risoluzione integrale della realtà in linguaggio e, appunto per questo, il filosofo più stima­ to dall'attuale comunità nichilista dei filosofi accademici - nelle verità umane e sociali ciò che conta non è che vengano "dette", ma che vengano assimilate perché ritenute convincenti. E il processo dialogico di progressivo convincim ento - convincimento da non confondere con l'apprendimento scientifico vero e proprio - non può che essere definito "democrazia". La democrazia è dunque assai più solidale con ima teoria veritativa della filosofia che con ima con­ cezione relativistica e convenzionalistica di essa. C'è poi un secondo aspetto psicologico da tenere presente. L'af­ fermazione che lo scettico relativista sarebbe anche libertario e tollerante (non credo in nulla, dunque non posso e non voglio imporre di credere in qualcosa) non corrisponde assolutam ente alla stragrande maggioranza dei casi storici concreti; chi, infatti, crede alla cosiddetta "verità" non deve essere assimilato all'inquisitore m edioevale armato di tenaglie roventi o al com m issario bolscevico armato di pistola: costoro non avevano la minima idea dello spazio conflittuale, che si apre fra il campo della verità filoso­ fica - dialogica, razionalista, e quindi m etodologicam ente libera per sua natura - e la pseudo-verità religiosa ed ideologica, che si 103

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può e si deve "imporre" con il potere. Una simile verità è la verità dello sciagurato Agostino di Ippona, il quale disse esplicitamente che la verità cristiana, essendo appunto "vera", deve essere impo­ sta a bastonate, se non peggio. La verità non è l'opportunità della vaccinazione antivaiolosa, che non viene decretata sulla base della conoscenza del bene politico, ma dell'utile profilattico stabilito da competenze mediche specialistiche di tipo non democratico. La ve­ rità filosofica comprende nel suo concetto non solo l'enunciazione, ma anche il libero convincimento. Dal momento che il convinci­ mento al 100% è non solo impossibile, ma anche indesiderabile ima società "convinta" al 100% marcirebbe nella sua staticità ed impedirebbe ogni innovazione, dal momento che la verità impli­ ca, nel suo stesso concetto, un processo di innovazioni permanen­ ti, che la approfondiscono, la concretizzano e la determinano sem­ pre meglio, processo infinito per sua stessa natura - è fondamen­ tale che ad essa si accompagni il diritto all'errore, che può giunge­ re anche al diritto alla sciocchezza e all'idiozia sociale. In genere, il diritto alla sciocchezza viene limitato, in nome del­ la distinzione fra sciocchezze innocue e sciocchezze pericolose. Affermazioni come «la lettura dei fondi di caffè è più scientifica della biologia molecolare» o «la terra è piatta e bisogna fare at­ tenzione a non precipitare fuori», sono di solito considerate in­ nocue. Affermazioni, invece, come «i neri africani, essendo una razza inferiore, possono essere linciati per strada», sono giusta­ mente considerate sciocchezze inaccettabili, in quanto pericolo­ se, perché ci sarebbero sicuramente degli idioti, che se ne fareb­ bero influenzare. In ogni caso, l'eventuale pericolosità sociale della sciocchezza è, a mio avviso, un problema giudiziario/ da affron­ tare in base alla categoria di utilità, e non un problema filosofico vero e proprio. Lo spazio della democrazia è allora definibile anche come imo spazio educativo comunitario, in cui la sciocchezza socialmente pericolosa vede progressivamente restringere il proprio campo di intervento e diventa a poco a poco innocua come la credenza nel­ 104

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le disgrazie provocate dai gatti neri che ci traversano la strada. Lungi dal provocare comportamenti autoritari e totalitari, il cre­ dere nella verità, intesa come validità universale comune di pro­ posizioni riguardanti la comunità politica e sociale, è invece uno stimolo permanente per l'approfondim ento anche istituzionale della dem ocrazia. Con questo, non intendo affatto proporre un'impossibile equazione "democrazia = verità". N on lo penso affatto; penso, invece, ad un processo asintotico sempre aperto e interminabile (Kant), ma che nello stesso tempo si determina an­ che spazialmente e temporalmente (Hegel ed anche il Marx au­ tentico).

Un'appendice al problema del rapporto fra democrazia e verità. Il rapporto fra dem ocrazia e tolleranza Dal momento che la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente da noi - anche il despota più tirannico garantisce, di regola, la libertà di chi la pensa come lui - è evidente che un regime politico di libertà deve fondarsi sulla tolleranza. Che cos'è, però, la tolleranza? Come avviene per il concetto di tempo in Ago­ stino di Ippona, tutti credono di sapere cos'è, ma, quando si tratta di definirne la natura e i lim iti, iniziano i problemi, che a volte sono insolubili. Tutti noi tolleriamo che i nostri amici mangino il gorgonzola, anche se non ci piace il suo odore, ma è dubbio che una m oglie tolleri un marito, che non si lava i denti e non si cambia i calzini sporchi per mesi. Vi sono, allora, dei "limiti" per la tolleranza. Ho scelto volutam ente di iniziare con un esem pio tratto dalla vita quotidiana anziché dalla storia della filosofia, per sottolineare come la "tolleranza" im plichi un giudizio negativo, o almeno di non condivisione attiva, e nello stesso tempo un giudizio di legittimità

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e di legalità di un comportamento e di un sistema di idee filosofi­ che e religiose. Il concetto di tolleranza contiene, allora, nella sua stessa formulazione, i criteri con cui ne vengono stabiliti i limiti, ma c'è qui un'asimmetria, cui generalmente non si presta suffi­ ciente attenzione. Mentre, infatti, il concetto di tolleranza sottin­ tende filosoficamente la consapevolezza dell'incertezza e dell'in­ completezza della propria eventuale concezione di verità - mi ri­ ferisco qui al tollerante veritativo, quale io sono, é non al tollerante scettico - che ha dunque sempre bisogno di essere integrata o con­ futata da una libera critica dialogica pubblica, il concetto di limiti della tolleranza non è mai filosofico, ma sempre e solo giuridico e giudiziario ed ha a che fare esclusivamente con la sicurezza pub­ blica di una comunità. L'asimmetria può dunque essere riassunta così: tolleranza (concetto filosofico), lim iti della tolleranza (con­ cetto giuridico e giudiziario). Ancora ima volta, voglio far notare che la posizione, per cui chi crede all'esistenza filosofica o religiosa della verità è potenzialmente un intollerante, e dunque non potrà mai diventare un buon demo­ cratico, perché il buon democratico può soltanto essere uno scetti­ co relativista pragmatico, non sta né in cielo né in terra. Spinoza non rientra nei canoni scettici e relativistici di Hans Kelsen e di Richard Rorty, eppure è stato il fondatore della teoria politica del­ la democrazia moderna e anche della concezione moderna di tol­ leranza religiosa. Il nucleo del suo ragionamento (sviluppato nel suo Tractatus theologico-politicus) sta nel fatto che tutti i testi reli­ giosi - la Bibbia, in particolare - hanno un contenuto volto all'orien­ tamento morale della gente, non un contenuto filosofico o scienti­ fico, che pretenda di "descrivere il mondo così com'è"; da ciò de­ riva la conclusione pratica che non ha senso impedire con la forza la libera espressione di opinioni su un oggetto di fatto inesistente, cioè il commento differenziato su un mondo che non esiste. Pei Spinoza, il solo m ondo ontologicam ente esistente era quello ricostruibile concettualmente sulla base del metodo filosofico e scien­ tifico - per lui, i due metodi erano una cosa sola, perché credeva in 106

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un'unica "filosofia scientifica" - ed era un m ondo radicalmente non antropomorfizzato di strutture interamente deterministiche e meccanicistiche. La libertà derivava proprio non dall'arbitrio di credere nelle più inverosim ili sciocchezze, ma dalla consapevo­ lezza dell'esistenza di questa struttura oggettiva del m ondo. A llo stesso tempo, Spinoza affermava la più completa e integrale li­ bertà di esprimere in pubblico qualsiasi sciocchezza, in assenza di qualsivoglia "polizia del pensiero", cristiana o marxista-leninista, intenzionata ad impedirla giudiziariamente o moralisticamente. Mi sono soffermato un po' a lungo su Spinoza, perché sono per­ sonalmente uno spinoziano - integrato dal pensiero di H egel e di Marx - e il lettore ha diritto di conoscere i m iei riferimenti "nobili" nella tradizione europea. Voglio invece far notare un fatto, che ho sempre trovato di inconsapevole ed irresistibile comicità, cioè il modo in cui, in genere, le storie scolastiche della filosofia occiden­ tale segnalano la nascita e lo sviluppo dell'idea di tolleranza. Secondo queste tragicomiche storie, l'idea di tolleranza nasce più o meno come nascono i funghi dopo la pioggia. Il giorno prima non c'è, e il giorno dopo improvvisamente c'è. Eureka! Alleluia! Prima regnavano i roghi per gli eretici, le conversioni forzate, le espulsioni religiose di massa, l'Indice dei libri proibiti, le devastazioni delle stamperie; poi, un certo giorno, nascono individui illuminati come l'inglese Locke e il francese Voltaire, che improvvisamente proclamano: «Basta! Basta con l'oscurantismo! N on siam o d'ac­ cordo con quello che tu dici, ma d batteremo fino alla morte, per­ ché ti si permetta di dirlo liberamente e legalmente!». In questa rappresentazione fiabesca, il liberalism o politico e fi­ losofico viene "scoperto", così come vengono scoperte la teoria della relatività, la penicillina e la pirateria informatica. La realtà è ben diversa. La cosiddetta "tolleranza" nasce dal fatto che, ad un certo punto dello sviluppo storico ed economico dell'Ocddente eu­ ropeo ed americano (e solo di quello), il dissenso filosofico e so­ prattutto religioso era divenuto irrilevante la legittim azione cul­ turale della riproduzione sodale com plessiva. La tolleranza, dun­ 107

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que, ha come sua matrice Yirrilevanza. Il legame sociale invisibile o, se si vuole, la forza di gravitazione, che regge il compattamento della società, era ormai data dai soldi che uno aveva in tasca, e non da una rete simbolica "distica", che teneva unita la colletti­ vità sulla base di una religiosità condivisa. Viene dunque tollera­ to quello che prima non lo era, appunto perché è diventato irrile­ vante, mentre prima non era ammesso proprio per la sua rile­ vanza. Dante e Petrarca trovavano probabilmente "normali" i processi inquisitori, non certo perché erano meno "intelligenti" o più "incivili" di Locke e di Voltaire, ma perché avevano una diversa percezione di che cos'era veramente "rilevante" nella loro società. Detto questo, e rivelata l'origine sociale dell'idea e della pratica della tolleranza, è bene confermare che essa è buona lo stesso, ed è perciò bene difenderla. L'idea di tolleranza, però, non è di per sé democratica - in genere, le maggioranze si distinguono per la loro tendenza all'intolleranza più bieca - ma liberale, appunto perché è individualistica ed ha la sua radice nel diritto naturale primario dell'individuo all'espressione incondizionata della propria visione del mondo filosofica e religiosa. Non vedo, comunque, nulla di male nel rilevare l'intima omoge­ neità dell'idea di tolleranza con la pratica economica del mercato. Un mercato delle merci veramente efficiente non può, infatti, ne­ gare a lungo la parallela esistenza di un mercato delle idee e delle opinioni. Certo, questo comporta, di fatto, anche una patologica "mercificazione delle opinioni" - mercificazione, che sta alla base dell'odierno circo mediatico della manipolazione industrialmente organizzata - e allora il relativismo fa anch'esso un salto di quali­ tà. H relativismo tipico di alcune minoranze scettiche di cosiddetti "apoti" - gli apoti, secondo Papini, erano l'élite di chi non beveva le panzane diffuse dai dominanti e credute dai dominati babbioni diventa oggi un vero e proprio relativismo di massa. Ancora una volta, come per il caso della genesi storica reale dell'idea di tolle­ ranza, questo avviene per ragioni strutturali; se infatti l'unica real­

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tà è la merce, e il potere d'acquisto di ogni merce è relativo al pro­ prio potere d'acquisto, ne deriverà, prima o poi, una vera e pro­ pria "caduta degli assoluti" filosofici e religiosi. Questa "caduta degli assoluti" non avviene, però, a causa della vittoria filosofica di Kelsen e di Rorty contro Platone e Hegel, come crede la corporazione dei sem icolti lettori delle pagine culturali dei quotidiani "laici" e "postmoderni", ma perchè l'unico Assoluto ancora in pie­ di è appunto solo il Relativo, cioè il relativo al potere d'acquisto di beni e di servizi, differenziato per reddito. Torniamo al nostro problema della tolleranza. Nessuno si sogne­ rebbe mai di avere "tolleranza" per una diagnosi clamorosamente sbagliata di un medico o per un calcolo clamorosamente inesatto di un ingegnere edile. Se allora il concetto di "tolleranza", inapplicabile nella scienza e nella tecnologia, viene invece impiegato per la reli­ gione, la filosofia e la politica, ne consegue che né la religione, né la filosofia, né la politica sono scienze e /o tecnologie, e devono anche sapere di non esserlo. Ci sono stati, in passato, onesti sostenitori, in buona fede, della scienza teologica, della scienza filosofica e, so­ prattutto, della scienza politica; a monte di queste concezioni, sta l'errata idea della "trasparenza" o, più esattamente, della traspa­ renza integrale della realtà, basata, a sua volta, sulla sua integrale conoscibilità. A rafforzare l'idea del raggiungimento definitivo di questa mitica trasparenza integrale, c'è la teoria della conoscenza di tipo "realistico" (,adaequatio rei et intellectus, in Tom m aso d'Aquino; Widerspiegelungstheorie, in Lenin). Queste teorie dell'adeguamento {adaeqwtió) o del rispecchiamento ( Widerspiegelung) si basano sul fatto che si ritiene che anche la filo­ sofia, e non solo le cosiddette scienze sperimentali, possa giungere al rispecchiamento integrale di un mondo esterno, che esiste indi­ pendentemente da noi e che si tratta allora di scoprire, nel senso di riprodurre con sempre maggiore esattezza. Ho sostenuto, però, nel paragrafo precedente che, mentre l'esattezza e la certezza sono in un certo senso dei processi progressivi di rispecchiamento - il sistema solare sta lì indipendentemente da me, ed io lo conosco 109

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sempre m eglio con il miglioramento delle osservazioni e delle apparecchiature - la verità non può essere l'adeguamento e /o il rispecchiamento di una realtà indipendente dalla nostra esisten­ za, a meno che non si creda appunto nell'esistenza indipendente di Dio e delle sue leggi morali (Tommaso d'Aquino, Ratzinger ecc.) oppure n ell'esisten za, indipendente da n oi, d i leg g i sociali deterministiche e teleologiche, che ci porteranno inevitabilmente al comuniSmo (Lenin, Stalin, Mao Tse Tung ecc ). La verità filosofica è dunque solidale con una teoria della co­ noscenza basata non sull'adeguam ento/rispecchiam ento di una realtà esterna - teoria, peraltro, anch'essa inadatta per l'esattezza matematica e adatta solo in parte per le scienze fisico-chimiche ma con una teoria della costruzione sociale progressiva condivi­ sa. Si dirà che la teoria della verità com e costruzione sociale universalistica condivisa, è tipica anche d eg li scettici e dei relativisti. Non è vero. Per i relativisti, ogni costruzione sociale è, in via di principio, incommensurabile e inconfrontabile con le altre, e in questo risiede propriamente lo scetticismo relativistico: dire che la verità è l'oggetto di una costruzione sociale universalistica con­ divisa - teoria, che personalmente attribuisco a H egel, anche se l'ha espressa con un linguaggio diverso - e non un riflesso / rispecchiamento "scientifico", significa non solo stabilire la dif­ ferenza di principio fra scienza e filosofia - con grande vantaggio di entram be - ma anche legittim are la tolleran za com e precondizione trascendentale del dialogo, e dunque del confronto democratico, che è semplicemente il dialogo applicato alla comu­ nità politica. Oggi il principio liberale (e universalistico) della tolleranza è il pericolo anche e soprattutto nelle nostre società occidentali. A cau­ sa della cosiddetta "lotta al terrorismo intemazionale" e soprattutto dopo l'illegittima aggressione degli USA all'Iraq - fatta ex ante, per contrastare le fam ose e inesistenti armi di distruzione di massa, e legittimata ex post, come benefica esportazione della democrazia come diritto umano universale, da imporre anche ai recalcitranti no

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il vecchio principio liberale della tolleranza verso opinioni, che pure non si condividono, sta sparendo nell'indifferenza più bo­ vina delle plebi televisive manipolate. Dire infatti, ad esem pio, che «Bin Laden ha ragione» - opinione, che personalmente non condivido, ma che, per me, ha la stessa consistenza epistem ologica e morale della legalissim a ed approvata opinione, per cui «Bush ha ragione» - è ormai oggetto di discriminazione penale. Se que­ sto è vero, il principio liberale, semplicemente, è morto e, insiem e con il principio liberale della separazione fra opinioni (condannabili, mai legittime) e fatti (leciti o illeciti), cade anche la democrazia. Il presupposto della Ubera espressione delle opinioni è la condizione trascendentale a priori - uso qui l'ottimo linguaggio di Immanuel Kant - per il dibattito pubblico, che porta alla decisione democrati­ ca. Siamo tornati ai "centauri" di Hobbes e allo Stato, che decide per decreto cosa può essere legalmente detto - detto, non fatto - e cosa no. Tempi duri per la Hbertà e per la democrazia.

Il rapporto fra democrazia e natura umana La questione dell'esistenza e, soprattutto, della conoscibilità di quella particolare entità definibile come "natura umana", è assolu­ tamente cruciale, per risolvere o almeno impostare correttamente il problema della democrazia. Per "natura umana", intendo quella particolare sintesi fra "prima natura" (o natura biologica) e "secon­ da natura" (o natura sociale), che diventa però in realtà una cosa unica, per cui, a rigore, né la sola natura biologica né la sola natura sociale esiston o. D efinirò biologismo la tendenza (errata) ad ipostatizzare, cioè a considerare isolatamente, la sola natura biolo­ gica e storicismo la tendenza (errata) a considerare isolatamente la sola natura sociale. Biologismo e storicismo, apparentemente oppo­ sti e contraddittori, sono in realtà due aspetti complementari dello stesso errore. ili

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Tutto questo, apparentemente, non c'entra con la questione po­ litica della democrazia. Non è così. I nemici teorici della democra­ zia hanno a loro disposizione due presupposti filosofici - o pseudoscientifici - sulla natura umana, che spesso non rendono espliciti, ma che stanno egualmente alle spalle del loro atteggia­ mento antidemocratico: in primo luogo, possono sostenere che la natura umana esiste, ma è egoista, malvagia e per nulla "sociale", quindi occorre un potere forte e dispotico per tenerla a freno e mantenere l'ordine, laddove la democrazia condurrebbe presto al­ l'anarchia e al suo esito complementare, il dispotismo senza legge; in secondo luogo, e in modo solo apparentemente incompatibile con il primo atteggiamento, possono sostenere che qualcosa chia­ mato "natura umana" non esiste affatto, ed è dunque possibile una tecnologia sociale artificiale basata sulla manipolazione illi­ m itata, non im porta se diretta ad una sorta di zo o um ano globalizzato al servizio della mercificazione universale o di una utopia totalitaria di massificazione ideologica e un controllo poli­ tico assoluto. Dal mio punto di vista, le utopie del consumismo capitalistico generalizzato e del comuniSmo politico da caserma e da convento sono politicamente opposte, ma filosoficamente com­ plementari. È dunque cruciale il tema del nesso fra natura umana e demo­ crazia. Non a caso, questo nesso fu impostato in modo veramente geniale da Aristotele, che individuò nella natura umana qualcosa di intermedio fra gli animali e le divinità. La concezione del carat­ tere "intermedio" della natura umana, non cessa di stupirmi per la sua incredibile precisione. In quanto "intermedio" fra gli ani­ mali e le divinità, l'uomo è perennemente in tensione fra queste due polarità. I due elementi, che costituiscono questo carattere intermedio, sono per Aristotele la razionalità e la socialità, entrambe innate, il cui passaggio dal carattere innato al carattere pienamente acquisito è descrivibile filosoficamente come passaggio dalla po­ tenza (dynamis) all'atto (energheia), ed è invece descrivibile politi­ camente come educazione {paideia). 112

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L'elemento della razionalità è definito da Aristotele in termini di Zoon logon echon, cioè di "animale dotato di logos”. Il termine logos, tuttavia, è polisemantico, perché significa insieme ragione, linguag­ gio e calcolo, oltre che conoscenza possibile della struttura ripro­ duttiva del mondo naturale e sociale. In quanto animale razionale, dialogico e calcolante, l'uomo non presenta difficoltà insormontabili e derivanti da impedimenti insiti nella sua natura, per giungere col­ lettivamente ad una società razionale e dialogica. Essa può essere chiamata "democrazia", nella misura in cui l'associazione demo­ cratica del popolo, che in questo modo accede al potere, può esse­ re definita come demos, e questo anche se, nello specifico, Aristotele non era favorevole al potere di "tutto il popolo", ma solo della "classe media" in quanto sua parte migliore. L'elemento della socialità è, invece, definito da Aristotele «zoon politikòn», termine in genere tradotto come "animale politico". Per­ sonalmente, ritengo legittime tre diverse traduzioni complementari e convergenti: animale politico, animale sociale e animale comuni­ tario. Per Aristotele, infatti, la dimensione comunitaria faceva tutt'uno con quella che oggi chiameremmo dimensione sociale, in quan­ to a quei tem pi non era ancora pensabile, e pertanto neppure concettualizzabile, la separazione fra società (Gesellschaft) e comu­ nità (Gemeinschaft) e, d i consegu en za, fra in d ivid u alism o e comunitarismo. Ritornerò più avanti su questi due punti di vista; per ora, basti ricordare che il "politico", per Aristotele, si fonda su una certa concezione della natura umana (la sua natura raziona­ le intermedia fra animali e divinità) e, di conseguenza, della co­ munità politica e sociale (solo gli animali e le divinità potrebbero, infatti, vivere isolati). Senza distruggere e deformare questa mirabile concezione an­ tropologica di Aristotele, è im possibile fondare filosoficamente l'in­ dividualism o politico moderno, che sta alla base della società ca­ pitalistica. Bisogna colpire al cuore questa concezione, ed è ap­ punto quello che farà il filosofo inglese del Seicento Thomas Hobbes. Per Hobbes, la concezione di A ristotele è addirittura un "mo­ lo

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stro" (una Empusa metafisica), e come mostruosità deve essere trattata. Al contrario, per instaurare una società politica stabile e sicura - e, per essere stabile e sicura, non potrà essere democra­ tica e neppure consentire la libera espressione pubblica di opi­ nioni non autorizzate, e quindi pericolose - bisogna partire dal fatto che l'uomo, per natura, è cattivo (homo homini lupus) e, da questa base, si può poi disegnare una società sicura. Ho già rilevato che il modello politico di Hobbes, che come ve­ dremo non è quello di Marx, sarà invece quello del comuniSmo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991). La schizofre­ nia di questo modello sta nel fatto che, mentre da un lato si ostentava teoricamente ima concezione ottimistica della natura umana rica­ vata da Rousseau e da Marx, dall'altro ci si ispirava, nel concre­ to, ad ima concezione fortemente pessimistica di tipo hobbesiano, secondo la quale, se la gente non veniva tenuta sempre sotto con­ trollo, si sarebbe lasciata andare verso l'anarchismo e /o verso la restaurazione del capitalismo. Uhomo comunisticus novecentesco na­ scondeva così, sotto la maschera ottimistica russoviana, un volto pessimistico hobbesiano. Detto ciò, però, bisogna aggiungere che questo era dovuto al "difetto di fabbricazione" strutturale della macchina politica del comuniSmo novecentesco, cioè all'incurabile incapacità di egemonia culturale del soggetto operaio, salariato e proletario, il soggetto meno egemone dal tempo delle piramidi egi­ zie e degli ziggurat babilonesi. A questo punto, bisogna cercare di impostare la questione della natura umana in modo filosoficamente corretto. Mi permetto, al­ lora, di iniziare con una citazione latina di N icola C usano, pensatore cristiano del Quattrocento. Si tratta di un bel latino me­ dioevale di facile comprensione: «...potestigitur homo essehumanusdeus atquedeus humaniter,potest esse humanus angelus, humana bestia, humanus leo aut ursus, aut aliud quodcumque». Per Cusano, tuttavia, il fatto che l'uomo potesse essere un dio umano o in forma umana, un angelo umano, ima bestia umana, 114

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un leone o un orso umano, o qualsiasi altra cosa, non significa che fosse una sorte di recipiente vuoto che veniva riempito dalle circo­ stanze. Cusano aveva infatti un concetto universalistico di "uma­ nità" a fianco di quello di uomo, ed infatti diceva: « ...

non ergo activae creationishumanitatis alius extatfinis quarti humanitas».

Questo significa avere un concetto ben preciso di umanità, per­ ché, secondo Cusano, non esiste nessun altro fine della creazione attiva deirumanità all'infuori dell'umanità stessa. N on si poteva dire m eglio. Il carattere "plastico" e non predeterminato di quello che in seguito Marx, sulla scorta deU'ìdealismo di Hegel, definirà "ente naturale generico" (