Storia delle dottrine politiche 8842493058, 9788842493051

418 26 11MB

Italian Pages 320 [317] Year 1995

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Storia delle dottrine politiche
 8842493058, 9788842493051

Citation preview

Giorgio Galli

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE

Galli, Giorgio. Storia delle dottrine politiche / Giorgio Galli. - [Milano] : Bruno Mondadori, [1995], XVII, 300 p. ; 24 cm. - (Manuali). ISBN 88-424-9305-8 : L. 38000. 1. Politica - Teorie. 320.5 Scheda catalografica a cura di CAeB, Milano.

La casa editrice ringrazia il professor Alberto De Bernardi per il contributo all’elaborazione del progetto editoriale della collana.

L e schede alle pp. 9 ,1 2 ,2 4 ,3 1 ,4 8 ,6 3 ,7 5 ,7 7 ,9 3 ,1 1 3 ,1 4 4 ,1 4 6 ,1 6 9 ,2 0 2 , 213,229,276 sano a cura (fi Valerio Crugnola.

Paolo F erri coordinamento editoriale

Tutti i diritti riservati © Edizioni Scolastiche B runo M ondadori spa, 1995

Franco Malagutì progetto grafico

È vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a u n decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana p er i Diritti di Riproduzione delle Opere a Stampa (AIDROS), via delle Erbe 2, 20121 Milano, teL/fax 02/809506.

Monica Fumagalli Giancarlo Diprandi copertina Edigeo srl, Milano realizzazione editoriale

Stampato per conto della casa editrice presso UnQito, Trezzo sull’A dda (MI), V-1995

Ristampa_________ ___________________________________________ Anno 0

1

2

3

4

5

95

96

97

98

99

Indice

1. 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5

2. 2.1 2.2 2.3

3. 3.1 3.2 3.3 3.4

4. 4.1 4.2 4.3

Premessa Introduzione

ix xi

La democrazia greca e l’impero romano La democrazia greca Platone: utopia e realismo Individuo, società e stato nel pensiero platonico Lo stato misto di Aristotele La concezione aristotelica della politica I partiti, la rappresentanza, le donne Roma tra repubblica e principato La filosofia politica in età ellenistica e romana

2 3 7 9 11 12 14 18 24

Il sacro romano impero e la res publica cristiana Le origini del pensiero politico medievale La filosofia politica di Agostino La sfida minoritaria: il movimento gnostico Il pensiero politico dal xm al xv secolo Dante esoterico Marsilio da Padova e Guglielmo Occam

28 28 31 32 39 46 48

L’età dì Machiavelli e Lutero La rivoluzione nel pensiero politico La Riforma I movimenti riformatori fra radicalismo e integrazione La cultura alternativa: assimilazione e repressione Jean Bodin e la sovranità La cultura politica della Controriforma Tommaso Campanella

52 52 60 63 65 67 75 77

Le regole del gioco da Hobbes a Hume Il Leviatano di Hobbes Locke e i principi del liberalismo Filosofia e politica in John Locke Hume e la critica del giusnaturalismo

80 81 88 93 96

Galli/Stona delle dottrine politiche

5. . ' 5.1

Le regole mancate da Grazio a Corate Grazio, Putendoti: e i limiti del convenzionalismo ■ JCant pensatore politico Da Kant a Hegel 27 modello hegeliano di stato La contrapposizione conservazione-progresso Le regole mancate nella dinamica sfitla-ri.spo.sta

102

6.. 6.1 6.2 6.3 6.4

La sovranità tra Montesquieu e Rousseau Da Naudé a Montesquieu Montesquieu e lo spirito delle leggi I contributi dell’Illuminismo Jean-Jacques Rousseau Dallo stato di natura alla comunità dei cittadini Mary WoUstonecraft: Illuminismo e parità sessuale

124 124 127 131 134 144 146

7. 7.1 7.2 7.3 7.4

Il liberalismo da Burke a Weber Burlce, Paine e il liberalismo inglese H liberalismo francese Il liberalismo italiano da Vico a Croce Max Weber Weber: razionalità e carisma *

150 150 156 161 164 169

8. 8.1 8.2

La critica marxista Marx e il pensiero politico La verifica storica

172 172 183

9. 9.1 9.2

Le teorie elitiste

192 192 197 202

5.2 5.3 ■ 5.4 ■ 5.5 ....

La legge della diseguaglianza L’elitismo autoritario Cari Schmitt

102 105 109 113 115 119

Indice

A

9.3

:;

Le teorie razziste Arthur de Gobineau Teorie elitiste e fascismi storici Oswald Spengler La componente esoterica'

9.4 9.5

;

10. 10.1 * ■ 10.2 10.3 11. 11.1 : 11.2 11.3

12. 12.1 12.2 12.3 12.4 12.5

*

,

204 206 208 213 214

Le dottrine politiche negli Stati Uniti e in Unione Sovietica Il neo-contrattualismo: John Rawls Veca e Maffettone » Il pensiero politico in Russia Post-comunisino e slaviSmo

220 221 229 231 239

Democrazia- rappresentativa e partiti L’evoluzione del concetto di partito I partiti di massa europei Funzione dei partiti e democrazia rappresentativa

248 248 254 258

B i fronte al futuro La politica spettacolo La poliarchia di Dahl Norberto Bobbio Bobbio: l'etica della ragione i* Raymond Aron Le prospettive

266 266 267 271 276 278 282

Bibliografia Indice dei nomi

291 295

ft

»

»

PREM ESSA

A dieci an n i dalla prima, questa nuova edizione si presenta arric­ chita da schede su autori e su periodi particolarmente significativi L ’impianto complessivo è rimasto inalterato, ma tiene conto della influenza che ha avuto, anche sulla storia delle dottrine politiche, la svolta epocale rappresentata dalle rivoluzioni avvenute nell’est, dal 1989 in p o i È un processo i cui sbocchi finali riguardano, probabilmente, un . periodo oltre il Duemila e le cui premesse vanno individuate nel pensiero politico marxista, impoveritosi a Mosca nel Diamat (mate­ rialismo dialettico volgarizzato). Alla presentazione di quest’ultimo aspetto - senza variazioni rispetto alla stesura del 1985 - si è qui agguata una presa in considerazione degli sviluppi del pensiero politico al quale la svolta avvenuta nell’est ha dato luogo in occi­ dente (le capacità di previsione della scienza politica; la confutazio­ ne della tesi della 'fine della storia”); e una ripresentazione a grandi linee della tradizione del pensiero slavofilo, che si ripropone in Russia, dopo la caduta dell’impero sovietico. Questa ripresentazione è collegata a qualche più frequente accen­ no, nella nuova edizione, ai rapporti tra cultura politica e cultura esoterica, presenti appunto in Russia; a questa prospettiva vanno anche ricondotte alcune particolari schede, come quella sull’esoteri­ smo di Dante, quale pensatore politico. È un rapporto sul quale si impernia la mia ricerca in questi anni. Alla crisi del pensiero di ispirazione marxista, si accompagna una fase di riflessione critica di quello liberaldemocratico, in occidente e particolarmente negli Stati Uniti, esemplificata dalle p iù recenti posizioni di D ahl e di RortyKseguite all’impostazione neo-contrattua­ lista, avviata da Rawls. A rche d^questo aspetto si tratta nella nuova edizione. , Infine, una nuova attenzione per il pensiero politico italiano motiva la presenza delle schede su Veca e M affettone, oltre a quella dedicata a Norberto Bobbio. Per il resto, ho lasciata inalterata la precedente introduzione, con le ragioni che m i hanno indotto alla stesura del manuale, ragioni che possono trovare una riconferma nella sua riproposizione in una prestigiosa collana. . Giorgio Galli

Questo libro ambisce a essere a un tempo un possibile testo per i corsi di stòria delle dottrine politiche e una interpretazione del pensiero politico occidentale. In tredici anni di insegnamento ho adottato testi di Sabine, di Touchard, di Chevallier, di Prélot, di Masteilone,. di .Alatri1 e l’antologia II pensiero politico dalle origini ai giorni nostri di Cerroni. Questa esperienza mi ha indotto a scrivere un manuale .che, in un limitato numero di pagine, potesse tracciare le linee essenziali della riflessione politica da Erodoto (logos tripolitikos) ad Aron (i. dilemmi dell’era atomica). La novità del presente testo è in primo luogo quella di giungere sino agli autori più recenti (Rawls, Nozick) e ai problemi del «potere invisibile» (Bobbio); in secondo luogo quella di mettere in luce la rilevanza del problema dei partiti nella democrazia rappresentativa. Il primo aspetto mi pare abbia un notevole significato didattico; sul secondo h a influito il mio precedente lavoro di ricerca e la mia formazione politologica. Questi due aspetti sono assenti, per motivi diversi (cronologici o di imposta­ zione), nei manuali in uso e possono giustificare la decisione di aggiungere un testo nuovo a quelli esistenti. t H o inserito nel testo citazioni di pensatori di una certa ampiezza, talora di più pagine. V i sono ovviamente assenze di autori citati in altre “Storie” e vi sono accenni indiretti ad alcune situazioni significative (per esempio igiusnaturalisti spagnoli che tanto peso hanno avuto soprattutto nella, impostazione ideologica della conquista americana, compaiono attraverso una riflessione di Masteilone; Nietzsche attraverso una di Gaetano Mosca). Trovano invece maggiore spazio pensatori che possono essere ritenuti margi­ nali o addirittura estranei alla disciplina, teorici delTelitismo dì destra come Evola e Guénon, ò sociologi come Comte (che taluno considera il fondatore della sociologia) e Weber (che le ha fatto raggiungej-e il livello più alto). Nonostante qualche assenza, che potrebbe essere criticata, e qualche presen­ za, che potrebbe essere discussa, credo di poter dire che questo testo fornisce

L M i riferisco ai seguenti testi: G .H. Sabine, Sto n a delle dottrine politiche, Etas/Kom pass, M ilano. 1953 ed edizioni successive. J. T ouchard, Storia del pensiero p o litico , Etas/Kompass, M ilano 1967. J J . Chevallier, L e grandi opere d el pensiero politico, Q M ulino, B ologna 1968 ed edizioni successive. J J . Chevallier, Storia d el pensiero p o litico , I -H Q

M ulino,. Bologna 1981. M . P rélo t, Stana, d elp en siero p o litico , I-II, A . M ondado­ ri, M ilano 1975. S. M asteilone, Storia ideologica d'E uropa da Savonarola a A d a m S m ith, d a Sieyès M arx, da S tu a rt M ill a L enin, I-III, Sansoni, F ire n z e 1979-82. P. A latri, L in ea m en ti d i storia d el pensiero p o litico m o­ derno, I - n , “L a L ibra” , M essina 1973-75. •

GaUi/Storia delle dottrine politiche

una conoscenza degli autori fondamentali non inferiore a quella acquisibile attraverso gli altri trattati citati. . La convinzione che la lettura di questo testo risponda a fini per così dire manualistici non meno di altri, si accompagna naturalmente al problema del modo in cui vengono presentati i*vari pensatori. , N el preparare lungo molti anni un libro come questo, diviene inevitabile chiedersi quanti Platone, quanti Vico, quanti Hobbes o Marx esistano, e se abbia senso estrarre qualche firase di uno scrittore o farne un riassunto di qualche riga, quando su quello stesso scrittore sono stati elaborati volumi e volumi. Anche per questo motivo ho abbondato in citazioni testuali. La convinzione che l’insieme dei pensatori sia qui presentato con non minore oggettività di quanto avvenga in testi analoghi, non è però disgiunta dalla coscienza che il filo del discorso interpretativo si fondi su una versione che può essere definita soggettiva del rapporto tra continuità e rottura nella storia del pensiero politico, essendo notoriamente questo il problema evidenziato, o lascia­ to sullo sfondo, in ogni trattazione storica Si può scrivere ima storia mettendo in luce gli elementi di continuità oppure quelli di rottura, o tentare di vedere come entrambe le caratteristiche siano coesistite. La presente trattazione si basa su questa terza impostazione: l’elemen­ to di continuità è visto nella persistente riproposizione del logos tripolitikos, da Erodoto in poi; i momenti di rottura sono individuati nei vari tentativi del pensiero politico occidentale di risolvere i problemi della democrazia e della ..rappresentanza. • ■ Il primo aspetto mi pare evidente. H ciclico alternarsi di forme di governo fondate sull’“uno”, sui “pochi” o sui “molti” (al limite: “tutti” gli appartenenti adulti a una collettività o comunità) va dal dibattito “persiano” citato da Erodoto a riflessioni attuali sul ruolo del “capo carismatico” (l’“uno”), sulle modalità di selezione di chi governa (i “pochi”), sulle possibilità di intervento effettivo dei cittadini nella gestione del potere “democratico” (i “molti”). □ secondo aspetto è più complesso. Questa storia non vuole essere teleologi­ ca. Non è la storia del farsi “concreto” dell’idea democratica, dalle prime sperimentazioni in Grecia sino al suffragio universale. Non è la storia di molti risultati parziali che finalmente sfociano in una valida sintesi. È invece il tentativo di verificare come accanto a concetti stabili (l’imo, i pochi, i molti) vi siano nella storia del pensiero politico concetti che si vengono via via evolvendo. La Grecia, con epicentro Atene, ha conosciuto una forma istituziona­ le dalla quale è derivato lo stesso t e r m in e di “democrazia”. Il suo spazio era la polis, la sua esperienza ebbe la massima esplicazione nella Roma del lungo periodo repubblicano. Questa forma istituzionale non fa proprio il concetto di rappresentanza. Esso r im a n e confinato nella sfera del diritto privato. Si sostiene che il concetto si sia esteso dall’ambito privato a quello pubblico e istituzionale nel Medioevo. La questione è complessa. Il «principio di legittimi­

Introduzione . xiii

tà» (Ferrerò), la «formula politica» (Mosca) sulla quale si basava il potere politico dell’età di mezzo non era la rappresentanza, m a l’ereditarietà fondata sul legame detto “di sangue”, ossia genetico. Varie forme di ratifica di questo tipo di investitura e di successione non implicavano un mandato, tanto meno un mandato revocabile, temporaneo. La coeva legittimazione teorica del tirannici­ dio è il rozzo rimedio alla irrevocabilità. In ogni caso, se nel Medioevo vi è rappresentanza, non vi è certo democrazia. Far risalire a Tommaso d’Aquino (come fa, tra gli altri, Chevallier) e al pensiero politico medievale la concettualizzazione del contratto e della rappre­ sentanza, è dunque forse possibile in senso letterale, m a certamente non per­ mette di cogliere il significato di rottura del vero pensiero contrattualista e della fonnulazione della rappresentanza sulla base di un mandato revocabile, che accompagna la sanzione del parlamento con potere legislativo e gestione delle risorse pubbliche. La rottura avviene nel Seicento e non prima. Il Medioevo conosce assemblee‘cittadine con poteri decisionali e designazione di magistrati, conosce elezioni da parte di oligarchie dell’imperatore, del re di Polonia o del papa (dopo la sottrazione della scelta di nome al popolo romano, di fatto alle grandi famiglie della città), sperimenta varie forme di ratifica del potere politico acquisito per ereditarietà e sostenuto dalla forza delle armi. Ma la concezione di fondo è monarchica: il papa, l’imperatore, il re (e anche Tommaso d’Aquino scrive un De Rege), il feudatario. I “pochi” e i “molti” sono sullo sfondo. Dio e la consuetudine stabiliscono chi ha il diritto di comandare e chi il dovere di obbedire. La rottura che crea una nuova e diversa legittimità si può quindi collocare come è opinione prevalente - nel Seicento, con epicentro l’Inghilterra di Cromwell e di Locke. Stabilito il principio della rappresentanza e del mandato revoca­ bile, il potere dell’“uno” (il sovrano) si va attenuando, quello dei “pochi” (i rappresentanti) e dei “molti” (gli elettori) si va ampliando. E sotto questo aspetto tom a a prevalere il molo della continuità della tradizione e del pensiero che viene definito Iiberaldemocratico, essendo, a mio avviso, secondaria la di­ stinzione tra la fase “liberale” e quella “democratica”. È questa impostazione del rapporto continuità-rottura che fa da sfondo alla collocazione dei singoli pensatori e delie correnti di pensiero. Ciò può avere condotto a sopravvalutazioni o a sottovalutazioni, che ho cercato di evitare e che comunque —se presenti - non dovrebbero nuocere all’insieme dell’esposizione. L’impianto sin qui descritto è quello di un tradizionale testo di storia delle dottrine politiche: il pensiero, antico e i suoi elementi “democratici”, con la sua riflessione sul diritto naturale protrattasi sino a Hume;2 il pensiero medievale dominato dal dualismo impero-papato; quello moderno che sfocia nell’egemonia liberaldemocratica, con le ricorrenti critiche del marxismo e deU’elitismo. L ’ag% Cfr. G J L Sabine, op. d t.

\

Galli/Stona delle dottrine politiche

giomamento ai pensatori di oggi e alla problematica dei partiti integra, ma non modifica, tale impianto. . A esso è però sotteso u n elemento di novità, una ipotesi secondo la quale i momenti “alti” del pensiero politico che porta, all’istituzionalizzazione (la “de­ mocrazia” greca; la “grande chiesa” di Roma, con la teoria delle due spade derivata dall’“agostinismo politico”; la democrazia parlamentare fondata sui concetti di mandato e rappresentanza) possono essere visti come una “risposta” a momenti di “sfida” particolarmente marcati da parte di movimenti e culture alternative non suscettibili di processi di istituzionalizzazione (il problema è stato studiato anche da Francesco Alberoni, ma in una chiave differente perchéla sua riflessione è sui movimenti che comunque si istituzionalizzano).3 La dinamica "sfida-risposta” è notoriamente quella utilizzata da Arnold Toyn­ bee nel suo monumentale A stiidy o f history (1934-54) sulla nascita, lo sviluppo e il declino delle civiltà. È una impostazione assai criticata, che vede la “sfida” essenzialmente in tentimi di ambiente naturale. L’ipotesi che è alla base del presente testo - che, comunque, può essere letto prescindendone - è quella di una “sfida” sostanzialmente culturale. Le culture alternative e minoritarie “sfidanti” - quella del “dionisismo”, delle “baccanti”, del movimento‘gnostico e di quello della “stregoneria” - sono caratterizzate da una presenza d ei “femminile” più marcata rispetto alle culture che poi si affer­ marono come egemoni: il razionalismo greco (con l’emarginazione della donna); la chiesa cattolica universale (senza sacerdozio femminile.); la rivoluzione rap­ presentativa (con la subalternità della donna). N el libro sono presentatigli elementi che consentono - mi pare - di formulare questa ipotesi in relazione allo sviluppo del pensiero politico. V i si espongono le relative considerazioni di metodo rispetto alla futura possibilità di verificarla, oppure, popperianamente, di “falsificarla”. È Una ipotesi senza essere attratto dalla quale forse non mi sarei sottoposto alla pesante fatica di elaborare questo testo, nonostante le buone ragioni di ordine scientifico e didattico che ho esposto (l’aggiornamento e ima interpreta­ zione che dia ragione della “invenzione” della democrazia rappresentativa, coi suoi grandi successi e i suoi limiti). M a è anche una ipotesi che spero eli essere riuscito a tenere costantemente sótto controllo, nel senso che non dovrebbe prevaricare su un testo e la cui fondamentale caratteristica è quella di presentare una storia oggettiva delle dottrine politiche dell’occidente in termini quanto più possibile sintetici e al tempo stesso esaurienti (due modalità che non è facile abbinare). Insomma: il lettore al quale tale ipotesi non interessi o che la ritenga non fondata, può utilizzare il testo nella sua impostazione più tradizionale. E il

.3. Cfr. F . Alberoni, M ovim enti e istitu zio n i, il M ulino, Bologna 1977.

.Introduzione

lettore che sia interessato all’ipotesi vi può trovare elementi p er i quali può essere formulata, in attesa di studi futuri che la possano convalidare o far accantonare. È quindi facile intuire che un testo con queste caratteristiche abbia avuto una lunga gestazione. La prima proposta in sede didattica venne dagli studenti dei tumultuosi primi anni Settanta, i quali erano molto ostili al Sabine - che ho costantemente adottato - e desideravano un testo “marxista” (inesistente): furo­ no loro a insistere perché, dopo aver scritto tanti libri, ne scrivessi anche uno per la disciplina che avevo cominciato a insegnare. Replicavo che non mi sentivo affatto di farlo e solo alcuni anni dopo venne una proposta che pensai di poter raccogliere: me la formulò Ruggiero Romano, nel quadro di alcune pubblicazioni che avrebbero dovuto integrare l’Enciclope­ dia Einaudi. Se ne accennò con Giulio Bollati, ma non mi sentivo ancora in grado di presentare un progetto preciso. Raccoglievo però idee e materiale; ne ridiscussi con Bollati nel frattempo approdato at Saggiatore, oltre che con Salvatore V eca N el 1981 era pronto un progetto e da allora l’ho perfezionato e ne ho cominciata la stesura E dopo che Bollati lasciò il Saggiatore, appunto Veca m i è stato prodigo di consigli le alcuni me li ha dati anche Glauco Ameri). Segnalo i passaggi di questa gestazione perché si intersecarono con processi culturali collettivi (dalla contestazione studentesca alle crisi editoriali) e per sottolineare che la stesura non è frutto di fretta o di improvvisazione. : Nascita della tragedia, gnosticismo, stregoneria sono fenomeni della storia culturale dell’occidente che hanno dato luogo a studi estesissimi sui quali si sono formate generazioni di specialisti. Senza un lungo periodo di riflessione, potreb­ be apparire eccessiva presunzione collocarli insieme sullo sfondo di una storia del pensiero politico, interpretandoli in modo particolare (il dionisismo non integrato nella tragedia, lo gnosticismo anche come erotismo, la stregoneria come cultura). ' ’ Questo rischio si aggiunge a quello sèmpre insito in una storia di questo tipo, che si propone anche come testo manualistico e che, abbracciando i millenni, comporta la possibilità di imprecisioni e di errori anche banali su singoli punti, con, conseguenti ironie accademiche nei confronti delle quali alcuni amici mi :hanno messo in guardia. Mi consolano da questa possibile, difficoltà alcuni precedenti dei quali mi limito a citare i più significativi. Il primo concerne Gaetano Mosca, i cui ultimi anni furono amareggiati da una particolare recensione alla Stona delie dottrine politiche che aveva pubblicato sulla base delle lezioni tenute all’Università di "Roma.4 Flavio Lopez D e Onate ne parlò sulla rivista di filosofia “Logos” (aprile-giu-

4. G . M osca, Storia delle dottrine p o litich e, Laterza, B ari 1945.

GàSli/Storia delle dottrine politiche

V

gno 1938) sotto il tìtolo Su una storia delle dottrine politiche, e pur affermando che «l’opera nel suo complesso sia quella di un Maestro», da un lato rilevava «come nocd a all’opera proprio quel suo tìtolo di storia ed il suo programma adeguato al tìtolo, mentre vari dei capitoli raccolti in essa avrebbero senza dubbio potuto formare im a raccolta di brevi saggi, dotata di una propria fisiono­ mia», p er cui «come storia generale quest’opera sembra per vero alquanto lacunosa»; e dall’altro lato venivano puntigliosamente sottolineate «varie inesat­ tezze di fatto» alle quali era dedicata la metà dell’intera recensione e che andavano dalla data dell’editto di Caracalla alla grafia dei nomi contenuti nell’apposito indice. T ra le lacune Lopez D e Ofiate segnalava che «non vengono nemmeno nomi­ nati Giannotti, Hooker, Harrington, Filangieri, Pagano, A. Miiller, Gòrres, TapareM, Rosmini, Cattaneo, J.S. Mill, Spaventa, Stìmer ecc., e per quanto riguar­ da il pensiero politico italiano non è ricordata neppure di sfuggita la dottrina dello stato misto dei teorici fiorentini; non è menzionato, fatta eccezione per il Mazzini, alcuno dei pensatori repUbblicani del Risorgimento». Il secondo episodio concerne Sabine, nella c u iStoria delle dottrine politiche, che pure dedica particolare attenzione al pensiero liberale al quale sostanzial­ mente si ispira (da qui l’accennata critica dei miei primi studenti), non si fa parola di Tocqueville, che di tale pensiero è espressione essenziale. Si tratta di una lacuna tanto più sorprendente in quanto il contributo di Tocqueville alla storia delle dottrine politiche è notoriamente lo studio sulla democrazia in quegli Stati Uniti nei quali Sabine pubblica la sua opera; e del resto anche i teorici della rivoluzione americana, che porta all’indipendenza e alla proclamazione della prima grande repubblica della storia, sono assenti dalla trattazione, salvo qualche fuggevole accenno a Thomas Jefferson, esclusivamen­ te in relazione ai pensatori inglesi della rivoluzione parlamentare. Di queste assenze non viene dato alcun conto, neanche nella quarta e per ora ultima edizione dell’opera, rivista da Thomas Thorson e pubblicata pure negli Stati Uniti nel 1973. Con parole di grande ammirazione per Sabine, la sua cultura e la sua saggezza, Thorson così individua la caratteristica del proprio contributo, che pure tiene conto - come l’impostazione ,di Sabine - del ruolo di Hume: «Mi sento più simpatetico con la tradizione della legge naturale e con la prospettiva evoluzionistica di Hegel e di Marx di quanto lo fosse E professor Sabine, e questa inclinazione ha condizionato il mio lavoro per questo libro». I! lavoro di Thorson è certamente pregevole, ma la differenza che egli sottoli­ nea nella Prefazione non è di poco conto, se si tiene presente che l’impostazione humeana è fortemente critica nei confronti di Hegel e ancor più di Mais. Questa era una caratteristica fondamentale del testo di Sabine (caratteristica che provo­ cava i pregiudizi nei suoi confronti da parte degli studenti dei primi anni Settanta). . ' Inoltre Thorson non ha aggiornato il testo, che si arresta alla descrizione del-

^



1

Introduzione, xvii

fascismo e del nazionalsocialismo, ripristinata nella sua iniziale ampiezza, dopo che Sabine l’aveva abbreviata nella sua terza edizione del 1961. Il ripristino è giustificato con la ripresa di interesse p er queste concezioni negli anni che separano le due edizioni; e si tratta di una considerazione di cui ho tenuto conto nel capitolo del presente libro dedicato alle teorie euristiche. Mentre non aggiorna il volume che ha rivisto, Thorson, in rapporto all’impor­ tanza che attribuisce all’evoluzione culturale, aggiunge un, capitolo iniziale che «tenta di collocare la storia della teoria politica in un contesto tanto dell’evolu­ zione umana che del pensiero pre-greco e pre-filosofico». In questo termine «pre-filosofico» è avvertibile, dal mio punto di vista, un’eco della cultura “diver­ sa” che ha preceduto il “miracolo greco”. In conclusione, anche la più diffusa tra le storie delle dottrine politiche viene rivista in un suo assunto essenziale, a conferma di quanto si è scritto a proposito della {ematica delle interpretazioni. ^ , v Se dunque la Storia delle dottrine politiche di Gaetano Mosca, che alla fonda­ zione della scienza poUtica ha dato un contributo fondamentale, e se un trattato che è tuttora considerato un modello, come quello di Sabine, presentano lacune >e hanno dato luogo a questi sviluppi, mi rassegno in anticipo a qualche njanchevolezza rilevabile in quest’opera.

>

'9

CAPITOLO 1

La democrazia greca e Fimpero romano

1 La democrazia greca 2

Platone: utopia e realismo 3 Lo stato misto di Aristotele 4 I partiti, la rappresentanza, le donne 5 Roma tra repubblica e principato

2

Galli/.Stona delle dottrine politiche

1. La democrazia greca e l’impero romano

^ antichità ha dato all’occidente due esperienze e due modelli politici: la democrazia ellenica (più precisamente ateniese) e l’impero ro­ mano. La democrazia ateniese non era il solo sistema adottato dalle polis. Aristotele sembra aver analizzato 158 tipi di costituzione delle città-sta­ to. Alcune di esse (Sparta, Tebe) adottavano sistemi politici che potrebbero prefigurare le dittature dell’autoritarismo di destra del xx secolo. Tuwavia, il pensiero politico origina da riflessioni sulla democrazia di modello ateniese. Alcuni suoi tratti si ritrovano nella città-stato che creerà il primo impero “mon­ diale” dell’occidente: Roma. Entrambe le esperienze - la democrazia e l’impero - e il pensiero politico con il quale si intersecano, attirano l’attenzione su due aspetti della cultura politica occidentale: la forma della rappresentanza e la legittimazione per l’esercizio del potere. Ad Atene ogni anno un cittadino su sei partecipa a funzioni di governo e tutti i maschi al di sopra dei diciotto anni intervengono all’assemblea che h a il potere di legiferare e giudicare. L’eguaglianza nella legge - isonomia - è la peculiarità del sistema. M a l’incertezza sul chi (e sul come) abbia un mandato a stabilire leggi valide per tutti, è un suo punto debole. La partecipazione è grande, la preoccupazione per il pericolo di un potere personale elevata, sino a spingere nel campo persiano cittadini eminenti. Eppure la democrazia ateniese giunge all’apogeo e decade con la sconfitta inflittale da Sparta sotto il segno di personali­ tà dal mandato incerto: Pericle, Alcibiade. Le critiche al sistema vigente portano Socrate a una morte famosa e Senofonte nel campo del nemico spartano. Quan­ do il sistema declina, è anche per un atteggiamento negativo nei suoi confronti che sono indotti a scrivere i fondatori della dottrina politica: Platone e Aristotele. L’impero romano porta al massimo sviluppo il diritto privato, crea monumenti legislativi. M a la carenza nel campo del diritto pubblico è tale che incerto appare il fondamento giuridico del potere imperiale, sostanzialmente derivante dal controllo dell’esercito. La legittimazione politica - nella patria del diritto occi­ dentale - deriva di fatto dall’obbedienza delle legioni. Le crisi continue per il ricambio al vertice del sistema sono una delle ragioni del suo decadere. . Alcuni brani riportati in questo capitolo descrivono tratti essenziali della democrazia ateniese e dell’impero di Roma, e suggeriscono anche i limiti di normazione nella delega del potere e del suo esercizio. A tene oscilla tra demo­ crazia diretta e ostracismo. Rom a fonda un diritto privato che dura nei millenni; m a l’impero, di fatto, manca di diritto pubblico.

La democrazia greca e l’impero romano

1.1 La democrazia greca Queste le linee essenziali della riforma di disten e, che pose le basi della democrazia ateniese, nelle parole dello storico Oswyn Murray: «Le interpreta­ zioni che sono state date delle riforme di d iste n e rimangono controverse. Nel quadro che traccerò considero elementi centrali i demoi e le tribù. Ai dem oi erano assegnate le funzioni di governo locale. Erano anche depositari delle liste anagrafiche ufficiali in cui si ammettevano i cittadini di sesso maschile che avessero superati i diciotto anni. Le tribù fornivano cinquanta consiglieri ciascu­ na scelti per sorteggio del consiglio di 500 membri, che preparava e dava esecuzione agli affari trattati nell’assemblea. Tutti i cinquanta membri di ciascu­ na tribù rimanevano in carica a turno per la decima parte di un anno e tra di loro veniva estratto un presidente che esercitava questa carica per ventiquattro ore. d isten e pose così le basi di un sistema di governo che sarebbe rimasto vigente per i due secoli successivi, n funzionamento efficiente di un’assemblea di massa diretta e non rappresentativa richiedeva la presenza di un corpo scelto di funzionari che preparassero gli ordini del giorno, dessero esecuzione alle deci­ sioni prese e sorvegliassero le azioni dei magistrati [...]. Ogni anno, nell’assem­ blea principale del sesto tra i periodi conciliari in cui Tanno si divideva, al popolo veniva chiesto se desiderava votare l’ostracismo. Pare non vi fosse alcun dibatti­ to: se il voto risultava affermativo, l’ostracismo veniva esercitato più tardi nel corso dello stesso anno. Ogni cittadino aveva il diritto di scrivere il nome di un cittadino che desiderava allontanare dalla città su un pezzo di coccio (di qui il nome dell’istituzione, formato sul termine ostrakon, coccio di vaso). Il ballottag­ gio era segreto ed il candidato che riceveva sul proprio nome il maggior numero di voti era condannato all’esilio decennale (senza però che i suoi diritti di cittadino venissero incrinati e che le sue proprietà fossero minimamente intacca­ te). Almeno ad uno, se non a più stadi del procedimento di voto, era necessario un quorum di seimila votanti».1 Tra repubblica e impero - dall’età di Pericle a quella di Cicerone - si sviluppa la dottrina politica del mondo antico. Le sue origini sono note: Erodoto, oltre che padre della storia, può essere considerato anche padre della politica. Egli sintetizza, per la prima volta nel terzo libro delle Storie, le opinioni del suo tempo sulle tre forme di governo che da allora, in vario modo, caratterizzano le dottrine politiche: il governo di uno (monarchia), dei pochi (oligarchia) e dei molti (democrazia). La loro descrizione è affidata a un supposto dibattito all’intem o del gruppo di sette congiurati persiani che dopo aver ucciso un usurpatore si accingono a dare un nuovo governo al regno dopo la morte di Cambise. Otane è p er il governo di tutti, Megabizo dei pochi, Dario di uno (prevarrà; e sarà re). Le loro argomentazioni sono l’embrione delle dottrine politiche.

L O . M urray, L a G recia delle a ria n i, il M ulino, Bologna 1983, cap. X V , “L ’egem onia sulla G recia: S p arta e A te n e ”.

4

Galli/Storia delle dottrine politiche

Otane esortò a far partecipare al governo tutti i persiani. Come potreb­ be essere cosa perfetta la monarchia, alla quale è lecito fare quello che vuole senza renderne conto? Anche il migliore degli uomini innalzato a questo potere, essa distoglierebbe dal suo consueto modo di pensare. I beni che lo circondano generano in lui arroganza, e d’altra parte è originariamente innata nell’uomo l’invidia. Egli sovverte i costumi aviti, usa violenza alle donne e mette a morte senza processo. Il governo del popolo ha invece il nome più bello di tutti: isonomia; le cariche pubbli­ che sono assegnate a sorte, chi esercita il potere deve renderne conto, tutte le deliberazioni spettano alla collettività. Megabizo esortò invece ad affidare il potere a un’oligarchia, dicendo: quando Otane incitava ad affidare fi potere al popolo, si è allontanato dalla opinione migliore. Nulla infatti vi è di più stolto e insolente che ima moltitudine incapace. E, sfuggendo la prepotenza di un tiranno, cadere in quella di un popolo sfrenato è assolutamente insopportabile: quello infatti se fa qualcosa lo fa consapevolmente, mentre questo di essere consapevole non è nep­ pure in grado. Come potrebbe esserlo dato che non ha ricevuto istru­ zione né ha conosciuto nulla di buono e di conveniente e che svolge i pubblici affari buttandovisi dentro senza discernimento? Noi invece, scelto un gruppo di uomini tra i migliori, a costoro conferiamo il potere ed è naturale che gli uomini migliori prendano le deliberazioni migliori. Terzo manifestò la sua opinione Dario: delle tre forme di governo che abbiamo dinanzi e che in astratto sono tutte ottime, io dico che è superiore la monarchia. Perché di un uomo solo che sia il migliore nulla potrebbe apparire meglio; valendosi di un siffatto ingegno egli dirigerebbe in modo irreprensibile il popolo e cori sarebbero tenute segrete al massimo le deliberazioni contro i nemici. Nell’oligarchia, fra uomini numerosi che impiegano il proprio valore a vantaggio della collettività, sorgono frequenti forti inimicizie personali; perché volendo ciascuno essere il capo e far prevalere le proprie opinioni, si giunge a gravi rancori reciproci, dai quali nascono discordie e dalle discordie spargimento di sangue e da questi si approda alla monarchia; e in tal modo appare quanto quesfultima sia la migliore. Quando poi ha il potere il popolo è impossibile che non abbiano luogo cattivi costumi; fra i malvagi non sorgono inimicizie, bensì forti amicizie; perché coloro che mandano in rovina la cosa pubblica lo fanno complottando. Così avviene sino a quando un uomo, postosi a difesa del popolo, ponga fine alle mene di costoro; e in seguito viene pertanto riconosciuto monarca: dimostrando anche così come la monarchia sia la cosa migliore.2 Per quanto semplificate, queste argomentazioni di Erodoto, attribuite ai persia­ ni, riassumono la dottrina e l’esperienza politica ellenica; anzi, prefigurano il rapporto tra repubblica e principato nel pensiero di Machiavelli, la teoria delle 2. H testo è in A a.V v., L a dem ocrazìa in G recia. A ntologia p o litica , a cu ra di G. Fassò, il M ulino, Bologna 1959.

La democrazia greca e rimpero romano

élites e il rapporto tra democrazia rappresentativa e sistemi autoritari nel xx secolo: le democrazie - oligarchie di élite in concorrenza per ottenere il consenso popolare - entrano in crisi se la concorrenza sfocia nella corruzione e nella guerra civile; da qui la richiesta di ordine autoritario (governo di uno). È indice di grande continuità nella storia delle dottrine politiche il fatto che il logos tripolitikos di Erodoto rimanga ima impostazione di base per millenni e si può dire sino ai nostri giorni; Weber tradurrà il governo di uno nel molo del capo “carismatico”; Mosca e Pareto studieranno le élites (aristocrazie e oligar­ chie politiche); Duverger definirà democrazia il fatto che il “popolo” possa scegliere tra di esse quando sono in concorrenza. Generalmente, tuttavia, ilpensiero politico greco espresso informa organica è fatto risalire a Platone e ad Aristotele, che scrivono sistematicamente quando la democra­ zia ateniese è al tramonto. In vàrio modo le preferenze dei due filosofi vanno a un regime elitario, che organizzi il consenso. Ed è significativo che nella successiva storia della filosofia i sofisti, tipici rappresentanti delperiodo “democratico”, abbiano avuto la cattiva fama degli ambigui discettatoti, mentre Socrate, mandato a morte come nemico delle istituzioni, sia stato identificato con il saggio, sostenitore della verità. Mentre, quindi, abbiamo fondamentali trattati teorici a sostegno del governo delle élites (la Repubblica, il Politico e le Leggi di Platone; la Politica di Aristote­ le), nel periodo di massimo sviluppo della democrazia ateniese troviamo soltanto testi di autori presunti: l’apologià del sistema attribuita a Pericle da Tucidide (l’orazione per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso); e lo scritto critico L a costituzione degli Ateniesi attribuito dapprima a Senofonte e poi a un innominato “vecchio oligarca”. r

Abbiamo una costituzione (il cui) nome è democrazia, perché è fondata non su pochi ma sulla maggioranza; per quanto riguarda le leggi nelle questioni private tutti godono di uguali diritti; per quanto riguarda gli onori, ognuno che si segnali in qualche cosa viene innalzato alle cariche pubbliche non secondo la classe a cui appartiene ma secondo il suo valore; e chi può essere utile allo stato non è ostacolato da mancanza di prestigio perché povero. La vita pubblica si svolge liberamente [...]. Le stesse perso­ ne curano insieme gli affari familiari a quelli politici e pur rivolgendosi ciascuno ad attività diverse, non siamo incompetenti negli affari dello stato: stimiamo chi non si occupa di essi, non un uomo amante del quieto vivere, ma un uomo mutile; e noi stessi personalmente decidiamo o consideriamo veramente le questioni convinti che la discussione non è dannosa all’azio­ ne, ma che anzi lo è il non prepararsi con la discussione prima di procedere con l’azione a ciò che è necessario [...]. La città tutta è la scuola della Grecia e ogni uomo mi sembra presentare, prèsso di noi, nelle più varie forme, una personalità indipendente, dotata di'eleganza e di versatilità.3 3. ibid.

5

6

Galli/Stona delle dottiine politiche

Così il Pericle presentato da Tucidide, che commenta: «Con la potenza dovuta al suo prestigio, teneva in pugno, pur nella libertà, la massa e non era trascinato da essa più di quanto fosse lui a trascinarla. Formalmente era democrazia, di fatto governo del primo uomo. Coloro che vennero dopo invece, essendo di pari valore fra loro, e aspirando a essere ciascuno il primo, si diedero ad abbandona­ re al capriccio del popolo anche gli affari politici». Ritroviamo nello storico Tucidide, applicato alla situazione di fatto di Atene, il logos trìpolitikos, le tre forme politiche dello storico Erodoto fatte descrivere ai persiani: l’uno, i pochi, i molti. Ma per il “vecchio oligarca” i mali degli ateniesi, al di là del prestigio di Pericle, sono scritti nella loro costituzione: Non approvo questo tipo di costituzione, perché hanno preferito il bene della plebaglia a quello dei migliori. I poveri e il popolo hanno maggior potere che i nobili e i ricchi, perché il popolo è quello che conduce le navi e che procura la potenza dello stato: così appare giusto che tutti abbiano adito alle cariche pubbliche per sorteggio o elettiva­ mente e che abbia facoltà di parlare qualunque cittadino che lo deside­ ri. Che in ogni campo essi facciano posto sia ai più miserabili, ai poveri e ai popolani che ai valenti, è proprio in questo che appare come essi conservino bene la democrazia. Sono infatti i poveri, i popolani e le persone dappoco che quando sono in auge e in gran numero fanno prosperare la democrazia [...]. Nel popolo vi è la massima ignoranza, indisciplina e perversità perché la miseria lo spinge all’immoralità e così pure per alcuni la mancanza di educazione e l’ignoranza causata dalla mancanza di danaro. Qualcuno potrebbe dire che essi non do­ vrebbero permettere di parlare e di deliberare a tutti indistintamente, ma soltanto ai più saggi e ai migliori; essi però anche in questo provve­ dono nel modo migliore permettendo di parlare anche alla plebaglia: perché se parlassero e deliberassero i nobili, le cose andrebbero bene per i loro pari e male per i democratici; ora invece che si alza a parlare chi vuole, anche un miserabile, sceglie ciò che va bene per sé e per i pari suoi [...]. Ora io concedo la democrazia al popolo, perché chiunque è scusabile se fa i propri interessi; ma chi non appartenendo alla classe popolare ha scelto di vivere in uno stato democratico anziché in uno oligarchico, ciò è perché egli si proponeva di operare male e sapeva che ad un malvagio è più facile passare inosservato in uno stato democrati­ co che in uno oligarchico.4 Questa “costituzione degli ateniesi” uscì sconfitta dallo scontro con lo stato oligarchico di Sparta (di cui Senofonte aveva scritto un elogio in L a costituzione di Sparta). E poiché abbiamo visto quale sia l’opinione di Tucidide, il grande storico di quella guerra del Peloponneso, la versione di cui disponiamo segnala 4. Ibid.

La democrazia greca e l’impero romano

tra le cause della sconfitta il fatto che avventurose iniziative di demagoghi abbiano avuto il sostegno popolare. E anche se, dopo una breve fase di governo oligarchico, la sostanza delle istituzioni democratiche venne restaurata ad Atene, in Grecia la dottrina politica orgànica maturò in un clima culturale di fine dell’egemonia della città che Pericle aveva definito «scuola della Grecia».

1.2 Platone: utopia e realismo È in questo clima che si sviluppa una forma di dottrina politica che - come il logos tripolitikos - avrà lungo corso nella storia dell’occidente: la presentazione di istituzioni politiche id eai elaborate in forma compinta da un singolo studioso. In questo senso la Repubblica di Platone precorre una lunga serie di opere analo­ ghe. E va ricordato che in essa vi è una definizione non dissimile da quella del “vecchio olgarca”: «La democrazia sorge quando i poveri, vittoriosi, ammazzano alcuni d egl altri, alcuni ne esiliano, e con i rimanenti dividono in modo eguale il governo e le cariche pubblche; e queste per lo più vengono assegnate a sorte». Platone muove da questa convinzione per scrivere i"tre testi fondam enta! del suo pensiero poltico: la Repubblica, 1 Politico e le Leggi II primo fissa le caratteristiche di quello che dovrebbe essere lo stato ideale, il modello di stato. GU altri due indicano invece le possibihtà di funzionamento di stati per così dire di second’ordine che non raggiungono la perfezione deU’ideale-tipo. Le caratteristiche fondam enta! della Repubblica sono due e in contraddizione fra loro. D a un lato si sottolineano le differenze struttura! di tre tipi di persona!tà umana; daH’altro si propone un sistema sociale che, per alcuni tratti, potrebbe essere definito di eguaglianza comunista. Sotto ! primo profilo Platone indica tre tipi di uomini: qu el! inclini per natura a lavorare; quel! atti a svolgere funzioni esecutive di governo; e infine quel! idonei a compiere le scelte di fondo nel governo, cioè la definizione dei fini d e!a società e dei mezzi per raggiunger!. I primi sono, nella “repubblica”, i lavoratori che producono; i secondi sono sostanzialmente i guerrieri che difendono lo stato; i terzi sono i veri e propri governanti. Di questa presupposta distinzione di fondo deUe personahtà umane, Platone non fornisce aìcuna spiegazione. Il suo assunto - vi è chi è idoneo a obbedire, chi a comandare - avrà anch’esso lunga durata come segno di conti­ nuità neUa storia de!e dottrine pohtiche, sino alle teorie ehtarie del radicalismo di destra del xx secolo, di cui si tratterà nel capitolo 9. Si noti che Platone distingue i tre tipi umani solo tra g ! uomini !beri (i lavoratori produttivi sono in sostanza g ! “operatori economici” - artigiani, commercianti, marinai - d e!’A te­ ne del suo tempo). G ! schiavi non contano, la loro è per Platone una umanità solo formale. II cosiddetto “comuniSmo” di Platone si fonda in primo luogo sulla proposta di una situazione di eguaghanza basata sul fatto che guerrieri e governanti non

Galli/Storia delle dottrine politiche

debbono disporre di una proprietà privata (concessa invece ai lavoratori: m a si tratta sostanzialmente della proprietà degli strumenti di lavoro). La radice concet­ tuale della proposta è la stessa della sfiducia di Platone nella democrazia: la corruzione, chederivadalla ricchezza e dal suo desiderio, impedisce ai guerrieri di combattere bene, ai governanti di governare bene; con la ricchezza si può compe­ rare un potere che non si esercita nell’interesse collettivo. Impedendo a guerrieri e governanti, di essere ricchi e proprietari, abolendo la proprietà privata di ricchez­ ze che non siano strumenti di lavoro, Platone ritiene di creare la premessa per l’adeguatezza di chi comanda a svolgere la sua funzione non nell’interesse del singolo o del gruppo al quale appartiene, m a neE’interesse generale. In secondo luogo, il “comuniSmo” di Platone si esprime nel negare l’opportu­ nità di quella sorta di proprietà privata della donna costituita per il marito dal matrimonio monogamo permanente. Anche in questo caso la norm a si applica a chi comanda, non a chi obbedisce. La donna delle due classi superiori ha, nell’enunciato platonico, lo stesso diritto dell’uomo. In questo ambito, gli accop­ piamenti sono regolati secondo le disposizioni dei governanti, al fine di ottenere la miglior prole possibile. Anche in questo caso, la sostituzione dello stato alla famiglia precorre esperienze autoritarie del xx secolo, non precisamente “comu­ niste”, quali l’eugenetica nazista. Si può supporre che Platone osteggi, per la classe dirigente, rapporti sessuali individualizzati per la stessa ragione p er la quale osteggia la ricchezza privata: si avrebbe una forma di corruzione attraverso l’influenza della donna come attra­ verso l’influenza del danaro. La donna viene apprezzata soltanto in quanto sia in grado di svolgere funzioni di comando, militari e politiche (secondo la logica della gerarchia di valori delle società patriarcali). Vale la pena di segnalare su questo punto cruciale del pensiero platonico la valutazione del più autorevole storico delle dottrine politiche, Sabine: «L’abolizione del matrimonio era forse una critica implicita alla posizione della donna in Atene, dove la sua attività si riduceva a badare alla casa e a crescere i figli. La constatazione che talune donne hanno qualità da consentire a loro come agli uomini la partecipazione alla vita politica e militare non gli fece vedere che la prassi ateniese corrisponde alla vera natura femminile. Le dorme della classe dirigente condivideranno perciò in tutto il lavoro degli uomini e saranno libere dalle cure strettamente domestiche».5 È evidente un’altra continuità, quella dei valori patriarcali, da Platone a Sabine. H primo appare avanzato, perché consente alla donna delle classi supe­ riori di adeguarsi alla gerarchia della guerra e della politica; il secondo ritiene invece che «la vera natura femminile» sia la cura della casa e dei figli. In conclusione, al di là di taluni aspetti apparentemente egualitari nella filosofia politica della Repubblica, il pensiero di Platone risulta orientato verso una società rigidamente gerarchizzata. Questo orientamento appare più eviden­ 5. G .H . Sabine, Storia d elle dottrine p o litich e, Eta$/K om pass, M ilano 1953, cap. I H

La democrazia greca e l’impero romano

te allorché egli, con ima successione che non è solo cronologica (lo elabora da vecchio), ma anche logica (lo stato reale dopo quello ideale), scrive le Leggi. Egli tenta di conciliare il principio elitario della saggezza innata dei governanti, con qualche garanzia di libertà. Ma la conclusione, alquanto singolare, può essere descritta sempre con le parole di Sabine: «Platone proibisce ogni pratica religio­ sa privata e decreta che i riti debbano essere compiuti in templi pubblici e da sacerdoti autorizzati. Egli è influenzato dalla sua antipatia per certe forme disordinate di religione a cui, come egli nota, sono propensi gli elementi isterici e in particolare le donne. Proibito l’ateismo, per cui sono previsti la prigione e, per i casi peggiori, la morte. Nelle ultime pagine, egli aggiunge allo stato un’altra istituzione: il consiglio notturno composto dai dieci più vecchi tra i trentasette custodi, dal direttore dell’educazione e da certi sacerdoti scelti per le loro particolari virtù. A questo consiglio extralegale è data facoltà di controllare e dirìgere tutte le istituzioni legali dello stato».6 6 . G .H. Sabine, op. c it, cap. IV.

IL PENSIERO POLITICO Individuo, società e stato nel pensiero platonico L a riflessione politica di Platone si situa al term ine della lunga crisi dell’A te­ ne postpericlea uscita sconfitta dalla guerra del Peloponneso. Il governo dei T renta Tiranni e il successivo ritorno al potere del partito democratico, la condanna a m orte di Socrate, avevano mostrato a chiare lettere al giovane Platone ciò che è male per la polis. M ale è il relativismo che lacera e divide lo stato, privandolo di un indirizzo saldo, om ogeneo e unitario; male è il pluralismo che oppone bene individuale a bene individuale, valore a valore, opinione a opinione. Al punto di vista ristretto e relativistico dei sofisti, Platone oppone l’istanza della totalità, di quell’intero con cui, come avrebbe detto Hegel, si identifica il vero. Confermando il nesso tra etica e politica, Platone è convinto che il bene per la polis può darsi solo entro uno stato istituito su una nozione di giustizia sottratta a ogni relativismo e fondata su una rigorosa conoscenza razionale di che cosa siano ontologicamente il bene e il giusto in sé e per sé. La struttura dello stato giusto Platone instaura una corrispondenza reciproca tra giustizia per lapolis e giustizia per il singolo cittadino. La giustizia è «la virtù insieme dello stato e dell’uomo»: non ci sono cittadini giusti se non in una polis dotata di giusti ordinamenti e orientata al bene, né può esservi una polis giusta se i suoi cittadini non sono giusti. Ogni individuo, non potendo bastare a se stesso, è

spinto a consociarsi ad altri da bisogni diversi e contribuisce alla comune convivenza con capa­ cità differenziate. Associando la divisione fun­ zionale del lavoro, resa inevitabile dalla convi­ venza di soggetti tra loro qualitativamente di­ versi, all’equiparazione (di origine pitagorica) della giustizia con l’armonia e dell’armonia con l’ordinamento gerarchico, Platone ricava due princìpi: uno stato è giusto se vi è ordine

IL PENSIERO POLITICO ed equilibrio tra le sue parti; e si ha giustizia se ciascuno, stando al suo proprio posto, compie per la polis la funzione a lui più consona e congeniale per doti naturali, capacità e inclina­ zioni. Tre classi sociali e tre funzioni dello stato La distinzione dei membri della polis in tre classi funzionali, introdotta nella Repubblica, consegue da quest’ultimo principio. Cosi i la­ voratori dediti all’agricoltura, all’ardgianato, alla mercatura assolvono i bisogni primari del­ la polis. I custodi assicurano la difesa dello stato dai nemici interni ed esterni. Nel gradino più alto i reggitori, i filosofi-re assicurano la funzione di governo. Le «sciagure delle generazioni umane», af­ ferma infatti Platone, cesseranno solo se sali­ ranno al potere «uomini veramente e schietta­ mente filosofi», o se, in alternativa, i capi poli­ tici delle città diverranno «veti filosofi». La scienza del bene offre ai reggitori “filosofi” un criterio di orientamento e ie , diversamente dall'instabile opinione, non deflette davanti al­ la mutevolezza del mondo empirico e può aspirare, come ogni argomento «che vince e convince», all’universale consenso.Il Il ruolo dell’educazione L’educazione ha un ruolo cruciale per il fun­ zionamento e il mantenimento di uno stato giusto: essa deve garantire che le risorse uma­ ne siano finalizzate al bene generale nella mi­ sura più estesa possibile. Di qui il triplice com­ pito dell’educazione: 1. accertare ciò che ogni cittadino è; 2. formarlo in ciò per cui è più versato; 3. indirizzarlo nel modo migliore all’impiego più confacente. A livello primario, sino a che non siano state scoperte, in primissima approssimazione, tali facoltà e disposizioni, l’educazione ha caratte­ re egualitario. Una volta individuata la desti­ nazione di ognuno a seconda della nota domi­ nante della sua anima, subentrano le differen­ ziazioni, dapprima come appartenenza a una delle tre classi, quindi in relazione ai diversi ruoli da assegnare all’interno di ciascuna classe. La formazione di base delle due classi supe­ riori dura sino ai venti anni; rivolta alla totalità delle disposizioni dell’anima e del corpo, ma­ nualità inclusa, s’incentra sulle discipline - gin­ nastica, musica, lettere, scienze - che più im­ primono nel giovane ordine, armonia, amore per la bellezza e senso della giustizia. La fase

più avanzata del cursus studiorum, ancora co­ mune ai due gruppi, s’incentra sulle scienze pure e dura altri dieci anni. Dopo un’ultima selezione, mentre i futuri guerrieri compiono il loro tirocinio, i futuri reggitori completano la loro formazione onni­ comprensiva studiando per altri cinque anni la dialettica. Infine, solo dopo un tirocinio di quindici anni, condotto dai magistrati in carica die li introducono alla vita dello stato, la for­ mazione dei reggitori, ormai cinquantenni, può dirsi compiuta. Lo statista e le leggi Intermedio tra la Repiéblica e le Leggi, il Poli­ tico si premura di definire più puntualmente quali siano le virtù proprie dell’uomo di gover­ no. Come già nella Repubblica, lo statista, equiparato ora a un Tessitore Regale, si con­ traddistingue per competenza nella scienza del bene e misura, per saggezza concreta e capaci­ tà di mediare, gli opposti sino a fonderli felice­ mente in una unità organica e senza smagliatu­ re, Sulla carta queste qualità rendono lo stati­ sta incomparabilmente superiore alle leggi M a poiché lo statista perfetto è solo una figura ideale, Platone è indotto a prestare un’attenzione del tutto nuova alle condizioni empiriche in cui si esercita il governo. Platone non si limita a invitare lo statista a tener conto di leggi, usanze, istituzioni e caratteri concreti di un popolo, e a riconoscere immenso valore alla legge quando si tratta di porre un limite all’arbitrio del potere; le costituzioni empiri­ che non gli appaiono più come la degenerazio­ ne di un ordinamento ideale, ma come il ne­ cessario tributo al carattere finito, condiziona­ to del mondo umano. E appunto la legge è ora alla base della classificazione dei sistemi politi­ ci proposta dal dialogo. La polarità legalità-illegalità consente di distinguere tra sistemi re­ golati e non regolati, conformi o non conformi a un ordinamento costituzionale legale. In se­ conda istanza i sistemi legali e illegali vengono classificati secondo la quantità dei soggetti uno, alcuni, molti - ammessi al governo dello stato. Se al governo è uno solo, si ha monar­ chia nel caso in cui il sovrano è soggetto alla legge, tirannide nel caso in cui regna nel mero arbitrio. Se al governo sono pochi si ha aristo­ crazia quando essi sono anche i migliori, oli­ garchia quando a governare è invece una mi­ noranza usurpatrice senza virtù. Se al governo sono i molti (o tutti), si ha una democrazia moderata o sregolata a seconda che la legalità sia o meno rispettata.

IL PENSIERO POLITICO Nella sua tarda vecchiaia Platone toma, con le Leggi, al tema di una «costituzione umana», che riconosca l’imperfezione umana, lo scarto tra ideale e reale. La guida ideale della polis è affidata a un uomo perfetto e divino per sag­ gezza e rettitudine. Ma, purtroppo, nessun uo­ mo è immune dalla ubris 'e àaH’adilda; nessuno possiede sempre e compiutamente la capacità di discemere il bene per lo stato; nessuno, pur riuscendovi, saprebbe o vorrebbe attuarlo. In mancanza di un governante divino bisogna sot­ tomettersi alle leggi, che sono quanto di me­ glio possa esservi. Almeno in prima istanza Platone non allude alle leggi quali sono empiricamente, soggette alla logica relativistica e contingente di chi è il mero depositario dell’autorità di legiferare, bensì alle leggi come imperativo immutabile e perenne della ragione. Solo in seconda istanza la concreta legislazione prende valore, ove si ispiri il più possibile al modello puro della legge razionale. La situazione migliore è quella in cui un legislatore, ispirato da un «profondo desiderio di condotta ordinata e retta», viene affiancato

da un potere esecutivo forte e accentrato, quale può essere quello di un buon tiranno. Solo in seguito il potere di tipo personale può cedere il passo al potere impersonale delle leggi. Lo stato migliore nelle Leggi è quello imper­ niato su una costituzione mista. Sul modello della diarchia spartana in cui il potere degli a n z ia n i era controbilanciato dal potere degli efori, la costituzione mista vuole mediare tra principio di autorità e principio di libertà Così l’autorità si estende a grado a grado verso il basso, dai 37 nomofilatti ai 360 membri elettivi del Consiglio, fino all’assemblea, in cui sono rappresentati tutti i 5040 proprietari terrieri che godono del diritto di cittadinanza. Senonché questa struttura costituzionale, apparente­ mente aperta alle istanze della democrazia, si rivela essere la mera appendice esecutiva di un sistema teocratico. Al vertice di tale sistema Platone pone un Consiglio notturno, composto da circa cento sapienti votati «al dio che vera­ mente guida quelli che non sono stolti», che si cura, con mano invisibile, di salvaguardare le leggi dall’opera corruttrice dei comuni mortali chiamati a eseguirle.

1.3 Lo stato misto di Aristotele Rispetto alla posizione dell’ultimo Platone, Aristotele, scrivendo la Polìtica che pure parte da ima valutazione limitativa della democrazia, risulta più avanzato. A suo giudizio una democrazia composta da agricoltori può essere compietamente dominata dalla borghesia, giacché la massa popolare ha poco tempo e poca attitudine a intervenire negli affari pubblici. U na forma di democrazia molto diversa si ha invece in presenza di una vasta popolazione urbana, che non solo ha il potere, m a ne usa trattando i pubblici affari nelle assemblee: una democrazia di tal genere è destinata all’illegalità e al disordine. Sostanzialmente non è molto diversa dalla tirannide. Il filosofo colloca questa dinamica sociale nel logos trìpolitikos\ e distingue il governo costituzionale dal governo dispotico in base al principio che il primo mira al bene comune e il secondo soltanto a quello della classe dirigente. Questa distinzione, intrecciata con la triplice classificazione tradizionale, origina tre stati legittimi - monarchia, aristocrazia, democrazia moderata - e tre stati dispotici tirannide, oligarchia e democrazia estremista (o demagogia). Costruita la sua classificazione, Aristotele elabora un concetto che avrà pure lunga vita nella storia delle dottrine politiche: quello dello “stato misto”, che mira a combinare gli elementi di maggiore validità del governo dell’uno, dei pochi e dei molti.

12

G ai]ìlStoria delle dottrine polìtiche

Secondo Aristotele, la monarchia dovrebbe essere la migliore forma di governo, supposto che si possa trovare un re saggio e virtuoso, m a l’ideale monarchico è del tutto accademico. A questo punto egli riprende l’esame della democrazia e dell’o­ ligarchia, cioè delle forme di governo greche, e delinea il tipo di stato misto, distinguendo tre elementi presenti in ogni forma di governo. Primo: l’organo deliberativo, che esercita il potere legale e sovrano in atti quali la dichiarazione di guerra e la conclusione della pace e dei trattati, l’esame delle relazioni dei magi­ strati, la legislazione; secondo: i magistrati e funzionari amministrativi; terzo: il potere giudiziario. D governo migliore consiste in una forma mista di costituzione in cui siano presenti elementi elitari e democratici. L a suabase sociale è fondata su una vasta classe media, composta da coloro che non sono né molto ricchi né molto poveri: un gruppo abbastanza esteso per dare allo stato una base popolare, abbastanza disinteressato per ricoprire le magistrature che implicano responsabi­ lità e abbastanza selezionato per evitare i danni di un governo da parte delle masse. Il principio dello stato della classe media è l’equilibrio tra due fattori: qualità e quantità. H primo si fonda su influenze politiche che derivano dal prestigio di ricchezza, nascita, posizione, educazione; il secondo sulla consistenza del numero. Uno stato che possa combinare questi due fattori avrebbe risolto, secondo Aristotele, i problemi fondamentali della stabilità e dell’ordine sociale. La Repubblica di Platone viene rifiutata per l’abolizione della proprietà privata e della famiglia: ciò che Aristotele definisce stato ideale è sempre lo stato di second’ordine di Platone, del quale egli critica l’incapacità di distinguere l’autorità familiare da quella politica. Aristotele pensa che le donne siano di natura troppo diversa dagli uomini (e inferiori) per essere con loro su un piano di eguaglianza.

IL PENSIERO POLITICO La concezione aristotelica della politica M entre Platone fa della politica u n a scienza fondata sulla conoscenza onto­ logica del bene, Aristotele scinde nettam ente metafisica e politica. “Filoso­ fia delle cose um ane”, la politica non è una scienza assiomatica assimilabile all’impianto deduttivo delle m atematiche; riconosce la relatività delle costi­ tuzioni, delle leggi, delle fan n e di partecipazione alla vita politica; non progetta costituzioni ideali, m a spiega e - quando è possibile e necessario contribuisce a riform are quelle realm ente esistenti; studia, in altri termini, ciò che può e non ciò che deve essere, il contingente e no n il necessario, ciò che l’uomo può attuare com e essere ragionevole e non ciò che può pensare com e essere razionale, un bene propriam ente um ano (onthrópinon agathón) e non un bene ultimo di fatto inattingibile. Una polìtica delle medietà La divergenza con Platone è anzitutto di metodo. Non si tratta di scegliere il modello ideale

in assoluto migliore, ma il migliore possibile in condizioni determinate, il più idoneo a un dato popolo, quello che, anche grazie a in-

13

IL PENSIERO POLITICO tenenti correttivi ben ponderati, si rivela più efficace; la politica può utilmente e costrutti' vamente applicarsi a migliorare, correggere, perfezionare le costituzioni vigenti più che a progettarne o istituirne di nuove. Nel merito, anziché opporre un proprio mo­ dello ideale a quello platonico, Aristotele insi­ ste sullo scarto tra ideale e reale, sull’irrealizzabilità e indesiderabilità del progetto della Repubblica. Platone confonde sfera pubblica e sfera privata, fa venir meno ogni concreta me­ diazione tra il singolo e lo stato, e pretendendo che lo stato attui un’unità assoluta tanto inna­ turale quanto sconveniente, annulla d’ufficio le differenze anziché armonizzarle. Princìpi buoni in teoria possono tradursi in pratica nel loro opposto. Per esempio, la proprietà comu­ ne vuole generare giustizia, partecipazione alla vita dello stato, felicità, prosperità, concordia, virtù pubblica; invece, non essendo di nessuno in specifico, essa genera disinteresse, trascura­ tezza, infelicità, discordia, inefficienza, cattivi costumi. Nella proprietà comune la sola egua­ glianza che si realizzerebbe consisterebbe nel fatto che «tutti allo stesso modo trascureranno tutti». Anziché un’unità assoluta andrà cercata un’unità di grado inferiore, fondata su leggi, educazione e costumi comuni. Questa considerazione fattuale della politica conduce Aristotele a identificare il buongover­ no con la virtù del giusto mezzo. L’uomo ari­ stotelico è un essere per natura socievole, in­ cline a vivere in cooperazione, che sussiste e si realizza appieno solo nella polis; e la polis non è una somma di molecole o un aggregato arti­ ficiale, bensì una piramide naturale, spontanea e autosufficiente di consorzi umani reciproca­ mente interdipendenti, anche se tra diversi e stratificati per tipologia, funzione e complessi­ tà. Come la parte in rapporto all’intero, l’indi­ viduo è comprensibile solo entro i rapporti che instaura con gli altri. La convivenza nella polis non nega o limita l’individualità, ma anzi raf­ ferma e la esalta; e tuttavia l’individuo non si risolve per intero nel cittadino e mantiene una sua autonoma singolarità. L’aiuto reciproco derivante dall’ordinata convivenza consentita dalle istituzioni civili è di mutuo interesse, «in rapporto alla parte di benessere che ciascuno ne trae» in termini di promozione del bene comune e del vivere bene. I tre rapporti imperniati sul pater famiiias, coniugale, genitoriale e patrimoniale, prefigu­ rano altrettanti modelli di autorità politica: il rapporto tra marito e moglie prefigura il go­ verno aristocratico, quello tra padre e figli il

governo monarchico, quello tra padrone e schiavi il governo dispotico. La timocrazia cor­ risponde al rapporto fraterno, basato sull’e­ guaglianza dei diritti reciproci. Nondimeno, lo stato e l’autorità politica (che si esercita su uomini liberi) non sono tout court un’espansio­ ne su larga scala della famiglia e dell’autorità patema. Almeno nelle classi superiori, che so­ no anche classi possidenti, la famiglia, oltre alla procreazione, ha il fine di amministrare il patrimonio - definito economia - e di acquisire ricchezze - definito crematistica. Aristotele riconosce anche la differenza tra stratificazione sociale e funzione politica: il po­ tere politico non è appannaggio di un gruppo sociale dato e non costituisce, come in Platone, un ceto specifico. U n avvicendamento al go­ verno è sempre conveniente, se si vuole che il ■governo non sia monopolizzato da professioni­ sti inamovibili. Neppure i filosofi hanno titoli per rivendicare a sé il potere. Come la vita virtuosa è indeducibile dalla conoscenza teore­ tica della virtù, cosi una buona politica è indeducibile dalla conoscenza teoretica del bene politico. H semplice convincimento razionale non ba­ sta per passare a una prassi coerente: sapere che cosa sia la giustizia o la virtù non rende giusti o virtuosi. Così nella polis aristotelica 3 filosofo si trova a essere superfluo, come era del resto nei fatti, e può al massimo aspirare al ruolo di “consigliere del Principe”. Educazione, virtù chèli e phUia da un lato, disciplina della cittadinanza, dominio della legge e giustizia dall’altro sono i fondamenti, culturali e istituzionali, della concordia nella polis. In accordo con la tradizione della paideia classica, l’educazione a tutti comune è al cen­ tro delle cure del legislatore: promossa dallo stato ma integrata in ambito familiare, con 3 suo carattere polivalente e non settoriale l’e­ ducazione forma e preserva la virtù pubblica, Vethos chèle che & da collante alla polis. Pru­ denza, moderazione e saggezza pratica (phronesis) sono le virtù proprie di chi comanda; obbedienza, rettitudine e temperanza quelle di chi è governato; giustizia, coraggio e autocon­ trollo quelle comuni agli uni e agli altri. Gli assetti costituzionali possibili Ma veramente cruciale per 3 destino di uno stato è 3 suo assetto costituzionale, inteso co­ me l’ordinamento e la distribuzione deUe varie magistrature, in particolare de3a suprema au­ torità dello stato. L a grande varietà di sistemi

14

IL PENSIERO POLITICO costituzionali si deve da un lato alla varietà dell’ambiente naturale, economico e sociale, dall’altro alla pluralità dei soggetti che costitui­ scono la polis e ai diversi rapporti di forza che essi instaurano tra loro. Rispetto alla classificazione dei regimi costi­ tuzionali data da Platone, Aristotele conferma la distinzione, in base alla quantità delle perso­ ne ammesse al governo, di tre costituzioni be­ ne ordinate e di tre corrispondenti degenera­ zioni, e mantiene le coppie monarchia-tiranni­ de e aristocrazia-oligarchia; ma in luogo del governare o non governare nel rispetto delle leggi, adotta come discriminante il governare o non governare in vista del bene pubblico, e sostituisce la coppia democrazia-demagogia con la coppia po/itei'a-democrazia. Dì fatto poi Aristotele corregge la distinzione in base al numero dei detentori del potere con un crite­ rio sociale, e definisce l’oligarchia un dominio in favore dei ricchi (che potrebbero essere in maggioranza) e la democrazia un dominio in favore dei poveri (che potrebbero essere in minoranza). La politela, cui va in larga parte la simpatia di Aristotele, è una costituzione mista simile a una repubblica moderata, che compe­ netra i meriti ed esclude i difetti delle altre forme di governo. Essa unisce il principio democratico del go­

verno della maggioranza con il principio ari­ stocratico del merito, e persegue fi bene comu­ ne con moderazione e misura, mediando tra ricchi e poveri, in modo da mantenere la pace sociale e la concordia civile. Ogni costituzione si articola poi in più sotto­ gruppi: cinque ciascuna per monarchia e de­ mocrazia, quattro ciascuna per oligarchia e ari­ stocrazia, tre per la tirannide. Tra le monar­ chie, a un estremo vi è la monarchia assoluta, fondata sulla sovranità di un singolo che go­ verna lo stato come fi pater fam ilias governa la casa; all’altro troviamo la monarchia laconica, fondata su un comando militare vitalizio ri­ stretto a una famiglia. Forme intermedie sono la monarchia dei tempi eroici, fondata sul cari­ sma del capo, il despotismo ereditario vigente tra i barbari e la tirannide elettiva. Le demo­ crazie possono essere a base egualitaria, quan­ do ricchi e poveri sono posti sullo stesso piano, o censitaria, quando le cariche dipendono dal censo; e ancora possono essere costituzionali, quando sovrana è la legge, o assembleati, quando la sovranità, di cui sarebbe titolare l’assemblea, è nelle mani dei demagoghi. La democrazia più stabile ed equilibrata è quella censitaria e costituzionale, perché non lascia spazio agli avventurieri trite spadroneggiano sui sentimenti del popolo.

1.4 I partiti, la rappresentanza, le donne I commentatori posteriori si sono richiamati a Platone e a Aristotele per questi concetti fondamentali. M a in genere sono stati trascurati nei due fondatori del pensiero politico occidentale tre elementi fondamentali: 1. un aspetto che ne accentua l’attualità (il molo delle aggregazioni politiche che poi saranno i partiti); 2. il rilievo di una carenza in tutto il pensiero politico antico (il concetto di mandato e di rappresentanza); 3. la possibile influenza di una anteriore cultura minoritaria che traspare dalla valutazione della donna. Le fazioni sono il punto di partenza della critica di Platone alla democrazia: sono la violenza e l’egoismo estremo delle lotte di parte, che possono talora far sì che una fazione preferisca l’utile proprio a quello dello stato..L’aristocratico propende per una forma di costituzione oligarchica, l’uomo di umili origini per una costituzione democratica ed entrambi sono disposti ad allearsi con i loro omologhi di altri stati. Sparta, oligarchica nella sua forma di governo, cercava l’aiuto dei partiti oligarchici di tutte le città che erano entro la sua sfera d’in­

La democrazia greca e l’impero romano

fluenza. Atene appoggia i partiti popolari. Questo spirito fazioso è una delle cause fondamentali della instabilità di governo. Platone attribuì gran parte dello spirito di fazione alla differenza di interessi economici: il ricco h a interesse a proteggere i suoi averi e a incassare i suoi crediti a qualunque prezzo per il povero, quindi sostiene un governo oligarchico di benestanti. Il democratico è incline a mantenere i cittadini indigenti a pubbliche spese, con denaro, cioè, preso ai benestanti. Così persino nelle città più piccole esistono due città, la città del ricco e quella del povero, in guerra tra loro. Questa situazione è così preoccupante che Platone considera inevitabili le lotte di fazione a meno che non intervenga un profondo mutamento dell’istituzione della proprietà privata, sino alla sua abolizione completa. Aristotele ritiene che tale rimedio radicale possa essere sostituito, nel suo “stato misto”, dall’equilibrio di forme istituzionali che garantiscano i diversi gruppi socialL Né Platone né Aristotele pensano a un equilibrio dei rapporti tra le classi in termini di regole del gioco tra i partiti, trasformabili da fazioni incontrollabili in associazioni volontarie istituzionalizzate, volte a organizzare la rappresentanza. Naturalmente il concetto di partito è usato in senso lato. H rapporto tra le aggregazioni della polis e i partiti moderni deve essere visto alla luce di quanto sarà detto nel capitolo 11. Ma è significativa la contrapposizione delle “due città” che sarà ripresa nel x k secolo dal grande uomo politico inglese Disraeli, prota­ gonista del periodo di sviluppo dei partiti moderni. Il pensiero politico greco non elabora il concetto di rappresentanza, perché la dimensione della città-stato non è orientata in tale senso in quanto l’estrazione a sorte è ritenuta la migliore garanzia dell’eguaglianza politica. Tutti gli storici delle dottrine politiche mettono in luce lo stretto rapporto tra i limiti di quel pensiero politico e le dimensioni della città-stato, m a non sottolineano che il più significativo di questi limiti è appunto la non necessità di dare al concetto di rappresentanza uno sviluppo organico. Esso rimane confinato, per quanto ri­ guarda l’esperienza pratica, alla formazione delle liste dei rappresentanti dei demoi di Atene, nell’ambito dei quali avviene l’estrazione a sorte per le cariche pubbliche (a eccezione dei responsabili m ilita ri che vengono eletti: stratego e •comandante della cavalleria; Pericle era appunto stratego). A livello teorico né Platone, né Aristotele pensano alla rappresentanza. Si può notare che i greci eleggono (senza estrazione a sorte) proprio chi coprirà quei ruoli (comandi militari) che la democrazia rappresentativa sottrarrà al criterio della designazione popolare. Nelle “democrazie” di modello ateniese la gestione statuale della violenza istituzionalizzata è sottoposta al controllo “popolare” mediante elezione (e sostituzione periodica). Nello stato moderno della democrazia rappresentativa tale gestione (che diviene monopolio in via di principio) è gestita da “specialisti” che sono controllati solo indirettamente (e nei limiti del segreto di stato) dai rappresentanti (parlamentari). È una eredità del concetto di Erodoto (attraverso Dario) secondo il quale solo a un potere non

Galli/Storia delle dottrine politiche

controllato (monarchia) «sarebbero tenute segrete al massimo le deliberazioni contro i nemici». Si tornerà su ciò nel capitolo 12. Il terzo punto concerne il contributo specifico di questa trattazione, general­ mente assente nella storia delle dottrine politiche. Già nei testi citati il ruolo della dorma è oggetto di riflessioni che possono apparire curiose. Erodoto (attraverso Otane) rileva che anche il migliore degli uomini, divenuto re, non solo «mette a morte senza processo», ma «sovverte i costumi e usa violenza alle donne». Nella trattazione di Platone, alle donne è assegnato un ruolo ambiguo. Se appartengono alla classe dirigente, hanno una educazione paritaria e possono ricoprire cariche pubbliche (ma dopo i quarant’anni; quando in ipotesi la loro sessualità è ridotta). Ciò nella utopica Repubblica; nelle Leggi le donne sono citate per im a concezione “disordinata” della religione, dettata dal loro isteri­ smo. E Sabine, tanto equilibrato nei commenti, quando Platone critica implicita­ mente la posizione della donna che ad Atene bada solo alla casa e ai figli, osserva alquanto arbitrariamente che «la prassi ateniese corrisponde alla vera natura femminile».7 Con Aristotele l’ambiguità h a fine. La donna non ha personalità politica (e si dubita abbia l’anima), la sua inferiorità è codificata, tanto che viene paragonata allo schiavo (la schiavitù è l’eccezione alTisonomia e anche all’atipico “comuni­ Smo” platoniano). Che Aristotele, meno “antidemocratico” di Platone, codifichi la diseguaglian­ za anche politica della donna e la sua posizione di “dorma di casa” subalterna, suggerisce un confronto con la seconda grande fase della fondazione teorica della democrazia dopo quella greca: il pensiero inglese del Seicento per il quale si rinvia al capitolo 4. L’autoritario Hobbes ha ancora problemi con la donna; pur ipotizzando lo stato patriarcale, la considera signora della casa, accenna alle sue pratiche da “strega”. Vi è un’eco di tensioni, come probabilmente vi è nel Platone delle “custodi” ultraquarantenni, che rievoca nel Timeo una Atlantide con posizione direttiva della donna che accenna agli ermafroditi di un indefinito passato. In Locke, fondatore del pensiero liberale classico e precursore della liberaldemocrazia, l’eco delle tensioni recenti (le “streghe”) svanisce, la subalternità della donna è data per scontata, esattamente come avviene per Aristotele. La sua posizione è chiarissima per il contemporaneo Pierre Vidal-Naquet, ostile all’ipotesi del ma­ triarcato (un supposto periodo storico a egemonia femminile) e nello stesso tempo studioso del retroterra teorico della democrazia ateniese, tanto da attribui­ re al suo fondatore, distene, simmetrie urbanistico-geometrico-politiche.8 Scrive dunque Vidal-Naquet: «Che vi fosse un legame tra il destino delle

7 , Ibid. 8. L a valutazione di d is te n e è in P . L eveque, P. VfdalN aquet, Geometria, scultura e politica: lo spirito geome-

metrico, in I presocratici, a

c u ra di W . Leszl, il M ulino, Bologna 1982, pp. 209 sgg.

La democrazia greca e l’impero romano

donne e quello degli schiavi almeno un greco l’ha detto: Aristotele per il quale l’opposizione tra padrone e schiavo da mia parte e maschio e femmina dall’altra sono dello stesso ordine dell’opposizione tra corpo e anima, tra chi comanda e chi è comandato.»9 La preoccupazione per il ruolo della donna compare dunque all’origine della storia delle dottrine politiche da Erodoto ad Aristotele. Non è dunque impropo­ nibile l’ipotesi che vi sia un legame tra l’organizzazione delle dottrine politiche e loro storia e il rapporto uomo-donna. È proprio in quello che poi sarebbe stato definito «il miracolo greco» ne abbiamo una traccia nel teatro e nella terminolo­ gia del matriarcato, campi di indagine indubbiamente collegati, come è stato suggerito nell’introduzione. Nel toccare questo tema, il metodo qui usato è quello definito scientifico, nel senso che ricerca analogie di situazioni da cui trarre criteri interpretativi. La possibile analogia è data dal fatto che i momenti di forte istituzionalizzazione nella cultura politica occidentale sono accompagnali da manifestazioni di una “cultura” diversa, non istituzionalizzata; per questa trattazione il riferimento è alla fondazio­ ne della democrazia greca, cui corrisponde l’esperienza dionisiaca; quello della grande chiesa medievale, cui corrisponde la “eresia” gnostica; quello della fonda­ zione della rappresentanza democratica, cui corrisponde la “stregoneria”. È questo uno schema concettuale facile da contestare, come tutti quelli prodotti dalla cultura citata, dal «progresso» di Comte, dalla «dialettica delle classi» di Marx, al rapporto tra religione e sviluppo economico di Weber. Uno schema, comunque, la cui provvisorietà può essere utile alla comprensione di fenomeni sin qui solo frammentariamente percepiti: culture alternative legate da elementi di continuità, che hanno svolto un molo nella storia delle dottrine politiche occidentali secondo un meccanismo che, con Toynbee (altro costruttore di schemi confutabili), può essere definito di «sfida e risposta» (sfida della cultura anti-istituzionale, risposta di una sofisticazione della istituzionalizzazione).10 È noto che 1’esistenza di una civiltà matriarcale è stata contestata dalle scienze

9. P. Vidal-N aquet, Schiavitù e ginecocrazia nella tradi­ zione, nel mito e nelVutopia, in Schiavitù antica e moder­ na, a cura di L Sichirollo, G uida, N apoli 1979. 10. N el perìodo del “m iracolo greco” lo schem a è riem pito dalla “risposta” d ella dem ocrazia ateniese alla “sfida” della cultura dionisiaca. L ’eco n e p erm a n e nel teatro, nei suoi classici spesso citati anche nella storia delle culture politiche. H rap p o rto tra qu esta cultura e u n a supposta fase sociale m atriarcale em erge d a u n a analisi di quella scuola di F rancoforte in d o tta a riflet­ tervi p roprio dalla crisi della dem ocrazia rappresentati­ va degli anni T renta che trova la sua espressione più “tragica” n el nazismo. E rìch From m , nel suo saggio II mito di Edipo, in II linguaggio dimenticato, Bom piani, M ilano 1962, ripren­ d e l’analisi di B achofen p e r in te rp re tare la trilogia di E dipo e afferm a a pp. 188 e sgg.: «[.„] la lo tta contro

l’autorità p a te m a c e costituisce il fulcro e affonda le sue radici nell’antico conflitto tra il sistem a di società patriarcale e quello m atriarcale. [...] N el suo Diritto materno, B achofen avanza l’ipotesi che all’inizio della storia u m an a le relazioni sessuali fossero senza no rm a alcuna e che perciò soltanto la p aren tela con la m adre fòsse indiscutibile: la m ad re governava il nucleo fam i­ liare e quello sociale. [...] N el corso di u n lungo proces­ so storico gli uomini sconfissero le donne, le sottom ise­ ro e riuscirono a diventare i dom inatori di u n a g erar­ chia sociale». A loro volta I h . A d o rn o e M . H orkheim er, in Dialettica dellillummismo, Einaudi, T orino 1962, afferm ano che il passaggio dal m atriarcato al patriarcato è sintetizzato dalT«aw ento della religione olim pica (col) dio degli eserciti al p osto della g ran d e m adre».

Galli/Stona delle dotti-ine politiche

sociali dominanti. Dalla sua teorizzazione deriva il dato, accettabile, che riman­ gono tracce, nella tradizione e nel mito attraverso il teatro, di una cultura a forte presenza femminile, in cui per Io meno non si affermava l’inferiorità della donna nel sistema politico, culminata nell’identificazione aristotelica della donna con lo schiavo. I citati riferimenti di Platone all’Atlantide e all’ermafroditismo (come pure l’accenno a forme religiose “isteriche” proprie delle donne) sono leggibili come persistenze di quella tradizione.

1.5 Roma tra repubblica e principato Questi tre elementi di riflessione sulle dottrine politiche della città-stato (ruolo dei partiti, assenza di rappresentanza, ruolo della donna) sono possibili anche per Rom a fino a che rimane una città-stato, dai sovrani (mitici come quelli di Atene) alla repubblica consolare e senatoria del primo periodo. Quando la città diviene un impero, maturano elementi con esperienze embrionali di rappresen­ tanza: i partiti, le campagne elettorali. Ma non si sviluppa una teoria politica che tragga da queste esperienze embrionali una dottrina (in ipotesi: quella della rappresentanza per la formazione di un organo legislativo). Ne consegue, nella fase di organizzazione del sistema politico dello stato non più città, m a impero, una guerra civile permanente. La crisi sfocia nella fondazione di un sistema imperiale i cui principi di legittimità politica sono permanentemente in discussione, salvo che nell’età degli Antonini (da qui la persistenza della guerra civile; il tentativo d’individuare un sistema che la eviti, problema che si svilupperà da Machiavelli ai “politici” francesi, a Hobbes, a Locke). L a fase di transizione dalla repubblica alla monarchia militare rappresenta la trasformazione di un sistema politico in un altro. Il periodo può essere presenta­ to in termini di lotte tra partiti che riprendono lo schema di quelle che travaglia­ rono le città-stato dell’esperienza ellenica. Ci si può avvalere della classica trattazione di Mommsen. Egli vede i partiti come proiezione della dinamica socio-economica, espressione di interessi orga­ nizzati (l’aristocrazia senatoria, i cavalieri, il proletariato), che danno luogo sin dai giorni del contrasto tra i Gracchi (avanzati) e il senato (moderato) ai due schieramenti dei progressisti e dei conservatori. Essi competono con la violenza, dall’assassinio di Tiberio Gracco sino agli scontri delle legioni: Mario contro Siila, Cicerone contro Catilina, Cesare contro Pompeo, Augusto contro Antonio. Come frequentemente nelle fasi di transizione da un regime a un altro, i ruoli dei singoli mutano. Catilina inizierà la sua cam era come seguace di Siila, leader armato del partito senatorio, prima di diventare il più estremista tra i capi del partito democratico. Al contrario Pompeo, già sfilano, si alleerà prima con i democratici per ottenere poteri straordinari (le leggi proposte dai tribuni Aulo Gabinio e Caio Manilio) per poi divenire leader del partito senatorio.

La democrazia greca e l’impero romano

L’intreccio tra meccanismo legislativo senza rappresentanza (il potere legisla­ tivo è sostanzialmente del popolo in assemblea, come nelle città-stato) e crisi della repubblica quando i due partiti diventano organizzazioni armate, è descrit­ to da Mommsen nella fase decisiva, che vede delinearsi la vittoria del partito democratico che passa dall’opposizione al governo: «Le proposte di Gabinio e Manilio - scrive Mommsen - misero fine alla lotta tra il senato e il partito popolare alla quale avevano dato origine sessantanni prima le leggi sempronie (proposte dai Gracchi). Come le leggi sempronie avevano organizzato per la prima volta il partito della rivoluzione in opposizione politica, così questo passò con le leggi gabinio-manilie dall’opposizione al governo. U n giovane dotato sotto ogni rapporto di nobili sentimenti (Caio Gracco) aveva iniziato la rivoluzione; essa fu terminata da audaci intriganti e da demagoghi della più bassa sfera. E ra avvenuto ciò che una volta sembrava un sogno temerario: il senato aveva cessato di governare. La caduta dell’aristocrazia era un fatto compiuto. Ma mentre l’antica lotta inclinava alla fine, già se ne profilava una nuova: la lotta tra le due potenze, alleate sino allora per combattere il governo aristocratico, l’opposizione democratico-civile e la forza militare».11 In realtà, entrambi i partiti, il progressista e il conservatore, dispongono della forza delle legioni. Il principato (l’impero) porrà fine alla lotta con la sostituzio­ ne del potere monarchico alla democrazia dello stato-città, non più all’altezza di gestire un territorio di grande estensione. Senza rappresentanza, i partiti diven­ gono organizzazioni militari e poi si dissolvono sotto un potere autoritario. Questa la natura della crisi che il pensiero politico romano non còglie, come chiaramente emerge dalla sintesi del pensatore più rappresentativo dell’epoca di transizione, Marco Tullio Cicerone. Cicerone non poteva analizzare le condizioni di funzionamento di quella che si sarebbe poi definita sovranità popolare in uno stato di vaste dimensioni. La res publica, non più città-stato, non divenne Commonwealth (termine e modello inglese del xvn secolo), ma “impero” fondato su un principio di quasi-legittimità prodotto da una anormalità. I due termini (quasi-legittimità e anormalità) sono propri di due studiosi del pensiero politico necessari per capire le fasi di transi­ zione dalla democrazia all’autoritarismo: Guglielmo Ferrerò e José Ortega y Gasset. Come Marx per l’espressione «lotta di classe», Ferrerò è debitore del termine «quasi-legittimità» ai pensatori della monarchia orleanista: questa: «non era né la monarchia legittima di Luigi xv né la monarchia illegittima di Napoleone. E ra una monarchia quasi legittima. La definizione fu attribuita a Guizot, che se ne schermiva». Ereditato il termine, Ferrerò osserva nel suo libro Potere: «il più famoso degù stati quasi, legittimi fu l’impero romano».12 E nell’altro testo,

UL Th. M om m sen, Storia di Rom a, R om a 1936, V II, cap. 2, “Caduta dell’oligarchia e predom inio di Pom peo”.

12. G. F errerò , Potere,’ SugarCo, M ilano 1981, cap. 14, “D ella quasi legittimità”.

20

Galli istoria delle dottrine politiche

Grandezza e decadenza di Rom a, ipotizza che la quasi-legittimità - comportante la difficoltà di definire un successore legittimo nella carica di imperatore - fu una delle ragioni del declino del grande stato derivato dalla città-stato della cultura elleno-romana. A sua volta Ortega y Gasset - che aveva elaborato contemporaneamente a Toynbee una concezione tipo “sfida-risposta” e che ne critica l’applicazione da parte dello storico inglese —così scrive in Una interpretazione della storia universa­ le: «Lo stato che chiamiamo impero romano trae le sue origini da una istituzione tanto transitoria, tanto eventuale quale fu l’istituzione imperiale, ima istituzione che è un incarico anormale e transitorio che assume rilevanza solo e mentre la situazione lo esige: l’“imperatore” non era un magistrato, era anzi, in un certo senso, il contrario, colui a cui è stato affidato il compito di eseguire l’operazione chirurgica che si chiama guerra. [...] Augusto, quando volle fondare per la prima volta la nuova autorità imperiale, cosciente dell’iperestesia dei romani per il diritto e p er i fondamenti legali di ogni attività pubblica, cercava di appigliarsi, per consolidare il suo esercizio di un potere tanto insolito, alle due istituzioni più marginali, più stravaganti ed anormali esistenti nel diritto pubblico romano: il tribunato della plebe e Yimperium militiae, il comando dell’esercito. Uimperator, colui che comanda, aveva potere di vita e di morte sui suoi soldati, un potere che nessuno deteneva all’interno dell’urbe; non era un magistrato; era anzi, in un certo senso, il contrario; potremmo definirlo un incaricato, una persona a cui sia stato affidato il compito di eseguire una bisogna, ossia l’operazione chirurgica che si chiama guerra. Anche il tribuno della plebe non era un magistrato, e neanche qualcosa di poco meno; il tribuno della plebe era l’istituzione più eteroclita, più originale ed irrazionale che sia mai esistita. Il tribuno non poteva fare niente; poteva solo impedire, proibire, vietare. E ra il “disturbo” consacrato come istituzione, consacrato formalmente, perché, in effetti, la persona del tribuno era sacra. Questa istituzione tanto eteroclita e irrazionale si rivelò tra le più efficaci che mai si siano viste, dato che, a parte gli impareggiabili contributi che diede alla R om a repubblicana, fu, unitam ente all’imperator, il cemento che servì a consolidare lo stato più illustre degli annali dell’umanità: l’impero romano».13 In realtà, nella crisi di transizione che si è detta, il tribuno poteva non solo impedire, ma fare proposte di legge nel senso descritto da Mommsen: «Si vide in modo manifesto quanto fosse guasto il meccanismo della costituzione romana: giacché il potere legislativo, quanto all’iniziativa, si trovava nelle mani di qualsia­ si demagogo e quanto alla decisione in quelle di una moltitudine inesperta».14 Al di là dei giudizi di valore, si può dire che il tribunato della plebe era ima opposizione che non poteva mai diventare governo, diversamente dalla opposi-

13. J. O rtega y G asset, Una interpretazione della storia universale, SugarC o, M ilano 1978, Lezioni IH e IV.

14. Th. M om m sen, op. cit

La democrazia greca e l’impero romano

zioné del futuro Commonwealth: pei questo Ortega y Gasset parla di «disturbo istituzionalizzato». Di fatto il tribunato esercitava una funzione propulsiva sul potere legislativo attribuito al popolo, tanto che leggi decisive come quelle citate (sempronie, gabinio-manilie) prendono nome dai proponenti non dotati di pote­ re legislativo. In conclusione, «lo stato più illustre negli annali dell’umanità» nacque da una crisi istituzionale derivata da una assemblea non elettiva e non dotata di potere legislativo, m a che gestiva lo stato (il senato); da un potere legislativo nominal­ mente del popolo, ma spesso esercitato da una opposizione che non poteva divenire governo (il tribunato della plebe); e da partiti non istituzionalizzati, che si trasformarono in macchine militari. H pensiero politico romano non analizzò questi meccanismi e la soluzione della crisi emerse dalla semilegittimazione del potere militare dell’ultimo vincitore delle guerre civili (il principato augusteo). La carenza di pensiero politico nei secoli del principato - le storie delle dottrine politiche segnalano Seneca, Plinio il Giovane, Dione Crisostomo, i cui contributi sono banali - esprime la difficoltà di analizzare un a situazione di quasi legittimità, che si traduce in pratica (salvo che nel periodo aureo degli Antonini) in una sorta di guerra civile permanente tra i capi delle legioni aspiranti all’impero. Seneca è stato l’ideologo del principato neroniano; e Marco Aurelio scrive i suoi Pensieri impregnati di un’etica che gli fa vivere il potere come un peso, mentre lo sta per lasciare al figlio Commodo con.il quale si istituzionalizza la guerra civile permanente: sono indici del fatto che alla carenza di pensiero politico corrisponde una situazione istituzionale che porterà l’impero dalla quasi legittimità, basata sulle legioni, al comando militare, quale unica fonte della carica suprema; l’impero crolla come la repubblica quando le armi sono il solo criterio di selezione della classe politica. L’espressione e il concetto di classe politica sono elaborazione di uno dei maggiori studiosi delle dottrine politiche, Gaetano Mosca. Nello stesso periodo, Vilfredo Pareto elabora la teoria delle élites e della loro circolazione. Questi concetti - trattati specificamente nel capitolo 9 - sono di grande utilità per comprendere le vicende dell’impero di Roma, nel senso che selezione e circola­ zione della classe politica affidata solo alle armi e quindi nonnata solo dalla forza, sono elementi di grande instabilità per il sistema. Non si tratta soltanto dell’assenza di regola per la successione imperiale messa in luce da Guglielmo Ferrerò, con l’eccezione per il periodo degli optimi principes tra il 96 e il 180 d.C. (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, con adozione del successore sino al figlio di Marco Aurelio, Commodo, con il quale la regola viene meno). Si tratta, più in generale, del rapporto tra suprema autorità (Vimperator, appunto) e la classe politica che amministra l’im­ pero e che ha come punto di riferimento il senato. Per quanto concerne il primo problema (carica imperiale) la situazione è riassunta da questi dati: tra la morte di Augusto (14 d.C.) è quella di Costantino che divide l’impero in oriente e occidente (337 d.C.)' si succedono cinquanta

Galiì!Storia delle dottrine politiche

imperatori (51 se si aggiunge Lucio Vero che dal 161 al 169 è formalmente in carica insieme a Marco Aurelio). Cinquanta imperatori in 324 anni danno una durata media della carica poco superiore ai sei anni. Se però si sottraggono gli 84 anni dei cinque optimi prìncipes abbiamo 45 imperatori in 240 anni e la media scende a cinque. M a accanto a punte alte (i 31 anni di Costantino, i 19 di Diocleziano, i 18 di Settimio Severo e Galerio), si hanno sino a cinque imperato­ ri nell’anno 238 (Massimino, Gordiano i, Gordiano n, Balbino e Pupieno) e quattro nell’anno 69 (Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano). Chiaramente è una situazione di grande instabilità, ulteriormente evidenziata dal fatto che nei cinquantanni prima di Diocleziano (235-284) i diciotto impera­ tori che si succedono vengono tutti deposti e per lo più uccisi, cioè sostituiti con la violenza, in un mezzo secolo che gli storici definiscono di “anarchia militare”. Per quanto riguarda il secondo problema - i rapporti tra imperatori e senato come punto di riferimento della classe politica - va notato che il periodo degli optimi prìncipes è anche quello in cui tali rapporti sono buoni e l’impero dispone di una élite di governo. Nerva era stato scelto dal senato ed è significativo che i soli pensatori politici segnalati siano appunto di questo periodo: Plinio il Giovane che pronuncia il “Panegirico” del princeps (cioè di Traiano) davanti al senato proprio nell’atto di essere eletto console per l’anno 100 e Dione Crisostomo che parla davanti a Traiano nello stesso senso: al principato si arriva p er merito (attraverso l’adozio­ ne), e l’istituto è conciliabile con la libertà. I tentativi di stabilizzare l’istituzione imperiale con una precisa norma di successione e di n o m a re la circolazione della classe politica (proseguiti con la tetrarchia dioclezianea) comunque non riescono; e l’insicurezza generale della classe politica (di cui è espressione la morte violenta di tanti imperatori) è sintetizzata in questa frase di una Storia romana (ci si riferisce a Commodo che pure governò dodici armi, ma è generalizzabile salvo che per i periodi indicati): «H principato venne turbato da congiure e voci di congiure. Ciò ebbe l’effetto di provocare una pioggia di denunce e di condanne a morte. Date queste condizioni di abituale insicurezza, il modo migliore per proteggersi fu, per coloro che doveva­ no vivere attorno all’imperatore, quello di cospirare sul serio contro la sua vita. Commodo venne strangolato nel bagno da un atleta appositamente assoldato».15 La quasi legittimità dell’impero finisce per sfociare in un’assenza di regole, che provocherà rautodistruzione delle élites che lottano per sopravvivere in assenza di garanzie di sicurezza. È un dato importante se si pensa che proprio ilconseguimento della sicurezza non solo per i governanti ma anche per i governa­ ti sarà al centro della svolta del pensiero politico moderno con Hobbes (per il quale il non saper garantire, appunto, la sicurezza generale è la sola causa che fa perdere al Leviatano il diritto all’obbedienza assoluta). 15. M . Caiy, H .H . Scullard, Storia romana, D I, H principato e l'impero, il M ulino, Bologna 1983.

La democrazia greca e l’impero romano

In sintesi, «lo stato più illustre degli annali dell’umanità» non riuscì a risolvere il problema delle regole del gioco che ne garantissero il funzionamento in condizioni di stabilità. Non si intende con questo indicare l’ennesima causa determinante del declino dell’impero. Questo problema è stato affrontato nei modi più diversi. Vi è chi vi ha visto un fenomeno del tutto naturale, poiché gli stati universali nascono, crescono e muoiono come tutti gli organismi viventi (Toynbee). Vi è chi del declino ha suggerito le cause più varie, da quelle economiche che non avrebbero consentito al capitalismo antico di anticipare quello moderno, all’uso di suppellettili di piombo, la cui lenta assimilazione avrebbe nuociuto alla salute dei romani. Al di là di queste interpretazioni, il fatto che qui si vuole m ettere in rilievo è che il pensiero giuridico romano, tanto giustamente celebrato per il contributo permanente dato all’elaborazione del diritto privato, ha costruito un diritto pubblico mancante del dato basilare del principio di legittimità dello stato inteso come autorità politica. L’osservazione può sembrare sorprendente dopo tutti gli studi dedicati a questo settore giuridico, con il contributo ancora una volta decisivo di Mommsen nella sua Storia del diritto pubblico romano. M a appaiono del tutto convincenti le analisi di Ortega y Gasset, che pur definisce quest’opera «insostituibile e mai superata» ma colloca tale giudizio in quella che è una delle sue più lucide esegesi, che conclude con questa considerazione: «Ho l’impressione che la storia dell’impero romano debba ancora essere raccontata e che la realtà che esso rappresenta non sia stata ancora compresa. Mommsen, uno dei pochi geni che annovera la scienza storica e al quale tributo un culto fervido, h a fermato la sua storia romana al momento di doverlo affrontare. Mommsen, che h a compreso in modo magistrale la Roma repubblicana, ha sofferto di cecità per questa nuova e strana fisionomia storica che è l’impero romano ad un punto tale che neanche in quello che rappresenta la sua specialità, lo studio del diritto e delle istituzioni, è riuscito a m ettere in chiaro la figura statale del nuovo corpo politico».16 Per questa intuizione di Ortega y Gasset, traggo proprio dalle pagine della sua Interpretazione della storia universale l’analisi del potere imperiale e del suo contenuto, a conclusione della quale egli ne precisa l’origine nel tribunato della plebe e nell’imperium militiae del quale si è detto nel testo. In ambito propriamente politico, la quasi legittimità prospettata da Ortega y Gasset, la mancanza di norme di successione sottolineata da Ferrerò, la cattiva amministrazione e gestione delle risorse attraverso la fiscalità (no taxation without control, niente imposte senza controllo, sarà il motto delle rivoluzioni parla­ mentari borghesi per risolvere il problema), sono certamente concause del processo di progressiva degradazione delle istituzioni imperiali. Ma, appunto, non si intende qui suggerire che la instabilità politica fu la causa 16. J. O rtega y G asset, op. ciL

Galli/Storia delle dottrine politiche

della “caduta” dell’impero romano. Fu certamente un elemento negativo al funzionamento del sistema, e contribuì al suo logoramento e poi alla sua scom­ parsa come entità statuale nel periodo delle “grandi migrazioni di popoli” (quélle che in Italia vengono definite “invasioni barbariche”). Così come la città-stato in cui fu elaborato il ricco pensiero politico greco, anche lo stato imperiale, in cui si sviluppa il povero pensiero politico romano, conclude la sua vicenda senza una riflessione dottrinaria che colga alcune sue caratteristiche politiche. Nato da dove le città elleniche erano finite (le lotte di partiti non istituzionaliz­ zati, l’incertezza della funzione legislativa), l’impero finisce anche per spossatez­ za di una classe politica che non aveva altra regola del gioco se non l’esercizio della forza. Le legioni che avevano fatto della città-stato un impero universale legittimato con l’elezione del loro capo, (imperator), lo distruggono marciando su Rom a per insediarvi i loro condottieri, lasciando sguarniti i valli e le frontiere, «gigantesche macchine di sterminio gettantisi le une contro le altre nelle lotte della guerra civile»,17 come scrive Ferrerò per gli ultimi anni repubblicani, espressione che vale anche per quasi tutti quelli imperiali. E la guerra civile sarà anche la caratteristica del Medioevo che sta per iniziare, pur dopo quella che lo stesso Ferrerò definisce «la grande umanizzazione e smilitarizza­ zione dell’Occidente compiuta dal Cristianesimo».18 Sarà - la guerra civile - ancora il problema di Thomas Hobbes nel xvn secolo e di Cari Schmitt nel xx. 17. G . F errerò ,

op. cìt.

18.

Ibid.

IL PENSIERO POLITICO La filosofia politica in età ellenistica e romana Epicureismo, scetticismo e stoicismo si affermano in concomitanza con il declino dei valori delle città-stato e l’ascesa delle monarchie ellenistiche. Il loro successo si deve in particolare alla crisi della religione civica, alla scissione tra morale privata e morale pubblica ufficiale, al distacco tra il cittadino e un apparato di potere burocratico-militare sem pre più astratto e lontano, alla conseguente perdita di ruolo per i ceti intellettuali. In questa fase di transizione le dottrine politiche riflettono ancora orientamenti e temi dell’epoca classica, m a in una chiave spesso accademica, priva di presa sulla realtà: così è per esempio p e r la teoria della costituzione mista di Dicearco. M a in genere la politica tende a perdere le sue specificità, per ridursi a un semplice corollario dell’etica. Epicuresimo, scetticismo e stoicismo «Vivi appartato»: questo precetto ben riassu­ me l’atteggiamento politico degli epicurei. Se in nessun modo il mondo ernie e sociale è

riducibile a ordine e razionalità, il saggio non può che ritrarsi dalla politica. La società - il governo politico, l’assetto sociale, la formazio­ ne delle élites dirigenti - appare neutrale ri-

25

IL PENSIERO POLITICO spetto alla felicità che non ha fondamento so­ ciale ma nasce dalla virtù, è individuale e non collettiva. Come spazio tipicamente umano la polis fa posto al kepos, al giardino, il luogo della socialità e dell’amicalità solidali. Le fini­ zioni della polis si riducono a compiti di prote­ zione: essa deve garantire la pace e quel tanto di giustizia e di sicurezza sociale indispensabile per condurre una vita serena. Gli scettici non formalizzarono una propria dottrina politica distinta dalle dottrine gnoseo­ logiche e morali. Scopo della vita è, per loro, la felicità: non un’improbabile. astratta felicità universale, ma una felicità problematica, im­ prontata all’impossibilità radicale di dame una qualunque definizione. A tal fine la vita va liberata da tutto ciò che causa infelicità, turba­ mento e malessere individuale e sociale, in primo luogo dalle credenze infondate che con­ dizionano negativamente l’agire umano. . L'epoché, la pirroniana sospensione del giu­ dizio, non implica astensione da ogni giudizio. B dubbio scettico, l’impossibilità di pervenire a giudizi oggettivi fondati sull’assenza delle cose, non possono essere spinti sino alla paralisi dell’agire, sino a contestare gli atteggiamenti del senso comune. Una condotta prudente consi­ glia di accogliere le convenzioni della vita quo­ tidiana là dove non possiamo smentirne l’utili­ tà pratica. In campo etico-politico deve valere un atteggiamento probabilistico: un giudizio non va valutato per i suoi contenuti oggettivi, mai riscontrabili, o in base a ineffabili criteri di bene e male morale, ma per la sua comprovata efficacia e in base al grado di attendibilità del contenuto delle valutazioni Il pensiero politico stoico è comprensibile solo se riferito a una sapienzialità istituita sulla cognizione del logos, della razionalità necessa­ ria e finalistica immanente all'ordine cosmico. Tutte le cose sono tra loro interdipendenti, concatenate in un generale determinismo e pervase da un unico pneuma. L’interdipen­ denza cosmica si traduce nella vita sociale nel principio secondo cui «Q bene dell’essere ra­ zionale consiste nel vivere in società». Se «sia­ mo nati per cooperare», gli stoici tendono a riconoscere alla politica una dimensione e una consistenza che scettici ed epicurei tendono invece a negarle, ma non senza dover prelimi­ narmente risolvere il problema di quale spazio sia concesso alla libertà individuale entro un universo deterministico. La chiave della rispo­ sta è nella visione stoica dell’uomo e del co­ smo: qui regna una necessità razionale, non cieca e insensata come per gli epicurei; e l’uo­

mo è un soggetto relativamente autonomo, che ha parte attiva nei processi razionali del­ l’universo, di cui non è semphce spettatore o riflesso passivo. A mediare tra necessità cosmi­ ca e libertà individuale vi è il momento coscienziale: in virtù di esso il saggio, riconoscen­ do la necessità che governa l’ordine cosmico, si adegua consapevolmente e deliberatamente al logos. Gli stoici si allontanano meno radical­ mente di altri dalla tradizione classica, doven­ do riconoscere nella politica un cardine della formazione razionale dell’individuo. E sempre in linea con tale tradizione è lo stretto legame instaurato tra conoscenza del bene e virtù e tra condotta virtuosa e eudaimonia. Per gli stoici il comportamento razionale consiste nell’adottare “azioni convenienti” (kathekonta), azioni opportune perché conformi allo scopo: cono­ scere il bene significa riconoscere e compiere ciò che conviene quando conviene. Qui la saggezza stoica assume valore politi­ co. Lo stoico considera un dovere morale par­ tecipare alla vita politica. La consociazione in una comunità di cittadini, le relazioni familiari e sociali sono naturali e conformi a ragione. Secondo Zenone, se tutti gli individui, divenuti saggi, agissero come soggetti morali autosuffidenti, ne nascerebbe una comunità di n o m in i buoni e virtuosi, fondata sull’amicizia, l’univer­ salismo, il cosmopolitismo e la comunione dei beni: tutte le differenze fiondate sulla nasata (sesso, etnia, lingua, status familiare) e sulla ricchezza sarebbero superate; templi, supersti­ zioni, moneta, matrimoni tribunali e la stessa autorità statale diverrebbero superflui; e Q go­ verno accoglierebbe in sé i pregi della monar­ chia, dell’aristocrazia e della democrazia. L o sv iluppo d e lla filo so fia p o litic a a R om a: P o lib io e Seneca

Lo spostamento del baricentro politico dalla Greria a Roma allontana ulteriormente i de­ stini delle filosofie eHenistiche. Lo stoicismo di mezzo, che conosce la sua massima fortuna nella fase repubblicana e nel primo secolo di vita imperiale, riporta in auge un’etica pubbli­ ca, imperniata sulla nozione di humanitas e sull'ancoraggio delle leggi ai diritti naturali. Epicureismo e scetticismo seguitano invece a offrire all’aristocrazia un’etica privata imper­ niata sulla saggezza, la felidtà e laphilia, esal­ tata da Lucrezio come il collante che spinge gli uomini alla convivenza civile. U n percorso a parte è quello dei emiri, il cui movimento rie­ merge nel i secolo d.C. riconfermandone l’ispirazione originaria: 2-radicale distacco dalla po-

IL PENSIERO POLITICO litica e la critica altrettanto radicale dei costu­ mi e delle leggi della convivenza associata. La riflessione politica in senso stretto ritrova in Roma un minimo di originalità. Benché or­ mai trascurato dai manuali, Polibio merita menzione se non altro per l’enorme fortuna che la sua teoria deU’anaciclosi conobbe nel mondo antico e in età umanistico-rinascimentaie. L’anaciclosi descrive il succedersi delle tre forme costituzionali e delle loro degenera­ zioni. La forma monarchica inaugura ogni ci­ clo, in quanto pienamente rispondente alla na­ turalità del dominio. La sua degenerazione in tirannide determina il passaggio all’aristocra­ zia; a sua volta la degenerazione dell’aristocra­ zia determina il passaggio alla democrazia; in­ fine la degenerazione della democrazia in oclocrazia determina l’esaurirsi del ciclo e l’ini­ zio di un ciclo completamente nuovo. Seneca, unico pensatore di spicco in età im­

periale, sottolinea la responsabilità etica del singolo davanti agli altri individui e allo stato. Essa non implica solo il rispetto dei vincoli sociali e dei principi di uguaglianza e fratellan­ za tra gli uomini, ma esige altresì una parteci­ pazione alla vita civile al meglio delle proprie capacità, in nome di un rigoristico sentimento del dovere immune da cedimenti morali. Solo se un potere corrotto e una società malata soverchiano l’individuo, questi potrà ritirami dalla vita pubblica per preservare nel privato l’integrità della propria virtù. Proprio in nome di quella vita virtuosa che è compito dello stato promuovere, non mancano in Seneca accenni solidaristici: consapevole dei mali della società del suo tempo, ostile alle distinzioni censitarie, Seneca critica la schiavitù, rivendica l’istruzio­ ne per le donne e invita lo stato a soccorrere i più deboli e a correggere con umanità e cle­ menza chi ha sbagliato.

CAPITOLO 2

Il sacro romano impero e la res p u b lic a cristiana

1 L e origini d e l p e n sie ro p o litico m edievale

2 L a sfid a m in o rita ria: il m o v im en to gnostico

3 H p e n s ie ro politico d a l x m al x v secolo

28

Galli istoria delle dottrine politiche

2.

Il sacro romano impero e la res publica cristiana

e Ferrerò vede nell’avvento del cristianesimo un processo di umanizzazio­ ne, dal punto di vista della storia delle dottrine politiche, tale evento è caratterizzato dall’impegno di quattro tra i maggiori pensatori: Eusebio di Cesarea, Agostino vescovo di Ippona, papa Gelasio i e Tommaso d’Aqùiao. I primi tre appartengono al periodo della patristica, cioè dei padri fondatori dell’istituzione-chiesa; il quarto è il campione della scolastica, del tentativo di fondere una dottrina cristiana ormai consolidata col pensiero di Aristotele.

S

2.1 Le origini del pensiero politico medievale La patristica presiede al sorgere della istituzione e la posizione specifica dei tre maestri della teologia politica (Eusebio, Agostino, Gelasio) non è valutata allo stesso modo dagli studiosi; in particolare la posizione di preminenza della chiesa rispetto all’impero è da alcuni fatta risalire all’agostinismo politico e da altri a Gelasio. È utile presentare le tre posizioni. Secondo un autore italiano (Gianni Baget Bozzo): «Tre tipi fondamentali di teologia della politica [sono] emersi nel corso della storia della chiesa. Per il primo lo stato cristiano è la realizzazione della dimensione ecclesiale nella storia. Il potere di Cristo nella storia si manifesta in quello dei principi cristiani. Lo schema è stato delineato per la prima volta da Eusebio di Cesarea nella Vita e nella Laus di Costantino. Vi è un secondo schema di teologia politica che giudica invece la chiesa stessa, senza mediazione del potere politico, come la figura storica della potenza di Cristo. È lo schema divenuto classico nell’insegnamento papale: il potere temporale è soggetto alla gerarchia ecclesiastica per motivi spirituali. E un tipo teorico che possiamo chiamare gelasiano in quanto enuncia­ to per la prima volta in modo esplicito da papa Gelasio i alla fine del v secolo. Il terzo schema di teologia politica conserva la tesi neotestamentaria di un legame tra il potere politico e il potere che Satana esercita nel mondo: in questo schema le due comunità, la ecclesiastica e la civile, vengono viste come storicamente contrarie: ima tende alla libertà e all’amore di Dio, l’altra al dominio e all’amore di sé. H loro contrasto è perciò la norma della storia. [È lo schema] del De civitate Dei di Agostino».1

1. G. Baget Bozzo* H partito cristiano a l potere, Vallecchi, Firenze 1974.

Il sacro romano impero e la res publica cristiana

Secondo Baget Bozzo, nel primo tipo la chiesa interviene nella società per l’attuazione dei suoi principi attraverso una istituzione politica autonoma, nel secondo interviene direttamente subordinando il potere politico, nel terzo rinun­ cia a intervenire nella gestione del potere. I due più noti storici delle dottrine politiche, il francese Chevallier e l’inglese Sabine, attribuiscono invece all’agostinismo la teorizzazione della superiorità del potere ecclesiastico. Agostino - sostiene Chevallier2 - può scongiurare l’autorità repressiva affin­ ché faccia uso di mansuetudine. Eppure ha costruito il principio del compelle intrare, che tramutò il principe in ministro dell’intolleranza religiosa. Con Agosti­ no è stata proclamata in modo quanto mai eloquente e netto la preminenza della chiesa nell’ordine dei fini (in quanto unica società umana che è votata alla costruzione della città celeste) e con l’affermazione di tale preminenza l’autorità dello stato non poteva non trovarsi in certo modo diminuita se nou degradata. Si era aperta la strada a concezioni destinate a trionfare dopo Agostino. La dottri­ na viene a esacerbarsi in un “ismo” che non ha più nulla di consonante con la realtà e il significato spirituale della città celeste. L’agostinismo politico è infede­ le ad Agostino perché mentre il suo pensiero è dovizioso, complesso e sottile, si trova poi in modo sommario e spicciativo trasposto dal piano spirituale a quello temporale e politico. Afferma Sabine: «La storia della chiesa - afferma Sabine era veramente per Agostino “la marcia di Dio nel mondo”, per usare un’espres­ sione che Hegel applicò piuttosto inadeguatamente allo stato. Agostino afferma nel modo più deciso la necessità che un vero stato debba essere cristiano. Vero stato deve essere quello in cui si insegna la fede nella vera religione e fors’anche, quantunque Agostino non dica esattamente così, uno stato in cui essa è mante­ nuta dalla legge e dall’autorità. Nessuno stato può essere giusto, dopo l’avvento del cristianesimo, a meno che non sia anche cristiano. In un modo o nell’altro lo stato deve essere anche una chiesa, giacché la forma fondamentale dell’organiz­ zazione sociale era religiosa. Poteva tuttavia essere ancora oggetto di controver­ sia quale forma tale unione dovesse prendere».3 Per Chevallier e Sabine, Gelasio è invece piuttosto espressione della separazio­ ne dei poteri. Scrive Chevallier: «L’idea di cristianità e quella di impero finirono per dare un ordine relativo al caos che si era prodotto con l’avvento dei barbari. Certe definizioni [erano] necessarie se si volevano delimitare le rispettive sfere di competenza dello spirituale e del temporale [e] vengono formulate da Gelasio i. Egli fa presente che Gesù aveva voluto equilibrare con un “ordinamento pru­ dente” le due diverse autorità. A partire dall’avvento di Cristo nessun imperato­ re poteva più assumere il titolo di pontefice, né nessun pontefice poteva più rivendicare per sé la porpora regale. Ognuno dei due poteri doveva starsene nei

2. In Storia del pensiero politico, I-II, il M ulino, Bologna 1981.

3. G J i Sabine, Storia delle dottrine politiche, E ta s/ Kompass, M ilano 1953, cap. X.

30

Galli/Storia delle dottrine politiche

limiti della propria competenza senza mai pensare di soffocare l’altro. I due poteri dovevano attuare rapporti assai stretti e una coordinazione delle loro azioni. Nel temporale il vescovo doveva essere sottomesso al principe e nello spirituale il principe era sottomesso al vescovo. M a proprio in virtù della sua importanza questa responsabilità spirituale del sacerdozio gli attribuiva una autorità eminente, che Gelasio pone accuratamente in risalto. D al clero prepo­ sto alle cose divine e avente la funzione di dispensare i misteri divini, anche i principi dovevano ricevere i mezzi per perseguire la propria salvezza spirituale e quindi dovevano inchinarsi davanti ai sacerdoti (a cominciare dall’imperatore d’Oriente nonostante la sua altissima dignità). I due poteri indipendenti sono diseguali in dignità: il primo infatti è 1’auctoritas sacra dei pontefici, l’altra è la potestas regale. U na volta affermata la preminenza morale dello spirituale, era agevole trarre conseguenze così ampie che il diritto naturale dello stato si trovò totalmente o quasi assorbito dal diritto ecclesiastico. U n secolo dopo Gelasio i, San Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, si incamminò sulla via dell’agostinismo politico proprio in virtù dell’accentuata estensione da lui data alla concezio­ ne ministeriale del potere».4 Scrive Sabine: «La posizione caratteristica sviluppata dai pensatori cristiani nell’età dei Padri comportava una doppia organizzazione e un doppio controllo della società umana nell’interesse delle due grandi classi di valori che dovevano essere difesi. Gli interessi spirituali e la salvezza eterna sono affidati alla chiesa, gli interessi temporali e il mantenimento della pace, dell’ordine e della giustizia sono affidati al governo civile. Questa concezione è spesso definita la dottrina delle due spade ed è stata enunciata in modo autorevole da Gelasio i. Il principio filosofico che vi sta dietro era la teoria, perfettamente conforme all’insegnamen­ to di SanfiAgostino, che la distinzione tra spirituale e temporale costituisce la parte essenziale della fede cristiana e deve essere norm a di ogni governo che segua la legge cristiana. L’umanità formava una società unica sotto due governi, ciascuno con le sue proprie leggi, i suoi organi di legislazione ed amministrazione ed il suo proprio diritto. Il cristianesimo all’idea di diritto terreno sovrapponeva quella di dovere cristiano e a fianco e al di sopra della cittadinanza nello stato poneva quella in una comunità celeste».5 Le divergenze di interpretazione attorno alla posizione di Agostino, di Gelasio e dell’agostinismo politico fra questi tre studiosi indicano la difficoltà di definire il ruolo dei singoli nell’elaborazione della teologia politica della patristica. Ma non incidono sulla sostanza di un fenomeno unico nella storia del pensiero occidentale: l’elaborazione di una dottrina e di un ordinamento fondati sulla

4 . J J . Chevallier, op. city I, cap. I l, “L e d u e città: Sant*Agostino e la s u a influenza”

5. G .H . Sabine,

op. cìl, cap. X.

H sacro romano impero e la res publica cristiana

religione e sul trascendente che di fatto hanno preteso e in parte sono riusciti a essere prevalenti rispetto all’organizzazione politica che possiamo definire posi­ tiva, cioè fondata su] piano della realtà dei rapporti sociali. È importante rilevare il peso anche teorico dell’elaborazione che va da Euse­ bio di Cesarea a Gregorio Magno, se si riflette sullo stato contemporaneo della cultura non di ispirazione religiosa, per cui fino agli ultimi anni dell’xi secolo, quando si avviò il dibattito tra l’autorità spirituale e quella temporale, non vi fu alcuno sviluppo di idee politiche. Può contribuire alla interpretazione di questo eccezionale fenomeno - l’istitu­ zionalizzazione di un pensiero politico a base religiosa, orientato dalla chiesa, in un periodo di assenza di attività teorica su base non religiosa - la dinamica di “sfida-risposta” dianzi ipotizzata.

IL PENSIERO POLITICO La filosofia polìtica di Agostino La filosofia politica di Agostino sem bra una diretta conferma di come molte forme e categorie del pensiero utopico abbiano trovato origine nel cristiane­ simo. La dicotomia, tipica di tale pensiero, tra u n a tem poralità propria della storia e una extratemporalità che è oltre la storia, è però mitigata, nella prospettiva agostiniana, dall’intreccio che, sin dall’inizio del genere umano, stringe insieme le due città. T ra Babilonia terrestre e Gerusalemme celeste, tra civitas caelestis spirituali e civitas terrena carnali si situa infatti, come term ine medio, la civitas terrena spirituali, simbolo e profezia im perfetta della città di Dio. L a te o ria delle “d u e c ittà ”

Benché reciprocamente aggrovigliate, le due città (che non vanno identificate tout court con chiesa e stato) non perdono la loro identità. In una «la cupidigia di dominio domina i suoi prìncipi come le nazioni da lei assoggettate», nell'altra «si prestano mutuo servizio nell'amo­ re i governanti col consiglio e i sudditi con l’obbedienza». Entrambe «godono ugualmente dei beni e sono afflitte ugualmente dai mali, ma con di­ versa fede, diversa speranza, diverso amore, finché siano separate dall'ultimo giudizio e cia­ scuna colga la propria fine». Il cristiano che aspira all’«assemblea e socie­ tà dei santi» non è che un pellegrino nel mon­ do, e nondimeno del mondo è parte. Sottopo­ sto all’autorità divina (esercitata indirettamen­ te dalla chiesa) come mèmbro della città cele­ ste; come membro della città terrena è invece

sottoposto all’autorità civile. L’impossibilità teorica e pratica di risolvere una nell’altra le due autorità, e la conseguente impossibilità di far combaciare questa duplice cittadinanza ge­ nereranno una continua tensione tra i due po­ li, che attraverserà la coscienza del cristiano; e di ciò Agostino sembra avere piena consape­ volezza. Pur non sottacendo i possibili terreni di reci­ proca convergenza per il bene dell’uomo, Ago­ stino rimarca sempre i possibili terreni di con­ flitto tra chiesa e stato. Istituzione terrena vol­ ta al bene della città celeste, la chiesa è un «regno in guerra, in cui perdura lo scontro col nemico e a volte si resiste agli assalti dei vizi, altre volte si comanda loro quando cedono, fino al conseguimento di quel regno in piena pace dove si regna senza avere nemici». Lo stato invece ha come fine il bene comune e sussiste solo ove vi -siano giustizia e diritto. I

31

IL PENSIERO POLITICO due termini sono complementari: non c'è dirit­ to senza giustizia e viceversa, e il rispetto del­ l’uno e dell’altra genera il buongoverno, la concordia, l’osservanza dei vincoli sociali e la tutela di quei beni naturali che sono oggetto di interessi legittimi. Il bene terreno più grande, il desiderio universale di tutte le creature è la pace, intesa come ordine, come «collocazione di cose uguali e disuguali nel posto a ciascuna assegnato». Per la pace, «in sé così dolce, cara a tutti», Agostino ha parole cariche di pathos. «Nella condizione mortale nulla è più gradevole all'a­ scolto, nulla è più appetibile al desiderio», nulla è migliore e più grande. «Tutti aspirano ad avere pace con chi sta loro intorno, deside­ rando che viva come a lui è gradito.» Ogni essere vivente anela a una forma elementare di pace, «consistente nella salute e incolumità fisica e nel legame con la propria specie»; e anche un ipotetico uomo precivile e ferino de­ sidera «vivere non molestato da nessuno in una quiete non turbata da violenze e terrori», e placare il bisogno per «avere pace con il proprio corpo» e preservarsi in vita. Agostino distingue tre generi di pace: di Dio; del giusto; dell’ingiusto. Solo la prima è pace in senso pieno. Anche la seconda lo è, pur con caratteri finiti e precari, e a essa è interessata la città celeste non meno che la città terrena, e quella non esita a obbedire alle leggi di questa, onde «mantenere fra le due città, che hanno in comune la condizione mor­ tale, un accordo sulle realtà appartenenti a

questa condizione». La stessa pace dell’ingiu­ sto infine, se a confronto con le altre non può dirsi tale, contiene un’aspirazione alla pace, benché malintesa e perversa. Molte guerre si combattono con l’obiettivo della pace: per esempio se un’ingiustizia obbliga a una guerra giusta per ripristinare la pace. M a anche l’ag­ gressore, il malvagio che per pura volontà di dominio conduce guerre simili a «un brigan­ taggio in grande», vorrebbe imporre agli as­ soggettati «le leggi della propria pace» pur iniqua che sia. La funzione della politica La politica, benché sia inesorabilmente potere di sopraffazione e sopraffazione del potere, svolge un irrinunciabile ruolo di incivilimento etico. Pace, concordia e moralizzazione, che ne sono la ragion d’essere nella storia, ne segnano al tempo stesso l’insufficienza, il limite radica­ le. Se solo la città celeste offre il bene supre­ mo, se «sulla società umana si riversano innu­ merevoli, inestimabili mali», ogni etica eudaimonistica o edonistica che non faccia coincide­ re felicità, virtù e piacere con la ricerca della salvezza eterna, dovrà arrendersi all’insupera­ bile imperfezione del finito, che vanifica sia l’impegno sapienziale della razionalità filosofi­ ca, sia l’impegno razionalizzatine dell’azione politica. Come non c’è saggezza e virtù terrena che non possa venire insidiata da una qualche turbativa, analogamente non c’è stato che pos­ sa garantire una stabile felicità per tutti i suoi membri.

2.2 La sfida minoritaria: il movimento gnostico La grande chiesa cristiana, con epicentro a Roma, può essere vista come la risposta a elevato livello di istituzionalizzazione a una sfida rappresentata dal vigoroso riemergere di una cultura minoritaria de-istituzionalizzante, i cui carat­ teri si possono rintracciare soprattutto nel movimento gnostico. Il termine “mo­ vimento” è adottato per indicare credenze e comportamenti diffusi anche se non ■uniformi e in taluni aspetti contraddittori, ma caratterizzati dall’apprezzamento della conoscenza non intellettiva e dal ruolo importante dell’elemento femmi­ nile. La definizione in questi termini dello gnosticismo in contrapposizione alla chiesa.cristiana istituzionalizzata che si affermerà, può apparire arbitraria se si

Il sacro romano impero e la res publica cristiana

vede la chiesa di Roma come organizzatrice di una fede anch’essa basata non sulla ragione (conoscenza intellettiva), ma sulla verità rivelata (la fede). Ma, confrontando quelli che saranno i dogmi e la tradizione cristiana, quali saranno sanciti sotto l’autorità del vescovo di Roma, si può dire che essi rappresentano un elevato livello di semplificazione e razionalizzazione della religione, in con­ fronto alle credenze diffuse (poi definite anche eresie) combattute e sconfitte dalla grande chiesa. Infatti per afferrare tutta la portata di quello che viene definito da Sabine l’evento più rivoluzionario nella storia europea, il cristianesimo, occorre riferirsi alla situazione della cultura religiosa come forma di conoscenza non intellettiva quale si presentava nei secoli dello sviluppo e della crisi dell’impero romano dall’età di Augusto a quella di Costantino. D a un lato vi era una grande tolleranza religiosa, che si traduceva nella coesistenza dei culti più diversi; dall’altro vi era la tendenza (di derivazione orientale) a sancire la sacralità della dignità imperiale, a identificare l’imperatore con un dio. H rifiuto di sottostare, anche soltanto con atti formali, a questa seconda concezione è all’origine della persecuzione delle comunità cristiane attuata fino al m secolo. M a dopo due secoli di contrapposizione, gli imperatori accettano la concezio­ ne cristiana - e sotto il profilo della dottrina politica si affermano le idee di Eusebio, Agostino e Gelasio - come la più compatibile con la resistenza delle istituzioni di fronte a diffusi comportamenti che tendevano a sovvertirle, in modo molto più radicale del rifiuto dei cristiani ad adorare come un dio il capo militare più o meno provvisoriamente rivestito della porpora imperiale. Tra questi comportamenti riconducibili a una credenza (gnosi) lo gnosticismo appare culturalmente il più ricco. Altre “eresie” come l’arianesimo, che contestava la divinità di Cristo, e il manicheismo, che vedeva il mondo come frutto del dualismo bene-male, hanno tratti comuni con lo gnosticismo e permettono di cogliere aspetti convergenti nelle culture che, in qualche modo, richiamandosi al messaggio evangelico, si contrapposero alla nascente grande chiesa di Roma. M a è sullo gnosticismo che si è accentrata l’attenzione degli studiosi in questi decermi, soprattutto dopo il ritrovamento dei cosiddetti vangeli gnostici a Nag Hammadi. Questi papiri in lingua copta costituivano una sorta di biblioteca e hanno permesso una migliore conoscenza ' del movimento gnostico, le cui fonti di informazione provenivano prevalentemente dai Padri della chiesa che lo aveva­ no combattuto. Sebbene queste fonti siano importanti, non si può ritenere che i vangeli gnostici costituiscano la dottrina unitaria del movimento. Essa è stata certamente trasmessa in altri modi, anche pervia orale, e non mancano elementi contraddittori in relazione all’elemento più significativo per i suoi rapporti con fenomeni precedenti (il dionisismo e le baccanti) e successivi (il movimento delle “streghe”). Personalità ritenute maestri gnostici (come Saturnino) hanno un

Galli/Stona dd le dottrine politiche

atteggiamento decisamente di equiparazione tra la dorma e il negativo, analogo a quello della tradizione ebraica e della chiesa di Roma. L’insieme delle fonti, comunque, permette di sostenere che la corrente di pensiero prevalente nello gnosticismo aveva una valutazione positiva della don­ na, sino a concepire in forma femminile la stessa divinità, con la conseguente possibilità delle donne di gestire il “sacro”, diversamente da quanto sarebbe poi avvenuto nel cristianesimo istituzionalizzato. E si tratta di un “sacro” commisto al “profano”, al punto che possono essere ipotizzati, nelle comunità gnostiche, comportamenti simili - dal punto di vista della libertà sessuale - a quelli attribuiti alle orge delle baccanti e ai sabbah delle streghe. Il rapporto della cultura gnostica con la donna e con la magia - da cui il collegamento con quella delle streghe - emerge sin da quello che viene ritenuto già negli A tti degli A postoli il fondatore del movimento, Simon Mago, la cui compagna-simbolo, E lena di Tiro, è presentata come u n a prostituta e anche come una reincarnazione della Elena la cui bellezza portò Troia alla rovina. M arco il Mago è il maggior discepolo dell’im portante m aestro gnosti­ co Valentino, cui viene attribuito il Vangelo di verità i cui seguaci uomini e donne erano su un piano di eguaglianza, parim enti legittimati al sacerdozio e alla profezia. U n autorevole studioso dello gnosticismo, Robert Grant, ne dà una definizio­ ne che permette di coglierne gli elementi essenziali (anche con aspetti di con­ traddittorietà) e di capire quale fu il bilancio complessivo della vittoria della chiesa istituzionalizzata: «La visione gnostica della vita è una appassionata sog­ gettività. È una religione che salva mediante la conoscenza di sé, riconoscimento dell’elemento divino che costituisce il vero sé. A questo riconoscimento si ag­ giunge una stupefacente varietà di miti e pratiche culturali che variano nei particolari a causa del diverso modo di intendere il sé. Per qualche gruppo il problema fondamentale del sé è causato dalla morale convenzionale, ciò che i freudiani chiamano le esigenze del super-io. Questi gruppi considerano la reden­ zione come una liberazione dalle convenzioni. Essi raccontano il mito della grande Madre che li ama, che come loro è stata imprigionata e maltrattata dalle potenze ostili che hanno dettato le norme della convenzione p er renderli schiavi. Altri gruppi considerano la redenzione come una liberazione dal mondo dell’esi­ stenza materiale e narrano il mito di un Padre sconosciuto che vuole liberare il loro spirito dal mondo e prenderli con sé. [...] Un po’ alla volta la chiesa definì le liste ufficiali di libri che potevano essere accettati e formule simboliche aventi autorità. Tutti questi strumenti dovevano essere sviluppati, se non addirittura creati, dalla chiesa nella sua lotta contro l’insegnamento gnostico. Fu proprio in questa lotta che, sotto la guida della chiesa di Roma, l’ortodossia cristiana fu formulata e finì per vincere. Il trionfo dell’ortodossia significò il trionfo dell’e­ sperienza collettiva sulla libertà individuale, della storia sulla libera immagina­ zione creatrice, dell’obiettività sulla soggettività. Ma qualcosa andò perduto. La

Il sacro romano impero e la res publica cristiana

libertà creatrice deli’irmnaginazione religiosa fu costretta, in modo più completo, al servizio dell’istituzione. [...] Soprattutto si continuò a rendere il culto al Padre onnipotente».6 U n importante teologo luterano, Anders Nygren, coglie questa caratteristica di fondo dello gnosticismo: «Esso ha trasformato l’agape del cristianesimo in un eros volgare nella sua forma più spregevole: tale affermazione potrebbe far credere che abbiamo ingiustamente applicato uno schema moderno a un feno­ meno del passato. Ma le cose non stanno così: ce lo dimostra il fatto che gli gnostici dovettero udire già dai loro contemporanei lo stesso giudizio. È partico­ larmente interessante una dichiarazione di Clemente Alessandrino. Egli è consa­ pevole della differenza tra i diversi tipi di eros, implicita nella dottrina platonica. L’eros preconizzato da Platone è l’eros nobile, sublimato, nato dalla celeste Afrodite e che perciò può essere definito l’eros celeste. D a questo Platone distingue nettamente l’eros volgare, che è figlio dell’Afrodite volgare (pandemas). Nel Convito si dice: “L’eros che è figlio della volgare Afrodite è veramente volgare e si presta ad ogni cosa, è venerato dagli uomini malvagi”. L’eros volgare e sua madre sono quelli che conducono gli uomini alla leggerezza e alla dissolu­ tezza. Clemente Alessandrino per protestare contro l’alterazione dell’agape cristiana compiuta dagli gnostici riferisce questa distinzione platonica. Come hanno l’ardire questi eretici impudenti di violare il nome dell’agape e di usarlo per designare i loro atti turpi, la loro Afrodite volgare?».7 Nygren ne deduce che con lo gnosticismo «l’agape del cristianesimo è stata attratta nel vortice del sincretismo dalla tarda antichità, degradata e connessa alle forme culturali più abbiette e ripugnanti che la storia delle religioni conosca, è stata trasformata nella forma più spregevole dell’eros volgare. Epifanio, che assistette personalmente al rito di una setta gnostica, la descrive come segue: cominciano con un pasto sontuoso, durante il quale anche i poveri mangiano carne e bevono vino in sovrabbondanza. Dopo essersi eccitati in questo modo, “l’uomo lascia il posto vicino a sua moglie e le dice: alzati e compi l’agape col tuo fratello”. E i miserabili si uniscono gli uni con gli altri. A ciò segue la comunione spermatica: “Essi comunicano la propria sconcezza e dicono: questo è il corpo di Cristo”. Ciò che Epifanio racconta non è un caso isolato. Incontriamo spesso accenni in tale senso in periodi diversi ed a proposito di diverse correnti gnostiche».8 Anche Eusebio, fondatore della teologia politica cristiana, nella sua Storia ecclesiastica così descrive gli gnostici seguaci del maestro Carpocrate: Insegnano che coloro i quali vogliono penetrare nel profondo del loro mistero o meglio della loro abominevole concezione, devono compiere gli atti più turpi, perché in nessun altro modo possono sfuggire agli

6. R.M . G rant, Gnosticismo e cristianesimo primitivo, il M ulino, Bologna 1976.

7. A. Nygren, liray e Agape, il M ulino, Bologna 1971. 8. IbieL

35

36

Galli/Storia delle dottrine politiche

Arconti di questo mondo - come essi dicono - se non dando ad ognuno di loro tributo in atti ignominiosi. Nygren conclude che «perciò non erano tutte finzioni le accuse che i pagani rivolgevano ai cristiani riguardo all’immoralità dei loro incontri; solo che queste cose non avvenivano nelle comunità cristiane, m a nelle sette gnostiche. Natural­ mente i pagani non potevano fare una distinzione tra loro, poiché gli gnostici pretendevano di essere cristiani. Essi in tal modo compromisero il Cristianesimo di fronte ai pagani e la loro condotta deve aver anche contribuito al fatto che le agapi siano cadute in discredito nelle comunità cristiane».9 Si potrebbe supporre - con una storiografia di orientamento iUuministico che le orge degli gnostici, come i sabbah delle streghe, siano il frutto di invenzioni denigratorie della chiesa di Rom a e degli inquisitori. M a non si vede perché non si debba ritenere attendibile resistenza, tra il i e il m secolo, di un movimento sincretico che integrava con elementi del messaggio cristiano una cultura e dei comportamenti basati su una concezione della sessualità e su una posizione della donna contrapposti a quelli che si sarebbero in seguito affer­ mati. La continuità e il collegamento di questa cultura con la precedente fase ellenica possono essere colti quando proprio Nygren cita il dibattito attorno all’eros di Platone: «Negli ultimi decenni è subentrata nell’esegesi platonica una aperta tendenza a favore del mito. Parallelamente all’interesse generale per il mito - che si manifesta per esempio nella edizione riveduta degli scritti di Bachofen - si è sempre più propensi ad attribuire a questa nuova opinione una importanza decisiva. Non è negli esercizi dialettici intellettuali, m a proprio nei miti che Platone può dire la sua ultima parola e rivelare ciò che gli sta veramente a cuore. Secondo U. von Wilamowitz-Moellendorf, Platone è cosciente che le realtà ultime e supreme non sono dimostrabili scientificamente. Noi afferriamo la realtà suprema solo nella “pazzia divina”, non con la ragione, m a intuitiva­ mente, con un’esperienza intima. A ragione W. Windenbald dice di Platone: nella visione del mondo a cui egli pervenne sulla via della ricerca scientifica poterono inserirsi i dogmi della dottrina dionisiaca riguardo all’anima».10 È da tener presente che questi autori scrivono a sostegno di tesi che nulla hanno a che fare con l’ipotesi qui esposta. G rant pensa allo gnosticismo come derivato del pensiero apocalittico ebraico dopo la caduta di Gerusalemme; Nygren è interessato a dimostrare, che l’essenza del cristianesimo è l’agape, l’amore spirituale. È quindi tanto più significativo che si colgano nella loro esposizione elementi che confortano Finterpretazione dello gnosticismo come cultura alternativa, con forti elementi di libertà individuale e sessuale e di uguaglianza della donna. Elementi che trovano conferma nei cosiddetti Vangeli 9. IbìeL

10. Ibid.

Il sacro romano impero e la res publica cristiana

gnostici, nei quali figurano testi che vedono nel dio sia la natura maschile sia quella femminile. H movimento, de-istituzionalizzato, si sviluppa soprattutto nell’età degli Anto­ nini, quando l’impero tocca il massimo di legittimazione (istituzionalizzazione) e viene poi sconfitto quando si istituzionalizza la chiesa di Roma. In base all’ipote­ si della dinamica sfida-risposta, nella istituzionalizzazione della cultura vittoriosa rimane un’eco di quella sconfitta: il dramma delle donne-baccanti nel teatro greco, quello degli gnostici “eretici” nel culto subalterno della donna nel cristia­ nesimo ufficiale (Maria come madre vergine del dio vivente).11 Sotto il profilo propriamente di dottrina politica, la vittoria del principio del

I L I cosiddetti vangeli gnostici rinvenuti a N ag H aram adi sono stati pubblicati presso la casa editrice Adelphi, a cura di L M oraldi, M ilano 1984. U n a selezione d ei testi è in I vangeli gnostici, A . M ondadori, M ilano 1981, a cura di E . Pagete, che dirige i dipartim enti di religione del B ernard College (Colum bia University). D o p o u na breve presentazione dello stato degli studi sullo gnosticism o (che non affacciano l’ipotesi qui p re­ sentata) ai fini della tesi sviluppata n el testo è di parti­ colare interesse il cap. m , “D io P ad re, D io M ad re”, dal quale vengono stralciati questi brani: A d ifferenza di m olte divinità sue contem poranee dell’antico Vicino O riente, il D ìo d i Israele n o n divideva il suo p o tere con nessuna divinità fem m inile. L e fonti gnostiche usano continuam ente il sim bolismo sessuale p e r descrivere D io. Si p o tre b b e p e n sare alla influenza delle tradizioni arcaiche pagane delle D e e M adri, m a il linguaggio deDa m aggior p a rte d i q u esti testi è specifi­ cam ente cristiano, legato senza om b ra di dubbio all’e­ re d ità ebraica. E tuttavia invece d i descrivere u n D io m onistico e m aschile, m olti d i questi scritti n e parlan o com e d i u na dualità, che com prende ria elem enti m a­ schili d i e fem m inili. [.„] D racconto della G en eri [dice] d i e l'um anità fu c reata “m aschio e fem m ina”, alcuni ne trassero la conclusione che il D io a imm agine d e l quale riam o fatti doveva essere anch’egli sia m aschile che fem m inile - sia P adre che M adre. [~ ] V alentino p arte dalla prem essa che D io è essenzialm ente indescrivibile, m a suggerisce che ri possa im m aginare fi divino com e u n a dualità. A rgom ento che Silenzio è il com plem ento adeguato del P adre, designandolo ra m e fem minile del g en ere gram m aticale de i te rm ini greci. M arco M ag o ri definisce «grem bo ricevente d el Silenzio». L e sue visio­ ni dell'essere divino gli sono apparse, racconta, in for­ m a fem m inile. T ra diversi m aestri c’e ra disaccordo (m a) Ì sostenitori di diverse posizioni concordavano n ell'id ea che il divino dovesse ven ire inteso n e i term ini d i u n a relazione arm oniosa e d inam ica tra opposti: un concetto assimilabile alla concezione orientale dello yin e yang. U n ’opera attribuita al m aestro gnostico Sim on M ago assegna un significato m istico a l Paradiso, il luo­ go dove ebbe inizio la vita um ana: n o n c’è dubbio d ie il Paradiso sia il grem bo. D testo Trìmorfe Protennoia, “Prim o pensiero d a lla triplice form a”, celebra le p o ten ­ z e fem m inili d i Pensiero, Intelligenza e Previdenza. U n testo, d opo a ver descritto la F onte divina com e «Potere

bisessuale» p rosegue: «ciò che h a avuto origine d a quel p o tere che è un o , si scopre c he è d ue: un essere m aschi­ le femminile che p o rta in sé il fem m inile». È u n riferi­ m ento del racconto della “nascita” di È v a dal fianco di A dam o (A dam o è u n androgino che p o rta in s é il fem m inile). Alcuni gnostici insegnano che la G enesi n arra di u n a creazione androgina. T u tte le fonti citate finora no n sono incluse nella scelta selezionata che è il Nuovo T estam ento. A l term ine d e i processo d i selezio­ n e degli scritti - probabilm ente n o n p rim a del m secolo - p raticam en te ogni im m agine fe mminile di D io e ra scom parsa dalla tradizione cristiana ortodossa. C o m e e perché? Possiam o tro v are u n a chiave di risposta chie­ dendoci se i cristiani gnostici derivavano qualche conse­ guenza p ratica, so d ale, della lo ro concezione di D io e dell’u m an ità in term ini ch e includevano l'elem ento fem m inile, L a risposta, ovviam ente, è sì. D vescovo Iren eo n o ta con sgom ento che d a i gruppi ere tiri sono a ttratte sperìalroente le d onne: M arco è u n sed u tto re di diabolica abilità, u n m ago c h e m iscela sp e d ali afrodisiari « p er ingannare, soggiogare e corrom pere». T e rtu l­ liano si m anifesta altrettan to disgustato d a analoghi com portam enti d ei cristiani g n o stid : «Q ueste do n n e eretiche - ra m e sono au d a d ! N o n hanno m odestia, sono e o a sfrontate d a insegnare, im pegnarsi n ella di­ sputa, d ecretare esorcismi». U n o dei prim i bersagli dì Tertulliano, M a rra n e , aveva n om inato p reti e vescovi allo stesso titolo degli uom ini, d elle d o n n e. M ardoniti, m ontanisti e carpocraziani co m p rendevano do n n e che assunsero posizioni lead er. M a a p a rtire dal m secolo le donne con ruoli p ro fetirì, sacerdotali e d episcopali ces­ sano nelle chiese cattoliche. È u n o sviluppo so ip ren d ente s e si considera c h e ai su o i p rim o rd i il m ovim ento cristiano dim ostrò u n a n o tevole a p e rtu ra v erso le donne. L o stesso G esù violò la convenzione ebraica parlan­ d o in pubblico con .d o n ne e n e incluse tra i suoi com pa­ g n i Q uesti m odelli e b b e ro eccezio n i G li g n o stid no n eran o unanim i nel so sten ere le d o n n e e gli ortodossi n o n eran o unanim i nel denigrarle. Così troviam o u n a so rp ren d en te eccezione n eg li sc ritti d i u n v en erato pa­ d re della Chiesa, G e m e n te d i A lessandria. M a fu adot­ tata la posizione di T ertu llian o . Q u asi d u em ila anni dopo, n el 1977, p a p a P ao lo V I h a dichiarato che u n a do n n a n o n p u ò diventare p re te « perché n o stro signore e ra u n uom o!».

Galli/Sforài delle dottrine politiche

Padre onnipotente si trasforma nella teologia politica di Eusebio, Agostino e Gelasio che riconoscono nel Santo Padre della chiesa di Roma la massima autorità istituzionale nei secoli che accompagnano il declino dell’impero e la sua formale ricostituzione come “sacro” e “romano” con Carlo Magno nella notte di Natale dell’800. Il nuovo assetto istituzionale aveva trovato il suo centro di gravità in una religione monoteistica che già secondo alcuni storici era stata vista come neces­ saria all’impero sin da quando uno degli ultimi efficienti imperatori, Aureliano, nel suo breve potere (270-75) aveva tentato di fare del “Sole invitto” il protettore dell’impero (finizione che Costantino avrebbe poi assegnato alla croce). Alla solidità della teologia politica che h a espresso personalità come Eusebio, Agostino e Gelasio come risposta alla sfida gnostica, corrisponde la carenza di pensiero politico non a base religiosa. L’assenza di personalità di rilievo caratte­ rizza i secoli nei quali la legittimità del potere si fonda sul diritto di primogenitu­ ra che la società feudale eredita dal patriarcalismo greco e sulle assemblee di guerrieri che fanno dei popoli germanici che occupano l’impero, quella definita da Engels una sorta di democrazia militare. I tre elementi - diritto divino, primogenitura, investitura - creano però una situazione che Ferrerò definirebbe di quasi legittimità. Come già nell’impero romano, la trasmissione del potere, formalmente normata, di fatto è affidata ai rapporti di forza. Nessuno è sicuro di non essere contestato n el trono (o nel feudo) che gli spetterebbe, p er eredità e per grazia di Dio. Vi era anche nella prassi medievale una componente elettiva per il papato e per l’impero: fino alla seconda metà deliba secolo il primo era espresso formalmente dal popolo di Rom a (di fatto dalle grandi famiglie) e in seguito dall’alto clero. A sua volta l’imperatore veniva eletto prima di fatto da principi tedeschi e poi di diritto con la “Bolla d’oro” del 1356. Questa situazione storica esige una valutazione a livello di cultura politica. In primo luogo, queste modalità elettorali non comportavano alcun principio rap­ presentativo; e in questo Senso ci si era allontanati anche dalla “democrazia militare” dei popoli germanici. I popoli non intervenivano nelle elezioni, erano gruppi privilegiati per diritto di nascita o per investitura dall’alto (principi del­ l’impero, nobiltà, alto clero) che votavano. In secondo luogo, questa forma di elezione e il principio di ereditarietà del primogenito erano fortemente contestate. È vero che, salvo brevi periodi, nessu­ na famiglia potè controllare l’impero (tanto meno il papato). M a sia il principio elettivo, in questi due casi, sia il principio di ereditarietà non garantirono affatto una legittimità incontrastata. Il ricambio al vertice del sistema politico - per usare una espressione di oggi - dipese sempre in larga misura dalla forza armata di cui disponevano i contendenti che vantavano in vari modi i propri diritti contrapposti a quelli del designato definito legittimo (il che prova, appunto, che la legittimità era contestata). II papato - terza considerazione - subì spesso questa situazione, sino allo

D sacro romano impero e la res publica cristiana

scisma del 1378, composto quarant’anni dopo (quando ormai ci si affacciava al mondo moderno), m a in misura minore delle altre istituzioni (impero, regni); ma potè applicare più ampiamente il principio elettivo (sia pure limitato) pro­ prio perché la chiesa rimase la meglio organizzata istituzionalmente delle società politiche medievali (in ipotesi: per i vantaggi derivatile dalla descritta dinamica sfida-risposta alla caduta di Roma). Complessivamente, quindi, abbiamo circa un millennio di legittimità contesta­ ta e si può dire di guerra civile permanente, provocata dal ricambio al vertice e per il controllo delle istituzioni (impero, regni, papato).

2.3 II pensiero politico dal xm al xv secolo Abbiamo dunque un lungo periodo - un millennio - in Cui alla sostanziale stabilità delle tecniche e dell’organizzazione produttiva, quindi non di silenziosa rivoluzione dei tempi lunghi, secondo la storiografia alla Fem and Braudel, corrisponde una elevata instabilità politica, dove la forza è il solo criterio di soluzione dei conflitti all’interno della classe dirigente (a prescindere dalle endemiche rivolte delle classi subalterne). A questa elevata instabilità politica corrisponde ima stasi quasi completa del pensiero politico. Dalle vivaci polemiche nella lotta per le investiture sino a Machiavelli (anche in questo caso il periodo è di circa mezzo millennio), le storie delle dottrine politiche registrano solo tre pensatori di elevato livello (Tommaso d’Aquino, Guglielmo Occam e Marsilio da Padova) e cinque m in o ri (Giovanni di Salisbury, Dante Alighieri, Egidio Colonna, Giovanni da Parigi, Nicolò Cusa­ no). Furono scritti opuscoli, libri, libelli in grande quantità, m a complessivamen­ te ripetitivi. Robert William e Alexander James Carlyle hanno dedicato ben sei volumi alla storia della teoria politica medievale (A History o f Medioevo! Politicai Theory in thè West) sino al xvt secolo. P er il periodo in esame, la sintesi può essere tuttavia quella di Jean Touchard: «xi, xn, xm secolo: è questo il periodo in cui la chiesa vede il suo pieno trionfo; nelle loro mani sovrane i papi stringono il suo destino; i teologi le hanno dato ima solida base dottrinale; i predicatori e i “mendicanti” tengono vivo il fervore popolare. Nulla è possibile senza la chiesa: né potere, né salvezza e neanche il pensiero: deposti e scomunicati i principi ribelli, posti al bando i non conformisti come Abelardo, perseguitati e massacrati gli eretici patari, catari, valdesi - sgominati gli infedeli. La chiesa rappresenta la “totalità” del mondo, ma il suo universalismo va gradualmente perdendo la forma di Imperium per assumere invece quello di una Res publica Christianorum soggetta alla Auctorìtas pontificia».12 12. J. Touchard, Storia del pensiero politico, Etas/K om pass, M ilano 1967, cap. IV , "Il M edioevo: il p otere

pontificio tra gli antichi .e i nuovi p o teri”,

40

Galli/Stona delle dottrine politiche

Sotto il profilo della dottrina politica, questa è invece la descrizione di Sabine: «Nell’ultima parte dell’xi secolo si ripresero gli studi sul complesso di idee politiche e sociali conservate dall’antichità nella tradizione dei Padri della chiesa ed ebbe inizio quel movimento che produsse neri secoli successivi una cultura straordinariamente brillante e virile. A tal punto che tutto l’insieme degli scritti di filosofia politica composto tra la morte di Aristotele e l’xi secolo occuperebbe forse minor numero di pagine della grande collezione di opuscoli politici che ebbero origine dalla lotta per le investiture».13 M a in questa estesa produzione i contributi originali sono limitati; è invece di grande rilievo quello di Tommaso d’Aquino. Sabine rileva che «la sua concezione morale della legge e del governo si diffuse talmente e durò così a lungo che Locke, quattro secoli dopo, non trovò argomento più convincente p er sostenere il diritto fondamentale di un popolo a deporre un reggitore tirannico». Questa la sintesi del suo pensiero secondo Sabine: «E potere in abstracto (possibilità di un uomo di comandare a mi altro) dev’essere distinto dal potere “in concreto” (che può essere considerato a seconda del modo in cui viene conseguito), dal modo in cui viene usato e a seconda dei suoi effettivi detentori, ossia degli uomini che ne sono i titolari. Il potere in abstracto - l’autorità in sé viene da Dio, quindi è di origine e natura divina. M a l’Aquinate [segue] Aristote­ le e prende le sue distanze dalla tradizione agostiniana e daU’agostinismo politi­ co e proclama che questo potere è fondamentalmente naturale, cioè ha radici nella stessa natura dell’uomo. Il potere “in concreto”, quello che è impersonato da uomini che vengono eletti o scelti, è di mero diritto umano. Se un certo uomo o un certo gruppo di n o m ini sono in situazione di comandare legittimamente ad altri uomini, questo fatto non dipende da una scelta diretta e personale di Dio, bensì da urna designazione meramente umana. Si può affermare che, qualora onestamente acquisito, viene da Dio, ma lo si può affermare in senso derivato. In che cosa consiste la designazione umana? I passi che si citano a questo proposito non sono facili da interpretare. Tommaso si sforza di rendere chiaro un pensiero complesso e ambiguo attirando l’attenzione sui diversi casi. Ci sono due casi in cui ritroviamo l’idea medievale della comunità fatta fonte originaria di potere: il caso in cui una società ha facoltà di darsi da sola le leggi (società “libera”) e quella in cui il popolo ha diritto di darsi un re. C’è poi mi terzo caso in cui una autorità superiore provvede a dare al popolo un re e c’è u n ultimo caso: quello di un popolo che non merita la facoltà di darsi leggi, m a si palesa fatto per obbedire a un uomo che eccelle per virtù: in questo caso svanisce del tutto ogni sorta di delega. Quello che non varia e riflette la teoria contrattualista del Medioevo è l’impegno reciproco, tacito o esplicito, che vincola il popolo e coloro che lo governano. Se il popolo si impegna a obbedire, i governanti si impegnano a 13. G .H . Sabine, op. c i t cap. X II.

Il sacro romano impero e la ras publica cristiana

compiere il proprio dovere che consiste nel volere il bene dei più. Agli occhi di Tommaso quelli che essenzialmente contano sono i fini del potere che inglobano la nozione di “bene comune” nella quale si congiungono ordine e giustizia. [...] Legge eterna, legge naturale, legge umana: ecco la maestosa gerarchia a tre gradi che ci viene presentata da Tommaso. La legge eterna è prescrizione della ragione divina, i precetti essenziali della legge naturale sono i seguenti: discemere il bene dal male, fare il bene e fuggire il male; non far male a coloro coi quali bisogna vivere; tendere a una vita in cui si realizzi la natura razionale dell’uomo. La legge umana, oltre che alla ragione, fa appello a quella che PAquinate chiama una “disciplina”, la quale si fa coattiva in forza della paura del castigo. Le leggi fatte dall’uomo possono essere ingiuste sia in relazione al bene proprio dell’uo­ mo sia in relazione al bene divino: [le prime] uno le osserva ed obbedisce solo per evitare lo scandalo e il disordine, nel qual caso è retta cosa sacrificare anche il proprio diritto. Se però si tratta di leggi ingiuste perché contrarie al bene divino, come ad esempio le leggi di un tiranno che vuole obbligare i sudditi all’idolatria, allora non possono in nessun caso essere osservate. Che cos’è la tirannide, di cui ricorre tanto spesso il termine? È quel tipo di regime politico fondamentalmente iniquo in cui chi detiene il potere mira al proprio interesse e non al bene comune. Qualora gli eccessi a cui la tirannide indulgesse divenissero intollerabili, è forse consentito uccidere il tiranno come aveva incitato a fare Giovanni di Salisbury? No. Questo è contrario alla dottrina degli Apostoli che aveva insegnato a obbedire anche ad autorità inique. La cosa migliore è agire attraverso l’autorità pubblica? Ma [essa] non è forse il tiranno in questione? Nel De Regno Tommaso prospetta due casi: quello in cui il popolo ha diritto di eleggersi il suo re. In tal caso può destituirlo. Il secondo caso è quello in cui il diritto di designare a un popolo il suo re spetta a una autorità superiore. In tal caso è questa autorità superiore che deve apprestare il rimedio. Fuori dei due casi suddetti, non resta che appellarsi al Re di tutti, cioè a Dio. La preoccupazio­ ne nell’evitare che il potere legittimo si muti degenerando in tirannide ha pesato in modo cospicuo sulla risposta data al problema del miglior governo. Tommaso opta per una forma politica che, senza pretendere di applicare una terminologia rigorosamente tecnica, ci è consentito di chiamare “mista”. È in questo senso che si pronuncia nella Summa. M a forse succede lo stesso nel De Regno? È un’opera incompiuta, scritta, si direbbe, per fare l’elogio della forma monarchica pura. Fino a che punto si è giustificati nell’asserire che Tommaso avrebbe finito per optare per un governo misto? La cosa migliore e più prudente è preliminarmen­ te quella di limitarsi a congetture. Nella Summa (questioni 90 e 95) fare la legge spetta ai grandi unitamente al popolo. Nel D e Regno [si afferma che] basta prendere precauzioni adeguate per “fornire alla moltitudine” un re felicemente scelto. Successivamente sarà organizzata di conseguenza la direzione dello stato non senza “temperare” nel debito modo il potere monarchico. Come fare? Ecco la risposta: “Lo vedremo in seguito”. Purtroppo il seguito non c’è mai stato. E testo Si ferma al secondo libro dell’opera (che ne presenta quattro e doveva

42

G aSi!Storia delle dottiine politiche

essere completata). A d ogni modo cr sembra singolarmente significativo che Tommaso riservi al re un posto preponderante e un regnum da temperare».14 Notoriam ente Tommaso aggiornò Aristotele e tentò di attribuire fonte patti­ zia a un potere concreto derivante non dalla rappresentanza, m a dall’ereditarie­ tà, ed è significativo che Sabine lo collochi al vertice di una cultura che definisce «virile» (oltre che «brillante»). Il fatto che lo storico più noto delle dottrine politiche concluda poi la sua valutazione col rapporto tra l’aquinate e Locke, sembra tracciare una linea ideale della continuità di una impostazione che, in ipotesi, si costruisce come “risposta” a “sfide” successive: l’aristotelismo dopo il dionisismo, la patristica dopo lo gnosticismo, la scientificità contro la stregoneria, come vedremo nel secolo di Locke. Sotto questo stesso aspetto è significativo che il solo testo sistematico di filosofia politica scritto nel Medioevo prima del ritrovamento di quello di Aristo­ tele, il Pofycraticus di Giovanni di Salisbury (1159), sia al contempo il primo testo che avvia la critica alla stregoneria fondendo le credenze nella “società di Diana” (donne in cavalcata notturna, il futuro sabbah) e nei malefici delle maliarde dell’età classica. Giovanni di Salisbury apre anche un’altra strada, per la quale è più noto, alla filosofia politica: la critica al tiranno, che sarà ripresa da Tommaso e che fa ritenere ad alcuni commentatori che lo studioso inglese giunga ad avallare il tirannicidio. Il De Monarchia di D ante Aligheri, scritto come è noto in occasione delle discese in Italia dell’imperatore Enrico vm (1310-13) rappresenta una difesa del diritto imperiale e quindi si contrappone a Giovanni e Tommaso, ma nello stesso contesto culturale, come precisa Sabine: «Per quanto riguarda i principi generali l’accordo è totale. Tutti e tre concepirono l’Europa come un’unica comunità cristiana, governata da due autorità volute da Dio, il sacerdotium e Vimperìum. Proprio al tempo in cui in Francia, con la controversia tra Filippo il Bello e il papa, faceva la sua prima apparizione un atteggiamento nazionalistico, Dante guardava ancora a quella politica imperiale superata che aveva rovinato gli Hohenstaufen. Egli scrisse per dimostrare che.il potere imperiale deriva da Dio ed è quindi indipendente dalla chiesa. Si collega alle teorie di Gelasio, le idee che svolge furono forse suggerite da rinnovati studi della legge romana secondo la quale l’impero medievale, come continuatore di quello romano, era l’erede dell’autorità universale di Roma. Questa sintesi fa la prima reazione del nuovo aristotelismo alla lunga tradizione cristiana che va dall’età dei Padri al secolo xm».15 V a notato che il xiv secolo - che avviò questo cambiamento - è anche quello nel quale prende avvio l’elaborazione teorica che per trecento anni motiverà la persecuzione delle streghe. Nel 1326 la costituzione Super Ulius specula è emana­ ta da quello stesso Giovanni xxn che con la controversia con Ludovico il Bavaro 14. G J L Sabine, op. ciL, cap. X m .

15. Ibi