Storia delle storie letterarie 9788820739447

Concepita durante la "vigilia normalistica", secondo il ricordo di Vittore Branca, la Storia fu data alle stam

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Storia delle storie letterarie
 9788820739447

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LA CULTURA STORICA 29 Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore

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Segreteria di redazione: Domenico Conte e Edoardo Massimilla

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Giovanni Getto

STORIA DELLE STORIE LETTERARIE nuova edizione a cura di Clara Allasia

ISSN 1972-0688

Liguori Editore

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Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2010 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 2010 Getto, Giovanni :

Storia delle storie letterarie/Giovanni Getto La cultura storica Napoli : Liguori, 2010 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 3944 - 7 ISSN 1972-0688 1. Letteratura italiana

2. Storia della letteratura italiana

I. Titolo II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: ——————————————————————————————————————————–––––––––––––––––––––––––––––––––– 14 13 12 11 10 09 08 09 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

IX

Presentazione di Fulvio Tessitore

XI

Il «vecchio libro» del «pioniere» di Clara Allasia

XXIII

Nota al testo Storia delle storie letterarie

1

Premesse

5

La preistoria della storia letteraria

31

L’elaborazione storiografica settecentesca

71

La Storia della letteratura italiana del Tiraboschi

93

Preludi storiografici ottocenteschi

117

La discussione storiografica del primo Ottocento

143

La Storia delle belle lettere dell’Emiliani Giudici

181

Successive esperienze storiografiche

207

La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis

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viii

INDICE

241

La storia della letteratura dopo De Sanctis

259

La storia della letteratura nel Novecento

Appendice Bibliografia

323

Postilla su Croce e la storia letteraria

333

Indice dei nomi

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295

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PRESENTAZIONE

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di Fulvio Tessitore

L’idea di ripubblicare questo classico libro di Giovanni Getto nacque nel corso di un colloquio tra Marziano Guglielminetti e me in quel di Macerata. Marziano aveva voluto che io partecipassi ad un incontro di italianisti per dirigere un seminario sullo stato e sul destino delle università nel nostro Paese. Allora ero senatore della Repubblica, dopo essere stato per quindici anni Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Federico II” di Napoli, della quale ero stato anche Rettore, fino al 2001. Anche Marziano, sia pur per molto meno tempo di me, era stato Preside a Torino. E condividevamo una comune preoccupazione sul futuro delle nostre Università. Eravamo accomunati dalla convinzione che la necessaria, radicale revisione del sistema universitario non poteva essere, se voleva significare qualcosa di serio, un fatto ideologico, una preoccupazione di natura formale, che cioè guardasse all’architettura del sistema, e non a un rigoroso discorso culturale. Questa convinzione fece andare i nostri rapporti ben oltre una comune preoccupazione civile e politica. Si determinò così un vero scambio intellettuale tra Marziano e me, che ci portò, assai spesso, a parlare dei nostri studi, delle nostre letture, dei nostri maestri. Fu così che, parlando di Francesco De Sanctis (un mio grande interesse di studio) e della mia lettura del grande storico e “filosofo” (sì, filosofo, convinto come sono che De Sanctis, insieme a Manzoni, sia una delle più forti ed originali menti filosofiche dell’Ottocento italiano), mi capitò di dire quanto fosse stata importante per me, negli anni liceali, la lettura del libro di Giovanni Getto, il maestro di Guglielminetti, Storia delle storie letterarie. Marziano si compiacque molto delle mie conoscenze degli scritti di Getto (parlammo anche, ovviamente, del Manzoni europeo) e venne fuori il progetto di ristampare a Napoli, in una collana da me diretta, il grande libro del maestro torinese.

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x

PRESENTAZIONE

Marziano si ripromise di introdurre la nuova ristampa, che volle affidare alle cure di Clara Allasia. Ne riparlammo a Torino, in occasione del convegno su “Croce in Piemonte”, al quale Marziano volle che partecipassi con un intervento. La sorte crudele ha voluto che Marziano scomparisse immaturamente nel 2006, non consentendogli di veder realizzato il progetto cui tanto teneva e che aveva rappresentato un ulteriore motivo di vincolo per la nostra amicizia. A me piace dedicare alla memoria di Marziano Guglielminetti la ripubblicazione di questo libro di Getto, che, per tanti versi, è ancora un unicum non sostituito nella nostra storiografia letteraria e non solo letteraria. Non tocca a me presentarlo, sostituendomi impropriamente a Guglielminetti. Mi limito, dinanzi ad un libro che ha ormai oltre sessant’anni e non li dimostra, a ricordare il giudizio che, in una lettera a Getto, ne dette J. Starobinski: “Ho appena letto delle pagine meravigliosamente illuminanti della sua Storia delle storie letterarie. Che bel libro!”. Sono grato a Clara Allasia per la sua presentazione, lucida criticamente quanto informata e capace di far cogliere, pur con essenzialità, l’origine del libro del maestro torinese e la sua evoluzione, che la nota al testo documenta con opportune chiarificazioni. Anche grazie a questo lavoro sono sicuro della rinnovata fortuna di questo libro, che auguro a molti giovani di leggere, come capitò a me di fare, poco più che ragazzo, con gran profitto. Napoli, 29 dicembre 2009

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IL «VECCHIO LIBRO» DEL «PIONIERE»

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di Clara Allasia

Ci valga come attenuante l’aver intrapreso da pionieri l’esplorazione e la prima sistemazione di questo territorio1.

Così, nel 1942, Giovanni Getto, introducendo la prima edizione della Storia delle storie letterarie, rivendicava, senza parere, l’originalità della «più alacre, inventiva, sapiente e suasiva» opera di teoria della letteratura «del Novecento europeo», letta allora «in contrapposizione con i teorici del passato e soprattutto con il Croce»2. In quell’inciso, «soltanto una parentesi tonda», anni dopo Roberto Alonge avrebbe intravisto «un intreccio di strade», una selva, quasi ariostesca, di «possibilità che si offrono e si dischiudono», «il gusto dell’avventura culturale, il piacere di varcare confini»3. Eppure non erano tempi propizi per varcare confini: la data in calce alla Premessa, «Ivrea, 5 settembre 1942», è di per sé molto eloquente, ma ci vorranno «esattamente venticinque anni» perché Getto decida di raccontare – e non certo per «afflusso di quella vena autobiografica da cui […] si è talora sorpresi» (infra, p. 2) – le condizioni in cui la Storia fu, se non interamente scritta, almeno conclusa. Concepita durante la «vigilia normalistica», se dobbiamo stare al ricordo di Vittore Branca4, la Storia fu data alle stampe in coincidenza dell’«avanzare della guerra», e delle inevitabili e «crescenti difficoltà di accesso alle biblioteche». Ed è proprio «la cortina di fuoco della guerra» (e «guerra» è sostantivo significativamente assente nella premessa del ’42, ma che torna due volte in quella del ’67) che

Infra, p. 1. G. Bárberi Squarotti, “Il ‘Novecento’ di Getto”, nel numero monografico di «Lettere italiane» dedicato alla memoria di Getto, condirettore della rivista dal 1955 al 1990, LV (2003), p. 400. 3 R. Alonge, Getto e il teatro: storia del testo o storia dello spettacolo?, in Il magistero di Giovanni Getto, Atti del Convegno internazionale (Torino, 22 marzo 1991), Genova: Costa & Nolan, 1993, p. 14. 4 V. Branca, “La vigilia normalistica di Giovanni Getto, studente-maestro”, in «Lettere italiane» cit., p. 323. 1

2

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

separa le ricerche affini di Getto e René Wellek, impedendo che si stabilisca «una specie di solidarietà sul piano di una collaborazione che andava oltre i confini della cultura italiana» (infra, p. 2). Non fu invece la tragedia della guerra a mettere a repentaglio il rapporto, complesso e ricco di sfumature, fra chi si dipinge come un «pioniere» nella «sistemazione di questo territorio» e colui che viene definito «esploratore infaticabile di nuovi territori della storia letteraria» (infra, p. 328), ovvero Benedetto Croce, che aveva immediatamente registrato la novità della Storia, definito un libro «diligente e intelligente», in una nota comparsa in calce a una delle postille di Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento. Croce aveva però cercato di ridurne la rilevanza teorica, includendo Getto fra coloro che consentivano con lui sul «carattere meramente pratico e didascalico della costruzione delle storie letterarie più o meno generali»5. Era, indubbiamente, una forzatura e fin dall’Appendice per la seconda edizione, quella del ’46, Getto sentì la necessità di puntualizzare, da un lato «riaffermando l’esigenza viva, storiograficamente e scientificamente valida, […] di una storia generale della letteratura come storia di una civiltà letteraria» (infra, pp. 328-29) e dall’altro precisando alcuni aspetti del suo dialogo con Croce che, a quell’altezza, era ancora costruttivo e vivace. D’altro canto Getto non avrebbe mai messo in discussione quanto aveva scritto in apertura del capitolo decimo, sottolineando il condizionamento ineludibile dovuto alla «molteplice attività del Croce» e, anzi, in tutte le edizioni successive della Storia, tenne come punto fermo, pure in uno scenario che tendeva a evolversi rapidamente, le parti del libro e gli apparati esterni ad esso che precisavano i termini di questo dialogo teorico. I rapporti personali tra i due, invece, si sarebbero guastati in modo grave nel ’50 quando, in seguito alla richiesta gettiana di sondare presso gli eredi Laterza la possibilità di pubblicare L’interpretazione del Tasso6, Croce avrebbe risposto con una lettera inspiegabilmente durissima: 5 B. Croce, Ancora del modo di trattare la storia della letteratura, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari: Laterza, 1945, vol. II, p. 258. La nota relativa alla Storia delle storie è riportata qui integralmente (infra, p. 328). 6 «Illustre Senatore, [...] sto ultimando la correzione del manoscritto di una monografia sul Tasso, su tutta l’opera del Tasso. Un capitolo di questo mio lavoro è stato pubblicato su Belfagor (maggio 1949): e dell’estratto mi sono anzi permesso di farle omaggio, a Pollone […]. Laterza potrebbe pubblicarmi il volume? Penso che il Suo benestare sia l’unica cosa veramente necessaria. Difficoltà economiche e commerciali non dovrebbero essercene: il libro potrebbe servire anche per usi didattici nella mia università, e quindi essere facilmente venduto! Le sarò dunque tanto riconoscente se potrà aiutarmi», lettera inedita del 15 marzo [erroneamente datata “IV”] 1950, Fondazione “Biblioteca Benedetto Croce”, Archivio di B. Croce, serie “Carteggio per anno e corrispondente” [1950].

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IL «VECCHIO LIBRO» DEL «PIONIERE»

xiii

Caro Prof. Getto, Io Le confesso la mia poca propensione a incoraggiare i lavori che nascono per necessità didascaliche e contano di diffondersi per mezzo della diffusione prestata dagli scolari. Sono lavori che scoprono la loro debolezza nel loro carattere di compiutezza, cioè che costringono l’autore a trattare tutti gli aspetti di uno scrittore, anche quelli che attualmente non sente. Il Laterza ha accettato alcuni di questi prodotti semi scolastici e le conseguenze non sono state buone; tanto che io nei consigli che do alla casa Laterza mi oppongo a proseguire in questa consuetudine. EccoLe dunque candidamente dette le ragioni che mi rendono impossibile di operare presso il Laterza al contrario di ciò che gli dico sempre. A Lei non mancherà certo altro editore che non segua questo mio criterio. Mi abbia con cordiali saluti Suo B. Croce

Eppure aveva prestato attenzione e tempo al giovane Getto quando questi, nel ’46, gli aveva inviato la monografia su sant’Alfonso de’ Liguori. Deduciamo qualcosa del dibattito dalla lettera di Getto – la più lunga da lui indirizzata a Croce fra quelle che ci sono pervenute – e che vale la pena di leggere per intero: Ill.mo Signore, Le devo un vivo ringraziamento per la cortesia con cui ha voluto rispondere al mio omaggio, ed anche più per la critica (che mi ha fatto pensare) con cui Lei segna il limite del mio lavoro. Ma io non ho voluto assolutamente ritrarre e lodare in S. Alfonso l’uomo pio (a meno che non ci intendiamo nel preciso valore di questo termine: voglio dire che non ho inteso offrire una vita esemplare di santo a scopo di edificazione religiosa). Quel che invece ha determinato la mia ricerca è stata proprio la vasta collana delle opere del santo che mi sono preoccupato di leggere, trovando via via in esse la stimolante materia di un non trascurabile capitolo della storia della letteratura e della cultura del Settecento (e non solo per la casistica che rappresenta una parte soltanto della sua opera - e della quale perciò tratto soltanto nel secondo capitolo). Questi scritti ho cercato di interpretare come espressione di una esperienza umana e religiosa, valendomi per questo anche dei simboli biografici nei quali ho inquadrato il libro. Ora mi pare che con questo si resti sul terreno di un vivo interesse storico e non si scenda nel piano delle preoccupazioni pietistiche! Che poi qua e là io non mi sia saputo mantenere all’altezza del compito prefissomi, che abbia ceduto ad un gusto agiografico decorativo può anche darsi e sono il primo ad ammetterlo. Però l’impostazione e lo sviluppo generale del lavoro mi pare che riescano metodologicamente validi. Mi voglia perdonare questo mio forse inopportuno ribattere alla

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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sua grave riserva. Lo faccio non per difendere un’opera mia, ma solo per chiarirmi un problema che mi sta a cuore, per giustificarmi un interesse che mi guida in una serie di ricerche a cui (come accenno nella Nota finale) vorrei attendere. Con i miei più deferenti saluti Giovanni Getto7

È in qualche modo una lettera di risposta anche la coeva Appendice per la seconda edizione, uscita in calce, lo si è detto, alla Storia nel ’46, che Getto espunge nel ’69, rimandando però espressamente («le mie pagine […] esigono tuttavia di venire completate», infra, p. 3) alla versione rivista – qui riportata in Appendice – che compare fin dalla prima edizione di Letteratura e critica nel tempo (1954, 19682) col titolo Postilla su Croce e la storia letteraria. La Postilla merita attenzione non solo perché, come ora ci è palese, contiene un riferimento esplicito al dialogo epistolare su Sant’Alfonso8, ma perché Croce vi appare in un duplice ruolo. Innanzitutto quale autore e modello, ma non – come si sarebbe potuto pensare, anche ricordando la dedica a «Eduardo Fueter» – della Storia della storiografia italiana del secolo decimonono, libro giudicato «sufficiente a segnare le linee maestre di una storia della storia letteraria» (infra, p. 262) e uscito alla vigilia e subito dopo la Grande Guerra, l’«altra guerra reale di sangue e di morte»9. Il Croce a cui qui si guarda è quello della Storia del regno di Napoli e, soprattutto, della Storia d’Europa, e questa scelta assume un significato che dovrebbe essere meglio indagato, se si pensa all’impatto e alla rilevanza che il libro dedicato a Thomas Mann ebbe nell’Italia e nell’Europa di quegli anni. Il secondo grande merito che Getto attribuisce a Croce è di «aver additato il cielo della poesia come meta dell’esercizio critico», ponendo un freno alle «deviazioni confusionarie della critica erudita o filologica, retoricistica o impressionistica» (infra, p. 326). Ma, nella visione gettiana, il filosofo naLa minuta della lettera di Croce, datata 18 marzo 1950, e la lettera da Torino del 13 gennaio 1947, sono inedite e provengono dalla Fondazione “Biblioteca Benedetto Croce”, Archivio di B. Croce, serie “Carteggio per anno e corrispondente” [1947, 1950]. 8 «Un santo non sarà solo visto, poniamo, come il restauratore e il rinnovatore della casistica (tanto per richiamarci a un esempio che ci è vicino e a un suggerimento cortese che in proposito lo stesso Croce ebbe a darci), ma sarà interpretato senza che nulla sia trascurato della vicenda complessa e umanissima della sua spiritualità», infra, p. 327. 9 Così si sarebbe espresso Getto, in un passo poi espunto (p. 327 dell’edizione ’46), riferendosi a quella «ideale battaglia tra germanesimo e latinità», a cui si rivolgono polemicamente anche le due prefazioni della Storia della storiografia. A essere preso in esame è l’articolo di Alfredo Galletti, Il Romanticismo germanico e la storiografia letteraria in Italia, che Getto giudica «occasionato da motivi di nazionalistica e umanitaria idealità di ispirazione antigermanica, secondo che dettavano le circostanze storiche degli anni in cui egli scriveva», infra, p. 277. 7

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IL «VECCHIO LIBRO» DEL «PIONIERE»

xv

poletano esaurisce la sua funzione accompagnando la critica alla soglia del «cielo della poesia», entrato nel quale «il critico non può che tacere, e tutto il suo compito, altissimo e arduo compito, consiste nell’additare la Poesia, nel condurre davanti ad essa attraverso il Paradiso in cui si manifesta, cioè, fuori di metafora, attraverso quel mondo di parole e ritmi, di sentimenti e di emozioni, in cui essa poesia si rivela e su cui regna e in cui in certo modo consiste». Arrischiandoci a continuare nella metafora che Getto abbandona, si potrebbe dire che Croce resta relegato in un limbo di rigido rigore che gli impedisce di assumere una posizione concessa al critico moderno: «meno oggettiva e più soggettiva» dirà Getto, spingendosi a definirla, seppur con qualche cautela («se vogliamo servirci in modo approssimativo di questi termini»), «meno classica e più romantica». Insomma, Croce resta, consapevolmente e in qualche modo eroicamente, vittima della sua «esigenza polemica, di chiarificazione, che egli avvertì di fronte alla cultura dell’ultimo Ottocento e dei primi decenni del Novecento», negandosi la possibilità di «cogliere il profilo sinuoso e sfumato del soggetto visto nel suo rapporto con i valori di cultura e di civiltà» (infra, p. 327). Non si può fare a meno di notare che le ragioni opposte da Croce alla pubblicazione del Tasso presso Laterza, sono, di fatto, le stesse che renderebbero impraticabile allo studioso la stesura di una storia della letteratura e più ancora di una monografia esaustiva su un autore, perché – e Getto cita questa passo nella Postilla su Croce – si presenta «l’inconveniente di dover trattare anche di opere o di autori circa i quali non sono sorti nella sua mente problemi nuovi, perché quelle opere o quegli autori devono essere inclusi nel quadro»10. Si porta insomma alle estreme conseguenze «il germe fecondo racchiuso nella affermazione del Croce circa il carattere monografico della storia letteraria» (infra, p. 278), una storia che dovrebbe assumere come paradigma «l’andamento tipico del saggio crociano» ridotto «nei suoi termini essenziali» all’analisi «veloce quanto profonda dell’opera più significativa di un poeta»: va da sé che in tale analisi vengano «trascurate quasi per fastidio le opere minori», e allontanate «come elemento negativo, le parti strutturali o non poetiche» (infra, p. 326). Bisogna notare che Croce respinge l’Interpretazione del Tasso senza averlo letto e tacciandolo di quel peccato originale, significativamente espresso dall’aggettivo «didascalico», che era lo stesso attribuito alle «storie letterarie più o meno generali»11. È quasi, e cercheremo di verificare questa ipotesi, come se Croce respingesse, con questo volume, la 10 11

B. Croce, Ancora del modo di trattare la storia della letteratura cit., p. 257. Id., Ancora del modo di trattare la storia della letteratura cit., p. 258.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

prospettiva di evoluzione che, cessata l’emergenza civile, Getto in qualche modo gli indicava, e che, lo vedremo, fu percorsa, con originalità e esiti diversi, anche da studiosi ben più vicini a lui. Sembra essere molto forte, nella lettura di Getto, l’idea che la posizione di Croce nasca da un vero e proprio rifiuto, una volontaria “censura”: lo suggerisce, cautamente ma con chiarezza, quando cita alcune ricerche crociane che potrebbero «rappresentare degli avvii notevoli ad una storia» intesa «come storia di una civiltà delle lettere» (infra, p. 327) e lo ribadirà nella Polemica sul Barocco, un saggio che fa parte di Letteratura e critica nel tempo e che ha molte parentele con la Storia. Croce vi è colto mentre partecipa, «in pieno, con un massimo di apertura, alla sensibilità del tempo nei confronti del Barocco», ma subito subentra in lui la preoccupazione «del contenuto etico dell’arte» e dal «prudente invito» a «evitare di cadere in certe esagerazioni», incluso in Sensualismo e ingegnosità nella lirica del Seicento (1911), si arriva alla Storia dell’età barocca, del 1928, (il cui titolo completo indica significativamente, quali ambiti di analisi, «pensiero, poesia e letteratura, vita morale») e ai Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, del 1931. In queste pagine l’«associarsi spontaneo [...] della poetica del Seicento e della poetica o delle poetiche contemporanee» determina l’esorcismo del Barocco letterario, e non solo, come «metafora della Decadenza»12. A proposito di questa evoluzione, Getto richiama esplicitamente la «posizione politica di Croce», i «suoi ideali di uomo in fondo ancora risorgimentale», il «rifiuto opposto al fascismo». Non serve qui notare il fraintendimento, a distanza di anni, della reale portata del saggio crociano su D’Annunzio del 1904, definito «quasi apologetico»13; è invece importante acquisire, ancora grazie a una lettera inedita, la richiesta di Getto di essere ricevuto a Pollone, nell’estate del ’49, pochi mesi prima della rottura, per discutere dell’impostazione della «sezione a lui affidata (il Seicento)» della «Storia letteraria che dovrà essere edita dal Ricciardi sotto la direzione di Pancrazi e di Schiaffini»14. Il fatto che Getto sentisse il bisogno di consultarsi con Croce per il primo schizzo dei confini di un lavoro che fin dall’inizio doveva presentarsi immenso, testimonia non solo la convinzione, peraltro più volte ribadita, dell’imprescindibilità dell’opera crociana nell’analisi del Seicento, ma ci porta anche a registrare qualche cortocircuito rispetto al 12 E. Giammattei, Critica e filosofia. Croce e Gentile, in Storia della letteratura Italiana, Tra l’Otto e il Novecento - VIII, Roma: Salerno Editrice, 1999, p. 992. 13 G. Getto, La polemica sul Barocco, ora in Il barocco letterario in Italia, premessa di M. Guglielminetti, Milano: Bruno Mondadori, 2000, pp. 416-419. 14 Lettera da Ceresito di Donato, 20 agosto 1949, Fondazione “Biblioteca Benedetto Croce”, Archivio di B. Croce, serie “Carteggio per anno e corrispondente” [1949].

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IL «VECCHIO LIBRO» DEL «PIONIERE»

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problema della storia della letteratura. Se agli eruditi letterati è richiesto, stando alla Avvertenza che Croce antepone a Poesia popolare e poesia d’arte del 1929, di costruire un modello di ricerca «chiamata a riempire vuoti, illuminare punti oscuri per scandagli progressivi», a realizzarsi «nella forma dell’aggiunta, della postilla, del supplemento d’indagine»15, nella prefazione a Barocco in prosa e in poesia datata «Montpellier, 25 gennaio 1969», Getto presenta questo volume come una raccolta di «prove, alcuni punti fermi, dei risultati a cui sono pervenuto nelle ricerche che da circa un ventennio mi tengono occupato». Le ricerche a cui l’autore allude dovrebbero confluire nel volume per Ricciardi sul Seicento – lo stesso per il quale aveva chiesto un colloquio a Croce – che «dopo vent’anni non è ancora pronto». Le ragioni addotte sono due: la necessità di «mettere in disparte le ricerche sul Seicento, per dedicarsi ad argomenti del tutto diversi, (indotto a questo al fine di non smarrire, tuffato interamente nel secolo, la giusta prospettiva di esso)» e il bisogno di procedere a «lunghe ed estenuanti esplorazioni»16. Il pioniere si muove di nuovo in territori immensi, che contrastano con l’immagine crociana del Seicento come «un campo inaridito» in cui è possibile trovare solo «scarse zolle verdeggianti e [...] rari fiori»17, e che diventano invece, con la loro vastità, stimolo a un’«attività conoscitiva, epistemologica, interpretativa», perché – lo ha ricordato Maria Luisa Doglio – per Getto, crocianamente, «la critica non appartiene al regno dell’intuizione»18. Il gusto per il viaggio in terra incognita, le difficoltà incontrate nell’esplorazione «di testi, talora introvabili e di non sempre facile lettura e interpretazione», non influiscono minimamente sull’impostazione di “Filologia e critica”, l’altra postilla («meno citata», ha osservato ancora Doglio, e forse non a caso), uscita nel 1956 su «Lettere italiane», e poi inserita nella seconda edizione di Letteratura e critica del tempo: L’autentica dinamica di un’opera d’arte non è davvero quella offerta dalla sua genesi contingente, distesa nel tempo in una serie discontinua di momenti rappresentati dalle varianti, quasi strati di tangibile geologia: la reale dinamica della poesia è invece quella che si ritrova nella sua perpetua

E. Giammattei, Critica e filosofia. Croce e Gentile cit., p. 992 Sto citando dall’edizione di Il barocco letterario in Italia, premessa di M. Guglielminetti, Milano: Bruno Mondadori, 2000, p. 2. Il volume raccoglie Barocco in prosa e in poesia e La polemica sul Barocco. 17 B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari: Laterza, 1968, p. x. 18 M.L. Doglio, Il Barocco nella lezione di Giovanni Getto e nella storia della cultura torinese del Novecento, ora in Ead., Giovanni Getto. Il suo stile critico, Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2009, p. 57. 15

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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genesi ideale, al di là della successione cronologica, tutta calata dentro la parola vivente, nella significazione poetica del capolavoro raggiunto19.

Non è semplice citare questo contributo alla polemica sorta intorno alla «critica degli scartafacci» ponendolo al di fuori di un orientamento crociano, se non tenendo conto dell’affermazione di Gianfranco Contini secondo cui, a quest’altezza, «l’unico modo di essere crociano è essere post-crociano»20. Bisogna aggiungere che, introducendo Il Barocco letterario in Italia, Marziano Guglielminetti si preoccupava di definire il «non-crocianesimo» di Getto, avvertendo però subito che gli sarebbe riuscito difficile collocare la scrittura gettiana «entro la falsariga di una storia della critica letteraria post-crociana», e questo non solo perché l’operazione avrebbe implicato di assegnare a Getto «uno spazio di sviluppo» presto eroso «da chi sopravviene», ma anche perché nel suo caso «la prassi aveva di gran lunga vinto sulla teoria»21. Per restare ancora con Contini, mi sentirei di affermare che Getto volle compiere, pur senza esibirlo, lo «sforzo di quegli anni», ovvero, si mantenne non-crociano «senza essere anticrociano»22. La premessa del ’67, pur stringata come tutte le premesse gettiane, ci dice sulla genesi della Storia molto più della prima, registrando anche l’impossibilità di «ricordare fra le ragioni di compiacimento l’affrettata ristampa voluta dall’Editore nel 1946», affrettata perché aveva concesso «al desiderio di intervento dell’autore» solo «l’angolo ristretto di una breve Appendice». L’intervallo di quattro anni («e quali anni sono stati non staremo a ricordare» avrebbe scritto Getto nel ’46), fra le due edizioni corrisponde a quelle che Bárberi chiama «le date del Novecento di Getto», ovvero «il periodo più oscuro e doloroso e disperato della nostra storia novecentesca: lo scoppio della guerra, la sconfitta, la resistenza, le rovine delle città e della dignità morale, la difficilissima ripresa della democrazia e della politica»23. E tuttavia, nel corso di questi quattro anni, scrive ancora Getto nel ’46, è mutato, almeno in parte, «il gusto dell’autore», e si sarebbero resi necessari «una serie di ritocchi», che peraltro, ammette, «finiscono quasi sempre col portare a riscrivere tutto il libro».

G. Getto, Postilla su filologia e critica, in Letteratura e critica nel tempo, Milano: Marzorati, 1968, p. 385. 20 G. Contini, Altri esercizi (1942-1971), Torino: Einaudi, 1972, p. 67. 21 M. Guglielminetti, Il Barocco di Giovanni Getto, in G. Getto, Il Barocco letterario in Italia cit., p. vii. 22 G. Contini, Altri esercizi (1942-1971), cit., p. 31. 23 G. Bárberi Squarotti, “Il ‘Novecento’ di Getto” cit., p. 399. 19

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IL «VECCHIO LIBRO» DEL «PIONIERE»

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L’occasione di «riprendere e migliorare le sue pagine» viene offerta dalla necessità di stendere un capitolo sulla Storia letteraria (poi incluso anch’esso in Letteratura e critica nel tempo) per Marzorati. Ed è tale ragione che ha indotto Getto a non abbandonare «questo vecchio libro» (infra, p. 2), sottoponendolo a una «revisione minutissima fatta di tagli più che di aggiunte, di espunzioni più che di modifiche», spinto dalla «necessità di giungere a una definitiva limpidezza, lucidità, chiarezza», che restituisca senza sbavature «il rigore dell’analisi»24. Troppo lungo, anche se molto interessante, sarebbe illustrare tutte le varianti introdotte. È un esercizio che risulta particolarmente fecondo – per usare un parola cara a Getto nella Storia – nel decimo e ultimo capitolo, là dove si affronta il problema della presenza e della rilevanza crociana, non solo, ovviamente, quale tramite fondamentale per la «restituzione alla cultura italiana» di De Sanctis («un De Sanctis reso più rigido e sistematico, filosoficamente coerente»25, mentre di altri repêchages, in primo luogo quelli gramsciani fatti «in margine e sulla pelle di Croce»26, o quelli ispirati dalla scuola storica, qui non è fatto cenno), ma per «quel lavoro attentissimo di perpetua messa a punto, di vigile osservazione, di coerente deduzione, che attraverso un’infaticabile ricerca, avrebbe dovuto convogliare il problema su binari sempre più esattamente orientati» (infra, p. 264). È un lavoro che Getto ripercorre fino a La poesia, del 1936, in cui individua una possibilità per l’evoluzione del pensiero crociano, che d’altronde con la Letteratura della Nuova Italia aveva offerto «l’esempio di un paesaggio storico limpidissimo, di un’unitaria vita su cui fioriva, con originali e personalissimi toni, la varia luce della poesia»: La storia letteraria nel trasformarsi da storia della poesia in storia della poesia e della letteratura, storia cioè delle opere da giudicarsi in base all’unica categoria della bellezza che distingue le opere in poeticamente belle e in letterariamente belle, estendeva, in una rigorosa sistemazione critica, i propri limiti e, nel più fitto e vario tessuto che ne derivava, si

M.L. Doglio, Il Barocco nella lezione di Giovanni Getto... cit., p. 60. Nell’edizione 1969 Getto avrebbe aggiunto una lunga nota – qui alle pp. 138-140 – in cui si trova questa riflessione e che tra l’altro indirettamente giustifica la soppressione dell’inciso parentetico all’inizio del cap. X in cui avvicinava l’attività di Croce «con una possibilità di confronto di dimensioni istituibile soltanto con Foscolo e Carducci» (p. 305 dell’ed. ’42). 26 M. Guglielminetti, Storia delle storie letterarie, in Fare storia della letteratura, a cura di O. Cecchi e E. Ghidetti, Roma: Editori riuniti, 1986, p. 26. Il saggio ripercorre magistralmente gli snodi fondamentali della Storia. 24

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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aprivano, su un piano didascalico, più reali e giustificate possibilità di approfondite delineazioni e di complessi raggruppamenti27.

Di fronte alla volontà di Croce di non uscire dai confini da lui stesso tracciati, e al tentativo, peraltro episodico di Gentile di allargare l’orizzonte, Getto esamina alcune proposte critiche successive: fra di esse la Storia della letteratura italiana di Francesco Flora, in un passo poi espunto dall’edizione del ’69, «si offre come sicuro pretesto conclusivo della ricerca fin qui prolungata» per la «spiccata e densa originalità» (p. 343 dell’ed. ’46). Importa notare che Flora fosse già stato citato nella Storia, per il suo Croce (infra, p. 259), un libro che mostrava «indipendenza di sintesi […], riconoscimento di un magistero metodologico ed etico-politico ineludibile, ma in quanto orizzonte capace ed aperto»28. Insieme a Momigliano, Flora ha anche, secondo Getto, il merito di aver affrontato il problema della «scelta degli artisti», problema già denunciato da Croce nella sua urgenza quando avvertiva della necessità di adottare un «modo difensivo», ovvero di eliminare «polemicamente dai propri quadri quegli scrittori non originali e non sinceri, che l’opinione altrui più o meno autorevole, o la sbadataggine, vi ha introdotti e lasciati adagiare»29. E anche se il primato conferito a Flora si stempera lievemente nella versione ultima (infra, p. 289), sarebbe stato di grande aiuto leggere l’«annuncio, tre o quattro pagine» che Croce, in una splendida lettera «letteraria» ma «sincera», indirizzata proprio a Flora, si proponeva di stendere per la sua Storia della letteratura. Getto, indipendentemente da lui, aveva inserito nella Polemica sul Barocco una riflessione che chiarisce e conferma quanto scritto nella Storia: Flora appare portatore di una «disciplina metodologica di derivazione crociana» che coniuga con «una ricca disponibilità di interessi fecondata dall’esperienza, in pochi così sofferta come in lui»30: sembra insomma colui che ha liberato il magistero crociano dalle rigidità, vissute invece qui come stimoli. Sicuramente l’orecchio raffinatissimo di Getto non poteva non percepire quanto ora ci appare chiaro dai documenti, ovvero che l’interesse e il contributo di Croce alla Storia della letteratura furono tutt’altro che episodici31. Naturalmente Getto ignorava l’immagine, macabra Infra, p. 272. E. Giammattei, Per il carteggio Croce-Flora, ora in Ead., I dintorni di Croce, Napoli: Guida, 2009, p. 205. 29 B. Croce, Poeti, letterati e produttori di letteratura, in Problemi di estetica, Bari: Laterza, 19232, p. 136. 30 G. Getto, La polemica sul Barocco cit., p. 425. 31 Si vedano a proposito C. Reale, Il circolo crociano e Flora: amicizia e libertà intellettuale, in Le carte Flora fra memoria e ricerca, Atti del Convegno (Arcacavata 26-27 nov. 2002), a cura di G. Donnici, F. Iusi, C. Reale, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2006, pp. 109-128 e nello stesso 27

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IL «VECCHIO LIBRO» DEL «PIONIERE»

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e barocca insieme, che Croce offriva di sé a Flora nella stessa lettera in cui gli prometteva la recensione:

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Mi torna il ricordo di un tormento che vidi in un baraccone quando ero ragazzo di nove o dieci anni, in un museo degli orrori rappresentati da statue di cera. Un ingegnoso delinquente si sbarazzava l’una dopo l’altra delle mogli o delle amanti, che non so bene, fasciandole come bambini e, così rese immobili, solleticandole sotto la pianta dei piedi. Mi pare che di questo facciano di me gli eventi e i procedimenti e le parole dei giorni nostri.

La data, 7 maggio 1940, induce a ritenere che ben altri fossero i motivi che suscitavano nell’anziano senatore un simile ricordo, ma certo è difficile allontanarsi da questa immagine senza pensare, almeno per un attimo, che potrebbe suggerire qualcuna delle condizioni paralizzanti di cui si è detto. Croce abbandonerà, di lì a due anni, il progetto dell’annuncio, perché, scrive a Flora, avrebbe implicato il «mettere in rapporto le cose che volevo dire sull’idea della Storia letteraria col vostro libro», e «veramente ad esso non possono riferirsi se non per qualche particolare secondario»32. Dal canto suo Getto, nell’edizione del ’69, avrebbe riscritto completamente il paragrafo della Storia con cui si congedava dal lettore, indicando ora quali minacce attive in sede di storiografia letteraria il «segregante estenuato estetismo» e il «pesante sociologismo». Veniva così a cadere quella che, nella versione precedente, si proponeva come un’ultima riflessione nei confronti della complessità, della talvolta soffocante vitalità e dei possibili sviluppi del pensiero crociano: L’esigenza che sembra perciò legittimamente sorgere dall’esame della attuale storiografia letteraria è quella di una più nitida individuazione del serrato movimento storico che si conclude nel raggio della personalità, di un più totale riconoscimento della personalità degli artisti riportata nell’ambiente di cultura contemporanea ma insieme nettamente rilevata, con un assoluto rispetto dell’autonomia dell’opera d’arte, senza però isolare la bellezza in una capillare e analitica interpretazione. Si tratta insomma di riconsacrare il valore, troppo dimenticato o troppo astrattamente e grossolanamente concepito e sentito, della individualità umana, nell’intangibile tempio della coscienza, creatrice e interprete unica di bellezza. Di accentuare, al di là di ogni decavolume D. Della Terza, A proposito delle carte Flora: letture e annotazioni, pp. 103-108. Sulla genesi e sul rilievo di Croce nella Storia della Letteratura italiana si veda anche E. Giammattei, Per il carteggio Croce-Flora cit., pp. 205-217. 32 Carteggio Croce-Flora, a cura di E. Mezzetta, intr. di M. Giammattei, Istituto italiano per gli studi storici, Bologna: Il Mulino, 2008, pp. 98-99, 108-109.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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dente spasimo esistenzialista, il significato dell’uomo, al cui destino di libertà e di amore è solo possibile congiungere il destino sacro della bellezza, come quello degli altri eterni valori, che nessun organismo posto oltre l’individuo, ma l’individuo soltanto può attuare e donare all’umanità33.

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Pp. 345-346 dell’ed. ’46.

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NOTA AL TESTO

La Storia delle storie letterarie ha avuto quattro edizioni (di fatto, due edizioni e due ristampe): 1942 1946

1969

1981

1a edizione (Milano, Bompiani). 2a edizione (Milano, Bompiani), a detta dell’autore «un’affrettata ristampa», corredata tuttavia da una Premessa e un’Appendice per la seconda edizione, completata da una Nota bibliografica. L’Appendice per la seconda edizione è dedicata a due postille crociane: Ancora del modo di trattare la storia della letteratura e Di un rinfrescamento dei quadri della storia letteraria italiana, edite da Croce in coda a Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento (Bari, Laterza, 1945). Ricomparirà, con poche modifiche e il titolo Postilla su Croce e la storia letteraria, in appendice a La storia letteraria (un capitolo di Tecnica e teoria letteraria nella collana Problemi e orientamenti critici di lingua e letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1948), poi in Letteratura e critica nel tempo, (Milano, Marzorati, 1968). 3a edizione (Firenze, Sansoni), con cospicue modifiche, qualche aggiornamento bibliografico nelle edizioni di riferimento, una nuova e significativa premessa riportata in calce a quella del 1942, mentre scompare quella del ’46. Scompaiono anche l’Appendice e la Nota bibliografica della seconda edizione. Vengono indicati quale necessario completamento al volume la Postilla su Croce e la storia letteraria e la Bibliografia di La storia letteraria, nella quale sono confluite anche le segnalazioni in calce alla Nota bibliografica. 4a edizione (Firenze, Sansoni), riproduce la terza.

È lo stesso Getto, nella premessa all’edizione del 1969, a guidarci nella lettura delle sue pagine, che «esigono […] di venire completate con la Bibliografia e la Postilla che accompagnano il capitolo incluso nel volume citato Letteratura e critica nel tempo».

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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L’edizione da cui partire per una restituzione del testo non può dunque che essere quella del 1969, ma corredata dalla Postilla e dalla Bibliografia, che, ricca di succinti giudizi, si chiude con «il recentissimo» Geografia e storia della letteratura italiana, ovvero con il 1967, mentre la trattazione organica della Storia delle storie termina con la prima metà degli anni Quaranta. Il lavoro risente pesantemente delle condizioni della prima stesura, a cui lo stesso Getto accenna nella Premessa del 1967 («l’avanzare della guerra, con le crescenti difficoltà di accesso alla biblioteche») e se, fra la prima edizione e quella qui riprodotta, l’autore ha sottoposto il testo a un elaborato e finissimo intervento di riscrittura, al contrario le citazioni, nella maggior parte dei casi, non hanno subito né controlli né modifiche. Per non appesantire eccessivamente il testo, l’intervento del curatore, talvolta capillare, non è stato segnalato nel corso delle operazioni sotto descritte, salvo quando espressamente indicato e in tal caso compare fra parentesi uncinate. Impaginazione: • le citazioni superiori alle tre righe, incluse nel corpo del testo nell’edizione originale, sono state rese con il blocco inglese. • gli incisi parentetici particolarmente lunghi (superiori alle cinque righe) sono stati spostati in un’apposita nota. • per facilitare i rimandi interni, le note sono state numerate in ordine progressivo all’interno di ogni capitolo Indicazioni bibliografiche: • il testo originale contiene solo il luogo di edizione e non l’indicazione dell’editore, che è stata integrata secondo le norme della presente collana. • sono state esplicitate le molte indicazioni bibliografiche che, pur facendo riferimento a un testo comparso prima singolarmente e poi in una raccolta di saggi, forniscono nell’originale solo il titolo della raccolta o addirittura il riferimento a un’edizione nazionale. • sono state eliminate le parentesi quadre che, comparse nell’edizione del ’69, racchiudono alcune note e sono probabilmente frutto di un refuso editoriale. • sono stati esplicitati in nota gli autori dei contributi citati, là dove l’indicazione era lacunosa o mancante. • le indicazioni relative ai brani citati contengono numerosi errori di pagina e talvolta risentono di inserimenti successivi che alterano la sequenza delle note (e.g. alle pp. 302-303 dell’ed. ’69, p. 267 della presente ed., in una sequenza di citazioni provenienti dalla Letteratura

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NOTA AL TESTO

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della nuova Italia, Getto inserisce una citazione dal Saggio sullo Hegel, lasciando l’indicazione «ivi» per le note successive, invece nuovamente provenienti dalla Letteratura). Tali indicazioni sono state rettificate. vengono segnalati i casi in cui l’autore cita da un testo in edizione diversa da quella dichiarata (e.g. Crescimbeni, Historia della volgar poesia, che l’autore dichiara – alla n. 8 di p. 34 della presente ed. – di citare dall’edizione di Roma del 1698, mentre le citazioni provengono tutte dall’edizione di Venezia del 1731).

Citazioni e controlli effettuati: • tutte le citazioni riportate sono state controllate sugli originali ed emendate di numerose imprecisioni di trascrizione. I controlli sono avvenuti sulle stesse edizioni utilizzate dall’autore. Gli errori riscontrati sono nella maggior parte dei casi imputabili a sviste di trascrizione: si tratta di citazioni raccolte nel corso degli anni e probabilmente mai più ricontrollate. Tale ipotesi è avvalorata dal fatto che gli stessi brani vengono trascritti con gli stessi errori anche nella Bibliografia Marzorati qui riportata in appendice (e.g. nel lungo inciso parentetico relativo a Ireneo Affò a p. 64 dell’edizione del ’69, e riportato in nota a p. 60 di questa edizione, Getto legge «certi» là dove Affò scrive «cauti» e lo stesso errore viene ripetuto alla p. 83 di Letteratura e critica nel tempo). • interventi di correzione o proposte di emendamenti del curatore si sono resi necessari là dove il testo si presentava lacunoso o erroneo (e.g. il caso di Gian Vittorio Rossi il cui testo in latino, peraltro conforme per quel particolare all’originale, non dà senso, cfr. la n. 42 a p. 28). Non vengono invece segnalate le correzioni di refusi che non comparivano nelle edizioni precedenti (e.g. «millantore» a p. 32 è stato corretto in «millantatore» sulla scorta dell’ed. ’42) e così, per fare un altro esempio, «ghibellismo» a p. 167. • l’autore non segnala gli interventi attuati sul testo citato per ripristinare la concordanza all’interno della frase. Le modifiche da lui apportate sono state evidenziate in corsivo secondo l’uso corrente. • l’autore non ha un comportamento costante nei confronti della punteggiatura dei testi antichi trascritti. In alcuni casi ha scelto di normalizzarla, in altri ha preferito riprodurla, anche se in contrasto con l’uso corrente. Si è mantenuta, nei limiti del possibile, la sua scelta. Traduzioni: • tutti i testi in lingua non italiana sono stati, secondo la prassi della collana, corredati di traduzione riportata in nota fra uncinate e virgolette alte.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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Ringraziamenti Quando il mio maestro Marziano Guglielminetti mi parlò per la prima volta del progetto di ripubblicare la Storia delle Storie e mi chiese di occuparmene, gli risposi che la proposta mi lusingava molto, perché era un libro che ben conoscevo e amavo, ma gli feci anche osservare che, fra i suoi scolari, ero forse l’unica a non aver conosciuto Getto, e che, data la dispersione delle sue carte, non potevo sperare di avvicinarmi a lui in maniera indiretta. Guglielminetti rise della mia obiezione (mi rimproverava spesso di essere troppo legata al documento) e mi assicurò che avrebbe provveduto a risolvere i miei dubbi. Purtroppo il suo viaggio si concluse, improvvisamente, prima che questo libro arrivasse ad acquisire una sua fisionomia e io devo profonda gratitudine a tutti coloro che mi hanno aiutato nel percorso di ricostruzione e conoscenza. Innanzitutto il professor Fulvio Tessitore, che ha avuto la pazienza di attendere che mi sentissi pronta ad affrontare un libro che mi intimidiva, e il professor Amedeo Quondam, che è stato prodigo di suggerimenti e consigli nel corso della fase progettuale. Mi hanno aiutato a comprendere meglio la figura di Getto i professori Maria Luisa Doglio, Giorgio Ficara e Claudio Sensi, che hanno risposto con grande disponibilità alle mie molte domande. Un ringraziamento sentito va alla dottoressa Marta Herling e alla Fondazione “Biblioteca Benedetto Croce” che mi hanno fornito le illuminanti lettere di Getto a Croce e la minuta crociana. Come tutti i libri fatti di libri, la Storia è piena di trabocchetti grandi e piccoli: mi hanno aiutato a affrontarli la professoressa Paola Cifarelli, i professori Andrea Balbo, Cristina Icardi, Angelo Vassallo e la dottoressa Grazia Toschino. Particolare gratitudine devo al personale della Biblioteca del Dipartimento di Scienze Letterarie e Filologiche e ai dottori Chiara Caprioglio e Pier Mario Arscone della Biblioteca Gioele Solari, entrambe dell’Università di Torino. Alla professoressa Laura Nay, che ha seguito con attenzione partecipe tutte le fasi del lavoro, va uno speciale ringraziamento.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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PREMESSA (1942)

Il titolo del volume risponde a esigenze di gusto e di sveltezza di lettura, su cui non è il caso di stendere una relazione. Siccome però esso potrebbe ingannare circa il contenuto effettivo del lavoro, ci piace avvertire che la presente ricerca si limita, per ovvie ragioni di economia critica, alle storie della letteratura italiana. Questo per la seconda parte del titolo. Per la prima parte, dirà il lettore se sia valido o no. L’autore è tenuto soltanto a dichiarare che il termine “storia” si rendeva necessario per la proposta implicita a questa pubblicazione. Sembra infatti che i nostri studi, mentre hanno raggiunto sul piano teoretico e sul terreno specifico della critica letteraria un’ampiezza di misura interna e di esterna quantità davvero notevole, siano rimasti ancora troppo estranei a indagini di storia della cultura intesa in un più largo senso, relative cioè a zone, forme e aspetti che non siano quelli dell’esegesi degli scrittori. Così, non abbiamo ancora, in Italia, un’adeguata storia della critica, e manca una storia dell’estetica che abbia raccolto il suggerimento, contenuto in quella del Croce, a una più ampia ed autonoma esplorazione. (E, in un campo un po’ più scostato, quando avremo una storia della filologia?). Allo stesso modo, se si lascia qualche studio particolare, non era stata finora condotta una sistematica inchiesta su questo specifico filone che costituisce l’oggetto del presente lavoro. La nostra ricerca perciò, se anche non sarà riuscita ad assolvere il compito propriamente storico di vedere come le cose siano «eigentlich gewesen» (e per tanto ci valga come attenuante l’aver intrapreso da pionieri l’esplorazione e la prima sistemazione di questo territorio, e l’esserci trovati troppo spesso privi del sussidio di quelle opere complementari di storia della cultura alle quali accennavamo), crediamo tuttavia che possa avere in questa semplice indicazione, in detto invito a scrivere le storie particolari della nostra civiltà letteraria, una sufficiente giustificazione. Ivrea, 5 settembre 1942

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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PREMESSA (1967)

Quando nel 1942 (sono passati esattamente venticinque anni) mi decisi a pubblicare questa Storia delle storie letterarie, fatto fiducioso dall’approvazione di Antonio Banfi, che volle accoglierla nella collana «Idee Nuove» di Bompiani, ero pienamente consapevole dei limiti del mio lavoro in ordine alle ricerche che avrei ancora voluto e dovuto proseguire per portarlo a compimento. Ma mi rendevo anche conto che l’avanzare della guerra, con le crescenti difficoltà di accesso alle biblioteche, mi avrebbe costretto a sospendere il lavoro per parecchi anni e molto probabilmente, come suole accadere in simili casi, a non riprenderlo più. Comunque, uscito il libro se non evitavo il rischio del rimprovero, per qualche lacuna, da parte dell’informatissimo Calcaterra (si veda ora Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna 1950, p. 343), ottenevo in compenso un generoso giudizio del Croce (Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, vol. II, Bari 1945, p. 258). Un giudizio tanto più gradito, questo del Croce, in quanto veniva ad aggiungersi a quello implicito di Banfi. E non c’è davvero bisogno di dire che cosa abbiano rappresentato questi due nomi nel processo di sviluppo della cultura italiana del primo Novecento, soprattutto nel periodo fra le due guerre. In questo bilancio devo segnare all’attivo anche il gesto amichevole di René Wellek, che volle poi inviarmi il suo volume The Rise of English Literary History, pubblicato nel 1941, un anno prima del mio, ma limitato con più prudenza al termine significativo dell’opera di Thomas Warton: un’indagine dunque svolta parallelamente, «quite independently», come ricorda l’illustre critico nella seconda edizione del suo libro. Il fatto che, separati dalla cortina di fuoco della guerra, avessimo lavorato all’insaputa l’uno dell’altro sullo stesso tema nell’ambito delle rispettive letterature, doveva costituire per me un motivo di soddisfazione, in quanto veniva a legittimare in qualche modo la mia ricerca e quasi a stabilire una specie di solidarietà sul piano di una collaborazione che andava oltre i confini della cultura italiana. Non posso invece ricordare fra le ragioni di compiacimento l’affrettata ristampa voluta dall’Editore nel 1946, dopo neppure quattro anni dalla

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PREMESSE

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pubblicazione del libro: ristampa nella quale al desiderio di intervento dell’autore non era concesso se non l’angolo ristretto di una breve Appendice. L’occasione per ritornare sulle mie pagine, e sia pure in uno spazio limitato, mi era offerta dall’invito di Attilio Momigliano a compilare, per i Problemi ed orientamenti critici di lingua e di letteratura italiana del Marzorati, il capitolo su La storia letteraria, capitolo poi raccolto nel mio volume Letteratura e critica nel tempo. Questa cronaca minima non vuole essere intesa come un semplice afflusso di quella vena autobiografica da cui, raggiunta una certa età, si è talora sorpresi, ma come una giustificazione per non avere abbandonato questo vecchio libro, una giustificazione fondata appunto nel ricordo di alcuni nomi (purtroppo quasi tutti di scomparsi) con i quali mi sembra di avere contratto una specie di piccolo debito, che cerco qui di soddisfare: quello di riprendere e migliorare le mie pagine. Ampiamente rivedute nella forma e ritoccate qua e là anche nel contenuto, esse esigono tuttavia di venire completate con la Bibliografia e la Postilla che accompagnano il capitolo incluso nel volume citato Letteratura e critica nel tempo, di cui esce ora, presso il Marzorati, la seconda edizione. Torino, 3 settembre 1967 Giovanni Getto

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

Lo studio della genesi e dello sviluppo nella storia della nostra cultura di quel ben individuato tipo di ricerca critica che è la “storia letteraria”, di quell’inchiesta cioè rivolta a esaminare non le singole personalità o i particolari momenti di una determinata civiltà letteraria, ma tutto il complesso dispiegarsi di tale civiltà, se acquista una sua legittima concretezza solo quando si rivolga a quelle manifestazioni culturali che si ebbero nel Settecento con le opere del Crescimbeni, del Gimma, del Tiraboschi (e forse soltanto quando si applichi a quelle altre più precise forme dell’Ottocento delle quali è tipico esempio la storia dell’Emiliani Giudici), sembra tuttavia dovere rimandare, per un discorso più chiaro e concluso, a riferimenti cronologicamente anteriori. Sotto lo stimolo urgente di un bisogno di rigorosa ed esatta documentazione che induca a nulla trascurare del materiale che una ricerca possa offrire, e insieme per la giustificabile esigenza non tanto di nobilitare quanto semplicemente di caratterizzare con un illustre nome l’inizio di una tradizione, varrà la pena di risalire subito, in questo studio, fin da principio, a Dante. Perché il primo abbozzo di storia letteraria potrebbe effettivamente essere individuato proprio nel De Vulgari Eloquentia, nelle celebri pagine in cui Dante traccia, in un veloce disegno, le linee essenziali della nostra prima poesia, conferendovi un ritmo di sviluppo, che per la vigorosa coscienza critica che l’autore ne acquista, non sarà facile mutare1. In questo «ammaestramento dell’arte del dire in volgare» (è il titolo che bene si adatterebbe all’opuscolo dantesco2) l’autore introduce a un certo 1 I, 12. Cfr. De Vulgari Eloquentia, ridotto a miglior lezione e commentato da A. Marigo, terza ed. con appendice di aggiornamento a cura di P.G. Ricci, Firenze: F. Le Monnier, 1957, pp. 96 ss. 2 Ivi, p. 1.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

punto una rassegna dei poeti d’Italia, dai più alti spiriti che poetarono all’ombra della corte del Regno di Sicilia a Cino da Pistoia e all’«amicus eius», i quali attuarono il «vulgare illustre». La considerazione d’insieme della poesia italiana nasce così, nei suoi momenti iniziali, non su un interesse propriamente storico (erudito o critico) ma da un’istanza di carattere retorico, di arte retorica, nel senso primitivo del vocabolo. I primi poeti in volgare sono richiamati nel testo di Dante come autorevoli esempi di una tradizione, e vivono non quale oggetto di un autonomo e distaccato interesse storico, ma soltanto come testimonianza di un gusto linguistico e retorico. Ma ciò non impedisce che queste righe preludano lontanamente, e quasi simbolicamente, al configurarsi di quel genere critico la cui origine stiamo indagando, e che costituiscano come un primo frammento di una storia della letteratura italiana, tale da doversi convenientemente citare, per il suo significato, quasi ceppo dell’albero genealogico di questa specifica storiografia. Per i limiti necessariamente segnati alla presente inchiesta, qui importa esaminare il semplice fenomeno della storia letteraria, e non, malgrado le inevitabili interferenze che sussistono e di cui occorrerà tenere il debito conto, quello, più vasto e meno determinato, della critica. Perciò, ai fini del nostro lavoro, non possono avere un peso veramente decisivo gli sparsi giudizi su opere e scrittori che, da Dante e da altri trecentisti, si potrebbero antologicamente raccogliere, e usufruire ai fini della stesura di una generale e assai utile storia della critica. Per questa ragione conviene trascurare i notevoli giudizi di Dante sulla poesia a lui precedente e contemporanea, dispersi nella sua opera, e lasciare il Petrarca e anche il Boccaccio “critico letterario” della Vita di Dante e del Commento, precursore, in questi scritti, di due “generi” che dovranno essere dalla futura critica assai coltivati, la biografia da un lato (rappresentata in questo secolo anche da Filippo Villani) e dall’altro l’esegesi dantesca. Naturalmente questa stessa elaborazione di forme e affermazione di atteggiamenti dovrebbe essere tenuta d’occhio in quanto non mancava di proporre schemi e motivi destinati a venire assorbiti da quella nuova struttura critica che sarà la storia letteraria. Ma l’importanza di tutto questo lavoro è solo marginale nei riguardi della nostra già abbastanza complessa inchiesta, rivolta a studiare il formarsi e l’evolversi di quel tipo di ricerca che è la “storia della letteratura”. Del Boccaccio varrà piuttosto la pena di menzionare il paragrafo sesto del quindicesimo libro della Genealogia deorum gentilium, dove nella rassegna di uomini illustri ritenuti degni di essere paragonati agli antichi, come Francesco da Barberino, Dante, Barlaam, Paolo Perugino, Leonzio Pilato, il Petrarca soprattutto, e altri, si accenna a formarsi un nuovo vago abbozzo di storia letteraria. Questo excursus nasce evidentemente in dipendenza

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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di un altro fondamentale interesse che informa e domina il libro, poiché l’autonomia della storia letteraria, vale a dire l’affermarsi di essa come ricerca non subordinata ad altro fine che non sia quello puramente storico sufficiente a se stesso, era cosa ancora di là da venire. Il Boccaccio scrive il quindicesimo libro della Genealogia come una difesa di sé e del suo proprio lavoro, e appunto per prevenire l’accusa di coloro che si lamenteranno perché, a conferma delle favole e storie scritte dagli antichi, «novos incognitos autores induxerit quibus utrum prestanda fides sit, incertum est», egli offre una prova del merito di questi recenti scrittori, affermando «insignes viros esse quos ex novis inducit in testes»3. Si inserisce così nel discorso una rassegna di autori trecenteschi, che sembra preludere germinalmente, nell’esteriore suo aspetto, alla fisionomia delle future storie letterarie. Ma questa rassegna, assai più superficiale, nel suo carattere di inventario, di quella dantesca, animata tutta, invece, da uno schietto sentimento d’arte, vale solo quale immagine di un insieme di autori considerati nella loro successione, o meglio, pluralità storica e raccolti sotto uno sguardo unitario (anche se si tratta di un’unità estrinseca di trattazione), e dunque come un assai lontano stimolo a raggruppamenti più estesi e approfonditi. E, su questa linea, non molto di più è possibile riconoscere al Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus di Filippo Villani, dove si incontrano le biografie di Dante, di Petrarca e di Boccaccio, e, al termine della prima, cosa assai più interessante, uno sguardo complessivo sulla storia letteraria dopo Claudiano, riconosciuta come appartenente a un’epoca di decadenza, dalla quale le lettere risorgerebbero solo per merito di Dante: un merito che Leonardo Bruni doveva attribuire invece, in pieno accordo con tutta l’età umanistica, al Petrarca. Il Trecento insomma, mentre accumula una notevole e varia materia, fertilissima al costituirsi della mentalità critica dei secoli successivi, e perciò, indirettamente, destinata a collaborare alla formazione di aspetti e motivi della storia letteraria (come il progressivo prendere coscienza dell’importanza della nuova letteratura, il sorgere di quel primordiale sentimento estetico alla cui luce giudicare le opere degli autori, il costituirsi di un’esperienza intorno alla letteratura volgare, il profilarsi di una esegesi dantesca4) presenta, nello stesso tempo, i primi embrionali cenni di una storia letteraria, la quale 3 G. Boccaccio, Genealogiae, Venezia: Agostino Zani, 1511, p. 112. . 4 Cfr. O. Bacci, La critica letteraria (Dall’antichità classica al Rinascimento), in Storia dei generi letterari italiani, Milano: F. Vallardi, 1910, p. 243.

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viene appunto assumendo la sua primitiva figura sotto forma di occasionale catalogo e schematico ragguaglio di un insieme di scrittori. Anche il Quattrocento, se rimase estraneo alla fondazione di un reale concetto di storia letteraria (né poteva essere diversamente, data l’incertezza in cui si muoveva la cultura di questo tempo riguardo alle idee estetiche), o comunque all’invenzione di un’opera che si avvicinasse nella sua fisionomia al tipo che il Settecento verrà lentamente elaborando e l’Ottocento fissando in modo definitivo, non mancò tuttavia di proporre alcune strutture suscettibili di svolgere un’azione orientatrice non del tutto priva di efficacia sul comporsi dell’organismo che stiamo esaminando. Questo secolo, invero, offre alcune forme che rappresentano in qualche modo una collaborazione allo sviluppo di quella che sarà poi la futura storia della letteratura, e non tanto per la loro esteriore configurazione, quanto piuttosto per lo spirito che la rinnovata esaltazione delle lettere e dell’uomo, che è poi esaltazione della storia, immette in esse, caricandole di una virtù e di una responsabilità nuove. Le collezioni di biografie, che, sotto la suggestione di un motivo essenziale al clima etico dell’umanesimo, il sentimento nuovo dell’uomo, del suo valore terreno e della gloria, si vengono diffondendo in gran numero, dovevano offrire un efficace modello stimolante il sorgere della storia letteraria, la quale poteva, proprio nella serie di biografie di cultori delle lettere, trovare il suo primo autonomo disegno. E non è priva di interesse a questo proposito l’osservazione di uno studioso che richiama all’evidente affermarsi, in seno al genere biografico, di un proposito di documentazione storica dell’attività e delle qualità letterarie sempre più vasto: come la vitalità e la grandezza della storia in genere si facevano dipendere principalmente dalla eloquenza di chi la narrava, così nella vita dell’uomo insigne, anche se non letterato di professione, le doti della dottrina e più ancora dell’eloquenza costituivano uno degli elementi essenziali, dei tratti caratteristici della sua individualità5.

In questa convergenza, tipicamente umanistica, di attenzione biografica e di attenzione letteraria, doveva trovare la sua genesi un’opera particolarmente memorabile, quella di Sicco Polenton, dal già significativo titolo Scriptorum illustrium latinae linguae libri XVIII (composta nel 1426 in una prima stesura e divulgata nel 1437 nella sua stesura definitiva)6. È questa una delle tante 5 C. Trabalza, La critica letteraria (Dai primordi dell’Umanesimo all’età nostra), in Storia dei generi letterari italiani, Milano: F. Vallardi, 1915, p. 33. 6 Se ne veda l’edizione curata da B.L. Ullman, Sicconis Polentoni Scriptorum illustrium latinae linguae Libri XVIII, Roma: American Academy in Rome, 1928.

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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raccolte biografiche, ma assai più importante, al nostro assunto, di altre simili composizioni, come le Vite d’uomini illustri del secolo XV di Vespasiano da Bisticci e il De Viris illustribus di Bartolommeo Fazio. A differenza di queste opere, che estendono il loro interesse alle più diverse personalità (principi, prelati, giureconsulti, ecc.), il lavoro del Polenton si distingue proprio per l’esclusiva attenzione rivolta agli scrittori. Esso rappresenta anzi il primo autentico tentativo di disporre, in una linea sostenuta da un autonomo interesse letterario, una serie di poeti e di prosatori (oratori e storici). Si tratta di una costruzione piuttosto disuguale, in cui gli autori sono semplicemente nominati e sono genericamente caratterizzati, e in cui la loro menzione si sviluppa fra lacune e digressioni che conferiscono all’opera, soprattutto nella parte relativa ai prosatori, un andamento faticoso e irregolare. Ma, nonostante questi limiti, riesce apprezzabile il tentativo dello storico di segnare nella successione degli scrittori ricordati, una coerente linea di sviluppo, situata negli schemi di un periodizzamento che si organizza nelle tre età, classica, medievale e umanistica7. Senonché quest’opera non è propriamente, come il titolo del resto dimostra con evidenza, una storia della letteratura italiana (e sia pure allo stato embrionale) e nemmeno una semplice serie di biografie di letterati italiani. Essa vuole essere piuttosto una storia delle lettere latine, in cui vengono accolti, accanto agli antichi, i moderni scrittori, fra i quali Albertino Mussato, l’Alighieri, il Petrarca, il Boccaccio. Tuttavia, può essere questo un documento prezioso per gli intrinseci suggerimenti relativi a una struttura, a un tipo di ricerca storica, e pertanto può porsi come esempio e come stimolo per una specifica indagine, e cioè per una storia della letteratura italiana. Più lontano, per la sua esteriore configurazione, dalla forma di storia letteraria che si verrà poi affermando, è il Dialogus de hominibus doctis, messo insieme nel 1490 da Paolo Cortesi. Il dialogo, che, sotto l’influsso della tradizione classica, da Platone a Cicerone, fu lo schema ideale nell’età del Rinascimento per trattare questioni tecniche, morali, filosofiche (basterà ricordare l’Arte della guerra di Machiavelli, il Cortegiano di Baldassar Castiglione, i dialoghi del Bruno), offriva al Cortesi la struttura compositiva in cui racchiudere la sua materia. La quale invero, sotto l’aspetto critico, si presenta con un carattere vivacemente interessante, tanto che il Sabbadini credeva di potere considerare questo dialogo come il «primo libro di vera

Si veda ora sull’opera del Polenton: F. Simone, “Per una storia della storiografia letteraria francese”, in «Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino», Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, serie 4a, n. 12, 1966, pp. 65-76. 7

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critica letteraria e stilistica nel periodo del risorgimento»8, e il Trabalza, con più sorvegliata esegesi, riteneva di doverlo apprezzare «come un tentativo d’una storia della cultura umanistica considerata sotto l’aspetto principale della forma»9. Ma è soprattutto da notare, ai fini del nostro assunto, come nell’interno del dialogo questa sostanza critica si ordini in alcuni chiari profili che sembrano già assumere l’aspetto di altrettanti paragrafi di una storia letteraria. Non privo di significato risulta, ad esempio, questo breve passo sul Filelfo, che si mantiene su un tono di equilibrio narrativo che resterà caratteristico del resoconto proprio della storia della letteratura: Hisdem etiam temporibus Franciscus Philelphus non indisertus putabatur: habebat a natura ingenium vagum, multiplex, volubile. Extant ab eo scripta et poemata et orationes, sed ut vita sic erat in toto genere varius. Fuit is a puero litteris Graecis bene doctus, et horum studiorum causa est ab eo tota paene Graecia peragrata multumque etiam ei profuit Chrysolora eius socer, ex quo tamquam ex dotali hereditate legatas testamento Graecas litteras accepit. Sed erat vendibilis sane scriptor, et is qui opes, quam scribendi laudem, consequi malebat, constat enim neminem principum illis temporibus in Italia fuisse, quin adierit, quin eum scriptis salutaverit, ut ex his pecuniam erueret. Sed ut ad quaestum diligens, sic erat in largitione effusus. Huius filios Xenophontem et Marium ingeniosos, et sane eruditos dicunt fuisse, quorum Marium tantam habuisse memoriam, quanta in viro cognosceretur; horum maius omnino nomen exstaret, nisi pater praeclusisset eis iter gloriae10.

R. Sabbadini, Storia del Ciceronianismo e di altre questioni letterarie nell’età della Rinascenza, Torino: Loescher, 1885, p. 33. 9 C. Trabalza, La critica letteraria (Dai primordi dell’Umanesimo all’età nostra) cit., p. 51. 10 P. Cortesi, De hominibus doctis dialogus, Firenze: Bernardo Paperini, 1734, pp. 32-33. ; . 8

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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Lo scopo del dialogo di cercare «quanti et quales in disertorum numero habiti sint», denunzia un programma che è più retorico che storico: ma non si deve dimenticare che la nostra storia letteraria, come forma critica, verrà affermandosi lungo il Settecento, attraverso un faticoso processo di liberazione da schemi di origine precettistico-retorica, schemi nei quali fu appunto inquadrato inizialmente l’esame dei nostri scrittori. E invero, sarà dall’incontro della tendenza all’esemplificazione storica, introdotta quale sostegno delle dottrine retoriche, con l’interesse per la raccolta di documenti e testimonianze del passato, determinata dal gusto erudito, che sorgerà la storia della letteratura. Comunque, non è inutile constatare come fin da questo momento, e sia pure ancora in forma incerta e approssimativa, si trovino già i primi segni di queste due direzioni fondamentali, che sviluppandosi porteranno a quel nuovo prodotto della attività critica. Una fisionomia particolare, assai più complessa, non propriamente erudita e neppure esclusivamente retorica, assume invece l’epistola di Lorenzo il Magnifico (stesa quasi certamente dal Poliziano) premessa alla raccolta di rime antiche che il poeta e signore di Firenze riunì nel 1476 e mandò a Federico d’Aragona. Dice il Trabalza: non era una storia anzi la sicura linea tracciata già da Dante con profonda cognizione dei massimi problemi della nuova arte e del suo svolgimento, qui è quasi interamente guasta. La rassegna è poco più che un catalogo, in cui l’estrinseco criterio storico si esplicava in servizio di quello stilistico e, diciamo così, filosofico [...]. Critica rettorica da umanista platonizzante e petrarcheggiante, ma non fatta per passatempo di erudito, e tutta pervasa da un caldo e sincero entusiasmo per la moderna poesia, e soprattutto, quel che più conta, dal sentimento che una tradizione nuova s’era ormai stabilita e dal presentimento della gloria a cui questa era destinata11.

Un giudizio, questo, che può appena essere integrato dalle parole del De Sanctis che nota come Lorenzo scrivesse di questi autori «le lodi con acume e maturità di giudizio»12. E in realtà il significato della epistola consiste principalmente nella consacrazione nuova che, dopo Dante, sembra ricevere la letteratura in volgare nella adulta e appassionata coscienza del poeta umanista. E sotto questo aspetto può essere avvicinato a Lorenzo in certo qual modo il protetto e l’amico suo, Angelo Poliziano, che nelle Sylvae traccia

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71.

C. Trabalza, La critica letteraria (Dai primordi dell’Umanesimo all’età nostra) cit., pp. 70-

12 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, nuova ed. riveduta da A. Parente, Bari: Laterza, 1939, vol. I, p. 345.

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alcune veloci prospettive concernenti poeti greci, latini e italiani, sì da presentare un disegno che è stato molto generosamente considerato come «la prima storia moderna della letteratura»13, ma che tale non può evidentemente ritenersi se non in senso metaforico, quantunque queste lezioni universitarie in forma poetica non si possano ragionevolmente escludere dalla storia della critica e non si debbano ritenere del tutto estranee, per una loro probabile e vaga suggestione, al processo formativo della storia letteraria. Se il Quattrocento segna un lento germogliare di composizioni che possono essere considerate quali primi remoti abbozzi di una storia letteraria e se, in questo secolo, la passione per gli studia humanitatis e l’imitazione di alcuni modelli classici, che possono lontanamente preludere alla storia della letteratura (si pensi alle opere retoriche di Cicerone, al decimo libro delle Istituzioni di Quintiliano, agli scritti di Aulo Gellio e di Macrobio), determinano concretamente un’iniziale forma di attenzione storica rivolta al fatto letterario, il Cinquecento continua con più vivace slancio, attraverso ricerche erudite e compilazioni retoriche, in questo progressivo fermentare della storia letteraria, mentre intanto la storiografia politica, con il Machiavelli e con il Guicciardini, raggiunge, in un clamoroso contrasto, una grandiosa celebrazione. Un primo generico suggerimento di storia letteraria, riscontrabile sia pure nel semplice esteriore schema della raccolta di autori, viene subito offerto dalla cultura del Cinquecento con la Sferza di scrittori antichi e moderni di Ortensio Lando, un’opera curiosa in cui è acremente ritratta la personalità dei più illustri scrittori, da Omero fino all’Ariosto14. L’intonazione di queste pagine riesce però del tutto estranea a un proposito critico seriamente inteso e il loro andamento segue una linea estrosa e aliena da ogni concreto impegno, obbedendo unicamente all’indisciplinato capriccio dello scrittore. E in realtà quest’opera è il prodotto di uno scapigliato, di un avventuriero della penna. Ma la Sferza, storicamente, risulta in qualche modo degna di memoria per l’insistente invito, che ne deriva, verso un determinato schema di lavoro, per la stimolante presenza di una serie di biografie di letterati, insomma per la confermata utilità di considerare in un unitario catalogo gli autori della storia letteraria. 13 Cfr. J.E. Spingarn, La critica letteraria nel Rinascimento, trad. it. di A. Fusco, [pref. di B. Croce], Bari: Laterza, 1905, p. 18. 14 Il Sanesi caratterizza lo stile polemico e critico del Lando affermando che egli «sa cogliere il lato ridicolo, o, meglio, quel lato che, per non corrispondere più alle condizioni della società e civiltà moderna, può facilmente prestarsi alla parodia», I. Sanesi, Il cinquecentista Ortensio Lando, Pistoia: Fratelli Bracali, 1893, p. 158.

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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In questa fase di preistoria della storia letteraria, l’indagine critica è costretta necessariamente a limitarsi a un lavoro esplorativo volto a registrare scritti di natura assai varia in un margine esiguo di possibili minimi rapporti e di probabili remote influenze. Perciò non deve stupire se ci troviamo a dovere inaugurare gli elenchi del Cinquecento con un gruppo di opere un po’ stravaganti, nate in un clima di cultura eccentrica e indisciplinata. Alla Sferza si deve così aggiungere il Teatro de’ vari e diversi cervelli mondani15 di Tommaso Garzoni, un volume ormai di gusto barocco, dove per la nostra ricerca interessa la perpetua esemplificazione condotta sulla letteratura italiana (della quale si ricordano diversi autori, come Dante, Petrarca, Boccaccio, Poliziano, Ariosto, Francesco Maria Molza, Vittoria Colonna, Baldassar Castiglione, Benedetto Varchi, il Bembo, il Caro, il Tansillo). Non è qui il caso di parlare di storia letteraria, nemmeno nel senso molto azzardato di un lontano precorrimento, come si è fatto per la Sferza, e tuttavia conviene non lasciar cadere, per quel tanto che può contare, il dato positivo che quest’opera può offrire, il quale consiste nel consapevole sentimento dell’esistenza di una precisa realtà, di un mondo particolare di intelligenze, e conseguentemente di un archivio di documenti e di fonti autorevoli cui attingere: che è pure un modo, anche se il più elementare, di pensare una letteratura. Né dovrà dispiacere che si segnino questi nomi e queste opere di una superficiale e disordinata cultura fra gli antenati di quei severi eruditi del Settecento e fra le capillari radici di quelle dignitose e perfin maestose composizioni con cui sorgerà finalmente un’autentica storia letteraria, poiché la storia non ha davvero pudori di tal genere, e anzi fa consistere il suo travaglio creativo in questa trasformazione incessante di elementi e in questa faticosa conquista di una meritata nobiltà. Per un’ispirazione in sostanza identica a quella delle opere ricordate, mossa da un temperamento bizzarro dilettantesco, sebbene orientata poi in una direzione diversa, si colloca, accanto a questi scrittori, Anton Francesco Doni, l’autore delle Librerie. Le Librerie (in numero di due: una compilata nel 1550, un’altra nel 1551; riunite poi nel 1557) si presentano sotto l’aspetto di un repertorio bibliografico (dei libri volgari a stampa la prima, dei manoscritti la seconda). Il Tiraboschi, che in questo campo era buon intenditore, diceva che esse sarebbero la più utile tra le opere del Doni, se egli «ci avesse data una esatta contezza de’ libri stampati, e degl’inediti e de’ loro autori». Ma purtroppo, osserva l’erudito bibliotecario, «egli o non fa che accennare le cose, o si stende in inutili ciance; ed or loda ed or biasima, senza che possa 15 Venezia: eredi di Pietro Deuchino, appresso Paulo Zanfretti, 1583. Il libro fu anche tradotto in francese (Parigi 1586).

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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intendersi se ci parli da senno ovvero per giuoco»16. E tuttavia l’opera del Doni, qualunque sia il giudizio che se ne debba dare circa l’esattezza dell’informazione e la validità del metodo con cui fu condotta, è importante perché appare, nella sua concezione, come il primo tentativo di compilare una storia letteraria, insomma come la prima idea di un piano di lavoro di questo genere. Riesce estremamente indicativo degli intenti che presiedono a quest’opera l’esame della prefazione, che ci trasporta nel segreto dell’officina dell’autore, o meglio in mezzo alla cerchia dei consiglieri che avanzano le loro proposte relative al disegno dell’improvvisato bibliografo: L’animo mio era, nobilissimi lettori, solamente di scrivere tutti i nomi degl’autori dell’opere: e sotto a quegli i libri che si trovavano stampati e da loro composti. Ma avendo mostrato questa mia fatica a molti ingegni rari, e buoni intelletti, ho ritrovato varii e diversi pareri fra loro, circa a questo libro. Volevano alcuni che io ci ponessi un breve sommario dell’opere, a una per una; a i quali risposi che questa mia libraria era solamente fatta da me, per dar cognitione di tutti i libri stampati vulgari, acciocché quegl’uomini che si dilettano di leggere in questa nostra lingua, avessino cognitione, quante e quali opere sieno in luce, e non per dar giudicio così delle buone come delle cattive, perché a questo io non sono sufficiente; e quando io fossi non voglio farmi nimico nessuno. Ben sanno coloro che leggono darne il lor parere, e secondo l’intelligenza loro biasimare e lodare: per la qual cosa si vede molte volte, metter nei cieli gli autor goffi, e porre a terra i perfetti. Erano d’animo alcuni altri ch’io scrivessi il nome de’ traduttori e questo mi pareva troppo viluppo, perché d’un ordine, ne risuscitavano molti disordini: essendo state tradotte alcune opere medesime per diverse persone; onde era di bisogno metterci tutti i nomi (cosa superflua) ed ero sforzato poi darne giudicio, cioè della miglior traduttione. Ma come avrei io potuto accordare insieme molte opere, che anticamente sono state tradotte da alcuni antichi, e da moderni rubate e date fuori alla stampa con il nome loro? Non è restato ancora qualcuno di consigliarmi, che io ci ponga almanco dove i libri sono stampati, acciocché gl’uomini possino eleggersi le migliori stampe. Questo non sarebbe manco error che gl’altri, e forse maggiore, perché c’è questo essempio. Il Boccaccio è stampato per molte città d’Italia, in Fiorenza da i Giunti, in Vinegia da Aldo, dal Giolito, e da altri stampatori assai in Mantova, in Bologna, in Milano: ultimamente me n’ha dato uno nelle mani stampato più di ottanta anni sono, il quale si unisce con quello che io ho a penna antico. In che modo adunque si potrebbe far cosa che valesse a metter 16 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena: Società tipografica, 1787-1794, t. VII, P. I, p. 355.

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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tanti stampatori? E che profitto se ne trarrebbe? Et quante stampe antiche e moderne si leggono oggi, che non s’ha cognitione del nome dello stampatore? Ultimamente sono stato pregato, e con assai buone ragioni datomi a conoscere, che io doverei intorno ad alcuni autori, così amici come nemici, far certi discorsetti, lodandogli e facendone mentione onorata: e da quegli che mi puon comandare sono stato forzato a questo. Né m’è giovato rispondere che, lodando gli amici, mi sarà messo a conto d’obligo l’opere che meritano, sarò tenuto goffo, come da la mia penna abbia da uscire la grandezza de le loro compositioni. Lodando poi coloro che non meritano (perché io non voglio biasimare alcuno), subito son posto nel numero degl’appassionati. Quanti ci son poi che io non ho pratica, né della qualità, natura, dignità, grado, o stato: et altri che mai più gl’ho uditi ricordare, che debbo dir sopra tal personaggi? Vo poi a pericolo grande lodando uno (a richiesta di qualche spirito dotto) il qual se l’allacci; mai non lo sodisfarò e credendo far bene, me n’accaderà male. [...] Ora per sodisfare come ho detto a chi mi può comandare, al presente intendo dire alcune poche parole, più per il merito loro che per sodisfazion mia. Con il tempo che sarà in breve si daranno fuori le vite e si farà memoria dell’opere; scrivendo di loro quel che meritano secondo il giudicio di molti che sanno. Comincerò adunque in questa prima parte per mezzo delle lettere dell’alfabeto a mettere i compositori dell’opere17.

Se nel tracciare la cronaca del costituirsi della storia letteraria potesse avere una legittimità la ricerca di un atto di nascita di essa e pertanto l’attribuzione di un diploma nobiliare da conferirsi a questa o a quell’opera, cui spetterebbe il vanto di porsi come la prima storia letteraria (e non si presentasse invece un simile tentativo di ingenua araldica storiografica quale un assurdo critico) si potrebbe, e entro certi limiti si può, per approssimazione, indicare questa pagina del Doni come la sede originaria in cui si afferma finalmente una coscienza storiografica letteraria. Questa introduzione è importante perché ci permette di assistere alla genesi del lavoro. Il Doni, attraverso incertezze ed esitazioni, è giunto a quella forma del repertorio bibliografico, che è rimasta definitiva. Ma è interessante la testimonianza di quella specie di collaborazione ideale fra l’autore e i dotti che lo consigliano, che provoca un dibattito nel quale si affaccia per la prima volta il profilo di quella che sarà la futura storia letteraria. Accanto alla citazione dei nomi si pone l’esigenza di aggiungere «un breve sommario dell’opere, a una per una», e un giudizio valutativo su di esse, e nella proposta di indicare i traduttori e il luogo di stampa, si esprime il desiderio di una maggiore compiutezza informativa. Mentre nell’annunzio di una nuova composizione in cui «si da17

A.F. Doni, La Libraria, Venezia: Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1550, pp. 2-3.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

ranno le vite e si farà memoria dell’opere; scrivendo di loro quel che meritano secondo il giudicio di molti che sanno» viene germinalmente formulato il concetto di storia letteraria quale sorgerà nel Settecento, e cioè una storia letteraria intesa come raccolta di biografie di scrittori, di sunti delle loro opere, di giudizi sulla loro attività. Del resto, già in questo semplice repertorio bibliografico concretamente offerto dal Doni, si trovano spunti che fanno presentire il futuro libro che a noi interessa. Il nudo segno onomastico, in realtà, si traduce talora in un ragguaglio più diffuso, come sta a dimostrare questo cenno sul Berni: «Fu canonico della Chiesa Catedrale di Fiorenza, uomo d’ingegno e di lettere, ebbe piacevol vena nel compor versi, come ne fanno testimonio e faranno le sue piacevolissime belle rime, ecc.»18; un cenno che si muove con l’andamento della notizia che resterà tradizionale, a parte l’ampiezza, in tutta la nostra storiografia fino all’Ottocento. Ma per lasciare questi spunti frammentari, lo schema e la sostanza delle Librerie rimangono ancora lontani dalla storia letteraria, a cui pur sembrano in qualche modo insensibilmente avviare. Anche per questo secolo, come per il precedente, acquistano un loro significato di forme di anticipazione e di sollecitazione, le raccolte biografiche. La serie di biografie potrebbe del resto esprimere delle possibilità storiografiche non indifferenti. Infatti proprio sotto questa forma la storia dell’arte possiede, nel Cinquecento, un’opera di fondamentale importanza con le Vite del Vasari (per lasciare, nel campo della storia letteraria ma riguardante la letteratura latina, i dieci libri De poetis latinis di Pietro Riccio, pubblicati a Parigi nel 1510, che raccolgono una serie di biografie, da Livio Andronico a Sidonio Apollinare, in cui la critica storica umanistica si fa sentire con tutta la serietà del suo impegno). Nessun equivalente del capolavoro vasariano è concesso incontrare nel campo della storiografia letteraria. Assolutamente privo di valore è l’Indice degli uomini illustri di Girolamo Ruscelli, una specie di vocabolario biografico, dove, accanto a Dante (a cui sono dedicate due righe) si trova il mitico Danao (per il quale se ne spendono quattordici), e, accanto a Boccaccio, Belisario e Caligola. E scarsamente significativa per la troppo larga vastità di intenti è pure, in questo specifico territorio critico, l’opera di Paolo Giovio, gli Elogia virorum illustrium il cui peso storiografico, in una diversa e più vasta zona, appare invece di una notevole gravità. Al Giovio è dedicata un’altra curiosa opera, il De poetis urbanis di Francesco Arsilli, un poemetto in cui corre una vena di erudizione da scrupoloso bibliotecario, la cui attiva responsabilità è certificata dalla ristampa che volle curarne il Tiraboschi, in appendice al tomo VII della sua Storia della letteratura 18

Ivi, p. 47.

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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italiana19. Malgrado la forma non certo esemplare, questa rassegna di circa cento poeti contemporanei dell’Accademia romana, per il suo contenuto e per l’amore della notizia che rivela, può essere convenientemente ricordata come un non trascurabile episodio di questo periodo di preistoria della storiografia letteraria. Il Tiraboschi si fa di nuovo sicuro garante di un’altra opera dell’erudizione e della critica cinquecentesca, il De poetis nostrorum temporum di Lilio Gregorio Giraldi, esprimendo su di essa la convinzione che debba ritenersi come «un’esatta storia della poesia e de’ poeti dei primi cinquant’anni di questo secolo»20. In tal modo, il primo autentico compositore di una storia della letteratura italiana riconosceva fra gli iniziatori di quella tradizione critica, che egli avrebbe concluso e portato su nuove posizioni, il Giraldi, e a lui conferiva una responsabilità storica che merita di essere sottolineata. In realtà quest’opera si distingue per una sua risentita modernità di spirito e per una netta volontà di specializzazione. Nei due dialoghi (in cui si divide il lavoro) si susseguono più di duecento profili critici, nei quali il giudizio viene formulato non in base agli schematici ideali umanistici del poeta rhetor et philologus, del vir bonus dicendi peritus, del doctus et eloquentissimus, ma in base ad un gusto più sensibile e agile, anche se nell’autore rimane vivo il concetto idolatrico dell’antichità, e la convinzione dell’infinita distanza di pregio fra la volgare e la latina poesia. Il Cinquecento doveva più intensamente collaborare al processo di formazione della storia letteraria, con le documentazioni ricavate dagli scrittori italiani e inserite, a scopo dimostrativo, in ricerche di carattere teorico trascendenti il mero interesse informativo storiografico. Occupano un posto

«Nel parlare de’ poeti latini del secolo XVI, ho ragionato del poemetto in versi elegiaci di Francesco Arsilli di Sinigaglia, intitolato De poetis urbanis, e ho promesso di aggiugnerlo al fine di questo tomo. Adempio or la promessa, e perché il farlo sia più utile a’ lettori, avverto dapprima che due copie me ne ha trasmesse il ch. sig. ab. Francesco Cancellieri [...]. Sono amendue le copie di questo poemetto tratte dal codice autografo delle Poesie dell’Arsilli, altrove da me accennato, ed una è più breve e scorretta, ed è composta di 255 distici, ma ha in margine aggiunti di man dell’autore i nomi de’ poeti. Alcuni de’ nominati nel primo esemplare si veggono ommessi nel secondo; ma in questo molti altri s’incontrano ommessi nel primo. La stampa che di questo poemetto si è fatta nella Coriciana, è assai mancante, non giugnendo che a 192 distici. Io mi lusingo dunque di far cosa grata agli eruditi col pubblicar qui di nuovo questo poemetto, usando del secondo esemplare più steso. Ma perché l’edizione ne sia ancora più utile, segnerò in margine i nomi de’ poeti, traendoli dal primo esemplare, ove essi sono segnati, e noterò in piè di pagina le diversità che passano tra l’esemplare ch’io pubblico, e l’altro più breve, e quello ch’è stampato», G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. VII, pp. 1574-1575. 20 Ivi, p. 1386. 19

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

particolare, in questo ambito di cultura, le «poetiche», un frutto caratteristico del secolo. Le poetiche costituiscono invero la più adeguata espressione della mentalità letteraria dell’epoca e, ponendosi quali significativi documenti dell’orientamento critico del tempo, valgono in parte a spiegare taluni dati d’origine della storia letteraria. Dinnanzi ai grandi esemplari artistici, ai “classici”, gli uomini del Rinascimento non sanno concepire altra operazione, sostenuta da un intrinseco fine sufficientemente degno e capace di una propria autonomia, se non l’«imitazione», lo sforzo cioè di riprodurre quello specifico ritmo di bellezza che è proprio di un’opera21. La critica intesa come fine a se stessa, quale attività che non ricerca fuori di sé una sua giustificazione, doveva essere una conquista ancora lontana, e perciò, durante tutto il secolo decimosesto e oltre, essa rimase su un piano subordinato, quale strumento e mezzo ad altro, in funzione cioè di quella creazione artistica, che è ritenuta solo degna di pienamente occupare la vita. Di qui nascono, documento massimo dell’operosità critica di questo tempo, le poetiche, rivolte, quasi con il compito proprio di una guida e di una ancella, all’attività creatrice, ai cui fini appunto dovrebbero riuscire di giovamento le esemplificazioni storiche in larga misura introdotte. Una semplice notizia basterà per la Poetica dello Scaligero, dove naturalmente l’esame degli scrittori contenuto nel primo libro, mantiene, nella costruzione generale dell’opera, un aspetto episodico, restando in pieno subordinato alla preoccupazione retorica dell’autore. Un carattere di maggiore autonomia ha invece la prima parte della Poetica del Patrizi, La Deca istoriale, in cui si ha il tentativo di tracciare una storia universale della poesia, sulla linea (per la prima volta perseguita) dello sviluppo dei generi letterari, una storia che dovrebbe servire come fondamento all’indagine teorica intorno alla poesia. Questa sezione storica, a parte la elementarità delle notizie che la compongono22, riesce piuttosto povera di significato, costretta com’è in un disegno che, bisogna pur riconoscere, la vincola e la subordina. Senonché si deve osservare che anche queste storie “funzionali” ebbero un loro valore nella formazione del tipo di storia letteraria, offrendo se non altro un primo generico schema e insistendo su una forma di indagine che doveva finire con lo stimolare la nascita della autonoma storia letteraria. Non Cfr. G. Toffanin, La critica e il tempo, Torino: Paravia, 1930, p. 144. «His notices are rather those of a classical dictionary maker, or hand-list man, than of a critical historian in the best sense» giudica da un punto prospettico un po’ antistorico, il Saintsbury (G. Saintsbury, A History of Criticism and literary Taste in Europe, Edinburgh and London: Blackwood, 1905, vol. II, p. 96). . 21

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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va infatti dimenticato che l’Istoria della volgar Poesia del Crescimbeni, che inaugura quella tradizione al cui estremo sta l’opera del Tiraboschi, risulta strettamente legata a questo tipo di opere retoriche di cui è tipico modello la Deca Istoriale. Sullo stesso piano di valutazione, malgrado la sua più complessa responsabilità, si pone la rassegna di autori contenuta nelle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (nel primo e, in gran parte, nel secondo libro). Il Flamini riteneva di potere additare in queste pagine, «dopo il De vulgari eloquentia di Dante e l’epistola del Magnifico a Federigo d’Aragona, il più antico saggio di storia critica della letteratura italiana»23. Questa interpretazione, che può apparire criticamente sfocata, e, quando si tenga presente il modello a cui mette capo il processo storiografico che stiamo studiando, trovare facili motivi di polemica, non riuscirà poi così inaccettabile a una più attenta considerazione, rivolta a cogliere il complicato giuoco di influenze che determinarono il primo porsi della letteratura italiana quale punto di convergenza di un incrocio di interessi critici, e quindi quale oggetto di una narrazione storica. Nella luce di questa più complessa prospettiva sarà facile constatare come prima delle Prose la letteratura italiana non abbia mai determinato un’attenzione critica così impegnativa. Questo merito deve essere incontestabilmente riconosciuto al Bembo, anche se poi si dovrà ammettere che la sua opera ben poco offre all’evoluzione di quello schema in cui si comporrà la storia letteraria. Il Bembo dichiara, nel primo libro, di riferire un «ragionamento» nel quale «più che d’altro, si fa memoria» della città di Firenze e dei suoi scrittori, «dalla quale e dai quali hanno le leggi della lingua che si cerca – e cioè «quella delle scritture» in volgare –, e principio e accrescimento e perfezione avuta». La menzione degli autori (che si svolge, subordinatamente all’interesse fondamentale dell’opera, in modo frammentario e limitato) non accenna se non molto di lontano a un disegno di storia letteraria. L’oggetto effettivo delle stesse pagine consacrate agli autori non è mai rappresentato dagli scrittori stessi, sì piuttosto dalla «volgar lingua» considerata nel suo aspetto storico, estetico, grammaticale. Una pagina come la seguente potrebbe venire assunta con un valore addirittura emblematico della condizione dell’intera opera, vista nel suo interesse essenziale: È nondimeno più in uso Dottanza, sì come voce di quel fine che amato era molto dalla Provenza; il qual fine piacendo per imitazione altresì a’ toscani, e Pietanza e Pesanza e Beninanza e Malenanza e Allegranza e 23 F. Flamini, Il Cinquecento, in Storia letteraria d’Italia, Milano: F. Vallardi, s. a. [ma 1902], p. 130.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Dilettanza e Piacenza e Valenza e Fallenza e molte altre voci di questa maniera in Guido Guinicelli si leggono, in Guido Cavalcanti, in M. Cino, in M. Onesto, in Buonagiunta, in M. Piero dalle Vigne, e in altri e poeti e prosatori di quella età. Passò questo uso di fine a Dante, e al Boccaccio altresì: tuttavia e all’uno e all’altro pervenne oggimai stanco. Quantunque Dante molto vago si sia mostrato portare nella Toscana le provenzali voci: sì come è Aranda, che vale quanto appena, e Bozzo, che è bastardo e non legittimo, e Gaggio, come che egli di questa non fosse il primo che in Toscana la si portasse, e sì come è Landa e Miraglio e Smagare che è trarre di sentimento e quasi dalla primiera immagine, e ponsi ancora semplicemente per affannare, la qual voce et esso usò molto spesso, e gli altri poeti eziandio usarono, e il Boccaccio, oltre ad essi, alcuna fiata la pose nelle sue prose. Al Petrarca parve dura, e leggesi usata da lui solamente una volta24.

Nei tratti, invece, in cui sembra profilarsi la fisionomia di una più conclusa storia letteraria si incontrano pagine così intonate: È [...] a questi ultimi secoli successa alla latina lingua la volgare; et è successa così felicemente, che già in essa, non pur molti, ma ancora eccellenti scrittori si leggono, e nel verso e nella prosa. Perciò che da quel secolo, che sopra Dante infino a esso fu, cominciando, molti rimatori incontanente sursero, non solamente della vostra città e di tutta Toscana, ma eziandio altronde; sì come furono M. Piero dalle Vigne, Buonagiunta da Lucca, Guitton d’Arezzo, M. Rinaldo d’Acquino, Lapo Gianni, Francesco Ismera, Forese Donati, Gianni Alfani, Ser Brunetto, Notaio Jacomo da Lentino, Mazzeo e Guido Giudice messinesi, il re Enzo, l’imperador Federigo, M. Onesto e M. Semprebene da Bologna, M. Guido Guinicelli bolognese anch’egli, molto da Dante lodato, Lupo degli Uberti, che assai dolce dicitor fu per quella età senza fallo alcuno, Guido Orlandi, Guido Cavalcanti, de’ quali tutti si leggono ora componimenti; e Guido Ghisilieri e Fabruzio bolognesi e Gallo Pisano, e Gotto Mantovano, che ebbe Dante ascoltatore delle sue canzoni, e Nino Sanese e degli altri, de’ quali non così ora componimenti, che io sappia, si leggono. Venne appresso a questi e in parte con questi, Dante, grande e magnifico poeta, il quale di grandissimo spazio tutti adietro gli si lasciò. Vennero appresso a Dante, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, M. Cino, vago e gentil poeta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto minore spirito, e Dino Frescobaldi, poeta a quel tempo assai famoso ancora egli, e Jacopo Alaghieri, figliuol di Dante, molto, non solamente del padre, ma ancora di costui minore e men chiaro. Seguì a costoro il Petrarca, nel quale uno 24

17.

P. Bembo, Prose della volgar lingua, a cura di C. Dionisotti, Torino: Utet, 1931, pp. 16-

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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tutte le grazie della volgar poesia raccolte si veggono. Furono altresì molti prosatori tra quelli tempi, de’ quali tutti Giovan Villani, che al tempo di Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezzare; e molto meno Pietro Crescenzo bolognese, di costui più antico, a nome del quale dodici libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano si tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente scrissero in prosa, sì come fu Guido Giudice da Messina, e Dante istesso e degli altri. Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da se stesso; conciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui più lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresì molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell’una facoltà e nell’altra, molti scrittori. Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar più oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s’è veduto. Il che, senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la latina lingua in tanto purgata dalla ruggine degl’indotti secoli per adietro stati, che ella oggimai l’antico splendore e vaghezza ha ripresa, non pare che ragionevolmente questa lingua, la quale a comparazione di quella di poco nata dire si può, così tosto si debba essere fermata, per non ir più innanzi. Per la qual cosa io per me conforto i nostri uomini, che si diano allo scrivere volgarmente...25

L’interesse del libro gravita costantemente, malgrado le parentesi in cui sembra svilupparsi una linea storiografica più unita, verso il fatto linguistico, che, accampandosi con assoluta centralità, impedisce una considerazione autonoma e continua delle figure della storia letteraria. Ma la lingua di cui discute il Bembo è la lingua consacrata da una tradizione di classici, perciò la letteratura italiana finisce col diventare un oggetto tenuto sempre presente dal discorso dell’autore, anche se la sua realtà non riesce a dare origine a un’autentica operazione storiografica. E in effetti la particolare discussione bembiana sulla lingua (e la sua teoria letteraria: dal principio di imitazione al concetto di emulazione e di progresso, al correlativo concetto di tradizione e di distinzione fra letteratura italiana e letteratura classica), come del resto tutta la vasta polemica cinquecentesca che intorno ad essa si muove, non rimaneva senza influsso, (almeno indirettamente, nelle sotterranee zone della coscienza) sul costituirsi di una storia della letteratura italiana, in quanto, suscitando un animato interesse critico intorno a questa vicenda storica, ne

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Ivi, pp. 38-39.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

sollecitava quella considerazione dispiegata e approfondita che un giorno doveva sorgere. Quando il Salviati, nel fervore di questa controversia, affermava che la lingua e la letteratura toscana (o meglio, come diceva, fiorentina) sono di gran lunga superiori a ogni altra lingua o letteratura, sia antica che moderna, e, all’opposto, Celio Calcagnini, riassumendo l’altro lato della questione, manifestava la speranza che la lingua italiana e tutte le opere in essa scritte venissero dimenticate dal mondo26, si creava una situazione di cultura inevitabilmente determinante nel richiamare l’attenzione e una considerazione prospettica relativa alla nostra letteratura. Allo stesso modo, la battaglia di scritti combattuta in favore o contro i romanzi, in cui, quali massimi polemisti, si distinguono il Giraldi Cinzio e il Minturno, doveva portare a un consolidamento, attraverso la scoperta che esistono nelle letterature moderne forme e generi sconosciuti all’antichità, del concetto di letteratura moderna27, e rendere di riflesso, per la mediazione di tale concetto, più facile la composizione del libro di storia letteraria. Ma lasciando per ora questo campo di laterali influenze, e tornando all’esame di quegli schemi che rappresentano in qualche modo la storia della letteratura e ne anticipano lontanamente i futuri modelli, converrà, accanto alle Prose del Bembo, ricordare il trattato di Mario Equicola, Natura d’amore, pubblicato nel 1525. La prima parte dell’opera contiene una rassegna degli autori, a partire da Guittone d’Arezzo, che nei loro scritti, parlarono d’amore sì da riportarne le diverse opinioni «et de loro opere il succo». La parte quinta, poi passa a considerare «como poeti latini e greci, como giocolari provenzali, rimanti franzesi, dicitori toscani, trovatori spagnoli habieno scripto del loro amore». L’Equicola indugia su ognuno di questi scrittori con un sommario giudizio. Il particolare carattere di questa sostanza critica genera un ritmo più serrato nella narrazione storica e conferisce ad essa una configurazione storiografica più moderna. L’autore, costretto dal motivo teorico che presiede all’opera, è distolto da una considerazione meramente formale e retorica degli scrittori, e orienta il proprio giudizio verso quei valori di contenuto, di pensiero e di sentimento, che in un clima di sensibilità critica ancora incerta come questa dovevano contribuire a suscitare una più compatta immagine storica. Perciò, malgrado la monotonia determinata dall’interesse esclusivamente rivolto alla letteratura «amorosa», il trattato dell’Equicola collabora alla formazione di un più progredito tipo di esame della serie storica dei nostri scrittori. GioverebCfr. J.E. Spingarn, La critica letteraria nel Rinascimento cit., pp. 157-158. Cfr. G.A. Borgese, Sommario di storia della critica letteraria dal medio evo ai nostri giorni, in Poetica dell’unità, Milano: Treves, 1934, pp. 192-193. 26

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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be vedere, come esemplari, i capitoletti, che si susseguono, su Guittone d’Arezzo, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri. Ma basterà dare un’occhiata al seguente frammento: Questo diede origine al materno dire in ritmi, se non m’inganno: ch’al presente corrotto vocabolo in rima si chiama. La Provenza alcuni fanno madre di tal invento, et indi trasportato in Sicilia, e diffusose poscia per tutto. Di Dante nella sua vita novella, queste sono le parole. Anticamente non erano dicitori d’amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d’amore certi poeti latini, come in Grecia non volgari, ma letterati poeti queste cose trattavano: e non è molto numero d’anni passato, che apparirno questi poeti volgari [...]. Io il più antico de’ quali abbia loro scritti potuto vedere, trovo Giovanni Lapo dicitore, et altri, di cui se farà mentione al suo luogo: tra guai fu di non poca istimatione Guitton d’Arezzo. Noi referiremo la sustantia di una canzone di questo, per descrivervisi la pittura d’amor mortal, dove afferma li savii non senza ragione aver dato a questa passione nome Amore, fattolo ignudo, cieco, fanciullo con le ale e col turcasso, saette infocate et artigli: etimologicamente dice Amor poterse dire dogliosa morte, per esser il suo nome partito in A e more; garzon si pinge, per non aver fermezza alcuna di ragione e da ragione al tutto rebelle. Nuda se mostra la sua figura, per esser d’ogni virtù nudo. Dona desir con pene et con paura e toglie di conoscere la cura, ch’al peggio in tutto come orbo s’appiglia: non ha da coprir li vizii panno, né scudo a defensar sue rie voglie; è cieco per esser nimico della prudenza e providenza, privo di discrezione; e sia quanto vuoi savio e costante lo amante, altro non attende che portar avanti li suoi desiri: e chi nol crede, guarde a Salomone. Le ali di color purpurigno, notano pena mortale, per esser la purpura color penale e per esser leggier in cuor volivo, e che se muta de mal in peggio e desidera il reo bene. Per l’arco si dimostra essere guerriero; per le saette mortal feritore, che vario sguardo passa il cuore; l’arco se ispone il fonte del piacere; le saette accese de fiamma sono il fier volere che per niuna copia se sazia. Dal turcasso ch’alla cintura porta, vene lo veneno ascoso, con dolciore temperato che riconforta l’appetito, scorta di carnal diletto; gli artigli dimostrano esser cosa che graffisce e che vorrebbe tener ciascuno, acciò l’obbedisse. Esorta poi in un Sonetto, che per questa figura se considerano le qualitati e natura d’amore, cogli occhi della ragione, per la qual cosa si doveria Amor aver in oblianza, cassandolo d’ogni nostra usanza28.

Questo paragrafo, che pur finisce con l’essere dominato da un interesse diverso da quello storico letterario, non è privo davvero della possibilità di presentarsi come un capitolo in certo modo esemplare di storia letteraria, e 28 M. Equicola, Libro di natura d’amore, Venezia: Pietro di Nicolini da Sabbio, 1536, pp. 5v-6r.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

questo per l’aderenza che dimostra, nonostante la superficialissima esegesi, al documento artistico. Ma degno di interesse, per la finezza dei profili e la sapienza della visione panoramica, riesce in particolare il disegno dall’Equicola, per primo, tentato della poesia occitanica (su cui altri torneranno, fra i quali, con maggiore impegno storico, Giammaria Barbieri nella sua Origine della poesia rimata). Comunque, restiamo sempre in una zona di remote genealogie e di lontane suggestioni. Ciò non impedisce tuttavia di tenere conto anche di questo elemento nuovo, di probabile influsso, nella considerazione del panorama del secolo decimosesto, un secolo che segna, attraverso l’appassionato fermento critico che lo caratterizza, un rigoglioso germinare di forme e motivi destinati a confluire nella futura storia letteraria. E invero il Cinquecento, nei limiti di questo territorio antecedente la vera e propria storia della storia letteraria, su cui stiamo ora conducendo la nostra esplorazione, rappresenta una zona, nella varietà delle sue manifestazioni, assai fertile di interessi e di risultati. Così, la nostra civiltà che, pur nell’immensa distanza, trova nel Rinascimento le radici del proprio essere, può, anche per questo filone particolare della cultura, riconoscere nel Cinquecento uno dei momenti genetici più determinanti. Anche il secolo successivo, il Seicento, non mancò di collaborare fecondamente alla formazione di questo tipo di lavoro mediante un complesso di opere che possono interpretarsi come un annuncio e un avviamento alla storia letteraria. Questo secolo trova una delle sue caratteristiche nel netto affermarsi di un vivace amore per l’erudizione, prima ancora sconosciuto, almeno in quella misura, e destinato ben presto a sbocciare nella grandiosa sistemazione tecnica del materiale erudito proprio del Settecento. Ora, se il gusto letterario cinquecentesco poteva giovare a mantenere vivo l’interesse per la letteratura e a creare intorno ad essa un’atmosfera critica assai stimolante, l’ambizione erudita del Seicento doveva suscitare il bisogno di catalogare i documenti di questa attività letteraria che la coscienza umanistica collocava al centro della vita della cultura. Così, l’attività erudita segna, nel suo rivolgersi alla letteratura, una fase importantissima nella formazione della storia letteraria, perché allora per la prima volta doveva sorgere il bisogno di un’autonoma ricerca storica, e la letteratura doveva divenire oggetto di storia indipendentemente da una necessità didattica illustrativa. D’altra parte, anche il costituirsi di una tecnica di lavoro attraverso l’esercizio critico applicato alla letteratura (come, ad esempio, il curare edizioni, il preparare commenti, ecc.) contribuiva a individuare una zona di ricerca autonoma, quella della critica letteraria e, conseguentemente, a suscitare l’esigenza di continui approfondimenti, di nuove indagini, di metodiche sistemazioni, e, in mezzo a

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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tutto questo, anche il bisogno di una chiara visione della successione storica delle lettere italiane29. Il Seicento in tal modo, anche se non ebbe ancora un suo autentico modello di storia letteraria, riuscì indirettamente a convogliare in una direzione determinante alcune forme che dovevano decidere con sicuro impulso la fondazione e la fisionomia di tale storia. Il lavorio erudito compiuto da questo secolo è notevolissimo. Non indifferente è il materiale raccolto e ordinato. Oltre le edizioni di antiche opere, di cui alcune curate con diligenza e sano criterio filologico, devono essere ricordate le bibliografie, tra le quali sono da citare specialmente la Drammaturgia di Leone Allacci e il Mare magnum di Francesco Marucelli. Né va dimenticato Angelico Aprosio autore della Visiera alzata, una specie di dizionario di opere pseudonime (come indica la metafora di gusto secentesco del titolo), un’impresa che sembra già lasciare intravedere le esigenze di rigorosa scientificità della futura erudizione. Abbondano poi le raccolte di materiali biografici e bibliografici, relativi o a singole città e regioni oppure a corporazioni religiose e società accademiche, o riguardanti talora anche tutta la penisola. Ma in generale prevale la tendenza campanilistica e regionalistica, oppure accademica e conventuale. Un interesse esteso a tutta l’Italia manca ancora; esso sarà cosa soltanto del secolo seguente, in cui appunto la ricerca erudita troverà uno stimolo ideale nel sentimento patrio. Abbiamo così le memorie degli scrittori di Milano, Brescia, Bergamo, Roma; e poi del Piemonte, della Liguria, ecc. E ancora per gli ordini religiosi, il Theatrum chronologicum Sacri Cartusiensis Ordinis di C.G. Morozzo30 e la Bibliotheca scriptorum Ordinis Minorum S. Francisci Capuccinorum di F. Toselli31; e, per 29 Alla formazione di una storia letteraria rimase estraneo l’insegnamento della lingua italiana. La prima cattedra di lingua toscana fu fondata a Siena nel 1588, dove iniziò le lezioni Diomede Borghesi (cfr. P. Rossi, “La prima cattedra di lingua toscana: dai ‘Ruoli dello studio senese’, 1583-1753”, in «Studi Senesi», v. 27 (1910), fasc. 5, pp. 10 ss.). A Firenze solo nel 1632 fu nominato Benedetto Buonmattei lettore di lingua toscana (C. Trabalza, Storia della grammatica, Milano: Hoepli, 1908, pp. 300-316). Ma soltanto nel Settecento, con l’istituzione delle cattedre di eloquenza italiana, si determinò, attraverso le esemplificazioni, un interesse più diretto alla letteratura italiana: ed è lecito supporre che il Foscolo avrebbe forse inaugurato a Pavia, dopo le prime lezioni introduttive del 1809, un vero corso di letteratura italiana, nel senso di un’indagine di storia letteraria (cfr. il principio della II Lezione e la Lettera a G.B. Giovio in difesa della sua orazione. Si veda V. Cian, “Ugo Foscolo erudito”, in «Giornale Storico della letteratura italiana», XLIX [1907], p. 15). 30 Torino: Giovanni Sinibaldo e Giuseppe Vernoni, 1681. 31 Genova 1680. .

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

le accademie, Le glorie degli Incogniti ovvero gli uomini illustri dell’Accademia dei Signori Incogniti in Venezia di G. Loredan32, le Notizie letterarie ed istoriche degli uomini illustri dell’Accademia Fiorentina33 pubblicate da Jacopo Rilli e alla cui compilazione non rimasero probabilmente estranei Roberto Marucelli e Lorenzo Gherardini. Al di là di questi precisi confini di interesse, sono poi da ricordare: il Teatro d’uomini letterati di Girolamo Ghilini34, gli Elogi degli uomini illustri di Lorenzo Crasso35, la Storia de’ poeti di Alessandro Zilioli36, la Pinacotheca di Iano Nicio Eritreo (Gian Vittorio Rossi), la quale a differenza delle raccolte disordinate e piene di errori prima citate, può ancora utilmente consultarsi, e infine la Biblioteca volante di Giovanni Cinelli Calvoli37, che soprattutto merita di essere ricordata, non fosse altro che per quella specie di alone di classicità che sembra averle conferito la menzione del De Sanctis, che la ricorda fra i documenti della nuova attività scientifica a cui si viene ridestando l’Italia in mezzo alla generale decadenza. La considerazione panoramica degli scrittori avviene nel Seicento, come si può giudicare dai titoli elencati, attraverso queste compilazioni: le «biblioteche», gli «elogi», gli «scriptores», i «maria magna», i «teatri» e «scene» d’uomini illustri, i «ritratti», le «pinacoteche». I nomi, come è stato osservato38, rispecchiano da soli i gusti, la mentalità storica e il senso critico dell’età. Anche l’erudizione nel Seicento s’intona alle tendenze proprie del secolo. Essa diventa pretesto alla curiosità, al bisogno di novità, alla ricerca del meraviglioso che contrassegnano la psicologia contemporanea, atteggiandosi in schemi scenografici e in prospettive fastose: e nascono così i maria magna, i teatri, le pinacoteche, in cui i titoli valgono quale suggestivo richiamo e si pongono come simbolo di tutto un orientamento del gusto. Nella congerie infinita di queste compilazioni, aduggiate e accomunate, per lo più, da uno stesso carattere di inciviltà di gusto e di cultura, hanVenezia: appresso Francesco Valvasense stampatore dell’Accademia, 1647. Firenze: Piero Matini stampatore arcivescovile, 1700. 34 Venezia: Gherigli, 1647. 35 Venezia 1666. . 36 «La Storia de’ poeti di Alessandro Zilioli, di cui si hanno copie in diverse biblioteche, non è mai uscita alla luce, né sarebbe bene che uscisse se non purgata da molte favole, ch’ei v’ha inscritte», G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. VIII, p. 280. . 37 È una specie di catalogo bibliografico, in cui sono raccolti titoli e notizie di libri che, come dichiara l’autore, per essere di poca mole, non lasciano però d’essere utili. È diviso in scanzie. La prima di queste uscì nel 1677. Una seconda edizione dell’intera opera si ebbe a Venezia nel 1734. 38 Cfr. C. Trabalza, La critica letteraria cit., p. 340. 32

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LA PREISTORIA DELLA STORIA LETTERARIA

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no un rilievo particolare, per l’accento più vivo e nuovo, oltre alla citata Pinacotheca di Gian Vittorio Rossi, gli Illustrium virorum elogia di Jacopo Filippo Tomasini39 (a cui si deve anche un Parnassus Euganeus40). Gli Elogia, sebbene non estendano la loro attenzione storica esclusivamente ai letterati, segnano un apprezzabile contributo nel territorio che ci interessa, per l’equilibrio compositivo con cui si snodano, nell’economia dei singoli paragrafi, i diversi profili, accompagnati da chiari elenchi bibliografici. La Pinacotheca «imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum qui autore superstite diem suum obierunt»41 è costituita anch’essa da una serie di profili, in ognuno dei quali sono segnati, con una simpatia e un affiatamento critico non comuni, i tratti essenziali dell’umanità di un autore, desunti dalla sua biografia e dalla sua opera. Ne vengono fuori dei ritratti vivaci, che escono dalla sbiadita maniera propria delle comuni rassegne storiche del secolo precedente, per assumere, nelle limpide caratterizzazioni del Rossi, una più precisa fisionomia. Senza contare che l’opera acquista un suo singolare valore per la solidità d’informazione che la sorregge, per quanto essa s’appunti per lo più, con palese compiacenza, su elementi aneddotici. E invero l’autore limita la sua ricerca a quei contemporanei soli di cui abbia potuto avere, personalmente o per via indiretta, sicura notizia. Questa seria compagine informativa conferisce perciò all’opera di Gian Vittorio Rossi un aspetto particolarmente efficace. Può valere come esempio questo profilo del Tassoni: Alexander Tassonus Mutinensis, mihi probe notus, cui longus a prima fere juventa cum illo usus consuetudoque intercessit, fuit ingenio magno, eleganti, atque amoeno, sed turbulento superstitiosoque; quod clarorum virorum, poëticae facultatis laude, omnium saeculorum suffragio, principm ad suae censurae rationem normamque redigeret; quamobrem non parvam sibi invidiam concitabat. [...] Ianuae, cum expectabat, dum ventus operam daret, (volebat enim mare ingredi), Etrusca Francisci Petrarchae poemata ad reprehendendum arripuit [...] in quem quasdam edidit animadversiones, in quibus nihil fere ab eo dictum reliquit, quod non vel tamquam vitiosum reprehenderit, vel ut absurdum neglexerit, vel ut ineptum irriserit, nullam eius laudem praetermiserit, quam non sit conatus convellere, labefactare, evertere. [...] Scripsit ipse poema egregium, quod Situlam appellavit, bellum scilicet ob situlam inter Mutinenses ac

Padova: Donato Pasquardi, & socium, 1630 e Padova: Sebastiano Sardi, 1644. Padova: Sebastiano Sardi, 1641. 41 . 39 40

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Bononienses exortum; in quo gravitas facetiis admiscetur; cujus generis carminis a nemine antea excogitati, se fuisse inventorem, gloriatur...42

Naturalmente il valore di questo brano è pur sempre episodico. Il disegno segna senza dubbio un certo progresso rispetto agli aridi profili di altre simili trattazioni contemporanee e dell’età precedente, ma la sua importanza non supera quella di un frammento, mentre l’intera opera, considerata nella sua totalità, rimane ancora estranea alla struttura della storia letteraria, in quanto i vari ritratti vi sono riuniti al di fuori di una vera e propria coscienza storiografica. Bisogna però osservare che anche questa raccolta di pagine dedicate a nostri scrittori poteva valere a proporre e sollecitare il costituirsi dello schema della futura storia letteraria. E il suo valore suggestivo doveva riuscire anche più stimolante di quello delle analoghe ricerche storicoletterarie del Cinquecento, proprio per l’impegno erudito sistematico da cui sorgeva, e per la chiarezza ritrattistica in cui si esprimeva. D’altra parte, ognuno di questi profili, per il suo intrinseco valore, si collocava come un capitolo di una storia letteraria, e postulava, con la sua stessa incompiutezza, una più progredita rassegna della letteratura italiana. Ma la storia della letteratura italiana, come forma critica, sarà opera del secolo seguente, di un secolo cioè più intellettualmente disciplinato. L’erudizione secentesca, nel suo carattere di curiosità e di edonismo, non poteva assurgere a scientifica ricerca, diventare filologia, e trasformarsi infine in filosofia e quindi in storia. L’erudizione in questo secolo diventa un po’ una specie di sensualità, è dilettantismo più che severa disciplina di indagine: è avventuroso gusto di esplorazione, amore barocco della collezione, pomposa mania di sbalordire con la quantità dei dati e con la notizia inedita. Si tratta di un’erudizione documentativa, secondo che è stato osservato, e non attiva, 42 Ianus Nicius Erithraeus [G.V. Rossi] Pinacotheca, Coloniae Agrippinae: Iodocum Kalcovium & socios 1643, pp. 185-186. .

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di un esteriore apparato e non di una vitale esigenza43. Si comprende allora come la notizia rimanesse inerte e non si organizzasse con altre notizie in modo da suscitare un processo storico narrativo. Senonché questa estrinseca erudizione rappresentava pure la necessaria aurorale fase da cui avrebbe dovuto svilupparsi quella superiore ricerca che si manifesterà nel Settecento, così come, in un rapporto di civiltà e di secoli quasi identico, dall’alchimia doveva nascere un giorno la chimica. Ma intanto la storiografia letteraria rimaneva necessariamente, in questo clima di cultura, esclusa, attendendo, per fare la sua autentica e giustificata comparsa, una situazione più propizia e determinante. Una funzione sollecitatrice, al fine di quel risultato che a noi interessa, ebbero pure, in questo secolo, varie ricerche di carattere teorico su alcuni generi particolari di poesia. È del 1601, pubblicato a Venezia, un Compendio della poesia tragicomica di Battista Guarini, in cui tuttavia non deve trarre in inganno il titolo, poiché la cronaca letteraria, che variamente interviene nel compendio, appare diluita e dispersa nel discorso teorico sulla poesia tragicomica, che costituisce il tema fondamentale del libro. Carattere più storico ha invece la ricerca di Nicola Villani, il Ragionamento sopra la poesia giocosa de’ Greci, de’ Latini e de’ Toscani, uscito a Venezia nel 1634, dove peraltro la storia è sovente subordinata ai temi retorici perseguiti dall’autore, e si riduce a qualche rapido quadro degli aspetti estrinseci assunti da quel genere poetico nei vari tempi. Assolutamente insignificante, dal punto di vista storiografico, risulta invece L’occhiale appannato di Scipione Errico, apparso a Napoli nel 1629, un discorso sulla poesia epica, esaminata in una totale estraneità a ogni interesse storico. E non molto diverso è il valore che si deve annettere al Ritratto del sonetto e della canzone di Federico Meninni, pubblicato a Venezia nel 1678, che, come lo definisce nella prefazione l’editore, è «un ristretto della retorica e della poetica per quella parte che tocca alla lirica» e che tuttavia riesce degno di ricordo per alcuni capitoli di contenuto critico in cui sembra profilarsi una tenue linea di sviluppo storico44. Sono, queste, manifestazioni di cultura che è facile ricondurre, nell’ideale quadro topografico che stiamo tracciando, al dominante crinale di svolgimento della storiografia letteraria. E infatti l’attenzione rivolta a un genere o a una forma letteraria era suscettibile di possibilità storiografiche non trascurabili, in quanto valeva a distogliere 43

340.

Cfr. C. Trabalza, La critica letteraria (Dai primordi dell’Umanesimo all’età nostra) cit., p.

44 Il libro è diviso in due parti, Ritratto del sonetto la prima, Ritratto della canzone la seconda. Si confrontino i capitoli XI, XII, XIII della prima parte, intitolati Serie d’autori italiani più celebri che composero sonetti, e il capitolo XVII della seconda, Autori più celebri italiani, che composero canzoni.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

dalla caotica erudizione e a orientare verso una precisa linea l’inchiesta. Uno studio così impostato poteva rappresentare il superamento della galleria (cioè della ricerca frammentaria caratteristica del repertorio) nella forma continuativa e più propriamente storica della narrazione, incentrata in un problema e raccolta in un ritmo di sviluppo. Eppure nemmeno per questa strada il Seicento giunse alla storia letteraria. Tuttavia anche l’affermarsi in maniera più insistente e coerente di questo tipo di ricerca (in confronto ai tentativi del Cinquecento rivolti, nelle varie opere di retorica, a più indiscriminate documentazioni), era un germe, malgrado la superficialità con cui giungeva ad attuarsi, che doveva finire per dare origine a strutture assai feconde per la formazione della storia letteraria. E in realtà la storiografia letteraria del secolo successivo sarà essenzialmente fondata, nel suo stesso proposito erudito, su sistematiche rassegne di forme metriche e di generi letterari. Perciò il Seicento, se non ebbe ancora una autentica storia letteraria, riprendendo e sviluppando quei motivi critici già presenti nel secolo precedente, segna un momento notevole nel processo genetico della storia letteraria. Soprattutto feconda doveva risultare la complessa opera di indagine erudita, che preparava al Settecento materiali abbondanti e apriva vaste zone di lavoro, ma non trascurabile riusciva anche l’elaborazione di alcuni schemi destinati a disciplinare l’indagine stessa, suggerendo forme di indagine nuove e ponendo nuove esigenze metodologiche. Su questa eredità il Settecento era destinato a compiere ancora un faticosissimo esercizio di elaborazione, che è compreso fra due opere assai significative: l’Istoria della volgar poesia di Gian Mario Crescimbeni e la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi.

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

L’opera del Crescimbeni affonda idealmente e cronologicamente le sue radici ancora nel Seicento. È infatti negli ultimissimi anni del secolo XVII, e precisamente nel 1698, che usciva a Roma l’Istoria della volgar poesia di Gian Mario Crescimbeni1. Però, a parte il fatto che gli estremi biografici dell’autore si estendono fino al 1728 e che la rielaborazione dell’opera si ebbe nei primi lustri del Settecento, l’Istoria della volgar poesia rimane strettamente legata a quell’intenso processo di elaborazione che caratterizza il secolo XVIII e che si conclude con la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi. Il giudizio pronunziato su questo lavoro dalla critica del secondo Settecento e del primo Ottocento risulta assolutamente negativo. L’autore della Frusta letteraria e il Foscolo, che possono essere scelti come gli esponenti più responsabili della coscienza critica di questi due periodi, documentano efficacemente, nel loro concorde intento stroncatorio, questa condizione di «fortuna». Il Baretti, con impetuoso disdegno, riteneva l’Istoria della volgar poesia opera «scipita»2, e ne definiva l’autore un «solenne pedante», sentenziando crudamente: Che sapeva quel Crescimbeni di poesia o d’altra cosa che ricerchi altro che memoria e buona schiena e pazienza? Della pazienza, della buona schiena e della memoria il Crescimbeni ne aveva quanto ne occorre a 1 Nel 1714 veniva pubblicata la seconda edizione dell’opera. I Comentari erano stampati negli anni 1702-1711. Il primo volume uscì nel 1702 a Roma; il secondo nel 1710: nel 1711 uscirono gli altri tre volumi, che in parte commentano in parte ampliano la Storia. Un’edizione unica dell’Istoria e dei Comentari apparve nel 1731 a Venezia, in 6 volumi, a cura dei due fratelli Zeno (Pier Caterino e Apostolo) e del Seghezzi. Insieme venivano stampati anche nove dialoghi Delle bellezze della volgar poesia. 2 G. Baretti, La Frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, Bari: Laterza, 1932, vol. I, p. 70.

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un compilatore; ma di quella cosa, che chiamiamo ingegno, ei non ne aveva il minimo che3.

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E il Foscolo non nascondeva il proprio fastidio per il Crescimbeni, che «compilava ogni cosa e non ne intendeva veruna»4. Senonché tale demolizione si giustifica, e quindi si limita, quando si tenga conto che il Baretti e il Foscolo, nella loro più adulta cultura e nel vagheggiamento di una rinnovata critica letteraria, assumevano, come un idolo polemico, il Crescimbeni quale rappresentante di quella antiquata e sempre sopravvivente mentalità letteraria da loro con tutte le forze combattuta. Più inclemente e ingenerosa si rivela invece la posizione dell’Emiliani Giudici, che pure raccoglieva l’eredità ultima di quella tradizione che il Crescimbeni aveva iniziato: Sei volumi in quarto ripieni di tutto il vaniloquio millantatore del secolo; un ammasso di fatti minuti, di favole balorde, di osservazioni insignificanti, di giudizi da semplicioni; una selva intricatissima di citazioni, di documenti, di esempi; indici copiosissimi interminabili di nomi scelti alla cieca e più alla cieca accatastati; note e richiami senza fine che si addossano al testo, e testo e note che affogano entro un enorme vortice di commentari: elementi tutti, i quali formano una specie di composizione affatto insopportabile al più rozzo palato, e che, non pertanto, gli uomini di allora, non che soffrirla, gareggiavano in ammirarla5.

L’Emiliani Giudici, nell’entusiasmo fanatico e millantatore (proprio del resto al suo temperamento) dell’impresa a cui si accingeva, della composizione di una nuova storia letteraria, veniva distratto dal riconoscere con riposato pensiero il positivo contributo di quanti l’avevano preceduto in quella fatica, e pertanto era inconsapevolmente indotto a vedere nell’opera del Crescimbeni, così incondita ed incerta ancora, soltanto il contrasto con quel chiaro disegno che si veniva delineando nel suo vagheggiato personale progetto. Perciò questo giudizio, come quelli del Baretti e del Foscolo, va limitato, e in certo modo trascurato, dalla considerazione che l’opera del Crescimbeni segna, malgrado tutti i suoi limiti, l’inizio di quel processo della erudizione settecentesca che dovrà portare, attraverso le opere del Gimma e del Quadrio, alla Storia del Tiraboschi, alla fondazione cioè del primo complesso organismo storiografico relativo alle lettere italiane. Ivi, p. 68. U. Foscolo, Discorso sul testo della “Commedia” di Dante, in Opere, Firenze: Le Monnier, 1850, vol. III, p. 337. 5 P. Emiliani Giudici, Storia delle belle lettere in Italia, Firenze: Società Editrice Fiorentina, 1844, pp. 21-22. 3 4

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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Del resto la demolizione del Baretti e del Foscolo si rivolge più che altro al contenuto, alla sostanza critica, al modo con cui è intesa l’opera d’arte, e non investe direttamente quel problema di forma che a noi qui interessa (la forma cioè della storia letteraria, l’idea di una totale visione, di una narrazione storica della letteratura d’Italia). D’altra parte, anche su questo punto (poiché la solidità dell’impegno e la serietà scientifica hanno senza dubbio un valore e un’efficacia nel suscitare una tradizione) il controllato giudizio, espresso da un attento studioso, a noi contemporaneo, mantiene un positivo significato: Il Crescimbeni accumula in questa opera un’erudizione copiosa; tanto che anche oggi è necessario consultarla, sia per le notizie biografiche, sia pe’ componimenti a’ quali accenna o ch’egli riferisce man mano come saggio de’ rimatori di cui parla: poté infatti talvolta valersi anche di manoscritti smarriti poi, o almeno non ancora identificati. Ma l’erudizione è troppo spesso farragine, e vi si desidera quasi sempre la precisione che oggi la critica richiede6.

Un parere, questo, già anticipato dal Tommaseo, che nel Dizionario d’estetica affermava: «L’Istoria della volgar poesia è senza critica, senza novità, senza grazia, ma abbonda di fatti, di citazioni; materia buona»7. Due sentenze, insomma, che riconoscono all’Istoria della volgar poesia una fondamentale dignità di cultura, che giustifica l’influenza esercitata, determinante tutta una tradizione, la quale a sua volta si illumina e si precisa quando non si prescinda dalla più antica situazione storiografica, sul cui sfondo l’opera del Crescimbeni si inserisce e pienamente si redime. Il significato dell’Istoria della volgar poesia trova una non trascurabile possibilità di chiarimento nelle pagine introduttive dell’opera. La dichiarata intenzione dell’autore è di far consistere il maggior nervo di questa Istoria ne’ giudizi sopra le opere de’ poeti più cogniti [...] e segnatamente di quelli che sono stati introduttori e capi delle scuole o maniere o stili praticati finora; imperciocché da essi dipende il conoscere i crescimenti e gli scemamenti della condizione che la nostra poesia ha di tempo in tempo avuti ne’ secoli.

A questo fine, continua il Crescimbeni, «ho ordinato essi poeti cronologicamente. La cronologia poi l’ho ordinata secondo il più certo o almeno il più probabil tempo che quelli fiorirono...». Di questi poeti, spiega ancora, G. Mazzoni, Avviamento allo studio critico delle lettere italiane, 3a ed. accresciuta, con ap3 pendici di P. Rajna, G. Vandelli e G. Mazzoni, Firenze: Sansoni, 1923 , p. 147. 7 N. Tommaseo, Dizionario d’estetica, Milano: F. Perelli, 1869 [ma 1860], vol. I, p. 98. 6

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non ho inteso di tesser vite, né elogi istorici; ma di dir di loro sol quanto basta per condur l’opera al fine prescritto di far vedere lo stato della volgar poesia in ogni secolo fino a’ nostri giorni [...]. Nel dare i giudizi sopra le poesie degli stessi [...] autori, io ho camminato non più coll’opinione propria, che con quella de’ più savi letterati [...]. Acciocché poi il lettore abbia campo di riscontrare i medesimi giudizi, e in qualche modo giudicare anch’esso, ho dato nel libro terzo un saggio dello stile di ciascuno de’ predetti rimatori, coll’ordine stesso cronologico tenuto nel libro antecedente; e tali saggi io gli ho scelti tra quei componimenti che ho giudicato più propri e confacevoli allo stile o carattere più praticato da gli autori...8

Si tratta, come si vede, di un programma relativamente ricco di spunti e di motivi, in cui si affaccia una coscienza nuova dell’area e dei confini riservati al lavoro storiografico, una coscienza che stacca nettamente questo lavoro dagli esemplari del passato, collocandolo all’inizio di una diversa tradizione. E infatti nell’Istoria della volgar poesia si verifica, per la prima volta, in forma aperta e decisa, l’abbandono della documentazione esemplificativa subordinata al predominante interesse retorico. E per la prima volta si verifica il diretto convergere dell’attenzione critica sulla notizia della poesia, la quale passa finalmente in primo piano e diventa la vera protagonista dell’opera. D’altra parte, l’interesse puramente erudito e bibliografico, il gusto del catalogo di scritti e di autori, viene anch’esso superato in un interesse propriamente critico, in un gusto impegnato con la poesia, sicché anche se l’autore ha della poesia una concezione ancora stretta negli esteriori schemi formali retorici, si dovrebbe parlare per quest’opera, più che di una storia della poesia, di una storia della tecnica poetica (e in realtà quel che preoccupa lo storico non è tanto la poesia vera e propria quanto piuttosto la scuola, la maniera, lo stile, o meglio la vicenda degli stili, insomma lo schermo esteriore della poesia)9. Così, il Crescimbeni si distacca dalla tradizione fino allora imperante, che circoscriveva l’analisi a una particolare schiera di autori, esaminati per il loro speciale contenuto o la loro caratteristica qualità formale, per passare allo studio di tutta la «volgare poesia», determinando (con una vastità di disegno G.M. Crescimbeni, L’Istoria della volgar poesia, Roma: nella stamperia di Luca Antonio Chracas appresso la Curia Innocenziana, 1698, Introduzione. . 9 Cfr. M. Gentille [Gentile], “L’origine del tipo di storia letteraria nazionale”, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe Filosofia e Filologia, XXIX (1927), p. 9. Questo articolo ebbe il merito di cominciare una prima sistematica indagine, specie attraverso una esatta esposizione di testi, nel campo della storiografia letteraria settecentesca. Esso è dunque fondamentale per la nostra ricerca, e sarà da tenere presente anche per altri luoghi. 8

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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e un’imponenza di proposito che mancava assolutamente a tutte le altre opere precedenti che possono in qualche modo esser fatte convergere verso lo studio della nascita della storia letteraria) il motivo centrale dell’inchiesta nel «conoscere i crescimenti e gli scemamenti della condizione che la nostra poesia ha di tempo in tempo avuti ne’ secoli». Le rassegne parziali ed episodiche e gli scheletrici repertori eruditi finora esaminati, pur nel loro valore suggestivo e determinante rispetto alla futura forma storiografica, non riescono, sul piano della considerazione dello sviluppo di questo genere critico, ad evitare che si verifichi come un salto, una discontinuità, nel passare all’opera del Crescimbeni con il suo aspetto nuovo e originale (una novità ed una originalità che è possibile riconoscere e valutare solo in una rigorosa prospettiva cronologica, di precisa successione storica). La storia del Crescimbeni nel diagramma di questa linea di svolgimento si pone con una sua inconfondibile fisionomia e come un nuovo e diverso prodotto. Non si era avuto ancora, prima di questa, un’opera che si proponesse uno studio del nostro patrimonio poetico al di fuori di un mero intento erudito catalogico (biografico e bibliografico) oppure di un subordinante interesse retorico. Qui, invece, la stessa dichiarata preoccupazione di un fedele ossequio alla cronologia denunzia una volontà più nettamente storica, che si rende apprezzabile, almeno per quel tanto di sensibilità che lo schema cronologico offre pur sempre quale base indicatrice del modificarsi della storia. E una conferma dell’avvenuto superamento degli antichi schemi di studio della storia letteraria si esprime anche nel proposito manifestato dal Crescimbeni di non voler tracciare biografie, ma solo accennare di esse quel tanto che basta per illustrare «lo stato della volgar poesia in ogni secolo fino a’ nostri giorni». Tuttavia a un residuo di mentalità retoricistica è da attribuire l’esigenza espressa dall’autore circa le necessità di offrire una concreta documentazione dell’opera dei suoi poeti «acciocché il lettore abbia campo di riscontrare i medesimi giudizi, e in qualche modo giudicare anch’esso». Dove, più che il precorrimento di una moderna forma di storia letteraria, ansiosa di un’assoluta aderenza ai testi, si esprime il gusto di tecniche esemplificazioni di generi e scuole letterarie, un gusto che riallaccia quest’opera alle cinquecentesche indagini sulla poesia. Comunque, l’introduzione rivela nel Crescimbeni un senso della storia letteraria che si può giudicare non privo di originalità, quando naturalmente si confronti la sua Istoria della volgar poesia con le incerte e occasionali considerazioni del fatto poetico, visto nel suo evolversi, proprie dell’età precedente. Senonché l’introduzione è solo il documento del «mondo intenzionale» dell’autore (introduciamo per un momento questa espressione caratteristica della critica letteraria desanctisiana), mentre nell’effettiva esecuzione dell’opera egli mantiene con

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ben scarsa responsabilità tale proposito. Ma occorre anche dire che ai fini del compito intrapreso questo rimane senza una decisiva importanza, poiché dovrà pur sempre essere registrato come dato positivo il fatto che una nuova concezione, anzi l’idea stessa di una storia letteraria, sia stata per la prima volta intravista (anche se non realizzata) dal Crescimbeni. L’esame interno dell’opera permette di approfondirne ulteriormente il significato. Il primo libro offre subito, anche alla semplice luce di un primo accostamento, la prova più persuasiva della non ancora avvenuta totale liberazione, da parte del Crescimbeni, da un soverchiante interesse retoricistico. Queste sopravvivenze di gusto tecnico retorico stanno a testimoniare della genesi un po’ ambigua dell’Istoria della volgar poesia. Poiché se l’opera del Crescimbeni appare animata da un proposito storico ignoto ai precedenti tentativi di esame della nostra letteratura, non si può d’altra parte non riconoscere in essa la presenza di una segreta intenzione precettistica, di una volontà, ben legittima e comprensibile nel custode generale d’Arcadia, di contribuire in qualche modo, e sia pure attraverso la storia, alla riforma della poesia, offrendo autorevoli esempi di buona composizione. Ideale soggetto della narrazione non sono infatti gli autori o le opere degli autori, ma proprio le forme metriche (e proprio la questione metrica aveva, nel clima letterario polemico a cui l’Istoria si riporta, la sua non piccola importanza10): «Egli è chiara cosa che l’endecasillabo volgare venne in Italia dalla Provenza»; «Del quinquesillabo sono sparsi infiniti esempi in fra Guittone»; «Ma circa le rime, a me pare, che anch’esse né più né meno sieno capitate dalla Provenza»; «Ora egli è tempo di far passaggio alla dimostrazione della varietà de’ componimenti usati dagli antichi toscani»; «La sestina usata da i moderni rimatori è parimente tratta dagli antichi»; e, in un più ampio estratto: Ma quanto al sonetto, non si dovrebbe ricercare, se egli sia stato in uso tanto fra gli antichi, quanto fra i moderni, perciocché non si apre libro di rime di qualsisia tempo, che non se ne truovino infiniti: contuttociò, per non mancare in niuna parte all’ordine, che abbiam fermato in questa introduzione, darem qui un esempio anche di ciò; e il sonetto moderno lo torremo dal secolo del Seicento omai cadente, e da uno de’ più illustri letterati, ch’egli abbia annoverati, cioè dalle rime scritte a mano appresso di me del leggiadro poeta e profondo filosofo Orazio Rucellai fiorentino, Cavaliere di Santo Stefano e Priore di sua Patria, il quale ha fiorito a’ nostri tempi, ed ha lasciato al Prior Luigi suo figliolo un’opera nobilissima di dialoghi filosofici...11. Cfr. G. Toffanin, L’eredità del Rinascimento in Arcadia, Bologna: Zanichelli, 1923, pp. 164-167. 11 G.M. Crescimbeni, L’Istoria della volgar poesia cit., t. I, pp. 6, 7, 11, 15, 25, 29. 10

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Tali espressioni ricorrono continuamente nel tessuto discorsivo, determinando con la loro frequenza e il loro rilievo, il colore fondamentale dell’opera, che si rivela in tal modo con un prevalere di interesse retorico su quello propriamente storico letterario, come una narrazione dei generi, delle forme, degli stili poetici. E appare allora naturale che, in una storia della tecnica, un Orazio Rucellai possa essere citato con tanto onore e venire quasi assunto come simbolo di un momento storico. Ma anche entro questi limiti non manca di presentarsi, nell’Istoria della volgar poesia, qualche spunto storiografico degno di nota. Converrà così ricordare, per esempio, la conclusione del primo libro, che si presenta con un contenuto pieno di significato: Colle fin qui raccontate cose adunque stimo, che se non appieno, almen quanto basta per l’integrità della presente Istoria, e per la più facile intelligenza del rimanente di essa contenuto ne’ seguenti libri, i lettori resteranno informati dell’origine della nostra volgar poesia, e dello stato della medesima, sì appresso gli antichi, come tra i moderni; e potranno con più agevolezza riconoscere nel piccol saggio, che ora noi diamo, delle rime di cencinquanta rimatori toscani, quanto nel primo secolo [il Duecento] fosse ella rozza, come nel secondo ingrandisse, come nel terzo cadesse, quanto gloriosamente risorgesse nel quarto, e come varia nel quinto si sia mostrata, infino a i nostri giorni, che a glorioso risorgimento si prepara mercé dello studio, e della continua fatica di molti nobilissimi ingegni viventi: il che è l’unico fine, per lo quale questa Istoria abbiam noi a scrivere impreso12.

In queste poche righe conclusive, quasi in un’aurorale manifestazione che riesce persin commovente dopo tanto incerto ricercare, appare finalmente un primo vago barlume di coscienza storiografica che si pone come idea di svolgimento. E in realtà qui per la prima volta accenna a profilarsi una visione totale della letteratura italiana avvertita nel suo ritmo di sviluppo. La linea è sottilissima e appena abbozzata, ma non è del tutto insignificante. Comunque, i due estremi del tradizionale modo di considerare la storia letteraria (il nudo catalogo e la funzionale rassegna) vengono qui superati nel concetto di sviluppo, nel senso di una continuità, nel principio in sostanza della storia. Il secondo, il terzo e il quarto libro anticipano in una premessa il loro contenuto, che dovrebbe consistere nel

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Ivi, p. 76.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

giudizio sopra le opere poetiche di cento rimatori defunti più scelti; per ordine cronologico annoverati, col catalogo alfabetico di cinquanta viventi l’anno 1698, e di altri diciannove surrogati a quelli che dall’anno suddetto fino al 1714 morirono: i loro saggi e il racconto delle fatiche che intorno all’opere d’alcuni di loro furono fatte o dagli stessi poeti, o da altri13.

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Malgrado tale annunzio, che richiama un po’ troppo il contegno di un inventario, la fisionomia di questa parte ha un carattere più propriamente storico. Si veda il paragrafo dedicato a Franco Sacchetti: Di molta esperienza e di chiaro ingegno fu dotato Franco figliuolo di Benci della nobilissima famiglia de’ Sacchetti fiorentina, il quale, sopravvivendo al Petrarca, passò l’anno 1410 e morì famoso, non men per le onorate cariche, le quali lodevolmente sostenne, che per le nobili opere, che a’ posteri lasciò in ambedue le lingue. Fu la sua destrezza e sagacità nel maneggio de’ pubblici affari di tal peso che molto venne impiegato dal comune della sua Patria, che tra gli Otto della Guardia annoverollo [...]. Ma la chiarezza del suo ingegno molto più lo fece risplendere; imperciocché, tralasciando le novelle, che egli scrisse in toscana favella, le quali per la loro leggiadria e grazia, e per la purità della lingua, colla quale scritte sono, se impresse fossero, certamente del secondo luogo degne sarebbono, siccome io ed altri, che lette le abbiamo scritte a mano appresso il marchese Matteo Sacchetti di lui discendente ed erede non men della nobilità che del sapere, le abbiam giudicate. Egli è chiara cosa che nella toscana poesia tra i più scelti, che in que’ tempi il Petrarca imitassero, a lui si debbe un de’ luoghi primieri, o se alla gravità de’ sentimenti ponghiam mente, o se alla dolcezza del verso, o se finalmente alla purità della lingua, la quale, benché materna, da pochi era ben professata14.

Segue (aggiungiamo per amore di una compiuta aderenza alla struttura del libro) una parte di Annotazioni, in cui sono indicate edizioni e altri utili ragguagli filologici; e dove alla fine è riportato, come esempio, un sonetto del Sacchetti. Questa incidentale valutazione del Sacchetti novelliere, fino allora trascurato in modo tale da non essere ancora stato dato alle stampe il Trecentonovelle, ci permette di introdurre un altro discorso e di accennare a un’importante questione. Soprattutto nella fase iniziale di formazione, il problema della storia letteraria ha una sua evidente interferenza con il problema della scelta degli autori degni di essere assunti in essa, da ritenersi insomma “classici”, problema che si risolve poi nel problema assai complesso del gusto. Sarebbe naturalmente interessante stabilire il rapporto fra gusto e storia letteraria 13 14

Ivi, t. II, p. 259. Ivi, pp. 318-319.

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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in ogni caso particolare, il che implicherebbe un’attenzione estremamente articolata a tutto un insieme di motivi e di elementi cooperanti e reagenti in un incontro assai vario e intricato. Comunque, si può dire in genere che la storia letteraria documenti un gusto, ma che nello stesso tempo lo determini. Nel caso specifico del Crescimbeni si deve osservare come egli, affermando un’esplicita volontà di controllo del giudizio degli autori sull’opinione «de’ più savi letterati», presenti la sua storia quale registrazione di un gusto dominante, e tuttavia nella sua tendenza a sollecitare (e l’abbiamo più in alto dichiarato) un particolare orientamento di poesia, quello appunto arcadico antigraviniano15, pieghi il proprio lavoro ad una funzione divulgatrice di una determinata sensibilità poetica. La storia letteraria segna sempre un momento decisivo nello studio della fortuna di un autore. Perciò il problema della fortuna, già pretesto ad esercitazioni di mera acrobazia erudita, potrebbe venire ripreso, nella moderna coscienza critica, come problema della “classicizzazione” di un autore, come studio cioè del processo selettivo attraverso il quale un autore è diventato classico, uno studio nel quale la storia letteraria dovrebbe avere una larga possibilità di sfruttamento, in quanto fattore segnaletico di estrema importanza. Molte sono le riserve che si possono avanzare sulla scelta degli autori fatta dal Crescimbeni. Il criterio con cui sono valutati i poeti che egli ritiene degni di storica menzione, a parte la genericità del giudizio su cui non vale la pena di insistere, è naturalmente diverso dal nostro. Alcuni autori, come Giusto de’ Conti, Girolamo Benivieni, Serafino dell’Aquila, ecc., da noi quasi dimenticati, o almeno posti in secondo piano, sono introdotti nella serie dei «rimatori più scelti» con una valutazione che contrasta nettamente con il nostro moderno gusto. Una cosa però merita di venire sottolineata, ed è il fatto che il Crescimbeni nella sua opera accoglie autori come san Francesco, Leonardo, san Filippo Neri, Innocenzo VIII, che un rigoroso criterio umanistico costringerebbe a escludere dalla storia letteraria. All’inizio del terzo volume egli invita il lettore a non meravigliarsi se troverà in quest’opera qualche soggetto che non si sappia che sia stato poeta di professione, perché questi tali che sono per lo più santi o grandi personaggi siccome arrecano grandissimo lustro e credito a questa nobilissima arte col degnarsi di spendervi qualche pensiero, così noi non avremmo certamente dato perfezione all’istoria di essa, se al novero de’ professori non avessimo accompagnato anche quello di così celebri soggetti16. 15 16

Cfr. G. Toffanin, L’eredità del Rinascimento in Arcadia cit., pp. 136-137. G.M. Crescimbeni, L’Istoria della volgar poesia cit., t. III, p. 1.

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La giustificazione addotta è tutta esteriore, cerimoniosamente retorica e accademica, ma ciò non impedisce che il risultato riesca del tutto positivo e che ne derivi quale felice conseguenza un notevole ampliamento del limiti storiografici letterari. Il mito della storia letteraria, umanisticamente intesa come storia della poesia, e cioè delle sole personalità animate da un’apollinea coscienza, dopo di essere stato accolto da Dante (che nel De vulgari eloquentia ignora, tra i primi documenti del nuovo esprimersi in volgare, gli scritti, per noi importantissimi, degli autori religiosi, troppo rozzi e troppo poco artisticamente addottrinati), era destinato a permanere a lungo e a esercitare un’ostinata tirannide sulla coscienza dei nostri letterati, tanto che solo la critica romantica, e in modo speciale il De Sanctis, doveva reagirvi energicamente, chiamando a far parte del pantheon della nostra letteratura quei testi di carattere etico, religioso, politico, filosofico (si pensi alla Storia della letteratura italiana del De Sanctis e alle molte pagine riservate in essa ad autori come Machiavelli, Bruno, Vico, ecc.) che in quanto caldi di umanità e ricchi di vita spirituale non potevano non riuscire anche sotto l’aspetto della forma degni di interesse. Il concetto moderno di storia letteraria, dopo la perplessità suscitata dalla speculazione crociana (del primo Croce, energico assertore, per necessario impeto polemico e per comprensibile bisogno di reazione alle confusionarie indiscriminazioni, della poesia quale assoluta, e in certo modo unica realtà nel mondo delle lettere) nella quale, con evidente fraintendimento, si vedeva ridotta la storia letteraria a una serie di concluse monografie riservate ai soli autentici poeti (il che equivaleva praticamente a un’eliminazione della storia della letteratura), si è venuto consolidando e ha subito un ampliamento, sicché la storia del De Sanctis, per la complessità degli interessi che la animano, può ancora servire come splendido modello. Ora, proprio l’opera del Crescimbeni offre in certo modo la possibilità di assistere a un’interessante e sia pure lontanissima anticipazione di tale atteggiamento storiografico. Nulla naturalmente è dato trovare nel gran custode d’Arcadia della nuova consapevolezza storica e filosofica del Romanticismo e nulla della adulta coscienza critica moderna, ma solo si avverte un interesse da erudito che lo spinge a estendere la sua indagine in una zona feconda e allettatrice, un interesse che lo pone per un istante in patetico contrasto con la sua sensibilità di accademico letterato, di illustre retore, di arcadico legislatore di poesia. Tale contrasto viene per altro presto risolto in una sorta di apologetico atto di devozione alla poesia, il cui splendore egli spera accresciuto dal ricordo di uomini grandi che pure non sdegnarono la professione delle lettere. Questa osservazione ci permette di constatare ancora una volta come nel Crescimbeni sopravvivano antiquati residui della mentalità erudita e di

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quella retorica, che si incontrano senza fondersi e comporsi in superiore unità. Ed è, questo, un atteggiamento costante reperibile in tutta l’Istoria della volgar poesia, la quale, al di là di quegli elementi positivi ai quali abbiamo dato rilievo, finisce con il trovare qui il proprio limite o, si potrebbe meglio dire, il carattere che la lega alla precedente tradizione. Ma su questo limite non converrà insistere, e basti l’avervi accennato. L’indicazione di esso avrà giovato, oltre tutto, a suscitare idealmente la temperie di cultura nella quale si rende sensibile lo svilupparsi e il diffondersi di quei germi nuovi che veramente importano: poiché la storia è sempre, come tutti sanno, storia del positivo, sicché una storia di realtà negative finirebbe con il ridursi a un grottesco assurdo. Seguendo un criterio di rigorosa successione cronologica, si dovrebbero ora prendere in esame i trattati Della ragion poetica di Gian Vincenzo Gravina, editi nello spazio che intercorre fra il 1696 e il 1708. Ma va subito notato che la considerazione del proposito che informa quest’opera la esclude da un’attenzione di vero rilievo nell’ambito della vicenda che stiamo esplorando, anche se non poca è la sua importanza su un diverso piano. Dopo l’opera del Crescimbeni, i trattati Della ragion poetica non possono contare quale esemplare tipo di indagine insistente in maniera più decisa sul resoconto dello svolgimento storico della letteratura. Quest’opera si presenta infatti con un preciso intento teorico, che si determina nell’inchiesta sulla natura della poesia (la quale «nell’origine sua è la scienza delle umane e divine cose convertita in immagine fantastica ed armoniosa»), inchiesta a cui viene perciò subordinato l’intero disegno del libro e pertanto anche la rassegna che vi è contenuta dei più importanti poeti d’Italia. Ma pur così condizionata, l’illustrazione storica mantiene un suo significato degno di nota nel processo di sviluppo della storia letteraria. Nei limiti propri della sua struttura puramente funzionale di esemplificazione di una teoria (che costringe all’esame dei soli autori più indicativi e alla negligenza di ogni notizia biografica), la rassegna graviniana non rimane del tutto estranea a quell’accumularsi di esperienze che hanno contribuito alla formazione e allo svolgimento della storiografia letteraria. Essa riesce soprattutto importante per l’estendersi dell’interesse storiografico a quei motivi di cultura che sono intimi all’opera d’arte ed essenziali alla sua piena comprensione. Il Gravina nel libro secondo, parlando di Dante, introduce alcuni capitoli dai titoli molto significativi: Della politica di Dante, Dei Guelfi e Ghibellini, Della morale e teologia di Dante. E nello stesso libro, al Petrarca viene dedicato il capitolo Dell’amore razionale ovvero platonico. Mentre per altri autori, come ad esempio il Pulci, egli non manca di tracciare un abbozzo dell’ambiente

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storico letterario in cui si venne generando e sviluppando la loro opera. La semplice indicazione di tale orientamento proprio dell’indagine perseguita dal Gravina basterà a far comprendere di quali possibilità dovesse arricchirsi questa esperienza storiografica e quale dovesse essere il suo apporto nel processo che è oggetto del nostro studio. Attraverso questi assaggi nuovi la storia letteraria usciva da quell’astrattismo incolore che ancora manteneva nel primo tentativo del Crescimbeni, e veniva assorbendo una più densa sostanza storica, avviandosi verso quelle forme che saranno proprie delle successive prove storiografiche, così attente alle modificazioni dell’ambiente in cui gli autori vissero, da degenerare talora in vere e proprie forme di storia della cultura a scapito della storia delle lettere. Accanto alla Ragion poetica del Gravina conviene citare il trattato Della perfetta poesia italiana di Ludovico Antonio Muratori, uscito nel 1706. È anche questa un’opera teorica, nella quale, subordinatamente, si inserisce una rassegna storica della letteratura italiana. Così, il capitolo terzo del primo libro ha un contenuto essenzialmente storico, indicato, con esemplare e quasi simbolica evidenza dal sommario, che qui riproduciamo: Cangiamento della lingua latina nella volgare italiana. Siciliani ed altri antichi poeti d’Italia. Rime di Dante e d’altri non ancor pubblicate. Buon gusto del Cavalcanti, di Cino, del Petrarca e d’altri poeti. Trattati antichi della volgar poesia. Autori del secolo XV e del seguente. Stato della poesia italiana nel secolo XVII. Suoi difetti e sua riforma. Opinione d’alcuni scrittori franzesi. Inondazione universale del pessimo gusto. Questa ora è cessata17.

Sono in tutto quaranta pagine circa, che si configurano piegandosi al proposito precettistico del libro (la riforma della poesia sviata dal secentismo) e insieme allo scopo dimostrativo di esso (la classicità della letteratura italiana, stilisticamente più “autorizzata” rispetto alle altre, in quanto diretta erede della latina18). Ma ciò non impedisce che in quel capitolo si manifestino alcuni atteggiamenti di un risentito interesse storiografico che meritano di essere segnalati. La rassegna è condotta, pur entro gli stringenti limiti di un discorso di carattere esemplificativo, con quell’eccesso di erudizione proprio del gusto filologico settecentesco, e con frequenti rimandi all’Istoria del Crescimbeni. Su quest’opera il Muratori richiama spesso l’attenzione, 17 Seguo l’edizione: Della perfetta poesia italiana, spiegata e dimostrata con varie osservazioni da L.A. Muratori, con le annotazioni critiche di A.M. Salvini, Milano: Società tipografica dei classici italiani, 1821 (il passo citato è a p. 13 del I volume). 18 Cfr. G. Toffanin, L’eredità del Rinascimento in Arcadia cit., p. 217.

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sia per documentare autorevolmente le proprie notizie, sia per completare, mediante l’aggiunta di informazioni e scoperte d’archivio nuove, il contenuto di quella. Si determina così una specie di ideale e perpetua collaborazione fra il Muratori e il Crescimbeni. Ed è questo un contegno degno di interesse, perché questi richiami valgono a dare una specie di consacrazione all’Istoria della volgar poesia, a situarla come fondamentale punto di riferimento in un campo di studi, quello appunto della documentazione storica della nostra poesia, e pertanto a creare il senso di una tradizione storiografica. Il Muratori contribuiva in tal modo a suscitare la coscienza, che verrà sempre più vivamente radicandosi, di un ben preciso genere di lavoro, di un determinato tipo di ricerca, di un particolare modello storiografico, a cui fosse necessario rifarsi per ogni ulteriore indagine. Ma indipendentemente da ciò, questo capitolo del Muratori assume un suo preciso valore per il più ampio respiro che assume il paesaggio della civiltà poetica italiana in confronto alle sommarie indicazioni del Gravina. Si osservi, per esempio, questa pagina sul Cinquecento: Essendosi pure da Leon X sommo pontefice risvegliato l’amor delle buone lettere, si vede appresso in ogni letteratura, e sopra tutto nella poesia sì fattamente gloriosa questa provincia, ch’ella non ebbe allora molto da invidiare il secolo d’Augusto. Pochi son coloro che non sappiano i meriti del mentovato Bembo [...]. Videsi per la prima volta allora da parecchi Italiani trasportato in latino e poscia in volgare il prezioso libro della Poetica d’Aristotele. Da loro ancor si scrissero ampiamente le regole e i precetti della poesia italiana; si trattò con singolare erudizione la critica, e si apersero tutte le vie più sicure per giungere alla perfezione poetica [...]. Qualche differenza però si scorge fra gli autori che vissero nella prima metà del secolo, e fra coloro che fiorirono nell’altra. I primi con maggior cura imitarono il Petrarca, né potendo pervenire alla fecondità e alle fantasie di quel gran maestro, parvero alquanto asciutti [...]. Gli altri poscia per ottener più plauso si dilungarono alquanto dal genio petrarchesco; amarono più i pensieri ingegnosi, i concetti fioriti, gli ornamenti vistosi19.

Il problema teorico della poesia italiana, che soprattutto preoccupa l’autore, lo costringe in questo caso ad uno sforzo di maggiore penetrazione nella situazione letteraria di quel momento critico della nostra letteratura che fu il Cinquecento, determinando il superamento del tradizionale metodo di esame, che si esauriva nella astratta applicazione di generiche formule ai vari poeti, considerati in una rapsodica successione. In questa pagina, invero, si 19

L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana cit., pp. 40-41.

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perviene a una più ampia visione, nel tentativo, e sia pure in forma approssimativa, di caratterizzare tutto un secolo e di fissare il tono di un determinato gusto poetico, di un ambiente di poesia. Così la ricerca di un fondamento di verità alla poesia, l’idea di un’azione perfezionatrice e universalizzante dalla poesia esercitata sul vero naturale e sul vero di accadimento e finalmente l’insistenza sugli affetti del poeta in quanto capaci di rendere verosimile anche quello che il raziocinio astratto non riconoscerebbe per tale, aprivano la strada a possibilità nuove per un discorso critico storicamente più articolato e continuo. In particolare il criterio del «verisimile» a cui il Muratori si richiamava nel giudicare la poesia, tutt’altro che nuovo in sede teorica, ma ripreso con fecondità e novità nel pratico esercizio della critica, sviluppandosi (mediante l’introduzione della distinzione fra ciò che è vero o verisimile per la fantasia e ciò che è vero o verisimile per l’intelletto) in un’analisi psicologica, dava origine, malgrado i molti residui di una concezione ancora retorica della poesia, ad una considerazione più animata e nutrita. Perciò col Muratori la storia letteraria può segnare un autentico progresso, consistente appunto nell’esempio da lui offerto di una più approfondita capacità di sintetici quadri culturali, in cui sistematicamente si riassume la frammentaria menzione degli scrittori. In queste pagine si rende nettamente sensibile, specie in quella conclusa visione del secolo decimosesto considerato nelle sue linee essenziali, un primo felice tentativo di «periodizzare», di ritmare cioè in pause ben definite, e in caratterizzazioni attentamente elaborate, il corso vario e complesso della vicenda letteraria. (Inutile poi sottolineare l’importanza indiretta, il valore suggestivo ed esemplare che si sprigionava dalla grandiosa attività storiografica del Muratori che, dai Rerum italicarum scriptores alle Antiquitates italicae medii aevi agli Annali d’Italia, giovandosi del metodo del Mabillon e dei Padri Maurini — che a loro volta raccoglievano l’eredità dei nostri Sigonio, Baronio e Possevino — svolgeva un colossale lavoro di esplorazione e di catalogazione erudita, senza il quale pare difficile potere immaginare la nascita di un’opera come la Storia della letteratura italiana del Tiraboschi). Tuttavia questo trattato Della perfetta poesia italiana, come quello del Gravina, rimane pur sempre estraneo, con l’episodica e funzionale considerazione della letteratura (pur ricca di spunti a giudicarla nella sua assolutezza), alla vera e propria storiografia letteraria, il cui primo autentico esemplare era stato inaugurato dall’opera del Crescimbeni. Bisogna arrivare al Gimma per potere con sicurezza segnare il secondo esplicito momento nel processo di sviluppo della storiografia letteraria. Poiché l’Idea della storia dell’Italia letterata, uscita a Napoli nel 1723, ad opera di quella curiosa personalità che fu il barese Giacinto Gimma (in cui la forma-

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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zione nelle scuole dei gesuiti e il gusto enciclopedico vivamente risentito, e documentato anzi da un’opera inedita, rimangono fra i tratti biografici più significativi), prende in questa storia un posto carico di responsabilità, e comunque tutt’altro che trascurabile. Dei due volumi di cui consta l’opera, il primo comprende una introduzione e trentaquattro capitoli, dei quali solo il ventunesimo e il ventiduesimo (Dell’origine del romanzo, Dell’origine della volgar poesia) segnano l’inizio vero e proprio dell’argomento preso a trattare, mentre il secondo volume espone lo sviluppo della letteratura dall’inizio del secolo decimoquinto fino ai primi decenni del Settecento. Veramente, questa semplice notizia basterebbe già per se stessa a suscitare un istintivo consenso con il giudizio del vecchio Tiraboschi, che riteneva il lavoro del Gimma «opera in cui sarebbe a bramare che l’autore avesse avuto uguali a un’immensa lettura anche un giusto criterio, e a un’infinita copia anche un saggio discernimento»; un giudizio che trova conferma nell’opinione del Mazzoni20. E in realtà, a porsi dal punto di vista del contenuto, si deve giungere necessariamente a una svalutazione di questa caotica e inesatta storia. Si veda quel che viene scritto a proposito di Dante: Nacque Dante in Firenze nel 1262. Fu teologo e poeta, e cacciato dalla patria per la guerra civile de’ Neri e de’ Bianchi, andò a Parigi a far conoscere la sua dottrina offerendosi a sostenere colle pubbliche conclusioni tutto ciò che gli fosse contrastato dagli uomini dotti, e ritornato di Francia fu sempre con Federigo di Aragona e con Cane signor di Verona21.

E questo basti, come esempio dell’inesattezza di informazione. Per quanto si riferisce invece all’incapacità costruttiva sarà sufficiente notare come, dopo i venti capitoli iniziali in cui si comincia a discorrere dell’origine delle scienze a partire dalla creazione del mondo, per giungere a parlare delle antiche scuole delle scienze nell’Italia (attraverso capitoli grotteschi come il quarto intitolato: Che Giano sia Noè, che nell’Italia fondò le colonie e portò le scienze) si venga finalmente a trattare della genesi del romanzo e della volgar poesia, poi dell’uso dei versi e dei metri, delle scuole poetiche, e via via del secolo decimo, dell’undicesimo (con un capitolo sulla musica), del dodicesimo (con due capitoli sulla giurisprudenza), del tredicesimo (con un ampio capitolo sui dottori e ordini religiosi, uno sulla teologia, un altro sulle arti figurative) e da ultimo del quattordicesimo secolo. L’esame di questo Cfr. G. Mazzoni, Avviamento allo studio critico delle lettere italiane cit., p. 148. Per il Tiraboschi cfr. Storia della letteratura italiana cit., Prefazione, t. I, p. VIII. 21 G. Gimma, Idea della storia dell’Italia letterata, Napoli: F. Mosca, 1723, t. I, p. 394. 20

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capitolo relativo al Trecento è molto indicativo. Si incomincia con un’ampia esposizione di storia civile (Bonifacio VIII, il periodo avignonese); si passa in rassegna la situazione delle scienze, quali la giurisprudenza, la medicina, la matematica; si accenna all’influenza benefica esercitata sulla cultura dal mecenatismo di Roberto d’Angiò; e si conclude con un veloce cenno alle tre maggiori personalità poetiche del tempo. Manca insomma, come può facilmente dimostrare questa rapida documentazione, ogni disciplina costruttrice, ogni equilibrato principio di organizzazione. Ma il valore di quest’opera caotica deve essere ricercato in altro. E invero esso non consiste nella materia accumulata e nel modo in cui è distribuita, ma nei limiti dell’interesse storiografico dimostrato dall’autore. Si tratta insomma, ancora una volta, di una questione non di contenuto ma di forma (e non nel semplice senso esterno di schema strutturale, sì piuttosto in quello intimo di principio informatore, di coscienza del limite storiografico appunto). Nel quadro critico relativo allo svolgimento del tipo di storia letteraria nazionale, l’Idea del Gimma assume un suo preciso significato, che risulta dal fatto che questa non è più, come l’opera del Crescimbeni, una semplice storia della poesia, ma si presenta come una storia della letteratura. L’autore, invero, estende la propria considerazione, per la prima volta, anche ai documenti di prosa, che vengono ad assumere un loro posto accanto alla poesia. Proprio per questo ampliamento del territorio storiografico, l’Idea del Gimma segna un progresso in confronto agli esemplari precedenti, e si sottrae a ogni tentativo di svalutazione disposto, sulla base di un astratto giudizio di contenuto, a vedere in essa un arresto, o addirittura (come per il Landau che parla di «ein Rückschritt»22) un vero e proprio ritorno involutivo sull’itinerario della formazione della storia letteraria. Il titolo esatto e completo dell’opera (che conviene riportare) risulta in proposito efficacemente simbolico: Idea della storia dell’Italia letterata esposta coll’ordine cronologico dal suo principio fino all’ultimo secolo, colla notizia delle storie particolari di ciascheduna scienza e delle arti nobili: di molte invenzioni: degli scrittori più celebri e de’ loro libri: e di alcune memorie della storia civile e dell’ecclesiastica: delle religioni, delle accademie e delle controversie in vari tempi accadute: e colla difesa delle censure con cui oscurarla hanno alcuni stranieri creduto. 22 «Gegenüber Crescimbeni’s Geschichte der Poesie bedeutet des Vielschreibers Giacinto Gimma ein Vierteljahrhundert später erschienene Idee einer Litteraturgeschichte Italiens [...] einen Rückschritt», M. Landau, Geschichte der italienischen Literatur im achtzehnten Jahrhundert, Berlin: E. Felber, 1899, p. 224. .

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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Si annunzia insomma nel diffuso titolo (e lo confermano i capitoli esaminati) una vera e propria storia della cultura italiana, investigata nelle più varie forme della vita spirituale: e in ciò forse deve essere riconosciuta, accanto ad una indubbia positività, anche una pericolosa trasgressione e un negativo sconfinare, in cui viene a smarrirsi l’oggetto proprio della storia letteraria. Ma l’incerto concetto di letteratura proprio del Gimma (condiviso del resto con tutta l’età sua), corrispondente all’incirca al nostro attuale di cultura, doveva necessariamente determinare questo allargarsi di orizzonti storiografici e, nello stesso tempo, alla luce del successivo e moderno concetto, questo trascorrere oltre il preciso punto di attenzione. D’altra parte, anche questo smarrimento era destinato ad avere una sua storica giustificazione, perché si verrà, attraverso di esso (nell’avveduto controllo critico del Denina e di altri) determinando in modo più esatto il concetto di letteratura. Agli inizi del Settecento la storia letteraria viene dunque a essere rappresentata da queste due forme estreme, la storia del Crescimbeni come storia della poesia, e quella del Gimma come storia della cultura. Nell’opera del Tiraboschi confluiranno questi due tipi storiografici, e nascerà così una storia della cultura in cui avrà il più ampio rilievo la storia della poesia. In questo essenziale diagramma, in cui può essere registrato il processo di svolgimento della storiografia letteraria settecentesca, l’Idea del Gimma rappresenta uno dei momenti fondamentali, offrendo un modello nuovo di ricerca. Essa perciò va segnalata, in questa prospettiva ideale in cui la Storia del Tiraboschi si iscrive quale risultato massimo e definitivo punto di convergenza, come una linea tipicamente costruttrice, in quanto è proprio l’idea a offrire quello schema generale, da cui deriva, in una evidente figliazione (a parte la maggiore consapevolezza operativa e il più vasto proposito) il disegno del monumentale capolavoro della storiografia letteraria settecentesca. Conviene anzi osservare che all’Idea del Gimma esplicitamente si richiamerà il Tiraboschi, scorgendo in essa il più antico esemplare del tipo di lavoro intrapreso: mentre ben poco determinante sembra risultare, tenuto conto di ogni cosa, la Histoire littéraire de la France del monaco di Saint-Maur Antoine Rivet de la Grange (il cui prospetto uscì soltanto nel 1728, e il cui primo volume apparve nel 1733, e dunque posteriormente all’opera del Gimma) che il Fueter tenta di porre in una genealogica relazione con la storia dell’erudito modenese. Il vero archetipo della Storia del Tiraboschi va indicato in questo lavoro del Gimma (come disegno ispiratore almeno, se non come modello di pratica attuazione), anche se poi esso appare tanto lontano, nei suoi limiti di incerto abbozzo, dalla grandiosità della storia dei Maurini. E tale esemplarità dei volumi dello storico barese va affermata non solo per quanto riguarda la loro cronologia, ma anche per il sentimento di italianità che tutti li ispira.

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La presenza di questo motivo sentimentale rende assai caratteristica quest’opera e la pone, anche per questo aspetto, quale illustre capostipite di una lunga tradizione che dovrà culminare, e sia pure in atteggiamenti e movenze nuove, con il capolavoro di Francesco De Sanctis. L’introduzione documenta assai efficacemente la temperie spirituale in cui si genera l’Idea (ma già il titolo ne anticipa il motivo): Laudabil cosa fu sempremai appo tutte le genti faticar per la gloria di se stessi, e della loro nazione [...]. Molti della loro nazione hanno scritto, e Stefano Pasquier scrittore francese fu ricercatore delle glorie della Francia; anzi togliere talvolta ha voluto la stima alle cose della nostra Italia; e ’l chiarissimo nostro Giovan Mario Crescimbeni fu costretto a vendicare l’italiana poesia dalle sue censure e disprezzi. Niuno però de’ nostri ha avuto la cura di scrivere una Istoria dell’Italia letterata, la quale più di ogni altra nazione può mostrar cose di maggior gloria nelle lettere, e negli studi [...]. Se non è stata in altri tempi necessaria simil fatica creduta, sarà certamente in questi; e non faremo ingiuria a veruno se con modestia metteremo sotto l’occhio le glorie della nostra Nazione, la quale oggidì con poca giustizia è censurata come ignorante da alcuni stranieri, che troppo, con altrui pregiudizio, della propria nazione presumono; sforzandosi altresì privar l’Italia di quelle lodi, che per le sue felici invenzioni, e per le grandi applicazioni nelle scienze e nelle arti, sono a lei degnamente dovute23.

Questo tono apologetico, nobilissimo e pur ingenuo, che informa l’introduzione, affiora ugualmente lungo tutta l’opera. Nelle pagine in cui si tratta dell’origine della poesia italiana, la carità patria del Gimma trova un’occasione celebratoria ricca di possibilità, e detta queste righe: Perché gli Italiani stessi han tolta questa gloria all’Italia, dando dell’italiana poesia l’origine alla provenzale, stimiamo qui convenevole alquanto trattenerci, e mostrare, che la madre delle poesie sia stata l’Italia [...]. Né questa nostra opinione dee punto esser dispiacevole a’ nostri autori italiani [...] poiché, siccome noi per restituire alla nostra Italia questo pregio (che di lei è ben proprio, e dello stesso con ingiustizia n’è priva) non abbiamo difficultà di comparire troppo arditi contraddicendo all’opinione tenuta per vera e comune; così eglino più tosto favorir debbono l’ardir nostro, che accusarlo, e farsi muovere assai meglio dalla ragione e dall’affetto della lor patria, ch’è naturale, che mostrare amore verso gli stranieri, quella gloria all’altrui nazione concedendo, che alla nostra con somma giustizia è dovuta24. 23 24

G. Gimma, Idea della storia dell’Italia letterata cit., t. I, pp. 1-2. Ivi, p. 175.

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Con questa posizione, in cui si riprende un’idea del Muratori25, il Gimma sembra anticipare quel contegno della storiografia successiva, che si affaticherà intorno alle origini della nostra letteratura, preoccupandosi, in un geloso amore di nazionalistica priorità e indipendenza, di dimostrare come la poesia italiana non sia sorta quale fenomeno di imitazione. Il motivo storiografico della originalità della letteratura nostra, dibattutissimo dalla critica dell’Ottocento e del Novecento, trova quindi un lontano preannunzio in questo scrittore del secolo decimottavo. Quel contegno che nel Muratori era stato assunto per una semplice ragione di difesa della poesia italiana contro l’incomprensione del gretto nazionalismo dei francesi, da Boileau a Fontenelle a Bouhours e Rapin, una difesa dettata da pure ragioni teoretiche, o almeno da un disinteressato amore per la poesia, si trasforma nel Gimma in un atteggiamento di difesa motivato da stimoli di ordine pratico, nella replica risentita di chi veda toccato e offeso l’onore del proprio paese. Il Gimma per questo calore patriottico sembra quasi preludere, in certo modo, alla storiografia romantica. Ma, in realtà, per questo autore si tratta soltanto di un nobile sentimento di italianità, di un sentimento un po’ letterario, leggermente retorico pur nella sua schiettezza, impostato secondo i modi suggeriti e consacrati da tutta una tradizione di scrittori e poeti, da Dante al Petrarca, al Machiavelli, ad alcuni secentisti, come il Testi e il Tassoni: si tratta insomma di un sentimento in cui confluisce l’ultimo orgoglio umanistico, nato dalla convinzione di essere noi italiani gli eredi diretti della classicità, e di conseguenza i maestri delle barbare genti. Manca ancora nel Gimma quella profonda consapevolezza nazionale che dovrà essere un prodotto della nuova sensibilità romantica. Lo stesso proposito manifestato, di scrivere l’Idea «per compiacere ad uomini di chiarissima fama, che avendo cura dell’onore della nostra Nazione, a scrivere a pro della stessa ci hanno con tutto zelo stimolati»26, e subito ribadito, «pensiamo dunque disporre l’Istoria per mostrare le glorie della nostra Nazione»27, si pone come un elementare motivo di carità patria, tutto venato da un ingenuo e commovente campanilismo, e pertanto rimane assolutamente estraneo al solenne interiore proposito che presiederà alla storiografia romantica, di acquistare cioè, attraverso la visione del patrimonio letterario d’Italia, una coscienza più profonda della patria, e perciò di collaborare, su un piano spirituale, alla unità della nazione. È necessario infatti riportare questo sentimento di italianità, per evitare di fraintenderlo, al clima storico nel quale sorge e si afferma. Dopo di avere dominato 25 26 27

L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana cit., vol. I, pp. 16-17. G. Gimma, Idea della storia dell’Italia letterata cit., t. I, pp. 4. Ivi, p. 5.

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culturalmente l’Europa con la feconda primavera della Rinascenza, l’Italia lungo tutto il Seicento, per il naturale ritardato movimento di divulgazione della cultura, era vissuta ancora, nell’opinione degli stranieri, in quella luce di grandezza che le veniva dal secolo precedente. Fu solo nel Settecento che si cominciò ad avvertire, da parte di quelli, la decadenza in cui era piombata la nostra vita intellettuale. L’Italia, decaduta dalla sua primitiva posizione di nazione intellettualmente privilegiata, divenne allora oggetto di sistematiche svalutazioni e di episodici attacchi da parte di questo o di quello scrittore oltremontano. Questa polemica antitaliana, che nasceva del resto proprio quando la nostra cultura, all’inizio del secolo decimottavo, riprendeva il suo ritmo ascendente28, doveva trovare da noi una viva reazione, di cui è appunto documento anche l’opera del Gimma. Questo riferimento storico ci permette di intendere nel suo reale valore questo motivo sentimentale presente nell’opera del Gimma, e di sfuggire all’astrattismo di qualche critico, che, come avviene tipicamente nel Landau29, si preclude ogni comprensione con un’inconcludente esegesi, impostata sui termini di un’astratta giustizia e di una generica psicologia. Senza dubbio, per le ragioni indicate, il tema patriottico, nella storia del Gimma, finisce con il restare alquanto esteriore e di aggirarsi in una ingenua oratoria, senza diventare mai motivo di più profonda ispirazione, e quindi principio di unità, come potrà avvenire per gli storici romantici. Tuttavia, lasciando ora in disparte la misura che abbiamo voluto farne con la storiografia dell’Ottocento per chiarirne la reale portata, questo atteggiamento storiografico, per quanto estrinseco, aveva una sua celata fecondità, perché valeva in qualche modo a distogliere dall’attenzione meramente retorica e giovava a superare il concetto di storia letteraria come storia di una tecnica, per avviare a una più complessa intuizione, quella appunto della storia letteraria intesa come storia del documento scritto in cui si riflette la spiritualità di un popolo: che non sarà ancora, naturalmente, la concezione del Gimma, ma alla quale pure in qualche modo essa avviava.

Cfr. B. Croce, Storia della età barocca in Italia, Bari: Laterza, 1929, pp. 50-51. «Was ihn hauptsächlich charakterisiert und was wohl am meisten dazu beigetragen hat ihm lobende Beurteilungen und Auszeichnungen zu verschaffen, das war sein alles Mass übersteigender, schon in Chauvinismus ausartender Patriotismus, seine Verherrlichung italienischen Geistes und Wissens und die Herabsetzung alles Ausländischen», M. Landau, Geschichte der italienischen Litteratur im achtzehnten Jahrhundert cit., p. 226; e cfr. anche p. 227. . 28

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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Lo stesso proposito di edificazione patriottica, che informa il lavoro del Gimma, giustifica, in una volontà in cui si esalta il gusto del bibliotecario e dell’erudito, l’opera di Giusto Fontanini, Della eloquenza italiana, pubblicata a Roma nel 1726. Anche questa impresa si ricollega, nell’occasione determinante, alla famosa querelle tra francesi e italiani che divampò nel Settecento, divenendo stimolo fecondo di tutto un vasto lavoro di revisione del patrimonio della nostra letteratura. In una lettera premessa alle sue folte pagine, rivolgendosi a Giuseppe Orsi, l’autore dichiarava di voler difendere «la lingua nostra italiana» contro il Bouhours, il cui libro ne’ paesi dove più volte si è propagato per mezzo delle stampe ha potuto far qualche setta, arrivando ad essere cagione che si mettano in dimenticanza il Boccaccio, Dante e il Petrarca, ingegni sovrani e padri di questa lingua; quasiché essi ci avessero vendute lucciole per lanterne, e che si stessero nel buio quei che vegliano ed hanno vegliato in ammirare ed imitare le opere loro immortali30.

Ma questi due volumi, di cui può avere un certo interesse solo il primo (poiché il secondo non è che un catalogo «d’autori nostri de’ più eccellenti, che di varie facoltà avessero scritto in italiano», composto per «mostrare con le scritture alla mano i pregi della nostra favella»), sebbene anch’esso finisca poi con il ridursi semplicemente ad una superficiale storia della lingua, limitandosi a spiegare «l’origine e il processo dell’italiana favella», si ricordano qui non tanto per amore di una estrinseca documentazione, quanto per desiderio di provare come, nell’incertezza con cui ancora veniva giudicato il fatto letterario ed era considerato il compito dello studioso di fronte ad esso, dovesse assai lentamente e con continui sviamenti formarsi l’idea di una storia della letteratura, e come pertanto si renda più apprezzabile, in questo lungo cammino segnato da continue alternative nella scelta di metodi e criteri, ogni anche minimo contributo che giovasse a rinsaldare una linea e un tipo di ricerca. In una condizione di maggiore responsabilità, rispetto ai lavori del Gimma e del Fontanini, si colloca l’opera del Quadrio, quantunque, al paragone con l’Idea del Gimma, si offra meno ricca di proposte storiograficamente suggestive ai fini della formazione di quel libro la cui genesi e il cui sviluppo stiamo indagando. Mentre infatti nel passaggio dal Crescimbeni al Gimma il progresso cronologico coincide col progresso storiografico, nel passaggio dal Gimma al Quadrio si verifica una successione di tempi a cui corrispon30

Si confronti l’edizione di Venezia del 1727.

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de invece una regressione di significato. Poiché l’opera del Quadrio sembra rimandare a una mentalità storiografica, nei confronti dell’Idea del Gimma, più antiquata e meno attiva. Le notizie relative alla pubblicazione e alla struttura di questa opera riescono particolarmente indicative dell’impegno e dei propositi dell’autore. Il primo abbozzo del lavoro, pubblicato nel 1734 a Venezia, con lo pseudonimo di Giuseppe Maria Andrucci, sotto cui si celava il nome del gesuita valtellinese Francesco Saverio Quadrio, e con il titolo Della poesia italiana, fu più tardi ampliato e rifatto, e apparve, con il vero nome dell’autore, a Bologna (veramente fu terminato di stampare a Milano), negli anni dal 1739 al 1752, in sette tomi e con il titolo nuovo Della storia e della ragione di ogni poesia. L’opera comprende quattro volumi e sette torni (essendo i volumi secondo e terzo suddivisi ciascuno in due parti; ed affiancandosi infine un ultimo volume complementare di aggiunte, correzioni e indice); ogni volume risulta diviso in libri, i libri a loro volta sono suddivisi in distinzioni, queste in capitoli e i capitoli in particelle o paragrafi. Così la materia si presenta distribuita con complesso e preciso ordine. Un’idea dell’architettura del lavoro e del suo contenuto è possibile ricavarla dal titolo dei vari libri che qui conviene passare in rassegna con qualche sommaria indicazione. Il primo volume contiene un libro primo «dove la natura, gli accidenti, le cagioni, e la materia d’ogni poesia si dimostrano» e un libro secondo «dove del verso si parla o sia dello strumento, col quale dal poeta si imita». Il secondo volume comprende un libro «dove le cose si narrano che a’ melici componimenti in universale appartengono» e un altro «dove le cose si narrano, che a’ melici componimenti e metri in particolare appartengono». Il volume terzo si articola in tre libri, il primo «dove la storia e la ragione della tragica poesia si contengono», il secondo «dove la storia e la ragione della comica poesia si contengono», il terzo «dove la storia e la ragione della tragicomica poesia si contengono». Il quarto volume infine si riduce a due soli libri: il primo «dove degli epici poemi, senza favola tessuti, si fa trattato», il secondo «dove degli epici poemi, con favola tessuti, si fa trattato». L’opera, come si vede, ha un’impalcatura retorica, e tuttavia in essa la storia occupa un posto non secondario. Come annunzia chiaramente e solennemente il titolo, Della storia e della ragione d’ogni poesia, e come lascia intravedere il prospetto dei libri, quest’opera vorrebbe costituire un grandioso panorama della letteratura poetica delle più diverse lingue e dei più vari generi. E in realtà ne risulta un lavoro di ampie misure, un’impresa in cui si raccoglie una preparazione erudita non indifferente, insomma un monumento degno del Settecento erudito. Senonché all’interno stesso di tale erudizione, deve essere segnato un limite, in quanto

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non sempre le notizie riportate sono sottoposte a un rigoroso vaglio critico e vengono sovente riferite senza un sufficiente controllo in ordine all’economia interna della composizione e all’equilibrio della prospettiva storiografica. Nonostante questo però, tale materiale, ricco di documenti biografici e bibliografici, può offrire ancora oggi possibilità di studio e di consultazione non disprezzabili31, e può spiegare il significato assunto, nella linea della tradizione da noi studiata, quale esempio di un’imponente esplorazione, capace di suggestivi richiami e di fecondi stimoli a ulteriori indagini e revisioni. Ma un più immediato affiatamento critico con quest’opera è concesso nell’analisi dell’introduzione, dove si rivela in maniera più decisa e nitida, attraverso gli enunciati programmatici, la coscienza scientifica che ha presieduto alla composizione del lavoro. Per una ricerca come la nostra, che si proponga di fissare il sorgere e lo svolgersi del concetto di storia letteraria (di un genere critico cioè che si è venuto affermando attraverso proposte, attuazioni, ritorni e incertezze di ogni sorta, talora sottilissime e difficilmente percepibili), è naturale che importi non poco cogliere, attraverso la confessione immediata dell’autore, la motivata genesi di queste composizioni e il tono di cultura in cui si svilupparono. È vero che non va poi trascurato l’esame interno dell’opera, ma la possibilità di istituire un rapporto fra l’ideale metodologia dello storiografo e la sua concreta attuazione (così come, in altro campo, fra poetica e poesia) costituisce già di per sé un primo notevole passo verso una più precisa messa a fuoco del problema. Nell’introduzione, in pieno accordo del resto con le effettive risultanze dell’opera attuata, il Quadrio esprime la volontà di compiere un lavoro di carattere erudito, di collaborare cioè su una linea di tradizione da altri iniziata, alla formazione di un sempre più ricco repertorio di notizie sui più celebri cultori della poesia: Scrissero, egli è vero, de’ poeti greci e latini il Giraldi, il Patrici, il Vossio, il Fabrizio, il Gaurico, il Crasso, ed altri; e degl’italiani una piena Istoria pretese il Crescimbeni di darne. Ma noi, oltre alle centinaia, che aggiunti n’abbiamo, da essi taciuti, un numero ancora non picciolo di notizie abbiamo ammendate, intorno alle quali furono essi abbagliati32.

La storia letteraria, nella orgogliosa affermazione del Quadrio, si presenta qui idealmente concepita come pura collezione di nomi di autori, e come 31 Il Mazzoni conclude il suo veloce cenno alla storia del Quadrio con questo giudizio: «È più facile dir male di lui che rinunziare a valersene; il che ben s’intende deve sempre farsi con le debite cautele, cioè riscontrando la verità di quanto egli asserisce», Avviamento allo studio critico delle lettere italiane cit., p. 150. 32 F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Bologna: Ferdinando Pisarri, 1739, Introduzione, p. iv.

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ampio corredo di selezionate notizie. E in realtà, sfogliando le pagine della sua storia, non è concesso trovare molto più di un perpetuo catalogo, che si esaurisce in vasti elenchi di nomi o in accurati inventari di notizie biografiche. Tutt’al più qualche generica sentenza, giudiziariamente formulata in termini positivi o negativi, di biasimo o di lode, si accompagna allo scheletrico referto, senza giungere a conferire alla rassegna una fisionomia meno arida. Repertorio è dunque ancora sostanzialmente per il Quadrio la storia letteraria, inventario erudito, di una erudizione ambiziosamente estesa alla letteratura greca e latina, e a quante altre moderne letterature di cui potesse giungere in qualche modo notizia al faticoso compilatore. Conviene tuttavia osservare che l’erudizione del Quadrio è ben diversa dalla caotica raccolta di materiale propria dell’età barocca. La distingue un’analisi più precisa e disciplinata, una sistematica ricerca attraverso la quale, da un lato, si tendeva a eliminare i residui retorici ereditati dall’opera del Crescimbeni e da una lunga tradizione, superandoli in un interesse diverso, e dall’altro si veniva a dominare l’incondito contenuto dell’Idea del Gimma mediante un costante lavoro di controllo filologico e di accertamento erudito. E questo costituiva un esercizio storiografico non trascurabile in quanto sensibilmente avviava, per l’acribia e la vastità dell’impegno, al grande sforzo del Tiraboschi in cui si doveva riassumere l’esperienza di un secolo di ricerche. Tra le varie letterature prese in considerazione, è specialmente verso la letteratura italiana che si dirige l’interesse del Quadrio; e anche per questo la sua opera si inserisce con piena legittimità nella storia dello svolgimento storiografico che stiamo indagando. Nelle pagine introduttive si incontra questa indicativa affermazione: In ogni e ciascun componimento, che in quest’opera verrà esaminato, mio costume sarà di mettere ognora tra loro a fronte specialmente i poeti di queste tre lingue, greca, latina e italiana: perché mia intenzione essendo d’illustrare principalmente la volgar poesia, in oggi a tant’altezza di gloria salita, che non ci ha nell’Europa tutta, non che nell’Italia, persona di lettere e d’erudizione informata, la quale in essa meschiar non si voglia, apertamente si vegga, che se i latini furono da’ greci nell’invenzione e nella grazia vinti, e se i greci vinti furono da’ latini nella maestà e nella grandezza, gl’italiani i pregi dell’una e dell’altra nazione accoppiando, vanno su gli uni e su gli altri di maggior gloria ricchi. E per la ragione medesima qui accennata di illustrare la volgar poesia, le opere tutte de’ nostri poeti alla mia notizia venute, non lascerò di accennare; senza però dimenticare quelle de’ latini e de’ greci33. 33

Ivi, p. v.

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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Attraverso queste parole programmatiche, viene con esplicita perentorietà affermata dal Quadrio l’assoluta preminenza di interesse e di rilievo, nel suo paesaggio storiografico, della letteratura italiana. In realtà se l’ambizione erudita induce l’autore all’esame di tutte le letterature (almeno come proposito, poiché l’effettiva attuazione risulta assai limitata), e se il risalto dato alle due letterature classiche si giustifica come un esteriore omaggio al canone arcadico dell’autorizzamento (della nobilitante discendenza cioè della letteratura italiana dalla greca e dalla latina), è però alla letteratura italiana che si indirizza prevalentemente l’attenzione dell’autore. Per questo La storia e la ragione di ogni poesia è assai facilmente suscettibile di una riduzione a una pura e semplice storia della letteratura italiana. Cotesta attenzione privilegiata ottenuta dalla letteratura italiana nel quadro delle altre letterature, che sembrava dover essere produttiva, con la necessità del confronto, di una distinzione e quindi di una individuazione della letteratura presa in esame, non si risolverà però in una ricerca dei caratteri peculiari della nostra poesia, di quello che si disse poi, e già si cominciava a dire, il genio della nostra letteratura, un motivo critico che, per quanto dovesse apparire fallace alla più matura speculazione del nostro secolo, doveva tuttavia offrirsi, alla storiografia romantica, come un utile strumento per disciplinare in un ritmo di sviluppo la frammentaria raccolta delle notizie e delle analisi su autori e periodi del corso delle nostre lettere. In realtà si veniva in quegli anni affermando la coscienza della distinzione che passa fra gusto universale e gusto particolare, fra la bellezza e le diverse forme che la bellezza può assumere, della differenza insomma dei «gusti» e delle «maniere» che distinguono i diversi poeti nel tempo e nello spazio, e pertanto delle differenze che caratterizzano le varie letterature. Ma questo principio era lontano ancora dall’avere raggiunto una sua divulgata possibilità di impiego come canone storiografico: e intorno a quel tempo soltanto nell’opera del Becelli, Della novella poesia cioè del vero genere e particolari bellezze della poesia italiana, esso trovava un proposito di applicazione, il quale si attua nella descrizione dei caratteri della lingua e della letteratura italiana, che consisterebbero, come avevano già suggerito Voltaire e altri, nella dolcezza nella gentilezza nella tenerezza, caratteri tutti interpretati, sulle tracce del Du Bos, in relazione al clima. Nel Quadrio invece questo principio, come era accaduto del resto nel Gravina, che ne avvertì confusamente il valore, e nello stesso Muratori, che ne ebbe in teoria un sentimento piuttosto vivo, rimane criticamente inerte. Egli infatti dichiara sovente che «le qualità che con le poesie ebrea, greca e latina ha l’italiana comuni, e la natura di questa, che senza la conoscenza di quelle malagevolmente si può indagare, non gli permettevano di separarla dalle medesime, e di considerarla senza esse»; e

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fondandosi sulla convinzione dell’unità della poesia e delle differenze dovute alla semplice diversità delle lingue, si limita praticamente a porre in confronto, secondo il diffuso canone dell’autorizzamento, la letteratura italiana e le letterature classiche, e a rilevare la superiorità della prima. Questa inclinazione verso la letteratura italiana non assume, nell’intimità dell’autore, un significato particolarmente profondo. Esso non è altro che l’affetto di un tecnico, si direbbe, l’amore naturale d’uno «specialista» verso la materia della propria competenza. Così non si può caricare di troppo alti sensi etici quell’elogio che il Quadrio, nelle righe citate, tesse della letteratura nostra. Non ci sembra pertanto accettabile l’interpretazione proposta per tutti questi storiografi da un nostro studioso. Riportandosi al clima di cultura in cui nasce anche l’opera del Quadrio, il Concari osserva che questi scrittori di erudizione letteraria son mossi quasi sempre da un sentimento d’orgoglio nazionale, han qualche gloria da rivendicare o da difendere, qualche offesa da rintuzzare, qualche punzecchiatura da dare in ricambio; combattono pro patria34.

Anche secondo il Gentile si avvertirebbe nell’opera del Quadrio la presenza di un sentimento di nazionalità, un proposito di esaltazione della gloria italiana, una religione della patria35. Ma nulla di tutto questo a noi sembra che si possa trovare nelle pagine inaugurali quadriane. Si incontra solo, più semplicemente, un orgoglio di erudito pronto a magnificare, con accademica convinzione, la virtù intima della disciplina da lui coltivata, la naturale simpatia, sempre un poco portata al tono apologetico, per le cose che meglio si conoscono e che formano oggetto di una lunga consuetudine di ricerca. Né risuona con un diverso accento sentimentale tutto il quinto capitolo della distinzione prima del nuovo libro «dove dell’italiana poesia specialmente si parla; e la sua singolare estimabilità sopra l’altre si mostra»36. Questo motivo apologetico, che a una considerazione superficiale può anche apparire identico, si sviluppa in realtà nel Gimma con un calore e un’intonazione assai diversa. Nell’Idea si avverte la presenza di un risentito e geloso amore per l’Italia. E proprio l’Italia costituisce, sotto certi aspetti, il tema, pur nell’entusiastica esteriorità in cui è lasciato, o almeno uno dei più vagheggiati miti, dell’intera opera. Nel Quadrio invece tale motivo rimane un accademico pretesto di oratoria erudita. Più superficiale e libresco che 34

194.

T. Concari, Il Settecento, in Storia letteraria d’Italia, Milano: Vallardi, s.a. [ma 1900], p.

M. Gentille [Gentile], “L’origine del tipo di storia letteraria nazionale” cit., p. 22. F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia cit., t. I, p. 129. E cfr. specialmente pp. 134 ss. 35 36

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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nel Gimma, questo sentimento di amore per la gloria delle lettere italiane presente nel Quadrio sarà trasmesso al Tiraboschi, che vi porterà ancora una diversa sostanza umana e quindi una sfumatura diversa, e passerà infine alla storiografia romantica, accendendosi di ben altra intensità e colorandosi di un contenuto e di un significato assai più complessi. Questo tema storiografico, sebbene nasca su un piano di appartata cultura letteraria, di libresca polemica fra accademici, e conservi, per tutto il Settecento, un sapore un po’ astratto, appare tuttavia come la necessaria anticipazione, in questa sua forma elementare e ingenua, di quell’altro tema nazionalistico, denso di valore etico e politico, che sarà operante in tutta la storiografia dell’età romantica. La sua presenza deve dunque essere registrata come la naturale collaborazione del Settecento, sotto questo rispetto, a quel processo di sviluppo della storia letteraria che nello stimolo dell’ideale della patria troverà una delle ragioni determinanti più autorevoli e insieme uno dei più spontanei principi costruttivi. Anche su questa particolare linea di svolgimento la storia del Quadrio mantiene dunque un valore estremamente marginale, tanto che, nei confronti dell’Idea del Gimma, non si può dire che essa segni un autentico progresso. D’altro lato, la considerazione del carattere, almeno intenzionalmente, subordinato che vi acquista la parte storica nella cornice in cui domina l’interesse per la retorica, e l’altra considerazione sul fatto che i documenti letterari prosastici sono esclusi completamente dalla prospettiva dell’opera, ci indurrebbero a giudicare questa massima fatica del Quadrio un regresso nella vicenda storiografica relativa alla nostra letteratura, ove il termine non suggerisse un falso concetto dell’analisi storica, materializzandola, con il ridurla a un economico calcolo di attività e passività o, se si vuole, a una chimica operazione di azioni e reazioni. Riassumendo gli elementi del nostro esame, diremo invece che l’opera del Quadrio, se non rappresenta un vistoso momento di sviluppo nella storia della storiografia letteraria, costituisce pur sempre un momento assai importante per la funzione conservatrice, staticamente esemplare, di punto fermo di una tradizione, e insieme indirettamente sollecitatrice, nella sua stessa immobilità, di nuove forme e di nuovi indirizzi. Essa conferma quei propositi di amorosa ricerca e classificazione del materiale concernente la nostra poesia già presenti nell’opera del Crescimbeni, recandovi un rinnovato sforzo di disciplina e di impegno indubbiamente fecondi per la loro esemplarità. Per il resto, e cioè quanto al problema della struttura della storia letteraria, il Quadrio si mantiene fedelmente nel solco di una tradizione (e per questo è pur degno di un onorevole ricordo), anche se la sua è una passiva fedeltà, mentre il vero amore della tradizione dovrebbe consistere nel riprendere il passato per approfondirlo e farlo avanzare.

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Lo spoglio delle opere di questo periodo settecentesco, richiesto dalla nostra indagine, offre a un dato momento alla nostra attenzione un curioso documento dal titolo denso di suggestione critica, la Storia letteraria d’Italia del gesuita Francesco Antonio Zaccaria, apparsa la prima volta a Venezia nel 175037. Ma è proprio soltanto per questo titolo, in cui si rende sensibile in certo modo un clima di cultura, che quest’opera può essere fatta oggetto di menzione. Non si tratta invero di una storia della letteratura, nemmeno nel senso approssimativo delle altre opere del Settecento fin qui ricordate e assunte quali documenti indicativi di questo territorio che stiamo esplorando. E non già per l’impreciso contenuto del termine «letterario» (il cui oscillante valore provoca per l’appunto la fisionomia incerta di queste scritture), ma, più gravemente, per l’anarchica riduzione di significato della parola e del concetto di «storia». La possibilità di un fraintendimento, dovuto all’arbitraria misura dell’estensione cronologica che può essere implicita al concetto di storia, si esaspera qui assurdamente nell’eccessivo assottigliamento dei limiti di tempo. La domanda che l’autore si pone è a tal proposito significativa: Perché la storia letteraria di ciascun anno ancora non pubblicare, che le fatte scoperte, i libri usciti, le insorte contese, le morti de’ valentuomini, le altre somiglianti cose, utili tutte e pregevoli, quasi sotto un solo aspetto ne rappresentasse38?

Ne risulta quindi un provvisorio ragguaglio, un’opera giornalistica, insomma un annuario, in luogo di un’opera storica, la quale necessariamente deve esplicarsi su ritmi conclusi e su respiri completi, distesi ovviamente in più ampi periodi. Ma con un arido gusto collezionistico da pedante erudito, lo Zaccaria giustificava il titolo della sua impresa spiegando che il proposito di essa era quello di documentare i fatti letterari più notevoli, «siccome storie sagre e civili chiamiamo tutto giorno certe opere nelle quali solo i precipui avvenimenti si narrano»39. Ora, proprio soltanto per questo indiretto valore, di testimonianza di un’ancora incerta cultura storiografica letteraria, conveniva citare l’opera dello Zaccaria. Un assai diverso e più importante significato assume invece il Discorso sopra le vicende della letteratura di Carlo Denina. Il Discorso, uscito nel 1760 (e, in una seconda edizione, dove è rielaborata e sviluppata più ampiamente la stessa materia, nel 1784) fu tradotto in molte lingue per l’interesse geo37 38 39

La stampa fu continuata fino al 1758 e comprende 15 volumi. F.A. Zaccaria, Storia letteraria d’Italia, Venezia: Poletti, 1750, vol. I, p. v. Ivi, p. viii.

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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graficamente assai esteso rivolto all’oggetto della propria indagine. Vi sono infatti prese in considerazione le letterature dei vari paesi, e per questo anzi, le Vicende sono state giudicate come un precorrimento di quella che doveva poi essere la letteratura comparata. Senonché il panorama della letteratura universale che vi è tracciato non sorge sotto lo stimolo di un più approfondito gusto storico e critico, in cui si affermi l’urgenza di illuminare, attraverso confronti e richiami, la complessa e remota e pur strettamente unitaria genesi dei fenomeni letterari, ma soltanto per un gusto di intelligenza enciclopedica e per un ambizioso cosmopolitismo culturale. In questo consiste appunto la differenza fra il comparatismo ottocentesco e l’“universalismo” del Denina. L’indagine storica del Denina conserva ancora residui notevoli di un’impostazione teorica. Sulla grande linea delle passate trattazioni storico-dottrinali, il Discorso sopra le vicende della letteratura rappresenta la fase estrema e segna il momento di rottura nel processo di liberazione della storia letteraria dagli schemi dottrinali e precettistici. La materia storica appare inquadrata in un vasto proposito che l’autore così indica, giustificando il motivo della sua ricerca: il veder [...] che quella luce delle lettere, la quale apparve così splendida, e sublime ne’ quattro famosi secoli di Alessandro, di Augusto, di Leon X, e di Luigi XIV, venne in brevissimo tempo mancando e dileguandosi, mi mosse più volte ad investigare i motivi di queste rivoluzioni.

E proseguendo: Verrò, come per ordine di storia letteraria universale, indicando i principi, e le cagioni, che fecero ora vivere, ed ora venir meno lo splendore, e lo spirito delle lettere; acciocché possiamo trattarle, e coltivarle con più vantaggio, sia col guardarci da ciò che conosceremo essere ordinariamente loro rovina e corrompimento, sia coll’eleggere come guide ed esemplari, quegli autori, che troveremo essere con singolar gloria vissuti, e fioriti ne’ buoni secoli della letteratura40.

In questi propositi la ricerca storiografica letteraria tenta di darsi una giustificazione teoretica e pratica, come speculazione delle cause della decadenza e della grandezza delle lettere, e come fondazione di una precettistica ideale che valga a un attuale rifiorimento. Non si tratta più di una ricerca guidata da puri principi di arte retorica, ma di un programma più moderno, sostenuto dall’illuministica passione di cogliere i motivi del vario fluttuare 40 C. Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura, Torino: Stamperia Reale, 1761 [ma 1760], pp. 4-6.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

della civiltà. Comunque, manca ancora il senso di una storia letteraria che si giustifichi di per sé. Una storiografia autonoma sembra presentarsi possibile per la mentalità di questo tempo solo nell’accumulo di notizie erudite (autonomia scontata peraltro da una assenza di prospettiva storica). Soltanto quando l’erudizione riuscirà ad assorbire i quadri e i giudizi preparati dall’altra parallela corrente storiografica, e, reciprocamente, questa lascerà cadere le estrinseche preoccupazioni teoriche e pratiche per applicare la sua sia pur relativa problematica alla sistemazione del materiale erudito, sorgerà la storia letteraria intesa in una forma più moderna e autentica. Le Vicende del Denina si offrono all’analisi con un contenuto critico e un complesso di atteggiamenti degni di attenzione. E innanzitutto in quella stessa coscienza (adombrata già nel titolo) della vicenda della letteratura, e cioè del sorgere e del decadere di periodi di splendore, con la quale il Denina partecipava in pieno affiatamento alla cultura del suo secolo (che insisteva nella ricerca delle «vicende» e delle «rivoluzioni» e della «grandezza e decadenza» delle nazioni e della civiltà, ricerca determinante tutta una prospettiva di «aurei secoli» e di «secoli barbari», di «declinazioni» e di «risorgimenti»), in quella coscienza appunto si veniva affermando un principio che giovava a conferire un più ampio ritmo storico e un più ricco movimento di sviluppo all’uniforme sequela degli scrittori sommariamente catalogati secondo le norme del «buon gusto»41. Senza dubbio anche da questi canoni derivavano costruzioni troppo rigide, come quella tentata nel Ragionamento su la volgar poesia dalla fine del passato secolo fino ai nostri giorni (premesso all’edizione di Parma del 1779 delle Opere poetiche del Frugoni) da Carlo Castone della Torre. Secondo il Rezzonico la prima epoca della nostra storia letteraria sarebbe rappreentata dal «secolo di Dante e di Petrarca felicissimo», una seconda dal Quattrocento «quando cadde la poesia [...] in molta barbarie 41 Una simile tematica storiografica, impostata sui moduli di vicenda e decadenza e secoli barbarici ecc., ritornava nel rapido prospetto della letteratura poetica italiana abbozzato da Ireneo Aff ò nel suo Ragionamento istorico dell’origine e progresso della volgar poesia, stampato come premessa al Dizionario precettivo, critico ed istorico della Poesia volgare dello stesso Aff ò, pubblicato a Parma presso Filippo Carmignani nel 1777, dove a conclusione del Ragionamento (pp. 68-69) si legge: «Spesso ho sentito dirsi da alcuni, che il buon gusto poetico da qui a qualche tempo decaderà, e che ritorneranno i secoli barbarici per far eco allo smoderato Seicento. Ma chi può essere profeta? Certa cosa è, che avendo noi osservate le molte vicende, cui la volgar Poesia soggiacque, ed avendo veduto, che dietro un buon secolo ne venne quasi sempre un cattivo, potrebbesi dubitare a ragione di novella rovina: ma la sorte infelice di quelli, che la poesia altre volte corruppero per non averne voluto osservare le buone leggi, spero che farà cauti coloro, cui per avventura piacesse di calcar strade nuove; e son di parere che l’arte di pensare ridotta in oggi a tanta finezza non lascerà cadere i moderni poeti ne’ trasporti de’ trapassati».

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di stile», una terza dal Cinquecento il «secolo d’oro», una quarta dal «lezzo del Secento», una quinta infine dall’Arcadia «quando risorge sul fine del Seicento la nostra poesia». Il Rezzonico distingueva, così, la storia della nostra poesia in cinque epoche di alterne matematiche successioni di grandezza e di decadenza. Ma erano, queste, esagerazioni comprensibili, che stanno a testimoniare di una passione per il problema, che si veniva allora ponendo, dell’inquadramento e della visione unitaria della nostra letteratura. D’altra parte, discendeva pure da questo schema della vicenda dei progressi e delle decadenze, la precisazione, introdotta dal Denina, relativa al significato di letteratura. Per la prima volta, nella nostra indagine, è concesso di trovare affermato in termini di sufficiente chiarezza il concetto di letteratura. Nella introduzione si possono leggere queste righe, che meritano un accentuato rilievo: Non parleremo, fuorché di passaggio, dei progressi delle scienze e delle arti, che propriamente non sono parte di letteratura; e quando ci occorrerà di accennarli, sarà piuttosto per rispetto al modo estrinseco, onde furon trattate: lo che appartiene al buon gusto, ed alla eloquenza, vale a dire alla letteratura42.

Il significato generico della parola «letteratura», esteso nella comune accezione ad abbracciare ogni forma di cultura, qui viene per la prima volta limitato e sottoposto a una riduzione che ne fissa l’equivalenza con il termine «belle lettere», un modulo espressivo di origine rinascimentale, in cui l’aggettivo era stato introdotto a distinguere una particolare categoria delle litterae, una specifica zona della cultura. Il Tiraboschi, sotto questo aspetto, segnerà un ritardo nel corso dello sviluppo storiografico, in quanto, trascurando questa importante precisazione, si fermerà al concetto antiquato e ancora dominante della letteratura come cultura43. Al Denina deve quindi essere riconosciuto questo vivace presentimento (destinato tuttavia a restare senza sviluppi), il quale rappresenta uno dei punti più sensibili della sua intuizione storiografica, e comunque uno dei contributi più significativi in un quadro storico, come quello che veniamo tracciando, piuttosto povero di originali intuizioni e di decisivi approfondimenti critici. Il Denina, nel tentativo di offrire una veduta complessiva della letteratura occidentale, dall’antichità classica alla fine del Seicento, finisce, preoccupato 42

Ibidem. Il Tiraboschi nella prima edizione della sua Storia non ricorda il Discorso del Denina. Nella edizione successiva ne cita invece l’edizione del 1784. È probabile quindi che l’edizione del 1761 gli rimanesse sconosciuta. 43

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com’è di segnare le sole linee di struttura essenziali, con il mancare sovente di equilibrio. Del resto, il problema dell’equilibrio compositivo, del rilievo maggiore o minore da conferirsi ai singoli scrittori, delle proporzioni di sviluppo dei vari periodi, delle possibilità diverse di raggruppamento, costituisce un nodo di non facile soluzione in cui interferiscono e si intrecciano altre questioni, e specialmente quella già accennata della “scelta” degli autori e del gusto. Perciò questo problema appare sempre nelle sue soluzioni, nell’istintivo confronto che si è portati a istituire con il nostro modo di avvertirlo, incerto e insoddisfacente. Esso si rivela soggetto a un faticoso evolversi, e riesce, più di ogni altro problema, a dimostrare quale sia stato il lungo travaglio attraverso cui la storia della letteratura venne formando i suoi quadri. A questo proposito si deve osservare come, nell’opera del Denina, la parte costruita con più esatto senso delle misure sia quella che riguarda la letteratura classica44, mentre le pagine relative alle letterature moderne rivelano una prospettiva trattata con criteri meno controllati ed equilibrati. Nel complesso la letteratura italiana è sottoposta a una critica ancora incerta, e di essa, più che la produzione artistica, acquista rilievo l’elemento linguistico. I tre capolavori del quattordicesimo secolo sono falsati in un giudizio assurdo: Or ecco, che contro l’aspettazione degli autori stessi, tre sole opere composte, quale per satira, qual per galanteria, qual per trastullo di femmine, portarono lo stabilimento d’un linguaggio ora sì vasto e sì comune; e sole rendettero immortali gli autori, che inutilmente, per quello che ora veggiamo, sonosi affaticati di acquistar nome in ciò, che scrissero latinamente45.

I giudizi sugli altri autori non rivelano una comprensione più viva. Non manca però qualche tratto, qua e là, di una più puntuale efficacia, malgrado l’incalzante rapidità del discorso che impedisce i riposati assaggi. Così, tutto il capitolo sul Seicento si presenta, in genere, con una fisionomia più persuasiva e meglio definita. L’edizione delle Vicende del 1784 riusciva notevolmente ampliata e (quel che più conta ai fini del nostro assunto) vivacemente arricchita di alcuni temi storiografici. Una particolare attenzione merita di essere posta al disegno storico che il Denina traccia stabilendo il risorgimento delle lettere nel secolo undicesimo, e collegando al rinnovamento politico l’origine delle letterature moderne: 44 45

Cfr. M. Gentille [Gentile], “L’origine del tipo di storia letteraria nazionale” cit., p. 29. C. Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura cit., pp. 78-79.

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In molti modi la sorte delle arti va unita a quella delle civili società, e le vicende della letteratura seguono le rivoluzioni delli Stati, tanto nel crescere, quanto nel declinare. Gli avvenimenti del secolo XI diedero principio alla moderna letteratura nel tempo stesso che posero la prima base agli Stati che ancor oggi sussistono [...]. Intorno all’anno mille si può dir veramente che incomincia la storia moderna, o almeno la media da cui la moderna non può andar disgiunta46.

Non era un’idea nuova: con essa il Denina si accostava non solo all’autore del Risorgimento d’Italia dopo il Mille (1773), il Bettinelli, ma riprendeva un’intuizione già balenata al Gravina. Però il Denina, con l’introdurla nella sua storia, ne consacrava la divulgazione, e comunque la sfruttava per configurare il racconto in una prospettiva di cui non saprà giovarsi il Tiraboschi. Ma nell’operazione critica compiuta dallo storico conviene soprattutto registrare l’intervento di un mito ermeneutico allora diffuso: quello del clima quale determinante della letteratura. Così, per esempio, secondo l’autore, le Crociate avrebbero avuto un’efficacia notevole nel risorgimento della poesia proprio in dipendenza dei fattori climatici. Infatti: L’aria temperata, pura e serena dell’Europa orientale, dell’Asia minore e della Siria, i cibi aromatici, i vini generosi di quelle contrade, la vista di varie e magnifiche fabbriche, delle quali i popoli boreali non avevano ancor idea, di siti vaghi, ameni e pittoreschi, di piante, di animali non più veduti ingenerava nuovi spiriti, e disponeva gli ingegni per lo addietro intorpiditi ad esercitare le innate facoltà di intendimento e d’imaginazione47.

Questa concezione antropogeografica non è propria soltanto del Denina, ma comune a tutto il Settecento. La climatologia storica, formulata dal Fontenelle e dal Fénelon, fu seguita, come è noto, dal Dubos, dal Montesquieu, dallo Herder, e in Italia ebbe i suoi maggiori rappresentanti nell’Algarotti, nel Bettinelli, nel Verri, nel Pagano, e appunto nel nostro autore. Ora, l’applicazione di questo canone interpretativo che si trova nel Discorso sopra le vicende della letteratura non è del tutto priva di importanza, poiché, per quanto a noi possa sembrare estrinseco e fallace questo criterio di giudizio, è evidente che esso rappresentava comunque un modo per superare la materiale raccolta erudita e la generica classificazione retorica, e un primo tentativo di configurare la storia letteraria secondo più articolati motivi, di segnarvi punti prospettici più mossi, e pertanto raggruppamenti e ritmi più complessi. Perciò questo contegno deve essere registrato non come 46 47

Id., Discorso sopra le vicende della letteratura, Berlino: C.S. Spener, 1784-85, vol. I, p. 127. Ivi, p. 131.

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un semplice negativo residuo di una sorpassata ideologia, ma storicamente giustificato quale fertile spunto, carico di nuove possibilità di apertura per la realtà storiografica di cui ci stiamo occupando. Del resto, tutta la storia del Denina rivela una costante preoccupazione di passare dal grezzo documento e dal minuto particolare a una più vasta e profonda sintesi. Essa vuole appunto essere una storia, come si diceva allora, «filosofica». Senonché la filosofia, per questo lavoro, si riduce, nel migliore dei casi, a una ricerca delle varie cause he possono avere influito sulla letteratura, a una indagine dunque orientata verso elementi estrinseci propriamente alla letteratura stessa, quando poi non si limiti ad atteggiamenti del tutto esterni, appagandosi di tracciare coloriti panorami e scorci pittoreschi. Il Foscolo interpretava efficacemente la portata di questa storiografia nel giudizio che pronunziava sul Denina: L’abate era uno dei nostri moderni artistes d’Histoire, i quali si brigano più della retorica dello stile e di far prevalere le proprie opinioni, che non dei fatti che narrano e dei caratteri che descrivono: quindi i loro racconti non constano che di quei tratti generali, ch’essi chiamano tocchi maestri di matita; ma sotto la loro mano tutte le peculiarità più importanti, e i caratteri individuali delineati dalla mano di quella ch’è più corretta di tutti gli artisti, la natura, spariscono affatto48.

E in realtà questa storia è troppo poco nutrita di filologia perché possa essere anche filosoficamente valida. La facilità con cui è condotta la sintesi finisce con l’ingenerare una forma di oratoria critica di necessità vana e inconcludente, sicché alla storica discriminazione si sostituisce per lo più un superficialissimo generalizzare. E sotto tale aspetto s’invera la sdegnosa sentenza del Baretti, che riteneva questo lavoro l’impresa di un «Ercole fanciullo»49. Nei confronti del Discorso del Denina, occupa una situazione idealmente antitetica l’opera di Giammaria Mazzuchelli. Infatti è un’ispirazione rigorosamente filologica e per nulla filosofica quella che determina la composizione di questo grande dizionario erudito, Gli scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti de’ letterati italiani, uscito a Brescia in grandi volumi in folio. Dal 1753 al 1763 uscirono due volumi (il primo diviso in due parti, il secondo in quattro parti), i soli pubblicati, poiché l’opera rimase interrotta per la morte dell’autore, e restarono inediti i materiali che 48 49

U. Foscolo, Poeti minori italiani, in Opere cit., vol. X, p. 298. G. Baretti, La Frusta letteraria cit., vol. I, p. 241; cfr. anche pp. 218-223.

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egli aveva già in buona parte raccolto50. Le vite, alfabeticamente ordinate51, vengono a formare un vasto dizionario biografico o meglio biobibliografico, dando origine a un’opera che, per la struttura, rimane completamente estranea a quel disegno di storia letteraria che si veniva allora elaborando. Perciò l’importanza degli Scrittori d’Italia del Mazzuchelli, nella storia dello svolgimento storiografico letterario, consiste in una collaborazione che risulta piuttosto indiretta e sotterranea: e precisamente nel fatto dell’avere essi contribuito a mantener vivo e sviluppare il gusto delle vaste ricerche intorno agli autori della nostra letteratura, a suggerire propositi di complesse e sistematiche imprese abbraccianti tutto il grandioso patrimonio storico della letteratura italiana. Il suo significato sta anche, se si vuole, nell’avere, in modo indiretto, determinato una volontà di ricerca più organica, più dinamicamente variata, meno statica e materiale, quale poteva essere appunto il quadro storico nei confronti del dizionario pratico. Naturalmente questa indiretta virtù sollecitatrice propria dell’opera del Mazzuchelli è giustificata soltanto dall’altissimo pregio della sostanza erudita in essa contenuta52. E in effetti nella coscienza dell’erede ultimo e massimo della storiografia letteraria settecentesca, Girolamo Tiraboschi, questo imponente lavoro di ricerca degli Scrittori d’Italia doveva essere ricordato come momento vitale della tradizione cui egli si ricollegava. E anzi il peso del Mazzuchelli appare in fondo assai più determinante di quanto possa far supporre il giudizio del Tiraboschi che loda gli Scrittori per «l’erudizione e la diligenza con cui la più parte degli articoli sono distesi». Nel complesso di suggestioni che si possono fare convergere alla nascita della Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia del Mazzuchelli occupano un posto importante, rappresentando appunto un vigoroso stimolo verso un’esplorazione erudita di assai vasto raggio applicata alle lettere italiane. Il capolavoro del Tiraboschi nella sua prima ispirazione tende a collegarsi per l’appunto a questo tipo di ricerca, di cui esemplare massimo si presentava allora l’opera del Mazzuchelli, e solo come secondo momento si dirige verso quegli altri lavori che offrivano uno schema storiografico più adatto a organizzarvi il materiale esplorato. Lo stesso discorso dovrebbe ripetersi per il commento compiuto qualche anno prima da Apostolo Zeno intorno alla Biblioteca Essi si conservano ora nella Biblioteca Vaticana. L’opera è rimasta interrotta alla lettera B. 52 In realtà si tratta di un lavoro assai pregevole sotto l’aspetto filologico. Il Mazzoni così ne parla: «Il Mazzuchelli è sicurissimo nelle notizie di fatto: la erudizione non gli scarseggia né lo confonde mai, ed egli sa valersene con critica oculata per accertare quanto importi alla vita e alle opere degli scrittori», G. Mazzoni, Avviamento allo studio critico delle lettere italiane cit., p. 151. 50 51

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dell’eloquenza italiana di Giusto Fontanini53 già ricordata. Attraverso le annotazioni dell’erudito veneziano il catalogo delle opere non solo si emenda degli errori e si completa nelle lacune lasciate dal suo primo autore, ma si arricchisce di un materiale nuovo assai importante, degno di collocarsi tra i monumenti più illustri della filologia settecentesca, e quindi tra gli elementi più determinanti dell’opera del Tiraboschi. Accanto a questi lavori del Mazzuchelli e dello Zeno si dovrebbe ricordare con una giustificazione non molto differente, oltre alle Vitae italorum doctrina excellentium qui saeculo XVII floruerunt di Angelo Fabroni (uscite a Roma dal 1767 al 1774), le numerose indagini condotte intorno agli scrittori considerati in serie diverse, a seconda dei diversi interessi, campanilistici o regionalistici o conventuali, che presiedono alla loro genesi. Sono opere che accompagnano, precedendola o tenendole dietro, la nascita della Storia del Tiraboschi e ne creano in certo modo l’atmosfera e un implicito commento. Converrebbe così ricordare le storie letterarie comunali e regionali: come quella di Francesco Arisi, Cremona literata (1702-06); di Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini (1722); di Salvatore Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini (1750); di Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli (1744-70); di Gian Giuseppe Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da’ letterati del Friuli (1760); di Angelo Maria Bandini, Specimen litteraturae Florentinae saeculi XV (1747-51) (del Bandini va pure citata una Collectio veterum aliquot monumentorum ad historiam praecipue litterariam pertinentium); e soprattutto del dottissimo patrizio, doge e storiografo della Serenissima, Marco Foscarini, Storia della letteratura veneziana, un’opera pregevolissima per l’ordine e il valore delle notizie (1752). A questi lavori ne seguirono altri notevoli, come quelli di Giovanni Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi (1781-1794); di Cristoforo Poggiali, Memorie per la storia letteraria di Piacenza (1789); di Ireneo Af fò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani (1789-97). Finalmente, fra le compilazioni messe insieme seguendo il criterio della distinzione per ordini religiosi si dovrebbero menzionare, a titolo di semplice suggerimento iniziale, alcune biobibliografie, fra le quali, quella di Domenico Antonio Gandolfi, De ducentis celeberrimis Augustinianis scriptoribus (1704); di Bernardo da Bologna, Bibliotheca scriptorum Ordinis minorum Sancti Francisci (1747); di Federico Sarteschi, De scriptoribus congregationis clericorum regularium Matris Dei (1753); di Anton Francesco Vezzosi, I scrittori de’ Cherici regolari detti Teatini (1780), ecc. Ma una menzione specialissima, nel quadro di queste storie dedicate a zone particolari della cultura letteraria, meritano 53 G. Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana, con le annotazioni del sig. A. Zeno, Venezia: Giambatista Pasquali, 1753.

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le due opere di Pietro Napoli Signorelli, le Vicende della coltura nella due Sicilie (stampata fra il 1784 e il 1786, e completata in una nuova e definitiva edizione nel 1811) e la Storia critica de’ teatri antichi e moderni (pubblicata nel 1777), assai notevoli non solo per gli accertamenti eruditi relativi alla materia in esse raccolta, ma anche per i principi storiografici (che erano poi quelli illuministici) e i modi critici alla stessa materia applicati. Tutte queste opere, nate per un bisogno erudito, sostenuto da una passione campanilistica o regionalistica o conventuale, stimolavano pure in qualche modo a scrivere una storia estesa all’Italia, o comunque, una volta compiuta questa, ne prolungavano la risonanza, suscitando una circolazione di interessi e di indagini, e soprattutto uno specifico gusto di lavoro intellettuale, al cui centro si inserisce appunto, quale grande interprete di questo travaglio storiografico, Girolamo Tiraboschi, con la sua Storia della letteratura italiana. Ma prima di venire a questa figura di primo piano, giova ancora ricordare un significativo disegno storico-letterario del Parini che può rientrare, come suggestivo documento, nel quadro della vasta ricerca compiuta dal Settecento in questo territorio (per lasciare taluni rapidi disegni storici del Cesarotti, il critico forse più sensibile del secondo Settecento, contenuti in alcune sue opere, e soprattutto nel Saggio sulla filosofia del gusto). Nei Principi delle belle lettere (la cui composizione risale, al più tardi, al 1775), e precisamente nella parte seconda54, il Parini traccia un veloce profilo della nostra storia letteraria, allo scopo di dimostrare «quali sieno i principali scrittori, dal concorso de’ quali si è formata la lingua nobile italiana e ne’ quali è massimamente riposto il fondo di essa»55. Queste pagine storiche sono impostate su uno schema retorico, e non superano nella loro esteriore economia la portata di una di quelle rassegne di scrittori in cui si ripeteva un costume ormai antico nella nostra tradizione culturale. Senza contare che nei limiti dell’esemplificazione storica, domina come ideale e concreto interesse, più che la letteratura, soltanto la lingua italiana. È inoltre assente una vera misura costruttiva, nel senso che la narrazione storiografica manca di prospettiva e l’esposizione procede fondamentalmente col ritmo monotono dell’elenco. Tuttavia questo frammento, malgrado questi forti limiti che sembrano renderlo, sotto il nostro angolo visuale, trascurabile, non è privo di significato, poiché, nello spazio concesso ad ogni singolo autore (anche il criterio selettivo è determinato da un gusto retorico), si affermano talora spunti storiografici più complessi, e, nel più vasto sguardo panoramico, si 54 55

G. Parini, Prose, a cura di E. Bellorini, Bari: Laterza, 1913, vol. I, pp. 246 ss. Ivi, p. 294.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

avvertono atteggiamenti nuovi. È soprattutto memorabile il fatto che accanto ai poeti siano ricordati per la prima volta, in un trattato di ispirazione retorica, i prosatori, che vengono finalmente liberati da quella zona di interesse meramente erudito nella quale era rimasta confinata l’attenzione di essi; ed è notevole che fra questi compaiano non soltanto il Boccaccio, ma anche Galileo e accanto a lui, Vincenzo Viviani, considerati non più per l’incremento dato dal loro contenuto di pensiero alla storia della cultura, ma assunti, per il valore della loro espressione, nella trama storica dello svolgimento dell’arte italiana (anche se intesa nell’esteriore senso della lingua). E infine, pur tra il resistere di preconcetti, si fa strada qualche delineazione più viva e una critica capace di periodizzare in una compatta sintesi lo svolgimento della storia letteraria e della civiltà nostra. «In mezzo alla comune depravazione» del Seicento, osserva il Parini, «i soli toscani serbarono tuttavia accese le faville del buongusto»; e, proseguendo attraverso l’esame dei germi positivi e delle possibilità di rinnovamento presenti nel secolo, egli continua: Grande obbligazione si ha inoltre all’accademia della Crusca, la quale, essendo per suo instituto destinata a mantenere ed a promovere le purità della toscana lingua, alimentò sempre col latte de’ buoni modelli qualche scrittori atti a risuscitar, quando che fosse, il sano gusto, quasi che spento nel resto dell’Italia. Di fatti il costoro esempio, congiunto colla buona filosofia, che per opera del gran Galileo massimamente era rinata a gloria dell’Italia e ad istruzione degli altri popoli dell’Europa, fecero sì che, sullo scadere dello scorso secolo, ritornarono nel loro seggio la verità, la natura e il buongusto, stati già per un secolo sbanditi. Alla quale riforma giovarono eziandio notabilmente due altre già celebri accademie dell’Italia, cioè quella del Cimento in Firenze e quella dell’Arcadia in Roma; imperocché la prima, invitando gli ingegni alle fisiche osservazioni, e l’altra alla elegante semplicità richiamandoli degli antichi esemplari greci, latini e italiani, fecero sì che l’Italia si riebbe dalla sua vertigine e tornò a gustare il vero e ad esprimerlo co’ suoi propri colori56.

Insomma, in questo profilo gli scrittori e lo svolgimento della nostra letteratura si compongono in una notevole trattazione. Poiché se gli autori sono ancora fondamentalmente giudicati in base al canone classicistico dell’imitazione della natura conseguita per mezzo dei grandi modelli classici, in questi stessi giudizi non manca di penetrare il risentito gusto di un artista consumato, esperto dei segreti valori del linguaggio poetico, e capace di tradurre la propria intuizione in sentenze e opinioni che possono ancora oggi farci meditare. Così, per virtù di questa personale capacità di reagire di fronte 56

Ivi, pp. 293-294.

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L’ELABORAZIONE STORIOGRAFICA SETTECENTESCA

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al fatto letterario, i raggruppamenti disposti secondo lo schema delle vicende dei risorgimenti e delle decadenze (regolate dal prevalere o venire meno di quel supremo canone del classicismo), se pur facevano sentire il loro peso negativo nel comporsi delle grandi linee del paesaggio storico, si articolavano però in talune zone particolari in modi persuasivi, raggiungendo qua e là una vivace sensibilità panoramica. Pur nei limiti dell’elenco dimostrativo e della preoccupazione retorica che piega e costringe la fisionomia degli autori in schemi preconcetti, queste pagine storiche offrono un modello di paesaggio storico animato, anche nella sua sommarietà, da spunti storiografici più aperti di quelli dei consueti paradigmi delle opere che si rifanno ad una lontana intenzione retorica (esempi il Crescimbeni e il Quadrio), e insieme disposto in quadri più lucidamente ordinati ed esatti di quelli dell’Idea del Gimma, insistendo in una linea di tradizione, di cui soli precedenti possono essere considerate le pagine del Muratori e del Gravina.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

Il centro di convergenza di tutte queste ricerche storiografiche, fin qui illustrate, trova la sua manifestazione nel capolavoro della storiografia letteraria settecentesca, la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi (uscita a Modena dal 1772 al 17821), un’opera che si pone come punto d’arrivo di tutto un lento svogimento e, nello stesso tempo, quale punto di partenza e termine di riferimento di ogni successiva elaborazione. Questa impresa monumentale, in cui sembra quasi ripetersi per la letteratura quel che il Muratori aveva fatto per la storia, giustifica un richiamo alla vicenda biografica del suo autore, non solo per constatare, nel fatto che il Tiraboschi continuò a Modena come bibliotecario estense la serie dei celebri bibliotecari, dopo il Bacchini, il Muratori e lo Zaccaria, una situazione ideale e quasi simbolica (in ordine a una eredità che verrebbe a inverare la sentenza su di lui pronunziata dal De Sanctis, «fu il Muratori della letteratura»), ma ancora per sottolineare un altro particolare, e precisamente l’appartenenza del grande erudito alla Compagnia di Gesù (estremamente interessante per comprendere gli sviluppi della fortuna relativa alle sue opere). Il Tiraboschi, per questa sua condizione di gesuita, viene quasi a consacrare un aspetto caratteristico di questa storiografia. Educato dai gesuiti era stato infatti il Gimma, gesuita fu anche il Quadrio, gesuita lo Zaccaria. La nostra storiografia letteraria nel suo sorgere istituisce dunque una specie di parentela con la Compagnia di 1 Una seconda edizione, pure modenese, venne pubblicata dal 1787 al 1794. In questa seconda edizione il Tiraboschi dichiarando con probità che «è meglio l’accusare spontaneamente il suo fallo, che l’udirselo rinfacciare», corregge in apposite note gli errori sfuggitigli. Questa edizione contiene inoltre nuove notizie e altre varie aggiunte, introdotte nel testo tra virgolette. Nella consultazione si deve perciò ricorrere a questa seconda edizione di Modena, oppure alle edizioni posteriori. Noi citeremo naturalmente dalla prima edizione.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Gesù, offrendo in tal modo un non lieve pretesto di infastidita polemica alla nuova critica ottocentesca, e al Foscolo in modo speciale, impaziente flagellatore dell’intonazione claustrale propria delle storie della letteratura del Settecento. Né riuscirà la storiografia di questo secolo a sottrarsi a tale polemica, neppure per quel motivo nazionalistico che tutta la pervade, e sembra ricollegarla alla vita e avvicinarla a quegli stessi ideali che il nuovo secolo doveva esaltare. La verità è che gli uomini del Risorgimento avvertivano, nel fremente loro amore per l’Italia, la fiacchezza del sentimento patrio dei loro predecessori e, con l’eccesso proprio di chi afferma gagliardamente idealità risentite con nuovo impeto, erano portati a negare e a misconoscere l’accademico entusiasmo degli autori di queste storie. Ma ciò non impedisce che noi, con più riposato senso storico, vediamo un rapporto di sviluppo tra il sentimento di italianità settecentesco e quello nazionalistico romantico, e ne riconosciamo nello stesso tempo la profonda differenza di intonazione. L’italianità del Tiraboschi, se, nel confronto immediato con la testimonianza di un Foscolo, non potrà non apparire, con clamorosa opposizione, ancora immersa in un’atmosfera ignara delle più concrete istanze della vita, dovrà pur sempre venire registrata e interpretata come il necessario momento germinale di quella più complessa forma di spirito nazionale che si inaugurerà con l’Ottocento e pertanto come tale venire accolta e adeguatamente valutata. Il Tiraboschi apre la sua Storia con un atto di carità patria, che si esprime come certezza incondizionata del primato italiano nel campo della cultura: Non vi ha scrittore alcuno imparziale e sincero, che alla nostra Italia non conceda volentieri il glorioso nome di madre e nudrice delle scienze e delle bell’arti2.

Attraverso questo postulato di natura affettiva si insinua, come preoccupazione determinata da questa stessa ragione sentimentale, l’idea della storia letteraria: Ma certo pare che gli stranieri possan dolersi di noi, che in un secolo, in cui la storia letteraria si è da noi coltivata singolarmente, niuno abbia ancora pensato a compilare una storia generale della letteratura italiana3;

2

G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena: Società tipografica, 1772, t. I, p.

3

Ivi, p. vii.

v.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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giustificando in tal modo e innalzando in un clima di nobiltà il suo proposito:

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Il desiderio adunque di accrescere nuova lode all’Italia, e di difenderla ancora, se faccia d’uopo, contra l’invidia di alcuni tra gli stranieri, mi ha determinato a intraprendere questa storia generale della letteratura italiana, conducendola dai suoi più antichi principi fin presso a’ di nostri4.

La presenza di questo spunto patriottico nell’opera del Tiraboschi non concede naturalmente una interpretazione molto diversa da quella data per i precedenti storiografi. Il Tiraboschi ripete in fin dei conti un motivo che, dopo il Gimma e il Quadrio, appariva ormai assorbito e quasi connaturato all’interno di questa tradizione storiografica, e, facendo ricorso a un fine nobilitato dalla simpatia di tutta una schiera di letterati e poeti, consacra mediante un crisma di idealità la propria fatica erudita. La fresca spontaneità dell’amore per l’Italia del Gimma e l’accademica passione, nella politica e civile indifferenza, del Quadrio, per la letteratura italiana, sono qui sostituite, come sfumatura personale, da una solenne ed enfatica convinzione nel primato italiano, che si pone come pretesto della grandiosa ricerca erudita. Tuttavia, malgrado questo limite intrinseco al suo sentimento patrio, il Tiraboschi, continuando ed arricchendo a suo modo con la sua autorità lo sviluppo tradizionale di questo tema, offriva alla storiografia letteraria del Romanticismo un suggerimento assai fecondo sotto lo stesso angolo visuale storiografico. Alla giustificazione sentimentale il Tiraboschi, nella prefazione della sua opera, fa seguire una giustificazione tecnica, esaminando lo stato della questione della storiografia letteraria, con il passare in rassegna quanto s’era tentato prima di lui nell’impresa di narrare le vicende della letteratura italiana. La pagina è estremamente interessante e particolarmente indicativa della consapevolezza nuova con cui l’autore intraprende la sua fatica: Abbiamo è vero moltissimi libri, che a questo argomento appartengono; e per riguardo alle biblioteche degli scrittori delle nostre città e provincie particolari, non ve n’ha quasi alcuna al presente, che non abbia la sua. Talune ancora hanno avuti scrittori, che la storia delle scienze da lor coltivate hanno diligentemente esaminata e descritta, fralle quali degna d’immortal lode è la Storia della letteratura veneziana dell’eruditissimo Procuratore e poscia Doge di Venezia Marco Foscarini, a cui altro non manca se non che venga da qualche accurato scrittore condotta a fine.

4

Ivi, p. viii.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Ma fra tutte le opere all’italiana letteratura appartenenti deesi certamente il primo luogo agli Scrittori italiani del ch. conte Giammaria Mazzuchelli5. Noi ne abbiamo già sei volumi, che pur non altro comprendono, che le prime due lettere dell’alfabeto; e l’erudizione e la diligenza con cui la più parte degli articoli sono distesi, ci rende troppo dolorosa la memoria dell’immatura morte, da cui fu rapito l’autore [...]. Ciò non ostante niuna di queste, o di altre opere di somigliante argomento non ci offre un esatto racconto dell’origine, de’ progressi, della decadenza, del risorgimento, di tutte insomma le diverse vicende, che le lettere hanno incontrato in Italia. Esse sono comunemente storie degli scrittori, anzi che delle scienze; e quelle, a cui questo secondo nome può convenire, son ristrette soltanto o a qualche particolare provincia o a qualche secolo determinato [...]. L’unico saggio che abbiamo di una storia generale dell’italiana letteratura si è l’Idea della storia dell’Italia letterata di Giacinto Gimma stampata in Napoli l’anno 1723 in due tomi in quarto, opera in cui sarebbe a bramare, che l’autore avesse avuto eguale a un’immensa lettura anche un giusto criterio, e a una infinita copia un saggio discernimento6.

Si tratta di un vivace quadro di limpide indicazioni programmatiche in cui prende luce il fondamentale proposito storiografico tiraboschiano. In queste righe si manifesta innanzitutto, chiaramente affermata, l’esigenza di una storia letteraria che superi i confini angusti della provincia o della regione, per abbracciare l’intero patrimonio culturale d’Italia. A questo bisogno di un disegno più vasto e unitario insieme, si accompagna, come altra essenziale istanza, la volontà di sostituire alla rapsodica raccolta biografica, la narrazione continuata del processo storico, di porre cioè come soggetto ideale dell’inchiesta non un autore studiato nella cronaca della sua vita, ma il documento letterario visto quale concreto fenomeno della vicenda storica. Il Tiraboschi affacciava con questo l’idea (e lasciamo se poi non sapeva attuarla) di una superiore forma storiografica, di una storiografia che non si riducesse a mera compilazione di notizie, ma si affermasse come esame o anche solo come registrazione diagrammatica (il che tuttavia era sempre un modo di superare la minuta cronaca erudita) dello svolgersi delle condizioni della nostra letteratura, uno svolgimento concepito secondo i canoni illuministici di «origine» e «progresso», di «decadenza» e di «risorgimento», di «vicenda» insomma: un esatto racconto dell’origine, de’ progressi, della decadenza, del risorgimento, di tutte insomma le diverse vicende, che le lettere hanno incontrato in Italia. 5 6

Veramente, il Tiraboschi scrive il nome con doppia c, contro l’esatta grafia. G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. I, pp. vii-viii.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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In questo duplice proposito di una storia estesa a tutta l’Italia e di una narrazione attenta non alle sole biografie ma soprattutto alle opere, si manifesta la prima e più elementare fisionomia di questo lavoro. L’esame delle pagine successive permette di meglio comprendere, nel suo articolarsi e precisarsi, l’andamento di questa iniziale proposta storiografica. Un sintomatico indizio rivelatore è subito offerto dal giudizio pronunziato, in una lucida visione critica del lavoro precedentemente compiuto, sull’attività storiografica del Gimma. Nel riconoscere l’Idea come «l’unico saggio [...] di una storia generale dell’italiana letteratura» e nel lamentarne d’altro lato l’assenza di «giusto criterio» e di «saggio discernimento», il Tiraboschi manifesta da un lato la propria simpatia per l’impianto generale di quell’opera, e manifesta dall’altro la propria diffidenza sui particolari in cui si sviluppa e di cui si sostanzia. È insomma la struttura della storia quale sintesi totale della situazione delle lettere in Italia attraverso i secoli, che trova nel Tiraboschi un consenso immediato. Ed è a questa intuizione originale del Gimma (inutile dire che si tratta di un’originalità di ordine didascalico e non speculativo) che si rivolge soprattutto l’interesse del Tiraboschi, suscitando in lui il desiderio di una sistematica e approfondita ripresa. Egli dichiara infatti con insistenza, nell’accingersi all’opera, di voler fare una storia e non un’erudita raccolta: mal si apporrebbe chi giudicasse, che di tutti gli italiani scrittori, e di tutte l’opere loro io dovessi qui ragionare, e darne estratti, e rammentarne le diverse edizioni. Io verrei allora a formare una biblioteca non una storia; e se volessi unire insieme l’una e l’altra cosa, m’ingolferei in un’opera, di cui non potrei certo vedere né altri vedrebbe mai il fine7.

La distinzione, come si vede, è nettissima, e in essa si chiarisce il concetto storiografico tiraboschiano. «Storia» dunque, e non «biblioteca». E storia d’Italia ancora, e non di questa o quella provincia. Ma la sostituzione del criterio nazionale a quello provinciale determinava quale conseguenza la necessità, per lo scrupoloso autore, di precisare la nozione empirica implicita nell’idea di «letteratura d’Italia»: Quando io dico di voler scrivere la storia della letteratura italiana, parmi ch’io spieghi abbastanza di qual tratto di paese io intenda di ragionare. Nondimeno mi veggo costretto a trattenermi qui alcun poco8.

7 8

Ivi, pp. ix-x. Ivi, p. xi.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

A questo punto, dato sfogo a una strana polemica di intonazione razzistica, il Tiraboschi finiva con il dichiarare di volere includere nella sua storia «tutti coloro che vissero in quel tratto di paese, che or dicesi Italia», precisando che di essa fan parte anche le isole e in modo speciale la Sicilia, «che di dottissimi uomini in ogni genere di letteratura fin da’ più antichi tempi fu fecondissima»9. Senonché da questa assunzione di un criterio geografico come limite essenziale della materia presa a trattare, derivava quale immediata conseguenza, il cadere di ogni controllo nei riguardi dei confini cronologici della materia stessa, che finivano così evidentemente con il risultare esposti alla possibilità di un’enorme e assurda estensione di termini. Dovevano infatti, per il Tiraboschi, essere oggetto di storica menzione «tutti coloro che vissero in quel tratto di paese, che or dicesi Italia»: e pertanto venire inclusi nella sua narrazione gli Etruschi, gli abitatori della Magna Grecia, gli antichi Siciliani, i Romani. Il Tiraboschi, evitando di fondare la propria ricerca su un criterio meramente linguistico (cosa che gli avrebbe imposto un maggiore equilibrio di limiti cronologici), si preoccupava, come dimostra la sua introduzione, di ancorare il lavoro a un principio ideale, quello appunto patriottico. Tuttavia l’Italia era da lui sentita non come nazione (né poteva la cosa, per un uomo dell’illuminato Settecento, essere diversa), ma come semplice «espressione geografica», come terra dai confini anche troppo ben delimitati, ma dalle genti, dai tempi, e persino dalle lingue più differenti e discordi. Cosicché il Tiraboschi, nel suo primitivo e accademico amore per l’Italia, doveva venire involontariamente a trovarsi d’accordo, alla luce ironica della storia, con un celebre nemico e negatore della nazionalità italiana. La complessa sostanza costitutiva del concetto di nazione, che sarà scoperta romantica e la cui formula più viva proporrà appunto il Manzoni in Marzo 1821, parlando dell’Italia («una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor»), non poteva affacciarsi alla mente del Tiraboschi (la cultura del quale non era del resto così vivace e talora inconsapevolmente precorritrice come quella di un Denina o di un Bettinelli) in modo da giovargli come guida e controllo nella costruzione che gli era in astratto suggerita dal suo sentimento d’italianità. Per questa imprecisione dell’attributo determinante la sua storia letteraria, derivava all’opera del Tiraboschi un carattere fortemente anacronistico rispetto alla restante storiografia. Sarà il Bettinelli che, come abbiamo detto, doveva proporre in maniera aperta, fin dal titolo, una sicura data d’inizio (applicata anche dal Denina) con il fissare una fase nuova di civiltà, principio indiscusso della nostra storia, nel periodo successivo al mille. Del resto, per il Tiraboschi, accanto a questa ragione, interveniva anche un altro pretesto, 9

Ivi, p. xiii.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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derivato dal suo speciale temperamento di erudito, a indurlo nella strana e per noi inconcepibile determinazione di portare tanto indietro nel tempo il principio del suo resoconto (a parte naturalmente, ancora, quel sentimento solenne e puntiglioso della tradizione letteraria italiana che presiede a tutta l’opera, e che non poteva non compiacersi dell’araldica vanità delle genealogie illustri risalenti alle età più remote). Ed era appunto l’esigenza, tipica del collezionista di fatti, di non lasciare nell’inedito nessuna notizia, di non rimandare il suo referto a una conoscenza presupposta, di esaurire con compiutezza un sistema di nozioni senza appoggi e richiami sussidiari. In questa tendenza alla compiuta rassegna storica, in cui si giungeva a segnare bensì un limite spaziale (quantunque anche questo a malincuore, talvolta: si pensi alle frequenti storie universali), senza volere tuttavia spezzare assolutamente, entro quello, la continuità cronologica (per cui si comincia volentieri dalla preistoria), si rende evidente l’influenza della mentalità erudita del secolo. Era questo in sostanza un bisogno da scrupoloso collezionista, amante della progressiva e precisa successione, che rivela nel Tiraboschi il persistere tenace della diligente e pedantesca mentalità del bibliotecario. La preoccupazione erudita, del resto, si manifesta in ogni pagina (anche nel bisogno istintivo di insistere in ripetute giustificazioni sul non sufficiente sviluppo, che potesse eventualmente venirgli imputato, della materia presa a trattare10), ed essa costituisce, con la presenza continua, la temperie di cultura, fertile e dannosa a un tempo, in cui nasce e si sviluppa questa grandiosa ricerca. Questa urgenza di risalire alle prime origini, d’altro lato, nella empirica mentalità del Tiraboschi, si poneva come essenziale e rigorosamente determinata dalla natura stessa dell’argomento, che si atteggiava appunto, nel rilievo dato al contenuto delle opere più che alla loro forma, quale insieme di idee e di pensieri ricchi di nessi e di rapporti. Per questo contegno della materia si veniva a creare, in forma più evidente, una fitta trama di casi, di scoperte, di sviluppi, che postulavano una considerazione attenta a ogni lieve modificarsi e concatenarsi della vicenda letteraria. La necessità di un racconto condotto su di un serrato senso della tradizione, in un ininterrotto succedersi, dalle primissime e più elementari manifestazioni della cultura (come in una storia della filosofia o della scienza), era provocata dalla stessa speciale accezione in cui era intuito l’oggetto dell’indagine, e cioè dal modo stesso in cui era intesa la letteratura. Occorre infatti chiarire con esattezza il proposito del Tiraboschi, individuando, attraverso l’esame della materia introdotta nella sua opera, il vero carattere della Storia della letteratura italiana, vedendo insomma in che cosa consista per lui il contenuto di quell’espres10

Cfr. Ivi, pp. xviii-xix.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

sione che indichiamo con le parole «letteratura italiana». E qui conviene subito osservare come al Tiraboschi manchi ancora un esatto concetto di «letteratura». La nostra ricerca molto particolareggiata sulla formazione e sullo sviluppo di quell’opera critica che è la storia della letteratura, coincide a questo punto, in un’interferenza assai delicata, con un momento vitale della storia della critica e della storia della estetica11. Per tutto il Settecento, abbiamo già accennato, e del resto ancora nel periodo romantico, mancò, se si eccettua il giudizio del Denina, episodico nella cultura del tempo, un concetto esatto di «letteratura». L’incertezza della teoria estetica (scienza, com’è noto, giovanissima) si ripercuote naturalmente sulla critica, e su quel particolare tipo di critica che è la storia letteraria. Non solo dunque è assente nella storiografia letteraria del secolo decimottavo una qualunque valutazione dell’opera d’arte pienamente accettabile per una sua intrinseca validità, ma non è neppure possibile trovare una giusta idea dei limiti della storiografia letteraria stessa. E ancora in pieno Ottocento, il Berchet sottolineava la polivalenza del termine «letteratura», in quanto in senso stretto esso comprenderebbe le sole «belle lettere» e in senso lato anche le «scienze». Sarà solo l’Emiliani Giudici che porrà in termini di maggiore chiarezza il problema, e che intitolerà appunto la sua storia letteraria Storia delle belle lettere in Italia. È inutile perciò pretendere dal Tiraboschi una discriminazione di tal genere. Il termine «letteratura» viene da lui introdotto nel significato diffuso del secolo, senza essere sottoposto a nessuna analisi o a qualsiasi controllo, e mantiene perciò quell’estensione assai ampia che esclude ogni possibilità di confronto con il valore che questo concetto assumerà dopo l’elaborazione critica e pratica dell’avanzato Romanticismo. Nella prefazione egli dichiara: Ella è dunque […] la storia della letteratura italiana, ch’io mi son prefisso di scrivere; cioè la storia dell’origine e de’ progressi delle scienze tutte in Italia.

E più oltre aggiunge: La storia ancora de’ mezzi, che giovano a coltivare le scienze, non sarà trascurata; e quindi la storia delle pubbliche scuole, delle biblioteche, delle accademie, della stampa, e di altre somiglianti materie avrà qui luogo. Le arti finalmente, che diconsi liberali, col qual nome s’intendono singolarmente la pittura, la scultura, l’architettura, hanno una troppo necessaria connession colle scienze, perché non debbano essere dimenticate12. Rimando per questa questione all’articolo di B. Croce, Storia della critica e storia della storia letteraria, in Problemi di Estetica, Bari: Laterza, 19232, pp. 430 ss. 12 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. I, p. x. 11

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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Così la mancata elaborazione di un concetto critico da un lato, e il prevalente gusto erudito dall’altro, determinano questa ampia assunzione di elementi (contenutisticamente valutati) nel racconto storico, elementi che a loro volta, postulando con un’urgenza maggiore il senso della continuità e dello sviluppo, contribuiscono a spingere l’inizio dell’inchiesta alle più remote e irriducibili origini. Comunque, in questo particolare modo di intendere il concetto di «letteratura» consiste uno degli aspetti più significativi della fisionomia di questa opera. Il lavoro del Tiraboschi è distribuito in nove tomi. I primi tre comprendono la letteratura antica, dall’etrusca alla romana. È solo col quarto tomo che s’inizia la trattazione della letteratura italiana nel senso, cronologico, moderno. L’esame dell’esteriore impalcatura non riesce sterile di spunti indicativi per una esegesi interna. Il quarto tomo è suddiviso in tre libri. Il primo riguarda i «mezzi adoperati a promover gli studi», il secondo le «scienze», il terzo le «belle lettere ed arti». Questa partizione è mantenuta nei tomi successivi. Ogni libro poi, a sua volta, è suddiviso in capitoli. La direzione della ricerca si svolge verso punti costanti in tutti i vari tomi. Riportiamo come esempio i titoli dei capitoli del quarto tomo, che segna l’inizio della parte che ci interessa. Il primo libro comprende i seguenti capitoli: Idea generale dello stato dell’Italia in quest’epoca. Favore e munificenza de’ principi nel fomentare gli studi. Università ed altre pubbliche scuole. Biblioteche. Viaggi. Il secondo libro: Studi sacri. Filosofia e matematica. Medicina. Giurisprudenza civile. Giurisprudenza ecclesiastica. Storia. Il terzo libro infine: Lingue straniere. Poesia provenzale. Poesia italiana. Poesia latina. Grammatica ed Eloquenza. Arti liberali. Notevole (per la sensibilità “formale” che denunzia), nel sesto tomo, che tratta del Quattrocento, la modificazione (mantenuta poi per i secoli successivi) riguardante la storia, che viene inclusa nel terzo libro, dedicato alle belle lettere. Basta già questo rapido sguardo dato alla distribuzione della materia per illuminare sul carattere di questa storia letteraria, impostata su quel concetto particolare di «letteratura» che abbiamo indicato. Per il Tiraboschi, come per i suoi contemporanei, il termine letteratura coincide press’a poco, empiricamente, con il nostro moderno di cultura. E questa Storia della letteratura è per l’appunto, nel proposito che la determina e nei limiti stessi che la informano, una storia della cultura. Senonché in questa storia della cultura si inserisce con una sua chiara fisionomia, liberamente articolata, anche una storia della letteratura secondo il moderno concetto. La mentalità fondamentalmente erudita del Tiraboschi, non ambiziosa di atteggiamenti più mossi, di «filosofia» (come si diceva allora), salva in questo caso il tranquillo bibliotecario dal cadere in quel tipo di storia «filosofica» vagheggiata dalla cultura illuministica, di cui abbiamo indicato come esempio

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

caratteristico il Discorso sulle vicende della letteratura del Denina. Cosicché il Tiraboschi può darci in sostanza anche una vera e propria storia della letteratura nel senso (per usare la terminologia tiraboschiana) di una storia delle belle lettere, senza che questa si smarrisca in un più vasto e generico complesso. L’opera tiraboschiana, nonostante le programmatiche dichiarazioni, è lontanissima da quelle storie della cultura che si compiacevano di attribuirsi il titolo di filosofiche13. Proprio negli anni in cui il grande erudito veniva pubblicando la sua storia, usciva il Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e ne’ costumi dopo il Mille14, del gesuita Saverio Bettinelli, che, dopo le già citate Vicende della letteratura del Denina, si offriva come nuovo e più autorevole esemplare di questo gusto storiografico. Il valore di tali opere, almeno per quel che riguarda la storia letteraria, sta soprattutto in una azione indiretta di orientamento, suggestiva e sollecitatrice in quanto richiamava all’esigenza di superare la mera raccolta del materiale in un’interpretazione critica di esso, e di andare oltre la dispersiva minuzia filologica per approdare a una sintesi filosofica. Il loro significato sembra pertanto ridursi, più che altro, a una mera funzione di carattere polemico. Poiché, estendendo quel che si diceva per il Denina, la filosofia di questi scrittori, povera com’era di filologia, troppo spesso risultava un’infeconda filosofia. E in effetti la storia letteraria non vive in queste opere con un suo volto preciso, come insieme di definiti problemi e quale complesso di fatti esattamente individuati mediante una limpida determinazione delle loro qualità caratteristiche. Si tratta piuttosto, per questi lavori, di generiche considerazioni e di nessi poco rigorosamente stabiliti: e comunque di una schiacciante subordinazione dell’interesse per la letteratura a quello più generale (e, in questo caso, generico) per la cultura. La storia della cultura, nel Tiraboschi, si presenta invece con un aspetto del tutto diverso. La scrupolosa e ordinata mentalità classificatoria del bibliotecario interviene infatti a determinare il carattere della sua storia, facendo sì che la storia delle belle lettere, se si accompagna ad altre storie (delle scienze, delle arti figurative, della politica, ecc.), ne rimanga però rigorosamente distinta, senza annullarsi e genericizzarsi in quella indiscriminata forma di storia della cultura a cui giungevano invece le brillanti composizioni del Bettinelli e del Denina. Perciò se il Tiraboschi e il Bettinelli hanno in comune, con tutto il loro secolo, un concetto di storia letteraria che si identifica con quello di storia della cultura, in realtà assai diverse riescono poi le loro attuazio-

13 14

Cfr. Gentille [Gentile], “L’origine del tipo di storia letteraria nazionale” cit., p. 36. La prima edizione è del 1775.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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ni storiografiche, che rifiutano pertanto ogni possibilità di accostamento15. La storia delle belle lettere conserva nel Tiraboschi il suo aspetto preciso, almeno nei risultati pratici, anche se, nell’intenzione dell’autore, essa voglia avere un carattere di elemento compositivo di un più vasto quadro, di dettaglio e non di assoluto, come invece noi esigeremmo in base alla moderna concezione della parola «letteratura» ridotta al significato di «belle lettere». D’altra parte non si deve mancare di dire che, nell’economia dell’opera, la parte riguardante le lettere non solo per l’estensione ma per un’ideale prevalenza, mantiene un carattere di assoluta centralità. Perciò la Storia della letteratura italiana del Tiraboschi che, nel concetto dell’autore e nella effettiva estensione della materia investigata, si presenta come una storia della cultura, offre poi anche una vera e propria storia della letteratura, assai facilmente suscettibile di liberazione dalla più vasta storia della cultura che la contiene. Ma in questa possibilità di distinzione che abbiamo indicato, è pur concesso reperire il limite dell’opera tiraboschiana: il suo carattere di estrinseco organismo, di accumulo di puri fatti, isolati e classificati con aritmetica esattezza e insieme con aritmetica impassibilità. Il Tiraboschi scivola sulla superficie delle cose senza scorgere gli interni rapporti e le sfuggenti relazioni. La sua preoccupazione essenziale consiste nell’accertamento dei fatti. Egli stesso, nella prefazione alla seconda edizione, difendendosi dall’accusa già allora corrente sul carattere meramente erudito della Storia, dichiara: Io son persuaso, e spero che nessuno vorrà contrastarmelo, che la verità e l’esattezza sono la prima dote che in uno storico si richiede, e che le riflessioni e i sistemi cadono a terra, se i fatti, a cui sono appoggiati, non hanno che fondamenti o rovinosi o incerti. Perciò prima di ogni altra cosa io mi sono studiato di scoprire la verità e le circostanze de’ fatti, e poscia ne ho tratte le riflessioni che mi son sembrate opportune16.

Il nostro storico quando è giunto a stabilire, con l’appoggio di documenti inediti o sul fondamento di una discussione di quelli già noti, una circostanza biografica o un particolare bibliografico, una data o un nome, un titolo o un autore, non cerca più altro, se non ordinare i dati raccolti, senza tentare di pervenire a un’intima sintesi, pienamente soddisfatto di un’estrinseca unità che si rivela di poco superiore a quella editoriale della trattazione raccolta in un’unica opera. Di qui il carattere meccanico e poco storico del lavoro, 15 Un tentativo di accostamento si trova, per esempio, in G. Natali, Idee costumi uomini del Settecento, Torino: Società tipografico-editrice nazionale, 1916, p. 51. 16 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena: Società tipografica, 1787, vol. I, t. I, pp. v-vi.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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che induceva il Foscolo a suggerire per la Storia della letteratura italiana del Tiraboschi quella significativa modificazione di titolo: Archivio ordinato e ragionato di materiali, cronologie, documenti e disquisizioni per servire alla storia letteraria d’Italia17. Certo, il giudizio del Foscolo si giustifica in una prospettiva storica in cui convergevano le istanze nuove della sensibilità romantica e le profonde esigenze del personale gusto artistico del poeta, e pertanto la sua severità risulta meno grave di quanto non appaia quando esso sia considerato in assoluto. Del resto, anche il Foscolo, al di là delle ragioni che lo portavano al suo polemico giudizio, era poi costretto a riconoscere i meriti del Tiraboschi, uno di quegli uomini che guardano senza sgomentarsi le tradizioni, le opinioni e gli errori adunarsi da tutte le parti a torrenti da secoli e popoli e religioni, e ne seguono il corso; e vi si immergono a trovare alcune poche verità di fatto ad utilità del genere umano: e quel che è più straordinario, intraprendono o riescono a dar ordine e forme a una turba innumerabile di testimoni, di date e di avvenimenti, che sino allora cozzavano e si confondevano fra di loro18.

Comunque, anche se si deve rendere omaggio al carattere “monumentale” della Storia della letteratura italiana del Tiraboschi sul piano erudito, e riconoscere la virtù esemplare implicita in questo lavoro, che deve considerarsi senz’altro come il più serio di gran lunga compiuto allora in questo campo di studi, e anche se, tenuto conto della situazione storica della critica e della storiografia, non si può non constatare il progresso segnato da quest’opera sullo stesso piano strutturale, rimane tuttavia indiscutibile il limite inerente a questa costruzione sotto l’aspetto della “forma” storiografica. Il giudizio del Foscolo ci offre il suggerimento per una nuova osservazione. La parte che il Tiraboschi affianca nella sua opera alla storia delle belle lettere, pur risultando, per quel che siamo venuti dicendo, come un elemento nella sua sostanza eterogeneo, non per questo risulta incapace di giustificare la propria presenza e di difendere e legittimare la sua assunzione nel corpo della storia. Essa non deve in effetti venire considerata senz’altro come un dato estraneo, arbitrariamente introdotto nella considerazione del paesaggio storico, ma sembra a buon diritto meritare un’inclusione nell’organismo della storia letteraria intesa nel senso moderno e più vero dell’espressione. Infatti l’eterogeneità di tale elemento non è dovuta tanto alla sua presenza nel corpo della storia, quanto al carattere di tale presenza, e cioè al fatto U. Foscolo, Antiquari e critici di materiali storici in Italia per servire alla storia europea del medio evo, in Opere cit., vol. IV, p. 270. 18 Ibidem. 17

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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che si collochi, nell’intenzione dell’autore, sullo stesso piano della storia delle lettere. Nell’opera del Tiraboschi, in realtà, la storia delle scienze si sviluppa come una storia o, se può passare la frase, una parte di storia da situarsi integrativamente accanto alla storia della poesia: mentre è evidente che la storia delle scienze non dovrebbe entrare nella storia della letteratura se non a patto di ridursi alla condizione di preistoria, rispetto all’unica vera storia che in quel momento interessa, la storia cioè delle lettere. Quando la storia delle scienze venga considerata come semplice humus, come civiltà dalla quale e nella quale nasce la letteratura vera e propria, potrà bensì venire assunta nella storia letteraria, ma allora, anziché verificarsi quel processo di assorbimento della storia delle lettere nella storia della cultura che avveniva col Denina e col Bettinelli, sarà, al contrario, proprio quest’ultima che dovrà essere assorbita e superata nella esatta e ben individuata storia della letteratura. Si trattava insomma di capovolgere il metodo sintetico di Denina e di Bettinelli, i quali annullavano la storia della letteratura nella storia della cultura. Il Tiraboschi rimane invece a metà strada, o meglio, egli si astiene da qualsiasivoglia sintesi, e presenta in un ordine di giustapposizione le due storie, restando così in una “mediocrità” che, nella considerazione del progresso che senza volere egli riesce a segnare nella vicenda di questo genere critico, possiamo positivamente chiamare aurea. Per questa via, il Tiraboschi giungeva a dare per la prima volta una storia delle lettere non limitata alla poesia e non subordinata ad intenzioni retorico-precettistiche, ma, nel suo interesse storico, autonoma ed estesa ai documenti di prosa, e infine dominata, diversamente dall’incondito abbozzo del Gimma, da una chiara conoscenza dei problemi filologici riguardanti i nostri scrittori e le loro opere. Per quest’opera, che possiamo considerare come il capostipite dell’albero genealogico relativo al libro di storia letteraria, varrà ancora la pena di esaminare la presenza e la consistenza di quel particolare problema storiografico che consiste nella partizione in periodi, e che i tedeschi indicano con la parola Periodisierung, e cioè il periodizzamento della storia della letteratura. La distinzione ormai comune applicata dalle nostre moderne storie, che ritmano il corso della letteratura secondo i parametri di Medioevo, Umanesimo, Rinascimento, Barocco, Illuminismo, ecc., è il risultato di un lento processo di assimilazione di concetti storici elaborati a loro volta attraverso lunghi travagli, segnati da continui smarrimenti e da faticose riprese. L’assunzione di più complesse visioni storiche a criteri ordinatori dello svolgimento della storia letteraria doveva venire tentata generalmente non dalla più compatta e solenne storiografia (Quadrio e Tiraboschi), ma da quelle altre episodiche esperienze del Gravina e del Muratori e magari del Bettinelli, che, con vivace e approfondito senso storico, riescono talora a caratterizzare tutto uno scor-

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

cio della vicenda della nostra letteratura. Nel Tiraboschi il periodizzamento si presenta nella sua forma più elementare e immediata con la divisione in secoli, la sola possibile per la esatta e schematica mentalità classificatoria del bibliotecario modenese. Il criterio di “secolo” quale elemento cronologico ordinatore aveva fatto il suo solenne ingresso nella storia dell’erudizione fin dalle celebri Centuriae di Mattia Flacio, e come idea di un’età della storia letteraria fu via via usato dalla Crusca, dai marinisti, dall’Arcadia che si compiacquero di esaltare questo o quel secolo, parlando appunto del «secolo buono», e del «secolo moderno», e ancora del «secolo dei lumi». Come principio costruttivo della storiografia letteraria esso doveva poi trovare una precisa applicazione nella Histoire littéraire dei Maurini, alla quale, per questo lato, non mancherà di ispirarsi il Tiraboschi, quantunque già nel Crescimbeni e soprattutto nel Gimma tale criterio di distinzione fosse germinalmente presente. Nella Storia della letteratura italiana la narrazione con spontaneo ordinamento cronologico procede secondo un’esatta distinzione per secoli. Il tomo quarto, con cui s’inizia la parte riguardante la nostra letteratura, va infatti dal 1183 (Pace di Costanza) al 1300. Il quinto dal 1300 al 1400. Il sesto dal 1400 al 1500. Il settimo dal 1500 al 1600. L’ottavo dal 1600 al 1700. Al secolo XVII s’arresta la storia del Tiraboschi. Queste pause segnate al termine di ogni secolo possono ripugnare alla nostra scaltrita esperienza storiografica, ma non bisogna dimenticare che questo procedimento rappresenta un innegabile progresso rispetto alla costruzione distinta per generi propria dell’opera del Quadrio. E in effetti veniva in tal modo evitato il pericolo inerente a una rigorosa distinzione per generi letterari (la quale pure aveva giovato a conferire il primo senso di uno sviluppo), quello cioè di una narrazione che, in quanto subordinata allo svolgimento del genere stesso, doveva necessariamente spezzare la visione unitaria del lento ed esteso procedere della storia. Anche se l’ossequio ai generi letterari esercitava ancora il suo tirannico dominio nella strutturazione dei singoli secoli, tuttavia, con il subordinarsi al criterio cronologico nuovo, si avviava verso la sua dissoluzione, cedendo il posto ad altri criteri costruttivi. Senza contare che la partizione per secoli, costringendo l’autore ad una riflessione su un dato periodo, poteva iniziare a quel lavoro di caratterizzazione, che sarebbe poi diventato fondamentale nella successiva storiografia. La letteratura italiana (nel senso moderno dell’espressione) si presenta così, nella distribuzione tiraboschiana, distinta in cinque periodi, o, per restare fedeli alla terminologia dell’autore, in cinque «epoche», tante quante sono i secoli, con cui esse perfettamente coincidono. E non è senza significato che il Tiraboschi incominci un metodo nuovo di trattazione (che è quello sopra esposto) proprio con il primo secolo della nostra storia letteraria. Praticamente l’autore della Storia della

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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letteratura italiana riconosceva con questo, in modo indiretto, la discontinuità e la novità della letteratura nostra rispetto a quella letteratura precedente che egli, in base a un estrinseco criterio geografico, si era indotto a chiamare ugualmente italiana, collocandola, nel disegno costruttivo in cui si rifletteva il suo mondo intenzionale, su uno stesso piano di considerazione. Nell’intraprendere l’esame della letteratura del Trecento, il Tiraboschi tenta un giudizio sintetico, che, se non esce dai limiti di assai generiche considerazioni, può tuttavia valere come proposito e avviamento a una più adeguata caratterizzazione storica: Non v’ebbe per avventura secolo alcuno, in cui l’Italia da domestiche e da esterne guerre, e da strane rivoluzioni d’ogni maniera fosse così agitata e sconvolta, come in quello, di cui ora prendiamo a scrivere [...]. E nondimeno a questo secolo stesso vedremo l’italiana letteratura sorger sempre più lieta; fra ’l tumulto dell’armi passeggiar sicure le Muse; e dalle rovine delle città e delle provincie rinascere a nuova vita le scienze [...]. Un genio grande e sublime [il Petrarca], che sorse in questi tempi in Italia, fu in gran parte l’autore del lieto stato, a cui giunse l’italiana letteratura [...] in ogni scienza ebbe imitatori e discepoli; sollevato ad altissimi onori additò agli altri la strada, con cui giugnere a conseguirli; e accese in molti quell’entusiasmo per la gloria della sua patria da cui egli era compreso [...] gli ingegni italiani di questa età furono oggetto di maraviglia e di emulazione alle provincie straniere19.

Sono, come è facile vedere, considerazioni molto esteriori e superficiali, ma positive in quanto possibili suggeritrici di più impegnativi approfondimenti. Incidentalmente, appare notevole (perché riassume e indica il carattere documentario più che creativo di questa storia) l’apoteosi del Petrarca, innalzato a centro della letteratura e simbolo di italianità (in assoluta coerenza del resto con l’accademico e nazionalistico sentimento patrio dello storiografo compiaciuto dell’importanza del Petrarca, anche se non ancora consapevole dell’immensa clientela europea al seguito del poeta) in una posizione che il secolo seguente assegnerà invece a Dante. Con più responsabile impegno viene condotto l’esame sul Quattrocento. Il giudizio tende a considerare questa epoca come il secolo aureo della storia letteraria, un secolo, dice enfaticamente il Tiraboschi, «di cui non credo che v’abbia il più celebre e il più glorioso nella storia dell’italiana letteratura»20. Il punto prospettico di storia della cultura da cui si pone il Tiraboschi giustifica questa affermazione. E invero, se per chi si proponga di fare storia 19 20

G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. V, pp. 1-2. Ivi., t. VI, P. i, p. iii.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

della poesia il Quattrocento può apparire un «secolo senza poesia» e solo nel suo finire illustrato da autentici ma rari (e un po’ smorzati) documenti poetici, per chi invece osservi lo svolgimento della cultura (e in modo speciale, com’è nel caso del Tiraboschi, della cultura letteraria o, se si vuole, delle belle lettere, che non sono solo poesia, ma anche eloquenza e filologia) è naturale che questo secolo si presenti raggiante di gloria, soprattutto sullo sfondo del contrasto segnato nel passaggio dall’incondito e culturalmente ancor povero Trecento:

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Io ammiro il secolo decimosesto, in cui si può dire a ragione, che l’Italia vedesse risorgere l’età d’Augusto; e quando mi converrà di parlarne, mi sforzerò di esporne, come meglio mi sia possibile, i pregi e le glorie. Ma esso non sarebbe stato sì lieto e sì fecondo di dotti ed eleganti scrittori, se le fatiche e gli sforzi di que’, che gli avevano preceduti, non avessero spianato loro il cammino, e segnata la via. Dopo le invasioni de’ barbari l’Italia era a guisa di un incolto terreno, che altro non germogliava che bronchi e spine, e ogni giorno più insalvatichendo pareva omai ricusare qualunque coltura. Erano già oltre a tre secoli, che alcuni avevano coraggiosamente intrapreso a diboscarlo e ad aprirsi per esso a grande stento un sentiero. Ma il loro numero era troppo scarso al bisogno; e mancavan loro comunemente que’ mezzi, che a riuscire nel gran disegno erano necessari. Nel secolo XIV erasi continuato con più felice esito il faticoso lavoro, e la munificenza de’ principi per l’una parte e per l’altra l’industria e lo sforzo de’ diligenti coltivatori l’avevano tolto in gran parte all’antica orridezza [...]. Ecco dunque fin dal principio del secolo XV tutta l’Italia rivolta ardentemente a ravvivare le scienze, e a richiamare dal lungo esilio le belle arti. Si ricercano in ogni angolo i codici, e s’intraprendono a tal fine lunghi e disastrosi viaggi, si confrontan tra loro, si correggon, si copiano, si spargon per ogni parte, si forman con essi magnifiche biblioteche, e queste a comune vantaggio si rendon pubbliche [...]. Le sventure de’ Greci costringon molti tra essi a ricoverarsi in Italia [...]. Si formano numerose accademie [...], ogni cosa spira antichità ed erudizione...21.

Sono caratterizzazioni ancora superficiali ed esteriormente descrittive, in coerenza alle pagine dedicate alle singole personalità e alle loro opere, dove non è dato incontrare giudizi criticamente fondati, ma soltanto note estrinsecamente illustrative. E come avviene per le singole opere, così anche per i secoli la valutazione si traduce in un gretto calcolo di meriti e di difetti, concluso da una definitiva sentenza di biasimo e di lode, nella quale si insinua un’istintiva tendenza a istituire una specie di graduatoria o

21

Ivi, pp. iii-v.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DEL TIRABOSCHI

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almeno un primato da conferirsi a uno dei tanti secoli esaminati. E tuttavia una attenta considerazione delle infinitesimali forze positive che agiscono in ogni realtà storica ci induce ad apprezzare anche queste generiche vedute panoramiche, che in qualche modo rappresentano un tentativo di abbracciare tutto un secolo, superando per un attimo l’erudita elencazione del materiale filologico. Nel passare all’esame del secolo successivo, il Tiraboschi corregge la sua opinione nei riguardi del Quattrocento (la cui riconosciuta supremazia assume una sorta di provvisorietà) e assegna al Cinquecento il primato di gloria nella storia letteraria22. Questo atteggiamento ammirativo un po’ oratorio non impedisce all’autore di giungere a una sintesi storica. La quale si esprime nell’insistenza su due motivi, e cioè la mirabile cultura dei letterati e la protezione accordata dalle corti alle lettere. L’interpretazione settecentesca del Rinascimento, impostata sul rilievo dato, con caratteristica sovrapposizione di una patina contemporanea, alla grande erudizione degli umanisti e al mecenatismo dei principi23, trova così nell’opera del Tiraboschi una sua concreta presenza. Lo schema non è di una grande originalità, ed è ricavato da altri, ma quel che importa è appunto l’introduzione di esso in un’opera come questa e la consacrazione storiografica che gliene deriva. Ma, tra le ragioni della superiorità del Cinquecento, viene naturalmente dato il primo luogo al numero e alla grandezza degli scrittori fioriti in tale secolo: e fra questi la palma è concessa (giudizio abbastanza notevole) non al Tasso ma all’Ariosto. Non meno significativo risulta l’esame del secolo successivo. Anche lo sguardo panoramico sul Seicento muove, nel motivo fondamentale che lo determina, più che dalla preoccupazione di comprenderne la fisionomia storica, dalla volontà di pronunziare un giudiziario verdetto sul suo valore. Il Tiraboschi che, nell’accingersi all’esame della poesia di questo secolo, ricapitolando idealmente i giudizi polemici antisecentisti del Crescimbeni, del Gravina, del Muratori, dello Zeno, non potrà trattenere un lamentoso sospiro, che sembra annunziare una desolata geremiade («Eccoci a un argomento, di cui par che l’Italia debba anzi andar vergognosa che lieta e superba...»24), nel dare principio alla trattazione generale di questo periodo, cerca poi, indotto probabilmente da un sentimento di carità patria, di prospettare un quadro piuttosto ottimistico del secolo: Cfr. la Prefazione al t. VII. Cfr. L. Russo, Umanesimo, Rinascimento, Controriforma e la storiografia contemporanea, nell’opera I classici italiani, Firenze: Sansoni, 1939, vol. II, p. viii. 24 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. VIII, P. III, p. 3. 22

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comunque dobbiam confessare che grande diversità passa tra gli scrittori di questo e del precedente secolo in ciò che appartiene allo stile e al buon gusto, è certo però ancora, che in questo secolo stesso non fu priva l’Italia di colti ed eleganti scrittori sì in prosa che in verso; e che in ciò che appartiene alle scienze essa non solo può andar lieta e gloriosa al pari del sec. XVI, ma può ancora vantarsi di averlo superato di molto [...]. E io credo perciò, che questo secolo stesso, che tra noi si dice il secolo della decadenza e della barbarie, e che per riguardo all’amena letteratura può in qualche modo meritar questo nome, ne’ fasti di altre nazioni potrebbe rimirarsi come un de’ più fortunati, poiché anche fra l’universale contagio che infettò in questi tempi l’Italia, essa produsse, come vedremo, storici oratori e poeti che basterebbono a rendere immortale il paese, in cui essi nacquero e fiorirono; e quando pure non gli avesse ella avuti, i filosofi, i matematici, i medici che da essa uscirono potrebbono ben compensare la lor mancanza25.

È significativo quel riconoscimento dell’importanza del Seicento nel campo delle scienze, il quale, se è storicamente fondato, rivela d’altra parte, nel confronto istituito con il secolo precedente, non solo la tendenza, già notata, a stabilire un primato, ma anche un certo istintivo bisogno di scorgere, nella vicenda letteraria degli ultimi secoli, una linea progressiva determinata dal succedersi di continui «superamenti», dal Quattrocento al Cinquecento al Seicento (il quale «può ancora vantarsi di averlo [il Cinquecento] superato di molto»). Prevale comunque un tipo di valutazione che si esplica sotto forma di bilancio di elementi positivi e negativi. Questo genere di valutazione, che del resto doveva durare a lungo ed eliminarsi solo nella più recente storiografia, può riassumere in maniera simbolica quella che è la misura critica adottata dal Tiraboschi nell’accostarsi ai vari periodi della nostra letteratura. Al termine del secolo decimosettimo si arresta la narrazione della storia. Il Tiraboschi infatti non tratta, per deliberato proposito, del Settecento, e tale astensione trova la sua fondata ragion d’essere nel dichiarato timore di assumere involontariamente nei riguardi del proprio secolo una posizione preconcetta: Lasciamo che di noi giudichino i nostri posteri; e il giudizio, che essi di noi daranno sarà forse più imparziale e più giusto di quello che ne potremmo dare noi stessi26.

25 26

Ivi, P. I, pp. v e vi. Ivi, p. iv.

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Ma non manca neppure un elogio al proprio secolo e ai meriti in particolare di tre rappresentanti di esso, il Muratori, il Maffei e lo Zeno:

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Ampio e luminoso argomento sarà al certo, per chi vorrà a tempo opportuno trattarlo, lo stato della letteratura italiana ne’ primi cinquant’anni di questo secolo, per accennar questi soltanto, senza innoltrarsi negli anni a noi troppo vicini. Se altri nel corso di quegli anni non avesse ad additare l’Italia, che un Muratori e un Maffei, non potrebb’ella di essi soli andar lieta e superba? [...]. Qual era lo stato della storia letteraria prima che Apostolo Zeno si accingesse ad illustrarla27?

Dove la tentazione di vedere un nuovo superamento del Settecento sul Seicento è frenata soltanto dalla cautela sopra riferita. In questa condizione di evidente carenza di un concreto contenuto storico e tuttavia di germinale possibilità di un approfondimento critico si offre il periodizzamento della storia letteraria tiraboschiana. Questi profili storici, nonostante la loro genericità e superficialità, rappresentavano pur sempre un positivo apporto allo sviluppo della storiografia letteraria, in quanto contribuivano a orientare verso una concezione ampia e unitaria dello sviluppo della letteratura, distogliendola dalla esteriore e astratta considerazione dello sviluppo dei generi. Tali schemi imposti al corso della letteratura, coincidenti esattamente con il cronologico succedersi dei secoli, volevano inaugurare un primo tentativo di aggruppamento, offrire un iniziale piano di configurazione storica. E sotto questo aspetto meritano di venire positivamente apprezzati. Le considerazioni su cui abbiamo fino a questo punto insistito, riguardano la costruzione della storia letteraria, e non propriamente il contenuto di essa. Quanto al contenuto già abbiamo detto come esso sia importante sul piano dell’accertamento filologico e non su quello dell’intendimento filosofico. Ora, quella struttura e questo contenuto bastano a spiegare la larga efficacia e la rapida divulgazione dell’imponente capolavoro tiraboschiano28. Quest’opera se ha un posto di grande rilievo nella storia della storiografia (intesa in senso pratico più che teoretico), non conta nulla nella storia della critica. Il Tiraboschi, se determina un reale progresso nello svolgimento del tipo di storia letteraria, si mantiene, nel particolare ambito dell’interG. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. IX, p. iii. L’opera del Tiraboschi fu compendiata in tedesco da Giuseppe von Retzer, in francese da Antonio Landi (compendio tradotto poi in italiano: Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, compendiata in lingua francese da Antonio Landi consigliere e poeta della corte di Prussia ed accademico fiorentino, ed ora tradotta in lingua italiana dal p. G.A.M. , Venezia: Adolfo Cesare, Antonio Rosa, 1801-1805), in italiano da Lorenzo Zenoni. Per la fortuna della Storia del Tiraboschi nell’Ottocento si vedano i capitoli seguenti. 27

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pretazione degli scrittori, lontanissimo non solo dalla critica romantica, ma anche semplicemente da quelle posizioni più vivaci della critica settecentesca rappresentate da un Cesarotti e da un Bertola. Il suo giudizio non esce dai limiti di un’estrinseca e monotona alternativa di lode e di biasimo, con un’accentuata preferenza accordata a quest’ultimo, secondo il gusto dell’accigliata critica classica. Ma una volta dato il conveniente rilievo a tale carenza sul piano critico, non sarà poi opportuno insistere su di essa, dimenticando che il problema del Tiraboschi è un altro, e precisamente quello della verifica erudita e della sistemazione organica dell’immenso materiale relativo alla nostra letteratura. Occorrerà perciò, nel giudicare il modo con cui il Tiraboschi tratta gli autori, apprezzare (anche passando sopra a inevitabili imperfezioni e vistose lacune, specie per i riferimenti alle letterature straniere da lui poco conosciute) quelle meritorie qualità di ordine, di precisione e di completezza che sovente mancano agli storiografi precedenti, senza pretendere l’intervento di una approfondita sostanza critica. Negli ultimi anni del Settecento, mentre proseguono le ricerche erudite sulla storiografia letteraria di singole regioni, tra le quali occupa un posto a parte l’opera ricordata del Napoli Signorelli, esce la nuova edizione (che meglio si dovrebbe chiamare rifacimento) del Discorso sopra le vicende della letteratura del Denina, apparsa due anni dopo l’ultimo volume della Storia del Tiraboschi, nel 1784, ed esce la voluminosa opera di Giovanni Andrés pubblicata dal 1782 al 1799 a Parma, in sette grossi volumi dal titolo Dell’origine de’ progressi e dello stato attuale d’ogni letteratura. Questo lavoro di vastissima mole, dovuto ancora a un gesuita (spagnolo di nascita ma italiano di spirito e di cultura) e a un bibliotecario (amico degli altri grandi bibliotecari dell’epoca, lo Zaccaria e il Tiraboschi, e, malgrado una vivace polemica contro quest’ultimo sulle cause del secentismo, animato dallo stesso gusto erudito) risulta assai pregevole, nonostante l’incertezza di molte notizie non direttamente controllate e la lacunosità di parecchi argomenti (difetti intrinseci del resto alle proporzioni stesse del disegno). Si tratta di un documento caratteristico della cultura settecentesca, amante dell’erudizione e infatuata dell’enciclopedismo29. L’opera tuttavia, proprio in questo eccesso di gusto enciclopedico o, come si esprime l’autore, di «universalità di cultura», finisce con il trovare il suo limite impedendo che la trattazione (la quale procede per nazioni, tempi e generi) possa valere per le singole letterature.

29 Un tentativo analogo fu ripreso alla fine del secolo scorso da Angelo De Gubernatis, autore di una Storia universale della letteratura (Milano: U. Hoepli, 1882-85), in diciotto volumi.

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Insomma, risulta pienamente fondata la sentenza che un critico spagnolo ha pronunziato sullo storiografo:

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Era un espíritu generalizador, de los que de vez en cuando produce la erudición literaria para hacer el inventario de sus riquezas, de una manera atractiva, popular, agradable y al mismo tiempo científica: un vulgarizador en la más noble acepción de la palabra [...] era precisamente lo que debia ser para llevar á razonable término su empresa temeraria, que un erudito de profesión no hubiera intentado nunca30.

Perciò l’opera dell’Andrés, se sta, come una nuova testimonianza, a significare l’interesse e il valore ormai assunto nella cultura italiana del Settecento da quel tipo di lavoro che è la storia della letteratura, non può, dopo l’esperienza storiografica del Tiraboschi, non apparire povera di significato e comunque priva di un carattere tale da renderla degna di storica menzione. Il quadro della storiografia letteraria del Settecento può chiudersi così e riuscire completo anche senza aver fatto il nome di una personalità che riempie, nella sua solitudine, tutta la prima metà del secolo, Giambattista Vico. Sebbene dall’opera di lui possa essere logicamente ricostruito e cronologicamente riordinato31 il paesaggio di tutta la storia letteraria quale nelle grandi linee si spiegò davanti alla sua mente, tuttavia questa visione non si organizzò mai in un disegno unitario tale da riuscire esemplarmente efficace e determinante nel processo che abbiamo indagato. Su questo processo storiografico d’altra parte non riuscì ad agire neppure il lievito possente contenuto nel pensiero vichiano, vale a dire il concetto nuovo della poesia, e dunque dello svolgimento della poesia, impostato sulla teoria che i fatti umani sono retti da leggi ideali rintracciabili nello svolgimento dei fatti stessi, come non agì la rivendicazione della storia come scienza, e neppure la proclamata unione di filosofia e filologia, motivi tutti che avrebbero dovuto poi sfociare nell’estetica e nella storiografia dell’Ottocento. L’immaginoso giudizio che è stato suggerito per il Vico, «che egli fu né più né meno che

M. Menéndez y Pelayo, História de las ideas estéticas en España, Madrid: Artes Graficas Plus-Ultra, 19233, t. VI, p. 16. . 31 L’esperimento fu tentato dal Croce (cfr. «La Critica», VI [1908], pp. 460-480: “Lineamenti di storia letteraria in G.B. Vico”). 30

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tutto il secolo decimonono in germe»32, risponde a verità anche per il campo specifico della storiografia letteraria. Esso giustifica infatti la sua solitudine fra i contemporanei, e spiega come la storiografia dell’Ottocento nasca e si sviluppi sotto la sua ideale presenza. Tuttavia non è possibile tracciare, sia pur varcando lo spazio vuoto creato dall’oblio del Settecento, una diretta linea di tradizione che leghi il Vico ai nostri scrittori di storia letteraria del secolo scorso. L’Italia, che per tutta l’età romantica auspicherà il connubio tra Muratori e Vico, doveva importare dalla cultura straniera quelle suggestioni vitali poste dal Vico e destinate a rinnovare il pensiero europeo. In tal modo la storiografia della storia letteraria è costretta a registrare nella nostra cultura un’improvvisa discontinuità, determinata appunto dalla immissione, verificatasi nei primi decenni del secolo decimonono, di queste nuove conquiste che l’Europa al seguito del Vico era venuta elaborando.

32

Cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari: Laterza, 19222, p. 257.

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PRELUDI STORIOGRAFICI OTTOCENTESCHI I primi decenni del secolo XIX rappresentano, nella storia della storiografia letteraria, un periodo di eccezionale significato, per l’intervento di forze trasformatrici che, con un peso decisivo, influiscono sullo sviluppo dello spirito e delle forme della storia della letteratura. Mentre il tipo storiografico elaborato dal secolo precedente, spogliandosi di quella grave responsabilità erudita che lo aveva caratterizzato, continua a diffondersi in più agili aspetti, penetra nella nostra stanca e un po’ provincializzata cultura una significativa immissione di energie nuove, attraverso alcuni esemplari storiografici di mossa e feconda vita, proposti alla nostra attenzione dalla più fervida cultura oltremontana. Si potrebbe anzi osservare, a tale proposito, come a quel rinnovamento che, sul finire del secolo decimottavo, si verifica nella poesia italiana sotto l’influsso degli autori stranieri che penetrano in Italia, corrisponda, con un ritardo di qualche decennio, un’analoga trasformazione nel campo di questa storiografia, la quale si apre vivacemente alle correnti straniere e, entrando nel gran circolo della vita europea, si svecchia e si arricchisce. Agli inizi del nuovo secolo, su di una linea che sembra proseguire la tradizione erudita settecentesca, si offre come prima testimonianza l’opera del conte Giovan Battista Corniani, pubblicata a Brescia dal 1804 al 1813 con il titolo I secoli della letteratura italiana. Intorno a questo libro si snoda una piccola vicenda bibliografica, il cui percorso vale a registrare, nel controllo della fortuna editoriale, la divulgazione di un determinato gusto. Questa storia letteraria uscì la prima volta nel 1796 a Bassano, in un volume in ottavo dal titolo I primi quattro secoli della letteratura italiana dopo il suo Risorgimento: con questo volume l’autore si proponeva di saggiare, prima di accingersi a un più vasto lavoro, il favore del pubblico. Più tardi, a compimento dell’edizione bresciana, un’aggiunta ai Secoli fu compiuta da Camillo Ugoni, il quale, non vedendo accolta dall’ateneo di Brescia la sua

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proposta di continuare l’opera del Mazzuchelli, si accinse a questa più facile impresa, pubblicando dal 1820 al 1822, sempre a Brescia, i tre volumi Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII. (Con lo stesso titolo, tra il 1856 e il 1858, doveva poi apparire a Milano un’opera postuma in quattro volumi, diversa dalla precedente). Una seconda edizione dei Secoli in due volumi fu curata, a Milano nel 1832, da Stefano Ticozzi, con l’aggiunta di una decima epoca (oltre le nove in cui il Corniani aveva distinto la sua trattazione), comprendente gli anni dal 1750 al 1832. E infine a Torino negli anni 1854-1856, presso il Pomba, si ebbe una ristampa in otto volumi dell’opera del Corniani, dell’Ugoni e del Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Commentario di Giambattista Corniani colle aggiunte di Camillo Ugoni e Stefano Ticozzi e continuato fino a questi ultimi giorni per cura di Francesco Predari: dove alle epoche del Corniani se ne aggiungeva una decima, formata dal lavoro completo dell’Ugoni e dalla parte dell’aggiunta del Ticozzi comprendente gli anni dal 1750 all’inizio del nuovo secolo; e una undicesima, costituita dal rimanente del lavoro del Ticozzi, con una parte nuova del Predari. È una nuda cronaca, questa che abbiamo tracciata, nella quale tuttavia si profila un aspetto non trascurabile, anche se secondario, del paesaggio storiografico del primo Ottocento, e in cui si accerta la reale portata dell’impresa del Corniani, nel suo carattere divulgativo e nelle sue qualità architettoniche di ordine e di chiarezza. In effetti le programmatiche dichiarazioni dell’autore, premesse al racconto storico, sembrano rimandare, più che a un proposito strettamente scientifico, a un semplice intento di divulgazione: Io dunque mi studierò di presentare in quest’opera quegli avvenimenti che nella vita de’ letterati sono più degni di essere conosciuti. Alcuno però non s’avvisi di ritrovare in essa delle dotte discussioni polemiche intorno all’anno della nascita, del viaggio, della lettura, o ad altre simili circostanze di poco momento. Io non disapprovo queste erudite ricerche, ma non si confanno col mio sistema [...]. S’io dunque mi facessi a raccogliere eziandio le questioni biografiche, m’inoltrerei in una prolissità che andrebbe all’infinito e riuscirebbe infallibilmente faticosa e stucchevole1.

Il Corniani si richiama alla solenne tradizione del Tiraboschi e del Mazzuchelli, affermando la propria volontà di compendiare e riassumere quella materia erudita:

1

G.B. Corniani, I secoli della letteratura italiana, Brescia: N. Bettoni, 1804, vol. I, pp. viii-

ix.

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Io per me non farò che appigliarmi a quelle opinioni che presso i prelodati scrittori mi sembreranno più consone alla verità per segnare l’epoche e per descrivere i fatti2.

La fisionomia divulgativa che, soprattutto nel confronto con i documenti storiografici del secolo decimottavo, sembra caratterizzare l’opera del Corniani non va tuttavia intesa in un senso deteriore, e non deve pertanto provocare in noi una presa di posizione di rifiuto o comunque di indifferenza. Al contrario, in tale condizione è riposto quel tanto di storica responsabilità che accompagna il sorgere di questo lavoro. L’atteggiamento, di fronte all’erudizione settecentesca, del Corniani, disposto a servirsi del materiale preparato da essa, ma a non proseguire in un’ulteriore elaborazione filologica, sta a indicare il concludersi nello svolgimento storiografico di una fase giunta ormai a una completa saturazione, e l’affacciarsi di nuove esigenze e di nuovi problemi. Il fastidio che l’Ottocento tante volte esprimerà per la pura erudizione che pretenda imporsi nella sua piena autonomia e assoluta finalità, e insieme il bisogno avvertito da tutto il secolo di utilizzare i risultati di essa per qualcosa di diverso e di più profondamente spirituale, sono già contenuti in germe nel Corniani. Il suo proposito divulgativo, in sostanza, lascia trapelare l’istanza di un orientamento nuovo, il desiderio di iniziare, sugli elementi accertati dalla precedente ricerca, un lavoro di storica ricostruzione. Considerato sotto questa luce, anche la ricerca programmatica di «popolarità» e di «facilità» si carica di un’intenzione criticamente più significativa. Ma conviene procedere nell’esame delle pagine successive per capire più a fondo il carattere del lavoro. Si rende allora evidente un altro fondamentale aspetto, anch’esso (nella sua appariscente negatività) suscettibile di una valorizzazione, vale a dire il tono accentuatamente biografico del libro. Degli eventi biografici non solo parla l’autore, nella prefazione, come dei motivi essenziali del suo interesse, ma anche il Monti in una lettera al Corniani, piena di accademiche lodi, discorreva appunto di «Vite» e di «biografia»: «le ultime vostre Vite, giudiziose, vere ed esatte, come le prime, e degne insomma dell’eccellente biografo che le ha scritte»3. E la lettura dell’opera dimostra come si tratti effettivamente di una serie biografica, più che di un vero e proprio disegno storico. Però quel che importa osservare è che ciò non costituisce di per sé un dato meramente negativo. Se infatti il Corniani sembra dimenticare il concetto dal Tiraboschi affermato (e sia 2 3

Ivi, p. ix. V. Monti, Epistolario, Firenze: Le Monnier, 1929, vol. III, p. 263.

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pure non mantenuto), come cioè sia necessario comporre non una storia di letterati ma una storia della letteratura, egli veniva poi, attraverso lo schema biografico, a richiamare l’attenzione sulla personalità dei singoli autori, e a favorire, anche se in maniera inconsapevole, il sorgere di una storia che, evitando il dispersivo esame delle opere (in cui degenerava, per l’intervento della teoria dei generi letterari, quella giusta tendenza enunciata dal Tiraboschi), si svolgesse come narrazione di fenomeni letterari, considerati nella loro autonomia e visti insieme nei loro rapporti, non avulsi dalla personalità che li ha generati, ma inseriti in una esistenziale realtà umana, quella appunto inconfondibilmente riflessa nella biografia di ogni singolo scrittore. Ma tutto questo sorpassa ovviamente le intenzioni del Corniani, il quale tuttavia serviva, con il suo programma, ai fini della storia, presentando nella modesta serie biografica una chiara architettura espositiva. Il Corniani del resto, per parte sua, non credeva di fare della pura e semplice biografia, ma pensava di superarne i limiti, come appare evidente dalla dichiarazione che egli avanza esponendo il procedimento che intendeva seguire nel trattare gli autori: Alla narrazione delle loro vicende si aggiugnerà quella delle loro dottrine. Si tenterà di estrarre dalle lor opere le verità più eminenti e più luminose, di esporne colla maggior chiarezza i sistemi, di applicarvi delle rapide riflessioni, di farne dei paralleli, e confronti anche con celebri oltramontani, e per fine di rivendicare la patria comune dai furti a lei fatti dagli stranieri4.

Di tutti questi propositi che conviene lasciare cadere (in quanto sarebbe inutile fermarsi a denunziarne il rozzo e impreciso senso critico ed estetico di cui danno prova) interessa rilevare solo l’ultimo. Questo motivo di ingenua e cordiale difesa nazionalistica, ribadito ancora alla fine della introduzione («Lo scopo principale della mia fatica è di scoprire all’Italia quell’oro che abbonda entro il suo seno, onde si lasci meno abbagliar dall’orpello, che su lei ribocca dai lidi stranieri»5), ricollega i Secoli, in un rapporto di stretta parentela, alle opere del Settecento. Esso è ripreso dalla tradizione che va dal Gimma al Quadrio al Tiraboschi, senza essere per altro avvivato da un’intenzione nuova, o rivissuto comunque in una maniera originale. E tuttavia riesce un documento interessante del persistere di un atteggiamento che, dalla umbratile zona degli studi, avrebbe dovuto ben presto passare sul terreno incandescente della vita morale e politica. 4 5

G.B. Corniani, I secoli della letteratura italiana cit., pp. xi-xii. Ivi, p. xix.

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Fra i rilievi che ancora si impongono di fronte all’esame di quest’opera, viene spontaneo osservare come in essa, con un evidente progresso rispetto alla storia del Tiraboschi, il concetto di letteratura italiana per quanto si riferisce ai suoi limiti cronologici, si sia venuto modernizzando. La storia della letteratura italiana, per il Corniani, non affonda più le sue radici nella remota epoca etrusca, ma prende più esattamente il suo inizio nel secolo undicesimo, confermando una data che, stabilita dal Bettinelli e dal Denina, resterà immutata fino al Carducci e oltre. Tuttavia, varrà la pena di sottolineare come, per un residuo di ossequio alla precedente forma storiografica, l’autore non sappia rinunziare a un’esposizione del corso della letteratura dalla decadenza dell’impero romano fino al Mille: Io incomincierò la mia narrazione dal secolo undecimo, poiché a quest’epoca si può realmente stabilire l’origine della letteratura propriamente italiana. Il grand’albero della letteratura latina fu troncato già dalla scure dei barbari, invasori d’Italia. Nell’undecimo secolo ne sorse un nuovo, il quale umile dapprima e fievole, coll’incremento de’ secoli divenne solido e rigoglioso, e distese ne’ posteriori tempi vigorosi i suoi rami, dai quali si colgono i frutti ancora della odierna letteratura. Noi pertanto osserveremo a germogliare il tenero arbusto, e ne seguiremo l’ingrandimento e le varie diramazioni per quanto sarà permesso ai deboli nostri lumi. Ma siccome non è impossibile che alcuna radice della novella pianta, sviluppandosi nello stesso terreno, non abbia incontrato qualche sterpo ancor dell’antica, così a schiarimento della materia premetteremo un’idea generale dello stato della letteratura in Italia dalla decadenza dell’impero romano sino al risorgimento delle lettere6.

Si rende sensibile in questa giustificazione il passaggio, che diventa addirittura simbolico, da una forma greve di pedanteria tipica del bibliotecario che nulla vuole lasciare nell’inedito e nel sottinteso, a una più agile mentalità storiografica propria del critico che sente il bisogno di richiamare solo quel tanto che è in stretto rapporto, sul piano della realtà e quindi della intelligibilità, con l’argomento preso a trattare. La stessa più matura consapevolezza si riscontra nelle caratterizzazioni dei vari secoli della nostra storia letteraria, che il Corniani deliberatamente si propone di delineare: «Vi s’incontreranno però abbozzati qua e là i generali caratteri della letteratura dei secoli»7; giungendo, in effetti, a formulare giudizi assai meno generici di quelli del Tiraboschi. A proposito invece degli autori introdotti dal Corniani nel suo quadro storico, si nota subito come manchi ancora quell’equilibrata misura 6 7

Ivi, pp. x-xi. Ivi, p. xiii.

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selettiva la cui assenza costituisce uno dei dati di fatto che più colpiscono il moderno lettore quando s’accosti all’antica storiografia. Risulta tuttavia degna di nota l’ammissione, nella serie degli autori, accordata a santa Caterina da Siena, rimasta estranea alla storia del Tiraboschi8, e diventata, per la nostra moderna sensibilità, uno degli scrittori del Trecento più degni di attenzione. Insomma, per concludere, quest’opera del Corniani nella sua impostazione di serie di biografie cronologicamente ordinate, si presenta con un chiaro profilo e con un’omogeneità assai maggiore rispetto alla complicata e un po’ caotica struttura della storia del Tiraboschi. Ebbene, proprio in tali qualità esteriori consiste il pregio essenziale di questa storia. Si tratta naturalmente di un pregio di ordine pratico, e pertanto destinato, come tale, a venire trascurato dalla storia della critica, la quale deve necessariamente rivolgersi all’intrinseco valore di un’opera. Ma se nessuna idea nuova avviva questo lavoro, e se nessun merito sul piano della ricerca erudita ne sottolinea l’importanza, in una ricerca come la nostra converrà pure mettere in evidenza il significato di un’opera che segna indubbiamente un progresso nello sviluppo della struttura della storia letteraria. E il piccolo ma non trascurabile contributo consiste appunto in questo, nell’avere organizzato la materia erudita settecentesca in uno schema più ordinato, più agile e storiograficamente più efficace. Con ben altro vigore critico si accingeva, in quegli stessi anni, a continuare i Secoli Camillo Ugoni. La letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII, se nella sua estrinseca situazione si riporta al lavoro del Corniani, del quale intende essere il compimento, nel suo intimo contegno risulta cosa del tutto diversa e assolutamente superiore: e non solo perché la preparazione erudita dell’Ugoni ha una solidità sconosciuta all’autore dei Secoli, ma proprio perché più profonda è la sua coscienza storiografica. Anche nei confronti della successiva aggiunta del Ticozzi, che pure non è priva di qualità positive, il lavoro dell’Ugoni appare più ricco e significativo. Nella storia dello sviluppo della storiografia letteraria, esso, più che come semplice prosecuzione dell’opera del Corniani, conta per una sua originale fisionomia, degna di nota. Si tratta insomma di un interessante documento che sta a testimoniare dell’improvvisa immissione nella nostra cultura di energie nuove, che, spezzando la pacifica linea di tradizione, orientano verso esigenze Si veda in proposito la lettera del 24 giugno 1791 a Lodovico Ricci. (La lettera fa parte dell’epistolario inedito di G.B. Corniani, che si trova nella biblioteca Morcelliana di Chiari, alla segnatura Arm. Ms. A. I. 3, la cui indicazione devo alla Dott. Aurelia Tenchini). 8

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e mete più sicure la storiografia italiana. Il fatto anzi che questa Letteratura sia in certo modo condizionata dal proposito di ricollegarsi a un’opera precedente, giova, nel contrasto che crea l’inevitabile accostamento, a farne spiccare maggiormente la novità del contenuto, in cui si rende sensibile e si denunzia il contributo della cultura oltremontana. La lettura della prefazione risulta al solito assai indicativa. L’Ugoni avverte con lucida coscienza come la storiografia letteraria sia ormai diventata un prodotto normale della cultura contemporanea. Mentre gli uomini del Settecento lasciano ancora scorgere un certo senso di imbarazzo di fronte a questa forma di attività, e un evidente bisogno di giustificarla con motivi e finalità di ordine pratico, quasi fossero sotto il peso della preoccupazione di trovarsi isolati e della certezza di intraprendere da pionieri strade non prima battute, l’Ugoni dimostra ormai una piena familiarità con questo tipo di ricerca: Veggiamo a questa età fiorire grandemente gli studi della storia non pure delle cose civili, ma di quelle che appartengono alle arti, alla filosofia e alle lettere. E quanto a queste ultime ne fanno fede gli ampli volumi dell’Andrés, del Tiraboschi, del Ginguené, del Bouterweck e del Sismondi9.

Questi ultimi nomi stanno a indicare a chiare note come l’Ugoni, continuatore del Corniani, si trovi ormai su di un piano di cultura diverso da quello tradizionale. E invero si sente che tra di lui e la storiografia erudita settecentesca c’è stato di mezzo l’opera del Ginguené e soprattutto del Sismondi. L’abbozzo di storia della storiografia letteraria da lui rapidamente delineato sta a provare questa sua più moderna sensibilità: Il Tiraboschi miglior opera avrebbe dato all’Italia, se non si fosse troppo sovente ribellato al suo proposto di scrivere la storia della letteratura, e non de’ letterati d’Italia10.

Quella che era stata un’esigenza posta dallo stesso Tiraboschi e da lui poi non realizzata, qui, nella consapevolezza del critico capace di avvertirne la mancata attuazione, si determina, con più approfondito criterio, come istanza di una concezione unitaria della storia, intesa quale sviluppo e continuità, movimento e connessione, da contrapporsi al rapsodico disegno tiraboschiano, dove la storia tende a ricadere costantemente, malgrado le dichiarate C. Ugoni, Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII, Brescia: N. Bettoni, 1820, vol. I, pp. x-xi. 10 Ivi, p. xi. 9

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intenzioni, in una estrinseca serie di notazioni biobliografiche collocate una accanto all’altra, e più di una volta disgiunte dalle tiranniche distinzioni dei generi letterari. In questa nuova prospettiva storiografica l’indugio del mero esercizio filologico, se non è rifiutato, viene tuttavia sentito come insufficiente all’intelligenza critica del fenomeno letterario: Così il Tiraboschi, come il Ginguené, rettificarono molti errori, avverarono date, depurarono fatti, e prevalsero nella parte positiva e biografica. Se non che il francese ci ha pur dato begli e meditati esami dei capilavori della nostra letteratura11.

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E ancora: Leggendo poi il libro De la littérature du Midi de l’Europe, si vede che il Sismondi [...] si levò a comporre una storia filosofica, nella quale, rimosse le prevenzioni e le rivalità nazionali, apprezzò con molta sagacità il merito degli scrittori12.

La simpatia dell’Ugoni, come si vede, va tutta per i più moderni autori di storie letterarie, Ginguené, Sismondi, Bouterweck. Però con molto equilibrio egli giudica anche della posizione di compendiatore e di divulgatore del Corniani: Vengono dopo questi gli storici minori, fra’ quali Giambattista Corniani ridusse la letteratura italiana in una galleria di quadri scelti. [...] Ma perché giova essa a diffondere la conoscenza delle nostre lettere, toccando rapidamente le principali opere, ottenne favore in Italia e fuori13.

Sul fertile terreno di questa meditata esperienza critica l’Ugoni imposta il proprio lavoro. La prima questione affrontata è quella che la storiografia settecentesca subito offriva spontaneamente a chi ne considerasse anche in maniera superficiale il contegno, e riguardava cioè la parte che dovevano occupare le vite degli crittori nella narrazione della vicenda letteraria. Ebbene, nell’Ugoni è assai facile verificare il superamento ormai avvenuto della tendenza storiografica settecentesca (nel Tiraboschi solo intenzionalmente respinta), sempre disposta a concedere il massimo rilievo nel disegno storico 11

Ibidem. Ivi, pp. xii-xiii. 13 Ivi, p. xiii. Con maggiore e forse eccessiva benevolenza, giustificata del resto dalla natura dello scritto, l’Ugoni aveva parlato dei Secoli nel suo lavoro Intorno alla vita e alle opere del Conte G.B. Corniani (Brescia: N. Bettoni, 1818), dove sono proposti anche alcuni puntuali giudizi sul Tiraboschi. 12

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PRELUDI STORIOGRAFICI OTTOCENTESCHI

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alla biografia degli scrittori. Siffatto comportamento determinato da quella passione erudita che, confluendo coll’interesse dell’esame teorico-retorico, doveva provocare il sorgere della storiografia letteraria (di cui l’opera del Tiraboschi è il frutto ultimo) viene costantemente discusso e rettificato dall’Ugoni. Più volte egli insiste sulla necessità di ridurre a uno spazio minimo la parte biografica e di dare sviluppo su di essa all’analisi delle opere: «Studiosi della brevità nella parte puramente biografica del nostro lavoro, ci permetteremo di allargarci nell’esame degli scritti». E poco oltre: «Dopo avere accennati con rapidità i principali avvenimenti della vita e distesamente esaminate le opere, ecc.»14. Era, questo della biografia, un problema già posto non senza finezza ed efficacia dal Ginguené, il quale mentre affermava l’indispensabile funzione della biografia (giustificata da ragioni edonistiche e decorative, ma anche storiche e scientifiche), ne consigliava nello stesso tempo l’uso discreto: une partie de l’histoire littéraire qui porte son charme et son utilité avec elle, c’est la biographie des gens de lettres, ou la notice abrégée de leurs vies, presque toujours attachantes [...] sans oublier que les auteurs dont les ouvrages sont peu connus ou peu dignes de l’être, ne peuvent guère intéresser par les détails de leur vie, et que, quant à ceux qui méritent d’attirer l’attention, l’on aime sur-tout à la fixer sur leurs ouvrages15.

L’Ugoni, accogliendo questa linea di condotta tracciata con gusto sicuro, poteva realizzare all’interno dei suoi quadri, pur impostati secondo la struttura biografica, il dispiegarsi di una più viva sostanza critica. E in effetti lo schema biografico, nel suo lavoro, finisce con l’assumere, rispetto agli antiquati modi di considerare le «vite», un significato totalmente nuovo. Alla partizione settecentesca, seguendo la quale l’autore veniva studiato come uomo pubblico, privato, di lettere, si sostituisce qui un più persuasivo disegno, che si attua in un graduale spostarsi dell’attenzione dalla biografia alle opere, all’“indole” dello scrittore. Era questo un primo tentativo, non estraneo al clima romantico, di esaminare la personalità degli autori, la loro «anima», come poi anche si disse, sorretto da un interesse storico-moralistico, in cui si manifestava il proposito di pervenire alla delineazione di un determinato C. Ugoni, Della letteratura italiana… cit., p. xvii. P.L. Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, Milano: Giusti, 1820, t. I, p. xi. . 14

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clima di civiltà, e in cui pertanto diventava naturale, superato ormai il gusto delle archivistiche compilazioni settecentesche, la scelta, non più indiscriminata ma del tutto coerente, degli scrittori più diversi, rappresentanti delle più svariate forme di cultura. La serie monografica degli autori rivela un modo di accostarsi alle figure della storia letteraria ben più profondo e sfumato di quello duro e superficiale del Corniani. Perciò se è indubbiamente fondato il giudizio del Croce, che, pur riconoscendo all’Ugoni sennatezza e talora acume di critica, trova in lui «l’atteggiamento del lettore studioso e curioso, ma non del critico e dello storico»16, esso tuttavia va corretto e integrato dalla considerazione che il comportamento dell’Ugoni di fronte alle opere prese in esame segna, nel confronto con la precedente storiografia, un evidente progresso. Ma con l’Ugoni non soltanto si approfondisce l’interpretazione delle singole personalità e si fa più attenta l’esegesi delle particolari opere d’arte. C’è in lui anche un senso panoramico, una capacità di abbracciare tutto un periodo della storia letteraria quale non è dato trovare prima in nessun altro storiografo. Alle generiche considerazioni marginali del Tiraboschi sui vari secoli e alle ancora vaghe delineazioni storiche del Corniani si sostituisce una comprensione assai più viva del problema letterario di un’epoca. Nella letteratura del secondo Settecento l’Ugoni cerca di cogliere il motivo centrale, e acutamente lo individua nel contrasto attivo fra i rinnovatori della sostanza e della forma artistica e i fedeli seguaci dell’antica tradizione. Così il fenomeno essenziale del nuovo orientamento del gusto viene delineato con vigile senso di discriminazione. Su questa linea di più moderna esperienza si colloca anche quel sentimento d’italianità che si accompagnava, dal Gimma in poi, alla trattazione della storia letteraria. Il tema nazionalistico in realtà perde, a contatto di questo spirito attento, quel tono astratto e un po’ convenzionale con cui si manifestava nelle storie precedenti: Fu conforto al nostro lavoro (e speriamo che sarà al lettore) il vedere come l’Italia, lacerata e divisa da guerre di estranie genti per estranei interessi, possa almeno mostrare come abbia sempre conservato quel suo divino privilegio di essere madre fecondissima di grandi ingegni, sebbene le guerre straniere e altre tali cagioni abbiano cospirato ad impedirne, o a menomarne il frutto; cosicché vedremo con assurda atrocità rimeritate alcune grandi opere coll’estremo supplizio [...]. Parecchi fra gli scrittori, dei quali si compone la nostra storia, fecero un gran bene alla patria, diffondendo savi principi di legislazione civile e 16 B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari: Laterza, 19302, vol. I, p. 263.

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PRELUDI STORIOGRAFICI OTTOCENTESCHI

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criminale, di economia politica e di amministrazione. Per tal modo appare una gran verità, della quale gioverebbe che tutti fossero penetrati, ed è che gli sforzi privati degli individui per operare ciò che è buono ed utile non sono mai tanto necessari quanto ne’ tempi calamitosi, però che possono in grandissima parte scemarne la miseria17.

Un soffio caldo di vita, di una più scontata immediatezza rispetto al tradizionale comportamento di questo ideale, conferisce alla pagina un tono singolarmente concreto. Il sentimento della patria, pur fra reminiscenze ancora libresche e letterarie, per il contenuto etico di cui si avviva e la sostanza storica con cui si misura, assume un significato già pienamente ottocentesco e risorgimentale. Perciò anche su questo piano la Letteratura dell’Ugoni ci costringe a registrare una sensibile modificazione nel corso della storiografia letteraria. La cronologia (non si deve dimenticare che la storia dell’Ugoni esce nel 1820) spiega tale novità di accento, rimandando da una parte al mutato clima politico, e dall’altra alle opere straniere relative alla letteratura italiana apparse negli anni precedenti. Il riconoscimento di questa influenza determinante della cultura straniera non si risolve tuttavia in una sottrazione di merito all’opera dell’Ugoni, ma la colloca in una situazione privilegiata, facendone la più significativa testimonianza dell’avvenuto trapasso di detta cultura europea nella vita intellettuale italiana. Camillo Ugoni, nella sua posizione intermedia fra il Corniani e l’Emiliani Giudici, il quale darà all’Italia un esemplare nuovo di storia letteraria, sta a documentare l’aprirsi della nostra cultura all’influenza europea. Per opera dell’Ugoni, viene fatta circolare nelle antiche strutture un’atmosfera più stimolante, suscitatrice di una ansia di liberazione e di novità. L’importanza storica della Letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII consiste appunto nell’essere il primo documento, nel solco dell’antiquata tradizione, del sorgere di istanze nuove che, non trovando nella storiografia nostrana un’adeguata risposta, si orientavano verso i più vivaci esperimenti degli stranieri. E tanto maggiore significato acquista quest’accoglienza generosa riservata dall’Ugoni alle idee della storiografia europea, in quanto proprio in quegli anni, altri studiosi nostri restavano ostinatamente immobili sull’angusto e polveroso territorio della tradizione settecentesca. Entro questi confini si trova ancora chiuso Antonio Lombardi, con la Storia della letteratura italiana nel secolo XVIII (uscita a Modena dal 1827 al 1830; e ristampata a Venezia, in sei volumi, nel 1832) che qui si ricorda solo per la 17

C. Ugoni, Della letteratura italiana… cit., pp. xx-xxi.

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necessità di completare il nostro quadro anche nelle zone d’ombra, per quella funzione di utile contrasto che ad esse compete. Il Lombardi non esce da un rigoroso contegno di fedeltà al Tiraboschi di cui egli si propone di essere il continuatore, estendendo all’ultimo secolo la ricerca che il grande bibliotecario aveva tralasciata. Senonché mentre l’Ugoni, continuando il Corniani, portava su più avanzate posizioni la ricerca storiografica, il Lombardi, tutto al contrario, si dimostra di gran lunga inferiore al modello a cui si ricollega. E in realtà, se identico è lo schema esterno della ricerca nel Tiraboschi e nel suo continuatore, profondamente diversa ne risulta invece la capacità costruttiva e realizzatrice, la possibilità di informazione e di discernimento: dove si prova come, nella storia, chi si ostina a risalire i tempi passati, ignorando il presente, finisca con l’andar sempre fatalmente più indietro di quanto non speri e non creda. Ma il discorso esige ormai che si dia notizia di quelle nuove forme storiografiche che gli stranieri avevano sperimentato nell’esame della nostra letteratura e che gli italiani dovevano ben presto cercare di tradurre nei loro tentativi, rendendone intanto più viva e consapevole la portata al fuoco di un’animata e feconda discussione critica. Dal 1811 al 1818, a Parigi, uscivano i primi sei volumi dell’Histoire littéraire d’Italie del francese Pier Luigi Ginguené: mentre nel 1819 apparivano postumi (l’autore, vecchio di 68 anni, era morto nel 1816 a Parigi) altri tre volumi, condotti a termine (su materiali già pronti del Ginguené) da Francesco Salfi, e riveduti dal Daunou. Questa storia, alla quale è legata la fama dell’illustre letterato (la cui biografia – con la notizia del soggiorno di vari anni in Italia, dell’ambasciata tenuta per conto del Direttorio a Torino, delle lezioni sulla nostra letteratura svolte a Parigi all’inizio del nuovo secolo – sembra anticipare i legami che la sua opera istituì fra Italia e Francia), ebbe nei due paesi una larga divulgazione, testimoniata, fra l’altro, dalla fortuna editoriale. In Italia i nove volumi completi dell’Histoire littéraire furono ristampati a Milano dal Giusti nel 1820-1821. Di essi si ebbe poi una traduzione di Benedetto Perotti, pubblicata dal 1823 al 1825 a Milano, e altre ne apparvero a Venezia e a Napoli. Riesce difficile, su un piano di rigida problematica storiografica, stabilire un motivo in cui fare consistere la novità di questo lavoro, che sotto tanti aspetti non supera il tipo di storia elaborato dal Settecento. Innanzitutto il concetto di letteratura a cui il Ginguené praticamente aderisce è in sostanza ancora quello tiraboschiano, disposto ad accogliere la narrazione dello sviluppo delle scienze accanto a quella dello stato delle belle lettere (una narrazione la cui linea del resto non si modifica per nuovi accertamenti eruditi, estranei al temperamento dello scrittore): sebbene non si debba poi

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tralasciare di dire che nell’Histoire littéraire si trova un senso prospettico più esatto in confronto al Tiraboschi, e che la parte dedicata alle scienze è tracciata con un criterio più decisamente subordinante, sicché il risultato complessivo riesce abbastanza organico, e come tenuto insieme da una naturale sapienza costruttiva. Così, un’autentica originalità non si può in fondo attribuire allo schema ideale su cui è impostata la trattazione della nostra letteratura, a quella visione genealogica che il Ginguené dimostra di averne nel quadro della letteratura universale. La nostra letteratura, nel pensiero dello storico francese, costituirebbe quasi il nucleo generatore della letteratura universale, in quanto proprio la letteratura italiana avrebbe ridato vita alla civiltà artistica greco-latina e avrebbe, in una specie di ideale diaspora, diffuso nel mondo quei germi da cui sarebbero sorte le varie letterature nazionali (quelle letterature che il Ginguené con illuministica mentalità, preoccupata di un’enciclopedica cultura, e sotto l’influsso del settecentesco cosmopolitismo, affratellatore di tutti i popoli, si proponeva appunto di esaminare). Ma questa teoria del primato, in senso cronologico-genealogico, della letteratura italiana rispetto alle altre letterature moderne era già stata preannunziata dal Muratori agli inizi del secolo decimottavo18 ed era stata ripresa, in maniera più o meno esplicita e con accenti e sfumature diverse, da altri storici. Analogamente, in questo vasto disegno dello sviluppo letterario, senza punto scostarsi dagli schemi più tradizionali della storiografia settecentesca, l’autore non trova posto per il Medioevo: cette longue et profonde nuit, pendant laquelle seulement brillent de loin en loin, comme des flambeaux au milieu d’épaisses ténèbres, quelques esprits supérieurs à leur temps, mais qui ne jettent cependant qu’une lumière faible et douteuse19.

Questa svalutazione del Medioevo, a cui non è riconosciuta nessuna importanza nel corso della vicenda della letteratura, rivela nel Ginguené una mentalità ancora chiusa nei limiti della civiltà illuministica. Agli atteggiamenti tradizionali il Ginguené rimane fedele anche quando accenna alla necessità di tenere presenti, nell’illustrazione del paesaggio letterario, i fatti politici «principalement considérés dans leur rapport avec elle [l’histoire littéraire] et relativement à l’action que ces divers gouvernements L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana cit., vol. I, p. 16. P.L. Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, Paris: L.G. Michaud, 1811, t. I, p. vi. . 18

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exercèrent sur les sciences et les lettres»20. La storia, per lo studioso francese, è essenzialmente la storia politica, intesa nel suo senso più esteriore, come storia appunto di «gouvernements». A lui riesce perciò impossibile arrivare a cogliere gli intimi rapporti che possono legare, nel sottosuolo della storia, la vicenda politica e il fenomeno letterario, e così, nei suoi tentativi di delineazione di qualche periodo storico, gli capita di trovarsi sullo stesso piano superficiale del Tiraboschi. Quanto poi alla posizione che, come si è visto21, egli assume con penetrante finezza, nei confronti del problema biografico, non si deve dimenticare che in essa veniva ripresa, e sia pure in modo più coerente e sottile, un’esigenza già avvertita dal Tiraboschi, e che da essa comunque non si può far dipendere un giudizio di originalità. Anche sotto questo rispetto, il lavoro del Ginguené non sembra dunque superare decisamente la fisionomia caratteristica delle opere della cultura storiografica dell’età precedente. Né infine dai modi di questa cultura si scosta in tanti altri atteggiamenti, come ad esempio, in quel sentimento di venerazione per l’Italia che è fedelmente trasmesso ed esattamente ripetuto dai nostri autori di storia letteraria. E invero l’origine straniera dello scrittore e il suo nazionalistico orgoglio francese non impediscono l’affermarsi di quel motivo di celebrazione e di esaltazione della gloria italiana che era diventato come l’inevitabile situazione patetica e quasi il sottofondo morale di questa storiografia. Sicché nell’Histoire littéraire possono trovare luogo anche talune sorprendenti revisioni di ingiuste sentenze pronunziate dal Voltaire contro nostri scrittori. Tutti gli aspetti fin qui esaminati sembrano dunque ricondurre l’Histoire del Ginguené alle strutture consuete della tradizione storiografica del secolo decimottavo, e, nella loro totale assenza di modernità, non riescono a spiegare l’influenza da essa esercitata in Italia. Eppure l’efficacia di questo lavoro è fondata e pienamente giustificabile. La vera novità dell’opera del Ginguené deve essere cercata in un’altra direzione, in qualcosa di meno puntualmente calcolabile, vale a dire nel tono diffuso, nell’atmosfera che circola in queste pagine, e che si sarebbe tentati di riportare a un nuovo atteggiamento critico e a una rinnovata sensibilità letteraria, se tali affermazioni non esigessero un troppo circospetto e documentato controllo. Il contegno del Ginguené di fronte ai monumenti della nostra letteratura non procede da una nuova e consapevole impostazione critica, e neppure si può dire che nasca semplicemente da una spiccata vivacità di gusto. L’opinione molto favorevole che è stata autorevolmente Ivi, p. ix. . 21 Cfr. sopra, p. 101. 20

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pronunziata sul Ginguené22 non può essere accettata senza riserve, specie per i fraintendimenti a cui nella sua genericità può dar luogo. Il modo di comportarsi dello scrittore di fronte alle opere della nostra letteratura si riduce in realtà, nei casi migliori, a qualche indovinata parola definitoria, a una felice espressione caratterizzante, a qualche garbata parafrasi, a un sunto vivace. Ma quel che conta è proprio questa iniziale (e sia pur superficialissima e tutta esteriore) presa di contatto con i testi dei nostri autori. Poco importa se il Ginguené si accosti con inadeguata preparazione critica ai capolavori della letteratura italiana, quel che vale è proprio di per sé questo semplice accostamento, questo rivolgere finalmente l’attenzione all’essenziale. L’aspetto più caratteristico dell’Histoire littéraire è dato dal gran numero di sunti di opere nei quali specialmente ama indugiare l’autore. E questa particolarità sottolineavano tanto il Botta quanto il Fauriel, traendone motivo di entusiastici elogi23. Mentre l’inclemente giudizio che ne darà il Tommaseo24, spostava polemicamente i termini della questione, esprimendo le istanze di una più avanzata storiografia, senza tener conto del significato che veniva ad assumere nei confronti del passato questo ideale contegno del Ginguené. Con esso invero lo studioso francese superava la tradizionale indifferenza propria degli storici della letteratura verso la sostanza delle opere degli scrittori, aprendo la strada a un primo concreto affiatamento con l’opera d’arte, la quale diventava finalmente, dopo tanti sforzi e tentativi, centro di convergenza dell’interesse storiografico. Perciò se si volesse indicare in maniera tangibile la particolare novità di questo lavoro, si dovrebbe proprio porre il dito sui molti sunti di opere di cui è intessuta l’Histoire. Si potrebbe dire che l’apporto nuovo del Ginguené consista precisamente nel sostituire alla esplorazione erudita di estrinseche notizie propria del Tiraboschi, l’esplorazione all’interno delle scritture letterarie, un’esplorazione, anche se svolta nel più superficiale senso contenutistico, implicante a suo modo, e certo in modo difficilmente invalidabile, la necessità di una maggiore conoscenza degli autentici documenti della letteratura. Il Ginguené, pur appartenendo ancora come educazione al secolo illuminato e pur rimanendo estraneo alla nuova mentalità romantica25, 22 «[era] un giudice accorto, e mirava con la sua critica ai pregi essenziali della poesia, principalmente il sentimento, l’invenzione, la fantasia, la grandiosità dei concetti, l’umanità: onde le bellissime analisi, che riescono spesso a sceverare queste qualità», N. Zingarelli, in Enciclopedia Italiana, vol. XVII, alla voce Ginguené. 23 Il Botta nel «Moniteur universel» del 10 agosto 1812; il Fauriel nel «Mercure de France» del 7 settembre 1811. 24 Cfr. oltre, p. 133. 25 Cfr. P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes, Paris: Hachette, 1910, p. 445: «Son rôle fut de résister au XIX siècle plutôt que de l’accepter». E vedi anche M. Zini, “Il

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nelle sue pagine sa accostarsi alle opere degli scrittori, se non con una maggiore consapevolezza critica, certo con una amorosa fedeltà rimasta ignota alla nostra tradizione erudita. Egli in tal modo, mediante opportuni sunti e fresche parafrasi e succose frasi impressionistiche, riesce a far sentire nella narrazione come una lontana eco delle pagine esaminate, giungendo così a scrivere quella storia di opere che fin dai tempi del Tiraboschi si desiderava sostituire all’ancora imperante storia di scrittori. Il grande favore con cui fu accolta in Italia l’Histoire littéraire d’Italie è testimoniato non soltanto dalle già citate traduzioni ed edizioni che di essa si fecero, ma anche e soprattutto dai giudizi pronunziati dai letterati del tempo. Abbiamo già riferito la sentenza dell’Ugoni, che è del biennio 18201822. Ma ad essa si potrebbero affiancare molte altre parole di consenso e di entusiasmo. E converrà anzi ricordarne qualcuna, non tanto semplicemente per delineare un diagramma della fortuna di questo scrittore, quanto piuttosto per illuminare, attraverso l’eco destata dalla sua opera in Italia, un paragrafo di questo importante capitolo della nostra storia culturale. E subito, per la sua importanza, si presenta l’opinione del Foscolo, che in uno scritto del 1825, considerava «elegantissima critica» quella applicata dal Ginguené alla Divina Commedia, e ricordava lo storico francese, insieme al Simondi, fra coloro «da’ quali la storia civile e letteraria degli italiani fu fatta più luminosa ed attraente all’Europa», mentre altrove di lui parlava come di «uno de’ critici più eleganti e più celebri dell’età nostra»26; un’opinione che, a non tenere presente l’angolo visuale dal quale occorre considerare questo autore, potrà persino apparire dettata da retorica esagerazione. Così, nel 1828 un critico del valore di Mazzini nominava il Ginguené tra quelli che, con il Sismondi e il Salfi, «si slanciarono animosi sul nuovo sentiero» della moderna concezione della storiografia letteraria27. Ma già prima, nel 1823, sull’«Antologia», un critico acuto, Francesco Salfi, in un «elogio» del Ginguené, anticipava questi giudizi, ponendo in rilievo le qualità che rendevano superiore l’Histoire littéraire d’Italie sullo sfondo della tradizione precedente. Fra i meriti attribuiti allo storico, egli additava in particolare lo

Ginguené e la letteratura italiana”, in «Giornale storico della letteratura italiana», vol. XCVI (1930), p. 13. 26 U. Foscolo, Discorso sul testo della “Commedia” di Dante cit., pp. 191 e 370, 207; Sulla lingua italiana. Discorsi sei, in Opere cit., vol. IV, p. 196. 27 G. Mazzini, Rec. alla Storia della letteratura antica e moderna di Federico di Schlegel, in Scritti letterari, con un saggio di E. Nencioni, Milano: Istituto Editoriale Italiano, s.a., vol. I, pp. 78-79.

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spirito filosofico, del quale è debitore l’autore al suo secolo e alla sua nazione, spirito che combina gli oggetti di letteratura e di filosofia con gli interessi della religione e della politica [...] e ci fa conoscere l’indole degli autori e delle opere loro non solo, ma quella ancora della nazione e del secolo che li ha prodotti28.

Che in questa sentenza del Salfi il giudizio fosse dei più felici e dei più appropriati non ci sentiremmo di affermarlo. Anzi diciamo pure che in esso è facile sorprendere un reale sfasamento, dovuto al tentativo di cogliere il valore dell’Histoire littéraire. Ma anche se accade più di una volta che i contemporanei non riescano a percepire i veri motivi dell’efficacia di un’opera sulla cultura loro propria, resta però sempre significativa la testimonianza dell’efficacia indiscutibilmente esercitata nello sforzo di cercarne le ragioni. È ancora una prova del consenso con cui fu accolto il lavoro del francese, quel che si poteva leggere, qualche anno più tardi, sulla stessa «Antologia»: Prima di Ginguené (questa confessione ci costa, ma l’amor del vero lo esige), si erano raccolti con molta diligenza i materiali della nostra storia letteraria, nessuno ancora l’aveva scritta29.

Dove con una simpatica lealtà e con un ingenuo timore di esterofilia, si riconosceva il pregio singolare di questa storia letteraria. Anche un’altra importante rivista, la «Biblioteca italiana», nell’agosto 1818, pubblicava un articolo molto sintomatico, in cui il Ginguené era indicato, con altri illustri nomi, tra gli innovatori della storiografia letteraria: lo Schlegel cercando tutta la storia della letteratura drammatica; e il Genguené [sic] e il Sismondi svolgendo quanto spetta alle lettere italiane, se non sempre hanno toccato il vero, non pertanto portarono assai opinioni che vogliono essere maturamente considerate [...]; per un tal esame gl’italiani profitterebbero nell’arte critica, che fin ora è facoltà più degli stranieri che nostra: giacché sembra che noi non sappiamo servare altro modo che quello di prodigare soverchie lodi agli estinti...30

E più tardi la stessa rivista, ricordando la traduzione del Perotti, scriveva:

“Elogio di P.L. Ginguené”, in «Antologia», XII (1823), n. 35, p. 89. Rec. alla Histoire littéraire di P.L. Ginguené, anonima, in «Antologia», XXIV (1826), n. 70, p. 138. 30 G. Scalvini, rec. al Compendio della storia della bella letteratura greca, latina e italiana… di G.M. Cardella, in «Biblioteca italiana», XI (1818), p. 153. 28 29

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Quanto all’opera del sig. Ginguené non v’é che ridire. È certamente il più bell’omaggio che uno straniero potesse fare alle lettere italiane, ed è infinitamente al di sopra di tutte quelle opere che noi abbiamo su tale argomento31.

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Del resto, perfino un illustre letterato, tipico rappresentante della critica tradizionale, Pietro Giordani, i cui scritti appaiono ancora tutti gravati dalle ipoteche della critica classicistica, scrivendo nel 1817 al discepolo Pompeo dal Toso, che a lui si rivolgeva per consigliarsi nelle sue letture, affermava: Preferirò sempre gli autori nostri agli stranieri. Ma due francesi hanno trattato la letteratura e la politica italiana tanto incomparabilmente bene, che mi parrebbe pazzia, non raccomandarglieli caldamente. Piuttosto che annoiarsi col Tiraboschi, o ingombrarsi di falsità ed inezie col Corniani, legga la storia della letteratura italiana nell’ingegnosissimo e giudiziosissimo Ginguené. Legga le republiche del medio evo del Sismondi32.

Tale concorde testimonianza, proveniente da tante e così diverse parti e dilagante per tutti gli anni intorno al 1820, dimostra a sufficienza quanto larga eco destasse nella penisola l’opera dello scrittore francese. Com’è naturale, i favorevoli giudizi con il passare del tempo erano destinati ad affievolirsi e a mutare, secondo non poteva non accadere con il modificarsi delle prospettive e delle esigenze storiografiche, ma ciò non impedisce di riconoscere l’influenza esercitata in questo periodo dalla Histoire de la littérature italienne sulla cultura storiografica italiana, e di indicare in essa una forza di primaria importanza nel movimento storiografico che caratterizza gli inizi dell’Ottocento. Questa rapida documentazione nella quale si trova tante volte unito il nome del Ginguené a quello del Sismondi, anticipa la notizia della diffusione e dell’influsso esercitato in Italia dall’opera del celebre scrittore di Ginevra. In questi anni, invero, il Sismondi veniva componendo e pubblicando la sua opera De la littérature du Midi de l’Europe, edita a Parigi negli anni dal 1813 al 1829 in quattro volumi, e tradotta poi, nella parte riguardante la nostra letteratura, da Giovanni Gherardini (Della letteratura italiana dal secolo XIV fino al principio del secolo XIX, trattato di J.G.L. Simonde De’ Sismondi) in due volumi usciti a Milano nel 1820, contenenti, il primo, il periodo dalle origini al secolo XVI, il secondo, quello dal secolo XVI a tutto il secolo XVIII (di Rec. a Storia della letteratura italiana di P.L. Ginguené, in «Biblioteca italiana», XXXII (1823), p. 249. 32 P. Giordani, Lettere, a cura di G. Ferretti, Bari: Laterza, 1937, vol. I, pp. 107-108. 31

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questa traduzione una ristampa si ebbe poi a Genova nel 1830). L’intelligente amicizia del Sismondi con la Staël, la sua formazione nel singolare ambiente di Coppet dove si respirava uno dei climi intellettuali più stimolanti d’Europa, l’incontro con personalità come quelle di August Wilhelm Schlegel, di Benjamin Constant, di Prosper de Barante, di Charles Victor de Bonstetten, sembrano già garantire sufficientemente l’interesse della sua costruzione storica, che tanta risonanza doveva destare nella nostra cultura storiografica letteraria. La Littérature du Midi, come dice il titolo, vuol essere una narrazione delle varie letterature del mezzogiorno d’Europa (la distinzione fra le letterature del Nord e quelle del Sud costituiva uno dei temi più comuni nel salotto di Coppet), dall’araba alla provenzale, alla spagnola, alla portoghese, all’italiana. Il bisogno di allargare lo sguardo alle varie letterature si presenta subito, nel motivo che lo sollecita e lo guida, come una tendenza romantica assai diffusa (si pensi a Madame de Staël, agli Schlegel, al Bouterweck), e risulta un fatto ormai indipendente dal gusto erudito enciclopedico settecentesco dell’Andrés, o dall’inclinazione retorica universalizzante congiunta a un comparatismo patriottico volto a stabilire il primato della letteratura italiana del Quadrio, o infine dal vivace cosmopolitismo di cultura proprio del Denina. Esso si giustifica invece per una più consapevole coscienza storiografica, per la volontà di una più penetrante illuminazione provocata dal vicendevole accostamento delle diverse letterature, che scoprivano così le loro inconfondibili caratteristiche, oltreché per specifiche ideologie di fratellanza e collaborazione tra i popoli favorite dalla reciproca conoscenza delle vicende storiche. L’opera del Sismondi, per tale vastità di interessi, rivela, come è stato detto con suggestiva verità, un’impronta geograficamente ben determinata: il suo schietto carattere ginevrino («livre très genevois par son information européenne, son souci moral, son cosmopolitisme»33). In questo panorama delle letterature meridionali, la letteratura italiana occupa idealmente il centro dell’opera. A essa è dedicato infatti un terzo circa dell’intero lavoro, sicché il Bonstetten, parlando della pubblicazione dell’opera del Sismondi34, poteva senz’altro chiamarla «son livre sur la littérature italienne»35. Alla nostra letteratura, del resto, è dedicato l’impegno più pro33 A. Thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, Paris: Stock, 1936, p. 63, . 34 C. Pellegrini, Il Sismondi e la storia delle letterature dell’Europa meridionale, Genève: L.S. Olschki, 1926, p. 72. 35 Ch.V. Bonstetten’s Briefe, Frankfurt a. M.: W. Schaefer’s buchhandlung, 1829, vol. II, p. 51.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

fondo dell’autore, che a queste pagine affida i temi essenziali della propria intuizione storiografica. Tratteremo pertanto della Littérature du Midi con esclusivo riferimento a questa parte, anche perché in essa consiste il motivo dell’influenza esercitata da detta opera in Italia. La storia del Sismondi risulta, in misura assai diversa dalla storia del Ginguené, dominata da una consapevolezza critica e sostenuta da una capacità di valutazione della poesia, che l’allontanano dagli antichi esemplari storiografici. Il Sismondi si rivela ormai aperto, nel suo modo di accostarsi all’opera d’arte, alla nuova sensibilità estetica romantica. Il nuovo gusto si manifesta come diffusa atmosfera e, in forma più esplicita, si traduce in alcuni particolari atteggiamenti, e soprattutto, per esemplificare in maniera concreta e molto sintomatica, nella preferenza accordata, nella valutazione del poema dantesco, alla prima delle tre cantiche, quella appunto in cui sembra incarnarsi l’eterna situazione di Sturm und Drang dello spirito umano, e ancora nel culto intensamente professato per la poesia travagliata e dolente del Tasso. Senza dubbio il Sismondi, in cui si rende acutamente sensibile in tutte le sue variazioni e incertezze il passaggio fra Illuminismo e Romanticismo36, rimane sovente al di qua della rinnovata intelligenza romantica dell’opera d’arte. Tuttavia la sua larga esperienza umana e la sua fervida cultura gli permettono quasi sempre di animare criticamente l’opera presa in esame, e di giungere a una comprensione viva per la molteplicità degli interessi che lo impegnano. Queste considerazioni, se sembrano trascendere il nostro assunto ed esigere di venir trattate piuttosto in sede di storia della critica e magari di storia della estetica, richiedono tuttavia, quando si badi al peso di simili problemi per la comprensione dello sviluppo della storia letteraria, di essere tenute costantemente presenti. Come infatti la condizione della critica classica non era estranea al formarsi di una storiografia di carattere retorico-precettistico né di quella di tipo erudito-biografico (dove le notizie si direbbero invocate a riempire gli ideali spazi lasciati vuoti dal secco e frammentario giudicare proprio di tale critica); così a maggior ragione, in un’epoca in cui si è ormai legittimata la narrazione storica delle vicende letterarie, e si trova pronto uno schema fondamentale di ricerca, non potrà davvero riuscire indifferente, per le sue capacità di incidere sulla fisionomia della storia, la situazione della critica e dei contenuti a cui essa doveva dare luogo. Ed è certo che con la struttura della storia istituisce un diretto rapporto il comportamento del gusto dell’autore, nel suo vario atteggiarsi. A questo proposito, è interessante notare come il gusto del Sismondi, alla luce della nostra moderna esperienza, risulti ancora incerto e non esente da 36

Si confronti R. Ramat, Sismondi e il mito di Ginevra, Firenze: Sansoni, 1936, p. 38.

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squilibri nella collocazione prospettica dei vari scrittori. Così, ad esempio, il Parini non viene trattato con un sufficiente sviluppo, e anzi appare addirittura schiacciato nelle dimensioni ridotte e falsate del discorso critico, che ne collocano indifferentemente la figura e l’opera, senza nessun particolare rilievo, sullo stesso piano del Savioli. Il Guicciardini poi non riesce neppure a trovare, nell’ambito di queste pagine, la possibilità di una riposata menzione critica. Tale esclusione del Guicciardini viene per altro giustificata dal Sismondi con parole che sembrano accennare all’impostazione di un problema storiografico di non lieve portata: le mérite littéraire, celui de l’expression, n’est que secondaire: c’est d’après la profondeur de pensée, et d’après la véracité, qu’on assigne le rang des historiens; et pour porter un jugement sur Guicciardini, il faudrait sortir absolument des bornes que nous nous sommes prescrites dans un sujet déjà assez vaste par lui-même37.

Dove si direbbe che affiori una concezione storiografica ben definita: l’idea precisamente della storia letteraria come storia di poesia, o almeno storia dell’espressione letteraria, contro la tradizionale idea della storia letteraria come storia della cultura. Alla narrazione di “contenuti”, tipicamente offerta dall’opera del Ginguené, verrebbe dunque a sostituirsi con il Sismondi, in una più adulta coscienza critica, un resoconto di “forme”. Senonché lo storico ginevrino, come prova l’esame dell’opera considerata nella sua totalità, esprime qui un’idea destinata a rimanere allo stato puramente episodico e incidentale, senza trasformarsi in un’intuizione dinamica, capace di informare l’intero lavoro. In realtà la Littérature du Midi, se anche si dimostra per lo più attenta ai valori di espressione e riesce, nella misura consentita dalla situazione dell’estetica e della critica contemporanea, a dare vita a una storia della poesia, si riduce in molte pagine a una mera rappresentazione di contenuti variamente reagenti, e si comporta troppo spesso come una vera e propria storia della cultura, assumendo nella sua trama narrativa autori assai meno significativi del Guicciardini, il quale del resto, in una riposata storia della letteratura, lungi dall’essere escluso dalla vicenda artistica, meriterebbe un ampio discorso proprio per la risentita bellezza della sua prosa. J.C.L. Simonde de Sismondi, De la littérature du Midi de l’Europe, Paris: Treuttel et Würtz, 1813, vol. II, p. 237. . 37

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Ma, al di là di tutto questo, il lavoro del Sismondi offre un motivo di particolare interesse per un’autentica innovazione storiografica, la quale basta di per sé a spiegare la larga influenza esercitata in Italia. Per la prima volta infatti, per opera del Sismondi, la letteratura italiana veniva sottoposta al tentativo di un esame svolto alla luce di un unitario concetto informatore, quello appunto della letteratura come espressione della società. Questo concetto, che si trova formulato per la prima volta in alcuni scritti del De Bonald38, fu sistematicamente applicato dal De Barante nel Tableau de la littérature française au XVIII e siècle del 1809, e lo si ritrova nella Staël e negli Schlegel39. Tuttavia la prima introduzione di questo motivo storiografico in una trattazione sistematica della nostra storia letteraria si ebbe proprio con il Sismondi. Il concetto della letteratura espressione della società, alla luce di una rigorosa analisi storica e filosofica, si dimostra tutt’altro che solidamente fondato, come del resto prova la sua stessa polivalenza di significato, che ora pare accostarsi a quello statico della letteratura come specchio ed eco fedele della società e ora invece a quello dinamico della letteratura come prodotto e risultato del progresso della società, per lasciare le altre possibilità d’interpretazione a sfondo pedagogico-sociologico posteriormente affiorate. Ma qualunque debba essere il senso con cui si può legittimamente introdurre questo concetto (ed è difficile determinare con esattezza a quale precisamente si accosti il Sismondi, nell’incerto e vario modo con cui l’adopra) e per quanto insufficiente, alla luce della moderna esperienza storiografica, esso debba apparire, risulta pur sempre un elemento positivo, costituendo indubbiamente un progresso rispetto ai principi o all’assenza di principi su cui erano costruite le precedenti storie letterarie. Mediante questo schema, la forma ancora intimamente frammentaria e rapsodica dell’antiquata storiografia veniva superata in una visione unitaria e articolata. Alla serie monografica e alla narrazione estrinsecamente continua, con l’intervento di questo modulo esegetico si sostituiva una sintesi storica impostata su una coerente linea di sviluppo. La storia della letteratura, abbandonata fino allora ad archivistiche esercitazioni o a monadistiche raccolte di medaglioni su opere o autori, trovava in tal maniera un’idea critica capace di fondarla in un problema, in Questa idea appare la prima volta nel quarto capitolo della sua Théorie du pouvoir, che è del 1794; venne ripresa poi in un articolo apparso nel 1801 sul «Mercure»; e ancora nel suo trattato, dell’anno seguente, De la législation primitive; e finalmente nello scritto Du style et de la littérature del 1806 (cfr. A. Michiels, Histoire des idées littéraires en France au XIX e siècle, Paris: E. Dentu, 18634, vol. I, pp. 465 ss.). 39 Cfr. A. Michiels, Histoire des idées littéraires en France au XIX e siècle cit., vol. I, pp. 519 ss. Cfr. anche B. Croce, La letteratura come «espressione della società», in Problemi di estetica, cit., pp. 56 ss. 38

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PRELUDI STORIOGRAFICI OTTOCENTESCHI

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una struttura organica, insomma di renderla finalmente storia. Il Sismondi, accogliendo questo fertile suggerimento diffuso nel proprio ambiente culturale, poteva scrivere la sua storia con quella novità di impostazione e di trattazione che ne giustifica l’ampio successo fra i contemporanei. Anche se il concetto rimane in lui oscillante e viene applicato con incertezza, questo non impedisce che tale primo tentativo di interpretazione unitaria della storia della nostra letteratura risulti di una notevole importanza. Così, in virtù del fecondo influsso di questo criterio d’interpretazione, la storia politica non sta più nell’opera del Sismondi quale semplice erudito ingrediente, posto sulla soglia dell’esame dei vari periodi della vicenda letteraria, come avveniva nel Tiraboschi, né si trova più nella condizione di un estrinseco termine di rapporto nello studio delle episodiche influenze fra storia e letteratura, come ancora accade nel Ginguené, ma viene avvertita come un termine vitale nel ritmo di svolgimento della civiltà letteraria. L’autore dichiara infatti di volere «montrer l’influence réciproque de l’histoire politique et religieuse des peuples sur leur littérature, et de leur littérature sur leur caractère»40. Parole che denunziano come nell’esercizio storiografico fosse ormai in questione non più la raccolta di un insieme di documenti che invocano un’illustrazione e un inquadramento, ma l’esame di tutto un vasto processo storico che si realizza attraverso un complesso intreccio di scambi e di influenze. La letteratura, posta in relazione diretta con la storia politica e religiosa, veniva in tal modo ad arricchirsi provvisoriamente di una ossatura e a configurarsi in un processo di sviluppo, superando così definitivamente la forma catalogica della precedente storiografia, e proponendo alla cultura contemporanea un modello destinato a riuscire esemplare. Queste ragioni spiegano (e le testimonianze riportate per il Ginguené, a cui il nome del Sismondi fu unito per un pezzo, lo confermano) il largo influsso esercitato sulla cultura italiana dalla Littérature du Midi. Il significato di questa importante opera, associata in un primo tempo, con ingenua indiscriminazione, in un unico elogio con l’Histoire littéraire del Ginguené, doveva ben presto venire riconosciuto in tutta la sua originalità e superiorità, sì da far dimenticare, o comunque porre su un diverso piano, la storia dell’altro straniero suo predecessore. In questi due momenti della “fortuna” del Sismondi in Italia (prima confusa con quella del Ginguené e poi da essa distinta) si potrebbe anzi scorgere un indice abbastanza sintomatico del graduale sviluppo della sensibilità storiografica nella vita intellettuale italiana. J.C.L. Simonde de Sismondi, De la littérature du Midi de l’Europe cit., vol. I, p. II, . 40

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L’opinione del Berchet, che parlava con ironia degli ammiratori del Ginguené («i comprafumo si strinsero al seno il libro del sig. Ginguené e lo predicarono la perfezione delle perfezioni»41) e mostrava di distinguere acutamente fra le opere di lui e quelle del Sismondi42, sta perciò a segnare il primo manifestarsi dell’avvenuta maturazione della nostra coscienza storiografica. Ma questo capitolo sulla situazione della storiografia letteraria agli inizi del secolo decimonono, non può essere chiuso senza accennare ad alcune altre presenze che agirono positivamente sulla nostra cultura, e la cui registrazione gioverà a completare il quadro degli scambi europei sul piano del problema della storia letteraria. Accanto alle storie del Ginguené e del Sismondi dovrebbero essere ricordate alcune altre opere storiche, come la Geschichte der alten und neuen Literatur di Federico Schlegel, tradotta dall’Ambrosoli nel 182843, che soprattutto per i vasti inquadramenti di periodi letterari e le sintetiche delineazioni di correnti storiche parve rispondere alle istanze del nuovo gusto storiografico; il lavoro di Federico Bouterweck, Geschichte der Poesie und Beredsamkeit seit dem Ende des dreizehnten Jahrhunderts, uscito a Gottinga, negli anni compresi fra il 1801 e il 1819, in dodici volumi (di cui i primi due dedicati all’Italia), che offrono un compiuto esame di quasi tutte le letterature dell’Europa moderna; e infine la ricerca di A.G. Schlegel Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur del 1808, meno significativa per quanto riguarda il disegno storiografico, ma assai importante per il contenuto critico. Veramente, l’azione di tutte queste opere sembra esercitarsi non tanto in ordine al particolare problema della formazione di una struttura storiografica, quanto piuttosto sotto l’aspetto dell’esemplarità di una sostanza critica più efficace alla comprensione della poesia. Tuttavia l’impossibilità di separare nettamente le due forme di attività, storica e critica, e l’effettiva responsabilità che acquista la materia critica nel determinare il finale risultato di una storia letteraria, ci impongono di ricordarle qui come suggestivi modelli tenuti d’occhio dalla nostra cultura. E in effetti queste due opere sono presenti, insieme all’altra del Sismondi e alla storia del Ginguené, come idoleggiati simboli del nuovo orientamento storiografico, in tutte le polemiche e discussioni critiche che occupano i primi decenni dell’Ottocento. G. Berchet, Sulla “Storia della poesia e dell’eloquenza” del Bouterweck, in Id., Opere, a cura di E. Bellorini, Bari: Laterza, 1912, vol. II, p. 93. 42 Ivi, p. 92. 43 F. Schlegel, Storia della letteratura antica e moderna, trad. dal tedesco di F. Ambrosoli, Milano: Società tipografica de’ classici italiani, 1828. 41

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LA DISCUSSIONE STORIOGRAFICA DEL PRIMO OTTOCENTO L’influenza esercitata dal Ginguené, dal Sismondi, dal Bouterweck, dagli Schlegel nel processo di sviluppo della nostra storiografia può essere fissata non tanto in un’opera che ne ripeta i motivi critici e strutturali, in una storia cioè modellata su questi vagheggiati esemplari d’oltralpe, quanto piuttosto nel movimento dell’opinione pubblica letteraria originato da questi scrittori, nella inquietudine critica da essi suscitata, nella maturazione infine di un consapevole problema storiografico. Il primo Ottocento è tutto percorso da echi polemici contro l’antica storiografia, da battute denunzianti le nuove aspirazioni, da spunti in cui affiora la nuova sensibilità storiografica. Naturalmente non si tratta di un fenomeno di mera influenza culturale, di supina imitazione. Alle esigenze nuove che circolavano nello spirito europeo, e delle quali sono simboli i nomi di Sismondi, di Bouterweck, degli Schlegel partecipava e collaborava a modo suo anche l’Italia. Se l’Italia non giunse a esprimere in una concreta opera di storia letteraria questa concezione nuova, non mancò tuttavia di collaborare attivamente al suo divulgarsi, e quindi al suo perpetuo rinnovarsi e perfezionarsi, sia con l’acuta valutazione dimostrata nei riguardi di essa sia con l’assimilazione pronta operata dalla propria cultura. La cultura italiana non solo non rimase estranea a questo movimento di idee e rinnovamento di metodi, ma si può dire che abbia avuto uno dei suoi motivi più caratteristici nella discussione del problema della storiografia letteraria. Agli albori del secolo decimonono, prima ancora che l’apparire dei modelli storiografici stranieri suscitasse più animate occasioni di ripensamenti, di proposte e di risposte, non è difficile trovare in Italia qualche voce che si leva, reagendo ai modi consueti di esame della poesia, a preparare il terreno alla discussione che quei modelli avrebbero poi destata e nutrita. Fin dal 1806, Francesco Torti, nel Prospetto del Parnaso italiano (una specie di silloge

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di profili riguardanti i nostri principali poeti), scriveva parole nelle quali si esprimono a chiare note il fastidio e l’insoddisfazione per tutto il lavorio retorico ed erudito compiuto dal Settecento e dai secoli precedenti:

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Se voi volete acquistarvi delle idee false, frivole, meschine e pedantesche del Parnaso italiano, non avete che ad aprire i pesanti tomi di Landino, Vellutello, Gesualdo, Mazzoni, Fornari, Pellegrini, Salviati, Quadrio, Crescimbeni, Tiraboschi ecc. In questo immenso pelago di commenti, di storie, di erudizioni ammassate e di contese grammaticali, voi vi troverete perduti, smarriti1.

Pertanto egli invitava a guardarsi dal ricorrere «ai nostri vecchi compilatori, che hanno trattato la letteratura più coll’erudizione, che col buon senso»2. Si inaugurava in tal modo un tema polemico che nei decenni successivi avrebbe avuto una larga divulgazione in Italia, e sul cui presupposto doveva essere impostato ogni ulteriore dibattito relativo alla questione storiografica. Tra le prime manifestazioni dell’insofferenza con cui si consideravano le vecchie storie della nostra letteratura, vanno registrate anche le parole che alcuni anni più tardi, nel 1816, scriveva Pietro Borsieri: S’io dimando chi scrive fra noi un corso di letteratura italiana, simile a quello di Laharpe o di Marmontel per la francese, s’io dimando chi commenti i classici come l’Heine, o scriva ora la storia come Herder, Heeren, Müller e Sismondi; s’io dimando quali sieno le nostre opere filosofiche da contrapporsi a quelle di Tracy o di Prévost, avrò probabilmente il rammarico di rimanermi senza risposta [...]. Abbiamo i primi disepellita e posta in onore l’erudizione, ma ov’è un libro italiano che invogli ad amarla? [...] concluderò che possediamo attualmente l’apparenza della coltura ma non la sostanza3.

In queste righe, dove si delinea un puntuale esame di coscienza della nostra cultura, affiora di nuovo la polemica (ma si tratta di una più serena polemica, di una fase più critica, rispetto alla prima passionale reazione) contro l’erudizione settecentesca, della quale si fissano con equilibrio i limiti, avvertendo la portata dell’indagine filologica come un momento preliminare dell’operazione storiografica, momento necessario ma non sufficiente, F. Torti, Prospetto del Parnaso italiano, Milano: Destefanis, 1806, p. 3. Ivi, p. 5. 3 [P. Borsieri], Avventure letterarie di un giorno, Milano: presso Gio. Pietro Giegler, 1816, p. 133. Del Borsieri può essere interessante anche la recensione allo scritto dell’Ugoni sul Corniani, apparsa nel «Conciliatore» del 27 dicembre 1818 (n. XXXIV). 1

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e postulante pertanto un ulteriore scavo, di ordine diverso, da condursi, secondo una direzione di cui si citano quali termini orientativi i lavori di alcuni stranieri. Questo primo sguardo rivolto dal Borsieri oltre i confini, che sarà subito destinato a tradursi in un atteggiamento diffuso, si ferma per ora su alcuni nomi che, almeno per quel che riguarda la storiografia letteraria, dovevano essere successivamente tenuti in poco conto4, ma che, nella condizione di cultura di questi anni, rappresentavano pure delle dignitose e accreditate firme, se una mente della finezza di Sainte-Beuve poteva ancora parlare di La Harpe con equilibrata cordialità («c’est un professeur pur, lucide, animé [...] il a l’élégance facile [...] il était excellent pour donner aux esprits une première et générale teinture»5) e di Marmontel con forse anche maggiore simpatia: il n’a rien écrit de mieux que ses articles à l’Encyclopédie qu’on a recueillis sous le titre d’Eléments de littérature: une instruction variée, des observations de détail ingénieuses, des nuances bien démêlées dans la pensée, une synonymie fine dans la diction, en font un livre qu’on parcourt toujours avec plaisir6.

Comunque, si trattava di una meritoria attenzione, che, facendosi con gli anni sempre più vigile e pronta avrebbe finito assai facilmente con l’aprire la strada verso più compiuti modelli non appena si fossero presentati: e per questa iniziale spinta a considerare lo stato della storiografia straniera, per istituire un utile confronto con la nostra, va apprezzata in tutto il suo valore suggestivo, oltre che documentario di uno stato d’animo, la presa di posizione del Borsieri. A opere straniere, nel recensire una storia letteraria (quella di Giuseppe Cardella), si riportava nuovamente Giovita Scalvini, in un suo articolo pubblicato sulla «Biblioteca Italiana» del 1818, dove tuttavia i termini di Si vedano i giudizi del De Sanctis su La Harpe: «Molti giudicano male della critica francese, perché la guardano a traverso di Boileau e La Harpe»; e ancora: «questo genere di critica a spizzico ed a bocconi è il non plus ultra della scuola antica; il La Harpe in Francia ce ne ha porto splendido esempio», F. De Sanctis, Cours familier de littérature, par m. De Lamartine, in Saggi critici, a cura di P. Arcari, Milano: Treves, 1914, vol. II, p. 9, e La Divina Commedia, versione di F. Lamennais..., in ivi, p. 78. 5 Ch.-A. Sainte-Beuve, Causeries du lundi, Paris s.d.: Garnier, t. V. p. 119, . 6 Ivi, t. IV, p. 536. . 4

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riferimento apparivano mutati e sostituiti precisamente con più moderni ed efficaci esemplari. Ancora una volta però, questa scelta sorgeva non sulla base di una superficiale esterofilia, ma sul terreno di una profonda insoddisfazione delle nostre consunte forme storiografiche, la quale spingeva a cercare altrove esperienze più stimolanti, con un’iniziativa che rendeva in certo modo originale e indipendente lo stesso volgersi a dei modelli. In queste pagine la battaglia contro la storiografia settecentesca era condotta in nome di un ideale di vita che si legava consapevolmente, senza possibilità di distinzione, in stretta sintesi, a un ideale di cultura. L’articolo infatti concludeva additando nella situazione sociale e psicologica degli autori la deficienza della antica e sorpassata storiografia letteraria: or concludiamo, non potersi la storia della letteratura degnamente scrivere da quegli uomini che, chiusi ne’ collegi e ne’ seminari, sono impediti a conoscere di che modo le lettere partecipino alle virtù ed a’ vizi della vasta società; e non sanno dipartirsi dai circoscritti giudici che hanno sentito pronunciare dalle cattedre: né da coloro che non hanno mente e dottrina per investigare le vere cagioni dell’incremento e della decadenza di ogni arte gentile; non fantasia e cuore acceso per vagheggiare le forme del bello; non eloquenza per innamorarne chi è dalla natura chiamato a conoscerle; non soprastante intelletto per non lasciarsi sedurre agli usi, alle opinioni e superstizioni del secolo e paese loro7.

Questa urgente richiesta di mantenere saldi, nella ricerca storica, i legami con la fremente realtà della vita (nel senso di una concreta esperienza sociale ed estetica ritenuta essenziale al critico) si annunzia come un motivo schiettamente romantico, in netto contrasto con l’antiquata storiografia, circoscritta nell’umbratile sfera di un’astratta mentalità accademica, e lascia ormai presentire, nell’ansia di un’indagine nutrita di sentimento della bellezza e di sapienza di cose vissute, alcuni dei temi più cari alla speculazione storiografica foscoliana. Nello stesso anno 1818, sul «Conciliatore», con un impegno più decisivo e sistematico, affrontava il problema della storia letteraria il Berchet. In alcuni importanti articoli, che traevano occasione dall’esame dell’opera del Bouterweck, egli interveniva a fondo nella dibattuta e ormai appassionante questione critica. Ricompare nel Berchet il motivo comune della polemica contro la storiografia del Settecento e il suo massimo rappresentante, il 7 G. Scalvini, rec. al Compendio della storia della bella letteratura greca, latina e italiana… di G.M. Cardella, in «Biblioteca italiana» cit., p. 159.

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Tiraboschi. Ma tale motivo acquista in lui una ricchezza tutta particolare, caricandosi di più complesse ragioni. Non si tratta semplicemente, per il romantico patriota e poeta, di un istintivo fastidio per la pedantesca erudizione, o di una legittima volontà di superare il limite di essa sulla scorta di alcuni suggestivi modelli stranieri o, ancora, di un confuso bisogno di una storiografia ispirata da una vissuta esperienza umana, ma di una più consapevole e universale richiesta: Noi abbiamo in Italia storie della nostra letteratura quante ne vogliamo. Il Crescimbeni, il Quadrio, il Fontanini ed altri ci furono prodighi di notizie biografiche e bibliografiche intorno ai sommi, ai mediocri, agli infimi scrittori italiani, sicché non vi ha curiosità che vinca la lor profusione. Ma se pei padri nostri potevano bastare quelle congerie di notizie pressoché nude d’ogni filosofia, non bastano ora più per noi: da che i progressi dello spirito umano non ci permettono più di regalare la nostra attenzione alla sola pazientissima flemma d’un raccoglitor di memorie; e studi più importanti hanno svegliato ora in noi una tendenza filosofica, costantemente operosa, la quale ci fa vogliosi di conoscere, più che le cose, le cagioni di esse8.

Si manifesta qui il tema fondamentale che informa le pagine del Berchet, vale a dire l’esigenza di una «filosofia» che presieda alla «storia», la richiesta di una conoscenza che vada al di là delle «cose» per indagare le «ragioni di esse». Anche il Settecento non aveva mancato di proclamare ripetutamente il proprio ideale di una storia «filosofica». Senonché tale ideale, disgiunto come era da un fondamento di nutrita erudizione, e contrapposto in certo modo alla ricerca erudita, finiva col rivelare la sua genericità e inconsistenza. La posizione del Berchet, invece, rappresentava senza dubbio un progresso, in quanto la sua istanza muoveva dall’accertamento erudito per tendere a una verità filosoficamente vagliata. In tal modo poteva venire superata l’estrinseca narrazione dei fatti in un’indagine intesa a scorgere, oltre il fenomeno, una più nascosta e profonda realtà. Questo ideale contegno del Berchet va dunque registrato come un vigoroso incitamento a nutrire di sostanza critica la piana e monotona esposizione di fatti e notizie. Nella sentenza pronunziata dal Berchet contro le forme storiografiche settecentesche, il Tiraboschi, se veniva fatto segno a un’aperta disapprovazione per la sua mancanza di filosofia, era tuttavia additato come degno della nostra gratitudine per la sua meritoria attività erudita:

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G. Berchet, Sulla “Storia della poesia e dell’eloquenza” del Bouterweck cit., p. 90.

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Per rispetto al Tiraboschi, a cui dobbiamo esser grati di molte notizie erudite, noi speriamo che le persone scevre da’ pregiudizi non vorranno biasimarci se ci facciamo lecito di dire che a lui mancava perfino quella filosofia che i tempi potevano dargli9.

L’attività erudita non veniva dunque rinnegata e misconosciuta nella sua necessaria funzione, ma solo respinta nella sua pretesa di porsi come valore autonomo e assoluto. Accanto e oltre l’attività filologica, quale momento superiore e conclusivo, veniva affermata la necessità di un’operazione critica filosoficamente fondata. L’ottima storia della letteratura avrebbe insomma dovuto raccogliere in sé i pregi di una ricerca erudita del tipo dell’opera tiraboschiana e insieme quelli di un’interpretazione filosofica. Il connubio tra i metodi del Muratori e del Vico, che fu il sogno costante dei nostri letterati del secolo scorso10, conferiva un accento di modernità alle istanze del Berchet. Alla luce di questa adulta coscienza critica, per l’autore della Lettera semiseria di Grisostomo nemmeno la storia del Ginguené poteva più sembrare adeguata: Il signor Ginguené scrisse in Francia l’intera storia della letteratura italiana. La conoscenza profonda, e rara oltremodo in un francese, ch’egli manifestò avere della lingua nostra e delle nostre lettere, l’amore sincero con cui ne parlò, le lodi che ci versò sul capo a piene mani gli meritano il tributo della nostra gratitudine. Ma se si pensa che il signor Ginguené scriveva il suo libro dopo l’anno 1810 ed in Francia, che è quanto dire un trent’anni dopo quello del Tiraboschi ed in paese più illuminato del nostro, chi vorrà perdonare a lui la penuria di filosofia? Un uomo che, per quanto sembri internarsi colla veduta, guarda pur sempre la sola suIvi, p. 91. G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Milano: Treves, 19202, p. 251. Per l’ideale di una storiografia capace di contemperare i pregi di Vico e quelli di Muratori si tengano presenti le pagine di A. Manzoni nel Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia (che è del 1822) : «Osservando i lavori del Muratori e del Vico, par quasi di vedere, con ammirazione e con dispiacere ad un tempo, due grandi forze disunite, e d’intravedere un grande effetto che sarebbe prodotto dalla loro riunione. Nella moltitudine delle notizie positive e dei giudizi talvolta esatti, ma sempre speciali, in mezzo a cui vi pone il primo, come si desiderano le viste generali del secondo, quasi uno sguardo più acuto, più lontano, più istantaneo, per iscorgere grandi masse in una volta, per avere un senso unico e lucido di tante parti che separate appaiono picciole ed oscure, per trasformare in dottrina vitale, in scienza perpetua tante cognizioni senza principi e senza conseguenze! E seguendo il Vico nelle aride e troppo spesso ipotetiche sue classificazioni, come si vorrebbe progredire colla scorta di fatti molteplici e severamente discussi, per gustare quell’alto diletto mentale, che le rivelazioni dell’ingegno non possono produrre che per mezzo dell’evidenza!». 9

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perficie delle cose, e ad ogni tratto ti esclama: «bravo! bello»! senza mai arricchirti il capo d’una nuova idea che ti faccia sentire la ragione delle sue lodi, non è l’uomo del secolo, non fa più per noi11.

Il tema critico che insistentemente ritorna è quel richiamo alle «idee», alla «filosofia», senza la cui presenza non è ritenuta possibile un’autentica storia letteraria. Con questa costante richiesta di una storia filosofica, intesa non più nel senso settecentesco, come opposizione alla storia erudita, ma, più profondamente, come unitaria sintesi di accertamento filologico e di inchiesta speculativa, si inaugurava il nuovo concetto che avrebbe dovuto informare, quale motivo fondamentale, il problema della storia della letteratura. Questa filosofia, di cui si predicava ed invocava l’intervento, destinata a fecondare il racconto dello svolgersi della letteratura, se era anche intesa, nell’accezione per noi più spontanea, come una disciplina dell’intelletto capace di vivificare criticamente l’incondita materia raccolta ed elaborata dagli eruditi, sì da potersi ritenere come sinonimo di spirito critico, d’altra parte finiva anche con l’essere interpretata come qualcosa di già costituito, non come una forma della mente ma come un contenuto della mente, insomma un’idea ben determinata suscettibile di venire assunta per dare una struttura alla narrazione storica. Quando il Berchet parla di filosofia, invero, istintivamente si riferisce a una precisa formula da applicarsi come canone ermeneutico alla vicenda letteraria. La filosofia poteva avere nella storia della letteratura, per il Berchet, una sola autentica celebrazione, la quale appunto si attuava nel concetto allora diffuso della letteratura come espressione della società. Scrivere una storia letteraria nutrita di filosofia voleva dire, in sostanza, scrivere una storia in cui fossero individuati e chiariti gli intimi rapporti intercorrenti tra il fenomeno letterario e l’accadimento sociale. Ed era precisamente questa maniera nuova di considerare i fatti quel che dava peso e originalità a un lavoro storico: La novità e l’importanza d’un lavoro storico non consistono unicamente nel narrare fatti non conosciuti in prima, bensì più sovente nella maniera nuova di considerarli12.

Lo scopo era raggiunto quando il resoconto dello svolgimento della letteratura riuscisse nello stesso tempo a essere un resoconto dello sviluppo della civiltà intera di un popolo. Riferendosi agli storiografi del Settecento, il Berchet osservava: 11 12

G. Berchet, Sulla “Storia della poesia e dell’eloquenza” del Bouterweck cit., p. 92. Ivi, p. 94.

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La strettezza de’ vincoli che congiungono sempre le lettere alle opinioni politiche, religiose e morali, a tutta insomma la civilizzazione dei popoli, era tuttavia un mistero in Italia. E però eglino consideravano i libri de’ poeti e de’ prosatori più come semplici azioni individuali che come espressioni della qualità de’ secoli13.

Il principio metodologico implicitamente enunciato in queste parole veniva assorbito nella coscienza storiografica letteraria italiana ottenendo una larga divulgazione, tanto che, ancora molti anni dopo, il Tommaseo doveva attaccare il Tiraboschi, «benemerito erudito, ma gretto», il quale «pare che ponga per massima doversi la storia letteraria tenere scompagnata dalla storia sociale»14, e intitolava per parte sua una raccolta di scritti, Storia civile nella letteraria. Senza contare che persino il De Sanctis, nel suo capolavoro storiografico, non saprà più completamente liberarsi, e sia pure sotto lo stimolo di motivi etici e filosofici diversi, di questa grave eredità trasmessa lungo il corso di tutto l’Ottocento romantico. Questa possibilità di interpretazione “filosofica” della storia letteraria che si esauriva nell’applicare schematicamente un discutibile concetto, doveva necessariamente condurre ad arbitrii e astrazioni gravi di conseguenze, come la pretesa di potere caratterizzare e definire tutta la letteratura di un popolo mediante una formula riassuntiva di un aspetto o di una tendenza. A questa posizione finiva con il rendere omaggio lo stesso Berchet quando rifiutava la proposta del Bouterweck, il quale credeva di potere interpretare l’intera nostra letteratura attribuendo a essa un valore essenzialmente formale, realizzato in un’assenza completa di contenuto etico. E invero il Berchet nell’accusare lo storico tedesco di essere giunto a questa conclusione per avere trascurato la nostra ultima letteratura (Parini, Alfieri, Monti) ricca invece di motivi interiori, si poneva in fondo sullo stesso piano metodologico dello storico straniero, limitandosi a sostituire a una definizione un’altra definizione, e per ciò stesso riconoscendo la legittimità del definire. Del resto, erano, questi, semplici presentimenti, per l’equilibrio con cui si esprimeva un tale contegno, di ulteriori esasperate posizioni. Piuttosto, converrà dare rilievo, nell’obiezione del Berchet, a quell’interessante profilo storiografico che vi è implicitamente abbozzato. Nel sottolineare l’affermarsi di una nuova coscienza morale e civile inaugurata dal Parini, il critico infatti lascia intravedere, in una ormai evidente delineazione, quello che sarà poi il celebre disegno desanctisiano, di ispirazione schiettamente romantica, dello svolgimento del-

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Ivi, p. 76. N. Tommaseo, Storia civile nella letteraria, Torino: Loescher, 1872, Proemio.

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la nostra storia letteraria (Parini primo uomo della nuova letteratura dopo i secoli della decadenza). Questa prospettiva sta perciò a rappresentare uno dei primi contributi, e non dei meno efficaci, a quel vasto lavorio attraverso il quale l’età romantica doveva tentare di imbrigliare il mobile corso della vicenda delle nostre lettere in una complessa e ordinata trama di motivi e temi storiografici, di linee di sviluppo e di sintetici quadri. Sotto questo riguardo, lo schema suggerito dal Berchet rappresentava in qualche modo una collaborazione a quel processo storiografico che doveva portare a due assai diversi risultati, e precisamente da una parte all’accennato tentativo definitorio della storia letteraria mediante un’unica formula riassuntiva, e dall’altra al riposato e disteso esercizio di inquadramento attraverso il quale, anche se con deviazioni empiriche, si cercava di periodizzare e quindi di criticamente pensare la storia delle nostre lettere: due esiti in cui sfociava in effetti un unico orientamento di pensiero, in cui operavano i più diversi miti romantici, da quello nazionalistico a quello storicistico-sociologico, a quello estetico-idealistico. Romantica è pure l’affermazione del Berchet, più volte ripetuta, sulla necessità di superare l’interesse per la letteratura nazionale nell’esame delle altre letterature d’Europa. Questa idea, che, nel suo esteriore enunciato, abbiamo avuto occasione di incontrare altre volte, nasceva in questo caso non tanto su un terreno critico-speculativo, quanto piuttosto su una humus etico-ideologica. E cioè non si affermava solo con essa il bisogno di accrescere, per un obiettivo giudizio della storia letteraria nazionale, la propria esperienza critica, storica ed estetica, nella visione estesa di tutto il movimento letterario europeo, ma si esprimeva soprattutto la necessità di ampliare e approfondire, attraverso la conoscenza della civiltà dei popoli riflessa nella storia letteraria, la propria coscienza politica, in senso nazionale e universale, superando e arricchendo insomma l’amore di patria nel sentimento di umanità: i progressi generali del sapere umano e le recenti vicende politiche insegnarono finalmente anche al maggior numero degli italiani che i popoli attuali d’Europa non formano oggimai altro che una sola famiglia di tutti fratelli15.

In questa impostazione su un principio di altissimo significato etico, il motivo storiografico postulante la necessità di estendere a tutta l’Europa l’indagine sulle diverse letterature assume una determinazione nuova e si arricchisce di un più profondo contenuto critico provando così, se ce ne 15

G. Berchet, Sulla “Storia della poesia e dell’eloquenza” del Bouterweck cit., p. 77.

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fosse bisogno, come atteggiamenti in apparenza identici, trasmessi lungo tutta una tradizione, siano soggetti in realtà a rinnovarsi e ad acquistare sfumature diverse, a seconda dei vari temperamenti intellettuali e delle varie culture in cui via via sono accolti. Accanto alla «Biblioteca italiana» e al «Conciliatore», di cui abbiamo citato gli articoli, si pone successivamente, per la documentazione di questo problema storiografico, un’altra rivista, l’«Antologia». Non è senza significato il fatto che dette riviste, le quali furono testimonianze e strumenti di cultura assai importanti, abbiano discusso con puntuale attenzione il problema della storia letteraria. È un indizio di prim’ordine della divulgazione ottenuta fra gli studiosi italiani dalla questione storiografica che ci interessa. A tale proposito conviene osservare che questo problema se, per essere ben capito, deve venire naturalmente riportato, nel suo sorgere e nel suo affermarsi, al clima di cultura del primo Ottocento e al rinnovamento storiografico allora verificatosi sotto l’azione di agenti diversi in tutti i campi16, esige d’altra parte di essere in seno a questo clima di cultura sottolineato in tutta la sua autonoma esistenza quale specifico problema: un problema che, in quanto rivolto alla letteratura considerata nel suo totale svolgersi, si poneva come nettamente distinto dalla restante attività critica. La presenza di questo problema acquista un risalto tutto particolare anche perché, dopo di essere, in altre epoche di fiorente espressione della storiografia politica o di vivo interesse per determinate questioni di critica letteraria, passato completamente inavvertito, si manifestava ora all’improvviso, con lo specialissimo rilievo di una cosa nuova e stimolante. Il contributo più vivo dell’«Antologia» al problema della storia letteraria è rappresentato da un ampio articolo pubblicato nel maggio 1823, in cui Giuseppe Montani recensiva l’opera di Camillo Ugoni. Anche in questo romantico collaboratore dell’«Antologia» si afferma, quale primaria esigenza, la necessità di un pensiero filosofico che intervenga a illuminare e guidare la composizione della storia letteraria. Secondo detto critico, l’Ugoni si rivelerebbe, più del Corniani, «avveduto ed educato alla scuola della ragione», e per questo la sua storia risulterebbe di tanto superiore. E tuttavia, per il Montani, essa non sembra corrispondere ancora all’ideale forma della storiografia letteraria. Anche questa incontentabilità, che così spesso si incontra nel giudizio dei maggiori critici, è segno di un’intelligenza e di una scaltrezza nuova nell’affrontare il problema. Il difetto della storia dell’Ugoni consisterebbe, secondo il recensore, nella mancanza di unità prospettica, di visione concentrica:

16

Cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono cit., passim.

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proponendosi egli [...] un piano che è fra la biografia e la storia, poté piuttosto preparare de’ particolari disegni, onde comporne un bel quadro, che non presentarci questo quadro unico e in ogni parte compito17.

Il Montani ritiene essenziale al compito di un autentico storico il discutere «sullo spirito della nostra letteratura nel periodo ch’ei prende a descrivere», il porre «una conchiusione generale», il dare «un generale giudizio sulla nostra letteratura in tal epoca»18. Attraverso questa idea si esprimeva, in un evidente progresso sulla estrinseca concezione catalogica settecentesca, e in una positiva estraneità all’idea della letteratura come espressione della vita sociale, il semplice bisogno di un’organicità problematica, di una ricognizione critica unitaria della narrazione storica della letteratura. E tuttavia si avverte qui la lontana presenza dell’idea romantica del «senso» di una letteratura, del carattere generale di essa, che era preconcetto derivato da un’ambiziosa pretesa di filosofia, la quale, nella sua esasperata tendenza interpretativa unitaria, appariva inevitabilmente destinata a correre un’arrischiata e illusoria avventura, e ad arenarsi su un arido terreno di vuote e indeterminate astrazioni. Anche il Berchet era propenso ad accettare questo gusto critico, avviato a un’ampia divulgazione (tanto da sopravvivere ancora con un eccessivo ritardo in due stanchi romantici del Novecento, Papini e Borgese). Senonché tale tendenza si manteneva ancora, nel Berchet, nei termini di una equilibrata interpretazione e di un cauto assaggio, evitando ogni troppo impegnativa responsabilità. Comunque, cotesta deviazione storiografica si rendeva in certo modo inevitabile, in quanto sconfinamento di quel processo critico vitale che per altra via, più cautamente pensosa, doveva pur condurre alla configurazione della varia e complessa vicenda della nostra storia letteraria. Sui limiti del concetto di letteratura, il Montani non supera la posizione dei contemporanei, ancor sempre legati all’eredità del Tiraboschi. Egli infatti loda senza riserve (e senza il minimo dubbio circa i fondamenti storiografici che vi erano implicati) il contegno dell’Ugoni, la sua perspicuità in materie per sé medesime astruse, come le fisiche e cosmografiche del Boscovich; le mediche del Borsieri [...] le musicali del Tartini [...]. Intorno alle quali materie così varie fra loro ci piace ricordare, come l’egregio Sismondi notò già con giusta ammirazione la varietà degli studi che fu necessaria al nostro storico onde parlarne19. 17 M. [G. Montani], rec. a Della letteratura italiana della seconda metà del secolo XVIII, opera di C. Ugoni, in «Antologia», X (1823), n. 29, p. 2. 18 Ivi, pp. 3 e 4. 19 Ivi, p. 25.

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Il Montani rimane estraneo a quella chiara intuizione del concetto di letteratura, che del resto non si sarebbe dovuto avere se non con l’Emiliani Giudici, il quale sistemerà definitivamente, mediante la sua concreta applicazione, gli spunti già balenati in precedenza ad altri, a partire dal Denina. Tuttavia altri motivi storiografici non privi di interesse affiorano dalla discussione del Montani. La preoccupazione di conferire alla storia letteraria una struttura unitariamente serrata che informa tutto l’articolo, non impedisce che sia avvertita e dichiarata la necessità di segnare i caratteri distintivi dei vari autori. Il principio dell’individuazione, che può senz’altro considerarsi come fondamentale nella storiografia letteraria, in quanto rende possibile la ricerca di quegli elementi che conferiscono a un autore la propria inconfondibile fisionomia e gli comunicano una sua precisa vita nella coscienza critica, non viene ignorato e smarrito nel prevalente gusto della ricerca generalizzante o universalizzante. Dell’Ugoni è infatti proprio indicata come pregio singolare, e proposta a esempio «la finezza nel presentarci le più sottili differenze de’ caratteri degli scrittori»20. Era questa un’esigenza nuova, che subentrava, nel gusto critico e storico, alla stanca abitudine della scolorita raccolta di notizie in cui si era esaurita la storiografia settecentesca, e, nella vivacità con cui era avvertita, si poneva come un principio critico assai fecondo e carico di avvenire. Attraverso questa fertile istanza il paesaggio della nostra letteratura poteva acquistare un più delicato equilibrio interno, farsi maggiormente sensibile al rilievo e alla profondità, accogliere un più vario e complesso senso dei toni e delle sfumature, e insomma trasformare il duro e arido quadro offerto dalla primitiva storiografia del secolo precedente in uno spettacolo ricco di movimento e di vita. Acute osservazioni, sempre in queste pagine, si possono trovare anche intorno alla questione biografica. Il Montani scrive, a questo proposito, alcune righe molto penetranti. Avendo il sig. Ugoni risoluto di mantenere quello che il Tiraboschi si accontentò d’essersi proposto, di scrivere cioè la storia della letteratura e non de’ letterati d’Italia, poco dovea fermarsi sulla loro vita, e moltissimo sulle loro opere. Doveva anche ciò fare, poiché la vita della maggior parte di essi non consiste che ne’ loro studi; e chi dice di questi compitamente, descrive quella, senz’avvedersene, almeno in ciò che più importa. Riguardo ad alcuni rari, peraltro, la cui vita non fu interna solamente, ma si spese al di fuori in opere civili o politiche, e i cui privatissimi accidenti ricevettero dal carattere e dall’ingegno certa singolarità, che di essi ci fa 20

Ivi, p. 8.

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curiosissimi, l’allargarsi alquanto non era biasimevole. Tanta proporzione di materiale misura fra vita e vita, non è spesso che una vera sproporzione ove si abbia riguardo al merito21.

Questa pagina denunzia nel suo autore una sensibilità critica e un equilibrio compositivo degni di rilievo. Il problema del rapporto dei dati biografici nell’ambito del profilo degli autori e della loro misura nella economia della storia, era posto con felicissimo intuito. Il fatto veramente importante e meritevole di ricordo storico non appariva più quello che impegnava soltanto l’esterna cronaca biografica, ma unicamente quello che incideva sull’intimo svolgimento spirituale. D’altra parte, il Montani non mancava neppure di notare come si verificasse sovente, per alcuni personaggi, un’interferenza stretta fra vita attiva e vita contemplativa, che implicava ovviamente la necessità di essere registrata ai fini di un’esatta illuminazione del documento poetico, e che giustificava pertanto un più ampio indugio sulla notizia biografica. Scaturiva così, da questo limpido suggerimento metodologico, una perpetua lezione, che tuttavia la minuziosa curiosità archivistica del positivismo e l’inconsistente esegesi impressionistica del successivo estetismo avrebbero lasciato cadere, rimanendo in tal modo, sul terreno del rapporto fra biografia e storia letteraria, in una condizione opposta ma ugualmente imprecisa e inadeguata. Scritti con un impegno assai meno significativo, altri articoli apparsi in quel decennio sull’«Antologia» stanno a testimoniare del costante interesse per il problema della storiografia letteraria. Nel novembre di quello stesso anno 1823 in cui appariva l’articolo del Montani, veniva riprodotto sulla rivista il già ricordato elogio del Ginguené, composto dal Salfi per i volumi da lui scritti in continuazione dell’Histoire littéraire d’Italie. In queste pagine si tracciava un preciso diagramma della condizione della precedente storiografia, con sintetici giudizi sul Crescimbeni e il Quadrio, narratori incompleti della storia delle nostre lettere; sul Gimma, primo ideatore se non realizzatore di una storia generale della letteratura; sul Bettinelli, inesatto e troppo rapido ma ingegnoso storiografo; sul Denina infine, più ordinato e attento illustratore delle vicende letterarie d’Italia. Sul Tiraboschi si ripeteva la solita osservazione, e cioè che quantunque l’autore siasi proposto di dar l’istoria della letteratura italiana, ha compilata quella degli uomini letterati e dei loro avvenimenti, piuttosto che quella dei loro scritti e de’ loro pensieri22. 21 22

Ivi, p. 35. “Elogio di P.L. Ginguené” cit., p. 88.

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A proposito del Corniani si affermava poi che la sua storia letteraria altro non era che un catalogo cronologico delle vite dei più distinti autori. Solo il Ginguené, i cui meriti erano passati in rassegna, aveva segnato un progresso decisivo nella storiografia letteraria. Tutto considerato, il Salfi, che nella continuazione dell’Histoire littéraire del Ginguené doveva dimostrarsi un ottimo critico, in queste pagine non offriva invece nessuna idea veramente nuova, accontentandosi di ripetere i consueti motivi polemici. Comunque, anche queste pagine, nonostante i loro limiti, vengono a confermare, con una nuova prova, il diffuso interesse per il problema della storia letteraria. Con un curioso articolo apparso sulla rivista qualche anno più tardi si giunge ai termini estremi delle possibili testimonianze. In tale articolo, ingenuamente (ma in questo caso l’ingenuità è indice della divulgata ed esasperata presenza del problema), si suggeriva una specie di critico decalogo da tenersi presente per la composizione di una «vera storia letteraria di una nazione o d’un secolo»23. Si toccava così la fase ultima della divulgazione dell’appassionante problema. Il passaggio dall’arduo e aristocratico studio di questo tema storiografico al suo comune e semplificato esercizio, è chiaramente documentabile in queste pagine. Una prova ulteriore di tale divulgazione si può ancora trovare in un successivo articolo dell’«Antologia», dove veniva esaminato il Ristretto della storia della letteratura italiana di Francesco Salfi, e ne erano elogiati il pregio e l’utilità, posti in risalto da un confronto con la storia del Tiraboschi: «Il Tiraboschi ci conduce su su per la corrente de’ tempi a forza di remi; il Salfi ci trasporta via giù col vapore»24. Il bisogno che ormai si avvertiva di compendi, di sommari, di breviari, sta a indicare come questo motivo di cultura fosse ormai acquisito e diventato popolare. Il problema della storia della letteratura impegnava del resto in modo tale le menti degli studiosi che non solo veniva affrontato e dibattuto in maniera esplicita e diretta, ma affiorava anche incidentalmente in mezzo a discussioni e a propositi diversi. E invero, al di là di questi puntuali e circoscritti dibattiti finora esaminati, non mancavano, attraverso semplici accenni e spunti episodici, altre marginali forme di collaborazione al problema della storia letteraria. E basterebbe ricordare il Tommaseo che, sulla stessa rivista, obbedendo a un irrefrenabile richiamo di un vagheggiato mito, si richiamava a uno dei consueti motivi storiografici, quando scriveva che «negli scritti del secolo decimoquarto ciò che più importa studiare non è l’eleganza del 23 K.X.Y. [N. Tommaseo], rec. a Compendio di Storia della bella letteratura greca, latina e italiana... di G.M. Cardella, in «Antologia», XXIX (1828), n. 86, p. 153. 24 Id., rec. a Ristretto della storia della letteratura italiana di F. Salfi, in «Antologia», XLIII (1831), n. 127, p. 116.

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dire né la storia della lingua; è il progresso della italiana civiltà, dello spirito umano»25. In questo insistente ritornare su questo o quel principio di metodologia storiografica, si conferma la presenza attiva del problema nella coscienza critica del tempo. Ma del Tommaseo meritano un rilievo particolarissimo due paginette pubblicate sull’«Antologia» del gennaio 1829, dove, in margine alla recensione dell’Istoria della letteratura greca profana di F. Schoell, si facevano alcune considerazioni sul modo di concepire la storia letteraria. Il carattere occasionale di queste righe, assai veloci, non lascerebbe supporre la densità del loro contenuto, che offre uno dei documenti più intelligenti relativi alla questione storiografico-letteraria della prima metà dell’Ottocento. Il Tommaseo, per primo, avverte chiaramente l’assurdo al quale doveva portare l’estensione del concetto di letteratura, perdurante ancora nella comune coscienza critica, all’intero scibile, fino a comprendere quella vastissima area su cui erano state costruite le opere del Tiraboschi e del Ginguené: Finché col titolo di storia d’una letteratura s’abbraccerà tutta intera la storia delle lettere e delle scienze, oso dire che non s’avrà mai storia letteraria compiuta. Come mai un solo uomo può leggere, intendere, giudicare con vera cognizione di causa, tutte quante sono le opere da una intera nazione prodotte nello spazio di venti e più secoli? Come essere tutt’insieme, e archeologo, e medico, e politico, e astronomo, e matematico, e fisico, e metafisico, e giudice d’eloquenza, di poesia, d’arti belle? Lasciamo a ciascuna scienza che vive e sta di per sé, le materie della storia sua propria; delle quali parte è stata già sufficientemente trattata, come la matematica, la medicina, l’astronomia, le bell’arti [...]. Noi già vediamo nel Tiraboschi e nel Ginguené, che sia voler parlare anche di ciò che s’ignora. Lo storico allora è costretto a trascrivere i giudizi altrui; e anche codesto con certa timidità, quasi uomo che sente di non ne avere il diritto26.

Veramente, in questo passo, l’esclusione della storia delle scienze dalla letteratura appare determinata, più che da un’intrinseca ragione, e cioè da un’intuizione nuova del concetto di letteratura, da un semplice motivo di opportunità e anzi di necessità esteriore: vale a dire il fatto che non sia possibile trovare uno storico dotato di così vasta cultura da essere in grado di trattare con sicura competenza di tante discipline. Si tratta dunque di una soluzione che è suggerita e imposta non da un motivo teoretico, ma Id., “Poesia delle tradigioni. L’inferno d’Armannino”, in «Antologia», XLIV (1831), n. 131, p. 27. 26 «Antologia», XXXIII (1829), n. 97, p. 17. 25

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esclusivamente da un motivo pratico. Insomma, viene posto qui un problema di specializzazione, di tecnica, riguardante soggettivamente lo storico, e non già un problema di distinzione, di filosofia, relativo ai momenti ideali dell’attività interiore, oggettivamente distinti. Comunque, l’idea era concepita e, per quanto fallace fosse il motivo che l’aveva fatta nascere ed empirico il carattere che manteneva, doveva pur essere utilmente ripresa e applicata. Del resto anche quel rifiutare allo storiografo la fiducia di una capacità di abbracciare tante discipline, costituiva già, da parte del Tommaseo, un consapevole riconoscimento della diversa situazione determinatasi nella cultura contemporanea rispetto a quella cultura del passato, il cui campo, relativamente poco esteso, poteva con facilità essere dominato dalla mente di un unico individuo, del «letterato», come un tempo si soleva designare, con un’indiscriminante denominazione, anche lo scienziato e, in genere, l’uomo colto. Tale differenza rappresentava altresì un’implicita presa di coscienza della distinzione avvenuta fra le varie discipline, ormai costituitesi in altrettante scienze, e pertanto delle diverse direzioni in cui veniva a differenziarsi il resoconto critico del loro stato e del loro evolversi. Non è questo però il solo spunto fecondo contenuto nel denso paragrafo del Tommaseo. Altri suggerimenti notevoli vi sono accennati, diretti a toccare punti diversi del problema. Così, intorno al tema biografico, che costituisce uno dei passaggi obbligati di questa discussione ricorrente sulle principali riviste, è concesso registrare alcune suggestive osservazioni. La biografia, riconosce il Tommaseo, può meritare di venire assunta nel racconto storico solo quando essa stia in funzione dell’analisi del mondo espressivo di uno scrittore e non pretenda di accamparsi con autonoma assolutezza. Il Tommaseo tuttavia si preoccupa non solo di difendere questo principio considerato nel suo più spontaneo ed evidente significato, ma sì ancora di salvaguardare l’unità dell’ispirazione critica della storia letteraria, facilmente suscettibile di venire compromessa da una ricerca filologico-biografica di tipo tiraboschiano. Egli denunzia pertanto la discontinuità che si rischia d’introdurre nella storia in seguito all’accostamento della valutazione storicoletteraria con la discussione filologica relativa agli accertamenti biografici: codesta parte biografica con le sue minuziose indagini (indagini necessarie alla esatta determinazione della verità) viene a fare uno strano contrasto con la parte critica del lavoro27.

Con queste parole il Tommaseo poneva evidentemente non solo una questione di esterna architettura, ma esprimeva soprattutto l’esigenza di una 27

Ivi, p. 18.

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concezione unitaria, avvertendo il pericolo di una dispersione di impegno provocata dallo spostamento della ricerca su due diversi piani. Il problema della storia letteraria perdeva così ogni residua tendenza volta a considerarne la composizione come un fatto estrinseco e pratico, per diventare invece un’operazione di natura schiettamente spirituale. Un’uguale finezza il Tommaseo dimostrava nell’affermare la necessità di un più attento controllo del senso della prospettiva nel nominare opere e autori: Sogliono gli storici della letteratura occuparsi con molta degnazione anche di tutti quegli scrittorelli mediocri, che il tempo ci ha lasciati; e di quelli perfino di cui più non resta che il nome. Anche dalle opere mediocri, talor anche dalle memorie di quelle che più non sono, si possono, io nol nego, dedurre utili conseguenze generali sull’intero spirito della letteratura. Ma quel fermarvisi con tanto amore, parmi un torto fatto alla gloria de’ sommi, e al buon giudizio del lettore28.

In questa affermazione, mentre veniva di nuovo segnato uno dei limiti dell’erudita storiografia settecentesca, gelosamente avida di accumulare notizie e ciecamente indiscriminante in tale archivistica tendenza, si esprimeva la coscienza di quel senso storico gerarchico e di quella organica visione che già valgono per se stessi come un implicito giudizio. L’articolo si chiudeva infine manifestando un’esplicita disapprovazione per quell’uso, largamente applicato dal Ginguené, di introdurre nella storia letteraria larghi sunti di opere: quel credere d’aver bene giudicata una grand’opera col darne l’estratto, come il Ginguené suol fare, e spargerlo qua e là di critiche osservazioni, è metodo, al mio parere, alquanto pedantesco, ormai non più perdonabile quasi né anco ad un semplice giornalista. La storia d’una letteratura non dovrebbe avere per fine il dispensare i curiosi dal piacere di leggere le opere più mirabili di che una nazione abbia onorato l’umano ingegno; ma sì dirigerne, renderne utile la lettura, mostrare il legame che ha o pare avere l’una opera con l’altre della nazione e del secolo stesso, delle nazioni e de’ secoli passati e seguenti. Non si tratta dell’analisi d’un autore; si tratta dell’analisi di quello spirito che ha tutta animata una generazione d’autori29.

Il Tommaseo, come già il Berchet, non si accontenta più della Histoire littéraire del Ginguené, e, d’accordo con gli altri romantici, esprime l’esigenza di un’interpretazione dell’opera d’arte condotta in modo da illuminare soprattutto i suoi rapporti con le opere di altri autori, sì da cogliere, superando 28 29

Ibidem. Ibidem.

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la serie catalogica, «lo spirito della letteratura» della nazione. Il metodo del Ginguené, che pur aveva avuto un significato storico non trascurabile, richiamando, anche se con il soccorso del semplice e primitivo espediente dei larghi e numerosi sunti di opere, l’attenzione su quel che nella storia letteraria costituiva il documento centrale, sembrava ormai una noiosa pedanteria e una giornalistica ingenuità. Tuttavia al vertice dell’esercizio storiografico non tanto si collocava, come supremo ideale, una critica degli scritti capace di superare il resoconto esteriore in un’approfondita intelligenza del loro significato artistico, quanto piuttosto un esame rivolto a scoprire i legami che stringono le varie opere di un secolo o di più secoli in una superiore unità, in cui fosse dato cogliere «lo spirito della letteratura». Dominava, insomma, l’idea di una storia concepita come una fitta trama di correnti e di sviluppi, come un colloquio serrato fra gli scrittori di un’età e di età diverse, Per questo senso della storia letteraria considerata, come dimostrano i passi citati, nell’ampiezza della sua impostazione, quale attività specialissima dell’esercizio critico, profondamente diversa dal comune lavoro monografico svolto su autori singoli non solo per la struttura esterna, ma per lo stesso movimento intimo dell’operazione esegetica, postulante un’originale sensibilità e capacità costruttiva, il Tommaseo, anche se riprende atteggiamenti che possono sembrare comuni, in realtà li risente in una prospettiva nuova, che denunzia in lui uno degli scrittori che più consapevolmente si siano posti il problema della storia letteraria. Se l’intervento del Berchet e del Tommaseo nella discussione del problema della storia della letteratura conferisce a questo dialogo che occupa i primi decenni dell’Ottocento un tono illustre e un’importanza non trascurabile, una dignità anche maggiore e un contributo ancora più fecondo deriva ad esso dal fatto che non seppero rimanervi estranei due grandi personalità della critica romantica, il Foscolo e il Mazzini. Il Foscolo, la cui partecipazione critica risulta evidente già dalle continue parole sue fin qui citate, sentì in maniera assai viva il problema della storiografia letteraria. Anzi si può affermare che esso costituì uno dei temi più costanti della sua passione critica. Giovanissimo, nel 1796, in un programma dei suoi lavori futuri, esprimeva il proposito di scrivere una «storia filosofica della poesia dal secolo duodecimo sino al decimonono». E in seguito, soprattutto nel periodo inglese, avvertì quasi ossessivamente il bisogno di comporre una storia della letteratura italiana30. Nei suoi scritti ritornano 30

252.

Cfr. E. Donadoni, Ugo Foscolo pensatore critico poeta, Palermo: Sandron, 1910, pp. 251-

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con frequenza cenni e spunti che ci illuminano sulla personale sensibilità in ordine al problema storiografico letterario. La storia della letteratura che il Foscolo non riuscì mai a scrivere e che sembra idealmente costituire un costante suggerimento della sua attività critica, rimane in certo modo non solo il desiderio della sua privata biografia, ma anche un po’ l’attesa della sua vita storica. Un critico assai fine, Carlo Tenca, scrisse giustamente: Il Foscolo più d’ogni altro sarebbe stato in grado di scrivere una storia della letteratura italiana, egli che aveva erudizione così copiosa, e così squisita intelligenza dell’arte, e amore così forte e passionato della grandezza nazionale. Ma il destino, che lo volle condannato a sminuzzare la sua fatica e a venderla a ritagli sotto le strette del bisogno, gli impedì di dar corpo a un disegno che gli ondeggiò sempre nell’animo come un desiderio inesaudito31.

Tuttavia dalla sua opera critica, come si potrebbe facilmente ricomporre un’intera storia della letteratura, così non è davvero impossibile ricavare un repertorio metodologico riguardante il problema della storia letteraria. A fondamento della posizione storiografica foscoliana sta ancor sempre quel diffuso fastidio nei confronti dell’erudizione settecentesca che costituisce uno degli atteggiamenti più costanti della critica del primo Ottocento, e che rappresenta come la pars destruens, si direbbe in linguaggio baconiano, nel complesso lavoro di elaborazione di un nuovo organo di ricerca storiografica. In questa sdegnosa condanna delle vecchie forme del secolo passato, il Quadrio e il Crescimbeni sono senz’altro rifiutati quali compilatori privi di autorità32. Anche il Tiraboschi viene messo da parte con un atteggiamento di assai scarsa simpatia critica, quantunque egli sia distinto dai suoi contemporanei come «principe de’ nostri storici». La polemica contro il Tiraboschi acquista però un’importanza tutta particolare, poiché in essa affiorano i motivi della nuova concezione storiografica e, negativamente, sullo schermo di una costante indicazione dei limiti del vecchio erudito, si affermano le esigenze e le soluzioni originalmente poste dal suo critico. Il Tiraboschi rappresenta agli occhi del Foscolo una posizione senza dubbio necessaria, ma non ancora sufficiente alla ricerca storiografica, in quanto egli realizza il solo primo momento del processo storiografico, quello «muratoriano», quello filologico, della pura ricerca erudita, così come all’estremo opposto 31 C. Tenca, A proposito di una storia della letteratura italiana, in Prose e poesie, a cura di T. Massarani, Milano: Ulrico Hoepli, 1888, vol. I, pp. 362-363. 32 U. Foscolo, Discorso sul testo della “Commedia” di Dante cit., p. 284. Si veda anche a p. 337.

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(e in tal modo viene estesa la condanna a tutta la storiografia settecentesca), il Denina incarna il secondo ideale momento, quello che potremmo appunto dire «vichiano», filosofico, tutto rivolto a fissare in formule e sintesi una interpretazione della storia. Per il Foscolo, invece, si pone assai viva l’esigenza, schiettamente romantica, di una fusione del metodo muratoriano e del metodo vichiano:

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Se la storia senza filosofia non è che serie cronologica d’avvenimenti, le disquisizioni critiche senza avvenimenti non sono mai storia33!

Non si trattava dunque di negare in assoluto il metodo del Tiraboschi, ma soltanto di superarlo, e cioè di assumere in una visione filosofica il materiale raccolto dalla erudita fatica di quello. A sua volta questa filosofia si esauriva ancor sempre nell’immutato concetto, che senza posa ritorna nella critica del tempo, della letteratura come espressione della società. Gli eruditi del Settecento, scriveva per l’appunto il Foscolo in una sua lettera in francese, «ont rarement écrit avec philosophie, n’ayant jamais observé l’influence réciproque de la littérature et des moeurs»34. Quel che nel Berchet si presentava come un semplice punto di orientamento, diventa dunque nel Foscolo una tesi indiscutibile. Con questa affermazione il critico istituiva, nei termini più rigorosi, un rapporto di assoluta identità tra filosofia e indagine degli scambi di letteratura e costumi, sicché la filosofia da lui invocata si risolveva ancora una volta in un’applicazione della fortunata formula della letteratura espressione della società. Intorno alla polemica antitiraboschiana si raccolgono altri spunti molto interessanti ed illuminativi della sensibilità storiografica del Foscolo. È notevole, in modo speciale, una pagina densa di negatrici opposizioni contro l’erudito del Settecento: non luce, non evidenza, non esattezza di colorito perché, la natura non avendolo dotato di tutte le facoltà dello stile, egli aveva sprecate le poche che possedeva a lumeggiare non da storico la somma delle ragioni, ma da filologo disputante tutti i raziocini intermedi, e a spiegarsi con una spontaneità che dà nel languore, e con una lingua chiarissima sì ma né dignitosa, né amabile, né schiettamente italiana; non musica finalmente, perché i caratteri individuali degli uomini, gli avvenimenti diversi de’ tempi, e l’eterne verità non formano nella sua storia quell’armonia piena, calda, Id., Lettera in difesa dell’orazione inaugurale, in Opere cit., vol. II, p. 50. Id., Lettera posta in apertura al “Saggio d’un gazzettino del bel mondo”, in Opere cit., vol. IV, p. 7, . 33

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sonante, rapida, insinuantesi che si sente a ogni pagina di quegli storici, ne’ quali la passione, le narrazioni e la ragione consuonano mirabilmente tra loro, perché sono riunite in un tutto animato dalla eloquenza35.

Scaturiva da queste poche righe un’affermazione personalissima, pienamente coerente al tono essenziale dell’umanità del Foscolo, poeta prima che critico. Faceva qui la sua prima apparizione l’aperta istanza del carattere artistico della storia letteraria, la richiesta cioè di un linguaggio critico nutrito di sentimento d’arte, o almeno sostenuto da qualità stilistiche prosastiche od oratorie, tali da determinare un equilibrio compositivo e un’efficacia didascalica giustamente ritenuti indispensabili a una compiuta narrazione storica. La storiografia letteraria, per questa esigenza nuova di una composizione stilisticamente aristocratica e dignitosa, veniva anche per questa via a spogliarsi di quella fisionomia, che fino allora ne aveva segnato il carattere, di espressione di una cultura un po’ umbratile e pedantesca, malinconicamente aduggiata da convenzionali e generici schemi stilistici. L’ideale storia della letteratura doveva dunque realizzarsi, nella sua autentica realtà, non già per il semplice assommarsi di una laboriosa ricerca filologica e di un’attenta speculazione filosofica, secondo la più comune richiesta della critica romantica, ma soltanto quando insieme a queste componenti si aggiungesse anche un adeguato linguaggio, capace di riflettere in sé e di comunicare al lettore l’impressione di quel mondo di affetti e di bellezza di cui era tramata la vicenda della letteratura fatta oggetto della narrazione. Per il critico poeta, in tal modo, il compito di scrivere la storia letteraria appariva come il prodotto di un concorso di disposizioni spirituali varie e profonde, rintracciabili solo in una mente eccezionale, dotata di innate qualità e di una non comune preparazione. In questa prospettiva luminosa e complessa veniva avanzata finalmente un’ultima istanza, scaturita dalla più accesa umanità foscoliana: quella cioè di un’attiva partecipazione passionale da parte del critico, di un sentimento di vita presente e operante nella narrazione della storia della letteratura. Per questo, appunto, il poeta lamentava, nel caso del Tiraboschi, «la fortuna che lo avvinse a una setta religiosa, che lo educò a ragionare co’ principi degli altri, e che intiepidì nel suo petto le grandi e generose passioni»36. E deplorava, nella citata lettera, che i biografi italiani «n’avaient aucune connaissance du monde»37. Era, del resto, il motivo che pateticamente risuonava Id., Lettera in difesa dell’orazione inaugurale, p. 49. Ivi, p. 50. 37 Id., Lettera posta in apertura al “Saggio d’un gazzettino del bel mondo” cit., p. 7, . 35

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

già nell’orazione inaugurale:

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dove è un libro che discerna le vere cause della decadenza dell’utile letteratura, che riponga l’onore italiano più nel merito che nel numero degli scrittori, che vi nutra di maschia e spregiudicata filosofia, che col potere dell’eloquenza vi accenda all’emulazione degli uomini grandi? Ah le virtù, le sventure e gli errori degli uomini grandi non possono scriversi nelle arcadie e nei chiostri38!

Il problema storiografico letterario appariva così non soltanto impegnativo su un piano tecnico-critico e aperto a una rinnovata sensibilità stilistica, ma veniva coinvolto nella responsabilità di un’esperienza umana fecondatrice ed educatrice. L’ideale storia letteraria non poteva rifiutare, per il Foscolo, di affondare le proprie radici nella palpitante humus della vita vissuta ed esimersi dallo svolgere una vivificante funzione pedagogica. Di qui sgorgava, da parte del Foscolo, l’accesa polemica antiarcadica e anticlaustrale, impostata su questa concezione della storiografia letteraria intesa come attività nata dalla vita e creativamente orientata verso la vita. Era, questo, un motivo tipicamente romantico e foscoliano, ma non per ciò riusciva meno ricco di una sua perpetua validità. Esso comunque era destinato, insieme con gli altri atteggiamenti esaminati (scaturiti, più che da una pacata riflessione critica, da un’impetuosa e direi poetica immaginazione), non tanto a trasmettere un preciso insegnamento quanto piuttosto a indicare una suggestiva meta di perfezione. Ma il discorso intorno al Foscolo non può concludersi senza ricordare che la sua collaborazione allo sviluppo della storia letteraria, a parte questa fertile meditazione ricca di spunti e di motivi, doveva anche svolgersi, com’è naturale, in maniera indiretta, nell’indagine ed elaborazione di un materiale destinato a confluire nelle successive composizioni storiografiche. La sostanza critica viva (soprattutto per l’entusiasmo della poesia da cui è tutta pervasa) presente nell’opera del Foscolo39, costituisce per la futura storiografia non Id., Dell’origine e dell’uffizio della letteratura, in Opere cit., vol. II, p. 37. Oggi si ritorna a guardare alla critica del Foscolo con un interesse nuovo. I motivi di questa rinnovata considerazione sono assai complessi. Forse si dovrebbero in proposito richiamare quelle pagine di Serra Per un catalogo, che, mentre esprimono la crepuscolare inquietudine di uno spirito raffinato, denunziano la perplessità di tutto un ambiente di cultura, quello del primo Novecento, nella luce incerta fra il grande astro al tramonto di Carducci e quello sorgente di Croce. Un momento cruciale nella storia del nostro gusto critico, per le linee ideali che lì si raccolgono e di lì si dipartono. Dire Croce, intanto, vuol dire De Sanctis, un De Sanctis reso più rigido e sistematico, filosoficamente più coerente. E dire De Sanctis vuol dire richiamare, di nuovo, per opposizione, Carducci (e qui si potrebbe scorrere tutta 38

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LA DISCUSSIONE STORIOGRAFICA DEL PRIMO OTTOCENTO

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soltanto un deposito fecondo a cui essa avrebbe dovuto ispirarsi e attingere, ma anche, per la sua stessa condizione di incompiutezza rispetto all’unitaria un’anedottica significativa della polemica ribollente in Carducci contro «quel filosofo della storia», contro il suo grande antagonista, l’autore della Storia della letteratura italiana e dei Saggi critici). E dire Carducci vuol dire, e questa volta per affinità, Foscolo appunto (e sia pure senza dimenticare tutto quello che c’è stato di mezzo, da Sainte-Beuve a Taine). D’altro lato, dal lato non più dell’Ottocento ma del Novecento, proprio Serra, la cui opzione per Carducci resta significativa, ci porta a De Robertis e a un gusto critico opposto a quello del Croce; ci porta a quel gusto della parola e a quella critica stilistica sviluppatasi, sotto l’influsso di correnti di poesia e di filologia italiane e straniere, in piena indipendenza dal Croce se non addirittura in contrasto con lui. Ma proprio la parola, su cui questa critica ha raccolto la sua attenzione come sull’elemento costitutivo essenziale della poesia, e che nel De Sanctis (a torto) e nel Croce (a ragione) sembrò troppo trascurata, è dal Foscolo sentita per la prima volta nella complessità del suo valore. Tuttavia di fronte alla stessa insistenza troppo squisita e polverizzatrice della critica stilistica, come di fronte alla ottusa sordità e al metodo massiccio della critica sociologica, il Foscolo mantiene una sua elasticità di atteggiamenti. E più variata può sembrare nei confronti della posizione un po’ monotona di un De Sanctis, sempre intento a scrutare il mondo del poeta; e soprattutto della critica del Croce, apparentemente limitata ad una discriminazione immobile di poesia e non poesia, conclusa nella formula definitoria della prima. La critica di un De Sanctis sarà più coerente e unitaria, più costruttiva e sistematica. Ma la critica di un Foscolo è in compenso più aperta. Essa mantiene insomma un suo contegno di più fertile “disponibilità”. Davanti all’opera letteraria egli non si pone con un suo atteggiamento fisso, ad essa egli non impone uno schema costante di ricerca. Al contrario egli accetta la condizione proposta dall’opera, e svolge il lavoro che si presenta necessario: dalla traduzione alla edizione, dalla ricerca delle fonti a quella della fortuna, dalla illustrazione storica a quella estetica, dal ritratto biografico all’analisi psicologica. E questo non è eclettismo, ma apertura. Non superficialità, ma impegno totale. Perché vero maestro di critica sarà pur sempre chi serve all’opera letteraria, non chi di essa si serve; chi saprà renderla più chiara e meglio comunicarla agli altri, non chi vorrà ridurla a pretesto di un discorso tutto privato e personale. Di qui la nostra simpatia per la critica del Foscolo, di noi stanchi forse da troppe dogmatiche ed esclusive teorie critiche. Una simpatia, del resto, alimentata dal fascino che scaturisce dalla sua poesia; dall’interesse che promana dalla sua esperienza di coltissimo e appassionato poeta. Se il De Robertis in anni lontani (quelli della «Voce») poteva scrivere del De Sanctis che è «natura [...] pronta più a risolvere problemi che a sentire e sperimentare la poesia», è chiaro che in anni più recenti potesse additare in Foscolo un maestro di critica. E in realtà oggi se possiamo trovare molti limiti all’attività svolta dal Foscolo intorno ai nostri scrittori, e avvertirne il carattere frammentario, dobbiamo tuttavia riconoscerne la singolare forza suggestiva. Situata fra Settecento e Ottocento, la sua opera, mentre raccoglie i succhi della vecchia critica settecentesca, contro la quale pur polemizza, tenta le nuove strade della critica romantica, con una così fresca e ricca vitalità da riuscire ancora per noi, dopo più di un secolo, al di là di ogni eccessiva volontà di esaltazione o di limitazione, significativa e quasi esemplare. Per questo noi non ci sentiamo di ridurre, come si è fatto, il centro vivo della critica foscoliana al Trecento, ed anzi a Dante e a Petrarca. Basterebbe pensare al Discorso sul testo del Decamerone, in cui sotto lo strato di una larga informazione storica, fermentano alcune intuizioni felicissime (questa, per esempio: «Il merito della descrizione della pestilenzia nel Decamerone non risulta così dallo stile — che raffrontato a quel di Tucidide e di Lucrezio è freddissimo — come dal contrasto degli infermi, e de’ funerali, e della desolazione nella

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

e compiuta architettura della storia letteraria, una perpetua sollecitazione al sorgere di tale storia. Perciò non senza motivo, sotto il nome tutelare del Foscolo nascerà la prima storia letteraria dell’Ottocento, la Storia delle belle lettere di Paolo Emiliani Giudici.

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Anche al Mazzini non rimase estraneo il problema della storia letteraria. Il suo pensiero in proposito è chiaramente esposto in uno scritto del 1828: cento anni addietro [...] le storie letterarie e delle arti belle assumevano aspetto di biografie ordinate cronologicamente: contemplavano gli individui; delle moltitudini e dell’universale istruzione tacevano; contenevano sottili disamine sulle forme, rare volte sulla sostanza delle opere. Affidate a’ bibliotecari e a’ claustrali, ne ottenevano più lusso d’erudizione, che abbondanza di osservazioni profonde ed estese; più sfogo di pregiudizi che filosofia, senza cui la Letteratura non è che mercato d’inezie. Riuscivano utili, in quanto che apprestavano materiali alle indagini de’ nipoti. E l’epoca di trarne partito venne [...]. Il vincolo, che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere, e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi, e diede cominciamento ad una nuova scuola40.

La pagina raccoglie in una chiara e consapevole sintesi tutti quei motivi del problema storiografico letterario che già erano presenti nel Foscolo. La polemica contro la storiografia settecentesca individuata nei suoi aspetti più significativi (biografismo, archivismo, retoricismo, claustralismo) e la posizione, sotto il sigillo del Vico, delle nuove esigenze critiche (storia filosofica e letteratura espressione della società) sono elementi ormai non più nuovissimi. L’impostazione del problema avviene nei termini consueti, senza avvivarsi di nessuna idea originale. Così risulta priva di novità la convinzione, diffusa in tutta la cultura europea, e in Italia energicamente enunciata dal Berchet, città, con la gioia tranquilla e le danze e le cene e le canzonette e il novellar della villa. In questo il Boccaccio quand’anche avesse imitata la narrazione, la adoperò da inventore»). E basterebbe pensare alle varie pagine sul Tasso. Nessuno come il Foscolo ha saputo cogliere il segreto della passione umana («Qualunque passione predomini nell’animo, si rinfiamma di tutte le altre e le infiamma»). Nessuno come lui ha saputo penetrare nel mistero della creazione artistica («I versi dei grandi poeti sono sempre il risultato di una lunga serie di pensieri, emozioni, rimembranze ed immagini, comparate, combinate, respinte o scelte»). Nessuno, infine, ha avuto della poesia un sentimento così alto, e dell’ufficio della critica una coscienza così profonda, come basterebbe a provare questa semplice sua affermazione: «la poesia tende a farci fortemente e pienamente sentire la nostra esistenza»; nella quale si potrebbero scavare sensi di un’assai complessa portata. 40 G. Mazzini, rec. a Storia della letteratura antica e moderna di Federico di Schlegel cit., p. 78.

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LA DISCUSSIONE STORIOGRAFICA DEL PRIMO OTTOCENTO

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circa la necessità di dilatare l’orizzonte storico letterario con lo studio delle letterature straniere:

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Mancava un quadro, che abbracciando quanto d’utile e di luminoso segnò nelle diverse parti del globo la vita dell’intelletto, mostrasse di quali elementi si componga la Letteratura delle Nazioni, per quali cause si avvivi, o si spenga; e qual debito di gratitudine corra tra popolo e popolo, onde imparino le famiglie umane, tutte esser rami d’un medesimo tronco41.

Dove perfino il motivo della fratellanza fra i popoli, che qui ideologicamente giustifica lo studio comparato delle diverse letterature, perde, nell’anticipazione che già se ne trova nel Berchet, ogni interesse di inedita proposizione. Anche se poi non debba naturalmente essere dimenticato il diverso tono dell’europeismo mazziniano, che si manifesta, nell’intento pratico apostolico che sta alla base di questa sua istanza, come desiderio di favorire, attraverso la ricerca di questi scambi, una maggiore conoscenza e quindi un amore più vivo fra le varie nazioni. Un accento più originale è dato invece trovare nell’articolo, posteriore di alcuni anni (1836), scritto sull’Histoire de la littérature Allemande del Peschier. In queste pagine il Mazzini riprendeva il concetto della letteratura come espressione della società, intonandolo però alla propria ideologia politica: La storia de’ grandi letterati d’una nazione non è la storia della letteratura di quella nazione. […] Perché gli uomini letterati de’ nostri tempi non si avvedrebbero che non si studiano efficacemente i grandi modelli, se non risalendo alle sorgenti delle loro ispirazioni, che queste sorgenti stanno nel cuore della nazione: che in letteratura come in ogni altra cosa, se al vertice della piramide splende il Genio interprete nato de’ molti ne’ quali la poesia vive ma non assume forme determinate, il popolo s’agita alla base, e spira, e manda al poeta una voce che nessuno intende fuorch’egli solo, ma che ei rimanda abbellita, purificata agli altri popoli e all’avvenire42?

Nella concezione storiografico-letteraria del Mazzini interveniva, come è facile avvertire dalle righe qui riportate, un motivo nuovo, derivato appunto dal suo sistema ideologico: il popolo. Il principio massimo dell’etico-politica mazziniana era posto così a indicare la linea direttrice della ricerca storiografica: sicché diventava compito precipuo della storia letteraria l’illustrazione dell’elemento popolare. Il Mazzini mediante questo spunto offriva un suggerimento che doveva essere ripreso dal Carducci, e fatto intervenire nella sua complicata costruzione storiografica. E solo per questa illustre 41 42

Ivi, p. 79. Id., Storia letteraria, in Scritti letterari cit., vol. II, pp. 28, 30-31.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

discendenza valeva la pena di ricordare il rilievo dato dal Mazzini a tale motivo. E in realtà questa introduzione dell’elemento popolare nella visione storiografica rappresentava tutt’altro che un progresso, in quanto Mazzini, piegando la formula della letteratura come espressione della società, agile nei suoi termini indeterminati e pertanto suscettibile di applicazioni talora feconde, a un più circoscritto significato di contenuto politico, la rendeva difficilmente conciliabile, nella nuova rigidità assunta, con una libera analisi della storia letteraria43. Ma a proposito di un altro principio storiografico, quello climatologico, di origine illuministica e presente ancora nella storiografia romantica (Bouterweck e Berchet, per quel che ci riguarda), il Mazzini segna invece un reale avanzamento. Contro l’impiego diffuso di tale canone, e il divulgato consenso nei riguardi di esso, egli oppone l’illegittimità di questa posizione metodologica, entrando in aperta polemica col Peschier: col clima venerato a quel modo, voi impiantate una fatalità di letteratura che ogni secolo vi smentisce. Ma, ribattendo pure aspramente in più luoghi dell’opera vostra il materialismo, voi non pertanto affogate, statuendo quell’assoluta influenza, lo spirito nella materia. Siffatto principio posto in fronte a una Storia di Letteratura basta a travolgerne da capo a fondo il sistema44.

Il rifiuto di questo canone storiografico non era privo d’importanza, in quanto significava uno sforzo per avviare la storia letteraria su una linea interpretativa più intima e spirituale. Voleva dire, insomma, preparare, e sia pure da lontano, attraverso una collaborazione indiretta e impercettibile, una temperie propizia al sorgere della storia letteraria intesa come narrazione dello svolgimento dello spirito italiano, quella storia che costituirà appunto la grande conquista del De Sanctis, il critico destinato a raccogliere ed elaborare i risultati di tutto il lavorio compiuto intorno alla storiografia letteraria dal primo Ottocento. Ma a parte tale diretto contributo, la discussione mazziniana del problema storiografico assume pur sempre un suo significativo valore documentario, come limpido quadro riassuntivo dei tanti motivi affiorati nel dibattito svolto su questo tema, e come autorevole conferma della avvenuta divulgazione di essi nella cultura contemporanea: e proprio per ciò si offre a noi in maniera assai opportuna quasi simbolica conclusione dell’esame condotto su questo specifico territorio critico. Il Mazzini, tuttavia (non si deve mancare di osservare), seppe mantenersi, nella critica da lui esercitata, notevolmente libero dai presupposti politici. 44 G. Mazzini, Storia letteraria, cit., p. 34. 43

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LA STORIA DELLE BELLE LETTERE DELL’EMILIANI GIUDICI

Il risultato conclusivo della discussione storiografica condotta in questi decenni può essere additato nella Storia delle belle lettere in Italia di Paolo Emiliani Giudici, apparsa nel 1844. Quest’opera, raccogliendo e avvivando gli spunti e le proposte della problematica e della metodologia dibattute e approfondite negli anni precedenti, offrirà alla cultura italiana un significativo esemplare di storia letteraria. Giova tuttavia non dimenticare (per mantenere il senso esatto della prospettiva in cui si colloca l’esperienza dell’Emiliani Giudici) che, parallelamente a tale discussione, si era svolto intanto tutto un vasto esercizio storiografico letterario, rimasto completamente estraneo a questo vitale colloquio. In detta zona marginale, assai numerose risultano le storie letterarie riguardanti singole città (Parma, Treviso, Perugia, Padova, Belluno, Asti, Ascoli Piceno, Siena ecc.) o determinate regioni (Piemonte, Sardegna, Lunigiana, Liguria ecc.)1. Sebbene preziosissime per l’importante materiale raccolto e Cito, sebbene notissime, le principali di queste opere: A. Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, Parma: Ducale Tipografia, 1825-33; G.B. Vermiglioli, Biografia degli scrittori perugini, Perugia: Francesco Baduel, 1829; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, Padova: Tip. della Minerva, 1832-36; M. Pagani, Catalogo ragionato delle opere de’ principali scrittori bellunesi, Belluno: Tip. Tissi, 1844; G. Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati e gli artisti della città di Ascoli, Ascoli: tip. Luigi Cardi, 1830; G.M. De Rolandis, Notizie sugli scrittori astigiani, Asti: tip. A. Garbiglia, 1839; L. De Angelis, Biografia degli scrittori senesi, Siena: G. Rossi, 1824; D.M. Federici, Della letteratura trevigiana del sec. XVIII, Treviso: Giulio Trento, 1807; G.B. Spotorno, Storia letteraria della Liguria, Genova: Tip. G. Schenone, 182458; C. Lucchesini, Della storia letteraria del ducato lucchese, Lucca: presso F. Bertini, 1825-31; E. Gerini, Memorie storiche degli illustri scrittori dell’antica e moderna Lunigiana, Massa: Luigi Frediani tipografo ducale, 1829; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, Torino: tip. Chirio e Mina, 1841; G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, Cagliari: Timon, 1843-44. 1

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

talora per l’organico piano costruttivo (come è ad esempio la Storia della poesia in Piemonte di Tommaso Vallauri) esse non hanno più l’importanza, in quanto forma di cultura, delle analoghe composizioni del Seicento e del Settecento. Anche un semplice sguardo dato alle prefazioni ci illumina subito sui propositi storiograficamente limitati di questi autori, ancora legati ai metodi e gusti del secolo passato e all’ideale ormai ingenuo di riconsacrare fame e glorie misconosciute. Così Giuseppe Vedova dichiarava di scrivere «per dileguare del tutto una volta e per sempre quell’accennata mal concepita opinione della povertà d’ingegni della terra antenorea»2, e terminava la sua premessa augurandosi che finalmente si scrivesse un’opera che riguardasse tutta l’Italia «maestra delle moderne nazioni»: nella quale non avrebbero dovuto mancare «parecchi che a Padova e al suo territorio appartengono». Dove si fondono insieme lo spirito campanilistico e il tema settecentesco, e ancora in certo modo umanistico, della gloria d’Italia, maestra dei popoli. Altri di questi storici, come ad esempio il De Angelis e il Vermiglioli, restavano fermi ai propositi di glorificazione della loro città, senza curarsi di superare il campanilismo in una visione più ampia. Tutti poi, in genere, si richiamano alla tradizione erudita settecentesca, cercando, nel desiderio di giustificare la propria opera, un istintivo affiatamento con essa. Questi lavori si mantengono pertanto in una zona un po’ marginale rispetto alle più vive correnti storiografiche contemporanee e si direbbe quasi, se non si tenesse conto della loro appartata origine, che divergano il corso della storiografia letteraria in un campo stagnante di ricerche regionalistiche, compromettendo il formarsi di una storia letteraria nazionale. Comunque, anche questi scrittori di storie regionali non mancavano, con le loro indagini, di contribuire in qualche modo ad aumentare estensivamente la conoscenza della letteratura italiana, pur non riuscendo criticamente a perfezionarne la concreta immagine. La novità di una storia letteraria invero, come notava il Berchet, non doveva consistere tanto nel narrare e mettere in luce fatti non conosciuti e inediti, quanto piuttosto nella maniera nuova di considerali, nella originale forma storiografica in cui tali fatti, magari notissimi, venivano assunti. E sotto questo aspetto le storie letterarie cittadine e regionali, se pur ricche talora di preziosi documenti, ben poco potevano offrire con la loro struttura dimessa o con la loro accademica intonazione. Alcune altre opere, a differenza di queste storie riguardanti singoli territori della penisola, stabilivano un limite cronologico anziché geografico alla ricerca, come avveniva per esempio nel Saggio sulla storia della letteratura italiana dei primi venticinque anni del secolo XIX di Ambrogio Levati, uscito 2

G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani cit., vol. I, p. 8.

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LA STORIA DELLE BELLE LETTERE DELL’EMILIANI GIUDICI

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nel 1831 a Milano. Questo lavoro, ripetendo un antico costume storiografico, cercava la propria ideale giustificazione in un proposito apologetico e laudatorio, che si risolveva in una dimostrazione della ricchezza della letteratura italiana agli inizi dell’Ottocento, svolta contro il prevalente giudizio degli stranieri e dei non pochi italiani convinti della sua decadenza:

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Siccome il grido degli stranieri, che ci rinfacciano una turpe povertà nelle lettere e nelle arti, vien ripetuto da non pochi nostri concittadini, abbiamo deliberato di svolgere gli annali della nostra letteratura nei primi venticinque anni di questo secolo, e di metterne soltanto in mostra le dovizie3.

Così quell’accento di modernità, che sembra levarsi suggestivamente dall’enunciato contenuto nel titolo, si spegne subito al primo contatto dei modi storiografici applicati nella trattazione della materia. E invero la novità di questo lavoro riguarda unicamente il soggetto dell’indagine, e non tocca nel modo più assoluto la struttura e il metodo. Tuttavia anche l’opera del Levati, benché restasse priva di un suo intrinseco pregio storiografico, stava pur sempre a testimoniare della ormai larga divulgazione di questa forma di cultura, un secolo avanti ancora ai suoi primi incerti tentativi. Ma un indice più significativo di questa nuova situazione era offerto dai compendi. Tra questi risulta di un assai modesto respiro critico il Compendio della storia della bella letteratura greca, latina e italiana di Giuseppe Cardella, pubblicato a Pisa nel 1816, che nella sua ancora ideale appartenenza al secolo passato, non incontrava, come dimostra la critica di Giovita Scalvini nella recensione apparsa sulla «Biblioteca italiana», nessun vero consenso, passando del resto quasi inosservato. Con maggiore simpatia veniva accolta la Storia della letteratura italiana di Giuseppe Maffei, uscita per la prima volta nel 1825 a Milano4 e pervenuta a una terza edizione, corretta e accresciuta dall’autore e riveduta da Pietro Thouar. Questa opera, scritta sotto la suggestione del Ginguené del quale vengono lodati nella prefazione «l’ampio sapere delle cose italiane» e «la rara filosofia»5, si limitava a eseguire onestamente un’operazione di conguaglio critico lungo le fila di una tradizione che contava i nomi (dichiarati dall’autore) del Gravina, del Muratori, del Parini, del Salvini, del Tiraboschi, del Gozzi6. E invero essa voleva riuscire una semplice 3 A. Levati, Saggio sulla storia della letteratura italiana dei primi venticinque anni del secolo XIX, Milano: presso Ant. Fort. Stella, 1831, pp. 4-5. 4 Cfr. la rec. non firmata sull’«Antologia», XVIII (1825), n. 54, pp. 129-130. 5 G. Maffei, Storia della letteratura italiana, Prefazione alla prima edizione, Milano: Società tipografica de’ classici italiani, 18342, p. 9. 6 Ibidem.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

compilazione e non un’opera nuova: e proprio per questi limiti segnati dalla modesta consapevolezza dell’autore poteva venire giustamente apprezzata7. Del resto, il proposito del Maffei (della cui biografia converrà ricordare la notizia relativa alla sua attività di professore di letteratura italiana nelle università di Salisburgo e poi di Monaco) rivolto a scrivere «principalmente pei tedeschi amatori dell’italiana letteratura»8, conferiva a questo lavoro una sufficiente giustificazione, in quanto esso doveva effettivamente assolvere un compito didattico degno di nota e di ricordo nel resoconto della fortuna della storia letteraria. Merita di essere citato a parte il Manuale della storia della letteratura italiana di Francesco Salfi, edito a Milano nel 1834, ma pubblicato originalmente in francese, a Parigi nel 1826, con il titolo di Résumé de l’histoire de la littérature italienne9 e poi a Lugano nel 1831 con il titolo di Ristretto della storia della letteratura italiana10. Nelle pagine introduttive l’autore, con fine sensibilità critica, esprimeva la propria ripugnanza per simili composizioni, le quali, generalmente, «presentando fatti ed idee inesatte ed incomplete», valgono solo ad «aumentare quella falsa scienza che è più pericolosa ancora di un’assoluta ignoranza». Egli si domandava infatti come fosse possibile «racchiudere in poche pagine una storia così lunga, senza rischiar di ridurla ad essere una semplice nomenclatura di autori, o un catalogo noioso egualmente che insignificante». Tuttavia, per quel tanto di utilità che «ai progressi della civilizzazione» (come si esprimeva il traduttore) poteva contribuire un simile lavoro, il Salfi si accingeva all’impresa, proponendosi di rivolgere una particolare attenzione soltanto agli «scrittori di primo ordine», e di indicare invece gli altri «più o meno rapidamente» in una veloce considerazione «in massa». Quanto poi alla biografia, egli dichiarava di volersi limitare a qualche tratto della vita degli scrittori «per caratterizzar maggiormente il genere dei loro studi, e le qualità del loro spirito»11. Con uguale senso di equilibrio il Salfi procedeva, nella sua prefazione, a esaminare la storiografia precedente, della quale erano guardati con rispetto gli imponenti esemplari settecenteschi e considerato come rinnovatore il Ginguené. Sullo sfondo di questo discorso dal tono così cauto e controllato, riescono poi sorprendenti, per il contrasto che ne deriva, le pagine in cui viene proposta una divisione in periodi affatto nuova e strana del corso della storia letteraria. Per il Salfi Cfr. supra n. 4. G. Maffei, Storia della letteratura italiana cit., p. 11. 9 Paris: Louis Janet, 1826. 10 Lugano: coi tipi di G. Ruggia e comp., 1831. 11 F. Salfi, Manuale della storia della letteratura italiana, Milano: Giovanni Silvestri, 1834, vol. I, pp. vi-vi. 7

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LA STORIA DELLE BELLE LETTERE DELL’EMILIANI GIUDICI

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non l’inizio dei secoli, ma il settantacinquesimo anno di ogni secolo, segnerebbe l’inizio delle varie epoche: «perch’è precisamente ad una tale epoca che la letteratura italiana prende sempre una direzione ed un carattere affatto differente» (queste svolte interessavano specialmente il Salfi che, ancora legato alla illuministica idea del progresso, dichiarava: «mi fermerò [...] ai progressi che alcuni [di questi periodi] hanno continuamente fatti, e passerò sotto silenzio o indicherò appena quelli che vi si sono mostrati stazionari o retrogradi»). E cercava di chiarire così il suo schema: In tal modo il periodo di Dante, Petrarca e Boccaccio comincia circa il 1275, e non oltrepassa punto il 1375, epoca nella quale un genere totalmente diverso di studi s’introdusse in Italia. Nel modo istesso non è che dopo il 1475 che, in grazia specialmente dei Medici, la letteratura italiana spiccò quel volo novello che produsse il brillante secolo decimosesto. Questo secolo medesimo prende un differente aspetto circa l’anno 1575, e si vede fin d’allora brillare quel falso spirito da cui il Tasso istesso non seppe interamente preservarsi, e che preparò la scuola del Marini, e la corruzione del secolo susseguente. Finalmente la riforma del gusto non si mostra che circa il 1675, per gli sforzi di quei letterati che riuscirono a sostituire l’arcadia romana alla scuola del Marini12.

E naturalmente si riservava di dimostrare poi nel corso dell’esposizione storica come tale divisione non fosse gratuita. Ma, a parte la possibilità di provare in modo più o meno persuasivo la capacità di resistenza di una tale costruzione, è evidente l’assurdità che è alla base stessa di questo progetto di periodizzazione, e che consiste nel meccanico irrigidimento del mobile e sfumatissimo corso della storia letteraria. E tuttavia agiva forse in questo tentativo un’intenzione ben altrimenti orientata, la quale, se non calcolava pienamente la portata degli effetti che in modo inevitabile ne sarebbero derivati, riusciva degna di nota per il desiderio che nascondeva di sostituire alla distinzione più comune in secoli, troppo materiale, un più sottile modo di articolarsi della vicenda storica, un modo che, mediante lo spezzarsi della matematica misura del secolo, ne eliminasse (ma era una soluzione apparente, ed anzi più responsabile ancora di mettere in evidenza l’aritmetica rigidità dello schema) le troppo esatte giunture. Ma nel ritratto critico del suo autore questo manuale mantiene un significato puramente episodico, al paragone della maggiore impresa alla quale il Salfi, accingendosi a continuare l’opera del Ginguené, si era con più vasto impegno dedicato. Del Salfi è la parte riguardante la fine del Cinquecento 12

Ivi, pp. viii-ix.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

e i quattro volumi sul Seicento dell’Histoire littéraire d’Italie13. Il Salfi per primo tentava in questi volumi di superare la passionale e cieca negazione del Seicento, propria della precedente storiografia, e di suggerirne una storica interpretazione, affacciando la teoria dell’identità di genesi del secentismo letterario e dell’antiaristotelismo e del naturalismo galileiano, che sarebbero nati appunto sotto l’urgenza di un’appassionata ricerca di libertà e di novità14. Nell’acuto disegno storico della civiltà del secolo XVII, se la principale causa dell’oppressione filosofica e scientifica veniva riposta nel gesuitismo, da questo era invece svincolata la decadenza letteraria («je ne dis pas non plus que la corruption de la littérature de ce siècle fût surtout l’ouvrage des Jésuites, comme plusieurs écrivains l’on prétendu»15). Tale decadenza appariva invece al Salfi provocata dalla ribellione contro il passato e dall’ansia del nuovo che, trasportate dal campo della scienza, dove agivano fecondamente, nel territorio della letteratura, dovevano produrre rovinosi effetti16. Senonché questo lavoro, mentre pure segnava un notevole progresso nei confronti della storiografia settecentesca e della stessa opera del Ginguené, non sembrava poi rispondere alle esigenze particolari della nuova storiografia (e non solo per la sua antiquata posizione critica ancora legata all’idea delle leggi e del progresso dei generi e ai miti della «ragione» e del «buon gusto»), tanto che il Berchet poteva così riassumere il proprio giudizio: Data un’occhiata generale a questi tre volumi, ci sembrano egualmente lodevoli che i primi sei per esattezza storica, per abbondanza di notizie, per intelligenza franca delle cose italiane; e del pari che i primi sei, ci lasciano anche questi nell’animo un desiderio di più frequente filosofia17.

Dove il contenuto che evidentemente deve attribuirsi al termine «filosofia», chiarisce, nel suo valore e nei suoi limiti, il credito che si può concedere all’opinione del Berchet. Nella ristampa, che si ebbe a Parigi dal 1824 al 1835, dei quattordici volumi di cui consta l’Histoire lettéraire d’Italie, i primi sei sono del Ginguené, il VII, VIII e IX sono dovuti alla compilazione del Salfi su manoscritti del Ginguené: sono invece completamente del Salfi gli ultimi cinque (dei quali il X comprende la fine del Cinquecento e gli altri il Seicento), che uscirono postumi, essendo morto il Salfi nel 1832. 14 Cfr. B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari: Laterza, 19242, p. XII. 15 P.L. Ginguené, Histoire littéraire d’Italie continuée par F. Salfi, Paris: L.G. Michaud, 1832, vol. XI, p. 85. . 16 Cfr. B. Croce, La storia della letteratura italiana nel secolo decimosettimo di Francesco Salfi, in Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari: Laterza, 1931, p. 7. 17 G. Berchet, Sulla “Storia della letteratura italiana del Ginguené”, in Id., Opere cit., vol. II, p. 170. 13

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LA STORIA DELLE BELLE LETTERE DELL’EMILIANI GIUDICI

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Nello studio del processo di formazione e di sviluppo del libro di storia letteraria, converrà a questo punto, prendere in esame alcune opere destinate a diventare poi la naturale integrazione del resoconto storico. Le antologie (è di queste che intendiamo appunto discorrere) meritano infatti di essere ricordate, in quanto spiegano il sorgere di alcune forme storiografiche posteriori e moderne: e in quanto sembrano (e in qualche momento polemico ciò avvenne realmente) voler sostituire, più che integrare, l’esposizione della vicenda storica, aprendo con quest’ultima una tensione che non resterà senza influenza sullo svolgimento del libro di storia letteraria. Questa forma di attività critica, strettamente legata alla storiografia letteraria, in Italia trovò il suo illustre iniziatore nel Leopardi. Sarebbe infatti fuori luogo cercarne le origini più indietro, magari fino al Crescimbeni, il quale limita la propria attenzione alla poesia e riduce il suo interesse a una ricerca di carattere essenzialmente tecnico. Di questa antologia del Leopardi uscì prima, a Milano nel 1827, la parte riguardante la prosa, in due volumi e con il seguente titolo: Crestomazia italiana cioè scelta di luoghi insigni o per sentimento o per locuzione raccolti dagli scritti italiani in prosa di autori eccellenti d’ogni secolo. L’anno seguente, sempre a Milano, apparvero i due volumi della Crestomazia italiana poetica. Il Leopardi aveva pienamente coscienza della novità del suo lavoro. Nella prefazione, richiamandosi agli esempi stranieri, francesi e inglesi (in modo speciale all’antologia del Noël uscita in Francia), egli si riconosceva come iniziatore di un tipo di lavoro ancora senza esempi in Italia. Quest’opera non voleva essere una pura e semplice compilazione, ma sarebbe dovuta riuscire, nelle intenzioni del suo autore, «come un saggio e uno specchio della letteratura italiana18». Ora, un po’ paradossalmente, si potrebbe dire che, in effetti, questa raccolta di saggi esemplari della nostra letteratura veniva a essere in certo modo la sola storia letteraria concepibile per il Leopardi. E in realtà, mentre il Foscolo giungeva a una forma di critica che può quasi considerarsi come l’equivalente della sua poesia, in cui è fortissimo il senso della tradizione storica, sicché per lui la critica finiva con il risolversi fondamentalmente in un esame di quella vita della storia che nella parola poetica si accumula ed esprime (di qui il nascere di quei saggi densi di sostanza storica), il Leopardi invece (e lo notò assai bene il Fubini19) non giunse mai a una comprensione storica della poesia e mai si sentì stimolato a oltrepassare i confini della retorica, per intendere la complessa vita contenuta nell’espressione lirica. Non propriamente alla critica G. Leopardi, La Crestomazia italiana, a cura di A. Ottolini, Milano: Hoepli, 1926, p. 3. M. Fubini, “L’estetica e la critica letteraria nei pensieri di Giacomo Leopardi”, in «Giornale storico della letteratura italiana», XCVII (1931), cfr. pp. 263-264, 271. 18

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letteraria, sì piuttosto allo studio linguistico si orientava la considerazione propria del Leopardi. La critica invero si confondeva per lui con la poetica. Di fronte ai classici, umanisticamente, il suo rimaneva un problema di pratica imitazione e non di intelligenza critica. Per questo una storia della letteratura italiana, se appare imminente nell’opera del Foscolo, sembra invece quasi estranea (malgrado i vivi giudizi che su alcuni autori nostri è pur concesso incontrare nello Zibaldone) alla riflessione del Leopardi. Ed è proprio per questo che si potrebbe dire, con una punta di gusto paradossale, che la sua storia letteraria è rappresentata dalla sua crestomazia. Del resto, in questi stessi anni, il Tommaseo, dopo di avere discusso con acume il problema della storiografia letteraria, offrendo spunti e suggerimenti metodologici assai fecondi, concludeva affermando: la migliore storia che d’una letteratura offrir si possa, è, cred’io, una buona serie d’edizioni di classici, con note filosofiche20.

Per la preferenza concessa a questo tipo di commento “filosofico”, il Tommaseo sembrava d’altro lato avvicinarsi più al Foscolo che al Leopardi, ma ad entrambi restava poi vicino nella fondamentale sua richiesta, determinata non tanto da una sfiducia nell’operazione critica del racconto continuato dello svolgersi della vicenda letteraria, quanto piuttosto da un timore giustificatissimo e pienamente consapevole, in questi consumati letterati, del pericolo insito in quella operazione di cadere in forme astratte e pedagogicamente nocive, di smarrire cioè, dietro labili immagini storiografiche, l’aderenza al testo vivo della poesia e di comprometterne in tal modo il gusto, senza le quali cose finiva con il non avere più senso una storia delle lettere. Tornando al Leopardi, si deve osservare che anche quella semplice raccolta antologica conteneva del resto un germe storiografico assai importante. Il suo significato consisteva soprattutto nel criterio selettivo che presiedeva alla raccolta degli autori essenziali. Infatti una storia letteraria implica sempre fondamentalmente un’operazione di scelta e di distribuzione prospettica in cui è impegnato con estrema responsabilità il gusto dello storico. Ora, non si può disconoscere l’importanza dell’autorevole giudizio antologico di una personalità dotata del gusto e dell’esperienza d’arte del Leopardi. Il Carducci potrà anche permettersi di definire la Crestomazia poetica «un ospitale di storpi o una sala di pezzi anatomici della poesia italiana»21, indicandone così il limite (inevitabile comunque in ogni operazione antologica). Tuttavia 20 21

«Antologia», XXXIII (1829), n. 97, p. 18. G. Carducci, Pariniana, in Opere, ed. naz., Bologna: Zanichelli, 1939, vol. XVI, p. 255.

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bisogna riconoscere che con questa scelta leopardiana veniva indicata, dalla scaltrita sensibilità di un finissimo poeta, quella che doveva costituire l’ossatura della storia letteraria, quel complesso cioè di autori che, per il valore della loro “forma”, segnano i punti capitali della linea di tradizione dello sviluppo artistico. Senza contare che questa crestomazia, costruita in base a un rigoroso criterio stilistico, collaborava, con la sua suggestiva esemplarità, ad avviare la storia della letteratura verso una concezione ispirata a un principio essenzialmente “formale”, a una preoccupazione rivolta in sostanza a dar rilievo a quei valori espressivi che soli possono giustificare una storia in senso specifico «letteraria». E in questo appunto può esser fatto consistere il principale significato della Crestomazia leopardiana nel quadro della tradizione storiografica letteraria del primo Ottocento. Ma il Leopardi, con questa sua impresa, inizia altresì un modo di considerare e presentare la storia letteraria destinato ad avere successivi sviluppi. Il valore didascalico implicito nella Crestomazia (del resto reso evidente dallo stesso Leopardi nel dichiarato proposito di servire «ai giovani italiani studiosi dell’arte dello scrivere e sì agli stranieri che vogliono esercitarsi nella lingua nostra»22) si svilupperà da un lato, attraverso una filiazione diretta, in un’attività di tono scolastico produttiva di una serie innumerevole di manuali, e dall’altro varrà come lontano preannunzio di alcune forme di modernissima storiografia, caratterizzate da un esasperato bisogno di fedeltà al testo, di concreta aderenza dimostrativa, che doveva risolversi in un ritorno al gusto antologico. L’esigenza didattica, in un processo inverso, risalirà dal testo al commento storico, e darà origine a quella forma che sarà nobilmente illustrata dal classico Manuale di A. D’Ancona e O. Bacci. Di questa tradizione doveva rappresentare un importante anello il Manuale della letteratura italiana di Francesco Ambrosoli, che apparve la prima volta nel 1831 a Milano, e rifatto venne poi pubblicato nel 1863 (e più tardi nel 1872), ottenendo una specie di consacrazione nell’elogio di due celebri letterati, il Carducci e il Chiarini23. Quest’opera, in cui le pagine degli autori si intercalano al testo G. Leopardi, La Crestomazia italiana cit., p 3. Ricordo le parole del Carducci: «Che scoperta non fu per noi il Manuale dell’Ambrosoli, quando sfuggiti alla retorica andavamo in cerca della letteratura dei nostri padri come d’una terra incognita e desiderata, della quale la nebbia e le nuvole ci avevano fin allora o nascosto o malamente mentito l’aspetto lontano! Quanto ci giovò e di che lume non ci fu anche per gli studi posteriori quella sapiente congiunzione della storia e della critica con gli esempi ed i fatti, quell’ordinamento e quella sicurezza di notizie nella lor sobrietà tanto esatte; e la larghezza e il giudizio onde non viene escluso e con la facilità di certi buongustai scomunicato qualunque autore si noti di minor severità e purezza d’ingegno e di stile, quando la sua scuola abbia avuto una storica influenza su lo svolgimento e il procedere della nostra letteratura», G. Carducci, Ceneri e faville, Serie prima, in Opere cit., vol. XXVI, p. 210. 22

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storico, segna il punto intermedio della suddetta tradizione didattica, l’anello di congiunzione fra la Crestomazia leopardiana e il Manuale della letteratura italiana di D’Ancona e Bacci. Con siffatte opere tuttavia restiamo su di una linea secondaria rispetto alla direzione fondamentale dello sviluppo del vero e proprio libro di storia della letteratura. Di tale sviluppo un momento assai importante e in certo senso addirittura decisivo è rappresentato in quegli stessi anni dalla pubblicazione della Storia delle belle lettere in Italia di Paolo Emiliani Giudici, un’opera che richiede e merita un più lungo discorso. La Storia delle belle lettere in Italia fu stampata a Firenze nel 1844, e ristampata nel 1855 con il titolo mutato di Storia della letteratura italiana, restando però sostanzialmente identiche le due edizioni, sebbene l’autore si compiacesse di avvertire nella prefazione della seconda edizione di avere riscritto totalmente l’opera, sì che questa poteva dirsi un nuovo libro24. La Storia delle belle lettere in Italia occupa comunque un posto molto importante nel piano della nostra indagine. La vicenda del costituirsi della storia letteraria, in effetti, si può dire che graviti tutta intorno a tre opere di diverso valore e di diverso significato, ma tutte straordinariamente rappresentative, quella del Tiraboschi, quella dell’Emiliani Giudici e infine quella del De Sanctis. Ognuna di queste tre opere sta a indicare, pur nell’enorme disparità di ingegno dei loro autori, una fase fondamentale nel processo di svolgimento della storia letteraria. E se nel confronto con gli altri due nomi, quello dell’Emiliani Giudici risulta come il più insignificante, non per questo il suo lavoro riesce meno degno di considerazione. Esso rappresenta invece il momento risolutivo e la pratica risposta del problema storiografico-letterario discusso nella prima metà dell’Ottocento. La storia della letteratura dell’Emiliani Giudici, invero, si pone come un’indicativa testimonianza dell’avvenuta maturazione di questo problema critico. Un interessante sintomo della nuova consapevolezza storiografica raggiunta è offerta dalle pagine introduttive, dove l’autore auspica l’istituzione 24 Cfr. A. Russi, “Paolo Emiliani Giudici e la storia letteraria dell’età romantica”, in «Convivium», XI (1939), p. 405: «Non so con quale ingenuità scrivesse così, perché a me, che ho tenuto le due edizioni a fronte, non è capitato di trovare altra differenza se non che una paginetta della settima lezione è passata in fondo alla decima per suggellare il primo volume con una lode a Firenze; inoltre è stato soppresso il Discorso preliminare, ma in compenso una parte di esso è stata aggiunta in fine dell’ultima lezione»; «[Il Giudici] doveva avere un debole per questi ingenui bluffs, visto che si è attribuito, sempre però scrivendo su giornali siciliani, e forse per averne lodi dai concittadini, opere mai uscite, e in lettere al fratello ha spesso esagerato chimericamente (e in questo poco male, dato che l’interesse scientifico non ci ha a che fare) l’importanza delle proprie cariche e della propria fama di scrittore».

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di una cattedra di letteratura italiana, che dovrebbe, nelle nostre università, sostituirsi all’antiquata e inutile cattedra di «eloquenza»: poiché in Italia «non esistono scuole ove questa facoltà venga storicamente insegnata»25. La richiesta di questo nuovo tipo di insegnamento era il segno più evidente del mutamento che si era verificato nel pensiero critico italiano, fatto adulto nel travaglio del dibattito e della ricerca di lunghi anni. L’esigenza che si faceva sentire della fondazione di una nuova cattedra era l’espressione pratica della fondazione avvenuta in sede teoretica di una scienza nuova. Che le cattedre di lingua italiana prima, e quelle di eloquenza italiana poi, come abbiamo detto26, non potessero collaborare allo sviluppo del problema storiografico-letterario, era cosa più che naturale, proprio per la irreversibilità dei termini di un rapporto che è necessariamente di causa ed effetto. Poiché non il fatto pratico poteva determinare quello teoretico, ma questo soltanto doveva produrre il primo: e cioè solo quando fosse stata fondata teoreticamente la scienza della storia letteraria, avrebbe potuto sorgere una corrispondente cattedra di storia della letteratura. Così, il Giudici, con la sua istanza, denunziava che la storiografia letteraria si era ormai costituita come scienza. Perciò la sua Storia delle belle lettere in Italia può dirsi veramente la prima nostra storia letteraria nel senso attuale della parola. L’autore stesso, del resto, aveva coscienza della novità del proprio lavoro, e si rendeva perfettamente conto di inaugurare con questo libro la prima sistematica e complessiva storia della letteratura italiana. Senonché questa novità su cui abbiamo insistito non deve poi essere fraintesa, e richiede pertanto di venire meglio definita. L’opera dell’Emiliani Giudici non è nuova nel senso che essa contenga un’originale intuizione storiografica, ma solo in quanto rappresenta la prima concreta applicazione di quella problematica storiografica agitata da vigorosi intelletti quali il Berchet, il Foscolo, il Tommaseo, il Mazzini. Il Giudici è l’erede di un problema da lui non posto, il realizzatore di un’idea non sua, il volgarizzatore di un pensiero elaborato in sostanza da altri. L’entusiasta apostolo, se si vuole, di un programma fanaticamente abbracciato dall’esterno. E questo spiega anche una certa assenza di intimità propria delle pagine in cui viene tracciata una succinta storia della storiografia dal Crescimbeni al Maffei, dove sorprende il totale oblio di ogni forma di carità storica, quella carità che in fondo, pur nella polemica, non manca mai di accompagnarsi alla speculazione di chi originalmente ripercorre la strada

P. Emiliani Giudici, Storia delle belle lettere in Italia, Firenze: Società editrice fiorentina, 1844, pp. 64 e 9. 26 Cfr. sopra, p. 25, nota 29. 25

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battuta da altri, e in sé dolorosamente sperimenta e compatisce le fatiche e le ansie e gli errori dell’umana ricerca. Il Giudici, in queste pagine, accingendosi a esaminare lo stato della storiografia letteraria a lui precedente, dai primi suoi incerti tentativi alle ultime più sicure prove, demolisce con accento enfaticamente oratoriale una dopo l’altra le opere del Crescimbeni («sciagurato», «inverecondo o scimunito»27), del Gimma che «a spaventare il mondo con sterminate promesse, pubblicò l’Idea dell’Italia letterata»28), del Quadrio (che «con maggiori ricerche, con maggiore pazienza e con molto maggiore tracotanza [...] presentossi all’Italia arcadica con più immane lavoro»29). La svalutazione va tuttavia progressivamente diminuendo man mano che il nuovo storico si avvicina al proprio tempo, tanto che Ginguené e Maffei vengono giudicati con la più favorevole sentenza (mentre Sismondi è respinto quale divulgatore poco controllato e plagiario: forse per la sua troppo accentuata propensione nei confronti di quel romanticismo contro cui il Giudici aspramente polemizzava). Con assurdo procedimento, il Giudici, in questa polemica rassegna degli autori di storie letterarie che l’hanno preceduto, raffronta i vari storiografi non già con i loro immediati successori, in modo da creare il senso del progressivo sviluppo e quindi del preciso contributo da essi recato in questa linea di sviluppo, ma, sopprimendo ogni gradazione, senz’altro con l’ideale modello storiografico che è nella sua mente, sì da finire col dare origine a una prospettiva irreale, in cui le distanze appaiono stranamente scorciate e falsate. Una specie di violenta sopraffazione ideale, esercitata dall’immagine dell’adulto esemplare critico da lui vagheggiato, interviene a impedire la valutazione dell’autentico significato di quei primi scrittori di storie letterarie. Insomma sono pagine, queste, tutte pervase dall’oratoria della nuova cultura storiografica. Esse si presentano un po’ come la predicazione retorica della precedente pensosa elaborazione. I nomi di Vico e di Muratori, idoleggiati eroi del nuovo gusto critico, sono costantemente richiamati. E insieme con essi vi è celebrato il nome del Foscolo, protagonista massimo della rinnovata storiografia, realizzatore dell’auspicato connubio: della filosofia vichiana e della filologia muratoriana. Il Giudici, invero, riesce ad avvertire con felice intuito la grandezza della critica del Foscolo, «principe, anzi creatore della vera critica italiana»30, e opportunamente auspica la raccolta degli sparsi

27 28 29 30

P. Emiliani Giudici, Storia delle belle lettere in Italia cit., p. 24. Ivi, pp. 25-26. Ivi, p. 26. Ivi, p. 52.

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articoli foscoliani31, che in realtà doveva effettuarsi quasi subito dopo presso il Le Monnier. Accanto a questi nomi simbolici di tutto un orientamento storiografico, fanno la loro comparsa quei temi critici ampiamente divulgati nei decenni precedenti. Essi tuttavia non sono ripresi in modo superficiale e non sono soltanto riecheggiati a vuoto, ma vengono assunti con viva consapevolezza metodologica, riuscendo assai spesso fecondamente sviluppati e approfonditi, sì da configurare una problematica dall’inconfondibile, se non sempre positivo, accento personale. Il concetto nuovo di letteratura su cui è fondata la storia dell’Emiliani Giudici non è originale. Accennato dal Berchet prima e dal Tommaseo poi, tale concetto è accolto dal Giudici con una coscienza più profonda: Cominciando dal diffinire la parola Letteratura, vidi come i miei predecessori non ne avessero avuta un’idea netta, determinata ed eguale, imperciocché taluno estendevala a tutto lo scibile, tale altro alle opere d’immaginazione unicamente; tale poi l’assumeva non dall’indole delle materie ma solo dalla qualità dello stile e chiamava egualmente letterati l’Ariosto e il Galileo, l’Alfieri e il Volta [...]. Pensai quindi a segnare i limiti della parola Letteratura [...] e col proponimento di non toccare affatto il campo delle scienze [...] feci subietto al mio concepimento le arti della Parola; la qual cosa volli significare col titolo che apposi al mio libro: Storia delle belle lettere in Italia32.

Il Berchet si era accontentato di richiamare incidentalmente e indirettamente a quella che era l’estensione propria del termine letteratura, il quale comprenderebbe in senso lato anche le scienze e in significato più limitato le sole «belle lettere», aprendo in tal modo la strada, contro l’uso tradizionale consacrato solennemente dal Tiraboschi, a una più circoscritta interpretazione. Il Tommaseo poi aveva proposto, per un pratico motivo di specializzazione, di tenere distinti i due diversi contenuti, «scienze» e «belle lettere», abbracciati dal termine letteratura, consigliando di limitare la storia della letteratura alla storia delle belle lettere. Ebbene, il Giudici raccoglie questi spunti e, con più illuminata coscienza, si decide risolutamente a eseguire la riduzione del concetto di «letteratura» al concetto di «belle lettere», intese queste come «arti della parola», sottolineando così il valore dell’«espressione» quale criterio essenziale orientativo della storia letteraria. La formula adoprata dal Giudici rimaneva ancora nella incertezza di un’idea approssimativa e non rispondeva ad un concetto rigorosamente definito, tuttavia tale idea, se 31 32

Ivi, p. 53, nota 1. Ivi, pp. 59-60.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

in sede di storia dell’estetica poteva risultare insufficiente, in una pratica zona di efficacia operativa, non restava priva di importanza, in quanto riusciva a porre termini sufficientemente esatti alla narrazione storiografica, abbandonata, fino a questo momento, nell’estensione della sua superficie di interesse, alla più incontrollata e sorprendente incertezza di confini. Mediante tale formula, sotto il concetto di letteratura non veniva più compreso l’intero scibile e, per contro, nemmeno la sola attività fantastica. D’altra parte, con essa non si pretendeva introdurre, come principio regolatore della zona d’attenzione storica e del procedimento di valutazione critica un astratto criterio stilistico, prescindendo da ogni considerazione di contenuto, ma si voleva soltanto più concretamente limitare l’esame a quelle opere in cui la parola recasse il segno di un’attività spirituale in cui in sostanza si denunziasse un qualche significato espressivo. Entro questi limiti il nuovo concetto di letteratura acquistava un indiscutibile significato e una reale possibilità di applicazione. Al Giudici in tal modo toccava il merito di avere assimilato per primo questa intuizione storiografica e di avervi adattato l’architettura della sua opera, che, con un iniziale permanere di esitazione, intitolò prima Storia delle belle lettere e poi, in forma più decisa, Storia della letteratura. E proprio sotto questo aspetto, e cioè per l’esattezza con cui sono segnati i confini della sua materia, l’opera del Giudici può essere considerata come la nostra prima autentica storia letteraria. Ma anche altre questioni meno importanti tornavano a essere poste in discussione dal Giudici, e non senza raggiungere, sulla base della larga esperienza critica contemporanea propria dell’autore e attraverso lo sforzo del suo impegno costruttivo, qualche parziale chiarificazione e intelligente ripensamento. Così il problema del rapporto fra biografia dei letterati e storia delle lettere veniva riproposto con precisa chiarezza: in quanto all’elemento biografico, non lo esclusi affatto, anzi quel tanto ne introdussi, che parvemi necessario a spiegare lo sviluppo mentale degli autori, e massime di quelli che grandeggiarono sull’epoca, e ne ressero i destini33.

Era, questo, l’atteggiamento assunto dalla più consapevole critica nella reazione contro il biografismo erudito settecentesco. Tuttavia, con sveglia intelligenza metodologica, il problema si avvivava di un penetrante spunto polemico. Il Giudici parlando dell’opera del Tiraboschi, così ne coglieva il limite storiografico nei riguardi della biografia: 33

Ivi, p. 61.

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ché a tessere un lavoro speciale, ed esclusivo su tutti i dotti di un paese, più copiose e peculiari notizie si sarebbero richieste, là dove son troppe in una storia complessiva della letteratura34.

Il giudizio tentava di colpire il lavoro del Tiraboschi nella stessa sostanza che lo costituiva e nelle linee interne del suo metodo. La perplessità che, nonostante i propositi, l’opera del grande erudito dimostrava fra storia dei letterati e storia delle lettere era denunziata nella sua origine e nelle sue conseguenze. Affiorava ben preciso, in questa sentenza, il senso della necessaria distinzione fra le varie discipline scientifiche fondate su scopi e metodi diversi, un senso che scaturiva da una mentalità storiografica giunta ormai ad un superiore grado di consapevolezza. Ma il problema su cui l’Emiliani Giudici insiste soprattutto nel suo discorso introduttivo è quello relativo alla determinazione del ritmo di sviluppo della storia letteraria, individuato nei suoi mutamenti essenziali e nelle caratterizzazioni dei suoi principali periodi. Su questo punto il Giudici segna con maggiore evidenza un approfondimento rispetto alle posizioni contemporanee ed esprime il suo contegno più caratteristico. Anche a questo proposito non manca, da parte dell’autore, un immediato richiamo alla cultura storiografica precedente, idealmente rappresentata dal Foscolo: La fusione della dottrina politica e della letteraria, che noi desiderammo negli storici tutti della nostra letteratura, fu per la prima volta ammirata negli scritti di Foscolo35.

Già il Tiraboschi e il Ginguené avevano sentito la necessità di introdurre nella storia letteraria un costante rimando alla storia politica, che valesse come commento e illuminazione della letteratura: senonché la storia politica in questi storiografi finiva coll’esaurirsi in un discontinuo elemento illustrativo e in una superficiale decorazione. Con limpido accorgimento il Giudici rileva l’insufficienza di questi primi tentativi: Trovai [nel Ginguené] non nego, de’ tratti storici premessi a taluni capitoli (e li avea veduti con più metodo inserti ne’ volumi del Tiraboschi), ma in entrambi mi parvero quaderni di opere diverse cuciti a caso in un tomo di storia letteraria, la quale poteva senz’essi o con essi andare di egual movimento;

34 35

Ivi, p. 33. Ivi, p. 54.

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e conclude: «Soltanto dalla fusione di ambe le parti può ottenersi il risultato della spiegazione politica della letteratura»36. L’Emiliani Giudici ereditava questo problema dalla mentalità storiografica del proprio tempo. Il problema della fusione di politica e letteratura (che poteva poi ridursi al motivo storiografico della letteratura come espressione della società, nel suo senso bivalente della letteratura specchio delle condizioni politiche e di prodotto di esse) sorgeva dalla esigenza di superare in un’organica visione il frammentarismo della storia intesa come discontinua serie di annotazioni raggruppate intorno ai singoli autori, e dal bisogno altresì di eliminare, mediante un pieno affiatamento con la storia politica, l’astrattismo della considerazione biografica e retorica delle varie personalità, isolate in un clima senza tempo. Ma questa istanza storiografica della fusione di politica e letteratura e questa formula della letteratura come espressione della società, rimanevano nei loro primi enunciatori e ripetitori piuttosto indeterminate e inefficaci. L’Emiliani Giudici sa invece vivificare con un chiaro ripensamento questi temi, sviscerandone le possibilità concrete di applicazione: Sia qualunque si voglia il modo in che si concepisca, e la forma in che si presenti, un lavoro di quel genere deve essere in guisa disegnato, che le minori forme siano concentrate nelle maggiori e queste armonizzate in un tutto. Individuare quindi le epoche diverse, distinguerne le transizioni e le influenze mutue; cercare le cause di questo più o men rapido avvicendarsi, ed indagarlo nelle vere sorgenti; stare rigorosamente alla cronologia, e determinare quali circostanze individuali o politiche abbiano contribuito al nascimento e al carattere della tale opera, ed alla influenza esercitata da essa sopra tutta o parte della letteratura; distinguere i vari rami dello scibile, ed insegnare come, dove e perché si colleghino, e quando l’uno si innalzi e l’altro si abbassi, e come poi tutti, e quali più quali meno, contribuiscano al perfezionamento morale ed alla felicità della nazione37.

Malgrado questa conclusiva sentenza ispirata ancora ad astratte ed ingenue ideologie illuministiche, e nonostante una certa enfatica genericità diffusa in tutta la pagina, si deve riconoscere che non manca in questo tratto una prospettiva abbastanza animata delle operazioni storiografiche fruttuosamente conseguibili mediante l’impiego della formula tradizionale. L’astratto dogma della letteratura espressione della società si avviva di fronte al proposito di una concreta esperienza di storiografo, in una articolata e mossa problematica, perdendo quella astratta schematicità con cui fino allora era stata presentata. 36 37

Ivi, pp. 39-40. Ivi, pp. 33-34.

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La matura esperienza critica che si riassume nell’Emiliani Giudici è provata anche dall’atteggiamento con cui egli pur sa collocarsi al di sopra della immediata polemica onnirinnegatrice e accogliere nei loro limiti talune forme storiografiche poco prima ancora enfaticamente esorcizzate o sdegnosamente rifiutate, respingendone tuttavia, nell’ambito stesso della loro riconosciuta legittimità, l’insufficienza metodologica ad esse inerente. Così, l’opera del Corniani, anziché venire rinnegata quale esempio di una storiografia oramai scaduta, era di buon grado accolta nei suoi propositi e fini di storia biografica. La fase critica più ingenua, ancora tutta timorosa di possibili scambi e di pretese sostituzioni di forme eterogenee con l’autentica storia letteraria, e per ciò stesso piena di diffidenza verso modi di ricerca simili a quelli dei Secoli, era ormai chiusa. Senonché il Giudici sottoponeva poi alla luce di quella sua esperienza storiografica, in cui era vivissimo il bisogno di caratterizzare e periodizzare, la stessa metodologia esplicantesi entro i limiti già accettati della forma di indagine propria dell’opera del Corniani. Ora, se questa poteva non essere rifiutata nella sua natura di inchiesta biografica (in quanto nella divulgata coscienza critica era diventato ben chiaro il limite di simili lavori e perciò, senza pericolo di fraintendimenti, era possibile riconoscere la positiva funzione di essi), doveva tuttavia venire respinta per l’insufficienza metodologica con cui erano ordinate queste biografie, pur suscettibili, prese di per sé, di generare una narrazione storicamente valida. L’errore fondamentale consisteva, secondo il Giudici, nell’essersi l’autore attenuto a un pedestre procedimento cronologico: mentre la cronologia giova non poco alle particolari vite de’ singoli scrittori, torna priva di effetto, e soventi volte dannosa, a caratterizzare le vere epoche, che subiscono la data vicenda non per la individua potenza dell’uomo, ma per la confluenza delle forze morali di un popolo, le quali accentrate in un punto danno la spinta, che produce il mutamento. E però risultandone un erroneo sistema di classificazione, un tutto insieme apparentemente vero, ma storicamente falso, nuoce al libero movimento della forza combinatrice del leggitore38.

L’impegno storiografico del Giudici era soprattutto rivolto a fissare gli essenziali momenti dello sviluppo storico, e rifiutava per conseguenza ogni rigida applicazione dello schema cronologico, sempre fatalmente astratto e incapace di esatta prospettiva. Per questo, nella Storia delle belle lettere, il Giudici sostituiva al tradizionale periodizzamento ritmato secondo i secoli, una diversa struttura, e parlava non più di secoli ma di epoche. Questa 38

Ivi, p. 37.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

partitura in epoche implicava naturalmente una caratterizzazione di esse. In tale caratterizzazione, o meglio, come si esprime il Giudici, nel tentativo di cogliere «il genio letterario dell’epoca», si esauriva il compito fondamentale della storiografia. Anche questi non erano certo motivi nuovissimi, poiché si trattava di germi diffusi che si respiravano nel clima di cultura che si era venuto formando nella penisola, ma nuova ne era la concreta esperienza affrontata dal Giudici, che per primo in Italia tentava di applicare questi principi accingendosi a esporre il corso della nostra storia letteraria. L’esame della Storia delle belle lettere permette di scoprire un paesaggio storico animato da linee e da colori che tutto lo percorrono e lo illuminano, offrendo un quadro ben più sostanziato di vita in confronto alle schematiche sintesi della civiltà dei vari secoli eseguite dal Tiraboschi, o allo stesso intelligente disegno della letteratura del secondo Settecento tracciato dall’Ugoni. L’Emiliani Giudici apre la sua storia con un’illustrazione storico-culturale relativa ai secoli della decadenza pagana e della nascente era cristiana, presentando un sommario ragguaglio della letteratura medievale, per chiarire «le varie ragioni intime, le quali, dirigendo la mente umana per vie differenti, operarono un trasmutamento assoluto nella letteratura del pari che nei costumi»39. Illuminate le lontane origini della nostra storia letteraria, ne veniva esaminata la prima manifestazione artistica nella corte siciliana, e la seconda nella scuola bolognese, «nella quale la poesia congiuntasi alla platonica filosofia, faceva un grandissimo progresso». In questa fase iniziale, la poesia italiana aveva subiti due movimenti massimi, i quali bipartono, senza punto diversificarlo, il suo primo periodo: l’uno di nascere ed individuarsi nella forma amorosa; l’altro di tentare e conseguire l’espressione di idee difficilissime ad essere significate da forme ancora infantili, ovvero di associarsi alla filosofia platonica40.

«Mentre che in siffatta guisa l’arte bambina avanzava», la lotta «tra la monarchia feudale e la teocrazia agitava le genti italiane». In questo travaglio la letteratura giungeva alla sua manifestazione massima. Così, «di mezzo a tale movimento politico e letterario, esce fuori Dante Alighieri». Il quale, riconosce il Giudici, «è dagli Italiani riverito come padre della loro lingua e poesia, e di tutta la loro letteratura»41. Con il Petrarca e il Boccaccio, «i quali congiunti a quel grande formavano un triumvirato che doveva concedere a Firenze il Ivi, p. 119. Ivi, pp. 345 e 1234. 41 Ivi, p. 1234. 39 40

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primato letterario sopra ogni stato italiano», aveva inizio l’ultima delle quattro epoche in cui era distinta la letteratura italiana dalle origini al Trecento, dopo la prima sveva, la seconda bolognese, e la terza dantesca. «Verso quel tempo, mercé gli studi e l’autorità del Petrarca e del Boccaccio erasi sveglio un indicibile entusiasmo per l’antica letteratura» che portava «a dissotterrare i tesori delle greche e delle latine lettere». Si apriva così un periodo nuovo che è «un vasto teatro di grandezze pressocché incredibili» esclama, con la stessa enfasi del Tiraboschi, il nostro storico. In questo periodo

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l’aspetto originale dell’arte, sebbene non muti, perde la severa schiettezza primigenia ed appare come perduto nella concorrenza ed appariscenza degli elementi nuovi i quali come procedenti da una forma di civiltà essenzialmente diversa, tornati a rivivere, riuscivano in alcun modo stranieri.

Il popolo intanto, che era rimasto estraneo alla nuova cultura, «faceva progredire l’idioma parlato» e, completa il critico, «in quell’epoca stessa l’arte sviluppava due grandi generi della moderna letteratura, voglio dire la drammatica e l’epica». Con il Quattrocento si chiude in modo definitivo il «periodo della letteratura originale» e ha inizio quello «d’imitazione o di perfezionamento»42. L’Emiliani Giudici nell’esaminare il secolo successivo segna due epoche, «la differenza delle quali è finora sfuggita agli occhi de’ critici, che ne hanno guardata solamente l’apparenza». La prima appare «fecondissima d’ingegni veramente grandi, nelle opere dei quali si scorge il franco pensiero dell’Italia non ancora affatto caduta nelle sciagure del servaggio politico». La seconda, «che si inizia a un di presso dopo la morte del Machiavelli, e colla caduta della repubblica fiorentina e colla assoluta prevalenza della Spagna», presenta lo spettacolo di uno immenso sciame di scrittori d’ogni genere, intenti a trafficare di letteratura o per lusso o per mestiere e procacciarsi migliore ventura; e separatisi dalla nazione [...] vendere se stessi e contaminare gli altari delle muse.

Allora la letteratura [...] cessava di essere una facoltà piena di vita e potentemente motrice de’ popoli [...] rinnegò la sua sacra e libera missione e divenne merce di mero lusso. Il letterato non più fu l’istitutore de’ cittadini, il poeta non più fu il motore degli affetti delle plebi, ma divenne l’addobbo di corte, l’abietto servitore de’ potenti43. 42 43

Ivi, pp. 1235, 481, 482, 1236-1237. Ivi, pp. 914-915, 641.

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Ma verso la fine del secolo l’Italia, volendo uscire da quello stato di immobilità letteraria, trascorreva ad un estremo contrario; ed alla gelida eleganza degli imitatori del Bembo e del Casa, succedevano le stranezze ammanierate e ridicolissime del Marini e dell’Achillini44.

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Tuttavia «se per le arti della fantasia il Seicento è stagione infelicissima, per le scienze è epoca di sostanziale rinnovamento e di eterna gloria per l’italica nazione...». Senonché scienze grandi ed illustri sono le naturali, ma per il loro carattere innocuo allignano ne’ tempi d’intorpidimento morale, e servono di pompa al potere, che proteggendole senza che gli si turbi il sonno, gli acquistano a buon mercato il nome di promotore della sapienza45.

In questa decaduta condizione della nostra letteratura, la fine del secolo giungeva senza che dovesse ancora verificarsi un rinnovamento: In sul declinare del Seicento la corruzione del gusto era ita tanto oltre, che diventata ridicola provocava una riforma la quale gittava l’arte, dallo stato violento in cui era, in una sonnolenza diversa da quella che l’oppresse nel Cinquecento, ma sonnolenza pur troppo46.

In mezzo a questo decadimento, tuttavia, «mentre l’arcadia era nella sua più florida condizione, le cose si andavano disponendo in meglio». Incomincia allora «una reazione più ragionevole e più valida contro il seicentismo e l’arcadismo». In tal modo s’inaugura un autentico periodo di rinnovamento: E fu il tempo in cui la critica cominciava a conciliarsi colla filosofia, e gli studi storici venivano in fervore, e la drammatica si ricreava per le cure di tre grandissimi uomini [...] la letteratura ripurgavasi d’ogni barbarie, la lingua e lo stile prendevano aspetto italiano, il culto di Dante diffondevasi per tutta la penisola47.

Artefice e insieme risultato massimo di questa nuova epoca, autentico «atleta», come definisce il Giudici, di questo periodo di ricostruzione, doveva 44 45 46 47

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. 1239. pp. 918-920. p. 1239. p. 1240.

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essere «Vittorio Alfieri che il mondo saluta qual creatore del teatro tragico in Italia, e l’Italia adora come il rigeneratore della sua letteratura e gli concede un seggio di gloria a lato di Dante»48. A questo ritratto alfieriano segue un veloce esame della letteratura del «periodo napoleonico», in cui viene esaltata l’opera del Monti e del Foscolo. Ma è soprattutto quest’ultimo a raccogliere l’entusiastico consenso dello storico: a paragone del Foscolo «non v’è scrittore, dopo Dante ed Alfieri, nelle produzioni del quale il concetto sia sempre lo stesso e sempre con più vigoroso ragionamento sviluppato ed espresso con crescente fervore»49. Con il ricordo di tre poeti, Pindemonte, Fantoni e Leopardi, curiosamente accostati, si chiude il resoconto della vicenda delle nostre lettere. Questa linea strutturale in cui si configura il corso della storia letteraria si può ricavare sia dall’interno della narrazione che occupa l’intero volume sia dalle pagine finali, che l’Emiliani Giudici si compiace di aggiungere quasi per contemplare in un riassuntivo prospetto l’intero svolgimento della vicenda delle nostre lettere. Questo capitolo ultimo, in cui è offerta la sintetica formulazione del processo di sviluppo della letteratura italiana, si presenta perciò come il risultato a cui tende tutta l’inchiesta dell’autore, la serie complessa delle sue operazioni critiche. Il voluminoso libro della Storia delle belle lettere sembra scritto in funzione delle poche pagine conclusive contenenti il diagramma del respiro storico della nostra letteratura. E in realtà proprio in quest’ostinata ricerca della linea strutturale in cui si compone l’intero edificio della civiltà letteraria italiana, consiste il significato più notevole dell’opera del Giudici. Nel tentativo di ricostruire nella sua totalità l’immagine della storia della letteratura italiana fino allora confinata, per parte degli studiosi nostri, nelle archivistiche compilazioni settecentesche, deve essere riconosciuto il merito di questo lavoro storiografico. Soltanto nel confronto con l’opera del Tiraboschi, è dato valutare pienamente il lavoro dell’Emiliani Giudici, misurare la distanza che divide dal capolavoro della storiografia settecentesca la Storia delle belle lettere, nella quale si riassume l’intero travaglio della ricerca storiografica italiana del primo Ottocento. Il confronto istituito dal Borgese con i contemporanei Mazzini e Gioberti e con Federico Schlegel, che offrono le prime sintesi e le prime panoramiche nelle quali si cerca, con adulta consapevolezza critica, di ritrarre la nostra storia letteraria, porta necessariamente a un impoverimento della personalità del Giudici50. In Mazzini e in Gioberti si trova un’indiscutibile preminenza nel tracciare grafici 48 49 50

Ivi, p. 1088. Ivi, p. 1209. G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia cit., pp. 325 ss.

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storici densi di motivi e lucidi di verità. E in Federico Schlegel c’è già quella distinzione della letteratura nel periodo di svolgimento originale e in quello dello sviluppo imitativo e perfettivo che sarà usufruita dall’Emiliani Giudici. Così, altri schemi e inquadramenti sono ricavati dalla precedente storiografia italiana e straniera. Ma non mancano, d’altra parte, posizioni più originali, come ad esempio il periodizzamento suggerito per il secolo decimosesto, con un’impostazione nuova, la cui novità viene rivendicata dal Giudici: reputo opportuno avvertire come i critici nostri, e sull’autorità di questi gli stranieri, facendo de’ cento anni che compongono il secolo decimosesto una epoca sola, si siano trovati confusi nel formare un vero concetto del carattere letterario dell’Italia, e smarriti fra tanta abbondanza di produzioni abbiano dato di cozzo in durissimi assurdi. Imperocché ammettendo che i tempi, i quali produssero il Macchiavelli e gli scrittori tutti educati al libero pensare mentre palpitava ancora il cuore della repubblica, fossero simili a quelli di Cosimo, troverebbe un nodo inesplicabile nella coesistenza della indipendenza e del servaggio, della libera parola del cittadino e dell’abbietto linguaggio del cortigiano, due idee in somma che stanno a guisa delle proposizioni del dilemma, una delle quali è forza che escluda l’altra. Ove dunque si nomini il Cinquecento, si abbia l’accortezza di separare i primi trent’anni dagli anni rimanenti, e si verrà ad un più retto giudizio de’ tempi e degli ingegni51.

Ma, qualunque sia l’intrinseco pregio di questa e di altre simili proposte, non è in esse che va cercata l’importanza storica dell’opera dell’Emiliani Giudici. Non è infatti la validità delle interpretazioni relative a singoli autori o a interi periodi, quel che ci permette di determinare l’autentico significato di questo libro. Il risultato concreto dell’esperienza storiografica del Giudici può essere soltanto collocato nel tentativo di riassumere in un sistematico lavoro, le intuizioni teoretiche e le applicazioni pratiche di diversi decenni di riflessione critica svolta intorno al problema della storia letteraria. In questo impegno costruttivo consiste il motivo del più vero interesse dell’operazione storiografica intrapresa dall’Emiliani Giudici. L’architettura complessiva e la sintesi finale costituiscono la zona d’attrazione massima e insieme il momento più efficace per il suo esercizio critico. Senonché alla sua ambizione di vaste e compendiarie prospettive non soccorreva una paziente e sufficiente capacità di analisi. Accade così più di una volta che la veduta d’insieme, anziché vivere in un flusso perenne di scambi fecondi con i particolari analitici, dai quali dovrebbe essere dedotta per ritornarvi ancora

51

P. Emiliani Giudici, Storia delle belle lettere in Italia cit., pp. 717-718.

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a meglio spiegarli, se ne stia in un rapporto di assoluta estraneità con essi, senza che riesca a risolversi la giustapposizione che ne risulta. Mentre infatti lungo queste pagine si accampano solenni panorami e quadri riassuntivi (spesso ricalcati da altri), non è dato poi trovare adeguatamente valutati i singoli autori. In questa storia manca una vera comprensione dell’opera d’arte e anche solo un’autentica penetrazione della psicologia degli scrittori e, se si eccettua qualche raro caso in cui interviene una particolare felicità di parola (riesce esemplare la definizione del carattere del Sacchetti «arguto e festevole»52), non è dato imbattersi se non in generiche e astratte considerazioni intercalate a distesi sunti di capolavori. L’ammiratissimo Foscolo, così ricco di sensibilità, non doveva per nulla giovare al fedele discepolo. Il contenuto critico particolare risulta pertanto assai povero, e non sempre giustifica le generali caratterizzazioni, astrattamente imposte più che storicamente dedotte. Per questa insensibilità agli autentici valori della poesia e, più ancora, per questa indifferenza ad ogni effettivo contatto con i singoli documenti espressivi su cui la storia letteraria si fonda, la Storia delle belle lettere, che, vista nella sua finale e definitiva sintesi, può anche incontrare motivi di consenso, lascia poi incerti su un apprezzamento che non sia quello meramente estrinseco relativo all’organismo strutturale. Così, malgrado le vivaci sintesi e i vasti disegni e gli ingegnosi aggruppamenti, si può dire che in questa opera finisca con il mancare una vera e propria storia della poesia, o comunque una storia dell’espressione letteraria. Il proposito chiaramente manifestato dal Giudici è quello di scrivere una storia delle «belle lettere» ossia, come egli spiega nella prefazione, delle «arti della parola». Con questa precisazione non solo veniva a essere eliminata dall’inchiesta la storia delle scienze, ma sembrava acquistare un rilievo nuovo, in quanto essenziale alla ricerca, l’elemento espressivo. Tuttavia l’ideale contegno di questo modulo, come si può ricavare facilmente dall’esame dei diversi capitoli, impediva l’attuarsi di una storia della forma in un senso modernamente inteso. La forma rimaneva praticamente, per il nostro storico, un fatto estrinseco, una realtà staccata dal contenuto. La sua invero è ancora la forma formata propria del classicismo, quasi veste che possa essere imposta indifferentemente a questo o a quel contenuto. L’attenzione al fatto espressivo così interpretato determinava evidentemente un tipo di indagine suscettibile di uno sviluppo autonomo e astratto, in una piena indifferenza a ogni valore di contenuto. D’altra parte, il Giudici, accogliendo, e sia pure con una comprensione insufficiente, il concettualismo estetico proprio della filosofia idealistica di Schelling e di Hegel, che ponevano l’arte come sim52

Ivi, p. 897.

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bolo di un’idea, era costretto a fermare l’attenzione su quegli elementi etici o intellettuali estranei alla forma estrinsecamente concepita:

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Ogni arte muovendo da un’idea generatrice, semplice ed una, sebbene non affatto isolata nella sua individualità, tende a svilupparsi aggirandosi entro i confini di quella. L’arte allora si reputa pervenuta o vicina al suo perfezionamento quando l’idea primigenia, che la costituisce e la muove, è conseguita e depurata d’ogni concorrenza d’idea straniera che potesse appannarla o distruggerla. Ad attingere questo grado di perfezionamento, in cui è posta l’eccellenza, è fatale ad ogni arte che in principio muova traballando, arrampicando ed aiutandosi in tutti i modi a fine di uscire da questo scabro terreno della sua infanzia53.

L’accettare un tale concettualismo implicava naturalmente l’ammissione di una critica e di una storiografia orientate verso una ricerca contenutistica, mal conciliabile con la critica formale del classicismo ancora operante nel gusto del nostro autore. Nasceva di qui, sul terreno pratico del giudizio degli autori, un’oscillazione continua di comportamento da parte dell’Emiliani Giudici, e pertanto la fisionomia ambigua propria della sua storia. L’interesse espressivo e quello concettualistico, procedendo separatamente, finiscono infatti con il creare, nell’interno del discorso dedicato ai singoli artisti, una perpetua discontinuità. Il prevalere dell’una o dell’altra preoccupazione determina così, senza che mai si verifichi un risultato unitario e definitivo, un alterno variare di posizione critica. Dovendo trattare del Petrarca, l’Emiliani Giudici avanza una curiosa premessa: Prima, intanto, di farci a parlare di lui, non si stimi superfluo il ripetere, che avendo io tolto a svolgere le vicissitudini delle Belle Lettere non già della Letteratura in generale, le leggi del presente libro sarebbero violate, ove senza aperta ragione deviassi dal retto sentiero [...]. E quantunque la coscienza riguardo a ciò finora non mi rimorda, pure non ebbi mai maggiore occasione di paventare una caduta, adesso, che le opere latine del Petrarca, produzioni maravigliose in ragione de’ suoi tempi, mi tenterebbero a regalare a’ miei lettori parecchie pagine di non lieve importanza54.

L’interesse rivolto alla forma, ridotta a un significato meramente linguistico, precludeva, in questo come in altri simili casi (tipico il paragrafo sul Poliziano55), ogni attenzione al contenuto, che veniva programmaticamente 53 54 55

Ivi, p. 538. Ivi, p. 372. Ivi, p. 618.

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trascurato, sebbene esso si presentasse di un’estrema importanza (per confessione dello stesso autore) ai fini di un giudizio sulla umanità dell’artista e sulla sua poesia (a parte poi il suo significato nella storia del nascente umanesimo, il quale doveva avere sulle «arti della parola» un’influenza di primissimo ordine). Per contro, nel libro, affiora pure di frequente la tendenza a cogliere l’idea simboleggiata nella letteratura: e allora, prescindendo da ogni attenzione stilistica formale, l’analisi si rivolge esclusivamente ai valori di contenuto. In questo esercizio di ricerca contenutisticamente orientata, l’idea che il Giudici credeva di poter riscontrare come essenziale alla nostra storia letteraria si determina fondamentalmente in senso politico. Guelfismo e ghibellinismo erano appunto le due categorie introdotte per misurare e spiegare il corso della letteratura italiana. Due categorie non già indifferenti, per l’anticlericale autore, ma destinate a risolversi in un rapporto antitetico di valore e disvalore, di positività e negatività. Veramente, non si può dire che la storia sia configurata in maniera assoluta ed esclusiva secondo questo schema, tuttavia l’intervento di esso non manca di influenzarne in larga proporzione la fisionomia. Alla luce di questo canone interpretativo, l’idea della grande arte di Dante sarebbe appunto ghibellina, mentre il crescente affermarsi dell’idea guelfa che si verifica alla morte di Dante avrebbe finito con il portare alla decadenza56. Così, il ridestarsi dello spirito italiano dopo tale decadenza avveniva per il risorgere dell’idea ghibellina, sebbene questa si presentasse con aspetto diverso: Della lotta tra il sacerdozio e l’impero, che per sì lungo volgere di tempo aveva fatta inferocire la procella nelle cose politiche del mondo, chi all’epoca alla quale accenniamo, ne avrebbe parlato? [...] il dramma continuava, gli attori avevano cangiata la maschera, e gli uomini invece di pugnare per Cesare o per Pietro, combattevano gli uni per il trionfo della ragione, gli altri per quello dell’autorità57.

È insomma, sotto mutata parvenza, sempre lo stesso tema concettualistico che si offre come criterio interpretativo lungo tutta la storia. Tuttavia questa inchiesta sul modificarsi della vicenda della storia letteraria condotta secondo il drammatico alternarsi di guelfismo e ghibellinismo, avviene con una certa discontinuità, e, anziché comporsi unitariamente con la valutazione degli elementi formali, si colloca nel libro accanto a essa, ora sostituendola e ora cedendole il campo.

56 57

Ivi, p. 485. Ivi, pp. 977-978.

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Un altro motivo ereditato dalla critica tradizionale, ma contaminato con il concettualismo estetico, interveniva a esercitare un’azione sulla struttura della storia dell’Emiliani Giudici, e cioè la teoria dei «generi letterari». Quando infatti l’autore della Storia delle belle lettere parla dell’«idea drammatica» ricorre a una formula che, malgrado lo specioso linguaggio attinto alla estetica dell’idea, non modifica sostanzialmente l’antiquato concetto del genere letterario. L’introduzione di questo criterio portava pertanto a un’estrinseca considerazione del processo storico e a una totale deformazione della sua prospettiva. L’opera unitaria di individualità potenti come quelle di un Machiavelli e di un Ariosto veniva arbitrariamente spezzata, e questi classici erano sottoposti a un esame frammentario, in un capitolo come scrittori drammatici, e in un altro quali autori del Principe e del Furioso58. Per tale residuo della teoria dei generi, interveniva nel resoconto storico il principio di una progressività dell’arte assolutamente inaccettabile nei termini astratti in cui era posto: la lingua della nazione dall’epoca del suo primo apparire infino a quella della sua ricostruzione trovossi in possesso di tutte le forme letterarie, di guisa che a’ secoli che succedettero non altro rimase che o finire, o perfezionare, o scimmiottare, o corrompere affatto le forme primigenie dell’arte, non già inventarne delle assolutamente nuove o delle affatto intentate59.

Questo modulo critico del genere letterario regola in gran parte la costruzione della storia dell’Emiliani Giudici, e finisce con il determinare una provvisoria unificazione, o meglio un momentaneo accostamento del contenuto e della forma. La teoria dei generi, così come l’aveva concepita la critica classicistica, portava infatti a un’insistente considerazione della forma, risolvendo gli stessi elementi contenutistici in disciplinati schemi formali. Il Giudici contaminando questa critica tradizionale con l’estetica dell’idea, studiosa di più interne situazioni spirituali, operava un involontario incontro della forma e del contenuto, ponendosi così su un piano di duplice considerazione, formalistica e contenutistica. Comunque, a parte le estrinseche possibilità di soluzione offerte da questo provvisorio incontro, le linee fondamentali di interpretazione operanti nella Storia delle belle lettere rimangono sempre incerte e variamente giustapposte o inconsapevolmente coincidenti. Del resto era naturale che il Giudici, superando la storiografia puramente documentaria e proponendosi un autentico problema storiografico, finisse, 58 59

Ivi, pp. 830 ss. Ivi, p. 635.

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per la mancanza di un sistematico e consapevole ripensamento dei fondamentali principi estetici e storiografici, con il cadere in un’incerta e oscillante costruzione. La proposta del Giudici, nonostante la sua estetica e critica superficialità, non mancava di offrire un positivo contributo alla soluzione del problema della nostra storia letteraria. I limiti indicati non impediscono che la sua costruzione presenti alcuni motivi fecondi. Innanzitutto il proposito di scrivere una storia delle belle lettere giovava a sottolineare l’importanza dei valori espressivi quale elemento essenziale del paesaggio storiografico, e pertanto ad avviare alla concezione della storia letteraria come storia non più della cultura, ma dei documenti scritti aventi un particolare pregio d’arte, e dunque come storia dell’arte letteraria, e poetica. D’altro lato, il costante impegno rivolto a segnare un ritmo di svolgimento (e sia pure attraverso il concettualismo estetico e la teoria dei generi) riusciva a orientare verso una considerazione dei significati più intimi del corso della vicenda letteraria, e a favorirne l’interpretazione nel senso di un più concluso periodizzamento. Al De Sanctis toccherà appunto raccogliere questa eredità, e portare a una soluzione il problema lasciato aperto dal Giudici: e la sua sarà storia di un contenuto-forma, cioè un’autentica storia della letteratura, la storia di una forma in cui si realizza un contenuto o di un contenuto realizzatosi in forma. Ma prima di giungere al De Sanctis la storiografia letteraria italiana doveva approfondire altri motivi e tentare altre esperienze. La Storia delle belle lettere apriva intanto una fase nuova nella discussione del problema storiografico letterario. Questa discussione doveva prolungarsi fino al 1861, quando Eugenio Camerini, provvedendo alla seconda edizione milanese del compendio della storia del Giudici, ne esaminava in alcune pagine introduttive60 il significato, e ne esaltava l’autore (salvo alcune riserve su particolari punti) soprattutto per avere, contro la tradizione dei vecchi storici che «infilzano nomi e fatti, e titoli e date», meritato per primo in Italia l’elogio che fu degnamente fatto al Villemain in Francia, e cioè di «avere introdotto l’eloquenza nella critica e nella storia letteraria»61. Meno enfatico e più concreto era il giudizio sull’opera del Giudici pronunziato da altri scrittori, i quali se ne occuparono immediatamente. In genere si può dire che venisse accettata la metodologia professata dal nuovo storico: mentre il dissenso si manifestava sui risultati particolari. Era insomma sul configurarsi Furono ristampate in E. Camerini, Nuovi profili letterari, Milano: N. Battezzati e B. Saldini, 1875, vol. II, pp. 226 ss. 61 Ivi, pp. 229 e 238. 60

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dello svolgimento storico delle lettere in Italia, ottenuto con quel metodo universalmente accettato, che era fatta convergere la critica. Così, in questo periodo che segue la pubblicazione della Storia delle belle lettere, e precisamente nel 1847, Luigi Cicconi, recensendo l’opera sulla rivista di Torino l’«Antologia italiana», incominciava il suo articolo con un ingenuo moto ammirativo: «Abbiamo finalmente una storia delle Lettere Italiane!»62; ed esprimeva il suo incondizionato consenso sul piano metodologico nei confronti di questo nuovo lavoro. Nel passare però all’esame particolareggiato del volume, sottoponeva a un critico controllo le varie interpretazioni, riassumendo e distribuendo il proprio giudizio sull’autore in alcuni positivi riconoscimenti e in qualche riserva. Il Cicconi poteva innanzitutto ammettere che l’Emiliani Giudici «è molto perito nel rinvenire le fila di un concetto italiano sì della canzone, sì del poema, sì del dramma; ne studia le forme e le trasformazioni». In questo doveva essere indicato il maggiore pregio e riconosciuta la più vera originalità dello storico. In questo consisteva anche la modernità del suo lavoro, perché questa filiazione storica d’idee letterarie è per noi scienza nuova, e che non potevano indovinare gli antichi, non addestrati come i moderni agli studi psicologici, ai metodi analitici, alla forza sintetica, prodotti da lunghe meditazioni e dall’applicazione della filosofia ai concepimenti dell’arte.

Ma in definitiva il recensore doveva concludere che «felice il Giudici in questa parte della sua opera, lascia a desiderare una più stretta connessione della storia civile colla letteraria»63. Per i contemporanei la grande innovazione del Giudici era dunque rappresentata da quell’inquadramento della letteratura negli schemi di svolgimento suggeriti (cooperando la teoria dei generi) dal concettualismo estetico. Il suo limite invece sarebbe stato costituito da un’incapacità di intuire e porre in luce quell’«intrinseca relazione della politica colla poesia» che costituiva la massima aspirazione della storiografia risorgimentale. Ma per raggiungere un tale risultato occorreva una sensibilità e una scaltrezza critica non comune, tanto che, si potrebbe dire un po’ paradossalmente, sarà necessario l’ingegno del De Sanctis per attuarne e insieme superarne felicemente l’ideale. Sul terreno dell’interpretazione politica della nostra storia letteraria il Cicconi non accettava in particolare la tesi ghibellina del Giudici. Essa tuttavia era rifiutata non già per una superiore metodologia, ma soltanto per L. Cicconi, “Intorno alla Storia delle belle lettere in Italia di P. Emiliani Giudici e concetto politico della letteratura italiana”, in «Antologia italiana», I (1847), p. 568. 63 Ivi, p. 571. 62

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una diversa fede politica. Il Cicconi, invero, restava sullo stesso piano critico del Giudici, e quello che da lui veniva negato era non più che il contenuto dello schema politico applicato alla storia letteraria. Egli sostituiva insomma all’ideologia ghibellina del Giudici l’ideologia guelfa, conservando immutato il criterio esegetico. Il recensore affermava ripetutamente che «la nostra letteratura fu guelfa e antighibellina» e che «la nostra letteratura [...] fu maggiormente italiana quando compiutamente fu guelfa». Era questa la conseguenza, riflessa nella considerazione della letteratura, di un diffuso atteggiamento storiografico, in cui la passione politica s’inframmetteva nel giudizio critico, turbandone indubbiamente l’oggettiva serenità e nondimeno, come è stato osservato64, costringendo per tal via la materia a configurarsi finalmente in storia interna. Questa colorazione politica della nostra storia letteraria che muoveva da una idealità nazionale diversamente ispirata, guelfa o ghibellina, si ritrova anche in Saverio Baldacchini e, in forma più clamorosa, nel Cantù e nel Settembrini. Del resto, dalla stessa passione nazionale derivava il concetto di primato, introdotto nella storia letteraria a giustificarne la vicenda. Anche questo motivo, derivato dal Gioberti e del resto (in un diverso contesto psicologico e ideologico) già presente nella storiografia settecentesca, faceva la sua comparsa nelle pagine del Cicconi, il quale, attraverso una ricerca (che in certo modo riecheggia Mazzini e prelude a Carducci) dei vari «elementi» nazionali operanti nella nostra letteratura, tentava di affermare la validità di tale principio. Nella sua rassegna il Cicconi credeva di potere escludere nel modo più assoluto ogni influsso dell’elemento nazionale germanico e inglese sulla nostra civiltà letteraria, e di dover riconoscere invece un’associazione di essa con l’elemento francese. Ma questa presenza straniera non implicava, secondo il critico, un’imitazione da parte italiana, poiché la letteratura nostra si era assimilato l’elemento francese, non per soggiacere all’influsso straniero, ma per signoreggiare in quelle nazioni dell’Europa a cui la stringeva conformità di indole, analogia di costumi e di linguaggio65.

In tal modo da quel riconoscimento iniziale con il quale si ammetteva la presenza di un elemento straniero nel corso della nostra letteratura, si veniva a dedurre, attraverso un’abilissima operazione di diplomazia critica, nella quale si eliminava ogni residuo di esterofilia, un’esplicita affermazione

Cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX cit., vol. II, pp. 273-274. L. Cicconi, “Intorno alla Storia delle belle lettere in Italia di P. Emiliani Giudici e concetto politico della letteratura italiana” cit., pp. 585-587. 64

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nazionalistica del primato delle nostre lettere e del loro programma espansionistico presso altre civiltà66. Tuttavia, in una sede di maggiore responsabilità critica, anche questo concetto non doveva riuscire del tutto sterile, poiché, se nei termini in cui era posto non poteva se non offuscare l’esatta considerazione della storia letteraria, esso era pure in grado di avviare a quello studio degli scambi e influenze reciproche delle varie letterature, indispensabile a una chiara valutazione delle stesse. E su questo piano veniva a redimersi storicamente il suo significato critico. Per una ragione di affinità e insieme di contrasto, si impone qui un richiamo al nome del già citato Baldacchini, il cui intervento nella discussione del problema storiografico letterario esige qualche parola. In un articolo, Della utilità ed opportunità d’una nuova storia letteraria italiana, pubblicato nel 1844 sul «Museo di scienze e letteratura» (una delle tante riviste che stanno a documentare il risveglio della cultura verificatosi a Napoli in questi anni67), il Baldacchini, fermandosi a considerare le nostre storie letterarie sotto l’aspetto del loro contegno e della loro funzione, non nascondeva, in pieno contrasto con le tendenze più moderne, la sua simpatia per gli antichi modelli storiografici: Un tempo noi italiani con la rettitudine del giudizio, e con quel finissimo senso, che da ogni dismisura e da ogni eccesso ci salva, potevamo senza troppe avvertenze farci ad istudiare i nostri grandi scrittori, aiutati da alcune opere patrie di storia letteraria e di critica: le quali senza sminuzzare tanto filosoficamente la materia, lasciavano che gli animi, non rinunziando alla loro attività ingenita, corressero da sé al conoscimento della bellezza e della sublimità, che ride nelle creazioni dell’arte. Le opere del Quadrio, del Crescimbeni, del Muratori e del Tiraboschi per se stesse non ci facevano forse penetrare molto addentro nelle ragioni più intime della nostra letteratura; ma che noi vi penetrassimo non si opponevano68.

E così lamentava la dimenticanza e la svalutazione in cui erano piombate quelle opere, e specialmente il capolavoro del Tiraboschi: Con l’andare del tempo i nomi di que’ buoni vecchi vennero derisi, e neanche la sterminata erudizione e la sanità del giudizio che sono pure

Ivi, p. 587. Cfr. F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, [lezioni raccolte da F. Torraca e pubbl. con prefazione e note da B. Croce], Napoli: Alberto Morano Editore, 19228, p. 54. 68 S. Baldacchini, “Della utilità e opportunità d’una nuova storia letteraria italiana”, in «Museo di scienze e letteratura», N.S., II (1844), vol. IV, pp. 62. 66 67

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nel Tiraboschi visibilissime, il salvarono ch’ei non fosse messo come in un fascio con gli altri69.

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Questa fedeltà ai vecchi nostri storiografi non era tanto dovuta a una confessata affinità di posizione metodologica (il Baldacchini su questo punto non osava mostrarsi troppo reazionario, ed era disposto, forse a malincuore, a riconoscere i limiti del Tiraboschi), quanto piuttosto a una dichiarata diffidenza verso gli stranieri che avevano innovato il modo di narrare la storia della nostra letteratura: Né io dico che non si fosse potuto far meglio del Tiraboschi, ma veramente né peggio né meglio di lui si fece; imperocché da noi la nostra storia letteraria venne vilmente abbandonata, né ad altro ci tenemmo contenti che a copiare ciò che da alcuni forestieri fu detto. Eppure, secondo a me sembra, la storia letteraria d’un popolo è tal cosa che a dichiararla convenevolmente i forestieri non troppo vi sono acconci, come quelli che da talune preconcette opinioni non si sanno scioglier del tutto: e spogliarsi la propria natura per vestirsi quella degli altri è sommamente difficile70.

Questo geloso sentimento di nazionalità, che pretendeva di togliere agli stranieri ogni diritto di critica sulle nostre lettere, riservandone l’esclusivo monopolio agli italiani, s’appuntava specialmente contro quelle opere del Ginguené e del Sismondi che tanto consenso avevano riscosso e tanto avevano contribuito a rinfrescare il gusto storiografico in Italia. Nella polemica che il Baldacchini muoveva contro il Sismondi, «protestante», e contro il Ginguené, «discepolo di scuole anche più perniziose che le protestanti non sono», e nella sentenza che non fosse possibile comprendere i «prodigi della poesia e dell’arte italiana, e l’Alighieri, e Michelangiolo, e l’Urbinate ed il Tasso, senza farci con essi cattolici», si denunziava l’autentico proposito storiografico del Baldacchini. Così, l’onesto giurista meridionale si affannava a dare consigli e suggerimenti per la composizione di una storia letteraria che correggesse tutto il male e il falso introdotto dalla «spiegazione che delle nostre letterarie vicende ci porgeva una filosofia incompiuta», auspicando che nel futuro ideale storiografo ardesse «nel cuore la stessa fede e sulle labbra [...] la stessa favella ch’ebbero i nostri grandi scrittori»71. Per la nostalgia nei confronti degli storiografi del Settecento, per l’avversione agli influssi culturali stranieri e infine per la diffidenza verso la moderna «filosofia», la

69 70 71

Ibidem. Ivi, p. 63. Ivi, pp. 64 e 68.

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posizione del Baldacchini sembrava ottusamente reazionaria. Ma se tale poteva anche apparire, in effetti si trattava piuttosto di una parola piena di misura, equilibratamente legata alla nostra sana anche se troppo provinciale tradizione, e comunque essa giovava, nel dialettico movimento della storia, a esercitare un’efficace azione di controllo verso forme troppo indisciplinate e avventurose: senza contare che il Baldacchini, con il pretendere per l’esegesi della vicenda letteraria una disposizione spirituale fondata sulla propria fede etica e politica, si dimostrava pienamente affiatato con le contemporanee tendenze storiografiche. Comunque, pur nel suo accento discorde, era questa una voce interessante e degna di essere ascoltata nel coro delle altre voci per meglio intendere la situazione di questo specifico problema nella cultura italiana del primo Ottocento. Nell’articolo del Baldacchini è dato trovare l’unica opposizione, su un piano metodologico, alla Storia del Giudici. Consenso sulla problematica fondamentale e dissensi sui risultati particolari caratterizzano invece l’ampia recensione scritta da Carlo Tenca sul «Crepuscolo» del febbraio e marzo 185272. Il Tenca approvava in linea assoluta i principi storiografici su cui era costruito il lavoro dell’Emiliani Giudici, ritenendolo «nobilissimo e ancora unico tentativo fra noi d’investigazione filosofica intorno allo sviluppo letterario della nazione» e libro «scritto con altezza di critica e con indipendenza e spesso anche con profondità nuova di giudizii»73. Quello che a lui non riusciva accettabile e che determinava la sua polemica si riferiva non propriamente alla struttura della storia, ma al suo «contenuto». Negativa era soprattutto, per il Tenca, la presenza di una mentalità antiromantica (anche se poi dal Romanticismo il Giudici aveva ereditato i canoni storiografici che presiedevano alla sua opera). Questa disposizione portava ad atteggiamenti particolari, specie nei confronti dell’ultima letteratura, che dovevano riuscire al gusto del più moderno critico assolutamente negativi. Il Tenca riassumeva la sua opinione di fronte alla Storia delle belle lettere in queste parole: Si direbbe [un libro] ispirato dal più vivo lume delle dottrine moderne, che tanto allargarono l’orizzonte del pensiero, innalzando le lettere a una potenza d’espressione e d’uffizio dapprima sconosciuta. Per questo lato e per la pienezza dei giudizii e pel vivace scintillar dello stile esso è figlio di 72 C. Tenca, A proposito di una storia della letteratura italiana cit., vol. I, pp. 361-410. L’occasione per l’articolo era offerta al Tenca dalla pubblicazione del Compendio della storia della letteratura italiana (Firenze: Poligrafia Italiana, 1851). Il Giudici, ristampando nel 1855 la Storia delle belle lettere del 1844 (con il titolo mutato, già presente nel Compendio) non dimostra di tenere nessun conto di queste importanti pagine del Tenca. 73 Ivi, pp. 366-367.

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quella scuola critica, che gl’innovatori trapiantarono in questi ultimi anni nella nostra letteratura. Ma, se guardiamo invece al concetto generale di esso, alla gelosa esclusività dell’intento, all’odio passionato contro le nuove forme e all’amore entusiasta della tradizione italiana, noi vi ravvisiamo la più pura espressione di quella scuola che si ritira diffidente nel culto del passato, per timore di veder contaminati il carattere e la grandezza nazionale74.

Insomma, l’intelligenza storica del Giudici, teoricamente bene addottrinata, si lascerebbe poi, secondo il Tenca, troppo spesso fuorviare da quella passione settaria antiromantica che doveva spingerne l’originario acume e il coltivato esercizio su posizioni critiche di assai discutibile validità. L’ideale colloquio che si istituisce fra il Tenca e il Giudici avviene perciò non su un piano di metodologia storiografica, intorno alla quale i due critici si trovano pienamente d’accordo, ma solo nell’ambito di opposte scuole e fedi letterarie, a proposito delle quali sono invece divisi. Il dibattito ha dunque come oggetto una questione di mero «contenuto» storico, piuttosto che di “forma” storiografica. Per questa ragione, è difficile potere ammettere che il Tenca segni davvero un progresso nella discussione del problema della storia della letteratura. Del resto, anche quando egli afferma la necessità di superare l’angolo visuale meramente politico dominante nella critica del Giudici, non fa, come parrebbe, una proposta metodologica, ma soltanto una critica in cui è impegnata una ragione pratica, più che un motivo teoretico. Nell’articolo del Tenca ritornava a essere dibattuta l’antica questione del rapporto fra letteratura e storia. Su questo punto particolare il Tenca accusava l’Emiliani Giudici di essere rimasto alla soluzione propria della scuola classicistica e di avere orientato su di essa la sua indagine: Occupati come sono a cercare nelle manifestazioni del concetto letterario le fasi dell’esistenza politica della nazione, gli scrittori di questa scuola non sanno vedere altro punto diverso o più elevato, a cui si diriga l’attività dell’intelligenza. Per essi il problema è tutto pratico e di applicazione immediata: ogni tentativo, ogni ispirazione d’arte, che trascenda appena i confini di questo intento, è da essi sdegnosamente respinto e condannato. I più indulgenti lo diranno trastullo od aberrazione letteraria, gli altri lo guarderanno come opera di nemici, come complicità degli studii alla servitù del pensiero italiano. Da ciò l’importanza esagerata attribuita all’elemento politico, e il subordinare i grandi periodi della civiltà nazionale alle brevi e mutabili vicende degli Stati, od alla preponderanza degli individui e delle fazioni75. 74 75

Ivi, p. 370. Ivi, pp. 372-373.

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Con questo il Tenca non aveva nessuna intenzione di proporre una considerazione storica criticamente più vera (più rispettosa dell’autonomia dell’opera d’arte), in cui la poesia fosse considerata nel suo libero processo di sviluppo, senza quel costante riferimento alla situazione politica (troppo costrittivo) vagheggiato da tutta la critica dell’Ottocento. Il Tenca accettava anche lui la formula della letteratura come espressione della società, e in questo stesso saggio doveva proclamarla quale insostituibile canone storiografico. Anzi era proprio in nome di essa che egli interveniva contro l’Emiliani Giudici, il quale sembrava non averne capito l’effettivo contenuto, restando impigliato in quella estrinseca concezione classicistica dei rapporti fra letteratura e storia, in cui quest’ultima si riduceva al mero significato di storia di stati e di politiche vicende. Nella sua opposizione il Tenca non tanto si proponeva di affermare un motivo storiografico che fosse più articolato di quell’elementare schema settecentesco a cui sembrava ancora stretto il Giudici, quanto piuttosto obbediva a un’esigenza etica e ideale. Si trattava insomma ancora una volta di una questione di contenuto. Con la sua polemica il Tenca intendeva colpire una situazione diffusa: e precisamente quella tendenza che caratterizzava la tradizione amata dal Giudici (si pensi ad Alfieri), a legare strettamente l’arte e la politica (cosa ben diversa, per il Tenca, dalla società, e coincidente piuttosto, si direbbe, con il governo) e di vedere un influsso costante fra politica e letteratura. Tendenza, questa, non certo condivisa dal Tenca per i presupposti ideologici a cui essa si ricollegava, contrastanti con la mediata provvidenzialistica visione della storia, propria della cultura e della morale in cui lo scrittore milanese viveva76. Allo stesso modo, sempre per un dissenso di natura etica, e non per un contrasto di carattere strettamente storiografico, il Tenca si accingeva a riesaminare la configurazione data dal Giudici al processo di sviluppo della nostra letteratura, per sostituirvi una linea diagrammatica dal diverso andamento. Egli afferma: Due elementi avevano prevalso in Italia, durante il decadimento dell’antichità romana e i secoli oscuri della servitù, la barbarie feudale e il cristianesimo; e contro questi dibattevasi con tutta la forza d’una gloriosa reminiscenza la grandezza del mondo pagano77.

L’elemento romano trionfava con l’affermarsi dei comuni «in cui lo spirito borghese delle cittadinanze resiste alle idee feudali e cavalleresche, e la Cfr. G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia cit., pp. 230-231. C. Tenca, A proposito di una storia della letteratura italiana cit., p. 377. Per le altre citazioni cfr. le pagine seguenti fino a p. 385. 76

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coltura secolaresca respinge ostinatamente il giogo dell’autorità religiosa». Questi «elementi» o «concetti», come sono anche chiamati, spiegano, con la loro varia alternanza, il procedere del corso storico della nostra letteratura.

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Ciò spiega perché in un secolo ancora pieno di aspirazioni devote, quando [...] nel fondo del popolo dormivano intatte le leggende e la mitologia del Medio Evo, la poesia risorta non fosse altro che sensualismo amoroso, e raffinato vaneggiamento d’affetto, e culto ed armonia di forme quasi pagane.

E spiega anche la fioritura della civiltà siciliana dovuta a Federigo II, «che aveva consumato la vita tentando di secolarizzare il potere e di sottrarlo alla influenza ecclesiastica», e si trovava a capo di «una famiglia principesca», la quale «divenuta nazionale, mostrava di voler prendere in mano i destini e la libertà dell’intera penisola». In Dante dovevano comporsi i due elementi, che originano «quel suo poema, così cristiano per la fede, e così fiorentino per l’ispirazione». Una composizione non assoluta, perché scalzando le fondamenta dell’autorità ecclesiastica e nutrendo amore profondo di forme pagane, e risuscitando il concetto di Roma, Dante preparava la decomposizione di quell’unità da lui congegnata. Del resto, questo tentativo di accordo «rimase inefficace sopra i suoi contemporanei», e il suo poema «rimane senza influenza immediata sulle fantasie e non riesce a fondare una scuola». Intanto «la lotta tra i due elementi ferveva più che mai» e la «nobile ed allegra borghesia» tornava «alle amene ispirazioni, al materialismo burlesco», talora appena sollevandosi «a un platonismo di sentimento, pieno ancora di reminiscenze plastiche e sensuali». Con il Petrarca e con il Boccaccio la separazione tra i due elementi diventa anche più manifesta: L’arte italiana tendeva a rimanere nella vita, nella verità positiva [...] e, lasciate le preoccupazioni del mondo invisibile, si proponeva uno scopo immediato e verificabile nel circolo della propria esistenza sociale.

L’elemento pagano era destinato a trionfare nel Rinascimento, mentre il «concetto cristiano», attraverso la lirica francescana e le sacre rappresentazioni, tentava invano di creare una letteratura. La letteratura italiana si manifesta dunque come «una lotta permanente della società intesa a sbarazzarsi dalle reliquie e dai terrori del medio evo», una lotta in cui si presenta come naturale alleata l’arte classica «così libera, così serena». La fusione dei due elementi sembra invece dimostrarsi impossibile. Lo spiritualismo politico di Savonarola e il tentativo di conciliazione di dogma e filosofia di Bruno dovevano clamorosamente fallire con la tragica morte dei due uomini. Così

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l’Ariosto «mette in fuga coll’infinito sorriso del suo poema» ogni residuo di «barbara mitologia». Mentre il Tasso raccoglie nella sua anima gli estremi ondeggiamenti di questa lotta fra i due elementi: «In lui vediamo riprodursi come in un supremo scoppio di luce, l’ardore cavalleresco coi superstiziosi terrori del medio evo». Ora finché durò «la lotta della risorta civiltà latina contro la barbarie feudale» l’anima umana poté «non sentire il vuoto che si faceva intorno a lei, e creder vivo ed operoso il concetto della letteratura». Ma vinto il Medioevo, l’arte «dopo aver compiuto il suo lavoro di eliminazione e di distruzione, trovavasi senza concetto proprio». L’arte finiva con il «ristringersi nell’adorazione di sé medesima, cercare in sé sola il suo fine, e rigonfiarsi e domandare alle forme quell’innovazione che il concetto non era più atto a creare». Questo spiegherebbe la decadenza secentesca e arcadica. «Il materialismo non aveva condotto che alla negazione ed al vuoto, e non poteva più dare scintilla di pensiero e di vita». Quando dunque, per merito dell’Alfieri, l’arte risorse «non cercò altrimenti la sua ispirazione che alla vecchia tradizione». L’Alfieri può dirsi «il più insigne rappresentante di questa postuma risurrezione del pensiero antico», e la sua tragedia rappresenta «lo sforzo più grande e gigantesco di rifare una vita non ancora spenta nelle fantasie italiane». Ma l’«idea» dell’Alfieri non poteva più bastare. Di qui l’arte desolata dei suoi successori, Foscolo e Leopardi. Di qui, anche, lo sforzo del Manzoni e dei romantici di un superamento, con il cercare di ripristinare la turbata armonia dell’arte, «risalendo a quel concetto da cui era primamente partito il divorzio dei due elementi», e insegnando in Italia «il tentativo della letteratura cristiana». Si provava così a far rivivere quell’elemento cristiano contro cui aveva lottato tutta la nostra tradizione letteraria. «Ciò spiega perché la nuova scuola, traviata fin dal suo principio e senza legame di precedenti storici nella letteratura italiana [...] dovesse isterilire miseramente»78. Il Tenca chiudeva la sua analisi affermando la necessità di una conciliazione fra le due scuole, romantica e classica, sul terreno pacifico della coscienza nazionale, la quale sente il bisogno di star fedele alla tradizione, come allo sviluppo naturale del suo carattere e al più caro patrimonio della propria grandezza, e al tempo stesso non rifiuta i beneficii dell’innovazione, che feconda di nuove forze l’infiacchito elemento tradizionale79.

Tale era il piano di sviluppo della nostra letteratura secondo la proposta del Tenca. Ora, questa interpretazione, se non spostava radicalmente il 78 79

Ivi, p. 392. Ivi p. 409.

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problema storiografico, poiché il Tenca accettava in sostanza il metodo del Giudici, non era tuttavia priva di una virtù innovatrice, in quanto sostituendo, quale principio di svolgimento della letteratura italiana, a un’arida formula di contenuto politico, un modulo di contenuto ideale (materialismo e spiritualismo, concetto pagano e concetto cristiano), riusciva a configurare secondo una linea abbastanza compatta e articolata quel processo storico della letteratura che nella visione politica del Giudici appariva tanto più discontinuo e oscillante. E tuttavia la stessa facilità con cui potevano venire invocati gli elementi di questa diade suggerita dal Tenca per spiegare lo sviluppo della nostra letteratura, rendeva inevitabile l’impigliarsi, attraverso questo insistito intervento di «elementi» variamente reagenti, in schemi troppo illusoriamente risolutivi. Questa duplice possibilità di esiti opposti conteneva in sé quasi il preannunzio di due contrastanti concezioni storiografiche che avrebbero dovuto affermarsi di lì a qualche anno, quella desanctisiana e quella carducciana. La configurazione del Tenca infatti sembra anticipare in certo modo, per l’unitario ritmo della linea di svolgimento, l’idealistica storia del De Sanctis, dove appunto verrà perseguita con acuta intelligenza l’intima dinamica della letteratura italiana; mentre, per quella preoccupazione di fissare e combinare gli elementi di cui verrebbe a essere il prodotto la letteratura, sembra anche lasciare presentire la naturalistica concezione del Carducci, rivolta a porre in luce di «fattori» dello svolgimento della letteratura italiana. Così si concludeva questa nuova fase di discussione del problema della storia letteraria, che si era sviluppata intorno all’opera dell’Emiliani Giudici. (Una terza fase, ma qui non doveva essere più dialogo, bensì drammatico e solitario monologo, si era già iniziata in questi stessi decenni con l’attività del De Sanctis). La questione dello svolgimento delle nostre lettere, attraverso una fitta serie di proposte e di risposte, di discussioni e di polemiche, veniva assumendo, in questo respiro cronologico, un posto precipuo nell’interesse storiografico, mentre altri aspetti e motivi si affacciavano e attendevano di essere ripresi e portati a maturazione. Ma intanto, in questi e negli anni successivi, altri concreti tentativi di composizione di storie letterarie venivano effettuati in Italia e all’estero, con risultati diversi, che giova comunque prendere in esame.

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SUCCESSIVE ESPERIENZE STORIOGRAFICHE

Mentre i nostri critici si occupavano con tanta passione del problema della storia della letteratura italiana, la cultura straniera, soprattutto tedesca, non tralasciava di applicare la propria esperienza storiografica allo studio dello svolgimento della nostra letteratura. Così, in Germania (a Lipsia) dal 1844 al 1847 appariva l’opera di Emilio Ruth, Geschichte der italienischen Poesie, la quale, in due volumi, prendeva a esaminare il cammino delle lettere italiane fino al secolo decimosesto, dove essa restava interrotta. Questa storia, rivolta ai tedeschi, partigianamente, si proponeva di dimostrare come la letteratura italiana si riducesse in fondo, nei suoi elementi positivi, ad essere una provincia del germanesimo. L’autore, riallacciandosi al concetto della poesia come espressione dello «spirito di un popolo», specchio del Volksgeist, intendeva determinare, secondo un gusto di cui abbiamo già sottolineato la presenza in Italia, il «senso» e il «carattere» della poesia italiana1. Egli ricercava perciò innanzitutto di definire il carattere del popolo italiano, che risulterebbe formato dal concorso di tre elementi, la romanità, la gerarchia ecclesiastica e il germanesimo, negativi i primi due e solo positivo quest’ultimo, il quale avrebbe operato in effetti la salvezza del nostro popolo attraverso un’azione di ringiovanimento. Del particolare carattere derivato al popolo italiano dall’azione di questi tre elementi, sarebbe tutta improntata la nostra letteratura, che nella Verjüngung attuata dall’elemento tedesco troverebbe dunque il suo motivo più fecondo. Malgrado questo grossolano errore di fondo, il lavoro del Ruth non mancava di recare qualche parziale contributo, e per tale positivo apporto esso rientra in quella corrente di collaborazione offerta dagli stranieri allo sviluppo della nostra storiografia letteraria che ebbe,

1 Cfr. B. Croce, “Il carattere della poesia italiana secondo E. Ruth”, in «La Critica», XXVIII (1930), p. 471.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

con il Ginguené, il Sismondi, Federico Schlegel, un inizio di eccezionale importanza. A chi si accinga a esplorare la storia della critica relativa alla letteratura italiana, e pertanto anche la storia della storia della letteratura, si presenta tutta una possibile zona d’indagine nello studio degli stranieri che, impegnati nell’esame delle nostre vicende letterarie, variamente concorsero ad allargare il chiuso orizzonte provinciale della penisola, trasportando le questioni letterarie in un clima di cultura più vasto ed aerato. E tuttavia in una ricerca volta a determinare la parte avuta da questi studiosi stranieri nella formazione di quel sistema di concetti e di atteggiamenti che forma il quadro della nostra storia letteraria, il libro del Ruth, nonostante una marginale e indiretta possibilità di contributo, non può essere ricordato per una sua importanza veramente significativa. La sua efficacia fu in realtà assai limitata: l’opera non venne per allora tradotta e restò quasi sconosciuta. (Forse anche per l’ignoranza che c’era ancora fra noi della lingua tedesca, la quale solo in quegli anni si incominciava a studiare, e in genere della cultura di Germania, che a noi giungeva attraverso la mediazione della Francia). Una più viva presenza nello svolgimento della nostra storiografia letteraria seppe invece mantenere uno scolaro di Schleiermacher e di Hegel, il Rosenkranz con il suo Handbuch einer allgemeinen Geschichte der Poesie, uscito negli anni 1832-33 a Halle. I nomi dei maestri valgono già per se stessi a indicare quale delicato ganglio culturale si rendesse attivo in questo lavoro. Il secondo volume, contenente la storia della poesia francese, provenzale e italiana, offriva uno studio filosofico-strutturale della nostra letteratura concepito sotto l’ispirazione di quell’estetica dell’idea che permetteva di segnare per la storia letteraria un sistematico svolgimento, quasi si trattasse di una storia della filosofia. Ma riesce difficile, e anzi impossibile, fissare il margine esatto dell’influenza esercitata da quest’opera, trattandosi per tanti aspetti di essa di motivi storiografici divulgati nel mondo intellettuale europeo, e talora anche di più indeterminate e indirette suggestioni. Comunque, l’incidenza di questo lavoro sul nostro movimento storiografico può essere fissata nel fatto assai indicativo dell’essere stata tradotta, nel 1853, da Francesco De Sanctis2, che così giudicava l’opera del tedesco: Sobrio e giudizioso nella scelta de’ particolari biografici, preciso nell’ordine cronologico, severo nella logica connessione delle cause e degli effetti, egli ha saputo comporre tanta congerie di fatti ad una vasta organica unità, rappresentazione vivace dello stesso pensiero umano rivelantesi nella più

2 K. Rosenkranz, Manuale di una storia generale della poesia (senza indicazione del traduttore [ma F. De Sanctis]), Napoli: Dalla stamperia del Vaglio, 1853.

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perfetta delle arti. E se egli è stato biasimato del suo sistematico schematismo, ovvero della sua costante applicazione di categorie speculative alla materia storica, nondimeno egli ha in parte cansato i due difetti, che sogliono rimproverarsi generalmente alla critica tedesca: la costruzione della storia “a priori” sottoponendo sovente i fatti a sistemi preconcetti, ed una soverchia predilezione per l’umanità e la nazionalità con iscapito dell’elemento individuale3.

Il De Sanctis, nell’insoddisfazione della cultura storiografica italiana, si rivolgeva alla cultura idealista tedesca, continuando così quei fecondi scambi intellettuali con le altre nazioni d’Europa, caratteristici della nostra migliore tradizione di pensiero dell’Ottocento. La disistima nei confronti della nostra cultura provata dal De Sanctis e da lui trasmessa al proprio ambiente di scuola è indirettamente documentata da una testimonianza di un suo discepolo, Luigi La Vista, che nel 1847 così scriveva: Se potessi insegnare, professare un corso, farei una storia della letteratura italiana. Tiraboschi, Andrés, Sismondi, Ginguené, Corniani, Ugoni, Maffei, Villemain, chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. Una storia della letteratura italiana sarebbe una storia d’Italia. Che studii, che ricerche, che novità4!

Si tratta di una testimonianza molto interessante, in quanto lascia intravedere la posizione, di fronte al problema storiografico, di quel centro di intelligenza critica che fu la scuola del De Sanctis, la quale avrebbe dovuto portare un rinnovamento così grandioso negli studi di letteratura italiana. Attraverso le parole del La Vista, la composizione della storia letteraria d’Italia si presenta quasi fosse il lavoro più ricco di impegno, l’espressione massima dell’attività critica, la misura autentica e l’ideale supremo dell’esercizio storiografico. Ed è curioso notare come in queste righe, accanto ai nomi degli altri storiografi, non sia fatta nessuna menzione dell’Emiliani Giudici, la cui opera era stata pubblicata tre anni prima. Non è certo assurdo pensare che fosse rimasta sconosciuta al giovane scolaro del De Sanctis: comunque rimane pur sempre sorprendente il fatto che il grande maestro non abbia manifestato nei riguardi della Storia delle belle lettere un esplicito giudizio. Però dal modo con cui egli accenna all’autore di essa in una lettera 3 Si veda la prefazione riprodotta in F. De Sanctis, Memorie e scritti giovanili, a cura di N. Cortese, Napoli: Alberto Morano editore, 1931, vol. II, p. 213. 4 L. La Vista, Memorie e scritti, raccolti e pubblicati da P. Villari, Firenze: Le Monnier, 1863, pp. 182-183.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

del ’57 e in un’altra del ’605 non è difficile ricavare gli elementi per formulare l’ipotesi di un’opinione negativa. Del resto, per poco che si conosca la mentalità critica del De Sanctis, subito ci si sentirà autorizzati a dire con tutta certezza che egli non poteva assolutamente condividere l’approvazione dimostrata nei confronti di detta opera dai due recensori ricordati, il Cicconi e il Tenca. Troppo stridente doveva invero apparire il contrasto tra l’ideale storiografico vagheggiato, fin da allora, dal grande critico e l’ancora informe tentativo del vecchio antiromantico. Erano, quelli, anni di ricerca per il De Sanctis, di lontana gestazione del suo capolavoro, e ben poco di vivo il critico nostro doveva scorgere, alla luce dell’immagine storiografica che si incominciava a delineare in lui, nelle varie storie letterarie che via via si venivano pubblicando. Lo spazio che intercorre fra la stampa della Storia delle belle lettere dell’Emiliani Giudici e quella della Storia della letteratura italiana del De Sanctis è occupato da due opere degne di ricordo, la letteratura del Cantù e quella del Settembrini. Ma accanto a questi più illustri esemplari, si collocano alcuni altri tentativi di esame della nostra letteratura, che, per quel minimo valore rappresentativo di cui possono essere suscettibili, conviene segnalare. Anche se completamente spogli di un concreto significato storiografico, sono pur sempre in qualche modo indicativi dello stato della nostra cultura i due manuali usciti nel decennio successivo a quello in cui apparve la prima edizione dell’opera dell’Emiliani Giudici. Del 1857 è la Storia della poesia italiana di G.B. Cereseto6, distribuita in tre volumi e impostata secondo un piano di precettistica utilità. L’autore, nel pensare «alla difficoltà di dare i precetti dell’arte nella scuola, e alla fallacia dei metodi usati più universalmente»7, si proponeva appunto di soddisfare a questa istanza ricorrendo a una storia letteraria, nella quale «senza tener conto de’ poeti minori», l’autore potesse fermarsi «a ben caratterizzare i capiscuola» e, dall’esame «attento e ponderato» delle opere loro, riuscisse a far meglio «spiccare l’indole ed il carattere generale e particolare de’ varii generi di poesia tra noi coltivati da Dante fino ai giorni nostri»8, in modo da trovare «il nesso sottile che lega misteriosamente l’opera di un ingegno a quella d’un altro»9. Quest’opera era, in fondo, un documento della suggestione esercitata sulla mentalità 5 Cfr. le due lettere ad A.C. De Meis del 2 dicembre 1857 e del 10 febbraio 1860 in F. De Sanctis, Lettere dall’esilio (1853-1860), raccolte e annotate da B. Croce, Bari: Laterza, 1938, pp. 176 e 312. 6 G.B. Cereseto, Storia della poesia italiana, Milano: Silvestri, 1857. 7 Ivi, vol. I, p. 8. 8 Ivi, p. V. 9 Ivi, p. 13.

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SUCCESSIVE ESPERIENZE STORIOGRAFICHE

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degli studiosi anche più antiquati dalla cultura contemporanea, attentissima al problema della storia letteraria, e, nonostante il fraintendimento che ne risultava dalla contaminazione con lo spirito delle storie teorico-retoriche del secolo precedente, a cui in sostanza si ricollega ancora idealmente l’autore, e anzi proprio in virtù di esso, finiva con il risolversi in un indiretto omaggio a quel prevalente indirizzo culturale. Lo stesso valore, limitato a un angusto significato scolastico, mantiene la Storia della letteratura italiana, uscita due anni dopo, di Pietro Sanfilippo, in tre volumi10, intorno ai quali occorrerebbe istituire un discorso non molto diverso, rivolto a determinare, insieme, l’avvenuto assorbimento di un ideale di cultura e l’inadeguato impegno o l’insufficiente capacità di realizzarlo. Si tratta insomma di opere prive di un reale peso e di un’autentica responsabilità, la cui menzione giova tuttavia, in una rassegna in cui non sono davvero molto numerosi i documenti da prendere in esame, a disegnare più compiutamente il quadro della storiografia di questo periodo. Sullo stesso piano programmatico di intenzioni divulgative, ma con un esito dal significato più complesso, si pone la Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù, uscita nel 186511, in un solo volume. La prefazione, che generalmente riesce illuminativa sul valore e il carattere di un’opera, denunzia anche questa volta, ma in un’opposta condizione, la portata effettiva di questa storia. Le pagine introduttive rimangono estranee a una funzione indicatrice, del genere di quella sviluppata dalle pagine di tanti altri storiografi fin qui considerati. Mentre infatti in costoro la prefazione può valere come segno dell’assorbimento o dell’intuizione di un’idea storiografica, un’idea che risulterà sempre sintomatica, anche quando rimanga al semplice stato intenzionale e senza una corrispondente attuazione, nelle pagine del Cantù non soltanto si verifica, in un troppo evidente contrasto, la discontinuità fra la promessa di una superiore storiografia e la concreta narrazione, ma già nella stessa programmatica discussione è constatabile la mancanza di una chiara e precisa proposta metodologica. Il Cantù, con dilettantesca superficialità, non fa altro che riecheggiare le più diverse esperienze della cultura contemporanea, per cercare di compilarne un impossibile sommario, applicando alle idee il procedimento che gli è familiare nel resoconto dei fatti storici. Non una precisa consapevolezza critica informa e disciplina i suggerimenti storiografici che gli giungono dalla tradizione e dalla discussione del suo tempo, ma solo un ambizioso gusto di dimostrare la sua buona conoscenza dello stato dei problemi della metodologia storica. Perciò non è possibile, in 10 11

P. Sanfilippo, Storia della letteratura italiana, Palermo: F.lli Pedone Lauriel, 1859. C. Cantù, Storia della letteratura italiana, Firenze: F. Le Monnier, 1865.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

questo caotico confluire di temi e motivi storiografici, cogliere un proposito veramente centrale e impegnativo, che si ponga come intuizione profondamente rivissuta e come problema personalmente sentito. L’esame condotto all’interno dell’opera conferma in pieno questa situazione annunciata dalle pagine introduttive. L’epigrafica sentenza pronunziata dal De Sanctis su Cesare Cantù «scrive di storia e gli manca il senso della storia; scrive di arte e non ha senso artistico»12, mantiene un sapore perfettamente attuale, anche al di fuori del clima polemico in cui era nata, e nell’ambito di quel processo storico in cui si giustificano e si risolvono sovente quelle che, nell’incandescente clima contemporaneo, potevano apparire come deficienze o errori. Questa storia della letteratura procede rapsodicamente per resoconti, dedicati alla varie figure via via introdotte nel paesaggio storico. Tali resoconti rimangono estranei l’uno all’altro, senza riuscire mai a fondersi in una unitaria visione e a coordinarsi entro una rigorosa linea di svolgimento. Il problema costruttivo della storia letteraria, presente in tutte le discussioni del secolo e affrontato in concreto sul piano pratico dall’Emiliani Giudici, rimane sconosciuto all’opera del Cantù. Nessun tentativo di disciplinare in un sistema organico la vasta materia si affaccia mai in quest’opera che, indifferente nella sua intima sostanza al problema più vivo della storiografia contemporanea, procede con un aspetto tipicamente frammentario. La stessa idea guelfa a cui potrebbe ricondursi l’ispirazione etico-politica che presiede a questo lavoro non genera, come avveniva nell’Emiliani Giudici per l’opposta idea ghibellina, un’esegesi che costringa in una sistematica ossatura il corso della storia letteraria. Né il Cantù evita questi procedimenti (che avevano del resto un loro preciso valore in quanto pur avviavano in qualche modo a concepire la storia come svolgimento) per una superiore intuizione storiografica, che riconoscesse il limite di simili ambiziose costruzioni e il vizio di siffatte applicazioni di politiche ideologie alla storia letteraria. Piuttosto, lungi dall’avere superato una tale posizione, egli neppure vi era giunto, poiché da essa si teneva lontano proprio per un’insensibilità metodologica, che lo rendeva incapace di evitare la rapsodica compilazione. Per questo la sua Storia della letteratura appare in ritardo rispetto alla Storia delle belle lettere, e ancora troppo fortemente condizionata dalle vecchie forme storiografiche. Antiquata appare l’opera del Cantù anche riguardo ai limiti assegnati all’oggetto dell’indagine. Egli infatti ritorna, trascurando l’esempio dell’Emiliani Giudici, al modello tiraboschiano, che includeva nella storia della letteratura, accanto alla storia delle belle lettere, la storia delle altre attività intellettuali (matematica, medicina, giurisprudenza, 12

F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX cit., p. 257.

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ecc.). E tuttavia questa riduzione del concetto di letteratura al concetto di cultura (mantenuta del resto in limiti relativamente discreti) derivava non da un consapevole mutamento di prospettiva storiografica, ma solo da uno spontaneo gusto di divulgazione delle più rare e più enciclopedicamente disparate notizie. Bisogna però riconoscere che in tal modo il Cantù sollecitava, senza accorgersene, un tipo di storia letteraria che il De Sanctis avrebbe poi dovuto attuare, una storia cioè animata da uno sfondo storico insieme più sinuoso e compatto, per la larga attenzione rivolta ai fenomeni culturali osservati in tutta l’ampiezza dei loro possibili atteggiamenti. Comunque, anche sotto questo rispetto, la coscienza storiografica del Cantù, così priva di capacità reattive di fronte all’esempio dell’Emiliani Giudici, risulta fortemente compromessa e pienamente imputabile di una totale carenza di sensibilità critica. È forse soltanto sul piano della esegesi relativa alle singole opere d’arte che potrebbe riuscire suscettibile di una qualche attenuazione il giudizio del De Sanctis. Il grande rinnovatore della critica italiana rimproverava al Cantù il concetto inadeguato che egli dimostra di avere della forma, in quanto «il pensiero preso in se stesso sarebbe per lui il principale» e la forma soltanto un mero accessorio13. Ma questa deficienza è presente nel Cantù non meno che nell’Emiliani Giudici. Si tratta di un limite la cui responsabilità non può essere addossata a lui solo, erede in fondo, sotto questo riguardo, di tutta la critica romantica14. E anche quando si faccia una semplice questione di gusto, la sentenza del De Sanctis sembra troppo polemicamente appassionata, come espressione dello stato d’animo di un uomo di straordinaria sensibilità estetica, destinato a trovarsi naturalmente scontento del mediocre senso d’arte del Cantù, che non era poi troppo diverso da quello del Giudici e di un po’ tutta la precedente tradizione, la quale verrebbe così a cadere, nell’immediato confronto con la capacità di giudizio del nostro maggiore critico, in un’eccessiva svalutazione. Con maggiore fondatezza si dovrebbe piuttosto denunziare un altro grave vizio connaturato alla mentalità critica del Cantù. E in effetti il giudizio di questo storiografo trova, nel suo pratico attuarsi, un ostacolo fortissimo in quella particolare condizione psicologica che, già notata dal De Sanctis, è stata poi sottolineata dal Croce. Il Cantù si colloca di fronte all’opera d’arte in uno stato d’animo «querulo e malcontento», osservava De Sanctis, «che gli rende ottuso e scarso il senso dell’ammirazione», e gli fa trovare una specie di godimento nell’osservare i F. De Sanctis, Una storia della letteratura italiana di Cesare Cantù, in Saggi critici, a cura cit., vol. I, p. 275. 14 Cfr. G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia cit., pp. 242-247. 13

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

difetti15. Sicché, poteva insistere Croce, il Cantù «è sempre contro tutti i fatti che narra»16. Basterà una compendiaria rassegna delle conclusioni a cui egli giunge sui principali nostri autori per dare un’idea di tale suo contegno, o meglio, deformazione mentale e psicologica. In una perpetua stroncatura, Dante (citiamo solo, per il carattere più vivacemente esemplare, quel che si riferisce alle figure massime) viene rimproverato in quanto «pecca di gusto» e «manca della pulitura che richiedono i tempi forbiti», ma soprattutto per la sua oscurità: «il maggior difetto di Dante resterà sempre l’oscurità»17. Il Boccaccio viene stroncato perché autore lubrico, e perché «fa i personaggi cedere alla passione senza quel contrasto da cui viene nell’arte il drammatico»18. Il Pulci è demolito per avere sacrificato alla celia «l’arte e il sentimento, fin il gusto e la creanza e il pudore, benché canonico e di cinquant’anni»19. Il Boiardo incorre in una sentenza di biasimo perché riuscì «troppo vario pel genere classico, troppo grave pel romanzesco»20. Il Machiavelli invece perché «nello stile manca di cuore come nel resto»21. Allo stesso modo viene demolito l’Ariosto con una stroncatura rimasta famosa: Dagli scherzi dell’Ariosto, che travolge le idee di virtù, che divinizza la forza, che fa delirare il raziocinio, che imbelletta il vizio e seconda gl’istinti voluttuosi, forse la patria trasse più mali ch’ella stessa nol sospetti22.

Mentre il capitolo sul Tasso si chiude con queste parole: Muori in pace, anima gemebonda, e lascia la scena al gran ciarlatano, che alla simmetria virgiliana e petrarchesca surroghi la bizzarria mescolata di audace e di pedantesco23.

E così via, fino all’Alfieri, che «la tragedia ridusse a scheletro»24, e al Foscolo e al Leopardi, che sono confinati in fondo a un capitolo dedicato al Monti, e colpiti con due asprissimi giudizi25. Era questo un modo di F. De Sanctis, Una storia della letteratura italiana di Cesare Cantù cit., p. 277. B. Croce, Storia della storiografia italiana cit., vol. I, p. 204. 17 C. Cantù, Storia della letteratura italiana cit., p. 52. 18 Ivi, p. 88. 19 Ivi, p. 212 20 Ivi, p. 214. 21 Ivi, p. 189. 22 Ivi, p. 224. 23 Ivi, p. 329. 24 Ivi, p. 508 25 Cfr. ivi, pp. 611 e 615. Il Foscolo «pare sottrarsi anche al definitivo giudizio della posterità, incerta se fu un angelo o un demonio, un franco pensatore o un servile mascherato». 15

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SUCCESSIVE ESPERIENZE STORIOGRAFICHE

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giudicare che certo s’imponeva alla mente del Cantù con la suggestione di un’opinata imparzialità, di un creduto incorruttibile sentire, sdegnoso di compromessi anche di fronte alle massime figure della storia, e che era poi sempre un’eco di quel moralismo pesante e ottuso di cui è impregnata da cima a fondo l’atmosfera della sua opera. In questa preoccupazione morale che presiede al disegno di tutta la Storia (una preoccupazione difficilmente giustificabile, come vorrebbe invece il Borgese26, proprio per l’errore etico che la deforma e la snatura) si offre la linea d’inchiesta più interessante per il critico che si accosti alle pagine del Cantù. Il moralismo costituisce indubbiamente l’aspetto più caratteristico dell’opera del Cantù e il punto esegeticamente più sensibile. Esso dà origine, all’interno del lavoro, a due toni dominanti, suscettibili di una diversa e in certo modo opposta valutazione. Da un lato provoca quegli spunti oratori grevi di un pedantesco sentenziare e di un tedioso sermoneggiare, che costituiscono la parte più uggiosa della storia, e che si risolvono spesso in un acre gusto demolitorio, così esasperato da non risparmiare neppure le figure più grandi della poesia e del pensiero; dall’altro genera quelle pagine bozzettistiche che, attraverso l’ingegnosa combinazione di quegli aneddoti di cui è vastamente informato l’autore, valgono a ritrarre personaggi e periodi con un’efficacia non priva di freschezza (si confrontino come esemplari modelli le pagine sull’Aretino e quelle sulla Controriforma). In questo caso l’attenzione moralistica permette allo storico, e meglio diremmo al facile poligrafo, di schizzare, in un accumulo di piccoli fatti e minute notizie, il profilo di un autore o il volto di un’epoca con coloristica evidenza. E qui è forse soltanto possibile segnare il piccolo pregio di questo libro, magari collocandolo su una linea di sviluppo che, attraverso il Settembrini, procede fino al De Sanctis, il quale invero, mantenendo (ma con ben altro respiro) un risentito interesse moralistico, ricorrerà talora a questa tecnica, superando peraltro il tono dilettantesco del Cantù con la consapevolezza stilistica e costruttiva di uno scrittore e di uno storico di classe. Comunque, in tale gusto della vivace aneddotica ritrattistica si riassumono i caratteri di questa storiografia priva di problemi, contenutisticamente pervasa da un moralismo di superficie e strutturalmente disorganica e frammentaria27. E il Leopardi «logoro dagli studi e tossicoloso, stillava la quintessenza delle angosce senza rassegnazione, mandando talvolta fin all’anima un gemito, simile ai gridi idrencefalici». 26 G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia cit., pp. 246-247. 27 Per queste modeste qualità riusciva meno stonata, nel suo popolare intento pedagogico, moralistico e divulgativo, e comunque più coerente al temperamento del Cantù, l’antologia La letteratura italiana esposta alla gioventù per via d’esempi (Milano: Ubicini, 1851), rimaneggiata poi nell’altra Della letteratura italiana esempi e giudizi (Torino: Utet, 1856).

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Mentre il Cantù ricuciva con dilettantesca tranquillità gli estratti delle sue erudite letture, preventivamente intinti negli umori atrabiliari del suo moralismo, Vittorio Imbriani, in un corso di lezioni dettate nel 1866 nell’Università di Napoli28, si poneva, con rigorosa esigenza di unità, il problema della storia letteraria. L’Imbriani portava negli studi letterari un temperamento critico specialmente incline alla discussione delle questioni più minute, alle sottili ricerche erudite e a un vivace gusto bozzettistico (un aspetto per cui egli sembra accostarsi in certo modo al Cantù, al quale lo si vorrebbe avvicinare anche per quel carattere bisbetico, per quel «cannibalismo», per dir la cosa con parola sua, ove sotto alla sua perpetua scontrosa polemica non si presentasse poi una risentita e in fondo ingenua moralità, assai lontana dall’uggioso moralismo del poligrafo lombardo29). Tuttavia, cresciuto in quell’aerato ambiente della cultura napoletana che per maturità teneva allora il primato in Italia30, l’Imbriani era portato naturalmente a sentire il problema della storiografia letteraria e a tentare di risolverlo con ricca consapevolezza critica. La sua presa di posizione contro gli storici della letteratura del suo tempo non risponde meramente a un abituale gesto gladiatorio, proprio di chi aveva bisogno di dire male di tutti, travolgendo in un’iconoclastica demolizione perfino il Carducci e il De Sanctis, ma trova il suo fondamento in una motivata ragione. Gli storici più o meno benemeriti della nostra letteratura, [...] si attengono tuttora all’empirico procedere de’ secoli scorsi, con una vis inertiae degna di miglior causa. Le nostre storie letterarie sono i più indigesti ed inutili libri che mai si scrivessero al mondo: tutto dicono, fuorché la parola per cui ti sobarchi a leggerli; ti raccontano esattamente com’è fatta la nostra povera letteratura e ne descrivono minutamente le membra sparte; ma dirti cos’è, non sanno; t’imbandiscono nomenclature or lunghe or brevi d’autori e di opere, or nude come una caratteristica, or corredate da lunghe sterminate mantisse biografiche ed analitiche; e poi disquisizioni erudite a bizzeffe, e poi le più subiettive sentenze che mai sputasse pedante31.

Ora, quel che appunto occorreva fissare, secondo l’Imbriani, era «il con28 V. Imbriani, Le leggi dell’organismo poetico e la storia della letteratura italiana, in Id., Studi letterari e bizzarrie satiriche, a cura di B. Croce, Bari: Laterza, 1907, pp. 25-115. 29 Cfr. V. Imbriani, Le più belle pagine di Vittorio Imbriani, scelte da F. Flora, Milano: Treves, 1929. Cfr. anche B. Croce, in «La Critica», III (1905), pp. 437 ss. 30 Cfr. L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, Firenze: Sansoni, 1928, passim. 31 V. Imbriani, Le leggi dell’organismo poetico e la storia della letteratura italiana cit., p. 49.

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SUCCESSIVE ESPERIENZE STORIOGRAFICHE

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cetto che anima il corpo letterario». Il critico, educato alla filosofia hegeliana, esprime fortissima (e certo in una misura che non tollera confronti con altri) l’esigenza di una storia letteraria concepita come espressione dell’idea. Egli conclude infatti la sua polemica con questa dichiarazione riassuntiva del proprio modo di intendere la storia letteraria:

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L’è incomprensibile come a’ nostri giorni vi siano ancora de’ codini i quali non comprendono che la storia letteraria d’un popolo in tanto è importante in quanto forma una delle più spiccate manifestazioni dell’idea, e che quindi lo scopo di chi vuole scriverla dev’essere appunto di mostrarmi come ciascuna singola categoria s’è incarnata in un capolavoro32.

L’Imbriani con questa decisa e cruda sentenza viene a indicare il proprio pensiero di una rigorosa applicazione dell’estetica dell’idea alla storia letteraria. Il tentativo ancora esitante del Giudici doveva apparire ormai troppo inadeguato al nuovo critico, il quale si accinge per proprio conto con un estremismo totale all’insoluta questione, sì da incarnarne l’estremo esasperarsi e insieme, indirettamente, il definitivo fallimento. L’Imbriani credeva di trovare un impellente motivo, per accingersi allo studio della letteratura italiana, nella convinzione che nella sua storia un ciclo si fosse ormai chiuso e che stesse per succederne un nuovo: La letteratura italiana è morta; per rinascere sì come una nuova fenice, per ricominciare una nuova vita contemporaneamente a quel popolo che non ne potrebbe fare a meno, come nessuno può; ma quella letteratura dell’Italia che finì l’altrieri è morta, giacché una letteratura non è se non la lenta elaborazione dell’ideale poetico di un popolo, ciascuno de’ stadi della quale si consacra in un capolavoro. Dunque è tempo che gli Italiani imprendano il rendiconto anche per le loro manifestazioni artistiche, ed in primis per le letterarie33.

L’Imbriani se credeva di potere constatare come un arresto e persino una morte nella letteratura, non giungeva tuttavia a credere tale morte eterna, ma soltanto la pensava, quasi s’inverasse il mito della fenice, provvisoria, sentendola anzi quale occasione di una nuova vita. Questa fede nell’autonomia e nell’eternità dell’arte, affermata contro quello hegelismo che ne annunziava prossima la morte, conferma l’originalità dell’Imbriani. Il proclamare tuttavia che l’arte si era spenta in Italia, permetteva al critico di porsi di fronte alla letteratura come a un organismo concluso, a 32 33

Ivi, p. 51. Ivi, p. 47.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

una realtà compresa fra un principio e una fine. E questo rispondeva alla sua tipica esigenza di un’assoluta sistematicità, a quel bisogno di precise operazioni capaci di portare a un riassuntivo ed esatto risultato storiografico, a quella necessità insomma di racchiudere come in una formula e in una definizione tutto il corso della nostra letteratura. «Ora che l’Italia ha esaurito l’incarnamento di tutte le categorie estetiche, ora è possibile la vera storia letteraria»34. Il tentativo di fissare in una visione ciclica assolutamente conclusa e rigidamente definita la storia letteraria, rappresentava un grosso pericolo, in quanto favoriva un procedimento arbitrario, portando all’astratta considerazione di una storia avulsa dalla realtà e soffocata in uno schema prestabilito. D’altra parte, la concezione della storia letteraria come organismo unitario e perfetto conteneva pure i suoi positivi vantaggi. Si faceva sentire più viva attraverso essa l’urgenza di inserire gli autori in una continuata trama storica, di considerarli non in un mondo astratto e isolato, ma nel clima di cultura loro proprio, di cogliere una serie di rapporti e di sviluppi e insomma di fissare la linea di una tradizione letteraria. Si rendeva così sempre più evidente l’arbitrio di considerare gli scrittori per se stessi, strappandoli da quell’organica realtà di cui sono parte che è la letteratura di un popolo. Sulla pretesa di chi era convinto di potere assumere di fronte a un autore un siffatto atteggiamento senza comprometterne la piena intelligenza, insisteva, denunziando l’assurdità di una tale posizione, il critico: Sarebbe il voler capire un canto indipendentemente dal poema, una strofa senza riguardo all’ode, una scena prescindendo dal dramma, un capitolo astrazion fatta dal romanzo, un verso trascurando il resto dell’ottava. Scienza da lettori di crestomazie! E chiunque ha un po’ di gusto sa se i brani scelti, le lettere scelte e che so io, sono cosa leggibile. Ora tutto l’enucleamento letterario forma un organismo non meno strettamente concatenato, in cui le parti non sono meno strettamente subordinate al tutto che in un’opera particolare; poiché anch’esso non è che il largo sviluppo d’una idea, l’incarnamento del Bello qual è concepito non più da un individuo, anzi da un popolo35.

Senonché questa esigenza, che, contenuta in limiti meno rigorosi, era pur ragionevole, scaturiva da una necessità per l’Imbriani ben più importante, vale a dire quella di una visione ultrasintetica della letteratura italiana, suscettibile di essere condensata in una semplice e unitaria formula. A questo, invero, il nostro critico soprattutto tendeva, senz’avvedersi che per questa via 34 35

Ivi, p. 59. Ivi, p. 56.

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egli giungeva soltanto a un’illusoria e stravagante soluzione, la quale finiva col distruggere le stesse positive conquiste intermedie. Con questo vano sforzo di sintesi sempre più concentrate, l’Imbriani s’immaginava di potere racchiudere in una breve indicazione simbolica il significato dell’intero cammino della letteratura italiana, convinto di possederne in tal modo l’essenza, e del tutto ignaro di stringere invece non più che una vuota astrazione. Del resto, l’assurdità di questo procedimento si rende manifesta attraverso le deduzioni che da tali premesse l’Imbriani ricava. Così, in base a questi principi egli credeva di potere negare la legittimità di una storiografia fondata sul proposito di dare rilievo, sullo sfondo di un uniforme clima di cultura, a quegli elementi inconfondibili che rendono storicamente individuabile la personalità di ogni singolo artista: E questo ci avverte di quanto erri chi dà un’importanza esagerata al capolavoro, al momento; per cui la personalità del poeta è la cosa più interessante e più essenziale36.

La storia della letteratura veniva in tal modo spogliata della sua funzione precipua e della sua fondamentale caratteristica che è quella di essere storia del concreto, e dunque storia di capolavori e di personalità, per diventare invece un’ingegnosa e pericolosa acrobazia esercitata su astrazioni e avente come esito una generica formula priva di storica determinatezza37. L’applicazione pratica che l’Imbriani tentava di questo suo principio storiografico offre una riprova di quanto si è detto. Nella nostra letteratura l’Imbriani scorge «tre periodi distintissimi [...] corrispondenti ai tre stadi della fantasia». E precisamente:

Ivi, pp. 56-57. Un senso di molto maggiore aderenza ai concreti valori della storia, l’Imbriani dimostrava molti anni dopo, nel curare una crestomazia per l’editore Vincenzo Morano (C.M. Tallarigo e V. Imbriani, Nuova crestomazia italiana per le scuole secondarie, Napoli: V. Morano, 1894), la quale avrebbe dovuto congiungere, come si legge nella prefazione, «alla scelta accorta della Crestomazia leopardiana [...] il metodo pedagogico del Manuale della letteratura italiana compilato da Francesco Ambrosoli, cansandone i difetti grandissimi». Nella stessa prefazione si legge anche «importa assai non dimenticare, che i concetti del bello e del buono scrivere, non sono concetti stabili e fermi, ma, bensì, storicamente fluenti. La mente italiana, nei seicento o settecent’anni, da che adopera questa nostra divina favella, non ha ragionato sempre ad un modo, non ha avuto sempre e dovunque, gli stessi ideali linguistici e stilistici». Contro ogni sopravvivente ideale puristico e manzoniano poi, la prefazione proclamava che questa era «la prima Crestomazia scolastica, alla quale si attagli pienamente il nome d’italiana, anziché di toscana o fiorentineggiante» (ivi, vol. I, p. 5). 36 37

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I. Il periodo dell’Intuizione che si manifesta nello stile con la concisione, nel metro con la terzina, e che ha per massimi rappresentanti Dante, Petrarca, Boccaccio, per epoca di sommo suo splendore il trecento; II. Il periodo dell’Immaginativa, che per manifestazione stilistica ha la prolissità; per manifestazione metrica, l’ottava, per iscrittori principali Poliziano, Ariosto, Tasso, Marino e Metastasio, per punto culminante il cinquecento; III. Il periodo della Fantasia che per espressione metrica ha lo sciolto, per rappresentanti precipui l’Alfieri, il Manzoni ed il Leopardi, e che ha durato fin quasi a’ giorni nostri38.

All’interno di questa distinzione venivano poi considerati i principali poeti: Dante, «che ci rappresenta il periodo dell’isolamento della percezione naturale nella intuizione»39; Petrarca, che incarna il momento in cui «alla semplice percezione che la coscienza nazionale si appropriava, doveva succedere l’ammirazione per quel bello naturale e la sua contrapposizione al subietto»40; Boccaccio, con il quale l’Italia «dopo aver percepito ed isolato ed essersi appropriato con Dante, aver ammirato ed essersi contrapposto con Petrarca il bello naturale [...], si fece a sviscerarlo con attenzione, a dare all’impressione la massima possibile intensità»41; il Poliziano, in cui «le immagini percepite o immediatamente per mezzo della propria sensazione o mediatamente vuoi per mezzo della nostra letteratura o delle antiche o delle forestiere, si affacciarono come palingenesi involontaria, come reminiscenza alla nazione»42; l’Ariosto, nel quale invece «abbiamo palingenesi voluta delle immagini ingurgitate»; e così di seguito. Insomma, tutta una complicata e insieme semplicissima e semplicistica architettura, costruita sugli schemi della logica hegeliana, che, mentre sembrava offrire un’unitaria interpretazione della storia letteraria, ne corrodeva poi arbitrariamente l’effettiva sostanza. Il problema soprattutto avvertito dall’Imbriani era quello dell’«organizzazione», si potrebbe dire, della storia della letteratura. Questo problema intorno a cui si era appassionata, attraverso dibattiti teorici e pratiche attuazioni, la ricerca storiografica precedente, orientandosi talora allo studio della semplice configurazione esterna, e più spesso a quello delle intime linee di sviluppo, suscita nell’Imbriani un energico e assorbente interesse. In tale interesse egli porta un senso estremistico, che, malgrado le assurdità in cui degenerava, poteva agire in maniera positiva sullo svolgimento della ideale 38 39 40 41 42

V. Imbriani, Le leggi dell’organismo poetico cit., p. 84. Ivi, p. 85. Ivi, p. 86. Ivi, p. 87. Ivi, p. 88.

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forma storiografica. Infatti lo stimolo, implicitamente contenuto in questa posizione, a ripensare più tormentosamente la nostra letteratura, per giungere a più sottili e assolute sintesi, il bisogno, che vi si esprimeva, di stringere i nessi in termini più rigorosi, e insomma l’esigenza di dominare (e sia pure di costringere) in una sistematica catena di problemi la materia storica poteva pure in qualche modo risolversi in un’opera di scavo e di dissodamento, che finiva con il sollecitare una più pensata e organica storiografia. D’altra parte l’Imbriani offrendo, con l’involontario fallimento in cui cadeva il suo tentativo, un esempio dei pericolosi risultati ai quali doveva condurre una troppo esasperata volontà costruttiva, poteva indirettamente collaborare a mantenere su una linea di equilibrio il corso successivo della storiografia letteraria, distogliendo, con il salutare ammonimento della propria prova non riuscita, da altre simili avventurose esperienze. Ma questa proposta del battagliero napoletano passò inosservata, e non poté in sostanza esercitare un preciso e diretto influsso. Vasta risonanza ebbe invece un’altra opera apparsa nello stesso ambiente geografico e culturale, le Lezioni di letteratura italiana di Luigi Settembrini, che, nate come corso universitario, uscirono poi in tre volumi, a Napoli, negli anni 1866-1872. La composizione di questa storia letteraria si svolge in un clima di reale, sebbene non consapevole, estraneità ad una sistematica cultura. Significativa è la varia formazione mentale del Settembrini, educato all’ideologismo illuministico giacobino, cresciuto nella scuola puristica di Basilio Puoti, allenatosi intellettualmente, negli anni successivi (per quanto poteva stare nelle sue forze) in un ambiente imbevuto di filosofia come era quello napoletano, la cui eco doveva farsi sentire vivamente perfino nel carcere, diviso con Silvio Spaventa. Tale formazione incide sulla sua opera, che appare come il risultato di una serie di depositi sovrapposti e di successive stratificazioni, che rimangono in una condizione di reciproca estraneità, riuscendo incapaci di costruire su una base unitaria la narrazione storica. Questi molteplici e imprecisi elementi, con la loro presenza non ben fusa e disciplinata, intervengono a suggerire questo o quell’atteggiamento, senza dare mai origine a un tono critico definitivo e a una netta posizione storiografica. Proprio per questo non dovranno essere portate su un piano di autentica responsabilità le professioni metodologiche e le intenzioni programmatiche esposte nelle pagine introduttive, dove si ripetono e si volgarizzano le più diverse idee della filosofia tedesca, e soprattutto hegeliana. Nel Settembrini i principi storiografici, se non si riducono a essere un sordo riecheggiamento compilatorio confinato in margine al volume, come poteva avvenire nel Cantù, non diventano mai d’altra parte quel chiaro e costruttivo schema

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di operazione di cui offre un esempio abbastanza convincente l’Emiliani Giudici. Questi principi sono lasciati in uno stato di inorganica coesistenza per essere poi via via messi in atto non in virtù di un’istanza intellettuale, ma soltanto sotto lo stimolo di un motivo patetico. Alla base della storia del Settembrini sta infatti, come prima e costante ispirazione, un risentito amore per l’Italia, che fa di quest’opera il più tipico esemplare di storia patriottica. La storia patriottica, tuttavia, di un uomo di fede aperto alla cultura, anche se intellettualmente poco agguerrito. L’Italia in queste Lezioni perde quel carattere generico che aveva negli autori del Settecento, e quella concretezza un po’ troppo concettuale propria di altri storiografi dell’Ottocento, per trasformarsi, mediante una proiezione sentimentale che sembra quasi evocare l’aspetto figurativo di una creatura umana, in un soggetto carico di significato e di vita. È dunque una presenza affettiva, e non un problema critico, quel che costituisce l’anima di questo libro: il quale risulta perciò essenzialmente un libro di immediata religione. Le posizioni storiografiche più varie sono assunte sotto la suggestione di questo idolo sentimentale. In armonia con questo stato d’animo il Settembrini riprende quel tema, già introdotto dai primi narratori della nostra storia letteraria, della priorità genealogica della letteratura italiana rispetto alle letterature straniere, il quale avrebbe dovuto contare quasi diploma gentilizio di più antica data, come motivo di riconoscimento di un indiscusso primato43. Questa teoria, fondata inizialmente su un mero criterio cronologico, era destinata a convertirsi nella teoria della originalità, in quanto per essa la nostra letteratura poteva vantarsi di essere sorta indipendentemente dalle altre letterature nazionali, non dunque come fenomeno di imitazione, ma per una segreta e innata virtù formatrice. Negata, sul piano dei rapporti con le letterature straniere, ogni validità al concetto di imitazione, esso veniva ugualmente respinto nei confronti della letteratura latina. Soccorreva, su questo terreno, un’altra teoria, e cioè quella del «ritorno» e della «riproduzione» che, fondandosi (contro la concezione della Verjüngung affacciata dal Ruth) sul principio che il popolo italiano è un «popolo medesimo e continuo» rispetto al romano e che è un errore «credere che noi siamo di altro sangue, che la semenza antica fu spenta, e che noi nasciamo dai barbari»44, vedeva le nuove forme letterarie come un ritorno delle antiche, considerandole rigermogliate sull’unico ceppo, senza ricorrere all’idea di innesti e di estrinseche imitazioni. Rivendicata la priorità e l’originalità della letteratura italiana, se ne Il Settembrini contraddice poi questa affermazione in altri luoghi. Cfr. L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, a cura di V. Piccoli, Torino: Utet, 1927, vol. I, p. 67. 44 L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana cit., vol. I, p. 19. 43

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cercavano subito altri elementi propizi a confermarne il primato. E qui non mancava la possibilità di ricorrere a nuovi schemi storiografici, presenti nella più diffusa cultura contemporanea, atti ad offrire facili pretesti apologetici, fra i quali soprattutto quello del carattere di una letteratura. Il Settembrini si domanda se la letteratura italiana abbia un «carattere proprio», e crede di potere rispondere affermativamente, indicandolo in «una compiuta armonia tra concetto e forma»45. Era questa un’affermazione non priva di verità, in quanto coglieva un atteggiamento reale della nostra tradizione letteraria, che fu sempre preoccupatissima di quell’elettezza di forma, di quell’equilibrio espressivo che sembra talora essere stato trascurato da altre letterature, piuttosto sensibili ad altri problemi. Ma ciò era vero solo in senso approssimativo e non in maniera assoluta. E in effetti la cosa perdeva subito la sua apparente validità, non appena con più deciso rigore, si fosse pensato che quell’armonia tra concetto e forma era poi in sostanza il carattere distintivo non di questa o di quella poesia, ma della poesia stessa senza determinazioni, e che pertanto non poteva venire attribuito a una letteratura più che ad un’altra, a meno di volere assurdamente concedere l’esclusività della poesia a una sola fra tutte le letterature nazionali. A questa caratterizzazione, per altra via, era giunto anche l’Imbriani, attraverso l’abile acrobatismo filosofico che l’aveva portato alla sua complicata visione dello svolgimento della letteratura italiana. Con più bonarietà invece il Settembrini lasciava gratuitamente indimostrata la propria opinione, contento solo di affermare ancora una volta il primato della poesia d’Italia. Questa idea del primato, già attiva negli storiografi del Settecento sotto forma di attribuzione alla nostra letteratura del titolo di erede della letteratura latina e di quello di madre delle letterature moderne (rimaste a lungo sotto il suo influsso), si era diffusa nel mondo romantico (del quale fu motivo assai caro la fede nel primato delle varie nazioni: si pensi a Mazzini, Gioberti, Fichte, Guizot, Michelet, Hirzel), dove venne assumendo l’aspetto che abbiamo chiarito, in cui confluivano atteggiamenti antichi e nuovi, complicandosi tuttavia di un elemento specifico offerto dalla cultura di quegli anni. Il concettualismo estetico infatti, con l’intepretare la poesia come mediatrice di idee morali e filosofiche, favoriva un confronto fra i contenuti di verità propri delle diverse letterature, e quindi un giudizio sul maggiore o minore valore di esse. Il Settembrini poteva così aggiungere ai vari titoli di gloria della letteratura italiana anche quello inerente al suo contenuto, che egli faceva consistere nella lotta tra Impero e Chiesa, Ghibellinismo e Guelfismo, una lotta che all’ingenuo martire del liberalismo doveva apparire come la verità suprema 45

Ivi, p. 20.

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dell’universo intero. La letteratura italiana veniva presentata in tal modo come il riflesso di una lotta perpetuatasi lungo i secoli tra Impero e Chiesa, Ghibellinismo e Guelfismo, dove, in un capovolgimento della tesi giobertiana e in una più integrale ripresa della posizione dell’Emiliani Giudici, il trionfo del principio ghibellino e il progresso letterario, erano posti in un rapporto di esatta coincidenza. In questa tipica configurazione del cammino della letteratura e nella correlativa polemica antimedievale, antipapale e antigesuitica, che assume toni di una eccezionale violenza, consiste uno dei caratteri più vistosi di questa storia e uno dei motivi più spontanei di contestazione per il critico dell’opera settembriniana. Il quale critico, lamentando la presenza di questo schema storiografico nelle Lezioni, dopo di averla giustificata nella Storia delle belle lettere, non verrà meno alla propria coerenza, e pronunzierà una sentenza pienamente legittima, non solo in quanto suonerà rimprovero dell’arretrata cultura del Settembrini, non riuscita ancora a liberarsi di una forma propria dell’esperienza storiografica di qualche decennio prima, ma soprattutto perché verrà a discriminare l’atteggiamento dei due storici, assolutamente antitetico nell’apparente concordia di spiriti. E invero, mentre il Giudici, essenzialmente preoccupato del problema strutturale, trovava in quel motivo politico una soluzione, il Settembrini, con un processo inverso, partendo da questa realtà politica che soprattutto gli stava a cuore, si sforzava di applicarla allo svolgimento della storia letteraria. Pertanto, se l’errore dell’Emiliani Giudici è tale solo alla luce dell’adulta coscienza storiografica moderna, fatta ormai sicura, per le successive conquiste del pensiero critico, dei limiti insiti in quella proposta, pur valida nel suo contesto storico e anzi capace di rappresentare, con la sua prima applicazione, un sensibile progresso, l’errore del Settembrini risulta invece ben più radicato, in quanto scaturito non solo dal non aver egli saputo scorgere e superare l’imperfezione di tale proposta, ma soprattutto dall’averla accolta sotto l’urgenza di un semplice stimolo pratico, al di là di ogni fondata convinzione storiografica. Questa diversa mentalità ispiratrice spiega come il Settembrini non accetti, praticamente, la precisazione del concetto di storia letteraria su cui l’Emiliani Giudici impostava il proprio lavoro. Infatti se la letteratura è sempre per lui «l’arte della parola», come egli dichiara nel primo capitolo, la storia letteraria deve però estendere l’attenzione a un campo assai più vasto di quello contrassegnato da un valore estetico. Il Settembrini, trattando del Tiraboschi, dopo di avere osservato, sulla scorta delle obiezioni ripetute dalle ultime esperienze storiografiche, come l’opera del grande erudito si occupi «non pure delle Lettere e delle Arti, ma di tutte le scienze», indipendentemente conclude:

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Il concetto adunque pare troppo largo, perché abbraccia discipline diverse dalla letteratura; e pure forse è troppo ristretto perché manca la politica e la religione onde la letteratura principalmente s’informa. Taluno anche oggi scrive la storia della letteratura separandola dalla religione, dalla politica, dalle scienze, da tutta la vita reale, e mettendola come campata in aria, così che non s’intende. Per me credo che la storia della letteratura dev’essere simile ad un sistema di cerchi, in cui la letteratura sia al centro, e intorno a lei le arti, e intorno alle arti la religione, e poi la politica, e poi le scienze, e poi i costumi e tutta la vita di un popolo; perché essa appunto è la vita, la coscienza, l’intelligenza, il sapere che passando per la fantasia diventano corpo organico, diventano arte46.

Più che l’enunciazione episodica di un eventuale programma, questo estratto riassume il metodo perseguito dal Settembrini nella sua ricerca. E in effetti le Lezioni affiancano, accanto ai capitoli di contenuto propriamente letterario, altri capitoli sulla storia politica, sulla storia religiosa, sulle scienze, sulle arti figurative (le «arti mute» e le «arti del disegno», come l’autore le chiama), capitoli dotati di un rilievo e di un’autonomia notevoli. Il Settembrini riproponeva con questo, con maggiore chiarezza del Cantù, il problema sempre aperto del rapporto fra la storia della cultura e la storia della letteratura, che l’Emiliani Giudici, nella necessità di superare l’incertezza storiografica del Tiraboschi aveva risolto con un taglio netto, eliminando dalla storia letteraria tutto quello che era soltanto storia culturale. Nell’opera del Settembrini tuttavia è concesso un margine ancora troppo largo alla storia della cultura, la quale finisce con l’accamparsi con eccessivo rilievo come un residuo allotrio non sufficientemente subordinato e fuso nella storia letteraria. Ma anche questo risultato non rappresentava il frutto di una consapevole metodologia, ma era il semplice riflesso di quella logica sentimentale patriottica che determina la configurazione di tutto il libro. Se tale eccessiva estensione d’area della materia storiografica per il Cantù scaturiva soprattutto da un’ambiziosa mentalità erudita, avida di allargare anche in questa zona la narrazione, nel Settembrini invece nasce dal bisogno di rendere più completa e meglio determinata quella immagine dell’Italia che egli tenta studiosamente di ritrarre e che perdutamente vagheggia. Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro il significato che per il Settembrini assume la formula tradizionale della «letteratura espressione della società», da lui invocata all’inizio della sua storia, là dove appunto egli si propone di «considerare che ha pensato, che ha sentito, che ha operato questo popolo, e

46

Ivi, vol. III, p. 83.

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come ha espresso tutta la sua vita nell’arte della parola»47. Per il Settembrini l’espressione perde il valore più comune e il suo più divulgato uso, rivolto semplicemente ad arricchire il contenuto della letteratura con un riferimento al clima storico in cui essa sorge e in cui soltanto si spiega, per acquistare quello deteriore che abbassa la storia letteraria a utile documento (e quindi a strumento e a mezzo) per conoscere il «popolo», e cioè ancora una volta l’Italia, la quale sola si accampa al centro dell’interesse storico, assorbendo e distruggendo quasi ogni diverso interesse. Questa prevalente religione della patria determina infine la strana conclusione di queste Lezioni, nella quale, con gusto ardito e non poco sorprendente per la nostra moderna sensibilità, viene impostato il problema della letteratura dell’avvenire. Il capitolo si giustifica metodologicamente non tanto per quel residuo di precettismo che qua e là affiora ancora come ultima derivazione della mentalità storiografica del passato, quanto piuttosto, secondo dichiara lo stesso Settembrini, per l’autorità della filosofia della storia, una scienza, egli dice, «la quale riconoscendo negli avvenimenti umani alcune leggi necessarie, può dirvi per virtù di ragionamento quello che dovrà succedere secondo quelle leggi»48. In queste ultime pagine il Settembrini annunziava, con un atteggiamento critico quasi ultra-romantico49, che l’arte del futuro avrebbe dovuto essere popolare, e che in questa età avvenire sarebbero state trascurate le lingue classiche, mentre sarebbero ricercati e studiati i dialetti, restando l’Italia ancora sempre feconda (contro coloro che proclamavano la morte dell’arte) di poeti e di artisti. Questa assurda pretesa di giudicare della letteratura che doveva nascere, se cercava un appoggio critico nelle contemporanee concezioni della filosofia della storia, aveva però la sua radice non già in tale idea storiografica, assunta semplicemente come pretesto, ma nel solito motivo sentimentale, nell’amore per l’Italia, nella religione della patria, che costringeva il candido professore ad annunziarne profeticamente i destini, e a esortare con animo quasi sacerdotale i giovani in una perorazione in cui si riassume l’ingenua e commovente oratoria diffusa per tutto il libro: Io era giovanotto come voi, e m’innamorai di un’idea, e per questo amore fui creduto pazzo, ed ebbi dolori per lunghi anni, e sono vissuto tanto che finalmente ho veduto quella idea divenuta una cosa reale, l’Italia una e libera. Or che sono vecchio affermo, e credo, e spero, e sono razionalmente certo che ella sarà grande e buona. 47 48 49

Ivi, vol. I, p. 8. Ivi, vol. III, p. 394. Cfr. G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia cit., p. 334.

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Se ho trasfuso in voi questo amore e questa fede, avrò fatto il mio dovere, e son contento: spetterà a voi fare il dover vostro, trasfondere in altri amore e fede all’Italia50.

In tali parole si suggella simbolicamente questo libro di fede, e, nella denunzia che da esse scaturisce dell’ispirazione religiosa che lo sorregge, si esprime limpidamente, sottolineandone insieme il pregio e il difetto, il suo storico significato. Le Lezioni del Settembrini stanno a indicare una curiosa esperienza, in quanto in esse confluiscono i più diversi motivi storiografici proposti dalla cultura dell’età romantica, spogliati però del loro autonomo valore teoretico e assunti come pretesto di una celebrazione di ordine etico e patetico. L’intervento di questa composita metodologia contribuisce a determinare quell’aspetto frammentario che si manifesta subito come una delle caratteristiche proprie di questa storia. Lo stesso schema fondamentale della lotta del Ghibellinismo e del Guelfismo, che dovrebbero imprimere una struttura unitaria al resoconto storico, finisce col non venire applicato con rigore. D’altra parte, il raggruppamento del corso della letteratura in epoche diverse non riesce a disciplinare in un ritmo concluso la materia e a conferire maggiore solidità alla costruzione. Il Settembrini fa propria un’idea che era stata dell’Emiliani Giudici, e in luogo della distinzione del processo storico in secoli, introduce un ordinamento meno meccanico, sostituendo tuttavia alle «epoche» della terminologia del Giudici i «periodi», con un’operazione che non doveva restare senza efficacia sul vocabolario storiografico dell’età successiva. Dichiara il Settembrini: La nostra vita e la letteratura che la rappresenta non va divisa per secoli, ma per alcuni periodi di tempo più o meno lunghi di un secolo, in ciascuno dei quali apparisce un grande pensiero in un grande fatto51.

Ma il difetto di qualità speculative dell’autore fa sì che il periodizzamento delineato nelle Lezioni riesca nel complesso generico e superficiale. I vari periodi si succedono vagamente delineati in schematici abbozzi, i quali non incidono per nulla, nella loro empirica convenzionalità, sulla comprensione dell’effettivo significato del mondo storico a cui si applicano, e a cui dovrebbero servire, oltre un mero intento didascalico classificatorio, come equivalente logico e definizione critica.

50 51

L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana cit., vol. III, p. 398. Ivi, vol. I, p. 36.

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Dei sette periodi in cui è ripartito il corso della letteratura italiana, il primo, quello delle «origini», sarebbe tutto percorso dalla «gran lotta» tra Papato e Impero, e nella monarchia di Federico II, «che è principio dell’unità nazionale», presenta i primi germi della nuova letteratura: allora infatti «sorgono i primi monumenti di arte, si scrive la nuova lingua, si canta la nuova poesia»52. Il secondo periodo, dello «svolgimento spontaneo», è compreso nei limiti del periodo avignonese: «L’Italia trovandosi senza i papi [...] si ripiega sopra se stessa, comincia a ricordare il suo sapere antico». In questo periodo, ricco di vita spontanea, sorgono «Dante, Giovanni Villani, il Boccaccio, il Petrarca, e Cola di Rienzo»53. Segue il periodo dell’«erudizione», durante il quale il papato è ristabilito in Italia, ma senza l’onnipotenza antica, e la penisola «va tutta sossopra e si muta», mentre, in questo disordine, cresce «l’erudizione, che è studio di un altro mondo, quasi gli uomini sentissero orrore e ribrezzo del mondo presente», e la ricerca «diventa entusiasmo e furore»54. Il quarto periodo «comprende la invasione straniera e la riforma religiosa», e va dal 1492 al 1564: è il periodo dell’«arte pagana», in cui l’antico sapere cercato, studiato, sparso per tutta Italia si esprime in una lingua comune: rinascono tutte le forme dell’arte antica: il pensiero antico è interamente travasato nella lingua nuova55.

Il quinto periodo, che è quello del «gesuitesimo nella vita italiana», s’inizia col Concilio di Trento e dura fino al 1700, segnando un’età di grave decadenza: «La religione fu solo culto esterno, l’arte fu sola forma, la scienza fu sola osservazione della natura»56. Dal 1700 al 1789 si stende il sesto periodo, il periodo delle «scienze», nel quale «la scienza cagiona le riforme civili dei principi» e «l’Italia per la scienza rientra nel gran consorzio delle nazioni, e dimostra col Vico che nella servitù ella aveva taciuto e meditato». Il settimo e ultimo periodo ha termine con l’unità d’Italia, nel 1860: L’arte, il sapere, la lingua durante questo periodo dimostrano il dolersi, il fremere, lo sperare, il rassegnarsi per disperazione, poi nuovamente sperare, volere, ottenere57.

52

Ibidem. Ivi, p. 37. 54 Ivi, p. 242. 55 Ivi, p. 38. 56 Ivi, pp. 38-39. 57 Ibidem. 53

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SUCCESSIVE ESPERIENZE STORIOGRAFICHE

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Secondo questo tracciato, enfaticamente o aridamente eseguito (un’alternanza di risultati in cui si riproduce l’identico errore iniziale), si svolgerebbe, nell’interpretazione del patriota e professore napoletano, la vicenda della civiltà letteraria d’Italia. Il periodizzamento del Settembrini, assai meno efficace di quello dell’Emiliani Giudici e di quello del Tenca, risponde, come è facile osservare, a criteri storiografici assolutamente estrinseci. Il corso della letteratura nell’esposizione del Settembrini, anziché offrirsi come il risultato di un approfondito studio del suo intimo processo di sviluppo, appare semplicemente come il frutto di un arbitrario inquadramento in schemi convenzionali vuoti di un reale contenuto. Così la materia sovente finisce con l’essere spezzata e costretta in paradigmi artificiosi. Perciò l’impalcatura dei sette periodi in cui il Settembrini cerca di organizzare al sua storia non vale, per il modo tutto esteriore del procedimento, a dare un’autentica unità all’opera. L’aspetto frammentario e disorganico di questo libro, dovuto ai motivi indicati, sembra ancora accentuato dall’atteggiamento critico che si manifesta nell’esame delle singole opere, spesso incerto e oscillante sotto l’influsso di criteri valutativi diversi. Manca al Settembrini un esatto concetto della poesia, e pertanto la sua critica rimane sempre generica e approssimativa. Se in genere non gli fa difetto un equilibrato sentimento artistico e lo aiuta un gusto formato attraverso una lettura intelligente dei classici, troppe volte alla sua valutazione si mescolano altri elementi che turbano l’equilibrio dell’analisi e del giudizio. Così qualche residuo dell’antiquata teoria dei generi letterari interviene talora a forzare l’esame in base a canoni assurdi, mentre altre volte la serenità della sua sentenza rimane offuscata dall’intervento rigido di una richiesta moralistica. Ne risulta una maniera di critica rapsodica, che contribuisce ad accrescere l’impressione di una mancanza di coerenza e di unità. Senza contare poi (cosa che non bisogna omettere nel calcolo del definitivo risultato della narrazione) quel frammentismo proprio del suo temperamento di artista, quale si rivela nelle Ricordanze58, portato a tratteggiare con vivacità e delicatezza aneddoti e bozzetti, ma sempre incapace di superare la serie delle impressioni e delle memorie in un motivo dinamico. Quest’ultima considerazione ci permette di avviare il discorso a una conclusiva verifica delle Lezioni e di determinarne il positivo significato nella storia della nostra storiografia. Il Settembrini nel ripercorrere le vicende della letteratura italiana, se rimane intimamente indifferente all’essenza dei problemi storiografici, reca come originale contributo la ricchezza della sua umanità di patriota e di artista. Il patriota, anche se è responsabile di veri e 58

Cfr. B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari: Laterza, 19292, vol. I, p. 351.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

propri fraintendimenti storici e critici e provoca quell’assunzione di disparati motivi metodologici che abbiamo visto, conferisce tuttavia un calore patetico e un’efficace animazione, suscitando un clima psicologico fecondo, nel quale la realtà della storia e il ritmo del racconto si fanno più vivi. Il letterato, a sua volta, non manca di portare una risentita collaborazione: una garbata sensibilità artistica, innanzitutto, che permette al giudizio sui vari autori, malgrado i preconcetti e le deviazioni ancora presenti, di mantenersi in un tono di giusto equilibrio; una certa sicurezza, poi, capace di valutare opere ed artisti generalmente trascurati, e di condurre alla scoperta di alcuni scrittori, specialmente napoletani, caduti in oblio59 (e qui interferisce anche il patriota, concretamente legato, nel suo amore per l’Italia, alla regione che gli ha dato i natali: in una posizione parallela, in certo modo, a quella che in arte sarà il regionalismo, che per l’appunto non significa negazione, ma conferma del sentimento nazionale); discreto, ancora, che origina garbate pagine di analisi, come quelle sul Pulci, sul Marino, sul Metastasio e, in genere, sugli autori più festevoli (che sembrano denunziare nel nostro storico un’inclinazione di gusto personale e quindi un’indipendenza dal De Sanctis, l’efficacia del cui insegnamento, secondo alcuni, il Settembrini avrebbe fortemente sentito60). Ma soprattutto l’esatta e calda prosa del patriota letterato andava incontro a quella che era stata un’aspirazione della storiografia ottocentesca, e cioè all’ideale di una storia scritta in una forma stilisticamente fresca ed energica che già il Foscolo aveva implicitamente vagheggiato nel lamentare la condizione della stanca scrittura del capolavoro dell’erudizione letteraria settecentesca. Nel valore che il De Sanctis riconosceva a queste Lezioni di libro d’arte61, si può fare consistere, se si concede l’apparente contraddizione, anche il loro pregio storiografico. Con la sua opera il Settembrini portava a una risoluzione concreta la questione ancora aperta di una storia letteraria scritta in uno stile adeguato, in cui la bellezza della poesia trovasse nella dignità della prosa critica una lontana suggestione evocatrice, e quasi un’eco remota della traccia lasciata nella memoria e nell’anima del lettore. Sotto questo riguardo, il misurato stile settembriniano, superando la spoglia aridità formale della storia del Tiraboschi e l’enfatica espressione dell’Emiliani Giudici, si presentava indubbiamente, in rapporto alla particolare condizione storica, come un esemplare modello.

59 Si vedano specialmente, oltre alle pagine sull’Africa del Petrarca, quelle su Masuccio Salernitano, sul Pontano, sul Giannone. 60 Cfr. G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia cit., p. 333. 61 F. De Sanctis, Settembrini e i suoi critici, in Saggi critici cit., vol. III, p. 63.

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SUCCESSIVE ESPERIENZE STORIOGRAFICHE

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Le osservazioni fatte ci permettono di situare in un’esatta prospettiva storica la letteratura del Settembrini. La critica nei confronti di quest’opera, muovendo da due opposti punti di partenza, è rimasta oscillante tra un’assoluta svalutazione del suo significato storiografico (accompagnata però da una benevola simpatia per l’uomo e lo scrittore) e un totale consenso per il suo valore sentimentale e artistico (non senza il bisogno di indicarne il grave limite storiografico). Senonché sarà concesso apprezzare più esattamente il significato delle Lezioni di letteratura italiana quando siano, non già isolate in una considerazione astratta e assoluta, ma inserite nella concreta valutazione del processo di svolgimento della nostra storiografia letteraria. Allora sarà facile riconoscere come la storia del Settembrini abbia effettivamente collaborato a questo svolgimento, offrendo un tipo di storia che, malgrado gli errori critici e metodologici largamente presenti, deve ritenersi viva, animata com’è da un sentimento umano caldo di intimità, sorretta quasi sempre da uno schietto gusto d’arte, dominata infine da una limpida unità di stile. A considerare la storia del Settembrini partendo, non già, con un’arbitraria operazione critica, dall’opera del De Sanctis, ma al contrario, con più esatto senso storico, dall’angolo visuale delle precedenti storie, non si potrà non avvertire un reale progresso e non cogliere, per quegli aspetti che abbiamo indicato, quasi un presentimento della stessa storia desanctisiana. Con questo resta però anche vero che le Lezioni del Settembrini mantengono qualcosa di antiquato rispetto agli anni in cui escono, ormai tutti pieni della fermentante critica desanctisiana, e che la Storia della letteratura italiana del De Sanctis rappresenta pur sempre un salto troppo brusco, segna una troppo evidente discontinuità nello sviluppo della nostra storiografia letteraria. Ma questo non deve sorprendere, e serve solo a confermare, anche per questa via, la grande originalità dell’opera del De Sanctis, per la quale si verifica quello che è proprio di tutte le opere profondamente geniali, che, mentre riassumono il passato, se ne allontanano poi con grande intervallo ideale, ponendo problemi nuovi e segnando svolte decisive e non prima immaginate.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

Anche le Lezioni settembriniane, al loro apparire, come già le storie del Ginguené, del Sismondi e dell’Emiliani Giudici, suscitarono (e in ciò è una prova della loro indiretta fecondità) una vivace discussione critica, notevole soprattutto perché vi presero parte due discepoli del De Sanctis, Bonaventura Zumbini e Francesco Montefredini, e poi, con un articolo che può considerarsi come il manifesto della nuova storiografia, lo stesso grande critico. Lo Zumbini, nel suo saggio Le lezioni di letteratura italiana del prof. Settembrini e la critica italiana, stampato nel 18681, attraverso un minuto esame delle Lezioni, condotto secolo per secolo, autore per autore, si faceva a correggere interpretazioni, indicare deficienze, notare lacune, concludendo con una cruda denunzia della mediocrità di valore critico dell’opera: «come lavoro di critica, il libro è molto mediocre»2. Le pagine dello Zumbini erano il documento di un nuovo gusto storiografico e di un’esigenza di cultura nuova. L’attenzione dello studioso appare ormai tutta rivolta al particolare, al dato singolo, scientificamente verificato. I problemi storiografici che avevano affaticato la generazione romantica, sembrano dimenticati per essere sostituiti da quest’unica esigenza filologica, o meglio, essi sono accolti solo per venire sottoposti al collaudo di questa nuova controllata metodologia. Alla luce di tale gusto di lavoro si comprende come il battagliero giovane critico potesse parlare tanto ironicamente dell’«incomprensibile gran lotta del Settembrini»3, quella lotta che costituiva il tema centrale, il sostegno dell’intera narrazione del candido professore. I motivi storiografici del Settembrini, nei quali si 1 , si trova, con lievi ritocchi, nel volume di B. Zumbini, Studi di letteratura italiana, Firenze: Succ. Le Monnier, 19062, pp. 179-253. 2 Ivi, pp. 221-222. 3 Ivi, p. 195.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

esauriva tutta quella sua problematica ereditata dal primo Ottocento, venivano orgogliosamente demoliti dallo Zumbini:

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Or vedete quanta ardua impresa è questa tentata dal Settembrini: ridurre la vita italiana di otto secoli alla lotta fra il Papato e l’Impero; fare dell’arte italiana un riflesso di quella vita; dimostrare il primato che ne deriva alla nostra letteratura. Ma vediamo alla prova come ei venga a capo di queste tre davvero erculee fatiche4.

E naturalmente la minuziosa verifica permetteva all’inclemente giudice di dimostrare l’instabilità di quell’edificio costruito dal Settembrini, e di concludere, con facile sentenza stroncatoria, negando ogni critico valore all’opera composta su questa macchinosa impalcatura. La stessa mentalità negatrice dimostrava il Montefredini nel suo articolo Le lezioni di Luigi Settembrini, professore nell’Università di Napoli, apparso sulla «Rivista contemporanea»5, il cui significato definitivo deve essere cercato non nella generica lode per la partizione adottata dal Settembrini dello svolgimento della letteratura italiana in sette periodi, né sul biasimo per la caratterizzazione della nostra letteratura fatta consistere in «una compiuta armonia tra concetto e forma» (una condizione tutt’altro che specifica ma pertinente a tutte le letterature6), sì invece in quell’operazione accurata di revisione e rettifica dei dati particolari che aveva anche costituito l’interesse primo dello Zumbini. Il peso dell’analisi del recensore non gravita, invero, su una considerazione rivolta alle grandi linee strutturali dell’opera settembriniana, ma si esercita, piuttosto, in un circostanziato lavoro di controllo, sulla critica di singoli aspetti e minuti particolari della storia letteraria. Questa critica, diffidente delle affermazioni generali, dei risultati validi per la letteratura considerata nella sua totalità, e desiderosa invece di riscontri accessori e di verifiche sui singoli punti, doveva essere la naturale rinnegatrice conclusione del movimento storiografico romantico. La metodologia della storia letteraria del primo Ottocento, tutta preoccupata delle complesse questioni, delle interpretazioni d’insieme, delle ampie prospettive, dei problemi strutturali (la ricerca del carattere di una letteratura, lo studio della letteratura come espressione della società, la distinzione dello svolgimento letterario in periodi, la precisazione del concetto di letteratura nei suoi chiari limiti, e simili), dopo di avere tentato la sua prima esperienza con l’Emiliani Giudici, Ivi, p. 183. Si trova nel volume di F. Montefredini, Studi critici, Napoli: A. Morano, 1877, pp. 143191. 6 Cfr. Ivi, particolarmente alle pp. 154 e 150-151. 4 5

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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e di essere rimasta sostanzialmente ignota al Cantù, aveva ottenuto la sua più compiuta applicazione nell’opera del Settembrini, la quale sembrava ora denunziarne, con le vuote generalità e le imprecise e oscillanti costruzioni a cui inconsapevolmente giungeva, il clamoroso fallimento. Lo Zumbini e il Montefredini, con il loro esatto filologismo puntualizzatore, stanno perciò a rappresentare la sopraggiunta stanchezza e la negazione polemica nei confronti di questo orientamento storiografico. Essi rendono palese la completa saturazione a cui nelle Lezioni settembriniane era ormai pervenuto quell’insieme di problemi e di modi di considerare la storia della letteratura proprio della discussione che aveva occupato l’età precedente. L’articolo di Francesco De Sanctis, apparso nel marzo del 1869 sulla «Nuova Antologia»7, se difendeva generosamente il Settembrini dalla demolizione dei due critici ricordati, trasferendo il significato del libro, come lavoro d’arte, dalla zona critica a quella estetica, non nascondeva con questo il giudizio negativo sulla insufficienza critica delle Lezioni e non mancava nemmeno di manifestare una bonaria ironia verso il Settembrini, che «si mette in viaggio con certe idee in capo, con tutto un sistema prestabilito...»; e che «ha sentito tanto a dire che oggi è il tempo della scienza, che tutto si vuol fare seriamente, e che non si può parlar d’arte senza ficcarci dentro un pò di filosofia...»8. Il De Sanctis condivideva sostanzialmente l’esigenza dello Zumbini e del Montefredini, impostata sulla necessità di un rigoroso controllo del dato specifico relativo al singolo fenomeno, destinato a essere inserito nella costruzione della storia letteraria. Senonché, mentre i due giovani studiosi sembravano solo esprimere il fastidio per le forme storiografiche precedenti, mantenendosi nei confini di una critica negativa o comunque minutamente circoscritta, il De Sanctis doveva invece superare il momento demolitore con un’opera di ricostruzione, dimostrando in concreto, con la Storia della letteratura italiana, di avere assorbito le feconde possibilità che in quelle forme erano pur contenute. Queste pagine desanctisiane, del resto, hanno per il nostro assunto un valore estremamente indicativo, poiché contengono una precisa diagnosi della situazione della critica italiana, e in esse il problema della storia letteraria viene concretamente posto in rapporto al clima della nostra cultura, come quello di uno specifico genere critico. Il De Sanctis, in questo esame di coscienza dei nostri studi fatto da un vertice di altissima sensibilità, insiste soprattutto sulla denunzia del troppo L’articolo (Settembrini e i suoi critici) si legge ora in F. De Sanctis, Saggi critici cit., vol. III, pp. 50-75. 8 Ivi, p. 72. 7

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

scarso lavoro di ricerca monografica dedicato ai singoli scrittori, e sulla convinzione della necessità di tale lavoro in quanto momento assolutamente indispensabile su cui fondare il resoconto storico. La storia letteraria ai suoi occhi si presenta come una vasta sintesi che rimanda a un’assidua analisi:

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Una storia della letteratura è come l’epilogo, l’ultima sintesi di un immenso lavoro di tutta intiera una generazione nelle singole parti. Tiraboschi, Andrés, Ginguené sono sintesi del passato. Oggi tutto è rinnovato, da tutto sbuccia un nuovo mondo: filosofia, critica, arte, storia, filologia. Non ci è più alcuna pagina della nostra storia che resti intatta. Dovunque penetra con le sue ricerche lo storico e il filologo, e con le sue speculazioni il filosofo e il critico. L’antica sintesi è sciolta. Ricomincia il lavoro paziente dell’analisi, parte per parte. Quando una storia della letteratura sarà possibile? Quando questo lavoro paziente avrà portata la sua luce in tutte le parti; quando su ciascuna epoca, su ciascun scrittore importante ci sarà tale monografia o studio o saggio che dica l’ultima parola e sciolga tutte le quistioni. Il lavoro di oggi non è la storia, ma è la monografia9.

E come se non bastasse: E mi dolgo soprattutto che presso noi sieno così scarse le monografie o gli studii speciali sulle epoche e sugli scrittori. I nostri concetti sono vasti, inadeguati alle nostre forze; e più volentieri mettiamo mano a lavori di gran mole, da cui non possiamo uscir con onore, che a lavori ben circoscritti e ben proporzionati ai nostri studii. Così niente abbiamo ancora d’importante su nessuno de’ nostri scrittori, e abbiamo già molte storie della letteratura10.

Ma non soltanto la monografia su singoli autori e periodi veniva auspicata e postulata come antecedente necessario per la composizione della storia letteraria. Quest’ultima era altresì condizionata, per il grande critico, da un complesso di ricerche che giungevano a impegnare tutta la cultura considerata nei suoi settori più diversi. Ma il resoconto critico della vicenda letteraria era fatto soprattutto dipendere da una esatta sistemazione dei concetti estetici: Una storia della letteratura presuppone una filosofia dell’arte, generalmente ammessa, una storia esatta della vita nazionale, pensieri, opinioni, 9 10

Ivi, p. 73. Ivi, p. 74.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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passioni, costumi, caratteri, tendenze; una storia della lingua e delle forme, una storia della critica11.

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Sulla base di queste vaste e nuove esigenze, il De Sanctis sviluppava il suo esame della cultura italiana, saggiandone le possibilità e discutendone la preparazione in ordine al sorgere della storia letteraria, la quale pertanto veniva a porsi quasi come il momento riassuntivo dell’intera cultura: E che ci è di tutto questo? Nulla, o, se v’è alcuna cosa importante, è per nostra vergogna lavoro straniero. Noi abbiamo una filosofia dell’arte tutta d’accatto o senz’applicazione, e le cose sono a tale, che non sappiamo ancora cosa è la letteratura e cosa è la forma, come appare dal libro del Settembrini. Su nessuna arte è stato scritto niente di serio, non sulla pittura, non sulla musica, e neppure sulla poesia [...]. Una storia nazionale, che comprenda tutta la vita italiana nelle sue varie manifestazioni, è ancora un desiderio [...] e niente ancora abbiamo che rassomigli ad una storia della nostra lingua e de’ dialetti, dove siano rappresentate le varie forme, che la lingua e il periodo han prese nelle diverse epoche. Anche de’ criterii critici che hanno guidato i nostri scrittori e artisti manca una storia12.

E la conclusione non poteva se non essere molto amara: In tanta povertà, cosa può essere una storia della letteratura? Una informe compilazione piena di lacune e d’imprestiti e di giudizii superficiali e frettolosi e partigiani13.

Queste pagine, alle quali è stato dato finora troppo poco rilievo, mentre costituivano un’acuta analisi della situazione culturale dell’Italia contemporanea, additavano insieme, nell’alto concetto che della storia letteraria mostrava di avere colui che le aveva scritte, un sicuro punto di orientamento, ponendo tale esercizio storiografico quale meta suprema e concreto risultato di tutto un vasto insieme di operazioni critiche. Il De Sanctis, nella constatazione negativa dello stato dei nostri studi, sembrava rimandare a un indeterminato tempo futuro, in cui fosse stato eseguito quell’indispensabile lavoro preparatorio da lui additato, la nascita di un’autentica storia letteraria. E tuttavia egli veniva a sottolineare, nel proporre quel complesso di ricerche preliminari, più che un momento cronologico, un semplice momento ideale. 11 12 13

Ivi, p. 73. Ivi, pp. 73-74. Ivi, p. 75.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Insomma, non si trattava di un programma da doversi intendere ed eseguire con pedantesca fedeltà, quasi un’anticipazione di quel canone destinato a dominare nella scuola positivista, intenta a rimandare sempre, in un necessario processo ad infinitum, la sintesi, cioè la storia letteraria, finché non fosse totalmente compiuta la ricerca analitica delle singole parti. Si trattava piuttosto della mera enunciazione di una tesi, di un principio metodologico della storiografia letteraria da assumersi con il valore di un concetto limite. La prospettiva aperta su tale vastissimo orizzonte culturale, sentito come lo sfondo indispensabile per un’autentica ricognizione della vicenda letteraria, giovava soprattutto in quanto veniva a richiamare il critico sull’estensione della propedeutica che gli era necessaria quando intendesse accingersi all’impresa di narrare la storia delle nostre lettere. Ma il contenuto di questo manifesto in qualche modo si risolveva pure in un’indiretta confessione della cultura dello stesso De Sanctis, il quale, proprio l’anno prima, aveva messo mano alla sua Storia della letteratura italiana14. Il piano di lavoro che il De Sanctis proponeva ai suoi contemporanei nell’articolo sul Settembrini, aveva in fondo costituito l’attività della sua intera esistenza di studioso e di insegnante. Quel vasto esercizio di scavo nelle più varie direzioni della storia letteraria, che si sarebbe dovuto sviluppare nelle ricerche monografiche poste al centro dell’attività preparatoria alla nascita del libro di letteratura italiana, rappresentava per la cultura del De Sanctis un fatto ormai acquisito. Le lezioni tenute dal 1839 al 1848 nella sua «prima scuola», al Vico Bisi, come documentano gli appunti degli scolari15, formano una serie di vivacissimi saggi sui principali autori della letteratura nostra, dal Compagni al Manzoni, dal Boccaccio al Leopardi16. Le lezioni torinesi poi, e successivamente quelle tenute al Politecnico di Zurigo, su Dante, sul Petrarca, sul poema cavalleresco, sul Seicento; così come gli studi compiuti, 14 In una lettera all’amico Marciano del 1868 il De Sanctis così scriveva: «Ho messo mano ad una storia della nostra letteratura in un volume solo, ad uso dei licei. Tengo immensi materiali raccolti...», F. De Sanctis, Scritti vari inediti o rari, raccolti e pubblicati da B. Croce, Napoli: A. Morano, 1898, vol. II, p. 241. 15 Queste lezioni furono raccolte, com’è noto, dal Croce nei due volumi: F. De Sanctis, Teoria e storia della letteratura, Bari: Laterza, 1962. 16 A proposito del Compagni, il De Sanctis scrisse poi in termini molto significativi, riferendosi al suo primo insegnamento: «Scorsi tutta la sua Cronaca, pigliando di qua e di là, frizzando, motteggiando e sfogando su di lui tutta la stizza che avevo in corpo. Non è che quelle idee mi venissero giù così all’improvviso; più volte mi erano passate per il capo; ma quella sera le condensai, le colorii, fui eloquente. E quella lezione mi piacque tanto, che la ripetei l’anno appresso, cosa insolita, e me ne rimase memoria, e mezza la inserii nella mia Storia della letteratura», F. De Sanctis, La Giovinezza, in Memorie e scritti giovanili, vol. I, Napoli: A. Morano, 1930, p. 152.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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indipendentemente dalle esigenze scolastiche, su altri autori e zone della storia letteraria, non sono altro che la concreta attuazione, svoltasi per uno spazio di oltre tre decenni, di quel lavoro di carattere monografico che egli additava come il fondamento di ogni storia della letteratura seriamente concepita. D’altro lato, la meditazione sul problema dell’estetica, iniziata anch’essa in quei lontani anni napoletani, trascorsi nella scuola e nel carcere, e continuata ancora nel periodo successivo, gli aveva fornito quel fondamento filosofico che egli a ragione riteneva mancare nella cultura critica italiana. E, analogamente, i suoi studi linguistici e grammaticali, fatti alla scuola del Puoti, e approfonditi nelle lezioni tenute ai suoi primi scolari, come pure il ripensamento condotto a lungo e con tenacia delle linee fondamentali della storia politica e civile italiana, non mancavano di offrire alla sua preparazione un’esperienza di primissimo ordine. In una zona sola è forse possibile riscontrare un disaccordo fra le parole programmatiche del De Sanctis e l’effettiva sostanza della sua cultura, e precisamente in quella che riguarda la storia delle arti figurative e la storia della musica. Ma non bisogna dimenticare, a questo proposito, che tali discipline si sono venute costituendo in tempi relativamente recenti, e che del resto il De Sanctis assorbì in questo campo quanto poteva concedergli la situazione degli studi contemporanei. A tenere conto di questa profonda e vasta cultura operante in Francesco De Sanctis, la sua Storia della letteratura italiana non potrà risultare occasionale (come potrebbe anche far supporre l’articolo ricordato, nell’apparente contraddizione che verrebbe ad aprire con la Storia). Tale essa apparirà soltanto sul piano della notizia relativa alla sua estrinseca genesi, e sotto l’angolo visuale di un esame alquanto superficiale. Ma alla luce di una più matura considerazione la Storia si impone come il prodotto di un lungo travaglio e di una lenta germinazione critica. Il pretesto contingente che determinò la nascita, nel 187017, del capolavoro del De Sanctis (il quale, com’è noto, aveva ricevuto dall’editore Morano l’incarico di scrivere un manuale di letteratura per i giovani dei licei), lasciò senza dubbio un’impronta sul libro: come la troppo compendiosa trattazione della letteratura dell’Ottocento, dovuta alla soverchia estensione dell’opera che, editorialmente concepita in un unico volume, s’era poi, nella esecuzione, ampliata a due e non poteva, come il De Sanctis avrebbe voluto, allargarsi a tre; la lacunosità e la sproporzione nel trattare di alcuni autori e di alcuni periodi; e, d’altra parte, positivamente, l’andamento drammatico e serrato favorito dall’incalzante pungolo della necessità di procedere rapido 17

I due volumi portano entrambi la data del 1870, ma il secondo uscì alla fine del 1871.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

e spedito, come imponeva l’economia del manuale18. Ma questo non impedì che nel lavoro si esprimesse il genio storiografico del De Sanctis e che per tale lavoro la nostra storiografia letteraria si arricchisse di un’opera unica e incomparabile. Il valore di quest’opera, del resto, non va ricercato in una compiuta esposizione della nostra letteratura, esattamente inventariata con assoluto ordine e rigorosa proporzione, ma nell’originalissimo modo in cui è impostata la materia e nell’accento nuovo con cui la fondamentale problematica della storia letteraria è sentita. Alla base della Storia desanctisiana, quale causa concomitante e forse essenziale della sua originalità, deve essere certo tenuta presente la costante meditazione del problema estetico, prolungata dal grande critico si può dire per tutta la vita. Tuttavia questo non ci permette di raccogliere in un concetto e di formulare in un principio che tutta l’esaurisca, la complessa realtà critico-estetica di queste mille pagine, in cui sono narrate le vicende della nostra letteratura. A ostacolare un tale proposito contribuisce non tanto la molteplicità e ricchezza degli atteggiamenti, nati da una reale densità di principi critici, quanto piuttosto il difetto sostanziale di disciplina proprio della cultura filosofica, pur alta e viva, di Francesco De Sanctis. I suoi concetti estetici, sparsi occasionalmente nei diversi saggi, si presentano sebbene veri e fecondi nella loro sostanza, poco rigorosamente sistemati, e per il fatto di non essere sottoposti a una sufficiente elaborazione, rimangono allo stato incondito in cui sono nati, uno stato al quale del resto corrisponde la stessa terminologia incerta e oscillante19. Questa mancanza di una rigida struttura e di un disciplinato spirito di sistema, d’altra parte, consente al critico una più libera e articolata possibilità di atteggiarsi, e di suggerire via via, a seconda dell’occasione, spunti e assaggi storiografici fecondamente nuovi20. Perciò si potrebbe dire in certo modo che la grandezza del De Sanctis sia legata nello stesso tempo al vigore con cui egli intuì e realizzò alcuni fondamentali principi estetici e alla libertà che seppe mantenere di fronte ad essi, muovendosi su alcune linee maestre che, senza imprigionare, orientano semplicemente la sua interpretazione. Il principio essenziale che sta al centro dell’intuizione estetica desanctisiana è senza dubbio quello che pone l’arte come forma: la forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal con18 Cfr. B. Croce, Come fu scritta “La storia della letteratura italiana”, nel volume dello stesso autore, Una famiglia di patrioti e altri saggi, Bari: Laterza, 1927, pp. 267-276. 19 Cfr. Id., Le lezioni sulla letteratura italiana del secolo XIX, in Una famiglia di patrioti cit., p. 169. 20 Cfr. M. Valgimigli, Francesco De Sanctis, nel volume dello stesso autore Poeti e filosofi di Grecia, Bari: Laterza, 1940, p. 337.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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tenuto, quasi ornamento o veste, o apparenza, o aggiunto di esso, anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto tal forma […] Nella forma, il critico ritrova il contenuto [..] lo ritrova non più natura, ma arte21.

In coerenza a questo concetto, la storia letteraria si dovrebbe sviluppare come storia di un contenuto che si realizza in forma. E invero l’autentico soggetto della Storia del De Sanctis è la forma, una forma che è poi lo stesso contenuto, una forma che non è elemento decorativo aggiunto a posteriori, ma realtà generata insieme al contenuto nel processo creativo. Tuttavia se la forma che si accampa al centro dell’inchiesta desanctisiana non è più la forma nel senso estrinseco e grammaticale del Puoti e degli altri puristi, essa d’altra parte non è solo (nei risultati empirici almeno) la forma nel significato più alto di espressione poetica, nel senso (diciamo approssimativamente) crociano. O almeno, il problema della forma com’è impostato dal De Sanctis, con quei residui empirici e con quell’assenza di organicità che abbiamo ricordato, provoca un incessante lavoro di accertamento sul grado di realizzazione del contenuto in forma, che costringe a registrare anche le esperienze non totalmente attuate, o spostate su piani diversi dalla poesia, e a estendere conseguentemente l’esame a una zona assai più vasta, in cui la forma viene assunta nei suoi gradi di valore più diversi e sfumati. In altri termini, la Storia della letteratura italiana, non si riduce a una mera storia della poesia italiana, nel senso che sia guidata da un’attenzione unicamente rivolta alla poesia pura, ai soli capolavori delle nostre lettere. Al contrario, essa si presenta con dimensioni assai più vaste e con una complessità più irriducibile. La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis si presenta nel suo aspetto più largo e preciso, come storia di una «civiltà letteraria», nel senso che l’attenzione dello storico è essenzialmente orientata verso il «fatto letterario», verso il fenomeno «letteratura». È la forma considerata nella molteplicità del suo configurarsi in toni e valori diversi, da quello altissimo dell’espressione artistica a quello prosastico, a quello oratorio, a quello semplicemente linguistico, la realtà che si accampa nella massima opera del De Sanctis determinandosi in una varia e complessa fenomenologia, indagata da un’adulta coscienza speculativa e nutrita dal possesso di una ricca sostanza di civiltà e di cultura. Una forma, naturalmente, che, anche al di fuori del caso privilegiato della realizzazione poetica, resta sempre in stretto rapporto con quel presupposto necessario che è il contenuto. Non si darà dunque 21

F. De Sanctis, Settembrini e i suoi critici cit., pp. 61n-62n.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

più, come avveniva nell’Emiliani Giudici, un’oscillante storia di contenuti e di forme, a seconda del prevalere dei richiami del moderno concettualismo estetico o di quelli del tradizionale gusto formalistico retorico (che erano poi i due estremi momenti, del purismo e dello hegelismo, susseguitisi nella giovanile educazione desanctisiana, che il critico cercherà costantemente di evitare e di superare), ma prenderà vita l’unitaria storia di un contenutoforma, di un contenuto che diventa o tenta di diventare forma e di una forma che nasce da un contenuto o da esso si separa, la storia insomma di quel prodotto e di quella espressione dello spirito che è la letteratura. Se il fenomeno letterario costituisce il reale soggetto dell’indagine desanctisiana, il fatto poetico, in quanto realtà essenziale e dinamica della letteratura, acquista naturalmente un rilievo particolarissimo. Perciò la Storia della letteratura, in conseguenza della sua fisionomia di storia di una civiltà letteraria, finisce con l’essere anche e principalmente storia della poesia, storia dei capolavori artistici e dei grandi nostri poeti. Ma sebbene storia di grandi personalità, la Storia della letteratura non si preclude e non nega l’effettuabilità di una narrazione continuata, fondata sull’ipotesi di uno svolgimento: non rifiuta, in sostanza, il resoconto di una trama serrata su cui si dipani una vicenda. Il De Sanctis fa una questione troppo viva dell’autonomia dell’arte per ammettere che la poesia, in quanto poesia, possa progredire e subire o sviluppare influenze, risolvendosi in un flusso storico in perpetuo movimento. L’arte non è più per lui, hegelianamente, il simbolo di un’idea e la critica di essa, la ricerca del concetto dall’arte mediato e la relativa storiografia, l’analisi di una serie di concetti disposti in modo da segnarne il continuo progredire, così come si segna nella storiografia filosofica lo svolgimento dei concetti elaborati dai pensatori. Tuttavia, malgrado la rigorosa affermazione teoretica e pratica dell’autonomia dell’arte, nonostante la coscienza della sua unicità e irrepetibilità nello spazio e nel tempo, questa storia dei grandi capolavori della nostra poesia, non respinge la possibilità di una visione dinamica e continua, e non si riduce a una frammentaria serie di saggi. Infatti, se la poesia in quanto arte rappresenta qualcosa di assolutamente nuovo e originale, incapace di imitazioni e di influenze, essa affonda pur sempre le sue radici nella vita, e in modo particolare in quella città letteraria (come ideale luogo di convergenza di un complesso mondo spirituale e culturale) che costituisce l’oggetto più comprensivo dell’attenzione storiografica del De Sanctis. Perciò questa Storia, mentre sembra solo comporsi di una raccolta di profonde monografie sui nostri massimi autori (come del resto suggeriscono, da un lato i titoli dei singoli capitoli e la stessa fondamentale materia di essi, e dall’altro la nostra abitudine di lettura e di citazione), non manca poi di snodarsi, nella sua legge strutturale, secondo un preciso ritmo di sviluppo, in una visione

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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in cui si compongono, senza escludersi ibridamente, l’intangibile e immobile originalità della poesia e la realtà storica del progressivo movimento. La considerazione del disegno relativo allo svolgimento della nostra letteratura attraverso i secoli si rende inevitabile, in un discorso sul De Sanctis, a parte le stesse ragioni estrinseche della compiutezza dell’informazione e quelle interne della dialettica critica, già per il semplice valore di documento classico di una prospettiva storiografica che tale disegno ha ormai acquistato. Il De Sanctis inizia la sua storia (e le parole possono valere come simbolo della concreta attenzione al fatto letterario: «Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo...») immediatamente con l’esame delle prime manifestazioni letterarie in volgare, dovute a Cielo d’Alcamo e alla scuola siciliana. Di tale scuola egli esamina i motivi e le forme, i principali documenti e le personalità più significative, la risonanza nel mondo ad essa contemporaneo, la sua parabola e la sua fine. Con lo stesso metodo il critico analizza, nel secondo capitolo, «i toscani», giungendo alla conclusione circa la non popolarità della nostra prima poesia: la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto penetrare nella vita nazionale e rimasto frivolo e insignificante; e fu poi sviata dalla scienza, che l’allontanò sempre più dalla freschezza e ingenuità del sentimento popolare e creò una nuova poetica [la poetica appunto, come il De Sanctis la definisce, della «bella veste»] che non fu senza grande influenza sul suo avvenire. L’arte italiana nasceva non in mezzo al popolo ma nelle scuole, fra san Tommaso e Aristotele, tra san Bonaventura e Platone22.

La lirica di Dante prosegue sulla stessa linea, confermando questo carattere colto e dottrinale. Nella Vita Nuova «ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio». Tuttavia non è in questa scienza che va cercata la sostanza del giovanile libretto, poiché in esso «sotto l’abito dello studente ci è un cuore puro e nuovo»23. Non diverso da quello della poesia è il contenuto che si incontra nella prosa delle origini. Senonché tale contenuto «in prosa non trovò quell’adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo lirico»24. Il secolo decimoterzo viene fissato nella sua fisionomia complessiva, 22 23 24

F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana cit., vol. I, pp. 29-30. Ivi, p. 57. Ivi, p. 81.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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in una rapida sintesi: «due sono le fonti di quella letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture»25. Ma la cavalleria «venutaci di fuori con gli stranieri» restò un puro giuoco dell’immaginazione. Maggiore efficacia ebbe invece l’idea religiosa, di cui sono un prodotto i misteri e le visioni. Il Trecento attua le concezioni del Duecento, e presenta essenzialmente una duplice letteratura: una schiettamente religiosa, chiusa nella vita contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a’ santi padri e che ha per risultato inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni; e l’altra, che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico, e abbraccia i vari aspetti della vita, e dà per risultato somme, enciclopedie, trattati, cronache e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra la novella e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti senza seguito e senza sviluppo, quasi cosa profana e frivola26.

I suoi autori minori, appartenenti all’una o all’altra di queste due vicende letterarie, rappresentano aspetti particolari di quel mondo trecentesco la cui sintesi è rappresentata da Dante, il quale supera con la sua poesia entrambe le correnti, ascetico-popolare e filosofico-dotta, che invece si concludono ed esauriscono in astrazioni. La Divina Commedia è il Medioevo realizzato artisticamente: «poema universale, dove si riflettono tutti i popoli e tutti i secoli che si chiamano il “medio evo”»27. L’idea animatrice di questo capolavoro è lo spiritualizzarsi dell’uomo. Da tale posizione di Dante si passa con il Petrarca, in cui manca una profonda e virile coscienza, al disgregarsi di ogni salda fede. Il Petrarca appartiene ad un’altra età: Lo studio de’ classici, la scoperta di nuovi capilavori, una maggior pulitezza nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche col trionfo de’ guelfi, la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa nuova situazione. La situazione si fa più levigata, il gusto più corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto della forma per se stessa28.

Agli uomini di questa età, «intenti più alla forma che al contenuto», poco importava la materia: «purché lo stile ritraesse della classica eleganza»29. Del resto anche l’amore per Laura non è più l’amore per Beatrice:

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83. 141. 168. 247. 247.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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Dante alzò Beatrice nell’universo, del quale si fece la coscienza e la voce: egli calò tutto l’universo in Laura, e fece di lei e di sé il suo mondo [...]. Pare un regresso: pure è un progresso. Questo mondo è più piccolo, è appena un frammento della vasta sintesi dantesca; ma è un frammento divenuto una compiuta e ricca totalità, un mondo pieno, concreto, sviluppato, analizzato, ricerco ne’ più intimi recessi. Beatrice, sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui è Laura nella sua chiarezza e personalità di donna30.

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Laura incarna ormai una diversa sostanza storica: Laura dee parere una forma monotona e anche talora insipida; ma chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in Laura la creatura più reale che il medio evo poteva produrre31.

In Petrarca si rivela uno spirito nuovo. Con lui si afferma «il senso del reale e del concreto, così sviluppato ne’ pagani»32. E la sua malinconia non è più la malinconia del Medioevo, quella cioè di un mondo formato e trascendente, che rende quaggiù malinconico lo spirito per il suo legame col corpo; ma è la malinconia di un mondo nuovo, che, oscuro ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigionarsene, e non ne ha la forza per la resistenza che trova nell’intelletto. L’intelletto appartiene al medio evo, alle cui dottrine ha tolta la ruvida scorza, non la sostanza. Quel mondo nuovo, plastico, pagano, reazione della natura contro il misticismo, è ancora così debole, così poco lineato, che l’intelletto può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo con una sofistica apparenza di conciliazione33.

Tale fittizia conciliazione di due mondi diversi, con il Boccaccio appare ormai eliminata. Il Decameron è la negazione e la canzonatura del Medioevo. Il Boccaccio è l’antitesi di Dante. E il suo capolavoro è l’Anticommedia: è la carne che ride dello spirito. Il Boccaccio entra rumorosamente nel tempio dell’arte e «si tira appresso per lungo tempo tutta l’Italia»34. Se la malinconia dell’estatico Petrarca presentava ancora un simulacro dell’uomo antico la spensierata giovialità del Boccaccio è l’ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la maledetta, il peccato: è il 30 31 32 33 34

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

primo riso di una società più colta e più intelligente, disposta a burlarsi dell’antica; è la natura e l’uomo che, pure ammettendo l’esistenza di separate intelligenze, non ne tien conto e fa di sé il suo mezzo e il suo scopo35.

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Ultima voce del Trecento è infine il Sacchetti, il cui mondo è quello stesso del Boccaccio, ma in aspetto più borghese e domestico: «Quel mondo, con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone, è qui un materiale grezzo, appena digrossato»36. È la rappresentazione di un mondo in cui decade la vita politica e religiosa, e fiorisce la vita privata e gaia: il misticismo perisce, ma ben vendicato, traendosi appresso religione, moralità, patria, famiglia, ogni semplicità e dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l’allegria comica37.

La «voluttà idillica e l’allegria comica» costituiscono appunto «le due divinità della nuova letteratura». Così il Quattrocento, età di gestazione e di elaborazione, in cui manca il capolavoro rappresentativo, è un’età di indifferenza religiosa, morale e politica. Fallisce perciò il tentativo reazionario del Savonarola, mentre trionfano la cultura e l’arte. Unico fine di questo mondo quattrocentesco è la forma astratta, unico suo contenuto è la quiete idillica, e con essa lo spirito comico. L’immagine più compiuta del secolo è l’Alberti, con il suo disinteresse per le lotte politiche e religiose, con il suo ideale di armonia, il suo amore per la vita campestre, e per le occupazioni letterarie e artistiche. Poliziano, che nelle Stanze celebra il mondo della natura e della bellezza, dove la sensualità del Boccaccio si trasforma in voluttà; il Pulci che «discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano e non Lorenzo»38; il Boiardo, il Magnifico, il Pontano: sono i «frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi»39. Il periodo iniziato dal Boccaccio e continuato nel Quattrocento ha la sua conclusione nel secolo successivo: Il realismo, abbozzato dal Boccaccio, sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto. Ci è nella società italiana una forza ancora 35 36 37 38 39

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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intatta, che in tanta corruzione la mantiene viva, ed è nel pubblico l’amore e la stima della coltura, e negli artisti e letterati il culto della bella forma, il sentimento dell’arte40.

Il Cinquecento appare, nella rappresentazione del De Sanctis, dominato da una profonda antinomia, lo splendore della forma e l’indifferenza del contenuto: «In quel vuoto immenso non rimaneva altro in piedi che la coltura come coltura e l’arte come arte»41. Sintesi del secolo sono l’Ariosto e il Machiavelli. L’Orlando Furioso si innalza in una sfera di serietà per la profonda coscienza artistica che lo sorresse. Anima l’Ariosto nessun «sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell’arte, ma il puro sentimento dell’arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi»42. Accanto al Furioso si pone la Maccaronea, quale documento di «una dissoluzione universale di tutte le idee e di tutte le credenze, nella sua forma più cinica». In essa si riflette «la società italiana colta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medioevo, beffarda e vuota»43. Tuttavia in mezzo a questa negazione universale incomincia, con il Machiavelli, la ricostruzione: Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l’uomo nella sua serietà e nella sua attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli. È negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento44.

L’autore del Principe, «risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria», affermando che «la missione dell’uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria»45. Sotto il classicismo di Machiavelli, diversamente da quello di Dante, scorza di un nocciolo medievale, «c’è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso»46. Alla prosa trecentesca priva di organismo, espressione di un mondo in cui «abbonda l’affetto e l’immaginativa e scarseggia l’intelletto», e alla prosa cinquecentesca in cui l’ossatura non è che esteriore (mentre quel lusso di congiunzioni e di membri e d’incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna), si 40 41 42 43 44 45 46

Ivi, p. 392. Ivi, p. 419. Ivi, vol. II, p. 15. Ivi, p. 48. Ivi, p. 67. Ibidem. Ivi, p. 72.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

sostituisce con il Machiavelli una prosa nuova, presentimento della prosa moderna, «una prosa che è tutta e sola cervello»47. L’Italia, non potendo più produrre un mondo divino ed etico, creava un mondo logico: «Ciò che era in lei ancora intatto era l’intelletto»48. In un puro mondo dell’intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni, si muove il Machiavelli. Così nel Guicciardini

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ci si vede l’ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l’immaginazione e l’affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello49.

Espressione estrema di questo mondo guicciardiniano dell’egoismo è a sua volta Pietro Aretino, incarnazione della società italiana «in quella sua mescolanza di depravazione morale, di forza intellettuale e di sentimento artistico»50. Sulle labbra dell’Aretino moriva il riso del Boccaccio. Nell’età successiva «al cinismo successe l’ipocrisia»51. Il concilio di Trento si diede a curare il male riformando i costumi e la disciplina, ma non bastò a rinnovare la coscienza. A questa situazione spirituale è condizionata la Gerusalemme: se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo [...]. Ma il movimento era superficiale e formale, prodotto da interessi e sentimenti politici più che da sincere convinzioni. E tale si rivela nella Gerusalemme liberata52.

Nessuna immagine di una vita seria e semplice è dato trovare in questo poema. Non il sentimento religioso, e nemmeno quello della patria, o della famiglia vive, secondo il De Sanctis, nella Gerusalemme ma soltanto «un sentimento idillico ed elegiaco, che trova nella natura e nell’uomo le note più soavi e più delicate». Si tratta sempre di quel sentimento che si era sviluppato dal Boccaccio al Poliziano, «deviato e sperduto fra tanto incalzare di novelle, di commedie e di romanzi»53. Nel sopravvenire delle agitazioni e dei disordini dovuti all’invasione straniera, mancata ogni serietà di vita pubblica e privata, l’idillio, riposo di una società stanca, «divenne l’espresIvi, pp. 77-79. Ivi, p. 82. 49 Ivi, p. 107. 50 Ivi, p. 122. 51 Ivi, p. 137. 52 Ivi, p. 155. 53 Ivi, p. 161. 47 48

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sione più accentuata della decadenza italiana». Per questo si può dire che «solo esso è forma vivente fra tante forme puramente letterarie»54. Così, per tutta la letteratura di quel secolo, «fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre, fra tante liriche eroiche, morali e patriotiche, ciò che ancor vive è il naturalismo, una certa ebbrezza musicale de’ sensi». In realtà

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tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico invecchiato e volevano rinnovarlo, e non vedevano che bisognava innanzitutto rinnovare la coscienza. Aguzzarono l’intelletto, gonfiarono le frasi, e, non potendo esser nuovi, furono strani55.

Sorge in tal modo il fenomeno del secentismo. Il Marino fu il re del secolo. E Marino della prosa fu il Bartoli. La successiva reazione arcadica volle essere un tentativo di riacquistare la naturalezza, variando materie e forme estrinseche. Senonché la novità di questa poesia consiste tutta in combinazioni soggettive: nell’immaginazione e in una facile e briosa vocalità di suoni. La parola è diventata ormai fine a se stessa, e dalla parola si stacca il suono, e si aggiunge la musica dando origine al melodramma. Intanto, il movimento iniziato da Machiavelli si andava sviluppando: il mondo della «nuova scienza» cresceva. Ciò che Savonarola tentò con la fede e con l’entusiasmo, Bruno tenta con la scienza: «Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua attività intellettuale, con l’occhio della mente»56. Galileo e Campanella proseguono questo movimento intellettuale, interpretando tuttavia due culture diverse («la coltura toscana, già chiusa in sé e matura e veramente positiva, e la coltura meridionale, ancor giovane e speculativa e in tutta la impazienza e l’abbondanza della giovanezza»57) e rappresentando insieme due diverse forme stilistiche. In questa medesima età, in Venezia, lo stesso spirito, come pensiero politico, si viene affermando con il Paruta e con il Sarpi. Tuttavia questo movimento scientifico, per opera del gesuitismo, si arresta in Italia, e s’impaluda nell’erudizione, mentre continua con fertile vita nel resto d’Europa. Ma dal seno dell’erudizione, nel Settecento, rinasce un nuovo mondo intellettuale: «L’erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso storico e il senso filosofico»58. Muratori e Vico sono le espressioni di tale rinascita. Il secolo decimottavo traeva le conseguenze dalle premesse ideali del secolo precedente, e iniziava la lotta, essendone 54 55 56 57 58

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162. 211. 242. 249. 285.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

campione massimo il Giannone, contro la vecchia società:

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Lo scopo è un apostolato: propagare e illustrare la filosofia, cioè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la verità annunziata con tuono di oracolo, col calore della fede, come facevano gli apostoli. È una nuova religione. Ritorna Dio tra gli uomini. Si rifà la coscienza. Rinasce l’uomo interiore. E rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è più scienza: è letteratura59.

Mentre moriva, ultima espressione della vecchia civiltà artistica, la poesia del Metastasio, idillica elegiaca e comica, come la vita italiana che essa inconsapevolmente rifletteva, si rigenerava la critica e prendeva un valore diverso la forma letteraria. In questa rinnovata cultura «la parola non era più il principale: era l’accessorio, il semplice tema, l’occasione»60. È con il Goldoni che si affaccia per la prima volta la nuova letteratura, «annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell’arte»61. Al Goldoni tuttavia manca ancora «un mondo interiore della coscienza, operoso, espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento»62. Sarà soltanto il Parini che darà all’arte questo nuovo contenuto spirituale, che in Italia (nei due centri di Milano e di Napoli) si veniva elaborando. Con lui si riprende lo spirito di Dante e di Machiavelli: e con lui appare sull’orizzonte il primo uomo della nuova letteratura. Se nel Parini si sente un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di sé, nell’Alfieri si rende imminente la presenza dell’epoca rivoluzionaria e risorgimentale: «nel sarcasmo alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni»63. Dalla tragedia alfieriana si prolungava, degenerando, la moda del declamare contro i tiranni, di cui non mancherà di farsi seguace il Monti, «segretario dell’opinione dominante». Ma più decisamente, con I Sepolcri, prima voce lirica della nuova letteratura, il Foscolo apriva la via al secolo decimonono, reagendo alla logica rivoluzionaria per vivo senso dell’umanità e della storia, per profonda coscienza dei valori della famiglia, della libertà, della gloria. Succedeva la rivoluzione romantica con la poesia di Manzoni, che conciliava il sovrannaturale con l’umano, il paradiso cristiano con lo spirito moderno; e si chiudeva il periodo con il Leopardi in cui si affermava un nuovo scetticismo (che non colpiva più soltanto la religione o il soprannaturale, ma intaccava la stessa ragione), e appare un 59 60 61 62 63

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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nuovo senso del mistero (che «distrugge il suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale»64). In questa interpretazione del corso della letteratura italiana, il De Sanctis non si dava eccessivamente pensiero, allontanandosi in ciò dal tradizionale costume della storiografia ottocentesca, di fissare precise distinzioni in secoli, in epoche, in periodi. Piuttosto che di definire ben circoscritte caratteristiche di tempi conclusi egli si preoccupa di tracciare un’unitaria linea di svolgimento e di saldarne le più appariscenti fratture. Il De Sanctis rifugge in effetti da ogni catalogazione di epoche definite (come invece si può scorgere tipicamente nella concezione statica della storia propria del Settembrini), e tenta di rendere dinamica la storia letteraria, sottolineandone i passaggi, più che le divisioni. Egli non trascura (come sta a dimostrare anche la possibilità di quelle puntuali citazioni che abbiamo voluto introdurre nel nostro discorso) di richiamare continuamente le linee di sviluppo della vicenda letteraria, e di ribadirne l’unità e continuità del processo evolutivo. Così non manca di dichiarare esplicitamente: Al nostro scopo è più utile seguire il cammino del pensiero e della forma nel suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma senza cercare una precisione di date che ci farebbe sciupare il tempo in congetture e supposizioni di poco interesse65.

In questo proposito metodologico, mentre si offre ancora una volta un segno di quella mancanza di pedanteria così caratteristica della personalità profonda e aperta del De Sanctis, si rende evidente una sensibilità storiografica più ricca e avveduta in confronto a quella degli storici precedenti. I periodi che erano stati oggetto di così puntigliosi assestamenti da parte del Salfi, del Settembrini e degli altri, allontanavano i loro confini troppo angusti, mentre le minute e complicate distinzioni si risolvevano in un ritmo più sfumato e in un più mediato andamento. Se hassi a dir “secolo” un’età sviluppata e compiuta in sé in tutte le sue gradazioni come un individuo, il primo secolo comprende il Duegento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi nel Cinquecento66.

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Ivi, p. 421. Ivi, vol. I, p. 107. Ivi, pp. 382-383.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

E così il terzo secolo verrebbe a essere quello che si chiude con la letteratura dell’Ottocento. Il processo storico della nostra letteratura poteva in tal modo ottenere una riduzione a questi tre momenti fondamentali, Medioevo, Rinascimento, Età moderna: il Medioevo, epoca della trascendenza, di «un al di là oltre umano e oltre naturale, fuori della natura e dell’uomo»; il Rinascimento, età di pratico oblio di ogni trascendenza e di affermazione della cosa limitata e sensibile come dell’unica realtà, momento di crisi morale in cui cadeva con la fede nell’al di là, che era stata l’unico ideale, ogni altra fede; l’Età moderna, in cui tesi e antitesi venivano superate nella sintesi, epoca del divino calato nell’umano, dell’ideale calato nel reale, della nuova religione nei limiti della ragione e della moralità naturale, al di fuori di ogni sovrannaturalità e sovraumanità. Nei termini essenziali di questo processo ternario veniva dunque a configurarsi il complicato congegno degli inquadramenti e delle distinzioni che aveva affaticato la storiografia romantica, destinata tuttavia a mantenersi, per questo riguardo, a una serie di operazioni estrinseche. Si trattava tuttavia, per questa tripartizione, di un semplice indice orientativo, che non pretendeva di essere assunto con rigore, e che pertanto, mantenuto nei suoi limiti di discrezione e di equilibrio, giovava ad evitare il peso di forzate sottolineature e di troppo esatte divisioni, intimamente ripugnanti alla sensibilità critica desanctisiana. Questo ritmo ternario, nonostante gli apparenti e irreali pericoli che portava con sé, riusciva in genere a sfuggire alle conseguenze di un troppo schematico meccanismo, e a fare sì che la narrazione procedesse con quel senso delle sfumature e delle complessità che in uno spirito della tempra del De Sanctis costituiva un’esigenza insopprimibile. Più che altro, tale ritmo stava a indicare semplicemente un orientamento e una direzione interna del processo di sviluppo della nostra letteratura, che all’autore sembrava essenziale. Nel Saggio sul Petrarca, infatti, il De Sanctis dichiarava esplicitamente che la sua Storia era tutta rivolta a questa meta ideale: «la successiva riabilitazione della materia, un graduale avvicinarsi alla natura ed al reale»67. Dove si fa sentire la presenza di quel «realismo attivistico» in cui sboccava il romanticismo desanctisiano68. Comunque, una simile impostazione non creava assolutamente fratture di secoli e di periodi, ma al contrario veniva a coordinare in una linea di sviluppo continua, e pur aliena dagli astratti formulismi, il corso della nostra letteratura, che si dispiegava in tal modo in una vicenda assai più compatta e articolata di quella suggerita dall’Emiliani Giudici. F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, a cura di N. Cortese, Napoli: A. Morano, 1932, p. 263. 68 Cfr. F. Montanari, Francesco De Sanctis, Brescia: Morcelliana, 1939, p. 101. 67

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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Non si può tuttavia negare che questa linea di sviluppo, tracciata con prudente vigilanza critica, eserciti talora un’inconsapevole violenza, penetrando nell’intimità del capolavoro con la pretesa involontaria di ridurlo e subordinarlo al suo andamento diagrammatico. È esemplarmente significativo il caso, già notato dal Croce69, delle pagine dedicate all’Ariosto, il cui capolavoro viene definito, in ossequio alla fondamentale interpretazione estesa a tutto il secolo, come vuoto di contenuto e privo di ogni altro fine che non sia quello dell’arte, mentre pure il grande critico, nelle lezioni di Zurigo, aveva saputo scorgere acutamente la ricca umanità del poema e del suo autore. Tuttavia, sebbene questo negativo residuo del concettualismo estetico intervenga qua e là a forzare l’aspetto più reale della storia letteraria, il tessuto storico fondamentale conserva nel suo insieme una piena validità. Tanto più quando non si dimentichi che molti passaggi, come è stato giustamente osservato, s’intendono solo se riportati sul piano stilistico della veloce composizione (e della tipica sintassi parattatica che gli corrisponde), come pure su quello del gusto romantico, incline alle antitetiche drammatizzazioni e alle figurazioni simboliche. Acutamente è stato infatti osservato come lo stile e il pensiero del De Sanctis si svolgano attraverso immagini esuberanti, che potrebbero perfino assumere la parvenza di allegorie, e che pertanto richiedono sempre un’accorta delicatezza di interpretazione. Così, per esemplificare, la vagheggiata parola «Italia» viene ad essere in certo modo voce riassuntiva di tutte le tradizioni e conoscenze e passioni, compendiaria sintesi di tutto un mondo affettivo e culturale; mentre a non altro che ad una smagliante metafora oratoria si riduce l’affermazione che considera il Decameron come l’Anticommedia, una metafora da intendersi nella sua allusiva risonanza, piena di contenuti simbolici e di valori traslati70. Bisogna tenere conto anche di questo se si vuole valutare rettamente, nella sua reale portata, la funzione costrittiva esercitata sulla esegesi dei singoli autori dalla linea di sviluppo perseguita dal critico. Quanto poi alla questione della validità dello specifico contenuto di cui si sostanzia tale processo di svolgimento, si deve riconoscere che essa apre un diverso ordine di considerazioni. Queste prospettive fondamentali, ispirate del resto parzialmente da altri storici, come (oltre gli italiani che già sono stati ricordati) il Sismondi e il Quinet (il quale, ad esempio, suggerisce le pagine sul Boccaccio e sul Tasso, posti fra due epoche, interpreti ciascuno di una crisi della coscienza italiana71), B. Croce, De Sanctis e l’hegelismo, nel Saggio sullo Hegel, Bari: Laterza, 19273, p. 390. Cfr. F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano: Mondadori, 1941, vol. III, p. 424. 71 Cfr. F. Neri, Il De Sanctis e la critica francese, nel volume dello stesso autore Storia e Poesia, Torino: G. Gambino, 1936, p. 185. 69

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malgrado la loro animazione critica, in cui si riscontra un notevole progresso sulle astratte delineazioni della precedente storiografia e un influsso fecondo sulla successiva, sono naturalmente suscettibili di revisione e di sostituzione (e il miglior modo di continuare il De Sanctis è stato, ed è ancora, quello di riprendere, approfondire e magari sostituire il contenuto del suo periodizzamento e dell’interpretazione delle singole personalità della nostra storia letteraria). Ma appunto, l’effettiva portata di questa interna struttura deve essere verificata nei limiti della sua validità metodologica, quella della concezione storiografica di cui essa è il prodotto. Ora, il significato di tale concezione consiste proprio nella novità con cui è stato possibile conciliare fondamentalmente l’esigenza dello sviluppo storico e il rispetto dell’autonomia dell’arte. La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, per questa approfondita metodologia, può presentarsi in effetti come storia di capolavori, cioè di realtà assolute e irrepetibili, e insieme come storia di uno svolgimento. La linea evolutiva su cui è costruito questo libro non incide, se non episodicamente, sulla libera valutazione della grande poesia. D’altra parte la storia dei capolavori, che costituisce la direzione fondamentale dell’opera, non ostacola l’affermarsi di un’idea di progresso. Infatti, come si è notato, se l’arte in quanto arte non ha giustificazioni di sorta e non tollera assolutamente di essere spiegata, nella sua verginale originalità, con quel mondo della cultura e dell’attività morale che opera nel poeta, essa tuttavia rimanda sempre, come a momento precedente indispensabile e necessario anche se non sufficiente, a cotesto mondo interiore, il quale si ricollega a sua volta a tutta la civiltà contemporanea, in un perpetuo vincolo appassionatamente avvertito dall’umanissima sensibilità del De Sanctis. Egli perciò, mentre, in reazione all’intellettualismo estetico, distingue e afferma nella sua autonomia l’arte, riporta poi l’origine di essa nell’unitaria vita spirituale, di cui è documento e prodotto la cultura: quella cultura che è a sua volta soggetta a uno sviluppo storicamente registrabile. La possibilità di uno svolgimento, in tal modo, non veniva esclusa dalla storia della poesia com’era originalmente concepita dal critico: al contrario essa era accettata con un’ampiezza di misure e nello stesso tempo con un senso del limite assolutamente nuovi. È facile allora comprendere il carattere di questa storia che, nella sua complessa fisionomia, si presenta come storia della cultura, della cultura letteraria, del fatto espressivo in cui si sensibilizza e si palesa la vita di un’intera civiltà. Storia di un contenuto che diventa forma è, in sostanza, questo libro desanctisiano, storia dunque di tutta la vita spirituale nel suo tradursi in documento letterario, da quella assoluta forma di traduzione che è la poesia a quelle diverse e minori forme che della poesia in qualche modo partecipano, poesia e forme che nel loro insieme costituiscono

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una civiltà letteraria. Questo senso, più che esatto concetto, della letteratura riesce estremamente illuminante per comprendere la Storia del De Sanctis nella sua molteplice varietà di aspetti e di atteggiamenti, nella sua intuizione fondamentale e nel suo ancora valido suggerimento. In questa particolare concezione storiografica, in cui confluivano, corrette e sostenute da uno spirito critico e da un’esperienza di poesia assai risentiti, malgrado le inevitabili parziali incertezze, tutte le precedenti ricerche storiografiche, possono trovare un luogo di convergenza gli elementi del più vivo interesse. Il complesso dramma storico nel suo molteplice atteggiarsi (politica, religione, filosofia, scienza, arte) viene rappresentato attraverso l’indagine, con felicissima coerenza, in un organismo perfetto dove non è concesso un autonomo affermarsi e intrecciarsi di vicende, ma dove ogni elemento trova una possibilità d’esame solo sotto l’aspetto e nei riflessi del fenomeno letterario, che incontrastato domina e appassiona la mente del critico. La notizia storico-politica, insistentemente attiva all’interno della critica romantico-risorgimentale, trova nella Storia desanctisiana la piena possibilità di un’assunzione equilibrata ed efficace. Si risolve finalmente con il De Sanctis quel problema relativo al rapporto fra politica e poesia che aveva costituito uno dei punti più intricati dell’esperienza storiografica ottocentesca per le molteplici e inaccettabili soluzioni cui dava origine: le quali andavano da un’estrinseca giustapposizione dei due termini a un deterministico legame di causalità fra di essi, fino all’assorbimento e annullamento della storia letteraria nella storia politica. E si risolve analogamente l’affine problema, del quale il primo costituiva solo un particolare aspetto, dell’influsso fra poesia e società, o, come si diceva, della letteratura espressione della società. Il De Sanctis supera la condizione storiografica che scaturiva dal rapporto estrinsecamente istituito fra queste due realtà, trovando una via d’uscita assai più felice di quella escogitata dal Brunetière, anch’egli diffidente di una metodologia che finiva con il compromettere decisamente l’esistenza della letteratura, opponendola o subordinandola o addirittura annullandola nell’avvenimento sociale. Mentre infatti il critico francese, nel tentativo di riconsacrare nella sua piena autonomia il valore del fenomeno letterario, ricorrendo alla teoria dell’evoluzione dei generi letterari, fatti oggetto precipuo dell’esame storico72, finiva con il cadere in una serie di operazioni critiche astratte, che precludevano ogni reale affiatamento con la poesia, il De Sanctis, invece, 72 F. Brunetière, Manuel de l’histoire de la littérature française, Paris: Delagrave, 1897, pp. iii-iv.

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affermando l’autonomia dell’arte in quanto arte e la sua dipendenza dalla vita tutta per il contenuto di cui è sostanziata, si apriva la possibilità di tracciare una concretissima storia della cultura letteraria nella quale era tuffata e pur dominava la storia della poesia, una storia nella quale confluiva la vita multiforme di una civiltà e di una nazione. In questa totale invocazione di tutta la realtà umana nella storia letteraria di un popolo, poteva rientrare quello stesso principio sociale inizialmente escluso per la sua eccessiva pretesa di tirannico canone d’interpretazione. In tal modo, teoricamente, anche la vicenda politica e il sentimento nazionale intervenivano nel resoconto storico, senza pericolo di provocare deformazioni e squilibri. In concreto si deve poi osservare come la presenza di questo motivo politico riesca quasi sempre, salvo rare eccezioni, a mantenersi su di un piano di grande misura, proprio per l’armonia con cui si componevano e per l’intimità con cui si sviluppavano, nell’anima del De Sanctis, il sentimento artistico e la passione nazionale. E in ciò consiste anche una delle ragioni di quel fascino che si leva da queste pagine e costituisce come il commento patetico e la risonanza artistica di questo libro scientificamente così rigoroso. Così, in un’intatta coerenza di gusto, si potrà anche verificare qualche eccezionale espansione oratoria, simile a quella contenuta nelle famose righe del capitolo sul Machiavelli («In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa...»), dove è l’impronta degli anni densi di storia in cui il De Sanctis scriveva, l’espressione emblematica di una tradizione che riuniva in una sola sintesi vita e letteratura, la voce infine di un religioso temperamento di maestro. L’aspirazione a una nuova storiografia, presente nella polemica, ispirata al duplice motivo anticlaustrale e antiarcadico, dal Foscolo condotta contro la storiografia letteraria settecentesca, trova nell’opera del De Sanctis il suo frutto più maturo e più fecondo. Il fatto poi che questo armonioso connubio di scrittore e di cittadino possa talora scomporsi, sì da lasciare prevalere il cittadino che si innalza a travisare e soffocare la storia delle lettere e viene a sostituirsi al critico per scrivere la storia civile, è cosa più che naturale, su cui sarebbe inutile pedanteria insistere, in quanto rappresenta l’inevitabile difetto di ogni attività umana, sempre, anche negli spiriti più grandi, necessariamente incompleta e limitata. Piuttosto importa avvertire che, nella narrazione del De Sanctis, l’elemento politico non acquista in genere una sua illegittima autonomia, e che la zona d’attenzione sociale e civile non manca quasi mai di subordinarsi criticamente all’interesse letterario. La storia politica contenuta nella storia della letteratura si presenta come una storia indiretta, una storia costantemente risolta in storia letteraria, e separabile solo in un’astratta operazione di analisi. Così, il soggetto ideale della narrazione rimane sempre la letteratura, in cui si assomma tutta la realtà umana, e pertanto anche la

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politica, la quale, se, per il De Sanctis, della realtà era gran parte, non per questo pretendeva, nella lucida consapevolezza del critico, di accamparsi, con prevalenza o autonomia di rilievo, a turbare il fondamentale equilibrio della Storia. La stessa posizione funzionale, perfettamente coordinata alle linee della dominante prospettiva letteraria, assume la considerazione delle varie componenti della cultura intesa nel suo più largo significato. La storia delle arti (musicale e figurativa) e la storia delle scienze (filosofiche, giuridiche, naturali) partecipano dell’interesse storiografico dell’autore. Senonché la loro presenza nel libro desanctisiano non si pone mai quale notizia staccata, quale dato rapsodicamente aggiunto, come poteva avvenire nell’opera del Tiraboschi, né si riduce a un episodico termine di riferimento, sfoggiato con ambiziosa erudizione o utilizzato con ingenua metodologia, come ancora si verificava nelle storie del Cantù o del Settembrini. L’autore, con un senso di discriminazione critica assai acuto, evita di accostare le due storie in una meccanica alternanza di attenzione o in una confusionaria contaminazione, e, con una sempre vigile sensibilità, impedisce alla notizia di rimanere avulsa dalla linea essenziale del discorso, assorbendola, come nutritiva sostanza, nel processo della ricostruzione storiografica. Perciò la questione del rapporto fra letteratura e cultura che era rimasta fondamentalmente ignota (se si eccettua il caso isolato del Denina) agli storiografi del Settecento, i quali non distinguevano fra i due termini, dopo di essere stata risolta con una esclusione, polemicamente necessaria, del secondo elemento dall’Emiliani Giudici (elemento riammesso poi, in una provvisoria e instabile lega, dal Settembrini e dal Cantù), veniva ad avere con il De Sanctis il primo autentico sistematore. Con l’intensa penetrazione del suo spirito critico il De Sanctis riusciva a scorgere e a valutare, nella loro reale portata, i segreti legami che stringono le lettere alle altre forme spirituali, e con il suo acuto senso storico, mentre coglieva i punti di incidenza dei due diversi piani evitava poi di scambiarli e di sostituire alla storia letteraria una generica storia della cultura. La Storia del De Sanctis, invero, non perde mai la sua ben definita fisionomia di storia di una civiltà letteraria. Il fenomeno letterario domina sempre la prospettiva del quadro storico che l’autore sapientemente compone. Astraendo un po’, si potrebbe dire che tale fenomeno costituisce quasi una specie di ideale luogo d’incontro tra l’autentica poesia e la restante vita culturale nel suo molteplice manifestarsi. E in questa condizione si rivela il carattere inconfondibile di questo libro, in cui il piano fondamentale è costituito dallo svolgimento del fenomeno letterario, nel quale confluisce la spiritualità di un popolo, e da cui emerge, espressiome massima, la grande poesia. Né d’altro lato, la poesia si isola in un suo intangibile universo,

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estraneo alla vicenda letteraria, o al contrario in essa si chiude per restarne prigioniera. Questo vasto e variato mondo di civiltà, in effetti entra, individualizzandosi in forme e situazioni originali, nel «mondo» dei singoli autori per riaffiorare ancora come proposta e problema lasciato aperto ai successivi autori, determinando una trama progressiva di tradizione e di creazione, una trama non già costruita (come è stato osservato) per un’arbitraria addizione del critico, preoccupato di stabilire una continuità seriale e una dialettica evolutiva fra i vari «mondi» poetici, quasi che ogni universo poetico dovesse risultare alla fine integrato dal successivo, ma riscoperta invece attraverso una strenua e concreta meditazione in cui si manifesta la profonda misura dell’intelligenza del De Sanctis, anche se poi si debba concedere facilmente che intervenga in tale meditazione la risentita esperienza del critico militante, che lo spinge a interpretare la storia letteraria secondo il gusto etico-estetico (il manzoniano ideale calato nel reale) formatosi sulla poesia del tempo (ma quale è il critico che non giudichi con il proprio gusto, cioè con il gusto o una delle sfumature del gusto del proprio tempo?) e lo induce a vedere nella poesia ultima il beato punto di arrivo dell’intera storia letteraria (e questo, quando non sia una semplice ipotesi di lavoro, è il suo vero ma per altro episodico limite). L’impostazione della Storia come resoconto dello svolgimento di una civiltà letteraria (e il conseguente rilievo assunto dalla forma o dal contenuto-forma come reale soggetto del libro) permette di spiegare altri modi e atteggiamenti caratteristici di questa opera singolare. Una delle osservazioni che più spontaneamente si affacciano nel passare dalle precedenti storie letterarie a quella del De Sanctis, riguarda il particolare contegno dell’autore nei confronti della biografia dei letterati. Le «vite» non hanno quasi posto nella narrazione desanctisiana. Il critico in effetti non traccia mai un sistematico profilo biografico (né si concepisce come potrebbe avere luogo nel suo veloce discorso), ma si accontenta di rapidi indiretti richiami, di qualche breve cenno cronologico, talvolta di una colorita immagine ottenuta mediante un efficace aneddoto (che tuttavia, eccezionalmente, può moltiplicarsi in tutta una serie aneddotica, come nelle pagine sull’Aretino dove il De Sanctis sembra abbandonare la sua abituale tecnica e tendere a una vivace pittura di carattere, al ritratto dello scrittore, secondo il gusto del Sainte-Beuve). Comunque, l’elemento biografico è sempre rigorosamente subordinato alla considerazione dell’opera dell’autore, alla quale soltanto è dato un effettivo risalto. La Storia del De Sanctis non può considerarsi come una storia di personalità, di individualità (fatte poche eccezioni, dovute al prevalere in senso psicologico del suo moralismo), proprio anche per questa risoluta attenzione

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concentrata sul documento letterario. E a questo proposito non è del tutto senza significato che, dei venti capitoli in cui è divisa la Storia, quattro soli siano intitolati con il nome di autori (Machiavelli, Aretino e Marino, che si pongono quali simboli di un costume etico-letterario; e Tasso, del cui capolavoro il De Sanctis ebbe appunto a sottolineare l’autobiografismo), mentre gli altri sono in genere designati dalle opere prese in esame. Questa netta posizione mantenuta nei confronti del problema biografico, già tanto discusso dalla critica precedente, doveva costituire uno dei non ultimi motivi (per non dire addirittura il principale) dell’opposizione riservata alla Storia desanctisiana da buona parte della critica positivistica, insistente in maniera quasi esclusiva, nella sua avida e sovente pettegola curiosità di notizie, sull’ampio materiale offerto dalla vicenda biografica. Questa polemica nasceva certamente da un gusto critico deteriore e da un oscurarsi della coscienza storiografica dei nostri studiosi dell’ultimo Ottocento: e tuttavia la questione biografica, così come l’aveva impostata il De Sanctis, se negativamente, in quanto reazione ai modi esteriori in cui l’avevano concepita il Cantù e il Settembrini, poteva riuscire valida e feconda, in linea assoluta non risultava del tutto soddisfacente e finiva con il restare ancora aperta. Sicché tale questione doveva trasmettersi, come debito non ancora saldato (nel senso di una risposta all’istanza di una maggiore attenzione concessa alla vicenda biografica, per lo più tutt’altro che priva di interferenze con l’opera d’arte), all’attuale cultura, troppo spesso superficiale e impaziente nei riguardi di essa. Se il problema biografico, nella soluzione proposta dal De Sanctis, era destinato a suscitare la diffidenza degli studiosi del metodo storico verso questo imponente capolavoro della nostra critica73, anche un altro atteggiamento, derivato sempre dalla fondamentale concezione del libro, doveva determinare un’uguale ragione di ostilità. Si trattava precisamente del posto occupato, nell’economia del testo, dai cosiddetti autori minori. Impresa assai delicata, questa, che il De Sanctis affronta con un sentimento delle proporzioni e con un criterio di misura che possono talora riuscire discutibili, prestandosi a un legittimo contraddittorio. Lo storico, mentre alcune volte indugia nell’esame di qualche particolare autore di secondaria importanza (come il Lasca o il Guarini), fermandosi a caratterizzarne la personale espressione, più spesso si preoccupa di cogliere tutto un movimento letterario, di 73 Oggi si tende a svalutare la Storia rispetto ai Saggi, ma pur tenendo conto dei limiti provenienti alla Storia dalla preoccupazione «costruttiva» che ad essa presiede, e del nostro gusto per le forme più sciolte ed episodiche, e della stessa densità critica non sufficientemente illuminata dei Saggi, non si deve mancare di riconoscere il significato sia della vastità dell’area di esperienza e sia dell’intenso grado di travaglio della Storia, che ad essa conferiscono un suggello proprio, di memorabilità assolutamente eccezionale.

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fissare il significato di una corrente, di illuminare il problema di una cultura, attraverso un esame complessivo e sintetico, in cui l’individualità degli autori (richiamati sovente con la sola citazione del nome, e talora persino sottintesi o taciuti come avviene per Leonardo) sembra accumularsi (e in qualche caso non è escluso che addirittura dilegui) nel quadro generale. Era anche questo, dell’equilibrata menzione degli scrittori, un problema avvertito dalla critica romantica, e il Tommaseo, reagendo alla scrupolosa pedanteria degli storiografi settecenteschi preoccupati di non lasciare cadere neppure il minimo dato e la più piccola briciola erudita, neppure il ricordo di «quelli di cui più non resta che il nome», aveva denunziato l’esigenza di una storia letteraria più attenta a quel senso prospettico organico e necessario, storicamente e criticamente indispensabile a un’ordinata e chiara visione della civiltà letteraria di una nazione. Il De Sanctis fondamentalmente non manca di vigilare sul comportarsi del rapporto costruttivo, e riesce a creare una storia in cui i diversi capolavori poetici mantengono un’assoluta emergenza, mentre la rimanente produzione letteraria viene considerata con uno sguardo riassuntivo, nella sua intonazione essenziale, con accenni e riferimenti talora velocissimi ai singoli autori. L’esito di tale metodologia era naturalmente suscettibile di una diversa valutazione. Infatti, se i risultati ottenuti potevano anche sembrare accettabili per un secolo di non complessa civiltà letteraria come il Trecento, essi erano destinati a riuscire insufficienti per un’epoca della densità del Cinquecento, in cui finivano con il restare inesplorate vaste zone e con l’essere lasciate nell’ombra o nella penombra alcune delle più risentite personalità. Ma bisogna riconoscere (anche dovendo lamentare tali carenze) che il De Sanctis proponeva con il suo lavoro quello che doveva essere l’ideale contegno della storiografia letteraria, evidentemente costretta, nella necessità di evitare di ridursi a un archivistico deposito di notizie e documenti, a distribuire con diverso rilievo gli autori, e a coordinare le varie opere, pur serbando loro una precisa e individua fisionomia (talvolta ingiustamente forse trascurata dal De Sanctis), nelle principali o secondarie correnti letterarie e nei movimenti di pensiero e di poetiche che, nell’inevitabile gerarchia della storia, si raccolgono (conducendovi o allontanandosene) intorno ai maggiori poeti. Il gusto catalogico degli antichi informatissimi bibliotecari del Settecento e dei nuovi dell’Ottocento poteva venire offeso dalla pratica attuazione di questa metodologia, ma i fecondi risultati di essa erano resi possibili solo attraverso il superamento di quella mentalità storiografica, troppo fedele alle costruzioni estrinsecamente ordinate e precise, ai sistemi di notizie inesauribili e capaci della funzione di enciclopedie e dizionari, quella mentalità per l’appunto, antitetica nel modo più assoluto al temperamento critico del De Sanctis. Anche questa maniera nuova di

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considerare gli autori, distribuendone variamente la menzione nel quadro della storia, una maniera tuttavia non capricciosa ma guidata da un’interna norma strutturale, confermava il carattere dell’ispirazione storiografica del De Sanctis, aliena dai ben congegnati edifici eruditi e insieme dalle generiche illustrazioni filosofiche del Settecento, gli uni e le altre soltanto ora definitivamente superati senza residui. Quella sintesi di filologia e di filosofia che era stata al vertice dell’ideale critico ottocentesco doveva venire realizzata proprio dal De Sanctis, attraverso una somma di esperienze e un’energia nativa davvero eccezionali. Il grande critico non prescindeva certo dall’informazione, ma la superava nell’interpretazione: non annullava i dati (i «fatti», come saranno chiamati, con idoleggiante gusto, dagli studiosi positivisti), ma li assorbiva nella sua storia, la quale voleva essere soprattutto storia di idee, storia di fenomeni letterari in quanto realtà dello spirito. Quel che veniva distrutto non era perciò il «fatto», la sicura informazione, come pretendeva la critica del metodo storico, ma erano semplicemente gli schemi, le impalcature, le ostentate schedature, la costruzione esteriore insomma. Non si può pertanto dire che il famoso connubio tra Muratori e Vico auspicato da tutta la critica romantica, dovesse fallire in De Sanctis74, almeno se si bada alla sostanza. Il momento filologico, anche se celato, denunzia la sua presenza nei risultati critici della Storia, poiché a ben poca cosa si riducono i famosi «errori» lamentati dagli oppositori (è del Carducci l’affermazione che il De Sanctis fosse «un po’ in difetto [...] di quella sicurezza procedente da un’esercitata e matura cognizione dei fatti e dei documenti storici tecnici e artistici, onde bisogna dominare la serie delle idee e lo svolgimento delle forme, chi voglia discorrere d’una letteratura non per trastullo accademico»75). L’elenco che di tali errori ha voluto compilare il Croce76, dimostra in modo assai chiaro l’inanità e la pedanteria di una critica fondata su questo motivo. La Storia desanctisiana non potrebbe mai essere paragonata alle storie filosofiche settecentesche (il richiamo è suggerito con spontaneità dalla quasi simbolica opposizione di quest’opera alla Storia del Tiraboschi, vagheggiata come punto di riferimento essenziale dagli uomini del metodo storico) proprio per questa solida perpetua nutrizione filologica che alle sue basi, nel sottosuolo, sostiene e controlla lo sviluppo del pensiero. Naturalmente poi, quando l’ideale di una sintesi dei due metodi, filologico e filosofico, si fosse concepito, come in fondo dimostrava di concepirlo la 74 75

110. 76

Cfr. G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia cit., p. 339. G. Carducci, Le tre canzoni patriottiche di G. Leopardi, in Opere, ed. naz., vol. XX, p. Si veda la Nota in F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana cit., vol. II, pp. 439-443.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

critica romantica, nel senso di una storia ugualmente densa di erudizione e ricca di filosofia, si deve senz’altro riconoscere che il De Sanctis non riusciva a realizzare quel sogno. Senonché occorre non dimenticare che si trattava appunto di un sogno incapace di tradursi in realtà. E invero tale vagheggiata sintesi non poteva essere veramente sintesi se non nel modo intimo in cui il critico la concepiva, superando cioè e assorbendo il dato erudito nell’interpretazione storica, poiché la presenza integrale e della ricerca filologica e dell’indagine storica a null’altro poteva condurre (nell’estrinseca forma di un’evidente e tangibile compresenza) che a un ibrido prodotto, e anzi a un mostruoso ircocervo. Il De Sanctis, se fonda la sua ricerca su un accurato lavoro filologico, non stabilisce però come meta del suo indagare un accertamento filologico. Egli non si preoccupa di scoprire notizie inedite o di sottoporre a elaborazione dati già conosciuti, bensì di illuminare nel suo complesso valore tutta una civiltà letteraria. La sua inchiesta si svolge sui documenti espressivi, analizzati fin nelle più riposte pieghe con una straordinaria sensibilità umana ed estetica. La sostanza morale di cui si imbevono la letteratura e la poesia è scrutata attraverso un esame sempre finissimo. Questo libro in realtà denunzia nel suo autore, come è stato notato, uno dei nostri più sottili psicologi moralisti, sia per la delicatezza dell’osservazione dei moti dell’anima, sia per la vitalità delle sue idee etiche e sociali. Con questo non si vuole negare che anche l’intuito etico-psicologico del De Sanctis possa avere un suo interno limite. E in effetti il sentimento della vita morale in lui rimane talora chiuso in uno schema preconcetto, e s’arresta davanti ad alcune manifestazioni spirituali. Non solo: ma con più pericoloso procedere, la verifica di una deficienza etica, o di quella che a lui sembra tale, finisce con il tradursi a volte, arbitrariamente, in un negativo riscontro estetico77. Si pensi a un tratto come questo (dove interferiscono, del resto, motivi e atteggiamenti diversi della storiografia desanctisiana): Metastasio aveva tutte le qualità per produrre quella vita. Brav’uomo, buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtù, ma in quel modo tradizionale e abituale, che era possibile allora, senza fede, senza energia, senza elevatezza d’animo e perciò senza musica e senza poesia. Così erano Vico e Muratori, bonissima gente, ma senza quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del filosofo e del poeta78.

Cfr. G. Citanna, “Il problema della storia letteraria e l’opera del De Sanctis”, in «Pegaso», I (1929), p. 417. 78 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana cit., vol. II, p. 333. 77

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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Ma si tratta in fondo di passaggi episodici, da interpretarsi con cautela, tenendo presente forse anche qui la particolare natura traslata assunta spesso dal linguaggio del critico. Comunque, non si può certo dire che la presenza di tale moralismo eserciti, come qualcuno pretenderebbe, un’azione corrosiva sulla sostanza artistica degli scrittori, sì che la Storia della letteratura italiana debba costantemente risolversi in una mera storia morale del popolo italiano. Il moralismo del De Sanctis, nonostante i limiti denunziati, lungi dal distruggere la realtà critica della storia letteraria, la vivifica e la corrobora con un’esuberante sensibilità psicologica, temperata sempre da una rara e signorile discrezione. La stessa eccezionale sensibilità il De Sanctis rivela (se si può provvisoriamente scomporre quel che nasce in una piena unità) nell’attenzione alla forma letteraria, investigata nei suoi minimi ed estremi valori. La Storia, proprio per quel carattere su cui abbiamo insistito di narrazione di spirituali eventi di letteratura e di poesia, abbonda relativamente di analisi, in qualche punto abbastanza minute, condotte fino alla squisita valutazione del singolo verso, della particolare espressione, della semplice parola, analisi che prendono il posto di quei sunti di opere largamente sfruttati dalla superficiale (se pur allora necessaria) metodologia del Ginguené e degli altri storiografi venuti dopo di lui79. Né sembra del tutto vera la limitazione segnata dal De Robertis in un articolo apparso sulla «Voce» del 1914, e ripresa dal Valgimigli («le pagine del Carducci, per esempio, sulla lingua e sulla tecnica del Giorno, il De Sanctis né le scrisse, né avrebbe potuto scriverle»80), circa lo scarso interesse nei confronti del linguaggio. La Storia della letteratura, se si bada all’economia della trattazione rivolta ad un’amplissima materia, concede una notevole parte anche a questo aspetto del fenomeno letterario. Il racconto della vicenda del contenuto-forma della nostra civiltà letteraria non trascura i minimi avvenimenti dell’espressione, insinuandosi anche nei più nascosti dettagli del linguaggio, sovente illuminativi e degni, per il loro peso critico, di uno specifico ricordo: in una certa equivalenza di posizione con quei dettagli della vita politica e sociale capaci talora di gettare una luce assai viva sui fatti della storia civile. A questo lavoro di illustrazione delle opere già conosciute, il De Sanctis accompagnava la riesumazione di nuovi mondi espressivi, la scoperta di originali contenuti realizzati in originali forme. Venivano in tal modo posti in evidenza, ben più vitali e fecondi di documenti particolari e di esatte notizie, autori poco noti o misconosciuti, come, tra gli altri, il Folengo e il Campanella, interpretati con simpatia nuova e rinnovata 79 80

Qualche esempio peraltro rimane ancora: cfr. Ivi, vol. I, p. 103. M. Valgimigli, Francesco De Sanctis cit., p. 347

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intelligenza critica, o, ancora, aspetti rimasti prima nell’ombra, insospettati e incompresi, di opere e di autori che pur erano tra i più letti e i più familiari, ed è questo il caso di troppi nostri poeti e scrittori perché convenga ora citarli. Cadeva così, anche per questo lato, l’assurda obiezione del De Lollis, e cioè che «al metodo critico del De Sanctis manca ogni presa quando esso non si eserciti sul capolavoro»81, obiezione che sembrava ridurre la critica del De Sanctis a un lavoro di analisi esercitata su opere ormai consacrate e classicizzate, escludendola da un’autentica capacità di valutazione del loro essenziale significato artistico. I limiti di questa Storia sono semplicemente quelli che abbiamo indicato (parziali e inevitabili costrizioni o deviazioni della sua metodologia): e a questi si dovrebbe forse solo aggiungere il residuo negativo di quella sua strana dottrina della triade (lirica, epica, dramma) con cui aveva creduto di potere dialettizzare i generi letterari. E anche questa teoria (insieme al persistere di qualche preconcetto romantico, come quello del primitivo e dell’ingenuo) portava talora ad alcune strane deformazioni di giudizio82. Ma a parte questo, malgrado i precorrimenti che alcuni si sono industriati a cercare nella precedente critica romantica, riesce cosa del tutto nuova e originale. Un accento personalissimo, scaturito da una rivissuta intuizione storiografica ed estetica, intona in maniera inconfondibile i giudizi talora identici, per la coincidenza dell’astratto contenuto, a quelli tradizionali. Con la novità della sua critica il De Sanctis poteva offrire la limpida e complessa vicenda della letteratura italiana, studiata con piena libertà da quei preconcetti retorici ed erudito-manualistici (gli elementi bibliografici accumulati nello studio di un autore), moralistici e politici che avevano fino allora pesato sulla considerazione della nostra poesia. In questo capolavoro la cultura storiografica italiana, nel territorio che ci riguarda, ritrovava veramente se stessa e raggiungeva un punto risolutivo. E questo si deve riconoscere non per superficiale conformismo verso chi continuò il De Sanctis, e parve attraverso la riscoperta della sua opera autorizzare la creazione del mito De Sanctis come modello immobile di una trascendente perfezione, ma al contrario proprio per una critica consapevolezza, fatta avveduta dall’esame del lungo travaglio che, nel corso di assidue ricerche e smarrimenti e riprese, condusse la cultura ad arricchirsi di questa autentica storia letteraria, una storia in cui la letteratura era finalmente studiata nel suo autonomo valore e insieme nel suo necessario legame Cit. da B. Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti, nel volume cit. Una famiglia di patrioti, p. 198. 82 Cfr. E. Cione, Francesco De Sanctis, Messina: Principato, 1938, pp. 231-232, 226. 81

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LA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA DI FRANCESCO DE SANCTIS

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con tutta la vita dello spirito che si rifletteva e assorbiva in essa, analizzata con una intelligenza e un sentimento dell’arte altissimi, e oltre tutto narrata in una prosa profondamente suggestiva, nella quale si consustanziano in una mirabile armonia i toni lucidi, di un’estrema chiarezza, dell’intelligenza indagatrice e quelli sinuosi e caldi, di una ferma bellezza, della commossa rappresentazione.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA DOPO DE SANCTIS La situazione della Storia della letteratura di Francesco De Sanctis nel movimento della cultura italiana appare singolarissima. Mentre infatti i vari tentativi storiografici dell’Ottocento avevano avuto una loro ripercussione nel vivace e fecondo dibattito subito destatosi intorno ad essi, questo capolavoro che per la sua intensa originalità sembrerebbe aver dovuto provocare il più appassionante dialogo, passò quasi inosservato, e tutt’al più venne fatto segno a convinte ma generiche lodi o a gladiatorie opposizioni, sterili le une e le altre, incapaci come erano di trasformarsi in costruttive proposte e di suscitare precisi orientamenti. Intorno all’opera del De Sanctis, negli anni che seguirono alla pubblicazione, si deve registrare l’assenza clamorosa del pensiero critico italiano. E questa indifferenza, che non basta a riscattare il superficiale atteggiamento elogiativo o denigratorio di episodiche voci, assume il valore di un vero e proprio atto d’accusa, di un indice sintomatico della povertà speculativa dell’età postdesanctisiana. Solo a distanza di vari decenni, per opera del Croce, doveva risuonare intensa l’eco di questo capolavoro e propagarsi in un ideale dialogo, destinato a rinnovare tutta la nostra storiografia letteraria. L’elementare diagramma della fortuna del De Sanctis può quindi essere scelto come specchio dell’andamento della nostra cultura storiografica, la quale con il De Sanctis chiude la sua fase di originale ricerca, una ricerca che non sarà riaperta se non dal Croce con esigenze ed esperienze nuove. Dalla data di pubblicazione della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870-1871) a quella dell’Estetica di Benedetto Croce (1902) corre un periodo segnato da una produzione relativamente folta di storie letterarie (tutte, fatta qualche rara eccezione, di scarso valore scientifico), e insieme caratterizzato da un assoluto disinteresse (che si manifesta sia nella teoria sia nelle pratiche attuazioni) del problema della storia della letteratura

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

vista nelle sue grandi linee strutturali e nei corollari che più ampiamente ne investono l’essenza e la funzione. L’età successiva al De Sanctis rappresenta senza dubbio un tempo di impoverimento del pensiero storiografico, un periodo in cui viene posto in oblio quel tema fondamentale del configurarsi critico della vicenda letteraria che aveva appassionato l’epoca romantica, improntandone in modo così tipico la storia delle idee critiche. E tuttavia anche questa nuova cultura, si giustifica storicamente per un suo intimo atteggiamento e un suo legittimo problema. In fondo, anche questa età non mancò di avere una sua filosofia, che nascostamente operava, orientando la ricerca storica in precise direzioni, e nutrendola di chiare idealità. Uomini come il Carducci e il Bartoli, per citare solo questi due nomi che più direttamente interessano la nostra indagine, soltanto in apparenza sembrano prescindere da ogni filosofia o ricondursi ai generici principi di un superficiale positivismo. In realtà, com’è stato osservato1, essi attingevano a più lontane sorgenti, e precisamente alla filosofia romantica, la quale affiorava, senza che ne fossero consapevoli quegli stessi che ne erano più imbevuti, a suggerire e orientare le loro ricerche. I vagheggiati miti della popolarità, delle origini, della nazione, e quello stesso della storia letteraria concepita quale unitaria composizione (almeno per i due citati maestri) erano motivi che affondavano le loro radici, oltre il magro terriccio del positivismo, nella fertile humus del romanticismo. D’altra parte, anche la ricerca rivolta verso particolari zone e punti singoli della storia letteraria, e lo stesso proposito, che fu da molti condiviso, di rimandare la stesura di una storia letteraria a quel tempo futuro in cui fosse ormai esaurita l’indagine preliminare su parziali elementi, se rappresentò una mentalità sostanzialmente errata, non mancò tuttavia di contribuire in qualche modo al problema storiografico che ci interessa, ponendo come meta ideale e forza orientatrice (purtroppo generalmente smarrite) di un poderoso e collettivo insieme di sforzi il grande lavoro di sintesi. Questi anni sembrano perciò come percorsi da una perpetua invocazione, eternamente soffocata e costantemente riaffiorante, di una nuova storia della letteratura nazionale, un’aspirazione che tuttavia avveniva nell’ingiusto e pericoloso oblio del grande esempio offerto dal De Sanctis. Subito accanto al De Sanctis deve essere ricordato il Carducci, anche per i molti accenti polemici antidesanctisiani che percorrono la sua aneddotica, creando una quasi simbolica opposizione, ma soprattutto per la grandezza storica che, nella diversità dell’ispirazione critica, lo colloca come degno antagonista del grande critico. L’opera del Carducci riassume in maniera 1 Cfr. L. Russo, Alessandro D’Ancona e la scuola storica italiana, nel volume dello stesso autore Ritratti e disegni storici dal Machiavelli al Carducci, Bari: Laterza, 1937, p. 399.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA DOPO DE SANCTIS

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esemplare i motivi essenziali dell’incontro di due culture, nel momento cruciale del trapasso fra il romanticismo e il positivismo. La vasta attività per lunghi anni svolta dal Carducci in una serie di studi diretti all’esplorazione delle zone più diverse del nostro patrimonio letterario, accumula una quantità di materiale sufficiente per ricomporre un’intera storia della letteratura italiana. Come il Foscolo, anche il Carducci, con l’estesa ampiezza delle sue letture («perché molto egli lesse delle lettere nostre, né credo anzi», ha notato un critico2, «che dopo di lui sian sorti più di due o tre italiani che abbian letto quanto egli lesse di classici nostri»), sembra condurre le sue ricerche sotto lo stimolo di un’inesausta ansia di totale visione della vicenda della letteratura nazionale. Tuttavia il Carducci, a un dato istante della sua vita di studioso, di proposito, distogliendosi dal minuto e grandioso lavoro di ammattonamento filologico che tutto l’occupava, rivolse il suo sguardo al disegno generale di quell’edificio che intendeva criticamente ricostruire. I celebri cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale, la cui ultima redazione è del biennio 1873 e 1874 (e anzi già la prolusione tenuta quando, il 22 novembre 1860, salì la prima volta la cattedra di Bologna3), stanno a testimoniare della precisa volontà che animava il Carducci di proporsi il tema storiografico della storia letteraria considerata nelle sue complessive linee di sviluppo. Si rende perciò inevitabile la menzione di questo caratteristico documento della nostra storiografia, per il suo valore illustrativo di un gusto e di una cultura, anche se non è in esso che debba venire cercata la prova più autentica della critica carducciana. In realtà la vera e originale storia letteraria del Carducci, più che in questo ordinato inquadramento dei grandi temi del corso delle nostre lettere, si trova frammentariamente dispersa nei numerosi saggi in cui il critico analizza il linguaggio degli scrittori e soprattutto dei poeti d’Italia. È appunto nell’amorosa analisi del linguaggio poetico che consiste la virtù più profonda e il più valido contributo del Carducci critico4, la sua reale novità di storico della letteratura italiana. Pertanto, la sua ideale e originale storia della letteratura sarà quella storia del linguaggio poetico dei nostri autori che può ricomporsi dalla lettura dei suoi molti e sparsi lavori di critica. Al contrario quella celebre e complicata costruzione che presume di raccogliere in sintesi lo svolgimento della letteratura nazionale, rimane priva di autenticità. I critici si sono industriati a cercare nelle più disparate F. Flora, Storia della letteratura italiana cit., vol. II, p. 410. È stampata in G. Carducci, Primizie e reliquie dalle carte inedite, per cura di G. Albini e A. Sorbelli, Bologna: Zanichelli, 1928, pp. 240-279. 4 Cfr. L. Russo, Carducci critico, in Ritratti e disegni storici… cit., pp. 371 ss. 2

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

direzioni le fonti della metodologia e dei particolari giudizi di tale prospettiva storiografica. Così, mentre gli studiosi francesi, dal Maugain allo Jeanroy5, si sono adoprati a ricondurre gli elementi del pensiero carducciano alle sorgenti francesi (al Guizot, al Thierry, al Fauriel, al Villemain, all’Ozanam, al Quinet, al Taine), con un’operazione critica contraria gli italiani hanno replicato indicando quelle fonti autoctone che vanno dal Gioberti al De Sanctis6. E altre derivazioni tedesche, si sarebbero potute ancora additare (e non è mancato chi lo ha fatto) in Hamann, in Herder, negli Schlegel, nell’Uhland, nel Lachmann e soprattutto nel Mommsen7. Naturalmente una ricerca di tal genere può essere legittima solo quando venga contenuta entro limiti ben definiti: quando cioè essa non tanto pretenda di cogliere la misura intima della storiografia carducciana e di esaurirne ogni possibile significato, ma si accontenti solo di definire un movimento di cultura e di segnalare un incontro di sintomatiche influenze. Questa inchiesta soprattutto può contribuire, attraverso puntuali richiami di nomi, a dimostrare l’avvenuto assorbimento di motivi storiografici che erano scesi ormai dalla sfera della personale intuizione al territorio battuto e calpestato come res nullius della più divulgata nozione. Su questo terreno poteva anzi avvenire un incontro e verificarsi una mescolanza di temi e di spunti di assai diversa e anzi opposta origine. E in realtà gli essenziali miti del romanticismo, contaminati con gli orientamenti speculativi del naturalismo, intervengono in maniera evidente nel disegno storiografico carducciano. Romantico è il concetto che sta alla base di tutta la prospettiva, quello dello svolgimento, dello storico divenire, e romantico è anche il proposito di innestare la vicenda letteraria sulla vicenda politica e nazionale dovuto al bisogno di dare sfogo al sentimento patriottico e insieme alla necessità di evitare, con il soccorso della metodologia fondata sul canone della letteratura espressione della società, l’amorfo squallore del puro resoconto erudito. Tale istanza era manifestata per la prima volta nella prolusione, impostata su questo esplicito programma:

5 Cfr. G. Maugain, G. Carducci et la France, Paris: Champion, 1914; A. Jeanroy, “Carducci et la Renaissance italienne: étude sur les sources du quatrième discours Dello svolgimento della letteratura nazionale, in «Bulletin italien», XII (1912), pp. 322-341, e XIII (1913), pp. 59-64. 6 Cfr. D. Mattalia, L’opera critica di Giosuè Carducci, Genova: E. Degli Orfini, 1934. Quest’opera che, malgrado i suoi limiti, rappresenta la più completa rassegna del pensiero critico carducciano, si sforza appunto di collegare questo pensiero ai temi della speculazione del Gioberti. Per le derivazioni dal De Sanctis si veda B. Croce, Giosuè Carducci, Bari: Laterza, 19272, pp. 127-130. 7 Cfr. A. Galletti, L’opera di Giosuè Carducci, Bologna: Zanichelli, 1929, vol. I, pp. 289 ss.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA DOPO DE SANCTIS

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non vi spiaccia seguirmi nel discorrere in questa prelezione le varie età storiche della letteratura italiana in quanto sono connesse alle vicende politiche della nazione e modificate da quelle. Così le idee determinate dai fatti, uscendo dalla inquieta metafisica, si porgeranno più ferme alla osservazione: così non ci si apporrà difetto di principii e incertezza di applicazioni, di che alcuni storici e insegnatori delle lettere sono ripresi, pei quali fu la storia letteraria pura esposizione di avvenimenti8.

Ma in realtà il concetto di svolgimento, a parte la stessa degenerazione che subiva identificandosi troppo spesso con la razionalistica idea del progresso9, finiva poi, mediante la teoria dei «principi» o degli «elementi» (intesi come forze variamente capaci di agire, reagire e combinarsi) con il cadere in una visione storiografica che (auspice soprattutto il Taine) snaturava lo stesso fecondo motivo iniziale, trasferendolo a un significato diverso da quello acquisito dalla più profonda filosofia romantica. E invero nella stessa prolusione il Carducci, intraprendendo l’esame del processo di sviluppo della nostra letteratura, veniva ad affermare: Nelle due età storiche dell’Italia cristiana, che corrono, l’una da Odoacre e Teodorico alla ruina del regno longobardico, l’altra dalla restaurazione dell’impero fino a Gregorio VII, chi studii nella letteratura italiana dee seguire la traccia di due elementi, dal contrasto de’ quali sul medesimo terreno e dalla vittoria dell’uno su l’altro risultò e la nostra civiltà per gran parte e la forma più splendida di essa che è la letteratura: dell’elemento germanico, io dico, e del latino, ritemprato dal cristianesimo; tendente il primo all’individualismo, all’associazione il secondo10.

In tal modo facevano per la prima volta il loro ingresso nella critica carducciana quei famosi «elementi» che, invocati come fondamentali motivi ermeneutici, sarebbero poi intervenuti, nei cinque notissimi discorsi, a spiegare lo svolgimento della letteratura nazionale. La stessa tendenza combinatoria, portata a modi più estremi, ritorna nella sintesi Dello svolgimento della letteratura nazionale. È nota la complicata e insieme semplicistica impostazione, presente in questi discorsi, della storia letteraria sui tre elementi: ecclesiastico, cavalleresco e nazionale. Il primo, suddiviso in due forme, ascetico ed ecclesiastico propriamente detto; l’ultimo, comprendente un elemento romano e dotto, e un elemento italiano 8 G. Carducci, Prolusione alle lezioni, Bologna 22 novembre 1860, in Primizie e reliquie cit., p. 241. 9 Cfr. A. Galletti, L’opera di Giosuè Carducci cit., vol. I, p. 278. 10 G. Carducci, Prolusione alle lezioni cit., pp. 241-242.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

e popolare; i primi due, propri anche ad altre nazioni d’Europa; il terzo, originario e antichissimo:

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L’italiano non è popolo nuovo: altrove dalla mistura dei galloromani e degl’iberi coi burgundi coi vandali coi franchi coi goti escono i provenzali i francesi i catalani i castigliani: qui permane l’Italia, qui l’Italia delle confederazioni umbre latine sannitiche liguri etrusche, l’Italia della guerra sociale, risorge dalle ruine di Roma. L’Italia ha dunque un principio di civiltà proprio ed antico; e, quando sarà tempo che questo sormonti agli altri principii i quali dettero una prima e nuova civiltà al resto d’Europa, allora anche l’Italia avrà una letteratura11.

Dalla combinazione varia di questi elementi risulterebbe lo svolgersi dello spirito e della letteratura nazionale: Ora la storia di queste tre varie o forze o elementi, l’ecclesiastico, il cavalleresco, il nazionale, e dell’accordo e della discordia tra il misto elemento ecclesiastico e l’elemento nazionale complesso, i quali a diversi fini incontraronsi in un’azione medesima, e dell’opera loro di modificazione su l’elemento cavalleresco il quale in Italia fu soltanto e sempre soggetto e materia, e dell’ultimo e final dissidio, dopo un momento di armonia, tra que’ due primi elementi, e della scissione dell’elemento nazionale vittorioso ne’ suoi due principii, il romano e l’italico, il dotto e il popolare, e dell’ultima armonia di essi due principii signoreggianti oramai nell’ideale della forma tutta la materia soggetta del medio evo; questa storia, dico, è la storia della letteratura italiana12.

In questa meccanicistica interpretazione dello svolgimento della letteratura, l’interesse storiografico si spostava evidentemente dalla realtà artistica al fenomeno civile e politico, e la storia della letteratura smarriva la propria fisionomia, trasformandosi in storia della cultura e della civiltà. L’esercizio critico si riduceva in sostanza al tentativo di definire una caratterologia nazionale mediante un’operazione in cui agivano, accanto e in funzione dei principi positivistici, motivi di schietta origine romantica (come quello di nazione e di stirpe, e l’altro del Volksgeist), per risolvere poi la letteratura, romanticamente intesa come emanazione dello spirito nazionale, in una storia di tale spirito. In piena coerenza con i fondamenti di una tale metodologia le grandi personalità della letteratura venivano abbassate, in una visione astrattamente contenutistica, all’ufficio di individui rappresentativi G. Carducci, Dello svolgimento della letteratura nazionale, in Opere, ed. naz., vol. VII, Bologna: Zanichelli, 1936, p. 10. 12 Ivi, p. 24 11

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delle forze propulsive della vicenda storica. Così, Dante «rappresenta il popolo vecchio», e il Petrarca «rappresenta quella parte più eletta del popolo nuovo che sorse intorno a Giano della Bella», mentre il Boccaccio «è il più sicuro rappresentante di quel popolo grasso del secolo decimoquarto che finì di ricoprire con la sua alluvione il popolo vecchio e l’Italia del secolo decimoterzo»13. La teoria degli individui rappresentativi, anch’essa derivata dalla mitologia romantica, favoriva certamente una più decisa attenzione al capolavoro artistico e, nell’illustrazione psicologica che se ne tentava e nella luce che gli proveniva dallo sfondo storico su cui era inserito, un possibile suo approfondimento esegetico. Senza contare che tale teoria, fondata com’era in un sentimento eroico e operoso dell’individualità e in un idoleggiamento tumultuario e soggettivistico della poesia14, tendeva a trasformare la passiva rappresentatività in un’attiva creatività (non contrastante del resto con la dinamica creativa della storia tutta, secondo insegnava quella formula biologica divenuta cara al positivismo: la monogenesi ripete la filogenesi15), una creatività in cui poteva venire redento il carattere originale della poesia. Tuttavia l’opera d’arte difficilmente riusciva a salvarsi dal pericolo immanente a questa storiografia, che era quello di sottostare a un’imposizione estrinseca di quegli schemi nei quali, con illegittima violenza, venivano incapsulati i documenti più vivi della nostra letteratura. Così il concetto di svolgimento, nella contaminazione che subiva con i significati propri della mentalità positivistica, finiva con lo svuotarsi del suo preciso valore, traducendosi in una visione meccanicista, immobile, pur nel suo evolversi, entro un rigoroso sistema di leggi costringenti deterministicamente il processo di sviluppo, secondo un’esegesi a cui offrivano appoggio, fraintesi e degenerati, gli stessi schemi della dialettica idealista. Tutto il corso della letteratura veniva in tal modo interpretato come una necessaria esplicazione di quegli elementi primigeni offerti dallo studio delle origini (e sulle origini insiste con naturalistica compiacenza questa prospettiva storiografica), mentre ogni immissione di elementi nuovi era sentita fondamentalmente come degenerazione, una degenerazione da cui non c’era possibilità di riscatto se non mediante una rivoluzione, una palingenesi, e cioè un ritorno alle origini, alle quali immobilmente finiva con il restare condizionata ogni possibilità di sviluppo. Ma non converrà troppo insistere nell’esame di questo quadro dello svolgimento della nostra letteratura in cui l’intervento dei motivi più diffusi del romanticismo e del naturalismo, estrinsecamente elaborati, rende minimo il 13 14 15

Ivi, pp. 99, 106, 110. Cfr. D. Mattalia, L’opera critica di Giosuè Carducci cit., p. 41. Cfr. ivi, p. 80.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

grado di responsabilità della critica carducciana, una critica capace di offrire, in altra sede, un ben più concreto equivalente della sua storia letteraria (la quale, come abbiamo detto, va cercata altrove, e precisamente in quei numerosi saggi e articoli e volumi, dedicati a momenti e figure e problemi delle nostre lettere, che, se pur materialmente dispersi, costituiscono un’ideale unità, una storia abbastanza completa della vicenda della nostra letteratura, interpretata da un critico soprattutto esperto e sensibile ai toni e alle modificazioni del tessuto espressivo). Del resto, questi cinque discorsi, a parte lo scarso valore storiografico dovuto alla poca resistenza delle arrischiate impalcature su cui si basano (non sottoposte a un sufficiente controllo), rifuggono in fondo dall’essere considerati su un piano di pura e semplice storia della critica. La parola e la proposizione e l’immagine, in essi, vivono in funzione artistica, e tendono a creare una suggestione di poesia, ponendosi come miti di un caldo immaginare e di un fervido sentire16. Anche per questo occorre molta cautela nell’accostarsi a queste pagine, per evitare di scambiarle per un documento autentico di una concreta esperienza storiografica. Comunque, era necessario accennarvi, sia perché nell’autorevole assunzione di questi schemi e motivi storiografici da parte del Carducci si offre una prova della loro divulgazione nella cultura italiana, sia perché essi stanno a documentare il modo con cui il Carducci patì il problema della storia della letteratura. La realizzazione storiografica più importante, nel periodo postdesanctisiano, è presentata da Adolfo Bartoli. La Storia del De Sanctis, nel risultato raggiunto attraverso l’impetuosa e geniale composizione e in mezzo alle stesse contingenti circostanze che ne strozzarono lo sviluppo, era costretta a rimanere, almeno sul piano estrinseco, incompleta e asistematica. Lacunosa nel contenuto, talora senza proporzioni, e in qualche parte non sottoposta a un sufficiente controllo, essa appariva anche agli uomini più aperti del «metodo storico» troppo provvisoria e troppo lontana dall’offrire un esemplare modello, insomma la «storia letteraria» della cultura italiana. Nella situazione degli studi dell’ultimo Ottocento, il problema di maggior peso (per passare sul superficiale e diffuso atteggiamento che negava la possibilità scientifica di una storia letteraria, rimandandone l’effettuazione a un successivo periodo, che si sarebbe inaugurato quando fosse stato compiuto il lavoro di ricerca particolare) doveva appunto essere quello relativo all’esecuzione di una comCfr. B. Croce, Giosuè Carducci cit., pp. 135-140. Si confronti anche T. Parodi, Giosuè Carducci e la letteratura della nuova Italia, saggi raccolti da F. Antonicelli, Torino: Einaudi, 1930, pp. 35, 36, 69. 16

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piuta e ordinata storia letteraria. Si trattava, in altre parole, di scrivere una storia quale l’Italia non aveva ancora, sgombra di quell’erudizione in atto che gravava nell’opera del Tiraboschi, ma nello stesso tempo come quella rigorosamente sorvegliata, e anzi aggiornata sulle scoperte ultimamente fatte e sulla più scaltrita scienza filologica, e infine non estranea a un senso dell’arte e della storia nutrito delle più moderne esperienze. Ora, il Bartoli sembra appunto interpretare quest’unica possibilità storiografica che l’orientamento della critica erudita dell’estremo Ottocento doveva concedere, e così proporre, con il suo lavoro, l’esemplare più degno, capace di rappresentare questa nuova condizione di studi. Il Bartoli (che già aveva iniziato la pubblicazione dei fascicoli raccolti poi nel 1880 in un unico volume, dal titolo I primi due secoli della letteratura italiana) nell’avvertenza alla sua Storia della letteratura italiana (della quale uscirono a Firenze, negli anni compresi fra il 1878 e il 1889 sette volumi restando interrotta al Petrarca) manifestava programmaticamente la determinazione di raccogliere in sintesi e di classificare con ordine tutto il materiale (da lui stesso e dagli altri fatto oggetto d’indagine) riguardante la nostra letteratura. In quest’opera, pur rivolgendosi egli a una larga cerchia di lettori e pur assumendo il tono simpatico di una chiara e vivace conversazione, il Bartoli non tradiva il suo severo e alto proposito dottrinale di rendere conto «dello stato attuale della scienza nel campo della storia letteraria italiana»17. Questo piano di classificazione è pienamente confermato dall’esame interno del lavoro, che si presenta non tanto come una storia letteraria unitariamente concepita, quanto piuttosto con il carattere di una raccolta di saggi su problemi e momenti particolari della nostra letteratura, e quasi di un’aggiornata ed esauriente enciclopedia, e sia pure disposta in ordine cronologico anziché alfabetico. Non una determinata idea storiografica, o comunque un nuovo atteggiamento critico esteso al problema strutturale della storia letteraria, impegna quest’opera, distratta da interessi del tutto diversi. Il materiale dal Bartoli portato alla luce e filologicamente elaborato (e in questo soprattutto consiste l’importanza del suo lavoro) si dispone nel resoconto storico senza essere riplasmato da un fondamentale motivo storiografico, senza venire sottoposto a un principio informatore che non sia quello tutto estrinseco del meticoloso accertamento filologico e del chiaro ordine compositivo. L’interesse del Bartoli rimane confinato nell’analisi del particolare e non supera mai i limiti del materiale contenuto storico (con un’assoluta predilezione per le questioni erudite e con un fondamentale contegno di indifferenza nei confronti del fatto estetico) trascurando completamente il tema strutturale e 17

A. Bartoli, Storia della letteratura italiana, Firenze: Sansoni, 1878, vol. I, p. 11.

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la problematica generale della storia letteraria, che in tal modo si mantiene in una zona di rapsodica e didascalica composizione. Eppure alla Storia del Bartoli una certa unità derivava dalla presenza di un vagheggiato canone esegetico. Era un principio fondato su un passionale preconcetto, più che su una controllata idea critica. Esso si esplicava in un atteggiamento di netta avversione all’ascetismo cristiano e di correlativa esaltazione del realismo pagano, sì da porre sotto il segno del sentimento del reale il carattere della sola autentica arte italiana: Questo rivoletto di sensualità che scaturisce alle origini della letteratura, andrà via via alimentandosi di nuove e copiose acque, e diventerà un fiume reale e maestoso, quando saranno nati il Boccaccio, Lorenzo il Magnifico ed Angelo Poliziano. Tale è il destino dell’arte, della grande e vera arte, in Italia, piaccia o no agli odierni fraticelli che la pretendono a critici. Il realismo è la caratteristica dell’arte italiana: fuori del suo grembo non c’è salute: sette secoli di storia stanno lì a provarlo colla inesorabilità dei fatti, colla eloquenza dei nomi: dal rozzo contrasto delle cognate al canto d’Aspasia, dai sublimi quadri dell’Inferno dantesco ai capitoli del Berni, dalle pagine del Decamerone a quelle del Manzoni18.

Tale caratterizzazione, per quanto potesse riuscire discutibile, valeva come testimonianza di uno sforzo di superare la frammentaria catalogazione degli scrittori e delle opere in un disegno unitario, e non mancava pertanto, com’è stato notato19, di infondere una sua più mossa vita al disegno storico. Ma, se si lascia questo particolare atteggiamento in cui egli sembrava assurgere a uno sguardo panoramico più largo, il Bartoli, anche per una giustificata diffidenza, condivisa con la sua età, per le ardite architetture storiografiche di cui si era eccessivamente compiaciuta la critica romantica, si asteneva di proposito dal lasciare spaziare il suo occhio su troppo ampie vedute, e si concentrava tutto nella filologica analisi del particolare, costruendo pazientemente il proprio resoconto, destinato del resto, nella sua esatta completezza, a riuscire non del tutto privo di efficacia sulla futura storiografia. Il discorso introdotto per il Bartoli si dovrebbe ripetere anche per un’altra opera, apparsa all’estero ma rapidamente immessa nella cultura italiana, la Geschichte der italienischen Literatur del Gaspary, uscita a Berlino negli anni dal 1884 al 1888, e subito tradotta in italiano (da Nicola Zingarelli il primo volume, da Vittorio Rossi il secondo, diviso in due parti) e pubbli18 19

Ivi, pp. 96-97. B. Croce, La letteratura della nuova Italia, cit., vol. III, p. 388.

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cata a Torino dal 1887 al 189120. Questa storia, anch’essa, in una singolare coincidenza di fortuna, rimasta interrotta, si presenta fondamentalmente con lo stesso aspetto storiografico dell’opera del Bartoli. Il problema della costruzione della storia letteraria viene appena sfiorato nell’introduzione al secondo volume:

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Nella storia letteraria due diversi intenti possono venire a contrasto insieme, la rappresentazione personale degli scrittori e l’esposizione dello svolgimento dei generi [...]. È difficile tener giusto conto d’ambedue; io l’ho tentato per quanto mi fu possibile21.

Tale conflitto, che sorgeva dal persistente omaggio ai generi letterari, da cui il Gaspary non osava ancora svincolarsi e insieme dall’esigenza di dare rilievo alle singole personalità, che in un critico di gusto come lui non poteva mancare, veniva superato in modo estrinseco mediante una contemperanza dei due diversi intenti, che erano rispettati entrambi, con l’applicare il primo modo di trattazione agli autori maggiori, e il secondo ai minori. La soluzione del piccolo e pur legittimo problema denunzia l’atteggiamento da compilatore, e sia pure nel senso più nobile, del Gaspary. Questa storia era realmente, come la definiva con intento laudatorio il traduttore italiano, un «bell’edificio», una rappresentazione compiuta e attuale dello «stato della scienza» nel campo degli studi italianistici. E la lode poteva essere accettata sia nel suo significato positivo, sia nel limite che involontariamente ne indicava. Si tratta invero, per questa dignitosissima opera del critico tedesco, di un geniale lavoro di revisione e di ordinamento dei tanti elementi che costituiscono l’organismo della letteratura italiana, un lavoro sostenuto da un’intelligenza filologica e da un sentimento d’arte vivi ed esatti, ma pur sempre estraneo, nella costanza di attenzione monografica, al preciso problema riguardante il comportamento di una critica impegnata nell’esame dello svolgimento di un’intera civiltà letteraria. Anche per il Gaspary, come per il Bartoli, la notizia biografica relativa all’affettuosa reverenza nutrita dallo studioso per il De Sanctis, resta senza risonanza culturale, in quanto non sta a significare un assorbimento e una rielaborazione della vasta problematica del grande critico (se non forse per un certo elegante gusto della poesia), e rimane sul piano della pura e semplice cronaca, come simpatica nota psicologica di un nobile atteggiamento spirituale. Anzi, la storia del Gaspary si 20 Nel 1900-1901 usci una 2ª edizione delle due parti dei II volume; nei 1914 una 2ª edizione del I volume, entrambe rivedute e accresciute dai traduttori. 21 A. Gaspary, Storia della letteratura italiana, vol. II (traduz. di V. Rossi), Torino: Loescher, 1891, P. I, p. vi.

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colloca, in certo modo, in una posizione antitetica rispetto alla storia del De Sanctis. La compostezza ordinata e la puntuale distribuzione del resoconto storico dello studioso tedesco qualificano il clima di cultura in cui l’opera è nata, respingendola dalla temperie in cui si genera la Storia desanctisiana, tutta animata invece, e anche sconvolta, da un’impetuosa complessità di problemi suggeriti e risolti da un fervido e geniale intelletto critico. L’equilibrata compiutezza della storia del Gaspary, pronta a rispondere enciclopedicamente a tutte le domande, come dal Tiraboschi in poi non si era più verificato, e incline a giudicare con l’oculata sorveglianza di chi si inserisce signorilmente al centro di una tradizione critica, elaborandone con eclettica virtù i risultati più maturi, giustifica il suo destino nel nostro ambiente di studi. Questa letteratura doveva infatti assurgere a modello classico di una storia letteraria composta con severità scientifica e con eleganza di gusto, e operare largamente nel mondo della cultura italiana quale indispensabile e «fondamentale» termine di richiamo, in una situazione equivalente a quella acquistata poi dal De Sanctis, divenuto a sua volta, nell’ambiente di cultura crociana, il punto di partenza obbligato di ogni seria interpretazione critica. Così, la storia del Gaspary continuava quella collaborazione degli stranieri alla nostra storiografia letteraria, che, iniziata agli albori dell’Ottocento dal Ginguené e dal Sismondi, si era sviluppata, in una direzione e con un’intensità mutata, attraverso le opere del Ruth e del Rosenkranz. Il peso dell’influenza esercitata, sotto la suggestione di un’idealità critica diversa e con contributi di un diverso interesse, dal Gaspary, può essere in certo modo paragonata per la sua portata solo con quella del Ginguené e del Sismondi, anche se l’esempio dello storico tedesco rimase sterile, almeno in questo specifico territorio degli interessi e dei problemi relativi alla costruzione della storia letteraria, senza riuscire a destare quell’animato dibattito o quella solitaria meditazione che avevano accompagnato le opere dello storico francese e di quello svizzero. Ancora minore fu l’efficacia di alcune altre storie letterarie straniere che passarono senza destare nessuna memorabile eco nella cultura italiana (e questa volta anche la cultura inglese intervenne accanto a quella francese e a quella tedesca, le quali già avevano offerto i loro nobili modelli storiografici). Del 1875 è l’Histoire de la littérature italienne dell’Étienne. Si tratta di un lavoro che, qualunque sia il concreto risultato raggiunto, rivela una preoccupazione costruttiva notevole. In questa storia, lo svolgimento della letteratura veniva posto in stretta relazione con un motivo politico che gli eventi svoltisi negli anni vicini a quelli in cui l’autore scriveva suggerivano assai spontaneamente, quello dell’unità italiana. L’autore infatti, nella prefazione, dichiarava che «un des traits nécessaires de ce livre devait être l’idée

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générale de l’unité italienne»22; adducendo, a chiarimento di tale proposta interpretativa, questa giustificazione:

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Nos recherches, purement littéraires, ne devaient pas s’égarer dans le champ périlleux de la politique; mais cette idée de l’unité, si ancienne chez les Italiens, si naturelle à un peuple qui ne veut pas perdre sa nationalité et son nom, si visible à travers toutes les manifestations de sa pensée, joue un trop grand rôle dans une histoire sincère et véridique de la littérature italienne pour n’en pas tenir compte23.

Non solo l’Étienne cercava, attraverso questo motivo politico, di segnare un unitario profilo al complesso paesaggio della letteratura italiana, ma neppure tralasciava di coordinarne in un quadro sistematico le sparse linee e gli aspetti particolari: L’histoire de la littérature italienne nous a semblé confirmer partout cette loi que chaque génération active et vivante dans l’ordre de l’esprit a sa littérature, image de sa pensée; c’était une division toute naturelle, naissant de l’étude de faits, et nous l’avons adoptée. En outre l’écrivain qui a provoqué sa plus vive admiration est précisément celui qui la représente avec le plus de fidélité. Aussi Arioste, Machiavel, Tasse, Parini, Alfieri, Manzoni, nous ont-ils servi d’introducteurs au seuil des périodes vraiment originales [...]. On ne s’étonnera pas que nous ayons accordé une grande place à ces rois de l’esprit, à ces héros des siècles littéraires. En racontant la vie et les écrits d’un homme de cet ordre, c’est leur siècle tout entier que l’on raconte24.

Il principio ordinatore, in questa esposizione critica, veniva dunque fondato sulla teoria eroica già applicata dal Carducci, degli uomini rappresenL. Étienne, Histoire de la littérature italienne, Paris: Hachette, 1875. . 23 Ivi, pp. x. . 24 Ivi, p. viii. . 22

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

tativi, la quale, pur nelle sue facili deviazioni interpretative e nei presupposti romantici inaccettabili, giovava a creare un utile senso di prospettiva storica e un orientamento metodologico propizio, concedendo all’esame dei capolavori artistici il rilievo necessario, e anzi un’assoluta e ben giustificata preminenza. Nell’intervento di tale concezione eroica, che nell’Étienne acquista un significato impegnativo solo per la sua possibilità di applicazione a quei fini architettonici e soprattutto a quel motivo conduttore dell’unità perseguiti dall’autore, si esaurisce la problematica della composizione della storia letteraria, che in De Sanctis aveva avuto un così grandioso respiro, e si registra l’unico elemento (accanto a parziali doti riguardanti singoli punti della letteratura) degno di considerazione sul piano dei fondamentali temi storiografici. Un identico bisogno di visione unitaria della nostra letteratura caratterizza l’opera (apparsa a Londra nel 1898) dell’inglese Richard Garnett, A History of Italian Literature che si propone appunto di delineare non le biografie dei singoli autori, ma «a biography of Italian Literature herself regarded as a single entity»25. Il risultato a cui l’autore crede di potere giungere è quello indicato nella conclusione: In Italy, from the first lyrists down to Carducci, from the first prose writers down to D’Annunzio, the guiding principle would seem to have been the love of perfect form and artistic finish, liable, like all other meritorious tendencies, to abuse, when its too exclusive pursuit has cramped originality; to aberration, when writers, remembering the end, have mistaken the means; but on the whole a right and laudable aim, because in harmony with the genius of the people and the language. As it has been said that what is not clear is not French, so it might be added that what is not refined is not Italian26.

Questa storia letteraria, pregevole sotto tanti rispetti, raccoglieva nel suo proposito di considerare la letteratura «as a single entity», l’antico preconcetto romantico per il quale si pensava di potere costringere in una sche-

25 R. Garnett, A History of Italian Literature, London: Heinemann, 1898, p. viii. . 26 Ivi, pp. 416-417. .

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matica formula, in una caratterizzazione essenziale la mobile e multiforme storia di un popolo, nel vario manifestarsi della sua civiltà. E nel particolare contenuto di quella formula, insomma nella caratteristica che lo storiografo inglese credeva di potere indicare per la letteratura italiana, e cioè l’amore della forma perfetta (del resto già da altri additata), incorreva nel rischio di attribuire esclusivamente a una letteratura quella che è la nota inconfondibile di ogni autentica realizzazione artistica. Ed era ancora un mito romantico che affiorava nella sentenza del Garnett, accolta dal grecista Beniamino Jowett, secondo la quale la letteratura italiana sarebbe la più grande del mondo dopo la greca, la latina e l’inglese («certainly the greatest in the world after Greek, Latin, English»27): dove ritornava a farsi sentire l’idea dei primati, carissima a tutta la storiografia romantica. Erano, questi, riecheggiamenti di una cultura ormai tramontata e, soprattutto dopo l’esperienza desanctisiana, essi apparivano stranamente invecchiati. D’altra parte, nell’assenza totale di ogni prospettiva storiografica impostata su basi un po’ ampie e non limitate al minuto lavoro di controllo erudito, queste idee, per quanto superate, stavano a rappresentare un’esigenza diversa e un richiamo ad altri problemi. Un significato non molto diverso assume la contemporanea Geschichte der italienischen Litteratur von den ältesten Zeiten bis zur Gegenwart28, dovuta a Berthold Wiese e ad Erasmo Percopo. Il proposito espresso «die Entwickelung der italienischen Litteratur von ihren Anfängen bis in die Neuzeit in stetem Hinblick auf den nationalen Werdegang des italienischen Volkes in gemeinverständlicher Weise zur Darstellung zu bringen»29, è ancora il residuo di uno degli essenziali canoni della tendenza storiografica romantica. Senonché questo motivo rimane poi ai margini del lavoro, il quale si svolge indipendentemente da esso, o almeno con una coscienza nei suoi riguardi ben poco severa. E invero la ricerca si compone nelle linee di un ordinamento piuttosto estrinseco della materia, che è distribuita seguendo un criterio regionale e le distinzioni dei generi letterari. Si tratta insomma di un’opera che nel complesso partecipa della mentalità classificatoria e analitica del periodo in cui apparve. Essa comunque, insieme alla compendiosa ma esatta Italienische Litteraturgeschichte di Karl Vossler pubblicata nel 1900 Ivi, p. v; e cfr. B. Croce, “Il carattere della poesia italiana secondo E. Ruth” cit., p. 476. . 28 B. Wiese-E. Percopo, Geschichte der italienischen Litteratur von den ältesten Zeiten bis zur Gegenwart, Leipzig und Wien: Bibliographisches Institut, 1899. Di quest’opera fu fatta anche una edizione italiana (Torino: Utet, 1904). 29 Ivi, p. v. . 27

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a Lipsia, viene ad accrescere il fecondo contributo offerto dalla Germania in questo territorio della nostra cultura storiografica. Insieme alla Germania, anche la Francia (mentre nell’area europea la Spagna rimaneva assente e l’Inghilterra si limitava al solo lavoro del Garnett) proseguì nella sua collaborazione alla nostra storiografia con un dignitoso esemplare, la Littérature italienne di Henri Hauvette pubblicata nel 1906. In quest’opera la preoccupazione rivolta al problema interpretativo di base della storia letteraria lasciava ormai cadere ogni residuo dei consunti schemi romantici. L’Hauvette nega la possibilità di trovare una linea di struttura intima capace di raccogliere in un ritmo unitario la vicenda delle nostre lettere: Des sept siècles qu’embrasse cette histoire on ne saurait dire que se dégage, au premier regard, une grande unité: ce qui frappe plutôt, c’est la complexité du dessin générale, c’est la variété et l’imprévu des manifestations du génie italien, qui, à une même époque, peut se présenter sous les aspects les plus divers30.

Il discorso introduttivo si svolge su un piano empirico, più che su un piano speculativo, e si illumina tutto dell’affermazione con cui l’Hauvette si dichiara convinto che, per il lavoro a cui egli sta per accingersi, l’unica originalità concessa sia quella dell’impostazione, trasferendo così il problema in una zona didascalica di mera estrinseca organizzazione. Intorno a tale compito si industriava con zelante impegno l’illustre italianista, disegnando un nuovo progetto di ordinamento e stabilendo un’impalcatura nuova in cui distribuire la materia storica. In tal modo il problema della storia letteraria si andava spostando su questioni banali di editoriale architettura, e si spegneva così l’eco della vasta problematica romantica, senza che vi fosse opposta una consapevole negazione e sostituito un diverso e più impegnativo interesse critico monografico. E in realtà con la Littérature dell’Hauvette si ritorna, con un respiro assai più limitato e in un ambito più vivacemente divulgativo, al tipo storiografico che aveva tentato di elaborare il Gaspary. Mentre gli stranieri variamente collaborarono alla storiografia della nostra letteratura, in Italia, oltre l’attività del Carducci destinata a sfociare in un definitivo proposito di sistematica narrazione della vicenda letteraria, e oltre la Storia del Bartoli rimasta incompiuta, l’interesse per la storia letteraria esaminata nell’intero svolgimento si affievoliva e sovente impaludava in 30 H. Hauvette, Littérature italienne, Paris: A. Colin, 1906, p. 1. .

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generiche compilazioni manualistiche. Occupano un posto a parte le due collane, pubblicate a Milano presso l’editore Vallardi, della storia letteraria distinta per secoli (trattata da Adolfo Bartoli, Giosia Invernizzi, Ugo Angelo Canello, Bernardo Morsolin, Giacomo Zanella; e poi, nella successiva collezione, da Francesco Novati, Giulio Bertoni, Nicola Zingarelli, Guglielmo Volpi, Vittorio Rossi, Francesco Flamini, Antonio Belloni, Tullo Concari, Guido Mazzoni), e della storia letteraria distinta per generi (dovuta a Ciro Trabalza, Francesco Foffano, Alfredo Galletti, Adolfo Albertazzi, Orazio Bacci, Emilio Bertana, Enrico Carrara, ecc.): ma la trattazione di queste storie della letteratura solo editorialmente unitarie, esula dal nostro campo. Dilagarono in questi anni in gran numero le storie della letteratura, alcune delle quali imperarono per molto tempo nelle nostre scuole. Ricordiamo il Disegno storico della letteratura italiana di Raffaello Fornaciari31, la Letteratura italiana dalle origini al 1748 di Cesare Fenini32 le Lezioni di storia della letteratura italiana di Giuseppe Finzi33, La storia della letteratura italiana di Carlo Maria Tallarigo34, la Storia della letteratura italiana di Giovanni Antonio Venturi35, la Storia della letteratura italiana di Italo Pizzi36, il Compendio di storia della letteratura italiana di Francesco Flamini37, la Storia della letteratura italiana di Vittorio Rossi38. I tre volumi citati si distinguono per la loro importanza: se il primo, ancora disuguale nelle misure esterne (di materia) e interne (di metodo), è pur pregevole per informazione e giudizio, specie nell’ultima parte, e se il secondo è preciso e fitto di notizie, il terzo rappresenta indubbiamente il modello più serio tra le opere di questo genere. Accanto a queste composizioni, e con lo stesso intento pedagogico, ma senza più il valore di cultura (di interesse sperimentale) dei primi analoghi tentativi del Leopardi o dell’Ambrosoli, si colloca tutta una serie di antologie, come il Manuale della letteratura italiana di Giovanni Mestica39, il Manuale di letteratura italiana di Tommaso Casini40, il Manuale della letteratura italiana di Francesco Torraca41, la Nuova crestomazia italiana di C.M. Tallarigo e Vittorio Imbriani e infine il Manuale della letteratura italiana di 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41

Firenze: Sansoni, 1874. (Naturalmente si cita la 1ª edizione). Milano: Hoepli, 1882. Torino: Loescher, 1887-95. Napoli: Morano, 1887-88. Firenze: Sansoni 1894. Torino: Carlo Clausen, 1899. Livorno: Giusti, 1900. Milano: Vallardi, 1900-02. Firenze: Barbera, 1882-87. Firenze: Sansoni, 1886-92. , Firenze: Sansoni, 1886.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

D’Ancona e Bacci42: opere delle quali alcune, per il tono delle illustrazioni storiche intercalate ai brani antologici, tendono ad assumere l’andamento di vere e proprie storie letterarie. I lavori di questo genere, nati lateralmente sul tronco delle narrazioni continuate della vicenda della nostra letteratura, erano destinati a moltiplicarsi in modo inverosimile nel nostro secolo, e a parte alcune eccezioni (e conviene ricordare specialmente l’Antologia della letteratura di Attilio Momigliano43, composta con un gusto squisito e con attenta sensibilità storica) a degenerare in forme commerciali talora neppure rispettose delle modeste ma nobili esigenze della scuola a cui erano indirizzati. Eppure questa stessa larga divulgazione scolastica della storia letteraria era il segno più tangibile della normalità ormai assunta, attraverso una lunga serie di scandagli e di esperimenti, di proposte e di risposte, da questo genere di composizione critica. Determinatosi secondo un suo proprio schema e un suo originale andamento, esso viveva ormai di una pacifica vita. E tuttavia, nel contrasto eccessivo di proporzioni che questa attività manualistica segna di fronte alla storia di tono scientifico (la quale viene a cedere quasi totalmente il campo, con il suo unico incompleto esemplare che ha da contrapporre) non può non risultare evidente l’impoverirsi e l’impigrirsi, sullo scorcio del nuovo secolo, di tale interesse storiografico.

42 43

Firenze: Barbera, 1892-95. Messina: Principato, 1928.

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LA STORIA DELLA LETTERATURA NEL NOVECENTO

La composizione della storia letteraria, come del resto tutta l’attività culturale nel campo critico, è condizionata, nel nostro secolo, in modo più o meno diretto, dalla vasta e molteplice attività del Croce. L’immenso lavoro svolto da questo pensatore in tanti anni o puntualmente si indirizza allo specifico territorio che forma oggetto della ricerca presente, oppure con esso interferisce in misura larga e diversa. Il Croce non scrisse mai di proposito una storia della letteratura italiana, ma la sua collaborazione a un compiuto resoconto dello svolgimento delle nostre lettere è stata di un’estrema importanza. Conviene intanto osservare che i numerosissimi suoi saggi dedicati a poeti e scrittori d’Italia, potrebbero formare un quadro quasi completo della nostra storia letteraria. Già nel 1927 Francesco Flora, con una testimonianza significativa della mentalità contemporanea in questo particolare settore della nostra cultura, poteva scrivere: Nella storia letteraria il Croce ha impresso un’orma profonda che non mi pare sia stata ancora messa in rilievo abbastanza. Non s’è notato, ad esempio, che egli ha pressoché scritto una storia della letteratura italiana, in vari saggi che spostano, al lume di una estetica nuova, i giudizi di Francesco De Sanctis, e cioè i giudizi più sicuri che sulla storia letteraria italiana si avessero finora. Il carattere monografico della storia crociana, ha forse impedito il pronto riconoscimento di quel che io affermo. Ma veramente tutta la letteratura italiana, tranne alcuni poeti e scrittori, è stata da lui giudicata con nuova visione1.

Questa sentenza acquista oggi un accento ancora più intenso di verità: ed effettivamente il Croce, accanto al De Sanctis, da lui restituito alla cultura 1

F. Flora, Croce, Milano: Athena, 1927, p. 167.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

italiana, si pone ormai come punto di orientamento classico e fondamentale per ogni successiva elaborazione critica sugli scrittori della nostra letteratura. Ogni libro di storia della letteratura italiana seriamente inserito nella vita intellettuale del Novecento non può perciò non risentire in qualche modo della presenza del pensiero del Croce. E questo non solo a causa delle precise ricerche del critico e dell’erudito applicate a questo o a quel determinato autore, ma anche per quei presupposti metodologici su cui la sua stessa attività di critico è esemplarmente fondata. La presenza del Croce in questo particolare settore della critica si rende tuttavia operante soprattutto nella originale posizione del problema della storia letteraria, considerata nella legittimità della sua esistenza, o comunque nelle possibilità del suo vario contegno. A tale posizione il Croce perveniva attraverso una discussione destinata a prolungarsi in tutta una serie di proteste e perplessità, revisioni e interpretazioni, mediante le quali veniva comunicata alla nostra cultura una sempre più viva coscienza delle questioni relative alla storia letteraria. Il frequente richiamo agli studi crociani che, nel tracciare questo disegno storico, specie negli ultimi capitoli, siamo stati costretti ad aprire, basta già per se stesso a sottolineare l’importanza dell’attenzione dedicata dal Croce al problema della storiografia letteraria. E in realtà dalla sua opera non sarebbe difficile ricavare le pagine sufficienti per comporre un interessante capitolo che, sul modello di un altro suo lavoro, si potrebbe intitolare «teoria e storia della storia letteraria». Il primo germe teorico trova la sua manifestazione in un’opera del 1894, La critica letteraria2, nata sotto l’influenza e la passione rivendicatrice del pensiero desanctisiano. In questo lavoro, un primo abbozzarsi di storia della storiografia letteraria, proprio la Storia della letteratura del De Sanctis veniva esaminata e proposta come ideale modello, mentre della Storia del Gaspary era denunciata l’insufficienza e l’incertezza metodologica3. Con questa sicura presa di posizione il Croce chiariva il proprio concetto della storia letteraria. Senza che fosse elaborata ed espressa in modo diretto, un’idea abbastanza precisa scaturiva implicitamente dalle sue affermazioni teoriche di carattere più generale. E in effetti la sua dottrina dell’arte come «rappresentazione piena ed efficace di un dato contenuto»4 non comprometteva la possibilità di una storia letteraria. Delle tre operazioni fondamentali (esposizione, valutazione, storia) in cui secondo il Croce (un Croce nel quale si fanno sentire, come in tutta la sua opera giovanile, i residui di un gusto classificativo, compiaciuto di 2 3 4

Ristampata nel volume B. Croce, Primi saggi, Bari: Laterza, 19272, pp. 73 ss. Ivi, pp. 118 e 128 ss. Ivi, p. 103.

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positivistici schematismi e di didascalici espedienti) si riassume ogni esercizio possibile intorno alle opere letterarie, la terza (la storia) era appunto fatta consistere nella considerazione non dell’opera in sé, ma «dei fatti che la concernono, in quanto l’abbiano condizionata o in quanto siano stati da essa condizionati»5. Il Croce si limitava a reagire a quella metodologia, allora largamente imperante, fondata sul primato dell’esplorazione delle fonti, della biografia, e dei generi letterari, in quanto pretendesse uscire dai propri legittimi confini e, violando l’intimità dell’opera, tentasse di assorbire in se stessa ogni compito della critica. Il principale pericolo della ricerca delle fonti era indicato nella illusione che un’opera letteraria si risolva nelle fonti alle quali vien riportata, trascurando così nello studio della genesi il fattore essenziale, che nelle grandi creazioni è, si può dire, tutto: l’attività spirituale del creatore dell’opera6.

Così, a proposito della ricerca biografica ricordava come la vita dell’autore rientri «nella storia della genesi dell’opera, in quanto tra le varie cagioni che hanno operato in essa si considerano anche la persona e le vicende personali dell’autore», ma «vi rientri solo per una parte», e pertanto come non convenga «indipendentemente dalla luce che ne può venire alla storia dell’opera», lasciarsi trasportare dall’interesse che la persona e la vita di un uomo possono serbare per se stesse7. E infine, rivolgendosi a quell’ipotetico storico della letteratura che facesse oggetto esclusivo di considerazione i «generi letterari», intesi nel loro più rigido senso, ammoniva come egli dovesse finire con il trovarsi di fronte alla dilemmatica posizione o di «lasciar fuori opere, che, a rigore, non rientrano in quei generi e pur sono opere di poesia e di letteratura» o di sforzarsi di «farvele rientrare, allargando e rompendo qua e là quei vecchi legami, che, senza nessun vantaggio, s’è voluto mettere attorno»8. Erano precisazioni importanti, ispirate all’estetica desanctisiana, e tuttavia riprese in una sintesi lucida e vigorosa. Esse tracciavano un sicuro orientamento metodologico per la storia letteraria, la quale nell’ansia di sempre nuovi accertamenti filologici, aveva smarrito, scambiando per ultimo fine quello che aveva un puro valore strumentale, la linea decisa già tracciata dal De Sanctis. La teoria e storia della storia letteraria germinalmente contenuta in questo primo opuscolo, doveva ben presto approfondirsi e dilatarsi con 5 6 7 8

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. 91. p. 92. pp. 94-95. pp. 118-119.

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feconda intensità. Nel solco fertilissimo dell’opera desanctisiana, il Croce andava sviluppando e sistemando i motivi della propria speculazione estetica, e intanto costruiva un felice capitolo di critica storiografica. Sono infatti del 1897 e del 1898 alcuni studi sul De Sanctis9, al quale doveva ritornare ancora in altre successive ricerche, come nel saggio del 191210 (al nostro fine specialmente importante) in cui si indicava, con limpida coscienza, nei residui dell’influsso hegeliano il limite della concezione della storia della letteratura propria del grande critico. Altri notevoli contributi alla storia della storia letteraria il Croce continuava a offrire (del resto la paternità stessa di indagini di tal genere nella cultura italiana deve essere attribuita unicamente a lui) attraverso articoli, note e recensioni diverse11, ma soprattutto in alcuni paragrafi della sua Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono. Sicché il lavoro da lui svolto in questa zona potrebbe risultare sufficiente a segnare le linee maestre di una storia della storia letteraria. Ma tale storia è stata dal Croce tracciata parallelamente, e in funzione (e quindi in forma idealmente inscindibile) della sua teoria della storia letteraria, alla quale conviene dunque rivolgere più a fondo la nostra attenzione. Nelle Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, apparse nel 1900, la teoria della storia della letteratura trovava una sua sottintesa e pur evidente formulazione nel chiarimento dell’idea di progresso estetico. Il Croce scriveva allora: Allorché molti si travagliano intorno ad una medesima materia senza riuscire a darle la forma adatta ma a questa avvicinandosi, si dice che vi ha progresso; e quando sopraggiunge chi le dà la forma definitiva si dice che il ciclo è compiuto, il progresso è finito. Con l’insistere ancora su quella stessa materia non si avrebbe se non la ripetizione od imitazione, il diminuire o l’esagerare, il guastare il già fatto, insomma la decadenza. Il progresso ricomincia col ricominciare di un nuovo ciclo [...]. È affatto arbitrario il porre la storia della produzione artistica del genere umano sopra una sola linea progressiva, come pretendeva la teorica dei modelli: per la quale l’umanità sarebbe in progresso con l’avvicinarsi a dati modelli ed avrebbe regressi parziali con lo scostarsi da quelli. La storia dei prodotti estetici presenta, sì, cicli progressivi ma ciascuno col suo proprio problema, e progressivo solo rispetto a quel problema12. Ristampati nel vol. Una famiglia di patrioti cit., pp. 189 ss. Ristampato nel vol. Saggio sullo Hegel cit., pp. 368-395. 11 Hanno speciale importanza i due studi del 1903 Storia della critica e storia dell’estetica e Storia della critica e storia della storia letteraria (ristampati nel vol. Problemi di estetica cit.), e i successivi Storie nazionalistiche e modernistiche della letteratura del 1917 e Storie sociologiche della letteratura del 1919 (ristampati nel vol. Nuovi saggi di estetica, Bari: Laterza, 1926). 12 B. Croce, “Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica 9

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Questi stessi motivi erano ripresi e sistemati in un apposito capitolo nella prima edizione dell’Estetica del 1902, e ancora ripetuti nella seconda del 1904. In queste pagine il concetto di progresso coincideva per il Croce con il concetto stesso di attività, differenziandosi assolutamente da ogni metafisica legge di progresso. Il suo concetto invero nulla aveva in comune con l’idea illuministica di progresso o con quella romantica di svolgimento o infine con quella positivistica di evoluzione. Dall’Illuminismo il Croce si scostava nel precisare che, a differenza della storia della scienza, la storia dei prodotti dell’arte non può essere rappresentata su un’unica linea di progresso o regresso. La differenza tra la storia artistica e letteraria e quella della scienza si potrebbe anche formulare così: la scienza è una sola opera d’arte, alla quale tutta l’umanità collabora da secoli; e perciò forma un unico ciclo progressivo: le altre opere d’arte hanno ciascuna il loro problema e il loro ciclo13.

Quanto poi all’idea di evoluzione, anch’essa veniva negata nel rifiuto di ogni deterministica validità riconosciuta a leggi di sviluppo preordinate. E infine dallo stesso svolgimento dialettico romantico il Croce si scostava grazie al rinnovato concetto dell’arte, intollerante di un’idea di sviluppo, in quanto l’arte è intuizione: «e l’intuizione è individualità, e l’individualità non si ripete»14. Ogni rapporto dialettico fra artisti considerati come tali era respinto. È pur vero che si ammettevano dei «cicli progressivi», relativamente a un determinato problema d’arte: ma in sostanza questa riduzione del concetto di progresso all’idea dei cicli (i quali poi, stando agli esempi addotti dal Croce, sembrerebbero avere il limitato valore di correnti di cultura) non era altro che una ripresa, più sistematica, delle essenziali affermazioni contenute nel primo lavoro metodologico. E cioè si trattava, innanzitutto, di una netta affermazione dell’individualità dell’arte, su cui il Croce già aveva insistito, sebbene non in modo così vigoroso come implicava la negazione del tradizionale concetto di progresso, e si trattava, nello stesso tempo, di un riconoscimento della concreta realtà di quel ben determinato terreno storico nel quale l’arte affonda le sue radici, di quel preciso «problema», di quella «materia» particolare intorno a cui si affatica tutta una tradizione di artisti. Si aveva qui una manifesta concessione a quel contenuto della poesia, a quel presupposto di essa, la cui ricerca era già stata fin dal primo saggio generale”, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», estr. dal vol. XXX (1900), p. 15. 13 B. Croce, Estetica, Palermo: Sandron, 1902, p. 139. 14 Ivi, p. 136.

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ritenuta come una delle operazioni necessarie, come la «storia», appunto, dell’opera letteraria. Questa teoria dei cicli progressivi andava dunque incontro, in termini più esatti e sistematici (e pertanto con le difficoltà inerenti a ogni vero chiarimento), alla duplice esigenza cui il De Sanctis, per quanto restasse ancora episodicamente prigioniero dello schema hegeliano, già aveva praticamente risposto, anche se con non piena consapevolezza critica, e cioè quella di salvaguardare l’idea dello svolgimento della storia letteraria e insieme quella di non compromettere il principio della individualità del capolavoro poetico. Questa duplice esigenza poteva infatti trovare nel pensiero crociano di questi anni una provvisoria soluzione, in quanto se rigoroso era il rifiuto di un’assoluta linea di svolgimento, a tale rifiuto pur si accompagnava la concessione di un certo sviluppo, limitatamente a determinati problemi, a una determinata materia assunta come fondamentale problema d’arte da un gruppo di artisti. Negli anni successivi il Croce veniva elaborando corollari e integrazioni in margine a questi primi punti di orientamento. Così, in un articolo del 1905, ritornava sul carattere individualizzante proprio della storia letteraria e, nel reagire alla concezione manualistica o enciclopedica della storia letteraria scolasticamente sviata dalla pretesa di conciliare la storia dei fenomeni estetici e il manuale biobibliografico, ne indicava l’alta e precisa finalità: una storia della letteratura deve effigiare la serie delle anime artistiche, e ritrarre il movimento di ciò che è stato davvero sentito, e quindi efficacemente detto, presso un determinato popolo, in un determinato periodo.

E spiegava: Dei letterati e dei produttori di letteratura non può prendere cura se non in modo difensivo, per eliminare, cioè, polemicamente dai propri quadri quegli scrittori non originali e non sinceri, che l’opinione altrui più o meno autorevole, o la sbadataggine, vi ha introdotti e lasciati adagiare15.

Incominciava in tal modo, da parte del Croce, quel lavoro attentissimo di perpetua messa a punto, di vigile osservazione, di coerente deduzione, che attraverso un’infaticabile ricerca, avrebbe dovuto convogliare il problema su binari sempre più esattamente orientati. In una nota apparsa sulla «Critica» dell’anno successivo, il filosofo napoletano, mentre, con suggestiva precisazione, indicava come i pensatori o prosatori dovessero entrare nella storia letteraria solo nel rispetto della forma, e cioè per il loro lato estetico 15

B. Croce, Poeti, letterati e produttori di letteratura, in Problemi di estetica cit., p. 136.

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e poetico, insisteva: «la prosa, ridotta e considerata come poesia, dev’essere trattata, nella storia letteraria, come la poesia, col metodo individualizzante», avvertendo come fosse necessario affermare espressamente un tale principio «perché alcuni concepiscono volentieri la trattazione dei prosatori nella storia letteraria come uno o più capitoli da intitolare: “la formazione della prosa”, “le mutazioni della prosa”, o in altro simile modo»16. Attraverso queste dichiarazioni si può scorgere come il Croce tendesse sempre più a fondare nell’individualità l’opera d’arte, e a orientare conseguentemente la critica verso un’attenzione esclusiva nei confronti dei singoli autori. Erano, questi, sintomi evidenti di quell’avviamento del suo pensiero estetico che doveva trovare la propria espressione nel discorso pronunziato al congresso filosofico del 1908 di Heidelberg, dove il concetto dell’arte come intuizione pura (in cui si avvertiva ancora un certo residuo, non tanto nei concetti stessi, quanto in quel che non era detto e messo in rilievo, di quel realismo artistico al quale il De Sanctis sempre aveva inclinato, sopravvalutando il problema di una realtà da riprodurre in forma gagliardamente esatta17) si veniva ad approfondire con la ulteriore determinazione del «carattere lirico». Ma il concentrare l’attenzione sulla virtù lirica della poesia e il ricercarne il significato nell’ispirazione del sentimento e della passione, equivaleva a rendere ancora più spiccato il suo carattere personale, e a fondare la storia dell’arte sempre più decisamente sul principio individualizzante. E invero, in questo stesso anno, nella terza edizione dell’Estetica, in conseguenza di tale approfondimento, il Croce attenuava la sua affermazione sulla possibilità di stabilire cicli progressivi, sì da ammetterli solo come risultato di un lavoro di generalizzazione e di astrazione e da assumerli con un valore «meramente pratico e non rigorosamente filosofico»18. Il pensiero contenuto nella conferenza di Heidelberg veniva ripreso nel Breviario di estetica del 1912, dove tuttavia il problema della storia letteraria non era decisamente affrontato. Comunque, è significativo che nel capitolo che si intitola La critica e la storia dell’arte, anche se il discorso sembra applicarsi alle sole opere singole, non si parli più di cicli progressivi. Intanto, l’anno seguente, nella Licenza ai saggi critici sulla Letteratura della nuova Italia, si potevano leggere alcune note di grande interesse, in cui il Croce, aprendo la fase più acutamente polemica della questione, documentava il suo nuovo concetto di storia letteraria formulato in coerenza all’avvenuto ripensamento della sua concezione estetica. La storia della letteratura, con Id., La storia della letteratura come arte e la “prosa”, in Problemi di estetica cit., p. 125. Cfr. G. Castellano, Benedetto Croce, Bari: Laterza, 19362, p. 33. 18 Cfr. B. Croce, Estetica, Bari: Laterza, 19083, p. 155. 16

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una più rigorosa deduzione del criterio individualizzante e contro ogni richiesta di una storia continua dotata di un’intrinseca «connessione», veniva intesa come un semplice insieme di monografie, come una serie di saggi sui singoli autori. L’esame condotto dal Croce del vario atteggiarsi dell’esigenza unitaria19 e il conseguente rifiuto di essa in tutti e tre i casi formati dai diversi gruppi di sostenitori20 portava a concludere che l’unico dramma, l’unica dialettica, l’unico svolgimento concepibile per la storia della poesia era quello di ciascun autore «che si trova sempre a fronte una materia inerte o ribelle, e la vince, o le soggiace e ne è vinto; donde le lotte, le vittorie, le disfatte, i punti di perfezione, le decadenze degli artisti», e che pertanto a questa dialettica doveva rivolgere unicamente lo sguardo lo storico della letteratura, serbando viva coscienza del limite del suo lavoro, e del pericolo ad esso inerente, e cioè che quando egli, non pago della dialettica propria delle particolari opere d’arte che ha innanzi, vuol considerare la dialettica delle relazioni di un’opera con l’altra, deve rompere la forma delle opere e far passaggio dalla storia della letteratura alla storia sociale e a quella filosofica21.

Il Croce, mentre operava con estremo rigore questa riduzione della storia letteraria a una mera serie di monografie, ne stabiliva in pari tempo la vera e sola possibile continuità e unità nella storia, e cioè nella vita in cui la poesia affonda le proprie radici: «in virtù dell’unità della storia la storia dell’arte è inseparabile dalla storia sociale e dalla filosofica». Le quali, egli aggiungeva, conviene «venire anche espressamente richiamando nell’esposizione di una storia letteraria»22, senza che per altro esse debbano abolire o pretendere di risolvere in sé la storia della letteratura. Il Croce, mediante l’elaborazione del concetto di storia letteraria come molteplicità di monografie, fissava un 19 «Di coloro che vagheggiano nient’altro che un ordinamento degli scrittori e delle opere per generi o sottogeneri e regioni e scuole e altri aggruppamenti siffatti; e [...] di quegli altri che, descritte certe condizioni, (la razza o l’ambiente o l’avvenimento), vogliono vederne dedotte a fil di logica le opere letterarie, come effetti da cause»; e soprattutto «di quei bramosi e fantasiosi che chiedono una storia letteraria che si svolga come dramma d’idee o di ideali, lottanti tra loro, sopraffacentesi, trionfanti, dissolventisi» B. Croce, Licenza, in La letteratura della nuova Italia cit., vol. IV, p. 255. 20 Contro i primi due gruppi «perché dovrebbe essere ormai evidente che i primi confondono la storia con la sistematica delle scienze naturali, e gli altri la negano addirittura» e che «i primi dimenticano che la storia è individualità, e i secondi che essa è libertà»; e contro il terzo perché «si confonde né più né meno la poesia con la filosofia o con la vita etica», ibidem. 21 Ivi, p. 256. 22 Ibidem.

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principio metodologico di estrema importanza, segnando la linea orientatrice essenziale per lo studio della poesia, e definendo nello stesso tempo quell’aspetto costitutivo della storia letteraria per il quale essa si distingue dalle altre forme di storia. Con questo, praticamente, non veniva compromessa la possibilità di una storia della letteratura configurata in maniera compatta e unitaria. La Storia del De Sanctis, quando se ne fossero eliminati i marginali residui di quella tendenza a dialettizzare i rapporti fra le varie opere che troppo risentiva della lezione hegeliana, valeva ancora per il Croce (come documenta lo scritto più sopra citato) quale splendido modello di una storia capace, pur nel rispetto della personalità degli artisti, di concepire il progresso come l’avanzamento dello spirito umano23. Il Croce stesso, nella sua Letteratura della nuova Italia, offriva l’esempio di un paesaggio storico limpidissimo, di un’unitaria vita su cui fioriva, con originali e personalissimi toni, la varia luce della poesia. E in effetti quel genere critico che è la storia della letteratura non andava incontro a una rivoluzionaria distruzione, all’opposto, trovava nel chiarificarsi dei suoi limiti, un consolidamento e una più robusta fondazione. Del resto, trasferendo la questione dal piano teoretico a quello didascalico, il Croce non mancava di fare le più ampie concessioni alle esigenze unitarie, con il riconoscere che l’opera da lui pubblicata aveva il carattere non di una storia ma di una semplice raccolta di saggi: Per una vera e propria «storia» del periodo da me indagato, occorrerebbe una più giusta proporzione tra le parti rispettivamente dedicate ai varî scrittori, con l’esclusione totale o quasi di parecchi di essi nell’esame dei quali sono giunto a conclusioni affatto negative [...] e, per contro, un ampliamento e svolgimento degli accenni che ho dati qua e là sulle correnti spirituali e sugli avvenimenti storici ai quali in qualche modo si congiungono i varî scrittori; donde si otterrebbe un ordinamento e aggruppamento più perspicuo, e la possibilità di assegnare il loro posto, epigrammaticamente, a molti scrittori minori o minimi, che la forma del saggio induceva a trascurare24.

Dove, nel pieno rispetto all’individualità della poesia e al principio teoretico dell’incomunicabilità delle opere d’arte in quanto tali, venivano largamente riconosciuti tutti quelli che erano i naturali diritti della storia letteraria nel suo pratico attuarsi e configurarsi. Del 1917 è il saggio sul Carattere di totalità dell’espressione artistica, che segna un nuovo approfondimento dell’estetica crociana. Superando quel che 23 24

Id., De Sanctis e l’hegelismo cit., p. 394. Id., Licenza cit., pp. 253-254.

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poteva contenere di ancora troppo individualistico il concetto lirico dell’arte, il Croce precisava che nell’intuizione pura il singolo palpita della vita del tutto e il tutto nella vita del singolo: «ogni schietta rappresentazione artistica è se stessa e l’universo, l’universo in quella forma individuale, e quella forma individuale come l’universo»25. L’equivalente modificazione che da questo ulteriore sviluppo della teoria estetica veniva a ripercuotersi sulla storiografia letteraria, è rappresentata dall’importante saggio dello stesso anno sulla Riforma della storia artistica e letteraria, nel quale toccava la sua fase più acuta ed esasperata la proposta circa il carattere individualizzante e monografico (e si direbbe in questo caso addirittura monadistico) della storia letteraria. Qui il Croce non esitava ad affermare che «la vera forma logica della storiografia letterario-artistica è la caratteristica del singolo artista e dell’opera sua, e la corrispondente forma didascalica, il saggio e la monografia»26. Si giungeva in tal modo a una precisa negazione della possibilità di una storia letteraria, la quale, respinta perfino dal piano didascalico (secondo che sembrava di essere autorizzati a interpretare il pensiero del Croce) veniva a ridursi a un mero lavoro di esterna compilazione, a un fatto esclusivamente editoriale, e cioè a una raccolta di saggi su autori di una determinata nazione. Questa ferma (e polemica) conclusione si poneva con tanto maggiore sicurezza in quanto, con l’affermazione del carattere di totalità dell’espressione artistica, risultava ormai salva quell’unità e quell’affiatamento dei vari artisti fra di loro che prima un po’ artificiosamente (almeno in apparenza) veniva raggiunta nella sottintesa realtà del mondo della storia, in cui, come in uno sfondo comune, viveva ed era criticamente situato l’artista. Eliminato questo apparente residuo dualistico, non rimaneva se non l’artista, in cui si assommava tutta la vita e tutta la storia, fatta però intima all’opera d’arte e non più semplice presupposto di essa, sostanza dunque della poesia, intonata e interpretata con un accento inconfondibile e irrepetibile. Così il critico, pensando l’opera d’arte, doveva pur pensare in essa tutto l’universo, e avvertire in quella singola forma tutta la storia. Dichiarava il Croce: Contemporanei, affini, opposti del poeta suoi precursori più o meno parziali e remoti, la vita morale e intellettuale del suo tempo, e quella su su dei tempi che la precessero e prepararono, queste e le altre cose tutte sono presenti (ora espresse ora sottintese) al nostro spirito, quando rifacciamo la dialettica di una determinata personalità artistica27. 25 B. Croce, “Il carattere di totalità della espressione artistica”, in «La Critica», XVI (1918), pp. 129-140, ristampato in Nuovi saggi di estetica cit., pp. 123-138. 26 B. Croce, La riforma della storia artistica e letteraria, in Nuovi saggi di estetica cit., p. 173. 27 Ivi, p. 177.

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Questa dichiarazione non è però detto che concedesse di parlare senz’altro di una possibilità, anche solo sul piano didascalico, della storia letteraria. Sulla base delle nuove posizioni raggiunte dall’estetica crociana, non si vede infatti come potesse essere pensata una storia della letteratura, pur soltanto estrinsecamente unitaria, poiché, ad aggravare le precedenti esplicite dichiarazioni, interveniva, con imprevedibili conseguenze in ordine alla possibilità di una pratica esecuzione, un altro fondamentale principio elaborato dall’ultima meditazione estetica. Il carattere assolutamente eccezionale riconosciuto all’opera d’arte doveva infatti riflettersi nel carattere monografico attribuito alla storia della poesia. Nel nuovo rigore con cui veniva asserita tale concezione storiografica, deve essere riconosciuto l’intervento della nuova aristocratica concezione estetica, fondata sulla coscienza della grandezza quasi miracolosa della poesia, una coscienza altissima che faceva proclamare, con l’estremo valore, anche l’estrema rarità della poesia stessa. Se la poesia è cosa talmente rara, allora, a parte la stessa ragione filosofica contrastante alla concezione di una storia della poesia come continuità e sviluppo, sarà inevitabile che risulti anche praticamente impossibile l’esistenza di una storia della poesia. La stessa semplice unità didascalica di essa si trovava infatti, sotto il fuoco di una simile posizione estetica e storiografica, a doversi frantumare in una rara vicenda episodica priva di compattezza. Così la storia della poesia italiana, al limite, veniva a configurarsi come un’esigua raccolta di pochi saggi monografici. Lo stesso atteggiamento era mantenuto nell’Aesthetica in nuce (del 1928), dove si rinnovava la polemica contro le storie sociologiche dell’età romantica, e ne veniva indicato l’unico possibile superamento nella storia individualizzante. Così, a quanti in un simile tipo di storia scorgevano il pericolo di isolare in una chiusa monade il poeta, e reclamavano pertanto che si tenesse continuamente presente il legame che fra uno scrittore e l’altro corre, il Croce ricordava: è chiaro che il nesso è dato da tutta la storia umana, della quale le personalità poetiche sono parte e parte assai cospicua [...] e, appunto perché sono parte, non debbono sommergersi e perdersi in quella storia, cioè nelle altre parti di quella storia, ma mantenere il loro proprio e originale rilievo e carattere28.

Si trattava in sostanza della stessa posizione di prima: attenuata sì nel suo tono polemico, ma non certo modificata, dal richiamo a quel legame,

28

Id., Aestetica in nuce in Ultimi saggi, Bari: Laterza, 1935, p. 31.

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unicamente pensabile e solamente giustificabile, capace di raccogliere in unità poeti e artisti. Tuttavia, l’anno dopo, il Croce ritornando, in un articolo Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia, sul problema della possibilità di costruire una storia letteraria, spiegava la sua precedente affermazione e ne denunziava il valore polemico: La medesima verità della storia individualizzante è stata affermata col detto che la propria forma della storia della poesia è il «saggio» o la «monografia»: il qual detto è da intendere in senso ideale e non da fraintendere in estrinseco e materiale, quasi si voglia comandare, al modo delle vecchie istituzioni oratorie, un particolare genere letterario di esposizione. La convenienza didascalica e il gusto artistico serbano e debbono serbare la loro piena libertà nell’aggruppare e disporre la trattazione delle opere per partizioni di tempi o di popoli o altre che sieno, e anche di avvicinamenti tra storia della poesia e altre forme di storia in uno stesso libro, ossia in uno stesso organismo letterario; purché, nell’intrinseco, la trattazione della poesia si conformi alla natura di questa e ne rispetti l’autonomia, e in tal significato ideale sia sempre monografica29.

La possibilità di una narrazione continuata della vicenda letteraria come unità didascalica, era qui di nuovo esplicitamente riconosciuta. Ed è interessante notare come in queste stesse pagine il Croce ricordasse che accanto alla poesia ci sono altre opere alle quali si sente che mal si applicherebbe la qualifica di «poesia», che si vuol serbare per quelle trasportanti di là dai pensieri e dagli interessi particolari; e tuttavia quelle opere hanno la loro propria armonia e bellezza30.

Un’armonia e bellezza in virtù delle quali, secondo il critico, quelle opere potevano entrare nella storia letteraria e prendere posto accanto alla grande poesia. Se quest’ultimo motivo, di un’assai grave portata storiografica, non appariva ancora adeguatamente sistemato, definitiva risultava ormai, attraverso tanta ansia di ricerca e di controllo, l’affermazione dell’ideale carattere monografico della storia letteraria e della sua possibile unità didascalica. Un’ulteriore verifica dei fondamenti e dei limiti della storia letteraria veniva finalmente sviluppata nel volume La Poesia, apparso nel 1936. Il carattere monografico, che assume la storia della poesia quando s’identifichi col giudizio di ciascun’opera di poesia, è da intendere nella sua Id., La storiografia letteraria e artistica in Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono cit., vol. II, p. 187. 30 Ivi, p. 193. 29

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essenza logica e non da fraintendere [...] con le forme letterarie didascaliche delle trattazioni di storia della poesia, dove è consentita la maggiore libertà31.

Così veniva definitivamente respinto il concetto di progresso nella sua diretta applicazione alle singole forme di attività spirituale (ed era un’estensione che valeva a chiarire anche meglio l’incapacità di tale concetto ad essere riferito alla poesia):

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Il generale progresso storico non è progresso delle categorie e forme spirituali, che sono le sue operatrici e tali non sarebbero se non avessero costanza e non generassero sempre definite e concrete bellezze, verità, atti morali; ma è il moto dello spirito nella dialettica di tutte le sue forme32.

Ma soprattutto importante, in queste pagine, risultava la sistemazione del concetto di letteratura, che contribuiva a meglio determinare l’idea crociana della storia letteraria: Il giudizio della poesia ha un’unica indivisibile categoria, quella della bellezza, e, secondo essa, denomina le opere, che la fantasia rievoca, «belle» o «brutte», e le discerne in «pienamente o poeticamente belle», e in «letterariamente belle», e queste ultime discerne, secondo il vario contenuto sentimentale, intellettuale o volitivo che esse rivestono di bella forma, in opere di effusione, di prosa o didascalica, di oratoria, di letteratura amena e di «arte per l’arte»33.

Certo, l’introduzione del concetto di letteratura non doveva modificare nei suoi fondamenti teoretici la posizione crociana, poiché, se la poesia restava ancora, nella sua assoluta originalità, estranea a ogni ritmo progressivo, anche la letteratura, che veniva a collocarsi accanto ad essa, manteneva l’identica esigenza di una storia idealmente monografica rifiutando come quella di piegarsi all’idea di progresso, a quel modo che si rifiutava la storia di ogni attività umana che, appunto perché umana, non può non riuscire sempre nuova e personale. Tuttavia la sistemazione del concetto di letteratura si risolveva in una più concreta giustificazione della riconosciuta possibilità di una storia letteraria come organismo didascalico. La rara e saltuaria collezione di monografie a cui, nel saggio del 1917, sembrava ridursi la storia letteraria si modificava ora in una serie ininterrotta, in una narrazione 31 32 33

Id., Il giudizio estetico come storia della poesia, in La Poesia, Bari: Laterza, 1936, p. 133. Ivi, p. 132. Id., La bellezza unica categoria del giudizio estetico, in La Poesia cit., p. 116.

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continua, dove, accanto ai grandi poeti, si collocavano i minori e i minimi, ognuno con il suo particolare dono di bellezza, e ognuno nota distinta e nuova di un complesso e vario paesaggio. La storia letteraria nel trasformarsi da storia della poesia in storia della poesia e della letteratura, storia cioè delle opere da giudicarsi in base all’unica categoria della bellezza che distingue le opere in poeticamente belle e in letterariamente belle, estendeva, in una rigorosa sistemazione critica, i propri limiti e, nel più fitto e vario tessuto che ne derivava, si aprivano, su un piano didascalico, più reali e giustificate possibilità di approfondite delineazioni e di complessi raggruppamenti. Mentre il Croce, nel travaglio speculativo di un quarantennio nutrito di una diretta esperienza critica, veniva fissando alcuni punti fondamentali relativi al problema della storia letteraria, accanto a lui e, a un certo momento in polemica con lui, Giovanni Gentile, con più episodica riflessione, offriva il proprio interessante contributo al difficile argomento critico. La meditazione gentiliana sul problema della storia letteraria trova il suo primo documento proprio nell’anno iniziale del nostro secolo, e precisamente nelle pagine scritte in margine al libro di un francese, l’Introduction à l’histoire littéraire del Lacombe34. In questa recensione, pubblicata sul «Giornale storico della letteratura italiana»35, il Gentile tentava alcuni interessanti assaggi sul tema della storiografia letteraria, contribuendo così a orientare in questo campo la critica italiana, dimentica, per le ricerche monografiche, filologiche e storiche, dei suoi più vitali motivi. La prima questione toccata dal recensore si appuntava sui limiti del termine letteratura. Alla proposta del Lacombe, scaturita da una legittima esigenza di ridurre il significato della parola sì da comprendervi solo alcune opere, e precisamente quelle nate con il proposito di «communiquer à autrui une émotion désintéressée», trascurando quelle altre determinate dallo scopo di enunciare una verità o di esprimere una regola, un consiglio o un ordine, il Gentile giustamente opponeva come «dal punto di vista dell’espressione» tale differenza si rivelasse priva di fondamento. Non sulla destinazione esterna del fatto da definire occorreva in realtà basarsi, secondo il Gentile, ma sul fatto stesso, che ha nella propria natura il suo vero fine, il fine interno, o costitutivo, come era detto da Kant. Perciò egli credeva di potere concludere che P. Lacombe, Introduction à l’histoire littéraire, Paris: Hachette, 1898. . 35 «Giornale storico della letteratura italiana», XXXVI (1900), pp. 194-204. L’articolo fu ristampato nel vol. G. Gentile, Frammenti di estetica e letteratura, Lanciano: Carabba, 1920, pp. 89-109. 34

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dal momento che nella espressione le categorie dello spirito si unificano e vana apparisce la considerazione del fine esterno dei vari fatti espressivi, più probabile sembra l’opinione che nulla esca dal campo della letteratura36.

Alla riduzione arbitraria ed estrinseca del concetto di letteratura proposta dal Lacombe, veniva contrapposta, e sia pure sotto forma di un provvisorio suggerimento, la più ampia estensione del concetto stesso. Tuttavia, riportando lo sguardo sul fatto essenziale dell’espressione, era additato al compito del critico, sulla scorta dell’esperienza desanctisiana rinnovata dal Croce, una zona operativa ben individuata e circoscritta. Un altro motivo di dissenso avanzava il Gentile a proposito della distinzione introdotta dal Lacombe fra «avvenimenti» e «istituzioni» (i primi unici e individuali, le seconde comuni e generali), e della sua interpretazione dell’individuo come avvenimento che assomma le precedenti istituzioni e ne provoca di nuove. In tal modo Racine sarebbe avvenimento, in quanto sorpassa i contemporanei per la finezza psicologica, e istituzione in quanto ripete i suoi predecessori. Contro questo arbitrario distinguere, il nostro filosofo affermava il valore dell’individuo quale sorgente unica di storia ed unico soggetto della storia. La storia è un organismo di avvenimenti, che, pur presentando allo sguardo dello studioso, in questo e in quel gruppo, evidenti caratteri di somiglianza [...] sono pur sempre questi e questi altri singoli individuati avvenimenti, in cui e per cui, più o meno variamente determinate, le istituzioni hanno la loro concreta esistenza37. E su questo stesso principio egli ritornava a proposito del problema della ricerca delle cause degli avvenimenti letterari, affermando che è l’individualità che crea la storia, «perché l’arte crea e promuove il gusto artistico, non viceversa»38. Così l’originale creatività del poeta era ancora ribadita nella dichiarazione che «l’eccellenza dell’arte non si può commisurare a ciò che vien dall’arte rappresentato, ma al modo col quale l’arte lo rappresenta»39, respingendo dunque come gratuito ogni tentativo di assumere il contenuto psicologico dell’opera d’arte quale indice del progresso artistico. Erano, questi, semplici cenni che, se pure non sistemati in una rigorosa impostazione, giovavano, con il loro agile tono di convinta polemica e di limpida certezza

36 37 38 39

G. Gentile, Il metodo della storia letteraria, in Frammenti di estetica e letteratura cit., p. 95. Ivi, p. 98. Ivi, p. 102. Ivi, p. 105

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fondate sulla migliore tradizione estetica, a sgombrare il terreno dagli errori più grossolani in cui era impigliata la cultura francese, e a scuotere altresì la nostra cultura, che neppure si poneva né sospettava l’esistenza di tali problemi. Un concetto più sistematico della storia artistica incomincia a profilarsi nel Gentile con le pagine, pubblicate sul «Giornale storico» del 1909, dedicate alla terza edizione dell’Estetica crociana40. In questa recensione il Gentile, ponendo in rilievo i ritocchi introdotti dal Croce in senso idealistico e immanentistico, con riguardo più alla dottrina filosofica generale che alle idee fondamentali dell’estetica (c’era già stata precedentemente una dichiarata riserva contro la divisione dei due gradi crociani, l’estetico e il logico, in favore dell’unica attività che è lo spirito41), rilevava, a proposito dell’avvenuta attenuazione della teoria dei cicli, come in realtà non fossero compatibili più sorta di progressi, «quasi attributi di attività storicamente differenti». E veniva a formulare questo concetto della storia letteraria: La storia dell’arte, in quanto mera arte, è la storia di un momento astratto dello spirito; e quindi essa stessa, un’astratta possibilità: la quale non può prendere corpo e concretezza se non facendosi storia dello spirito nella sua pienezza dal punto di vista estetico, o con particolare interesse estetico. E tale è sempre in realtà ogni storia letteraria e artistica, e però è suscettibile di organizzarsi, secondo un principio di progresso42.

Era qui già contenuta sostanzialmente la posizione, nei riguardi della storia letteraria, che doveva poi essere ripresa nella Filosofia dell’arte, dove tuttavia essa si affermerà con motivi di acuta polemica anticrociana e nel contesto dell’intero sistema filosofico. Dopo circa un ventennio il Gentile doveva infatti scrivere: l’arte come pura e astratta arte, mera soggettività ideale, non è niente che sia attuale, e che si possa comunque cogliere e trattare come materia di critica o di storia. L’arte è la forma di un contenuto; è il sentimento che ha una sua esistenza determinata come soggetto d’un certo mondo; è il sentimento di una personalità che, come corpo e come pensiero, racchiude in sé tutto. Senza questa determinatezza che gli viene dal contenuto che risolve in sé e che torna ad esprimere da sé, il sentimento è «Giornale storico della letteratura italiana», LIII (1909), pp. 160-166, ristampato in Frammenti di estetica, cit., pp. 136-152. 41 Cfr. M. Campo, “La filosofia dell’arte di G. Gentile”, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», luglio-ottobre 1931, pp. 333-334. 42 G. Gentile, rec. a B. Croce, Estetica, 3a ed. cit., p. 165. 40

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un’unità schematica e morta. La sua vita è nel ritmo, nel circolo della sintesi spirituale, in cui esso viene ad essere un certo sentimento e come tale una certa personalità (Dante, Petrarca, Ariosto, Goethe, Manzoni): il sentimento d’un mondo determinato. Questo mondo è autocoscienza, pensiero consapevole, filosofia; ebbene, la storia di questa filosofia, evidentemente, fa corpo con la storia dell’arte. Nella quale, a malgrado d’ogni proposito e pregiudizio dottrinale, la filosofia se si caccia dalla porta rientra dalla finestra. Respinta nello sfondo, bisogna che quivi essa rimanga a render possibile che la luce si concentri sulle figure dell’arte, che ne risaltano. Relegata nelle valli, lascia indi elevarsi le alte montagne sulle cui cime brilla la luce del soggettivo sentimento. [...] La storia perciò è storia del pensiero; ma può esser guardata e costruita con interesse artistico, ossia mettendo in rilievo il sentimento che a volta a volta proruppe nello svolgimento dello spirito, a rianimarlo e ravvivarlo; ma è sempre la medesima storia, l’unica realtà che vi sia43.

In questa idea della storia letteraria si verificava, rispetto alla posizione crociana, un evidente spostamento prospettico: anziché dall’individualità dell’artista, il Gentile muoveva dall’unitaria e totale vita dello spirito di cui poneva in rilievo il prorompere del sentimento artistico. La storia della letteratura riacquistava così la sua unità, ma tuttavia senza evitare il pericolo di compromettere l’assoluto significato della poesia. Soggetto della ricerca non era più infatti l’arte, ma la vita dello spirito che nella sua fondamentale importanza, nel suo porsi come inevitabile ed essenziale punto di attenzione, poteva assai facilmente (come del resto stanno a dimostrare i saggi di critica letteraria del Gentile) indurre nell’errore di una storia del pensiero puro e semplice, una storia in cui la realtà della poesia fosse sommersa dalla realtà del pensiero. La teoria del Gentile, sebbene destinata a non avere nell’ambito della cultura letteraria quell’influenza propria della speculazione crociana, contribuiva a richiamare sul motivo dell’unità della storia letteraria, e ad avviare questo genere critico verso una concezione in cui fosse possibile parlare di un organismo in un senso non meramente didascalico. Sul terreno della discussione del problema della storia letteraria scendevano, in questi primi decenni del Novecento, a offrire la loro proposta, accanto al Croce e al Gentile, altri meno filosoficamente agguerriti, ma pur capaci di testimoniare, con le loro empiriche soluzioni, delle esigenze e degli orientamenti propri di tale settore della cultura italiana. È del 1914 un articolo del Borgese, Il metodo nella storia dell’arte, pubblicato sulla rivista «Il

43

Id., La filosofia dell’arte, Milano: Treves, 1931, pp. 289-290.

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Conciliatore»44. L’analisi condotta in queste pagine perveniva conclusivamente alla denuncia nel pensiero crociano di un’evidente oscillazione:

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in alcuni momenti il Croce s’è lasciato soverchiare da un’esigenza che è in lui come in ogni uomo di pensiero, e ha tentato con compromessi d’ogni genere di salvare in qualche modo la possibilità di una storia dell’arte. In altri momenti s’è lasciato guidare dalle esigenze polemiche del suo sistema, che – rigidamente interpretate – lo costringerebbero a negare ogni storia dell’arte45.

Ed era, questa, una sentenza inaccettabile per la volontà che la ispirava di porre sotto atto d’accusa la ricerca del Croce, una ricerca di cui sfuggiva completamente al Borgese l’intima coerenza mantenuta nell’ansioso tentativo di chiarire un problema di soluzione difficilissima, e tale non soltanto per la necessità di salvaguardare la compagine di un sistema, ma proprio per l’urgenza di rispondere a fondamentali istanze, universalmente valide, che quel sistema poneva in rilievo. E in effetti la proposta del Borgese di accogliere l’idea di una piena e integrale storia dell’arte, in tutto simile alle altre storie, svolgentesi in un unico processo dialettico, e nella quale hanno una loro funzione, logicamente deducibile, l’erudizione e il gusto, la prova esterna e l’analisi intima, il contenuto e la forma, l’ispirazione e la tecnica, la tradizione e il genio46,

tutt’altro rappresentava, in sede logica, che una soluzione e, semmai, poteva soltanto valere come semplice suggerimento di una possibilità didascalica, la quale del resto rimaneva pur sempre superficialmente ingiustificata e aperta al rischio di disperdere l’assoluta novità della poesia nel tentativo di istituire un rapporto dialettico fra le opere d’arte. Senza contare che quella sentenza sulla presunta oscillazione del pensiero storiografico crociano si risolveva in un totale fraintendimento dello stesso pensiero, confondendo quello che per il Croce era ben distinto, e cioè l’ideale direzione della ricerca e il pratico cammino da tenersi per raggiungere la meta di essa. Una più concreta attenzione rivolgeva al problema della storia letteraria il Galletti, in uno studio su Il Romanticismo germanico e la storiografia letteraria in Italia, pubblicato sulla «Nuova Antologia» del luglio 1916. La questione 44 Ristampato con il titolo L’unità nella storia della poesia e delle arti, in G.A. Borgese, Poetica dell’unità, Milano: Treves, 1934, pp. 73-141. 45 Ivi, p. 133. 46 Ivi, p. 139.

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veniva affrontata anche da parte del Galletti con spirito polemico, sebbene si trattasse di una diversa e più nobile polemica, occasionata da motivi di nazionalistica e umanitaria idealità di ispirazione antigermanica, secondo che dettavano le circostanze storiche degli anni in cui egli scriveva. La critica al concetto di svolgimento era tuttavia fondata su ragioni di carattere scientifico:

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La teoria dell’Entwickelung applicata alla storia letteraria implica due principi: quello di rispondenza o connessione ideale dell’artista col tempo e la società in cui visse e quello di progresso. La prima di queste idee non può reggersi che su un’interpretazione o mistica, o naturalistica della storia e tra l’idea di progresso e quella di genialità estetica vi è contraddizione in termini47.

La discussione del problema, appoggiata sull’esame della storiografia desanctisiana e carducciana, concretamente si concludeva con questo bilancio storico e con questo avvertimento metodologico: Tant’è, la storia della letteratura italiana da quarantacinque anni in qua è rimasta ferma a questi schemi e legata a queste teorie. Di qui, dunque, dovrà prendere le mosse la nuova storiografia; ed essa, a mio credere, dovrà, innanzi tutto, discutere l’interpretazione data sin qui della teoria dello “svolgimento”, e considerare se non sia stata intesa come un mistico e provvidenziale realizzarsi nella letteratura e nell’arte dell’idea germanica e feudale che chi soccombe è sempre, anche spiritualmente, inferiore, e che ogni conflitto, sia d’armi o d’idee, è sempre un giudizio di Dio48.

A parte il motivo polemico che si riportava all’ideale battaglia tra germanesimo e latinità che la cultura sferrava allora parallelamente all’altra guerra cruenta combattuta sui confini della patria, era questo un contributo non disprezzabile offerto alla discussione di quegli anni, impegnata a verificare la legittimità della storia letteraria costruita sul concetto di svolgimento. Nelle pagine del Galletti il tradizionale modo di intendere lo svolgimento letterario veniva discusso nelle sue possibilità di applicazione e nei suoi concreti risultati, e così veniva sottoposta a una rinnovata critica la dogmatica resistenza di un concetto, fino allora messa in dubbio soltanto dal Croce.

A. Galletti, “Il Romanticismo germanico e la storiografia letteraria in Italia”, in «Nuova Antologia», CCLXVIII (1916), pp. 144-145. 48 Ivi, p. 153. 47

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Intanto Luigi Russo, in alcune sue pagine del 192049, al di là di ogni contingente polemica, svolgeva una serie di considerazioni in margine al saggio crociano sulla Riforma della storia artistica e letteraria. Accogliendo il germe fecondo racchiuso nella affermazione del Croce circa il carattere monografico della storia letteraria, il Russo innanzi tutto riconosceva la sicura conquista da essa rappresentata nei confronti del sociologismo intellettualistico e stilistico incombente sulla storiografia contemporanea: ma ne respingeva le conseguenze didascaliche, determinate, secondo lui, da una personale preferenza del Croce verso alcuni modi di trattazione della critica letteraria, e cioè il saggio e la monografia. Pertanto a sfuggire il pericolo, che derivava da questa posizione, di una storia frammentaria e atomistica, egli proponeva di intendere dinamicamente il vitale principio della storia individualizzante. Si trattava, insomma, di tenere presente che la critica non può esaurirsi nel dare la caratteristica di un artista e di un’opera d’arte (un metodo che nasconde il rischio di un’astratta applicazione di formule), ma trova la pienezza del suo esercizio solo quando riesca a tracciare la storia di una personalità, la quale non può mai, a sua volta, andare disgiunta dalla storia delle altre personalità che le vivono accanto: A me pare che non ci si possa limitare a indicare in un artista il capolavoro e poscia invitare il lettore a farne la conoscenza, solo munito di un nostro canone d’interpretazione; ma nostro compito sia quello di ricostruire la logica interna di quel capolavoro, rifarne l’intima storia; e che in questo caso la critica, in conclusione, sia quella che deve essere: storia, cioè, della personalità concreta del poeta nel suo farsi, che è quanto dire storia dello spirito universale nel suo perpetuo individuarsi50.

Alla luce di queste considerazioni si spiegavano, fra l’altro, le analisi di cui s’era giovato il De Sanctis, non come un mero esercizio di carattere didascalico, ma come una ricostruzione essenziale in cui veniva a riflettersi volta per volta il cosmo del poeta. Così, proseguendo nel suo esame, il Russo osservava: Le opere d’arte, essendo intuizioni individuali, originali, sono anche inclassificabili. S’intende però, che esse sfuggono alle astratte classificazioni, non già a quella genetica e concreta classificazione, che non è poi classificazione, e che si chiama Storia. Se una piccola poesia è esteticamente pari ad un poema; nella storia ciascuna opera d’arte prende il posto che L. Russo, Lo svolgimento dell’estetica crociana, ristampato nel volume dello stesso autore Problemi di metodo critico, Bari: Laterza, 1929, pp. 122-127. 50 Ivi, p. 124. 49

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le spetta, da sé, quello e non altro, e la ballatetta di Guido Cavalcanti e la Divina Commedia si disporranno idealmente nella storia nel loro grado, se l’una è il sorriso breve di un’anima, e l’altra è il compendio della vita di un millennio dello spirito umano51.

Giovandosi dell’esperienza della filosofia gentiliana, senza tuttavia rinunziare alle ferme conquiste del Croce, lo studioso poteva recare al problema qualche utile chiarimento. Veramente, anche qui, a voler parlare di una storia della poesia in senso stretto, tenendo presente la verità affermata in quegli anni dal Croce che la grande poesia è cosa molto rara, restava aperto il varco all’insinuarsi di una storia non già della poesia, ma dell’intera vita dello spirito. Si affacciava insomma l’inconveniente di dovere percorrere ampie valli e distese (se vogliamo sfruttare un’immagine che sarà poi usata dal Gentile) per giungere a poche e rare vette, e di indugiare in tali pianure, dimenticando o rendendo comunque sproporzionata la salita sulle cime. E tuttavia la soluzione suggerita dal Russo appariva meno indeterminata di quella che era stata e di nuovo sarà la proposta gentiliana. La sua esperienza di critico e la sua fondamentale ortodossia nei confronti del pensiero crociano valevano a rendere abbastanza concreta la sua idea di dinamicizzare il procedimento individualizzante della critica, sì da offrire più chiare possibilità a una strutturazione unitaria del libro di storia della letteratura. Nel gracile diagramma segnato dalla discussione sulla storiografia letteraria, merita finalmente di essere ricordata quale momento più acuto (per l’infittirsi del colloquio più che per il vigore del suo accento), la serie di articoli pubblicati, nel quadrimestre dal settembre al dicembre 1928, sulla «Fiera letteraria». L’occasionale responsabilità del dibattito era offerta da un articolo del Titta Rosa, in cui dalla constatazione che esiste un linguaggio proprio allo Stil nuovo, un altro comune ai petrarchisti del Cinquecento e altri ancora relativi ai vari movimenti letterari, si veniva a sostenere la possibilità di pensare, contro le conclusioni crociane, una storia capace di risolversi, oltrepassando l’ambito della considerazione monografica, nell’unità scaturita da quel flusso comune in cui si ritrovano i singoli artisti e le loro opere52. L’empirica soluzione del giornalista non intaccava minimamente la complessità del problema, poiché l’unità di linguaggio, nei termini in cui si trovava a essere posta, era destinata o a rimanere una pura astrazione, una categoria avente un semplice valore didascalico, o, quando si fosse voluta sto-

Ivi, pp. 126-127. G. Titta Rosa, “Storia della poesia come tecnica”, in «La Fiera letteraria», 30 settembre 1928. 51 52

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ricizzare, a dissolversi nella molteplicità delle concrete personalità artistiche. La difficoltà contro la quale si imbatteva la proposta del Titta Rosa veniva sorpassata da Luigi Volpicelli, con il soccorso dell’idealismo attuale («sola ad essere è la concretezza dell’atto spirituale, il quale si pone come totalità, come piena ed assoluta umanità»53), ma con le relative conseguenze proprie di questa posizione. Pertanto Domenico Bulferetti interveniva richiamando, contro ogni confusionario tentativo, alla poesia come all’ideale soggetto da tenersi costantemente presente: Il soggetto della storia della poesia non è una parola, o un verso, e neppure un intero componimento, e neppure un poeta, e neppure la poesia di tutta una nazione, e neppure la raccolta di tutte quante le poesie conosciute, ma è la poesia, cioè un universale [...]. Il quale universale si determina nella forma, particolare della poesia inglese o del Re Lear o d’una paroletta pronunziata da Cordelia54.

Era in sostanza l’esigenza crociana, anche se espressa in altro modo, e cioè ancor sempre la richiesta di cogliere nel suo individualizzarsi la poesia, partendo non già dalla universale vita dello spirito, ma proprio dalla precisa ed essenziale realtà della poesia. Di tutto questo dibattito condotto sulla Fiera letteraria, per tralasciare altri articoli meno significativi55, converrà soprattutto ricordare un’assai intelligente presa di posizione di Domenico Petrini, la sola che riuscisse davvero a imporsi per il sicuro distacco dagli schemi ormai tradizionali. Questo critico pensoso, fondandosi su un nuovo concetto, schiettamente antiromantico, della storia dell’arte (che sarebbe stata fino allora troppo legata al mito dell’unità di arte e di vita, in ordine alla tendenza a cogliere nella poesia il motivo della passione), proponeva di concepire tale storia come storia della forma. Solo così la storia dell’arte avrebbe potuto ritrovare la propria unità: E come storia della forma, del gusto, in un significato strettamente formalistico, nei nessi stilistici che corrono da artista ad artista ritroverà non la sua universalità che è nel concetto stesso di arte, ma la sua unità didascalica, L. Volpicelli, “False storie”, in «La Fiera letteraria», 7 ottobre 1928. D. Bulferetti, “L’universalità della storia”, in «La Fiera letteraria», 21 ottobre 1928. 55 Sono dovuti ad Alberto Consiglio e Lino Genovese (nel numero del 4 novembre) e a Marcello Brenta (nel numero del 2 dicembre). Su questo numero apparve anche una breve nota di Lionello Venturi, “Il concetto di gusto”. Il Venturi doveva ritornare sulla questione più tardi, dopo le ultime affermazioni del pensiero del Croce, dichiarando l’equivalenza, nel campo delle arti figurative, della propria distinzione «arte» e «gusto» con quella crociana di «poesia» e «letteratura» (cfr. L. Venturi, Histoire de la critique d’art, Bruxelles: Editions de la Connaissance, 1938, pp. 28 ss.). 53 54

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tanto più valevole dell’astratta unità del romanticismo di storia dell’arte, inserita sulla storia dello svolgimento morale della nazione56.

Il Petrini riprendeva con estrema chiarezza il problema, giovandosi delle ferme conquiste della precedente discussione. La storia letteraria non poteva evidentemente, come egli d’accordo con il Croce riconosceva, pretendere a un’intrinseca unità, a una universalità recuperabile soltanto nel concetto stesso di arte. L’unica unità concessa alla storia letteraria era dunque una unità didascalica. Ora, il merito del Petrini stava appunto nel cercare, dopo di avere scartato l’illusoria possibilità di una storia che avesse quella unità che solo l’arte in universale può avere e che pure la storia letteraria avrebbe ove la sua realtà si riducesse ad una poesia unica, di fondare una unità didascalica che non si riducesse a un’arbitraria ed esteriore posizione di rapporti e di legami, ma che trovasse la propria giustificazione in una problematica elaborata con speculativo rigore, in un sistema di concetti «funzionalmente» orientati a promuovere una precisa struttura. Senonché il Petrini riponeva poi questa unità nella trama storica offerta dal gusto, che era concetto troppo rigido e limitato, senza riuscire perciò a ricavare tutte le possibili conseguenze, deducibili dalla sua coraggiosa presa di posizione. La discussione si prolungava intanto su altre riviste. Così, si potrebbe ricordare un intervento del Citanna, in un articolo del 1929, che non superava l’alternativa delle soluzioni affacciate dai due rappresentanti dell’idealismo italiano, limitandosi a ripetere la possibilità riservata allo storico genericamente, davanti all’artista, di fare la storia «del suo formarsi spirituale, della sua mentalità, di descrivere il carattere e la natura dei suoi affetti e stati d’animo»57. Ma non è concesso, e del resto neppure conveniente, dato il carattere poco impegnativo assunto da molti di questi interlocutori, fermarsi su ognuno di essi, e pertanto basterà qui avere segnato la linea della discussione nel suo andamento essenziale58. L’esperienza maturata attraverso queste discussioni concede di affrontare il problema della storiografia letteraria stabilendo un punto fondamentale: D. Petrini, “Gusto, tecnica, stile”, in «La Fiera letteraria», 18 novembre 1928. G. Citanna, “Il problema della storia letteraria e l’opera del De Sanctis” cit., p. 414. 58 Cfr. ora l’interessante volume di E. Cione, Dal De Sanctis al Novecento, Milano: Garzanti, 1941, che porta al problema della storia letteraria un contributo notevole, con l’intelligente precisazione di concetti e motivi storiografici. Si vedano in modo speciale i capitoli Arte, cultura e critica e Le storie dell’arte e della filosofia. Per la nostra proposta ci sembra soprattutto utile il capitolo Il periodizzamento storico e i concetti funzionali, sul quale converrebbe forse precisare sistematicamente quanto diciamo sul valore «didascalico» della storia letteraria. 56 57

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e cioè di accogliere la richiesta crociana di una storia rigorosamente individualizzante e solo didascalicamente unitaria (ma didascalica non è poi ogni forma storiografica?). D’altra parte non si dovrà per questo respingere necessariamente l’esigenza unitaria affermata dall’idealismo gentiliano. Se meta orientatrice della narrazione storica non può essere, come è evidente, se non l’opera d’arte considerata monograficamente con quel rispetto e rilievo voluto dal Croce, principio di essa dovrà però essere l’attenzione all’unitaria vita dello spirito, dalla quale l’opera d’arte emerge come impreveduto, anche se non improvviso, miracolo. Tuttavia, a evitare il pericolo (che è implicito nella proposta del Gentile) di smarrire quella meta nella vastissima considerazione dell’intera realtà spirituale (né si dà salvezza discorrendo di universalità dello spirito esaminato nel suo farsi arte: ché non verrebbe modificata in sostanza la cosa, almeno sul terreno pratico, confluendo lo spirito tutto nella sua totalità entro l’opera d’arte) è necessario che l’esame di quella realtà sia accolto in una speciale determinazione di essa. Muovendo dall’universalità della vita si tratta insomma di fissare (ed è una operazione, questa, che non può avere altro valore che quello di una scelta di natura didascalica, legata soltanto alla discrezione e all’iniziativa dello storico, al di fuori di ogni apodittica legge) un unitario incontro di attività, un confluire di spiritualità, una zona capace di giustificare, come più immediato ambiente di cultura, quella specifica attività estetica la cui storia si dovrà poi tracciare alla luce dell’unica categoria della bellezza e in uno sviluppo rigorosamente monografico, secondo l’irrinunciabile impostazione crociana. Entro questi confini, concretamente, nasce la storia letteraria. Se invero tutta la multiforme attività spirituale converge come presupposto possibile alla formazione di un’opera d’arte, è chiaro che questa astratta possibilità si determini in limiti più ristretti e controllabili, suscettibili inoltre, sull’area del più esteso mondo della storia, di venire isolati in un complesso, in un geometrico luogo di concorrenza del vasto e diverso travaglio operantesi intorno all’attività estetica: un luogo ideale che risponde appunto al concetto di civiltà letteraria. Tale concetto (più che quello di gusto, troppo limitato, proposto da qualcuno) appare come l’unico valido a costituire la storia della letteratura. Sul fondamento di questo criterio informatore, si verrebbe ad estendere lo sguardo dalla considerazione strettamente formale a una considerazione più larga, in cui potranno confluire elementi diversi della cultura e della vita morale, impostati sul tronco della vivente storia dello spirito, e raccolti entro il margine dell’immediata humus delle opere letterarie e poetiche, viste a loro volta nella conclusa storia della singola personalità artistica, stretta al suo tempo e insieme liberamente creatrice. Del resto, la storia della poesia finirebbe in tal modo con l’acquistare un’individuazione anche più

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retta. E l’inconveniente di accostare due realtà eterogenee (ma tuttavia non estranee) come sono la vicenda di una cultura letteraria e l’assoluto della poesia, trova un compenso nella formazione che ne consegue di uno sfondo, di un milieu (in senso beninteso diverso da quello tainiano), necessario per dare rilievo allo splendore dell’arte, poiché la narrazione dello svolgersi della civiltà letteraria di un’epoca, nella discontinuità che viene a introdurre l’incontro con l’improvvisa ed assoluta novità del capolavoro, condizionato ma non causato da quella, non farà che sottolineare maggiormente il valore dell’opera d’arte, e contribuire così al procedimento individualizzante della storia della letteratura. A questa discussione sulla possibilità e sull’ideale contegno della storia letteraria, si affiancò a un certo momento nella cultura italiana una particolare polemica, riguardante non più il problema teorico, ma il caso determinato della letteratura italiana. Passando oltre ogni dubbio circa la legittimità o meno di concepire unitariamente la storia letteraria e riesumando posizioni ormai sorpassate e lasciate cadere dalla storia, si pretese da parte di qualcuno di raccogliere in sintesi il significato della letteratura italiana. Incominciò il Papini con un articolo Su questa letteratura, pubblicato su l’inaugurale numero di «Pegaso» nel gennaio del 1929. Sul fondamento ideologico che il «particolare spirito d’una razza si rivela, più che altrove, nell’arte e specialmente in quell’arte più esplicita ed autobiografica ch’è la letteratura»59, lo scrittore fiorentino, dopo di aver fissato nel «sentimento fortissimo d’individualità» il tratto più rappresentativo della nostra indole, passava ad elencare i generi che soli uno scrittore italiano avrebbe, in conseguenza di quelle premesse, potuto trattare, i quali poi erano, con esito curioso, proprio i generi trattati dal Papini nella sua attività di letterato. Allo stesso modo, e sia pure con più accentuata responsabilità, il Borgese, in alcune pagine apparse nel primo numero della «Nuova Antologia» del 1930, si affaticava a cercare il «senso della letteratura italiana». La conclusione a cui l’autore, attraverso audaci funambulismi, credeva di potere arrivare era che «la letteratura italiana, la poesia italiana, è principalmente una rivelazione paradisiaca, una scoperta folgorata di grazia, un pellegrinaggio verso un santuario», e che insomma «il suo spirito dominante può essere chiamato trascendente e sacro»60. E la definizione sembrava data, anche questa volta, in funzione di certo carattere

G. Papini, “Su questa letteratura”, in «Pegaso», I (1929), p. 39. G.A. Borgese, “Il senso della letteratura italiana”, in «Nuova Antologia», CCCXLV (1930), p. 23. 59 60

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dell’esperienza di scrittore del Borgese. Sono, questi ricordati61, due tentativi che, alla luce del processo storiografico fin qui illustrato, appaiono (e tali già apparvero allora agli studiosi più attenti) stranamente sfocati, in quanto riassunzione di vieti motivi romantici, quelli appunto del «carattere» e del «senso» della letteratura di un popolo, della letteratura espressione della società, dello spirito del popolo, e della storia della poesia come storia etnica. Una riassunzione però del tutto ingiustificata, poiché in essi venivano ripresi atteggiamenti che, fecondamente attivi nell’età romantica, quando in effetti si rivelarono atti a contribuire allo svolgersi della storiografia letteraria, aiutando a superare la catalogistica erudizione settecentesca, apparivano ormai inutili, e anzi, adempiuta la loro funzione, di serio intralcio al sorgere di una più efficace storia letteraria, attenta a non soffocare ma a dare rilievo all’oggetto essenziale del proprio interesse, vale a dire la poesia. Senza contare che a questa incapacità di legittimarsi sul piano della teoria, per questi due tentativi di interpretazione, si aggiungeva un’assoluta ingiustificazione etica, in quanto, mentre gli uomini dell’età romantica si erano affannati dietro queste caratterologie per un’istintiva e nobile collaborazione al mito allora sorgente della nazionalità, che stimolava a cercare e stabilire con un’esasperata tenacia, gli inconfondibili caratteri e quasi la fisionomia e la personalità dei popoli, questi altri romantici decadenti, come faceva rilevare il Russo62, facevano valere in questa ricerca e in queste caratterizzazioni niente altro che un sentimento egolatrico dell’opera propria. Perciò questi tentativi perdono ogni significato critico sul piano storiografico, scadendo al livello di un mero episodio pratico, su cui non giova prolungare l’attenzione. Indipendentemente dai risultati teorici della discussione critica sulle possibilità e sui limiti della storia letteraria, ma senza dimenticarne le esigenze via via affacciate, venivano alla luce, mentre ancora si ripetevano le edizioni dei vecchi manuali e altri nuovi63 facevano la loro tarda apparizione, vari libri di storia della letteratura italiana, prima a più distanziati intervalli e poi con frequenza sempre più fitta. La quantità numerica, se fosse opportuno un calcolo statistico, confrontata al foltissimo elenco di saggi monografici condotti sulle singole personalità della nostra letteratura, apparirebbe relativamente scarsa, ma sempre notevole in relazione al diverso peso dei due 61 Altri analoghi e meno illustri se ne potrebbero ricordare. Si vedano citati in L. Russo, Elogio della polemica, Bari: Laterza, 1933, pp. 262 ss. 62 L. Russo, Il senso della letteratura italiana, in Elogio della polemica cit., p. 250. 63 Ricordo per esempio il Sommario della storia della letteratura italiana di A. Belloni e G. Brognoligo, Padova: Angelo Draghi, 1906, divenuto poi del solo Brognoligo, Sommario di storia della letteratura italiana, Napoli: Perrella, 1914.

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generi di critica e al lavoro svolto in questo territorio dal secolo precedente. Il ritmo di produzione di coteste opere è sufficiente a provare anche per questa via, il carattere della nostra età tutta impegnata in quell’attività critica che il Cesarotti considerava con felice intuito come la decima musa di un popolo. Come tentativo di sostituire alla sintesi del De Sanctis una nuova visione totale della letteratura nostra era concepita la Storia del Cesareo, apparsa agli inizi del secolo, nel 190864. Questa narrazione della letteratura italiana, come le successive, in fondo si giustifica solo nel clima storiografico rinnovato dal pensiero crociano, sebbene ad esso non possa venire addossata la responsabilità di questa eclettica composizione, contro la quale invero subito si levava il Croce stesso65. La storia letteraria del Cesareo nasce nel clima delle esigenze nuove poste dalla cultura idealista, come sta a dimostrare se non altro il bisogno che essa rivela di superare il tono squallido dei vecchi manuali in un’interpretazione più mossa dei particolari motivi e della fondamentale vicenda storica della letteratura. Eppure gli esiti a cui portava questo lavoro erano quanto mai contrari allo spirito e alla ortodossia idealista. Sebbene la sostanza critica fosse ripresa fondamentalmente dal De Sanctis, in realtà tale materia, a parte il fatto di riuscire per lo più diluita e fraintesa, veniva inquadrata e costretta in uno schema assolutamente estraneo alla mentalità desanctisiana. In un eclettico proposito di conciliazione dei nostri due massimi critici, il De Sanctis e il Carducci, determinata dall’ambiziosa volontà di superarne i limiti, il Cesareo imponeva alle interpretazioni del De Sanctis le false impalcature storiografiche del Carducci. E invero nell’introduzione veniva ripresa la teoria dei fattori e degli elementi storici con cui si tentava di spiegare naturalisticamente lo sviluppo della letteratura. Quali fattori della storia moderna, e dunque anche della letteratura moderna, erano considerate le due razze anticamente presenti in Italia, la celtica a settentrione, e la mediterranea «col suo gran pollone latino» nel mezzogiorno. Gli elementi o forze, dalla cui azione divergente o convergente dovevano scaturire la nuova storia e la nuova letteratura, finivano con l’essere il nazionale romano, il religioso cristiano e il naturalistico popolare. L’impostazione tipica del Carducci subiva, come si vede, un sensibile ritocco in seguito al rifiuto dell’elemento cavalleresco e dell’assunzione invece a fondamentale distinzione dei due sottogeneri dell’elemento nazionale carducciano, vale a dire il romano e il popolare. Né si deve credere che i dati di questa naturalistica G.A. Cesareo, Storia della letteratura italiana ad uso delle scuole, Messina: Muglia, 1908. Se ne veda la particolareggiata analisi in B. Croce, Conversazioni critiche, Serie II, Bari: Laterza, 19242, pp. 192 ss. 64

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analisi fossero lasciati in margine al racconto della vicenda letteraria: essi, al contrario, intervenivano continuamente a turbare l’esame dei singoli autori. Così, se Dante esprimeva la sintesi dei tre elementi, Leopardi, dopo uno svolgimento di secoli in cui variamente agivano e reagivano i tre fattori, ne rappresentava la totale negazione: «La poesia del Leopardi è la negazione di tutti [...]. Dopo di lui non restava che tornare al naturalismo o tacere»66. Allo stesso modo la letteratura post-leopardiana era studiata secondo una rigorosa catalogazione delle varie specie in cui si distingueva quel naturalismo indicato come l’unica via aperta alle nostre lettere (cattolico, domestico, scientifico, impersonale, sensuale, ideale), con l’intervento di una metodologia in cui continuava a operare la stessa mentalità astratta e antistorica. La storia del Cesareo appariva perciò come un ibrido connubio di motivi desanctisiani e di concezioni meccanicistiche di derivazione tainiana e carducciana, stranamente contrastanti con l’idealistico e dinamico senso della storia proprio del De Sanctis. Essa stava comunque a denunziare, nella sua genesi, un evidente bisogno di uscire dall’abituale forma della storia letteraria concepita come erudita e vocabolaristica compilazione, e nello stesso tempo finiva con il porsi, nel suo esito, come indice del disorientamento critico della nostra cultura ufficiale e accademica. Entro l’orbita dei nuovi interessi e delle esigenze nuove suscitate dall’attività critica del Croce, può in fondo ricondursi anche la Storia della letteratura italiana di un altro rappresentante della cultura universitaria, che pure amò proclamarsi e invero rimase sostanzialmente anticrociano, Alfredo Galletti. Tale storia, scritta in collaborazione con Arnaldo Alterocca67, non superava il proposito di un semplice manuale scolastico, tuttavia (malgrado i suoi forti limiti, determinati specialmente da un margine troppo largo di ossequio per le classificazioni in generi letterari, che rifrangono talvolta in un confusionario effetto d’insieme, soprattutto nel caso dei cosiddetti autori minori, l’unitaria personalità di un artista, disperdendola in una serie di note e osservazioni tanto più numerose quanto maggiore fu il numero dei generi da quello coltivati) quest’opera segna un evidente modificarsi dell’amorfo e incolore tipo del manuale ottocentesco, e merita, tutto sommato, il ricordo che ne fece nel suo libro panoramico, La cultura italiana, il Prezzolini, come di un felice tentativo di «una storia letteraria rinfrescata e ravvivata»68. Con il Galletti prendeva inizio una tradizione nuova di libri di storia letteraria per la scuoG.A. Cesareo, Storia della letteratura italiana ad uso delle scuole cit., p. 383. A. Galletti e A. Alterocca, Storia della letteratura italiana, Bologna: Licinio Cappelli, 1922. 68 G. Prezzolini, La cultura italiana, Milano: Corbaccio, 19302, p. 261. 66

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la, che avrebbe dovuto dare in seguito frutti pregevoli, tra i quali conviene registrare intanto la storia di Domenico Bulferetti69, la prima storia letteraria vivacemente aperta alla nuova corrente critica del Novecento, destinata anch’essa alla scuola ma con intenti più ambiziosi, e, apparsa dopo un intervallo di qualche decennio, la storia di Natalino Sapegno70, la quale però trascende per la sostenuta dignità della sostanza critica l’ambito puramente didascalico, collocandosi, malgrado i limiti che, nel suo intento divulgativo, si impone l’autore, su di un piano di più vasta e intensa collaborazione culturale. Sono tre manuali, questi, che segnano nettamente, nel loro progressivo arricchirsi di motivi critici e nel consolidarsi della loro ossatura storica, la traccia dello svolgimento della cultura italiana nel campo della critica e della storiografia. Il prodotto più evidente di questo moto progressivo è rappresentato dagli stessi manuali scolastici d’oggi (dai migliori voglio dire: ché molti, troppi anzi, rispondono a mere esigenze commerciali)71. La loro qualità basterebbe da sola a documentare l’approfondimento avvenuto in questo campo della vita culturale. Ma l’esame di questo insieme di lavori, in complesso, a parte la stessa considerazione relativa all’intento non propriamente scientifico che li determina, si risolverebbe in una mera valutazione delle analisi applicate ai singoli autori, senza potersi esercitare su quei problemi della storiografia letteraria impegnati nella spiegata narrazione della vicenda della letteratura considerata nella sua totalità. Una più risentita fisionomia hanno invece alcune altre storie letterarie, uscite negli anni fra il terzo e il quinto decennio del Novecento, che, sebbene rivolte alla scuola (ma con questo non si ripeteva in fondo che una situazione inaugurata niente meno che dal De Sanctis), riflettono nel loro contegno la vigorosa personalità critica dei rispettivi autori. La più lontana nel tempo, cronologico e ideale, è la Breve storia della letteratura italiana di Eugenio Donadoni72 che (e non vogliamo, dicendo questo, insistere su certe naturali concessioni, di carattere informativo ed espositivo, alle necessità didattiche) conserva, com’è stato osservato con verità per gli altri lavori di questo D. Bulferetti, La storia della letteratura italiana e della estetica, Torino: Paravia, 1925. N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze: La nuova Italia, vol. I, 1936; vol. II, 1941; vol. III, 1947. 71 Non mi è possibile, e non sarebbe d’altra parte opportuno, ricordare i numerosissimi manuali di storia della letteratura italiana destinati alla scuola, moltiplicatisi singolarmente in questi ultimi anni. Così tralascio di proposito di ricordare altri tentativi di storia letteraria, come quello del Papini (Storia della letteratura italiana, Firenze: Vallecchi, 1937), la cui considerazione ci porterebbe su un piano non propriamente scientifico. E non sto a parlare della nuova edizione della Storia letteraria d’Italia, edita dal Vallardi, per la quale possono valere le osservazioni già fatte per le precedenti edizioni. 72 E. Donadoni, Breve storia della letteratura italiana, Milano: Signorelli, 1923. 69

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critico73, una certa aria di antico e un suo colore ancora ottocentesco. Ma tale colore ottocentesco è più una questione di impostazione e di struttura che di ispirazione e di atmosfera. Queste ultime si riportano infatti a quello spiritualismo acuto del primo Novecento che, in forma dolente e generosa, urgeva nel Donadoni e lo spingeva ad una critica concepita come ricerca di anime ed esplorazione di personalità. Deriva da tale gusto moralistico e religioso il contegno di questa storia letteraria, in cui si estendono con relativa ampiezza i ragguagli sulla biografia degli autori e le ricognizioni sul contenuto dell’opera, nelle quali viene svolta con rigogliosa fecondità l’analisi dei motivi psicologici e dei personaggi presenti nell’opera stessa, esaltata talvolta con una intima indifferenza per la concreta realtà espressiva. Del resto, l’indagine della poesia intuita come risultato di un drammatico o elegiaco processo psicologico, portando il critico a una costante accentuazione di quei valori umani che erano stati riscoperti e vagheggiati dal mondo romantico, e tipicamente consacrati dal De Sanctis (al quale il Donadoni si rifaceva come a insuperato maestro), contribuisce a creare quello aspetto della sua storia, in piena età crociana, un po’ anacronistico. Così, antiquata appare in essa l’interpretazione del corso della nostra letteratura, che viene a delinearsi come un’alternanza di grandezza e decadenza, misurate sull’etico accento della personalità degli scrittori: dal Medioevo animato da gagliarde passioni religiose e politiche, al Rinascimento in cui «la letteratura si separa dalla vita» e la poesia si riduce a illustre artificio vuoto di risonanza sentimentale, al Romanticismo che rinnova ed esalta l’interiorità umana, nel disprezzo di ogni studio formale. Ma qualunque possa essere l’oggettiva portata di questo resoconto critico, esso risulta pur destinato a rimanere, nella sua pensosa sostanza umana e nella sua veloce e suggestiva efficacia ritrattistica, come testimonianza di un temperamento nutrito di un’esperienza spirituale e artistica vivacissima, e a riuscire perciò singolarmente degno di attenzione. Questi elementi di estrinseca documentazione che il Donadoni, sagacemente riesce a ricondurre nel cuore della poesia, per farne quindi circolare il canto nell’immagine viva della personalità, rimangono nella storia del Momigliano sul piano di una semplice istanza manualistica. L’unità della Storia della letteratura italiana di Attilio Momigliano74 risulta anzi intaccata proprio da quei ragguagli sulla vita e sugli scritti degli artisti ai quali l’autore sembra rassegnarsi semplicemente sotto l’incalzare di una pratica urgenza, senza peraltro intenderne il valore. Poiché di un’unità è possibile e necessaO. Marzot, “Donadoni o la critica come umanità”, in «La Nuova Italia», novembre 1940, p. 289. 74 A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, Messina: Principato, 1933-1935. 73

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rio parlare per quest’opera del Momigliano. Senonché essa va intesa non in riferimento a una concentrata impostazione della problematica relativa alla civiltà delle nostre lettere (sebbene il critico sappia talora collocarsi da punti di osservazione felicemente riassuntivi del paesaggio storico), ma piuttosto nel senso di una costanza mirabile di atteggiamento e di misura esegetica. Il Momigliano sa cogliere, con una freschezza e una rapidità intuitive originalissime, la sostanza poetica dei documenti anche più lontani e disparati della nostra letteratura. Nelle sue pagine, costruite con chiarezza, i poeti interpretati (colti nell’intimità della loro opera, di cui, in una continuità di gusto e di stile sempre desti, sono avvertite le sfumature più delicate e insieme l’ordinata architettura) sanno mantenere, con precisa e suggestiva nettezza di rilievo, i segni caratteristici della loro individualità. Il principio individualizzante predicato dal Croce trova in questa storia la sua più illustre esemplificazione. Ma a questo risultato l’autore, moderatissimo e schivo crociano, giunge, più che per una diretta dipendenza da un pensiero critico, per un innato sentimento di rispetto verso la poesia contemplata nella sua purezza, e per un’istintiva ripugnanza a uscire dal magico circolo creato dal canto del poeta, e a rivolgersi alle sotterranee vie che ricollegano gli scritti di un artista in un’unitaria storia, e le opere di un’epoca intera in una civiltà letteraria. Per tale contegno, che si spiega con il naturale temperamento di questo critico (estremamente sensibile alla presenza e alle tonalità della poesia, ma freddo in certo modo davanti ai più complessi problemi culturali, e non sostenuto del resto da rigorose qualità speculative), finisce con l’introdursi nel panorama storico un principio di disintegrazione della stessa individualità del poeta e talora perfino dell’opera singola, che non appare più esaminata nell’unitario ritmo della personalità, ma sentita nella purezza della sua arte, impressionisticamente riassunta in veloci postille e in puntuali caratterizzazioni, se pur efficaci a rendere l’atmosfera di una determinata esperienza poetica, sempre inadeguate a giustificarne storicamente il valore. Il risultato estremo del processo di svolgimento della storia letteraria sembra raggiungere la sua più significativa espressione nella Storia della letteratura italiana di Francesco Flora75. Il peso di quest’opera potrebbe essere indicato già dalla stessa compiutezza con cui sono passati in rassegna i documenti della prosa e della poesia italiana. Il Flora, invero, ha esteso la sua indagine fino alle più remote e oscure zone del nostro territorio letterario, per portare alla luce, di sotto alla obliosa polvere di giudizi anonimi e convenzionali, quei frammenti anche minimi di bellezza rimasti eventualmente occultati o fraintesi. Il problema della scelta degli autori non aveva subito 75

F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano: Mondadori, 1940-1941.

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ancora una così sensibile modificazione. Però non è qui che va cercata la più risentita e personale impronta di questa nuova esposizione del nostro patrimonio artistico letterario. Essa trova invece la sua origine nella presenza di una mente rivolta a un perpetuo ed estenuato, e pure sempre vivo, assaggio critico su tempi estesi e brevi momenti e singoli istanti dell’itinerario delle nostre lettere. In proposito riesce significativa la confessione dell’autore che ripercorre il lavoro compiuto «in tante sue letture, e talvolta sulle bozze di stampa, che inducendo quasi a sillabare uno scrittore ne svelano le nude giunture e ne saggiano la resistenza o la caducità contro il tempo»76. In tale attenta e prolungata sillabazione, finissima e aliena, nella sua sostenuta dignità culturale, da ogni morbido estetismo, va segnato il caratteristico contegno di questa storia. E in realtà l’atteggiamento di esplorazione minuta condotta sul piano generale del corso storico nella ricerca degli scrittori anche meno noti, si ripete nell’ambito di ogni singolo autore e di ogni singola composizione, nell’intento di fare rivivere anche le infinitesime quantità di bellezza sperdute in un breve componimento o in una parte di esso. Davanti ai lettori si dispiega un complesso paesaggio di contenuti e di forme indagati e soppesati (e sia pure forse troppo spesso, con un’eccessiva sovrapposizione di sensibilità contemporanea) fin nelle più lievi sfumature di un verso, di una parola, di un accento. Il pregio massimo dell’opera del Flora consiste in un lavoro vastissimo di lettura, attraverso il quale l’autore ha saputo fare risuonare (sovente anche mediante essenziali citazioni) le estreme note e le minime entità del nostro universo poetico e letterario, rinfrescandone il senso e l’armonia. Ma in ciò può essere indicato, nello stesso tempo, il suo proprio limite. In questa attenzione minutissima e larghissima si dissipa invero, più di una volta, il senso prospettico in cui, inserendosi, l’accento singolo riceve una più vibrata eco, quella struttura storica nella quale i vari motivi si raccolgono in superiore unità. La Storia del Flora troppo spesso sembra smarrire la visione della personalità dell’artista (che nella temperie di una determinata civiltà letteraria dovrebbe idealmente sovrastare) in una dispersiva attenzione ai singoli particolari, e agli isolati frammenti. Così, nel passaggio dalla storia del Donadoni a quella del Momigliano a quest’ultima del Flora, mentre si va con movimento progressivo da una storia di tono ancora ottocentesco, in cui il senso della poesia fiorisce con eccessiva discrezione dall’analisi biografica e psicologica, ad una storia in cui i valori poetici sono colti con impressionistica freschezza e, malgrado il tono sentimentalmente descrittivo, con sicura intuizione, a una storia infine che presenta, con una latitudine di impostazione nuovissima, la prospettiva 76

Ivi, p. XI.

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dettagliata delle pagine antologicamente più vive della nostra letteratura, d’altra parte si assiste a un continuo sfaldarsi della compattezza delle individualità poetiche sullo sfondo del paesaggio storico. Se il Donadoni infatti si arresta sovente, nel processo critico, prima di giungere al punto essenziale della valutazione artistica, scopre pur sempre la possibilità di una storia della personalità artistica, vista nel suo inconfondibile volto, immergendosi nell’analisi di quei presupposti ideali che sono la vita e il pensiero di uno scrittore. Su questi elementi passa invece con indifferenza il Momigliano, attento, più che alla personalità di un artista, alla singola opera d’arte, sentita come realtà centrale di ogni giudizio critico, e tuttavia nel suo racconto troppo spesso intuita in un clima senza tempo. Con il Flora infine, sembra accentuarsi ancora il pericolo di un’atomistica considerazione del singolo frammento di bellezza gustato per se stesso, talvolta in un oblio assoluto dell’opera in cui vive e della personalità da cui scaturisce. Nella vicenda esemplare di queste tre opere critiche trova la via aperta a una possibilità di soluzione l’attuale problema della storia letteraria: che si riassume in un’esigenza (che è duplice e in certo modo opposta) di puntuali individuazioni di quelle concrete e anche minime entità espressive in cui si traduce il processo creativo, e di precise definizioni di quei nuclei storici via via più vasti che sono le opere, le personalità e i periodi di cultura, con un particolare rilievo tuttavia al punto di incontro centrale della personalità, da cui muove e a cui costantemente ritorna, come a principio e fine unico dei valori, il movimento della civiltà: quella personalità che corre il rischio di essere compromessa, in sede di storiografia letteraria, non solo dall’impulso del segregante estenuato estetismo il quale finisce con il dissiparla, ma anche da quello del pesante sociologismo, che inesorabilmente la schiaccia.

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APPENDICE

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BIBLIOGRAFIA

1. – Per una più ampia e approfondita trattazione di tutta questa materia mi sia concesso rimandare alla mia Storia delle storie letterarie, la cui 3a edizione è in corso di stampa presso l’editore Sansoni (la 1a e la 2a edizione apparvero a Milano, rispettivamente nel 1942 e nel 1946). In quella mia opera, come del resto in queste pagine che precedono, mi sono preoccupato di tracciare la storia di una struttura, di un «genere critico», e cioè la vicenda relativa alla forma della storia letteraria come sistema storiografico, trascurando di proposito la storia del suo contenuto, il resoconto della configurazione data via via alla letteratura, la vicenda insomma della storia letteraria come sistema storico (che è invece quanto ha fatto, per la storia letteraria francese, F. Neri, La costruzione della storia letteraria francese, estratto dalla «Miscellanea della Facoltà di Lettere e Filosofia», serie II, Torino 1938, e ora nel volume Letteratura e leggende, Torino: Chiantore, 1951, pp. 300-333). Naturalmente sarebbe anche utile un’indagine sull’interpretazione a cui fu sottoposto da critici e storiografi il corso dei fatti costituenti la storia letteraria, sui modi in cui vennero atteggiandosi nella loro discussione le grandi linee della civiltà letteraria. Una simile indagine (che noi abbiamo appena accennato, e subordinatamente al problema strutturale che ci stava a cuore) limiterebbe probabilmente l’affermazione del Neri: Il riverbero dei conflitti di scuola, e di dottrina, sulla storia letteraria è assai meno sensibile nella cultura italiana; si può dire che non esiste affatto per quel che riguarda la configurazione dei grandi periodi del nostro passato intellettuale. Le varie età, dalle origini fino ad oggi, si susseguono, si dispiegano al nostro sguardo nei loro lineamenti essenziali, sui quali è concorde il giudizio degli storici. [...] La tradizione letteraria italiana fu insieme più vaga, e più stabilmente riconosciuta; bastò a potenziarla nei secoli l’idea della patria, come fida realtà e lunga aspirazione; mentre la tradizione francese includeva un concetto organico e determinato della vita morale – nei suoi stessi elementi religiosi e politici –, sì da ridestare

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ogni volta i problemi più ardui dello spirito nazionale ed impegnarli nei conflitti di pura apparenza «letteraria»77.

Una ricerca in questo senso perseguito dal Neri è stata, per la letteratura italiana, in parte svolta da L. Russo, La letteratura italiana e la storiografia contemporanea, Bari: Laterza, 1947, e ora nel volume Problemi di metodo critico, 2 Bari: Laterza, 1950 , pp. 11-38. Per la storia letteraria francese il problema posto dal Neri è stato ora affrontato da F. Simone, “Per una storia della storiografia letteraria francese”, in «Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino», Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Serie 4a, n. 12, 1966. Per quanto il problema specifico dell’evolversi della storia letteraria intervenga solo marginalmente nelle ricerche di taluni studiosi, gioverà qui fare menzione di alcune di esse, che più particolarmente illustrano questo o quell’aspetto del problema, o illuminano l’opera di singoli storiografi, o comunque definiscono qualche passaggio di questo complesso svolgimento. Così, per il periodo della preistoria della storia letteraria, sarà sempre utile la consultazione di: O. Bacci, La critica letteraria (Dall’antichità classica al Rinascimento), Milano: Vallardi, 1910; C. Trabalza, La critica letteraria (Dai primordi dell’umanesimo all’età nostra), Milano: Vallardi, 1915; G. Saintsbury, A History of Criticism and literary Taste in Europe, Edinburgh and London: Blackwood, 1905; J.E. Spingarn, La critica letteraria nel Rinascimento, trad. italiana di A. Fusco, Bari: Laterza, 1915. Si veda anche: G. Toffanin, La critica e il tempo, Torino: Paravia, 1930; e G.A. Borgese, Sommario di storia della critica letteraria dal Medio Evo ai nostri giorni, in Poetica dell’unità, Milano: Treves, 1934, pp. 177-232. Utili indicazioni si troveranno nei seguenti studi: R. Sabbadini, Storia del Ciceronianismo e di altre questioni letterarie dell’età della Rinascenza, Torino: Loescher, 1885; F. Foffano, Saggio su la critica letteraria nel secolo decimosettimo, nel volume Ricerche letterarie, Livorno: Tip. Giusti, 1897, pp. 133-312; C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano: Hoepli, 1908; G. Funaioli, Lineamenti d’una storia della filologia attraverso i secoli, in Studi di letteratura antica, Bologna: Zanichelli, vol. I, 1946, pp. 185-356; S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino: Loescher, 1911. In particolare: su Lorenzo e sul Poliziano si veda: E. Bigi, La cultura del Poliziano e altri studi umanistici, Pisa: Nistri-Lischi, 1967, pp. 117-119; e G. Ponte, “Poetica e poesia nelle Sylvae del Poliziano”, in «La rassegna della letteratura italiana», LXIII (1959), pp. 390-419; sul Lando si veda lo studio di I. Sanesi, Il cinquecentista Ortensio Lando, Pistoia: fratelli Bracali, 77

F. Neri, La costruzione della storia letteraria francese cit., pp. 327-328.

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BIBLIOGRAFIA

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1893; sul Bembo si tengano presenti le pagine introduttive di C. Dionisotti nella edizione commentata delle Prose della volgar lingua, Torino: Utet, 1931, e il volumetto di G. Santangelo, Il Bembo critico e il principio d’imitazione, Firenze: Sansoni, 1950; e si veda anche: M. Sansone, Lettura delle “Prose della volgar lingua”, nel volume dello stesso autore Studi di storia letteraria, Bari: Laterza, 1951, pp. 5-54; e B. Croce, Il Bembo, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, vol. III, Bari: Laterza, 1952, pp. 53-61. Per gli altri autori rimandiamo alle opere generali, come: V. Rossi, Il Quattrocento, Milano: Vallardi, 1933; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano: Vallardi, s. a. (ma 1902); G. Toffanin, Il Cinquecento, Milano: Vallardi, 1929; E. Bonora, alle pp. 552-560 del vol. IV della Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano: Garzanti, 1966; A. Belloni, Il Seicento, Milano: Vallardi, 1929; C. Jannaco, Il Seicento, Milano: Vallardi, 1963. Si veda anche del Croce, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari: Laterza, 1945, vol. II; e Storia dell’età barocca in Italia, Bari: Laterza, 1929. Si consulti inoltre, del Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari: Laterza, 1927, al cap. IV; del Fueter, Storia della storiografia moderna, traduzione di A. Spinelli, Napoli: Ricciardi, 1944, vol. I; e di W.K. Ferguson, La Renaissance dans la pensée historique, Paris: Payot, 1950. Nel testo del paragrafo sul Seicento si sono taciute molte fra le opere catalogate sotto il titolo di raccolte di materiali bio-bibliografici inerenti a ordini religiosi, accademie, singole regioni e città. Tra quelle riguardanti ordini e congregazioni religiose ricordiamo qui: il Lyceum lateranense illustrium scriptorum [...] clericorum canonicorum regularium Salvatoris lateranensis di C. Rosini (Cesena: Neri, 1649); il Theatrum chronologicum Sacri Cartusiensis Ordinis di C.G. Morozzo (Torino: G. Sinibaldo, 1681); la Bibliotheca scriptorum ordinis Minorum S. Francisci Capuccinorum di F. Toselli (Genova: Sebastiano Coletti, 1680; e in nuova ed. Genova 1691 ); la Bibliosofia e memorie letterarie di scrittori francescani conventuali di G. Franchini (Modena: eredi Soliani, 1693). Per le accademie ricordiamo: Le Glorie degli Incogniti ovvero gli uomini illustri dell’Accademia dei Signori Incogniti in Venezia di G. Loredan (Venezia: Francesco Valvasense, 1647); e le Notizie letterarie ed istoriche degli uomini illustri dell’Accademia Fiorentina (pubblicate a Firenze nel 1700 da Jacopo Rilli) alla cui composizione molto probabilmente non furono estranei Roberto Marucelli e Lorenzo Gherardini. Per le città: P.A. Zeno, Memoria de’ scrittori veneti, Venezia: Paolo Baglioni, 1662; D. Calvi, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi aperta alla curiosità dei suoi concittadini, Bergamo: figli di M.A. Rossi, 1664; L. Cozzando, Libraria bresciana, Brescia: G.M. Rizzardi, 1694; F. Picinelli, Ateneo dei letterati milanesi, Milano: F. Vigone, 1670; P. Mandosio, Bibliotheca romana, Roma: Ignazio e Francesco

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Lazzari, 1682-1692. Per le regioni infine: M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma: Nicol’Angelo Tinassi, 1667; R. Soprani, Li scrittori della Liguria e particolarmente della Marittima, Genova: Pietro Giovanni Calenzani,1667; A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum, Roma: eredi di Lorenzo Ciani e Francesco Desideri, 1680; F.A. Della Chiesa, Catalogo di tutti li scrittori piemontesi, Torino: Giovanni Francesco e Cesare Cavalleri, 1614 (ristampato, con aggiunte, a Carmagnola nel 1660); N. Toppi, Biblioteca Napoletana, Napoli: Antonio Bulifon, 1678 (accresciuta nel 1683 dalle Addizioni di L. Nicodemi). Rimandiamo per più ampie indicazioni alla Bibliotheca bibliographica italica di G. Ottino e G. Fumagalli, Roma-Torino: Pasqualucci, Clausen, 1894-1902. Indichiamo qui alcune altre opere dell’erudizione secentesca: il Teatro d’uomini letterati di G. Ghilini (Venezia: Guerigli, 1647); gli Elogi degli uomini letterati di L. Crasso (Venezia 1666); le Vite de’ poeti Toscani di A. Zilioli, lasciate in gran parte inedite (sulle quali scriveva il Tiraboschi: «La Storia de’ poeti di Alessandro Zilioli, di cui si hanno copie in diverse biblioteche, non è mai uscita alla luce, né sarebbe bene che uscisse se non purgata da molte favole, ch’ei v’ha inscritte»78). Fra le varie ricerche di carattere teorico su generi particolari di poesia citiamo, oltre al Compendio della poesia tragicomica di B. Guarini (Venezia: Giovan Battista Ciotti, 1601), il Ragionamento sopra la poesia giocosa de’ Greci, de’ Latini e de’ Toscani di Nicola Villani (Venezia: Giovanni Pietro Pinelli, 1634); L’occhiale appannato di Scipione Errico (Napoli: Giuseppe Matarozzi, 1629); il Ritratto del sonetto e della canzone di Federico Meninni (Venezia: Bertano, 1678). 2. – L’opera del Crescimbeni uscì a Roma nel 1698. Nel 1714 venne pubblicata la 2a ed. I Commentari, furono stampati negli anni 1702-1711. Il 1° vol. apparve nel 1702 a Roma; il 2° nel 1710; nel 1711 uscirono gli altri 3 volumi, che in parte commentavano in parte ampliavano la Storia. Un’edizione unica dell’Istoria e dei Commentari fu pubblicata nel 1731 a Venezia, in 6 volumi, a cura dei due fratelli Zeno (Pier Caterino e Apostolo) e del Seghezzi. Insieme venivano stampati anche nove Dialoghi Della bellezza della volgar poesia. Hanno dato un giudizio negativo sul Crescimbeni: il Baretti (La Frusta letteraria, Bari: Laterza, 1932, vol. I, pp. 68, 70); il Foscolo (Discorso sul testo della “Commedia” di Dante, in Opere, Firenze: Le Monnier, 1850, vol. III, p. 337); l’Emiliani Giudici (Storia delle belle lettere in Italia, Firenze: Società editrice fiorentina, 1844, pp. 21-22). Ma si vedano anche i positivi riconoscimenti del Mazzoni, che ne loda l’«erudizione copiosa» (cfr. G. Mazzoni, 78

G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana cit., t. VIII, p. 280.

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Avviamento allo studio critico delle lettere italiane, Firenze: Sansoni, 19233, p. 147), preceduti da quelli del Tommaseo che già ne apprezzava la «materia buona» (Tommaseo, Dizionario d’estetica, Milano: F. Perelli, 1869, vol. I, p. 98). Sul Crescimbeni cfr. poi M. Gentille [Gentile], “L’origine del tipo di storia letteraria nazionale”, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe Filosofia e Filologia, vol. XXIX (1927), p. 9. (Questo articolo ebbe il merito di iniziare una prima sistematica ricerca, specie attraverso un’esatta esposizione di testi, nel campo della storiografia settecentesca. Esso è perciò fondamentale per questo nostro studio). Si vedano anche, per talune questioni relative al clima culturale a cui si riportano questa e le successive storie: J.G. Robertson, Studies in the Genesis of romantic Theory in the eighteenth Century, Cambridge: University press, 1923; G. Toffanin, L’eredità del Rinascimento in Arcadia, Bologna: Zanichelli, 1923 (di quest’opera è apparso un rifacimento: Arcadia, Saggio storico, Bologna: Zanichelli, 1946); M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Bari: Laterza, 19542; e dello stesso Fubini, Arcadia e illuminismo, nel 3° volume dei Problemi ed orientamenti critici, Questioni e correnti di storia letteraria, Milano: Marzorati, 1949 (a cui si rimanda per più ampie indicazioni bibliografiche), pp. 503-595; B. Croce, La letteratura italiana del Settecento, Bari: Laterza, 1949; C. Calcaterra, Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna: Zanichelli, 1950; E. Bigi, introd. a Dal Muratori al Cesarotti, Milano-Napoli: Ricciardi, 1960, pp. xv-xviii; R. Wellek, A History af modern Criticism: 1750-1950; I. The later eighteenth Century, New HavenLondon: Yale University press, 1955, traduz. italiana di A. Lombardo, vol. I, Bologna: il Mulino, 1958. I trattati Della ragion poetica di Gian Vincenzo Gravina furono editi nello spazio che intercorre fra il 1696 e il 1708. Nel 1706 uscì il trattato Della perfetta poesia italiana di L.A. Muratori, di cui è facilmente rintracciabile l’edizione milanese (Soc. tip. dei Classici Italiani) del 1821, con le annotazioni critiche di A.M. Salvini. Sul Muratori si vedano, oltre alle pagine citate al paragrafo precedente: G. Bertoni, Il concetto della storia e l’opera storiografica di L.A. Muratori, Modena: Orlandini, 1922; R. Morghen, “La visione storica di L.A. Muratori”, in «Miscellanea di studi Muratoriani», 1951; E. Raimondi, “I Padri Maurini e l’opera del Muratori”, in «Giornale storico della letteratura italiana », CXXIX (1952), pp. 145-178; F. Forti, L.A. Muratori fra antichi e moderni, Bologna: Zuffi, 1953; F. De Carli, L.A. Muratori, La sua vita, la sua opera e la sua epoca, Firenze: Macrì, 1955; S. Bertelli, Erudizione e storia in L.A. Muratori, Napoli: Istituto italiano per gli studi storici, 1960. L’opera del Gimma, Idea della Storia dell’italia letterata, uscì a Napoli nel 1723. Su di essa si veda il giudizio negativo di G. Mazzoni, Avviamento allo studio critico delle lettere italiane cit., p. 148, e la svalutazione di M. Landau,

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Geschichte der italienischen Litteratur im achtzehnten Jahrhundert, Berlin: Felber, 1899, pp. 224, 266. Sul Gimma si veda, in generale: D. Giusti, Vita ed opere dell’ab. Gimma, Bari: Fusco, 1923; si tengano pure presenti alcune pagine di E. Garin, “Le polemiche cartesiane”, in «Giornale critico della filosofia italiana», XXXVIII (1959), pp. 286-288, e di P. Floriani, “Giacinto Gimma”, in «Rassegna della letteratura italiana», LXVIII (1964), pp. 376-378. Il primo abbozzo della Storia del Quadrio fu pubblicato a Venezia nel 1734, con lo pseudonimo di Giuseppe Maria Andrucci e col titolo Della poesia italiana. L’opera, ampliata e rifatta, apparve più tardi, con il vero nome dell’autore, a Bologna (ma fu terminata di stampare a Milano) negli anni dal 1739 al 1752, in sette tomi e col titolo nuovo Della storia e della ragione di ogni poesia. Sul sentimento di nazionalità del Quadrio e, in genere, degli storiografi del Settecento si veda T. Concari, Il Settecento, Milano: Vallardi, p. 194; e V. Branca, “Carità di patria e storia letteraria”, in «Il Ponte», I (1945), pp. 201-209. Sul Quadrio in particolare: S. Quadrio, Di F.S. Quadrio e delle sue opere, Brescia: Queriniana, 1921; e M. Costanzo, Una poetica del razionalismo: F.S. Quadrio, Milano: All’insegna del pesce d’oro, 1959. Il volume Della novella poesia ecc. di Giulio Cesare Becelli fu edito a Verona nel 1732. Iniziando la sua opera, il Becelli scrive che è uno stupore il pensare che di coloro che tra noi dell’arte poetica scrissero, quasi niuno s’appose nell’indagare che qualità abbia l’italiana poesia con la greca e latina comuni, e quali particolari e tutte sue che le prime soverchiano.

E così conclude: il propostoci fine di provare che l’italiana o toscana poesia formi un differente genere dalla greca e dalla latina e dall’altre tutte, abbastanza finora cred’io s’è per noi adempiuto. Impercioché, ritrovata da noi la vera essenza de’ nuovi costumi nostri, della nuova religione, delle nuove usanze, feste, leggi, guerreggiare, e quella sotto l’ordine e categoria del tempo riposta, e similmente considerata la vaga situazione ed il dolce clima della bella Italia, cose che sotto l’altra categoria del luogo collocate abbiamo, da cotali due principi, quasi da due fonti, tutti i rivoli delle toscane poesie si sono per noi derivati79.

Il Discorso sopra le vicende della letteratura di Carlo Denina apparve a Torino nel 1760 (e, in una seconda edizione dove è rielaborata e sviluppata più ampiamente la stessa materia, nel 1784 e ancora nel 1792; un quarto 79

G.C. Becelli, Della novella poesia cit., pp. 1-2, 392.

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volume, intitolato Saggio istorico-critico sopra le ultime vicende della letteratura, fu pubblicato nel 1811). Sul Denina: L. Negri, “Carlo Denina: un accademico piemontese del 1700”, in «Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino», Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. II, LXVII (1933), n. 4, pp. 1-157; C. Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento, Torino: Sei, 1935, pp. 156-161, 458-460, e dello stesso, Denina e Dal Denina al Di Breme, nel volume Il Barocco in Arcadia cit., pp. 373-397 e pp. 399-414; F. Baldensperger, “C. Denina (1731-1813). Précurseur du comparatisme en histoire littéraire”, in «Revue de littérature comparée», XXVIII (1954), pp. 467-473; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino: Einaudi, 1962, pp. 16-35. Il Ragionamento citato di Ireneo Affò è stampato come premessa al Dizionario precettivo, critico ed istorico della Poesia volgare dello stesso Affò, pubblicato a Parma nel 1777. A conclusione del Ragionamento si legge: Spesso ho sentito dirsi da alcuni, che il buon gusto poetico da qui a qualche tempo decaderà, e che ritorneranno i secoli barbarici per far eco allo smoderato Seicento. Ma chi può essere profeta? Certa cosa è che avendo noi osservate le molte vicende, cui la volgar Poesia soggiacque, ed avendo veduto, che dietro un buon secolo ne venne quasi sempre un cattivo, potrebbesi dubitare a ragione di novella rovina: ma la sorte infelice di quelli, che la poesia altre volte corruppero per non averne voluto osservare le buone leggi, spero che farà cauti coloro, cui per avventura piacesse di calcar strade nuove; e son di parere che l’arte di pensare ridotta in oggi a tanta finezza non lascierà cadere i moderni Poeti ne’ trasporti de’ trapassati80.

Di Carlo Castone della Torre di Rezzonico (incidentalmente ricordato nel testo) si veda il Ragionamento su la volgar poesia dalla fine del passato secolo fino a’ nostri giorni, premesso all’edizione di Parma del 1779 delle Opere poetiche del Frugoni. Secondo il Rezzonico la prima epoca della nostra storia letteraria sarebbe rappresentata dal «secolo di Dante e di Petrarca felicissimo», una seconda dal Quattrocento, «quando cadde la poesia [...] in molta barbarie di stile», una terza dal Cinquecento, il «secolo d’oro», una quarta dal «lezzo del Secento», una quinta infine dall’Arcadia, «quando risorge sul fine del Secento la nostra poesia». Per questa ferrea legge di sviluppo il Rezzonico pronosticava per l’Ottocento un periodo di decadenza. Sul Rezzonico cfr. C. Calcaterra, “La letteratura italiana veduta da un condillachiano”, in «Convivium», XVI (1947), pp. 321-345, ora nel volume dello stesso autore Il Barocco in Arcadia cit., pp. 343-371; si tenga anche presente dello stesso 80

I. Affò, Ragionamento istorico dell’origine e progresso della volgar poesia cit.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Calcaterra, Sull’origine della parola «Risorgimento», in Il Barocco in Arcadia cit.; si veda inoltre E. Bonora, Letterati memorialisti e viaggiatori del Settecento, Milano-Napoli: Ricciardi, 1951, pp. 995-1000. Il Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e ne’ costumi dopo il Mille di Saverio Bettinelli fu pubblicato nel 1773. Sul Bettinelli: L. Capra, L’ingegno e l’opera di Saverio Bettinelli, Asti: Paglieri e Raspi, 1913; W. Binni, Preromanticismo italiano, Napoli: Edizioni scientifiche italiane, 1948 (al cap. II); C. Calcaterra, Il Barocco in Arcadia cit.; E. Bonora, L’abate Bettinelli, nel vol. miscellaneo La cultura illuministica in Italia, Torino: Radio Italiana, 1957, pp. 87-101. I Principi delle belle lettere del Parini (la cui composizione risale, al più tardi, al 1775) si possono vedere in Parini, Prose, Bari: Laterza, 1913, vol. I: interessano la nostra trattazione i capitoli IV e V del secondo libro. Il lavoro del Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti de’ letterati italiani, uscì a Brescia nel 1753 in grandi volumi in folio. Dal 1753 al 1763 apparvero due volumi (il primo diviso in due parti, il secondo in quattro parti), gli unici pubblicati, poiché l’opera rimase interrotta per la morte dell’autore, e restarono inediti i materiali (conservati ora nella Vaticana) che egli aveva già in buona parte raccolti. Le vite, alfabeticamente ordinate (la parte pubblicata giunge fino alla lettera B), formano un vasto e pregevole dizionario bio-bibliografico. L’opera di Giusto Fontanini, Della eloquenza italiana, pubblicata a Roma nel 1726 venne riveduta, e arricchita di un materiale erudito assai importante, da Apostolo Zeno (Giusto Fontanini, Biblioteca dell’eloquenza italiana, con le annotazioni del sig. A. Zeno, Venezia: Giambattista Pasquali, 1753). Le Vite del Fabroni (divise in cinque decadi comprendenti dieci personaggi ciascuna) furono edite a Roma negli anni 1767-1774 (successive e più ampie edizioni si ebbero negli anni 1778-99 a Pisa, e nel biennio 1804-1805 a Lucca). Sul Mazzuchelli: D. Bulferetti, “G.M. Mazzuchelli nel secondo centenario della sua nascita”, in «Commentari dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Brescia», 1906; sul Fabroni: P. Duranti, “Commemorazione di A. Fabroni”, in «Annuario della R. Università di Pisa», 1883. Accanto ai lavori citati del Mazzuchelli e dello Zeno converrebbe ricordare le storie letterarie comunali e regionali, come: Francesco Arisi, Cremona literata (1702-06); Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini (1722); Salvatore Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini (1750); Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli (1744-70); Gian Giuseppe Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da’ letterati del Friuli (1760); Angelo Maria Bandini, Specimen litteraturae Florentinae saeculi XV (1747-51) (e dello stesso autore: Collectio veterum aliquot monumentorum ad historiam praecipue litterariam pertinentium); e soprattutto Marco Foscarini, Storia della letteratura

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Veneziana (1752) (pregevolissima, per l’ordine ed il valore delle notizie). A queste opere seguirono altri notevoli lavori, come: Giovanni Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi (1781-1794); Cristoforo Poggiali, Memorie per la storia letteraria di Piacenza (1789); Ireneo Affò (di cui già abbiamo ricordato il Dizionario precettivo critico ed istorico della poesia volgare cit.); Memorie degli scrittori e letterati parmigiani (1789-97); Pietro Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle due Sicilie, Napoli: V. Orsini, 1810-11. Insieme a queste opere, composte secondo un criterio di distinzione regionale, si collocano le bio-bibliografie degli scrittori appartenenti a determinati ordini religiosi: De ducentis celeberrimis Augustinianis scriptoribus (1704) di Domenico Antonio Gandolfi; Bibliotheca scriptorum Ordinis minorum Sancti Francisci (1747) di Bernardo da Bologna; De scriptoribus congregationis clericorum regularium Matris Dei (1753) di Federico Sarteschi; I scrittori de’ Cherici regolari detti Teatini (1743) di Anton Francesco Vezzosi; ecc. (Per altre indicazioni cfr. la citata Bibliotheca di G. Ottino e G. Fumagalli). 3. – La Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi uscì a Modena dal 1772 al 1782. Pure a Modena venne pubblicata una seconda edizione dal 1787 al 1794. In questa seconda edizione l’autore con probità dichiara che «è meglio l’accusare spontaneamente il suo fallo, che l’udirselo rinfacciare», e corregge perciò, in apposite note, gli errori sfuggitigli. Questa edizione contiene anche nuove notizie e altre varie aggiunte, introdotte nel testo tra virgolette. Nella consultazione si dovrà perciò ricorrere a questa 2a ed. di Modena, oppure alle edizioni posteriori. L’opera del Tiraboschi fu compendiata in tedesco da Giuseppe von Retzer, in francese da Antonio Landi (compendio tradotto poi in italiano: Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi compendiata in lingua francese da Antonio Landi consigliere e poeta della corte di Prussia ed accademico fiorentino, ed ora tradotta in lingua italiana dal p.) (G.A.M. , Venezia 1801). Essa fu pure compendiata in italiano da Lorenzo Zenoni. A proposito dell’incertezza di limiti con cui si poneva quell’espressione di «storia della letteratura italiana» assunta nel titolo dell’opera del Tiraboschi, varrà la pena di ricordare come, ancora pochi anni prima, lo stesso termine di «storia» venisse usato con un valore assolutamente estraneo a quello che divenne poi normale. Infatti il gesuita Francesco Antonio Zaccaria intitolava Storia letteraria d’Italia (Venezia 1750: e la stampa fu continuata fino al 1758 per un complesso di 15 volumi) i suoi ragguagli sugli avvenimenti letterari dell’anno. Si domandava l’autore:

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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perché la storia letteraria di ciascun anno ancora non pubblicare, che le fatte scoperte, i libri usciti, le insorte contese, le morti dei valentuomini, le altre somiglianti cose, utili tutte e pregevoli, quasi sotto un solo aspetto ne rappresentasse81?

Questa esasperata riduzione di misura delle dimensioni cronologiche è indicativa della perplessità in cui, circa la nozione della storia letteraria, si muoveva ancora l’età del Tiraboschi, il quale, si è visto, manteneva la stessa incertezza per il concetto di «letteratura» e per quello di «letteratura italiana». Sul Tiraboschi: V. Cian, “Nel primo centenario della morte di G. Tiraboschi”, in «Rivista storica italiana», XII (1895), pp. 463-482, e dello stesso, “Girolamo Tiraboschi”, in «Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere, Arti», di Modena, s. IV, vol. IV (1933-1934), pp. 2-13; A. Bonfatti, “L’“eroe” del Tiraboschi”, in «Lettere Italiane», V (1953), pp. 236-247; E. Bigi, nel vol. cit. Dal Muratori al Cesarotti, pp. 561-571, al quale si rinvia per altre indicazioni bibliografiche. Conviene qui citare anche un’altra voluminosa opera dovuta al gesuita (spagnolo di nascita ma italiano di spirito e di cultura) Giovanni Andrés, Dell’origine de’ progressi e dello stato attuale d’ogni letteratura, pubblicata dal 1782 al 1799 a Parma, in sette grossi volumi. Su quest’opera (pregevole, malgrado l’incertezza di molte notizie e la lacunosità di parecchi argomenti) si veda il giudizio di Menéndez Pelayo, Historia de las ideas estéticas en España, Madrid: Artes Gráficas Plus Ultra, 19233, tomo VI, p. 16; si potrà anche vedere M. Battlori, “Jesuitas valencianos en la Italia settecentista”, in «Mediterraneo», t. IV, n. 16, Valencia, 1946; si consulterà infine molto utilmente F. Neri, “La tavola dei valori del comparatista”, in «Giornale storico della letteratura italiana», CIX (1937), in modo speciale alle pp. 272-276, dove si troveranno utili cenni sulla storiografia letteraria del Settecento (anche sugli stranieri: Th. Warton, Chr.A. Heumann, J.J. Rambach, L. Zehnmark, J.F. de La Harpe, I. de Laporte) e importanti ragguagli bibliografici (questo studio è stato ora ristampato nel citato volume Letteratura e leggende, pp. 289-299). Su alcuni aspetti della storia e della problematica (che converrebbe trattare sistematicamente in una monografia a parte) della Weltliteratur (sia dal punto di vista dell’attività letteraria che da quello della storiografia) si veda, oltre al citato articolo del Neri, “La tavola dei valori del comparatista”: E. Beil, Zur Entwicklung des Begriffs der Weltliteratur, Leipzig: Voigtländer, 1915; E. Merian-Genast, “Voltaire und die Entwicklung der Idee der Weltliteratur”, in «Romanische Forschungen», XL (1926), pp. 81

F.A. Zaccaria, Storia letteraria d’Italia cit., vol. I, p. v.

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BIBLIOGRAFIA

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1-226; F. Gundolf, Goethe, Berlin: Bondi, 1918, pp. 681-707; K. Vossler, Die romanischen Kulturen und der deutsche Geist, Munchen: Bremer Presse, 1926; B. Croce, Conversazioni critiche, s. 3a, Bari: Laterza, 1932, pp. 8489; A. Farinellli, Il sogno di una letteratura «mondiale», nel volume Petrarca Manzoni Leopardi, Torino: F.lli Bocca, 1925, pp. 129-148; L.F. Benedetto, “La letteratura mondiale”, in «Il Ponte», II (1946), pp. 120-134, e ora nel volume Uomini e Tempi, Milano: Ricciardi, 1953, pp. 3-19; H. Bender e U. Melzer, “Zur Geschichte des Begriffes Weltliteratur”, in «Saeculum», IX (1958), pp. 113-122. In particolare sulla letteratura comparata si veda: F. Simone, “Benedetto Croce et la littérature comparée en Italie”, in «Revue de littérature comparée», I (1953), pp. 5-16, a cui rinvio per una più ampia bibliografia (nello stesso numero della citata rivista si troveranno altre pagine sul tema della letteratura comparata dovute a Harry Levin, Walter Höllerer e Henry Roddier); R. Wellek, “Definizione e natura della letteratura comparata”, in «Belfagor», XXII (1967), pp. 125-151. 4. – I secoli della letteratura italiana di G.B. Corniani uscirono a Brescia dal 1804 al 1813. Veramente nel 1796, a Bassano, era apparso, in un’edizione in ottavo, un primo saggio di questa opera (con il quale l’autore si proponeva di tastare il favore del pubblico), intitolato I primi quattro secoli della letteratura italiana dopo il suo Risorgimento. Più tardi, a compimento dell’edizione bresciana, un’aggiunta ai Secoli fu eseguita da Camillo Ugoni, che pubblicò dal 1820 al 1822 a Brescia i tre volumi Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII. (Con lo stesso titolo, tra il 1856 e il 1858, apparve poi a Milano un’opera postuma in quattro volumi, diversa dalla precedente). Una seconda edizione dei Secoli fu pubblicata invece a Milano nel 1832 a cura di Stefano Ticozzi, in due volumi, con l’aggiunta di una decima epoca (oltre le nove in cui il Corniani aveva distinto la sua trattazione) comprendente gli anni dal 1750 al 1832. Infine negli anni 1854-56, presso l’editore Pomba di Torino, si ebbe una ristampa in otto volumi dell’opera del Corniani, dell’Ugoni e del Ticozzi: I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, commentario di Giambattista Corniani colle aggiunte di Camillo Ugoni e Stefano Ticozzi e continuato fino a questi ultimi giorni per cura di F. Predari; dove alle epoche del Corniani se ne aggiungeva una decima, formata dal lavoro completo dell’Ugoni e dalla parte dell’aggiunta del Ticozzi comprendente gli anni dal 1750 all’inizio del nuovo secolo; e una undicesima, costituita dal rimanente del lavoro del Ticozzi, con una parte nuova del Predari. Sull’Ugoni si veda B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari: Laterza, 1930, vol. I, p. 263: opera di fondamentale importanza anche per gli altri storiografi dell’Ottocento.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Il Prospetto del Parnaso italiano di Francesco Torti (pubblicata la prima parte a Milano nel 1806, le altre due parti uscite a Perugia nel 1812; e ancora, l’opera completa in 3 voll., con note aggiunte dell’Autore, a Firenze nel 1828) interessa sia per lo spirito polemico che lo anima contro la precedente storiografia letteraria82, sia per la concreta esposizione storica, che, trascurando i prosatori e indugiando sui soli più significativi poeti, si presenta come una serie di eccellenti profili monografici sui principali autori, con un tentativo di inquadramento nelle particolari scuole e correnti di gusto. Sul Torti si veda: C. Trabalza, Della vita e delle opere di Francesco Torti di Bevagna, Bevagna: Tip. Properziana, 1897; G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Milano: Mondadori, 19422, pp. 182-190; B. Croce, Problemi di estetica, Bari: Laterza, 19494, pp. 421-422 e 436-437; E. Bigi, “Francesco Torti critico preromantico”, in «La rassegna della letteratura italiana», LXIII (1959), pp. 177-193. È di questo tempo anche la Storia della letteratura italiana nel sec. XVIII di Antonio Lombardi (uscita a Modena dal 1827 al 1830, e ristampata a Venezia nel 1832, in 6 volumi) che vuole essere una continuazione del Tiraboschi, senza peraltro averne la vastità e sicurezza di informazione e la capacità costruttiva. Dell’Histoire littéraire d’Italie del Ginguené apparvero i primi 6 voll. a Parigi negli anni 1811-1818: nel 1819 uscirono postumi altri 3 voll., condotti a termine (su materiali già pronti del Ginguené) da Francesco Salfi e riveduti dal Daunou. In Italia i 9 voll. completi dell’Histoire furono ristampati a Milano dal Giusti nel 1820-1821. Di essi si ebbe anche una traduzione di Benedetto Perotti, apparsa dal 1823 al 1825 a Milano; altre ne uscirono a Venezia e a Napoli. Sul Ginguené cfr. P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes, Paris: Hachette, 1910; M. Zini, “Il Ginguené e la letteratura italiana”, in «Giornale storico della letteratura italiana», XCV (1930), pp. 209-242 e XCVI (1930), pp. 1-38. Sul Salfi cfr. C. Nardi, La vita e le opere di F.S. Salfi, Genova: Libreria Editrice Moderna, 1925; B. Croce, La storia della letteratura italiana nel secolo decimosettimo di Francesco Salfi, in Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari. Laterza, 1931, pp. 1-10; E. Bigi, nel vol. cit. Dal Muratori al Cesarotti, pp. 927-944, al quale si rinvia per altre indicazioni bibliografiche. L’opera del Sismondi, De la littérature du Midi de Ecco quel che scrive in proposito: «le produzioni del gusto esigono una critica ben diversa da quella del materialismo dell’erudizione, e la storia della nostra letteratura non essendo finora che un catalogo cronologico di autori e di libri compilato senza gusto e senza filosofia, rimane tuttora un’opera assai inferiore al suo soggetto o piuttosto un’opera da rifarsi ancora interamente», F. Torti, Prospetto del Parnaso italiano cit., vol. II, p. 102. 82

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BIBLIOGRAFIA

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l’Europe, fu edita a Parigi nel 1813 in 4 voll. (una 2a edizione, riveduta, fu fatta nel 1820, e una terza nel 1829). Fu tradotta, nella parte riguardante la nostra letteratura (che costituisce quasi la metà dell’intera opera), da Giovanni Gherardini (Della letteratura italiana dal secolo XIV fino al principio del secolo XIX, trattato di J.Ch.L. Simonde de Sismondi) in 2 voll. editi a Milano nel 1820, contenenti, il primo, il periodo dalle origini al secolo XVI, il secondo, quello dal sec. XVI a tutto il sec. XVII. Di questa traduzione una ristampa si ebbe poi a Genova nel 1830. Il titolo dell’opera naturalmente si riporta a quella distinzione diffusa tra i romantici fra letterature «du Midi» e «du Nord», adottata dalla Staël al capitolo XI del suo De la littérature («Il existe, ce me semble, deux littératures tout à fait distinctes, celle qui vient du Midi et celle qui descend du Nord: celle dont Homère est la première source, celle dont Ossian est l’origine»83) e accennata in vari punti della sua opera. Sul Sismondi cfr. Carlo Pellegrini, Il Sismondi e la storia delle letterature dell’Europa meridionale, Genève: Olschki, 1926; e Enrico Alpino, Il Sismondi storico della letteratura italiana, Milano: Leonardo, 1944. La storia di Federico Schlegel fu tradotta dall’Ambrosoli (Storia della letteratura antica e moderna) e edita a Milano nel 1828. Quest’opera parve rispondere alle istanze del nuovo gusto storiografico soprattutto per i vasti inquadramenti di periodi letterari e le sintetiche delineazioni di correnti storiche. Dei dodici volumi di cui consta l’opera del Bouterweck (uscita a Gottinga negli anni 1801-1819) interessano l’Italia i primi due. Le Vorlesungen di A.G. Schlegel, più che per l’informazione storica, interessano per il loro contenuto critico. Di esse si giova largamente il Sismondi. Sugli aspetti della discussione storiografica del primo Ottocento, oltre agli scritti critici di Berchet, Foscolo, Mazzini, Tommaseo, Scalvini, si veda: G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, cit., e B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit. In particolare per il Berchet si veda anche: E. Li Gotti, G. Berchet. La letteratura e la politica del Risorgimento nazionale, 1783-1851, Firenze: La nuova Italia, 1933, al cap. 3o della parte III. Per il Foscolo: E. Donadoni, Ugo Foscolo pensatore critico poeta, Palermo: Sandron, 19272; M. Fubini, Ugo Foscolo, Firenze: La Nuova Italia, 19312; F. Flora, Foscolo, Milano: Società editrice nazionale, 1940; L. Russo, Ugo Foscolo poeta e critico, in Ritratti e disegni storici, serie I, Dall’Alfieri al Leopardi, Bari: Laterza, 1946; N. Festa, Foscolo critico, Firenze: Le Monnier, 1953; A. Noferi, I tempi della critica foscoliana, Firenze: Sansoni, 1953. Per il Tommaseo: P. . 83

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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Prunas, La critica, l’arte e l’idea sociale di N. Tommaseo, Firenze: B. Seeber, 1901; F. Montanari, “L’estetica e la critica di N. Tommaseo”, in «Giornale storico della letteratura italiana», XCVIII (1931), pp. 1-72; A. Duro, Linguistica e poetica del Tommaseo, Pisa-Roma: Vallerini, 1942. Per l’ideale di una storiografia capace di contemperare i pregi di Vico e quelli di Muratori, si tengano presenti le pagine di A. Manzoni nel Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822): Osservando i lavori del Muratori e del Vico, par quasi di vedere, con ammirazione e con dispiacere ad un tempo, due grandi forze disunite, e d’intravedere un grande effetto che sarebbe prodotto dalla loro riunione. Nella moltitudine delle notizie positive e dei giudizi talvolta esatti, ma sempre speciali, in mezzo a cui vi pone il primo, come si desiderano le viste generali del secondo, quasi uno sguardo più acuto, più lontano, più istantaneo, per iscorgere grandi masse in una volta, per avere un senso unico e lucido di tante parti che separate appaiono picciole ed oscure, per trasformare in dottrina vitale, in scienza perpetua tante cognizioni senza principi e senza conseguenze! E seguendo il Vico nelle ardite e troppo spesso ipotetiche sue classificazioni, come si vorrebbe progredire colla scorta di fatti molteplici severamente discussi, per gustare quell’alto diletto mentale, che le rivelazioni dell’ingegno non possono produrre che per mezzo dell’evidenza84!

Sarà opportuno ricordare inoltre il giudizio dello Scalvini sul Compendio della storia della bella letteratura greca, latina e italiana di Giuseppe M. Cardella (Pisa 1816, vol. III), soprattutto per il confronto istituito con l’opera del Sismondi, e l’esigenza, in proposito manifestata, che la cultura italiana si apra al vivo mondo di idee circolanti in Europa, e ancora per la visione complessa delle doti richieste all’autore di una storia letteraria, come per l’appunto si legge nella conclusione: non potersi la storia della letteratura degnamente scrivere da quegli uomini che, chiusi ne’ collegi e ne’ seminari, sono impediti a conoscere di che modo le lettere partecipino alle virtù ed a’ vizi della vasta società; e non sanno dipartirsi dai circoscritti giudici che hanno sentito pronunciare dalle cattedre: né da coloro che non hanno mente e dottrina per investigare le vere cagioni dell’incremento e della decadenza di ogni arte gentile; non fantasia e cuore acceso per vagheggiare le forme del bello; non eloquenza per innamorarne chi è dalla natura chiamato a conoscerle;

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A. Manzoni, Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia cit., pp. 76-77.

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BIBLIOGRAFIA

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non soprastante intelletto per non lasciarsi sedurre agli usi, alle opinioni e superstizioni del secolo e paese loro85.

Su tutto questo periodo si vedano anche gli studi raccolti nel volume di M. Fubini, Romanticismo italiano, Bari: Laterza, 1953. In genere, sulla critica dall’Illuminismo all’età romantica si tenga presente, oltre al citato vol. I di R. Wellek, A History of modern Criticism (1750-1950): The later Eighteenth Century, anche il vol. II The romantic Age, New Haven: Yale University Press, 1955, pure tradotto in italiano da A. Lombardo, Storia della critica moderna (1750-1950). L’età romantica, Bologna: il Mulino, 1961. Per la possibilità puramente ideale della nascita di una nuova storia letteraria, determinata dalla rinnovata sostanza della critica relativa ai vari secoli e autori, si dovrebbero poi ricordare i nomi di Giovita Scalvini e di Giacomo Leopardi, la cui meditazione rimase per allora inedita. Sul primo, Croce ebbe giustamente a scrivere; «Dopo Foscolo non saprei pensare ad altro critico da avvicinare al De Sanctis se non forse Giovita Scalvini»86; e sempre sullo Scalvini del Croce si veda “Di Giovita Scalvini, dei suoi manoscritti inediti e dei suoi giudizi sul Goethe”, in «La Critica», XXXVIII (1940), pp. 241-254, ora in Aneddoti di varia letteratura, Napoli: Ricciardi, 1942, vol. III, pp. 121-137; e ancora cfr. R. Zanasi, “Giovita Scalvini e il romanticismo europeo”, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXIX (1962), pp. 1-48. A proposito di Leopardi si dovrebbe dire che nello Zibaldone è contenuta la materia per mettere insieme un quadro quasi completo della letteratura italiana. Sull’argomento cfr. G.I. Lopriore, Giacomo Leopardi storico della letteratura italiana, Lucca: Casa editrice Lucentia, 1958. 5. – Parallelamente a questa discussione si svolgeva intanto tutto un vasto esercizio storiografico, che tuttavia rimaneva estraneo ai motivi rinnovatori di essa. Numerose sono le storie letterarie riguardanti le singole città o determinate regioni. Ci limitiamo a indicarne le principali: A. Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, Parma: Ducale Tipografia, 1825-33 (in continuazione dell’opera ricordata, del secolo precedente, di Ireneo Affò); G.B. Vermiglioli, Biografia degli scrittori perugini, Perugia: Francesco Baduel, 1829; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, Padova: Tip. della Minerva, 1832-36; M. Pagani, Catalogo ragionato delle opere de’ principali scrittori bellunesi, Belluno: Tip. Tissi, 1844; G. Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i 85 G. Scalvini, rec. al Compendio della storia della bella letteratura greca, latina e italiana… di G.M. Cardella cit., p. 159. 86 B. Croce, “Il posto del De Sanctis nella storia della critica d’arte”, in «Letterature moderne», II (1951), pp. 481-485.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

letterati e gli artisti della città di Ascoli, Ascoli: tip. Luigi Cardi, 1830; G.M. De Rolandis, Notizie degli scrittori astigiani, Asti: tip. A. Garbiglia, 1839; L. De Angelis, Biografia degli scrittori senesi, Siena: G. Rossi, 1824; D.M. Federici, Della letteratura trevigiana del secolo XVIII, Treviso: Giulio Trento, 1807; G.B. Spotorno, Storia letteraria della Liguria, Genova: Tip. G. Schenone, 182458; C. Lucchesini, Della storia letteraria del ducato lucchese, Lucca: presso F. Bertini, 1825-31; E. Gerini, Memorie storiche degli illustri scrittori dell’antica e moderna Lunigiana, Massa: Luigi Frediani tipografo ducale, 1829; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, Torino: tip. Chirio e Mina, 1841; G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, Cagliari: Timon, 1843-44. Queste storie letterarie, ricche talora di preziosi documenti, ben poco offrivano, con la loro dimessa strutturazione e con il loro tono accademico, al formarsi di una storia letteraria nazionale. Qualche altro lavoro storiografico, a differenza di queste storie riguardanti singoli territori della penisola, stabiliva un limite cronologico anziché geografico alla ricerca, come l’opera di Ambrogio Levati, Saggio sulla storia della letteratura italiana dei primi venticinque anni del sec. XIX (Milano: presso Ant. Fort. Stella, 1831), o il Saggio sullo stato attuale della letteratura italiana di Giovanni Cam Hobhouse (composto su materiali in gran parte del Foscolo) pubblicato in inglese nel 1821 e tradotto nel 1825 da M. Pegna (sulla collaborazione Foscolo-Hobhouse si veda: E.R. Vincent, Byron, Hobhouse and Foscolo, New Documents in the History of a Collaboration, Cambridge: University Press, 1949; e in margine a questo volume: C. Calcaterra, “La polemica Hobhouse-Di Breme e l’Essay on the present literature of Italy del 1818”, in «Convivium», XVIII (1950), pp. 321-332). Intanto i frequenti compendi stanno a testimoniare della divulgazione raggiunta da questo genere critico. Di poco pregio risulta il Compendio della storia della bella letteratura greca, latina e italiana di Giuseppe Cardella (Pisa: Nistri, 1816); più notevoli quello di Giuseppe Maffei (Storia della letteratura italiana, Milano: Società tipografica dei Classici italiani, 1825) e l’altro di Francesco Salfi (Manuale della storia della letteratura italiana) uscito a Milano nel 1834, ma pubblicato originalmente in francese a Parigi nel 1826 (Resumé de l’histoire de la littérature italienne) e già tradotto e edito a Lugano nel 1831 (Ristretto della storia della letteratura italiana). Del Salfi assai importanti sono i volumi sulla fine del Cinquecento e sul Seicento che fanno parte dell’Histoire littéraire d’Italie del Ginguené. (Nella ristampa che si ebbe a Parigi, dal 1824 al 1835, dei 14 voll. di cui consta l’Histoire, i primi sei sono del Ginguené, il VII, VIII e IX sono dovuti alla compilazione del Salfi su manoscritti del Ginguené; sono invece completamente del Salfi gli ultimi cinque – dei quali il X comprende la fine del Cinquecento e gli altri il Seicento — che uscirono postumi, essendo morto il Salfi nel 1832).

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Tra le due edizioni della Storia dell’Emiliani Giudici non intervengono mutazioni, quantunque l’autore si compiacesse di avvertire nella prefazione della 2a ed. di avere riscritto totalmente l’opera, sì che poteva dirsi un nuovo libro87. Per il Tenca, si veda U. Bosco, “Giusti, Tenca, Carducci”, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXIV (1957), pp. 535-547, ristampato con altri saggi dello stesso autore in Realismo romantico, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 1959, pp. 111-125; L. Jannuzzi, “La storiografia letteraria di C. Tenca”, in «Annali del corso di lingue e letterature straniere», Univ. di Bari, 1961; e A. Palermo, Carlo Tenca; un decennio di attività critica (1838-’48), Napoli: Liguori, 1967. 6. – L’opera del Ruth, Geschichte der italienischen Poesie, fu edita a Lipsia dal 1844 al 1847 in 2 voll. Su di essa cfr. B. Croce, “Il carattere della poesia italiana secondo E. Ruth”, in «La Critica», XXVIII (1930), pp. 471-478. La storia del Rosenkranz (che fu scolaro di Schleiermacher e di Hegel: e i nomi valgono già per se stessi ad indicare quale delicato ganglio culturale operasse in questo lavoro) Handbuch einer allgemeinen Geschichte der Poesie, uscì a Halle negli anni 1832-33. Essa fu tradotta da Francesco De Sanctis: Manuale di una storia generale della poesia (senza indicazione del traduttore), Napoli: Stamperia del Vaglio, 1853. La prefazione del De Sanctis, rimasta allo stato di manoscritto, fu rintracciata da Carlo Muscetta, “Frammenti inediti di un saggio di Francesco De Sanctis”, in «La Nuova Italia», II (1931), pp. 63-65, e ristampata dal Cortese in Opere di F. De Sanctis, Memorie e scritti giovanili, Napoli: Alberto Morano, 1931, vol. II, pp. 213-220. La Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù uscì nel 1865, in un solo volume, a Firenze presso il Le Monnier. Sul Cantù cfr. De Sanctis, Saggi critici, Bari: Laterza, 1952, vol. II, pp. 171-188. Mentre il Cantù ricuciva con dilettantesca tranquillità gli estratti delle sue erudite letture, Vittorio Imbriani, in un corso di lezioni dettate nel 1866 nell’Università di Napoli (Le leggi dell’organismo poetico e la storia della letteratura italiana, in Studi letterari, Bari: Laterza, 1907, pp. 25-115) si poneva, con rigorosa esigenza di unità, il problema della storia letteraria, formulando il concetto di una storia letteraria interpretata come espressione dell’idea. Ne veniva fuori tutta una complicata e insieme semplicissima e semplicistica costruzione, architettata sugli schemi della logica hegeliana, che tuttavia poteva valere come un invito a ripensare più a fondo la nostra letteratura Cfr. A. Russi, Paolo Emiliani Giudici e la storia letteraria dell’età romantica, in «Convivium», XI (1939), pp. 402-409, e ora nel vol. dello stesso Poesia e realtà, Firenze: La Nuova Italia, 1962, pp. 239-252. 87

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

e a organizzarla in nuovi quadri, e nello stesso tempo come un indiretto ammonimento, quasi un’involontaria dimostrazione per assurdo, contro il pericolo di troppo rigide costruzioni. Le Lezioni di letteratura italiana di Luigi Settembrini uscirono a Napoli negli anni 1866-1872, dopo essere nate come corso universitario. (In questo periodo, sebbene di una non grande importanza, conviene anche ricordare la Storia della poesia italiana di G.B. Cereseto in 3 voll., Milano: Silvestri, 1857; e la Storia della letteratura italiana di Pietro Sanfilippo pure in 3 voll., Palermo: F.lli Pedone Lauriel, 1859). Anche le Lezioni del Settembrini, come già le storie del Ginguené, del Sismondi e dell’Emiliani Giudici, al loro apparire suscitarono (e in ciò è una prova della loro indiretta fecondità) una vivace discussione critica, notevole soprattutto perché vi presero parte due discepoli del De Sanctis, Bonaventura Zumbini e Francesco Montefredini, e poi lo stesso grande critico, con un articolo che può considerarsi come il manifesto della nuova storiografia. Il saggio dello Zumbini, Le Lezioni di letteratura italiana del Prof. Settembrini e la critica italiana, fu stampato nel 1868, e si può trovare con lievi ritocchi, nel volume di B. Zumbini, Studi di letteratura italiana, Firenze: Le Monnier, 19062; quello del Montefredini, “Le lezioni di Luigi Settembrini, professore nell’Università di Napoli”, apparve sulla «Rivista contemporanea» e fu ristampato nel volume di F. Montefredini, Studi critici, Napoli: Morano, 1877. L’articolo del De Sanctis, comparso sulla «Nuova Antologia» del marzo 1869, fa parte dei Saggi critici, cit., vol. II, pp. 257-280; del De Sanctis si veda inoltre Primo giudizio sulla storia del Settembrini e del Ranalli, in La poesia cavalleresca e scritti vari, Bari: Laterza, 1954, p. 335, e Parole in morte di L. Settembrini, nello stesso vol., pp. 248-253. Sul Settembrini si veda anche: A. Omodeo, Luigi Settembrini, nel volume Figure e passioni del Risorgimento italiano, Roma: Mondadori, 1942, pp. 43-74; B. Croce, Luigi Settembrini, nel I volume della Letteratura della Nuova Italia, Bari: Laterza, 1947, pp. 345-356; e dello stesso Croce, “Vecchi libri da rileggere oggi”, in «Quaderni della Critica», 1946, n. V, p. 122. Uno scolaro del De Sanctis che non deve essere dimenticato per la sua partecipazione al problema della storia letteraria è Luigi La Vista, del quale ci è pervenuta una confessione suggestiva: Se potessi insegnare, professare un corso, farei una storia della letteratura italiana. Tiraboschi, Andrés, Sismondi, Ginguené, Corniani, Ugoni, Maffei, Villemain, chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. Una storia della letteratura italiana sarebbe una storia d’Italia. Che studii, che ricerche, che novità88! 88

L. La Vista, Memorie e scritti cit., pp. 182-183.

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Di lui ci è rimasto anche un concreto abbozzo storiografico nel postumo Studio sui primi due secoli della letteratura italiana (cfr. Memorie e scritti di Luigi La Vista, cit., pp. 305-341). Sul La Vista si veda: E. Raimondi, Francesco Petrarca, il petrarchismo e uno scolaro del De Sanctis, nel vol. dello stesso autore Lo stile tragico alfieriano e l’esperienza della forma petrarchesca e altri studi, Bologna: Società tipografica Mareggiani, 1951, pp. 45-58. 7. – La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis uscì a Napoli, presso l’editore Morano, in due volumi che portano entrambi la data del 1870 (ma il secondo apparve alla fine del 1871). Quasi un’appendice della Storia formano le lezioni su La letteratura nel secolo XIX, svolte dal De Sanctis nell’Università di Napoli negli anni accademici 1871-75, raccolte da F. Torraca e pubblicate dal Croce a Napoli nel 1897. Sul De Sanctis si veda il gruppo di studi del Croce: Come fu scritta “La storia della letteratura italiana”, in Una famiglia di patrioti e altri saggi, Bari: Laterza, 1927; e, nello stesso volume, Le lezioni sulla letteratura italiana del secolo XIX, e anche F. De Sanctis e i suoi critici recenti; si vedano poi: De Sanctis e l’hegelismo, in Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, Bari: Laterza, 1927; Francesco De Sanctis, nel citato volume primo della Letteratura della Nuova Italia; e infine: Gli scritti di Francesco De Sanctis e la loro varia fortuna, Bari: Laterza, 1917 (a cui fanno seguito le “Aggiunte alla bibliografia desanctisiana”, in «La Critica», XXI (1923), pp. 39-42, 91-94). Sono pure da consultarsi: E.G. Parodi, “De Sanctis”, nel «Marzocco» del 6 marzo 1910; e, dello stesso, “Una nuova edizione del De Sanctis” e “De Sanctis storico della letteratura”, rispettivamente nel «Marzocco» del 14 luglio 1912 e del 25 marzo 1917; G. Citanna, “Il problema della storia letteraria e l’opera del De Sanctis”, in «Pegaso», I (1929), parte 2a, pp. 414-419; E. Cione, L’estetica di F. De Sanctis, Firenze: Barbera, 1935; e dello stesso Cione, F. De Sanctis, Messina-Milano: Principato, 1938; F. Neri, Il De Sanctis e la critica francese, in Storia e Poesia, Torino: G. Gambino, 1936, pp. 137-187; F. Biondolillo, La critica di F. De Sanctis, Napoli: Morano, 1936; F. Montanari, Francesco De Sanctis, Brescia: Morcelliana, 1939; M. Valgimigli, F. De Sanctis, in Poeti e filosofi di Grecia, Bari: Laterza, 1940, vol. II, pp. 627-645; E. Li Gotti, Attualità della critica del De Sanctis, in Saggi, Firenze: La Nuova Italia, 1941, pp. 181-186; W. Binni, “L’amore del concreto e la nascita della situazione nella prima critica desanctisiana”, in «La Nuova Italia», XIII (1942), pp. 49-55; L. Russo, F. De Sanctis e la cultura napoletana, Bari: Laterza, 19422; e dello stesso Russo, “La Storia del De Sanctis”, in «Belfagor», V (1950), pp. 257-270, ristampato in Ritratti e disegni storici, serie III, Dal Manzoni al De Sanctis, Bari: Laterza, 1953, pp. 264-285 (nello stesso volume, si veda anche La carriera mentale

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di Francesco De Sanctis, pp. 207-264); A. Momigliano, Le lezioni torinesi del De Sanctis sulla “Divina Commedia”, in Elzeviri, Firenze: Le Monnier, 1945, pp. 1-7; C. Muscetta, La poetica realistica e il gusto del De Sanctis scrittore, nel vol. miscellaneo Studi desanctisiani, Napoli: Guida, 1931, pp. 11-53 (a questo studioso si deve tutta un’amorosa attività di editore, di bibliografo e di storico spesa intorno al De Sanctis: cfr. F. De Sanctis, Pagine sparse, Bari: Laterza, 1934; e i voll. XI e XII delle Opere nell’edizione einaudiana, Torino, 1951 e 1953); M. Fubini, Il giudizio del De Sanctis sul Metastasio e una questione di storia letteraria, nel volume Romanticismo italiano, cit., pp. 181-194 (interessante anche per la questione delle letterature comparate). Si veda infine l’introduzione alla Scelta di scritti critici di Francesco De Sanctis a cura di G. Contini, Torino: Utet, 1949 (dove si potranno trovare altre indicazioni bibliografiche). Sull’interpretazione del Contini si vedano le osservazioni di Dario Puccini (nella rivista «Società» del marzo 1950, pp. 163-168), importanti come documento della posizione marxista nei riguardi del De Sanctis, posizione che trova il suo primo avvio in Antonio Gramsci (del quale si confronti specialmente Letteratura e vita nazionale, Torino: Einaudi, 1950, alle pp. 5-6, dove fra l’altro si trova questo asserto: «...il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro, meno che mai dal Carducci»); e si veda anche C. Muscetta nella Introduzione al vol. XII delle citate Opere di Francesco De Sanctis, p. xxxiv; C. Salinari, “Il ritorno di De Sanctis”, in «Rinascita», IX (1952), pp. 289-292 (ma cfr. B. Croce, “De Sanctis-Gramsci”, in «Lo Spettatore Italiano», V (1952), n. 7, ora in Terze pagine sparse, Bari: Laterza, 1955, vol. I, pp. 166168); V. Gerratana, “De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci?”, in «Società», VIII (1952), pp. 497-512: del De Sanctis è rivendicata soprattutto, da questa critica, a preferenza dei Saggi, la Storia, interpretata naturalmente in senso anticrociano, per la validità del suo ritmo dialettico. Si tengano finalmente presenti: A. Accame Bobbio, “Esigenze e insidie del ritorno al De Sanctis”, in «Humanitas», VIII (1953), pp. 1242-1245; R. Wellek, “Francesco De Sanctis e la critica dell’Ottocento”, in «Convivium», XXV (1957), pp. 308-330; N. Sapegno, Introduzione a F. De Sanctis, Opere, Milano-Napoli: Ricciardi, 1961; S. Romagnoli, Studi sul De Sanctis, Torino: Einaudi, 1962; P. Antonetti, Francesco De Sanctis (1817-1883). Son évolution intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence: Ophrys, 1963; A. Piromalli, Vita morale e stile nella “Storia” di F. De Sanctis, in Saggi critici di storia letteraria, Firenze: Olschki, 1967, pp. 43-66. 8. – L’ultima redazione dei discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale è del biennio 1873-1874. Prima di essi sarebbe da tenere presente anche la

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prolusione detta dal Carducci quando il 22 novembre 1860 salì sulla cattedra di Bologna (si trova in G. Carducci, Opere, ed. naz., vol. V, Bologna: Zanichelli, 1936) e non si dovrebbe dimenticare una lettera del 12 gennaio 1860 a Carlo Gargiolli, che contiene interessanti giudizi su Crescimbeni, Quadrio, Tiraboschi, Andrés, Ugoni, Sismondi, Ginguené (Lettere, ed. naz., vol. II, pp. 44-48). Sul Carducci critico cfr.: G. Maugain, G. Carducci et la France, Paris: Champion, 1941; B. Croce, G. Carducci, Bari: Laterza, 19272; A. Galletti, L’opera di G. Carducci, Bologna: Zanichelli, 1923, vol. I; T. Parodi, Giosuè Carducci e la letteratura della Nuova Italia, saggi raccolti da F. Antonicelli, Torino: Einaudi, 1939; D. Mattalia, L’opera critica di Giosuè Carducci, Genova: E. Degli Orfini, 1934; L.F. Benedetto, “Carducci e la Francia”, in «Pan», III (1935), vol. 6, pp. 25-43, ora nel citato volume dello stesso autore Uomini e tempi (dove sono da vedersi anche le pagine Ai tempi del metodo storico), pp. 421-442; L. Russo, Carducci critico, in La critica letteraria contemporanea, Bari: Laterza, 1953, vol. I, pp. 1-36; A. Momigliano, Carducci critico, in Studi di Poesia, Bari: Laterza, 1938, pp. 194-201. Si leggano, per un tipico riscontro della posizione del problema della Storia letteraria in senso positivistico, le pagine della prolusione di A. Graf, Di una trattazione scientifica della storia letteraria, Torino: Loescher, 1877. Il Bartoli (mentre già aveva iniziato la pubblicazione, a Milano, dei fascicoli raccolti poi nel 1880 in un unico volume – che mantiene un tono compilatorio – dal titolo I primi due secoli della letteratura italiana) fece uscire a Firenze negli anni compresi fra il 1878 e il 1889 una Storia della letteratura italiana in 7 voll. (rimasta interrotta al Petrarca). Sul Bartoli si vedano le pagine di F. Neri, La scuola del Bartoli, ora raccolte nel volume citato Letteratura e leggende, pp. 10-32; e di B. Croce, La critica erudita e i suoi avversari, nella Letteratura della Nuova Italia, Bari: Laterza, 1929, vol. III, pp. 373-391. La Geschichte der italienischen Literatur di Adolfo Gaspary uscì in 2 voll. a Berlino dal 1884 al 1888 e fu subito tradotta in italiano (da Nicola Zingarelli il primo vol., da Vittorio Rossi il secondo, diviso in due parti) e pubblicata a Torino dal 1887 al 1891. Nel 1900-1901 uscì poi una 2a edizione delle due parti del II volume, e nel 1914 una 2a edizione del primo volume, entrambe rivedute ed accresciute dai traduttori. Dell’opera del Wiese e Percopo fu fatta anche un’edizione italiana (Torino 1904). Dilagarono in questi anni numerose storie della letteratura, di cui alcune, in prolungate edizioni, imperarono per molto tempo nelle nostre scuole, come: il Disegno storico della letteratura italiana di Raffaello Fornaciari (Firenze: Sansoni, 1874); la Letteratura italiana dalle origini al 1748 di Cesare Fenini (Milano: Hoepli, 1882); La Storia della letteratura italiana di Carlo Maria Tallarigo (Napoli: Morano, 1887-88); la Storia della letteratura italiana di Giovanni Antonio Venturi (Firenze: Sansoni, 1894); la

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Storia della letteratura italiana di Italo Pizzi (Torino: Carlo Clausen, 1889); le Lezioni di storia della letteratura italiana di Giuseppe Finzi (Torino: Loescher, 1887-95); il Compendio di storia della letteratura italiana di Francesco Flamini (Livorno: Giusti, 1900); la Storia della letteratura italiana di Vittorio Rossi (Milano: Vallardi, 1900-1902). I tre ultimi lavori citati si distinguono per la loro importanza: se il primo, ancora disuguale nelle sue misure esterne (di materia) e interne (di metodo), è pur pregevole per informazione e giudizio, specie nell’ultima parte, e se il secondo è preciso e fitto di notizie, il terzo rappresenta indubbiamente il modello più serio tra le opere di questo genere (se ne veda ora la nuova edizione, aggiornata ed ampliata con attento gusto da Umberto Bosco, Milano: Vallardi, 1943). Su questa materia si confrontino le pagine di R. Spongano, “Alcune storie della letteratura italiana posteriori al De Sanctis”, in «La Nuova Italia», 11 (1931), pp. 47-58. Del Rossi converrà ricordare anche le pagine stampate nel vol. XIX dell’Enciclopedia Italiana alla voce Italia (Letteratura). In esse la storia letteraria viene distinta in due periodi: classico (secoli XIII-XVI) e romantico (secoli XVI-XIX). Già prima G. Bellonci (Pagine e idee, Roma: Sapientia, 1929, specialmente alle pp. 10 e 146) aveva insistito sulla opportunità di sostituire questa visione bipartita a quella tradizionale ritmata su quattro tempi alternati di decadenza e di grandezza: Medioevo, Rinascimento, Seicento, Risorgimento. (Un posto a parte, dignitosissimo, occupa naturalmente la ricordata storia vallardiana distinta per secoli, di cui mantengono tuttora la loro importanza i volumi: Novati e Monteverdi, Le Origini; Volpi, Il Trecento; Flamini, Il Cinquecento. Alla nuova edizione hanno collaborato A. Viscardi, G. Bertoni, N. Zingarelli, M. Apollonio, N. Sapegno, V. Rossi, G. Toffanin, A. Belloni, G. Natali, G. Mazzoni, A. Galletti. Utile è anche la parallela collana del Vallardi, Storia dei generi letterari, che, soprattutto per alcuni dei volumi più recenti, riesce tuttavia più disuguale). Accanto a queste composizioni, e con lo stesso intento pedagogico, ma senza più il valore di cultura (di interesse sperimentale) dei primi analoghi tentativi del Leopardi (la cui Crestomazia italiana poetica per altro il Carducci definiva «un ospitale di storpi o una sala di pezzi anatomici della poesia italiana»89) o, con diversa responsabilità, di Francesco Ambrosoli (autore di un Manuale della letteratura italiana, apparso la prima volta a Milano nel 1831, e poi rifatto e pubblicato nel 1863 e, più tardi, nel 1872), si colloca tutta una serie di antologie, come il Manuale della letteratura italiana di Giovanni Mestica (Firenze: Barbera, 1882-87); il Manuale di letteratura italiana di Tommaso Casini (Firenze: Sansoni, 1886-92); il Manuale della letteratura 89

G. Carducci, Pariniana, in Opere, ed. naz., vol. XVI, 1939 p. 255.

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italiana di Francesco Torraca (Firenze: Sansoni, 1886); la Nuova crestomazia italiana di C.M. Tallarigo e Vittorio Imbriani (Napoli: Morano, 1894); e infine, più solenne di tutti, il Manuale della letteratura italiana di D’Ancona e Bacci (Firenze: Barbera, 1892-95): opere delle quali alcune, per il tono delle illustrazioni storiche intercalate ai brani antologici, tendono ad assumere l’andamento di vere e proprie storie letterarie. I lavori di questo genere, nati lateralmente sul tronco delle narrazioni continuate della vicenda della nostra letteratura, erano destinati a moltiplicarsi in modo inverosimile nel nostro secolo. Tra essi conviene ricordare specialmente l’Antologia della letteratura italiana di Attilio Momigliano, Messina: Principato, 1928, un’opera composta con un sentimento d’arte e una sensibilità storico-critica controllatissimi. Sulle antologie si veda l’importante articolo di E. Santini, “Della Crestomazia italiana del Leopardi e di altre antologie”, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. 11, vol. IX (1940), fase. 1-2, pp. 35-64. Si veda anche: G. Bellonci, Pagine e idee, cit., pp. 276 e ss.; e P.P. Trompeo, Il lettore vagabondo, Roma: Tumminelli, 1942, pp. 243 e ss. Sulle letterature dovute a stranieri (in particolare a proposito di quella del Garnett), per quanto riguarda lo spostamento di prospettiva che in esse subisce la menzione degli autori, si veda M. Praz, Un limbo del vocabolario e della letteratura, nel volume dello stesso autore Machiavelli in Inghilterra e altri saggi, Roma: Tumminelli, 19432, pp. 326-328. Ricordo qui alcune storie della letteratura italiana pubblicate in paesi di lingua tedesca successivamente a quella del Vossler: R. Palgen, Geschichte der italienischen Literatur, Bonn: Athenäum-Verlag, 1949; W.A. Vetterli, Geschichte der italienischen Literatur des 19. Jahrhunderts, Bern: Francke, 1950; G.V. Amoretti, Geschichte der italienischen Literatur, Heidelberg: 1954. Per le prime si veda W.Th. Elwert, “Gli studi italianistici nei Paesi di lingua tedesca dal 1945 al 1953”, in «Paideia», IX (1954), pp. 161-179. Per l’Inghilterra ricordo: E.H. Wilkins, A History of Italian Literature, Cambridge, Harvard University Press, 1954 (se ne veda la rec. di E. Raimondi, in «Convivium», XXIII (1955), pp. 631-632). Per la Spagna: P. Mazzei, Estudio històrico-critico de la literatura italiana, Barcellona: Bosch, 1941; e M. Penna, Historia de la literatura italiana, Madrid: Atlas, 1944. Sono state tradotte in spagnolo le citate storie del Vossler e del Garnett. Per l’America è da citare: Robert A. Hall jr., A short History of Italian Literature, Ithaca (N.Y.): Linguistica, 1952. 9. – Le pagine citate del Croce si possono vedere raccolte in questi suoi volumi: Primi saggi, Bari: Laterza, 19272; Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari: Laterza, 1945, vol. II (alle pagine contenute in appendice a quest’opera si richiama anche la breve nota: “Le storie letterarie e i giu-

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dizi sui libri non letti dai loro storici”, apparsa nei «Quaderni della Critica» del 1947, n. IX, p. 94); Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia, Bari: Laterza, 1950. Le tappe intermedie più importanti sono documentate nelle seguenti opere: le Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1900 (identica è la posizione della Estetica nella 1a ed. del 1902 e nella 2a del 1904); un articolo del 1905, Poeti letterati e produttori di letteratura, ristampato in Problemi di estetica, cit., pp. 103-111; un nuovo articolo del 1906, La storia della letteratura come arte e la «prosa», ristampato nello stesso volume, pp. 122-127; la 3a ed. dell’Estetica del 1908; il Breviario di estetica del 1912; la Licenza ai saggi critici nella Letteratura della Nuova Italia del 1913; l’articolo del 1917 sulla Riforma della storia artistica e letteraria, ristampata in Nuovi saggi di estetica; la Aesthetica in nuce del 1928, ristampata in Ultimi saggi; l’articolo del 1929 Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia, ristampato in Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono; il volume La Poesia del 1936. Questo elenco indica i documenti fondamentali della teoria crociana della storiografia letteraria. Per la sua storia della storiografia letteraria, oltre i citati studi sul De Sanctis, si vedano i due studi del 1903: Storia della critica e storia della estetica, e Storia della critica e storia della storia letteraria (ristampati in Problemi di estetica); e le successive ricerche: Storie nazionalistiche e modernistiche della letteratura, del 1917, e Storie sociologiche della letteratura, del 1919 (ristampate in Nuovi saggi di estetica); ma soprattutto alcuni paragrafi della Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono. Si aggiunga il più recente capitolo Intorno alla critica e storiografia della poesia, in La letteratura italiana del Settecento, cit. Non è il luogo questo per dare un elenco dei numerosi saggi del Croce sulla letteratura italiana, dalla Letteratura della Nuova Italia alle Letture di poeti. Un primo tentativo di raccogliere in una trattazione unitaria i vari saggi del Croce sulla letteratura italiana è rappresentato dai 2 volumi a cura di F. Del Secolo e G. Castellano: B. Croce, Poeti e scrittori d’Italia, Bari: Laterza, 1927, più organico l’esperimento successivamente tentato nei 4 volumi di M. Sansone: B. Croce, La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, Bari: Laterza, 1956-1960. Sul Croce si veda il volume miscellaneo L’opera filosofica, storica e letteraria di B. Croce, Bari: Laterza, 1942, dove è contenuta un’ampia bibliografia fino al 1941. Si veda ancora: L. Russo, La critica letteraria contemporanea, Bari: Laterza, 1942, voll. I e II; M. Fubini, “Ricordo di Benedetto Croce”, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXX (1953), pp. 1-30, ora in Critica e poesia, Bari: Laterza, 1956, pp. 445-483; e si veda anche l’Omaggio a Benedetto Croce, Saggi sull’uomo e sull’opera, dovuto a vari collaboratori per iniziativa della RAI, Torino, 1953; e infine il fascicolo speciale di «Letterature moderne» dal titolo Benedetto Croce, a cura di

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Francesco Flora, con saggi di diversi, 1953. Per un’analisi del pensiero crociano nei confronti della storia letteraria rimando alle pp. 259-272 di questo volume (per le più recenti pagine crociane si veda la Postilla su Croce e la storia letteraria nel presente volume; per le ultime, Storia letteraria per epoche e storia per saggi e monografie, mi limiterò ad osservare che le considerazioni del Croce, validissime quando siano riferite alla «storia della poesia», non sono più valide quando si riferiscano alla «storia della letteratura», la quale è cosa diversa, per il diverso oggetto e per i diversi problemi e limiti, e tale pertanto da non poter essere risolta nella prima). Si veda infine C. Gorlier, “La storia letteraria: Croce e Matthiessen”, in «Lettere Italiane», VII (1955), pp. 36-48, ed E. Bonora, “B. Croce e la letteratura del Rinascimento”, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXLII (1965), pp. 481-512. L’attenzione del Gentile al problema della storia letteraria ha il suo primo documento in una recensione al libro di un francese (P. Lacombe, Introduction à l’histoire littéraire, Paris: Hachette, 1898), apparsa sul «Giornale storico della letteratura italiana», XXXVI (1900), pp. 194-204, e ristampata nel volume Frammenti di estetica e letteratura, Lanciano: Carabba, 1920, pp. 89-109; è poi notevole una recensione alla 3a ed. dell’Estetica crociana pubblicata di nuovo sul «Giornale storico della letteratura italiana», LIII (1909), pp. 160-166, e ristampata nello stesso volume Frammenti di estetica e letteratura, pp. 136-152; fondamentale è infine La filosofia dell’arte (Milano: Treves, 1931). Del Borgese si veda l’articolo “Il metodo nella storia dell’arte”, pubblicato nel 1914 sulla rivista «Il Conciliatore», e ristampato col titolo L’unità nella storia della poesia e delle arti, nel volume Poetica dell’unità, Milano: Treves, 1934, pp. 73-141; del Galletti si tengano presenti le pagine pubblicate sulla «Nuova Antologia», s. VI, CLXXXIV (1916), pp. 135-153, dal titolo Il romanticismo germanico e la storiografia letteraria in Italia; del Russo non si dovrà trascurare lo studio apparso nel 1920 con il titolo Lo svolgimento dell’estetica crociana, raccolto in Problemi di metodo critico, Bari: Laterza, 1929, pp. 107-132. Gli articoli del Bulferetti e del Petrini apparvero su «La Fiera letteraria» del 21 ottobre e del 18 novembre 1928. Del Petrini si veda anche l’ampia Premessa al volumetto Poesia e poetica carducciana, Roma: De Alberti, 1927, ora nell’opera Dal Barocco al Decadentismo, Firenze: Le Monnier, 1957, vol. Il, pp. 77-91. Una recente ripresa della discussione del problema della storia letteraria si può trovare negli articoli di Mario Praz, “Della storia letteraria e di alcune storie letterarie inglesi” in «Immagine», 1949, fasc. 2 e “Sulla storia letteraria” in «Letterature moderne», 1950, fasc. 2: ora nel vol. dello stesso Praz, La casa della fama, Milano-Napoli: Ricciardi, 1952, pp. 3-13. Si vedano in proposito anche le pagine a cui il Praz si richiama dell’opera di Wellek e Warren, Theory of Literature, New York: Harcourt, Brace and Co., 1949

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(la ed. 1942), ora in traduzione italiana, Teoria della letteratura e metodologia dello studio letterario, Bologna: il Mulino, 1956. Del Praz sarebbe del resto da tenere presente, se vogliamo uscire per un momento dai limiti prefissati della letteratura italiana, la suggestiva ed esemplare Storia della letteratura inglese, Firenze: Sansoni, 19587; ma per la storia della letteratura inglese e per lo stesso problema che ci occupa si veda: R. Wellek, The Rise of English Literary History, Chapel Hill: The University of North Carolina Press, 1941, e New York: McGraw-Hill, 1966. Sarà poi da vedere: F. Flora, Le correnti letterarie, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana: 1895-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1950, vol. 11, pp. 161-162. Da non dimenticare è una pagina di Leone Ginzburg solo di recente pubblicata insieme con lo studio a cui fa da premessa (“Guy de Maupassant”, in «Belfagor», VII (1952), pp. 168-170, ora in Scritti, Torino: Einaudi, 1964, pp. 391-394; e da ricordare sono le pagine, a cui il Ginzburg fa riferimento, di A. Rostagni, “Per la storia della letteratura greca”, in «Rivista di filologia classica», LIII (1925), pp. 120). Sull’attività storiografica di Rostagni, cfr. I. Lana, “Augusto Rostagni”, in «Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino», Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Serie 4a, n. 3, 1962. Qualche accenno interessante è anche in Ugo D’Ascia, “Motivi di critica letteraria nell’opera di A. Omodeo”, in «Lo spettatore italiano», VI (1953), n. 4. Notevoli sono i suggerimenti impliciti nelle ricerche di estetica di L. Pareyson, fra le quali ricordo in particolare quella sulla Formazione dell’opera d’arte, in Estetica, Torino: Edizioni di filosofia, 1954, pp. 97-127, soprattutto per quanto si riferisce allo «spunto». Per la critica straniera sarebbe anche da consultarsi D. Alonso, Poesia española, Madrid: Gredos, 1950, alle pp. 205-225 e specialmente 214-216. Si veda pure (soprattutto per la critica tedesca) V. Santoli alla voce Letteratura nel vol. XX della Enciclopedia Italiana. La Storia della letteratura italiana ad uso delle scuole di G.A. Cesareo uscì a Messina nel 1908. Sulla Storia del Cesareo si veda la particolareggiata analisi del Croce in Conversazioni critiche, serie II, Bari 19242, pp. 192 ss. Sulla Storia del Galletti (Bologna: Licinio Cappelli, 1922) cfr. G. Prezzolini, La cultura italiana, Milano: Corbaccio, 19302, p. 261. La Storia della letteratura italiana e dell’estetica del Bulferetti apparve a Torino nel 1925. Il Compendio di storia della letteratura italiana del Sapegno comprende 3 voll., di cui il 3° diviso in due parti (Firenze: La Nuova Italia, 1936-1947). Degna di una particolare menzione è anche la Storia della letteratura italiana di Mario Sansone, Napoli: Loffredo, 1938. Meritano pure di essere ricordate per la loro ampiezza le storie letterarie di G. Zonta, Storia della letteratura italiana, Torino: Utet, 1928-32; di A. Pompeati, Storia della letteratura italiana, Torino: Utet, 1945.

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La Storia della letteratura italiana in corso di pubblicazione presso l’editore Garzanti, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, si deve considerare non tanto come una storia, quanto piuttosto come una raccolta di monografie composte con diverso impegno e metodo diverso. Non è il caso di citare i numerosi manuali scolastici, fra i quali mi limiterò ad accennare a quelli di P. Carli e A. Sainati, di F.L. Mannucci, di N. Busetto, di A. Viscardi e A. Pompeati, di P. Ricci e G. Petrocchi. La Storia della letteratura italiana di Luigi Russo (Firenze: Sansoni, 1957) si riduce in sostanza a un centone di pezzi critici di valore assai disuguale e non sempre esenti da errori. Sul Donadoni cfr. G. Marzot, “Donadoni o la critica come umanità”, in «La Nuova Italia» XI (1940), pp. 289-297; e W. Binni, “Eugenio Donadoni nel venticinquesimo anniversario della morte”, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. 11, vol. XVIII (1949), fasc. 1-11, pp. 1-13. Sul Momigliano: G. Marzot, “Pagine sul Momigliano”, in «La Nuova Italia» VI (1935), pp. 339-348; L. Russo, La critica letteraria contemporanea, cit., vol. III; G. Petronio, “Un maestro: Attilio Momigliano”, in «Nuova Antologia», CDXL (1947), pp. 66-76; C. Varese, “Attilio Momigliano”, in «Convivium», XIX (1950), pp. 434-440; V. Branca, “Attilio Momigliano”, in «Siculorum Gymnasium», n.s., VI (1953), n. 1; G. Getto, Poeti critici e cose varie del Novecento, Firenze: Sansoni, 1953, pp. 138-161. Sul Flora: L. Russo, La critica letteraria contemporanea, cit., vol. III, pp. 117-161; C. Calcaterra, La “Storia della letteratura italiana” di Francesco Flora, nel volume Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna: Zanichelli, 1944, pp. 379-391; si vedano inoltre le mie pagine: “Francesco Flora e le istituzioni letterarie”, in «Humanitas», I (1946), pp. 301-309, e ora nel volume Poeti critici e cose varie del Novecento, cit., pp. 119-137. Infine: E. Mazzali, “Profili di critici-scrittori: Francesco Flora”, in «Ausonia», IX (1954), pp. 7-25; M. Fubini, “Francesco Flora”, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI (1963), pp. 155-160. Mi piace chiudere questa nota bibliografica ricordando il recentissimo libro di C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (Torino: Einaudi, 1967), che, non solo nello studio che dà il titolo al volume ma anche negli altri saggi raccolti, offre, in maniera implicita e pur molto concreta, alcuni esempi suggestivi del modo in cui si può concepire una storia della letteratura.

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POSTILLA SU CROCE E LA STORIA LETTERARIA

Il Croce, pubblicando i due volumi sui Poeti e Scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, che rappresentano il risultato di una vasta esplorazione nella letteratura del Cinquecento e potrebbero far pensare, secondo la stessa previsione dell’autore, a un quadro compiuto di quell’età letteraria, aggiungeva, quasi a giustificarsi per chi guardasse questa sua fatica sotto l’angolo visuale di un concetto o di un preconcetto di compiuta storia della letteratura, due «postille» finali, Ancora del modo di trattare la storia della letteratura e Di un rinfrescamento dei quadri della storia letteraria italiana, nelle quali, e in modo particolare nella prima, l’importante problema storiografico si ripresenta ancora una volta alla mente del filosofo, e vengono ribadite le sue idee «circa il modo più fruttuoso, ai fini della scienza – o per meglio dire, del sapere – di trattare la storia letteraria». Precisando il suo pensiero, il Croce si preoccupava di chiarire che la forma di storia della poesia e della letteratura da lui negata quella che, trascendendo i singoli autori e le singole poesie, assume di ricercare e descrivere il carattere generale della poesia di un’epoca e di un popolo e i modi conformi con cui si manifestò e si svolse; e con ciò apre la via a una sequela di travagliose disquisizioni sul nulla1.

In sostanza, egli veniva a negare come arbitrarie e l’indagine circa il carattere della poesia delle varie epoche e dei vari popoli e «la storia unitaria che gli corrisponde». E su questo punto crediamo che sia ormai facile consentire, soprattutto quando si tenga presente quell’esercizio critico dal Croce promosso, e da lui stesso per gran parte condotto, i cui fecondi risultati noi abbiamo non solo largamente documentato ma anche in parte applicato come criterio di giudizio negli ultimi capitoli della nostra Storia delle storie letterarie, alla quale ancora una volta ci permettiamo di rimandare. 1 B. Croce, Ancora del modo di trattare la storia della letteratura, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari, Laterza, 1945, p. 252.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

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Ma l’eminente studioso, nel passare ad illustrare l’attività del critico (il quale dovrebbe «mercé di quella che si chiama l’interpretazione storica idealmente ripercorrere quel processo che importa l’elevarsi del poeta sulla storia del suo tempo e del suo popolo per attingere la poesia»), così prosegue: Questo lavoro critico che si attiene unicamente all’individualità delle singole poesie e non se ne lascia distrarre, conferisce le parti che hanno pregio nelle storie medesime condotte per caratteri generali, le quali, nonostante l’intento che si propongono e di cui si vantano, dalla necessità logica sono sovente costrette a confinare l’esecuzione di quello a pagine introduttive o a un inquadramento che rimane esterno e inerte, e, nel corso della trattazione, a dar luogo a migliori e più concreti giudizi pur in mezzo alla passività e vacuità degli altri distorti e artificiali, che lo schema qua e là impone2.

E su queste parole sorge un nostro primo motivo di incertezza. Poiché questa affermazione, pur riuscendo sostanzialmente esatta, non si può disconoscere che insinui una certa limitazione, che finisce con il diventare quasi una negazione, sulla possibilità della storia letteraria. Un contegno che sembra derivare da uno slittamento insensibile dal piano teorico su quello pratico. In realtà il Croce fa qui sentire la propria diffidenza verso quel genere critico che è la storia della letteratura. Il quale non potrà mai trovare, stando al Croce, un fondamento scientifico, ma soltanto una giustificazione pratica e scolastica. Per questo egli si preoccupa di mettere in guardia contro un preconcetto che la necessità dei manuali e dei compendi mantiene o favorisce: il preconcetto che il fine sommo e il termine della critica e storia letteraria sia riposto nel formare quadri compiuti della poesia e letteratura di un popolo e di un secolo o di un periodo, nei quali tutti gli autori e tutte le opere e tutte le parti di opere che abbiano originalità o importanza siano ricordate, catalogate e descritte, e ricevano giudizio ultimo e definitivo3.

Sicché, conclude il Croce, chi, non pago di fornire alla scuola i buoni manuali che le sono necessarî, si sforza di innalzare il manuale stesso a tipo scientifico, pur nel dargli forma di quadro della poesia e della letteratura di un’epoca o di un popolo, non può evitare, per l’assunto stesso di siffatto quadro, l’inconveniente di dover trattare anche di opere e di autori circa i quali non sono sorti nella 2 3

Ivi, pp. 254-255. Ivi, p. 255.

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POSTILLA SU CROCE E LA STORIA LETTERARIA

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sua mente problemi nuovi, o pienamente, profondamente e attualmente sentiti, di doverli trattare perché quegli autori e quelle opere debbono essere inclusi nel quadro4.

Ora cotesti dubbi e riserve, per conto nostro, riescono accettabili soltanto come pratico consiglio, quale misura di «igiene» nell’esercizio storiografico, ma appaiono privi di validità sul piano di una considerazione teoretica. Alla luce di questa considerazione noi vorremmo conservare in pieno l’esigenza, non solo manualistica e didattica, ma scientifica e altamente culturale, di una storia della letteratura. Un’esigenza contro la quale, invece, il Croce (ed era il senso di questa sua nota, del resto feconda per gli stimoli di cui è sempre ricca la sua parola) non si stancò di polemizzare, passando continuamente dal piano teorico a quello pratico, dalle «storie per caratteri generali» che non si debbono scrivere perché sbagliate, alle «storie generali» che non si dovrebbero scrivere se non per usi pratici e didattici in quanto pericolose scientificamente e, in certo modo, impossibili per l’universalità e genericità di interesse che richiederebbero. Per quel che riguarda il primo genere di storie chiaro che il Croce ha perfettamente ragione se con l’espressione «per caratteri generali» intende riferirsi a un’indagine «circa il carattere della poesia delle varie epoche e dei vari popoli». Poiché nessuno vorrà più pensare a mantenere vivi questi criteri storiografici, o meglio, autentici miti dell’età romantica (allora senza dubbio utili, ma oggi completamente ingiustificati), e comunque venire a difendere i tentativi di caratterizzazione della letteratura italiana del tipo di quelli proposti da Papini e da Borgese. Altro discorso invece conviene tenere per le «storie generali», le storie che abbracciano tutto un periodo o tutta una tradizione, verso le quali si appunta, in un secondo tempo, la diffidenza del Croce, che giunge in effetti a coinvolgere in una sola svalutazione i due tipi indicati di storia. Queste storie generali noi pensiamo che siano scientificamente possibili, e crediamo anzi che possano bene rappresentare, come qualcuno ha affermato, l’esigenza critica più viva di questi anni. E in realtà quel che il Croce ha fatto nel campo della cosiddetta storia civile o politica, dalla Storia del regno di Napoli alla Storia d’Europa, si sta facendo in questi anni (e si farà ancora più nei successivi) sul terreno della storia letteraria. Si dirà che una cosa è la storia politica e un’altra la storia letteraria. Senza dubbio. Però non si dimentichi, intanto, che noi non parliamo di storia della poesia ma di storia della letteratura, e che quest’ultima inten4

Ivi, pp. 256-257.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

diamo come storia di una civiltà letteraria, e d’altra parte si tenga presente che, a rigore, nemmeno dell’inventività politica e dell’originalità morale, la cui documentazione in quella storia dovrebbe intervenire, è dato parlare al di fuori del chiuso ambito della personalità, la quale sembra escludere ogni esterno sviluppo. Della poesia non è concesso fare storia, l’unica storia possibile è quella del poeta, o meglio (a evitare fraintendimenti di un allotrio biografismo), della personalità poetica: storia del complesso itinerario che porta il poeta alla poesia, analisi, come dice il Croce, dell’elevarsi del poeta sulla civiltà del suo tempo. Perché davanti alla Poesia, come Dante davanti a Dio, il critico non può che tacere, e tutto il suo compito, altissimo e arduo compito, consiste nell’additare la Poesia, nel condurre davanti ad essa attraverso il Paradiso in cui si manifesta, cioè, fuori di metafora, attraverso quel mondo di parole e ritmi, di sentimenti e di emozioni, in cui essa poesia si rivela e su cui regna e in cui in certo modo consiste. Il grande merito del Croce nei nostri studi è stato proprio quello di avere orientato l’indagine critica in questa direzione, cioè verso la poesia, di avere additato il cielo della poesia come meta dell’esercizio critico, contro le deviazioni confusionarie della critica erudita o filologica, retoricistica o impressionistica. Da questa preoccupazione, di dare soprattutto rilievo al valore dominante della poesia, sorge il carattere particolare del metodo critico crociano, e il contegno del suo gusto di saggista. È vivo davanti a ognuno di noi l’andamento tipico del saggio crociano, che si potrebbe ridurre, nei suoi termini essenziali, a un’indicazione altrettanto veloce quanto profonda dell’opera più significativa di un poeta, trascurate quasi per fastidio le opere minori, e nell’interno di essa, del momento poetico, dopo allontanate, di nuovo, come elemento negativo, le parti strutturali o non poetiche. Un metodo che, del resto, egli porta anche nello studio di altre realtà storiche e personalità, oltre che in quello della poesia e dei poeti. Senonché per noi, venuti dopo il Croce, non esiste più l’esigenza polemica, di chiarificazione, che egli avvertì di fronte alla cultura dell’ultimo Ottocento e dei primi decenni del Novecento (e in parte, in taluni motivi sempre risorgenti, anche di questi ultimi anni). La nostra posizione è diversa, e potrebbe definirsi come meno classica e più romantica (se vogliamo servirci in modo approssimativo di questi termini), meno oggettiva e più soggettiva. Insomma, per noi, se la poesia rimane il punto di approdo al quale tende il poeta e al quale il critico deve in ultima analisi badare (e in questo consiste la perenne vitalità dell’insegnamento crociano), l’itinerario inquieto che il poeta percorre, e cioè tutto il processo di poesia e di non poesia della sua espressione e tutte le tappe faticose per le quali egli passa, ora avvicinandosi e ora allontanandosi dalla poesia, sono materia del più vivo interesse storico. Così un poeta sarà da noi

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POSTILLA SU CROCE E LA STORIA LETTERARIA

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studiato non solo nei suoi canti, ma sarà analizzato nei suoi diari e nelle sue lettere e nei tanti addentellati che queste opere istituiscono con altre opere di altri poeti e di altri scrittori, e, per passare a un diverso campo di indagine storiografica, un santo non sarà solo visto, poniamo, come il restauratore e il rinnovatore della casistica (tanto per richiamarci a un esempio che ci è vicino e a un suggerimento cortese che in proposito lo stesso Croce ebbe a darci), ma sarà interpretato senza che nulla sia trascurato della vicenda complessa e umanissima della sua spiritualità. In sostanza, mentre il Croce è stato attento piuttosto a dare rilievo al valore dominante (la poesia, il capolavoro, il significato storico) trascurando tutto il resto, la storiografia venuta dopo sembra soprattutto rivolta a cogliere il profilo sinuoso e sfumato del soggetto visto nel suo rapporto con i valori di cultura e di civiltà. È facile allora rendersi conto che in una simile concezione critica il paesaggio storiografico si atteggia diversamente, facendosi più fitto e ricco di nessi e di passaggi, e che tale concezione avvia naturalmente a intendere la storia letteraria come storia di una civiltà delle lettere, nel senso in cui ne discorriamo nelle pagine che precedono. E questa prospettiva, dopo tutto, non avrebbe dovuto nemmeno dal Croce essere rifiutata. Ricerche come quelle, contenute nei due volumi citati, su La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgimento o sulla Poesia pastorale o sulle Imprese e trattati delle imprese potrebbero rappresentare degli avvii notevoli ad una storia così concepita. Tuttavia, il fatto che egli abbia isolato le ricerche varie di poesia e di cultura letteraria in saggi staccati induce a prevedere una possibile obiezione, vale a dire che questi saggi sono nati intorno a un singolo problema, come in certo modo intorno a un singolo problema o a un complesso unitario di problemi nascevano quei saggi citati di storia politica. Ma nessuno vorrà negare che una concatenazione di problemi esista pure nella vasta materia di cui si compongono i quadri della letteratura italiana: che esista una tradizione, uno svolgimento di civiltà letteraria, un problema di lingua e di linguaggio. Perciò non un estrinseco scopo meramente pratico e didattico, di esatto e compiuto ragguaglio, potrà guidare la composizione di una «storia generale» della letteratura italiana, ma una viva problematica, un desiderio scientifico di indagare quella particolare civiltà letteraria, così come un’alta coscienza storica ha sostenuto il Croce nella composizione della Storia del regno di Napoli. Del resto, se si volesse procedere ancora, e affrontare il problema dell’estensione, della quantità di autori e di fatti menzionati in una storia letteraria, e dell’impossibilità di un interesse da parte dello storico per tutti questi autori «grandi o piccoli, grandissimi o piccolissimi», non si vede come non si dovrebbe riconoscere allo storico una sua concreta possibilità di scelta.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

Fermo restando il principio dell’utilità di un’informazione quanto più vasta possibile (secondo l’esempio dato dallo stesso Croce, esploratore infaticabile di nuovi territori della storia letteraria e rinfrescatore audace dei quadri di essa), lo storico dovrà poi necessariamente scegliere e lasciare, dare il massimo o il minimo rilievo, evitando di confondere la storia della poesia e della letteratura con la bibliografia e con l’inanimato catalogo, e affidandosi per ciò soprattutto ad un criterio estetico e a un sano senso storico (si confronti in proposito una bella pagina di Huizinga, Civiltà e storia, Modena-Roma: Guanda, 1946, pp. 53-54; e ora nel vol. La mia via alla storia, Bari: Laterza, 1967, p. 461). E qui è ovvio che debba intervenire un elemento «didascalico», nel senso cioè che si tratta a un certo punto (una volta invocati i criteri storiografici per stabilire uno spazio necessario ed essenziale) di fissare, in base a un’opportunità puramente espositiva di discorso e di struttura, l’ampiezza del riferimento e del paesaggio storiografico, la vastità della zona, o se si vuole, della zolla, in cui si sviluppa, nel manifestarsi di un’intera civiltà, il fatto letterario e poetico, zona che costituisce appunto l’ambiente e il mondo e la realtà stessa della letteratura. Alla nostra affermazione, circa il criterio in ultima analisi didascalico che presiede alla composizione della storia letteraria, ebbe a richiamarsi con parole di benevolo consenso il Croce in una nota finale alla prima delle due postille sopra ricordate5. Ma noi vorremmo qui precisare il senso in cui abbiamo usato quel termine, e riaffermare l’esigenza viva, storiograficamente e scientificamente valida, che per noi permane (pur sotto quel riconoscimento di un limite di ordine empirico che si insinua a un dato momento nella costruzione della storia letteraria) di una storia generale della letteratura come storia di

. 5

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una civiltà letteraria: una storia che è storia della poesia essenzialmente, ma anche di quella humus in cui si elabora la coscienza della letteratura e della poesia. Ebbene, il Croce sembra volere escludere dalla storia della poesia e della letteratura la storia di quei fatti letterari che hanno un evidente e diretto rapporto con la poesia e la letteratura, ma che poesia e letteratura non sono6, e invitare a svolgere queste indagini in altra sede che non sia la storia della letteratura. Ora, se si deve riconoscere la necessità di condurre questa indagine in separate e autonome ricerche monografiche, sembra nello stesso tempo che sia indispensabile, da parte dello storico della letteratura, tenere d’occhio questi accertamenti verificati in speciali saggi, per richiamarli nel quadro della sua storia, sì da spiegare compiutamente nel suo naturale paesaggio, nel suo clima di civiltà, il fatto letterario. Quanto poi al pericolo avvertito di cadere in tal modo nell’indeterminato e nel caotico, riuscirà sempre possibile evitare la genericità e la confusione quando alla scelta degli autori e dei fatti presieda una norma, che dovrà sì essere data da un rigoroso criterio estetico, ma anche da quella discrezione storica, da quel personale equilibrio didascalico, che accompagna ogni critico e sa, tra gli innumerevoli testi e accadimenti, scegliere e segnare i propri limiti e i propri confini. Ebbene, è a un filone particolare della civiltà letteraria italiana che abbiamo voluto rivolgere l’analisi quando abbiamo scritto la Storia delle storie letterarie. E in questa luce soltanto, che scaturisce da una considerazione fatta dall’angolo visuale della civiltà letteraria, essa trova la sua giustificazione. Si tratta, invero, dello studio di una «struttura», di un «prodotto» di cotesta civiltà letteraria. E in proposito vorremmo chiarire a chi ci faceva osservare che quell’opera «oscilla tra la storia di un problema e la storia di un oggetto», e che «da tale incertezza deriva che le conclusioni del filone storico-teoretico non possono avere quella continuità ed evidenza che sarebbe desiderabile, e dall’altra che un leggero turbamento sembra pesare sul giudizio che l’autore dà di questo o quel lavoro», sicché nel volume si dovrebbe vedere «più che una storia, una serie di monografie e ottime monografie sulle storie del Crescimbeni, del Tiraboschi, dell’Ugoni, ecc.»7, vorremmo chiarire che noi, appunto, non volevamo fare la storia di un problema, ma la storia di una struttura in cui si incontrano il problema teoretico della storia letteraria (che, 6 «Così il vocabolario e la grammatica e l’osservanza dell’uno e dell’altra si provano pur cose necessarie all’educazione letteraria e inseparabili dalla storia di questa educazione, di cui, se non sono il tutto, formano una parte e un momento (il momento della disciplina) [...] Così le storie dei generi letterari ricevono contenuto e andamento storico quando le si riannodi ai bisogni spirituali e morali che in quegli sforzi, vuoti di poesia, si manifestano», Id., Di un rinfrescamento dei quadri della storia letteraria italiana, in Id., Poeti e scrittori cit., pp. 263-264. 7 A. Caracciolo, in «Humanitas», luglio 1946.

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STORIA DELLE STORIE LETTERARIE

del resto, sorge soltanto in tempi molto recenti) e innumerevoli altri problemi di ordine teoretico e pratico, che si rifrangono unitariamente attraverso il prisma di questa struttura. Senonché la realtà storica dello sviluppo di una struttura non potrà avere la continuità che può avere lo sviluppo di un problema filosofico, senza contare che ogni storia finisce sempre con il ridursi, tendenzialmente, a una serie monografica e anzi monadistica. Poiché una storia costruita intorno alla serrata unità di un problema è cosa forse irrealizzabile, in quanto non esiste mai nella vivente oggettività della storia, se non in modo approssimativo, un problema assoluto che valga e si ponga per tutta una civiltà o per tutto un secolo o per una sola personalità. Esistono problemi che si intrecciano variamente, e che si raggruppano e formano ambiti e incontri meglio definibili, che vanno da quello originario della personalità a quello derivato di un movimento o di una scuola, a quello di un’età, a quello ultimo della tradizione. E compito della storia quello di fissare, da un lato, le singole attuazioni di valori o di strutture (le quali ultime sono poi i sostegni di cui l’uomo si giova per giungere ai primi, o comunque i legami che tra essi pone nel suo pensare e operare), e, dall’altro, quello di tracciare raggruppamenti di questi singoli momenti, e determinare quegli incontri, sempre in fondo approssimativi anche se reali, nel clima di una personalità o di una tradizione. E quest’ultimo è l’unico modo concesso (legittimo, pur nelle sue fratture, per un’effettiva continuità di problemi) di fare storia, a meno di rinunziarvi per limitarsi alla iniziale e fondamentale operazione storiografica, cioè alle isolate indicazioni dei momenti di approdo ai valori. Ma è curioso che proprio un errore opposto sia stato attribuito alla nostra ricerca da un altro studioso, quello di avere disposto le «storie letterarie in un diagramma saliente, determinato da una implicita idea di progresso ad infinitum»8. Il che era più che naturale, trattandosi nel caso nostro non già di fare la storia della poesia (o di qualche altro valore, che in quanto tale risulta eterno ed immutabile, sicché non potrebbe tollerare se non la storia dello sforzo umano nella perpetua oscillazione del suo accostarsi e allontanarsi rispetto ad esso), ma di fare la storia di una struttura, di un oggetto, di un risultato scientifico, se si vuole, di una realtà dunque suscettibile di un certo svolgimento e di un suo progresso. E nessuno vorrà negare che la storia letteraria sia una conquista del nostro secolo, alla quale si è giunti attraverso un lento cammino, dai primi tentativi embrionali del Settecento alle forme più consapevoli dell’Ottocento. Comunque, l’esplorazione del faticoso processo che ha portato alla conquista di questa struttura, così caratteristica dei nostri studi umanistici, pen8

G. Marzot, in «La Nuova Italia», luglio-dicembre 1943.

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siamo ancora che non sia stata del tutto inutile, e che rappresenti una collaborazione, pur nei suoi limiti e nelle sue deficienze, alla nostra civiltà letteraria: da una parte contribuendo a illuminarne uno degli aspetti, e precisamente quello della problematica nata intorno a questo suo gusto storiografico, e dall’altra aggiungendo in concreto alle storie rivolte a esplorare i campi più diversi dell’attività intellettuale, delle quali è sempre più sentito il bisogno, questa particolare storia di un determinato territorio della cultura9.

9 L’esigenza da noi ripetutamente affacciata (fin dagli anni in cui iniziavamo questa ricerca) relativa alle storie particolari della cultura, è oggi sempre più avvertita. E fortunatamente incomincia a essere soddisfatta. Basterebbe ricordare due lavori di assai diversa indole, ma ugualmente significativi al nostro proposito: quello di Ferruccio Ulivi, Galleria di scrittori d’arte, Firenze: Sansoni, 1953, che riguarda la letteratura artistica (delle arti figurative) dal Sei al Settecento, e quello di Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze: Sansoni, 1960.

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INDICE DEI NOMI

Achillini, Claudio 162 Accame Bobbio, Aurelia 314 Affò, Ireneo XXV, 60n., 66, 301 e n., 303, 309 Albertazzi, Adolfo 257 Alberti, Leon Battista 220 Albertino Mussato 9 Albini, Giuseppe 243n. Alessandro Magno 59 Alfani, Gianni 20 Alfieri, Vittorio 124, 155, 163, 176, 178, 188, 194, 224, 253 e n., 307 Algarotti, Francesco 63 Alighieri, Dante 5-7, 9, 11, 13, 16, 19-21, 23, 32n., 40-42, 45, 49, 51, 60, 85, 108n., 135n., 139n., 147, 160, 162, 163, 167, 173, 177, 184, 188, 194, 202, 212, 217219, 221, 224, 247, 275, 286, 298, 301, 326 Alighieri, Jacopo 20 Allacci, Leone 25 Allasia, Clara IX, X Alonge, Roberto XI e n. Alonso, Damaso 320 Alpino, Enrico 307 Alterocca, Arnaldo 286 e n. Ambrosoli, Francesco 116 e n., 151 e n., 193n., 257, 307, 316 Amoretti, Giovanni Vittorio 317 Andrés, Juan 90, 91, 111, 183, 210, 304, 312, 315 Andrucci, Giuseppe Maria (pseud. di Quadrio, Francesco Saverio) 52, 300 Antonetti, Pierre 314 Antonicelli, Franco 248n., 315 Apollonio, Mario 316 Aprosio, Angelico 25 Arato, Franco 26n. Arcari, Paolo 119n.

Aretino, Pietro 189, 222, 232, 233 Ariosto, Ludovico 12, 13, 87, 155, 168, 178, 188, 194, 221, 227, 253 e n., 275 Arisi, Francesco 66, 302 Aristotele 43, 217 Arscone, Pier Mario XXVI Arsilli, Francesco 16, 17n. Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano 43, 59, 86 Bacchini, Benedetto 71 Bacci, Orazio 7n., 151, 152, 257, 258, 296, 317 Balbo, Andrea XXVI Baldacchini, Saverio 171, 172 e n., 173, 174 Baldensperger, Fernand 301 Bandini, Angelo Maria 66, 302 Banfi, Antonio 2 Barante, Prosper de 111, 114 Barberi Squarotti, Giorgio XIn., XVIII e n. Barbieri, Giammaria 24 Baretti, Giuseppe 31 e n., 32, 33, 64 e n., 298, 299 Barlaam di Seminara 6 Baronio, Cesare 44 Bartoli, Adolfo 242, 248, 249 e n., 250, 251, 256, 257, 315 Bartoli, Daniello 223 Battlori, Miquel 304 Becelli, Giulio Cesare 55, 300 e n. Becherucci, Isabella 122n. Beil, Else 304 Belisario, Flavio 16 Bellonci, Goffredo 316, 317 Belloni, Antonio 257, 284 e n., 297, 316 Bellorini, Egidio 67n., 116n. Bembo, Pietro 13, 19, 20n., 21, 22, 43, 162, 297 Bender, Helmut 305

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INDICE DEI NOMI

Benedetto, Luigi Foscolo 305, 315 Benivieni, Girolamo 39 Berchet, Giovanni 78, 116 e n., 120, 121 e n., 122, 123 e n., 124, 125 e n., 127, 133, 134, 135, 140, 141, 142, 144, 148 e n., 153, 155, 307 Bernardo da Bologna 25 e n., 66, 297, 303 Berni, Francesco 25, 250 Bertana, Emilio 257 Bertelli, Sergio 299 Bertola de’ Giorgi, Aurelio 90 Bertoni, Giulio 257, 259, 299, 316 Bettinelli, Saverio 63, 76, 80, 83, 97, 129, 302 Bigi, Emilio 296, 299, 304, 306 Binni, Walter 302, 313, 321 Biondolillo, Francesco 313 Boccaccio, Giovanni 6, 7 e n., 9, 13, 14, 16, 20, 21, 51, 68, 140n., 147, 160, 161, 177, 194, 202, 212, 219, 220, 222, 225, 227, 247, 250 Boiardo, Matteo Maria 188, 220 Boileau, Nicolas 49, 119n. Bonald, Luis de 114 Bonaventura da Bagnoregio, santo 217 Bonfatti, Alfredo 304 Bonifacio VIII, papa (Benedetto Caetani) 46 Bonora, Ettore 297, 302, 319 Bonstetten, Charles Victor de 11 e n. Borgese, Giuseppe Antonio 22n., 122n., 127, 163 e n., 176n., 187n., 189 e n., 200n., 204n., 235n., 275, 276 e n., 283 e n., 284, 296, 306, 307, 319, 325 Borghesi, Diomede 25n. Borsieri, Giambattista 127 Borsieri, Pietro 118 e n., 119 Bosco, Umberto 311, 316 Boscovich, Ruggiero Giuseppe 127 Botta, Carlo 107 e n. Bouhours, Dominique 49, 51 Bouterweck, Friedrich 99, 100, 111, 116 e n., 117, 120, 121, 123-125, 142, 307 Branca, Vittore XI e n., 300, 321 Breme, Ludovico Arborio Gattinara di 301, 310 Brenta, Marcello 280n. Brognoligo, Gioacchino 284n. Brunetière, Ferdinand Vincent-de-Paul Marie 229 e n. Brunetto Latini v. Latini, Brunetto Bruni, Leonardo 7

Bruno, Giordano 9, 40, 177, 223 Bulferetti, Domenico 280 e n., 287 e n., 302, 319, 320 Buonagiunta Orbicciani da Lucca 20 Buonarroti, Michelangelo 173 Buonmattei, Benedetto 25n. Busetto, Natale 321 Byron, George Gordon 310 Calcagnini, Celio 22 Calcaterra, Carlo 2, 299, 301, 302, 310, 321 Caligola (Gaio Giulio Cesare Germanico) 16 Calvi, Donato 297 Camerini, Eugenio 169 e n. Campanella, Tommaso 223, 237 Campo, Mariano 274n. Cancellieri, Francesco 17n. Canello, Ugo Angelo 257 Cantalamessa Carboni, Giacinto 143n., 309 Cantù, Cesare 171, 184, 185 e n., 186, 187 e n.-189 e n., 190, 195, 199, 209, 231, 233, 311 Capra, Luisa 302 Caprioglio, Chiara XXVI Caracciolo, Alberto 329 Cardella, Giuseppe 109n., 119, 120, 130n., 145, 308, 309n., 310 Carducci, Giosuè XIXn., 97, 138n., 139n., 141, 150 e n., 151 e n., 171, 179, 190, 235 e n., 237, 242 e n.-245 e n., 246n.248n., 253, 254 e n., 256, 285, 311, 314-316 Carli, Plinio 321 Caro, Annibal 13 Carrara, Enrico 257 Casini, Tommaso 257, 316 Castellano, Giovanni 265n., 318 Castiglione, Baldassare 9, 13 Caterina da Siena, santa 98 Cavalcanti, Guido 20, 23, 42, 279 Cecchi, Ottavio XIXn. Cecchi, Emilio 297, 321 Cereseto, Giovanni Battista 184 e n., 312 Cesareo, Giovanni Antonio 285 e n., 286 e n., 320 Cesarotti, Melchiorre 67, 90, 285, 299, 304, 306 Chiarini, Giuseppe 151 Cian, Vittorio 25n., 304 Cicconi, Luigi 170 e n., 171 e n., 184 Cicerone, Marco Tullio 9, 12

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INDICE DEI NOMI

Cielo (Ciullo) d’Alcamo 217 Cifarelli, Paola XXVI Cinelli Calvoli, Giovanni 26 Cino da Pistoia 6, 20, 42 Cione, Edmondo 238n., 281n., 313 Citanna, Giuseppe 236n., 281 e n., 313 Claudiano, Claudio 7 Cola di Rienzo 202 Colonna, Vittoria 13 Compagni, Dino 212 e n. Concari, Tullo 56 e n., 257, 300 Consiglio, Alberto 280n. Constant de Rebecque, Henri-Benjamin 111 Conti, Giusto de’ 39 Contini, Gianfranco XVIII e n., 314 Corniani, Giovan Battista 93, 94 e n., 95, 96 e n., 97, 98 e n., 99, 100 e n., 102104, 110, 118n., 126, 130, 159, 183, 305, 312 Cortese, Nino 183n., 311 Cortesi, Paolo 9, 10n. Costanzo, Mario 300 Cozzando, Leonardo 297 Crasso, Lorenzo 26, 53, 298 Crescenzi, Pietro de’ 21 Crescimbeni, Giovan Mario 5, 19, 30-33, 34 e n., 35, 36 e n., 39 e n., 40-44, 46 e n., 47, 48, 51, 53, 54, 57, 69, 84, 87, 118, 121, 129, 135, 149, 153, 154, 172, 298, 299, 315, 329 Crisolora, Manuele 10 e n. Croce, Benedetto X, XI, XII e n., XIII, XIV e n., XV e n., XVI e n., XVII e n., XIX e n., XX e n., XXI e n., XXIII, 1, 2, 11n., 12n., 40, 50n., 78n., 91n., 92n., 102 e n., 114n., 126n., 138n., 139n., 148n., 171n., 172n., 181n., 184n., 187, 188 e n., 190n., 203n., 212n., 214n., 227 e n., 235, 238n., 241, 244n., 248n., 250n., 255n., 259 e n., 260 e n., 261, 262 e n.-266 e n., 267, 268 e n., 269, 270, 272-279, 280n., 281, 282, 285 e n., 286, 289, 297, 299, 305-307, 309 e n., 311-315, 317-320, 323 e n., 324-327, 328 e n., 329 Dal Toso, Pompeo 110 D’Ancona, Alessandro 151, 152, 242n., 258, 317 D’Annunzio, Gabriele XVI, 254 e n. D’Ascia, Ugo 320

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Daunou, Pierre 104, 306 De Angelis, Luigi 143n., 144, 310 Debenedetti, Santorre 296 De Carli, Ferruccio 299 De Gubernatis, Angelo 90n. De’ Liguori, Alfonso, santo XIII, XIV Della Casa, Giovanni 162 Della Chiesa, Francesco Agostino 298 Della Terza, Dante XXIn. De Lollis, Cesare 238 Del Secolo, Floriano 318 De Meis, Angelo Camillo 184n. Denina, Carlo 47, 58, 59 e n., 60, 61 e n., 62 e n., 63, 64, 76, 78, 80, 83, 90, 97, 111, 128, 129, 136, 231, 300, 301 De Robertis, Giuseppe 139n., 237 De Rolandis, Giuseppe Maria 143n., 310 De Sanctis, Francesco IX, XIX, 11 e n., 26, 40, 48, 71, 119n., 124, 138n., 139n., 142, 152, 169, 170, 172n., 179, 182 e n.-184 e n., 186 e n.-188 e n., 189, 190 e n., 204 e n., 205, 207, 209 e n., 211, 212 e n., 213, 214 e n., 215 e n., 216, 217 e n., 221, 222, 225, 226 e n., 227 e n., 228-234, 235 e n.-238 e n., 241, 242, 244 e n., 248, 251, 252, 254, 259, 260-262, 264, 265, 267 e n., 278, 281n., 285-288, 309 e n., 311-314, 316, 318 Dionisio da Genova 25n. Dionisotti, Carlo 297, 321 Doglio, Maria Luisa XVII e n., XIXn., XXVI Donadoni, Eugenio 134n., 287 e n., 288 e n., 290, 291, 307, 321 Donati, Forese 20 Doni, Anton Francesco 13, 14, 15 e n., 16 Donnici, Gabriella XXn. Du Bos, Jean-Baptiste 55, 63 Duranti, Pietro 302 Duro, Aldo 308 Elwert, W. Theodor 317 Emiliani Giudici, Paolo 5, 32 e n., 78, 103, 128, 140, 143, 152 e n.-154 e n., 155163, 164 e n., 165-169, 170 e n., 171, 172n., 174 e n., 175, 176, 179, 183, 184, 186, 187, 191, 196, 198, 199, 201, 203, 204, 207, 208, 216, 226, 231, 298, 311 e n., 312 Enzo, re di Sardegna 20 Equicola, Mario 22, 23n., 24 Errico, Scipione 29, 298

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INDICE DEI NOMI

Étienne, Louis 252, 253 e n., 254 Fabricius, Johann Albert 53 Fabrizio v. Fabricius, Johann Albert Fabroni, Angelo 66, 302 Fabruzio da Bologna 20 Facio, Bartolomeo 9 Fantoni, Giovanni 163 Fantuzzi, Giovanni 66, 303 Farinelli, Arturo 305 Fauriel, Claude 107 e n., 244 Fazio, Bartolommeo v. Facio, Bartolomeo Federici, Domenico Maria 143n., 310 Federico II di Hohenstaufen 20, 177, 202 Federico d’Aragona 11, 19, 45 Fénelon (François de Salignac de La MotheFénelon) 63 Fenini, Cesare 257, 315 Ferguson, Wallace K. 297 Ferraù, Giacomo 10n. Ferretti, Giovanni 110n. Festa, Nicola 307 Ficara, Giorgio XXVI Fichte, Johann Gottlieb 197 Filelfo, Francesco 10 e n. Filelfo, Giovan Mario 10 e n. Filelfo, Scipione 10 e n. Finzi, Giuseppe 257, 316 Flacio, Mattia v. Vlacÿicÿ, Matija Flamini, Francesco 19 e n., 257, 297, 316 Flora, Francesco XX e n., XXI e n., 190n., 227n., 243n., 259 e n., 289 e n., 290, 291, 307, 319, 320, 321, 328n. Floriani, Piero 300 Foffano, Francesco 257, 296 Folengo, Teofilo 237 Fontanini, Giusto 51, 66 e n., 121, 302 Fontenelle, Bernard le Bovier de 49, 63 Fornaciari, Raffaello 257, 315 Fornari, Simone 118 Forti, Fiorenzo 299 Foscarini, Marco 66, 73, 302 Foscolo, Ugo XIXn., 25n., 31, 32 e n., 33, 64 e n., 72, 82 e n., 108 e n., 134 e n., 135 e n., 136, 137, 138 e n., 140 e n., 149, 150, 153, 154, 157, 163, 165, 178, 188 e n., 204, 224, 230, 243, 298, 307, 309, 310 Francesco d’Assisi, santo 39 Francesco da Barberino 6 Franchini, Giovanni 297 Frescobaldi, Dino 20 Frugoni, Carlo Innocenzo 60, 301

Fubini, Mario 149 e n., 299, 307, 309, 314, 318, 321 Fueter, Eduard XIV, 47, 297 Fumagalli, Giuseppe 298, 303 Funaioli, Gino 296 Fusco, Antonio Maria 12n., 296 Galilei, Galileo 68, 155, 223 Galletti, Alfredo XIVn., 244n., 245n., 257, 276, 277 e n., 286 e n., 315, 316, 319, 320 Gallo Pisano 20 Gandolfi, Domenico Antonio 66, 303 Gargiolli, Carlo 315 Garin, Eugenio 300 Garnett, Richard 254 e n., 255, 256, 317 Garzoni, Tommaso 13 Gaspary, Adolf 250, 251 e n., 252, 256, 260, 315 Gaurico, Luca 53 Gellio, Aulo 12 Genovese, Lino 280n. Gentile, Giovanni XVIn., XVIIn., XX, 272 e n.-274 e n., 275, 279, 282, 319 Gentile, Marino 34n., 56 e n., 62n., 80n., 299 Gerini, Emanuelle 143n., 310 Gerratana, Valentino 314 Gesualdo, Giovanni Andrea 118 Getto, Giovanni IX, X, XXVI, 321, 328 Gherardini, Giovanni 26, 110, 307 Gherardini, Lorenzo 297 Ghidetti, Enrico XIXn. Ghilini, Girolamo 26, 298 Ghisilieri, Guido 20 Giammattei, Emma XVIn., XVIIn., XXn., XXIn. Giano della Bella 247 Giannone, Pietro 204n., 224 Gimma, Giacinto 5, 32, 44, 45 e n., 46 e n., 47, 48 e n., 49 e n., 50-52, 54, 56, 57, 69, 71, 73-75, 83, 84, 96, 102, 129, 154, 299, 300 Ginguené, Pierre-Louis 99, 100, 101 e n., 104, 105 e n., 106, 107 e n.-110 e n., 112, 113, 115-117, 129 e n., 130, 131, 133, 134, 145-147, 148 e n., 154, 157, 173, 182, 183, 207, 210, 237, 252, 306, 310, 312, 315 Ginzburg, Leone 320 Gioberti, Vincenzo 163, 171, 197, 244 e n. Giolito de’ Ferrari, Giovanni Gabriele 14 Giordani, Pietro 110 e n.

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INDICE DEI NOMI

Giovio, Giovan Battista 25n. Giovio, Paolo 16 Giraldi Cinzio, Giambattista 22, 53 Giraldi, Lilio Gregorio 17 Giusti, Domenico 300 Giusti, Giuseppe 311 Giusti, Paolo Emilio 104, 306 Giustiniani, Michele 298 Giusto de’ Conti v. Conti, Giusto de’ Goethe, Johann Wolfgang 275, 309 Goldoni, Carlo 224 Gorlier, Claudio 319 Gotto Mantovano 20 Gozzano, Guido 321 Gozzi, Gasparo 145 Graf, Arturo 315 Gramsci, Antonio 314 Gravina, Gian Vincenzo 41-44, 55, 63, 69, 83, 87, 145, 299 Graziosi, Maria Teresa 10n. Grazzini, Anton Francesco, detto il Lasca 233 Gregorio VII, papa (Ildebrando Aldobrandeschi di Soana, santo) 245 Guarini, Battista 29, 233, 298 Guglielminetti, Marziano IX, X, XVIn., XVIIn., XVIII e n., XIXn., XXVI Guicciardini, Francesco 12, 113 e n., 222 Guido Giudice 20, 21 Guinizzelli, Guido 20 Guittone d’Arezzo 20, 22, 23, 36 Guizot, François 197, 244 Gundolf, Friedrich 304 Hall, Robert A. jr 317 Hamann, Johann Georg 244 Hauvette, Henri 256 e n. Hazard, Paul 107n., 306 Heeren, Arnold Hermann Ludwig 118 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich XXV, 165, 182, 227n., 262n., 311, 313 Heine, Heinrich 118 Herder, Johann Gottfried 63, 118, 244 Herling, Marta XXVI Heumann, Christoph August 304 Hirzel, Ludwig 197 Hobhouse di Broughton, John Cam 310 Höllerer, Walter 305 Huizinga, Johan 328 Iano Nicio Eritreo v. Rossi, Gian Vittorio Icardi, Cristina XXVI

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Imbriani, Vittorio 190 e n., 191, 192, 193 e n., 194 e n., 195, 197, 257, 311, 317 Innocenzo VIII, papa (Giovanni Battista Cybo) 39 Invernizzi, Giosia 257 Isomera, Francesco 20 Iusi, Francesco XXn. Jacopo da Lentini 20 Jannaco, Carmine 297 Jannuzzi, Lina 311 Jeanroy, Alfred 244 e n. Jowett, Benjamin 255 Kant, Immanuel 272 Lachmann, Karl 244 Lacombe, Paul 272 e n., 273, 319 La Harpe, Jean-François 118, 119 e n., 304 Lamartine, Alphonse de 119n. Lamennais, Hugues-Félicité Robert de 119n. Lana, Italo 320 Landau, Marcus 46 e n., 50 e n., 299 Landi, Antonio 89n., 303 Landino, Cristoforo 118 Lando, Ortensio 12 e n., 296 Lapo Gianni 20, 23 Laporte, Jean-Jacques de 304 Lasca v. Grazzini, Anton Francesco Latini, Brunetto 20 La Vista, Luigi 183 e n., 312 e n., 313 Le Monnier, Felice 155 Leonardo da Vinci 39, 234 Leone X, papa (Giovanni di Lorenzo de’ Medici) 43, 59 Leonzio Pilato 6 Leopardi, Giacomo 149 e n., 150, 151 e n., 163, 178, 188, 189n., 194, 212, 224, 235n., 257, 286, 305, 307, 309, 316, 317 Levati, Ambrogio 144, 145 e n., 310 Levin, Harry 305 Li Gotti, Ettore 307, 313 Liruti, Gian Giuseppe 66, 302 Livio Andronico 16 Lombardi, Antonio 103, 104, 306 Lombardo, Agostino 299, 309 Lopriore, Giuseppe Italo 309 Loredan, Giovanni Francesco 26, 297 Lorenzo il Magnifico v. Medici, Lorenzo de’ Lucchesini, Cesare 143n., 310

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Lucrezio Caro, Tito 139n. Luigi XIV di Borbone, re di Francia 59 Lupo degli Uberti v. Uberti, Lapo degli Mabillon, Jean 44 Machiavelli, Niccolò 12, 40, 49, 161, 164, 168, 188, 221-224, 230, 233, 242n., 253 e n., 317 Macrobio, Teodosio Ambrogio 12 Maffei, Giuseppe 145 e n., 146 e n., 153, 154, 183, 310, 312 Maffei, Scipione 89 Mandosio, Prospero 297 Mann, Thomas XIV Mannucci, Francesco Luigi 321 Mantovani, Dario 122n. Manuzio, Aldo 14 Manzoni, Alessandro IX, 76, 122n., 178, 194, 212, 224, 250, 253 e n., 275, 305, 308 e n., 313 Marciano, Beniamino 212n. Marigo, Aristide 5n. Marini v. Marino, Giovanbattista Marino, Giovanbattista 194, 204, 223, 233 Marmontel, Jean-François 118, 119 Marucelli, Francesco 25 Marucelli, Roberto 26, 297 Marzot, Giulio 288n., 321, 330n. Massarani, Tullo 135n. Masuccio Salernitano 204n. Mattalia, Daniele 244n., 247n., 315 Matthiessen, Francis Otto 319 Maturi, Walter 301 Maugain, Gabriel 244 e n., 315 Maupassant, Henri-René-Albert-Guy de 320 Maurini padri 44, 47, 84, 299 Mazzali, Ettore 321 Mazzei, Pilade 317 Mazzeo di Ricco da Messina 20 Mazzini, Giuseppe 108 e n., 134, 140 e n., 141, 142 e n., 153, 163, 171, 197, 307 Mazzoni, Guido 33n., 45 e n., 53n., 65n., 257, 298, 299, 316 Mazzoni, Iacopo 118 Mazzuchelli, Giovanni Maria 64, 65 e n., 66, 74, 94, 302 Medici, Cosimo I de’ 164 Medici, Lorenzo de’ 11, 19, 220, 250, 296 Melzer, Ulrich 305 Menéndez y Pelayo, Marcelino 91n., 304 Meninni, Federico 29, 298

Merian-Genast, Ernst 304 Mestica, Giovanni 257, 316 Metastasio, Pietro 194, 204, 224, 236, 314 Mezzetta, Enrica XXIn. Michelangelo v. Buonarroti, Michelangelo Michelet, Jules 197 Michiels, Alfred 114n. Migliorini, Bruno 331n. Minturno, Antonio Sebastiano 22 Molza, Francesco Maria 13 Momigliano, Attilio XX, 3, 258, 288 e n., 289291, 314, 315, 317, 321 Mommsen, Theodor 244 Montanari, Fausto 226n., 308, 313 Montani, Giuseppe 126, 127 e n., 128, 129 Montefredini, Francesco 207, 208 e n., 209, 312 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat de La Brède et de 63 Monteverdi, Angelo 316 Monti, Vincenzo 95 e n., 124, 163, 188, 224 Morano, Vincenzo 193n., 213, 313 Morghen, Raffaello 299 Morozzo, Carlo Giuseppe 25, 297 Morsolin, Bernardo 257 Moschini, Giannantonio 89n., 303 Müller, Johannes von 118 Muratori, Ludovico Antonio 42 e n., 43 e n., 44, 49 e n., 55, 69, 71, 83, 87, 89, 92, 105 e n., 122 e n., 145, 154, 172, 223, 235, 236, 299, 304, 306, 308 Muscetta, Carlo 311, 314 Mussato, Albertino v. Albertino Mussato Napoli Signorelli, Pietro 67, 90, 303 Nardi, Carlo 306 Natali, Giulio 81n., 316 Nay, Laura XXVI Negri, Giulio 66, 302 Negri, Luigi 301 Nencioni, Enrico 108n. Neri, Ferdinando 227n., 295, 296 e n., 304, 313, 315 Neri, Filippo, santo 39 Nicodemi, Leonardo 298 Nino Sanese 20 Noël, François-Joseph-Michel 149 Noferi, Adelia 307 Novati, Francesco 257, 316 Odoacre 245

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Oldoini, Agostino 298 Omero 12, 307 e n. Omodeo, Adolfo 312, 320 Onesto da Bologna 20 Orlandi, Guido 20 Orsi, Giuseppe 51 Ossian (James Macpherson) 307 e n. Ottino, Giuseppe 298, 303 Ottolini, Angelo 149n. Ovidio Nasone, Publio 217 Ozanam, Frédéric Antoine 244 Pagani, Marino 143n., 309 Pagano, Francesco Mario 63 Palermo, Antonio 311 Palgen, Rudolf 317 Pancrazi, Pietro XVI Paolo da Perugia 6 Papini, Giovanni 127, 283 e n., 287n., 325 Parente, Alfredo 11 Pareyson, Luigi 320 Parini, Giuseppe 67 e n., 68, 113, 124, 125, 145, 224, 253 e n., 302 Parodi, Ernesto Giacomo 313 Parodi, Tommaso 248n., 315 Paruta, Paolo 223 Pasquier, Étienne 48 Patrizi, Francesco 18, 53 Pegna, Mario 310 Pellegrini, Carlo 111n., 118, 307 Penna, Mario 317 Percopo, Erasmo 255 e n., 315 Perotti, Benedetto 104, 109, 306 Peschier, Adolphe 141, 142 Petrarca, Francesco 6, 7, 9, 13, 20, 21, 27, 28n., 38, 41-43, 49, 51, 60, 85, 139n., 147, 160, 161, 166, 177, 194, 202, 204n., 212, 217, 219, 226 e n., 247, 249, 275, 301, 305, 313, 315 Petrini, Domenico 280, 281 e n., 319 Petrocchi, Giorgio 321 Petronio, Giuseppe 321 Pezzana, Angelo 143n., 309 Piccioni, Luigi 31n. Piccoli, Valentino 196n. Picinelli, Filippo 297 Pier della Vigna 20 Pindemonte, Ippolito 163 Piromalli, Antonio 314 Pizzi, Italo 257, 316 Platone 9, 217 Poggiali, Cristoforo 66, 303

339

Polenton, Sicco 8, 9 e n. Poliziano, Angelo Ambrogini detto il 11, 13, 166, 194, 220, 222, 250, 296 Pomba, Giuseppe 305 Pompeati, Arturo 320, 321 Pontano, Giovanni 220, 204n. Ponte, Giovanni 296 Possevino Antonio 44 Praz, Mario 317, 319, 320 Predari, Francesco 94, 305 Prévost, Pierre 118 Prezzolini, Giuseppe 286 e n., 320 Prunas, Paolo 308 Puccini, Dario 314 Pulci, Luigi 41, 188, 204, 220 Puoti, Basilio 195, 213, 215 Quadrio, Francesco Saverio 32, 51, 52, 53 e n., 54, 55, 56 e n., 57, 69, 71, 83, 84, 96, 111, 112, 118, 121, 129, 135, 154, 172, 300, 315 Quadrio, Stefania 300 Quinet, Edgar 227, 244 Quintilano, Marco Fabio 12 Quondam, Amedeo XXVI Racine, Jean 273 Raimondi, Ezio 299, 313, 317 Rajna, Pio 33n. Ramat, Raffaello 112n. Rambach, Johann Jakob 304 Ranalli, Ferdinando 312 Rapin, René 49 Reale, Carmelo XXn. Retzer, Joseph von 89n., 303 Rezzonico, Carlo Castone della Torre di 60, 61, 301 Ricci, Lodovico 98n. Ricci, Pier Giorgio 5n., 321 Ricciardi, Riccardo XVI, XVII Riccio, Pietro 16 Rilli, Jacopo 26, 297 Rinaldo d’Aquino 20 Rivet de la Grange, Saint-Maur Antoine 47 Roberto d’Angiò 46 Robertson, John G. 299 Roddier, Henry 305 Romagnoli, Sergio 314 Rosenkranz, Karl 182 e n., 252, 311 Rosini, Celso 297 Rossi, Gian Vittorio XXV, 26, 27, 28n. Rossi, Pietro 25n.

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Rossi, Vittorio 250, 251n., 257, 297, 315, 316 Rostagni, Augusto 320 Rucellai, Orazio 36, 37 Rucellai, Luigi 36 Ruscelli, Girolamo 16 Russi, Antonio 152n., 311n. Russo, Luigi 87n., 190n., 242n., 243n., 278 e n., 279, 284 e n., 296, 307, 313, 315, 318, 319, 321 Ruth, Emil 181 e n., 182, 196, 252, 255n., 311 Sabbadini, Remigio 9, 10n., 296 Sacchetti, Benci 38 Sacchetti, Franco 38, 165, 220 Sacchetti, Matteo 38 Sainati, Augusto 321 Sainte-Beuve, Charles Augustin de 119 e n., 139n., 232 Saintsbury, George 18n., 296 Salfi, Francesco Saverio 104, 108, 109, 129, 130 e n., 146 e n., 147, 148 e n., 225, 306, 310 Salinari, Carlo 314 Salomone 23 Salviati, Leonardo 22, 118 Salvini, Anton Maria 42n., 145, 299 Sanesi, Ireneo 12n., 296 Sanfilippo, Pietro 185 e n., 312 Sansone, Mario 297, 318, 320 Santangelo, Giorgio 297 Santini, Emilio 317 Santoli, Vittorio 320 Sapegno, Natalino 287 e n., 297, 314, 316, 320, 321 Sarpi, Paolo 223 Sarteschi, Federico 66, 303 Savioli Fontana Caselli, Ludovico Vittorio 113 Savonarola, Girolamo 177, 223 Scala, Can Francesco della, detto Cangrande 45 Scaligero, Giulio Cesare 18 Scalvini, Giovita 109n., 119, 120n., 145, 307, 308, 309 e n. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph von 165 Schiaffini, Alfredo XVI Schlegel, Friedrich von 111, 114, 116, 117, 244, 307 Schlegel, Wilhelm August von 108n., 109,

114, 116 e n., 117, 140n., 163, 164, 182, 307 Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst 182, 311 Schoell, Friedrich 131 Seghezzi, Anton Federico 31n., 298 Semprebene da Bologna 20 Sensi, Claudio XXVI Serafino Aquilano 39 Serra, Renato 138n., 139n. Settembrini, Luigi 171, 184, 189, 195, 196 e n., 197-200, 201 e n., 203, 204 e n., 205, 207, 208, 209 e n., 211, 212, 225, 231, 233, 312 Sidonio Apollinare, santo 16 Sigonio, Carlo 44 Simone, Franco 9n., 296, 305 Siotto Pintor, Giovanni 143n., 310 Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde de 99, 100, 108-110, 111 e n.-113 e n., 114, 115 e n., 116-118, 127, 154, 173, 182, 183, 207, 227, 252, 306-308, 312, 315 Soprani, Raffaele 298 Sorbelli, Albano 243n. Spaventa, Silvio 195 Spinelli, Altiero 297 Spingarn, Joel Elias 12n., 22n., 296 Spiriti, Salvatore 66, 302 Spongano, Raffaele 316 Spotorno, Giovanni Battista 143n., 310 Staël, Anne-Louise-Germaine Necker, Mme de 111, 114, 307 Starobinski, Jean X Tafuri, Giovanni Bernardino 66, 302 Taine, Hippolyte Adolphe 139n., 244, 245 Tallarigo, Carlo Maria 193n., 257, 315, 317 Tansillo, Luigi 13 Tartini, Giuseppe 127 Tasso, Torquato XII e n., XV, 87, 112, 140n., 147, 173, 178, 188, 194, 227, 233, 153 e n. Tassoni, Alessandro 27, 28n., 49 Tenca, Carlo 135 e n., 174 e n., 175, 176 e n., 178, 179, 184, 203, 311 Tenchini, Aurelia 98n. Teodorico, re degli Ostrogoti 245 Tessitore, Fulvio XXVI Testi, Fulvio 49 Thibaudet, Albert 111n. Thierry, Jacques-Nicolas-Augustin 244

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Thouar, Pietro 145 Ticozzi, Stefano 94, 98, 305 Tiraboschi, Girolamo 5, 13, 14, 16, 17 e n., 19, 26n., 30-32, 44, 45 e n., 47, 54, 57, 61 e n., 63, 65-67, 71 e n., 72 e n., 73, 74 e n., 75-77, 78 e n., 79, 80, 81 e n., 82-84, 85 e n., 86, 87 e n., 88, 89 e n., 90, 91, 94-99, 100 e n., 101, 102, 104-107, 157, 157, 160, 161, 163, 172, 173, 183, 198, 199, 204, 210, 231, 235, 249, 252, 298 e n., 303, 304, 306, 312, 315, 329 Titta Rosa, Giovanni 279 e n., 280 Toffanin, Giuseppe 18n., 36n., 39n., 42n., 296, 297, 299, 316 Tomasini, Jacopo Filippo 27 Tommaseo, Niccolò 33 e n., 107, 124 e n., 130 e n., 131-134, 150, 153, 155, 234, 299, 307, 308 Tommaso d’Aquino, santo 217 Toppi, Niccolò 298 Torraca, Francesco 172n., 257, 313, 317 Torre, Castone Carlo della v. Rezzonico, Carlo Castone della Torre di Torti, Francesco 7, 118 e n., 306 e n. Toschino, Grazia XXVI Toselli, Floriano v. Bernardo da Bologna Toselli, Ottavio 25n. Trabalza, Ciro 8n., 9 e n., 11 e n., 25n., 26n., 29n., 257, 296, 306 Tracy, Antoine-Louis-Claude Destutt de 118 Trompeo, Pietro Paolo 317 Tucidide 139n. Uberti, Lapo degli 20 Ugoni, Camillo 93, 94, 98, 99 e n.-101 e n., 102, 103 e n., 104, 108, 118n., 126, 127 e n., 128, 160, 183, 305, 312, 315, 329 Uhland, Johann Ludwig 244 Ulivi, Ferruccio 331n. Ullman, Berthold Louis 8n. Valgimigli, Manara 237 e n., 214n., 313 Vallauri, Tommaso 143n., 144, 310 Vandelli, Giuseppe 33n. Varchi, Benedetto 13 Varese, Carlo 321 Vasari, Giorgio 16 Vassallo, Angelo XXVI Vedova, Giuseppe 143n., 144 e n., 309 Vellutello, Alessandro 118

341

Venturi, Giovanni Antonio 257, 315 Venturi, Lionello 280n. Vermiglioli, Giovanni Battista 143n., 144, 309 Verri, Pietro 63 Vespasiano da Bisticci 9 Vetterli, Willy Arnold 317 Vezzosi, Anton Francesco 66, 303 Vico, Giambattista 40, 91 e n., 92 e n., 122 e n., 140, 154, 223, 235, 236, 308 Villani, Filippo 6, 7 Villani, Giovanni 21, 202 Villani, Nicola 29, 298 Villari, Pasquale 183n. Villemain, Abel-François 169, 183, 244, 312 Vincent, Eric Reginald 310 Virgilio Marone, Publio 217 Viscardi, Antonio 316, 321 Viviani, Vincenzo 68 Vlacÿicÿ, Matija 84 Volpi, Guglielmo 257, 316 Volpicelli, Luigi 280 e n. Volta, Alessandro 155 Voltaire, François-Marie Arouet detto 55, 106 Voss, Gerhard Johann 53 Vossio v. Voss, Gerhard Johann Vossler, Karl 255, 305, 317 Warren, Austin 319 Warton, Thomas 2, 304 Wellek, René XII, 2, 299, 305, 309, 314, 319, 320 Wiese, Berthold 255 e n., 315 Wilkins, Ernest Hatch 317 Zaccaria, Francesco Antonio 58 e n., 71, 90, 303, 304n. Zanasi, Raffaele 309 Zanella, Giacomo 257 Zehnmark, Ludwig Eduard 304 Zeno, Apostolo 31n., 65, 66 e n., 87, 89, 298, 302 Zeno, Pier Caterino 31n., 298 Zeno, Pietro Angelo 297 Zenoni, Lorenzo 89n., 303 Zilioli, Alessandro 26 e n., 298 Zingarelli, Nicola 107n., 250, 315, 316 Zini, Marisa 107n., 306 Zonta, Giuseppe 320 Zumbini, Bonaventura 207 e n., 208, 209, 312

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La Cultura Storica Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore

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G. Giarrizzo, La scienza della storia. Interpreti e problemi (a cura di F. Tessitore) F. Lomonaco, Tolleranza e libertà di coscienza. Filosofia, diritto e storia tra Leida e Napoli nel secolo XVIII E. Schulin, L’idea di Oriente in Hegel e Ranke (a cura di M. Martirano, con una nota di F. Tessitore) C. Hinrichs, Ranke e la teologia della storia dell’età di Goethe (a cura di R. Diana, con una nota di F. Tessitore) A. Salz, Per la scienza contro i suoi colti detrattori (a cura di E. Massimilla) E. Krieck, La rivoluzione della scienza e altri saggi (a cura di E. Massimilla) G. D’Alessandro, L’Illuminismo dimenticato. Johann Gottfried Eichhorn (1752-1827) e il suo tempo A. Giugliano, Nietzsche Rickert Heidegger (ed altre allegorie filosofiche) G. Acocella, Le tavole della legge. Educazione, società, Stato nell’etica civile di Aristide Gabelli T. Tagliaferri, La nuova storiografia britannica e lo sviluppo del welfarismo. Ricerche su R. H. Tawney P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (a cura di F. Tessitore, con due note di N. Bobbio e G. Calogero) S. Moscati, Civiltà del mare. I fondamenti della storia mediterranea (con una nota di F. Tessitore) E. Massimilla, Intorno a Weber. Scienza, vita e valori nella polemica su «Wissenschaft als Beruf» D. Conte, Storicismo e storia universale. Linee di un’interpretazione L. Pica Ciamarra, Goethe e la storia. Studio sulla «Geschichte der Farbenlehre» A. de’ Giorgi Bertòla, Della filosofia della storia (a cura di F. Lomonaco) A. Carrano, Un eccellente dilettante. Saggio su Wilhelm von Humboldt (con una nota di F. Tessitore) G. Ciriello, La fondazione gnoseologica e critica dell’etica nel primo Dilthey (con una nota di G. Cacciatore) H. Rickert, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica alle scienze dello spirito (a cura di M. Catarzi) M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano Bruno (con una nota di M. Ciliberto) G.A. Di Marco, Studi su Max Weber (con una nota di F. Tessitore) C. Tramontana, La religione del confine. Benedetto Croce e Giovanni Gentile lettori di Dante (con una nota di N. Mineo) M. Moretti, Pasquale Villari storico e politico (con una nota di F. Tessitore) R. Celada Ballanti, Erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz (con una nota di F. Tessitore) G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati (nuova edizione a cura di M. G. Amadasi Guzzo e F. Tessitore) S. Caianiello, Scienza e tempo. Alle origini dello storicismo tedesco (con una nota di F. Tessitore)

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F. Meinecke, Aforismi e schizzi sulla storia (nuova edizione a cura di G. Di Costanzo, con una nota di F. Tessitore) F. Schlegel, Filosofia della filologia (a cura di R. Diana) G. Getto, Storia delle storie letterarie (nuova edizione a cura di C. Allasia) P. Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti (a cura di G. Giannini, con una nota di F. Tessitore) M. Kaufmann, Anarchia illuminata. Una introduzione alla filosofia politica (a cura di S. Achella e C. de Luzenberger, con una nota di G. Cacciatore) G. Morrone, Incontro di civiltà. L’Islamwissenschaft di Carl Heinrich Becker (con una nota di E. Massimilla) F. Gabrieli, Tra Oriente e Occidente (a cura di F. Tessitore, con una nota di R. Traini) W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. I (a cura di F. D’Alberto, con una nota di F. Tessitore) E. Nuzzo, Storia ed eredità della coscienza storica moderna. Tra origini dello storicismo e riflessione sulla conoscenza storica nel secondo Novecento G. Magnano San Lio, Biografia, politica e Kulturgeschichte in Rudolf Haym (con una nota di F. Tessitore) S. Di Bella, La storia della filosofia nell’Aetas Kantiana. Teorie e discussioni W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. II (a cura di F. D’Alberto) E. Massimilla, Tre studi su Weber fra Rickert e von Kries

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