Storia delle dottrine politiche 8800209327, 9788800209328

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Storia delle dottrine politiche
 8800209327, 9788800209328

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B I B L I O T E C A 01 SC I' EMZ E S O C I A L I

Gianluca Bonaiuti - Vittore Collina

Storia delle dottrine politiche

La storia delle dottrine politiche prende in esame il lungo percorso storico di riflessioni, teorie, argomentazioni e comunicazioni che hanno accompagnato lo sviluppo delle istituzioni e delle organizzazioni politiche, l'affermazione e razione dei suoi soggetti, le metamorfosi dei contesti sociali in cui queste hanno trovato espressione, i linguaggi e i media con cui sono state comunicate.

ISBN 97B-BB-OO-Z0932-B

P rezzo al p u b b lic o E u ro 29,00

M a tu ra to n e ll'a m b ito d e ll'e sp e rie n z a d id a ttic a dei d u e a u to ri, il p r e s e n te m a n u a le è sta to r e d a tto p e r fo rn ire agli s tu d e n ti u n iv e rs ita ri u n te s to e s a u rie n te , sc ie n tific a m e n te a g g io r ­ n a to (e allo ste sso te m p o ch ia ro e sc o rrev o le) della s to ria del p e n s ie ro p o litic o n e i suoi a sp e tti essen z iali e p iù significativi. La tra tta z io n e p re n d e le m o ss e dalla fo rm a z io n e in età m o d e rn a di u n « disco rso politico au to n o m o » che si d ifferenzia d a altri am biti di riflessio ­ n e (religione, m orale, econom ia), p e r -giu n g ere— sin o —all' ep o Ga-Gent-empoFan e a , r ic o s tru e n d o a n c h e il p ro filo in tellettu ale di a u to ri che an im an o l'a ttu a le d ib a ttito scien tifico , co m e F ra n c is F ukuyam a e A m a rty a Sen. Il vo lu m e è articolato in u n a serie di capitoli e p arag rafi, in cui so n o ric o ­ stru iti i tra tti delle p ro b lem atic h e via via em erg en ti e i profili degli au to ri coinvolti, ed è co rred a to d a varie sc h e ­ de esplicative, che lo re n d o n o p a rtic o ­ la rm e n te adatto a chi in tra p re n d e p e r la p rim a volta lo studio della disciplina.

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© 2 0 1 0 M o n d ad o ri E ducation S.pJV., M ilano T u tti i d iritti riservati

ISB N

978- 88- 00 - 20932-8

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R ealizzazione editoriale Coordinam ento redazionale Alessandro M ongatti Redazione Tiziana R andò Im paginazione M arco Catarzi Progetto grafico W alter Sardonini/SocialDesign Srl, Firenze Progetto cop ertina A lfredo La Posta_____________• Prim a edizione Le M o n n ier U niversità Luglio

2010

w m v.iem orinieruniversita.it R istam pa

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La reali7.7q7.ione di un libro comporta per l’Autore e la redazione un attento lavoro di revisione e controllo sulle informazioni contenute nel testo, sull’iconografia e sul rapporto che intercorre tra testo e immagine. Nonostante il costante perfezionamento delle procedure di controllo, sappiamo che è quasi impossibile pub­ blicare un libro del tutto privo di errori o refusi. Per questa ragione ringraziamo fin d’ora 1lettori che li vor­ ranno indicare alla Casa Editrice.

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Linea Grafica —C ittà d i Castello (Perugia) Stam pato in Italia —P rin ted in Italy —Luglio 2 0 1 0

IN D IC E

■'

Premessa

IX

Soglia. Epoche

i

Parte p rim a L a n a s c it a d e g l i s t a t i e l a f o r m a z io n e D I U N D IS C O R S O P O L IT IC O A U T O N O M O

Premessa. Agli albori dell’«età moderna»

7

Capitola 1. La nuova forma politica (I): «stato» e sovranità nel Rinascimento

_____ europea............... 1.0 1.1 1.2 1.3 1.4

2.1 2.2

2-3 2.4 2.5

..... .....- —

-2-1

I temi dell’Umanesimo politico: politica e civiltà Niccolò Machiavelli Aspetti del Rinascimento e della Riforma: Thomas M ore Jean Bodin Legge di natura e «società universale»

21 24 27 32 35

e la scienza del potere H giusnaturalismo moderno e il paradigma contrattualista: politica eordine U go Grazio Thom as. Hobbes John Latice Jean-Jacques Rousseau Le alternative nel moderno 2.5.1 Baruch Spinoza ' 2.5.2 Johannes Althusius

4i 4i 43 45 53 57 64 64 69

Capitolo 3. La nuova forma politica (ili): il «progresso» e le nuove scienze 3.0 3.1 3.2 3.3 3.4

della politica Lisbona e la teodicea: politica e scienza del Settecento Charles Louis de Montesquieu La politica dell’Illuminismo francese

75 75 77 83

II Settecento inglese. Adam Sm ith D avid Hum e: critica del giusnaturalismo e revisione empirica

87 88

Intermezzo. Le Rivoluzioni

95

VI

Indice

Parte seconda L a R iv o l u z io n e in d u s t r ia l e , g l i s t a t i n a z io n a l i,

GLI IMPERI COLONIALI

Premessa,. L’antico regime, la rivoluzione e la costituzione

in

Capitolo 1. «Dopo la Rivoluzione»: rivoluzione, restaurazione o riforme?

119 119 12 1 128 132 136 141

1.0 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5

L’antico regime e la società civile. La forma contro il conflitto: Immanuel Kant I liberalismi I controrivoluzionari Le idee democratiche Politica dialettica: Hegel

Capitolo 2 . Società industriale e critiche al capitalismo

J2..D___Le prime riflessioni sulla questione sociale 2.1 ' 2.2 2.3 2.4

I socialisti premarxisti Karl M arx Letà della scienza e la scienza della società U n liberalismo dai vasti orizzonti: John Stuart M ill

151 152 156 164 17 1 175

Capitolo 3. N azioni, democrazie, imperi

181

3.0 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

181 186

La democrazia come «stato della società»; Alexis de Tocqueville Tante forme di socialismo D al rilancio del passato allo spirito aggressivo G li sviluppi in campo liberale L’imperialismo M ax Weber: la «politica come lotta»

Intermezzo. Le «guerre mondiali» e il nuovo Terrore

194 202 2.08 212

221

Parte terza Il X X secolo

Premessa. Teorie «realistiche» della politica

229

Capitolo 1. Pensiero e azione politica nel primo N ovecento

233

1.0 1.1 1.2 1.3

234 235 246 250

Radicalismi militanti: diritto e violenza La Rivoluzione bolscevica e gli sviluppi del com uniSm o II fascismo II nazionalsocialismo

Indice

Capitolo 2 . L e posizioni 2.0 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6

La politica e i «partiti» Politica e secolarizzazione: Cari Schmitt Antonio Gramsci Hans Kelsen Democrazia e intelligenza sociale: John D ew ey Benedetto Croce Joseph Schumpeter

Capitolo 3 . D opo la guerra: l’età bipolare e la globalizzazione 3.0 3.1

Teorie politiche del «dopoguerra» L’orizzonte bipolare: la «crisi delle ideologie) e la «società del benessere» 3.2 Alternative e critiche della «società capitalista» 3.2.1 L a Scuola di Francoforte _______3.2,2 Tean-Paul Sartre • 3.2.3 Louis Althusser 3.3 Alternative e critiche della modernità politica 3.3.1 Leo Strauss e Eric Voegelin 3.3.2 Hannah Arendt 3.4 Teorie empiriche della politica ' . 3.4.0 La politicai science e le sue rivoluzioni 3.4.1 Dalla «vecchia» alla «nuova» scienza politica 3.4.2 La «rivoluzione» comportamentista 3.4.3 L’approccio sistemico 3.4.4 II postcomportamentismo e i successivi sviluppi della disciplina 3.5 Teorie normative della politica 3.5.1 John Rawls e la teoria della giustizia 3.5.2 Jiirgen Habermas 3.5.3 L’approccio della capacità di Am artya Sen 3.6 Genealogie e fine della politica 3.6.1 Michel Foucault 3.6.2 Niklas Luhmann 3.6.3 Francis Fukuyama

VII

255 255 257 262 269 276 279 283 289 290 293 295 297 303 308 315, 316 320 331 331 332 336 338 340 : 348 349 357 364 369 371 381 390

Soglia. Cartoline dalla contemporaneità

405

Bibliografia Indice dei itom i

413 433

Premessa

La storia delle dottrine polìtiche e una disciplina accademica che intende contribuire -alk-amascenz a-e-alla~camprensione della politica.-Essa studia la politica da un punto d i..

vista particolare: prende in esame il lungo percorso storico d i riflessioni, teorie, argomen­ tazioni e comunicazioni che hanno accompagnato lo sviluppo delle istituzioni e delle orga­ nizzazionipolitiche, l ’affermazióne e l’a zione dei suoi soggetti, le metamorfosi dei contesti sociali in cui queste hanno trovato espressione, i linguaggi e ì media con cui sono state comunicate. Per questa ragione, come ogni disciplina storica, essa si sofferma sulle varia- . zioni e sulle costanti di un percorso storico d i lungo periodo, tentando d i tracciare una mappa degli elementi p iù rilevanti del suo sviluppo e delle discontinuità p iù significative. L ’oggetto d ì studio della storia delle dottrine politiche è l’insieme delleform e culturali che sono state utilizzate p er interpretare la politica: con una definizione p iù tecnica (e astrat­ ta) si può dire che tratta delle ferm e utilizzate per compiere la selezione dei contenuti dì senso che sono sorti nelle società a lfin e d i comprendere quel genere d i fenom eni che oggi rubrichiamo sotto il titolo d i politica. L ’impostazione delta sua analisi dipende da come vengono interpretate questefirm e. Per questa ragione la storia delle dottrine politiche può pensarsi come «storia delle idee», «storia dei concetti», «storia delle categorie» oppure p iù tradisdonalmente come storia della filosofia politica o delpensiero politico. La scelta d i una d i queste opzioni comporta anche una scelta d i metodo: ciò che è importante sottolineare è che l ’uso dell’espressione «dottrine politiche» indica una scelta d i campo rispetto a l gene­ re d i prestazioni intellettuali cui si rivolge Usuo studio. La storia deUe dottrine politiche, infatti, prende in esame non solo le opere d i p iù spiccata qualità teorico, m a anche i con­ tributi d i autori o scuole che, p u r non eccellendo dalp u niti d i vista speculativo, hanno però contribuito a modificare la prospettiva d i osservazione deliapolitica delproprio tempo (e magari anche delle generazioni successive), 1 p rim i lavori della disciplina risalgono a lX IX secolo (D ’Oasi 1995); ed una così lunga tradizione ha selezionato alcuni macrotemi che si presentano all’a nalisi come problem i comuni alle varie epoche: la prim a d i queste riguarda la domanda su cosa sia ia politica (una domanda relativa alla sua natura, alle sue definizioni alla storia del termine e del concetto stesso d i «politica»); la seconda e rela­ tiva allo studio e alla descrizione delle forme di potere (dunque alla variazione delle cate-

X

Premessa

gorìe con a d lo si è interpretato, rappresentato, descritto); una terza macroarea d iricerca si interroga su uno degli enigmi jbndam entali della vita associata degli uom ini, quello relativo al tema ^//'obbligazione politica, riassumibile nella domanda sulperché alcuni uom ini obbediscano a d altri uomini; un quarto macrotema che tende a presentarsi in tutte le epoche è quello relativo alla descrizione dell’oxàssxo stato o della migliore form a di governo; il qidnto ed ultimo, invece, riguarda un problema p iù astratto, ma altrettanto rilevante, quello d i stabilire il tipo d i scienza o teoria che sappia meglio rispondere alle domande precedenti (e a molte altre), ovvero il problema d i come siano storicamente m utati i criteii con cid si stabilisce la verità d i argomenti e afferm azioni riguardanti le cosepolitiche. Si tratta d i una lista disordinata-per stessa ammissione d i chi l‘h a elabora­ ta (B obbio 1971, pp. 23 -29) La storia delle dottrine politiche o f f onta la problematica di questi terni in modo autonomo, utilizzando gli strum enti che le sono propri. Lo studio d i ognuno di essi (non si presentano quasi m ai isolatamente, ma p iù pesto intrecciati tm loro) e d i m olti altri della storia intellettuale e dei saperi è condótto con la piena consape­ volezza delfatto che essi dipendono dal contesto (discorsivo, culturale, sociostrutturale) in cuiemergono.-E.altrettanto-consapevolerperb,-che-l’«evokizione delle ìdee»fper.usarejm epressione tm le molte possibili) è soggetta a d altre condizioni ripetto all'evoluzione socio­ strutturale della società. Essa consente, ad esempio, la sopravvivenza d i «nom i antichi» anche quando cambia ciò che essi indicano — e questo offre il vantaggio p er chi li usa di non dover marcare come tali le discontinuità nei casi in a li è difficile riconoscere con cer­ tezza fattipecie di genere nuovo (il caso p iù semplice che sipuò portare ad esempio è pro­ prio quello del termine politica»; considerazioni analoghe possono esserefa tte anche per «democrazia»). Se un concetto continua a d essere usato in situazioni m utate, il suo senso ne risulta arricchito fin o a diventare quasi indefinibile (cosicché ogni utilizzo teorico che se nefa deve determinare da sé che cosa si vuole intendere con esso: un problema che, nella storia moderna e contemporanea, diventa evidente col concetto d i statoj. D 'altra parte vale anche la considerazione inversa: concetti nuovi vengono coniati p er descrìverefa ttipecie altrim enti non osservabili, secondo una logica dell'anticipo, tipicamente moderna, che non deve necessariamente coincidere con la diffusione e l'approvazione generalizzata in uriepoca o in una società (m a che magari verrà riconosciuta nella sua pertinenza da poche successive). Su questo secondo versante si gioca buona parte della sfida intellettuale che si è imposta a coloro che, generazione dopo generazione, hanno tentato d i rendere compren­ sibile la politica delproprio tempo e quella a venire. La storia delle dottrine politiche che segue èfru tto d i una selezione degli elemen­ ti analitici (storici, teorici, concettuali) che emergono dallo studio della storia moderna della politica europea. Come tale essa offre una sintesi tra elem enti d i analisi che non sempre avevano rapporti tra loro: perciò essa compie forzature narrative non sempre aderenti a ll’oggetto studiato. La principale d i questeforzature è quella d i ricondurre la storia delleform e d i sele­ zione dei contenuti d i senso relativi alla politica ai suoi in tep reti um ani. Secondo un modello am piam ente in uso nella comunicazione didattica della disciplina, questa storia sipresenta anche (m a -non solo) come una galleria d i ritratti intellettuali, in cui gli auto­ ri (secondo una concezione che è solo della cultura europea moderna) giocano un ruolo di

Premessa

XI

primissimo piano. Se abbiamo fa tto ricorso a questa semplificazione e soprattutto perché riteniamo che ciò possa aiutare b studente nell"apprendimento dei temi, dei concetti, delle categorie che, attraveiso dì bro, trovano espressione. Con la consapevolezza che la sequen­ za presentata (essa Aessaflu tto d i una sebzione) non e in grado d i esaurirne ilproblema. Per bilanciare questa modalità dì esposizione tradizionale della materia sono Aaù pre­ disposti alcuni box tematici o concettuali che dovrebbero servire a mettere in evidenza ele­ m enti analitici altrim enti film a ti. A lcuni d i essi trovano diretta espressione nel testo, altri, a partire da un rinvw testuab, sono ospitati suda pagina iveb della casa editrice (cui si rinvia tramite apposito indirizzo telematico). Nello stesso luogo il lettore potrà trovare le indicazioni per seguire dei percorsi d i kttura allintem o del testo per alcune tematiche particobrm ente significative. La seconda significativa semplificazione ha a che fare con l'organizzazione delb sequenza d i autori: essa viene esposta secondo un ordine diacronico (benché non strettamente cronobgico) che non può sempre tenere conto dell’ordine di importanza dei contri­ buti offerti dagli autori, ma li struttura semplicemente secondo una linea delprim a e del dopo. Anche per questa ragione, per sottolineare il carattere non «assolutamente» vincobnz_ te delb successione temporab, il volume si apre e si chiude con l’indicazione d i soglie d i acces­ so e d i uscita dada narrazione, grazie alb quali, nelle intenzioni di chi scrive, l ’ordine delb sequenza non avanza b pretesa di presentare cesure temporali nette e senza residui.

N O T E PR EM ESSA I

Bobbio la pensa come m appa della Biosofia politica, riteniamo però che possa essere adattata anche al quadro più generale delle dottrine politiche.

AVVERTENZA D operà è il risultalo d i strecci rapporti scientifici tra i collaboratori che hanno steso alcune parti del cesto e i curatori, i quali hanno tentato di contemperare le esigenze dell’unità d’im pianto con il rispetto della libertà intellettuale di ognuno. D ’accordo con i collaboratori, Ì curatori hanno operato nei limiti del possibile sul testo finale un’uniformazione di caranere stilistico, espositivo e argomentativo. Si ringra­ ziano p er il loro contributo alla redazione definitiva di questo testo Barbara Saracino e Stefano Pighini. Le attribuzioni delle singole p arti ai singoli autori sono le seguenti, secondo l’ordine alfabetico. D anilo Breschi (con G. Bonaiuri) = pp. 390-404 G ianluca Bonaiuri = pp. X LX ffl, 1-7, 12-18, 22-24, 29-32, 75-77, 95-96, 111-116, 221-235, 255262, 283-297, 315-320, 331, 348-349, 369-371, 381-412, b o x p . 257, b o x p . 286 Patricia Cantera Stutte = pp. 246-254 Brunella Casalini = pp. 276-279 Francesco C enato = pp. 64-69 Salvatore Cingali = pp. 279-283 V ittore Collina = pp. 7 -1 2 ,2 1 -2 2 ,2 4 -2 9 ,3 2 -5 0 ,5 3 -6 4 ,7 7 -9 5 ,1 0 2 -1 1 0 ,1 1 9 -1 4 1 ,1 5 1 -2 2 1 ,2 6 2 -2 7 6 Claudio D e B oni = pp. 235-246 (box p. 294) -----------. ....... : ________ Em idio D iodato = box p. 225 M aria Laura Lanzillo = box pp. 366-369 Sergio Filippo M agni = pp. 364-368 Aldo Pardi = pp. 308-314 Stefano Pighini = pp. 320-330 Stefania Profeti = pp. 331-348 Silvia Rodeschini = pp. 141-150,2 9 7 -3 0 8 ,3 4 9 -3 5 7 Barbara Saracino = box pp. 50-53 Alessandro S im ondni = pp. 371 - 381 , box pp. 296-297, b o x p . 315 Federico Tomasello = pp. 69-73,96-102, 357-364

Soglia

Epoche

1 4 3 3 . P assaggio a O ccid en te

Nel 1433 Zheng he è costretto a interrompere il ciclo di spedizioni marinare, intrapreso nel trentennio precedente. In una sequenza di sette spedizioni successive (1405-1407; 1408-1411; 1412-1415; 1416-1419; 1421-1422; 1424; 1430-1433) Zheng he, l’ammiraglio eunuco cinese di fede musulmana, aveva portato l’influenza e lo splendore imperiale della dinastia Ming al culmine del suo sviluppo. Quella che già all’epoca si presentava comparativamente come la più grande potenza economica del mondo, col più grande e sviluppato mercato di merci, accompagnava ora questo pri­ mato con una politica diplomatica espansiva di tipo non coloniale. Sulla forma speci­ fica delle spedizioni cinesi si è a lungo dibattuto: espansione egemonica, sviluppo commerciale, scambio economico e culturale, accertamento geografico, sono tutte componenti che convergono in un tipo di azione inedito per la politica cinese e che sembrava preludere ad una svolta espansiva della civiltà più sviluppata del tempo (F o c c a r d i 1992). Ciò che è certo è che si sia trattato di una forma di esportazione egemonica di tipo differente da quella perseguita dagli europei nei secoli successivi, soprattutto nel XIX. Nel corso delle sette spedizioni verranno attraversati due oceani (Pacifico e Indiano) e toccati i centri nevralgici di due continenti, con una particolare attenzione alle rotte occidentali (vi è stato anche chi, si tratta di un comandante a ripo­ so della marina britannica, Gavin Menzies, ha sostenuto senza prove concrete che nel 1421 la flotta sia giunta in America: cfr. M e n z ie s 2002). I dati che invece possiamo dare per certi riguardano la consistenza della flotta, le cui navi erano state costruite nei cantieri di Lung-chiang, presso Shangai: nelle fonti cinesi disponibili si parla dì 250 navi divise in almeno sette classi; la dimensione delle navi è variabile, m a sappiamo che le imbarcazioni più grandi, dei nove alberi, misuravano aU’indrca.136 metri (con­ siderando che le caravelle con cui Cristoforo Colombo attraverserà l’Atlantico mezzo secolo dopo erano lunghe, intorno ai 26 metri possiamo farci un’idea delle dimensio­ ni della flotta); nella spedizione più numerosa l’equipaggio era composto da 27.411 uomini, guidati da sette ammiragli-ambasciatori e da un ninnerò davvero ragguarde­ vole di funzionari e studiosi ( M a H u a n 1433). Alcuni ricercatori si sono spinti fino

2

Soglia

ad asserire che sarà necessario attendere il varo della flotta britannica all’inizio del X X secolo per vedere negli oceani del pianeta un dispiegamento di forze marinare di gran­ dezza comparabile (non tanto per il numero d’imbarcazionij quanto piuttosto per la loro dimensione). Le spedizioni furono interrotte dopo la morte di Yung-lo, l’imperatore che più di ogni altro le aveva sostenute. Le ragioni dell’interruzione sono incer­ te, frutto di supposizioni storiografiche ex post. E ciò per una ragione molto semplice. I funzionari confuciani della corte M ing fecero tutto ciò che era in loro potere per can­ cellare le tracce, delle avventure marinare di Zheng-he. Si tratta di un’assenza d’infor­ mazioni dalle fonti ufficiali che ancora oggi lascia interdetti gli storici.

1 4 5 3 . La fin e d ell’im p ero rom ano D opo quasi due mesi di assedio da parte delle truppe del sultano Maometto II, il 29 maggio del 1453 cade, sconfitta militarmente, la città di Costantinopoli, ultimo baluardo della civiltà romana delle origini. C o n la rifondazione romana della capitale sul Bosforo da parte di Costantino il Grande (324- 330 ) era cominciata re ­ sistenza dell’Impero romano d’ Oriente destinato a diventare, nel volgere di poco tempo, la parte più importante ed influente della fase matura'dell’Impero romano. Si deve alla capitale orientale l’affermazione e la diffusione del cristianesimo (a fron­ te della Rom a pagana), la codificazione del diritto romano (che così grande influen­ za avrà nella rifondazione moderna del diritto), il raggiungimento delle maggiori conquiste tecnologiche nell’Occidente del tempo. Lo stesso «Rinascimento euro­ peo», che all’origine non era altro che un rinascimento filologico e artistico —in paro­ le povere, un tentativo di recuperare la grandezza dell’età classica—, era stato reso pos­ sibile dall’importazione, grazie alla mediazione dei centri culturali dell’Impero bizan­ tino, dei classici greci conservati dalla civiltà arabo-musulmana (è il caso tanto del ritorno di Aristotele, quanto di Platone e delle conoscenze scientifiche). A l momen­ to della conquista di Costantinopoli, il sultanato ottomano, che conosceva una fase di espansione significativa, guardava alla periferia occidentale della civiltà romano­ cristiana come un’area geografica i cui regni, inferiori dal punto di vista della poten­ za militare, erano abitati da popolazioni superstiziose, dedite ad una fede monoteista «arretrata», costrette a vivere in condizioni sanitarie e tecnologiche primitive (ciò che oggi, senza mezzi termini, definiremmo «area di sottosviluppo»), con cui al massimo valeva la pena intraprendere scambi commerciali per esportare le proprie produzio­ ni. Una periferia che presto sarebbe entrata a far parte dei propri territori.

1 4 7 3 . I l tem p io al cen tro d el m o n d o Nel 1473 Axayacad, signore del popolo dei mexica, conquista la città confinan­ te di Tlatelolco. Il conflitto con Tenochtidan, dapprima una semplice rivalità com­ merciale, covava da qualche anno; le due città erano divise da un canale e si trovavano

Epoche

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sul medesimo isolotto all’interno dello stesso lago. Con l’annessione di Tlatelolco, Tenochtidan, la capitale di una «formazione politica» complessa che estendeva la pro­ pria sfera d’influenza su buona parte del bacino mesoamericano grazie a una rete di alleanze e annessioni, raggiunge le sue massime dimensioni. Le fonti archeologiche e storiografiche hanno permesso a studi recenti di stimare la popolazione della città nel numero di 220.000 abitanti circa (Smith 2005). L a conformazione del bacino lacustre aveva permesso la costruzione di una rete di città, cittadine, villaggi costruiti sui bordi delle lagune, solcate da un fitto traffico di imbarcazioni dedite allo scambio e al com­ mercio, e che grazie allo sviluppo di una produzione agricola intensiva, aveva dato vita ad una marcata divisione del lavoro e un’alta specializzazione mercantile. U no studio­ so contemporaneo, non interessato ad ingigantire la popolazione mesoamericana per esaltarne compensativamente la civiltà, attribuisce alla valle centrale del Mexico (circa 7300 chilometri quadrati, poco meno dell’Umbria) 1, 1- 1,2 milioni di abitanti (un numero di abitanti che oggi supera i 100 milioni) (Sanders 1992).- Si deve probabil­ mente al colpo d’occhio offerto da questa fitta rete di concentrazioni urbane il giudizio che Cortfes esprime nella sua seconda Carta de relation all’imperatore Carlo V) «è tanto grande la città come Siviglia o Cordoba» e poi aggiunge «Ha un’altra piazza gran­ de due volte Salamanca, tutta circondata da portici, dove ogni giorno d sono fino a sessantamila persone che comprano e vendono, dove c è ogni tipo di mercanzia».

1493. Plus ultra Sono trascorse appena tre settimane dal ritorno di Cristoforo Colom bo dal suo primo viaggio nel continente che di 11 a poco avrebbe ricevuto il nome di America, allorché il papa Alessandro V I, nella bolla Inter cetera del 4 maggio 1493, accorda agli Spagnoli e ai Portoghesi E diritto a portare la religione cristiana nei paesi scoperti di recente ad ocddente. Appena l’anno successivo le due nazioni iberiche già si divide­ vano, con la benedizione a posteriori di Roma, la torta d d «nuovo» mondo. Durante E regno di Carlo V le fregate spagnole navigavano sui mari d d mondo sotto la ban­ diera imperiale: plus ultra, un vero e proprio slogan dietro al quale l’Europa comin­ cia a definire la propria missione di conquista. «Sempre più lontano»: è forse questa la formula centrale della mito-motricità europea per i tempi moderni, e, nello stesso tempo, la massima che fonda quella convinzione immutabEe dei nascenti imperiali­ smi europei secondo cui lo scopritore già di per sé è un conquistatore dotato di dirit­ ti alla conquista e insieme l’educatore di chi è stato scoperto. Inizia cosi una storia che abbiamo imparato ad apprendere come la storia dd «mondo moderno», una storia che ancora per molto tempo avrà un senso solo da una prospettiva europea. Occorreranno ancora due secoli perché questa logica della con­ quista cominci ad essere effettiva, allorché gli imperi europd sfideranno le più svilup­ pate dvEtà dell’epoca precedente (una data fatidica potrebbe essere quella della mis­ sione napoleonica n d Nord Africa: 1798, una data da cui alcune culture politiche musulmane stentano ancora a riprendersi). Ancora tre secoli perché le nazioni euro-

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Soglia

pee conquistino il primato in termini di ricchezza economica (fino alla m età del X IX secolo il prodotto interno lordo globale della coppia di paesi orientali Cina-Giappone sopravanza in modo significativo quello della coppia occidentale Inghilterra-USA: la rivoluzione industriosa della C in a continua a garantirle un primato che la rivoluzio­ ne industriale occidentale scalzerà dopo la metà del secolo ') ( M a d d i s o n 2007 ). Fanno parte a pieno titolo di questa storia, insieme ad altri fattori altrettanto rilevanti come lo sviluppo della scienza, l’industrializzazione, ecc., l’invenzione dello stato come forma particolare di organizzazione della vita in comune, là dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’adozione di tecnologie militari la cui distruttività era sconosciuta in epoche precedenti, e il recupero di un termine, per più di un millennio dimenti­ cato dalle tradizioni continentali, come politica, per designare uno spazio di relazione tra gli uomini con caratteristiche particolari. Solo a seguito di un tale genere di recu­ peri e di invenzioni, gli europei, divisi tra loro in comparti nazionali concorrenti, hanno dato vita ad un discorso politico autonomo del tutto inedito per le culture e le civiltà precedenti (anche per quella greca da cui origina il termine). D al 1494 al 1945, da Colombo a Hider, le nazioni europee si riconosceranno, nel confronto col Tester del mondo, come residenti neT«Vecchio Mondo»: un privilegio^ parare dal quale si è potuta costruire la visione europea del pianeta. L a grande conseguenza del viaggio di Colom bo è stata l’ oggetrivazione della Terra e del genere umano secondo immagini e concetti europei. N o n deve sorprendere il fatto che là fine di questo pri­ vilegio, almeno dopo il 1945 , abbia coinciso con una crisi significativa di quelle immagini e di quei concetti. Le pagine che seguono intendono fornire una ricostru­ zione delle riflessioni che hanno accompagnato, assecondato, talvolta perfino pro­ mosso, la sequenza di eventi che hanno circoscritto quella storia dal punto di vista particolare dello sviluppo politico.

N O T E S O G L IA

I

Vale la pena ricordare come ancora nel 1776 Adam Smith scriva: «La C ina è u n a nazione m olto p iù ricca di qualsiasi paese europeo».

Parte prima

La nascita degli stati e la formazione di un discorso politico autonomo

Premessa

'Agli albori dell’«età moderna»

Nella seconda metà del XV secolo d.C. si delinea in Europa la formazione di una nuova enrirà. io «stato»^storicamente rappresentato (nell’ambito di uno scena­ rio estremamente ricco di forme di potere diverse, come regni, principati, feudi, repubbliche, città libere, leghe, ecc.) dalle tre grandi unità della Francia, della Spagna e dell’Inghilterra. .La parola (Stato»] con cui si comincia a designare il nuovo ordinamento politi­ co è una parola nuova;, essa non significa più solo mztofcondiziohes soprattutto nel­ l’accezione di status reipublicae),.non è più solo lo stato di qualcosa, m a un oggetto di tipo specifico. Da allora il concetto ha a che fare col dominio su un territorio limi­ tato. Ed è propriamenje,cqn.riferimento a questa nuova entità che in Europa toma in uso un termine, (politica '.(un grecismo per molto tempo ritenuto anacronistico), col quale si definisce una particolare modalità dell’associazione umana (quella che è legata alle decisioni vincolanti per una collettività). Anche se non tutta la letteratura critica è di questa opinione, si deve concor­ dare con Max Weber e con la maggior parte della storiografia nelTaffermare che lo stato, come si presenta in Europa agli inizi dell’età moderna, costituisce una realtà nuova. Fino ad allora polis-, civitas, res publica, regman basavano il loro concetto di unità politica su due punti: una forma di organizzazione sociale dotata di potere e uno spazio su cui tale potere viene esercitato. Max Weber vede emergere nel processo di formazione dello stato moderno almeno due elementi fondamentalmente nuovi: l’espropriazione delle armi al pri­ vato da parte del potere pubblico, che conduce al monopolio legittimo della forza, e la prestazione da parte di un apparato amministrativo di servizi atti ad assicurare un certo status alla popolazione (con leggi e istituzioni che ne assicurano l’esecuzio­ ne). L’organizzazione del nuovo ordinamento politico nel XV secolo è il risultato di una successione di azioni «politiche» di vario tipo che producono strutture con forme anche molto diverse tra loro (pensiamo al formarsi dello stato francese dopo la fine della guerra dei Cent’anni con l’Inghilterra e al regno di Spagna che si costi­ tuisce a seguito della politica matrimoniale delle casate di Aragona e di Castiglia).

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In comune tra questi processi organizzativi cè, comunque, l’autolegittimazione del poterete della struttura) che ne emerge e il suo proiettarsi su di un territorio che è lo spazio geografico su cui riesce ad assicurare il monopolio della forza. Per capire meglio l’importanza storica della formazione degli stati moderni e cogliere altri aspetti del passaggio, si possono ricordare sinteticamente le caratteristi­ che del sistema medioevale che precede e i conflitti e le lotte che accompagnano l’av­ vento delle formazioni nuove. Si tratta, infatti, di un profondo processo di destrut­ turazione e di ristrutturazione, che coinvolge sfere diverse (da quelle economiche a quelle religiose) e dove i mutamenti si traducono materialmente in ascese trionfali e in rovine fatte di lacrime e sangue. La società medioevale che si era consolidata dopo le successive ondate delle invasioni barbariche era caratterizzata in primo luogo da una accentuata dispersione delle popolazioni nelle campagne: le città avevano perso gran parte della loro vitalità sociale e delle loro funzioni istituzionali ed erano le province, i villaggi, le frazioni attorno ai castelli a raccogliere gli uomini del tempo, che vivevano un’esistenza dura, centrata quasi esclusivamente sulle attività rurali di tm’economia di.autpsussistenza e sui rapporti di servitù. Gli orizzonti erano particolarmente ristretti e statici, i com­ merci erano ridotti al minimo, l’uso della moneta era più l’eccezione che non la rego­ la (economia curtense). D ’altra parte la vita era organizzata in termini di partecipa­ zione comunitaria alla famiglia (che allora era una famiglia allargata), alla parrocchia, alla confraternita, al borgo, alla corporazione (per gli artigiani), al vescovado, al feudo, ecc., secondo un insieme di rapporti estremamente articolato, frazionato, sparso sui vari territori e complesso. Ed era caratterizzata da rapporti verticali di tipo gerarchico che scendevano dall’alto, sia secondo lo schema feudale che dall’Impera­ tore, dai re e dai grandi feudatari giungeva sino ai gradi più bassi del vassallaggio, sia secondo la diversa gerarchia che si era data la Chiesa e che procedeva dall’autorità del papa fino ai sacerdoti titolari delle parrocchie e ai membri delle varie comunità. Si trattava di formazioni collettive caratterizzate da una forma di differenziazione inter­ na di tipo stratificato. L’altro aspetto dominante, infatti, era costituito dalla compre­ senza delle due grandi istituzioni che si ponevano come istituzioni universali e che di fatto presiedevano all’intero insieme di quella che allora era la «respubtica christiana»: l’Impero, luogo supremo del potere temporale, che si rifaceva alla tradizione di Roma, e il Papato al vertice dell’intero organismo della Chiesa. Tra Impero e Papato non erano mancati momenti di tensione e di conflitto e a volte il potere temporale dell’Impero, sorreggendo la Chiesa, aveva limitato l’esercizio del suo potere spiritua­ le, mentre, in altri casi, era stata la Chiesa a nutrire sogni di teocrazia cercando di prendere il sopravvento anche in campo secolare. Tuttavia le due istituzioni offriva­ no al mondo medioevale la fisica rappresentazione di una grande e coesa unità di tipo più che altro simbolico, capace di abbracciare nella sua duplice struttura le popola­ zioni e le comunità disseminate in tutte le parti dell’Europa dell’epoca è tutti gli stra­ ti in cui si articolava quella multiforme società, senza peraltro gaiantire una reale unità politica in senso moderno (come omogeneità di forza e di norme). Le popola­ zioni, infatti, avevano rapporti molto limitati con le due istituzioni.

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Sul piano culturale la religione cristiana forniva le coordinate fondamentali della fede in Dio e dell’opera salvifica del Cristo prolungata dall’azione della Chiesa: la pro­ spettiva del Giudizio Universale e dell’aldilà teneva vivo nei credenti il senso della pre­ carietà della vita terrena, del sacrificio e della rinuncia per la vita eterna e dell’ascesa spirituale. Sul piano filosofico la Scolastica aveva ripreso (a seguito del recupero di alcune tra le opere maggiori che nel periodo precedente erano scomparse) u n a vasta serie di elementi provenienti dal pensiero classico e li aveva variamente accordati con la teologia cristiana: nelle sue grandi linee aveva così accreditato l’idea di un ordine razionale universale posto da Dio e di una gerarchia di leggi immutabili che gover­ navano i diversi ordini del creato a partire dai fenomeni naturali del mondo fisico, vegetale e animale, fino a quelli del mondo umano e delle sfere superiori delle essen­ ze angeliche. Questa visione gerarchica ed armonica rispecchiava complessivamente la struttura piramidalè della realtà politico-sociale del tempo e, d’altra parte, essa con­ tribuiva a confermarla sia nei suoi aspetti unificanti sia nelle sue stratificazioni, men­ tre sul piano pratico sosteneva con l’idea delle leggi naturali una disciplina morale basata su principi immutabili. Sotto la doppia autorità del Papato e dell’Impero la vita del mondo medioevale era ordinata dunque materialmente e spiritualmente secondo un quadro che spaziava dalla sfera terrena a quella ultraterrena m a che raccoglieva tutte le sue parti in un disegno ordinato e unitario. U n disegno, occorre ribadirlo, che aveva un’effettività limitata nella misura in cui si esercitava su ordinamenti della vita associata (fossero essi le città autonome oppure i regni più estesi) che per la maggior parte delle loro funzioni risultavano chiusi in se stessi. In questo quadro rientravano, dunque, anche i rapporti «politici» (facenti capo storicamente all’Imperatore, ai re e ai vari ordini di feudatari), che erano subordinati teoricamente alla gerarchia delle leggi naturali, e l’autorità politica, che discendeva (come espressamente indicato nel Nuovo Testamento) dalla suprema autorità del Dio creatore. In questo genere di rela­ zioni, la maggioranza della popolazione figurava come grandezza passiva e residuale (la stessa ortodossia cristiana aveva una diffusione limitata e si presentava come appannaggio dei ceti superiori mentre nelle popolazioni conviveva con credenze paga­ ne o di altro genere), con la sola eccezione dei nascenti comuni. Sotto la spinta di lente e complesse trasformazioni economiche e sociali *, tutta­ via, le istituzioni medioevali a partire dal XIV secolo danno chiari segni di cedimen­ to ed è in questo ambito che si iscrive l’ascesa della forma stato dell’ordinamento poli­ tico. Questo nuovo tipo di entità si afferma lentamente e faticosamente come sovra­ na (un processo che si conclude solo nel XVIII secolo) e rompe, almeno in parte, con la concatenazione dei poteri medioevali in una doppia direzione: rifiuta di riconosce­ re l’universale autorità dell’Impero e della Chiesa al di sopra di sé e rifiuta di accetta­ re al suo interno dei poteri che rivendichino origine diversa dalla stessa sovranità dello stato. Si scioglie con ciò l’immagine di una ves publica christiana.», di una comunità delle genti, avente unità, leggi e istituzioni comprensive e si apre all’interno un pro­ cesso di forte (e spesso violento) ridimensionamento di quelli che erano i poteri nobi­ liari di origine feudale. Di fatto, l’Impero acquista una sua localizzazione territoriale (la Germania) e abbandona ogni pretesa universalistica, la Chiesa assiste alla seeola-

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rizzazione del potere politico e delle sue istituzioni, mentre nuove unità territoriali designano nuovi spazi, si danno un’organizzazione interna, concentrano le risorse e le energie presenti nei loro territori e, poste su di un piano di parità, passeranno attra­ verso innumerevoli guerre prima di definire stabilmente i loro confini. D ’altra parte, in questa nuova situazione i confini acquistano un significato diverso: la loro costru­ zione costituisce un processo che separa, con effètti molto più rilevanti che in passa­ to, chi sta dentro (e che gode, ad esempio, dei vari diritti di cittadinanza) da chi sta fuori e che favorisce l’ emergere e lo stabilizzarsi di comunità politiche che si organiz­ zano intorno a centri territoriali ben riconoscibili. La costruzione dei confini favori­ sce inoltre (con la chiusura territoriale che ne deriva) la strutturazione interna, cioè la formazione di canali di comunicazione tra governanti e governati, tra ceti superiori e ceti subordinati, e di sistemi di rappresentanza e di risoluzione dei conflitti. Assieme al decadere delle istituzioni medioevali e ai nuovi interrogativi sorti a seguito dei mutamenti socioeconomici anche i grandi sistemi filosofici della Scolastica perdono terreno, indeboliti dalle curiosità empiristicamente orientate, dalla rivalutazione della vita terrena, dalla ricerca di approcci diversi con la natura e dalla rilettura dei classici. La nuova forma di convivenza organizzata, cui solo più tardi si attribuirà il nome di politica, allora, non è più così fàcilmente riconducibi­ le ad un ordine universale costruito da leggi e da finalità predisposte nell’altro mondo: ai margini della cultura umanistica emergono critiche a queste forme uni­ versalistiche; si fa lentamente strada una concezione individualistica dell’uomo; lo stato moderno appare come una realtà artificiale e necessita di una legittimazione che spieghi l’esercizio del potere e il dovere dell’obbedienza. La stessa collettività necessita di una spiegazione. L’esercizio del potere non è più identificato con la capacità di governare, con la perizia nel condurre (secondo quanto risultava dal pen­ siero classico), m a appare in primo luogo in termini di rappresentanza dell’unità politica, dato che questa non ha più un fondamento che si presume «naturale». «Chi esercita il potere non lo fa per le sue qualità o per la sua diversità, m a solò in quan­ to attore della volontà comune» (D uso 1999 , p. 72 ): la nozione moderna di rap­ presentanza diviene dunque fondamentale per comprendere l’interna logica dello stato moderno e si salda strettamente alla legittimazione del potere stesso. Le rispo­ ste a queste problematiche verranno approntate a partire dal X V II secolo con le coordinate teoriche poste dal giusnaturalismo moderno. ' Le unità politiche che rispondono alle caratteristiche dello stato moderno ini­ zialmente sono la Francia, la Spagna e l’Inghilterra. A d esse si aggiungeranno l’Austria e la Prussia, mentre l’Impero germanico resterà a lungo un grande conglo­ merato di principati, regni, vescovadi, città libere, privo di una effettiva unità poli­ tica. G li stati, dunque, sono pochi rispetto alle forme politiche diverse (pensiamo alle repubbliche, alle signorie, agli staterelli a governo aristocratico, ecc.) che popo­ lano l’Europa dal X V I al X IX secolo, m a fin dall’inizio le loro dinamiche prendono il sopravvento.nella storia politica. I criteri che essi im pongono, affermandosi, sono quelli dell’unificazione su di una scala territoriale medio grande, della centralizza­ zione, in lotta con i localismi medioevali e con i privilegi e gli interessi radicati nel

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passato, e della razionalizzazione con gli effetti di un’omogeneità crescente e di una valorizzazione statale delle energie e delle risorse del paese2. A questo proposito è bene tener presente che la realtà della vita associata è anco­ ra pensata come tutt’uno con lo stato: a livello di linguaggio «società civile» è ancora un sinonimo dello «stato» e nel pensiero corrente lo «stato» è concepito, nei termini di un aristotelismo rivisto, come l’ambito più alto in cui si esplica la natura sociale del­ l’uomo con le sue potenzialità e le sue virtù. .Questo vale anche per fattività economi­ ca che rientra nell’insieme della compagine statale al punto che tutta una serie di atti­ vità produttive o commerciali di particolare rilievo sono svolte dietro speciali conces­ sioni reali (gli arazzi, per esempio, o le porcellane): in altri termini l’attività economica è pensata come parte integrante della vita «politica» complessiva dello stato e delle sue possibilità di crescita e di espansione (mercantilismo). Dal punto di vista morfologico la societas civilis è segnata da una forma di policentrismo asimmetrico che lascia poco spazio alle procedure di omogeneizzazione che verranno sperimentate in seguito. Sul piano dei rapporti «internazionali» (sarebbe più corretto dire, rapporti tra -unità politiche) col decadere delle «istituzioni» che .avanzano pretese universalistiche, si allontana l’idea della «respublica christiarut» e si delinea l’idea di una «società uni­ versale)) con un diritto di natura capace di fornire le basi per regolare anche i rapporti tra stati. Gli stati, comunque, in quanto entità sovrane, si trovano tra di loro su di un piano di parità, senza autorità superiori: la possibilità di rafforzamento, di conquista e di ampliamento, per ciascuno di essi, rischia di dipendere esclusivamente dalle forze che possono essere dispiegate e dalle resistenze cui vanno incontro. Il X V I e la prima metà del X V II secolo, infarti, sono costellari di guerre (complicate dalla spaccatura religiosa della Riform a e dalla minaccia dei turchi che si spingono fino all’Ungheria e dei pirati musulmani nel Mediterraneo), nel corso delle quali si misurano le forze, si delineano i territori di pertinenza e si abbozzano i confini. E con la pace di Westfalia ( 1648) che il «sistema europeo» si assesta: gli stati si riconoscono preroga­ tive sovrane e si ritrovano rivali su di un piano di parità. G li equilibri raggiunti però' sono destinati a restare m obili per la decadenza di alcune potenze e l ’ascesa e gli appe­ titi di altre; inoltre gli stati finiranno per abbracciare scenari sempre più vasti a causa delle conquiste coloniali. In questi secoli gli spazi politici si qualificano dunque in primo luogo in finizione delle esigenze militari: le province hanno regimi diversi a seconda delle posizioni più o meno esposte, vi sono grandi opere di fortificazione delle città e delle zone più aperte alle invasioni3, le fortificazioni richiedono partico­ lari moduli costruttivi elaborati in rapporto alle armi da fuoco e alle loro caratteristi­ che tecniche. D ’altra parte, proprio per la frequenza dei conflitti, le zone di frontie­ ra passano spesso di mano, si spostano, sono fortemente instabili e, più che definirsi in quelle che pòi diventeranno «linee> di confine, restano a lungo «zone» di frontie­ ra, caratterizzate da piazzeforti, baluardi, fortini e strumenti vari di difesa4. Il tipo di regime con cui si sviluppa lo stato moderno è quello della monarchia assoluta. Si può dire che dalla monarchia deriva lo «stato» (R e i n h a k d 1999) . La sovranità dello stato, assoluta in quanto non riconosce supériori autorità terrene e perché all’interno non accetta altri poteri al di fuori di quelli che da lei discendono,

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per la gran parte degli autori trova la sua migliore incarnazione istituzionale nella monarchia. N el pensiero politico dell’epoca l’assolutezza del potere che il monarca esercita è spesso temperata da limiti esterni (le leggi di natura, le leges impeni., per Bodin) o interni (l’adempimento della propria funzione, per Hobbes); è conciliata con la tolleranza in materia di confessione religiosa (per Bodin); la titolarità del pote­ re è posta a volte nel popolo, che però ne delega l’esercizio a un sovrano (come nel caso di Grazio); mentre il potere sovrano può essere esercitato da uno solo o da un organo collegiale (come per Hobbes). M a complessivamente è la monarchia assolu­ ta quella che viene accolta con maggiori favori e che trova i maggiori riscontri stori­ ci nel X V I, X V H e X V H I secolo. Le guerre di religione, che hanno insanguinato molti paesi a seguito del diffondersi della Rifórm a e che hanno messo in pericolo il consolidamento dello stato moderno, hanno diffuso l’idea che non ci sia salvezza al di fuori dello stato, ovvero che solo il potere dello stato col monopolio della fòrza possa garantire la convivenza pacifica, fi modello che prevale nell’Europa continen­ tale è quello della monarchia francese e in particolare del regno del re Sole. In Inghilterra, tuttavia, la tradizione dell’habeas corpus rende molto più difficile che altrove il formarsi di una monarchia assoluta e i tentativi messi in atto prima da Enrico V L I poi dagli Stuart sono destinati a infrangersi davanti alle rivoluzioni del 1645-1649 e del 168 8. Accanto alle monarchie assolute del continente si forma, dunque, un regime moderato a sovranità limitata dove il Parlamento si colloca in una posizione superiore a quella del monarca e con il suo controllo garantisce il rispetto dei diritti tradizionalmente riconosciuti dalle supreme norme dello «stato». Le prime compiute argomentazioni teoriche svolte a favore della sovranità limitata e per la dife­ sa di alcuni, fondamentali, diritti di natura sono di John Locke che viene così anno­ verato a posteriori tra i primi teorici del liberalismo; ed è a Locke che si rivolge una parte del pensiero illuministico quando riconosce i limiti del dispotismo illuminato e abbraccia la causa della libertà politica. In Francia, d’altro canto, Montesquieu sem­ pre in funzione della libertà politica sviluppa l’idea (che resterà alla base di ratto il costituzionalismo contemporaneo) della dislocazione del potere in vari organi diver­ sificati a seconda delle funzioni (legislativa, esecutiva e giudiziaria) e in rapporto di equilibrio e di reciproco controllo ,tra di loro (checks and balances). Riassumendo, nel X 1VI, X V H e X V H I secolo lo stato prenazionale moderno si afferma dispiegando una sovranità «assoluta» che è esercitata prevalentemente da regimi a monarchia ereditaria. L’esempio più difforme da questa linea è costituito dall’Inghilterra retta, dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688 , da una monarchia costituzionale e dove si può parlare di «sovranità limitata». M inoritaria la linea repub­ blicana che fa capo ad immagini classiche e a pochi esempi di istituzioni effettiva­ mente esistenti m a marginali o 'in decadenza. In questo quadro di trasformazioni che segna le vicende dell’Europa moderna emerge un nuovo genere di discorso teorico, che comincia a delineare un vero e pro­ prio «discorso politico» autonomo. Si tratta di un «discorso»; che viene fissato con testi prodotti dagli stessi detentori del potere (leggi, regolamenti, discorsi politici) o con scritti di giuristi, storici, filosofi , (costituzioni, discussioni teoretiche o storiche)

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in cui viene riflessa la nuova esigenza di legittimazione astratta, non naturale, delle nascenti forme di potere (un’esigenza che'non si' era presentata prima, in contesti, cioè, in cui il governo dell’uomo sull’uomo era implicitamente considerato come ovvio e «naturale»). Il problema centrale della nascente teoria politica moderna è, per questo motivo, Yautoreferenza, ovvero la necessità di trovare una fondazione circola­ re e riflessiva dell’ordine politico, nella misura in cui Yeteroreferenza della teoria tra­ dizionale (ovvero il riferimento esterno all’ordine, fosse esso la natura o Dio) è sem­ pre meno disponibile in forma diretta. Natura e Dio non scompaiono dall’argo­ mentazione ma diventano operatori logici piti astratti. Ad essi si sostituiscono opera­ tori logici di tipo diverso, utili alla riformattazione dell’ordine politico osservato ora dal punto di vista della sua capacità di autoproduzione. I nuovi operatori logici diventano gli «individui» oppure il «popolo» (ridefinito entro le nuove condizioni teoriche), e su di essi poggia la scommessa della nuova «scienza politica» di dare una spiegazione efficace di quali debbano essere i requisiti di un potere sovrano effettivo. Su questa strada mutano anche i generi del discorso, «politico». Al genere duraturo degli specchi del prìncipe, testi che contenevano riflessioni morali in cui si discuteva il giusto comportamento del sovrano e la sua educazione, si sostituisce gradualmente una letteratura che si dedica alla legittimazione autonoma della monarchia. In Europa, la fondazione degli stati si inserisce nel contesto di una società nobiliare e di una cultura giuridica già molto elaborata che ora conosce sviluppi inediti anche gra­ zie alle grandi astrazioni di intellettuali impegnate a rompere il monopolio ecclesia­ stico del sapere. Le due condizioni perché questa rottura divenga possibile sono, da una parte, la tardiva ricezione della Politica di Aristotele (interamente tradotta in lati­ no intorno al 1260), la quale permetteva di costruire una scienza terrena della «poli­ tica» (l’inventore del termine «scienza politica», occorre ricordarlo, sarà Tommaso d’Aquino, sebbene in un contesto di significati in cui l’espressione «politica» non coincide col nostro), dall’altra una profonda trasformazione del modo di produrre conoscenza e delle tecnologie di comunicazione impiegate per diffonderla, che coin­ cide, nello sguardo retrospettivo dei contemporanei, con la nascita della cultura moderna. Innanzitutto l’introduzione della stampa (la cui invenzione risale alla metà del XV secolo) la quale rende per la prima volta la comunicazione scritta indipen­ dente dall’oralità e dalle sue forme —cioè defin!ayimente,anonirna. e sganciata dal­ l’interazione tra presenti. Si scrive per comunicare a distanza (nello spazio e nel tempo), in una forma che non è più semplicemente la fissazione dell’interazione tra presenti m a piuttosto un’alternativa ad essa. La comunicazione scritta acquista strut­ ture, distinzioni e contenuti indipendenti dall’interazione, e prende così lentamente forma il libro, come lo conosciamo oggi, il quale consente la registrazione di conte­ nuti semantici che permettono un’accumulazione di conoscenze che nelle generazio­ ni precedenti dovevano essere sempre ripetute mnemonicamente da ogni individuo interessato al sapere. Ciò ha profonde conseguenze nell’elaborazione dei contenuti: mentre le culture in cui prevale, o è quasi esclusiva, la comunicazione orale, si dove­ vano basare sulla ripetizione, quelle in cui prendono piede ì testi scritti acquistano una libertà molto maggiore nella selezione e promozione di temi del discorso (e d ò -

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accade proprio perché quei testi che nella tradizione precedente si presumeva cono­ scessero continue corruzioni dovute all’opera di trascrizione sotto dettatura, ora pos­ sono essere presentati come rivisti e corretti in edizioni sempre migliori). Ciò accade in coincidenza con una progressiva riorganizzazione del testo trasmesso: si introdu­ cono titoli, note, indici di vario genere; si perfezionano e diffondono strumenti già presenti ma utilizzati molto saltuariamente come la numerazione delle pagine o i frontespizi; paragrafi e capoversi, adottati tra il Cinquecento e il Settecento, servono ad articolare la continuità ininterrotta del discorso e a imporgli un ordine visivo che va a sostituire quello orale dell’argomentazione; si separano sempre più nettamente le lettere dai numeri, con là conseguente adozione della numerazione araba che si è diffusa verso la fine del Cinquecento; scompare progressivamente il complesso appa­ rato di glosse e commentari che riproducevano nello scritto l’apertura della comuni­ cazione orale (ogni lettore si sentiva libero di aggiungere le sue integrazioni e i suoi commenti, senza neppure preoccuparsi di distinguerli dal corpo del testo), con la conseguenza che nasce l’idea di un testo fisso. La coerenza della comunicazione, prima garantita dal contesto dell’interazione tra presenti, deve ora essere curata dalla comunicazlòntTstessa, con un'attenzione mólto maggiore a evitare contraddizioni, alla comprensibilità e alla concatenazione degli argomenti5. Tale mutamento rispecchia una progressiva perdita di centralità della stratifica­ zione sociale (la forma di differenziazione sociale fino a quel momento decisiva nella definizione della posizione dell’uomo nel mondo). Le nuove comunicazioni cotnin- " ciano in alcuni casi a non tenere più conto (o non almeno in maniera primaria) della differenza tra nobili e gente comune, mettendo in crisi i codici di comportamento tradizionali la cui regolamentazione avveniva sulla base del riferimento alla persona I grandi movimenti innovatori del XVI secolo (la Riforma e l’Umanesimo politico), sono stari guidati da appartenenti alla borghesia e non all’aristocrazia Bisognerà attendere il XVHI secolo perché la crisi dei modelli tradizionali di stratificazione toc­ chi il suo culmine, lasciando spazio a forme di differenziazione sociale di tipo fun­ zionale. Alle asimmetrie gerarchiche, definite dall’appartenenza cetuale o corporati­ va, e alle conseguenti stratificazioni, si sostituiscono nuove asimmetrie di molo, vali­ de in forma differente nei diversi ambiti dell’esperienza sociale: quella tra governan­ ti e governati, ad esempio; oppure produttori-consumatori, insegnanti-allievi, ecc. Ognuna di queste differenze acuisce il livello di complessità sociale e nello stesso tempo deve trovare una progressiva legittimazione nei confronti del nuovo postula­ to teorico dell’uguaglianza di tutti gli uomini (un postulato che trova la prima ope­ ratività nella teoria hobbesiana della politica). Le differenze, in temini di stratifica­ zione (oppure di segmentazione territoriale: quelle per cui si differisce in base alla propria appartenenza a un luogo particolare o a una cultura particolare) non. smet­ tono di giocare un molo significativo nella definizione della posizione dell’uomo entro lo spazio della vita associata, anzi, per certi versi si acuiscono e vengono incre­ mentate: si generano cioè più differenze u à ricchi e poveri, tra chi ha potere e chi non ne ha, rispetto a tutte le società precendenti. Il fatto, però, è che tali differenze non hanno necessariamente il molo di struttura primaria nella definizione dell’apparte­

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nenza o inclusione del singolo uomo entro uno spazio particolare della vita associa­ ta (non sono più, per dirla altrimenti, ovvie e senza alternative, come accadeva nelle società tradizionali, dunque neppure percepite e .osservabili come tali da parte della cultura politica). Nella stessa prospettiva è cresciuto il ruolo giocato dalle organizza­ zioni entro lo spazio dello scambio sociale, a discapito tanto del vecchio modello della corporazione, quanto dello spazio aperto dell’interazione. Si tratta di processi di lungo periodo che comportano un generale incremento di complessità e, nello stes­ so momento, di contingenza, i quali erodono lentamente gerarchie e stratificazioni ereditate (sebbene a tutt’oggi esse giochino un ruolo ancora dirimente). Le trasformazioni strutturali legate alla comunicazione, unitamente ai processi di mutamento della struttura delle società moderne in formazione, avranno delle profonde conseguenze anche sulle modalità di osservazione della realtà, e sulle strut­ ture e distinzioni che organizzano e rendono comunicabile quell’osservazione. Ogni semantica - ovvero ogni struttura che organizza l’osservazione della realtà, la sua conoscibilità e la sua comunicabilità - è 'una forma di raddoppiamento della realtà, una sua duplicazione: il m odello classico di semantica, quello che per secoli ha gui­ dato lo sviluppo della conoscenza e del sapere nell’Europa premoderna, aveva adotta­ to un tipo particolare di soluzione al problema del raddoppiamento distinguendo tra la realtà delle cose e la realtà delle idee, salvo poi collocarle entrambe in «posti» diffe­ renti dell’unica realtà di riferimento del mondo come universitas rerum. D a tale modello di organizzazione della conoscenza discendeva l’idea che esistesse un’unica descrizione vera del mondo e che le singole conoscenze potessero solo approssimarsi alla perfezione di quella descrizione (ciò valeva tanto per la tradizione classica greca, quanto per le sue riformulazioni cristiane). La semantica moderna, che faticosamen­ te si sostituisce a quella tradizionale in quanto nuova versione «scientifica» del mondo, è invece organizzata intorno a nuove distinzioni e strutture caratterizzate da un più elevato livello di astrazione. La principale di queste è la distinzione cartesiana tra soggetto/oggetto: ora non si distingue più tra cose di natura differente m a appartenenti allo stesso mondo (cose, idee) m a tra oggetti e osservatori di oggetti, dove gli osser­ vatori non sono propriamente oggetti, m a prospettive sugli oggetti che trovano vali­ dità con procedimenti loro propri. Nasce cosi una distinzione tra una sfera del sogget­ tivo e una fera dell'oggettivo che permette, ad esempio, l’iniziò dell’ osservazione diret­ ta dei fatti naturali indipendente dal testo sacro, una ricerca di verità di natura indipendente dalle verità della rivelazione: come dire che esiste una realtà, coincidente con la sfera dell’oggettivo, di cui si possono fornire descrizioni differenti che pertengono alla sfera del soggettivo (ed eventualmente dell’intersoggettivo). Si sperimenta per la prima volta la separazione tra cose e parole, nel senso che si rompe la reciproca impli­ cazione tra mondo e linguaggio (l’idea, cioè, che ad ogni cosa possa essere riferita una sola parola e solo quella), e in questo modo inizia ad acquistare sempre maggiore importanza lo studio empirico delle cose stesse, basato sull’esperimento e non sull'interpretazìone. Nella tradizionale mancanza di differenziazione tra parole e cose, l’ordine del mondo (e con esso, Fondine che guida le forme della vita associata) veniva assi­ curato dall’ordine del discorso (da cui discendeva la convinzione che a forme simbo-

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fiche universali —Impero, Chiesa romana, Respublica Christiana - corrispondessero comunità universali). Ora invece il mondo deve fondarsi su se stesso, e da questa autofondazione dipende il problema dell’ordine che diventerà una vera e propria ossessione nel XVI secolo (lo si cercherà soprattutto nella fisica). La garanzia di ade­ guatezza delle osservazioni e delle conoscenze acquisite viene posta primariamente nel loro carattere intersoggettivo: queste devono essere pubbliche e basarsi su esperimen­ ti (o esperienze) ripetibili, dunque osservabili da altri soggetti. Devono diventare oggettive nel nuovo senso di non-soggettive. In esse la negazione della soggettività viene intesa come indipendenza dall’osservatore individuale, nel senso che un osservatore nelle stesse condizioni giungerebbe agli stessi risultati. Tutto ciò comporta una nuova definizione di d ò che è reale (anche dal punto di vista politico) aprendo, nello stesso momento, ima nuova autonomia dell’imma­ ginazione. Il nuovo sapere e il discorso che lo comunica ambiscono ad un genere di realismo che attinge a nuovi strumenti di rappresentazione, che ora mirano alla sfera dett’oggettivo come non-soggettivo. Un esempio chiaro è offerto dall’adozione della prospettiva nella rappresentazione pittorica, la quale antiòpa analoghe strumentaziòrii in campo sdentifìco: un dipinto che presenta una disposizione prospettica dei personaggi e delle cose rappresentate risulta più realistico rispetto a una rappresen­ tazione in cui gli oggetti e i personaggi sono tutti della stessa dimensione, e ciò indi­ pendentemente dal fatto che la prospettiva non sia «vera» (nel senso che nella realtà gli oggetti non rimpicdoliscono allontanandosi dal punto di osservazione). Benché si tratti di un’illusione ottica, la prospettiva permette una rappresentazione realisti­ ca oggettiva, nel senso di ripetibile alle stesse condizioni da qualsivoglia osservatore. Si tratta di un procedimento che, soprattutto in campo sdentifìco, procede in modo controintuitivo. Esso permette cioè di conseguire un tipo di oggettività nell’osser­ vazione solo a condizione di procedere ad astrazioni sempre più elevate (una proce­ dura che troverà la sua più importante espfidtazione politica nella rifondazione hobbesiana della sdenza politica). Ma che dipende ancora dall’idea (di impianto teologico) che la garanzia di realtà stia in un riferimento esterno irriflesso (cui si può dare il nome di esperimento oppure di ragione). Permane, dunque, la convinzione o se si preferisce il dubbio che vi sia una «realtà reale» (oggettiva e unica) distinta dalla «realtà fittizia» della rappresentazione (distinzione oggi messa in crisi innanzi­ tutto dalla sdenza). Ciò che conta segnalare, però, è che la verità di un’osservazio­ ne, di un testo, di uno studio, sebbene si esprima in un contesto sodale ancora ampiamente segnato dalla stratificazione (la conoscenza e la comunicazione cultu­ rale sono esclusivo appannaggio dei ceti superiori e di pochissimi altri individui, magari appartenenti agli ordini religiosi) non dipende più dalla posizione di auto­ rità di chi la esprime (dalla sua collocazione nella gerarchia sodale) ma dalle nuove condizioni di verifica. Ciò permette di differenziare le prospettive di osservazione e di guardare in modo nuovo le stesse «realtà». I testi che intendono descrivere senso e fini delle nuove forme di processo deci­ sionale variano in concomitanza con il variare delle nuove possibilità di osservazione. E grazie alla possibilità di aprire nuove prospettive che, ad esempio, un’osservazione

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particolare come quella offertaci dal Prìncipe di Machiavelli può essere interpretata come la scoperta di una «nuova realtà». E, nello stesso tempo, la coeva stesura dell’ Utopia, di Tommaso Moro, in cui dall’idea si passa al paradosso, possa vantare pretese di attenzione analoghe (vedi box pp. 29-32). il

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linee stona chi rei m ine e d e lc o n c e tto

La parola rocca, citte •naoXmiCTi, =ro «art

politica», com’è noto, dmvaiidafègfecoepo Oi iaggetti ,o di polis iella, atta, com unità‘cittadina, greca) Più _^recisamente" nella, forma ntegrata dai sostantivi episteme bs& Steissigrìrfica^iscienza della polis.» della polis» {la.polis essendo non.unà genetici to» come molto spesso erroneàmentè-inniènde, m ali (stato», I I II mzzazione della vita associata, n tzioni di. governo dell’uom sull’uomo che ì grea hanno sa^lui m a sostantivatapohtika ess indica a ò che riguarda la polis, g lr «a5 ari.~dellal polis» che, 'tràdbtthin.hnguaggio -i moderno — m a tenendo ferme 'I i aratiere i ìecintaioi dunque parncol k e seg­ mentano, della loro defiruzions r (issiamo in Lendere i ime a É n pubblici o affa­ ri che riguardano la vita asse inque, potrebbe assumere il significato di «conferme afe’mteressefeéUajnta.associata della polis, all’interesse pubbhco defunto a paftiré dalfeipàmcolarità dello spazio,urbano (greco», mdirettamente anche ambito deflefeeósioni coflettiromente,vincolanti m a >■ ilo con rirenmen-o alla forma ned urb i i g u a i (nel st n o the polis mdica un i In m a del coiletmo non estendibile a giinilc//c dilfeicm i (|iuli ad esempio gli| ii iperi pcs.am o egizi; L a lei azione stnti i Lri Ini m i «pollimi» del collettivo e dimensione e comprovata dallo ste o Ansimele, il qu ili ha conti ibuito come ne* | sun altro a fondate il concetto e precisamente nel ripporLo li i «luto ufficienza»! (piecondizione per d raggiungimento del hi rie tonnine) t «sinom ata) (al fine d i| vivete u n ii ita auto ufficiente h popolazione ili v'tsstit di ilimensiom tah da essi I il -ibbncaain m un unico guardo ( Politico I 3 26 M )

Jl‘i oncetto di polmca, nadattato dalla culmi i m oda n i ni un contesto diverso da tqui Ilo urbano, e un concetto filo ofico Comi lalc e comi pillile in origine olo nel qu alio di una filosofia pollina La ua fomla/ionc, lonclusa ih Aristotele, e stai ì t rii uperata dalla cultura modem i m parte (ma mollo mai ginal mente) grazie agli Raillon romam (che praticamente non ne Fumo uso) , sopì inulto peto grazie ili ì ,.nie7ione della filosofia insroi elica i panare dal XIII secolo (soprattutto per la ua du/ione della Politica di Ansimile intorno dia meli dii Duecento) La panili scompare per piu di un nulli inno d il linguaggio noi leu miopi o, pei riconipaine ’ n d li teologia scolastica euri un significato clic iifiiuc fedelmente d enso che Anslotelc attribuisce all’espussione (non gcucricamciuc gli (aflari in comune ili ìnierno della citta g u n » m ì il compito di ri ili/.u t iimo lo spazio dell ì vii i IgasuciaLa, la viia_buond_{cyiriuosa del cittadnio).;A colur-che per ■primo coma Ifer

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spu ssionc «molli rna> scialai pollina ( fornii iso d’Aquino) udii loimi lirint di peraene un sigpificaco'di «pòEtìcàji cke si'oppone nerate del governo della vita associata (tirannia, dispotismo) Nel lessico della Scolasrica il Tegmen politicziih strippone a l regimen dispóticum-, come il regimai ree- '■ tum èfìùstum sioppòne-al regimen inìuBuinjt.jiegeneratum. Com e tale d termine eùl concetto soptavyiyono alle controversie, teonche dell’epoca servendo a. designare una form a del collettivo in cui le decisioni vincolanti corrispondono è. giustizia defimti-dafi’brdine del discorso ispirato alla; d iv in ità U concetto.inodemo di «p>Jiticav, dunque, emerge con molta È tica e deve la sua formalizzazione alla co ella fe r m a listato» 'co m e modo specifico d ife n n a del collettivo. D alpu n to di vista semantico sitrattad iu n adattamento e'dti' 1 " ~r "' asmette,*alla *11 di ’’ (che. ha imna.ejgj dimensione: déÙai ferm a «statof de dellavita ■ molto differente, mini d i soprattutto in: di relazione ___ danno parte) U d e n te tardivo della-parola icnco ùTia-;c ^ J ^nntìtaj:!issociàta;qnìaliaslegata!!'alle-ionne

syrncolann', dipende fandie da questo N o n a caso il dcl.tetmineàn.una ^ ^ ___delle guerre confKSÌqhàlff(^Isecólo)t Conesso/spre;Eiativarnente,' s’intenderdesisnare coloro' die nel conflitto tra religione cattolica e: religione nrormata prendono una posizione di terzietà, parteggiando "per la pace; dello:«statO)j In questo nuovo significato, apam re dal quale ìLtemune —sebbene con tempi molto differenti nelle diverse lingue nazionali —comincia a d assumerei: il senso che gli si attnbnlsce oggi, quello di una dimensione autonoma della, vita, issoi i ita taraiklizzai i d i specifiche relazioni c deitrmimziom politn i si ìfeantx a 'stato come designazione per indicare una forma della vita collettiva. generica e -nonjqual iffcata.J.tradizionale significato anstotelicorpérò,.non scompare Anzi, è sóggettO|_a_contmue ripresepanche in-aperta opposmonuaquello moderno (vedi. -Atendt), 'esséndo^ chiamato ad m dicateuna ferma molto qualificata dnparteapazione'afia vitami comune. La difficoltà) per non dneTimpossibffitàfancora.oggi di definire lapolitica in termini condmsijdi_conTenuto dipende anche da questa con-;: viyenzinello'StSso tènrunddi dìiè‘concetti móltotdistann traforo (unasferagene- i L'nca dHlaivita associata, definita definizióni specifiche, e^unaffbrma dfcllagire ini -vistadel bene-comune,.sempre qualificata normativamente). t - :

A g li albori dell’uetà m oderna .»

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N O T E PR EM ESSA 1

D opo il 1000 la ripresa delle attività commerciali, la crescita della produzione artigianale, il rifio­ rire delle città, gli spostamenti della popolazione introducono m utam enti più o meno rapidi a seconda dei luoglii e delle contingenze. La vita economica e sociale si trasforma più o meno len­ tam ente, le merci prendono a circolare in quantità maggiori e su spazi più ampi, crescono i mer­ cati e i grandi appuntamenti stagionali, si fanno strada esigenze nuove di vario dpo (dal bisogno di sicurezza per le vie dei mercanti alla necessità di nuovi strum enti bancari per favorire le tran­ sazioni). Le città ridiventano i centri attivi di u n tempo e contrappongono alle campagne le risor­ se dei beni mobili, la ricchezza collegata al denaro e nuovi modelli di vita. 2 All'interno l'azione del potere ridisegna gli spazi civili: acquistano importanza le città capitali, che sono arricchite di m onumenti, piazze, palazzi, strade e che trovano il loro punto culminante nelle regge; queste trasformazioni si misurano con le forze cittadine, con gli interessi costituiti e hanno fasi alterne; altri luoghi vengono segnati variamente dalla volontà dei monarchi e dalle loro ambi­ zioni (i mausolei, le residenze di campagna). Per altro verso le funzioni statali avvolgono e svuo­ tano spazi preesistenti introducendone altri: ad esempio sono create reti di rapporti gerarchicoamministrativi estesi a tutto il territorio nazionale sia per la sorveglianza e il controllo che p er il -______drenaggio,dirisorse^vantaggto delle casse centrali; sLcieano.ospedali, workhouses, ospizi che isti­ tuzionalizzano indigenti, mendicanti, emarginati. Nel segno dell'unificazione gli stati comincia­ no ad istituire i prim i servizi postali regolari. Si scopre l’importanza delle carte geografiche come strum ento per impostare razionalmente l'opera di controllo sul territo rio .. 3 H . Lefebvre insiste nel sostenere che lo spazio dello stato è fondato sulla violenza: da u n lato le guerre producono spazio e ricchezza, dall’altro il m antenim ento dell'ordine interno im plica sem­ pre, latente o palese, Teseremo della violenza (L efebvre 1974, pp. 269-274). 4 Sul piano semantico, infetti, il termine «frontiera», che inizialmente indica u n a zona più che una linea e che si evolve ad indicare più generalmente il «limite», si associa fortem ente fin dalle ori­ gini medioevali all’idea di rapporti bellicosi, alla guerra e a un lessico marcatamente militare. Nell’età m oderna lo stato vive nelle condizioni hobbesiane del bellum om nium erga omnes e si cir­ conda più di «frontiere» che di confini (Nordman 1998, pp. 27-45). 5 Ciò avrà anche profonde conseguenze dal punto di vista del lettore, dunque della sua richiesta di novità: alla lettura intensiva degli stessi testi che contraddistingueva la tradizione precedente si sostituisce gradualmente la lettura estensiva, in cui si esaminano invece testi sempre nuovi alla ricerca di informazioni diverse e n o n ripetute. 6 La polis indica un ritaglio territoriale particolare, definito da un ordine organizzativo interno e da una separazione netta rispetto all’esterno. 7 E d ò per buone ragioni. Sebbene la latinizzazione avvenga già con Cicerone (poi con Boezio), i rom ani erano consapevoli che la forma del collettivo espressa dalla paiola, politica era differente da quella che a Roma si indica con civica (BenvenistE 1969). 8 Basti ricordare in proposito che Machiavelli, colui cui si attribuisce il m erito di aver antidpato Tindividuazione della specifidtà delle relazioni eh potere tipiche della, realtà m oderna, e dunque di avere per prim o osservato la «politica» in senso m oderno, non possiede il termine e n on lo usa (salvo u n generico rimando nei Discorsi in cui si identifica n o n la politica to u t court m a una sua qualificazione aristotelica).

La nuova Forma politica (I) : «stato» e sovranità nel Rinascimento europeo i

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I te m i dell’U m a n esim o p o litico : p o litic a e civiltà

.L a -cultura .um anisrico-rinasdm entafe)rapffraena la risposta, elaborata nel Quattrocento e nel Cinquecento, alla crisi nel mondo medioevale ed ai problemi-che si ponevano con la decadenza dei grandi istituti universali (la Chiesa, l’Impero), con ta sviluppo (lei traffici commerciali é della ricchezza mobile, con l’indebolirsi delle ;stm tturiiEil 3 alÌ7 co f fersrstràdà di dubiti rapporti sociali è cól formaisi delle signorie è degli stati nazionali. A l pensiero medioevale si sostituiva un nuovo modo di concepire l’uomo, che, mediante un forte affinamento degli strumenti filologici, attingeva al m ondo classi­ co, rifiutava l’ascesi e le tendenze penitenziali e, pur in una vasta gamma di posizio­ ni specifiche, tendeva nel suo complesso ad affermare una visione positiva della vita, fetta di libertà critica, di impegno civile, di spirito di ricerca, di apprezzamento dei piaceri, di fiducia nelle possibilità polivalenti e creative della natura um ana Visione che, pur tingendosi a volte di sfumature epicuree e scettiche non operava un drasti­ co distacco dalla religione, m a sollecitava piuttosto un cristianesimo più positiva­ mente incarnato nel «mondo» più universalistico e più criticamente vagliato nelle sue pratiche e nelle sue credenze. Ancora legate alla tradizione classica e medioevale, le concezioni politiche fondono insieme m otivi risalenti ad Aristotele e a san Tommaso (l’idea dello stato come unico ambito in cui l’uomo realizza pienamente la sua natu: ra sociale, la convinzione di un ordine razionale universale, di cui fermo parte le leggi di natura e l’idea del bene comune) con m otivi umanistici, come la concezione del­ l’uomo polivalente ed educato dalle hum anae lìtterae e della Com unità dei sapienti' .a(di tutti i tempi) quale modello di convivenza illuminata e tortuosa La costruzione del regnò umano è pensata come prolungamento della creazione divina e le leggi positive non si pongono solò per la repressione dei malvagi m a per dirigere le azioni verso il bene. Le leggi hanno un’intrinseca dignità, esigono obbedienza e si inqua­ drano in un ordine armonico universale. 11 sovrano deve essere buono, virtuoso, rispettoso dei patti, misericordioso nella sua giustizia; deve essere temperante, rispet­

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toso della fede e della giustizia, versatile, buon conoscitore delle lettere e delle arti, sensibile al consiglio dei filosofi. Tuttavia, se nel pensiero umanistico le idee politiche prevalenti sono queste, non mancano altre voci che contestano l’esistenza di leggi eterne e assolute, rifiutano rintrinseco valore delle leggi umane, sottolineano i mec­ canismi dell’arbitrio, della forza, della paura. | IL TEMA

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L e origini del pensiero politico m oderno Nel.suo Le ongtm delpernierò politico-moderno, lo storico inglese Q uentin Skrrmer tifile;una consistente revisione di alcuni punti saldi della fonuazione del pensie­ ro politico in età rinascimentale. Grazie ad un approccio «contestualista», che pri­ vilegia la ricostruzione storica del contesto rispetto all’ analisi testuale o alla chia­ rificazione concettuale ', Skinner è in grado di offrire un’autorevole e suggestiva ricostruzione del pensiero politico tardomedioevale,1 rinascimentale- e della |--ìitfaim-a-attieelaia-su-grandi;terni-gome:libeH:à-e-autoEÌtàJ-obbedienza-e-resisten---za, assolunsmo e costituzionalismo, che si conclude con una discussione sulla nascita della m oderna concezione dello stato. Le opere dei maggiori autori, da Dante a- M arsilio,” da Machiavèlli a Erasmo, da M ore a ;L iite ro ,d a Calvino a Bodm, vengono messe in rapporto alla letteratura e agli sen ta di numerosi auto­ ri m inori e situate all’interno di linguaggi e tradizioni quali Fan dictam m is e la retonca, il diritto romano, l’umanesimo civico, l’aristotehsmo e la scolastica., Le tesi di Skinner correggono o modificano sostanzialmente alcune accreditate let­ ture del pensiero pohùco rinascimentale e della- Riform a. N el primo volume, ad esempio, Skinner sottolinea le radici stoiche e scolasache del vocabolano politico del Rinascimento, offrendo in tal m odo un importante correttivo alle letture che m precedenza avevano privilegiato l’influsso platonico e neoanstoteheo. C o n gran dovizia di particolari, Skinner documenta la presenza d i tem i repubblicani sia ■ nella tradizione retonca e dell’u n dictamm is, sia in quella scolastica (nérD efèm or pacis d i M arsilio da Padova, e nel' Tractatus de regimine cim tatis e Tractatus de ' tyrannid à i Bartolo'da Sassoferrato). E-mostraJa parzialità della tesi di chi ha volu­ to ncondurre l'um anesimo ciyico a un discorso strettairientè’culturale e ristretto a circoli letterari,, privandolo in tal-modo del suo contenuto sociale e dei suoi scopi spesso dichiaratamente ((politici» - ~ Nell’esanu dei singoli munì, bituma propone m olili delle leruut issai ongim h Volendoci lim im i ul un solo esempio, quello di N icloIo iVl ìehi ivilli Slcinnei m ostra come il" segretàrio fiorentino, nello scnvere il Principe, abbia mtenzionalm ente invertito' le convenzioni délladetteratura umamsnca-del tempo, che indica­ va nel pi in ape lo sp u tin o delle virtù cnsuane (giustizia, gmeiosil.i, demenza) NeL p'roporre che il_prin&pe dbvesse-essere, se necessario, ingiusto e non buono, Machiavelli mu iva utlaLli i (ornili d u i uteri di condotta poliin 11 hi polissero far , fronte alla crisi’ dèffiepoca e prefigurassero il riscatto dell’Italia dalla sua condizione

La nuova form a politica (I): «stato» e sovranità nel R inascim ento europeo.

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'dTHiyisione~e sottomissionèjal dominio, straniero. Nellfesàm inare'ffesti,di nume­ ro si a lta pensatori del periodo rinascimentale, Skrnner perbene parim enti a cfngiinali esiti interpretativi (si veda, a chiusura del primo volume, la-breve, marincisiva analisi défilMo^z&dirTommasb M oro e la 's u ^ c a i^ e fe a r iq n ^ m jitìa y e di’ critica umanistica 331’l 5 nanesimo). , * * , , r i N e l secondo!volume, dedicato1 al 'pensiero, pohuco della Riforma,, L’anafisi Menearticolata su tre grandi temi; assolutismo,, cosutuzionalismo e teoria della rivoluziorie. Skipper approfondisce q ù ija tesi’ dei-legame profondo trarpensiero; scòBstltco medioevale, in specie d i autori coinè Oplcham, Gerson, Almain, M ah, B a to lo e Salamoino,-e le teorie politiche della Riform a, da quelle Luterane del dovere-di ^resistenza all’autorità papale,-a.quelle ugonotte rii stampo costituzionàleó riyolu-zionauo di Beza, H otm ail e M o m ay fino a quelle calvmiste che.rivendicavano il : diritto di resistenza del magistrato, quale eletto deL popolo e quindi itl qualità di populans magistratus, al potere del sovrano empio o ingiusto. D i particolare valo­ re, nel contesto argomentativa del secondo volume, è la cntica al concetto di una -apecificauitefeBSWGahaaistedella nvoluzionoi-Per-Skisner-tale-teona non può-esse— re accettata, poiché 1 rivoluzionari calvuusn basarono 1 loro argomenti quasi inte­ ramente sulle teorie giuridiche dei loro oppositori cattolio. Com e scrive lo stesso -Skmner: "«La tesi secondo cui le teone che fanno da sfondo all’ascesa della polinca -radicale moderna sarebbero di caratreie chiaramente calvinista conserva- una sua ’p lausibilitàa patto di ignorate gli-elementi-radicali presentfhel diHtto ciyilee cano­ nico, com e pure finterà"tradizione del pensiero condliarista radicale derivante'da i’D ’A illy e Gerson ili-inizio del X V secolo. Certo, se al pari d i Waber,.civlimitiamo fàfconfronìare'i* calvinisti a u n teorico come Suarez, E presunto.'contrastocfià gli ugonotti radicali'ed i cattolici tradizionalisti può esser iàttonpparirerriirivirirente.M a se invece paragoniamo gli ugonotti a Bartolo e a Salamonior.fi:a£i giuristi! o a Ockham! Gerson, i^lmain, e M air fra 1 teologi, troviamo che il ‘q uadro è cofnpletamente_iiiivertitpf; Lungi dal rompere con le restrizioni* della’ scolàstica'al fineSdi fondare imperniava politicai, vediamo gli ugonotti in gramparteddbttare e.cbnsp''iàhrè una posizione già in precedenza abbracciata dai giuristi; è dànteologi piùàadi' (Skinnee . 1978 , v o L H ,p . 464 ). -> rer sottolinea, inoltre, il ruolo del diritto romano nèlfèlabotazione defieteocostituzìonali. e del diritto di resistenza. Egli descrive cori grahde efE cad ài’irt^ - e q z a dell’interpretazione «populista» della Lex regia, 'secondo la qualedl-juihcLJ)pe riceveva' Yimperami, ovvero da sua autorità, direttamente dal popolohSkinner m óstra in questo contesto comeda teoria battohstadelMsovranità popolare! venne impiegata da’’Andrea Alenato ^soprattutto, da M ano Salamoniò per contrastare lausfeficazione deL potere assòluto del principe, considerato al^ch sopra^déllfe leggi" ' ps'legibus salutus). Il diritte-di resistenza trovava/pondi suo appoggio e giuj? ionfeiteorica nel dintto/privato romano che legittimava, l’impiego dèlia fòrza? repellere la forza-{vim iltirepellere licei), dintto chéyeShefesteso neilt.onfrorìti) ’autorità-pohtica ritenuta’ le g ittim a . Palamenti ìm p o ftijte è la pcòstruzicfne

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Lei nascita degli sta ti e lajbrm asdone d i un discorso politico autonom o

offerta da Slonner del pensiero politico scolastico del Cinquecento. QuLviene esa­ minata non solo la tradizione scolastica- di stampo radicale (la cosiddetta «via moderna»); m a anche la via’ antiqua’- del ncotomismo elaborata dai teologi spa­ gnoli, in.paracolare Suarez e VItona. M ò la degli sforzi della tarda scolastica furo­ no n voi Li ìlla conluLa/ioni delle noni. di autori um misu come Erasmo t M ailn ivclli, ma cosiliuimiio lui hi un notevole apporto per le teorie pollili In ilei Seicento, soprattutto nel loro impiego del concetto di «stato di natura» che forni­ vi i li li ìsi per gli argomenti 1 sosUgno del contntto sociale N ell e/uLn/i nc il molo dclli l m ia scolm ila pei gli sviluppi del pensiero cosutuzionale (m panno lare,- quello svolto dai seguaci di Bartolo da Sassoferrato), Slonner n on tralascia ovvimiLnfe di sottolineile il molo che essi ebbi m i fornire argomenli pei la giu stillazion e dell’assolutismo. Esanimata nel suo complesso, la tarda scolastica rappicscnlo, lornunque uni dille (onu principili dii pensiero pohrieo moderno, in qn mio siJ diIi un lessico e Ini ino delle stranine aigommL 'uve, elle venni io poi impiegate-dai teoria del aintratto soaale del Seicento.

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N ic c o lò M ach iavelli

Il pensiero politico di M achiavelli ( 1469- 1527 ) si distacca nettamente sia dalle concezioni medioevali sia dall’idealismo umanistico del suo tempo. L o studio dei classici e lo spirito critico si saldano in lui ad una disincantata analisi dei fotti ed a una forte passione per l’attività politica. U no dei suoi m eriti è l’aver colto uno degli elementi fondamentali della sua epoca, la formazione dello stato moderno; di qui il suo im pegno politico ideale, perché anche nella penisola italiana si formi, contro il particolarismo dei principati e contro le forze feudali, un grosso stato cen­ tro-settentrionale sul modello dello stato francese, di cui aveva apprezzato i nuovi ordinamenti e le energie. Machiavelli non è un filosofo, m a nei suoi scritti circolano dei presupposti filo­ sofici che occorre tener presenti. Contro l’idea dell’universo armonico retto da leggi eterne, egli pensa il móndo come invariabile nelle sue componenti (sia nelle energie fisiche che nelle qualità morali), m a in perpetuo movimento nella ripartizione e nelle' combinazioni di queste energie e di queste qualità. D i qui la ripresa dell’antica teoria dei cicli storici e lo spazio che viene lasciato al dominio del caso. L a figura incombente di un Destino, che governa l’ azione degli uomini, e la visione cristiana del disegno provvidenziale di D io, che guida la storia, lasciano il posto ad un campo di dinamiche e di avvenimenti, in cui si possono indi­ viduare delle costanti (le passioni e gli istinti umani sono sempre uguali, i fenome­ ni si ripetono) ed in cui la «virtù» dell’uomo, intesa come forza di volontà, corag­ gio, vìrtiis (in senso latino), fronteggia la «fortuna», che rappresenta la somma impersonale di tutti gli elementi più o meno imprevedibili che possono ostacolare la progettualità umana.

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Visione fortemente secolarizzata delle cose, che recide i legami con ogni pre­ messa teologica e religiosa e con ogni morale aprioristica, per porre i fatti politici nel quadro puro e semplice delle dinamiche storiche, dove i progetti possono avere o meno successo e lo stato può conservarsi o essere trascinato nella rovina. Le opere più importanti per il pensiero politico di Machiavelli sono: Discorsi sulla prim a decade d i Tito Livio (1512- 1519) e il Principe ( 1513). N ella prima, la Repubblica viene indicata come il tipo di governo più capace di resistere al movimento ciclico che porta al succedersi di Monarchia, Aristocrazia e D em ocrazia mediante il passaggio alle rispettive forme corrotte ffèEa-Tuànrude, deffC^gaj^lrijiL.e della Demagogia..Machiavelli, che riprende queste triadfdal pen­ siero classico, vede nella Repubblica la form a m ista in cui il regime popolare sostie­ ne un forte potere centrale coadiuvato da una organizzazione gerarchica: E popolo partecipa attivamente alla vita pubblica; la possibilità di elevarsi a tutta una serie di cariche pubbliche rappresenta l’aspetto aristocratico; il potere centrale assicura la di decisione; l’ autorità della Repubblica è regolata dalle leggi -iLconflitto tra le parti cheda-compongono form a un equili­ brio dinamico che dà elasticità al regime; saggezza, adattabilità e fermezza conver­ gono ad assicurare la durata dello stato. L’iter repubblicano-democratico, che emerge da questa vasta opera, appare in .contrasto sia con le possibilità dell’epoca, sia con il contenuto del Principe, scritto ‘ breve, che si concentra sui principati di recente costituzione. Uno stato può essere acquisito con armi e virtù proprie, con fortuna ed armi altrui, con la scelleratezza e ..per consenso. I problemi per conservarlo sono esaminati sia in riferimento ai rapporti vcon l’esterno, sia aU’intemo nelle relazioni coi sudditi. In questo ambito emerge E tema delle «armi» con la condanna delle milizie mercenarie e la messa in guardia con­ tro l’aiuto di milizie altrui: «Senza avere arme proprie, nessun principato è sicuro [...] E Tarme proprie son quelle che sono composte o di sudditi o di cittadini o di creati tua». Le compagnie di ventura rivelano agli occhi di Machiavelli le loro radici feuda­ li e risultano estranee allo stato moderno. L a figura del principe è lontana dai ritrat­ ti umanistici: egli infetti regge E suo stato con le leggi e con la forza; deve, quindi, sapere «bene usare la bestia e lo uomo» e della natura animale deve prendere «la golpe et il lione; perché E lione non si difende dai lacci, la golpe non si difende dai lupi». Per E principe, che deve evitare E disprezzo e l’odio dei sudditi per E pericolo di insta­ bilità che ciò comporta, è meglio esser temuto che amato: l’amore è un sentimento troppo instabEe, rispetto al timore che si avvale della minaccia della pena. E proprio dalla premessa della natura non buona degli uomini che scaturisce la necessità per E principe non di essere virtuoso, m a di sembrare tale e di tenersi pronto, quando occorre, a sostituire ai comportamenti virtuosi i loro contrari: «si vede per esperien­ za ne’ nostri tempi, quelli principi aver fetto grandi cose che della fede hanno tenu­ to poco conto». Per questo anche la crudeltàha un suo spazio e può essere bene usata o male usata a seconda che giovi al consolidamento dello stato oppure no. t •' I Discorsi ed E Principe risultano dunque redatti con intendimenti diversi e reca­ n o indicazioni diverse Questa difformità è stata interpretata in termini di ideale e

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reale; altrimenti, per dare più continuità alle due opere, si può intendere il principe come fondatore e legislatore dello stato in una fase transitoria destinata a svilupparsi in direzione di orientamenti repubblicani. Comunque esistono vari elementi acco­ munanti; il ricorso agli esempi classici ed alla storia in funzione del presente; la ricer­ ca delle costanti come regola dell’agire politico; l’indifferenza verso il problema della legimmità dei regimi politici; il rilievo dato alla loro stabilità ed alla loro durata. I fatti politici, secondo Machiavelli, non possono essere intesi alla luce di categorie di altra provenienza, perché hanno una loro autonomia, presentano spe­ cifiche costanti e particolari correlazioni; vanno quindi trattati per se stessi e pos­ sono essere oggetto di una scienza. Per questo M achiavelli insiste nell’individuare delle «regole» e per questo la scelleratezza viene registrata in termini neutrali. Il Principe non è un despota capriccioso, agisce in funzione dello stato, la cui stabi­ lità implica il benessere dei cittadini; e la scienza della politica offre gli strumenti per una conduzione più avveduta e sicura, in quanto si avvale degli insegnamenti tratti dalla storia e dell’esame della «verità effettuale» (dall’ analisi dei fatti sciolta da presupposti idealizzanti!._________________ . ____________ __ Così anche la Chiesa è valutata in termini politici; al segretario fiorentino non interessa tanto il suo allontanarsi dalle origini evangeliche o il suo attaccarsi alle cose mondane, quanto la sua funzione politicamente negativa, sia perché, in generale, sot­ trae allo stato la parte migliore dell’uomo, la spiritualità, sia perché, in Italia, lo Stato Pontificio non è abbastanza forte per unificare la penisola, ma, contemporaneamen­ te, è in grado di impedire che altri lo facciano. L a stessa morale tradizionale è valu­ tata in termini politici, quando viene riconosciuta la sua utilità per chi governa, nella misura in cui favorisce la sottomissione dei sudditi. Nella seconda m età del Cinquecento ha inizio la lunga serie delle critiche e delle condanne, che, nel corso della storia moderna, si abbatteranno sul pensiero di Machiavelli. M otivi ricorrenti il paganesimo, l’ateismo, l’ empietà, l’immoralità. Benedetto Croce si opporrà a questo tipo di critiche, attribuendogli, invece, il meri­ to della separazione della morale dalla politica, per cui questa costituisce il primo dominio che si distacca, come oggetto di una scienza a sé stante, dall’universo onni­ comprensivo del sapere medioevale, organizzato sotto il vertice della teologia. In questi termini la simulazione dei comportamenti virtuosi o l’ uso accorto della scel­ leratezza rientra nell’arte del governo di cui deve dar prova il principe e può essere considerato come amorale, non come immorale. D ’ altro canto le simpatie di H um e e di Hegel per M achiavelli possono orien­ tare l’interpretazione del rapporto da lui posto tra politica e morale in un’altra direzione; quella della messa in discussione, da parte del segretario fiorentino, di ogni morale di tipo aprioristico e del riferimento della morale, come della politi­ ca, alla conoscenza dei fatti; il che significa da una parte riconoscere le origini sto­ riche dei valori etici, dall’altra sollecitare il collegamento tra valori, azione e sape­ re empiricamente fondato. II fronteggiarsi di virtù e fortuna, di cui abbiamo parlato, è quantificato, nel Prìncipe, in ragione del cinquanta per cento delle probabilità per l’uno o per Tal-

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tra. Se questo rapporto fosse stato a vantaggio della virtù, Machiavelli avrebbe dato prova di un irreale volontarismo ottimistico; se a favore della fortuna, l’uom o si sarebbe trovato paralizzato daU’incombere del caso. Ponendo in equilibrio i due termini egli lascia spazio all’agire calcolato, che può sempre cercare la realizzazione dei propri obiettivi, poiché, in assenza di un ordine precostituito dell’ universo, il vero banco di prova è la storia. N ell’imprevedibile della fortuna, inoltre, v i è una; dose di prevedibilità, che la scienza della politica può mostrare e che l’intelligenza umana può cogliere, per far volgere la fortuna a proprio vantaggio o limitarne i danni. D a una parte, quindi si sollecitano le capacità razionali dell’uom o (nono­ stante le crude valutazioni circa gli uom ini del suo tempo, Machiavelli non dim o­ stra un pessimismo radicale), dall’altra è sul terreno pratico, che i progetti dell’Aom ofaber trovano il loro riscontro effettivo, contro l’ intellettualismo pessimistico e contro le rinunce precostituite dal quietismo. E opportuno infine ricordare.un altro elemento, che percorre gli scritti di que­ sto autore, a riprova della sua acutezza e a complemento della sua concezione del potere: la percezione della distanza tra la «reakà_effettuale.delle cosar e 1’ «immagina,, zione di essa». La distinzione non coincide con quella tra essere e dover essere: indi­ ca un’area di conoscenze-convinzioni, che non rispondono al vero, m a che possono essere utili per chi gestisce il potere; un’area che rientra in quella dimensione ideolo­ gica del sapere, che verrà messa a fuoco dal pensiero dell’Ottocento. La scienza della politica oltrepassa l’apparenza per attingere ai dati reali; l’azione intelligente del prin­ cipe si basa su questi dati e quando serve (ai fini dello stato) utilizza apparenze e con­ vinzioni; perché la stragrande maggioranza degli uomini «si pascono così di quel che pare come, di quello che è: anzi, molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono», ' . .

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A s p e tti d e l R in a s c im e n to e d e lla R ifo r m a : T h o m a s M o r e

La cultura umanistico-rinascimentale, nonostante la sua ricchezza e gli apici raggiunti, non è priva di limiti o debolezze; Machiavelli, che pure ne fa parte, evi­ denzia la fragilità delle condizioni politiche in cui essa è fiorita in Italia e lacera i veli ideali con cui, in gran parte, ha avvolto i rapporti di forza e le dinamiche del potere. M a al di là di queste critiche il pensiero politico rinascimentale, a dispetto della werità effettuale della cosa», continua a coltivare gli ideali della virtù cristiana, della pace universale, della concordia filosofica e umana fondata sulla ragione, anche se, nel Cinquecento europeo, i motivi di inquietudine sono numerosi e gravi. L’affinarsi dello spirito critico, la maggior sensibilità culturale, il gusto per la libera ricerca sono gli elementi tipici dell’Umanesimo e del Rinascimento che spesso portano alla critica della Chiesa di R om a e alla religione tradizionalmente vissuta. Nel dim a di rinnovamento spirituale che si costituisce a fine Quattrocento e sulla base di altri complessi fattori pofìtid ed econom ia (l’indpiente spirito nazionale che si mani­ festa in varie regioni europee, lo spostamento delle grandi attività com m erdali verso

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l’Atlantico, l’esigenza di svincolarsi dal potere di Roma, ecc.) prende le mosse la Riform a protestante: M artin Lutero appende le sue tesi sulla porta della cattedrale di Wittemberg il 31 ottobre 1517 . C iò comporta nel giro di pochi decenni la spaccatura dell’unità religiosa dell’Europa occidentale, una forte ripresa dei grandi m orivi religiosi della salvezza, del rapporto uom o-D io, della vita ultraterrena (a scapito di quella visione positiva dell’uomo e della vita della concezione umanistica), lì riproporsi del problem a del rapporto tra potere spirituale e potere temporale nelle condizioni politiche forma­ tesi nel Cinquecento. La diffusione del luteranesimo in numerosi principati tedeschi e nei paesi scan­ dinavi, lo scisma dell’Inghilterra, che si dava una chiesa nazionale, il diffondersi del calvinismo in Francia, nei Paesi Bassi e in Scozia incisero profondamente sulle vicen­ de Europee e si inserirono nel processo di formazione dello stato moderno. In linea di massima la Riform a accelerò il consolidamento del potere monarchico (che, nei paesi riformati, si staccava da Rom a e si arricchiva confiscando i beni della Chiesa); reciprocamente, quanto fosse importante il sostegno dell’autorità politica è evidenziato dal fatto che nei vari paesi risultò vincente la parte religiosa alleata al potere cen­ trale. Inoltre, anche se per circa un secolo le controversie tra confessione e confessio­ ne e i conflitti, le repressioni e le guerre che ne seguirono giocarono una parte di gros­ so rilievo in campo politico, lo stato moderno ne u sd con un volto più secolare e venne affermando in misura crescente la sua autonomia. Sul piano teorico bisogna aggiungere due elementi. L a riaffermazione del prin­ cipio di obbedienza, per cui ogni suddito è tenuto a obbedire all’autorità politica, in quanto ogni autorità proviene da D io (principio comune a Lutero e Calvino). Il facto che il principio di obbedienza si capovolge nel diritto di resistenza e nel dovere di punire l’eresia quando i seguaci della religione riformata si trovano in condizioni di minoranza. E il caso dei calvinisti in Scozia e in Francia. Una prospettiva differente si fissa però nell’opera di Tom m aso M oro D e opti­ m i rei publicae stata deque nova insula Utopìa ( 1516) in cui l’autore presenta la fin­ zione di una comunità umana che si dà regole che si oppongono ai processi di svi­ luppo della società del tempo. C on un richiamo a Platone, che non coincide con un ricalco della sua Politeia, prospetta una comunità segnata dall’egualitarismo cristiano, in cui tutti hanno occasione di elevarsi spiritualmente e godere di un diffuso piacere di vivere. Raffaele Idodeo, il protagonista dell’opera che è stato un marinaio di Amerigo Vespucci, si presenta come l’esploratore di questa comunità. In essa vengo­ no valorizzati gli elementi classici della dignitas hominis. la libertà e la razionalità. N ell’esporre le regole che guidano la comunità, M oro denuncia i mali della società inglese a lui contemporanea, scossa da trasformazioni sociali come le enclosures (l’ap­ propriazione privata dei terreni un tempo di proprietà comune dei contadini) e tenta, sul piano letterario, secondo un indirizzo umanistico innovativo, la sperimentazione di una società ugualitaria il cui ordine è isolato dalla storia.

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«Realismo» e «Utopia» alle origini del pensiero politico m oderno La teoria moderna dello «stato» sovrano è un risultato del declino del Medioevo. Quest uirin io aveva tratto la sua formulazione sistematica, benché non esclusiva, dalla ricezione della Politica, di Aristotele a partire dal XEH secolo è l’aveva affinata, nella lotta medioevale tra poteri differenti. C iò che Aristotele aveva fornito era, in contrapposizione alla P oluàa platonica, non tanto una dottrina dello stato perfet­ to, quanto piuttosto una dottrina della perfezione dello staro m ila misura in cui esso realizza la naturai umana in quanto natura di un «essere politico» (ovvero di un essere capace di dare form a alla convivenza nel modo caratteristico e pendiate s d ’ella polis). D a tale teoria discendevano due conseguenze. L a prim a era che lo stato ies«naturale» grazie alla sua fondazione antropologiea La seconda era l’ insorntabilità della teoria dello stato da parte diiina.teoria.chei. trascendendola, fis­ sasse un modello d i rapporti gerarchici tra gir stari." ~- _ _ _



'ffa-età modetìa-qtiesra-èesria-tradizionale-iAe-noit-esatirise&peròi’orizzonte-delrairifle sstone sulle forme di vita associata nel Medioevo) viene-presa per così dire in Luna tenaglia da due posizioni contrapposte::da un lato, apatrirè-dal ricorso al rea­ giamo delle situazioni politiche e di una teoria defie form e di-condotta ad esse cor­ rispondenti; dall’altro a partire dalla form azione di unafinziòne razionale in form a di utopia. Rappresentativo della prim a posizione è ìlP rincipeòi Machiavelli, della [seconda è l ’Utopia di Moro. Le due opere sono nate praticamente nello stesso, ^momento,storico; 1513 la prim a (edita nel 1532); 1516 la seconda C h e cosa ^lignifica lappante contemporaneo d i queste due caratterizzazioni estreme della fepriapolitica? (Blumenberg 1969) ; Decisivo nel caso-dei Ptincipe è l’estrapolazione della politica dal campo analogico!

jpgó G rozfosim ise'allh ricerca d i una fondazione autonom a della teoria giuridica ;al d i qua della metafisica! é della teologia., Machiavelli non fu-tantod fondatore di a nuova scienza —la teoria dello stato —in-un senso paragonatale a Galilei, egli piuttosto colui, che rese visibile un. nuovo1 oggetto di una possibile scienza nel- . estremo raffinamentO‘dalaboratorio,'colui'Ghe portò alla luce unaiealtà in quan- i tale.;Rappreseijtando Ih realtà del1 politico'-in laboratorio, M achiavelH,niisein una rottura conTinterpietazione tradizionale delia realtà come natura: la sua — :------- deLpolitico imuncia-alla-deduzione aristotelica dello scato-dallano. Il principe nuovo, protagonista della sua opera più influente, tri unh'situazione sperimentale: Machiavelli _non"è mteressanralle : forme statuali, storicamente o spiritualmente legittimate, la cui storia ■ come una crescita organica e che hanno assunto il volto1 di .qualcosa com e' ira, lo interessarlo, piuttosto la nasdtaje la conservazione d iù n nuovo domi- \ dell’esercizio defpotere. V,anerd k lk 1à àto halasuacornspÒndenza precisa nel-’ !

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s l’artifidalità. del potere; comeiGaso^normale dettistm tturapoM catribum pótK eta^ cui conservazione è sempre problematica proprio perché non poggia sulla natura-1 ' lità delle posizioni (chi governa è chi viene governato) com e in Aristotele e più in 1 , generale nella tradizione. I l paradigma dett’artefattò politico: {principato nuovo) è offerto dal modo in cu i l’uomo privato- dotato di virtù oppure di fortuna gestisce ' tutto ciò che è dato (occasione) come unam ateria cui égli’ dà K m pronta della forma dette sue decisioni. In questo .modo subordina lagire potttico~àlle categorie dette artes mechanicae. L o stato così comincia1 a perdere IT proprio-carattere medioevale di involucro. N o n è più la cornice nella quale le Comparse, della storia giocano per uno spettatore nascosto, m a è esso stesso,' èd in modo esclusivo, l’attore. Com pito , della teoria sarà quello di afferrare la.sua azione, n o n la sua costruzione. "Per que-~sta ragione Machiavelli, col suo pathos realista, si appetta al fattuale contro lo-stato di fantasia della tradizione platonica che proprio-in quegli annLaveva conosciuto una rinascita a Eirenze. Platone avevmdedottoff ondine detta sua. Politela dallasttuttura a tre livelli dell’anima umana;, al. centro dell’opera era la sua dottrine dette idee, ■ -edfcfamosa^gttegeaa^ellfceasefflfiftearisvaaàsiyieda^neeesskà-riMegar^ttGrdin©;; della vita associata alla conoscenza della realtà assoluta. L’agire politico, così, dove­ va poggiare sull’evidenza del riferimento alla realtà: questa evidenza poteva essere raggiunta alla fine dell’ascesa dalle ombre della caverna al cosmo delle idee. Se e ii I i (lui i In pollilo divenirli cosmo, jn d u lo w w w .lem onnieruniversita.it

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Interm ezzo

N O T E IN T E R M E Z Z O 1

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D ata che segna il prim o utilizzo massiccio da parte dei tedeschi dei gas ai cloro come strum ento di com battim ento a Ypres. Nell’occasione al com ando del maresciallo M ax Petersen 1600 con­ tenitori grandi e 4130 piccoli pieni di cloro furono aperti in condizioni di vento ideali per la loro dispersione in direzione nord-nord-ovest. Si formò così una nube com posta da 150 tonnellate di cloroj larga sei chilometri e alta tra i 600 e i 900 metri. U n a vicenda altrettanto esemplare, benché d i segno contrario, è quella che riguarda lo scienzia­ to tedesco Fritz Haber, il principale responsabile tecnico dell’impiego del gas nella prim a guerra mondiale. Pochi giorni dopo il successo del prim o attacco col gas a Ypres il Kaiser Guglielmo II gli diede udienza in qualità di direttore del K aiser-W lhelm -Institut di Fisica, chimica ed elet­ trodinam ica di D ahlem , per promuoverlo a capitano. D urante la prosecuzione della guerra fu. anche direttore di u n a commissione sul «gas da combattimento» presso il M inistero della Guerra. Ebreo, dovette lasciare la G erm ania nel 1933 dopo avere dato nell’estate d i quello stesso anno dei consigli alla direzione tedesca della R dchsw ehr in vista della rein traduzione di un’arm a del gas; La produzione dello Zyklon B, il gas utilizzato nelle camere di sterminio naziste, sarà portata avanti dalla società di u n o dei suoi assistenti dell’Istituto, sulla base d i u n modello d i gas di desi­ gn ispirato alle sue ricerche. M ori il 29 gennaio 1934 a Bàie, dopo u n soggiorno in Inghilterra, m entre si trovava sulla strada per la Palestina. A lcuni dei suoi parenti p iù prossimi sono m orti ad Auschwitz. N elle scienze m ilitari si conserva il ricordo di d ò che fu chiam ato il «fattore di m or­ talità d i Haber», prodotto dalla concentrazione della com ponente tossica p er la durata di esposi­ zione (prodotto d ì) . L a consegna a H ab er del prem io N obel per la Chim ica, n el 1918, p er la sua scoperta della sintesi ammoniacale, fece scattare delle vive proteste in Inghilterra e in Francia, lad­ dove si assodava il suo nom e soprattutto all’organizzazione della guerra chimica. Levento «epocale» che, all’inizio del X XI secolo, è stato eletto a simbolo del terrorismo globale di matrice islamica - l’attentato alle Tw in Towers d i N ew Y o ik dell’11 settembre 2001 - in u n certo senso riassume questi elementi, presentando però una scena di realizzazione che ricorre a mezzi «artigianali» per la sua attuazione. Anche p er questa ragione, al di là dell’enfasi che vi hanno p o sto i ?nedia, esso deve essere annoverato nella storia dello sviluppo della violenza politi­ ca d d X X e d d XXL secolo come u n fatto tra gli altri.

Parte terza

Il XX secolo

Premessa

Teorie «realistiche» della politica

U no dei grandi avvenim enti che segna la storia delle m entalità a cavallo tra il X IX e il X X secolo può essere descritto com e una riconversione del sapere a una form a d i «realismo» che viene dal basso. C o l lavoro d i alm eno due generazioni di intellettua­ li che operano in am biti scientifici e d i sapere anche m olto distanti tra loro em erge, infetti, una prospettiva d i riflessione per la quale il m ondo «vero» non è altro che quel­ lo «reale»; non esiste né un dio (la celebre tesi.nietzscheana della «m orte d i D io»), né delle divinità, n ia solo un «mondo reale» che abitiam o m a d i cui abbiam o una cono­ scenza lim itata e insufficiente a causa del fatto che il nostro sguardo educato alla tra­ scendenza m anca d i cogliere quelle «forze reali» che m uovono la «realtà». C iò che è «reale» deve invece essere definito a partire dalla propria base m ateriale, dunque dal basso, e non com e deduzione d i grandezze irraggiungibili in altitudine da parte del­ l’uom o. N ell’interpretazione com plessiva di questa riconversione si tratta ora d i ope­ rare un cam biam ento di prospettiva radicale: dopo che per m illenni i popoli e i non eruditi sono stati lasciati in una condizione d’ignoranza che faceva loro supporre che il m ondo vero si trovasse nell’aldilà, è venuta l’ora che la vita com une si riunisca al reale. Questa conversione può essere presentata anche com e un m ovim ento postidea­ lista che m ette all’ordine del giorno, com e tem a e com e progetto politico, un realism o di tipo nuovo. I nom i dei quattro m aestri del realism o sono M arx, D arw in, Nietzsche e Freud: a loro si sono associate le dim ensioni p iù im portanti della letteratura neorea­ lista del X X secolo. M entre essi parlano di «produzione materiale» (nel capitalism o), di «animalità umana» (nell’evoluzione), della «volontà di potenza» (nella cultura) e delle «maschere della libido » (nella psiche),' essi intendono educare l’intelletto dei con­ tem poranei e dei posteri a credere nell’onnipotenza e nell’onnipresenza d i un «reale» che si costruisce dal basso verso l’alto - e lo ferino tutti in m odo che le sovrastrutture, anche le più sofisticate e raffinate, restino sem pre in una relazione d i dipendenza più o m eno diretta rispetto alle forze massicce che vengono dalla base. A questi quattro nom i occorre p oi aggiungere quel cam po variegato d i contributi che, nella figura di intellettuali e di scuole, va sono il titolo di positivism o, il quale consiste nell’adozione delle procedure caratteristiche della scienza nell’analisi delle relazioni um ane.

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I l X X secolo

O gnuno d i questi «realismi» rivendica per sé un criterio di scientificità che dovrebbe assolverlo dal com pito d i giustificarsi rispetto agli altri: che si tratti d i una corrente politica, d i una scienza sociale o psicologica oppure d i una scienza della cul­ tura posta a fondam ento di un indirizzo d i ricerca, il realism o caratteristico d i questa epoca si accoppia con un metodo scientifico di analisi. Solo attraverso la scienza si può portare a com pim ento la m issione dell’Illum inism o la quale trova espressione in un com pito che consiste nel superare tutte le illusioni che im pediscono di descrivere la realtà cosi com e. Si tratta d i un genere di costruzioni intellettuali che dovrebbero segnare la m aturità del sapere: significativam ente, questo progetto trova, ad esem pio, espressione in Freud che fino all’ultim o rim arrà convinto che l’accesso ad uno stadio adulto della psiche possa avvenire solo una volta che si siano superate tutte le form e di diniego della realtà che l’uom o difensivam ente si costruisce per resistere agli im pulsi che vengono dal profondo. C iò non im pedisce che le distinzioni che guida­ no l’osservazione della realtà continuino a costituire delle duplicazioni della stessa che consentono di osservare il m ondo. L a cultura diventa l’istanza che consente questo genere di duplicazioni le quali, proprio in quanto sono costruite com e un doppio, aprono la possibilità del confronto. O sservando qualcosa com e cultura si osserva anche l’osservatore che la descrive com e tale — e che descrive la realtà com e l’unica «realtà» reale. C iò perm ette però che quello che si presenta com e realism o da una prospettiva di analisi, sia interpretato com e «ideologia» e falsificazione da un’altra prospettiva. Per questo l’espressione «realismo dal basso» va articolata per evitare equivoci e non risultare grossolana. N el m om ento, in fatti, in cu i la «realtà» s’im pone com e norm a per definire la verità di un’afferm azione, si produce anche un effetto che, con le parole del filosofo francese M ichel Serres, potrem m o definire di «liquefa­ zione» (contro la m etafora riferibile alla cultura, inaugurata da C artesio, del solido). L’espressione «liquefazione» è legata allo sguardo retrospettivo d i coloro che, osser­ vando la profonda fase di cam biam énto consum atasi all’inizio del X X secolo, v i vedo­ no il m oltiplicarsi delle im m agini, delle messe in scena, delle rappresentazioni. In questo caso, sem pre seguendo una m etafora proposta da Serres, si assite a un accre­ scim ento dei m ovim enti tipico della caldaia in bollore, con tutte le m olecole in agi­ tazione frenetica. Serres vede il p a s s a lo a. nord ovest della cultura occidentale nel m om ento in cui si rende conto che ogni sapere è interno, nel senso che gli è inter­ detta la strada per portarsi fu ori dal liquido in bollore, im possibilitato a produrre una conoscenza esterna e assoluta. Il realism o dal basso trova un’analogia nell’im m agine della caldaia in bollore: senza peraltro che singoli realism i sm ettano di concepirsi com e espressioni p iù vere dell’unica base reale. È in questo frangente, ad esem pio, che si profila una com petizione epistem o­ logica che separa da una parte il «marxismo» com e scienza della storia e della società e dall’altra parte le cosiddette «scienze borghesi» (scontro le cui ultim e avvisaglie si segnalano nel confronto tra «dialettica» e «positivism o» in sociologia nei prim i anni Settanta: cfr. A d o r n o - P o p p e r 19 6 9 ). Il confronto, soprattutto quando si scende nell’arena politica, diventa_ fàcilm ente conflitto, e, in quanto tale, occasione di scon­ tro fisico violento tra grandezze che concepiscono se stesse com e l’unica espressione

Teorìe «realistiche» della p o litica

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legittim a della realtà. A nche se non si accendono sull’arena politica, questo genere d i riarticolazioni della realtà producono fratture e fram m entazioni inedite in orizzonti culturali precedenti. U n a delle p iù influenti e significative, alm eno se ci si tiene sul piano della teoria politica, è quella che separa da u n lato la dim ensione psichica e dal­ l’altro quella sociale. Se ancora nel secolo precedente esse erano percepite com e le due fecce della stessa m edaglia, ovvero le articolazioni d i im o stesso processo, nel X X seco­ lo si assiste ad una separazione significativa dei due pian i. Se si prende ad esem pio H egel (com e espressione em blem atica della schem atizzazione classica) si vede bene com e questa unità fòsse sancita anche form alm ente dall’uso, per l’uno e per l’altro polo, della stessa parola-chiave: lo «spirito», che si declina appunto com e spirito «sog­ gettivo» e spirito «oggettivo». C o n la form azione delle prim e sociologie scientifiche e psicologie scientifiche questa unità si rom pe: e anzi laddove viene conservata (si veda il caso d i G abriel Tarde) essa dà vita ad una serie di polem iche ed esclusioni (D urkheim ). D unque, realism o significa non solo distinzione tra «scienze dello spi­ rito» e «scienze della natura», com e già accadeva n el X IX secolo, m a anche tra cam pi differenti delle «scienze dello spirito» che ora non si pensano p iù com e unitari (un genere d i distinzione che raggiungerà la sua espressione p iù plateale nella teoria della società di N ildas Luhm ann alla fin e del secolo: cfr. infra, p p . 3 8 1 e ss.). Anche se tocca il suo culm ine in questa epoca dei realism i com battenti, l’inte­ ra epoca m oderna può essere descritta com e un epoca d i lotta per la definizione del senso di realtà. I dram m i del X X secolo portano solo all’estrem o il realism o offensi­ vo m oderno, indicando com e la dinam ica specifica degli effetti dei discorsi neoreali­ sti fosse essenzialm ente polem ica. In particolare la loro ricerca di una legittim ità che viene dal basso spinge la politica realista del X X secolo ad allargare il num ero d i colo­ ro che devono essere coinvolti nella sua azione. C iò può avvenire solam ente sulla base del fatto che in questa epoca si tiene a battesim o un sistem a d i media d i diffusione d i m assa della com unicazione che non ha precedenti nella storia dell’uom o. L a diffu­ sione delle inform azioni perm ette, con mezzi p iù o m eno rudim entali, la sincroniz­ zazione delle m enti d i m igliaia, in alcuni casi d i m ilioni di persone, su un unico tem a di eccitazione politica. I nuovi realism i p olitici prediligono largam ente questa opzio­ ne: solo grazie ad essa, alle potenzialità insite nel suo sviluppo, ciò che prende il nom e di «massa» o di «folla», oppure di società, d i popolo, di nazione, d i razza o di classe, può presentarsi sulla scena della storia com e protagonista di un dram m a (e non rim a­ nere, com e accadeva nel passato, alla periferia di quella scena). Q uotidiani e radio funzionano in gran parte com e mezzi d i disinibizione in cu i alcune frasi, per il solo fetto di essere pronunciate, diventano autom aticam ente vere. G razie à questa dina­ m ica intere popolazioni vengono im m erse in clim i tendenziosi creati per fin i strate­ gici. Si rende cosi disponibile un’energia distruttiva che può avere com e scopo quel­ lo di attivare la verità stessa del reale contro ciò che esiste ancora m a è già passato e non h a p iù che una realtà apparente e provvisoria. Perché il regno del reale finalm en­ te venga raggiunto occorre m andare in pezzi il dom inio dell’irreale, che ha potuto m antenersi al potere grazie a un superam ento e a una torsione illusoria della realtà. C o l che diviene infine chiaro che quando si parla di realism o non si h a p iù a che fere

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I I X X secolo

con un um ile adaequatio dell’intelletto ad un determ inato ordine delle cose situato al d i fu ori d i noi: esso im plica l’attivazione del reale nel senso d i un’intensificazione prolungata delle cause destinate a produrre nuovi effetti. S i capisce bene perché, osservati a posteriori, i radicalism i p olitici del X X seco­ lo, p rim a ancora che un cam po d i allevam ento d i illusion i dannose, dovessero pre­ sentarsi sem pre com e fondam entalism i della sem plificazione: in nom e d i essi si pote­ vano trovare i m otivi d i un rinnovam ento del m ito della rivoluzione e d i un’attitudi­ ne d i opposizione che poteva trovare finalm ente soddisfazione nella m ilitanza politi­ ca integrale. Se la politica conoscerà, alla fin e del X X secolo, un significativo ridim en­ sionam ento delle proprie prerogative, ciò è dovuto in buona parte anche alle scene d i violenza che il realism o politico dei com battenti im porrà alla m em oria delle gene­ razioni successive alla fin e del secondo conflitto m ondiale (e alle sue prosecuzioni, nel cosiddetto terzo m ondo) ispirando il dubbio d i coloro che, nella seconda m età del secolo (ad esem pio il filosofo tedesco H ans Blum enberg), inviteranno la cultura ad abbandonare questo form a d i «assolutismo» della realtà.

Pensiero e azione politica nel primo Novecento i

A gli inizi del N ovecento gli stati europei agiscono su orizzonti sempre p iù estesi e sono coinvolti in uno scenario m ondiale dove altri attori sono orm ai ben presenti. La spinta im perialistica continua anche se interpretata diversam ente: da parte della G erm ania (potente e bellicosa), dall’Inghilterra (che com incia a trasform are l’im pero in commonwealth), e in m isura m inore dalla Francia e da altri; m entre nell’altro em i­ sfero gli Stati U niti penetrano nell’A m erica del C entro e del Sud e in Estrem o O riente, e qui entrano iti com petizione con le am bizioni del G iappone in ascesa. L e rivalità nelle conquiste coloniali, i nazionalism i configgenti, le alleanze contrapposte, le debolezze e le aggressività, creano la pericolosa m iscela che porta alla prim a guerra m ondiale: con­ flitto di proporzioni m ai viste prim a, che im pone a tutti i paesi coinvolti un altissim o prezzo in term ini di strutture, di risorse e di vite um ane, e che sconvolge costum i, con­ vinzioni e valori, lasciando alle spalle lacerazioni profonde. N ell’ottobre del 1 9 1 7 scop­ p ia in Russia la Rivoluzione bolscevica che porta alla costituzione dell’U nione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. N ell’Italia del dopoguerra il sistem a liberale cede alle tensioni crescenti e il m ovim ento fascista conquista il potere creando dal 19 2 5 un vero e proprio regim e. L a crisi delle liberaldem ocrazie si allarga a num erosi paesi europei che si danno regim i autoritari (Spagna, Portogallo, Polonia, Ungheriai Rom ania). N el 19 3 3 sale al potere A d o lf H ider, capo del partito nazionalsocialista, che concepisce per lo stato tedesco un progetto di dom inio e di spartizione m ondiale. L a Società delle nazioni non riesce a porsi com e organism o sovrastatale e risulta ben lontana dal com ­ pito di garantire la pace, m a nella sua stessa com posizione testim onia l’avanzare dei rapporti planetari. La seconda guerra m ondiale risponde assai p iù della'prim a a questa dim ensione; al term ine d i anni di terribili scontri arm ati e di inaudite distruzioni (in terra, in m are e in delo) delle ‘grandi potenze’ europee solo l’Inghilterra siede ai tavoli delle conferenze che preparano la pace: gli altri «grandi» sono gli Stati U n iti e l’U nione Sovietica. Sul piano econom ico va ricordata la crisi del 19 2 9 che h a origine negli Stati U n iti (crollo della borsa d i N ew York) e che si allarga rapidam ente alle econom ie dei paesi industrializzati e a quelli ricchi d i m aterie prim e, creando m ilioni d i disoccupati e portando al varo d i intervènti statali e d i politiche protezionistiche.

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II X X secolo

i.o

R a d ic a lis m i m ilita n ti: d ir itto e v io le n z a

Il nuovo secolo si apre nel segno d i una crisi del parlam entarism o che attraversa buona parte degli stati europei. D a lungo tem po in incubazione, tale crisi avrebbe fini­ to per esplodere al cospetto di istanze e rivendicazioni provenienti da quelle classi socia­ li im possibilitate ad esprimere im a rappresentanza soddisfacente in istituzioni a carat­ tere ancora fortem ente censitario. N eppure la rappresentanza garantita dalla presenza in m olti Parlam enti dei partiti socialisti, ora legalizzati, sem bra risolvere il problem a. E anzi: essa si presta a quel genere di scatti polem ici che la cultura del tem po rivolge al profilarsi di una «politica di massa» (espressione che di 11 in avanti avrebbe costituito un m otivo costante di discussione politica). Basterebbe in proposito citare Nietzsche, il quale al cospetto del tipo um ano «m ansuefatto, socievole e utile al branco», ovvero al gregge, si lascia andare a giudizi di condanna che non sem brano ammettere repliche: «Nei casi in cui si pensa di non poter fare a m eno di un capo e di un m ontone-guida, si fanno oggidì tentativi su tentativi per rim piazzare chi com andi addizionando insie­ m e uom ini assennati dell’arm ento: per esem pio, tutte le costituzioni basate sul princi­ p io di rappresentanza hanno questa origine» (NIETZSCHE 18 9 6 , p. 54). U n vero e proprio banco d i prova per m isurare il confine sem pre p iù problem a­ tico che tale crisi im pone al confine tra im a condotta politica rispettosa delle regole del diritto e una condotta concorrente disponibile all’im piego d i mezzi estranei alle istitu­ zioni è offerta dall’opera d i George Sorel, grazie alla quale diventa chiaro quale sia la posta in gioco. Le sue Riflessioni sulla violenza (19 0 8 ), pur in un quadro analitico disor­ ganico e talvolta disordinato, perm ettono d i cogliere l’elem ento che m ina alla radice la funzionalità del dispositivo rappresentativo (e con ciò del regolare funzionam ento delle istituzioni politiche): i fenom eni d i ibridazione e confusione sociale. Secondo Sorel, che centra la sua analisi sul cam po socialista, i socialisti parlam entari non pensano p iù all’insurrezione e insegnano che la scheda elettorale h a sostituito il fucile; ci si rivolge a tutti gli scontenti indipendentem ente dalla posizione che occupano nel m ondo della produzione, m a una società com plessa oflre un.num ero incalcolabile di scontenti in tutte le classi e ciò condanna il socialism o ad avere tanti linguaggi quante sono le clien­ tele (Accarino 19 9 9 , pp. 13 9 e ss.). Rivendicando il ruolo che lo spirito guerresco gioca nella politica, Sorel denuncia la confusione, l’indiscem ibilità degli schieram enti, l’opacità di contorni e confini delle parti: d ò costringe i sodalisti parlam entari a parla­ re «un linguaggio confuso» al fine d i im porsi a gruppi eterogenei. L a loro pretesa è quella d i utilizzare il ricordo e la leggenda della rivoluzione per ecdtare l’ardore del popolo e, contem poraneam ente, d i chiedergli di riporre tutta la propria fiducia nel par­ lam entarism o. In a g iu n ta a questo, il Parlam ento è pieno di rappresentanti d i quella «piccola sdenza» che aborre il m istero e che «crede di aver raggiunto la verità quando abbia raggiunto la chiarezza nell’esposizione» (SOREL 19 0 8 , p. 2 0 1) . D eflagrano, lungo questo itinerario di analisi, i lim iti del linguaggio: per Sorel tali lim iti possono essere superati da un insiem e d i im m agini capaci d i evocare in blocco, in virtù della sola intui­ zione e al di qua d i ogni scom posizione razionale, la massa dei sentim enti m obilitabi­ li. Em erge così la com pagine del m ito, la cu i potenza risiede n d fatto d i resistere alle



Pernierò e azione politica, nelp rim o N ovecento

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delusioni e alle sm entite, grazie alla sua inconfutabilità, e d i resistere anche agli sm i­ nuzzam enti argom entativi. Per mezzo dèi m ito si può raggiungere quello spirito d i scis­ sione che riproduce la figura dicotom ica della società. N o n si riuscirà m ai a capire E ruolo che gioca Sorel nel dibattito del tem po, e la sua abilitazione della violenza com e mezzo legittim o di espressività politica, se non si coglie questo elem ento: la violenza che può discendere dallo spirito di scissione, dal concepire la società o i rapporti tra società in m odo dicotom ico, è un grande sem­ plificatore che perm ette d i dividere, attraverso la propria espressione ed esercizio, i collettivi in due (alleati e avversari). Il fascino e E vantaggio politico deUa violenza è queEo d i sciogliere la com plessità e ridurla a una partita tra schieram enti chiari e defi­ n iti (nessuna nom enclatura deEe posizioni, m a un fronte com patto di am ici che con­ trastano nem ici). N on sarà solo d i Sorel l’idea che attraverso la violenza si possano sciogliere i nodi deUa storia, per restituirle queEa fertilità che la rende in grado «d’in­ gravidarsi di futuro». S i può anzi dire che, dal punto di vista deEa storia intellettuale del X X secolo (m a con indicazioni che qua e là trovano conferm a anche nel X X 3), la legittim azione p olitica deUa violenza trova E proprio spazio neUe ideologie politiche del nuovo secolo grazie a questa sua insuperata capacità d i sem plificare una scena altrim enti segnata da com plessità im padroneggiabili cognitivam ente (vale la pena ricordare E fatto che tale valutazione, espressa in term ini .di condanna, em ergeva già nel Burke com m entatore deEa Rivoluzione francese).

x.x

La R iv o lu zio n e b o lscev ica e g li sv ilu p p i d e l com u n iS m o

Il successo deEa Rivoluzione bolscevica in R ussia n el 1 9 1 7 costituisce un even­ to destinato a m odificare in profondità n on solo la storia deEe realizzazioni politiche del com uniSm o novecentesco, m a anche queEa del dibattito ideale originato dal m arxism o ottocentesco e daUe discussioni in seno aEa Seconda Intem azionale. C o n la rivoluzione E centro deE elaborazione teorica d i im pronta com unista si sposta da O ccidente ad O riente, trova negli stessi dirigenti del m oto rivoluzionario i suoi m ag­ giori esponenti, per p oi irradiarsi in tutto E m ondo (svEuppato e non) sotto la form a del cosiddetto m arxism o-leninism o: espressione che rim anda aEa revisione deEe cate­ gorie m arxiane effettuata dal principale protagonista della Rivoluzione bolscevica, appunto Lenin. V a peraltro detto che le idee deEo stesso Len in, e queEe espresse dagli aspiranti successori dopo la sua m orte, sono E frutto deEe valutazioni d i uom ini d’azione e d i potere, e non d i sem plici teorici deEa poEtica. L e condizioni effettive in cu i essi si trovano a operare, e le lotte per E potere a cu i partecipano, danno aEa loro elaborazione teorica un carattere pragm atico, dipendente in parte daEe circostanze, che ovviam ente si trova con m olta m inore intensità in chi si dedica aEa m ateria poEtica con intenzioni prevalentem ente speculative.

I l Leninismo. N ato nel 18 7 0 da una fam iglia d i funzionari pubbEci d i grado ele­ vato, Lenin (pseudonim o d i V ladim ir H’ic U ljanov) si avvicina alle idee m arxiste par-

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tecipandò ai m ovim enti studenteschi attivi in R ussia negli ultim i decenni dell’O tto­ cento, e prim a della fine del secolo viene arrestato per la sua propaganda e inviato per tre anni al confino in Siberia. N el 19 0 0 si reca in esilio in Germ ania, e in Europa O ccidentale (soprattutto in Svizzera) vivrà in pratica fino al 19 1 7 , salvo una paren­ tesi in cu i rientra in R ussia nel periodo attorno alla rivoluzione del 19 0 5 : periodo in cu i il gruppo guidato da Len in diventa m om entaneam ente m aggioritario (da qui d erivala definizione d i bolscevico) all’interno del Partito socialdem ocratico russo. L a sua adesione all’idea della rivoluzione proletaria m atura dapprim a nell’osservazione dello sfruttam ento del lavoro subito dai contadini n ei confronti della grande pro­ prietà terriera, p o i nella convinzione della necessità d i un’analoga em ancipazione rispetto al grande capitale da parte degli operai dell’industria, ritenuti del resto già da gran parte dei pensatori ottocenteschi d i orientam ento socialista il perno della tra­ sform azione sociale che dovrebbe vedere il riscatto del proletariato. N el 1902 Len in pubblica il suo prim o scritto politico im portante: Che fare? L’interrogativo del titolo riguarda le prospettive della rivoluzione in Russia, d i fron­ te all’autocratico potere zarista, m a p iù in generale riguarda anche l’opportunità, a giudizio d i Len in , d i rilanciare l’ipotesi della conquista violenta del potere da parte del m ovim ento operaio, che le tendenze prevalenti n ella Seconda Internazionale tendono invece ad accantonare, p er privilegiare la via pacifica e parlam entare di avvicinam ento graduale al potere p olitico. Per il rovesciam ento delle condizioni esi­ stenti Lenin non si affid a alla spontaneità delle m asse, m a all’azione d i preparazio­ ne ideologica e d i guida politica d i u riavanguardia rivoluzionaria, organizzata nel partito socialdem ocratico (o m eglio nella sua ala p iù classista e rivoluzionaria, appunto quella bolscevica). Finché sono m otivate dalle sole pulsioni spontanee le m asse, secondo Len in, non sanno superare la dim ensione «tradeunionista», ossia sindacalista, delle loro lotte: m a l’azione sindacale difficilm ente riesce a offrire una visione com plessiva e non settoriale dello scontro fra capitale e lavoro, e troppo spes­ so si risolve in m iglioram enti salariali di poco conto ed elargiti quasi com e una con­ cessione dalla classe padronale. L a vera liberazione delle forze produttive passa non attraverso il confronto econom ico, m a attraverso la conquista del potere politico. L’analisi com plessiva delle condizioni del lavoro e l ’unificazione delle ipotesi di superam ento dello sfruttam ento capitalistico possono provenire soltanto dall’ester­ no dell’esperienza'concreta vissuta dalla classe operaia nella quotidianità del lavoro. C om e è scritto in un fam oso passo di Len in, «la coscienza p olitica d i classe può esse­ re portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta econom ica, dal­ l’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni» (Lenin 1902, p. 40). L a coscienza d i classe non si form a in altri term ini dall’interno del proletaria­ to, m a è condotta a esso dal partito rivoluzionario, che si viene a configurare, m olto p iù che in M arx, com e un’avanguardia d i intellettuali p iù che com e un prodotto della classe operaia stessa. E questa idea della necessità d i una guida che si ponga alla testa del proletariato per stim olarlo alla rivoluzione avrebbe fatto parlare successiva­ m ente dell’unione in Len in d i elem énti m arxiani con altri provenienti dalla tradi­ zione giacobina: un’im pressione conferm ata dalla costante attenzione posta dallo

Pensiero e azione p o litic a n elp rim o N ovecento

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stesso Lenin ai rapporti fra il nascente partito giacobino e le classi popolari d i Parigi al tem po della R ivoluzione francese. N ella sua azione p o litica il p artito rivoluzionario deve avere chiaro, secondo Len in, il processo che lo condurrà alla conquista d i una posizione egem onica. Sul piano dei rapporti fra le classi sociali che col lavoro assicurano la produzione, que­ sto sign ifica agevolare l’unione fra operai e contadini, p er disporre d i un fronte unito in grado d i effettuare la svolta rivoluzionaria sia n ell’industria sia nel m ondo agricolo: all’interno dello schieram ento m arxista, tradizionalm ente vo lto al prim a­ to della classe operaia, Len in si dim ostra al con trario fra i p iù attenti al problem a delle analogie e delle differenze tra condizione operaia e condizione contadina, e alle prospettive d i una loro cooperazione. L a preparazione d i un som m ovim ento rivoluzionario può anche contem plare l’opportu nità d i alleanze con altre forze politiche, per esem pio con i socialisti gradualisti o con l’opposizione antizarista d i sentim enti borghesi. Len in , dim ostrando in ciò un notevole grado d i spregiudica­ tezza, vede tuttavia l’argom ento delle alleanze com e im a questione puram ente tat­ tica e transitoria, destinata a lasciare il posto appena possibile alla conquista d i tutto il potere da parte dei bolscevichi. N egli anni vicin i alla fallita rivoluzione del 19 0 5 Lenin arricchisce il discorso intorno al partito rivoluzionario con una insistita attenzione per i soviet. S i tratta d i organism i che com inciano a nascere dal basso, nei luoghi d i lavoro industriali e agri­ coli, non però per sem plice azione spontanea delle classi lavoratrici, m a p er iniziati­ va delle forze politiche di ispirazione socialdem ocratica. N el 1 9 1 7 i soviet rivestiran­ no un ruolo d i prim o piano nella Rivoluzione bolscevica, configurandosi dapprim a com e form e di contropotere diffuso nelle fàbbriche, nelle cam pagne e nell’esercito (dove raggrupperanno i soldati dei gradi p iù bassi), poi, a rivoluzione avvenuta, com e possibili istituzioni d i una dem ocrazia sociale ram ificata verso il basso. Len in dim o­ stra, sia prim a che dopo la R ivoluzione, una grande sensibilità p er i soviet e per le potenzialità di organizzazione dal basso della classe operaia e contadina, anche se non ne studia m ai sistem aticam ente i rapporti che essi dovrebbero intrattenere, in un sistem a divenuto socialista, con il partito. N egli atteggiam enti concreti assunti com e dirigente politico egli sem bra tuttavia orientato a riconoscere, in caso d i eventuali fri­ zioni fra soviet e partito, la superiorità d i quest’ultim o, in continuità con la teoria che vede anzitutto nel partito il concretizzarsi della coscienza d i classe. Fra le opere che Lenin scrive durante la sua lunga perm anenza in O ccidente, un certo rilievo ha anche un trattato p iù filosofico che direttam ente politico: M ateria­ lismo ed empiriocriticismo, del 19 0 9 . L’opera si pone il problem a dei m eccanism i con cui la natura e l’um anità evolvono nella storia. A nziché su una visione gradualistica del progresso, Len in insiste sul ruolo esercitato per l’evoluzione dai «salti» rivoluzio­ nari, particolarm ente significativi nell’am bito sociale. T ali salti non sono soltanto il prodotto della m aturazione delle condizioni storiche, m a sono in qualche m isura costruibili e intensificabili dall’azione volontaria degli uom ini, quando si esprim e com e aspirazione alla svolta rivoluzionaria. Trasferita dal terreno storico a quello poli­ ticò, la posizione di Lenin prelude a un interpretazione della Rivoluzione in parte

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diversa da quella d i M arx: se quest’ultim o, pur non sottovalutando l’azione consape­ vole della forza politica rivoluzionaria, considerava in ogni caso la rivoluzione legata alla m aturazione delle condizioni storiche, Lenin sem bra incline a credere che l’avan­ guardia rivoluzionaria possa «bruciare le tappe», collegandosi im plicitam ente, in tal m odo, alle filosofie volontaristiche diffuse in Europa nel prim o Novecento. F ra il 1 9 16 e il 1 9 1 7 , nell’im m inenza e poi nell’atto del rientro definitivo in R ussia per partecipare al processo rivoluzionario, Len in dà alle stam pe le ultim e due sue opere significative. L a prim a è L ’imperialismo, fase suprema del capitalismo, com ­ posta da un lato dall’analisi econom ica delle tendenze del capitalism o giunto al suo m assim o sviluppo, dall’altro dal ribadim ento della rivoluzione proletaria com e unico m odo per uscire dalle contraddizioni del capitalism o m ondiale. L’im perialism o, si legge nell’opera, è quello .stadio del capitalism o in cu i «si è form ato il dom inio dei m onopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquisito una gran­ de im portanza, è com inciata la ripartizione del m ondo tra i trust internazionali ed è già com piuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre fra i p iù grandi paesi capi­ talistici» (Lenin 19 9 3 , p . 57 2 ). Lo sviluppo capitalistico contem poraneo richiede in altri term ini la progressiva conquista del m ondo da parte delle grandi potenze: con­ quista che è insiem e econom ica (apertura di m ercati, acquisizione delle m aterie prim e, dom inio finanziario) e politico-m ilitare (occupazione di colonie, assicurazio­ ne d i zone d i influenza). In questo m ovim ento d i conquista le grandi potenze capi­ talistiche sono però destinate, a detta di Lenin (in ciò sorretto dall’esem pio della prim a guerra m ondiale in corso), a scontrarsi fra loro n ella corsa all’estensione d i cia­ scun «impero»: la contraddizione insanabile di questa fase del capitalism o è, oltre alla, lo tta d i classe già enunciata da M arx, il pericolo perm anente della guerra, che alla lunga si rivelerà com e un fattore d i indebolim ento dei processi capitalistici. D ’altra parte l’espansione su scala m ondiale della form azione econom ico-sociale capitalistica trasferisce su ogni regione della terra lo scontro fra borghesia e proletariato, am plian­ do p er il capitalism o i rischi della rivoluzione. M entre dalle posizioni d i M arx, peral­ tro restio a indicare «ricette per la cucina dell’avvenire», si poteva ricavare l’indicazio­ ne che l’ipotesi rivoluzionaria fosse p iù probabile, e com unque p iù praticabile, nei paesi avanzati, Lenin argom enta che la scintilla rivoluzionaria può partire anche da aree periferiche rispetto al capitalism o m aturo: anche dalla sua R ussia, ancora frena­ ta nello sviluppo dalle im m ense cam pagne rim aste in condizioni sem ifeudali, e tut­ tavia dotata nelle grandi città d i un apparato industriale degno d i nota e d i un corri­ spondente proletariato num ericam ente apprezzabile e com battivo. In Stato e rivohtzùme, il secondo im portante scritto cui si faceva riferim ento per il periodo d i avvicinam ento alla Rivoluzione bolscevica, Lenin riattraversa le p arti p iù direttam ente politiche del pensiero d i M arx e d i Engels per ricavarne una convalida del program m a rivoluzionario che sta elaborando per la Russia e del suo auspicato sbocco nella dittatura del proletariato. E gli attacca apertam ente ogni dottrina che fàc­ cia poggiare l’iniziativa p olitica del proletariato su una considerazione dello stato com e entità neutrale rispetto al conflitto di classe. N on esiste alcuno «stato popolare libero», com e reclam avano i socialdem ocratici tedeschi negli anni Settanta dell’O ttocento, e di

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conseguenza non serve ad alcun processo di liberazione della classe operaia lim itare fattività delle forze socialdem ocratiche alla partecipazione alla com petizione parla­ m entare all’interno d i uno stato borghese. Il dato di fatto da tener presente in propo­ sito è per Lenin che ogni organizzazione statale, in ogni tem po, serve alla classe domi­ nante per reprimere la classe dominata'. «N oi siam o per la repubblica dem ocratica, in quanto essa è, in regim e capitalista, la form a m igliore d i stato per il proletariato, m a non abbiam o il diritto d i dim enticare che la sorte riservata al popolo, anche nella p iù dem ocratica delle repubbliche borghesi, è la schiavitù salariata. O gni stato è 'una forza repressiva particolare’ della classe oppressa. Q uindi uno stato, qtialunqae esso sia, non è Ubero e non è popolare» (Lenin 19 17 , pp. 75-76 ). N ella condizione specifica della Russia, la critica alla via parlam entare serve a Lenin per tenere aperta la prospettiva della rivoluzione proletaria anche dopo la cadu­ ta dello zar e l’inizio di una rappresentanza pluripartitica di tipo parlam entare. Lo scopo dei bolscevichi-è in fetti quello di conquistare con la forza le leve del com ando politico e m ilitare, per m uoversi verso la dittatura del proletariato. L a costruzione del com uniSm o non può essere, per Lenin, graduale e senza scosse: «lo sviluppo pro­ gressivo, cioè l’evoluzione verso il com uniSm o, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrim enti, poiché non v ’è nessun altra classe e nes­ sun altro mezzo che possa spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori» {ivi, p. 16 2 ). L’organizzazione statale che ne deriverà sarà ancora d i tipo coercitivo, solo che si trat­ terà questa volta, com e già aveva argom entato M arx nelle Lotte d i classe in Francia, della costrizione esercitata dalla m aggioranza sulla m inoranza, necessaria agli occhi d i Len in per elim inare i residui tentativi della borghesia capitalistica d i riprendere il dom inio econom ico sui mezzi d i produzione. L a dittatura del proletariato sarà con­ trassegnata dalla progressiva acquisizione della proprietà da parte dei lavoratori asso­ ciati, m a non sarà ancora il com uniSm o, né il regno della totale uguaglianza: il prin­ cipio della distribuzione della ricchezza sarà «a ciascuno secondo il suo lavoro», che sanerà i m ali dello sfruttam ento diretto dell’uom o sull’uom o, m a non potrà ancora risolvere il problem a delle differenze d i capacità e d i forza fra i singoli lavoratori. R icordando le osservazioni di M arx a proposito della C om une d i Parigi, Lenin aggiunge che la dittatura del proletariato concepirà al proprio interno spazi crescen­ ti d i dem ocrazia sia rappresentativa sia diretta, in cui da un lato le cariche saranno rotte elettive e i rappresentanti saranno scelti fra i proletari, e ricom pensati della loro opera con stipendi non superiori ai salari operai; dall’altro le classi lavoratrici (operai e contadini) potranno esercitare una sorveglianza perm anente sugli eletti attraverso ristitu to della revoca e m ediante il m antenim ento di una m ilizia popolare. • Q ueste form e di controllo dal basso preluderanno alla definitiva estinzione dello stato com e organo repressivo, che avverrà soltanto a com uniSm o m aturo. Piegandosi a qualche concessione verso la tradizione del socialism o utopistico, anche il realista Lenin lascia qua e là balenare in Stato e rivoluzione la speranza in un m ondo del rotto ugualitario e pacificato, in cui i mezzi di produzione passeranno alla gestione popo­ lare senza alcun bisogno di uno stato controllore e program m atore; in cu i la regola della distribuzione diverrà «a ciascuno secondo i suoi bisogni», e non p iù secondo i

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suoi m eriti; in cui gli eventuali tentativi dei singoli di derogare dall’ordine com une (peraltro im probabili, vista la m ancanza d i situazioni d i sfruttam ento e d i ingiusta differenza) saranno prevenuti e all’occorrenza im pediti dalla diretta sorveglianza popolare, senza bisogno d i m agistrati e d i eserciti. Q uesta parte d i Stato e rivoluzio­ ne, quella in cui Lenin si riprom etteva d i descrivere m inuziosam ente il funziona­ m ento d i una società com unista, non vedrà però m ai la luce: nel 1 9 1 7 urgono le sca­ denze della R ivoluzione d’ottobre, e dopo saranno g li im pegni d i governo a im pedi­ re un a riflessione p iù estesa su questo argom ento. N ella postfazione alla prim a edi­ zione, datata 30 novem bre 19 1 7 , Len in sem bra im pegnarsi a riprendere in m ano un’opera che ancora oggi evidenzia il lim ite dell’incom piutezza, m a non lo farà: anche perché reputa che sia «più piacevole e p iù utile l’esperienza d i una rivoluzione che non scrivere su d i essa» {ivi, p. 2 0 3 ). D opo il 1 9 1 7 Lenin si dedica in effètti p iù alla costruzione del potere bolscevico e dello stato sovietico che alle elaborazioni di ordine teorico, e i suoi interventi pubblici riflettono sem pre p iù le decisioni e i pro­ blem i del governo effettivo. L e prim e scelte, condizionate anche dalla guerra civile che i bolscevichi devono intraprendere p er fronteggiare la reazione delle «armate bianche», si volgono verso una rapida statalizzazione della proprietà industriale e agri­ cola con il cosiddetto «comuniSmo d i guerra»: un a scelta p iù dettata dalle circostan­ ze che da una precisa strategia d i riorganizzazione econom ica, nella quale il partito può tuttavia contare sulla collaborazione dei soviet. Superata la crisi postrivoluziona­ ria, Len in am m orbidisce le prim e posizioni, orientate a un a brusca collettivizzazione, lanciando il program m a d i una «nuova politica econom ica» (N E P ). N elle cam pagne si assiste a una m oderata liberalizzazione del com m ercio del grano, m entre qualche concessione alla piccola proprietà contadina viene effettuata anche sul terreno del diritto di proprietà, consentendo ai coltivatori d i gestire privatam ente i prodotti destinati al m ercato e i fabbricati. N on viene però restaurata la proprietà della terra in quanto tale: i piccoli coltivatori figurano com e specie d i «affittuari» nei confronti dello stato. N ell’industria, dopo un periodo d i livellam ento dei salari successivo al 1 9 1 7 , viene sancito il passaggio a criteri d i rendim ento nella fissazione dei salari stes­ si, in sintonia del resto con l’interpretazione della dittatura del proletariato già avan­ zata da Len in. 1 soviet, pur rim anendo un forte organo di controllo nei luoghi della produzione, com inciano a entrare sem pre p iù strettam ente nell’orbita della discipli­ na del partito, m entre l’autorità nelle fàbbriche si sposta progressivam ente dagli stes­ si soviet, em anazione diretta del suffragio operaio, ai dirigenti di nom ina statale. Si tratta di provvedim enti che nell’am bito della grande industria com inciano a delinea­ re il sistem a sovietico, al d i là della retorica del potere proletario, com e una sorta di «capitalismo d i stato»: un passaggio che ai suoi dirigenti sem bra com unque necessa- ' rio per spingere il paese verso una rapida m odernizzazione econom ica. Il com plesso intreccio che si viene a creare fra istanze d i coordinazione politi­ ca e sociale della produzione e intenzioni d i decollo produttivo è ben rappresentato dalla parola d’ordine «soviet p iù elettrificazione»: vale a dire un m odello d i sviluppo industriale a guida pubblica, che nelle intenzioni del suo ideatore dovrebbe essere capace d i superare lo stàdio, àncora incom pleto nella R ùssia zarista, del capitalism o

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privato. Si spiega cosi com e, m entre per le forze com uniste dei paesi avanzati il m odello sovietico funzionerà soprattutto com e m ito del prim o «socialism o realizza­ to», per i paesi in v ia d i sviluppo il m arxism o-leninism o costituirà spesso l’ideologia di un decollo econom ico che, in m ancanza d i solide borghesie nazionali, sarà atte-: so dall’iniziativa pubblica.

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I l dibattito sulla dittatura del proletariato dopo la m orte d i Lenin. Im pedito a proseguire d i fatto la sua azione di governo già dal 19 2 2 , a causa d i una grave m alat­ tia, Lenin m uore nel 19 2 4 . L a discussione di tipo dottrinario che esplode alla sua scom parsa all’interno del partito bolscevico, destinata a durare per qualche anno, si intreccia con la lotta d i potere che si scatena fra i suoi dirigenti per raccogliere l’e­ redità del m aggior protagonista della R ivoluzione d’ottobre: lotta che, com e è noto, si concluderà presto con il trionfo di Stalin. Si tratta d i una discussione viziata da troppi ideologism i, com battuta a suon d i citazioni da M arx e da Lenin spesso adat­ tate alle convenienze del m om ento, regredita talvolta a pretesto retorico usato per la sopraffazione dell’avversario politico. In tale dibattito si delineano tuttavia le posi­ zioni d i fondo che contrassegneranno la storia ideologica del com uniSm o novecen­ tesco nelle sue varie sfum ature, posizioni che nella R ussia degli anni V enti possono essere ricondotte all’esistenza di tre correnti all’interno dello schieram ento bolscevi­ co: una «destra» che, in sintonia con la N EP, intenderebbe proseguire in una costru­ zione graduale del socialism o e in una interpretazione m oderata della form ula della dittatura del proletariato; un «centro» che si pone anzitutto il problem a della stabi­ lizzazione autorevole (e all’occorrenza autoritaria) del potere bolscevico in Russia, per instradarla prim a possibile sulla via di un deciso decollo in senso industriale; una «sinistra) che vede nell’O ttobre solo im a tappa d i un p iù com plesso m ovim ento m ondiale di em ancipazione del proletariato, bisognoso d i altre e num erose trasfor­ m azioni sottintese con la parola d’ordine della «rivoluzione perm anente). C apofila della «destra» è N ikolaj Bucharin, am ico e collaboratore d i Len in dai tem pi dell’esilio in Svizzera, considerato dallo stesso capo dei bolscevichi la persona d i p iù spiccate doti teoriche fra i dirigenti del partito: particolarm ente apprezzata è la sua Teoria del materialismo storico, pubblicata n d 1 9 2 1 . Econom ista d i form azio­ ne, Bucharin, dopo aver difeso i provvedim enti d i collettivizzazione presi durante il comuniSmo di guerra, si converte con la N E P alla lin ea della m oderazione nelle tra­ sform azioni econom iche, nella convinzione che la costruzione d d socialism o abbia bisogno d i un periodo d i dialogo con talune aspirazioni alla gestione privata dei mezzi di produzione. N el 19 2 5 scrive una m em oria sull’im perialism o in cui, p iù che la proprietà capitalistica in sé, viene com battuta la concentrazione m onopolistica: è la grande proprietà borghese, p iù che le piccole form e d i capitalism o, a essere respon­ sabile d d conflitto sociale e politico esistente n d m ondo. Bucharin interpreta la dittatura d d proletariato, p iù che com e dom inio politi­ co, com e form a d i controllo econom ico, contrassegnato dal progressivo passaggio della proprietà dei m ezzi di produzione ai lavoratori assodati. E g li tuttavia individua precocem ente i pericoli d i burocratizzazione in siti in questo processo: sotto la paro-

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la d’ordine della gestione proletaria si potrebbe in fetti profilare (com e in effetti avverrà nell’U R SS) la prem inenza d i fetto della burocrazia statale, rinforzata dall’a­ zione del p arato. Per questa ragione egli insiste sulla proprietà e sui poteri d i gestio­ ne degli effettivi organism i operai, nari nelle fàbbriche, in una sorta d i m odello eco­ nom ico in cui le autorità politiche centrali dovrebbero pianificare la produzione non in m odo veracistico, m a in accordo con il punto d i vista delle proprietà cooperative. A ncora diverso è il discorso riguardante le cam pagne, in cu i il progresso dei rappor­ ti sociali non può non tener conto delle aspirazioni alla proprietà della terra da parte dei coltivatori. Bucharin reputa tale questione, nel panoram a della R ussia bolscevica, d i prim aria im portanza. L a peculiarità della R ivoluzione del 1 9 1 7 sta, a suo giudizio, proprio «in una com binazione originale fra la guerra dei contadini contro i grandi proprietari fondiari e la rivoluzione proletaria»; all’in izio la sua «sostanza» risiedeva anzi, prim a che nel riscatto del proletariato d i fàbbrica, «nel rigetto delle catene feu­ dali e nella distruzione della grande proprietà latifondistica» ( B u c h a r i n 19 6 3 , p . 1 1 2 ) . Più. che con form e d i proprietà collettiva p iù o m eno im poste, Bucharin vede nell’im m ediato la possibilità d i proseguire il m ovim ento d i liberazione delle forze produttive nelle cam pagne con il riconoscim ento della singola proprietà coltivatrice: non solo la piccolissim a proprietà, m a anche quella dei cosiddetti «contadini agiati» (definiti in R ussia kulak r), che attraverso il lavoro proprio e della loro fàm iglia (e tal­ volta con l’aiuto di qualche salariato) stavano riuscendo a em ergere dalla tradiziona­ le condizione di povertà propria d i gran parte del m ondo contadino russo. A m età degli anni V enti Bucharin è alleato d i Stalin contro la «sinistra», e ne ricava la carica d i presidente del com itato esecutivo dell’Internazionale com unista (il K om intern, o Terza Internazionale, costituita p er im pulso sovietico fra il 19 19 e il 19 2 0 , nella prospettiva d i riunire in un organism o sovranazionale i partiti com uni­ sti di tutto H m ondo). M a negli anni Trenta anch’egli cadrà in disgrazia, d i fronte alla fase p iù acuta della repressione scatenata da Stalin contro ogni form a d i distin­ zione dalle posizioni ufficiali del partito, e nel 19 3 8 sarà condannato a m orte e giu­ stiziato. L’esponente p iù forte del «centro» del partito è appunto Stalin, pseudoni­ m o d i Iosip D zugasvili. L a nozione di «centro» non vu o l dire in quésto caso dispo­ n ibilità al com prom esso o alla sintesi fra le diverse posizioni: in Stalin iden tifica sol­ tanto una disponibilità tattica ad alleanze con una parte o con l’altra dello schiera­ m ento bolscevico, con lo scopo d i rafforzare la posizione d i potere propria e del pro­ prio gruppo. In ratta la sua opera politica Stalin si configurerà del resto com e uom o d i potere m olto p iù che com e uom o di dottrina. E al suo nom e sarà giustam ente associata la parte p iù tragica della storia del com uniSm o novecentesco, con la costru­ zione in R ussia d i un regim e totalitario basato sullo strapotere del partito unico, sulla repressione di m assa, sull’elim inazione violenta degli oppositori: regim e che per un altro verso saprà im porre il definitivo decollo industriale del paese e la sua ascesa al ruolo di grande potenza sulla scena m ondiale. C iò non toglie che, a m età degli anni V enti, anche Stalin partecipi alla discussione sulla dittatura del proleta­ riato con due opere degne d i considerazione sul piano storiografico: P rincipi del leninismo, del 19 2 4 , e Q uestioni del leninismo, del 19 2 6 .

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Stalin. N ei P rinàpi del leninismo Stalin (18 7 9 -19 5 3 ) affronta il tem a, com e si è visto m olto presente nelle elaborazioni dei bolscevichi, dei rapporti fra classe ope­ raia e contadini, con un ottica rivolta alla superiorità ideologica del proletariato di fabbrica. Stalin continua a parlare della necessità di un’alleanza fra le due classi, m a nella convinzione che i contadini non possano m ai interpretare un ruolo avanzato, essendo niente p iù di una «riserva del proletariato». L a questione del rinnovam ento econom ico e sociale nelle cam pagne, contro il vecchio latifondism o, è prospettata con poche concessioni all’aspirazione contadina alla proprietà della terra: la soluzio­ ne deve com portare, per Stalin, la correzione delle tendenze spontanee verso la pro­ prietà individuale, a favore della proprietà collettiva. È il preludio al m odo con cui, negli anni Trenta, lo stalinism o affronterà la questione rurale, con l’elim inazione (anche fisica) dei knlaki e l’im posizione del passaggio a form e d i sfruttam ento collet­ tivo della terra. Le soluzioni giuridiche saranno diverse a seconda delle aree e dei periodi, m a lo schem a p iù seguito ruoterà attorno all’idea della proprietà statale della terra e dei m acchinari agricoli, della concentrazione p iù o m eno forzosa del lavoro delle fam iglie contadine in organism i associativi guidati da funzionari d i partito pro­ venienti dall’esterno, del rigido controllo pubblico del m ercato dei prodotti e della riduzione della proprietà privata a entità m arginali, com e le abitazioni contadine. M a il tem a p iù insistito nei P rinàpi è quello della centralità del partito rispet­ to a ogni altra possibile esperienza organizzativa del proletariato. Strum ento della classe operaia per la conquista del potere e p oi p er il suo m antenim ento, il partito com unista diventa nella teorizzazione di Stalin «la form a suprem a dell’unione d i clas­ se dei proletari» (S t a l in 19 7 0 , p. 1 0 1) , superiore a i soviet, ai sindacati, a qualsiasi altro organism o di origine cooperativa. N el successivo sviluppo del regim e stalinista l’idea della superiorità_del partito com unista giocherà un ruolo essenziale: ne saranno conseguenze la concezione del partito com e guida indiscutibile della vita politica nazionale, la legittim azióne della sua presenza com e partito unico, il conseguente svuotam ento dall’interno del m ec­ canism o elettorale a favore del partito stesso e del suo gruppo dirigente fin o a enfa­ tizzare il m olo del capo (per Stalin si parlerà in m odo fondato di «culto della perso­ nalità»), della sovrapposizione fra cariche d i partito e cariche di governo, tipica del sistem a sovietico. 11 tutto aggravato dal m otivo ossessivo del partito com e luogo della disciplina al proprio interno e nei confronti della società esterna, com e è previsto nel passo dei P rinàpi in cui Stalin esplicita la sua id ea d i m antenim ento ed estensione della dittatura del proletariato. C ostruire tale dittatura per lu i «significa infondere ai m ilioni d i proletari lo spirito d i disciplina e d i organizzazione; significa creare nelle m asse proletarie la coesione e una barriera contro le influenze deleterie dell’elem en­ to piccolo-borghese e delle abitudini piccolo-borghesi; significa rafforzare il lavoro di organizzazione dei proletari per la rieducazione e la trasform azione degli strati picco­ lo-borghesi; significa aiutare le m asse proletarie a educare se stesse per diventare una forza capace d i sopprim ere le classi e d i preparare le condizioni necessarie per l’orga­ nizzazione della produzione socialista» {ivi, pp. 10 2 -10 3 ). Perno di tutto questo è appunto il Partito com unista, la cui vita è teorizzata da Stalin secondo gli schem i di

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quello che sarà definito il «centralism o dem ocratico»: concepim ento si del confron­ to fra opinioni diverse (cosa che in pratica diverrà però presto im possibile, d i fronte alla dittatura staliniana), m a accettazione consapevole e com pleta del punto d i vista della m aggioranza una volta prese le decisioni, senza possibilità d i costituire frazioni. Q uestioni del leninismo riprende m olti dei concetti presenti nell’opera prece­ dente, e ne riprende e am plifica anche il linguaggio, denso d i term ini provenienti dal lessico m ilitare e trasportati su l terreno dell’argom entazione politica, dove la relazio­ ne con l’esterno diventa necessariam ente u n a lo tta o una guerra, il nucleo dirigente del partito è definito «stato m aggioro), e così via. H tem a affrontato in m odo p iò insi­ stito nelle Questioni è soprattutto quello della possibilità d i costruire il socialismo in un solo paese. A chi, dentro e fu ori dell’U R S S , obietta che il socialism o deve rispetta­ re le necessarie tappe della sua evoluzione e h a bisogno d i un consenso che vada gene­ ralizzandosi su scala m ondiale, Stalin esibisce la fiducia nella possibilità di condurre anche nell’unico stato com unista esistente il processo d i superam ento del capitalism o e della proprietà privata fino alle sue ultim e conseguenze. C o n questo convincim en­ to egli getta le basi della profonda trasform azione econom ica che l’U R S S conoscerà, dalla fin e degli anni V enti, con i p ian i quinquennali, che costruiranno nel paese im a grande industria gestita dallo stato. L a possibilità del socialism o in un solo paese non nasconde tuttavia, nelle argom entazioni d i Stalin, il fatto che le sue realizzazioni, rim anendo il resto del m ondo in m ano alle classi borghesi, non sono m ai pienam ente garantite rispetto al pericolo della m inaccia esterna costituita dalle forze m ondiali della reazione. Il m otivo dell’accerchiam ento dell’U R S S da parte delle potenze capi­ talistiche è da Stalin un po’ accettato con convinzione e un po’ enfatizzato per farne uno strum ento d i appoggio alla sua politica autoritaria, che com porta fra l’altro un continuo ricorso al potere dell’esercito e della polizia. Fra le conseguenze di questa posizione va fra l’altro ricordata la riduzione dell’Intem azionale com unista a una spe­ cie di prolungam ento della politica estera dell’U R S S , p iò che luogo d i libera discus­ sione fra i diversi partiti com unisti che ne faranno parte.

Trockij. L’opposizione d i «sinistra» a Stalin negli anni della form azione del suo potere è rappresentata soprattutto da Trockij, pseudonim o di L ev D avidovic Bronstein (18 7 9 -19 4 0 ), figura popolare fra i bolscevichi soprattutto perché aveva rappresentato la parte politica dell’organizzazione d i quell’Arm ata Rossa che aveva vinto la guerra civile dopo il 19 17 . A lla dottrina del socialism o in un solo paese Trockij contrappone quella della «rivoluzioneperm anente », form ula già im piegata dopo gli avvenim enti del 19 0 5 , ripresa nelle discussioni successive alla scom parsa di Stalin e destinata a diven­ tare titolo della sua opera p iù fam osa: appunto La rivoluzione perm anente, che vedrà la luce lo stesso anno (il 19 29 ) in cui Trockij abbandonerà l’U R S S per cercare rifugio in O ccidente. N el 19 4 0 sarà però raggiunto e ucciso, in M essico, da esponenti dd la polizia segreta staliniana. Trockij non toglie legittim ità alle rivoluzioni, com e quella bolscevica, che possono nascere in aree periferiche del m ondo capitalistico, purché siano correttam ente interpretate com e fasi d i im a rivoluzione m ondiale che avrà nelle forze politiche del proletariato internazionale, e non in quelle d i un solo paese, la sua

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guida p iù autentica. In un passo ripetutam ente ripreso da Trockij nelle sue opere il concetto è cosi esplicitato: «La rivoluzione socialista non può com piersi nei lim iti di im a nazione. Essa com incia sul terreno nazionale, si sviluppa sull’arena intem aziona­ le e si conclude nello spazio m ondiale». E questo processo, in gran parte ancora da costruire, che Trockij intende anzitutto con l’espressione «rivoluzione permanente». E inevitabile incom piutezza di ogni rivoluzione nazionale che ne deriva ispira in Trockij due ordini di considerazioni. Il prim o è d i carattere internazionale, e riguarda i rapporti dell’U R S S con il m ondo esterno, p er i quali l’autore della Rivo­ luzione perm anente auspica la riduzione dell’isolam ento verso cui la sta spingendo Stalin e la ricerca di aiuti da parte del m ovim ento socialista m ondiale, al d i fu ori delle pretese d i superiorità che il partito bolscevico è incline a riconoscersi d i fronte agli altri partiti com unisti. P iù fiduciosa rispetto a Stalin riguardo agli im pulsi positivi che possono provenire dalle forze di sinistra esterne all’U R S S , la posizione d i Trockij appare tuttavia, nel periodo fra le due guerre, peccate d i un a certa astrattezza nella sua attesa d i un a rivoluzione m ondiale che, dopo la sconfìtta in O ccidente delle forze operaie nell’im m ediato dopoguerra, sem bra una prospettiva m olto lon tan a L a seconda considerazione, ancor p iù im portante, riguarda la politica interna e i rap­ porti fra il potere sovietico e le classi sociali. A nche T rockij, com e la m aggioranza dei dirigenti bolscevichi, vede nella socializzazione dei mezzi d i produzione e nella scon­ fitta dell’individualism o borghese l’obiettivo verso cui la società sovietica deve ten­ dere. M a i m odi in cu i ciò sta effettivam ente avvenendo sono da lu i criticati perché non d i allargam ento delle basi della proprietà si tratta, bensì dell’estensione autori­ taria del potere da parte di una burocrazia m inoritaria e d i ristretti gruppi d i diri­ genti d i partito. L a teoria non può evitare d i confrontarsi con la pratica, tanto p iù che a detta d i Trockij «tutto, nel cam po della teoria m arxista, è legato alTattività pra­ tica». Il socialism o non può identificarsi con una collettivizzazione im posta dall’alto e gestita dalle burocrazie di partito, m a com porta processi d i espansione, e non di riduzione, della dem ocrazia. «L’industrializzazione è la forza m otrice d i tutta la cul­ tura e quindi la sola base concepibile del socialism o. N elle condizioni dell’Unione Sovietica industrializzazione significa innanzi tutto rafforzam ento della base del pro­ letariato com e classe dirigente». Q uanto alla dibattuta questione dei rapporti con il m ondo contadino, Trockij denuncia preventivam ente i ritm i forzati con cui Stalin intende introdurre nelle cam pagne la proprietà collettiva: «i ritm i m igliori e p iù van­ taggiosi sono quelli che non solo assicurano il p iù rapido sviluppo dell’industria e della collettivizzazione in un m om ento dato, m a quelli che garantiscono .la necessà­ ria resistenza del sistem a sociale, cioè innanzi tutto il rafforzam ento dell’alleanza tra operai e contadini, condizione indispensabile d i successi ulteriori» (T rockij 1930). Per convertire i contadini al socialism o Trockij non fa affidam ento alla costrizione, m a alla convinzione e al dialogo, in continuità con la constatazione che ravvicina­ m ento al socialism o, anche dopo la R ivoluzione d’ottobre, richiede un processo gra­ duale e n o ii realizzazioni d’autorità, contrarie allo spirito della dem ocrazia che sca­ turisce dal basso, im plicito nelle ideologie di segno socialista e com unista. Lo stesso vale per la riorganizzazione industriale, che la pianificazione staliniana costringe

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invece nei binari vo lu ti dal vertice, con la progressiva liquidazione d ì ogni autono­ m ia delle dirette rappresentanze operaie. L’ultim a polem ica d i Trockij riguarda in fi­ ne la vita interna al partito, che nell’esaltazione pure com prensibile del m orivo del­ l’un ità è diventato il luogo d’azione d i un potere autocratico, anziché il terreno d i un a libera discussione ed elaborazione d i decisioni politiche.

i.z

II fascismo

H fascism o italiano è un m ovim ento politico del X X secolo e, insiem e, il regi­ m e politico che viene instaurato in Italia negli anni Venti. L’esistenza d i un partito unico, che organizza e penetra nella sfera privata dei cittadini, indottrinandoli, la rea­ lizzazione efficace d i una m obilitazione delle m asse, che preclude una reale parteci­ pazione politica al processo dem ocratico, il culto del capo carism atico: questi sono alcuni tratti specifici del regim e fascista, il quale è stato definito talvolta un regim e autoritario, talaltra totalitario, o ancora una dem ocrazia plebiscitaria, cesaristica e un sistem a politico populista. D urante i disordini sociali e politici, che seguirono la grande guerra e che cul­ m inarono con la serie di scioperi e d i m anifestazioni del biennio tosso 19 19 -19 2 0 , il fascism o emerse com e confluenza d i m ovim enti diversi e in alcuni casi contrastanti. Il fascio fondato da M ussolini nel 19 19 a piazza San Sepolcro accolse, infatti, nelle sue fila correnti appartenenti alla destra e alla sinistra rivoluzionaria: sindacalisti rivo­ luzionari, futuristi, m a anche arditi e com battenti, nazionalisti. Il program m a del 19 19 accoglie notevoli spunti dei m ovim enti socialisti com e il suffragio universale, il voto alle donne, la rappresentanza degli interessi. L a stessa ideologia p olitica di M ussolini (18 8 3 -19 4 5 ) fii caratterizzata d a una oscillazione e da una com presenza di m otivi socialisti, sindacalisti e nazionalisti. N ella sua carriera p olitica d i dirigente socialista, caporedattore dell’«Avanti» e p o i fondatore del giornale «Popolo d’Italia», egli si ispirò alla concezione della violenza rivoluzionaria d i Georges Sorel, alla psico­ logia delle m asse d i L e B on , alla teoria delle élites d i Pareto e all’idea d i politica com e volontà d i potenza, che in parte ricorda la filosofia nietzschiana. L a sinistra del fascism o sansepolcrista fu rappresentata dal sindacalism o rivolu­ zionario ispirato al pensiero d i Georges Sorel, che in Riflessioni sulla violenza (19 0 6 ) aveva teorizzato la rivoluzione violenta com e atto creatore d i un nuovo ordine. A que­ sta interpretazione revisionista del m arxism o si era anche ispiralo il filone del sindaca­ lism o rivoluzionario italiano: fia g li altri, A gostino Lanzillo, Alceste D e Am bris, Angelo O liviero O lvetti e il gruppo della rivista «Rinnovam ento». Q uesti sindacalisti, che for­ m ulavano l’idea della «terza via», che superava l’antitesi fia il socialism o e il nazionali­ sm o, rim proveravano al partito socialista non interventista d i aver trascurato la forza d i im patto del sentim ento nazionale per far m aturare la rivoluzione delle m asse. G li scio­ peri del «biennio rosso» furono la realizzazione politica d i questo m ovim ento: uno dei suoi m aggiori esponenti, Alceste D e A m bris, partecipò alla riconquista della città Fium e ad opera.di una m ilizia capeggiata dal poeta G abriele D ’annunzio, realizzando

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la C arta del Carnaro (19 2 0 ), un docum ento politico che aferm ava l’italianità della città e insiem e suggeriva elem enti della futura dottrina corporativa. A l m ovim ento fascista parteciparono anche i fu turisti, i nazionalisti d i Enrico C orradini e i com battenti, e cioè m ovim enti distanti dal socialism o. Il Futurism o di Filippo Tom m aso M arinetti, la prim a avanguardia europea che un iva Im p e g n o artìstico all’attivism o p olitico, era, al contrario del sindacalism o, u n m ovim ento che esaltava l’aristocrazia degli artisti e dei giovani e che coniugava alla critica del parla­ m entarism o e della m entalità borghese, l’avversione alle tradizioni, il culto della guerra e l’apologià della m odernità tecnologica {Manifesto d elpartito fu tu rista ita­ liano, 19 18 ) . U n’ulteriore espressione della rivolta giovanile era costituita dal grap ­ po dei com battenti, soprattutto g li A rd iti, che, fin ita la guerra, form arono una m assa d i «spostati», e cioè d i «persone e grap p i sradicati dal loro am biente sociale, privi di status e che, attraverso la guerra, avevano m aturato una sia p u r torbida coscienza politica» ( G e n t il e 19 9 6 , p. 12 7 ). L a m ancanza di om ogeneità ideologica d i queste com ponenti, da cu i nasce il fascism o nel 19 19 , rende im possibile a M ussolini la form ulazione d i un a dottrina politica del m ovim ento, com e è testim oniato nella voce «fascismo» redatta da M ussolini e G iovanni G entile nel 19 3 2 p er conto dell’Enciclopedia Treccani. L a contrapposizione fra le com ponenti rivoluzionarie e conservatrici non scom parirà m ai nel fascism o, anche durante e dopo il suo progressivo orientam ento ad appog­ giare i ceti p olitici conservatori. Infetti, tra il 19 19 e il 19 2 2 , l’anno della conquista del potere da parte d i M ussolini il m ovim ento abbandona la sua ispirazione anti­ m onarchica, repubblicana e antiborghese, per garantire con l’azione delle «squadre fasciste» i ceti possidenti contro le rivendicazioni dei sindacati d i sinistra. Tale con­ versione a destra sarà testim oniata dalla fusione con l’Associazione N azionalista Italiana, di ispirazione p olitica m onarchica e reazionaria nel 19 2 1 e sarà coronata nel 19 2 9 con la firm a dei Patri lateranensi fra la C hiesa e lo stato fascista. E a partire dal 19 2 5 , dopo l’om icidio M atteotti ad opera dei fascisti e la successiva crisi istituzio­ nale, che prende form a il regim e fascista vero e proprio con leggi che accentrano il potere nell’organism o del G ran C onsiglio, svuotano d i significato il principio d i rap­ presentanza p olitica e il Parlam ento, instaurano la censura, il controllo della cultura e la centralizzazione am m inistrativa. A lla m età degli anni Trenta il fascism o, forte di un’organizzazione centralizzata dello stato e di un apparato di partito in grado di m obilitare le m asse e inquadrare i ceti p olitici, inaugura la politica im perialista con la conquista dell’E tio p ia (19 3 6 ). L’espansione im periale, i crescenti attriti con gli stati dem ocratici e liberali europei e il contem poraneo successo in Europa d i m ovi­ m enti che si ispirano al fascism o conducono all’avvicinam ento d i M ussolini al nazio­ nalsocialism o tedesco (asse Rom a-Berlino, 19 3 6 ). L’adozione’ d i m isure legislative antisem ite nel 19 3 8 e la partecipazione alla guerra insiem e con la Germ ania, sanci­ ta nel 19 4 0 , segnano l’accentuazione d i elem enti razzisti e antisem iti nell’ideologia fascista. Il regim e arriverà al suo traguardo lentam ente, con la destituzione d i M ussolini dal G ran C onsiglio (19 4 3 ), la successiva instaurazione sotto la sua guida della Repubbblicà di Salò e con la definitiva sconfitta nel 19 4 5 .

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I I X X secolo

A l progressivo m utam ento del m ovim ento fascista in regim e e al successivo consolidam ento dell’autoritarism o fascista corrispondono delle cesure ideologiche, che com portano l’alleanza con correnti politiche e culturali diverse. Il Futurism o, rappresentante dello spirito antiborghese e antim onarchico dei prim i fasci, si allon­ tana dal fascism o già nel 19 2 0 , cosi com e parte del sindacalism o rivoluzionario, insiem e con D ’A nnunzio. Successivam ente, alla m età degli anni V enti anche gli ideologi del fascism o rivoluzionario e intransigente — C urzio M alaparte e M ino M accari —saranno em arginati dal regim e. E G iovanni G entile (18 7 5 -19 4 4 ), E filosofo fondatore deU’attualism o, a rap­ presentare fino alla m età degli anni V enti, la figura intellettuale d i spicco che indivi­ dua nel fascism o la realizzazione di un progetto d i rinnovam ento politico e cultura­ le, conferendo cosi al regim e una legittim azione culturale, a cui M ussolini m irava attraverso la sua politica di sostegno di istituzioni culturali fasciste. Il rinnovam ento m orale che G iovanni G entile auspicava ben prim a l’avvento del fascism o avrebbe dovuto coinvolgere le strutture politiche e culturali. A llo stato, che si doveva oppor­ re sia al liberalism o «atom istico», esaltando la partecipazione dell’individuo alla sua com unità e alla sua storia, sia al m aterialism o storico, che svalutava la funzione sta­ tale in relazione alle condizioni econom iche, sia al nazionalism o, fondato sulla natu­ ralistica unità della razza, G entile affidava la realizzazione della vita etica individuale e l’educazione m orale dei cittadini —lo stato etico ed educatore. In questa prospetti­ va, condivisa anche da altri inteUettuali, com e G ioacchino V olpe, lo stato fascista avrebbe inverato e portato a com pim ento E rinnovam ento m orale e politico prodot­ to dal Risorgim ento e dal Rinascim ento, e cioè dai m ovim enti che avevano stabilito E prim ato culturale deE’Italia in Europa. Lo stato diventava cosi oggetto d i una «reli­ gione politica»: esso era «una realtà m orale, un a sostanza d a realizzare dal libero vole­ re etico, cu i non è dato prescindere da un concetto religioso della vita». (G entile 19 2 0 , p. 1 1 ) C ontro questa «fede nello stato» Benedetto C roce e altri inteUettuali antifascisti avrebbero protestato nel noto M anifèsto degli intellettuali antifascisti pub­ blicato suUa rivista «E M ondo» a m aggio del 19 2 5 . G en tile m anifestò neUa sua attività p o litica — com e m inistro deU’Istruzione — e culturale - com e organizzatore d i varie in iziative, fra le quali la gu ida deU’E n ciclopedia Treccani - un im pegno insiem e pofitico e inteUettuale per integrare E fascism o in un a struttura p olitica che conservasse i prin cip i del governo m onar­ chico e deUa tradizione risorgim entale. A llo stesso m odo tem atizzavano E ruolo deEo stato alcuni inteUettuali gentilian i com e G iuseppe B ottai, fondatore deUa rivista «C ritica fascista» e sostenitore del «revisionism o», secondo il quale E partito fascista avrebbe dovuto educare una nuova classe dirigente, favorendo E dibattito e la critica interna, e Cam iUo Pellizzi, im pegnato sul fronte culturale e p olitico per sostenere una rivoluzione spirituale e m orale, che perm ettesse la form azione di un’aristocrazia di tecnici, inteUettuali e p ofitici fascisti. P iù sensibEe aU’ispirazione sociafista e pianista era invece E filone del sindacaUsm o fascista e queUo del corporativism o di U go Spirito. I l «sindacalism o integrale» di Edm ondo R ossoni, destinato a fallire nel 19 2 9 , m irava a trasform are E sindacato

Pensiero e azione p o litica n elp rim o Novecento

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fascista nell’organo suprem o di rappresentanza politica. Anche il corporativism o fascista, che rielaborava alcuni spunti del pianism o socialista di H endrik de M an, benché attraesse m olti pensatori, in realtà non fu. m ai attuato. A lcune delle sue più significative espressioni furono la C arta del lavoro (19 2 7 ) redatta da G iuseppe Bottai e la teorizzazione delle «corporazioni proprietarie» d i U go Spirito al Congresso di Ferrara nel 19 3 2 . Il corporativism o d i B ottai, in cui la rappresentanza politica era fondata sui ceti produttivi e sugli in dividui veniva integrata da Spirito in im a conce­ zione che individuava nel fascism o la «terza via» per superare il socialism o e il capi­ talism o e che vedeva nelle corporazioni dei lavoratori i responsabili della produzione e della ricchezza econom ica nazionale. L a teoria del corporativism o si inquadrava in un dibattito europeo, che, successivam ente alla crisi d i W all Street del 19 2 9 , si incen­ trava sulla necessità di riconsiderare l’econom ia d i m ercato. N é G iovanni G entile e nem m eno i corporativisti furono però gli architetti dello stato fascista: fu il giurista nazionalista A lfredo R occo (18 7 5 -19 3 5 ) a creare le leggi che a partire dal 19 2 6 consolidarono il regim e autoritario fascista. C on Rocco il processo di accentram ento di tutto il potere nello stato, il controllo dell’opinione pubblica e l’elim inazione d i ogni istanza decentrata e relativam ente autonom a rag­ giunsero l’apice. R occo, che ristabilì il dom inio dei ceti conservatori, aveva una con­ cezione organicistica della nazione, a cu i l’individuo era destinato a sacrificarsi e si ispirava ad un’idea darw inistica delle relazioni intem azionali, per la quale la guerra fra nazioni era il m eccanism o naturale d i sviluppo delle civiltà. A questa stessa idea darw inistica si rifaceva la visione dei rapporti intem aziona­ li e della p olitica dem ografica di M ussolini nella sua im presa di costruzione dell’im ­ pero fascista a partire dal 19 3 6 . Lim perialism o fascista, ispirato al culto dell’antica Rom a, inscenato grazie a un uso sapiente delle tecniche di propaganda politica, che prim a di M ussolini solo D ’Annunzio nella sua im presa d i Fium e aveva utilizzato, era connotato da m otivi razzisti, m a non da una vena antisem ita, che fu introdotta in Italia grazie aU’alleanza con la G erm ania. L’antisem itism o italiano, che ebbe com e espressione il M anifesto degli scienziati fascisti (19 3 8 ), non si esaurì solo nel dubbio progetto d i salvaguardia della «razza biologica» italiana, m a si articolò nelle opere di Ju liu s Evola com e espressione della suprem azia spirituale — e insiem e, però, anche biologica —delle élite e com e necessità della selezione dei m igliori. M ussolini com prese, integrò e abbandonò, per p oi ricuperarli occasionalm en­ te, tutti i tem i e i m otivi delle correnti culturali vicin e al fascism o: dal sindacalism o al socialism o, dal culto dell’artista del futurism o, alla volontà di potenza, dall’antiintellettualism o e dalla rivolta contro la borghesia all’apologià della gerarchia e del­ l’ordine, dall’im perialism o al nazionalism o e al razzism o spiritualista e biologista. In considerazione della m olteplicità delle correnti interne al fascism o e della sua evo­ luzione il dibattito storiografico e politologico si è incentrato su tem i quali re si­ stenza dell’ideologia fascista e la sua caratterizzazione com e ideologia rivoluzionaria o reazionaria, la natura totalitaria o autoritaria dello stato fascista, la specificità del fascism o com e fenom eno politico prettam ente italiano o com e, invece, m ovim ento europeo, e in fin e la natura m oderna o reazionaria dell’idea p olitica del fascism o.

250

II X X secolo

1.3

II n azio n a lso cia lism o

Il regim e nazionalsocialista, che si instaura in G erm ania dopo la disgregazione della Repubblica di W eim ar nel 19 3 3 , è stato definito da m olti storici e politologi com e l’esempio più. rappresentativo, insiem e con lo stalinism o, del totalitarism o. G li elem enti caratteristici, che ne individuano il carattere totalitario sono per H annah A rendt rantisem itism o e l’estrem a m obilitazione delle masse dovuta al forte dinam i­ sm o del partito unico e, secondo N eum ann, il terrore. Anche secondo Friedrich i sei elem enti fondam entali propri del totalitarism o sono tutti presenti nel nazionalsociali­ sm o : l’ideologia totalizzante, il partito unico, la presenza (fi un capo carism atico, l’uso terroristico del potere, il controllo dell’econom ia e quello delle com unicazioni. L’estrem a distruttività del regim e guidato da A d o lf H id er (18 8 9 -19 4 5 ), in cui venne sterm inata la popolazione ebraica che fin o agli anni Trenta aveva abitato i paesi m itteleuropei, integrandosi all’interno del loro tessuto sociale e p olitico, rap­ presenta ancora oggi, seppur con m in or eco, un argom ento d i inesauribile discus­ sione e una sfida alle categorie politiche e filosofich e del pensiero occidentale — com e testim oniano H orkheim er e A dorno (.Dialettica ddl’IUuminisnw, 19 4 4 ). llhum us favorevole alla nascita del nazionalsocialism o è costituito da un a situa­ zione d i crisi sociale e p olitica dovuta alla sconfitta della prim a guerra m ondiale e ai Trattati d i Versailles, che riducevano i confini della G erm ania e im ponevano alti costi all’econom ia tedesca, dall’em ergere d i m asse d i veterani, disoccupati e insoddisfatti della loro posizione sociale, dall’esistenza d i fo rti m ovim enti nazionalisti e panger­ m anisti che richiedevano la revisione dei Trattati d i W rsailles e la riannessione del ter­ ritorio abitato da etnie tedesche — in vista della creazione della grande G erm ania ( Groftdeutschland) e l’estrem a conflittualità politica fra partiti d i destra e d i sinistra nella Repubblica d i W eim ar (19 19 -19 3 3 ). L’accelerata m utazione im posta dal Partito nazista all’insiem e delle relazioni sociali e politich e e alla cu ltura tedesca è notevole: le strutture della R epu bb lica di W eim ar sono spazzate via in pochissim o tem po. Il nazionalsocialism o raggiunge il potere nel 19 3 3 . D op o l ’in cendio, nello stesso anno, della sede dell’antico Parlam ento tedesco (Reichstag), H id er em ana le disposizioni sulla custodia caute­ lare {Schutzhafi) p er tu tti g li op positori p o litici, che cosi non vengono p iù tutela­ ti nei loro d iritti processuali e penati. In tal m odo viene dichiarato lo stato di em ergenza {Ausnahm ezustandj, teorizzato dal fam oso giurista C ari Sch m itt, il quale nella suo saggio II Fiihrer protegge il d iritto (19 3 4 ) giu stifica anche l’elim i­ nazione d i tutte le correnti nazionalsocialiste interne in opposizione e in concor­ renza con la leadership d i H itle r a giugno del 19 3 4 , e cioè dei gruppi arm ati SA d i E rnst R ohm , G regor Strasser, lo scrittore E d gar Ju liu s Ju n g e il G enerale von Schleicher. C o n 'Aputsch in terno del 19 3 4 H id er stabilisce un a form a d i assoluti­ sm o personale. L a centralizzazione del potere viene increm entata am m inistrativa­ m ente e politicam ente con la G leichschaltimg — l’om ogenea sincronizzazione — e cioè il controllo d i tu tti g li enti am m in istrativi e p o litici, e la relativa soppressio­ ne d i ogni form a d i autonom ia regionale e funzionale.

Pensiero e a zione p o litica nel p rim o N ovecento

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F in dai p rim i anni d i governo H itler m ette in pratica i postulati della sua lotta antisem ita, arrivando a decretare le leggi d i N orinberga del 19 3 5 , che separano i cit­ tadini dell’im pero (Reichsbiirget), godenti i diritti p olitici, dai cittadini dello stato ( Staatsbiirger), fra cu i gli ebrei, deprivati eh d iritti. L a violenza persecutoria contro gli ebrei, che scoppia nell’episodio della notte di cristalli, si trasform a in una vasta ope­ razione d igen ocid io, resa efficiente dall’uso d i tecnologie m odernissim e e d i un’ or­ ganizzazione m eticolosa. I cam pi d i sterm inio crescono gradualm ente nella G er­ m ania nazista; verranno chiusi solo dalle forze alleate alla fine della seconda guerra m ondiale. L e m isure per lo sterm inio della razza ebrea sono com plem entari afro svi­ luppo della razza «ariana»: i program m i di eutanasia, che dal 19 3 9 al 19 4 1 elim ina­ no adulti e bam bini m alati e «anormali» e, insiem e, l’allevam ento d i una razza supe­ riore attraverso l’educazione della gioventù ariana (per esem pio l’organizzazione della H itkrjugend), con la diffusione d i pubblicazioni e l’im plem entazione delle ricerche sulla razza, l’educazione delle élite negli Ordensburgen, un a politica sanitaria e leggi sui m atrim oni finalizzate a preservarne la purezza. C irca l’organizzazione econom ica il governo nazista vara delle m isure d i controllo, favorisce le grandi industrie e conta sul loro consenso, destinando degli ebrei dei cam pi d i concentram ento a lavori non pagati e pesanti nelle principali fabbriche tedesche. Esem pio del controllo dell’eco­ nom ia, basata com e in Italia su principi autarchici d i sviluppo, è il piano quadrien­ nale varato n el 19 3 6 e m irato soprattutto all’increm ento degù arm am enti. N ello stes­ so anno, infatti, H itler inizia l’ occupazione dei territori che secondo la concezione della G rande G erm ania, avrebbero dovuto rappresentare un’unità politica: l’A ustria viene annessa nel 19 3 6 , le regioni ceche abitate dai Sudeti sono dichiarate protettorati tedeschi nel 19 3 8 . N el 19 3 9 la G erm ania in izia la guerra, attaccando la Polonia. L’Italia e la G erm ania si alleano contro le m aggiori dem ocrazie europee e la R u ssia Il Terzo im pero tedesco, retto da H id er si espanderà fin o alla penisola scandinava a nord, alla Francia a ovest e lam birà la R ussia a est. Proprio il fallim ento dell’offensi­ va scatenata sul fronte russo nel 19 4 2 e l’entrata in guerra degli Stati U niti nel 19 4 1 provocheranno la caduta dell’im pero tedesco nel 19 4 5 . Ideologicam ente il Partito tedesco nazionalsocialista dei lavoratori (N SD A P), com e m olti m ovim enti p olitici originati nel clim a d i disordine sociale successivo alla prim a guerra m ondiale, accoglie nei suoi prim i stadi, linee e orientam enti politici di destra e d i sinistra: nel suo program m a del 19 2 0 , accanto alla ricostruzione della GroJ?deutschland e ài colonialism o, sono presenti pun ti com e la statalizzazione delle grandi concentrazioni econom iche e la rivoluzione contro i valori m ateriali e il capi­ talism o. A d o lf H ider (18 8 9 -19 4 5 ), nel riorganizzare il partito e nel delineare l’ideo­ logia del futuro Terzo im pero (nel libro La m ia battaglia del 19 2 5 ), accentua i tem i della rivolta contro il capitalism o, che sarebbe espressione del dom inio degli ebrei, i responsabili del capitalism o e delle crisi econom iche e sociali postbelliche. Il progetto di H ider è da un lato la riconquista dello spazio vitale (Lebemraum ) della G erm ania in M ittelèuropa, dall’altro di stabilire un im pero m ondiale basato sulla superiorità raz­ ziale degli ariani, un popolo non ancora corrotto dall’indottrinam ento del bolscevi­ sm o e del capitalism o. I cardini della sua ideologia sono una concezione darwinisdea

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I I X X secolo

della lotta fra razze e nazioni, la fusione fra la rivolta nazionalista e quella sociale e il conseguente superam ento d i ogni differenza d i classe e casta in un tutto (Ganzes), in un organism o razzialm ente determ inato e la corrispetdva lotta per la distruzione della razza diversa, e cioè dell’ebreo. Fanno parte della costellazione ideologica nazionalso­ cialista il nazionalbolscevism o d i G regor Strafier, m irato a garantire il benessere alle m asse operaie, le teorie razziste e cospirative di A lfred Rosenberg (col suo libro triste­ m ente celebre II m ito del Ventesimo Secolo, 19 3 0 ), i progetti d i H einrich H im m ler e d i W alther D arre di allevare una razza geneticam ente perfetta, destinandola alla con­ quista del m ondo, insiem e con le vision i geopolitiche d i K laus H aushofer p er la con­ quista dello spazio vitale per l’etnia tedesca. E stata, però, abbandonata l’ipotesi che lo sviluppo del nazism o rispecchi m era­ m ente i piani di A d o lf H ider. O ggi i m aggiori storici e politologi hanno analizzato le caratteristiche strutturali del sistem a nazionalsocialista e della sua ideologia, arrivan­ do a stabilire che al livello d i organizzazione politica, il nazism o è caratterizzato da un fòrte caos am m inistrativo e dalla disgregazione dello stato e del significato della legge. L a coesistenza d i diversi enti preposti a svolgere le stesse funzioni, la duplicazione degli u ffici, la creazione d i istituzioni che de facto sostituiscono le funzioni del gover­ no e dei m inisteri, i quali form alm ente continuano ad esistere, la concorrenza d i orga­ nizzazioni m ilitari e param ilitari i cu i com piti non sono ben delineati, forniscono del regim e nazista un’im m agine estrem am ente caotica (Broszat). Il sistem a d i norm e viene ad essere svuotato attraverso l’uso dello stato d i em ergenza, nell’am bito del quale i provvedim enti decisi da H ider non vengono sottoposti ad alcun controllo (Fraenkel). In tal m odo la struttura dello stato viene deregolam entata e subordinata ad un ordine parallelo di istituzioni che funzionano sotto la responsabilità d i gregari scelti da H ider (M om m sen). A differenza che nel fascism o, il partito, pur privo di qualsiasi program m a ideologico articolato — a parte alcuni slogan e punti program ­ m atici — dissolve Io stato. L a disordinata articolazione degli enti nazisti viene gover­ nata dal principio del Fiìhrer (Fiibrerprinzip)-. «nel Fiibrer si m anifesta l’idea essenzia­ le del popolo» afferm a un prom inente giurista del Reich (H u b e r 19 3 9 , p. 19 7 ). In altre parole, il Filhrer incorpora la com unità del popolo ( Volksgemeinschaji), poiché si identifica spiritualm ente con essa. Il Fiibrer è un sim bolo, e la sua forza è indipen­ dente perfino dai contenuti del program m a del partito. L e differenze ideologiche interne al partito, che nel fascism o continuavano in qualche m odo ad esistere sono abolite: il conflitto interno avviene fra correnti e gregari che concorrono per acquisi­ re il potere e la fiducia del Filhrer. In tal m odo, il Fiibrerprinzip è il principio form a­ le, non sostanziale, che regola e d à dinam ism o all’organizzazione totalitaria del pote­ re. Per tale ragione alcuni recenti studi (M om m sen, Kershaw) hanno evidenziato l’e­ sistenza d i ben pochi elem enti ideologici caratterizzanti. A parte il Fiibrerprinzip, caratterizzano l’ideologia nazista l’idea d i Volksgemeinschaji e il dinam ism o esaspera­ to. L’idea di popolo (Volli) viene intesa com e unità gerarchicam ente ordinata dei m em bri d i una stessa razza e presuppone l’esistenza d i un nem ico a cu i contrapporsi e da cui difendersi - questa è un a delle idee condivise dai giuristi del Reich, Erst F orsth off (in Lo.stato totale del 19 3 3 ), C ari Schm itt (Stato, movimento, popolo, 19 3 3 )

Pensiero e azione p o litica n elp rim o N ovecento

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e il già citato H uber (D iritto costituzionale dell'Impero della Grande Germania, 19 39 ). L’antisem itism o è la necessaria proiezione negativa dell’unità e om ogeneità del Volk. Il dinam ism o perm ette d i non fissare alcun lim ite giuridico, alcuna com petenza am m inistrativa o politica definitiva e alcun principio ideologico guida che non sia l’appello form ale alla volontà del Fuhrer (Fuhrerprinzip ). In tal m odo ogni funzione politica, ogni progetto, ogni organizzazione è sem pre a rischio d i essere delegittim a­ ta da tale vo lo n tà In p olitica estera il regim e nazionalsocialista si nutre della m obili­ tazione continua delle m asse per la dilèsa della razza ariana e p er la guerra, finalizza­ ta prim a alla conquista dello spazio vitale tedesco — e cioè da parte delle m inoranze tedesche d i uno spazio nella M itteleuropa — e p oi all’assoggettam ento di tutto il m ondo da parte della razza eletta. Il potenziale distruttivo dell’ideologia nazionalso­ cialista condurrà quasi alla distruzione d i un intero popolo —quello ebraico —e della stessa nazione tedesca, in una spirale d i violenza diffusa e incontrollata che ancora oggi risulta d ifficile da spiegare.

-

-

Le posizioni 2

2 .0

L a p o litic a e i «partiti»

C on la Rivoluzione bolscevica in R ussia il concetto di «partito politico» sm et­ te di funzionare in term ini fattuali com e sem plice cam po di accoglienza e m ediazio­ ne delle istanze provenienti dalla società (secondo il dettato del parlam entarism o clas­ sico): la p olitica in questo m odo assum e una finizione che i profetism i ottocenteschi avevano solo sognato. U no dei problem i logici strutturali della politica m oderna (che si segnala dal punto di vista teorico già in H obbes e che dà vita, alm eno a partire dalla R ivoluzione francese, al m odello m oderno d i rappresentanza), ovvero l’irrealizzabilità d i un om ogeneità effettiva d i m ilioni d i singole volontà spontanee, non viene p iù risolta con la costruzione sostitutiva dello stato (e grazie all’azione scenica predispo­ sta dalla dialettica parlam entare delle parti). L a dim ensione della volontà unitaria (nel caso russo espressa nel concetto d i «coscienza d i classe») prende corpo grazie alla costruzione sostitutiva del partito. In particolare, è il concetto leninista d i partito a fungere da m odello. In Len in i concetti d i partito e d i coscienza d i classe si sosten­ gono reciprocam ente: poiché nella sua posizione all’interno della totalità sociale la «coscienza d i classe», realizzata com e visione di una classe particolare (segnatam ente il proletariato), fu riconoscibile sin dal principio com e una cosa im possibile, il parti­ to poteva e doveva allora presentarsi com e rappresentante del collettivo em pirica­ m ente im m aturo. In questo m odo, il «partito» sm etteva d i esistere com e istanza di m ediazione, m a assum eva il ruolo d i rappresentante nell’aspirazione ad essere la guida della storia. L’assunzione d i questo ruolo d i guida doveva però m antenere, in quelli che erano guidati, la finzione della possibilità d i portare a com pim ento la loro volontà. L a conclusione p ratica—che continua a valere ben al d i là della stagione del com uniSm o rivoluzionario russo — è-che, in quanto rappresentante d’avanguardia della «coscienza» e della «volontà», il partito incarna il collettivo legittim o, solo a con­ dizione, però, che nel rappresentare le m asse non ancora capaci d i giudizio e d i ope­ ratività feccia propria la legge dell’a c re . U-partito diventa perciò il vero Io del collet­ tivo dei lavoratori (m a anche del popolo, della nazione, della classe, ecc.) per il

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I I X X secolo

m om ento ancora alienati. N o n è solo l’organizzazione che struttura l’azione, m a anche l’«organo di tutto il proletariato» — che sarebbe com e dire il suo «cervello», il suo «centro d i volontà», il suo «io m igliore». Per il filosofo m arxista G eorgy Lukacs al partito spetta «l’alta funzione d i essere [...] coscienza del proletariato, coscienza delia sua m issione storica» (Lukacs 19 2 3 , p. 54 ). Le risoluzioni del partito non sono, a queste condizioni, nient’altro che citazioni dall’idealizzato m onologo interiore della classe (m a anche del popolo, della nazione, ecc.). Solo nel partito l’azione trova la propria intelligenza, e per converso, solo l’intelligenza partitica ha diritto d i agire. In tale dinam ica costruttiva che sostituisce le decisioni dell’organizzazione alla som m a (impossibile) delle volontà, è im plicita la possibilità d i ridurre la «coscienza di classe» del partito al suo prim o pensatore ed interprete. A ll’intelligenza radicalm ente partigiana d i un leader può così toccare il com pito di fungere da m edium per l’espres­ sione della «volontà unitaria)) dell’organizzazione: trova in questo m odo una codifica­ zione logica il principio della guida politica. O , ancora m eglio, prende quota la figura ideologica della guida-anticipatore, grazie alla quale il partito può funzionare com e una m acchina fonologica in cui i soliloqui della guida potevano essere applicati su cam pi di azione allargata. Com e m ostreranno a vario titolo i m ovim enti rivoluzionari del prim o Novecento, la testa del m ovim ento doveva irradiare il suo sapere e la sua volontà nel corpo del partito com e un m onarca teoretico e m orale, per trasform arlo in un orga­ no collettivo-m onarchico. C om e dim ostreranno am piam ente i fascism i successivi (e p iù in generale gli unilateralism i politici del X X secolo che si insinuano anche nelle dem ocrazie post-belliche), si era aperta così la strada per un insiem e di pratiche poliriche che, qua e là ripetevano m odelli tradizionali, m a che, raccolti tutti insiem e, dise­ gnavano una dim ensione nuova della politica. L e caratteristiche del nuovo stile politi­ co (preannunciato dal Fiihrer-Prinzip dem ocratico teorizzato da W eber) potevano com prendere una sequenza di elem enti davvero decisivi nel delineare una strategia per il successo politico nell’agire: la latente o m anifèsta concezione m onologica della rela­ zione tra la guida e i guidati; l’agitazione perm anente della «società»; il trasferim ento dàd habitus m ilitare nella produzione econom ica; il rigoroso centralism o della direzio­ ne; il culto della m ilitanza com e form a d i vita pienam ente dotata d i senso; l’entusia­ sm o obbligato a favore del fatto rivoluzionario; la m onopolizzazione dello spazio pub­ blico attraverso la propaganda di partito; la sottom issione degli scienziati alla legge della faziosità partitica; il vilipendio degli ideali pacifisti; la diffidenza verso individualism o, cosm opolitism o, pluralism o; la m odalità sterm inista dei rapporti con gli avversari poli­ tici; infine la tendenza al processo d i breve durata, in cui Tatto d i accusa contiene già la sentenza di condanna. Benché nelle culture politiche del secondo dopoguerra que­ sto genere di opzioni verrà raffreddato e giudicato m eno attraente di quanto non fosse accaduto prim a (soprattutto nell’uso polem ico del term ine «totalitarismo» che viene affibbiato ad alcuni regim i politici di questa epoca), non bisogna dim enticare che ele­ m enti consistenti del nuovo stile politico entrano a far parte del repertorio.d’azione di tutti gli stati che si m obilitano per la guerra. C iò farà sì che l’insiem e di principi e con­ dizioni che in esso si esprim ono risultano intercam biabili e non, com e spesso si vuole credere, vincolati ad un solo segm ento ideologico dello spettro intellettuale dell’epoca.

L e p o sizio n i

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Il carattere dirom pente d i questo genere d’innovazioni diventerà letale in un’e­ poca storica in cui lo spirito di scissione e d i fram m entazione occupa fin terò panora­ m a della riflessione polìtica. L a produzione ideologica dei prim i decenni del X X seco­ lo (di cui la Repubblica d i W eim ar costituisce un em blem a storico m olto significati­ vo) è segnata dal sovraccarico d i posizioni d i divergenza, costruite a partire dal ricono­ scim ento del collasso del m odello tradizionale di interpretazione e di orientam ento della politica. Se, com e sostenne Kelsen, la dem ocrazia (sono ancora pochi i regim i dem ocratici in senso proprio, benché si assista ad una generale diffusione del suffragio universale m aschile; Rdsanvaiion 2000) com e form a d i vita relativizza le pretese di verità assoluta, la reazione a questa relativizzazione non consiste sem pre in un m oto di approvazione. A nzi: benché tutti approfittino delle nuove condizioni, m aggiorm ente liberali, d i libertà d i pensiero e d i opinione, il pluralism o viene spesso percepito com e un segno d i decadenza e non di crescita nella com plessità, e ogni singola posizione am a presentarsi come: «visione del m ondo». N essun intellettuale dell’epoca ha saputo resti­ tuire m eglio le condizioni in cui questo continuo riposizionam ento ideologico s’im ­ pongono alla scena politica p iù dì quanto abbia fatto lo scrittore austriaco Robert M usil: benché frutto dell’osservazione della frenesi w eim eriana, le sue osservazioni iro­ niche possono essere estese alla cultura europea nel suo com plesso: «Non appena arri­ va un nuovo ‘ism o’ si crede che ci sia un uom o nuovo, e con la chiusura di ogni anno scolastico h a inizio un’epoca nuova [ ...] L’incertezza, la m ancanza d i energia, le tinte fosche caratterizzano tutto ciò che oggi è ‘anima’ [ ...] C o m e naturale tutto questo trova riscontro in un’inaudita m eschinità spirituale del singolo [ ...] I partiti politici degli agricoltori e degli artigiani hanno filosofie diverse [...] Il clero ha la sua rete, m a anche gli steineriani hanno m ilioni di adepti, e le università vogliono anch’esse conta­ re: in effetti una volta lessi in un foglio sindacale dei cam erieri che c’è una visione del m ondo propria dei garzoni d i trattoria, che devono essere sem pre tenuti in considera­ zione. E una Babele: da m ille finestre si sentono urlare m ille voci». *! IL TEMA

.M a rtin H eid egg => w w w .lem o

2.1

P o litica e secolarizzazione: C ari S c h m itt

Rappresentante di prim o piano della grande tradizione giuridica tedesca, C ari Schm itt (18 8 8 -19 8 5) è stato in realtànello stesso tem po politologo, filosofo, ideologo, critico e m ilitante. L a sua vasta produzione, da subito oggetto di furiose polem iche, è tornata d i recente al centro d i interpretazioni discordanti grazie alla riscoperta d i cui è stata fetta oggetto. Accom unato da alcuni all’irrazionalism o reazionario, da altri all’am­ bito severo del cattolicesim o politico, il suo pensiero tom a d i volta in volta, anche nei

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term ini negativi di un obbiettivo da confutare. C iò anche in ragione della particolare collocazione della sua opera nel contesto della storia politica del Novecento. Il problem a che occupa una larga parte della sua produzione è la crisi del razio­ nalism o politico m oderno. L’analisi di tale crisi deve la sua forza propulsiva al fatto d i essere sem pre storicam ente e politicam ente situata: Schm itt si colloca in uno spe­ cifico contesto storico, quello della fase term inale della m odernità, reinterpretata com e luogo della secolarizzazione; e si colloca nel quadro della crisi della p olitica tedesca tra il 1 9 1 4 e il 19 4 5 . L’allontanam ento della visione religiosa dom inante nel M edioèvo e, quindi, dalla prospettiva della salvezza ultraterrena e dalla funzione m ediatrice della C hiesa h a visto avviarsi, nell’età m oderna, un processo d i razionalizzazione che h a attraver­ sato varie fasi, da quella m etafisica a quella m orale, a quella econom ica, m a che non è riuscito né a stabilirsi definitivam ente e com pletam ente su di un piano m ondano, né a risolvere il problem a cruciale del superam ento del conflitto, della sua neutralizzazione. In fatti, se in età prem oderna vigeva il prim ato indiscusso della teologia e la superiorità assoluta del potere della Chiesa, che sulla terra rendeva visibile l’Invisibile e dava al m ondo unità e «forma», in seguito i poteri che si afferm ano nella storia per­ dono ogni possibilità d i fondam ento ‘assoluto’ e vivono nella contraddizione di fondo d i presentarsi nei loro aspetti em pirici, di esigere obbedienza sulla base delle sanzioni e della forza, m a d i non cessare d i rinviare a un qualche cosa di superiore, di non detto, senza il quale i rapporti d i sottom issione non resisterebbero. C o sì la con­ flittualità, che l’età m oderna ha cercato d i neutralizzare col potere sovrano, col con­ tratto sociale, col m ercato e con la tecnica, resta irrisolta fino a dispiegarsi nel m odo p iù tragico nella storia del N ovecento. Il contesto della sua ricerca tocca dunque tanto una diagnosi storica (la catastrofe della prim a guerra m ondiale, gli sviluppi della tecnica, le conseguenze della seconda guerra m ondiale), quanto logica (le difficoltà crescenti che le scienze giuridiche e poli­ tiche dim ostrano nell’opera d i razionalizzazione dell’esperienza), quanto politica (l’in­ sufficienza del Parlam ento e dello stato d i diritto, quindi delle istituzioni liberali, ad affrontare i problem i posti dallo sviluppo della dem ocrazia di massa). In quésto qua­ dro vale la pena ricordare il rilievo che viene dato, nel frantum arsi dell’unità a base reli­ gioso-teologica, all’afferm arsi dell’individualism o, ovvero a quello che Schm itt chiam a l’occasionalism o e 'il rom anticism o politico: sono le prospettive soggettivistiche del­ l’individuo borghese quelle che prendono il sopravvento con la loro carica antipoliti­ ca e la loro forza disgregatrice. Il luogo d i riferim ento diventa la vita econom ica, fon­ data sull’utile; sono le dinam iche del m ercato col trionfo degli aspetti quantitativi dei risultati dell’agile; è in un ulteriore sviluppo il m ondo della tecnica. «Apparentem ente non v i è nulla d i p iù neutrale della tecnica, scrive Schm itt. Essa serve a tutti allo stes­ so m odo» (S c h m it t 19 3 2 , pp. 17 7 -17 8 ); in realtà neppure la tecnica riesce a neutra­ lizzare i conflitti, proprio perché tutti la possono usare: «dall’im m anenza del dato tec­ nico non deriva nessuna decisione um ana e spirituale unica» (p. 17 8 ). Lincapacità della tecnica segna la fin e del «progetto del m oderno». Per giunge­ re a ciò che Schm itt prospetta, com unque, bisogna seguire il filo delle form e politi­

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che e in particolare vedere F analisi critica che egli svolge sulle istituzioni liberali e sullo rd in e che queste olirono. L a scienza politica liberale interpreta l’ordine politico com e il frutto da un lato di m ediazioni discorsive (il luogo deputato a tele m edia­ zione è significativam ente il Parlam ento borghese); dall’altro attraverso autom atism i tecnici (la tecnica delle procedure che salvaguardano la resistenza d i un regim e parti­ colare). A lla sua base h a l’afferm azione della superiorità del diritto sulla politica, ovve­ ro il principio che al potere dell’uom o (il sovrano) sull’uom o (i sudditi) vada sosti­ tuito il potere astratto e im personale della legge sui cittadini. Sia sul piano delle isti­ tuzioni che su quello dei principi il liberalism o è oggetto d i contestazioni sem pre p iù serrate tra la fin e dell’O ttocento e gli in izi del N ovecento e le condizioni storiche m et­ tono a nudo i loro lim iti. L a crisi d i questi strum enti e d i queste pretese teoriche sono sperim entate direttam ente da Schm itt nella vicenda della R epubblica d i "Weimar: il suo obiettivo diviene quindi quello d i risalire ad un m om ento iniziale, nascosto, della politica col fin e d i cogliervi il possibile m om ento genetico d i un nuovo ordine poli­ tico che sappia fronteggiare le em ergenze della nuova società d i m assa. O ccorre, a suo parere, prendere coscienza dell’atto originario che form a un ordine politico: solo cosi si può com prendere la sua natura parziale. Solo assum endo una tale parzialità origi­ naria è possibile scorgere le ragioni d i un tale ordine e quindi m antenerlo oppure scartarlo. L’eccezione concreta diviene il caposaldo dell’indagine genealogica.

La ricerca dell’elemento originario. In Teologiapolitica (19 2 2 ) Sch m itt ci offre un a ‘teoria genetica dell’esserci p olitico m oderno’, riconducendone l’origin e e lo sviluppo alla categoria di secolarizzazione1, così com e in D ottrina della costituzio­ ne (19 2 8 ) si può leggere una ‘teoria generale della m oderna form a politica’. Sono in fatti gli scritti degli anni Trenta e Q uaranta quelli in cu i Sch m itt sviluppa radi­ calm ente la sua posizione. Per questa via Schm itt giunge alla form ulazione d i una teoria generale della politica che consiste infine nell’individuazione del politico, com e nettam ente distin­ to, in v ia teorica p iù che pratica, dall’econom ico, dal m orale, dall’ estetico, e da tutti i vari ordini dell’esperienza concreta. L a teoria del politico risponde in form a sintetica al problem a d i definire la con­ creta em ergenza della politica. I l concetto delpolitico (19 3 2 ) offre u n a ‘teoria sintetica dell’origine della politica’ che tiene conto della specificità dell’esperienza storica senza risolversi in essa. In questa sede Schm itt giunge alla form ulazione p iù celebre del suo pensiero: col politico’ egli intende, non tanto un settore concreto particolare dell’e­ sperienza, piuttosto «il grado d ’intensità di un’associazione o di una dissociazione di uom ini, i m otivi della quale possono essere d i natura religiosa, nazionale [ ...] , eco­ nom ica, o d’altro tipo» (Schmitt 19 3 2 , p. 1 3 1 ) . Schm itt si avvale della coppia con­ cettuale d i «am ico-nem ico» sostenendo d ie «la specifica distinzione alla quale è pos­ sibile ricondurre le azioni e i m otivi politici» è la distinzione tra am ico e nem ico. «Ogni- contrasto religioso, m orale, econom ico, etnico o d i altro tip o si trasform a in un contrasto politico se è abbastanza forte da raggruppare effettivam ente gli uom ini in a m id e in nem ici» {ibidem). Il nem icò di cui si parla non è naturalm ente l’ inim i-

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cus privato bensì l’hostis pubblico, p er mezzo del riconoscim ento del quale avviene la costituzione ed il rafforzam ento d i un qualsiasi soggetto politico. Senza il riconosci­ m ento del nem ico non è possibile, a parere di Schm itt, la form azione d i un rag­ gruppam ento d i uom ini che abbia un carattere ed uno scopo politico. L a capacità d i decidere chi è am ico e chi è nem ico costituisce il m om ento origi­ nario (e parziale) della costituzione d i ogni unità politica. Com pito fondam entale della politica allora diventa quello d i tenete sem pre in vita questa decisione originaria. Tale com pito si svolge non tanto nell’am m inistrazione concreta e ordinaria di una società (com pito che la politica svolge in radicale dipendenza d a altre sfere dell’esperienza con­ creta, com e ad esempio l’econom ia), consiste piuttosto nel riuscire ad affrontare la crisi e l’em ergenza straordinaria, eccezionale, poiché è in essa che l’identità collettiva d i un popolo o di una nazione entra in crisi. E quindi nell’emergenza eccezionale che si com ­ pie la decisione sovrana che riconduce un raggruppam ento d i uom ini alla rappresenta­ zione di una unione e d i una unità che li fa essere corpo politico (S c h w a b 19 8 6 ). L a politica liberale fallisce per Schm itt proprio nel fiangente concreto della situazione ecce­ zionale, lim itandosi a riconoscere alla politica lo scopo d i regolare ed am m inistrare le altre sfere della vita sociale. N on esiste dunque una vera e propria politica liberale, bensì una critica liberale della politica. D iviene allora chiaro com e la genealogia schm ittiana della politica finisca per rifiutare la netta separazione liberale tra diritto e politica e per­ segua la realizzazione del diritto per via politica. E questa la natura della decisione sovra­ na ch’egli auspica: essa è capace tanto d i violare l’ordine rappresentativo borghese e libe­ rale, quanto d i fornire una form a politica nuova, una nuova rappresentazione. L’età del liberalism o coincide in definitiva con l’epoca delle neutralizzazioni, e in particolare con processi per m olti versi irreversibili di spoliticizzazione delle diffe­ renti sfere d i vita concreta. Schm itt critica la m etafisica m oderna perché rim uove e nasconde la natura partigiana’, nel senso d i parziale, non universale, dell’ordine che h a im posto. N e discende conseguentem ente una critica radicale del liberalism o e del parlam entarism o com e epifenom eni residuali di tale m etafisica, apparati categoriali e istituzionali incapaci di reggere e resistere alla crisi im posta dalle trasform azioni delle dem ocrazie d i m assa. È bene ricordare che tali critiche non com portano un distacco d i Schm itt dalla sfida posta all’inizio del secolo dalla dem ocrazia. Schm itt interpreta tale sfida com e l’irrom pere sulla scena p olitica del popolo e del suo potere costituen­ te. Lo stato è già m orto. Schm itt pensa la politica oltre lo stato: la sua reinterpreta­ zione della dem ocrazia guarda esattam ente in questa direzione, pensa al popolo com e unità com patta capace d i produrre un ordine nuovo. Z a nuova firm a d i stato. In fatti lo stato che è m orto è lo stato neutrale e agno­ stico dell’epoca liberale. A d esso subentra lo stato fondato sull’identità del popolo e sulla volontà del suo capo com e com ando assoluto: due term ini questi che si legano strettam ente tra loro, o m eglio si fondono assiem e, perché, secondo il nostro autore, si sono create le condizioni storiche per u n popolo dotato di im a autoidentità che si concreta e contem poraneam ente è suggellata in un capo. Q uello del Fiihrer non è un potere che si esercita dall’esternoj per il Fiibrer è essenziale l’identità tra il suo com an­

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do e la volontà del popolo stesso nei term ini d i una reale presenza; questa identità si fonda sull’assoluta eguaglianza d i stirpe tra capo e seguito che genera tra loro un infal­ libile contatto e una sicura garanzia d i fedeltà reciproca. Senza procedure di garanzia e senza passaggi superflui, perché l’id entità della razza assicura l’identità delle volontà e fonda la com patta totalità dello stato. In altri term ini, con questo tipo d i stato vien messo a punto «un nuovo tipo di pensiero giuridico: il pensiero dell’ordine concre­ to, che deve sostituire sia il norm ativism o sia il decisionism o» ( G a l l i 2 0 0 1, p. 520 ). In questo quadro «tutto concorda» e «la decisione deve prodursi da sé senza di­ scussione e senza contrasti di interessi essenziali, perché tutti vogliono la stessa cosa» (Schmitt 19 2 8 , p. 284). Su questa linea, tenendo conto della parzialità dell’atto origi­ nario di fondazione del politico, si aggiunge il fatto che lo stato, così inteso, si appro­ pria dello «zar belli» e viene utilizzato per fere la guerra: Schm itt esclude la possibilità d i una convivenza pacifica del genere um ano e d i una sua unificazione politica; e per la stessa m atrice della realtà politica gli stati continueranno a scontrarsi e a fersi guerra. L a storia personale di Schm itt finisce per coincidere con la storia p olitica euro­ pea. Schm itt esce dalla seconda guerra m ondiale com e sconfitto. N o n solo per la sua partecipazione, invero sempre m eno attiva, al regim e nazista. Soprattutto per il fatto che la storia politica d’Europa, nel secondo dopoguerra, h a sm entito Schm itt su un punto qu alificante per la sua dottrina: il tram onto della civiltà liberale è forse avve­ nuto per quanto riguarda l’effettualità delle sue istituzioni, che p u r persistendo sono profondam ente cam biate nel loro funzionam ento, m a non nei suoi standard, che invece continuano ad avere una qualche m ediata efficacia politica se non altro com e orizzonte di legittim ità della politica.

Le reinterpretazioni. In questo nuovo contesto dell’esperienza personale e poli­ tica Schm itt fa i conti con la tradizione p olitica m oderna al tram onto e n e. I l nomos della ta ra (19 5 0 ), ultim a grande opera del giurista tedesco, ricostruisce la natura del­ l’ordine politico m ondiale che la fine della seconda guerra m ondiale aveva definiti­ vam ente infranto. E gli ci offre una radicale reinterpretazione del politico’: «dopo la teoria decisionistica e quella dell’ordine concreto, la teoria del nomos è l’ultim o sfòr­ zo schm ittiano per definire il rapporto fra politica e diritto» (G alli 2 0 0 1, p. 5 2 1). In quest’opera «il diritto è l ’u nità d i ordinamento e d i localizzazione, ciò signifi­ ca che l’origine del diritto non è l’Idea o la G iustizia, o un a qualche altra realtà neu­ trale e universale, m a è il m odo con cu i l’ordinam ento si rapporta alla terra, allo spa­ zio. E il m odo con cui si realizza questo orientam ento e questo radicam ento è da Schm itt definito nomos, term ine greco che per lu i non sign ifica p er n u lla ‘legge’, m a «processo fondam entale d i suddivisione dello spazio, com binazione strutturante d i ordinam ento e localizzazione». G li ordinam enti vanno quindi'com presi a partire dal loro nomos, ossia hanno origine da un a specifica divisione e partizione della terra: gli ordinam enti, quindi, non nascono dal contratto m a neppure dalla decisione, quan­ to piuttosto dalla conquista del territorio e dalla sua suddivisione» (ibidem ). A partire dal nomos, Schm itt descrive le trasform azioni che all’inizio dell’età m oderna avevano portato, soprattutto in conseguenza delle scoperte geografiche, alla

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riorganizzazione dello spazio politico m ondiale secondo un ordine globale eurocentri­ co. In tale ordinam ento spaziale gli stati sovrani europei si presentavano uno d i fronte all’altro com e unità politiche equivalenti, garantendosi legittim ità reciproca anche nelle situazioni d i crisi o d i aperto conflitto. L a guerra tra stati avveniva entro le lim itazioni dettate da un tale riconoscim ento ed anche quando si feceva violenta e sanguinaria, restava guerra tra hostes aequaUterjv s ti (tra nem ici egualm ente giusti). L’ordine politi­ co spaziale m oderno (Juspublìam i europaeum ) si presenta dunque guidato da una serie d i regole non scritte che pone g li stati europei uno d i fronte all’altro in uno spazio com une, in cui certamente c’è posto per rivendicazioni territoriali in grado d i produr­ re conflitto, m a m ai per l’annientam ento reciproco (guerra lim itata). Tale ordine viene rappresentato da Schm itt com e m odo d i esistenza terranea della form a politica e giu­ ridica, cu i si contrappone il m odo d i esistenza m arittim o (assenza d i lim ite), figlio dello sradicam ento prodotto da un m odo d i azione politica ed econom ica dalla spinta uni­ versalistica e indifferenziata, in cui il m are risulta essere lo spazio specifico. Il nomos della terra è incarnato dunque dagli stati-nazione europei continentali, m a con la fine della prim a guerra m ondiale s’im pone il nuovo ordine, che è ricondotto alla conquista della leadership m ondiale da parte dei paesi anglosassoni, Inghilterra prim a e Stati U niti. L a loro natura insulare e m arittim a avvia il processo che porta alla Società delle N azioni prim a e alla C arta dell’O N U dopo e che segna la fine àe& ojnspubliaim europaeum . L a pace di \hrsailles si risolve in fetti con la crim inalizzazione del nem ico scon­ fitto: secondo l’ideologia liberale e la visione universale del diritto si apre lo spazio ad una sorta di m oralizzazione del conflitto da parte dei vincitori, che com porta il man­ cato riconoscim ento del nem ico sconfitto com e justus hostis. L a G erm ania è punita dopo la sconfitta contravvenendo alla regola del riconoscim ento del suo diritto ad una esistenza politica autonom a, senza però che con questa violazione si sia instaurato un nuovo ordinam ento spaziale capace d i regolare i rapporti tra g li stati. L a seconda guer­ ra m ondiale avviene sulla stia della crisi che si è aperta con la prim a. Schm itt accenna solo brevem ente alla possibilità d i un nuovo nomos per il futu­ ro della storia m ondiale. N on si pronuncia sulla capacità dell’egem onia anglosassone m ondiale. C iò che interessa segnalare in conclusione è il fatto che con II nomos della Terra questo autore ci offre una radicale reiterpretazione del ‘politico’ : se ne II concet­ to del politico, infetti, retrocedeva dallo stato, com e form a politica specificam ente m oderna, al ‘politicò’, com e m om ento originario di ogni costituzione politica, ne II nomos della Terra il giurista tedesco com piè un salto ulteriore e, ancora p iò ‘origina­ riam ente’, retrocede dal ‘politico’ al nomos, qualificando quest’ultim o com e la figura originaria della form a politica.

2 .2 A n to n io G ram sci N el quadro degli sviluppi del m arxism o nella prim a m età del N ovecento la figura e il pensiero d i Gram sci (18 9 1-19 3 7 ) rivestono un m olo d i grande im portan­ za per l’im pegno sul piano pratico e sul piano teorico, per l’am piezza delle còno-

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scenze e delle vedute e p er la sua capacità d i penetrare nelle problem atiche della sua epoca oltre che nelle questioni relative al socialism o e al comuniSm o. D i origine sarda G ram sci si trasferisce a Torino nel 1 9 1 1 per frequentare l’uni­ versità. G ià in contatto con le nrgani77.a7.inni socialiste, a Torino può conoscere diret­ tam ente la realtà operaia della grande industria: studia con accanim ento e contem ­ poraneam ente si accosta alla vita politica e nel 1 9 1 3 si iscrive al Partito socialista. Svolge un’intensa attività giornalistica, collabora con la redazione torinese dell’«Avanti» e nell’aprile del 19 19 fonda «L’O rdine Nuovo». Fin dalle prim e battute della R ivoluzione bolscevica in R ussia ha preso posi­ zione a fo rare, percependone il rilievo m ondiale e g li im m ancabili riflessi. In disac­ cordo crescente con il Partito socialista egli partecipa alla scissione d i Livorno, entra a fa r parte del Partito com unista d’Italia ed è m em bro del com itato centrale. R ap­ presentante del partito a M osca presso l’Internazionale com unista, p oi a V ien n a con com piti d i coordinam ento, si sottrae alle prim e ondate d i arresti che si verificano dopo la m arcia su R om a. N el 19 2 4 è eletto deputato al Parlam ento italiano e nel 19 2 6 nel congresso di Lione del partito il suo grappo ottiene una larga m aggioranza. Arrestato nel novem ­ bre dello stesso anno, nonostante l’im m unità parlam entare, prim a è assegnato al con­ fino d i polizia nell’isola d i U stica, poi, condannato, è rinchiuso nel carcere d i T uri dove resta fino al 19 3 3 e dove le sue condizioni d i salute, già segnate, peggiorano. Trasferito successivam ente in varie cliniche, viene definitivam ente liberato quando gli restano poch i giorni d i vita.

D al neoidealismo rivoluzionano a l leninismo reinterpretato. N egli scritti giovanili che vanno dal 1 9 1 3 al 19 18 Gram sci si presenta su posizioni socialiste rivoluzionarie: l’obiettivo della società socialista è perseguito senza gradualism i riform isti m a con vibra­ ti appelli di forte richiam o etico, secondo una fede laica e socialista che partecipa del clim a volontarista e spiritualista dell’epoca. E gli reagisce alle incrostazioni positivistiche che si sono accum ulate nel m arxism o della Seconda Internazionale e lo la utilizzando da una parte gli strum enti offerti dal neoidealism o d i Croce e Gentile (soprattutto la lettura che Gentile dà di M arx) e dall’altra le idee di Sorel e di Bergson. C ontro le visio­ n i evoluzionistiche e determ inistiche che circolano am piam ente sia nel m arxism o rifor­ m ista che in quello rivoluzionario, il giovane Gram sci, sensibile alle istanze anarco-sindacaliste, è critico verso la dem ocrazia rappresentativa dello stato borghese, esalta i valo­ ri collettivisti della nuova civiltà proletaria, m a passando attraverso la conquista della libertà interiore, attraverso il senso del dovere che fa di ciascun uom o un «creatore della storia (rivoluzionario)» 2, quindi con uno spostam ento dalla struttura alla sovrastruttu­ ra che riduce la parte oggettiva a vantaggio dell’im pulso soggettivo, volontario. L a R ivoluzione d’ottobre rappresenta la storica conferm a del valore della sog­ gettività nel m om ento della rottura rivoluzionaria, m a, contem poraneam ente, in­ duce G ram sci ad attenuare l’antistatalism o precedente, attira la sua attenzione sul ruolo del partito e gli pone il problem a di cercare n d la realtà italiana un possibile equivalente del soviet, che in R ussia h a rappresentato l’elem ento determ inante per

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sostituire alle inique illusion i della dem ocrazia rappresentativa la nuova, autentica form a della dem ocrazia popolare. L e agitazioni operaie del dopoguerra, le incertezze del sindacato, la percezio­ ne d i uno stato d i crisi crescente n el Partito socialista, nonostante i successi eletto­ rali, portano G ram sci a individuare nei C on sigli d i fàbb rica i p un ti d i forza, capa­ ci d i superare l’orizzonte del capitalism o e in grado d i fondare l’organizzazione dello stato proletario. I C on sigli d i fabbrica, che raccolgono i delegati d i tutti i lavoratori d i una azienda (anche d i quelli che non sono socialisti) e che dim ostrano la capacità di autorganizzazione dei produttori, sono organi d i gestione proletaria del potere eco­ nom ico e politico, sono organism i d i contropotere alternativi sia al sindacato tradi­ zionale che al partito e sono luogo d i educazione delle m asse3; essi form ano le cel­ lu le d i u n nuovo ordine che si m anterrà dinam ico e che riorganizzerà l’econom ia, la convivenza sociale, la realtà politica. Il tem a dei C on sigli d i fabbrica è posto al cen­ tro delle argom entazioni svolte nel settim anale «ordine nuovo», fondato nell’aprile del 19 1 9 assiem e a Tasca, T ogliatti e Terracini (e che uscirà in questa form a fin o alla fin e del 19 2 0 ), perché essi rappresentano in Italia l’equivalente dei soviet russi dei soldati, dei proletari e dei contadini. L e vene neoidealiste e d i ascendenza soreliana e bergsoniana com inciano ad essere riviste e ripensate alla luce degli scritti d i R osa Luxem burg e di Len in. M entre di 11 a poco com incia a farsi strada l’ influenza d i Bordiga e del suo m ovim ento, che punta invece sulla centralità del partito e che in fatti è il protagonista della scissione d i Livorno e della fondazione del Partito com unista d’Italia. Se dunque dal 19 19 al 19 2 0 il pensiero d i Gram sci è preso dalla costruzione del sistem a dei C onsigli, negli anni im m ediatam ente successivi diviene dom inante il tem a del partito. Infetti la spinta del biennio rosso si attenua, le insufficenze del Partito socia­ lista gli sem brano sempre gravi e irreversibili e, pur m antenendo férm a la convinzione che i C onsigli giochino un ruolo fondam entale nella form azione della coscienza pro­ letaria e nella m obilitazione delle masse, egli giunge a ritenere che sia il partito «la supe­ riore form a organizzativa)) del proletariato e che sia esso a costituire la forza propulsiva della rivoluzione. «Scoperta la centralità del partito rivoluzionario com unista, Gram sci, anche per l’assiduo dialogo con i com pagni d i Lenin nell’Internazionale com unista, nel 19 2 2 -19 2 3 , nonché per la riflessione sulla sconfitta della sinistra operaia da parte della reazione fascista, m atura un nuovo atteggiamento» (Livorsi 19 9 7 , p. 62). Si tratta del realism o politico che deve guidare l’elaborazione e l’attuazione della linea del partito. Il realism o politico si precisa negli anni che vanno dal 19 2 4 al 19 2 7 , quando Gram sci diventa un capo storico del Partito com unista e giunge a prendere il sopravvento sii Bordiga, m a ha delle premesse nelle riflessioni precedenti e in una certa lontananza che fin dall’inizio cera rispetto alle posizioni di Bordiga, caratterizzate dal dogm atism o e da una visione verticistica del partito. Aggiungiam o che in questo periodo le alte responsabilità politiche, che egli si trova a sostenere, gli im pongono di confrontare quotidianam ente con la prassi e in condizioni particolarm ente difficili tutte le istanze ideali coltivate negli anni precedenti.

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Fin dalle considerazioni sulla organizzazione consiliare Gram sci ha ben presen­ te E problem a d i conciliare in un organism o collettivo le esigenze della dem ocrazia con quelle dell’efficienza e della disciplina. A l proposito ritiene.che coloro che sono stati investiti di responsabilità siano revocabili in nom e della suprem azia della volontà politica collettiva e che la disciplina è necessaria nella m isura in cui si esegue una linea che si è contribuito ad elaborare. Q uesta problem atica si ripropone evidentem ente nel partito nel rapporto tra organi dirigenti e base e in term ini p iù am pi nel rappor­ to tra partito e masse proletarie: in polem ica con la centralizzazione tendenzialm en­ te burocratica di Bordiga, Gram sci sostiene «la dem ocrazia [ ...] com e una condizio­ ne necessaria per dare capacità d i intervento, di iniziativa e di direzione politica all’in­ siem e del partito» (SALVADORI 19 7 3 , p. 19 ). L a centralizzazione e l’unità non posso­ no essere interpretate in term ini troppo m eccanici, pena E distacco dei vertici dai bisogni e daEe percezioni deEe m asse. D ’altra parte la questione deUa disciplina non si pone soltanto aE’interno del partito, m a riguarda anche i rapporti tra E partito nazionale e l’Internazionale com unista: Gram sci non crede neUa validità di procedu­ re giuridico-form ali, a suo parere è solo attraverso i contenuti concreti deUa «prassi» che si può assicurare che i bisogni storici del proletariato vengano interpretati e rap­ presentati adeguatam ente dagli apparati organizzativi anche a livello internazionale. Q uindi le disposizioni deU’Internazionale sono vincolanti (contro Bordiga) per i par­ titi nazionali, m a devono scaturire da un forteprocesso di interazione tra vertici e base e tra base e vertici ai diversi livelli, altrim enti determ inano un funzionam ento ano­ m alo e dannoso. C osi, anche in riferim ento aEe lotte che si scateneranno aE’intem o deE’Internazionale, Gram sci si pone seguendo E criterio che la rivendicazione deE’unità e deUa disciplina n on deve essere burocratica, m a fondata piuttosto sul m om en­ to della dem ocrazia e sem pre neU’ottica internazionale (e non esclusivam ente russa). Per quanto riguarda la situazione italiana l’avvento del fascism o è interpretato com e conseguenza deUa gracilità e deE’arretratezza deEa dem ocrazia liberale quale si è venuta svEuppando in Italia e in relazione a una serie d i fenom eni p iù specifici del dopoguerra com e l’esplosione deE’associazionism o d i m assa, l’espansione dei m ovi­ m enti rivendicativi, lo scadere deUa piccola borghesia, la crisi del Parlam ento. D avanti al governo M ussolini e aEa crisi che segue al delitto M atteotti la p olitica del Partito com unista non può arroccarsi in difesa della sua purezza dottrinale (Bordiga) e deUa sua superiorità m orale: anche in ossequio aEe direttive leniniane del «fronte unico», E realism o pohtico d i G ram sci consiglia la ricerca d i intese non solo con i socialisti m a d i aEargare E confronto con la sinistra liberale e suggerisce una serie di iniziative tattiche. H pensiero d i G ram sci, che prim a si preoccupava d i disegnare la strategia proletaria per la «guerra d i m ovim ento», si concentra ora sui term ini d i quel­ la che, diveniva una «guerra d i posizione». A i tem i deUa rivoluzione e del m utam en­ to subentrano i tem i del potere e deUa sua stabilizzazione e in questo am bito si apro­ no due linee. D a una parte sul piano p iù teorico G ram sci pensa al rapporto tra società dvE e e stato, aEe condizioni della classe dom inante, aE’ideologia del consen­ so, e abbozza l’idea del blocco storico; dall’altra sul piano deUa prassi poEtica è lan­ ciata la parola d’ordine dei com itati operai e contadini e si avanza l’idea deE’Assem ­

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blea repubblicana basata su tali com itati. S i apre quindi lo spazio p er una fase tran­ sitoria, per un interm ezzo dem ocratico, che resta sempre di passaggio perché il m odello di dem ocrazia da raggiungere resta sem pre quello dei C onsigli.

L a riflessione incom piuta dei Q uaderni del carcere. «È solo in carcere che le posi­ zioni dottrinali, in Gram sci, giungeranno a farsi pensiero politico nuovo. È 11, a par­ tire dal 19 2 8 , che G ram sci da politico colto capace d i intuizioni dottrinarie acute si fa pensatore politico in senso forte» (Livorsi 19 9 7 , p. 64). N ei Quaderni del carcere il nostro autore ripensa la sconfitta delle sinistre nei paesi dell’Europa occidentale, riflette ancora sull’ascesa del fascismo in Italia e sul R isorgi­ m ento com e «rivoluzione passiva», approfondisce sui tem i della classe dom inante e dello stato, ritorna sul partito proletario e sui rapporti dem ocratici. E tutto questo avvie­ ne secondo angoli di visuale più. distaccati e p iù am pi, tenendo conto delle grandi tra­ sform azioni che il capitalism o sta vivendo e sta dilatando e dei m utam enti che questo processo genera in riferim ento ai lavoratori, ai rapporti sociali e a quelli politici. L’interpretazione.che G ram sci dà delle vicende risorgim entali vede i m oderati alla testa d i uriam pia e solida aggregazione sociale che guidano in quanto espressio­ ne delle classi p iù elevate, facendo sì che i m utam enti si m antengano nei lim iti di una «rivoluzione senza rivoluzione» (la rivoluzione passiva). Il Partito d’azione non aveva uriautonom a base sociale, non potè quindi sottrarsi all’attrazione dei m odera­ ti e non riuscì a im prim ere un carattere p iù popolare al nostro R isorgim ento. O vvero il Partito d’azione non riuscì a riprodurre in Italia quanto avevano latto i giacobini durante la R ivoluzione fiancese, che erano riusciti a realizzare il legam e tra città e cam pagna, saldando le rivendicazioni contro i privilegi della borghesia cittadina a quelle dei contadini contro i persistenti d iritti feudali sulla base d i alcuni principi che, in quel preciso m om ento storico, erano in grado d i rappresentare in sintesi le esigenze d i larghissim i strati della popolazione e per questo dim ostrarono un a straor­ dinaria forza d i aggregazione. N elle considerazioni storiche, riportate in estrem a sintesi, si sviluppa dunque l’id ea del blocco storico, che, secondo G ram sci, in Italia si m antiene attorno a i m ode­ rati, che stringe ceti diversi, che si avvale di una vasta interm ediazione culturale, che può.contare sul fatto che la penisola non h a vissuto gli effetti em ancipatori della R iform a. I giacobini, invece, con energia e risolutezza seppero im porsi alla borghesia fiancese spingendola oltre quelli che erano i suoi interessi im m ediati; forzarono la situazione e la costrinsero a farsi carico delle esigenze del dom ani e delle esigenze di p iù larghi strati; in altre parole essi si fecero prom otori d i una vasta aggregazione e giunsero a creare una nuova egem onia politico-sociale. «Essi fondarono non solo lo stato borghese, scrive Gram sci, fecero della borghesia la classe ‘dom inante’, m a fece­ ro d i p iù [ ...] fecero della borghesia la classe dirigente, egem one, cioè dettero allo stato un a base perm anente» (G ramsci 19 7 5 , vo i. I, p. 5 1) . I principi della libertà, del­ l’eguaglianza e della fraternità e il valore assegnato allo status d i cittadino, che nel­ l’O ttocento si cristallizzano nelle istituzioni e nelle procedure form ali dello stato costituzionale, nell’applicazione duttile che G ram sci fa del m aterialism o storico,

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durante la Rivoluzione francese sono potenti strum enti d i lotta: rispondono alla cor­ retta valutazione dei bisogni popolari da parte delle avanguardie rivoluzionarie, si fanno intelletto e volontà delle masse, e proprio per questo sollecitano in profondità l’adesione e la m obilitazione collettiva. L’egem onia si presenta dunque com e capacità d i esprim ere e diffondere le idee nei contesti in cui le persone si possono aggregare e gli scontri d i classe trovano il loro teatro d’azione non solo nei rapporti d i produzione m a anche nella capacità d i ela­ borare una visione del m ondo autonom a, diffusa e organizzata e nella capacità di atti­ vare un rapporto efficace tra teoria e prassi, tra pensiero e azione, tra elaborazione delle ideé e sfera in m ovim ento dei rapporti politico-sociali. Il problem a dell’egem o­ nia, d’altra parte, indica com e accanto alla coercizione (tradizionalm ente assegnata alla sfera politica) v i sia una larga area popolata dal consenso, che conduce com un­ que agli stessi effetti d i ossequio polidco. Il com pito di creare una nuova egem onia risulta dunque em inentem ente p oli­ tico e spetta inequivocabilm ente al partito politico. Per questo G ram sci ritorna al pensiero di M achiavelli, riprende la figura del principe’ e parla del partito com e del m oderno principe: nella società novecentesca n on si dà p iù il potere personale d i un singolo (se non p er un’azione «im m ediata e im m inente»), il principe non può esse­ re che un organism o collettivo: «un elem ento d i società com plesso nel quale già abbia inizio il concretarsi d i una volontà collettiva riconosciuta e afferm atasi par­ zialm ente n ell’azione» (G ramsci 1975, voi. Ili, p. 1558) e la funzione storica del partito è quella d i organizzare una volontà collettiva diventando lo strum ento della prassi di questa, attraverso una dialettica in cui il gruppo dirigente interpreta la volontà popolare e contem poraneam ente diffonde gli strum enti perché questa rie­ sca ad esprim ersi sem pre p iù chiaram ente e com piutam ente. I m em bri del partito devono avere la tem pra adatta p er plasm are la storia e il partito deve essere «il ban­ ditore e l’organizzatore d i una riform a intellettuale e m orale, ciò che p oi sign ifica creare il terreno p er un ulteriore sviluppò della volontà collettiva nazionale popola­ re verso il com pim ento d i una form a superiore e totale d i civiltà m oderna» {ivi, p . 1560). L’obiettivo è quello d i arrivare ad im a m aturazione delle m asse, che le renda autonom e dalle incrostazioni ideologiche borghesi, che le renda capaci d i quella creatività politica che non sanno ancora esprim ere, in m odo che il rapporto che le lega ai vertici superi la divisione governanti-governati e diventi fluido e posi­ tivo e fattivo sia in una direzione che nell’altra. L a riform a intellettuale e m orale diventa allora condizione d i un a nuova dem ocrazia, im pedisce le tendenze al burocraticism o e dà un segno diverso alla disciplina e all’efficienza. C o n riferim ento al neoidealism o degli anni giovanili da una parte e al pensie­ ro d i M arx dall’altra, non si può non notare che già col concetto d i egem onia e p iù ancora con questo com pito della riform a il pensiero d i G ram sci si m uove su d i una dim ensione etico-culturale che sem bra allontanarsi dagli schem i del m aterialism o m arxiano (dal prim ato, anche se in ultim a istanza, delle forze produttive e dei rap­ p orti d i produzione) o che perlom eno dà un am pio spazio agli aspètti ideologico-soggettivi à scapito di quelli strutturali e Oggettivi. Q uesto può ancora rientrare nella

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prospettiva del m aterialism o storico, nella m isura in cui rappresem i l’analisi approfondita d i una realtà m utata e non più. interpretabile nei term ini precedenti dei rapporti m arxiani tra struttura e sovrastruttura. D i fatto negli anni tra le due guerre m ondiali il capitalism o internazionale è cam biato e i Quaderni del carcere tornano ripetutam ente sul tem a del fordism o e dell’am ericanism o.

Am ericam ism o efordism o. D im ostrando d i non aver dim enticato quell’atten­ zione alla fabbrica che aveva contraddistinto il periodo delT«O rdine N uovo», G ram sci analizza la nuova organizzazione del lavoro in trodotta alla fin e dell’ O tto­ cento nelle fabbriche am ericane della Ford, ne osserva g li sviluppi e li correla ai fenom eni dei trust, dei cartelli, del m oltiplicarsi delle società per azioni e p oi alla grande crisi del 19 2 9 . A suo parere la ristrutturazione fordista è destinata a rap­ presentare una lin ea d i tendenza d i lungo periodo che si estenderà all’Europa e che im plicherà una razionalizzazione e una program m azione accentuata dei rapporti e dei com portam enti. L a riorganizzazione in atto negli Stati U n iti disegna un m ec­ canism o dal respiro m ondiale, che con gli alti salari e l’incentivazione dei consum i attua un ricam bio delle classi dirigenti e contem poraneam ente integra le «masse in m ovim ento», creando un nuovo tip o di lavoratore, in un processo che si può ricon ­ durre all’idea della «rivoluzione passiva». G ram sci interpreta questo processo com e il passaggio dal «vecchio individua­ lism o econom ico all’econom ia program m atica» {ivi, p. 2 13 9 ) e vede, com e ele­ m ento caratterizzante di quest’ultim a, «la form a non statalistica d i direzione dell’e­ conom ia» ( M o n t a n a r i 19 9 7 , p. 14 0 ). In fatti l’«econom ia program m atica» che si realizza in A m erica «crea una tram a com plessa d i m ediazioni sociali e civili (asso­ ciazionism o, luoghi e regole d i scam bio) che consente im a continua circolazione delle inform azioni e un controllo delle decisioni relative alla produzione e alla distri­ buzione delle m erci» (ibidem ): im a realtà econom ico-sociale a p iù polarità, lontana m ille m iglia dalla program m azione sovietica d i tip o statalistico-m ilitare. D a questo quadro discendono tante conseguenze im portanti e problem ati­ che. L a p rim a riguarda il rapporto che si creerà tra p o litica ed econom ia: rapporto destinato ad articolarsi su v a ri p ian i e a passare attraverso tante sfum ature e desti­ nato a registrare la tensione tra u n m ercato a p iù p o li dalla vocazione m ondiale e lo stato con le sue rad ici territoriali e nazionali. I l che preannuncia la crisi dello stato nazionale m oderno. L a seconda riguarda l’azione del partito com e m oderno p rincipe, che non si trova p iù ad operare nel terreno classico delio stato con riferi­ m ento alla parte della società civile che riesce a m obilitare, m a si trova sbilanciato verso il com plesso p iù fluid o ed eterogeneo dei legam i dell’«econom ia program ­ m atica» con le m asse prese.nelle m aglie della nuova ra 7.ionali7.za 7.inne (di qui l’im portanza d i una visione alternativa da proporre). L a terza, su tem pi p iù brevi, riguarda il passaggio d i questa form a d i organizzazione dagli Stati U n iti all’Europa, dove perm angono strutture sociali antiquate e dove il fascism o può essere pensato, allora, com e l’unica form a p o litica capace d i garantire il passaggio al fordism o e a ll’am ericanism o nei paesi m eno evoluti.

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A l fondo la riconferm a sul piano teorico di rapporti com plessi e variam ente arti­ colati tra strati culturali, legam i sociali, sfera politica, organizzazione del lavoro, pro­ duzione, m entre sul piano pratico resta in Gram sci la convinzione che il proletariato abbia perso riniziativa e stia continuando a com battere una «guerra di posizione». C om e è stato d i recente sostenuto, le elaborazioni dei Q uaderni del carcere vanno intese com e un pensiero incom piuto, d i forte spessore m a preso ancora da una serie d i oscillazioni che non trovano una sistem azione definitiva. D om inano, in ogn i caso, la spinta profonda verso una dem ocratizzazione non form ale, la richie­ sta d i un a riform a culturale capace d i innalzare le condizioni delle m asse, l’appello ad un nesso forte tra azione p olitica e im pegno educativo, nel quadro di una rete analitica e concettuale d i tutto rispetto, che fa d i G ram sci uno dei grandi del pen­ siero p olitico novecentesco.

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H a n s K elsen

L a gran parte delle opere e degli scritti di K elsen ( 18 8 1- 19 7 3 ) 4 sono rivolti alla fondazione d i una scienza giuridica rigorosa che da una parte eviti il ricorso a pre­ supposti storico-sociologici5 e dall’altra si allontani definitivam ente dalle teorie giu­ snaturalistiche e dai loro pretesi valori assoluti. L a «teoria pura del diritto», che Kelsen m ette a punto a partire dagli anni V enti del Novecento, rappresenta un apporto potente per l’approfondim ento del positivi­ smo giuridico e delle teorie form ali del diritto (si parla a questo proposito d i un neopositivism o kelseniano). Essa ruota attorno al concetto di coattività della norm a giu­ ridica, all’idea d i una struttura razionale di fondo presente in essa6, al latto che le norm e, cosi intese, si distribuiscono secondo una gerarchia. L’ordinam ento giuridico, quindi, è da pensare com e una costruzione a gradini dove la validità d i ogni norm a deriva da una norm a superiore, il che porta a una «norm a fondam entale) che sostie­ ne tutto il sistema. «Lo scienziato del diritto si occupa perciò d i un insiem e d i norm e delle quali studia la logica interna. Q ualsiasi riferim ento alla plausibilità o m eno delle norm e studiate, a un ordine giuridico ideale, a un diritto naturale che ispiri [ ...] le leggi positive, sarebbe una contam inazione ideologica della rigorosa indagine scienti­ fica» (V a l e n t t n i 19 7 6 , p. 2 9 5). L’ordinam ento giuridico viene pensato com e un uni­ verso di norm e, che vive di vita autonom a e che, solo a questa condizione, può essere studiato scientificam ente. «Il linguaggio stesso adoperato da Kelsen è scientifico, defattualizzato, deantropom orfizzato, privo affetto d i risonanze emotive» {ìbidem). Q uesta teorizzazione, che nei lunghi anni del soggiorno am ericano viene rivista e trasform ata sulla base delle accresciute conoscenze del sistem a giuridico anglosassone, sia con i suoi m eriti che con i suoi lim iti, approfondisce le problem atiche del sapere giu­ ridico novecentesco e costituisce un punto di riferim ento im portante e ineludibile. D ’altra parte, i tem i del diritto, dell’ordinam ento giuridico, della sanzione si cor­ relano strettamente a quelli del potere, dello stato, del sistem a costituzionale e non pos­ sono non rinviare alle idee politiche. E Kelsen, infetti, in una serie d i saggi che tanno

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dal 19 2 0 al 19 5 5 esprime le concezioni teorico-politiche che si intrecciano in profon­ dità (nonostante l’ambizione di una scienza depurata da presupposti ideologici) con l’e­ laborazione della teoria pura del diritto e con i suoi studi di diritto intem azionale. Esiste, quindi anche un Kelsen teorico della politica, che tra le due guerre m ondiali difende il pensiero liberaldem ocratico in crisi davanti al fascism o, al nazismo e ai regi­ m i com unisti e che in una prospettiva p iti am pia avvia un processo di «revisione» delle idee dem ocratiche di tradizione ottocentesca destinato ad un grande seguito. D a quest’ultim o punto d i vista i saggi p iù im portanti sono: Essenza e valore della democrazia, che com pare nel 19 2 0 evien e p oi ripubblicato nel 19 2 9 in una ver­ sione am pliata e rivista; I l problema del parlamentarismo, del 19 2 5 ; p oi, m olto p iù tardi (19 5 5 ), i Fondamenti della democrazìa.

La democrazia in chiave realistica. U no dei criteri d i base che Kelsen usa in que­ sti scritti e che esplicitam ente richiam a ripetutam ente è quello della distinzione tra essere e dover essere: solo una chiara separazione tra l’idealità dem ocratica e ciò che la dem ocrazia è (o può realisticam ente essere) perm ette di capire com e ci si sia allon­ tanati dalle definizioni classiche e com e alcune idee chiave che alim entano l’opinio­ ne com une non siano p iù adeguati alla realtà storica del X X secolo. Partendo dalla libertà, com e autodeterm inazione, dell’età classica e dalla libertà germ anica, com e assenza d i ogni dom inio, K elsen 7 accenna al form arsi dello stato m oderno, alle sue caratteristiche, al conflitto tra libertà individuale e ordine sociale, ai problem i insiti nelle decisioni prese a m aggioranza e, entrando nel vivo dei pro­ blem i, m ette a fuoco la discordanza tra la volontà dell’individuo e quella dell’ordine statale, la necessità dem ocratica d i ridurre al m inim o tale distanza e, d i contro, la ten­ denza storica p er cu i si è verificata una vasta m etam orfosi che h a sostituito, alla libertà individuale degli in izi, prim a la libertà collettiva p oi la libertà dello stato. G razie anche alle teorie ottocentesche che fanno dello stato una persona giuridica (che K elsen critica energicam ente), partendo dalla «volontà generale» d i Rousseau e dal principio della sovranità popolare, si è arrivati a una condizione in cui «i cittadini dello stato sono liberi soltanto nel loro insiem e, cioè nello stato; chi è libero non è il singolo cittadino, m a la persona dello stato» (Kelsen 1998, p. 54). Portato il discorso sul piano della realtà, K elsen sm onta tutta l’enfasi ottocen­ tesca con cui si è parlato del popolo e della sua unità. Q uesta, a suo parere, non è altro che una finzione appartenente all’ordine dell’ideologia etico-politica e, a soste­ gno, ricorre alla distinzione tra il popolo com e titolare del potere dem ocratico e il popolo com e insiem e degli in dividui sottoposti alle norm e, alla constatazione che il popolo attivo non coincide m ai con la totalità dei cittadini, perché i d iritti p olitici anche nel m igliore dei casi non si estendono ai m inori, agli incapaci, ecc., e al fatto che anche tra coloro che godono d i tali diritti solo una m inoranza si interessa vera­ m ente alla vita pubblica, m entre la gran parte segue l’influenza degli altri. Assum o­ no allora rilievo i p artiti p olitici, che p u r essendo a livello d i libere associazioni «rag­ gruppano g li uom ini d i una stessa opinione, per garantir loro un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici» [ivi, p. 6 2). L’individuo isolato «non h a politica­

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m ente alcuna esistenza reale». I partiti, quindi, sono essenziali al funzionam ento della m oderna dem ocrazia, m a non ci si deve fare illusion i sui loro scopi: anche se si presentano com e prom otori dell’interesse d i tutto il paese essi sono portatori sol­ tanto d i interessi di gruppi specifici e si basano fondam entalm ente sull’«egoismo». U gualm ente non ci si deve m eravigliare se n ella dinam ica delle azioni parlam entari i provvedim enti che risultano sono frutto d i com prom essi: «la form azione del popo­ lo in p artiti p olitici è, in realtà, un’organizzazione necessaria affinché questi com ­ prom essi possano ven ir realizzati, affinché la volontà generale possa m uoversi lungo una linea media» {ivi, p. 69). C ontinuando nella sua opera di dem istificazione, Kelsen tocca anche l’idea, lar­ gam ente usata negli scritti dem ocratici dell’ O ttocento e con ascendenze ben più. lon­ tane, dell’interesse generale com e scopo che caratterizza l ’azione dello stato: un’idea che vede nello stato l’entità che si innalza al di sopra delle parti e che in quanto tale è capace d i una direzione im parziale e giusta della cosa pubblica. In realtà, egli nota, lo stato (com e i partiti) anche se proclam a finalità universali (per am m antare ideolo­ gicam ente i suoi provvedim enti), agisce sem pre in funzione di interessi d i settore; l’interesse generale non esiste; il m assim o che si può raggiungere dipende dai com ­ prom essi che le varie parti possono raggiungere in Parlam ento. A ltro punto chiave della dem ocrazia m oderna è la rappresentanza fid u ciaria8, che consente d i pensare il Parlam ento com e politicam ente rappresentativo del popo­ lo. A nche in questo caso K elsen non esita a usare il concetto d i finzione e a sm a­ scherare la finzione che sta alla base della rappresentanza politica (ogni deputato • com e rappresentante dell’intera nazione); contem poraneam ente, però, egli m ette in rilievo la funzione storica che essa h a svolto e ricorda com e fin o a che si è lottato con­ tro l’assolutism o nessuno ha pensato alla rappresentanza parlam entare in questi ter­ m ini. C ontro le critiche della destra fascista e della sinistra com unista e contro la stan­ chezza d i tante forze politiche m oderate, il nostro autore sostiene che le istituzioni parlam entari rendono possibile l’unica form a praticabile d i dem ocrazia nel N o­ vecento. «Il parlam entarism o è la form azione della volontà direttiva dello stato attra­ verso un organo collegiale eletto dal popolo in base al suffiagio universale ed eguali­ tario, vale a dire dem ocratico, secondo il principio della m aggioranza» {ivi, p . 7 5). Il principio della libertà com e autodeterm inazione non sussiste allo stato puro, deve convivere con il principio m aggioritario e con la form azione indiretta della volontà politica, soprattutto si deve adattare, nell’articolazione tra governo e Parlam ento, alla «necessità ineluttabile» della divisione del lavoro portata dal differenziarsi della società; in questi term ini, secondo K elsen, il Parlam ento resta l’istituzione dom inan­ te d i una dem ocrazia e la riprova viene dai regim i autocratici dove il Parlam ento esi­ ste (proprio in forza della divisione del lavoro), m a è rigidam ente subordinato alla volontà del governo o del capo e ha perso le funzioni d i controllo sugli altri organi e d i com posizione degli interessi divergenti. N elle dinam iche istituzionali, proprio da questo punto d i vista e com e ele­ m ento basilare p e rla dem ocrazia, gioca un m olo im portante il principio di m aggio­ ranza. S i tratta di un principio che investe il punto delicatissim o dei rapporti tra l’au­

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tonom ia dell’individuo e le decisioni collettive necessarie per l’ordine sociale. A prim a vista sem brerebbe che solo quando una decisione è presa all’unanim ità sia rispettata la libertà individuale, m a sul piano dei rapporti concreti e degli interessi vari e spes­ so divergenti runanim ità appare del tutto im praticabile: «la dem ocrazia rinuncia [ ...] all’unanim ità che, ipoteticam ente, si sarebbe applicata alla sua fondazione p er con­ tratto e si accontenta delle decisioni prese dalla m aggioranza, lim itandosi ad avvici­ narsi al suo ideale originario» {ivi, p p . 4 9 -50 ). L’adozione del principio della m ag­ gioranza, d’altra parte, non si giustifica solo in term ini d i eguaglianza e d i quantità. K elsen parla d i una trasform azione del principio originario d i libertà individuale: non è p iù soltanto che tutti coloro che hanno votato con la m aggioranza agiscano obbe­ dendo alla propria volontà: anche chi vo ta con la m aggioranza non è p iù sottom es­ so unicam ente alla sua volontà, perché p u ò cam biare idea e si trova davanti a una volontà che è diventata esterna, oggettiva. L a presenza della m inoranza, allora, gioca un ruolo della m assim a im portanza: è la salvaguardia della m inoranza quella che atte­ n u a la distanza tra il principio della libertà e le decisioni a m aggioranza e che rispon­ de alla finizione fondam entale d i salvaguardare i diritti del cittadino. D ’altra parte, secondo Kelsen, la prassi parlam entare m ette in evidenza anche il secondo aspetto fondam entale del rapporto m aggioranza-m inoranza, ovvero la tendenza a raggiun­ gere dei com prom essi II tem a del com prom esso è già em erso e sotto questa angola­ tura appare nella sua portata p iù vasta. L e istituzioni parlam entari, in fetti, trovando­ si in presenza d i ideologie e interessi diversi, agiscono nel senso d i un continuo sfor­ zo per favorire ravvicinam ento delle parti e le soluzioni d i com prom esso, selezio­ nando ciò che accorcia le distanze e scartando g li elem enti di divisione. Per il nostro autore questo effetto del com prom esso è da intendere in tutta la portata positiva del term ine, perché significa due cose: che il principio m aggioritario si contrappone al dom inio d i classe e, contem poraneam ente, sul piano delle idee, che nessuna conce­ zione politico-sociale è considerata com e verità superiore e assoluta. D i qui l’opposizione dei m arxisti al principio m aggioritario, perché il conflitto di classe a loro parere non è risolvibile col com prom esso, m a può trovare soluzione solo ricorrendo a «violenti m etodi rivoluzionari» (ivi, p. 1 14 ) , e di qui risalta anche la «netta differenza fra il tipo reale della dem ocrazia e quello dell’autocrazia, poiché, in regim e autocratico, nella form azione della volontà dello stato non v i è possibilità d i un com prom esso fra direzioni politiche opposte o, per Io m eno, questa possibilità è assai scarsa, poiché iv i sono praticam ente im possibili una corrente e una controcorrente politiche» (ivi, p. 1 1 2 ) . Il confrontarsi teorico d i K elsen con le problem atiche politiche del prim o dopoguerra e con le critiche rovesciate contro la liberaldem ocrazia, se da un lato p orta alla contestazione stringente della ideologia dem ocratica ottocentesca nei p un ti cardine che abbiam o visto, dall’altro im plica una difesa e il rilancio della dem ocrazia definita in term ini realistici assiem e a una serie di indicazioni pun tuali p er l’assetto istituzionale. C o i suoi scritti K elsen apre la strada a quella definizione d i dem ocrazia com e m etodo che avrà tanto successo nel periodo della guerra fred­ da e che costituirà uno dei capisaldi della scienza p olitica am ericana ed europea del

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secondo N ovecento. In fetti leggiam o: «è caratteristico della dem ocrazia non tanto che la volontà dom inante sia la volontà del popolo, quanto che un am pio strato dei sottom essi all’ordine sociale, il m aggior num ero possibile di m em bri della colletti­ vità, partecipi al processo della form azione della volontà quantunque soltanto — alm eno di regola — ad un certo stadio di questo processo, chiam ato legislazione e solo con la creazione dell’organo legislativo» {ivi, p. 12 8 ). Com parando il sistem a autocratico, dove il potere è concentrato nelle m ani d i un unico capo, e quello dem ocratico dove il governo è subordinato al Parlam ento, costituito da alcune cen­ tin aia d i m em bri, il nostro autore può concludere che nel secondo caso il problem a centrale è costituito dalla «creazione d i questi num erosi capi», ovvero che elem ento essenziale per la «dem ocrazia reale» è «un m etodo particolare d i selezione dei capi dalla collettività dei governati» {ivi, p. 13 2 ). L’elezione, viene ribadito, è un m etodo d i creazione d i organi che dà corpo all’idea dei capi designati dai governati. N el caso dell’autocrazia, invece, m anca com pletam ente un m etodo d i creazione dei capi (il che vu ol dire che i passaggi d i potere sono lasciati «alla sorte della violenza») e il capo si pone com e un essere superiore, la cui direzione riveste un valore assoluto. D i qui, tra l’altro, l’osservazione, che sem bra anticipare Schum peter, per cui «è precisam en­ te il m etodo della dem ocrazia che pone la lo tta per il potere sulla base p iù am pia facendone l’oggetto di una concorrenza pubblica che crea così d a sola [ ...] la p iù grande base possibile per una selezione» {ivi, p. 13 8 ).

I l modello proposto. Per quanto riguarda il m odello istituzionale K elsen pensa ad un regim e parlam entare, corretto in senso spiccatam ente dem ocratico. Il potere del Parlam ento si basa quindi sul suffragio universale ed è un suffragio inteso in senso m olto am pio, con l’età m inim a per esercitare il diritto d i voto il p iù possibi­ le bassa e col diritto d i voto assicurato alle dorm e e a quelle categorie, com e i solda­ ti e i sacerdoti, che tendenzialm ente erano escluse. È contrario a tutte le proposte di un Parlam ento a rappresentanza corporativa, delle quali non condivide lo spirito teso a scalzare la centralità del riferim ento ai «cittadini» e che gli sem brano troppo com plicate e viziate da un evidente disegno d i conservazione sociale. Il sistem a elet­ torale che ritiene p iù adeguato è quello proporzionale perché consente a tutte le for­ m azioni politiche d i presentarsi con la speranza plausibile d i essere votati ed eletti. Im portante è il ruolo riconosciuto ai partiti organizzati, che stabilizzano i rapporti tra eletti ed elettori in assenza d i un m andato im perativo e che sem brano prendere il posto dei deputati nel «rappresentare il popolo». Il nostro autore a questo propo­ sito accenna alla trasform azione dei partiti da associazioni private in organism i costi­ tuzionalm ente riconosciuti, si pone il problem a d i garantire la loro dem ocraticità interna ed am m ette la possibilità che ciascun partito, m antenendo ferm o il suo «peso» elettorale, sostituisca i propri deputati con esperti in funzione dei tem i da discutere. D ’altra parte, sem pre nell’intenzione d i istituzioni che si avvicinino al cri­ terio ideale della rappresentanza, è favorevole a quegli istitu ti d i dem ocrazia diretta che possono dare voce ai cittadini e possono equilibrare le tendenze burocratizzan­ ti dei partiti e pensa sia al referendum abrogativo che alla possibilità d i iniziativa

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legislativa per i cittadini, m ediante progetti d i legge presentati da un certo num ero d i prom otori e sottoposti p oi a referendum . Q uesto, dunque, il pensiero politico che si intreccia all’elaborazione della teo­ ria pura del diritto e che vuole avere una precisa com patibilità con la forte im posta­ zione scientifica che K elsen dà a tu tta la sua opera. L a m etodologia d i questo autore, in fetti, è «strettam ente analitica» e vuole escludere dal discorso scientifico ogn i giudizio d i valore, in quanto ritiene, com e W eber, che questi siano al d i là d i ogn i argom entazione razionale. In fetti K elsen appartiene alla vasta schiera di autori che nella prim a m età del N ovecento inclinano per il relativism o filosofico e, m ediante un processo analogico, egli m ette in rappor­ to esplicitam ente questa posizione filosofica con i caratteri del sistem a dem ocratico: «chi ritiene inaccessibili alla conoscenza um ana la verità assoluta e i valori assoluti, n on deve considerare com e possibile soltanto la propria opinione, m a anche l’opi­ nione altrui. Perciò il relativism o è quella concezione del m ondo che l’idea dem o­ cratica suppone [ ...] ; perciò la dem ocrazia dà ad ogni convinzione politica la stessa possibilità di esprim ersi e di cercare d i conquistare l’anim o degli uom ini attraverso un a libera concorrenza» {ivi, p . 14 9 ). N em m eno gli scienziati politici sono in pos­ sesso d i verità politiche cosi sicure d a poterle im porre. N on resta quindi che ricorre­ re al principio della m aggioranza, che vale com e m etodo, m a che non può, nem m e­ no lu i, essere assunto come principio assoluto. Sul piano delle istituzioni la dem ocrazia può essere considerata com e il risulta­ to p iù alto raggiunto dalla civiltà occidentale a seguito d i un a elaborazione com ples­ sa e plurisecolare, m a davanti all’antidem ocratico non si può andare oltre l’accum ulo d i argom entazioni: in un orizzonte relativistico non h a spazio l’idea d i una dim o­ strazione razionale capace d i intaccare delle credenze orientate verso altri valori. Interessanti, com unque, e significative le considerazioni sui caratteri, quando K elsen traccia il profilo del tipo dem ocratico d i personalità, «che desidera la libertà n on solo per se stesso m a anche per gli altri» {ivi, p . 2 4 2 ), che si pone su d i un piano d i egua­ glianza nei loro confronti e si presenta disposto al dialogo e all’autocritica, e Io pone a confronto con quello dell’assolutista (fanatico, intollerante e violento), «che corri­ sponde a un tipo di esagerata coscienza d i sé», che è incapace d i «riconoscere e rispet­ tare il proprio sim ile com e un altro ego» {ivi, p . 24 4 ) ed è adatto sia all’esercizio di un com ando autoritario che all’osservanza della p iù rigida disciplina. C ritico dell’ideologia e della retorica ottocentesca della dem ocrazia il m erito di K elsen com e pensatore politico è, in sintesi, quello d i offrirne un a concezione depu­ rata e realistica d i democrazia.

Sulla sovranità estera. Per quanto riguarda la sovranità estera, sulla base d i un giudizio d i valore, Kelsen giunge a sostenere la superiorità dell’ordinam ento giuridi­ co intem azionale sullo stato. A suo parere, in fetti, lo stato non è altro che l’efFettività dell’ordinam ento giuridico statale e, partendo da questa definizione e dal rigetto del­ l’idea tradizionale dello stato com e ‘creatore’ del diritto, conferisce al concetto d i sovranità u n senso assai diverso dalle teorie precedenti. Secondo questa nuova im po­

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stazione bisogna in fetti chiedersi se l’ordine giuridico che chiam iam o statale sia l’or­ dine suprem o, oppure se esso sia sottom esso ad un ordine ulteriore: se si assume che lo stato è sovrano, bisogna anche aferm are che non esiste u n diritto intem azionale vin­ colante al di sopra d i esso (la sovranità dello stato è incom patibile con l’esistenza d i un ordine norm ativo superiore che regoli la sua condotta). Per contro, se si assum e che il diritto internazionale è un ordinam ento giuridico vincolante, allora lo stato non può essere considerato sovrano. In questo caso è il diritto intem azionale che si pone com e sovrano’, poiché com e gli individui, nell’ordinam ento statale, sono subordinati ad un ordine che regola la loro condotta reciproca, cosi gli stati, nell’ordinam ento intem a­ zionale, sono subordinati alle norm e d i quell’ordinam ento. E ffettuata consapevolm ente la propria scelta a favore della suprem azia del­ l’ordinam ento internazionale, K elsen ci tiene però a precisare che, p u r avendo necessariam ente a m onte una scelta «norm ativa», o ideologica, la propria dottrina resta im a dottrina positiva: essa si occupa d i sistem atizzare le regole positive del diritto internazionale, e non d i un d iritto d i fantasia. In particolare essa si con fi­ gura com e un a teoria m onistica dell’ordinam ento giuridico, che intende superare le contraddizioni possib ili tra diritto internazionale e diritto interno. Il pun to di arrivo della costruzione giuridica d i K elsen è dunque la configurazione d i un siste­ m a giuridico unitario fondato sul prim ato del d iritto internazionale. A suo parere la dottrina del prim ato dell’ordinam ento internazionale, oltre che possedere un notévole potere esplicativo, perm ette d i interpretare il diritto com e un a organizza­ zione dell’intera um anità e d i vederlo nell’ottica d i un vero e proprio ideale m ora­ le. Se la teoria del prim ato della sovranità statuale si accorda perfettam ente con la p o litica im perialista, quella che sostiene il prim ato del d iritto internazionale è inve­ ce intim am ente contraria all’im perialism o e h a com e finizion e essenziale proprio quella di m ostrare che le intrusioni e le conquiste sono contrarie a l diritto. T ale teo­ ria è p er sua natura pacifista e cosm opolita. Il progetto di Kelsen per il raggiungim ento della pace costituisce una suggesti­ va ripresa del progetto d i K ant d i un a «depoliticizzazione) dei rapporti intem aziona­ li a favore di una loro «giuridicizzazione>: il diritto intem azionale s i configura com e uno strum ento d i pace; la pace è la conseguenza d i una regolam entazione giuridica e non può essere concepita al d i fu ori del diritto. Il suo im pegno si rivolge quindi ad individuare strum enti tecnici per la m odi­ fica del diritto intem azionale positivo, che possano fornire u n presupposto per la rea­ lizzazione d i un ordinam ento giuridico accentrato che abbracci tutti g li stati. L’obiettivo che K elsen ritiene perseguibile nell’im m ediato, però, si lim ita ad indicare im a organizzazione intem azionale, un a unione d i stati. In altri term ini, se la m eta ultim a, la soluzione ideale del problem a della pace è l’istituzione d i uno stato federa­ le m ondiale, com posto da tutte le nazioni o dalla loro grande m aggioranza, tale svi­ luppo nell’im m ediato è im proponibile. L’obiettivo dello stato federale m ondiale sarà raggiungibile solo dopo un lungo e lento processo d i livellam ento delle differenze culturali tra le nazioni del m ondo, specialm ente se questo processo sarà sostenuto da un consapevole lavoro politico ed

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educativo in campo ideologico. D a un punto di vista strategico per Kelsen è im por­ tante individuare i passaggi essenziali per favorire l’avanzamento di questo processo. H prim o passaggio è sicuramente l’istituzione —attraverso un trattato concluso dal m aggior num ero possibile di stati, vincitori e vinti —d i una Corte intemaziona­ le titolare di una giurisdizione obbligatoria. Infatti l’assenza nel diritto intemaziona­ le di un’autorità competente in m odo generale e obbligatorio a regolare le contro­ versie intemazionale rappresenta una difficoltà di fondo per ogni sforzo di pacifica­ zione. Il prim o obiettivo è dunque quello di sottrarre agli stati interessati la preroga­ tiva di risolvere la questione di diritto e trasferirla una volta per tutte ad una autorità imparziale, cioè ad una Corte intemazionale. A questo scopo Kelsen propone un trattato che istituisce tra i contraenti una ‘Lega permanente per il mantenimento della pace’: gli stati membri sono obbligati a rinun­ ciare alla guerra e alle rappresaglie come strumenti di regolazione dei conflitti e a sotto­ porre tutte le loro controversie senza eccezioni alla decisione della Corte e ad applicare fedelmente le sue decisioni. Per Kelsen un accordo di questo tipo —che non introduce una centralizzazione incompatibile con la struttura attuale del diritto intemazionale — può essere concluso anche subito dopo la fine della guerra e anche con gli stati vinti. L a tesi secondo cui il prim o e più importante passo da compiere in direzione della pace è l’instaurazione di una Corte internazionale avente giurisdizione obbliga­ toria è confermata, secondo il nostro autore, dall’esperienza della Società delle Nazioni. L a causa principale del suo fallimento è costituita dal fatto che gli autori del patto posero al centro di questa organizzazione intemazionale non la C orte perma­ nente di giustizia internazionale, m a una specie di governo internazionale, il Consiglio della Società delle Nazioni. A l contrario il principale organismo della Lega proposta da Kelsen è la Corte internazionale e nello statuto di questa lega deve esser garantito a questa Corte il livello più alto possibile di indipendenza e imparzialità.

2 .4

D e m o c r a z ia e in te llig e n z a sociale: J o h n D e w e y

D op o un iniziale periodo hegeliano, attraverso la mediazione del darwinismo, D ew ey (18 5 9 -19 5 2 ) approda al pragmatismo. I tem i del mutamento, della tempo­ ralità e dell’unità tra soggetto e oggetto, che lo avevano originariamente attratto verso l’idealismo, nella prospettiva filosofica della maturità si traducono in un’attenzione per rinterrelazione organismo/ambiente. L’uomo, non p iù visto com e peculiare pro­ getto divino, viene riportato nel m ondo, alla natura: la mente e la coscienza stesse non sono p iù che manifestazione e attività dell’organismo, impegnato nel processò di adattamento all’ambiente. Il conoscere assurge a capacità dell’uom o di porsi in m odo prospettico, dinamico e riflessivo di fronte ad esperienze problematiche. Questa concezione della conoscenza segna una drastica e consapevole rottura rispetto alla filosofia classica. L a metafisica, da Platone in poi, è partita dall’assunto che compito della conoscenza fosse attingere, mediante la ragione o «l’intelletto puro», un m ondo immùtabile e fisso: la realtà in sé. L a filosofia classica, scrive Dewey, ha così

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contrapposto ad una «realtà noumenica che poteva essere colta soltanto attraverso la disciplina sistematica della filosofia» un «mondo fenomenico ordinario, ed empirico» (D ewey 19 2 0 , p. 36), solo reladvamente reale. D alla separazione tra mondo di senso comune e realtà in sé è derivata la progressiva divaricazione tra teoria e prassi e il con­ seguente rinchiudersi della filosofia in un discorso autoreferenziale, privo di contatto con i problemi degli uomini. L a continuità che D ew ey recupera tra processi interni e processi esterni, ovvero tra ciò che accade nella mente dell’uom o e quanto si verifica intorno a lui, conduce ad un ricongiungimento di sapere ed esperienza. L e idee scen­ dono dal mondo iperuranio per trasformarsi in strumenti con cui, non un «intelletto puro», m a tin’intelligenza attiva e creativa afferra, seleziona, comprende e ricostruisce un m ondo altrimenti confuso, sovrabbondante, mutevole e complesso. L a scoperta dell’origine contestuale, insieme spazialmente e temporalmente condizionata delle idee, riguardino esse la morale, l’arte, la politica o la scienza, chia­ m a la filosofia ad un ruolo nuovo. Se gli uomini, infatti, nella loro costante «ricerca della certezza» ( questfa r certainty), di verità im m utabili e fisse, sonò portati a rim uo­ vere e fuggire la contingenza delle loro credenze, la filosofia deve combattere questa tendenza e assumere un ruolo di «critica dei pregiudizi». U n a filosofia consapevole del carattere fallibile, sempre rivedibile, della conoscenza, dovrebbe, secondo Dewey, saper trasportare nell’ambito morale e pofitico quel m etodo sperimentale che nelle scienze naturali è stato per la prim a volta introdotto da Bacone. La filosofia, la mora­ le e la politica dovrebbero diventare scientifiche non nel senso del loro appiattirsi sul sapere delle scienze naturali, m a nella capacità di sottoporre le idee al vaglio dell’e­ sperienza e al tempo stesso al controllo di una discussione pubblica. Questa concezione della filosofia ispira l’im pegno deweyano dapprim a in ambito pedagogico e sociale, quindi, soprattutto dopo la prim a guerra mondiale, in ambito politico. Opere come The Public an d its Problem i (19 2 7 ), Individualism O ld a n d N ew (19 29 ), Liberalism a n d Social Action (19 3 5 ), Freedom a n d Culture (19 3 9 ) testimoniano lo sforzo teorico compiuto da D ew ey con l’intento di misurare la tenuta del patrimonio ideale liberale e democratico rispetto ad un m ondo in profonda trasformazione, in cui il ritmo dei m utam enti ha subito nel frattempo uriincredibile e imprevedibile accelerazione. Il vecchio individualismo americano, il credo nella possibilità dell’iniziativa e dello spirito di avventura individuali di tradursi in lavoro e opportunità di successo e ricchezza per tutti, appariva a D ew ey in contraddizione stridente con la realtà della nuova Am erica industriale. Chiusasi la frontiera con la conquista delle ultim e terre dell’Ovest, «rindividualismo rade» (rugged individualism ) del frontierm an aveva lasciato rapidamente il passo ad un «individualismo guasto» {ragged individualism ), privo di spinte ideali, teso ad una ricerca egoistica del successo economico e indif­ ferente verso i m olti che da quel successo rimanevano esclusi. L a scarsa stim a per l’a­ zione politica di cittadini educati al «vangelo dell’aiutarsi da sé», costituiva adesso un grave impedimento alla possibilità di creare un m odello di organizzazione socia­ le coerente con quella «liberazione» degli individui che dovrebbe essere, per Dewey, il fine principale del liberalismo. Le nuove forze di produzione, lasciate a se stesse,

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II X X secolo

agivano sulla società in m odo sotterraneo, sconvolgendo vecchie forme di vita e creando individui «persi» (lost), privi degli strumenti intellettuali necessari per com ­ prendere i rivolgimenti sociali in corso. Il liberalismo lockiano aveva mostrato ai suoi esordi una forte potenzialità emancipativa nella lotta contro i vincoli feudali. M a, l’idea di un individuo ato­ mistico, autonomo e dotato di «diritti naturali», che per essere goduti necessitava­ no soltanto d’essere protetti da eventuali ingerenze del potere politico e delle isti­ tuzioni, aveva reso impossibile a quello stesso liberalismo di sviluppare un’adegua­ ta sensibilità storica. Il postulato liberale per cui l’individuo deve essere lasciato a se stesso si era cosi trasformato, nell’epoca delle grandi concentrazioni di imprese industriali, economiche e finanziarie, in un’arm a al servizio degli interessi concen­ trati e organizzati della proprietà. Recuperare il nesso che lega, e non oppone, l’individuo alla società era il primo compito che D ew ey assegnava ad un nuovo liberalismo, che volesse ancora ispirar­ si al radicalismo originario di questa concezione filosofico-politica. Le condizioni collettive non devono essere considerate solo alla stregua di un condizionamento negativo o limitante: esse offrono anche risorse possibilitanti per lo sviluppo del­ l’individualità. Piuttosto che limitare in form e aprioristiche e dogmatiche lo spazio di intervento della politica e dell’ingegneria istituzionale, un liberalismo storica­ mente consapevole doveva, dunque, sapersi confrontare con le sfide contingenti, avendo in mente una dom anda fondamentale: «Quale reazione suscita questo ordi­ namento sociale, politico, o economico, e quale effetto ha sulle inclinazioni d i quel­ li che v i partecipano? Libera le loro capacità, e fino a che punto? [...] C h e tipo di individui vengono creati?» (D ewey 19 2 0 , p. 13 0 ). A partire da questa prospettiva, il nuovo liberalismo doveva per forza ricono­ scere che nelle attuali condizioni «una stabile sicurezza econom ica è un presuppo­ sto dei fini che persegue», perché solo «quando le basi della vita sono sicure, gli individui possono attivamente partecipare alla ricchezza delle risorse culturali esi­ stenti, e possono contribuire, ognuno a suo m odo, al loro futuro arricchimento» (D ewey 19 3 5 , pp. 9 9 -10 0 ). A ll’individualismo classico Dewey, tuttavia, non contrappone la soluzione col­ lettivistica. Il collettivismo, pur partendo da una p iù positiva considerazione dell’a­ zione politico-statuale, sembrava, infatti, approdare ad u n errore speculare rispetto a quello del prim o liberalismo, sostituendo al primato dell’individuo sulla società il pri­ m ato della società sull’individuo, con la conseguenza di trascurare totalmente il valo­ re della libertà individuale e della varietà delle inclinazioni umane. Se —come emer­ ge da Liberalismo e azione sociale — una qualche form a di pianificazione economica era indispensabile, D ew ey aveva in mente un controllo sociale democratico, gradua­ listico, capace di rispettare la complessità e pluralità sociale. Il nuovo liberalismo non poteva, insomma, fare a m eno della democrazia, anzi con essa in definitiva nel pen­ siero deweyano finiva per confondersi. L a concezione deweyana della democrazia si presentava quale alternativa sia rispetto alle versioni platoniche e tecnocratiche, sia alla versione benthamiana. L a

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democrazia n on può essere né governo dei tecnici o dei filosofi, né mero meccani­ smo di aggregazione delle preferenze individuali. Dem ocrazia è, per Dewey, appli­ cazione del metodo dell’intelligenza sociale. Essa è lo spazio nel quale gli individui partecipano alle decisioni collettive, sulla base di una previa, equa, distribuzione della conoscenza sociale acquisita, che consenta di sottoporre a discussione raziona­ le la relazione tra tecniche disponibili, decisioni pratiche e questioni di valore. L’aspetto più importante della, democrazia non è, nella visione deweyana, né il suf­ fragio universale né il principio di maggioranza, m a i mezzi attraverso i quali una maggioranza riesce a divenire tale: «ossia» — scrive D ew ey — «i dibattiti che prece­ dono la votazione, la m odifica di un indirizzo per venire incontro alle opinioni delle minoranze, la relativa soddisfazione concessa alle minoranze che, avendo la possibi­ lità di diventare anch’esse maggioranza, potranno diventarlo la volta successiva [...] Nessun governo di esperti, nel quale le masse non abbiano la possibilità di infor­ mare gli esperti in merito alle loro esigenze, può essere altro che un’oligarchia diret­ ta nell’interesse di pochi» (D ewey 19 2 7 , p. 16 2 ). Perché una democrazia, cosi inte­ sa, possa funzionare è, tuttavia, necessario riattivare gli spazi sociali in cui l’opinio­ ne pubblica si form a e sviluppa la capacità, di giudicare, ovvero abbattere le barriere di razza, di sesso e di classe che impediscono e distorcono la comunicazione e al tempo stesso ricreare una qualche form a di vita comunitaria. Solo all’interno della comunità, solo laddove esiste un senso riconosciuto del «noi», gli individui posso­ no prendere parte alla vita sociale, condividendo beni e valori, riconoscendo la necessità di individuare fini comuni. N o n si trattava, per Dewey; di ritornare alle vecchie form e ascrittive di vita comunitaria, m a di immaginare nuovi canali di comunicazione sociale, che riuscissero ad integrare la «Grande società», creata dalle forze impersonali del mercato, e a trasformada in una «Grande Com unità», in una «comunità di comunità», in cui la comunicazione potesse estendersi anche oltre i confini dello stato nazionale.

2 .5

B e n e d e tto C ro c e

Filosofo, storico e letterato, Benedetto Croce (18 6 6 -19 52 ) si è occupato a fondo anche di politica. Oltre a toccare alcuni nodi problematici tuttora interessanti, il suo pensiero è importante dal punto di vista storico in quanto esso ha. dominato il quadro culturale del prim o Novecento italiano, assumendo, fra gli anni Dieci e gh anni Trenta, una rilevanza anche europea. . Per Croce la realtà è il pensiero degli uomini, dato che nulla può essere detto e considerato reale senza dover prim a pensare. L o Spirito, che è-appunto la realtà nella sua totalità, non è un «ente immaginario», m a «la stessa trama storica intessuta nei millenni da innumerevoli'individui nelle loro reciproche relazioni e in quelle con le infinite forze del cosmo infinito» (B onetti 19 8 4 , p. 12 8 ). Questo manifestarsi della vita umana, si distingue internamente in quattro dimensioni di fondo —i «valori» o «distinti» quella della creazione linguistico-artistica e quella del pensiero logico da

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un lato (grado teoreti co-conoscitivo), quella dell’utile-volitivo e quella della morale dall’altro (grado della prassi). L a vita interiore di ogni uom o e dell’umanità nel suo complesso, cioè, crea il m ondo con il linguaggio e con l’intuizione artìstica, lo pensa con il concetto logico, lo rende materialmente tangibile e utilizzabile con la volontà e la prassi, e infine lo moralizza, nel senso che vede il legame fra tutte le sue parti, che impedisce di svolgere la prassi utilitaria in senso meramente egoistico e, alla fine, nichilistico. Questi quattro m om enti sono compresenti —formano un circolo, non una linea, o, come in Hegel, una Piramide —: non c’è in realtà un prim o, un secon­ do, ecc., m a confluiscono continuamente l’uno nell’altro, per cui non c’è creazione senza pensiero o morale, non c’è morale senza attenzione al proprio utile, e così via. Queste quattro dimensioni sono tutte di eguale valore. Mentre in Hegel, ad esem­ pio, la filosofia è superiore alla poesia, in Croce i quattro valori hanno la medesima rilevanza. Essi, infatti, non sono fra loro opposti, m a distìnti: sono dimensioni fra loro diverse, m a tutte ugualmente fondamentali nell’esperienza umana. L’oppo­ sizione dialettica si manifesta all’interno dei singoli distinti: fra bello e brutto, fra vero e falso, fra utile e non utile, fra buono e cattivo. L a vita politica è, secondo Croce, di natura pratico-utile. In questo senso, se filo­ soficamente egli è considerato un idealista (realtà = pensiero), dal punto di vista del pensiero politico, gli va riconosciuta una forte componente realista, che si colloca nella tradizione di Machiavelli, risentendo anche dell’influenza di M arx, al cui studio fu avviato da Antonio Labriola. L a politica è, cioè, realizzatone, anche attraverso la forza, di un utile particolare: quello, cioè, della propria comunità statuale. Tuttavia, tale dimensione utile-pratica non è opposta, m a distinta e compresente rispetto a quella morale-universale (viene qui ripresa la successione vichiana fra barbarie e civiltà, m a destoricizzata in due momenti ideali dello Spinto). Infatti, a suo avviso, è solo attuando il bene della propria comunità statuale che si attiva la dinamica storica a vantaggio dell’intera umanità. Luom o politico agisce per fini particolari, m a realiz­ za il fine universale: ecco dunque che il realismo politico, in Croce, trascende Machiavelli per aderire all’idealismo hegeliano. Inoltre, il politico è sì un uom o di parte, m a per esserlo efficacemente deve avere in sé tempra morale. Perseguire l’utile politico non significa dunque «sporcarsi le mani» o piegarsi a un male necessario: l’u­ tile non è l’egoistico, il bene del paese non è sete di potere personale. L e società umane utilizzano, per vivere e prosperare, strumenti pratici come le leggi, i Parlamenti, i governi, gli stati, i sistemi economici, ecc. Tutti questi sono infat­ ti mezzi (e non fini), che mutano a seconda delle esigenze storiche. Per Croce non esiste un diritto naturale, perché il diritto si indirizza sempre ad un fine storico, par­ ticolare, e suppone sempre una volontà che lo realizzi. Stessa cosa va detta per i par­ ticolari meccanismi istituzionali di ogni singolo stato, così come di ogni singolo siste­ m a economico: non ne esistono di migliori in assoluto, m a di adeguati alla situazio­ ne storica e alle volontà che desiderano farne uso per gli scopi di volta in volta per­ seguiti (e per il più generale fine dell’elevamento della vita umana). Un’altra identificazione operata da Croce è tra forza e consenso: ogni società, infetti, nasce dalla pressione reciproca di forze spirituali è materiali che trovano infi-

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ne un equilibrio che è il consenso. D al più liberale degli stati al più tirannico, il con­ senso è frutto della forza di taluni fatti. Anche in una tirannide c’è un consenso che viene dalla forza del fatto che, rifiutandolo, si verrebbe uccisi, cosi come nei sistemi liberali c’è comunque bisogno della forza per garantire l’ordine sociale. Ecco che allora, in ogni sistema, sono ugualmente essenziali l’autorità (rispetto delle regole, sacrificio verso gli altri) e la libertà, che non è intesa da Croce, in questo caso, come «libertà morale» della persona, m a come «spontaneità» e «gioia» del fere. La sovranità è un altro concetto politologico che Croce distrugge, dissolvendo­ lo nella sua idea generale della vita politica: essa può fersi risiedere in chi, in un siste­ m a, possiede maggiore forza, m a in fondo è in tutti, dal momento che anche il padrone subisce la forza del servo, senza cui non sussisterebbe neppure la sua auto­ rità. L a sovranità, spiega Croce, è in ultima analisi nella relazione fra tutti i com po­ nenti di un sistema sociale. Anche la distinzione fra monarchia, aristocrazia e demo­ crazia ha un significato filosofico non in quanto nei diversi casi la sovranità è diver­ samente dislocata, m a perché indica tre mom enti presenti in ogni stato: «la collaborazione che è di tutti, il consiglio che è dei pochi [...] la risoluzione che è dell’uno». D u e monarchie possono essere più differenti fra loro che, fra loro, una monarchia o una democrazia: «lo Stato Ottimo» - scriveva ancora —«è solo quello che promuove l’umano elevamento, quale che sia la classe o le classi in cui» si configura «l’astratta form a della sua costituzione». O gni singola idéologia politica, inoltre," è filosoficamente unilaterale, m a ha il merito di porre l’accento, mettendolo in evidenza, su uno di questi momenti essen­ ziali della vita dello stato. Tale merito non ha la dottrina egualitaria, che Croce distin­ gue dal «democratismo» o «giacobinismo». Il prim o, infetti, che può essere storica­ mente plausibile, è la tendenza a fer pesare p iù fòrtemente il popolo; il secondo, anche (sebbene m olto più raramente) plausibile, è il ricorso (in genere infecondo) alla violenza per imporre un ideale astratto. L’egualitarismo è invece assurdo, a suo avvi­ so, in quanto l’assoluta uguaglianza fra gli uomini farebbe venire m eno l’esigenza stessa della società, essendo in quel caso ogni individuo assolutamente indipendente, ovvero uno stato a se stante. L’unica eguaglianza possibile è per Croce quella deri­ vante dalla com une dignità umana. L a moralità della politica sta, appunto, nell’essere politica. G li ideali religiosi o morali, sono soltanto mezzi di cui la politica legittimamente si serve per creare il con­ senso. C om e si è detto, però, esiste per Croce uno stadio ulteriore alla politica, che è la morale propriamente detta. A differenza di Hegel, Spaventa e Gentile, Croce non ritiene che lo stato come entità politica attenga alla morale in sé. In tal m odo egli poteva sostenere che dal punto di vista morale avevano piena legittimità tanto i conservatori che i rivoluzionari, e questi più di quelli, in quanto preparatori degli assetti futuri. C iò faceva sì che Croce potesse distaccarsi dalle visioni autoritarie e totalitarie dello stato etico, sebbene poi rimanesse aperto l’in ­ terrogativo su com e la politica, cosi autonom a dalla morale, evitasse di diventare distruttiva, riuscendo anzi a m oralizzarsi e a costituire la base materiale del pro­ gresso complessivo della civiltà.

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Per quanto riguarda il «conflitto di valori» tematizzato altrove d a M a x Weber, Croce riteneva che l’uom o politico dovesse di volta in volta, a seconda delle parti­ colari situazioni storiche, decidere nel m odo dettato dalla propria autonom a coscienza. L a scienza non può dire nulla in proposito, se non fungere da ausiliaria (distinzione, sebbene non separazione, fra teoria e prassi). Anche qui, il rischio era d i giustificare l’arbitrio individuale, ciò che ancora una volta era evitato solo a costo di fare appello all’organicità della storia m ondiale che, frangendosi nel profondo delle diverse coscienze, riportava a razionalità globale l’unilateralità delle singole scelte. N o n si può dire perciò che manchi, nel liberalismo di Croce, la sottolineatu­ ra del prim ato della coscienza individuale, riaffermato contro la «statolatria» hege­ liana e gentiliana, anche se ciò non toglieva che egli ritenesse che in determinate cir­ costanze storiche potesse esserci la necessità di un sacrificio dell’individuo verso l’or­ ganismo sociale (morte in guerra, ecc.). L’accento posto sulle coscienze individuali non comportava che ogni singolo non potesse aderire per tutta o per una parte della propria vita, ad un indirizzo politico generale coagulantesi in associazioni o partiti politici, di cui è dunque necessario il plu­ ralismo. Il partito politico non distrugge l’autonomia individuale, dato che è il singo­ lo che si serve del partito come strumento per affermare la propria azione, e non vice­ versa. I partiti si servono delle ideologie e programmi a fini strategici, anche quando questi colgono in parte delle effettive verità. Tra opposizione e governo — secondo Croce — c’è meno differenza di quanto si creda, dato che l’opposizione, svolgendo il suo ufficio, in pratica contribuisce a governare, cosi come il governo, in realtà, noti può fare a meno di «parteggiare», ossia di seguire l’«impulso del partito a cui è ascritto». D opo l’avvento del fascismo Croce avverte la necessità di approfondire meglio il nesso fra politica e morale. L a politica come forza e utilità assume una determinata connotazione etico-politica a seconda del fine a cui è indirizzata. Se la «morale» è ciò che unifica le varie «parti» in conflitto di cui si compone il tutto sociale, la «libertà» diventa un suo sinonimo, in quanto facoltà dell’uomo di andare oltre la brutalità degli interessi naturali. Mentre nella prim a parte del secolo Croce aveva sottolineato gli aspetti duri della politica e la necessità di recuperare i valori dell’ordine e ,della disci• pllna da mediare con la libertà, ora egli si concentra sulla libertà, ch’egli vede dispie­ garsi progressivamente nella storia dell’uomo. Mentre in precedenza opponeva il libe­ ralismo alla democrazia, come ideologia egualitaria, ora Croce tende a unificare le due ideologie in un unica aspirazione antiautoritaria, parlando del liberalismo come di una tendenza che persegue a suo m odo «il sempre maggiore umanamento e l’ascendente dignità delle classi operaie e dei lavoratori della terra». Anche il socialismo viene accet­ tato come prospettiva possibile, sebbene in una form a compatibile col pluralismo e la libertà («socialismo liberale»), e non nelle forme liberticide del comuniSmo sovietico. Sebbene il liberalismo di Croce si apra a m otivi di carattere democratico, egli continua tuttavia a ritenere le classi dirigenti e non le masse i m otori della storia. Sono quelle e non queste a conferire alla società la guida etico-politica. Il fascismo, anzi, viene visto come il risultato di una fusione fra ducismo carismatico e società di m assa Per Cróce la 'classe-rion classe, la classe universale che deve dirigere gli stati

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è quella che riesce a mediare («ceto mediatore») tutti i bisogni della società, facen­ doli confluire nell’interesse generale. Il liberalismo diventa inoltre non tanto un’i­ deologia di parte, quanto lo sfondo comune (metapolidco) in cui si articola la lotta fra partiti e ideologia. In conclusione va fatto notare che il problema più evidente che è stato denun­ ciato dalla critica nel pensiero di Croce è legato al suo storicismo. Questo, infatti, rifiuta di dissolvere la storia in astrazioni giuridiche o ideologiche (critica teoretica dell’IUuminismo), in cui avvertiva una valenza liberticida, e in ciò ha in effetti avuto una funzione di critica efficace al totalitarismo. Tuttavia, Croce rifiuta non solo le astrazioni particolaristiche (la razza, la nazione, ecc.), m a anche quelle universalisti­ che (i diritti dell’uomo, la giustizia, ecc.). L a form a della «morale» è il vero limite che il filosofo pone alla storia, m a esso sfugge da un lato a determinazioni concrete ulte­ riori rispetto a quelle individuate dalle differenti coscienze individuali, e dall’altro pre­ suppone che in effetti la libertà-come progressiva civilizzazione si affermi in eterno In particolare è stato notato come la negazione di una consistenza teoretica del concetto di persona e l’espulsione di questa dall’orizzonte dei lim iti oltre cui la poli­ tica e la storia non possono andare, minacciava di giustificare, ogni violazione della libertà. È stato inoltre sottolineato che quella di Croce è più una filosofia della libertà che del liberalismo, dal momento che il suo è un liberalismo etico, che non pone al suo centro i meccanismi istituzionali (politici ed economici) della liberal-democrazia europea. L a libertà di Croce, altresì, non è sufficientemente centrata sull'individuo, m a sulla infinita creatività dello Spirito umano. Anche la svalutazione della «felicità» individuale, che aveva il senso di riportare la coscienza europea a valori più profondi dell’edonismo imperante nell’età della belle epoque e dell’imperialismó, finiva per per­ dere tutta la concretezza di quell’innalzamento della qualità umana che, pure, era alla base del pensiero crociano.

2 .6 J o sep h S ch u m p eter Econom ista eclettico e originale, m a anche lucido analista della politica del suo tempo, Joseph A . Schumpeter (18 8 3 -19 5 0 ) deve la sua influenza nella storia del pensiero politico del secolo alla riformulazione dei fondamenti teorici della dottri­ na democratica. Sebbene la parte più rilevante della sua produzione resti quella dedicata all’analisi delle teorie economiche dei cicli capitalistici — è proprio in que­ sta sede che trova sviluppo il metodo empirico che poi applicherà alla politica ( Z a n in i 19 8 7 ). Capitalismo, socialismo e democrazia, scritto nel 19 4 2 e poi ripropo­ sto in più edizioni, figura come un classico indiscusso della teoria politica del N o ­ vecento. L a teoria schumpeteriana si oppone alla dottrina classica della democrazia, cosi denominata con riferimento esplicito agli autori che tra Sette e Ottocento ne sviluppano concezione e istituzioni. Facendo leva sulle teorie kelseniane su diritto e politica, oltreché sulle analisi economiche, Schumpeter propone «un’altra teoria della democrazia» (Schumpeter

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19 4 2 , p. 234 ), con la quale si propone di riformulare in termini realistici le istanze della tradizione democratica e di adattarla ai livelli di complessità e differenziazione raggiunti dalle società moderne. L a democrazia nell’ottica di Schumpeter non può più essere vista come il regime politico che consente ai cittadini d i partecipare, diret­ tamente o indirettamente, alla decisione delle questioni politiche e di controllare l’at­ tività dei governi. Nelle società sviluppate complesse, la partecipazione, la rappresen­ tanza, ed entro certi limiti, lo stesso controllo politico risultano aspirazioni illusorie. L a democrazia è p iù semplicemente e p iù realisticamente un metodo che coin­ volge i cittadini nel processo form ale di designazione dei soggetti che dovranno deci­ dere le questioni politiche. L e istituzioni democratiche risultano cosi un insieme di procedure per ovviare al fatto che entro società evolute e altamente sviluppate dal punto di vista economico il popolo pur essendo formalmente designato come il titolare della sovranità politica non è in grado di esercitarla. Com pito delle istituzioni democratiche non è dunque quello di assicurare piena espressione politica ad un soggetto, il popolo, di cui è sempre più difficile individuare un corpo unitario, piuttosto più semplicemente e più realistica­ mente di assicurare la scelta di una guida per sistemi politici complessi in condizioni di pluralità e garanzie liberali. L a realtà è caratterizzata da una complessa stratificazio­ ne ed articolazione del corpo sociale che non può non avere conseguenze sul corpo politico, disarticolando l’unità presupposta e illusoria richiamata dal titolo di popolo. U n a visione realistica che tenga conto del complesso pluralismo sodale non può non risolversi in una visione pluralistica della politica, una concezione d oè in cui la politi­ ca è una struttura interna all’organismo della divisione sodale del lavoro analoga a quella del mercato economico. In tale prospettiva il sistema politico rinvia ad una spedalizzazione professionale e a interessi particolari degli uomini politici in quanto mem­ bri di una dasse politica differenziata (ivi, p. 272). L a funzione del Parlamento è per Schumpeter una funzione sostitutiva, nel senso che coloro che sono stati eletti fanno qualcosa che gli altri dttadini non hanno la capadtà, la competenza, il tempo o il desi­ derio di fare. Il Parlamento è dunque un organo statale che esprime atti di volontà autonomi e svolge funzioni specifiche che hanno poco a che fere con il rispecchia­ mento ‘rappresentativo’ della volontà popolare. Anzi, per questa via Schumpeter giun­ ge a sostenere la tesi apparentemente paradossale (almeno rispetto ai capisaldi della dot­ trina democratica tradizionale) che ogni tentativo di influenzare i membri del Parlamento e di condizionarne la libertà d’azione mediante pressioni dal basso, perfi­ no con l’invio di lettere e telegrammi, deve essere rigorosamente messo al bando come un attentato alla razionalità della divisione del lavoro nella sfera politica. Il cittadino vede cosi ridotto il proprio spazio politico al solo momento elettorale. È chiaro che la teoria procedurale della democrazia che Schumpeter propone mette in secondo piano i valori che la dottrina classica aveva proposto come bagaglio propulsivo per lo sviluppo delle democrazie nell’Europa del X I X secolo. Si può dire che essa si presenta come una versione assiologicamente neutralizzata: non sono i valori tutelati o gli obbiettivi perseguiti quelli che contano, il m etodo democratico si definisce esclusivamente per il rispettò delle procedure di produzione del governo, ed

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in linea di principio è compatibile con qualsiasi obbiettivo e con qualsiasi valore. Certo è che resta fondamentale nella visione di Schumpeter il riferimento alla libertà. H metodo democratico resta ai suoi occhi preferibile perché finisce per subordinare ogni altro obbiettivo politico, in particolare quello dell’efficienza amministrativa, alla libertà individuale, fi nesso tra libertà e democrazia, per quanto poco rigoroso, resta di fondamentale importanza: un livello di efficienza governativa più basso è sempre preferibile ad una efficienza dittatoriale {ivi, pp. 2 5 9 e 274). C iò che garantisce questo spazio di libertà, e che qualifica un metodo di asse­ gnazione del ruolo di guida ad una élite politica com e democratico, piuttosto che dispotico o dittatoriale, è la competizione attraverso la quale si attua la produzione del governo. L a produzione democratica del governo si verifica quando il conferi­ mento del potere a certi soggetti particolari avviene attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare9. Tale competizione com porta la presenza di una plu­ ralità d i gruppi interessati a conquistare la leadership politica. L a democrazia si definisce non soltanto per la libertà d i ciascun gruppo politi­ co di formulare i propri programmi e di concorrere per il voto, m a implica in via di principio anche una gara effettiva tra offerte politiche alternative che siano poi sot­ toposte al giudizio dei cittadini. L a necessità per ciascun gruppo di porsi in concor­ renza per conquistare la leadership politica è l’elemento essenziale che distingue il regime democratico, m a non ogni tipo di competizione è compatibile con tale regi­ me. L a competizione deve essere «una competizione libera per un voto libero» {ivi, pp. 258 -259 ), quindi occorre che non si faccia ricorso né alla violenza né alle armi. Visto che ogni gruppo politico è libero di porre la propria candidatura al governo, questo comporta soprattutto un livello alto di libertà di discussione e in particolare un’ampia libertà di stampa {ivi, p. 259). L a dottrina schumpeteriana della liberaldemocrazia si pone l’obbiettivo di rompere i ponti con le illusioni tipiche della dot­ trina classica istituendo un parallelo cogente tra analisi del sistema politico nella sua autonomia funzionale e analisi del sistema economico dell’economia capitalistica di mercato. Anche quando lascia trapelare la sua preferenza, assiologicamente non neu­ trale, rispetto al sistema democratico di assegnazione del m olo di leadership ad un gruppo politico, lo fa presentandolo come l’unico in grado di produrre un governo compatibile con il livello di pluralismo sociale e politico delle società sviluppate. Il metodo democratico risulta preferibile nonostante la sua scarsa efficienza ammini­ strativa, la ridotta competenza tecnica del personale politico e l’enorme spreco di risorse richiesto dalla sua natura aperta e competitiva. Su questo punto Schumpeter avanza dei dubbi, ad esempio, che un sistema socialista possa presentare i requisiti necessari per garantire lo stesso livello di corrispondenza della guida politica alla plu­ ralità del corpo politico e sociale. Sono infatti condizioni sociali e ragioni contingenti che fanno preferire il meto­ do democratico cosi definito ad altri metodi concorrenti. U na tale preferenza però, non nasconde ulteriori perplessità che lo stesso Schumpeter confessa, sulla capacità del metodo democratico eh regolare il mercato politico secondo criteri analoghi a quelli che regolano i rapporti entro un mercato economico in regime di libera con-

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correnza. Cosi come in economia, anche in politica gli ‘imprenditori’ possono viola­ re le regole del gioco ponendo in atto form e di concorrenza mascherata o fraudolen­ ta {ivi, p. 270); sorgono dubbi relativi alla reale differenziazione delle offerte politi­ che dei gruppi politici in competizione {ivi, pp. 269-270), nonché remore sulla reale capacità del cittadino-consumatore di scegliere in piena libertà tra tali offerte vista la potenza dispiegata dagli apparati propagandistici dei partiti {ibidem). Rim ane comunque l’impressione di una netta e radicale rivisitazione delle coordinate di base della dottrina democratica con cui a partire da questo momento tutti i teorici politi­ ci interessati alla democrazia dovranno fare i conti. L’importanza della teoria schumpeteriana diventa, infetti, chiara se si tiene conto dell’influenza che essa ha esercitato su tutta la teoria politica democratica contemporanea. Senza Schumpeter sarebbero impensabili gli sviluppi che essa ha avuto tanto nella cultura anglosassone quanto in quella continentale. Raym ond Aron, R a lf Dahrendorf, Giovanni Sartori e Robert D ahl sono solo i nom i più importanti di coloro che hanno contratto con lui un debi­ to intellettuale irrevocabile: anche chi oggi tenta una critica del paradigma democra­ tico da questi rappresentato deve sempre risalire a Schumpeter come fonte originaria del suo svolgimento (Z olo 19 9 2 , pp. 1 1 1 e ss.). | IL TEMA

Potere e natuia um.in.i: Schelcr, Plessner, Cellieri => w w w.lem onnieruniversita.it ' "

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N O T E C A P IT O L O 2 1

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«Tutti i concerti piti pregnanti della m oderna dottrina dello stato sono concetti teologaci secola­ rizzati» (Schmitt 1922, p. 61). Franco Livorsi presenta questa doverosità come «volontà e capacità di forzare le situazioni in stato eccezionale, assumendosi il terribile rischio esistenziale appunto dell’errore, anche di p ortata sto­ rica, p u r d i produrre l’innovazione a livello epocale» (Livorsi 1997, p. 58). «Certo —scrive M . Salvadori —il Consiglio nasce dalla fàbbrica, m a n o n deve rimanere limitato ad essa, deve estendersi alle campagne, organizzando i contadini poveri, con u n processo d i edu­ cazione analogo a quello degli operai delTindustria. D ove ci sono produttori, Il è necessario il Consiglio. Esso è u n organo tecnico di produzione, ma, in quanto è basato su rapporti interni che rivoluzionano i rapporti capitalistici, acquista u n a dimensione politico-sociale inscindibile da quella tecnica» (Salvadori 1973, p. 13). Ricordiamo che H ans Kelsen, nato a Praga, vive a V ienna fino al 1930 (dove, tra Taltro è m em ­ bro della C orte Costituzionale austriaca), poi si trasferisce in Germania per insegnare alrU niversità di C olonia (sono note, in questi anni le polemiche con le tesi e gli scritti di Schmitt). Espulso dall’Università con la fine del regime di 'Weimar, si sposta in Svizzera e inizia u n a serie di peregrinazioni tra Ginevra (dove insegna D iritto internazionale), Praga (dove insegna Filosofia del diritto) e gli Stati U niti. È qui che finisce per stabilirsi nel 1941 per continuare ia sua attività di studioso. A partire dal 1954 insegna Scienza politica a Berkeley: Complessivamente nel perio­ do americano il suo im pegno è rivolto da una parte a rivedere e riformulare le sue teorie giuridi­ che degli anni Venti, dall’altra a sviluppare le tematiche del diritto intemazionale e della pace. Le interpretazioni sociologiche del diritto hanno premesse lontane, m a si sviluppano soprattut­ to a partire dalla seconda m età dell’O ttocento in contrapposizione al formalismo e all’imperativismo giuridico, che si sviluppano inquadrati nello spirito positivistico dell’epoca e ne traggono alimento e sostegno. Q uesta struttura logica sarebbe rappresentabile, secondo Kelsen, nei term ini del giudizio ipote­ tico: se si verifica u n evento illecito A deve seguirne l’evento B , la sanzione (PASSÒ 1970, voi. U t,

pp. 338-342). 7

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Kelsen m ette anche in rilievo il legame tra l’idea di libertà e quella di eguaglianza: «dall’idea che no i siamo, idealmente, uguali, si può dedurre che nessuno deve comandare a u n altro. M a la esperienza insegna che, se nella realtà vogliamo essere tu tti uguali, dobbiam o lasciarci com anda­ re. Berciò l’ideologia politica n o n rinuncia ad unire la libertà con l’eguaglianza- La sintesi d i que­ sti due principi è appunto la caratteristica della democrazia» (K elsen 1998, pp. 45-46). L a rappresentanza fiduciaria, com e abbiamo visto, è messa a fuoco da Sieyès quando parla della volontà generale rappresentativa e afferma che il candidato eletto in u n a circoscrizione dal m om en­ to dell’elezione diviene rappresentante dell’intera nazione. Si contrappone alla rappresentanza basa­ ta sul mandato imperativo, di ascendenza medioevale, che tiene stretti i legami tra eletto ed eletto­ ri attraverso un m andato vincolante d ie il collegio dei votanti im pone al proprio eletto. «E m etodo democratico —scrive S chum peter—è lo strum ento istituzionale p e r giungere a deci­ sioni politiche in base al quale dei soggetti ottengono il potere di deridere attraverso u n a com ­ petizione che h a p er oggetto il voto popolare» (SCHUMPETER 1942, p. 257).

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L a convergenza tra Stati Uniti, Inghilterra e U nione Sovietica contro la Germ a­ nia dopo la fine della guerra dura b ea poco. Il comuniSmo sovietico (forte dello sfor­ zo bellico contro il nazismo) estende la sua influenza a una vasta fàscia di paesi dell’Europa dell’Est; mantiene stretti rapporti con i partiti comunisti in Occidente; sostiene i movimenti per l’indipendenza. N el 19 4 8 , il Partito comunista guidato da M ao Tze-Tung ha il sopravvento sul regime nazionalista e prende in mano le redini della Cina. G li stati occidentali, che hanno combattuto la seconda guerra mondiale in nom e della democrazia, contrastano ulteriori espansioni preoccupati per le proprie istituzioni e per la libertà politica ed economica. A livello mondiale si delineano cosi due blocchi contrapposti, con a capo le due superpotenze, Stati U niti e Unione Sovietica, e si apre la stagione della ‘guerra fredda’, che dura con fasi di maggiore o. minore tensione fino al 19 8 9 . Queste vicende si incrociano, almeno fino al 19 6 0 , con il non fàcile processo di decolonizzazione sui teatri del M edio Oriente, dell’Asia Orientale e dell’Africa. Decolonizzazione in certi casi negoziata e graduale, in altri risultato di cruente azioni di guerriglia (famosa la battaglia di D ien Bien Phu nel 19 54 ). D opo la morte di Stalin (19 5 3 ), il processo di destalinizzazione avviato da Kruscev e il nuovo corso impresso alla vita politica russa aprono un periodo di «disge­ lo» all’interno e all’estero. N egli Stati U niti la presidenza Kennedy imposta una poli­ tica dinamica e progressista. Complessivamente nell’ambito dei due blocchi emergo­ no diversità e tensioni, che evidenziano più polarità. N egli anni Sessanta la C ina prende le distanze dalla Russia, avanza rivendicazioni territoriali, accentua le diffe­ renze dal comuniSmo sovietico; in Europa col M ercato Com une Europeo (19 5 7 ) si pongono le basi per il processo che porterà all’Unione; il Giappone è ormai parte dello schieramento anticomunista, si è ripreso dalla grave crisi postbellica e il suo svi­ luppo economico lo porta in breve tra le prim e potenze mondiali. N el 19 6 8 i m ovi­ menti giovanili che nascono in vari paesi producono contestazioni, mom enti di ribel­ lione e attese di rinnovamento, che, pur senza significativi effetti politici, incidono sul costume e sulla cultura. In quegli anni la politica americana contro l’espansione comunista in Asia vive la diffìcile stagione della guèrra del Vietnam , che si conclùde

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nel 19 7 3 per via diplomatica. M entre in Europa nello stesso anno cade il regime dei colonnelli in Grecia, nel 19 7 4 la ‘rivoluzione dei garofani’ rovescia il regime di Salazar in Portogallo e nel 19 7 5 c è il passaggio alla democrazia della Spagna. N ell’Unione Sovietica a un apparato militare imponente e a una politica estera ancora espansio­ nistica fanno riscontro intrinseche debolezze nella produzione di beni di consumo e nell’agricoltura. La guerra in Afganistan accentua le contraddizioni interne. N ei prim i anni Ottanta si ripropongono le tensioni da guerra fredda davanti al progetto di «scudo stellare» avanzato da Regan. N e l 19 8 5 Gorbaciov avvia una profonda revi­ sione della politica soviètica e dei rapporti con l’Occidente, m a a quel punto è vici­ na l’implosione dell’intero sistema e il passaggio a una nuova epoca. Intanto la C ina comunista comincia a trasformare con successo la propria economia in form e capi­ talistiche; l’Europa vede crescere gli stati membri e i benefìci economici dell’unione, m a fatica nel costruire una politica comune; gli Stati Uniti, come unica superpoten­ za mondiale, per questa posizione hanno davanti gravi compiti su numerosi scac­ chieri. Lo scacchiere mediorientale è uno dei più. intricati e i rapporti tra lo Stato di Israele, i palestinesi e i Paesi Arabi, punteggiati fin dal 19 4 8 da conflitti e intìfade, sembrano ancora lontani da una stabile soluzione.

3 .0

T eorie p o litic h e d el «dopoguerra»

Q uando nella più recente teoria della cultura si è pensato di caratterizzare il nucleo originario di tutte le form azioni culturali com e degli «animali selvaggi» (M ulhmann 1996, p. 5) lo si è certamente fatto avendo in mente anche le culture politiche della prim a m età del X X secolo. L a ferocia della «bestia» era certamente d a addebitarsi agli eccessi di violenza e di distruzione (di vite umane e di cose) che sulla base di motivazioni di tipo «realistico» oppure «idealistico» si era prodotta nei quat­ tro decenni che passano dall’inizio della prim a alla fine della seconda guerra m on­ diale. Se al conto si aggiungono anche le pratiche di sterminio applicate in form a ricorrente, come effetto collaterale, all’affermazione e al dominio degli stati europei (e dei loro imitatori d’oltreoceano e al di là degli Urali) nel resto del m ondo, si capi­ sce bene perché uno dei m otivi culturali del ripensamento alla fine del X X secolo diventerà quello delle critiche all’eurocentrismo. Finché questo genere di eccessi pote­ vano essere legittimati sulla base di un ciclo di affermazione della civiltà um ana (come accadeva nel caso dei nazionalismi storici, protagonisti di una form a parados­ sale di «universalismo particolare» di tipo aggressivo), essi potevano rimanere impen­ sati e considerati come errori non voluti o dettati da un eccesso di zelo nell’esecuzió­ ne del mandato. Laddove questo campo di legittimazione è diventato problematico, in particolare nelle culture politiche europee del secondo dopoguerra, si è aperto uno spaziò per riconsiderare l’intera faccenda. L a fine della seconda guerra mondiale, però, non ha segnato la fine di quel genere di concezioni; sulla scena del m ondo, ora riunificato nel contemplare le macerie di un disastro che ha assunto almeno nei suoi effetti distruttivi una dimensione davvero planetaria —una specie di globalizzazione

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a partire dalia catastrofe e dalla contabilità dei morti, per usare un linguaggio più vici­ no all’o ggi—v i sono almeno due protagonisti che sentono di potersi fare portatori di una missione univd'rsale entro la civilizzazione umana, di fornire una descrizione e nello stesso tempo di dare una prova concreta di quale possa e debba essere la pros­ sima tappa evolutiva dell’umanità. Si tratta delle forze militari uscite vincitrici dal conflitto:, gli Stati U niti d’Am erica e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovie­ tiche. U na terza forza con analoghe energie missionarie a vocazione universale co­ m incia nello stesso momento ad agire in sordina, come rivendicazione dell’autono­ m ia e dell’autodeterminazione dei popoli assoggettati alle forze europee ora percepi­ te come illegittime (una forza che di II a breve diventerà esplosiva in un ciclo di con­ flitti, più o meno cruenti, meglio noti sotto il titolo di «processo di decolonizzazio­ ne»): si annuncia come forza universale solo sulla carta, perché, come dimostreranno le vicende della seconda metà del X X secolo, si tratta di una forza troppo frammen­ tata e per questo incapace di assumere un ruolo politico planetario. Se si accetta questa analisi, ci si' rende presto conto come la seconda m età del X X secolo sarebbe stata segnata, almeno dal punto di vista della civilizzazione poli­ tica, da una limitazione degli eccessi di violenza dei regimi scesi sul campo di bat­ taglia e dalle loro prosecuzioni al proprio interno. U n a delle tracce principali di que­ sto ridimensionamento del ruolo della politica, prim a ancora delle differenze che maturano nel campo delle dottrine ideologico-politiche, è testimonianto da quegli approcci analitici che concettualizzano lo spazio della politica e del potere com e uno spazio autonomo o sistemicamente differenziato. Sem pre M ùlhm ann ha suggerito di considerare le fasi successive alla fine di un conflitto come fasi di riformattazione identitaria delle culture, le quali mutano nella m isura in cui si appartiene a colletti­ v i vincenti o perdenti. Per la descrizione delle prim e h a suggerito che si adotti il tito­ lo di «decoro» (Decorum ), espressione con la quale si designa una fase di consolida­ m ento tarato sui valori polemici a cui si devono i successi fin qui ottenuti. D al punto di vista della civilizzazione politica occidentale ciò ha significato un approva­ zione (che in m olti casi ha coinciso con un’instaurazione) largamente condivisa per la democrazia e l’economia di mercato; la prevalenza del punto di vista secondo il quale la diagnosi politica sull’epoca poteva essere portata a termine con l’elabora­ zione degli eccessi totalitari; la convinzione che la civilizzazione liberale, con l’ag­ giunta dei correttivi socialdemocratici, potesse essere sufficiente per rispondere alla richiesta storica di un m ondo migliore. C iò che, con un’espressione prematura, verrà indicato com e la «fine delle ideologie» non indica nient’altro che una lenta làse storica in cui le correnti ideologiche ottocentesche (liberalismo, socialismo, ecc.) subiscono una routinizzazione solo saltuariamente interrotta da qualche prestazio­ ne intellettuale d’eccezione (ad una analoga routinizzazione v'erra sottoposta anche l’ideologia com unista dei partiti politici com unisti che sopravvivono nell’Europa occidentale). Routinizzazione significa: i loro interpreti maggiori si sono lim itari a commentare, con i concetti tradizionali della loro disciplina e con la citazione d e i. classici che potevano consolidare la loro convinzione, la situazione politica mondiale venutasi a creare con la vittoria degli alleati sulla dittatura nazista. Com m entare e

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legittimare. N e l caso dei collettivi perdenti si è assistito a un riorientamento su valo­ ri di appartenenza meno compromessi con il disastro. N ell’intero panorama della cultura si può leggere piò in generale un riorentamento degli indirizzi di ricerca politica, dopo gli orrori della guerra, ai m otivi fon­ damentali delTumanesimo. Parve così possibile opporre alla barbarie dei fotti, una nuova malinconica speranza nel potere civilizzante e umanizzante delle letture dei classici. G li umanismi del dopoguerra, per quanto illusori, si auto-interpretavano come la scelta di media umanizzanti contro le tecniche di imbarbarimento deU’uom o. Si è aperta cosi una belle epoque dell’intelligenza politica, appena offoscata dalla minaccia nucleare, che si trasmette attraverso i libri. Che si trattasse del neoumane­ simo cristiano (la cui cultura politica era chiamata a guidare, grazie a partiti politici costruiti allo scopo, la transizione verso la ricostruzione in m olti paesi europei) oppu­ re del neoumanesimo liberale o socialista, questa opzione di cultura politica doveva presto scontrarsi con l’evidenza di società in cui il legame sociale non era piò, nem­ meno in apparenza, qualcosa che aveva a che fare con i libri e le lettere. A nche nelle continuamente migliorate condizioni dell’alfabetizzazione che caratterizzano, ad esempio, le società europee alla fine del secolo, le sintesi politiche e culturali delle società complesse possono essere prodotte solo marginalmente attraverso media umanistici. N el frattempo erano emersi in m odo incontrovertibile i nuovi media della telecomunicazione politico-culturale, grazie ai quali l’era dell’umanesimo moderno era destinata a tramontare. D opo il 1 9 1 8 con la radio, dopo il 19 4 5 cqn la televisione e oggi ancora di p iò con le rivoluzioni della rete informatica, la coesisten­ za degli uom ini nella società, compreso il loro orientamento politico, trovano solo marginalmente espressione nelle form e oramai tradizionali di cultura scritta e di comunicazione attraverso i libri (col conseguente declino delle figure d ie avevano guidato l’affermazione di quei modelli, gli intellettuali) L’evento che segna in m odo esemplare il tentativo di restaurazione di un indi­ rizzo culturale orientato all’umanesimo neU’immediato dopoguerra si registra in una conferenza del 2 9 ottobre 19 4 5 , in cui il filosofo francese Jean-Paul Sartre presenta le tesi fondamentali del suo esistenzialismo. A sentire questa conferenza, tenuta nella Sade des Centreaux, era affluita una gran massa di persone: l’accalcarsi della folla, il parapiglia, sedie rotte, Sartre impiega piò di un quarto d’ora per raggiungere il podio. N ella sala surriscaldata, sovraffollata, sovrecdtata, Sartre cominciò, tenendo pigra­ mente le m ani in tasca, a sciorinare le sue dichiarazioni, che, frase dopo frase, desta­ vano l’impressione di una formulazione valida e definitiva. In una comunicazione che poi sarebbe divenuta leggendaria e di cui si sarebbe continuato a parlare per alcu­ ni decenni, Sartre aveva tentato di rispondere alla dom anda sul destino deU’umanesimo in un’epoca che aveva appena vissuto gli eccessi della barbarie. L a risposta di Sartre è che i valori dell’umanesimo non ci sono, a meno che di volta in volta non li si reinventi e li si renda reali nella situazione della decisione. L’esistenzialismo pone l’uom o di fronte a questa libertà e a questa responsabilità. Perciò l’esistenzialismo non è una filosofia della foga, della disperazione o del pessimismo, m a è una filosofia del­ l’impegno, che definisce l’uom o attraverso il suo agire. L a conferenza si conclude con

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queste parole: Fesistenzialismo è un umanismo perché «noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore che lui e che proprio nell’abbandono egli deciderà di se stes­ so; e perché noi mostriamo che, nel rivolgersi verso se stesso, m a sempre cercando fuori di sé uno scopo — che è quella liberazione, quell’attuazione particolare —l’uo­ m o si realizzerà precisamente come umano» (Sartre 19 4 5 , p. 8 6 ).

3.1

L’orizzon te bipolare: la «crisi d elle id eo lo g ie» e la «società d el benessere»

L a fine della seconda guerra mondiale segna un punto di svolta decisivo nello svi­ luppo della civilizzazione politica occidentale. U na volta terminate le ostilità si tratta di ricomporre ciò che è stato distrutto: oltre il bilancio delle perdite in termini di vite umane, infetti, occorre registrare un ciclo di distruzioni inaudito. Le potenze vincitrici (USA, U R S S, Gran Bretagna, con i loro alleati in posizione di minorità) prendono accordi per il riassetto del mondo. G li accordi stentano a decollare e molto presto si pro­ fila il conflitto tra le due potenze maggiori: senza raggiungere m ai un livello d’intensità tale da portare ad una ulteriore guena mondiale. L a particolare form a di sviluppo venutasi a creare dopo la seconda guerra m on­ diale dipende in larga misura dalla formazione e dall’evoluzione dell’egemonia statu­ nitense nell’epoca della guerra fredda. S i tratta di un processo di affermazione e di consolidamento politico che mira certamente all’esercizio della potenza americana attraverso le istituzioni internazionali, m a che fe riferimento esplicito alla lezione del N ew Deal, di cui ora bisogna fer tesoro, secondo i governi statunitensi, nei rapporti intemazionali. L’intuizione originaria di Franklin D . Roosevelt, secondo la quale il N ew Deal, avrebbe dovuto essere «globalizzato» per mezzo delle Nazioni Unite, fino ad includere la stessa Unione Sovietica nel novero delle nazioni d a associare allo svi­ luppo, si trasforma, per gli strateghi della politica estera americana, nel progetto di costruzione di uri organizzazione politica su scala mondiale, basata sulla potenza mili­ tare americana, con l’obiettivo del generale benessere sociale, e per questa ragione in grado di opporsi e competere col sistema di stati comunisti guidato dall’U nione Sovietica. Sebbene l’aspetto macroscopico di questa competizione politica sia consi­ stito in un piano di keynesismo militare senza precedenti nella storia del m o n d o —gli Stati U niti nel volgere di pochi anni hanno dispiegato un’imponente massa d i spese militari per il riarmo, loro e dei loro alleati, nonché per la disseminazione di una m ol­ titudine di basi militari semipermanenti —, la spinta degli Stati U niti in favore del keynesismo sociale, ovvero del perseguimento da parte dell’azione governativa della piena occupazione e dell’esplosione dei consumi di massa nei paesi chiave del prim o m ondo, è diventata da subito un elemento essenziale dello sviluppo dell’americano stato «della guerra e del benessere». Più. in generale si può dire che dietro l’espressione metaforica di «capitalismo maturo» si esprime una riflessione di am pia portata su quelli che sono i m odelli in via di consolidamento della «società del benessere e del consumo», sviluppatasi a

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seguito del p iù grande ciclo di espansione capitalistica m ai avvenuto. A i contributi emergenti soprattutto nella letteratura sociologica ed economica americana si devo­ no le prim e verbalizzazioni d i uno dei tem i fondamentali del X X secolo, un fatto che segna nel m ondo industrializzato una linea progressiva di fuoriuscita delle masse dalla povertà materiale. Il consolidamento istituzionale e la successiva espan­ sione di un sistema di assistenza pubblica sulla base dello stato sociale è uno dei principali vettori della tendenza all’alleggerimento delle condizioni di esistenza materiale e alla partecipazione dei m eno abbienti ai privilegi fino a poco tempo prim a m ero appannaggio dei ricchi. S i tratta di una linea d i continuità dei proces­ si di modernizzazione che si affianca agli sviluppi incessanti della ricerca scientifi­ ca, alla costante innovazione tecnologica, all’incremento della diffusione della form a di vita dell’impresa, all’integrazione di un pubblico sempre p iù grande di acquirenti nell’am bito del consum o economico e culturale. L a continua propaga­ zione di strumenti destinati ad alleggerire l’esistenza nel m ondo industrializzato si affianca dunque all’espansione costante di un sistema di sanità, al consolidamento dell’im m unità professionale e giuridica degli individui fondata su un diritto del lavoro elaborato, includendo progressivamente anche le donne che esercitano un’attività professionale, e infine lo sviluppo di un sistema di assicurazione sempre più sviluppato. Tale processo espansivo ha coinciso per m olti paesi europei con una disponibilità crescente di ricchezza riconvertibile in sicurezza sociale e benessere dif­ fuso. In qualche m odo si tratta di u n fatto banale, implicito, legato ad uno svilup­ po recente delle società industrializzate m a che costituisce un enigm a nella rifles­ sione intellettuale: com e ha sottolineato Jo h n Kenneth Galbraith, in quello che è forse il testo più chiaro nell’elaborazione del problema {The A fflu en t Society, 19 5 8 ). Il grande problem a delle «società dell’abbondanza», segnatamente di quella statu­ nitense e dell’Europa occidentale, sta proprio nel fatto di non sapere affatto per quale scopo prendere la propria novità, in particolare E successo nei confronti del tradizionale primato della penuria e della miseria, per non parlare dell’interpreta­ zione politica della propria ricchezza. C o n poche eccezioni E tema fondamentale dei contributi inteEettuali aUa politica del dopoguerra continueranno a seguire E tracciato indicato daEe tradizioni precedenti, soffermandosi sovente, a seconda degli schieramenti, suU’amphamento dei cicli di emancipazione legati aE’ estensio­ ne del principio di cittadinanza (soprattutto in direzione deUa cittadinanza sociale) oppure aHa limitazione deE’intervento invasivo deEa politica nei settori deh’econom ia o, in senso più esteso, deEa dimensione privata (teorie liberali).

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3.2

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A ltern ative e critich e d ella « so cietà capitalista»

È praticamente incalcolabile il peso che l’avvento della «forma capitalistica di produzione» in ambito economico ha avuto sulla società moderna. N o n è un caso che, almeno in alcune prospettive di analisi, le espressioni «società capitalista» e «società moderna» siano state interpretate com e sinonime. Benché M arx non uti­ lizzi mai l’espressione sintetica «capitalismo» - la quale ha tanto il vantaggio quan­ to lo svantaggio di presentare un insieme complesso di processi in una form a uni­ taria soggettivabile - si deve certamente a lui la prim a teoria che mette a tem a l’e­ conom ia capitalistica come un problema politico decisivo. Si deve però aspettare il X X secolo perché «capitalismo» divenga un concetto chiave, soprattutto grazie alle opere di W erner Som bart {Il capitalismo moderno, 19 0 2) e M ax W eber {L’etica pro­ testante e lo spirito del capitalismo, 19 0 4). A partire da tale coniatura, l’interpretazio­ ne del «capitalismo» e della «società capitalistica» diventa un terreno di confronto e di scontro scientifico e politico di straordinaria importanza, non esclusivamente legato alle correnti ideologiche m a anche interno alla discussione teorica. C o n capi­ talismo s’intende un sistema economico nel quale la produzione è controllata e diretta da imprenditori che dispongono dei mezzi finanziari per acquistare l’insie­ m e dei fattori della produzione, prim o fra tutti la forza lavoro. D alle analisi marxia­ ne classiche (cfir. supra pp. 16 4 e ss.), centrate sulla form a di sfruttamento esercitata dal capitalista sui lavoratori, e dagli studi sulla sua genesi (Weber), si è formata, nel corso del tempo, una doppia strada analitica: da una parte si sono collocate pro­ spettive di analisi il cui orizzonte si definiva a partire dalla descrizione dei meccani­ sm i di funzionamento del sistema, dei suoi vantaggi e delle correzioni eventuali da immettere (dalle concezioni della scuola neoclassica, al marginalismo, alle critiche di Keynes e Polanyi); dall’altra alla costruzione di un sapere che, ponendo come obbiettivo politico il superamento del capitalismo stesso, intendeva fornire una spe­ cie di controanalisi del sistema (dopo M arx, un ventaglio di opzioni che oscilla tra il comuniSmo e i marxismi di vario genere). Entro questo spazio secondo, che con­ danna in m odo deciso la presunta neutralità analitica del primo, emergono anche nel secondo dopoguerra proposte di analisi teorica che hanno significative conse­ guenze anche dal punto di vista politico. L a critica della «società capitalistica» divie­ ne anzi un’opzione analitica m olto influente, capace di istituire cam pi di analisi ine­ diti e un piano di discussione m olto viva, che sottolinea sempre in m odo convinto il livello di condizionamento sulle istituzioni e sugli attori politici esercitato dalle logiche del capitalismo (tanto in term ini d i potere, quanto di legittimazione ideo­ logica). Benché il capitalismo non sia tramontato, e anzi proprio per questo, esso ha continuato a costituire un campo di confronto m olto importante e anche se negli ultimi decenni del secolo X X esso perderà, com e tema di analisi, il centro della scena, si assisterà com unque alla predisposizione di ricerche che si sono messe a cac­ cia dei suoi nuovi «spiriti» ( B o l t a n k i — C h ia p p e l l o 19 9 7).

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aa

II X X secolo

tema

L a cittadinanza secondo M arsh all ?ìImportante tespo"nenteìdd:f&tìelicictài3 ,--ai|!iidi accettare psicologicamente il proprio lavoro e di lavorare duramente» {ivi, p .. 83). ( ionie è stato osservato,-nelle società dèUa ; modernità matura - quelle dei paesi a capitalismo avanzato — im a .simile «deter-Iq iin aS jb n e ^ ripartita: in m q tS 'H sS ìd a l^ " 2 0 0 2, p. X X m ) . Essa, infatti, gravava molto più pesantemente sulle spalle di que­ gli stessi operai‘dell’indiistrià ài-quali-veniva ormài riconósciuto‘un ruolo centrale sul terreno della produzione della ricchezza nazionale. Se questo semplice dato par­ lava di una conflittualità mai completamente riassorbibile dai dispositivi dell’ordi­ ne politico, per Marshall invece le due «nazioni nemiche» del X IX secolo — bor­ ghesia e proletariato - avrebbero dovuto pacificarsi e cooperare «a comune benefi­ cio di unii < t.VlARSHALL 19 5 0 , p. 6 v In due «nazioni», infatti, fruivano comune­ mente di: quella stessa cittadinanza inclusiva che da una parte avrebbe surrogato le persistenti ineguaglianze con iniezioni di giustizia sociale, e dall’altra avrebbe con-tinuato a riprodurre «una società dove le differenze di classe sono legittime» {ibi­ dem). Insomma, come avrebbe chiosato Ralph Dahrendorf, per Io studioso ingle­ se si trattava di dar form a ad un concetto di cittadinanza sociale capace di produr■ re molto materialmente una sòrta di regolazione, di istituzionalizzazione - in una parola di neutralizzazione — del conflitto di classe: accettarne l’esistenza, semmai, avrebbe rappresentato uh segno distintivo di quelle «società libere» che si dim o­ stravano ormai capaci di riassorbirne l’antagonismo e di valorizzarlo come «moto­ re dialettico dello sviluppo» (cfr. D a h r e n d o r f 19 5 7 , pp. 488-494).

3 . 2.1 L a S c u o l a

d i

F ra n coforte

Il gruppo di studiosi che si è soliti indicare con questo'nom e raccoglie alcuni intellettuali che a partire dal 19 3 0 hanno collaborato alla messa a punto di un’analisi della società capitalistica di ispirazione marxista tesa a criticarne gli assetti, i principi e gli esiti, tanto da dare vita ad un filone di ricerche che prende,di nom e di «teoria criti­ ca» tout court. Scuola di Francoforte è cosi un lemma che designa tre oggetti: in primo luogo f orientamento teorico nell’analisi della politica e della società' di un ristretto

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I I X X secolo

gruppo di intellettuali tedeschi nati a cavallo tra la fine del X K e l’inizio del X X seco­ lo, in secondo luogo un filone della teoria sociale che si dipana per tutto il secolo rac­ cogliendo l’eredità di questo gruppo; essa è, infine, un’istituzione con una storia del tutto peculiare, di cui vale qui la pena delineare brevemente la storia poiché partico­ larmente indicativa di un dim a culturale e degli influssi della seconda guerra mondiale sulle biografie degli intellettuali che fanno parte di questa generazione. A ll’inizio degli anni Venti la situazione politica europea è percorsa da profonde tensioni: in Russia il partito bolscevico h a rovesciato E regime zarista, in Germ ania la socialdemocrazia guidata da Karl Kautsky è uno dei partiti più importanti, mentre E neonato Partito comunista tedesco si mostra pronto a promuovere mobilitazioni con una grande risonanza neE’opinione pubblica deEa giovanissima Repubbfica di Weimar. In Italia E biennio rosso si è da poco conduso. M olti intellettuali marxisti, con uno sguardo m olto ottimistico, leggevano i tempi come una «transizione dal capitalismo al socialismo», attendendo un’im m inente rivoluzione socialista anche in Europa occidentale. Questo sguardo, che le vicende degli anni Trenta hanno cancellato del tutto, è indicativo d d clima di questi anni e dà la misura di quanto profon­ da possa essere stata la ddusione di questa generazione quando, nel 19 3 3 , H ider prese E potere con regolari elezioni. Anche dal punto di vista teorico gli anni V enti segnano per E m arxism o un parziale cambiamento di prospettiva. Fino agli inizi del X X secolo, infatti, la teo­ ria m arxiana viene recepita soprattutto in due m odi, da un lato, E Capitale viene letto com e una teoria economica, e non com e teoria sociale, mentre dalTaltro l’interesse dei m arxisti si concentra suE’opera di M a rx - ed in particolare sul II m ani­ festo delpartito com unista — aEa ricerca d i una filosofia della storia, cioè di una teo­ ria in grado di spiegare i cambiamenti di lungo periodo che le società subiscono in forza dell’avvento del capitalismo. N egli anni Venti, invece, la fisionom ia del m arxism o europeo m uta parzialmente. Innanzitutto i principali esponenti di que­ sta corrente non sono più semplicemente studiosi d i ispirazione marxista (come l’i­ taliano A ntonio Labriola) m a è sempre p iù frequente che i p iù noti interpreti di M arx siano intellettuali e politici al medesim o tem po e che tendano a trasformare l’opera di M arx in un arsenale concettuale per la battaglia politica (si pensi a figu­ re com e quella d i R osa Luxem burg, di V ladim ir Ilich U lianov o di A ntonio G ram ­ sci). Inoltre E m arxism o teorico di questi anni è segnato da un notevole interesse per i tem i della filosofia: dopo una fase nella quale M arx veniva soprattutto visto com e economista. L a pubblicazione nel 1 9 2 3 di Storia e coscienza d i classe di G yòrgy Lukacs e di M arxism o e filosofia di K arl Korsch e la pubblicazione tra E 19 2 7 e E 1 9 3 2 degli scritti giovanili di M arx, portano alla ribalta un legame tra la prospettiva marxiana e la filosofia., che ritroveremo com e tratto caratteristico anche della teoria critica (Anderson 19 7 6 ). E in questo clim a politico ed intellettuale che nel 1 9 2 3 —grazie alla donazio­ ne di u n ricco ^mecenate —viene fondato a Francoforte sul M eno ristituto per la ricerca sociale. Questo istituto presenta alcune peculiarità tanto sul piano istituzio­ nale quanto su quello scientifico: esso, infetti, è E prim o istituto esplicitamente

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orientato al marxismo indipendente dall’università m a che viene da questa ricono­ sciuto; esso inoltre a partire dal 1 9 3 1 — quando la direzione viene affidata a M ax H orkheim er —stabilisce un program m a d i ricerca con caratteristiche inedite rispet­ to alle correnti tradizionali del marxismo (Jay 19 7 3 ). Innanzitutto l’istituto pro­ m uove la collaborazione tra studiosi che provengono da discipline diverse: Herbert Marcuse, M arx H orkheim er e Theodor ~W. A d o m o hanno una formazione filosofi­ ca, Eric From m è im o psicanalista freudiano, Franz Borkenau è uno storico, Karl August W ittfogel un sociologo, H enryk Grossm ann e Friedrich Pollock sono eco­ nomisti, Leo Lowenthal un sociologo della letteratura, Franz N eum ann un polito­ logo. Inoltre i francofortesi collaborano a delineare una teoria sociale che ha esplici­ tamente di m ira una revisione, un approfondim ento e uno sviluppo della critica marxista. Q uesta operazione viene svolta con u n duplice obiettivo: da un lato, arric­ chire l’analisi marxiana dell’alienazione prodotta dal sistema capitalistico e dello schema di dipendenza tra la struttura econom ica del capitale e le sovrastrutture (forme culturali, ideologia dominante, m a anche organizzazione della famiglia e della scuola) da essa dipendenti; dall’altro, schierarsi tanto contro il modello di società che si vede sorgere in Occidente nel periodo bellico e in quello postbellico, ■ quanto contro l’adesione a quella form a di alternativa politica fornita dal com uni­ Smo sovietico. Si tratta, quindi, di una prospettiva analitica che non trova un riscon­ tro nell’ambito dei partiti di questo periodo, m a che troverà, seppur con difficoltà, nei m ovim enti studenteschi degli anni Sessanta una qualche risonanza. L’avvento del nazismo in Germ ania renderà in ogni caso impossibile il prosie­ guo delle attività dell’Istituto, chiuso nel 1 9 3 3 dopo l’espulsione d i H orkheim er dall’università. Tuttavia gli esponenti del gruppo continueranno le loro ricerche e la loro collaborazione prim a in Svizzera, poi a N e w York ed infine, almeno per una parte dei suoi m em bri originari, in California, dove Adorno, H orkheim er e M arcuse si trasferiranno dall’inizio degli anni Q uaranta (e da dove solo H orkheim er e Adorno faranno ritorno in Germ ania a partire dagli anni Cinquanta). Il peregri­ nare obbligato di questo gruppo di intellettuali si rispecchia perfettamente nelle vicende della rivista che l’istituto pubblica a partire dal 1 9 3 2 con il titolo di «Zeitschrift fur Sozialforschimg» («Rivista p er la ricerca sociale»), che costituisce il principale veicolo di circolazione delle sue idee e del suo program m a di ricerca: essa, infatti, esce a Francoforte fino al 1 9 3 3 , prosegue la sua pubblicazione a Parigi fino al 19 4 0 , per riprendere poco dopo negli Stati U niti con il titolo «Studies in Philosophy and Social Science». Se è vero che Horkheimer, m a in generale tutto l’Istituto di Francoforte, defi­ nisce il suo campo di ricerca come «sociologia» è indispensabile tenere presente un essenziale slittamento di significato cui esso va incontro nell’elaborazione di questa prospettiva: la teoria critica, infatti, è certamente una sociologia nel senso che inten­ de prendere in oggetto l’insieme delle relazioni di cooperazione tradizionalmente indicate con il nom e di società (Adorno 1966), m a rigetta seccamente l’idea di esse­ re una scienza che osserva un oggetto dato, un fenom eno cioè paragonabile al m oto dei corpi celesti oggetto dell’astrofisica o ai fenom eni naturali oggetto della bioio-

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già. L a sociologia della Scuola di Francoforte, inoltre, rigetta completamente l’idea di fondarsi su un paradigma avalutativo (W eber 19 2 2 ) che ha il compito di descri­ vere i fenom eni sociali, e sceglie invece di individuare i conflitti e le contraddizioni presenti nella società, indicando la necessità di un loro superamento. Si tratta, quin­ di, di una ricerca che intende la teoria nella duplice prospettiva di operazione di osservazione delle condizioni della società presente e di attività in grado di indivi­ duare le prospettive per il suo mutamento. Queste posizioni sono espresse in m odo m olto chiaro in un saggio program ­ matico del 1 9 3 7 che H orkheim er pubblica con il tìtolo di Teoria tradizionale e teo­ ria critica. Q ui il direttore dell’Istituto stilizza questi due modelli introducendo tutti i tem i che ritroveremo anche nella produzione teorica postbellica della Scuola. In prim o luogo Horkheim er definisce la «teoria nel senso tradizionale» come un m odo di fare scienza che «organizza l’esperienza in base ai problemi che si pongono con la riproduzione della vita nell’am bito della società presente. I sistemi delle discipli­ ne contengono le conoscenze in una form a che nelle circostanze date le rende uti­ lizzabili per il maggior numero possibile di occasioni» (H orkheimer 19 3 7 ). L a teo­ ria tradizionale, m a potremmo anche dire la sociologia di ispirazione positivista, rende quindi disponibile un sapere su un assetto sociale che viene considerato come dato ed è, in ultima istanza, funzionale al suo mantenimento. A l contrario per la teoria critica «le condizioni dalle quali prende avvio la scienza non [ ...) si presen­ tano come dati di fatto che occorrerebbe solo constatare e calcolare in anticipo» {ìbidem). Essa vede, invece, ciò che «è dato di volta in volta» com e risultato del potere dell’uom o, della sua capacità di agire e delle «forme storiche di vita». L a società viene dunque osservata com e risultato d i u n processo storico che si innesca e si sviluppa in forza della capacità um ana di conferire form a al m ondo, che la «teo­ ria tradizionale» non è in grado di cogliere. L e critiche che investono la sociologia come scienza—che sono presenti in tutta la produzione d i questi autori dagli anni Trenta fino agli anni Settanta —si accompa­ gnano ad una critica della scienza to u t court in un testo intitolato L a dialettica dell’Illum inism o , che è uno dei testi più famosi della scuola, A dom o e Horkheimer, infetti, ricostruiscono la vicenda di lungo periodo nella quale si vede come gli uom i­ ni hanno imparato, proprio attraverso ciò che prende il nom e d i scienza, a sottomet­ tete la natura, cioè a sfruttarla per migjiorare le proprie condizioni di vita, per «libera­ re il m ondo dalla magia» e rendersene «padroni». Questa operazione, che apparente­ mente trae gli uomini fuori da uno stato di soggezione e di paura, tuttavia si rovescia nel suo contrario, si tramuta cioè in una form a di dominio di im a razionalità scienti­ fica cieca, di cui lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale, costituisce l’esempio più paradigmatico. Incapace di autocriricarsi, la ragione che ha posto l’uom o nel m olo di signore della natura è giunta a sottometterlo ad una form a di organizzazione che invece lo annienta. L a società quindi è il prodotto dell’uom o m a è, allo stesso tempo, anche il luogo in cui l’uom o viene form ato. Q uesta relazione di retroazione della società sulla fó rm a m entis degli individui può venire colta, secondo la prospettiva della teo­

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ria critica, introducendo nella teoria marxista alcuni elementi della psicanalisi. Soprattutto grazie alle ricerche di From m e Marcuse, infatti, si delinea l’idea che la sfera pulsionale dell’individuo, messa in luce per la prim a volta da Freud, sia il punto di congiunzione tra il condizionamento socio-economico che il marxismo aveva già descritto e il comportamento degli uom ini sulla scena politica, che risul­ tano essere mossi da bisogni, aspettative e intenzioni consce profondamente influenzati dal m odo in cui la società capitalistica gestisce la «sfera lipidica» di cia­ scuno. L’immissione di questi tem i nell’analisi del condizionamento sociale costi­ tuisce una delle maggiori innovazioni proposte da questo orientamento teorico che riesce cosi a conferire alla critica dell’«ideologia» e alla nozione di «falsa coscienza» uno spessore nuovo. Queste ricerche si sedimentano in un’opera del 19 3 6 dedicata alla struttura della famiglia borghese che è una delle poche ricerche empiriche svi­ luppate dalla Scuola (H orkheimer - Fromm - M arcuse 19 36 ). U n ultim o campo tematico nel quale la teoria critica raffinerà a svilupperà alcune riflessioni sullo stato di alienazione caratteristico delle società capitalistiche è infine la critica dell’arte e della cultura d i massa. Lu n gi dal considerarle soltanto un epifenomeno di quella form a di alienazione originaria che si produce in seno al sistema produttivo, soprattutto A dorno ne farà invece il luogo di individuazione di alcune dinam iche sintomatiche della natura stessa di queste società. N ella società capitalistica la cultura non è quindi la sede della critica e della riflessività, m a m ani­ festa, piuttosto, nella maniera più evidente la regressione delle capacità critiche del­ l’uomo. L a cultura di massa, infatti, non è solo ridotta a semplice merce tra le altre m a è fetta in m odo da istigare i suoi fruitori a quella form a di completa passività di fronte al m ondo che è anche la cifra della relazione tra l’uom o contemporaneo e la società capitalistica. Il tempo nel quale la cultura, che prim a circolava solo tra pochi, com incia invece a circolare in tutta la società non è il m om ento del massi­ m o sviluppo delle capacità critiche m a, viceversa, il m om ento di massimo indebo­ lim ento dell’arte come veicolo di critica (Adorno 19 5 5 ). A l di là di alcune diagnosi poco febei di Adorno sulla cultura di massa, le sue anafisi —insieme a quebe deh’am ico W alter Benjam in - sono tra le prim e a porre in rilevo lo stretto legame che intercorre tra i veicob di trasmissione deba cultura nebe società contemporanee e la natura e la struttura di queste società. Dovrebbe quindi essere chiaro che per questo filone di ricerca le discipline che più sono in grado di identificare la natura deba società capitafistica non sono né la sociologia né le scienze. E piuttosto, lo sguardo filosofico —innervato dabe acquisizio­ ni deba metafisica e deba dialettica di Hegel (Adorno 19 6 3 ; Adorno 19 66; M arcuse 19 3 2 ; M arcuse 19 4 1) - quebo che riesce a produrre un discorso che critica le circo­ stanze dabe quab sorge, che è cioè capace eh osservare la società presente come una form a storicamente determinata di cooperazione e di potere. N o n stupisce quindi che, oltre a Horkheimer, i più noti esponenti di questa corrente di pensiero siano due studiosi essenzialmente dediti ahe ricerche filosofiche, più che aha ricerca sociologica in senso tradizionale, ovvero Theodor W Adorno (19 0 3-19 6 9 ) e Herbert M arcuse ( 1 8 9 8 - 1 9 7 9 ) . ..............................................................

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Adorno, che entrerà a fare parte del gruppo delTIsdtuto di Francoforte con qualche ritardo rispetto agli altri, all’inizio della sua carriera —continuando in realtà a farlo fino alla sua morte - si occupa di studi di estetica ed in particolare dei temi della musica e si forma nei suoi anni giovanili sui problemi della filosofia di Husserl e di Hegel. U n filosofo, quindi, che condurrà sempre le sue analisi critiche sulla società capitalistica sulla scorta di concetti tipici della tradizione metafisica moderna (soggetto, dialettica, totalità) e che sarà soprattutto attento al m odo in cui nella società capitalistica la cultura viene ridotta da strumento che libera le potenzialità espressive dell’uomo ad elemento funzionale al mantenimento delle form e di subor­ dinazione che sono tipiche dello sfruttamento del capitale. Quello che possiamo considerare il suo capolavoro, M inim a M oralia. M edi­ tazioni della vita offésa ( 19 5 1) , è infatti una raccolta d i aforismi, cioè di brevi rifles­ sioni, in cui viene descritta la sorte dell’individuo nella società contemporanea, che Adorno durante il suo soggiorno negli U S A aveva visto dispiegata in m odo ancora inedito nell’Europa prebellica. Per A dom o il capitalismo viene strutturando una società e una form a di individuo che si rispecchiano l’uno nell’altra: il culto dell’in­ dividualismo, che apparentemente dovrebbe valorizzare l’uomo, in realtà nel suo insieme produce una società nella quale dom ina il conformismo, dove i singoli sono sostituibili, ridotti ad ingranaggi di un meccanismo che ne cancella le qualità umane vere e proprie. C osì nella società dom inata dal culto dell’individualismo Adorno vede l’uom o dedito solò ad occupazioni ripetitive, soggiogato dalla standardizzazione del gusto e dei desideri, dominato dalla banalità: la società degli individui si rivela come una continua sanzione dell’impotenza e dell’inutilità dell’uomo. Il giudizio di Adorno è senza appello: «dopo millenni di Illuminismo, il panico torna a calare su di un’umanità il cui dominio sulla natura [...] supera di gran lunga, in fatto di orrore, tutto ciò che gli uom ini ebbero m ai a temere dalla natura» (Adorno 1 9 5 1 , p. 149). Anche Herbert Marcuse ha una formazione essenzialmente filosofica segnata dall’incontro con M artin Heidegger, che seguirà le sue ricerche per la redazione del lavoro di abilitazione alla docenza significativamente dedicato all’Ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria critica della storicità (19 3 2). Il percorso intellettuale e biografico di questo autore è m olto vicino a quello di Adorno e Horkheim er sia per ciò che attiene gli interessi filosofici per Hegel e M arx, sia per rim m agine repressiva che ha della società capitalistica contemporanea, sia per le sue sorti durante la secon­ da guerra mondiale: Marcuse, infetti, emigrerà a sua volta negli Stati U niti (dove insegnerà prim a alla Colum bia University, poi a Boston e San Diego). Per molti aspetti, tuttavia, se ne distacca tanto perché sceglierà di non rientrare in Europa con la fine della guerra quanto perché dedicherà maggiore attenzione al contributo che la psicanalisi fornisce per comprendere la natura repressiva della «società industriale avanzata» (Marcuse 19 5 5 ), sia per il tentativo di individuare nuove frontiere del­ l’opposizione all’imperante società del benessere. Il testo più noto e più letto di questo autore è certamente Luom o a una dimensione. L ’ideologia della società industriale avanzata del 19 6 4 . Questo saggio,

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infatti, uscirà dal ristretto ambito della ricerca accademica grazie all’interesse che suscita nei m ovim enti studenteschi degli anni Sessanta. D al punto di vista temati­ co esso è in linea con l’impostazione che anche Adorno ed H orkheim er danno alle loro ricerche poiché individua com e tratto distintivo delle società contemporanee l’esistenza di un apparato tecnico che si autoriproduce e diventa fine a se stesso, trasformando gli uom ini in semplici ingranaggi. M a in questa prospettiva M arcuse focalizza l’attenzione sugli strumenti di questa peculiare form a d i subordinazione dell’uom o al capitale, mettendo in rilievo la trasformazione che essa è in grado di innescare nella sfera dei bisogni: la repressione delle potenzialità um ane non pro­ cede, infetti, soffocando il dissenso m a sostituendo i bisogni um ani reali con biso­ gni fittizi, con i bisogni che il capitalismo contemporaneamente instilla ed è in grado di soddisfare attraverso la cultura dei «consumi». In questo m odo il capitalismo si mostra in grado di integrare sia sul piano del­ l’ideologia sia su quello della lotta politica quella classe operaia che invece il marxi­ smo tradizionalmente individua come classe che è in contraddizione con esso. Il sog­ getto che il marxismo candidava ad essere il soggetto rivoluzionario per eccellenza viene invece integrato entro l’orizzonte della società capitalistica plasmandone biso­ gni ed aspirazioni. L a classe operaia, quindi, non può piti essere identificata come il veicolo di mutamento sociale poiché le sue potenzialità rivoluzionarie vengono inte­ grate nella società consumistica. N ella sua opera perciò Marcuse si distacca drastica­ mente dal marxismo della prima metà del Novecento identificando un nuovo sog­ getto del mutamento, ovvero «il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili». Soltanto gli esclusi dall’economia del benessere possono, per Marcuse, realmente opporsi alle form e repressive della società capitalistiche avanzate, purché siano in grado di assu­ mere un punto di vista critico radicale come quello della teoria critica.

3 . 2.2 J e a n -P a u l S a r t r e L’itinerario teorico di questo autore si colloca nel periodo postbellico e risente di due importanti correnti del pensiero filosofico e politico contemporaneo: per un verso, infetti, Sartre (19 0 5-19 8 0 ) rappresenta uno dei maggiori filosofi esistenzialisti degli anni Quaranta, che ha raccolto e sviluppato in modo originale alcuni temi del M artin Heidegger di Essere e tempo (19 3 3 ), per un altro —soprattutto a partire dalla metà degli anni Quaranta — è anche autore di una Crìtica della ragione dialettica (1960) che contribuisce al pensiero di ispirazione marxista del X X secolo. Tra questi due poli egli sviluppa un’attività di ricerca che manifesta interessi ed intenti che mutano successivamente nel tempo e che spaziano dalla teoria letteraria alla guerra d’Algeria, dall’opera di Flaubert al problema dell’alienazione nella società capitalisti­ ca. Sartre, infetti, non si limita ai terni dell’esistenza e sulle strutture fondamentali degli insiemi sociali, poiché affianca la pubblicazione di opere con tm deciso caratte­ re teorico ad una brillante produzione letteraria 2 e ad un’attività giornalistica che gli varrà una posizione di spicco nel dibattito pubblico su importanti questioni della

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politica postbellica francese e non solo. Sartre, quindi, rappresenta un modello di intellettuale poliedrico ed impegnato — che è tipico di questo periodo della storia europea —, i cui interessi comprendono sia questioni filosofiche sia problemi della politica e della società, che h a riscosso un notevole successo tanto di critica quanto di pubblico, soprattutto tra le giovani generazioni3. N egli anni immediatamente suc­ cessivi la fine del secondo conflitto mondiale, infatti, l’esistenzialismo non è solo una corrente filosofica della quale Sartre è il principale esponente francese, m a è anche una m oda culturale giovanile, uno stile di vita del quale Sartre costituisce il simbolo. Sartie, quindi, è contemporaneamente uno stimato scrittore, un personaggio pubblico e l’autore di opere teoriche per il quale la cifra dell’«impegno» politico è tanto una questione teorica quanto una scelta pratica. D a un lato sarà tra i fondatori di «Les Temps Modemes» —im a rivista alla quale collaboravano intellettuali come Raym ond Aron, H enry Merleau-Ponty e Simon D e Beauvoir—una delle più radicali voci criti­ che negli anni delle guerre coloniali della Francia postbellica4 che abbandonerà iscri­ vendosi al Partito comunista francese, dal quale prenderà poi le distanze, come altri della sua generazione, in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 19 56 . Dall’altro dedicherà grande attenzione nei suoi scritti sulla letteratura alla necessità di intendere questo settore della cultura non come una form a di intrattenimento ma come un veicolo per «svelare il mondo e particolarmente l’uom o agli altri uomini, affinché costoro assumano di fronte all’oggetto messo cosi a nudo la loro intera responsabilità». L’idea di Sartre è, infatti, che «la funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il m ondo o possa dirsene innocente» (Sartre 19 4 7 , p. 128). Il contributo sarttiano allo studio delle soderà dell’Europa postbellica consiste, quindi, nell’aver cercato di coniugare l’impianto critico del marxismo orientato a col­ locare la dimensione della sfera economica in prim o piano e a vedere le soderà moderne come società basate sullo sfruttamento, con le acquisizioni della riflessione esistenzialista sulla libertà e sulla capacità degli uom ini di conferire form a e significa­ to al m ondo sulla base di progetti autonomamente concepiti. In questa prospettiva, infatti, è costruita anche tutta l’analisi degli «insiemi pratici» - ovvero dei gruppi umani —sviluppata nella Crìtica della ragione dialetti­ ca, dove l’autore, muovendo dall’idea che gli uom ini lavorano per soddisfare i loro bisogni, cerca di chiarire quali sono le form e possibili che una cooperazione socia­ le così concepita può assumere. E d è così che l’autore arriva a tipizzare due moda­ lità aggregative. D a un lato c’è la form a dell’aggregazione «seriale», nella quale gli uom ini vivono in società esattamente come i passeggeri di un autobus: ognuno vive la sua vita in società al fine di perseguire scopi del tutto individuali, si trova cioè insieme agli altri senza condividere con essi né fini né intenzioni. D all’altro ci sono, invece, i «gruppi», ovvero insiemi di individui che del tutto eccezionalmente si tro­ vano ad agire con il medesimo fine, come se tutti contemporaneamente volessero e agissero come un sol uomo. Questo secondo m odello di aggregazione, natural­ mente, rappresenta uno status eccezionale degli insiem i di individui che, tuttavia, assume per Sartre come per altri intellettuali della sinistra postbellica una partico­ lare rilevanza: esso infatti è destinato a descrivere ciò che avviene nelle fasi rivolu­

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zionarie del m utam ento politico e a tracciare un’analisi e un bilancio di due eventi come la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d’ottobre, considerati fondamentali nella storia politica dell’Occidente. Secondo questo autore solo la filosofìa è in grado di concepire adeguatamente la struttura della società e la natura della politica che n e presiede il funzionamento poiché la vita associata è un oggetto che non può venire compreso con le stesse moda­ lità con le quali si spiegano i movimenti dei pianeti del sistema solare o le proprietà dei metalli {ivi, pp. 1 3 1 - 1 3 2 ) 5; politica e società non sono, infatti, oggetti osservabi­ li dall’esterno, mettendo tra l’osservatore e l’oggetto una distanza che garantisca l’o­ biettività dell’osservazione. Esse invece vanno guardate com e frutti d i un’attività pra­ tica che coinvolge direttamente anche la natura dell’osservatore, il quale riconoscerà in essa i risultati della stessa capacità d i agire che egli vede in se stesso. In questa prospettiva la filosofia è l’unica disciplina in grado di fornire i con­ cetti necessari a descrivere la complessità dell’uom o e degli insiemi sociali, senza le semplificazioni che, invece, vede nello sguardo positivistico.

Dall'esistenzialismo a l marxismo. L’esordio filosofico di Sartre con L ’essere e il nulla è segnato da un interesse prepondernate per la filosofia dell’esistenza e cerca di definire il m odo d’essere dell’uomo, la sua natura ad un tempo determinata ed inde­ terminata, concentrandosi sulla questione della libertà umana. Egli cerca di delinea­ re l’ambivalenza dell’essere umano gravato, per m i verso, da una natura fisica e da un passato che lo determina m a che resta «condannato ad essere libero», ovvero impos­ sibilitato a sottrarsi alla fatica di scegliere, di conferire significato alla sua vita, di defi­ nire e ridefinire continuamente la propria posizione nel m ondo e il proprio fine. L’uomo, nel contesto dell’esistenzialismo sartriano, è quindi un «essere in situazione» collocato in un luogo, determinato dalle vicende pregresse, circondato da cose-uten­ sili, osservato dal suo prossimo con im o sguardo che lo definisce e lo fissa in schemi comportamentali ma, contemporaneamente libero nel conferire a questa dimensio­ ne determinata della sua esistenza un significato e libero di agire e decidere. M olti autori, tra i quali H enri Lefebvre, Pierre Naville e M aurice MerleauPonty criticheranno molto aspramente questa parte della produzione sartriana, accu­ sando l’autore di avere conferito un eccessivo primato al soggetto e di avere prestato scarsa attenzione all’elemento della socialità, considerato centrale per descrivere la natura e la condizione umana. Sarà proprio sulla scorta di queste critiche che Sartre avvierà un percorso di revisione dei suoi temi di ricerca che lo condurranno al tenta­ tivo sviluppato nel saggio Questioni d i metodo, che apre la Crìtica della rapane dia­ lettica, in cui l’autore tenta di integrare marxismo e scienze umane al fine di svilup­ pare un m etodo in grado di fare tesoro delle acquisizioni della ricerca letteraria e filo­ sofica nella riformulazione di un’analisi della società di stampo marxista.

Q uestioni d i metodo. Scritto nel 19 5 7 questo saggio mette a punto il tentativo di dare al marxismo una compiuta teoria antropologica. Secondo Sartre, infetti, il marxismo sarebbe percorso da una serie di correnti e interpretazioni che per un verso

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semplificano eccessivamente l’idea marxiana di materialismo e dall’altra schiacciano l’interpretazione dei grandi m utam enti storici in una prospettiva meramente econo­ mica. Se è vero che le analisi economiche marxiane sono state un punto nodale per la comprensione del capitalismo, sarebbe scorretto pensare che questo concetto sia in gradò di esaurire adeguatamente l’interpretazione dell’umano. C o n una battuta tanto concisa quanto significativa, infatti Sartre scrive proprio in quest’opera: «Valéry è un intellettuale piccolo borghese, non c’è nessun dubbio. M a non ogni intellettuale pic­ colo borghese è Valéry. L’insufficienza euristica del marxismo contemporaneo può riassumersi in queste due frasi» (Saktre 19 6 0 , p. 5 1) . Sartre è dunque impegnato nel tentativo di restituire al m arxism o la capacità n on solo di produrre analisi generali ed astratte delle condizioni della società, m a di mettere a punto una m etodologia in grado di comprendere esaustivamente partico­ lare e generale, l’uom o e il suo contesto, il soggetto e la dimensione dell’oggettività in cui esso si trova ad agire e dal quale è condizionato. A l fine, cioè, di guadagnare u n punto di vista sulla totalità del m ondo, Sartre ritiene indispensabile che queste coppie di concetti conservino sempre il loro ruolo: per questo l ’autore definisce il suo m etodo com e «progressivo-regressivo», poiché esso, da un lato, deve progressi­ vam ente procedere a gradi di generalità sempre più am pi al fine di concepire l’in­ sieme del m ondo m a, dall’altro, deve contemporaneamente essere in grado di «regredire» al particolare, cioè a tutte quelle componenti biografiche, a tutti quei condizionamenti economico-sociali che contribuiscono a conferire ad una data individualità la sua form a specifica. Sartre, quindi, è convinto che per cogliere la natura specifica dell’umano sia necessario collocarlo in una triplice prospettiva: l’uomo è cioè «in situazione», cioè in una relazione dialettica con il m ondo che lo circonda, che egli determina e da cui è determinato; egli è però contemporaneamente indeterminato perché agisce sulla base di alcune circostanze oggettive m a è altresì in grado di trascenderle; ed infine è un «essere progettante» ovvero in grado di darsi degli scopi in m odo autonomo.

G li insiem i um ani tra storia e dialettica. Nell’ottica sartriana, quindi, il proble­ m a di comprendere la vita associata in tutti i suoi aspetti va ricondotto, da un lato, alle caratteristiche specifiche dell’attività pratica propria dell’uom o e dall’altro all’in­ sieme di tutte le form e che essa è venuta via via assumendo nel tempo, cioè la storia. L a cifra di fondo dell’uom o è il suo essere costantemente soggetto al bisogno: l’uom o cioè è costitutivamente spinto a cercare al di fuòri di sé oggetti e risorse che gli consentano di soddisfare le proprie necessità. Per soddisfare tali bisogni l’uomo deve operare sulla materia, deve modificare l’ambiente da cui dipende la sua soprav­ vivenza attraverso il lavoro. Q uesta attività, nella quale l’uom o esprime la propria razionalità e la propria creatività, è però segnata da una «struttura» fondamentale che ne determina m olto profondam ente le caratteristiche: secondo Sartre, infatti, il m ondo in quanto tale è caratterizzato da una «penuria» costitutiva di beni dispo­ nibili. L a scarsità, per questo autore, non è affatto una caratteristica di società sto­ ricamente determinate o di periodi particolari; essa è invece una cifra della vita

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umana in quanto tale, che colora la tendenza degli uom ini a cooperare nonostante Tantagonismo e l ’inimicizia latenti. Tuttavia, l’autore non intende affatto sostenere che con ciò la cooperazione è impossibile, essa prende infatti form a proprio all’incrocio tra il problema della scar­ sità e la tendenza di ciascuno ad entrare in relazione con l’altro al fine di soddisfare i propri bisogni. Eim m agine che ne scaturisce mostra gli uom ini dediti a lavorare al fine di produrre oggetti e strumenti destinati ad appagare dei bisogni e intenti a tes­ sere relazioni con gli altri al fine di meglio garantirsi questo appagamento, sullo sfon­ do della scarsità che tende a metterli gli uni contro gli altri. D ’altra parte la cooperazione, che si viene costituendo al fine di appagare i bisogni, diventa una struttura entro la quale l’uom o è condizionato nelle sue scelte e nei suoi progetti. Secondo Sartre quando gli uom ini convivono entro questa pro­ spettiva sono aggregati come una «serie»: essi sono cioè una «pluralità di solitudini» che non entrano autenticamente in relazione tra loro. N ella «serie» gli uom ini vivo­ no in uno stato di «alienazione», poiché i fini di ciascuno, la funzione che ciascu­ no svolge in quanto mezzo per l’appagamento del bisogno dell’altro, le regole in base alle quali l’aggregato seriale funziona sono vissuti com e qualche cosa di estra­ neo, vengono da ciascuno subiti come leggi cui si è semplicemente obbligati a sot­ tostare. N ell’aggregato seriale, cioè, l’attività pratica dì ciascuno contribuisce a costruire un insieme di relazioni che però l’uom o non riconoscere com e proprie e a cui si sottomette per inerzia. N ella sua analisi Sarte contrappone alla tipologia di aggregazione seriale il «gmppo». Questo concetto sembra teso a descrivere una folla percorsa da una comu­ ne volontà di azione, in cui tutti agiscono in vista di un fine condiviso, in cui nessu­ no comanda e nessuno obbedisce, in cui ciascuno pur essendo libero agisce all’uni­ sono con gli altri. Solo in questo m odo la prassi individuale può diventare prassi comune. L’autore definisce questa come la fase in cui il gruppo è «in fusione», pro­ prio perché la volontà di ciascuno sembra immedesimarsi, fondersi con quella degli altri. M a è chiaro che questa form a d i gruppo è fortemente instabile, poiché lo sce­ mare della pressione esterna che ha spinto gli individui ad unirsi fa decadere, con­ temporaneamente, anche la motivazione e il fine comune che avevano prodotto que­ sta fusione delle volontà. I gruppi, soggetti inesorabilmente a questo «raffreddamen­ to», approntano pertanto una serie di dispositivi tesi a contenere questo processo di disaggregazione, sostituendo il fine che aveva mosso la costituzione del gruppo con la conservazione del gm ppo stesso. Il gm ppo, perciò, raffreddandosi non si costitui­ sce più in vista di un fine, m a diventa u n fine in sé. L a prim a conseguenza di questa sostituzione è che il gm ppo passa da una forma di aggregazione spontanea ad una form a organizzata e, in una fase successiva, istitu­ zionalizzata: organizzazioni e istituzioni sono aggregati che si richiudono su se stessi, tendono a conservare la propria unità attraverso la violenza contro l ’esterno, a con­ trollare il comportamento dei loro m em bri in base a regole in grado di trasformare il senso di «fratellanza» spontanea che c’è nel «gmppo in fusione» in un regolamento che i m em bri percepiscono come imposto ed estraneo alla loro volontà.

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Q uesta fise della m etam orfosi del gruppo segna il trionfo della «disciplina», del «controllo», di una rinnovata violenza e defl’afferm arsi d i una leadership che gestisce il potere d i cui il gruppo disponeva com e un «autorità», facendo ricadere gli uom ini in quella form a di aggregazione seriale che il gruppo in fusione aveva rovesciato. Il ritorno della serialità erode, quindi, definitivam ente la differenza tra il gruppo e quel­ la form a d i convivenza tra indifferenti da cui l’autore era partito. L a riflessione sartriana tende quindi ad inquadrare le istituzioni com e il risul­ tato d i una deriva negativa nei processi di aggregazióne degli individui e a m ostrare com e la distanza che separa coloro che si incaricano della gestione del potere dall’i­ stanza dalla quale esso trae origine com e un’inevitabile ricaduta in una condizione di isolam ento degli individui. Su l piano politico, quindi, l’analisi d i Sartre prospetta due possibili status per l’individuo dentro la società: da una lato l’isolam ento, l’alienazio­ ne e l’indifforenza caratteristici dell’aggregatò seriale e dall’altro la m obilitazione entro il «gruppo in fusione», unica circostanza in cu i è possibile stabilire fin i com uni, desti­ nata però ad estinguersi cori l’istituzionalizzazione. Per inquadrare in m odo opportuno il senso d i questa teorizzazione è indispen­ sabile tenere presente che Sartre descrive la genesi delle istituzioni a partire dal grup­ p o in fusione seguendo in m odo m olto ravvicinato le successive form e d i organizza­ zione del partito bolscevico che, dopo avere rovesciato il regim e zarista nel 1 9 1 7 con la m obilitazione di m assa d i operai e m ilitari della R ussia europea, si avvia a costrui­ re la struttura istituzionale della Federazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e organizzare il m ovim ento che lo aveva sostenuto in una nuova form a d i stato.

3.2.3 L o u is A lthusser L a riflessione del filosofo m arxista fianco-algerino Louis Althusser (19 18 -19 9 0 ) inizia con una dom anda che non concerne tanto il procedim ento d i estrazione delle idee universali e valide, quanto piuttosto la filosofia in se stessa. Perché la filosofia si ritiene in grado di dire cosa sia la vita? Perché pensa di conoscere i m otivi profondi che ne spiegano la presenza, che ne m uovono le form e, e ne decidono le evoluzioni? Perché crede di poter dare alle altre attività conoscitive gli elem enti necessari a stabilire se le loro afferm azioni siano vere oppure no? A lcuni fenom eni lo avevano particolarm ente colpito: il fitto che la filosofia si reputasse tenutaria della verità, che si ponesse al di sopra delle altre discipline, che ne controllasse le procedure e ne validasse —o m eno — i risultati. In più, ciò che lo lasciava perplesso era la pervicace tendenza della filosofia a entrare di forza in altri contesti, um ani, m orali, giuridici, politici 0 sem plicem ente naturali, per indicarne il punto di origine, le m odalità di esistenza (cioè la form a), e porne il m om ento term inale; questa attitudine della filosofia, apparentem ente incon­ tenibile, di appropriarsi della storia, d i sm aterializzarla, rendendola della sostanza spi­ rituale del pensiero, e quindi di deciderne le figure e i destini.

Filosofia, storia, conflitto. M ettere sotto indagine il rapporto tra filosofia e storia, ecco il pùnto d i partenza di Althusser. E , com e ogni inizio, non è che l’ulteriore pas­

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saggio di un percorso che continua. Esso risulta essere una presa di posizione «partigiana», all'interno di un settore specifico dell’esistenza, quello del pensiero, che m uta ed evolve essendo già diviso in schieram enti non om ogenei n é om ologabili. Althusser stesso ce ne indica i term ini. N ell’ultim a opera da lu i pubblicata poco tem po prim a di m orire, un’intervista concessa a Fernanda N avarro, intitolata Sulla filosofia (A l t h u s s e r 19 9 4 ), alla dom anda della N avarro: «E quanto al funzionam ento della filosofia?», risponde: «Senza pretendere di essere esaustivo, direi che ogni filosofia riproduce nel suo seno, in una m aniera o in un’altra, il conflitto esistente nel m ondo esterno in cui si trova com prom essa e coinvolta. O gni filosofia porta al suo interno lo spettro del suo contrario: l’idealism o lo spettro del m aterialism o e viceversa». Facciam o attenzione a questa frase, perché racchiude lo schem a generale che h a gui­ dato il procedere della ricerca d i Althusser. Innanzitutto, la filosofia, per quanto tenti di proporsi com e Ragione, vale a dire com e un’attività conoscitiva lontana dalla con­ fusione e dalla m utevolezza degli eventi realm ente esistenti, com e una sorta d i sguar­ do distaccato, incontam inato, in grado d i penetrare cose e fatti fino a sviscerarne le caratteristiche fondam entali e a dare conto della loro apparenza reale, non è almo che un altro dei tanti —al lim ite in fin iti —contesti esistenti. L a filosofia esiste accanto ad altri fatti. G li avvenim enti che la riguardano non spiegano gli altri. Fanno riferim en­ to ai m ovim enti particolari che ne scandiscono le figure. A loro volta, quest’ultim e non si lim itano ad essere un sem plice avvicendam ento di sistem i, tesi, nozioni. I con­ cetti, le idee, i sim boli, le figure che si connettono secondo procedure e passaggi strin­ genti - i processi d i astrazione, gli svolgim enti dim ostrativi, le classificazioni e gli ordinam enti gerarchici —non sorgono a caso, né sono frutto di una spontanea atti­ vità creativa, né sono declinazioni della capacità in tuitiva d i un intelletto sovraum a­ no. Rispondono a tutto un insiem e d i operazioni che lavora per stabilire la supre­ m azia di alcuni di essi su tutti gli altri, facendoli funzionare com e gli ingranaggi di un dispositivo, di un apparecchio o, m eglio, d i una.fabbrica che si attiva p er conflit­ to e produce potere. L a filosofia non è una pacata attività cerebrale che contem pla le verità eterne che essa custodisce. E il frutto di scissioni che attraversano uno strato specifico, quello della teoria. U n a sim ile tesi im plica d i p er sé una m odalità, un m eto­ do di lavoro teorico com pletam ente diverso. N o n fbndato sulla rappresentazione adeguata dell’essenza che la R agione ottiene per riflesso, in virtù del loro rapporto privilegiato, esso m ette in cam po idee a partire dallo scenario conflittuale che lo con­ tiene, e che incide su di esso tanto quanto ne subisce l’azione. Althusser pensa a par­ tire dalla scissione e dal conflitto. Per questo la categoria fondam entale che raccoglie i risultati dalla prim a fase del suo pensiero, che si conclude con la pubblicazione d i Filosofia e fih so fìa spontanea degli scienziati, è quella d i «rottura», da lu i denom inata anche «sovversione» o «trasform azione). Proprio qui Althusser ci spiazza, dichiarando che il pensiero è, a m odo suo, m ateria. E non solo perché è sem pre unito ad un involucro solido (l’aria per la voce, ■ la carta per la scrittura, ecc.). Torniam o alla risposta prim a citata: com e accade negli aln i contesti, la filosofia è lacerata da conflitti. M a ciò significa che non si dà p iù una distinzione form ale tra filosofia e altri am biti d’esistenza. T utti sono m odi d i un unico

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spazio com posto da un’infinità di settori diversi, parziali e stratificati, che, collocati lungo quest’unico livello di presenza fattuale, ne variano la superficie. C iò che Althusser indica nel breve passaggio precedente è che, bloccati i procedim enti d’a­ strazione con cui la filosofia scava la distanza tra sé e gli eventi m ondani dandosi lo speciale statuto di Ragione, «scienza dell’essenza o dei valori eternam ente validi», essa vive e opera secondo m odalità equiparabili a quelle di qualunque altro am bito d’esi­ stenza. E com e ogni altro settore può essere studiata, ricostruendone percorsi e stra­ tegie. Anche per questo la filosofia è caratterizzata da A lthusser in term ini d i «.prati­ ca», di cui lu i stesso dà la definizione: «Per pratica intenderem o generalm ente ogni processo di trasformazione di una determ inata m ateria prim a data in un determ inato prodotto, trasform azione effettuata da un determ inato lavoro um ano facendo uso di determ inati mezzi (di «produzione»). In ogni pratica cosi concepita, il m om ento (o l’elem ento) determinante del processo non è né la m ateria prim a né il prodotto, m a la pratica in senso stretto: il m om ento del lavoro d i trasformazione che m ette in opera». V ista in term ini di pratica, la filosofia risponde alle sollecitazioni dell’organizzazione in cui di volta in volta è presa, in relazione alle peculiari fasi (le congiunture) degli afìrontam enti che la fanno vivere e che la lacerano al tem po stesso. C iò significa che la speculazione da soggetto di conoscenza diviene oggetto di conoscenza, un dato ana­ lizzabile, d i cui si possono rappresentare e illustrare gli sviluppi. L a filosofia non nasce e non si sviluppa com e un blocco unitario d i pensiero. È una paziente opera di costru­ zione che aggancia concetti e contenuti ideali in insiem i all’apparenza unitari, leviga­ ti, senza incrinature. Per questo è sganciata da ogni proiezione soggettiva che sia di natura spirituale o esistenziale. Althusser parla della struttura a dom inante com e di \m processo senza soggetto, nozione che com porta una radicale presa d i distanza da ogni referente um ano, qualificandosi com e antium anism o teorico.

Politica e potere. Seguendo i m ovim enti dei diversi sistem i filosofici, ricostruen­ done le architetture e le strategie, è possibile aprirne la scocca ed apprezzarne il m ec­ canism o, estrarne gli ingranaggi, determ inarne la form a, la collocazione, e il ruolo, definirne le funzioni, verificandone le linee d i funzionam ento com plessive. E da qui vedere dove si dirige questo sistem a, determ inare p er cosa funzioni e quali fin alità ne guidino le m osse. In altri term ini, si passa all’osservazione del rapporto che sussiste tra la filosofia ed altri cam pi, non solo conoscitivi, m a anche p olitici, m orali, esteti­ ci. Q uest’attività di sm ontaggio e ricognizione, che ha occupato A lthusser per tutta la vita, com incia nel 19 5 5 , anno in cui term e i prim i corsi alYEcole N orm ale Supérieitre. Anche le sue due prim e im portanti opere, Per M arx (A l t h u s s e r 19 6 5a) e Leggere II Capitale (A l t h u s s e r 19 6 5b ) non potrebbero essere com prese senza farvi riferim ento, poiché da esse prendono le m osse, e nella congiuntura da essa definita si collocano. Particolarm ente im portanti sono le lezioni (A l t h u s s e r 2006) che Althusser teneva in qualità d i professore incaricato dei corsi d i preparazione all’esa­ m e d i abilitazione all’insegnam ento superiore (agrégation). In essi ricostruisce passo a passo le operazioni che perm ettono al dispositivo filosofico d i penetrare in altri set­ tori ed appropriarsene, in prim is la scienza, ed in particolare quella branca della pra­

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tica scientifica che è la storia. Q uesto m etodo, che usa il conflitto com e mezzo d i pro­ duzione d i conoscenza, e la conoscenza com e attrezzo per condurre conflitti, A lthusser lo riprende, da due grandi scienziati, da lu i considerati com e veri e propri teorici del conflitto: M arx e Freud, appunto. I due hanno coniato g li arnesi per rico­ noscere ed attaccare l’ideologia, la funzione d i totalizzazione svolta d a idee che, pun­ tando sulla loro presunta universalità e giustezza, subordinano elem enti e contesti diversi obbligandoli a rispondere ai loro dettati. M arx, introducendo la categoria di «modo d i produzione », h a provocato im a rottura nella scienza storica — e parallelam ente nell’econom ia, ad essa im propriam ente assim ilata grazie alla funzione di ponte delle generalità, filosofiche —, strappando la storia dal predom inio delle astrazioni che catturavano i fotti storici per fem e declinazioni d i figure rigide, onnicom prensive. E cosi che troviam o concezioni m orali degli avvenim enti storici (quelle in cui ogni evento assum e la qualità d i sim bolo d i un contenuto d i valore), o ricostruzioni in cui determ inate epoche, ad esem pio quella caratterizzata dal sistem a capitalistico, sono elevate a contenuti perenni che si ripetono al d i là delle diversità dei singoli eventi e segm enti storici. Il «modo d i produzione» è un’organizzazione che connette elem en­ ti in rapporto p er realizzare effetti sociali. Tale sistem a, frutto del rapporto tra prati­ che sociali differenti, produce grazie alla stretta che alcune com ponenti dom inanti (ad esem pio il capitale) esercitano sulle altre, obbligandole a riprodurre il potere che le soggioga (nel caso del capitale, la subordinazione della forza-lavoro). Freud ha m ostrato con la scoperta dell’inconscio, che inaugura una nuova branca d i lavoro scientifico (che A lthusser chiam a «continenti», per m etterne in luce la com plessità), che i com portam enti um ani non dipendono dalla natura spirituale o razionale del Soggetto che li pone in atto, non sono espressione della sua incondi­ zionata libertà, della com pleta padronanza di se stesso che, sotto form a d i coscienza, gli perm ette di scegliere avendo piena padronanza delle sue volizioni. Freud ha cir­ coscritto, con il suo lavoro pratico e teorico sulla nevrosi, una diversa definizione di persona, non p iù individualità trasparente a se stessa che agisce intenzionalm ente, m a «topica», cam po di sintom i prodotti dal rapporto, gerarchico (per questo l’im m agine della «topica», che rende l’idea dell’organizzazione piram idale), che lega pezzi diversi (em ozioni, sensazioni corporee, contenuti culturali, linguaggi, ed azioni) in un com plesso che realizza «effetti identitari», ossia assem bla l’«Io» su cui si fondano le condotte sociali ritenute norm ali. L a storia e l’Io, questo dicono M arx e Freud secondo Althusser, sono cam pi di battaglia, in cui un insiem e qualificato d i fo rze prendono il sopravvento m ettendo al lavoro le entità che le fronteggiano. Essi sono i grandi m aestri, con Nietzsche, della crisi, del confronto/scontro che provoca trasform azioni in sistem i di rapporti sempre funzionanti per subordinazione. Sia la storia che l’Io sono costituiti da segni, cioè nascono e si attivano com e fram m enti d i im a m ateria speciale, la cui form a è quella di figure che, al di là della loro solidità, connettono altre figure. In alcuni scritti —m olto poco studiati —, intitolati Tre note sulla teorìa dei discorsi, Althusser denom i­ na questo specifico strato dell’esistenza: il «significante». Esso ha natura com posita. V i fonno parte segm enti diversificati: le scienze (sempre al plurale, perché «La Scienza»

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com e categoria univoca che raccoglie le diverse pratiche conoscitive è esattam ente ciò cu i punta Foperazione di totalizzazione filosofica), l’etica, l’arte (cui Althusser si dedi­ ca a p iò riprese, in particolare studiando il teatro di Brecht), e, naturalm ente, la filo­ sofia. I suoi contenuti sono quelli p iù adatti a stringere un’alleanza con gli elem enti dom inanti dei vari settori, rafforzandone il potere e im piegandoli per rendere p iù soli­ do il proprio. N on a caso Althusser arriva a definire la filosofia, nel testo initolato Lenin e la filosofia, «il vuoto d i una distanza presa», ossia una pratica conoscitiva che, non avendo oggetto proprio, interviene nelle altre per im padronirsene o, sotto form a d i pensiero, per liberarsi dalle totalità concettuali contribuendo a liberarle. A d esem­ p io, rispetto al teatro, A lthusser riprende la duplice critica d i Brecht alla coloritura «psicologica» del personaggio e al pregiudizio che vuole che la scena sia la riprodu­ zione «realistica» di una situazione «vissuta». D escrive prim a il rapporto del teatro m im etico con l’idea d i «dovere» m orale, per p oi m ostrare la nozione che ne control­ la indirettam ente i m ovim enti: la categoria filosofica d i «Soggetto». M arx e Freud hanno m ostrato che dietro la patina levigata d i ciò che è quoti­ diano e apparentem ente «naturale» è all’opera un poderoso m eccanism o d i potere. H loro contributo, inestim abile, è d i aver reso evidente la natura politica d i ogni pratica, qualunque, ne sia la form a, e d i aver focalizzato l’attenzione sulle lotte che ne torm en­ tano il corpo facendolo oscillare tra dom inio e liberazione. E prendendo il punto di vista della trasform azione che.è possibile seguire le fiato n e che conducono all'assem ­ blaggio d i strutture organizzate. Per questo A lthusser estende l’applicazione del m eto­ do «critico» d i analisi strutturale, basato sulla disposizione a «dominante», anche agli stessi M arx e Freud, perché strum ento adeguato a Oacciare la Oaienoria che, tra rica­ dute e svarioni, li ha condotti a scavare una breccia e a produrre un dispositivo com ­ pletam ente diverso d i conoscenza, cioè un nuovo oggetto. A nzi, le m ette sotto il fuoco della critica proprio m ostrando com e, seppure sem bri all’apparenza che v i si oppon­ gano, ragionino ed operino all’interno delle categorie del presunto avversario. N o n a caso il m arxism o tradizionale h a subito identificato A lthusser com e un nem ico.

Revisione d el marxismo. Im piegando, già da Per M arx, il concetto d i «proble­ m atica», A lthusser contrasta la posizione veritativa, d i p er sé assoluta e totalizzante, sposandone im a critica, vale a dire situando i processi d i conoscenza sulle cesure aper­ te dall’incontro/scontro tra com plessi prevalenti e costrutti che, in m odi e form e arti­ colate e parziali, lottano p er liberarsi. Per questo attacca i p iù im portanti esponenti del m arxism o, in particolare quello italiano, a partire da G ram sci, accusandoli di ridurre la stòria alla m anifestazione m ondana d i entità id eali che n e colonizzano ogni aspetto cancellando le scissioni ed estirpandovi il conflitto. L’avversario, qualunque travestim ento prenda, è com unque lo «storicism o». Procedere p er problem atiche significa praticare un am bito a partire dalla congiuntura strategica che lo caratteriz­ za, dalle condizioni poste dallo scontro in atto e dai particolari obiettivi d i ciascuna forza. C h e non è detto che agisca nel senso della liberazione, com e dice A lthusser tenendo presente proprio la storia della teoria m arxista e del m ovim ento com unista. Senza un effettivo sovvertim ento, esso è solo uno delle tante forze che si contendo­

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no l’egem onia (anche il cam po dom inante è scisso e in preda ai conflitti), lasciando però intatto l’im pianto com plessivo del sistem a d i soggezione. N on serve a nulla identificare la «verità» del m arxism o. O ccorre trovare la tattica giusta per abbattere il potere e provocare una rivoluzione, ossia un’uscita dal sistem a di subordinazione garantito dalle nozioni d i «Soggetto», «Origine» e «Fine». A lthusser è totalm ente alie­ no da questa preoccupazione. Proprio per questo M arx e Freud stessi divengono un pezzo d i questo terreno frastagliato da problem atiche avversarie, attraversati anch’essi, sintom i d i congiunture che li com prendono e li travalicano, dal fronte aperto dal cozzo tra apparecchi d i conservazione e forze em ancipatrici. L e rotture tagliano anche queste m acchine com plesse che hanno preso il nom e d i M arx e Freud, l’uno con­ trapponendolo alla sua pesante eredità hegeliana, l’altro alla psicologia evoluzionisti­ ca e m eccanicistica da cui erano partite le sue ricerche. Q uesto orientam ento «per crisi» prende A lthusser all’interno della filosofia, introducendo la dicotom ia tra «filosofia» e «teoria», la pratica d i liberazione che con­ tin ua a disarticolare il potere che serra nel suo pugno il concetto producendo conte­ nu ti del tutto alternativi. Q uesto è lo scontro che li riassum e, m a senza alcuna sinte­ si, tutti, quello cui A lthusser stesso aveva fatto cenno nel brano d’intervista: lo scon­ tro tra «idealismo» e «m aterialism o», che lu i intende com e attività produttiva che sorge nel com une incontro d i elem enti che lavorano per continuare a disarticolare i poteri che ogni volta risorgono. Prospettiva radicalm ente antihegeliana e antidialet­ tica, e che, anzi, vede nella dialettica e nel m arxism o determ inistico dei nem ici pari al potere capitalistico. A d essi A lthusser contrappone un intervento nella teoria d i tutt’altro tipo, quello che, prendendo in carico la sua costituzione politica, punta alla trasform azione, applicando il m etodo e la pratica della sovversione. Anche contro quel m arxism o ha lavorato Althusser: il m arxism o della classe ope­ raia, «soggetto» - univoco, om ogeneo, ed universale—della storia, destinata per la dia­ lettica necessaria che guida la produzione econom ica, essenza della storia, a diventare egem onica, organizzandosi per spinta interna nei partiti com unisti, e assurgendo quindi a forza di rivolgim ento sociale; o il m arxism o della caduta tendenziale del sag­ gio d i profitto, sviluppo obbligato dei cicli econom ici che porta inevitabilm ente alla catastrofe del capitalism o ed alla instaurazione del comuniSm o. N ulla è necessario e nulla è inevitabile: questo è il senso della teoria althusseriana. Tutto è aleatorio: non nel senso che sia fortuito, o che accada nel vuoto, m a perché deciso dai conflitti e dalla direzione che gli aggregati che v i sono coinvolti danno alla loro lotta, indirizzandola verso la trasform azione oltre e contro il potere o verso la sua riproduzione. La ricerca sulle dinam iche critiche conduce Althusser a identificare un m etodo conoscitivo, erroneamente confuso con un’epistem ologia generale, che è già un’azione politica in atto, avendo come obiettivo una rivoluzioneper il comune. Analizzando i pote­ ri dal punto di vista della loro decostruzione, punta a sostituirgli qualcosa di compietam ente altro, un sistema di relazioni —nella teoria com e in tutte le altre ptatiche —che produca società interdicendo qualunque posizione di dominanza. Un’organizzazione che, se pure pone organism i e poteri, sia in grado di liquefarli per riaprire sempre la stra­ da alla partecipazione paritaria ai processi di costruzione sodale ed all’uguaglianza n d

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godim ento delle risorse. Questo sistem a non rimuove il conflitto, m a lo piega alle esi­ genze di percorsi di emancipazione che non s’interrom pono. M olto qui incide l’interes­ se avuto da Althusser per la rivoluzione cinese e le esperienze da essa condotte, anche sul piano della teoria, in particolare alla fine degli anni Sessanta.

Apparati Ideobgici d i Stato. T ale approccio m ette direttam ente in discussione anche la personificazione delle strategie d i totalizzazione che le forze dom inanti m et­ tono in cam po ovunque siano attive pratiche socializzate, l’intellettuale, che per Althusser, qui d’accordo con G ram sci, identifica nella funzione d i direzione com ­ plessiva. M a ciò significa che dalla ricerca sull’im patto della pratica filosofica, si passa ad un a riflessione che tocca le dinam iche d i potere che investono direttam ente la società. Essa travalica quindi il versante della teoria per investire direttam ente l’orga­ nizzazione dei sistem i d i costruzione del consenso, degli strum enti di repressione, delle m odalità, im piegate per esercitare un com ando costringendo i dom inati a ripro­ durre la forza che fi schiaccia. T utto il com plesso d i norm e, di organism i ed agenzie che operano p er m antenere stabile un contesto d i sovranità, cioè di capacità decisio­ nale, eretto sulla dipendenza e l’asservim ento. E lo stato, e i principi che ne guidano la costituzione, a catturare l’interesse d i Althusser. A partire dal 19 6 8 , cioè appunto da Lenin e la Filosofia, com incia ad indagare gli scarti e le discontinuità da cui sor­ gono i dispositivi d i dom inio. T ali apparecchi ora sono considerati non solam ente com e entità organizzate, m a com e segm enti d i variazioni, effetti di conflitti che non si arrestano neanche con l’istallazione d i un dom inio, in quanto esso stesso non è che un m om ento. U n a struttura sociale è un ulteriore scenario della lotta che h a com e posta il controllo e la gestione della società intera. Essa riecheggia nella disposizione da essa assunta, m a soprattutto nelle articolazioni tram ite cu i si attiva: le istituzioni, le agenzie incaricate d i produrre cultura, o quelle che svolgono una funzione pura­ m ente repressiva (ad esem pio l’esercito). Althusser denom ina queste appendici che perm ettono alle forze dom inanti d i costringere la società in un unico corpo d i cui esse sono la testa, A pparati Ideologici d i Stato (A IS). L e definisce m acchine che fun­ zionano «ad ideologia», apparecchiature che bruciano violenza p er produrre potere. Tradotto: esse servono per im porre un potere totalitario m ettendo a frutto l’energia stessa rilasciata dagli elem enti che disciplinano e m ettono all’opera al loro interno. N el caso studiato da Althusser, quello del m odo d i produzione capitalistico, esse sot­ tom ettono le diverse parti della società che dirigono (ad esem pio le varie articolazio­ n i della forza lavoro, o fa ttività creativa, o quella teorica e scientifica) inglobandole all’interno d i enti (il sindacato «integrato»), organism i di varia natura (l’impresa) ed istituzioni (com e il Parlam ento, o la scuola, o hifilosofici) che ne plasm ano le condotte per renderle funzionali e funzionanti, in relazione all’obiettivo strategico che gli appartiene: assicurare raccum ulazione sottom ettendo il lavoro. Il conflitto e gli spostam enti da esso provocati prende ora il centro della scena. E , con esso, il tentativo d i trovare gli spazi e ropportun ità per tentare di sfondare, "di trovare un’alternativa: politica, per quello che riguarda la politica; teorica, per quello che riguarda la tèòria. Focalizzata siigli spostam enti provocati dai conflitti, queste.

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seconda fase della sua produzione, naturalm ente diversificata e densa di passaggi, ha occupato A lthusser fino alla m orte. Il riposizionam ento d i problem atica lo portò a cam biare referenze, ad interloquire con altri autori, in pardcolar m odo politici: Gram sci, Len in, m a, soprattutto, M achiavelli, su cui aveva com inciato a lavorare fin dagli anni Sessanta, precisam ente nel 19 6 1, grazie allo stretto rapporto che aveva, e che continuò ad avere con l’Italia e la sua cultura. È in M achiavelli che Althusser cerca indicazioni per trovare un m om ento angolare in grado d i sfruttare la leva del conflitto per forzare il blocco del dom inio. V i ritrovava, com e possiam o apprezzare nelle letture m agistrali che ne h a fatto, il gioco tattico che fa m uovere delle forze con­ trapposte in una danza continua, causando però crepe e sm ottam enti, da cui un cam ­ biam ento radicale, se le condizioni lo perm ettevano, poteva sorgere. Probabilm ente, A lthusser riteneva che M achiavelli lo avrebbe condotto ad avere elem enti per lavora­ re sulle precipitazioni che provocano m utam enti di regim e. L a sua investigazione, senza dubbio definibile com e teorìa della rivoluzione, non riuscì a toccare questo ver­ sante inaudito, verso cui, a partire da im a teoria della produzione, ha continuato com unque con grande tenacia a tendere. 5 IL TEMA

D alla teoria critica-alla critica di sistema ==? wvmlerhonmérturivérfita.'if '■

3.3

A ltern ative e critich e d ella m o d e r n ità p o litic a

N egli stessi anni in cui com incia a farsi strada un nuovo m odo d i osservare la politica legato alla svolta com portam entista {infra, pp. 3 3 1 e ss.), em erge una linea di ricerca filosofica che presenta elem enti d i novità rispetto alla tradizione (benché essa am i presentarsi com e una riabilitazione della tradizione classica). S i tratta di una riflessione filosofica sulla politica che m ette apertam ente in discussione alcune acquisizioni, già divenute classiche in cam po politologico, della problem atica w eberiana del potere, m a, in senso ancora p iù am pio, l’intero arco della filosofia p olitica che a partire dal Seicento ha dato vita alla scienza politica m oderna, elaborando quella fo rm a p olitica dello stato che ha fortem ente condizionato gli sviluppi teori­ co-politici occidentali. Il riferim ento va ad autori com e Leo Strauss, E ric V oegelin, H annah A rendt, che in m odo diverso e con diversa intensità, m ettono sotto accu­ sa un m odo d i osservazione della p olitica troppo assuefatto'all’idea che la scientifi­ cità delle riflessioni dipenda da un’indipendenza dal valore. Il problem a del valore si pone, in fatti, com e esplicita im postazione epistem ologica di un paradigm a, quel­ lo derivante dalla filosofia m oderna, in cu i teoria e prassi si raccordano in una strut­ tura di pensiero che trova nel positivism o defia scienza p olitica solam ente E suo ulti­ m o m om ento d i realizzazione m a che è operativo sin dalle origini della m odernità.

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L a filosofia p olitica m oderna tende a una costruzione perfettam ente razionale che si concepisce com e autosufficiente, tendendo ad elim inare ogni presupposto teorico e storico, e costruendo, nella tabula rasa cosi ottenuta, una form a razionale, legittim a e perciò giusta. L’unilateralità di questa costruzione è già evidente in H obbes (non a caso specchio polem ico per tutti e tre gli autori). Se si segue questa im postazione la pratica politica si può concepire com e giusta solo m uovendo dall’indicazione che proviene dal quadro delineatosi nella teoria: la buona prassi dipende dall’attuazione d i quanto appare razionalm ente fondato. L a lin ea di pensiero inaugurata da questi tre autori si concentra sul carattere d i form a razionale assunto dalla costruzione della statualità nella scienza politica m oderna, per contestarne, passo per passo, la capa­ cità fondativa in term ini d i condotta pratica. C iò spinge tutti e tre, per quanto con accenti anche lontani tra loro, a m ettere in discussione l’intero apparato categoriale che sostiene questa costruzione: concetti com e sovranità, rappresentanza, stato, i quali identificano il senso che la m odernità attribuisce alla p olitica, costituiscono term ini d i cui occorre invece sottolineare il carattere problem atico ed aporetico. Si tratta ora, per questo indirizzo d i ricerca, d i porre una dom anda d i tip o nuovo sul­ l’origine del politico e sulle prospettive che un a nuova pratica del pensiero può im porre alle istituzioni recalcitranti ad accogliere l’azione dell’uom o in am bito poli­ tico. D a una parte, il ritorno alla filosofia (Strauss, Voegelin) oppure l’em ergere d i un pensare (thinking) (Arendt) contro le strettoie positivistiche della scienza; dal­ l’altra, un richiam o ad im a form a dell’agire p olitico che non si lim ita e non s i con­ sum a esclusivam ente nelle prassi istituzionali dello stato e dei su oi apparati. Q uando si im piega il term ine generico ed astratto d i «m odernità politica» occorre sem pre avere presente questo doppio orizzonte problem atico che non può essere cancellato neppure dal m onopolio dei gioch i linguistici d i tip o politico da parte della scienza p o litica d i im pianto em piristico afferm atasi nel dopoguerra (prim a negli Stati U n iti d’A m erica, successivam ente in Europa).

3.3.1 L eo Strauss

e

E ric V oegelin

U na prim a caratteristica d i questa im postazione filosofica che intende criticare la politica m oderna per rivelarne i tratti degenerativi p iù vistosi è quella d i essere m aturata in un gruppo d i autori che sono stati costretti dal nazism o —o perché ebrei oppure perché dem ocratici — a lasciare l’area culturale tedesca in cu i si erano form a­ ti e a em igrare negli U SA . Q uesta presa d i distanza dalla loro cultura delle origini, in cu i era avvenuta l’incubazione dei totalitarism i d i destra e d i sinistra, h a perm esso loro di innovare radicalm ente l’approccio verso il quadro com plessivo delle dottrine politiche europee. E questo il caso tanto d i L eo Strauss (18 9 9 -19 7 3 ) ed E ric V oegelin (19 0 1-19 8 5 ), m a anche d i H annah A rendt, tre autori le cui opere segneranno profondam ente in m odo diretto e indiretto la cultura p olitica d i fin e N ovecento. Per tutti e tre gli autori il banco d i prova fondam entale è segnato da u n confronto con la teoria politica d i Thom as H obbes, l’interpretazione della quale costituisce anche il punto d i partenza degli sviluppi da essi im pressi alla rinnovata analisi della politica.

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In particolare Leo Stranss, cu i si deve la lettura storiograficam ente p iù im por­ tante nonché un m olo fondam entale nella Hobbes-Renaissance novecentesca, sottoli­ nea com e l’im portanza d i H obbes non si lim iti aU’aver fornito un quadro concettuale unitario alla prim a form a d i dottrina m oderna dello stato. P iù in gem ale H obbes è letto com e colui che h a dato risposta, p er mezzo d i un razionalism o radicale, ad alcu­ n i quesiti esistenziali che nella tradizione avevano ricevuto risposte differenti. L e tesi d i Strauss sono così com pendiabili: la filosofia d i H obbes presenta una com pleta fia ttura rispetto alle tradizioni aristotelica, scolastica, giusnaturalistica; la novità non sta tanto nel m etodo scientifico im piegato, quanto nell’attitudine m orale che privilegia com e unica passione buona, tra le tante che a ita n o gli nom ini, la paura della m orte violenta .m entre orgoglio e vanagloria sono giudicate le peggiori e p iù pericolose; tutta la successiva filosofia politica m oderna si fonda, in m odo esplicito o im plicito, sùll’invèrsione hobbesiana fra legge naturale e diritto naturale e sulla teoria della sovranità che necessariam ente ne deriva; in fine, il nucleo m orale del pensiero politi­ co d i H obbes precede il suo travestim ento scientifico. C on la sua tesi sull’ aattitudine m orale», Strauss vuole indicare il fatto che lo stato m oderno, costruito artificialm en­ te, risponde ad una scelta m oralm ente qualificata, la scelta tra vanagloria com e pas­ sione naturale negativa e paura della m orte com e passione naturale positiva. T ale scel­ ta m orale im plica e fonda quella politico-strum entale di sostituire, quale centro d i significato della politica, il «som m o bene» positivo con il tentativo d i evitare il «somm o m ale»; la m orte violenta e angosciosa del singolo, nella ricerca della pace a ogni prezzo. C iò im pone un vuoto d i sostanza alla p olitica che ne determ ina, nella m isura in cui essa si concepisce esclusivam ente a partire dal piano della razionalità che im pone quella scelta, il nichilism o d i base, ovvero la m ancanza d i relazione con valori positivi e qualificativi della p o litica In questo m odo H obbes rom pe radical­ m ente col m odello m orale tradizionale, platonico, legato alla trascendenza e inaugu­ ra lucidam ente il m odello m oderno/liberale cui è subordinata la scienza L a filosofia politica classica, invece, secondo Strauss aveva lo scopo d i in divi­ duare il m igliore regim e, non ro ttim o stato, com e insegna Platone. Aveva cioè uno scopo pratico, non teorico, e non im poneva, partendo dalla certezza assoluta della teoria (cui ora si attribuiscono i requisiti della «scienza»), com e accade nella filosofia p olitica m oderna, un’im possibile repressione alla natura dell’uom o (la città vive del­ l’opinione, non della verità filosofica) (S t r a u s s 19 5 5 ). Per Strauss quindi la filosofia p olitica classica è la struttura intellettuale che consente l ’equilibrio fra gli obblighi della politica e la libertà teorica della filosofia. A tale equilibrio Strauss dà spesso il nom e d i diritto naturale antico, un m odello d i diritto naturale che esclude tanto il giusnaturalism o tom istico cristiano quanto il diritto naturale m oderno di H obbes. Esso consiste nella capacità d i conoscere i principi del bene e del m ale, i quali per­ m ettono d i giudicare in m odo equilibrato la p olitica in base a criteri oggettivi d i valo­ re. A partire da questi diventa possibile educare tutti gli uom ini a un destino m ora­ le, e i m igliori tra essi ad eccellere, spiritualm ente e m oralm ente. I l diritto naturale antico consiste insom m a nel riconoscim ento d i un ordine delle cose che è oggettivo e norm ativo: un ordine però che vede i vari am biti della teologia, d ella filosofia, della

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politica, della m orale, non confusi tra loro e neppure annichiliti, m a differenziati e al tem po stesso reciprocam ente com m ensurabili e com unicabili. L a politica m oderna distrugge quest’ordine con due strategie: da una parte abo­ lisce la distinzione tra gli am biti, in particolare quella tra teologia, filosofia, p olitica e m orale, pretendendo di essere una scienza e dunque d i realizzare in terra un ordine politico perfetto, conform e a verità e m orale (cosi Scen do confonde im m anenza e tra­ scendenza, tentando d i realizzare quest’ultim a in terra attraverso la politica). D all’altra abbassando il livello degli obbiettivi m orali della vita um ana, ovvero abbandonando gli standard m olto alti della m orale antica e sostituendoli con pretese m orali m olto p iù basse che sfociano nell’aperta m alvagità dei com portam enti oppure nella m ediocrità . dell’uguaglianza. L a politica m oderna non è dunque tanto segnata da un rifiuto della m orale, quanto piuttosto dal tentativo, sbagliato, d i identificare la m orale con la poli­ tica, abbassando la prim a al livello della seconda. Responsabili di questa confusione sono i «maestri» della politica m oderna: M achiavelli (Strauss 19 5 8 ), Spinoza (Strauss 19 30 ) e, com e detto, H obbes (Strauss 19 3 6 ). A partire dalla loro opera, in particolare dalla sostituzione com piuta da H obbes tra diritto oggettivo naturale clas­ sico e diritto soggettivo m oderno, si assiste ad una lunga decadenza in cui la politica si può interpretare secondo criteri non oggettivi, fino a declassarsi, nello storicism o (all’origine del quale Strauss colloca Burke) a realtà il cui ordine, i cu i valori, sono E risultato d i azioni non intenzionali m a frutto di un processo in cui E m olo deU’uom o e le sue responsabilità sono annullate ad opera d i forze im personali (Strauss 19 5 3 ). Secondo Strauss ru ltim o passaggio di questa decadenza è E nichilism o che si com pie con N ietzsche, W eber e Schm itt. H a ragione N ietzsche, in fetti, a interpreta­ re la ragione m oderna com e finzione e follia. M a era soprattutto inevitabEe anche se profondam ente sbagliato, neU’interpretazione d i Strauss, che W eber svEuppasse una m etodologia deHe scienze sociali incapace di tenere aperta la tensione tra politica e m orale e quindi di orientare e giudicare la p olitica a partire da valori oggettivi (quan­ do p olitica e m orale sono confusi com e neEa filosofia politica m oderna, la m orale non può giudicare la politica). A l contrario W eber teorizza apertam ente una scienza politica incapace di giudicare, che si proclam a «libera da valori» m a che è tanto insi­ piente, in realtà, da non sapere p iù riconoscere e criticare un tiranno quando lo incontra — la tirannia essendo E rischio perm anente d i ogni politica. Il fallim ento della politica m oderna si rivela proprio in questa specifica incapacità, un’incapacità di giudicare dettata daE’incapacità di discem ere E bene dal m ale. T ale incapacità va di pari passo con la pretesa liberale m oderna di ricostruire E m ondo con la ragione. A l liberalism o m oderno Strauss cosi oppone E ritorno al liberalism o antico, un liberalism o inteso non com e piatta uguaglianza naturale, m a com e educazione dell’uo­ m o alla propria dignità, alla virtù m orale (Strauss 19 68 ). Lesito di questo ritono è anche un rifiuto deE’intera politica m oderna che si com pie con una sua reductio a d H itkrum . Esigenze analoghe a queUe d i Strauss si im pongono anche nell’opera del giuri­ sta E ric V oegelin (19 0 1-19 8 5 ). Anche per \foegelin gioca un ruolo chiave E con­ fronto con'H obbes, confronto che è centrato sulla categoria d i «articolazione». Tale categoria esprim e l’òriéntam entó d i fondo del suo lavoro inteEettuale che si può siri-

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terizzare com e segue. In negativo, esso consiste nel rifiuto del nichilism o, della scien­ za avalutativa e della pretesa della filosofia di costruire il «sistema della verità»; in posi­ tivo, nelle afferm azioni che lo rd in e dell’Essere, l’ordine d i tùtte le cose, è conoscibi­ le dall’anim a intesa com e «sensorio della trascendenza», che tale rapporto dell’anim a con la trascendenza non com porta un riflesso diretto sull’ordine sociale e che anzi lo scarto tra ordine sociale e trascendenza è strutturale e connaturato all’ordine del­ l’Essere e quindi l’esperienza della trascendenza non può e non deve avere com e scopo la costruzione, nel m ondo, d i u n ordine presunto perfetto e capace d i ripro­ durre in copia o realizzare in se stesso la dim ensione dell’Assoluto. Proprio il tentativo d i com piere questa traduzione im m ediata d i un ordine nel­ l’altro è all’origine delle cosiddette «religioni politiche» (VÒÉGEUN 19 38 ), quelle civiltà che non articolando la differenza tra politica e religione, tra trascendenza e im m anenza, finiscono per legittim ate la politica attribuendole significato e valori reli­ giosi. È questo il caso, nell’interpretazione d i V oegelin, del nazism o tedesco (di cui fece esperienza) il quale si presentava com e una chiesa m ilitante, m a anche della reli­ gione solare egiziana di Ekfanaton e, in età m oderna, del Leviatano d i H obbes, il quale distrugge e annulla quella distanza tra dim ensione tem porale e spirituale, tra città ter­ rena e città celeste, che era stata introdotta nel cristianesim o. N ella sua opera p iù im portante, La nuova scienza politica (VÒ e g e u n 19 5 2 ), Voegelin am plia le prem esse d i questa im postazione: la politica può essere .compresa, nella sua prospettiva, solo se la si esam ina a partire dalla consapevolezza che i singoli ordini p olitici hanno d i se stessi. Tale consapevolezza si esprim e nei sim boli (discorsi, istituzioni, ideologie, riti) grazie ai quali danno rappresentazione di sé e si legittim ano. L a rappresentazione di sé che un ordine politico elabora segue quattro vie: quella della rappresentanza ele­ m entare, quella della rappresentanza esistenziale, quella della rappresentanza della verità, quella della rappresentanza trascendentale. Il filosofo deve vagliare questi dispositivi e com prendere com e, ad esem pio, i sistem i o ordini politici orientali (ad esem pio, l’im pero cinese) siano differenti profondam ente da quelli dell’O ccidente. L e civiltà orientali hanno una consapevolezza di sé m olto «compatta» (si presentano cioè agli occhi dei loro cittadini-sudditi com e l’espressione p olitica d i un ordine cosm ico d i origine divina), gli ordini p olitici occidentali, invece, a partire dalla polis greca si sono pensati e legittim ati in m odo «articolato», ponendosi in un rapporto d i tensio­ ne critica con una trascendenza che non hanno preteso di riprodurre in terra. Il punto d i contatto e di tensione tra le due dim ensioni (terrena e trascendente) è il soggetto dotato di un’anim a che è «sensorio della trascendenza», ovvero elabora la noesi, il sape­ re filosofico della trascendenza. Si deve, infetti, alla G recia Fintroduzione del princi­ p io antropologico a partire dal quale l’ordine politico prevede la presenza di un sog­ getto in rapporto con la trascendenza che però non si legittim a in m odo autoritario, com e portatore della verità, m a attraverso la ricerca del consenso e della persuasione.

La differenza tra compattezza e articolazione conosce un approfondimento con l’avvento del cristianesimo, il quale introduce il principio soteriologico. Con esso s’intende Fintroduzione della promessa di una salvezza per l’anima, che non è certa, ma rischiosa, e che non si compie in terra ma in un’altra dimensione. La conseguen­

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za dell’introduzione d i questo principio è una generale svalutazione dell’orizzonte politico ed è per questa ragione che sulla base d i una profonda incom prensione della tensione tra cielo e terra, a partire da G ioacchino da Fiore per arrivare alle ideologie politiche del X X secolo si assiste a una serie d i m ovim enti e dottrine che cercano la salvezza non nella trascendenza m a nella politica. C om e risultato d i questa ricerca, sbagliata, la politica viene sacralizzata. N asce da qui l’im pulso della filosofia p olitica m oderna alla sem plificazione dell’ordine dell’essere che si realizza nella fid u cia che l’ordine politico possa riflettere la verità e che la storia possa essere il veicolo necessario per la piena realizzazione m on­ dana della verità (e della salvezza). In questa sem plificazione si cela il segreto d i tutte le ideologie m oderne, e d i tu tti i totalitarism i, che appunto pretendono d i realizzare il «paradiso in tetra». V oegelin attribuisce a tu tti i m ovim enti p olitici e religiosi (ad esem pio il puritanesim o o il calvinism o), che nel corso della m odernità hanno pre­ teso d i realizzare la verità in terra, il nom e d i gnosi, o gnosticism o, dal nom e delle antiche dottrine religiose orientali che sostenevano che la conoscenza (in greco gnosi) fosse posseduta da alcuni uom ini che cosi erano destinati alla salvezza in un altro m ondo che non era quello m ateriale. G li gnostici sono ora tu tti quei sapienti-tiran­ n i che, costituendo il m odello d i tutti i settari che si credono p uri, giusti e santi, rim a­ nendo chiusi nei loro ristretti gruppi o partiti pretendono d i com andare sull’intera società in quanto portatori della verità che agli altri resta sconosciuta. Benché il ter­ m ine polem ico abbia principalm ente d i m ira intellettuali e p olitici com unisti del tem po, la definizione di gnosi offerta da V oegelin indica, nel confronto con la noesi sopra descritta, una dim ensione d i conflittualità aperta in ogni esperienza politica. S i tratta di un conflitto tra il tipo d i consapevolezza p er cu i la p olitica deve aprirsi alla trascendenza attraverso la soggettività e i tentativi delle nuove religioni politiche d i costringere la trascendenza all’interno della politica, rappresentandola in sim boli com patti. Se si vuole che la società occidentale sia consapevole d i questo conflitto, è indispensabile, secondo Voegelin, che la scienza politica venga ricostruita e che si torni a riflettere sul fatto che g li ordini p olitici si legittim ano, e dunque vanno giu­ dicati, a partire dal rapporto che hanno con la trascendenza. L a scienza politica m oderna, d i cui H obbes è il padre, con la sua logica im m anentistica, razionalistica, calcolante e quantitativa h a m esso la società alla m ercé degli gnostici, non essendo in grado di valutarne né il pericolo né d i difendersi da essi. In questa conclusione, m olto vicin a agli accenti ipercritici straussiani, non è ricom presa però la condanna di W eber: secondo V oegelin, in fatti, W eber era consapevole della bancarotta della poli­ tica m oderna e, dietro il velo del disincanto, rim piangeva la scom parsa dell’incanto divino (Introduzione metodologica in V o e g e l in 19 5 2 ).

3 .3 .Z H a n n a h A r e n d t H annah A rendt è uno dei personaggi p iù em blem atici della crisi della m oder­ nità. Asistem atica e im possibile da inquadrare in precise correnti di pensiero, la sua vita da «ebrea errante» rispecchia il com plessivo senso d i sradicam ento e spaesam en-

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to non soltanto degli ebrei del X X secolo, colpiti dal flagello del nazism o, m a anche di quanti tra apolidi, m igranti, senza-patria hanno popolato lo spazio a cavallo tra Europa e Stati U n iti tra le due guerre m ondiali. A llieva e intim a di H eidegger, lau­ reatasi con K arl Jaspers a Friburgo, fu costretta a lasciare la G erm ania nel 19 3 3 , ripa­ rando a Parigi. D a qui nel 19 4 1 em igrerà negli Stati U n iti dove si stabilirà in via per­ m anente, D al 19 5 7 inizia la sua lunga carriera accadem ica conclusasi solo con la m orte, il 4 dicem bre 19 7 5 a N ew York. D a cittadina am ericana visse in seguito la stagione degli scontri razziali, delle rivol­ te studentesche e della guerra del Yiem am , tra gli anni Sessanta e Settanta. A utrice con­ troversa e di difficile collocazione disciplinare, restò invisa tanto alla sinistra per la sua definizione del comuniSmo sovietico com e form a di totalitarism o, quanto al m ondo sionista, poiché, pur volendo condividere sino in fondo la tragedia del popolo ebraico m antenne sempre un’autonom ia di giudizio ed una distanza dalle prescrizioni etiche e m orali della religione. M ale accolta fu, in particolare, la sua definizione di Eichm ann — condannato a m orte in quanto responsabile della logistica nello sterm inio degli ebrei - com e banale burocrate, privo di quei tratti d i m alvagità che un’opinione pub­ blica, ancora scossa dalle vicende belliche, si attendeva d i trovare (Arendt 19 63a). Im possibile, del resto, la sua collocazione nelle fila dei conservatori. N el corso delle lotte studentesche degli anni Sessanta e Settanta si schierò a favore del m ovi­ m ento contestatario am ericano, sebbene con im portanti distinguo. Attraverso alcu­ n i testi salienti della sua opera, andrem o ora ad osservare verso quale tradizione dot­ trinale e contro quali elem enti della teoria p olitica A ren dt costruirà la sua critica alla m odernità politica.

L ’a nalisi d el totalitarismo. L a prim a im portante opera dell’autrice, pubblicata nel 19 5 1 è un’indagine sulla genealogia del totalitarism o com e nuovo fenom eno p olitico del X X secolo. Esso affonda le sue rad ici nell’im perialism o, nel razzism o, che ne è l’ideologia dom inante, e nell’antisem itism o dei m ovim enti pannazionali­ sti, sviluppatisi a cavallo tra le due guerre m ondiali. L a prim a spinta alla sua form azione viene però rintracciata d a A rendt nel crol­ lo della visione liberale dello stato. L’em ancipazione politica della borghesia nei seco­ li e v a d i pari passo con l’afferm azione dello stato-nazione, ispirato da im perativi utilitaristici e individualisti. Tutto l’apparato statuale viene concepito dal pensiero borghese in funzione della realizzazione del benessere econom ico del singo­ lo e della proprietà privata. Thom as H obbes è considerato dall’autrice l’alfiere d i tale concezione. N el Leviatano (H obbes 16 5 1) l’uom o vive nella paura del proprio sim i­ le ed è dunque alla ricerca continua d i un potere in grado d i garantire la propria sicu­ rezza e quella dei propri beni. Il corpo politico a cui dà luogo non può che basarsi quindi sull’accum ulazione continua d i potere, il quale h a com e unico scopo: l’ulte­ riore accrescim ento d i beni. Q uesta circolarità si traduce nella richiesta d i ordine che la borghesia soddisfo con l’istituzione dello stato nazionale, per l’esercizio m onopoli­ stico della forza verso tutte le m inacce esterne ed interne alla proprietà. O ltre la sicu­ rézza non esistono altri vin co li tra g li uom ini. A riprova d i d ò , H obbes considera del

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tutto legittim o che i reietti della società non abbiano alcun obbligo nei confronti della com unità che li esclude e, anzi, possiedano tutto il diritto d i esercitare la p ri­ m ordiale facoltà d i uccidere per ripristinare l’eguaglianza naturale. E da questa neces­ sità d i accum ulare il potere per la difesa dell’accum ulazione del capitale che sorgerà l’ideologia «progressista» del tardo X IX secolo, prem essa all’ascesa dell’im perialism o. N ella lettura d i A rendt, H obbes è indirettam ente responsabile anche dell’altra radice del totalitarism o, cioè il razzism o. Il filosofo inglese fornisce in fetti al pensiero polidco, «il presupposto di tutte le teorie razziali, cioè l’esclusione in linea d i principio dell’idea di um anità, che è la sola a guidare il diritto intem azionale» (Arendt 1 9 5 1 , p. 2 19 ) . L o scontro tra Leviatani entro uno stato d i natura, com porta th è i rispetti­ v i p op oli si percepiscano l’un l’altro com e delle «tribù», tra d i loro isolate e senza lega­ m i d i solidarietà, unite solo dall’istinto anim ale d i autoconservazione. A ll’interno di ogni singola tribù nazionale, p o i, il razzism o trova specifiche varian ti. In Francia per opera dell’aristocrazia, il conte de Boulianvilliers im m agina, all’inizio del XVHE secolo, una razza d i uom ini conquistatori, d i origine rom ana, che dopo aver sottom esso le popolazioni galliche im posero loro la civilizzazione. Inventando la tradizione d i due p op oli razzialm ente diversi che convivono .in un unico spazio geografico, il nobile francese intendeva fronteggiare l ’afferm arsi dell’i­ dea d i nazione, che saliva lentam ente dal corpo del Terzo Stato e che viceversa m ira­ v a a porre tu tti i francesi sotto una m edesim a legge. L a m atrice germ anica del raz­ zism o viene invece rintracciata non tanto tra le fila d i un’aristocrazia sprezzante e gelosa della sua purezza, quanto nel sentim ento diffuso della dolorosa m ancanza di una nazione. Tale percezione, divenuta consapevolezza durante le cam pagne d i con­ quista napoleoniche, perm ise, d a un lato, lo sviluppo d i un surrogato ideale quale il vincolo dei legam i d i sangue, dall’altro, E fiorire d i u n ideale rom antico della «per­ sonalità innata», una nobiltà slegata da titoli e possedim enti, m a non m eno rigida nell’attribuire delle gerarchie «naturali» tra in dividui. U lteriore variante è quella inglese, dove la dispersione geografica dell’im pero richiese alla borghesia l’im pianto d i un’ideologia della «m issione nazionale» capace d i riconnettere gli anglofoni ideal­ m ente sotto uriu nica com unità fisicam ente dispersa. Il grande evento catalizzatore per i paesi occidentali fu l’esperienza d i conquista del m ondo e delle sue ricchezze. L’im perialism o occidentale, forzando le vecchie strutture statali, trovò nell’ideologia nazionalista la copertura perfetta p er assecondare E processo d i espansione dei capi­ tati della borghesia europea al d i là deUe frontiere. Il nazionalism o coinvolge senti­ m enti ed em ozioni, m entre lo statalism o si interessa in m aggior m isura deti’archi­ tettura detie istituzioni e detie loro funzioni. Stato e nazione non sono quindi affat­ to sinonim i. A d un certo punto della sua ascesa, la borghesia com inciò a considera­ re lo stato un ostacolo ai propri traffici, e si appoggiò perciò sull’altra definizione di com unità organizzata, la nazione, m eno definita e p iù aperta all’influsso dell’ideo­ logia. A dottò così, con diverse varian ti, la parola d’ ordine della «grande nazione» com e un a copertura sufficientem ente elastica sotto la quale porre in funzione un sistem a burocratico ed am m inistrativo coloniale organizzato attorno al principio deUa suprem azia della (pròpria) razza.

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Il terzo fattore storico-politico propedeutico all'instaurarsi del totalitarism o, altrettanto im portante dell’im perialism o e del razzism o ad esso connaturato, è ra f­ ferm arsi in Europa centrorientale dalla fine del X IX secolo dei pan-m ovim enti (pan­ slavism o russo e pangerm anesim o) risolutam ente antistatuali e antipartitici, m iranti a riunifìcare in un unico territorio i m em bri di una com unità di sangue (stessa lin ­ gua, stesse usanze, stessi riferim enti sim bolici, ecc.)- Q uesti m ovim enti, si sviluppa­ rono principalm ente nell’area dell’im pero austro-ungarico e nella R ussia zarista e sul­ l’onda d i una serie di rivendicazioni particolaristiche centrate su prerogative etniche e culturali in senso am pio. Il nazionalism o che ne sortì viene considerato da A rendt una «scuola di trialism o». Si vennero cosi a creare all’interno d i stati m ultinazionali delle tribù nazionalistiche, spesso con una base sociale popolare e disagiata che fin i con lo scavare le fondam enta stesse dello stato «ufficiale». D opo la prim a guerra m on­ diale la volontà nazionale, intesa com e autodeterm inazione dei popoli, prese il posto della concezione precedente (starnale), incardinata sull’eguaglianza dei cittadini, di derivazione illum inistica e liberale. L’apparizione del totalitarism o è dunque un fatale incrocio di processi differen­ ti: fim perialism o com e attività affaristica su scala intercontinentale e il razzism o com e attrezzatura ideologica di copertura. M a anche l’em ersione dei pan-m ovim enti com e reazione ai processi d i espansione capitalistica da parte della plebe, stim olata da m inoranze intellettuali borghesi, fanatiche e ideologizzate, a rinchiudersi in una pretesa om ogeneità razziale, culturale e sociale, allontantandando da sé le m olteplici ragioni d i conflitto che attraversavano lo spazio politico europeo, soprattutto dopo la disgregazione dei grandi im peri austro-ungarico, russo, e ottom ano. M entre la plebe, alim ento d i tutti i nazionalism i fanatici, è «un sottoprodotto dello sviluppo capitalistico, il m ateriale di scarto um ano che le crisi, im m ancabil­ m ente seguite ai periodi d i prosperità industriale, avevano elim inato per sem pre dalla schiera dei produttori» (Arendt 1 9 5 1 , pp. 2 0 9 -2 10 ), le m asse sono figure d i uno sce­ nario poststatuale, in quanto la loro form azione deriva dai «fram m enti d i una società atom izzata, in cui la struttura com petitiva e la concom itante solitudine dell’indivi­ duo erano state tenute a freno soltanto dall’appartenenza a una classe» (ibidem ). N ella sua caduta in fatti, lo stato liberale trascina con sé un sistem a d i equilibri in cui i partiti rappresentavano i diversi interessi delle classi. U n a volta crollata la «m uraglia protettiva classista)», lo sbandam ento delle m asse sferzate dai m ali tipici di tutti i dopoguerra —alta inflazione e alta disoccupazione —divenne disperazione dif­ fusa. E questo il contesto in cu i si form a la «m entalità dell’uom o d i m assa europeo». Riprendendo accenti com uni a diversi autori del X X secolo A rendt considera l’uom o-m assa un prodotto tipico della m odernità industriale avanzata, allevato «nel­ l’isolam ento e nella m ancanza di norm ali relazioni sociali» (Arendt 1 9 5 1 , p. 4 39 ). E proprio l’estrem a atom izzazione della m assa il requisito m inim o dell’afferm azione del totalitarism o. A differenza del «sémplice» dittatore che reprim e brutalm ente il dis­ senso, il capo totalitario si applica con sistem aticità «scientifica» alla distruzione d i un certo gruppo non conform e all’ideologia dom inante. Il livello profondo d i distru­ zione del legam e — quello fam iliare o am icale —è egualm ente perseguito con m eto­

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do analitico. L a fedeltà che il m ovim ento totalitario ottiene è tanto p iù ferrea quan­ to p iù essa è priva d i ogni slancio em otivo e appare quasi un sem plice m eccanism o ottuso, irriflesso. A differenza, d i tutte le akre im prese politiche nel regim e totalitario non dom ina alcuna finalità. Creare una nuova form a d i stato o sem plicem ente con­ quistare il potere politico assoluto non sono gli obiettivi ultim i d i un regim e auten­ ticam ente totalitario, il suo unico scopo è invece «organizzare il m aggior num ero pos­ sibile d i persone nelle sue file e ferie marciare» (Arendt 1 9 5 1 , p. 4 5 1). È chiara dun­ que la sua vocazione espansiva su scala m ondiale e la necessità d i una ferm a risposta sul piano politico e m ilitare del cosiddetto «m ondo libero». L’originalità del pensiero arendtiano sul totalitarism o non sta tanto nella sco­ perta dell’autoreferenzialità totale del sistem a, quanto nel suo essere il com pim ento perfetto della filosofia: il sogno platonico della realizzazione pratica d i un’idea. N ella concreta realtà dei fatti ciò significa inevitabilm ente l’adeguam ento brutale della com plessità e irriducibilità della pluralità degli accadim enti a schem i logici predeter­ m inati. A ffin ch é questa reductio a d idearti del m ondo sia possibile, sono necessari tipi d i uom ini particolari. Ecco allora l’im pegno a produrre schiere d i esseri deum anizza­ ti ed estraneati, anim ali da lavoro e da guerra, la vera forza irresistibile dei regim i tota­ litari. Il ruolo della m assificazione nella m odificazione antropologica dell’individuo m oderno rende l’analisi arendtiana tutt’altro che estranea alle dinam iche sociali delle dem ocrazie occidentali, p er nu lla im m uni al richiam o fascinoso quanto m ortifero dell’idealizzazione dei grandi discorsi onnicom prensivi. Per questo A ren dt colloca ttanquillam ente il com uniSm o accanto al nazism o, dato che enttam bi partecipano a suo avviso d i una identica logica.

M odernità politica. Sono questi i tem i che spingono l’autrice ad am pliare l’in ­ dagine interrogandosi in profondità sulle trasform azioni esistenziali che la m odernità politica h a prodotto e sulle loro conseguenze nella sfera della politica. È in fetti la dom anda «chi è l’uomo» che presiede a The hum an condition (19 5 8 ). In questo testo si esplicita p iù chiaram ente che altrove la teoria politica arendtiana, che riposa su tre «am bienti» fondam entali, ai quali corrisponde una spe­ cifica attività e un relativo tipo-um ano: 1.

2.

3.

am biente naturale: la Terra nella sua accezione di m ondo organico e inorgani­ co. L attività corrispondente a tale condizione è il lavoro e il tip o um ano è la ­ m inai laborans-, mondo um ano : l’insiem e di artefatti di cui l’uom o si circonda per dare perm a­ nenza alla sua vita sulla Terra. L’attività corrispondente è l ’operare e il tipo um ano è Yhomo faber, polis: lo spazio pubblico in cui gli uom ini possono entrare in relazione gli uni con gli altri e conservare la m em oria dei loro atti m ediante il discorso. L’attività corrispondente è l ’agire, e il tipo um ano è quello che A ristotele definisce zoon

politikon.

D opo la p ie n a : l ’età bipolare e la globalinzazione

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Proprio A ristotele è indispensabile p er com prendere rim p ian to del pensiero arendtiano. Per il filosofo greco in fatti l’azione si può distinguere in praxis e poiesis. L a prim a h a com e fin alità il soggetto. L’azione esce dal soggetto e a questo ritor­ na. L a seconda, invece, è un’ azione finalizzata, cioè esce dal soggetto e fin isce, si esaurisce, in un oggetto. M entre la praxis è specifica della p olitica, la poiesis appar­ tiene all’«arte del fare», del «febbricare» oggetti (tra cu i rientrano le città), del «lavo­ rare per sopravvivere». Sono queste le coordinate in cui si m uovono le tre sfere della vita ad iva specu­ larm ente contraria alla vita contemplativa, che si svolge in interiore harnine e non è interessata dalla relazione intersoggettiva. L a praxis aristotelica, è attività disinteressata e indeterm inabile a prim i, che tra­ m ite discorsi e azioni esem plari è capace di «liberare dei processi», am pliando la sfera pubblica d i partecipazione e condivisione della libertà. In The H um an Conditim i A ren dt è interessata a com prendere com e è accaduto che queste tre sfere, le cui gerarchie concentriche (al centro la polis, p o i il m ondo um ano ed in fine l’am biente naturale), erano ben distinte nel pensiero p olitico antico, si trovino nella m odernità confuse e m escolate. L a polis nel pensiero greco rappresentava lo spazio pubblico dove i cittadini esercitavano in com une le facoltà superiori dell’intelletto, e la libertà n e derivava com e pratica discorsiva in una com unità d i eguali. L’operare ieW hom o fa b er e il lavorare dell’anim ai laborans restavano in qualche m odo attività al servizio della polis, sfera del discorso e dell’azione che perm etteva il riscatto dell’etica dalle lordu­ re della vita anim alesca, la trascendenza della pura strum entalità dell’agire. U na sim ile visione «eroica» e - potrem m o aggiungere - aristocratica dell’azione p olitica è praticam ente scom parsa nella m odernità. T ale sparizione dipende dall’afferm arsi in epoca m oderna del concetto d i «società», oggetto sconosciuto p er l’antichità. N el m ondo greco il dom inio della sfera dom estica — dove tu tti i rapporti um ani sono basati sulla necessità e sul com ando ferreo del capofam iglia—restava ben distinto da quello della sfera pubblica - centrato sull’eguaglianza tra cittadini liberi. L a dim en­ sione privata invece n ella m odernità non si è «lim itata» ad interessare la sfera eco­ nom ica, m a h a subito una sorta d i travaso nella sfera p olitica. L a forza e la violen­ za, giustificabili p er la salvaguardia dell’ordine dom estico, m a rigorosam ente esclu­ se dal consesso pubblico d i uom ini egualm ente lib eri, divengono invece i pilastri della legittim azione dello stato. E proprio il successo del giusnaturalism o m oderno, fautore dell’afferm azione d i d iritti naturali im prescrittibili com e la vita, la felicità, la proprietà, la sicurezza ad aver com piuto involontariam ente questo travaso «illegitti­ m o» dalla sfera p rivata a quella pubblica, offuscando il significato del politico. N ella sfera p olitica sono cosi entrate preoccupazioni che le erano profondam ente estranee. L o stato si fe quindi prim a grande casa e p o i grande caserm a. Ecco perché le dim en­ sion i della forza e della violenza, m utuate dal regno naturale delle necessità biologi­ che e finalizzate ad ottenere «oggetti» im politici forzando il senso della politica fin i­ scono con il sovrapporsi alla dim ensione essenziale d eliap o litica «autentica», dim en­ sione costituita dal potere. Il m onopolio legittim o della forza, lu ngi dall’essere una

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dolorosa necessità d i ogn i potere, com e vu ole la tradizione «realista» del pensiero p olitico a partire da M achiavelli a H obbes sino a W eber, altro non sarebbe che l’introiezione — subito rim ossa — da parte della scienza politica della concezione del potere com e dominus, com ando assoluto dom estico. L a critica alla m odernità p olitica si concretizza quindi in un attacco alla tradi­ zione della scienza politica cosiddetta «realista», che legge il potere com e identico alla forza e alla violenza, dim ensioni legittim e dell’azione dello stato. In p iù luoghi dei suoi lavori A rendt tenta d i separare il nucleo potere-violenza. L a definizione p iù precisa del rapporto che lega l’uno e l’altra apparirà in un testo m olto p iù tardo (Arendt 19 6 9 ). In The H um an Condition, invece, ella è m ag­ giorm ente interessata al profondo rovesciam ento gerarchico com piutosi nella m oder­ nità, p er il quale la polis (e con essa la praxis aristotelica) va scom parendo, m entre l’e­ sistenza individuale tende a fondarsi esclusivam ente sulla poiesis (la fabbricazione), innalzando dapprim a homo fa b er a prototipo um ano vincente, soppiantato p oi, in epoca industriale da anim ai laborans. T re sono g li eventi-chiave all’origine d i questo rovesciam ento dell’antico ordi­ ne: l’esplorazione transoceanica e la scoperta dell’A m erica, la R iform a protestante e in fin e l’invenzione del telescopio da parte d i G alileo. S i trattò d i tre giganteschi terrem oti che fratturarono, n ell’ordine, la concezione dello spazio terrestre, la con­ cezione un itaria del cristianesim o e della fède, e l’id ea che la conoscenza del cielo dovesse restare p er sem pre un regno d i speculazione religiosa o filosofica. Q ueste tre grandi scosse m isero in m oto tre catene d i eventi (geografici, filosofico-religiosi, scientifici) tra loro intrecciate, seguendo le quali l’uom o si ritrovò a concepirsi com e un essere che «crea» tutto il m ondo che abita. M an m ano che l’uom o pro­ cedeva nella consapevolezza dei propri m ezzi d i intervento sulla natura, avanzava parallelam ente quello che A ren dt chiam a il processo d i «alienazione dal m ondo». A l contrario d i M arx, che vedeva n ell’alienazione capitalistica un estraneam ento dell’uom o dal proprio lavoro, A ren dt intende l’alienazione com e un grande viag­ gio introspettivo dell’uom o dentro se stesso. Seguendo le orm e di C artesio, la m ente m oderna, dom inata dal dubbio, finisce per amm ettere che può conoscere solo se stessa e solo tram ite 'ìexperimenlmn, conselandò così la responsabilità della certificazione della realtà (e della verità) alla tecnica. Yhomo faber che si im pone com e prototipo d i questo uom o nuovo, nei secoli X V II e X V IU . D opo rU lum inism o, sorta di età dell’oro dell’ homo faber, nei secoli successi­ v i prende sempre p iù im portanza sociale l’anim ai laborans. Per spiegare questo scivo­ lam ento valoriale del lavoro com e «opera» al lavoro com e sem plice «attività lavorati­ va», A rendt m obilita il concetto di «Vita». U nico valore «sacro» rim asto nella m oder­ nità, ancora m em ore dell’insegnam ento del cristianesim o, la vita m oderna è depriva­ ta del requisito d i im m ortalità che la rendeva sacra agli occhi della religione. L a vita in età m oderna non può concepirsi altrim enti che nel suo significato prim ordiale d i pro­ cesso biologico continuam ente rinascente. A ll’uom o, preda del dubbio e privato della certezza nella vita ultraterrena, non resta che aggrapparsi alla vita biologica, cioè a quel coacervo di istinti e im pulsi attraverso i quali essa si m anifesta identica in ciascuno di

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noi. Grazie anche alla condizione m eccanizzata dell’esistenza m oderna, basata sulla coazione a ripetere gestì p rivi di ogni intelligenza vitale, l ’anim ai laborans em erge com e tipo um ano vincente nella fase m atura della m odernità. Riprendendo qui la lezione di N ietzsche, A rendt constata com e Fuom o m oder­ no tecnologico e progressista non è affatto l’essere p iù razionale che sia m ai esistito. A l contrario, egli è, m olto p iù di quanto pensi, sprofondato in un’epoca d i eclissi della politica e d i dom inio della forza e della violenza. A nche al term ine di questo ulteriore capitolo della sua indagine sulla crisi della m odernità la studiosa ebrea si trova confrontata con il problem a tradizionale della natura del potere.

A nalisi della rivoluzione. Se Vita adiva indagava la dinam ica della m odernità politica da un punto di vista esistenziale e antropologico, On Revolution (19 6 3 ) focalizza l’attenzione verso l’osservazione dei grandi fenom eni collettivi centrali della m odernità politica: la Rivoluzione am ericana e quella francese. A nche in questo caso, la tradizione principale del pensiero p olitico legge le rivoluzioni o com e causa o com e effetto diretto delle guerre. A ren dt n on nega l’evi­ denza del legam e, m a non si lim ita a questa costatazione. M achiavelli fu il prim o a cogliere il m olo strutturante del politico per opera della violenza. E il suo esercizio m ilitare che segna in ogni epoca l’inizio di una nuova entità politica. M a bisogna dedurne che il potere nasce sulla canna del fucile? Secondo A ren dt assolutam ente no. Le due grandi rivoluzioni della m odernità alle quali quasi tutte le form e statua­ li costituzionali m oderne sono direttam ente debitrici, m ostrano proprio le possibi­ lità parzialm ente abortite d i una nuova, diversa e ancora attuale concezione del potere nell’ordine del discorso della politica. L a Rivoluzione francese subì lo scotto fetale di esser fagocitata fin dalle sue prim e battute dalla «questione sociale», cioè dalle richieste d i soddisfacim ento delle necessità vitali (alim entari) d i un gran num ero d i uom ini e di donne. I capi rivoluzionari stru­ m entalizzarono la potenza e la spinta di queste istanze caricandole d i significati m ora­ li per conquistare il consenso delle masse affam ate. Iniziarono cosi le cacce agli «ipo­ criti», dipingendo chiunque non condividesse questo bisogno prim ario im pellente com e «accaparratore» e «affam atore del popolo». L a violenza passò cosi da sem plice m odalità apolitica d i esperire un bisogno alim entare insoddisfatto a strum ento essen­ ziale d i azione politica. Il potere del popolo - secondo A ren dt—sarebbe stato una stru­ m entalizzazione accorta d i questioni sociali im pellenti e dunque avrebbe subito un depotenziam ento letale delle sue possibilità em ancipative. Le esigenze sociali infetti possono trovare soluzione solo ricorrendo alle tecnologie (e alla com unità scientifica), non alla politica, occupata a stabilire le condizioni d i possibilità della libertà d i tutti. M olto diversa fu la R ivoluzione am ericana. Q u i il potere restò, dal principio alla fine, am piam ente separato dalla violenza. N on che gli am ericani non ne cono­ scessero l’im portanza; del resto fu proprio una guerra contro la m adrepatria a per­ m ettere la conquista dell’indipendenza. Proprio a causa di una vasta conoscenza della m ateria i padri fondatori cercarono nella costituzione federale F antidoto ad

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ogni ritorno all’uso della violenza com e m ezzo d i risoluzione dei con flitti tra gli uom ini. Per questo, riconobbero com e legittim o potere solo quello esercitato in com une, negli spazi in cui gli uom ini potevano accordarsi liberam ente e reciproca­ m ente con prom esse e patti d i m utuo soccorso. M entre tutte le altre rivoluzioni, com presa quella francese, im pegnate a distrug­ gere le autorità costituite, si trovarono in grave im barazzo quando, una volta crolla­ te queste, dovettero ricorrere a qualche form a m etafisica di assoluto per reinventare form e d i legittim azione inedite, la R ivoluzione am ericana riuscì a m antenere una concezione dell’autorità non interam ente negativa, recuperandone, al contrario, la nozione rom ana antica e riadattandola alla situazione. Il principio del senato rom a­ no —potestas inpopulo, auctoritas in sencttu —trasposto nel sistem a giudiziario am eri­ cano ne spiega bene l’originalità. L a radice etim ologica d i auctoritas è augere, ossia aum entare, accrescere lungo una linea ininterrotta di successori l’influenza e il pre­ stigio. Secondo questo principio vigente nell’antica Rom a, l’azione e il m utam ento erano concepibili solo increm entando l’eredità del m om ento fondativo. Il percorso am ericano, im bevuto d i quello spirito, unisce «l’atto ‘rivoluzionario’ del com inciare qualcosa di interam ente nuovo» e «l’azione conservativa che difenderà questo com inciam ento attraverso i secoli» (Arendt 19 6 3 b , p. 2 3 2 ). Il problem a dell’esperienza rivoluzionaria am ericana, sem m ai, era un altro. L a costituzione aveva donato la libertà al popolo, m a era riuscita a creare uno spazio in cui questa libertà potesse eser­ citarsi? L a risposta di Arendt, im pegnata nel dialogo a distanza con i m assim i, espo­ nenti del pensiero costituzionalista am ericano com e Jefferson, M adison, Jay, è in ulti­ m a analisi negativa. O ltre al fondam entale diritto d i voto, quegli «spazi p olitici ori­ ginari» che furono le townships am ericane, le assem blee delle prim e colonie, non tro­ varono alcuno spazio nel dettato costituzionale. A nch e la R ivoluzione francese conobbe qualcosa d i sim ile alle townships ame­ ricane. L e m olte società e clubs popolari costituirono il tessuto connettivo della so­ cialità rivoluzionaria e svilupparono in lungo e in largo i p rin cip i d i libertà, egua­ glianza e fratellanza. Esse furono però dapprim a strum entalizzati e p o i affossati, dopo aver svolto egregiam ente il com pito d i elevare alcuni capi rivoluzionari (com e Robespierre) al potere assoluto. L e società e le sezioni furono certam ente eversive d i ogni ordine perché scari­ carono contro l’assem blea dei deputati le «violente richieste d i felicità che è un requi­ sito indispensabile della libertà, m a purtroppo n on può essere prodotta da nessuna azione politica» (Arendt 19 6 3 b , p. 280 ). Eppure esse abbozzarono in m odo con­ traddittorio la possibilità d i uno spazio politico nuovo, in cui la libertà, l’eguaglian­ za, la possibilità d i una sintesi originale tra un ità nazionale e la costituzione d i lin a repubblica federale rispettosa delle diversità e pluralità locali, divennero tem i quoti­ diani nella vita assem bleare d i m igliaia d i società popolari. A rendt considera queste esperienze am ericane e francesi com e em brioni d i dem ocrazia diretta, isole d i auto­ governo che ispirarono tutte le successive esperienze sim ili, nel corso del X IX e X X secolo: dalla C om une d i Parigi del 1 8 7 1 , ai soviet in U nione Sovietica nel 1 9 1 7 , sino ai consigli operai tedeschi, austriaci, italiani e ungheresi dei prim i anni V enti, ed

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ancora l’esperienza consiliare insurrezionale in U ngheria nel 19 5 6 contro il regim e sovietico. Caratteristiche accom unanti di situazioni m olto diverse sono la loro com ­ parsa im provvisa ed inattesa e, soprattutto, l’im placabile lotta che venne condotta contro d i esse, ad ogni latitudine ed in ogni epoca, dai fautori del pensiero politico «tradizionale», centrato sulla prem inenza assoluta dello stato-nazione, della discipli­ na d i partito e del m eccanism o della rappresentanza basato sulla delega. I «professio­ nisti della rivoluzione», nel pensiero arendriano, si pongono dunque in antitesi diret­ ta con le esperienze consiliari d i partecipazione popolare. E ssi non preparano m ai le rivoluzioni e giungono al potere senza altro m erito che la loro notorietà. L a loro influenza sul corso delle rivoluzioni è indubbia, m a essa com porta il ritorno a una m entalità legata agli schem i del passato, incapaci d i leggere le richieste innovative che sorgono dal rapido e m agm atico corso delle fasi rivoluzionarie. Le dom ande principali dei consigli non riguardarono m ai l’instaurarsi dei gran­ d i obiettivi delle ideologie rivoluzionarie—propagandate dai p artiti—com e la società senza classi, la felicità o sim ili, m a la fondazione d i una «vera repubblica», cioè una «form a d i governo che perm etta a ogni m em bro della m oderna società egualitaria d i divenire partecipe dei pubblici affari» (Arendt 19 6 3 b , p. 30 7 ). M entre i partiti — anche rivoluzionari — conferm ano la loro vocazione alla rappresentanza e alla gestione am m inistrativa dello stato, i m ovim enti consiflari si esprim ono solo in con­ testi in cui l’azione innovativa dom ina l’attività politica. A ren dt non è pregiudizial­ m ente contrària al fatto che siano i p artiti a selezionare le élite governanti, sem plicem ente contesta che queste vengano selezionate senza alcuna condivisione reale da parte d i coloro sui quali si eserciterà p oi l’autorità. Il problem a d i tutta la politica m oderna non sta tanto «nel m odo di conciliare libertà ed eguaglianza, m a nel m odo d i conciliare eguaglianza ed autorità» (Arendt 19 6 3 b , p. 323). E questo patrim onio d i esperienze um ane e politiche represso, sottaciuto, e dim enticato, il tesoro perduto delle rivoluzioni. L e istituzioni assem bleari che nelle incertezze d i ogni nuovo inizio aspiravano ad una form a d i autogoverno decentra­ to, libertario e dem ocratico non trovarono alcuno spazio nelle costituzioni m oder­ ne, esse stesse - paradossalm ente - il frutto m aturo d i lotte popolari per la libertà. Q uest’ultim a, quindi, fin i per coincidere con la versione propugnata dai «vincitori», quei partiti per i quali dem ocrazia è solo esercizio esteriore della partecipazione popolare nella periodica chiam ata alle urne.

Potere e violenza. Dal punto di vista, della teoria politica il tentativo piii siste­ matico di riformulare i rapporti tra potere e violenza/forza si trova'in On violence (1969), breve testo scritto sotto le impressioni ancora vive delle rivolte antirazziste americane. Il volume è anche da intendersi come uno dei contributi teorici dedicati al dibattito del movimento studentesco statunitense, cui la Arendt partecipò con un altro scritto, a difesa della pratica della disobbedienza civile come prassi di riafferma­ zione delle libertà costituzionali contro la prepotenza del governo (Arendt 1972). « È il sostegno del popolo che dà potere alle istituzioni d i un paese, e questo sostegno non è altro che la còntinuaizioné del consenso che inizialm ente ha dato ori­

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gine alle leggi. Tutte le istituzioni politiche sono m anifestazioni e m aterializzazioni del potere: esse cristallizzano e decadono non appena il potere vivo del popolo cessa d i sostenerle» (Arendt 19 6 9 , p . 4 3). Potere e violenza sono esam inate dall’autrice nella loro genealogia concettuale. Per quanto attiene al potere A rendt individua una triplice m atrice nel pensiero «tradizionale» della scienza politica: 1) le form e d i gover­ no tradizionalm ente im piegate sin dall’antichità (m onarchia, aristocrazia, dem ocra­ zia) danno per scontato che il rapporto intersoggettivo sia sem pre d i dom inio del­ l’uom o sull’uom o (com ando d i uno/obbedienza d i tutti, com ando d i pochi/obbedienza di tutti, com ando d i m olti/obbedienza di tutti); 2) i teorici del potere assolu­ to dello stato-nazione sovrano europeo, da Jean B odin (X V I secolo) a Thom as H obbes (X V II secolo) im pegnati a far confluire nello stato il m assim o del potere coercitivo nei confronti dei poteri territoriali concorrenti; 3) infine, in epoche p iù recenti, il com ando della burocrazia, il «governo di Nessuno», non m eno autoritario e feroce degli altri tip i d i rapporti di dom inio. N ella teoria politica arendtiana, al contrario, il potere è «la capacità um ana non solo di agire, m a di agire d i concerto. Il potere non è m ai proprietà d i un in di­ viduo; appartiene ad un gruppo e continua ad esistere soltanto finché il gruppo resta unito» {ivi, p. 4 7). A l contrario, la violenza è un’azione sem pre e com unque stru­ m entale, «vicina alla forza individuale» {ivi, p. 49). L a concezione d i senso com une secóndo la quale il potere è un a form a d i dom inio (dell’uom o sull’uom o, m a anche del sistem a sull’uom o) è quindi solo piccola parte d i verità perché esprim e solo una porzione del potere, precisam ente il «potere d i governo», rispetto ad u n fenom eno m olto p iù generale ed onnicom prensivo che interessa tutte le aggregazioni um ane che si pongono un obiettivo sulla base di reciproci patti. M ilitarm ente il «potere del governo» può sem pre distruggere il potere popolare per m ezzo della violenza: il ter­ rorism o d i stato ne è l’eclatante esem pio, sorta d i grado zero del potere. T uttavia il terrore non può in nessun caso creare potere. Il testo si confronta direttam ente con la valorizzazione della violenza com e strum ento legittim o di lotta politica che una parte dei m ovim enti giovanili am ericani contro la guerra e contro le discrim inazio­ n i razziali teorizzavano nella seconda m età degli anni Sessanta e durante i prim i anni Settanta. A rendt vuole dim ostrare che, per quanto giustificabile e razionale, la vio ­ lenza è incapace di prom uovere cause giuste, sebbene in alcuni casi «può servire a dram m atizzare le ingiustizie e a sottoporle all’attenzione dell’opinione pubblica» {ivi, p. 86). In definitiva, però, l’esaltazione della violenza risulta, p iù che elem ento d i una teoria p olitica, una conseguenza dell’«acuta frustrazione della facoltà d i agire nel m ondo m oderno» {ivi, p. 9 1). L’opera arendtiana h a ricevuto diverse critiche dagli storici a causa delle sùe ardite ricostruzioni ed è stata sovente accusata d i giudizi som m ari e superficiali su eventi storici com plessi, com e ad esem pio le rivoluzioni. Senza sottovalutare la cor­ rettezza di m olti appunti critici v a però ricordato che l’autrice ha un approccio par­ ticolare al problem a del giudizio storico. Tram ite il costante dialogo con K ant, una sorta d i traccia sotterranea dei suoi lavori propriam ente p o litici (Arendt 1982), l’autrice sostiene che dopo g li sconvolgenti fritti del X X secolo —in particolare tota-

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titanismo e olocausto — crisi della com prensione e crisi del giudizio vanno di pari passo. I fatti «storici» cioè quelli veram ente im portanti, eccedono una strum enta­ zione esclusivam ente docum entaristica. A l contrario, rim m aginazione, in linea con le posizioni kantiane, va rivalutata com e uno strum ento di conoscenza im portante perché quando si tratta d i em ettere un giudizio, questo va oltre la sem plice perce­ zione del «dato» e dipende, in larga m isura, dalla capacità d i rappresentarsi ciò che non si percepisce tram ite i sensi. Il suo pensiero, m arcatam ente e polem icam ente orientato a im piegare m acro­ categorie concettuali (il potere, l’autorità, la violenza, ecc.), h a urtato la sensibilità di m olti com m entatori, infastiditi dallo snobism o intellettuale dell’autrice. Tuttavia le problem atiche di cui tratta A rendt sono parte integrante della sua biografia e le stes­ se contraddizioni che punteggiano i suoi scritti, sono le contraddizioni della m oder­ nità e della dem ocrazia occidentale, che ella ha guardato da ebrea sopravvissuta, da apolide, da donna costantem ente im pegnata nella politica. O stile allo stato e alla linea realista-razionalista dell’ordine politico di H obbes (e Locke), è altrettanto lon­ tana dal pragm atism o e dall’individualism o antistatuale. Libertaria p iò che liberale, condusse una critica feroce a tutte le form e d i ideologia, sm ontandone pazientem ente le com ponenti irriflesse e i m eccanism i spersonalizzanti.

3.4

T eorie em p irich e d ella p o litic a

3.4.0 La

politicai. Science e l e s u e r iv o l u z io n i

Sul piano della teoria il progetto d i com prensione della politica, caratteristico dell’epoca m oderna, entra lentam ente in crisi non solam ente sul piano filosofico. C o n ogni probabilità, anzi, a innescare la crisi è soprattutto la profonda trasform a­ zione che, a partire dagli inizi del N ovecento, investe progressivam ente le scienze in generale, poi in particolare le scienze biologiche, e attraverso la teoria dei sistem i, anche le scienze sociali. Il vettore principale d i questo «salto evolutivo» è l’adozione sistem atica, in quelle che un tem po erano le «scienze dello spirito» (o anche «scienze della cultura»), d i m etodi, strum enti e tecniche sperim entali m utuate dalle scienze naturati. Il risultato è la genesi d i un nuovo orizzonte d i organizzazione e d i svilup­ po delle scienze sociali in generale6, e la nascita d i «nuove scienze politiche» che tro­ vano espressione in linguaggi ed esperienze d i ricerca m olto lontane, alm eno nelle intenzioni, dall’orizzonte tradizionale della filosofia. Indagare le im plicazioni e i risvolti di questa m utazione dei saperi, peraltro anco­ ra in corso, significa innanzitutto osservare il m odo in cui è m utato lo stile della ricer­ ca e della spiegazione scientifica. Lo stile dei nuovi saperi sperim entati, infatti, ha con­ tribuito ad uno straordinario progresso nell’esattezza delle m isurazioni e nel rigore dei program m i di ricerca accompagnato finora a un forte calo d’interesse per le grandi cor­ nici speculative. Per quanto non subito appariscènte, questo spostam ento dell’attenzio­ ne scientifica dalla cornice al dettaglio ha uriim m ediata ricadu ti anche sull’analisi della

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politica. Consideriam o, per fare un esempio, la grandiosa analogia nella quale Thom as H obbes presenta gli stari sovrani com e m agni homines anim ati dagli stessi appetiti dei singoli, un’im m agine cosi im m ediatam ente efficace da risaltare fin dal frontespizio del libro, che ritrae il Leviatano com e un gigante antropom orfo, form ato dall’unione delle m em bra dei suoi sudditi. O ra, nel m om ento in cui E fuoco della ricerca si sposta su interrogativi em pirici sempre più circoscritti, com e ad esempio l’analisi com parativa tra sistem i elettorali oppure quello della stabilità di una dem ocrazia di massa, l’analogia si declassa inevitabilm ente a sem plice metafora, dal valore ornamentale, E p ur vero che, in entram bi i cam pi, è in questione la stabilità d i un sistem a com plesso, m a una ricer­ ca ingegneristica fecalizzata sui dettagli è troppo consapevole dell’abissale diversità dei m eccanism i psichici e sociali per tributare un qualche credito alle analogie esteriori. C iò naturalm ente non deve farci dim enticare com e quel genere di analogie (insiem e ad altre strategie argoxnentative orientate al quadro generale) avesse un valore di verità in pro­ spettive scientifiche di tipo diverso. C iò che conta ora però è E fatto che, neEa prospet­ tiva offerta dal nuovo taglio analitico deUe scienze sociali e pohtiche, essa non può avan­ zare lo stesso genere di pretesa. Adesso E valore di verità viene di preferenza attribuito ad elem enti analitici ricavati daE’indagine em pirica i cui strumenti si orientano più volentieri alla m isurazione che alla ricostruzione di un quadro generale. I risultati ottenuti daUe nuove strategie d i ricerca indicano anche, p er ovvie ragioni, un nupvo orizzonte d i definizione del realism o politico. A l «realism o a par­ tire dal basso», caratteristico deUe scienze sociali nate nel X IX secolo (cfr. supra, pp. 2 29 e ss.), si sostituisce un «realism o a partire dal dettaglio» caratteristico degli in d i­ rizzi em piristici delle nuove scienze sociali. In questo contesto, la «realtà» della p o li­ tica — al d i là d i qualche form a d i em pirism o ingenuo che sopravvive nelle scienze sociali benché abbandonato in queUe della n atu ra—viene ridefinita entro condizio­ ni esplicative e descrittive d i tipo nuovo. L a p o liticai Science d i scuola am ericana con­ tribuirà, com e nessun altro indirizzo d i ricerca, a determ inare i linguaggi e le cate­ gorie con cu i, a partire dal m om ento della sua afferm azione, si osserva la p olitica, i suoi m eccanism i specifici e le sue istituzioni. Per questa ragione la ridefinizione della p olitica che si com pie nei decenni che seguono la fin e deUa seconda guerra m on­ diale non può che fare riferim ento alla ricostruzione deUa sua storia recente, m a anche delle sue radici p iù lontane. Per quanto alm eno alle origini essa si configu­ rasse com e un a dottrina in aperto con flitto rispetto al m arxism o (conflitto che, alm eno per qualche decennio, sem bra quasi configurare un a sorta d i guerra fredda in teoria), i suoi svEuppi successivi segnano im a serie d i travasi7 che allargano len­ tam ente la sua prospettiva fin o quasi a segnare la sua definitiva afferm azione com e linguaggio m aggiore deU’analisi politica nei nostri giorni.

3.4.1 Dalla «vecchia » alla «nuova» scienza politica R icostruire la nascita e g li svEuppi della scienza p olitica com e disciplina «auto­ nom a» rispetto ad altre che ne condividono l’oggetto d i studio (ovvero la p olitica e le sue m anifestazioni) è operazione non sem plice e per certi aspetti controversa; da

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un latOj perché «la sua storia e la storia dei suoi cultori si intrecciano irrim ediabil­ m ente [ ...] con quelle di altre discipline com e la filosofia politica, la storia delle dot­ trine e del pensiero politico, il diritto costituzionale e [ ...] la sociologia, soprattut­ to e ovviam ente quella politica» (Pasquino 19 8 6 , p. 13 ) ; dall’altro lato, poiché en­ tram bi i term ini che com pongono il binom io (scienza, e politica) sperim entano nel corso del tem po ta li e tante ridefinizioni da rendere assai ardua l ’identificazione d i un paradigm a dom inante o quantom eno d i u n program m a d i ricerca condiviso (Bellini 2 0 0 3 ). In questa com plessità, che em erge nettam ente dai num erosi contri­ b u ti che negli ultim i decenni hanno cercato d i sistem atizzare lo stato dell’arte della disciplina, è com unque possibile isolare due distinte concezioni della scienza p oliti­ ca, una p iù «ampia» e l’altra p iù specifica, u tili a tracciarne l ’evoluzione tem porale e a m eglio chiarirne l’orientam ento analitico. In senso am pio, con il term ine scienza p olitica si può indicare quel corpus di studi che affronta l’analisi delle strutture e dei fenom eni p olitici basandosi su un siste­ m atico e accurato esame dei «fatti», ed affidandosi ad argom entazioni d i natura «razionale» piuttosto che fondate su credenze, opinioni o giudizi d i valore (Bobbio 20 0 4 , p. 862). L a scienza politica propone cioè u n orientam ento allo studio del feno­ m eno politico basato sull’analisi ferm ale e della storia anziché sul «form alism o» giu­ ridico o sul ragionam ento m eram ente speculativo, al fin e d i m eglio com prendere la natura e il funzionam ento d i un a sfera—quella politica, appunto —considerata auto­ nom a rispetto ad altre m anifestazioni della vita com unitaria. S i tratta d i u n orienta­ m ento che, nei suoi tratti generali, presenta num erosi punti d i contatto con i «vec­ chi classici» del pensiero politico (si pensi a Tocqueville, M ontesquieu, M achiavelli, fino a risalire ad A ristotele), e che si sviluppa per lo p iù in Europa a cavallo tra l’O ttocento e il N ovecento, legandosi allo studio d i grandi tem i quali l’organizza­ zione dello stato e i m eccanism i di funzionam ento delle istituzioni, i rapporti d i com ando e obbedienza, l’esercizio del potere e la sua natura; tem i, insom m a, già al centro di consolidate riflessioni m aturate neU’am bitò della dottrina dello stato, della filosofia p olitica e degli stessi studi giuridici, che però la scienza politica affron ta cer­ cando d i ritagliarsi un’autonom a prospettiva d i analisi centrata su un’idea d i p oliti­ ca che non è p iù perfettam ente sovrapponibile a quella di stato, m a che si estende fin o a ricom prendere la classe p olitica, le élite del potere e le strutture organizzative d i interesse e di solidarietà. L e ragioni d i questo arricchim ento prospettico hanno una radice fattuale che è rintracciabile nei processi di dem ocratizzazione, da un lato, e d i industrializzazione, dall’altro. In concom itanza con questi due processi paralle­ li, in fetti, viene a strutturarsi una nuova sfera d’azione non statuale m a politicam ente rilevante, all’intersezione tra stato e società, in cui si generano m obilitazioni per la realizzazione d i fin i collettivi e nascono gruppi p rivati'di interesse e d i solida­ rietà che prem ono sulle istituzioni statali, le quali si rivelano, nel loro operare, assai p iù articolate e com posite di quanto il tradizionale assunto d i unitarietà dello stato lasciasse presagire (Farneti 19 7 1) . L a scienza politica di m atrice europea, la cui em ancipazione com e disciplina autonom a è convenzionalm ente legata alla pubblicazione degli Elem enti d i Scienza

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Politica d i Gaetano M osca n el 18 9 6 , parte da questi nuovi presupposti per concen­ trarsi prim ariam ente su due versanti: da un lato, le form e politiche, m ediante lo stu­ dio delle singole istituzioni (ad esem pio i Parlam enti, gli apparati burocratici, gli ese­ cutivi) e delle finizion i governative; dall’altro, le forze polìtiche, tram ite l’analisi dei principali attori p olitici, delle loro caratteristiche e dei con flitti che costellano il pro­ cesso politico. E proprio nell’am bito d i quest’ultim o filone, peraltro, che vedono la luce i prim i tentativi d i individuare, uam ite l’osservazione em pirica d i fenom eni e serie storiche, alcune «leggi generali» sottostanti ai rapporti d i potere e ai m eccanism i che guidano «il tentativo d i alcuni (pochi) di controllare g li altri (m olti) al fin e di rag­ giungere i propri obiettivi e soddisfare i propri interessi» (S ola 19 9 6 , p . 30 ): si fa rife­ rim ento, in particolare, alla teoria della classe politica e delle élite che vede com e capostipiti Gaetano M osca e V ilfredo Pareto, e alla «legge ferrea dell’oligarchia» ela­ borata da R obert M ichels nell’am bito dei suoi studi sull’organizzazione dei partiti p olitici, che inaugurano una tradizione disciplinare centrata p er lo più. su una visio­ ne «verticale» della vita p olitica e sull’attenzione pressoché esclusiva riservata ai deten­ tori del potere e delle cariche d i governo. L o stato, sebbene considerato nella com ­ plessità delle sue articolazioni interne, rim ane com unque l’orizzonte d i riferim ento entro cui l’azione p olitica si form a e si sviluppa. N onostante l’am pia risonanza ottenuta dai lavori sopra citati, e a dispetto dei tentativi com piuti p er acquisire una propria distintività, l’istituzionalizzazione della scienza politica com e spazio d i riflessione autonom a e dotata d i un proprio, pro­ gram m a d i ricerca si rivela tuttavia un operazione irta d i ostacoli, alm eno in Europa. In particolare, la rivoluzione scientifica dei prim i del N ovecento, e lo sviluppo della corrente del positivism o logico culm inato con la nascita del circolo d i V ienn a nel 19 2 4 , non m ancano di segnare un significativo punto di rottura nel processo d i con­ solidam ento della nuova disciplina, i cui presupposti, per quanto ancorati all’osser­ vazione em pirica dei fenom eni, risultavano ancora m olto distanti dai canoni episte­ m ologici em ergenti anche nell’am bito delle scienze sociali: da un lato, l’am bizione di «imitare» le scienze naturali m utuandone la logica d i inferenza e la capacità d i elabo­ rare spiegazioni e teorie fondate sul principio di causa-effetto; dall’altro lato, posto che la natura peculiare e cangiante dell’oggetto d i studio (i fenom eni sociali) non avrebbe consentito il ricorso alla logica sperim entale tipica delle scienze «dure», una ridefìnizione dell’orientam ento em pirico delle scienze sociali non p iù solam ente com e analisi rigorosa e induttiva della realtà basata su fatti anziché su valori e opi­ nioni, m a anche com e riconduzione della realtà osservata al «linguaggio delle varia­ bili» (Lazarsfeld - Rosenberg 19 5 5 ), tram ite la scom posizione dei fenom eni inda­ gati in un insiem e di proprietà m isurabili e la form ulazione d i ipotesi causali d i tipo probabilistico circa l’intensità e la direzione delle relazioni reciproche. Se l’obiettivo è in fetti quello di far progredite le scienze sociali in m aniera analoga a quelle naturali, e dunque di procedere verso l’elaborazione d i leggi e teorie sem pre p iù generali sui fenom eni sociali e p olitici, fondam entale diventa quella cum ulatività del sapere che solo un repertorio concettuale com une e condiviso e schem i d i indagine replicabili nel tem po e nello spazio possono garantire.

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II passaggio dalla «vecchia» alla «nuova» scienza politica, caratterizzata da una connotazione in senso p iù specifico e «tecnico», da una dem arcazione p iù netta dei propri confini disciplinari, e da un vero e proprio ribaltam ento dell’ottica con cu i guar­ dare alla politica e al potere, prende dunque le m osse da un dibattito che, alm eno in origine, pone al centro della discussione questioni d i m etodo che hanno a che vedere innanzitutto con cosa vada inteso per scienza, e che solo successivamente conducono ad una ridefinizione del proprio oggetto d’analisi, ossia d i quali fenom eni vadano a com porre il concetto d i politica. Tale passaggio avviene perlopiù oltreoceano, dal m om ento che la riflessione politologica in Europa, oltre a presentare una tradizione decisam ente contrastante con l’emergente paradigm a neopositivista, subisce u n brusco punto di arresto con l’avvento delle esperienze d i fascism o e nazismo. G li Stati U niti (che peraltro saranno punto d’approdo per la diaspora d i num erosi studiosi tedeschi) rappresentano invece un terreno particolarm ente fertile per lo sviluppo di una scienza della politica fondata su basi squisitam ente em piriche e orientata a produrre generaliz­ zazioni capaci di spiegare (e predire) fenom eni p olitici circoscrivibili e in qualche m odo «misurabili»: non solo, infetti, h. politicai Science statunitense poteva vantare, agli inizi del N ovecento, una autonom ia disciplinare già consolidata (TAmerican Politicai Science Association, che sancisce l’istituzionalizzazione della com unità scientifica di riferim ento, è fondata nel 19 0 3), m a essa presentava fin dai suoi esordi un orienta­ m ento decisam ente «pragmatico», a favore d i un’osservazione disincantata dei com ­ portam enti politici e d i una scienza «progressiva», capace d i produrre conoscenze certe da utilizzare, auspicabilm ente, per il m iglioram ento dell’azione d i governo. S i tratta di un orientam ento che si rafforza e si radica tra gli scienziati p olitici in un arco tem porale piuttosto breve: dapprim a, saldandosi alla tradizione del prag­ m atism o d i Peirce grazie ai lavori d i Joh n D ew ey su istruzione e dem ocrazia e sui pro­ blem i dell’azione pubblica (D ewey- 19 16 ; 19 2 7 ) e, successivam ente (a m età degli anni V enti), trovando una definitiva consacrazione con gli sviluppi della Scuola d i C hicago e con l’im pegno in essa riversato da personalità com e Charles M erriam e il suo allievo H arold Lassw ell: M erriam , che n d 19 2 4 è presidente dell’A P S A e diret­ tore del D ipartim ento di scienza politica dell’U niversità d i C hicago, lancia pubblica­ m ente un program m a secondo cui «l’indagine sul cam po non è un lusso m a una necessità», e rim arca a tal fin e l’im portanza d i disporre d i fon di adeguati p er rilan­ ciare la ricerca em pirica, raffinando le tecniche di m isurazione quantitativa dei feno­ m eni p olitici in m odo da colm are il ritardo che la scienza politica e le scienze sociali in generale m anifestano rispetto alle scienze naturali (M erriam 19 2 2 ); un appello condiviso dallo stesso Lassw ell che, dal canto suo, contribuisce tra gli anni Trenta e Q uaranta a riportare ad una dimensione «concreta» lo stesso concetto d i politica defi­ nendola, nel titolo d i un celebre volum e, «C hi prende cosa, quando e come» (Lasswell 19 36 ). È in questi anni, e in questo clim a culturale, che si prepara la stra­ da al vero e proprio spartiacque tra vecchia e nuova scienza p olitica rappresentato da quella che è stata chiam ata la «rivoluzione» com portam entista, che vedrà la luce nel­ l’im m ediato secondo dopoguerra per afferm arsi com e orientam ento dom inante all’iriterno della disciplina fin o alle soglie degli anni Settanta. .

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3 .4.2 L a «rivo luzio ne » co m portam entista L a rivoluzione com portam entista investe la scienza politica am ericana tra gli anni Q uaranta e C inquanta, ed è cosi chiam ata poiché, oltre a delineare esplicita­ m ente una prospettiva strettam ente em pirica opposta al «form alism o» e al paradig­ m a statalista dom inanti nella vecchia scienza politica e nello studio delle istituzioni, opera un vero e proprio ribaltam ento dell’oggetto d i studio, proponendosi d i defini­ re tutti i fenom eni p olitici in term ini di com portam ento um ano direttam ente osser­ vabile e «trattabile» con m etodo rigorosam ente em pirico, avalutativo e possibilm en­ te quantitativo. U nità d i analisi diventano gh individui, i gruppi e le loro decisioni: potere, stato e istituzioni, ovvero le m acro-categorie al centro della scienza pobtica tradizionale di m atrice europea, lasciano dunque il posto alle azioni, ai «ruoli» e ai com portam enti concreti dei singoli (ad esem pio il voto, o la partecipazione ad orga­ nizzazioni d i natura politica), nonché alle loro opinioni rilevabih m ediante tecniche e strum enti innovativi quali questionari, sondaggi, interviste. P iù che rappresentare un paradigm a unitario e rigoroso, il com portam entism o si configura - alm eno agli esordi — com e una sorta d i «m ovim ento d i protesta» con­ tro una scienza politica percepita com e ancora debole, disarticolata e poco capace d i contribuire ad un effettivo m iglioram ento della vita p olitica tram ite predizioni e sug­ gerim enti pratici (Sola 19 9 6 , p. 66). A tale m ovim ento aderisce un nutrito nucleo d i studiosi che negli anni a venire si afferm eranno com e i principali protagonisti della disciplina (tra i p iù noti si ricordano D avid Easton, G abriel A lm ond, R obert D ah l e M orton A K aplan), i quali, p u r facendo ricorso ad approcci d i ricerca distinti e occu­ pandosi d i tem i assai variegati (dal com portam ento elettorale alle form e d i parteci­ pazione politica, passando per la funzione d i socializzazione politica e le pratiche d i azione collettiva), condividono u n a serie d i p rin cip i epistem ologici che consentono di identificare un nucleo d i obiettivi com uni (E aston 19 6 5a): 1.

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4. 5.

Principio della regolarità, secondo cu i nei com portam enti politici è possibile individuare uniform ità codificabili in proposizioni em piriche d i valenza gene­ rale dotate d i capacità esplicativa e predittiva. Principio del controllo, in base al quale la validità delle generalizzazioni e delle teorie va m essa alla prova m ediante un a costante osservazione d i fenom eni em piricam ente accertati, e non tram ite m ere speculazioni o operazioni logiche d i tipo deduttivo. Le tecniche d i verifica delle teorie devono essere predisposte in m aniera rigoro­ sa, ricorrendo a strum enti in grado d i trasform are i com portam enti in dati e d i assicurare la possibilità d i autocorrezione tram ite un continuo processo iterati­ vo con la realtà Principio di quantificazione, ovvero una costante tensione verso m isurazioni dei fenom eni reali sem pre p iù precise, oggettive e traducibili in form a num erica. Separazione d i valori e fatti, che sono alla base d i proposizioni d i natura diver­ sa e com e tali debbono essere tenuti rigorosam ente distinti nell’analisi.

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Principio di sistem atizzazione, secondo cui teoria e ricerca em pirica devono procedere d i pari passo e auto sostenersi per dar vita a un sistem a conoscitivo coerente e ordinato. Prim ato della scienza pura rispetto a quella applicata; p ur essendo l’applicabi­ lità delle conoscenze acquisite un obiettivo fondam entale dell’im presa scientì­ fica, esso non potrebbe realizzarsi efficacem ente laddove l’obiettivo conoscitivo «puro» perdesse la propria centralità. Principio di integrazione disciplinare, in base al quale la ricerca p olitica non deve chiudersi rispetto ai risultati d i altre discipline ugualm ente im pegnate nel­ l’analisi del com portam ento um ano, m a m antenere con esse un dialogo utile a recepire stim oli e suggestioni.

Q uesti principi, sistem atizzati ex post da D avid Easton per m ettere ordine in p iù di quindici anni di contributi riconducibili al filone com portam entista, sintetiz­ zano gli orientam enti com uni di una riflessione p olitica che, pur nella varietà dei tem i affrontati, tenta d i em anciparsi da una supposta condizione d i «pre-scientificità» per aspirare allo status di scienza em pirica com e im presa collettiva e cum ulativa, al pari d i altre discipline reputate p iù sviluppate quali l ’econom ia e la psicologia speri­ m entale. U na riflessione che riesce ad afferm arsi con una m arcia decisam ente soste­ nuta, segnata dalla nascita d i riviste specializzate quali la «Behavioral Science» (19 5 6 ) e r«Am erican Behavioral Scientist» (19 5 7 ), e dalla successione ininterrotta alla presi­ denza dell’A P SA , tra la fine degli anni C inquanta e la m età dei Sessanta, d i studiosi aderenti al m ovim ento com portam entista fin dagli esordi (Sola 19 9 6 , p. 69). O ltre all’insoddisfàzione per lo stato dell’arte della disciplina, che com e si è visto, h a costituito il m otore d i questa «rivoluzione», altre ragioni pratiche contri­ buiscono a spiegare la rapida ascesa del com portam entism o e il suo consolidam en­ to. T ra queste, u n ruolo d i prim o piano spetta alla particolare situazione politica degli Stati U n iti sul pian o internazionale n egli anni della guerra fredda: i fau tori del com portam entism o accusano d i astrattezza e di in capacità predittiva la scienza p oli­ tica tradizionale che, proprio in Europa, non era stata in grado d i com prendere i m utam enti epocali che avrebbero accom pagnato il tragico sviluppo delle esperien­ ze totalitarie e del secondo con flitto m ondiale. C ostoro sottolineano la necessità, in un a situazione d i contrapposizione bipolare, d i dotare il «nuovo corso» della disci­ p lin a d i strum enti e tecniche, specie quantitative, in grado d i accum ulare dati e sta­ tistiche su varie dim ensioni (dal grado d i consenso, al concreto funzionam ento delle am m inistrazioni) da poter utilizzare sia per m igliorare le prestazioni del gover­ n o , sia p er difendere su basi concrete e non ideologiche la dem ocrazia e il «m ondo libero» da qualsiasi nem ico (Lasswell 19 4 9 ). A llo stesso tem po, su l piano dom e­ stico, analisi fondate su operazioni alm eno all’apparenza «asettiche» com e la regi­ strazione d i dati e la loro elaborazione statistica avrebbero rappresentato in qualche m odo una sorta d i tutela rispetto ad interferenze e con trolli p olitici delle attività di ricerca in u n clim a d i sospetto com e quello degli anni del m accartism o, in m odo da difendere le scienze sociali «dalla pericolosa assonanza tra sodale’ e socialista’,

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che induceva l’opinione pubblica e i p o litici a guardare con diffidenza alla loro espansione accadem ica» ( E a s t o n 1985 cit. in R egonini 2001, p. 293). V a letta in questo senso, in fin e, anche un’ultim a m otivazione, ovvero la ricerca d i fo n d i pres­ so enti e fondazioni d i natura privata, e in particolare dalla fondazione Ford, che aveva messo in cam po in quegli anni'un’am pia cam pagna di finanziam enti per l’at­ tività scientifica: la partecipazione a tale in iziativa non solo richiedeva, com e pre­ condizione, la presentazione d i progetti d i ricerca im postati secondo canoni m eto­ dologici tali da certificarne la «scientificità» (requisito ancora largam ente associato alle procedure sperim entali proprie delle sciènze naturali), m a anche un’im posta­ zione d i fondo che non desse adito a fraintendim enti ideologici che avrebbero potuto penalizzare la disciplina politologica rispetto alle altre (S o l a 1996, pp. 68 69). L’enfasi sulle questioni m etodologiche, il focalizzarsi sui com portam enti diret­ tam ente osservabili e su una loro analisi com putazionale, la rinuncia a qualsiasi pre­ tesa assiologica e la stessa scelta del term ine «com portam entism o» rappresentavano dunque, da questo punto d i vista, un a scelta «di opportunità» prim a ancora che un’adesione fideistica al credo neopositivista. Il richiam o a questa serie d i a tto ri d i contesto nell’illustrazione degli sviluppi del com portam entism o consente di m ettere in luce il fatto che, al p ari d i quanto accade nella storia di altre discipline, le trasform azioni paradigm atiche e prospettiche che segnano il passaggio dalla vecchia alla nuova scienza politica non sono il frutto esclusivo d i operazioni di autopoiesi, m a si configurano anche com e tentativi d i risposta a specifiche contingenze storiche, e com e tali sono soggette a possibili ripen­ sam enti e aggiustam enti. C osi accade al filon e behaviorista, che a poco più. d i dieci anni dal suo solenne avvio, e in parallelo al già m enzionato consolidam ento com e approccio dom inante nella com unità scientifica d i riferim ento, si trova al centro di un fuoco incrociato tra stim oli al cam biam ento provenienti da studiosi che, pur ade­ rendovi e accettandone le prem esse, ne chiedono un ripensam ento in direzione d i un a prospettiva unificante, e aspre critiche rivolte invece da politologi por cosi dire «esterni», che ne m ettono in discussione l’effettiva capacità d i m isurarsi con la realtà storica circostante. D al prim o blocco d i dissensi originerà l’approccio sistem ico all’a­ nalisi dei fenom eni e dei processi p olitici, m entre dal secondo prenderà vita la fase del postcom portam entism o che sancirà una vo lta p er tutte il carattere «m ulti-paradigm atico» della scienza p olitica (Bellini 2003).

3.4.3 L’approccio

sistem ico

L e prim e critiche al com portam entism o, che com inciano a delinearsi già dalla fin e degli anni C inquanta, provengono proprio da alcuni dei suoi fautori (tra cui G abriel A lm ond e lo stesso D avid Easton) che, alla luce del bilancio d i un decennio, si m anifestano insoddisfatti a causa dell’estrem a parcellizzazione degli studi realizza­ ti, del «ripiegam ento» delle ricerche sul versante m icro, e della spiacevole sensazione d i assistere ad un «rozzo em pirism o» in base al quale i tem i d i ricerca sono scelti non tanto «alla luce della loro rilevanza teorica [ ...] quanto piuttosto sulla base dell’even-

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m ale disponibilità d i m ezzi tecnicam ente adeguati alla ricerca» (Sola. 19 9 6 , p. 1 1 7 ) . Il problem a di fondo, secondo questi critici, è che l’im pegno riversato nell’elabora­ zione d i tecniche di m isurazione sem pre p iù sofisticate, gli sforzi in direzione di una costruzione sem pre p iù raffin ata degli indicatori, nonché la m essa a punto d i stru­ m enti p er l’anahsi dei dati sem pre p iù potenti e costosi, anziché condurre ad una m aggiore capacità d i elaborare ipotesi «scientifiche) (com’era nelle intenzioni origi­ narie) sem brano invece esaurirsi nell’accum ulazione d i grandi m asse d i dati senza saper p oi condurre alla m essa a punto d i generalizzazioni u tili a produrre una vera e propria teoria dei fenom eni p olitici. Pertanto, p u r continuando a riconoscerne com e valide le prem esse m etodologiche d i fondo, essi com inciano a prendere le distanze dal com portam entism o cosi com e sviluppatosi nella pratica, tentando invece d i riva­ lutare la dim ensione m acro e la portata collettiva dei fenom eni politici. È proprio sulla scia d i queste valutazioni che sul tronco del com portam entism o si innesta e si afferm a la teoria del sistem a politico, che attinge buona parte del pro­ prio arm am entario concettuale dalla prospettiva fim zionalista m aturata anni addie­ tro in altre discipline com e l’antropologia (M a u n o w s k i 19 2 2 ; R a d c l if f e - B r o w n 19 5 7 ) e la sociologia ( M e r t o n 19 4 9 ; P a r s o n s 1 9 5 1 ) 8. D el com portam entism o, l’ap­ proccio sistem ico, m antiene l’abbandono dal param etro della statualità per definire l’essenza della politica: lo stato, in fatti, rappresenta solo «una form a transeunte d i organizzazione politica» (P a s q u in o 19 8 6 , p . 17 ) , così com e form e d i politica e d i potere possono èssere rintracciate in altri tip i d i organizzazione (anche d i natura pri­ vata, com e ad esem pio p artiti, associazioni, gruppi d i interesse) e nelle zone d i inter­ sezione tra stato, società e m ercato. L’approccio sistem ico va però oltre il com porta­ m entism o in quanto non si lim ita a risolvere la questione disaggregando i fenom eni politici in una pletora d i ru oli e com portam enti, m a tenta piuttosto d i proporre una teoria generale della p olitica che riunisca, in un unico corpo, l’analisi statica delle strutture con la dinam ica delle interazioni e dei m oli nello svolgim ento d i funzioni. A tale scopo, il concetto d i sistem a politico (che si sostituisce a quello d i stato, espun­ gendo d i fatto quest’ultim o dal lessico della disciplina) rappresenta u n a cornice gene­ rale in grado d i tenere insiem e in m aniera coerente le varie m anifestazioni della p oli­ tica, considerata una sfera autonom a nel p iù vasto universo d i relazioni che caratte­ rizzano la vita sociale, e definita non p iù in term ini d i autorità o com ando m a com e «assegnazione im perativa d i valori p er una società» ( E a s t o n 19 6 5 b ). Il sistem a p oli­ tico, in quanto sistem a, identifica cioè quell’insiem e d i ruoli, procedure e interazio­ n i che, in quanto orientati ad una m edesim a attività (quella politica), possono esse­ re racchiusi entro precisi confini capaci di isolare quella parte d i m ondo fenom enico che si intende analizzare da ciò che ne sta fuori, ovvero dall’am biente. L’approccio sistem ico all’analisi del fenom eno politico fa proprie le prem esse della generai system ihetrry, una form ulazione teorica interdisciplinare basata su i p rin­ cip i dell’ontologia, della filosofia della scienza, della fisica, della geologia, della biolo­ gia e dell’ingegneria (v o n B e k t a l a n f f y 19 6 8 ). Internam ente, il sistem a politico non è riducibile alla sem plice som m a delle sue com ponenti (che possono essere, ad esem­ p io, i sottosistem i elettorale, istituzionale, partitico, ecc.), m a va piuttosto considera-

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to come un complesso di elementi interagenti in cui la modificazione di uno produ­ ce cambiamenti negli altri e, quindi, nel sistema nel suo complesso; da questo prin­ cipio olistico di interdipendenza deriva una prim a regola, e cioè che per definire e comprendere un sistema non basta analizzare separatamente le entità che lo com­ pongono (la «statica», a cui almeno in parte lo stesso comportamentismo risponde­ va), m a bisogna piuttosto tener conto dei rapporti che tra queste entità esistono, cosi come dei meccanismi di «autoregolazione» che portano il sistema a reagire ai cam­ biamenti in m odo da ricostruire il proprio equilibrio e mantenere la propria identità (la «dinamica»). L a questione diventa particolarmente complessa nel caso del sistema politico in quanto, sebbene delimitato da propri confini, esso si configura come un sistema aperto a scambi e transazioni con l’ambiente esterno che è a sua volta costi­ tuito da altri sistemi, quali quello economico, sociale, intemazionale: la seconda rego­ la è dtmque quella secondo la quale l’analisi dei sistemi politici e del loro funziona­ mento non può prescindere dall’esame congiunto del contesto in cui sono inseriti, e dal rapporto che essi istaurano con i sistemi circostanti. N el quadro di queste premesse, un sistema politico non è nient’altro che un mezzo tramite il quale certi tipi di in p u t (come ad esempio le domande che dalla società sono rivolte alle istituzioni, il sostegno elettorale, la partecipazione politica) vengono convertiti in output (decisioni, politiche pubbliche, leggi), che a loro volta producono modificazioni sull’ambiente esterno generando nuove dom ande o nuovo sostegno in un circuito di retroazione (feedback). I temi classici del comportamenti­ smo (comportamento elettorale, socializzazione politica, partecipatone politica) tro­ vano in questo schema un quadro unificante, andando a comporsi nella nozione di input, allo stesso tempo, la questione di quali domande riescano a penetrare il siste­ m a e ad ottenere risposta dà m odo all’analista di tener conto del ruolo svolto da alcu­ ne organizzazioni particolarmente rilevanti nella sfera dell’agire politico, quali ad esempio i partiti e i gruppi di interesse, che possono fungere da agenti aggregatoti o dà «filtri» (gatekeepen) per l’accesso al sistema. L’approccio sistemico, insomma, sembra effettivamente proporsi nei termini di una teoria generale della politica, tanto da aspirare, nel mom ento massimo del suo successo (tra gli anni Cinquanta e Sessanta), al rango di paradigma di riferimento del­ l’intera disciplina. Alle soglie degli anni Settanta, tuttavia, sia l’approccio sistemico che il filone comportamentista saranno oggetto di una serie di critiche che ne ridi­ mensioneranno notevolmente le aspirazioni egemoniche.

3 .4.4 II postcomportamentismo e i successivi sviluppi della disciplina L a contestazione che alla fine degli armi Sessanta investe il comportamentismo e l’approccio sistemico, proveniente dal di fuori dell’ establishment accademico che attorno à questi due poli si era consolidato, è ben più radicale di quella che aveva por­ tato alla formulazione della teoria dei sistemi politici. Per comprenderne la portata e capirne i successivi sviluppi, è senz’altro opportuno ripercorrere brevemente la storia éntro cui tali critiche sono maturate: l’iniziativa parte da un gruppo di giovani poh-

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tologi che si riuniscono nel Caucusf i r a new politicai Science per denunciare l’inade­ guatezza (e rindifferenza) dello stato corrente della disciplina rispetto ad alcuni gran­ di problemi concreti che attanagliano la società americana, dalla guerra in Vietnam alla questione razziale, dalle sacche di povertà ai diritti civili delle donne e delle fasce sociali più deboli. L a protesta, che si sviluppa in parallelo agli anni della m ob ilitato­ ne studentesca e che raggiunge il suo picco nel 19 6 7 quando il Caucus fa letteral­ mente irruzione alla conferenza annuale dell’A P SA . N o n si tratta di una contesta­ zione dell’approccio analitico o dei m etodi adottati, quanto piuttosto d i una pressio­ ne per ridefinire i temi al centro dell’attenzione politologica partendo da due pre­ supposti: in primo luogo che i problemi affrontati siano effettivamente rilevanti, ossia che la valutazione circa il loro interesse euristico e teorico preceda qualsiasi conside­ razione di ordine tecnico/metodologico; secondo, che la comunità scientifica non resti isolata nella «torre d’avorio» dei palazzi accademici, m a si carichi piuttosto della responsabilità di coniugare il sapere prodotto con l’impegno attivo in un progetto consapevole di sviluppo della società e del sistema politico. In altre parole, mentre la critica sistemica si preoccupa principalmente d i ridare dignità teorica ad un corpus di studi che rischia di sfociare in un accumulazione di dati quantitativi disorganica e per buona parte fine a se stessa, l’affondo del Caucus va proprio a colpire gli scopi ultimi della disciplina intesa in chiave comportamentista, e il suo stesso m odo di concepire il rapporto tra scienza e società, ponendo cosi le basi per un vero e proprio supera­ mento di prospettiva. Si ripete, insomma, ciò che era accaduto una ventina di anni prim a alla scienza politica di matrice europea, con la differenza che l’accusatore di allora si trova a vestire adesso i panni dell’accusato. L a protesta del Caucus, che in un prim o mom ento sembra creare il rischio di una spaccatura nella comunità degli scienziati politici, trova in realtà im a pronta risposta da parte di quegli studiosi (primo tra tutti Easton) che, pur essendo presi a bersaglio, tentano di assorbirla senza feria deflagrare: nel 19 6 9 , durante il suo (ormai celebre) discorso di insediamento alla presidenza dell’A P SA , proprio Easton fa infat­ ti sue tutte le preoccupazioni e le rimostranze espresse dal movimento di protesta, accettandone le critiche di fondo e condividendo con esse l’urgenza di procedere ad una nuova fase della scienza politica. In T h e new revolution in Politicai Science, un articolo pubblicato sempre da Easton nel medesimo anno nella «American Politicai Science Review», per la prim a volta viene utilizzato il termine di postcomporta­ mentismo per simboleggiare questo nuovo passaggio, che secondo Easton non avrebbe dovuto rinnegare in tato i passi in avanti comunque com piuti dalla tradi­ zione behaviorista e dall’approccio sistemico (specie riguardo al cammino intrapre­ so verso una più solida e rigorosa scientificità della disciplina), m a ripartire su nuove basi, in direzione di una ricerca politologica finalizzata a migliorare la vita politica tramite lo studio, la comprensione e la spiegazione d i fenomeni di rilevanza «sostan­ ziale» ( E a s t o n 19 69 ). D i fatto, anche grazie a questo intervento, l’agenda post­ comportamentista riesce a ricomporre in m aniera piuttosto agevole la com unità scientifica: da un lato, il nuovo program m a trova infatti una rapida accettazione da parte d im oiti degli esponenti dell’ establishment accademico (ex) comportamentista,

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che comunque continuano a conservare con una certa continuità i ruoli più presti­ giosi all’interno dell’A P SA ; dall’ altro, gli ex prom otori del Caucus vengono in buona parte riassorbiti, nel giro di pochi anni, nei ranghi della disciplina ufficiale, mentre i «recidivi» (spesso neomarxisti) troveranno collocazione in università o college per­ lopiù periferici ( S o l a . 19 9 6 , pp. 74-75). Se dunque col passaggio al postcomportamentismo l’unitarietà della scienza politica come disciplina resta salva, non altrettanto può dirsi dell’aspirazione a crea­ re un unico paradigma di riferimento: dopo la fine dell’egemonia comportamentista si assiste infatti al consolidamento pressoché parallelo di un’ampia varietà di linee di ricerca che, pur condividendo un ormai assodato orientamento empirico e una comune tensione verso finalità esplicative dei fenomeni politici, scelgono oggetti di indagine distinti, partono da diverse idee di cosa sia «politica» e si ispirano a diffe­ renti premesse metodologiche (Bellini 2003). Mettere ordine in un panoram a di studi cosi plurale è un’ operazione complessa e per certi versi arbitraria; p u r tuttavia, se ci limitiamo a identificare quegli approcci che sono riusciti ad aggregare attorno a sé un nucleo significativo di studiosi e a sviluppare un proprio autonomo profilo nel corso degli anni, è possibile individuare quattro principali linee di sviluppo della scienza politica contemporanea. D ue di queste, ovvero la teoria dello sviluppo politico e l’analisi delle politiche pubbliche, si distinguono per il fatto di ridefinire nettamente l’oggetto di analisi, concentrando l’attenzione dello studioso su specifiche manifestazioni del fenomeno politico. Il filone dello sviluppo politico, in realtà, comincia ad affermarsi già alla fine degli anni Cinquanta, in parallelo alla prospettiva comportamentista, in rela­ zione ai processi di decolonizzazione e alla nascita di nuovi stari indipendenti in A sia e in A frica ( S o l a 19 9 6, p. 368). Il problem a principale, per questi studi, è quello di impostare un’analisi rigorosa dei processi storici attraverso i quali i vari sistemi poli­ tici hanno raggiunto una determinata configurazione (in termini di regime politi­ co, assetti istituzionali, diritti dei cittadini), e di procedere, tramite una loro com ­ parazione rigorosa e sistematica per somiglianza e differenza, a individuare stadi e regolarità tali da consentire l’elaborazione di sequenze causali che mettano in rela­ zione, ad esempio, lo sviluppo politico con la modernizzazione socio-economica ( H u n t i n g t o n 19 68 ), con la cultura politica ( A l m o n d — V e r b a 19 6 3 ), con la par­ tecipazione e l’estensione dei diritti politici ( R o k k a n 1969). N el corso degli anni Sessanta e Settanta il tem a dello sviluppo politico riceve ulteriore attenzione, in quanto l’obiettivo di ragionare circa le possibili form e d i governo che si possono instaurare nei paesi che hanno d a poco raggiunto l’indipendenza, e di orientare i paesi emergenti verso m odelli istituzionali di tipo democratico (occidentale e a base capitalista), appare in linea con l’appello alla rilevanza «storica» dei temi di ricerca lanciato dal postcomportamentismo. Proprio nell’am bito di questo filone troveran­ no infatti collocazione numerosi contributi che si concentrano sull’analisi dei pro­ cessi di instaurazione e consolidamento dei regimi democratici, che vanno ad arric­ chire di una dimensione storica tino dei cam pi di indagine maggiormente battuti dalla scienza politica, ovvero l’analisi empirica delle democrazie (vedi box a p . 34 5).

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Il mom ento genetico dell’analisi delle politiche pubbliche, o «scienza delle politiche» (policy Science), è invece meno facile da determinare in maniera netta. A lla base degli sviluppi di questo filone non sta infatti un preciso fenomeno storico, quanto piuttosto un diverso orientamento con cui guardare al fenomeno politico, che è interpretato essenzialmente in chiave di decisioni di pubblica rilevanza. Le varie problematiche al centro dell’attenzione della scienza politica, dal potere al fun­ zionamento ■ delle istituzioni, sono rielaborate dai cultori di questo approccio in un’ ottica attenta ai processi tramite i quali si giunge alla formulazione cu scelte rile­ vanti per la collettività, che possono andare dalla regolazione della gam m a di com ­ portamenti ammissibili alla distribuzione/redistribuzione di risorse pubbliche. Le finalità di questo corpus di studi, la cui paternità è spesso associata all’orientamento pragmatico all’analisi dei fenomeni politici promosso da Lasswell, spaziano dalla descrizione/interpretazione dei meccanismi tramite cui si decide «chi prende cosa, quando e come» (scienza del policy-making), alla prescrizione di quali siano le m oda­ lità più corrette per la gestione della cosa pubblica in m odo da migliorare l’azione di governo (scienza per il policy-makingì (Lasswell 1 9 5 1) ; in entrambi i casi, l’o­ biettivo è comunque quello di cogliere i fenom eni politici nelle loro implicazioni più concrete, interrogandosi sulle ricadute delle decisioni pubbliche rispetto alle col­ lettività di riferimento. A differenza di quanto accaduto agli studi sullo sviluppo politico, che hanno subito m i netto calo di interesse a partire dagli anni Ottanta, l’anahsi delle politiche pubbliche è riuscita ad affermarsi nel corso degli anni come uno dei filoni più «frequentati» della scienza politica, diffondendosi con un certo successo anche in Europa (e in Italia) negli ultim i venti anni. Altrettanto successo hanno riscosso gli altri due approcci con cui chiudiam o questa rapida rassegna delle evoluzioni p iù recenti della disciplina, ovvero l’analisi razionale della politica e il filone neoistituzionalista. Si tratta di due approcci che, pu r in tem pi diversi, hanno origine nell’ am bito delle scienze economiche e si diffondono poi con. una certa consistenza nella scienza politica, influenzandone non tanto gli am biti di indagine, quanto gli assunti metodologici di partenza. L’analisi razionale, o «approccio economico» alla politica, sceglie com e unità di analisi l’individuo, e adotta l’individualismo m etodologico com e strategia d i inda­ gine, considerando le istituzioni e i vari fenom eni politici come aggregati di prefe­ renze e scelte, appunto, individuali. L a logica d’azione postulata è quella della razionalità rispetto allo scopo (logica della consequenzialità) tipica delle premesse dell’economia classica, per cui —al pari di quanto avviene nel mercato —la politi­ ca è vista com e competizione/cooperazione tra individui che agiscono in base alla soddisfazione dei propri interessi, che sono «dati» e a loro perfettamente noti. Si tratta di un approccio che ha trovato am pio riscontro in numerosi settori di inda­ gine centrali nella scienza politica, dallo studio del comportamento elettorale all’a­ nalisi dei rapporti tra politici e burocrati, proprio per la sua —almeno apparente — parsim onia e per la seducente sensazione di poter «sviluppare un corpo integrato d i teorie ipotetico-deduttive capaci di spiegare (e possibilmente di prevedere) un am pio spettro di fatti sociali empirici a partire da pòche assunzioni in apparenza

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auto evidenti» (Belligni 2 0 0 3 , p. 16 8 ). Num erose sono state tuttavia anche le cri­ tiche mosse ai presupposti logici e ai risultati delle ricerche condotte nell’ambito eli questo filone, mettendone in discussione sia il «riduzionismo» delle ipotesi di par­ tenza (che offrono un’im m agine eccessivamente semplificata di una realtà ben più complessa), sia l’idea stessa di razionalità che essi propongono, che ignora i condi­ zionamenti esterni all’azione individuale provenienti dall’ambiente e dal contesto entro cui gli individui agiscono. Proprio da queste critiche si sviluppa l’approccio neoistituzionalista che, a dif­ ferenza del precedente, parte dal considerare come unità di analisi del fenomeno politico le istituzioni o comunque gli organismi collettivi, concepiti non solo come un qualcosa d i diverso dalla mera aggregazione degli individui che ne fanno parte e delle loro preferenze, m a anche come elementi condizionanti l’agire individuale. Sebbene il concetto di istimzione fosse 'già stato rivalutato nell’am bitò delle teorie della scelta razionale per sottolineare l’importanza delle regole com uni e della reite­ razione dei giochi al fine di garantire il raggiungimento di un equilibrio nei proces­ si di decisione collettiva (WniiAMSON 19 8 5 ; N orth 19 9 3), la sua applicazione nel­ l’am bito della scienza politica ne arricchisce notevolmente la portata, tanto da attri­ buirgli una potente valenza esplicativa di buona parte dei fenomeni politici. Le isti­ tuzioni —che secondo l’approccio neoistituzionalista non coincidono solamente con gli assetti di autorità o l’apparato di regole form ali m a includono prassi, routine, organizzazioni e linee di condotta —non vanno infetti concepite com e m eri «equi­ libri», m a piuttosto come entità dotate di una propria autonom a capacità di costrui­ re senso, impartire valori e creare identità collettive in m odo da costituire al con­ tem po un vincolo e una m olla per l’azione dei singoli. G li attori, cioè, rhodulano i propri comportamenti seguendo la cosiddetta «logica dell’appropriatezza» rispetto ai m odelli di comportamento prevalenti nella propria istituzione di riferimento (M arch — O lsen 19 89 ) o, per dirla con M ax Weber, adottando una razionalità orientata al valore e non solamente allo scopo. L e stesse preferenze individuali, in questo quadro interpretativo, vanno intese com e orientamenti che, anziché preesi­ stere in maniera oggettiva, si form ano e si trasformano nel corso dei processi di inte­ razione dell’individuo con i suoi simili, mentre la politica può essere ora conflitto (verso l’esterno), ora solidarietà (verso Finterno delle istituzioni), m a in ogni caso non è riducibile a meccanismi di m era aggregazione e competizione «uno a uno» in quanto caratterizzata da dinamiche di tipo identitario. Questo tipo di approccio, che in Europa si sviluppa in particolare dai prim i anni Novanta, trova un discreto seguito anche ai giorni nostri in diversi sottosettori disciplinari (teoria dell’organizzazione, analisi delle politiche pubbliche, teorie del mutamento politico) grazie alla sua duttilità e alla comprovata capacità di dare rispo­ ste a coloro che si interrogano su come, e perché, il cambiamento politico si realizzi, e quali siano i fattori che possono agevolarne o frenarne la realizzazione. U n elemen­ to, quest’ultimo, che alla luce degli importanti m utam enti in corso negli assetti isti­ tuzionali e nella sfera di autorità dello stato contemporaneo, offre una giustificazio­ ne piuttosto comprensibile del suo perdurante successo;

D opo la guerra: l'età bipolare e la globalizzazione

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IL TEMA

Teorie delia dem ocrazia Poco più di ventanni fa Giovanni Sartori scriveva che quanto p iù il termine ‘democrazia" «ha assunto un significato elogiativo universalmente riconosciuto, tanto più ha subito un’evaporazione concettuale diventando l’etichetta più indefi­ nita del suo genere. [...] D alla seconda guerra mondiale in poi, ‘democrazia’ abbraccia tutto» (SARTORI 19 8 7 , p. 25). In queste poche righe, il politologo fio­ rentino sintetizza efficacemente i due principali problemi che deve affrontare chi intenda studiare le democrazie con gli strumenti propri della scienza politica; da un lato, la difficoltà a scorporare dal concetto l’intrinseca connotazione ideale e normativa d ie ne ha accompagnato gli sviluppi nella riflessione politologica; dal­ l’altro, là necessità di stabilire con più precisione quali siano i referenti empirici effettivamente ricondudbili all’ambito dei regimi democratici. In effetti, se cerchiamo di distinguere quale sia il valore aggiunto d d contributo dato dalla scienza politica allo studio della democrazia rispetto a quelli di altre disdpline (come la filosofia politica, la storia delle dottrine o la stessa teoria politi­ ca), questo risiede proprio nel tentativo, a più riprese, di costruire una teoria «empirica» della democrazia. E questo tentativo richiede innanzitutto, com’è ovvio, stabilire cosa effettivamente per democrazia si intenda. Le definizioni di democrazia elaborate in seno alla disciplina sono molteplici, sono iccomunate d d latto di restringcie il campo alle sole liberal cleri ioti a/le ruppi cscntarive. e si differenziano in base ni numero e al tipo di condizioni reputate necessarie perché di democrazia si possa parlare. L a definizione meno «esigente», da questo punto di vista, è quella che associa resistenza di un regime democratico alla presenza dbiin'set m inim o -.di'requisiti che assicurino il corrotto e trasparentefunzidtìlmérito-delle règole del giocò, ovyero:

>1. Esistenza di elezioni, libere, ricorrenti,''corrette e competitive ■’2 .

SufiBagiò(órnivérsalevi-y'',:;'1 'i/s/ '

,3. Pluralità d ip artiti 1

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••iÈtquesta:dad3bsld46Ìb4?^,i Ehldalid^la democrazia'minima (M orlino *2003),-rche trae spuntò dàllà défiriiziopfeVglaborata da Joseph Schumpeter secondo cui «il imètodo ;dempdàtico;sè^|lo ?strùniento istituzionale per giungere a decisioni politi•>AiJfln-sbase->d'à|ua^à»^^^àfijlÌ!9 dui-'Ottei^ono#potere-di'decddere-attra^eào; uria;competizione ìffie'ha’'peiipggétto il voto popolare» (Schumpeter 19 4 3 ).“Si;

».tratta;com’è?evidente/fdi;f.iìna!(dgfi^ione di tipo liprocedurde» che pone ladc& iJ Ltq;;esdusivamente iSullàssneG^ritaiche esista,-appuntoiiim insieme di procedure-tale lì riàigàrantire una seledòfiè'Suhàseicompetitiva diéóloro cui sarà attribuitalàippter,:*

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II X X secolo

sta di prendere decisioni di rilevanza colletdva. Sempre di «universali procedurali» parla anche Norberto Bobbio (19 8 7), che aggiunge però due importanti specifi­ cazioni rispetto alla definizione minima tout court-, la prima, in parte già prevista m a non cosi chiaramente esplicitata, è che le alternative di voto debbano essere effettivamente tali, e cioè che le opzioni programmadche proposte dai partid in lizza siano effettivamente differenti. L a seconda, più rilevante -in' quanto non inclu­ sa in nessun m odo nella definizione minima);«pione invecetpndimimaU’orizzonte decisionale della maggioranza risultante vincitrice dalla libera competizione elet­ torale: nessuna regola di maggioranza, infatti, può delimitare i diritti della m ino­ ranza, o ostacolare il suo diritto a diventare a sua volta maggioranza a parità di con­ dizioni. In altre parole, la regola di maggioranza non vale laddove si vadano a pren­ dere decisioni che riguardino le regole del gioco democratico, (come avviene, ad esempio, con le procedure rinforzate di revisione costituzionale, dove la règola del­ l’accordo si sostituisce a quella dei numeri), N on ;tra gli .universafisproceduralii ima sempre nell’ambitotdeì requisiti m inim i per p'ofer parlare di democrazia,’ sèmpre Bobbio (1990) include un altra importante condizione, che è c|i iella della traspa­ renza o, più precisamente, de! «governo del pàterepubblico in pubblicq»;;;il fatto : che l’esercizio del potere sia visibile e possa essere controllato da coloro sui quali andrà ad esplicare i suoi effetti è uno degli elementi cruciali che distinguono la 'democrazia dai regimi autocratici. Affinché il'principio di rappresentanza sia sal­ vaguardato nella sua sostanza, la pubblicità dell’esercizio del potere diviene ele­ m ento imprescmdibile. ’ ' ' Sono dunque queste le condizioni (regole del gioco nitide e condivise e trasparen­ za nell’esercizio del potere) che dovrebbero rendere possibile l’esistenza del prilli ipio di accountability democratica (in italiano traducibile con la formula «rendere conto») volto ad assicurare la capacità di controllo sul governo sia da parte dei cit­ tadini, sia da parte delle altre istituzioni operanti nel sistema politico, da quelle elettive (come le assemblee parlamentari) a quelle rappresentative della società e dell’economia (sindacati, associazioni di categoria, partiti politici), fino ad arrivare alla magistratura ( M o r l i n o 2 00 3). Va da sé che questo insieme di disposizioni ci dice solo chi e come debba prendere decisioni di rilevanza collettiva, m a assolutamente non dice niente di cosa vada deciso. V i sono invece altre definizioni più «esigenti» di democrazia che, p ur con gradi dif­ ferenti, tendono a proporne una concezione non solo formale m a anche sostan­ ziale. Tra queste la più nota è indubbiamente quella fornita da Robert D ahl ( D a h l 19 5 6 ; 19 7 1) , che nella sua definizione di democrazia come poliarchia fa riferi­ mento ad un regime politico contraddistinto dalla continua capacità di risposta (responsivertess) alle preferenze dei suoi cittadini, considerati politicamente uguali, e in cui la responsabilità dei governo:è fetta valere attraverso libere elezioni che vedono concorrere molteplici gruppi in presenza di molteplici opposizioni (da qui,

■Dopo lagiierra: l ’e th bipolare e la globalizzazione

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appunto, il termine poliarchia). Qui, com’è evidente, la concezione minima «com­ petitiva» è arricchita da considerazioni circa la necessità di garanzie di pubblica contestazione e di partecipazione, che si traducono in uguali possibilità di form u­ lare ed esprimere ie proprie preferenze, e nel poter contare sul fatto di ottenere uguale considerazione da parte di chi governa. Si introduce quindi, accanto ai requisiti procedurali, una dimensione di risultato che, secondo D alli, può essere garantita in presenza di otto precondizioni istituzionali volte ad assicurare la par­ tecipazione dei cittadini in condizioni di parità: 1. 2. 3; 4. 5. 6. 7. 8.

Libertà di associazione Libertà di pensiero e di espressione Diritto di voto (elettorato attivo) Eleggibilità alle cariche pubbliche (elettorato passivo) D iritto dei leader a competere per voti e consenso Fonti alternative di informazione Elezioni libere, periodiche e corrette Esistenza di isti tuzioni che rendono il governo e le sue scelte dipendenti dal voto.

Per quanto arricchita dalla dimensione della partecipazione, la definizione di Dalli resta ancora saldamente ancorata alla dimensione dell’«essere» e ancora assai distante dal «dover essere». Nella sua dimensione «ideale», invece, una definizione di democrazia dovrebbe richiamarne la costante tensione verso la classica diade libertà/uguaglianza, ovvero verso quei valori ultimi «in base ai quali noi distin­ guiamo i governi democratici da quelli che non lo sono» ( B o b b io 19 8 7 ). Se accet­ tassimo questa premessa ideale, la democrazia andrebbe concepita come quella form a di regime d ie non solo garantisce le condizioni istituzionali volte ad amplia­ re quanto più possibile le libertà individuali (civili e politiche), ma che punta anche a rimuovere il più possibile le disuguaglianze. Per quanto ad oggi non esista, in scienza politica, una definizione che includa una simile condizione tra i requisiti di tiri regime democratico, la capacità di realizzare i principi ideali di libertà e uguaglianza è però indusa (assieme all’esistènza di una m ie o f law , alla presenza di solidi meccanismi di accountability, alla soddisfazione dei cittadini e ai risultati delle politidie pubbliche in termini di beni è servizi) tra le dimensioni utilizzate per operare un’analisi empirica della qualità della demo­ crazia ( M o r u n o 20 0 3; D i a m o n d - M o r l i n o 2 00 5). Si tratta di un tema di ricer­ ca sviluppatosi solo nell’ultimo decennio e ancora in fase di consolidamento, d ie si rivela tuttavia decisamente promettente in quanto risponde all’esigenza del tutto attuale di indagare l 'insoddisfazionecrescente p e rle dimensioni non tanto proce­ durali, quanto sostanziali, delle democrazie contemporanee.

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II X X secolo

3 .5

T e o rie n o r m a tiv e d e lla p o lit ic a

Sebbene a causa degli effetti dell’economia moderna di mercato il problem a della ripartizione di beni e ricchezza sia al centro della politica da m olto tempo come questione della giustizia delle società moderne, il tem a ha trovato la dovuta attenzione da parte della teoria politica accademica solo con grande ritardo. N el lin­ guaggio teorico con cui si esprime questa nuova tematizzazione della politica, essa si presenta come u ri occasione di rilancio per la filosofia politica to u t court (tanto che negli U SA , e in generale nei paesi anglosassoni, sembra esaurire, almeno dal punto di vista accademico, Finterò panoram a della riflessione filosofica della politica: cfr: K ymlicka . 1990). L’impulso a im a vasta e prolungata discussione teorica, tuttora in corso, è stato dato nel 1 9 7 1 dal professore di Harvard Jo h n Rawls, con Una teoria della giustizia. Il tema specifico della sua indagine è quello della giustizia sociale, nello stesso tempo, però, la sua proposta consiste nella riabilitazione di un approc­ cio normativo di osservazione il cui scopo ultim o è quello di fornire degli strumen­ ti, razionalmente ponderati (quindi frutto non esclusivo di preferenze irriflesse), per formulare giudizi e discriminare tra assetti socio-istituzionali giusti e ingiusti. A par­ tire da questo rilancio del problem a della giustizia distributiva all’interno di società altamente sviluppate, la teoria politica am plia il proprio spazio di riflessione rimet­ tendo al centro delle sue preoccupazioni teoriche questioni m orali che le dottrine politologiche di indirizzo empirismo avevano per decenni schivato o rimosso per non inficiare il preteso realismo del loro approccio. C o l rilancio dell’approccio normativo nell’analisi della politica sono fiorite teo­ rie che hanno posto al centro della propria riflessione il problema della valutazione (e della giustificazione della stessa), seguendo una strada che porta ad una crescente astrazione degli strumenti della tradizione filosofico-politica europea. A l modello di razionalità esplicativa cui si ricorre per spiegare azioni e attitudini, si aggiunge un modello di razionalità giustificativa che tenta di legittimarle. A lla base della costru­ zione di questo profilo astratto di razionalità giustificativa sta l’idea che nessuna pro­ cedura, come nessun assetto socio-istituzionale, può legittimarsi da sola; m a deve rin­ viare ad istanze che dal canto loto devono essere riconosciute come valide razional­ mente. Tale riconoscimento può avvenire solo qualora esse siano fondate su norme la cui validità universale deve essere discussa con gli strumenti della ragione. L esito di queste costruzioni è molto controverso, non tanto dal punto di vista dell’efficacia polìtica (obbiettivo che si colloca esplicitamente sullo sfondo), quanto piuttosto della riuscita teorica stessa. C iò che è certo, è lo straordinario successo acca­ demico di questi approcci (che nel contesto americano costituiscono anche una rea­ zione agli effetti eticamente anestetizzanti sull’intelligenza politica causati dall’affer­ mazione della politicai Science come modello di analisi guida) e l’impegno che si sono dati nel tentare di ripristinare un orientamento universalistico per la riflessione sulla cosa pubblica. I nuovi modelli teorici di etica pubblica promossi da tali approcci occupano uno spazio significativo del dibattito teorico e politico, ed è anche per que­ sta ragione che il confronto con Rawls, m a anche con la produzione tardiva di

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Habermas e di Sen, è divenuto alla fine del X X secolo uno dei luoghi più. frequenta­ ti dall’intelligenza teorica occidentale (e non solo).

3.5.1 J ohn R aw ls e l a teo ria d e lla g iu stizia Jo h n Rawls (19 2 2 -2 0 0 2 ) è un filosofo politico americano che si inserisce nella tradizione liberale statunitense del secondo dopoguerra e che, con la formulazione di una teoria della giustizia come equità, ha dato vita ad un nuovo filone di rifles­ sione che a partire dagli anni Novanta ha avuto una notevole risonanza anche in Europa. L a riflessione di questo autore si concentra soprattutto sul tentativo di met­ tere a punto un’idea di democrazia in grado di giustificare il proprio assetto e i pro­ pri m eccanismi d i redistribuzione di fronte ai cittadini, mostrandosi rispondente ad alcuni principi di giustizia da tutti condivisi. In questa prospettiva la teoria svilup­ pata da Rawls persegue, per un verso, l’obiettivo di individuare u n punto di vista in base al quale giudicare la società e stabilire le riform e necessarie affinché essa rispon­ da ad alcuni criteri di giustizia e, per altro verso, a orientare le scelte pubblicam en­ te rilevanti affinché le differenze di valori e m odi di vita caratteristici delle società contemporanee non si traducano in conflitti sociali insanabili. Rawls ha cioè con­ cepito il suo lavoro teorico come un contributo alla riformulazione del tradizionale problema del rapporto tra libertà e uguaglianza, orientato da una nozione di giusti­ zia in grado di ridefinire il problema del consenso nelle democrazie contemporanee e di delineare form e di cooperazione il più possibile in grado coniugare un ordine politico e sociale stabile con il pluralismo dei valori. N ella seconda metà degli anni Sessanta Jo h n Rawls inizia a riflettere sulla pos­ sibilità di delineare un’alternativa al paradigma utilitarista e al principio di «massi­ mizzazione dell’utile» o «massimizzazione del benessere», dando alla luce una serie di saggi che culmineranno nel 1 9 7 1 con la pubblicazione di Una teoria della giustizia. L’interesse suscitato dal libro e le successive critiche che gli sono state mosse hanno spinto l’autore a proporre delle riformulazioni e un ampliamento delle tesi del saggio del 1 9 7 1 (RAWLS 19 9 3 ; 19 9 5) e ad estenderle oltre i confini dello stato nazionale con I l diritto deipopoli (R aw ls 1999).

Ip rin c ip i d i giustizia. Secondo Rawls, se un gruppo di uom ini si trovasse in condizioni di decidere quali principi guida la società che si apprestano a costituire dovrebbe scegliere per essere il più giusta possibile, assumerebbe due linee guida fondam entali tese a stabilire l’orientamento generale delle decisioni pubbliche, che prevederebbero che: 1 ) in una data società sia garantita la maggiore quantità pos­ sibile di libertà per tutti; 2 ) le diseguaglianze saranno legittime solo ed esclusivamente nel caso in cui mirino a favorire i m em bri più svantaggiati della società5. Prim a di esplicitare il significato dei principi di giustizia, è opportuno chiarire come è possibile che gli uom ini si trovino d’accordo su questi due punti. Secondo Rawls ciò può avvenire se essi prendono questa decisione «dietro velo di ignoran­ za», ovvero decidendo come se non sapessero nulla né delle loro preferenze indivi­

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duali né della posizione che essi stessi occuperanno nella società che si apprestano a istituire (Rawls 1 9 7 1 , pp. 1 2 5 - 1 3 5 ) . Questo esperimento mentale, che affonda le sue radici nella tradizione con­ trattualista della politica, in questo caso prende il nom e di originaiposition e svolge contemporaneamente due compiti: in prim o luogo, quello di formulare i principi guida del giudizio sulla società di fronte alla quale ci si trova e, in secondo luogo, • quello di indicare le condizioni alle quali un giudizio legittimo sul grado di giustizia di una data società può venire formulato. Pur sapendo, cioè, che gli individui nor­ malmente non formulano i loro giudizi in questo m odo, Rawls vuole cosi indicare qual è il punto di vista dal quale è possibile misurare la conformità di una società reale ad una nozione di giustizia. L’idea di Rawls è, infatti, che gli uom ini siano in grado di dire se una società è giusta o m eno o se un sistema di redistribuzione è conforme o meno ad un ideale di giustizia, se si dispongono a formulare questi giudizi al di là dei propri interessi specifici. C on ciò l’autore ha di m ira la reintroduzione nella rifles­ sione politica d i una nozione di giustizia che però non si rilà ad una particolare idea di bene: essa cioè non identifica un’idea di bene condivisa dalla quale derivare una nozione di giusto, come avviene nella gran parte della tradizione liberale moderna, m a piuttosto stabilisce la nozione di giusto come una misura di eguaglianza ed equità che gli uom ini qua enti morali sono in grado di individuare senza fere ricorso alla metafisica o alla religione. D a questo punto di vista, quindi, la teoria d i Rawls sem­ bra mirare a formulare un concetto di giustizia che operi con un dispositivo compa­ tibile con il grado di differenziazione sociale che è tipico dell’età contemporanea, in cui il pluralismo dei valori costituisce un dato di fatto. Veniamo ora al significato dei principi. C om e detto, il prim o di essi richiede che in una data società sia garantita la maggiore quantità possibile di libertà per tutti. A d essa corrispondono dei diritti fondamentali inalienabili,' di cui tutti devo­ no egualmente godere, quali la libertà di pensiero e di coscienza, il diritto di dispor­ re del proprio corpo e della propria vita e il diritto di voto attivo e passivo ( R a w l s 1 9 7 1 ) . Queste libertà non possono venire limitate né cedute, né per ragioni econo­ m iche né per ragioni culturali. Le uniche limitazioni che possono venire imposte in questa sfera sono quelle tese a rafforzare il sistema stesso di queste libertà fonda­ mentali. D al punto di vista di queste libertà i cittadini sono, quindi, assolutamente uguali tra loro. Il secondo principio, invece, riguarda le relazioni sociali. Esso stabi­ lisce che nell’ambito di una società le diseguaglianze sono legittime solo nel caso in cui sono tese a favorire i membri più svantaggiati. Se esistono differenze quanto a ricchezza, guadagni o status devono, quindi, venire sottoposte ad una serrata anali­ si tesa a stabilire la loro possibile legittimità al cospetto della natura morale dei m em bri della società medesima. Secondo l’autore, i due principi sono ordinati les­ sicalmente, ovvero il prim o, quello che si riferisce al tema della libertà, ha la prece­ denza sul secondo. L a ragione di questo ordine di precedenza è determinata dal fatto che esso corrisponde alle «convinzioni del senso comune» secondo le quali sarebbe inaccettabile che «la perdita di libertà per qualcuno sia giustificata da un maggiore bene condiviso da altri» ( R a w l s 1 9 7 1 , p. 40). L a chiave di volta per comprendere

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questo costrutto teorico è certamente il concetto di giustizia distributiva: secondo Rawls ciò che in una società viene distribuito non sono solo beni materiali o dena­ ro m a anche libertà e diritti. La form a delle istituzioni rappresenta, cosi, una deter-, minata struttura di distribuzione di questi beni che sarà giudicata giusta unicamen­ te se soddisfa le condizioni poste dai principi di giustizia.

Diseguaglìanze am missibili. L’elemento maggiormente innovativo di questa teoria è il secondo principio. Se è chiaro che il prim o dei «principi di giustizia» è fondamentalmente in linea con la visione della libertà che caratterizza il pensiero liberale moderno, è importante fare luce sul secondo, che costituisce la novità di m aggior rilievo. Esso, infatti, è uhalternativa ad una delle tradizioni di pensiero più. rilevanti nel contesto in cui Rawls scrive, ovvero rutilitarism oI0, e sottolinea con forza la necessità di conferire rilevanza al punto di vista soggettivo nella definizio­ ne della giustizia. Vediamo in che senso. Rawls, usa la nozione di giustizia per sosti­ tuire quella utilitarista di «massimizzazione dell’utilità generale», in base alla quale per valutare l’opportunità o meno di una decisione pubblicamente rilevante o di un sistema di redistribuzione è necessario valutare se esso aumenti o m eno fu tilità (o, detto altrimenti, il benessere) dei cittadini. N em m eno l’utilitarismo opera con una nozione trascendente di buono o di giusto m a pretende, secondo Rawls, di rico­ struirla su basi .soggettive: esso valuta l’impatto delle decisioni pubbliche tenendo al centro della sua analisi le conseguenze che possono avere sulla qualità della vita di ciascuno, misurando il benessere che ne deriva e il grado in cui i desideri di cia­ scuno vengono con esse realizzati. In estrema sintesi, in esso l’idea di ottimizzare le risultanze in termini di benessere di una data decisione o di una data azione viene tradotta in termini d i efficienza: una soluzione sarà p iù efficiente se il bilancio delle sue conseguenze in termini di benessere m edio o aggregato sarà positivo. Tre sono i caratteri di questa teoria che con ogni probabilità costituiscono i suoi punti di forza nel confronto con la tradizione liberale. In prim o luogo rutilitarism o‘è una teoria immanente del benessere sociale ed individuale e risulta compatibile con società nelle quali gli individui non sono in grado di accordarsi su che cosa sia in generale da ritenere giusto o buono. L’utilitarismo cioè, misurando il benessere su base individuale, elimina alla radice il problem a di stabilire che cosa sia il bene comune. In secondo luogo esso rappresenta un a teoria politica fortemente conse­ guente, poiché ammette solo proibizioni in grado di giustificarsi in base al princi­ pio dell’ottimizzazione del benessere e delegittima ogni genere di divieto che discenda da pregiudizi, superstizioni o semplicemente tradizioni. N ella sua versio­ ne ottocentesca esso aveva, infetti, dato vita a rivendicazioni m olto radicali quanto ad abolizione dei privilegi di ceto vigenti, e questa caratteristica continua a fornir­ gli un elemento di indiscutibile attualità nel contesto di costruzione di politiche democratiche. Il terzo elemento, infine, è la centralità del ruolo giocato dall’idea di uguaglianza: l’utilitàrismn tende a conferire non solo rilevanza morale al benessere di ciascuno m a sin dalle sue origini h a teso a conferire ad ogni essere um ano il medesimo peso nel calcolo del benessere sociale11.

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Secondo Rawls questa prospettiva ha però il difetto di ignorare il m odo in cui essa viene prodotta. Rawls, infatti, giudica indispensabile che ciascuno ritenga legit­ timo il sistema di redistribuzione e, con d ò , ritiene che imo degli elementi di cui tenere conto n d mettere a punto questo sistema debba essere anche la misura nella quale ciascuno contribuisce a generare questa ricchezza. «Una particolare distribu­ zione non può affatto essere giudicata a prescindere dai titoli o diritti guadagnati con sudore dai singoh entro l’equo sistema di cooperazione da cui quella distribuzione è venuta fuori; perdo qui il concetto d i giustizia allocativa non è applicabile, mentre lo è nelTutilitarismo» (Rawls 1 9 7 1 , p. 57). Questo argomento viene ritenuto dedsivo poiché permette all’autore di stabilire che non tutte le preferenze individuali posso­ no venire ritenute equivalenti: chi sceglie di non collaborare, perché preferisce fere il surf, leggere un buon libro o non fere nulla, non ha la medesima voce in capitolo nell’accedere ai brutti della cooperatone rispetto a chi, per esempio, lavora. C iò ha due importanti implicazioni. L a prim a ha a che vedere con i doveri che la vita in una società giusta comporta per i suoi dttadini: nell’ottica di Rawls a fronte d d diritto di godere d i eguali libertà e di venire avvantaggiati nella redistribuzione, riascuno h a il compito di contribuire al benessere collettivo, almeno nella misura in cui provvede a se stesso. L a seconda è che la vigenza d d secondo prindpio è assicurata dalla possi­ bilità che esso sia moralmente accettabile per tutti, che esso sia in grado di giustifi­ carsi anche rispetto alle aspettative e all’im pegno che dascuno profonde n d difficile compito di essere u na risorsa e non un parassita della sorietà in cui vive. Per chiarire il significato della posizione di Rawls è m olto utile tenere presenti anche eventuali soluzioni alternative che lui sceglie di scartare. D a un lato, infetti, i principi di giustizia sono considerati alternativi al sistema della libertà naturale, giu­ dicato, infetti, eccessivamente formale poiché, pur stabilendo un prindpio di egua­ glianza per natura nelle prerogative di libertà di ciascuno, non dispone di concetti in grado di valutare criticamente il m odo in cui le diseguaglianze sociali influiscono sulle possibilità individuali di scdta. D all’altro la teoria rawlsiana pensa di disporre di concetti in grado di colmare le lacune dell’ideale liberale dell’equa eguaglianza di opportunità, poiché anche quest’ultima non tiene conto delle diverse condizioni di partenza, viste invece da Rawls come elemento grandemente influente sulla possibi­ lità di accedere alle opportunità formalmente concesse. Secondo questo autore, cioè, l’idea dell’uguaglianza di opportunità, intuitivamente accettabile, deve venire inte­ grata dal principio di differenza. L’idea che l’autore della Teoria tenta di promuovere è, quindi, che i cittadini di una data società debbano essere tutti e il più possibile liberi ma, nel contempo, che questa idea di libertà debba essere corredata da un dispositivo che m oderi le dise­ guaglianza tipiche delle società postbelliche, alla luce di un criterio cui nessuno potrà opporsi poiché derivato direttamente dalla natura morale di ciascuno —che si mani­ festa nell’esperimento mentale della deliberazione ‘dietro velo di ignoranza’. Questo ragionamento tende, così, a portare in prim o piano il problema dell’imparzialità delle decisioni: il giusto è il risultato di una decisione suscettibile di consenso da parte di tutti coloro che vi prendono parte, purché prescindano dalle loro preferenze.

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Uguaglianza politica. La teoria della giustizia come equità non intende, tuttavia, solo formulare dei principi guida generali per la costruzione della società giusta m a deli­ nea anche un modello di cittadinanza e un nuovo schema di definizione del consenso. N el definire il suo modello di società equa e giusta Rawls stabilisce un nuovo dovere della società verso i suoi membri, cioè quello di dotarli di un insieme di beni di cui ciascuno deve e desidera disporre: l’idea di Rawls è che sia possibile individua­ re un insieme di beni che, indipendentemente da ciò che ciascuno ritiene per sé opportuno, risultano indispensabili per poter perseguire i propri scopi e realizzare i propri progetti. Questi beni sono individuabili e consistono nei diritti e nelle libertà fondamentali, in pari opportunità, reddito, ricchezza e nelle basi sociali del rispetto di sé. È certamente questo il punto più. interessante della teoria rawlsiana per ciò che riguarda la possibilità di fondare un sistema di redistribuzione che protegga i cittadini dai rovesci della fortuna e della lotteria naturale. Lindividuazione dei più svantaggiati sulla base della definizione dei prìm ary social good ha, cioè, un vantaggio non indiffe­ rente, almeno secondo Rawls, rispetto al già più volte criticato calcolo di utilità. Utilità e benessere sono, dal punto di vista rawlsiano, due concetti al contempo troppo sog­ gettivi e troppo generali. Essi, infetti, risultano essere troppo soggettivi dal momento che è estremamente difficile stabilire gli effetti di una determinata decisione sullo stato di benessere di un individuo, poiché esso è eccessivamente influenzato da preferenze di carattere personale n, m a sono al contempo troppo generali poiché, per evitare il problema del confronto interpersonale di utilità, ricorreranno ad un calcolo sull’inte­ ro corpus della società che perderà completamente di vista le preferenze individuali. In questa chiave i beni sociali prim ari sono, invece, un criterio oggettivo che non oblitera le preferenze individuali, poiché il loro elenco è pensato espressamente come insieme di beni di cui nessuno può fere a m eno m a, da un altro punto di vista, non avendo il compito di produrre un eguale quantità di benessere in tutti, potrà ignorare il problema di rendere felici persone con gusti particolarmente difficili, come quelli che scelgono di passare il loro tem po giocando a scacchi o passeggiando nei boschi: nel procedimento di giustificazione delle istituzioni di fronte ai loro cit­ tadini è, quindi, indispensabile tenere conto delle differenze di impegno che essi profondono nella cooperazione. L o scopo di questi beni è, inoltre, quello di contenere l’effetto del caso sui desti­ ni degli uomini. U n individuo che nasce in una data società è, infetti, normalmente soggetto a due fondamentali form e di arbitrio: una è quella dello status sociale del quale gode, l’altra è quella della dotazione naturale di abilità che gli toccano in sorte. Il compito di im a società giusta non è quindi quello di rendere tutti eguali m a di moderare le differenze arbitrarie con la creazione di istituzioni in grado di rimuove­ re l’arbitrio della natura e disposte ad operare in favore di una radicale moderazione delle differenze d i stato. Facendo leva sull’idea che nessuno vorrà trovarsi in una posi­ zione svantaggiata in una società che n on si occupa dei più sfortunati, Rawls pensa che tutti gli uom ini si troverebbero d’accordo non solo nel desiderare di essere egual­ mente liberi m a anche nell’auspicare che chi ha avuto più fortuna si consideri in obbligo vèrso chi ne ha avuta di meno.

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Questa form a di solidarietà, invero piuttosto scarsa nell’esperienza ordinaria della vita in società, non viene vincolata all’auspicio che ciascuno conduca una vita virtuosa, né ad una form a di disponibilità ad aiutare gli altri ma, al contrario, ad una form a di dotazione morale di base che sarebbe caratteristica dell’uom o in quanto tale. L a natura morale dell’essere um ano non coincide con l’esistenza di valori universali m a piuttosto con la capacità di fare astrazione dei propri benefici e dei propri van­ taggi e di capire che l’assetto proposto dai principi è l’unico giustificabile razional­ mente, cioè è Funico a cui noi siamo disposti ad affidarci, se deprivati della forza che la nostra posizione sociale ci conferisce. Com e mostra la natura dei beni sociali prim ari la definizione delle prerogative fondamentali degli uom ini non richiede né la condivisione di valore o di progetti, né agli individui prestazioni di razionalità, giustizia e bontà particolari. Secondo l ’auto­ re, cioè, gli uom ini possono vivere in una società bene ordinata anche se non condi­ vidono una visione di che cosa è bene e senza che sia richiesta una particolare rispon­ denza di ciascuno a modelli di comportamento morali, al contrario l’autore si sforza di individuare principi che gb uom ini tendono spontaneamente ad accettare e che non derivano dalla condivisione di valori: secondo Rawls, infetti, la «ragionevolezza» necessaria per condividere i principi di giustizia scaturisce da un’idea di reciprocità nel rispetto dei principi e dalla comune volontà di cooperare al mantenimento di un ordine politico che rispetta quella libertà e quell’uguaglianza sancita dai principi. In questo modo la stabilità del consenso necessaria al mantenimento dell’ordi­ ne politico non deriva necessariamente dalle medesime motivazioni m a, una volta stabilito un accordo sui diritti e le prerogative fondamentali accordate a tutti e da tutti riconosciute come essenziali alla conservazione dell’assetto istituzionale che li garantisce, esso si stabilisce «per intersezione»: il consenso non dipenderà, dunque, dalle posizioni di privilegio d ie i cittadini occupano in un assetto sociale, né dalla coincidenza tra l’idea di bene che ciascuno ha e quella promossa dall'élite che in una democrazia gestisce il potere in un dato momento, poiché i principi di giustizia sono sufficientemente generali da garantire che tutti gli riconoscano valore poiché traggo­ no giovamento dalla loro vigenza, indipendentemente dall’idea di bene che ciascuno considera opportuna per sé. G li uom ini saranno d’accordo sulla vigenza dei principi anche se per m otivi di volta in volta diversi.

G iustizia tra generazioni. Tra i concetti che Una teoria della giustizia ha intro­ dotto nel dibattito politico contemporaneo c’è certamente quello della giustizia tra generazioni. Nonostante l’autore non gli conceda, nell’economia generale degli argo­ menti sviluppati, uno spazio particolarmente ampio, esso assumerà in seguito uria grande rilevanza nella discussione suscitata dal testo. L’idea che emerge è, infetti, che le politiche sociali debbano venire valutate non solo per la loro efficacia nel presente m a che debbano tenere conto del fetto che dopo di noi d sarà im a nuova generazio­ ne di esseri um ani che erediterà i problemi che non siamo stati in grado di risolvere e gli effetti delle scelte di oggi. Questa idea continua a costituite un argomento chia­ ve per molte critiche al modello di sviluppo delle sodetà dell’occidente capitalistico,

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a cui si rimprovera di avere dei livelli di consumo che alla lunga saranno insostenibi­ li per il pianeta. A l di là del suo grande impatto sulla causa ecologista, il problema dell’obbligo di considerare le generazioni future come una delle parti in causa nel determinare strategie redistributive è un problema che riguarda direttamente la stra­ tegia di allocazione delle risorse nel settore del Welfitre. Secondo Rawls l’esistenza di una form a di giustizia tra generazioni è vincolata dal fatto che «la generazione presente è obbligata a rispettare le aspettative dei propri successori» (Rawls 1 9 7 1 , p. 242). M a su cosa si basa questo vincolo? Tra le conse­ guenze della preferenza intuitiva degli uomini per la vita in una società giusta confor­ m e ai principi c’è l’idea che essi siano disposti a contribuire alla continuità di questo modello di cooperazione nel tempo: nell’ottica di Rawls, cioè, gli uom ini che rico­ noscono la nozione d i giustizia espressa dai principi non solo sono disposti a contri­ buire alla loro messa in opera m a anche a lavorare alla conservazione delle istituzio­ ni giuste. Questa form a di lungimiranza è talmente rilevante, e il problema delle pre­ ferenze temporali è in tale misura dirimente nella definizione della qualità della vita degli individui, che la collocazione generazionale è indicata come uno degli elemen­ ti che definiscono quelle caratteristiche soggettive che il Velo di ignoranza’ deve coprire nella posizione originaria: in altre parole quando si delibera per la scelta dei principi bisognerà scegliere come se nessuno sapesse a qual generazione apparterrà. N e consegue che ogni generazione dovrà farsi carico di un «onere di risparmio» che garantisca alle istituzioni giuste di funzionare'in una misura che ciascuno riconoscerà come equa a prescindere dalla fase storica nella quale si troverà a vivere. H problema della giustizia tra generazioni sarà, quindi, quello di stabilire la m isura equa di que­ sto risparmio. È chiaro, infetti, che periodi e congiunture economiche diversi rendo­ no l’onere di risparmio gravoso in maniera differente. Certo de facto la relazione tra generazioni è una relazione speciale, poiché non è caratterizzata da un vincolo simmetrico di reciprocità: se è vero d e è in nostro pote­ re fare qualcosa per i posteri, è invece impossibile d e essi facciano qualcosa per noi. Secondo Rawls questo dato di fatto naturale non può essere valutato dal punto di vista della giustizia, p o id é «ciò d e è giusto o ingiusto è il m odo in cui le istituzioni trattano i limiti naturali, e il modo in cui esse sono strutturate per trarre vantaggio dalle possibilità storid e» (Rawls 1 9 7 1 , p. 247). L’asimmetria avrebbe apparente­ mente una prim a conseguenza, in base alla quale la giustizia tra generazioni non rica­ de sotto il secondo principio: la generazione successiva non può operare per favorire gli svantaggiati, p o id é in questo caso gli svantaggiati si collocano in una posizione diversa sulla linea temporale d e non gli consente di essere destinatari di p o litid e favorevoli. Tuttavia, se gli individui si collocano dietro un velo di ignoranza, pur non essendo in grado di mutare eventuali disparità di fatto, sono com unque in grado di formulare un giudizio sull’equità dei tassi di risparmio. Se, perciò, nei fatti la sim­ metria non c’è, Rawls propone d e il giudizio venga espresso in condizioni nei quali è come se essa ci fosse: dietro E velo di ignoranza non sappiamo se faremo parte della generazione d e aveva tra i 2 0 e 30 anni durante il secondo conflitto mondiale, durante E boom economico degli anni Sessanta o durante gE anni Novanta.

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A ncora una volta al centro dell’analisi troviamo il concetto di giustizia: la giu­ stizia tra generazioni non m ira a stabilizzare una società favorendo una generale con­ tinuità del tenore di vita, essa m ira, piuttosto, a stabilire alcuni parametri affinché l’im pegno di ciascuno in favore dei posteri risponda ad un criterio di equità che cia­ scuno è disposto ad accettare. L a giustizia com e equità, quindi, h a il com pito di giu­ stificare gli oneri della cooperazione e la continuità nel tempo delle istituzioni giu­ ste dal punto di vista di ciascuno e di individuare alcuni principi norm ativi affinché la conservazione delle istituzioni giuste non appaia eccessivamente onerosa ai citta­ dini. In questo m odo ad una generazione è richiesto di rinunciare al godim ento di una parte dei suoi guadagni per garantire la sopravvivenza delle istituzioni giuste anche per i posteri. Questa condizione prende il nom e di «assenza di preferenze temporali» {ivi, pp. 284 -252).

L a giustizia come equità. H modello rawlsiano di giustizia risponde ad alcune aspettative fondamentali degli individui in una società liberaldemocratica: una quota di libertà di scelta garantita a tutti, una giustificazione suscettibile di consenso dei cri­ teri di allocazione delle risorse disponibili, una dotazione di base assolutamente ina­ lienabile di beni necessari a condurre una vita soddisfacente e dignitosa e eque pos­ sibilità di accesso a posizioni vantaggiose. M a, con questo, va al di là dell’esigenza che una società che si arricchisce sulla base della differenziazione e della divisione del lavoro riequilibri le diseguaglianze funzionali all’aumento della ricchezza. N o n si trat­ ta cioè solo di un dispositivo che richiede expost la. correzione dell’iniquità delle dina­ miche di concentrazione della ricchezza prodotte dal capitalismo, m a piuttosto di una revisione della nozione stessa di società, che deve condizionare la formazione stessa dei legami sociali. M a in che senso condizionarla? Sappiamo che quella che Rawls chiama «posizione originaria» non intende spiegare il processo dal quale le società traggono origine. Essa è piuttosto un criterio per giudicare form e di coopera­ zione già esistenti, come del resto accade per l’intera tradizione politica che fa appel­ lo alla nozione di contratto sociale. Cioè la società non trae origine da una deliberazione dietro il velo di ignoranza m a è necessario giudicarla da questo punto di vista, a meno che non si voglia oblitera­ re in noi ciò che ci rende propriamente umani (cioè questa fame di giustizia). Cosi facendo Rawls non chiede alla società di dotarsi di procedure per correggersi o per migliorarsi, m a di adottare criteri redistributivi per rispondere alla nostra natura di uomini. U na società umana è im a società che si dispone a redistribuire ab origine non per spirito caritatevole m a per necessità logica: se gli uomini non vogliono venire meno alla loro natura morale, dovranno porsi E problema di una teoria politica della giustizia. L a reciprocità che vincola i cittadini di una società cosi concepita ha un’ulteriore conseguenza sul piano della politica: essa richiede cioè che coloro che si incari­ cano di prendere decisioni pubblicamente vincolanti hanno anche l’onere di giusti­ ficarle facendo riferimento unicamente a valori pubblicamente riconosciuti e stan­ dard pubblici. Le decisioni pubbliche non possono quindi essere guidate d a principi o valori che possano entrare in contraddizione con i principi, ed escludono quindi

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tutti quelli legati alle credenze religiose ad associazioni private o a gruppi d’opinione determinati da una qualunque delle convinzioni o delle credenze che Rawls colloca dietro il velo di ignoranza. Esse inoltre richiedono una trasparenza nella giustifica­ zione non solo che ne chiarisca in m odo inequivocabile il fine, m a anche un grado di comprensibilità alla portata di tutti i cittadini. L a teoria rawlsiana di politica im po­ ne perciò alla società una form a di esercizio pubblico della ragione che, in alternati­ va all’idea tipicamente liberale che l’esercizio del potere debba essere bilanciato da vincoli istituzionali, affida alla critica che si esercita nella sfera pubblica il compito di vigilare sulla vigenza dei principi.

3.5.2 J urgen H abermas Filosofo, sociologo, teorico del diritto e della democrazia, Jurgen Habermas (1929) è imo dei più autorevoli e noti pensatori dei nostri giorni; caratteristica pecu­ liare della sua copiosissima produzione teorica è quella di aver cercato di «integrare, nel suo ampio orizzonte di pensiero, teoria critica ed ermeneutica, modelli filosofici e scienze empiriche, teorie sistemiche della società e interpretazioni fenomenologiche del mondo della vita, approccio normativo e approccio descrittivo alla società e alla poli­ tica» (Petrucciani 2000, p. 159 ). Egli rappresenta inoltre un im portante tentativo di incontro fra la tradizione di pensiero continentale europea e quella anglosassone.

I l rapporto con la Scuola d ì Francofirte e con il marxismo. L a lunga cam era intel­ lettuale di questo pensatore vede un passaggio particolarmente rilevante nel 19 5 6 , quando viene chiamato a lavorare presso l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte come assistente di Theodor Sff. A dom o, dal quale apprende un metodo «sistemati­ co» e non solo storico-filosofico di studio del marxismo. In questi anni Habermas acquisisce i lineamenti della teoria critica della società propria della Scuola d i Francofirte. Questa si fondava sulla convinzione che, per via del consolidamento del­ l’industria culturale, la teoria dovesse rivolgere la propria attenzione non solo alle strutture produttive e ai rapporti di produzione, m a anche alle strutture psicologiche e ideologiche che consolidano il dominio e lo sfruttamento sui comportamenti dei soggetti nel capitalismo industriale avanzato. Il progetto originario della Teoria Critica prevedeva dunque un’analisi della manipolazione tecnica del m ondo, dell’in­ teriorizzazione dei rapporti di potere e della repressione sociale che costituiscono la totalità dialettica di un m ondo completamente amministrato che dom ina uomini ridotti a m eri strumenti, sfruttati com e cose. Habermas manterrà, sempre viva l’aspirazione a costruire una teoria critica della soderà capace di fornire un’imm agine complessiva della realtà; m a si allontanerà pro­ gressivamente dalle posizioni dei suoi maestri francofortesi, cui imputerà di aver uti­ lizzato un concetto di ragione monodimensionale che contempla solo la razionalità strumentale e non coglie la complessità e Fambivalenza delle istituzioni moderne. Il progetto habermasiano di ripensamento della Teoria Critica attraverso lo studio del linguaggio e della comunicazione, l’ermeneutica e la ricerca degli strumenti per una

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prassi di emancipazione, si manifesta già nel testo Teoria eprassi del 19 6 3 . L’obiettivo di tale ricerca è innanzitutto ripensare Io statuto filosofico della critica sociale e in par­ ticolare il suo rapporto con il marxismo. L’intenso confronto con l’epistemologia di Popper porta Habermas a pensare l’emancipazione non più, o non solo, come eman­ cipazione dal dominio, m a come emancipazione razionale del soggetto. Questa dovrebbe realizzarsi seguendo la metodologia della discussione scientifica: l’attitudine critica rispetto ai fenomeni e la discussione razionale tra gli attori per definire le migliori condizioni per la convivenza umana, nel rispetto del dialogo tra uom ini che comunicano e non esercitano un dominio o lo sfruttamento reciproco. N egli anni successivi a Teoria e prassi Habermas prosegue la sua riflessione in merito alla teoria della scienza, sviluppando una critica verticale nei confronti delle posizioni neopositiviste che troverà la sua formulazione più compiuta in Conoscenza e interesse e Tècnica e scienza come ideologia (1968). I neopositivisti sono qui accusati di voler ridurre la conoscenza al solo aspetto scientifico e oggettivante, di voler ren­ dere la società un m onopolio del sapere scientifico, di lare della tecnica una form a di vita diffusa che agisce esclusivamente in base alla «razionalità rispetto allo scopo». Volendo interpretare esclusivamente con i propri criteri 1’intera società, scienza e tecnica assumerebbero così i tratti di un’ideologia tesa alla legittimazione del domi­ nio politico e dei rapporti di produzione giustificati come form a tecnicamente neces­ saria alla società, con un’evidente funzione di mascheramento delle reali relazioni di sfruttamento. L a conoscenza del m ondo non può essere fondata esclusivamente sulle scienze empiriche, m a deve radicarsi nella vita reale del genere lim a no valorizzando anche le scienze ermeneutiche e quelle critico-emancipative che rispondono a inte­ ressi diversi da quelli meramente tecnici e di controllo della realtà. Su queste basi matura la crìtica alTagire strum entale e l’idea che quest’ultimo caratterizzi in ultima analisi anche la posizione marxiana sulla liberazione dell’uomo. Se infetti M arx con­ sidera E lavoro una necessità naturale dell’uomo, Habermas lo pensa invece come una realtà contingente emersa nell’evoluzione del genere umano, dal m om ento che definisce come lavoro «un agire razionale rispetto allo scopo, o agire strumentale, organizzato secondo regole tecniche basate su un sapere empirico [in cui] le azioni strumentali vengono coordinate in vista di un fine, cioè di una finalità produttiva» (Tassinari 19 9 4, p. 459). In altre parole Habermas critica M arx per una visione «monistica» dell’uomo in cui «l’agire strumentale, lavoro nel senso dell’attività pro­ duttiva, indica la dimensione in cui si muove la storia», in cui tutta l’evoluzione socia­ le è ricondotta alla dimensione esclusiva della produzione materiale. Però «in questo caso la scienza dell’uom o sarebbe compresa nella scienza della natura [ ...] ; essa non si problematizza dai punto di vista di una critica della conoscenza»: una tale lettura finisce per addivenire a un paradigma deterministico incapace di comprendere il mutamento storico, oltre che leggibile solamente nell’orizzonte delle scienze natura­ li, in cui non v i è spazio per una teoria critica della società (H abermas 1968a, pp. 6 6 67), e invece, sostiene E nostro autore, «E processo di formazione del genere umano non coincide con la nascita di questo soggetto del progresso tecnico-scientifico». A quest’altezza deEa riflessione si coEoca là habermasiana ricostruzióne del materialismo

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storico («ricostruzione significa che una teoria viene smontata e ricomposta in form a nuova per raggiungere meglio il fine che si è posta») come proposta di integrare il paradigma monistico marxiano nel quadro di una visione dualistica che all’agire stru­ mentale affianchi Vagire comunicativo basato su «un’organizzazione dell’interazione sociale che è unicamente legata ad una comunicazione libera dal dominio»: si tratta cioè di una «estensione del sistema di riferimento che ora comprende sotto la prassi sociale sia lavoro che interazione» {ivi, pp. 5 5 , 5 3 , 59 , 55 -56 e 58).

La Teoria dell’agire comunicativo e la ragione moderna. La crescente attenzione alla dimensione della comunicazione porta, daU’inzio degli anni Settanta, Habermas a compiere quella «svolta linguistica» d ie troverà infine formulazione compiuta nella sua opera più. impegnativa e consistente, quella Teoria dell’agire comunicativo (19 8 1) che molti hanno definito la stim ma sociologica del filosofo tedesco. La «svolta» consi­ ste nella rivisitazione delle proprie teorie attraverso un consistente utilizzo della filo­ sofia del linguaggio e della fenomenologia che conduce a un lavoro di riconcettua­ lizzazione profonda della tematica della ragione m oderna orientata a sviluppare ancor più compiutamente la tesi «dualistica» che oppone Vagire strumentale, tipico dei «sistemi sociali» organizzati dalle logiche d d dominio e della tecnica, da meccanismi e regolamenti, aViagre comunicativo, che abita e riproduce il «mondo della vita» e indica la possibilità di un’unione sodale non. coercitiva, di un riconoscimento reci­ proco, di un «atteggiamento orientato all’intesa». Lagire strumentale viene dunque qui definito come l’attività che consiste nello «sviluppare delle intenzioni con l’obiettivo di generare stati di fatto auspicati», si trat­ ta di un comportamento che «presuppone un unico mondo e precisamente il m ondo oggettivo» in cui operano «attori che sono orientati al proprio successo e si compor­ tano in m odo cooperativo soltanto nellam isura in cui ciò corrisponde al loro ego­ centrico calcolo di utilità» (H abermas 19 8 1 , voi. I, pp. 15 8 -15 9 ). Questo tipo di comportamento, che presiede e fa funzionare i sistemi sodali, dà luogo a un proces­ so ambivalente che da un lato determina l’em andpazione degli uomini dalla sogge­ zione alla natura attraverso l’attività produttiva, d o è il lavoro, m a dall’altro induce invece una dipendenza, o subordinazione, della natura degli uom ini al processo di produzione. In altre parole l’agire strumentale libera sì dalle dipendenze esterne, m a al tempo stesso restaura su un altro piano il dom inio subordinando tutto l’agire umano alle medesime logiche. E questa la ragione per cui risulta indispensabile pen­ sare e mantenere im a differenziazione tra lo spazio della riproduzione materiale e lo spazio della riproduzione simbolica, tra «sistemi sodali» e «mondo della vita», di fronte a un processo di evoluzione sodale che h a invece prodotto un annichilimen­ to, una colonizzazione del secondo ad opera del prim o, un assoggettamento alle sue logiche strumentali e funzionalistiche. Per addivenire a una tale prestazione teorica questo pensatore si propone dun­ que di elaborare im a teoria dell’agile comunicativo rilevante ai fini della teoria criti­ ca della società e svolgere una teoria della modernità sulla base di una dialettica della razionalizzazione in grado di individuare le deformazioni patologiche che essa im po-

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ne all’agire umano. Centrale dal punto di vista metodologico risulta per questo pro­ getto il mutamento di paradigma dalla filosofia della coscienza e del soggetto filo ­ sofia del linguaggio che dovrebbe consentire di fondare su basi nuove una teoria della società in grado di sfuggire al relativismo sociale di alcuni teorici del postmoderno e mantenere i livelli di universalità e normatività tipici del pensiero politico moderno, pur riuscendo, attraverso il paradigma deU’agire comunicativo, a condurre oltre le aporie e contraddizioni che lo hanno caratterizzato e che ne determinano i punti di crisi. Lo studio della filosofia del linguaggio (attraverso autori come Wittgenstein, M ead e Gadamer) conduce Habermas a identificare in essa un m edium di compren­ sione e intesa funzionale a un progetto che m iri a rintracciare strutture di azione for­ nite di una dimensione norm ativa Ovvero se la razionalità strategica «si accontenta di una spiegazione delle caratteristiche dell’agire direttamente orientato al successo», l’agire comunicativo invece specifica «le condizioni nelle quali l’attore persegue i pro­ pri obiettivi —condizioni di legittimità, di autoiappresentazione, o di intesa raggiun­ ta mediante la comunicazione, nelle quali Ego può collegare’ le proprie azioni a quel­ le di Alter» {ivi, p. 178 ). In altre parole, nel linguaggio il nostro autore vede una «metaistituzione» da cui dipendono tutte le scienze sociali e la sua idea è quella di ela­ borare una scienza sociale critica che, p u r riconoscendo le profonde limitazioni imposte dall’agire strumentale al linguaggio, assicuri l’esistenza di interazioni lingui­ stiche orientate alla costruzione di un’intesa con gli altri. Lagire comunicativo è la possibilità, la ricerca di un’intesa linguistica che ci permette di superare le nostre im m agini soggettive e renderle com uni a tutù, o almeno far si che «si possano relati­ vizzare rispetto ‘al mondo’ e le definizioni della situazione, divergenti lu n a dall’altra, possano convergere a sufficienza» (p. 17 7 ). Se buona parte della Teoria dell’agire comunicativo è dedicata all’analisi della razio- ■ nalità moderna attraverso un attento esame della teoria della razionalizzazione di M ax Weber, questa tematica sarà poi ripresa e sviluppata ulteriormente con 7/ discorso filo ­ sofico della modernità (19 8 5) che allontana ulteriormente Habermas dai suoi maestri francofortesi. Attraverso dodici saggi vengono qui analizzate e decostruite le posizioni dei più autorevoli critici della modernità politica: dagli hegeliani a Benjamin, da Nietszche ad Adorno e Horkheimer, da Heidegger a Derrida, Bataille e Foucault. Contro di loro Habermas si schiera in difesa della modernità come «progetto incom ­ piuto» e del suo contenuto normativo, denunciando il fallimento di tutù i tentativi di promuovere un concetto di ragione alternativo a quello tipicamente moderno dell’Illu­ minismo: contro di essi si sono sollevate esclusivamente «‘teorie’ che elevano pretese di validità soltanto per smentirle» e che non trattano p iù «gli stessi discorsi come scienza o filosofia, bensì come un pezzo di letteratura» ( H a b e r m a s 19 8 5 , p. 366). L a critica del nostro autore si sviluppa da una parte nel tentativo di disvelare l’unilateralità del loro modello di razionalità che si riferirebbe esclusivamente a quella strumentale e funzio­ nale, dall’altro cercando di dimostrare che essi sono, ancora e in m odo esclusivo, inter­ n i alla filosofia del soggetto: «i paradossi e gli appiattimenti di una critica della ragione che si riferisce a se stessa» {ivi, p. 340). L a tesi che Habermas oppone a tali autori è che nel passaggio dalle società tradizionali a quelle moderne si siano dissolte lé immàgini

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del mondo mitiche e metafìsiche, rendendo così possibile una separazione categorica dei vari ambiti della realtà che apre il campo a quelle simmetrie di riconoscimento reci­ proco presupposte nell’agire comunicativo, dal momento che «la razionalizzazione sociale non coincide [...] con la diffusione della razionalità rispetto allo scopo; essa è anche l’eplicitazione di quelle simmetrie di riconoscimento reciproco presupposte nel­ l’azione comunicativa» (G reblo 2005). In altre parole, contro E postmodernismo, il contestualismo, il decostruzionismo, contro il «convincimento che la ‘grande’ filosofia (con Hegel quale punto culminante e conclusivo) non può certo più con le proprie forze dispiegare e fondare sistematicamente l’idea di ragione» (H abermas 19 8 1, p. 503), il nostro autore rivendica l’afflato critico ed emancipativo della ragione illumistica, la prima e finora Tunica in grado di autodotarsi di un progetto normativo di società. Si può adesso comprendere come «la peculiare variante della teoria critica soste­ nuta da Habermas non si indirizza [...] contro la ‘ragione strumentale’ in quanto tale, m a si concentra piuttosto sulla circostanza che essa, secondo il modello della moder­ nizzazione capitalistica’, oltre che negli ambiti dell’economia e stato penetra in altri ambiti di vita strutturati e lì ottiene un primato [ ...] ’» (G alu 2 0 0 1 a, p. 596).

Agire comunicativo e teoria discorsiva della democrazia. La svolta comunicativa che Habermas imprime alla teoria critica lo conduce fino alla costruzione di una vera e propria «teoria linguistica e discorsiva del diritto e della democrazia» che trova form a compiuta in F atti e norme (19 9 2). Concetto fondante di tale teoria è quello di «principio del discorso», in forza del quale sono da considerarsi come norme d’azione valide quelle «che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali» (H abermas 19 9 7 , p. 1 3 1 ) , ovvero quelle che, se osservate, assicu­ rerebbero la miglior soddisfazione di tutti i soggetti coinvolti. Tale principio'discor­ sivo consente di riconoscere le norme moralmente valide. Queste tuttavia per essere generalmente osservate necessitano anche di una capacità prescrittiva, l’etica rimane ineffettuale senza una statuizione giuridica: ecco E problema del diritto che si presenta così come un necessario svEuppo della moralità e deU’etica del discorso. Per Habermas E diritto «come risultato d’un lungo processo sociale di apprendimento si raccomanda come E mezzo più adatto a stabilire le aspettative di comportamento. NeUe società complesse non sembra esserci nessun altro equivalente funzionale che possa sostituirlo» (HABERMAS 19 9 2 , p. 544): in tale situazione non vi è più alcun biso­ gno di andare alla ricerca deUe ragioni morali di legittimità delTordinamento giuri­ dico come aveva fatto E contrattualismo moderno. Il fondamento della legittimità è invece da individuare nei processi discorsivi: le norme m orali sono vàlide se rispetta­ no E «principio del discorso», le norme giurdiche se seguono E «.principio democrati­ co», cioè se scaturiscono da un «processo discorsivo di statuizione a sua volta giuridi­ camente costituito». Il principio democratico è dunque «E punto di congiunzione tra principio del discorso e m edium giuridico, ed è quindi E principio capace di genera­ re u ri diritto legittimo in quanto discorsivamente fondato» (PETRUCCIANI 2000, p. 14 4 ); esso permette di unire la legittimità morale della norma a queUa giuridica, poiché entrambe derivano daEa pratica discorsiva.

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Questa attività comunicativa immanente alla prassi quotidiana consente dun­ que di pensare la sovranità popolare come un grande processo discorsivo istituziona­ lizzato che può svolgersi solamente se al suo interno gli individui vedono garantiti i diritti e le libertà indispensabili a partecipare a tale processo. Si riconosce qui lo sfor­ zo teorico di Habermas di superare la classica dicotomia politica m oderna tira il prin­ cipio democratico della sovranità popolare e del primato della sfera pubblica da una parte, e quello liberale della superiorità individuo, con i suoi diritti e le sue libertà da tutelare dalle ingerenze del potere, dall’altra. In F atti e norme i diritti vengono infat­ ti pensati allo stesso tempo com e la precondizione e il risultato del processo demo­ cratico: quest’ultimo non può svolgersi senza i diritti individuali che determinano il quadro indispensabile a parteciparvi, m a è anche il generatore dei diritti che in esso i cittadini si attribuiscono e si riconoscono reciprocamente. Sfera politica pubblica e autonomia privata sono insom m a complementari, coessenziali e cooriginarie perché i diritti individuali sono la precondizione della democrazia che a sua volta li genera; e fra essi Habermas include come indispensabili anche quei diritti sociali in grado di realizzare un certo livello di eguaglianza indispensabile ancb’esso allo svolgimento del processo democratico. Si capisce adesso come la democrazia consista nell’istituziona­ lizzazione del processo discorsivo in un sistema d i d iritti che nella teoria habermasia­ na viene a configurarsi come un vero e proprio sistema costituzionale. Il processo discorsivo che m uove la democrazia si svolge tanto nella sfera infor­ male dell’opinione pubblica, quanto nelle sedi istituzionali preposte alla delibera­ zione come i Parlamenti. L a sovranità popolare per essere esercitata necessita della rappresentanza parlamentare, m a per rimanere vigente bisogna che quest’ultim a sia sempre controllata da un’opinione pubblica informata, organizzata e pluralista in cui i cittadini agiscano seguendo comportamenti non puramente strategici m ianche «comunicativi», ovvero orientati all’intesa. D eve sempre sussistere questa dia­ lettica fra le istituzioni e una «sfera pubblica culturalmente mobilitata» che deve rimanere autonom a sia dalla dimensione statuale che da quella economica: la distin­ zione fra stato e società viene qui dunque declinata come necessità di autonomia dell’ambito deliberativo pubblico da quei poteri sociali che possono profondamen­ te influenzarlo (grandi media e lobbies organizzate in prim is). Il sistema di diritti deve infine sempre essere garantito attraverso la vigenza della capacità coercitiva, la forza, dello stato: E diritto conferisce legittimità al potere pubblico e il potere pubblico garantisce vigenza al diritto. Quello di Habermas è dunque un modello «esigente» di democrazia com e prassi discorsiva fondata sul potere comunicativo che si distin­ gue dai paradigm i liberali e da quelli repubblicani-comunitaristi, si pone in netto contrasto con le formulazioni minimali, riduttive e procedurali del paradigma democratico e si avvicina alla tematizzazione operata anni prim a da Jo h n Dewey. Tale modello si fonda sulla convinzione che «la forza dei buoni argomenti e dei pro­ cessi di intesa è m olto più operante nei processi reati di quanto le visioni ciniche non vogliano ammetterò) (ivi, p. 15 7 ), in altre parole una spiegazione del comporta­ mento um ano costruito solo sulla razionalità strumentale e l’agire utilitaristico appare al nostro autore del tutto fuorviarne.

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Habermas e l ’a lba del terzo m illennio. L a pubblicazione di F atti e norme ha dato luogo a un intenso dibattito riferito al rapporto che in tale modello si stabilisce fra gli elementi descrittivi e quelli normativi, nonché a quella che a molti è parsa una concezione idealizzata e irrealisdca della sfera dell’opinione pubblica nelle democra­ zie occidendali, una visione aconflittuale, irenica e pacificata della civiltà in cui vivia­ mo. C iò ha dato modo ad Habermas di ritornare più volte sulla sua teoria, di rive­ derla e di conferire un carattere sempre più squisitamente politico alla stagione più recente della sua produzione intellettuale. Questa si è concentrata sul rapporto fra gli assunti delle proprie teorie politiche e la realtà effettuale delle società contemporanee liberali e postsecolari, e ha inteso dimostrare in particolare che il processo di diffe­ renziazione fra sfera morale (privata e relativa) e norme giuridiche (neutre e univer­ sali) non separa i diritti individuali dal principio della sovranità popolare. Questo processo d i secolarizzazione, guardato dal punto di vista di democrazie liberali fonda­ te sul pluralismo, viene ritenuto ancora il risultato di un insieme di valori progressi­ v i tipici della modernità e non come la loro definitiva liquidazione: la legittimazione postmetafìsica della politica rimane il nucleo del progetto moderno da realizzare attraverso la piena giuridificazione della politica stessa. La tesi di questo autore si con­ ferma quella di un liberalismo democratico intersoggettivo e comunicativo, in con­ trapposizione a quello possessivo e individualista di stampo tradizionalmente libera­ le e liberista. Queste tematiche sono state oggetto di un confronto con il principale teorico del «comunitarismo», Charles Taylor,'in cui Habermas ha proposto una sorta di mediazione fra l’interpretazione liberale della politica, fondata sulla (presunta) «neuualità» dello stato di fronte alle concezioni etiche «private» e quella comunitarista, che fonda la politica su valori etici radicati nelle comunità. Questa posizione mediana è stata declinata attraverso una concezione del legame sociale non assimilazionistica, m a inclusivistica, secondo l’idea «che i confini della com unità sono aperti a tutti: anche —e soprattutto —a coloro che sono reciprocamente estranei e che estra­ nei vogliono rimanere» (H abermas 19 9 6 , pp. 1 0 - 1 1 ) . È l’idea d i una democrazia radicale che incorpora la costitutiva pluralità linguistica, culturale e storica in modo che i legami tradizionali di tipo comunitario n on vengono dissolti in una «ragione comunicativa» pienamente decontestualizzata, m a sono invece riconfigurati in un procedimento di consultazione e di deliberazione a più livelli che impegnano la vita dei cittadini. In questo m odo l’unità politica non riposerebbe p iù sul rousseauiano legame sociale sostantivo, m a sulla pratica comunicativa degli individui e delle loro istituzioni. Questa soluzione viene raggiunta mediante l’ accordo su procedure con­ divise, anziché su valori, cosicché la politica democratica non si lim ita a seguire esclu­ sivamente il diritto positivo, m a è sensibile anche a contenuti pragmatici, etici e negoziali, pur rimanendo sempre nell’ambito del pluralismo.Esemplare a questo proposito è la discussione sulla costituzione europea che Habermas ha declinato nei termini di un patriottism o costituzionale «inteso come consapevole adesione dei cittadini al nucleo fondamentale dei valori su cui poggia la tradizione giuridico-politica occidentale» (Galli 2 0 0 1a , p. 6 0 1). È importante sot­ tolineare che quéste concetto viene sviluppato in un quadro di piena consapevolez­

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za del carattere necessariamente «postnazionale» della democrazie contemporanee ed è pertanto in grado, nel quadro del dibattito sul costituzionalismo europeo, di rap­ presentare una sfida ambiziosa di superamento della connessione tra sistema demo­ cratico e sovranità statuale. D a queste considerazioni prende form a l’idea - espressa in La costellazionepostnazionale (1999) e l’ Occidente diviso (2005) —di uno stato fede­ rale europeo in grado di riprorre su scala sovranazionale le politiche redistributive e luelfaristiche in crisi: «si tratta di portare in salvo la democrazia dalla crisi dello stato e dal trionfo del mercato, giudicato incapace di regolarsi. Uscire dalla costellazione nazionale [...] e pensare la democrazia nella costellazione postnazionale è quindi, per lui, la sfida», quella di un «nuovo e inedito costituzionalismo» (G alli 2 0 0 1b , pp. 15 5 - 15 6 ) . Habermas parla a questo proposito di una «politica mondiale che è in via di formazione» e che apre «una prospettiva per una politica interna mondiale’ anche senza governo del mondo» (H abermas 19 9 8 , p. 98): il suo «neoilluminismo giuridi­ co» di derivazione kantiana, la sua aspirazione a una piena giuridificazione della poli­ tica, si estende cosi alla sfera delle relazioni internazionali che debbono andare verso un processo di «legalizzazione» dei poteri, «contro i rischi di contrapposizioni identi­ tarie antimoderne e fondamentaliste, m a anche contro la deriva del ‘falso universali­ smo’ di potenza dell’occidente» (Preterossi 2005). N egli ultimi anni questo filosofo è voluto intervenire anche su tematiche eti­ che di scottante attualità. C o n il testo Ilfiitu ro della natura um ana (2 0 0 1) ha infet­ ti inteso mettere in guardia contro «i rischi di una genetica liberale», distinguendo fra una legittima ingegneria genetica «terapeutica» e una di tipo «migliorativo» che «implica per Habermas una asimmetria di diritti tra gli individui (alcuni possono manipolare altri m a non viceversa) che è incompatibile con l’uguale rispetto che si deve a ognuno di essi» (Petrucciani 2 0 0 3 , p. 26 5). L a legittimità delle norm e giu­ ridiche - in questo caso la decisione sulla riproduzione e sull’ingegneria genetica — non dipende esclusivamente da una decisione unilaterale sui diritti individuali, né tantomeno da una normativa statale, bensì da un «procedimento incivilito nel trat­ tamento di conflitti e contrasti» espressione àeVl«impulso a preferire un’esistenza che sia degna dell’uomo rispetto alla freddezza di form e-di-vita impermeabili agli scru­ poli morali» (H abermas 2 0 0 1 , p. 7 3). Questa posizione ha caratterizzato anche l’im ­ postazione assunta dal pensatore tedesco nel dialogo tenuto con Joseph Ratzinger —l’attuale papa Benedetto X V I - poi pubblicato con il titolo Ragione e fede in dia­ logo (2004). Habermas ha qui delineato la prospettiva di una società nella quale laici e credenti scoprano il dialogo come strumento necessario di compromesso sui valo­ ri fondamentali, m a anche come metodo di ritrovamento di se stessi nella prospet­ tiva di un migliore uso della libertà.

3.5.3 L’approccio

della capacità di

A marxya S en

L a teoria di Rawls rappresenta la principale teoria della giustizia di carattere liberale, m a non è la sola. U na teoria diversa da quella rawlsiana è rappresentata dal cosiddetto «approccio della capacità» delineato daU’éc'onomista e filosofo indiano

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Am artya Sen (nato nel 19 3 3 ) premio N obel per l’economia nel 19 9 8, professore a Harvard, Cam bridge e Princeton (e poi dalla filosofa americana M artha Nussbaum, nata nel 19 4 7 , professore a Chicago), Lattenzione per l’aspetto dell’uguaglianza avvi­ cina l’approccio delle capacità alla teoria della giustizia come equità, m a se per Rawls ciò che va distribuito in maniera equa sono i beni primari, Sen ritiene insufficiente un’attenzione esclusivamente concentrata su di essi. I beni primari, in quanto comprendono al loro interno il reddito e la ricchezza, sono infetti dei mezzi e non dei fini. L’attenzione deve invece essere rivolta a ciò che un individuo fa o è (i «funzionamenti») ed è capace di fare o di essere con questi beni (le «capacità»): i fini da considerare dotati di valore intrinseco sono le capacità fondamentali degli individui di fere ed essere le cose che essi ritengono degne di valore. Com e scrive Sen, nell’approccio delle capacità «il possesso dei beni [...] viene consi­ derato strumentalmente e contingentemente 'importante solo nella misura in cui ci aiuta a ottenere ciò cui attribuiamo valore, vale a dire le capacità». I!uguaglianza di beni e risorse di Rawls va perciò sostituita con l’uguaglianza delle capacità fondamentali degli individui (la capacità di muoversi, di vivere una vita sana, di nutrirsi e così via). Secondo Sen, nel porre cosi grande attenzione ai beni prim ari, Rawls trascu­ rerebbe la diversità degli esseri um ani nei loro bisogni e nelle capacità di utilizzare questi beni. U n disabile, per esempio, ha bisogno di un num ero maggiore di beni o di risorse per fere le stesse cose di un individuo non disabile. Il m odo in cui le risorse possono' essere convertite in capacità varia considerevolmente da persona a persona secondo le dim ensioni fisiche, il metabolismo, le condizioni sociali e cosi via.. L’uguaglianza dei beni prim ari potrebbe essere accompagnata da una forte disuguaglianza nelle capacità. Ponendo cosi grande attenzione alle capacità individuali l ’approccio delle capa­ cità sarebbe insieme un’approccio delle libertà. Sen identifica infetti i concetti di capacità e di libertà: «dall’insieme delle capacità di una persona si riflette la sua libertà di condurre differenti tipi di vita» ( S e n 1 9 9 1 , p. 10 0 ; 19 9 2 b , p. 64). L a capa­ cità di una persona è, dice Sen, la sua «libertà sostanziale». Riprendendo la riparti­ zione proposta da Isaiah Berlin, Sen distingue fra due concezioni della libertà: la nozione di libertà può essere usata «in senso negativo», com e «libertà da», la quale «si concentra precisamente sull’assenza di una serie di limitazioni che una persona può imporre ad un’altra (o che lo stato o altre istituzioni possono imporre agli indi­ vidui)» ( S e n 19 9 0 , p. 24); ed «in senso positivo», com e «libertà di», la quale «riguar­ da ciò che, tenuto conto di tutto, una persona può o m eno conseguire» ( S e n 19 9 0 , p. 24). N ell’approccio delle capacità la nozione di libertà viene adoperata principal­ mente in senso positivo: una persona è libera in quanto è dotata della capacità. «Le capacità sono nozioni di libertà, nel senso positivo del termine: quali opportunità reali si hanno per quanto riguarda la. vita che si può condurre» ( S e n 19 9 2a, p. 87). Diversamente dall’utilitarismo attento solo alle acquisizioni in termini di benessere, l’approccio di Sen presta attenzione sia a vari funzionamenti realizzati della persona (non limitati al solo benessere m a estesi a tutti gli altri obiettivi motivati) sia alla presenza della capacità, cioè della libertà è realizzare questi obiettivi. «La capacità

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di una persona nell’acquisire funzionamenti cui ha motivo di attribuire valore confi­ gura un approccio generale alla valutazione degli assetti sociali» ( S e n 19 9 2 b , pp. 19 ss.). U n assetto sociale (o im a determinata politica pubblica) è tanto migliore quan­ to p iù consente agli individui (a tu tti gli individui) di avere maggiori capacità di con­ seguire funzionamenti di valore: «la scelta fra diversi assetti sociali deve venire in­ fluenzata dalla loro attitudine a promuovere le capacità umane» (S e n 19 9 0 , p. 34). U n approccio di questo tipo viene utilizzato da Sen per individuare un parametro che consenta una diversa misurazione del tenore di vita e dello sviluppo umano sia nelle società del Terzo mondo quanto in quelle avanzate: l’attenzione non andrebbe indi­ rizzata al possesso delle risorse o al P H m a alle capacità fondamentali che gli indivi­ dui riescono ad avere. E un criterio di questo tipo ha trovato applicazione nell’an­ nuale Rapporto sullo sviluppo um ano promosso dalle Nazioni Unite. U no dei tratti caratteristici della prospettiva di Sen è però quello di non speci­ ficare nel dettaglio quali capacità debbono essere considerate rilevanti. Contraria­ mente a Nussbaum che ha proposto una lista di dieci capacità fondamentali, Sen lascia la definizione delle capacità alla discussione e al dibattito pubblico nella società. N ell’approccio di Sen quali funzionamenti considerare rilevanti, e quindi quali capa­ cità cercare di incrementare resta un problema d i valutazione e di scelta, ed in quan­ to tale un problema aperto. «L’enfasi posta sullo spazio dei funzionamenti non impli­ ca che ogni funzionamento debba esser considerato di uguale valore» (S e n 19 9 1 , p. 97), dice Sen. Alcuni funzionamenti e le rispettive capacità possono essere giudi­ cate fondamentali (ad esempio la capacità di non morire di fame o di malattia, nella valutazione della povertà o del tenore di vita di qualsiasi tipo di società), altri posso­ no invece essere ritenuti rilevanti solo per la valutazione di determinati assetti socia­ li (ad esempio il livello dei servizi sanitari e dell’istruzione nella valutazione della povertà o del tenore di vita di assetti sociali avanzati) (S e n 19 9 0 , p. 35). IL CONCETTO

Il m ulticulturalism o :1 . D i che cosa parliamo quando parliamo di muliicuiruralismo? È difficile fornire vuna risposta univoca a quésta domanda, data l ’ambiguità e là'jpluralità'di signifì- ; cari che avvolge sia il sostantivo multiculturalismo, sia "aggettivo multiculturale. L a prim a cosa da sottolineare è che essirion significano lastessa cosà: sb l’àggettifvo multiculturale indica lima situazioné idi’fàtto delle o’diemelsociefà (fesséreuioè" società non più caratterizzate da una presunta omogeneità culturale identificata ; •con l ’appartenenza alla nazione), il sostantivo mulrictdturalismo presenta inyéce ! ■ tino status problemarico.diifell’am bitodèllé’idiverse dottrine sul'multìcùlturalismo ch e sono state prodotte’’'a partire dagli ultimi decenti! del X X ’ secolo possiamo innanzi tutto distinguere fra due posizióni: dina teoria del mtdricùltùralismo che si rinchiude nel proprio :perimetro di «ofriogeneità» ; (quello della presunta cultura : ' che accomunerebbe un gruppo o una comunità d i individui) .echerii fatto si pre­

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senta eom&yetsione rovesciata dellìemocentrismg.oedderLtalei.a cui si.oppone.una* teoria-delsmulriculturalismojidi^iùrecente;elàborazione,-chepone i’accetitp sulle diversirà/dilfeitme che caratterizzano gli individui, ina che rifiuta di costruire sulle differenze metafìsiche pssenzialistiche, evitando- di considerare elementi «pali la razza, la cultura, la classe, l ’origine, ecc. quali requisiti «naturali» e transtorici, erro■ re in cui invece cadono le teorie- che appartengono al primo gruppo. .S e il termine è, di ;recente;,introduzione nel, lessico politico (l’O xford-English D ictionary ne tintraòda le origini fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli .a n n i-S e ssan ta.^ Ì^ » sB ^ p )/jju ttavia il problema, a cui il multiculturalismò,'terca di date una risposta è un problema non recente e che accompagna il pensiero 'poli­ tico moderno fijti dàlie origini: l’esistenza della diversità e il rifiuto di daryi'riconoscimento ed esistenza politica. La questione che inquieta fin dalle originiTim m aginazionèdeUbrciine politico moderno, da Hòb'bes a Sieyès, dalla lotta pèrla-tolleranza agli odierni dibattiti sul multiculturalismo, è infatti la necessità dell’assimilarione-degUiiridividui. a un m odello unicoldi soggettività, che difàttomegliiultim i dire'.secoli .si è identificato con la .figura.,ddl’individuo cittadino.(bianco, m aschio,e proprietario), e la parallela ésclpsipne (nòti solo teorica, m a anche mate­ riale) diìtutti :coloro che dentro le maglie di questo m odeho n o n sono-rientrati se non a patto di assimilarsi al modello (i.ìieri, le dorine, i bambini, i poveri, i vecchi, le classes dangeureses, ecc.). L’odierna evidenza-,di nuovi conflitti (culturali, religio­ si, etnici, nazionali, di civiltà) che scuotono iti particolar modo le società óccidenstaliripropone l ’origine di crisi .disqueUe logichej-riéterminate dai rapporti binari dir. dentro-fuori, noi-gli altri, inclusione-esclusione, su cui si sono costruiti gli stati nazionali ioccidentali. 2. Quando nasce da un punto di vista storico la teoria del multiculturalismo? Possiamo datare la nascita del dibattito sul multiculturalismo nella crisi del rneltin g p o t dne ha attraversato gli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta del X X seco­ lo, con la nascita della identity politics e. lo scoppio delle cosiddette «guerre cultu­ rali». La questione è poi esplosa anche in Europa a partire dalla fine degli anni Ottanta, dove si è complicata ulteriormente perché è andata a innestarsi su altri processi che hanno coinvolto l’Europa a partire dal 1989: l’incremento dei flussi migratori, lo scoppio di nuove guerre, la crisi degli stati nazionali, l ’istituzione dell’Unione Europea, il riemergere del passato coloniale. D al punto di vista della storia del pensiero politico va invece precisato che le teo­ rie multiculmrali sia negli Stati Uniti sia in Europa vengono tutte elaborate all’intemo di un pensiero che appartiene alla tradizione liberale. In particolare, due sono le posizioni che si sono fronteggiate in questo dibattito. . D a una parte troviamo l’argomentazione comunitaria (di cui il principale espo­ nente è il filosofo canadese Charles Taylor), che sostiene che il soggetto viene rico­ nosciuto come tale - cioè pienamente uomo e cittadino capace di compiere scelte significative *-■ solo perché parte di una comunità che gli permette di realizzare il proprio progetto. In ragione di ciò il tutto (la comunità o il gruppo etnico di

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appartenenza) viene riconosciuto superiore alle parti (gli individui singoli) e dun­ que è il reale titolare dei diritei (i diritti di gruppo o diritti collettivi) e l’arena poli­ tica diventa terreno di lotta per il riconoscimento delle diverse identità collettive attraverso la codificazione di diritti collettivi legati alla cultura e/o alla religione, l’appartenenza etnica, ecc. D all’altra parte, si situano i cosiddetti liberali perfezionisti (si possono ricordare i nom i di Joseph Raz o di W ill Kymlicka), che, pur in polemica, come i comunita­ ri, con il liberalismo neutralista (il liberalismo «classico» di cui il maggior esponen­ te del secondo dopoguerra può essere considerato John Rawls), accusato di eccessi­ vo individualismo, di cecità nei confronti delle differenze fra culture, gruppi, stili di vita, pongono in ogni caso a fondamento della loro proposta multiculturale l’idea che all’origine di ogni riflessione sui rapporti fra le culture v i sia sempre e comun­ que l’individuo, vale a dire un agente libero e autonomo, che perciò ha propri dirit­ ti (individuali) che devono essere riconosciuti e praticati in quanto tali. Questa seconda posizione, dunque, anche se supera il liberalismo classico, affermando che è necessario complicare la visione dei diritti individuali attraverso il riconoscimen­ to dell’esistenza e della legittimità anche di diritti collettivi, culturali o di gruppo, sostiene però che bisogna stabilite dei confini allo spazio dei diritti collettivi, confi­ ni che sono determinati dalle libertà individuali e dai diritti ad esse associati. Entram be le versioni presentano, quindi, una teoria del multiculturalismo che, nostante l’introduzione dei gruppi e delle culture quali soggetti politici, opera secondo la tipica strategia liberale classica (nonostante la critichi): vale a dire secon­ do una strategia,di neutralizzazione astratta (delle differenze fra gli individui, delle differenze fra i,gruppi o delle differenze all’interno,,dei gruppi),’ di,esclusione di tutto ciò che appare còme diverso (dall’immagine dell’individuo o,del'grappò), di scostrutioneidiìspazicbnfinatisflo spazio dello statando ?spazio:ideHatomurtità);'tii gestione verticale,del potere (attraverso la decisione di un noi, il n o i della nazione o della comunità; ehè'si-ripercuote su tutti gli altri). A tali teorie corrispondono ; (diversi modèlli .di':implementazione sul piano delle pphtiché'pubblichp sfattili —dalla teoria'della jsódetà-a'mosaico di Taylor, alla polìtica ijin dialetto» p ro p o sta 1 d à Kym licka, -di «multiculturalismo americano» definito da Michael,"Vàlzer,,alle politiche d i integrazionq-:assimilàzione,nella cittadinanza repubblicana che caratte-;; rizzano l’assetto della Francia, alla politica multiculturale che connota la Gran Bretagna, ecc. • -, modelli che propongono strategie di governo della società multi­ culturale apparentemente differenti tra di loro, ina che di fitto ricadono in quello che,Atnartya Sen'/h,a,definito (un1‘^njonoculturalismp plurale», vale a dire una gestiotie politica e^fiberàle depà)differenza, p iù prespntabile nell’odierna società multiculturale dei ipòdelli clastici ddjiberalism q, mà-totalmente astratta. 3. Si deve sottolinertie’^ e J|jris ^ d )im p lic ito di queste teorie e di queste politiche ;è

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A partire dalle nuove premesse di u n definizione postum anistica delle sintesi politiche dplla soderà, riemerge, alla fine del X X secolo, u n a nuova offensiva neoum anista contro i m ed ia che intrattengono e disinibiscono generando ['abbrutim ento quotidiano dell’uom o. Nella vasta produzione letteraria e drammaturgica di questo autore vale senza dubbio la pena ricordare L a nausea (1938) e I I m uro (1939)» I ca m m in i d ella lib ertà (1945-1949), I l D iavolo e i l buon D io (1960), I sequestrati d i A lta n a (1961). Si tenga inoltre presente che nel 1964 all’autore Ri conferito proprio il prem io N obel per la letteratura che lui rifiutò affermando: «Non voglio essere letto perché N obel m a solo se il m io lavoro lo m erita. E poi, quale tribunale p uò giudicare la m ia opera?». L a ricerca letteraria occuperà anche l’ulrima parte della vita di Sartre, periodo nei quale lavorerà ad u riu n ica opera dedicata a Gustave Flaubert ( L 'idiota della fa m ig liò ). SÌ stim a che alla sua m orte nel 1980 ai suoi funerali abbiano partedpato cinquantamila persone ed è noto il caso della conferenza del 1945, poi pubblicata con il titolo D esisteiràalism o è u n um anism o, in cui cinquemila persone si affiliarono intorno alla sala della conferenza senza riuscire ad entrare. Cosi Sarte com m enta gli accordidi_pace d i Evian con i quali si chiude la guerra d’Algeria (19541962) in u n articolo intitolato I so n n a m b td i pubblicato nell’aprile del 1962 su «Les Temps Modernes»: «È doveroso dire che n o n è questo il m om ento di gioire: d a sette anni la Francia è un cane impazzito che si trascina u n a casseruola legata alla coda, e che si spaventa ogni giorno u n po’ di p iù per il suo stesso fracasso. Nessuno oggi ignora che abbiam o rovinato, affamato, massacrato u n popolo di povera gente per costringerlo a cadere in ginocchio. È rimasto in piedi. M a a quale prezzo!». Gli interventi di Sartre a proposito della politica coloniale francese sono straordinariamente d u ri nei confronti dell’occupazione dell’Algeria e si discostano notevolmente dalla posizione ufficiale del PCF, il maggiore partito d i sinistra nella Francia del dopoguerra.* I concetti di «spiegazione» e «comprensione» ricorrono in Sartre in un’accezione che è m olto vici­ n a a quella che si rintraccia nell’opera d i Dilthey: l’idea di fondo è che-le scienze um ane si occu­ pino di problemi essenzialmente diversi da quelli di cui trattano le scienza naturali che studiano oggetti esterni all’uom o, e d u nque che sul piano epistemologico le prim e devono comprendere i rispettivi oggetti attraverso u n processo di «identificazione» con i soggetti che li hanno prodotti, m entre le seconde possano ricercare nessi di causa ed effetto tra fenom eni naturali, costitutiva­ m ente diversi dai prodotti della prassi. Si tratta, sia detto per inciso, di u n a transizione che a d esempio p orta alla formazione, soprat­ tu tto grazie a Talcott Parsons, di u n a «sociologia scientifica» di tipo nuovo, la quale ricostruisce una propria tradizione a d hoc (eleggendo al rango di classici alcuni autori del secolo precedente, ad esempio M arx, D urkheim , W eber, ed escludendone altri come C om te, Tarde, Tocqueville) e sviluppa linguaggi teorici nuovi (cfr. Boktouni 2005). U n caso significativo è offerto, nella G erm ania degli anni Settanta, dalle tesi di Claus Offe (cfr.

O ffe 1970).

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Parallelamente, e spesso in m aniera n o n fàcilmente scindibile dalla prospettiva sistemica, si affer­ m a anche in scienza politica l’approccio definito strutturalfunzionalista, inaugurato in sociologia d a Talcott Parsons tra gli an n i Q u aran ta e C inquanta, e giunto alla ribalta nell’analisi politologi­ ca grazie ai lavori d i Gabriel A lm ond. Nelle opere di Rawls è possibile rinvenire diverse formulazioni d ei principi d i giustizia, si ripor­ tano d i seguito quelle contenute in u n saggio successivo alla Teoria della g iu stizia , generalmente considerate le p iù chiare: a) O g n i persona h a lo stesso titolo indefettibile a u no schema piena­ m ente adeguato d i uguali libertà di base compatibile con u n identico schema di libertà p e r tutù; b) Le diseguaglianze sociali ed econom iche devono soddisfare due condizioni: prim o devono

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essere assodate a cariche e posizioni aperte a tu tti in condizioni di equa eguaglianza d i o pportu­ nità; secondo, devono dare il massimo benefido ai m em bri m eno avvantaggiati della soderò. (Rawls 1999, p. 49). Per le principali critiche di Rawls all1utilitarismo vd. Rawls (1971, pp. 36-44). Per u n in tro d u zione ai problem i te o ria dell’utilitarismo vd. Rescher (1966). E noto infatti che Jo h n Stuart M ill è stato uno dei prim i a pronunciarsi in favore delTemandpazione femminile sulla base di argomenti utilitaristi vd. J.S. M ill (1869). Per semplificare questo problem a basta provare ad immaginare le difficoltà che si incontrano nel comparare, l’aum ento di benessere provocato dalla divisione di u n a torta al doccolato: se u n gruppo di persone si trovano a fare questa divisione, per produrre u n eguale aum ento d i benes­ sere in tu tti i partedpanti, dovranno tenere conto di quanto il doccolato piacda a ciascuno, per dividere p oi proporzionalm ente la torta. Inoltre è chiaro che oltre u n a certa quantità d i docco­ lato ingerito, anche la preferenza corrispondente tende a diminuire. N d contesto delle teorie utilitariste questo problem a prende il nom e di teoria dell’utilità marginale descrescente. Per un’in­ troduzione a questi problem i vd. C arter (2001). A nche dal p u n to di vista disdplinare e dei materiali utilizzati: L uhm ann è un sodologo sistemi­ co, Foucault è un filosofo di scuola francese, Fukuyam a è uno sdenziato politico di scuola ame­ ricana m a con im portanti influenze provenienti da Strauss. N d caso d d prim o si tratta d i u n ridi­ mensionam ento dei compiti, n d caso del secondo di un’amplificazione della capaatà della poli­ tica di penetrare n d governo d d vivente, nel caso del terzo di osservare all’opera una dim ensio­ ne psicopolitica originaria e inestirpabile della vita collettiva. In tu tti e tre i casi si tratta d i m oda­ lità di osservazione che sfuggono alla sicura gestione dell’om etto offerta dagli approcci «empiri­ ci» e istituzionalisti. La «teoria dei sistemi sodali» si definisce in prim o luogo per il fatto che no n ha, propriam ente parlando, degli oggetti dì analisi, perché rigetta la dassica tradizione gnoseologica (di teoria della conoscenza) Im prontata al concetto di rdazione soggetto/oggetto. Parte piuttosto dal presuppo­ sto che, al pari di ogni altra teoria, essa sia il prodotto della soderò, u n a particolare struttura semantica che sorge e si riproduce all’interno del sottosistema della sdenza. A l posto della cop­ pia soggetto/oggetto, la teoria dei sistemi sodali sostituisce la distinzione tra sistema e am biente, una distinzione che è sempre riferita al sistema e in cui l’am biente si definisce com e u no spazio interm inato con cui il sistema h a a che fare. A questo im pianto dassico della teoria dei sistemi, Luhm ann, a partire dal 1990, aggiunge l’ipotesi, ricavata da H um berto M aturana, che i sistemi sodali siano sistemi autopoierid. U n sistema autopoietico è u n sistema che produce da sé sia gli d em en ti e i confini di cui è costituito sia la rete di rdazioni che li lega, rete che a sua volta ripro­ duce ticorsivamente questi stessi d em enti e le rdazioni che li producono. C ol concetto di autopoiesi (imperfettamente tradudbile con autoproduzione,) L uhm ann introduce uno strum ento allo stesso tem po paradossale e pregnante per indicare u n processo di creazione senza u n creatore, da qui il disorientamento generale che h a susdtato la sua ipotesi analitica. L’idea chiave di Luhm ann, in questo caso, è che la «soderò» n o n sia com posta di uom ini, secon­ do il modello dassico della sua concettualizzazione, m a che essi, in quanto sistemi psichici auto­ referenziali, costituiscano l’am biente con cui il sistema sociale entra in rapporto. L’elemento base d d sistema sodale sono le comunicazioni, di cui i sistemi psichid costituiscono una condizione di possibilità m a che diventano «sodali» solo n d m om ento in cui si staccano dall’intenzione 0 dalia volontà di chi le emette. Il concetto luhm aniano di comunicazione è m olto complesso: qui rinviamo a L uhm ann 1997. Q ueste ultime divenendo operazioni propriam ente sodali solo n d m om ento in cui vengono comunicate, e n o n di per sé.

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I I X X secolo

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II sistema politico si trova in rapporto con l’am biente secondo tre dim ensioni distìnte. In prim o luogo, la dim ensione dell’am biente in terno a lla società , costituito dall’econom ia, dalla cultura, dal dirittoT'dal sistema educativo, dalla vita sociale familiare degli individui, dai m ondo delrinform azione. In secondo luogo, la dimensione dell’am biente esterno alla società , che concer­ ne essenzialmente gli uom ini, in quanto sistemi psichici autoreferenziali, e la natura. In terzo luogo, la dim ensione dell’am biente interno a l sistem a p o litico che riguarda le distinzione specifi­ che del sistema politico. N essun politico, ad esempio, può concedersi il lusso di trascurare, nel proprio orientam ento verso i cittadini elettori, quello che è l’orientam ento dell’opinione pubblica nei suoi confronti (come invece avrebbe fatto u n suo collega di u n secolo prim a). Cosi come l’opinione pubblica n o n può esimersi dal considerare che l’orientam ento della classe politica nei suoi confronti è anche il p rodotto del m odo in cui il pubblico stesso intende la politica. Analoghe circolarità si pongono tra politica e amministrazione. U n a sequenza tipica può essere cosi esemplificata: chi è escluso dall’istruzione Io è anche dal m er­ cato del lavoro, quindi dall’am bito economico, quindi dalla piena tutela sanitaria 0 dalla possi­ bilità di accesso rapido all’informazione, e così via. N o n è detto poi che tale sequenza n o n infici la possibilità dello stesso di creare relazioni di coppia durature e avere u na famiglia (cfr. L uhmann 1983, p. 148). Laddove le appartenenze tipiche di società stratificate, «costringevano» l’individuo ad una posizione che n o n poteva m utare m a nello stesso tem po lo proteggevano dal rischio di espulsione dallo spazio sociale, le società m oderne evolute «liberano» il singolo dai vincoli della posizione sociale m a lo rendono disponibile al rischio di perdere ogni «protezione».

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Cartoline dalla contemporaneità

1 9 7 9 . L’u ltim a riv o lu z io n e Il 3 1 gennaio 19 7 9 , Vayattollah K hom eini rientra in Iran dopo un lungo esilio, gli ultim i anni del quale trascorsi a Parigi. A ppena rientrato in patria egli viene nom i­ nato capo del C onsiglio Rivoluzionario e assume d i fatto il potere. Il 30 marzo dello stesso anno un referendum sancisce la nascita della Repubblica islam ica dell’Iran, la cui costituzione s’ispirerà alla legge coranica. Il precedente regim e m onarchico, a capo del quale stava lo Scià, era stato messo in crisi soprattutto dalle m anifestazioni e dalle som m osse che si erano svolte nell’anno precedente, con conseguenti azioni repressive che avevano causato m olti spargim enti d i sangue nella popolazione. A gui­ dare la guerriglia erano stati all’inizio ìfedayyin-e khalgh («volontari del popolo») d’i­ spirazione m arxista, che p iù tardi si unirono ai m njaheddin islam ici al fin e d i allarga­ re la base della protesta a livello popolare. In breve tem po, però, il clero islam ico scii­ ta, che riconosceva all’esiliato K hom eini la leadership spirituale, divenne presto l’uni­ co riferim ento della rivolta, esautorando le fòrze d’ispirazione politica. C o n il rovesciam ento del regim e repressivo d i Teheran si conclude il ciclo delle rivoluzioni del X X secolo (C in a 19 4 9 ; C u b a 19 5 9 ). In questo caso si tratta però di un a rivoluzione d i segno differente rispetto alle precedenti: essa n on si presenta com e un’accelerazione in direzione del progresso. A l contrario, rivendica per sé il carattere d i un a «giusta» restaurazione dell’ordine p olitico voluto da D io . Per le generazioni che seguiranno, il term ine rivoluzione perderà quel festin o discreto che aveva esercitato p er alm eno due secoli: d’ora in p o i apparirà sem pre d i-p iù com e il fantasm a, p iù ancora che com e il concetto, d i un processo che sarebbe in grado d i sciogliere tutto l’esistente. I fetti d i Teheran, però, lasceranno -ben altra im pronta su lla situazione spirituale dell’epoca: debutta, in fetti, negli stessi giorn i u n a nuova stagione d i protagonism o p olitico della religione, grazie alla quale la religione m onoteista, e solo quella, può d i nuovo presentarsi com e il m edium p iù aggiornato per ottenere il successo politico. D ’ora in avanti al centro dell’analisi saranno posti quei gruppi religiosi che militano su l palcoscenico p olitico m ondiale (e che nel fia t-

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tem po ci si è abituati a interpretare com e reazione «fondam entalistica», ovvero com e «vendetta divina» sul m ondo secolare dom inante). D a un punto d i vista cronologi­ co l’em ergenza del fondam entalism o in izia con la com parsa dei fondam entalisti evangelici negli U SA che denunciano in m odo ostinato le m oderne scienze della natura com e opera del diavolo ed estendono progressivam ente il loro influsso sulla società am ericana. C ontinua con gli ebrei ultraortodossi di Israele i quali vorrebbe­ ro vedere il loro stato secolare trasform ato in una rabbinocrazia. Essa term ina ine­ vitabilm ente con i recenti fenom eni islam istici, la cui com parsa politica introduce un nuovo elem ento: con essi il progetto teocratico torna ad essere una strada per­ corribile per ottenere il potere p olitico ( K e p e l 19 8 9 ). Per quanto il caso dell’Iran (e successivam ente dell’Afghanistan) resti ancora per m olto tem po un caso isolato, la nuova connessione dei concetti d i «D io unico» e «vendetta», troverà nuove occasio­ n i di esprim ersi, com e dim ostrerà il dirottam ento degli aerei che la m attina dell’ 1 1 settem bre 2 0 0 1 furono guidati contro le torri del World Trade Center d i N ew York. L’«ira d i D io» si esprim e ora com e cam pagna pubblicitaria terroristica attraverso la sfera pubblica m ondiale. Lecito il dubbio avanzato di recente dalle scienze della cul­ tura' occidentali: «Nei nostri decenni neoalfabetizzati religiosam ente si è del tutto dim enticato che nel m onoteism o il discorso di dio h a sem pre incluso un dio iroso. E g li è la grande im possibilità della nostra epoca. E se lavorasse sotterraneam ente per ridiventare un nostro contem poraneo?» ( S l o t e r d ij i c 20 0 6 , p. 56).

1989 . La caduta d e l «m uro» Il 9 novem bre 19 8 9 il «m uro d i Berlino» viene abbattuto e, nei giorni successi­ vi, circa cinque m ilioni di tedeschi passano da est a ovest. C ostruito nel 19 6 1 per separare la parte est d i B erlino (ovvero la capitale della Repubblica D em ocratica Tedesca) da quella ovest (exclave della R epubblica Federale Tedesca) al fin e d’inter­ rom pere il flusso d i tedeschi che fuggivano dall’est all’ovest, era un m uro d i cem ento alto circa tre m etri il cu i nom e ufficiale era Barriera d iprotezione antifascista. N el corso degli anni successivi il «muro» era diventato il sim bolo della «Cortina d i ferro», la linea europea d i confine tra la zona d’influenza statunitense e quella sovietica durante la guerra fredda. L a caduta del m uro giunge a conclusione d i una serie d i eventi d i quel­ l’anno che avevano progressivam ente m ostrato i segni d i cedim ento della com pattez­ za del blocco orientale: a febbraio l’U R S S ritira le sue truppe dall’Afghanistan, a giu­ gno in Polonia vince le elezioni un partito diverso da quello com unista (Sotidamosc), ad agosto si apre la fionderà tra A u stria e U ngheria (rendendo il «muro» ineffettua­ le), in fine l’abbattim ento del m uro. L’anno si chiude con l’elezione a presidente della R epubblica cecoslovacca d i V aclav H avel, un leader, noto anche all’estero, della dis­ sidenza antisovietica. A conclusione d i questi processi d i sgretolam ento deIl’«imperO sovietico» — il quale aveva nei decenni precedenti condiviso con gli U S A in una situazione d i conflitto interm ittente cu i era stato attribuito E nom e d i «equilibrio del terrore», la responsabilità p olitica del m ondo uscito dalla seconda guerra m ondiale—

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sta l’autodissoluzione dell’U nione Sovietica per scelta del suo com ponente p iù im ­ portante, la Russia. L’assetto bipolare del m ondo giunge così al term ine: d’ora in avanti occorrono nuove form ule di sintesi per descrivere l’organizzazione spaziale del pianeta ed è proprio a conclusione d i questo breve processo che com incia a prende­ re sem pre p iù spazio un’idea, quella della «globalizzazione» {mondialisation in fran­ cese), a partire dalla quale si prova a descrivere l’avvento di una nuova epoca ( G a l l i 2 0 0 1; Z o l o 2 0 0 1). E significativo il fatto che il term ine e il concetto im piegati per dare un nom e a questa idea, gbbalization, costituisca l’ennesim o anacronism o con­ cettuale della nostra civiltà. L a radice del term ine, globus, è un sostantivo che nella tradizione rappresenta un’idea sem plice, la tesi del cosm o, e un doppio oggetto car­ tografico, cioè il cielo degli antichi e la terra dei m oderni: da questi nom i dipendo­ no le deduzioni correnti circa lo «stato globale delle cose», una form ula m agica con cui si può essere certi di essere sintonizzati con la contem poraneità del m ondo. Il globus degli antichi (una delle invenzioni intellettuali p iù in flu enti e durature, per quan­ to errate, dell’im m aginario scientifico della vecchia Europa, quello per cui il cosm o, l’universo, l’insiem e d i tutte le cose che esistono, avesse la form a d i una palla) recu­ pera il proprio rango di sostantivo passando per il verbo inglese to globalize. Il risul­ tato, gbbalization, ha il vantaggio concettuale di sottolineare il tratto attivo degli eventi a livello m ondiale: se la globalizzazione h a luogo, ciò accade sem pre con ope­ razioni che hanno conseguenze in luoghi lontani e hanno cosi il potere di trasform are lo spazio su cui insistono in m odo tale da renderlo profondam ente diverso dal pas­ sato. L a m etafora guida di questa ricom posizione spaziale, quella della rete (di uno spazio, cioè di tipo reticolare, in cui i nodi delle m aglie costituiscono punti d i con­ densazione della ricchezza, dell’energia, dell’inform azione, e gli spazi vuoti dei resti p rivi d i quelle caratteristiche), tenta d i restituire l’idea che fisom orfism o caratteristi­ co della divisione statuale del m ondo (quella delle carte geografiche colorate) costi­ tuisca una «finzione» che ha quasi del tutto perduto la propria effettualità politica.

1999 - L’«im pero am ericano»? L a sera del 2 4 m arzo 19 9 9 la N ato lancia un attacco aereo su l territorio della Federazione Jugoslava, senza alcuna preventiva autorizzazione del C onsiglio di Sicurezza delle N azioni U nite. Inizia cosi l’operazione D eterm inate Force, al com an­ do del generale statunitense W esley C larck, che durerà 78 giorn i e consisterà in quasi diecim ila m issioni d’attacco da parte d i circa m ille aerei alleati e l’uso d i oltre 2 3 mila ordigni esplosivi. L’im portanza dell’evento non sta tanto n ei m otivi che l’hanno sca­ tenato (l’intervento s’innesta sullo scontro etnico tra serbi e kosovaro-albanesi, nel quadro d i una p iù am pia tensione fra il nazionalism o serbo e quello albanese), piut­ tosto nel fatto che l’attacco avviene in aperta violazione del diritto internazionale e si legittim a, dal punto d i vista dell’opinione pubblica intem azionale, com e una nuova form a d i «guerra um anitaria». D opo circa quattro secoli, 1’ «intervento um a­ nitario» della N ato, alla guida del quale si trova la m assim a potènza m ondiale, gli

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U SA , riabilita un m odello d i bellum justum (guerra giusta) che, alm eno dal punto di vista delle dichiarazioni u fficiali, era stato bandito dal consesso delle potenze euro­ pee sul continente. A lcu n i com m entatori, anche tra le fila statunitensi (è il caso del­ l’ex segretario d i stato H en ry K issinger, contrario all’intervento), avanzano il sospet­ to che questa sia la prova definitiva del fatto che si sda assistendo sul palcoscenico del m ondo alla costruzione d i im a nuova «cartografia im periale». Il dichiarato pro­ getto egem onico statunitense che fa seguito al collasso del blocco sovietico (di cui si trova esplicita testim onianza n el docum ento conclusivo del sum m it della N ato orga­ nizzato a W ashington nell’aprile dello stesso anno, dal titolo A n AU iancefor thè 2 1 st Century) sem bra andare n ella direzione d i prom uovere, p er la potenza am ericana, un nuovo tipo d i «responsabilità im periale», consistente nell’esercizio d i un controllo d i sicurezza in tutte le aree in stabili del m ondo, il quale m ette definitivam ente in crisi, questa volta anche da un punto d i vista form ale, il principio di sovranità statale. Il 10 giugno 19 9 9 , con la risoluzione 12 4 4 , il C onsiglio d i Sicurezza delle N azioni U nite ratifica il fatto com piuto della guerra e i suoi risultati, non avanzando alcuna rim ostranza contro le potenze attaccanti p er aver violato il principio della sovranità dello stato serbo. L a dom anda se la form a politica del m ondo attuale debba trovare risposta attraverso l’im piego della figu ra dell’im pero (com e riedizione dei vecchi im peri o d i un im pero d i tip o nuovo) e non quella dello stato (pur nell’im portanza che quest’ultim o continua a conservare dal p unto d i vista funzionale) com incia a cir­ colare am piam ente. Il sem plice dubbio che tale dom anda possa avere risposta posi­ tiva incrina profondam ente e m ette radicalm ente in crisi l’intero apparato delle dot­ trine politiche m oderne, centrate su un’im m agine dell’ordine politico che fa riferi­ m ento allo stato 1 (c ff. M ù n k l e r 2 0 0 5).

2 0 1 0 . A d am S m ith a S h a n g a i... Il 1 ° m aggio del 2 0 10 si inaugura a Shangai la prim a «esposizione universale» cinese. L a scelta del luogo perm ette d i presentare in un senso am pliato questa edi­ zione dell’A g o com e il «gala della civilizzazione m ondiale». L’evento non segna sola­ m ente il fatto che la città d i Shangai è diventata la capitale del capitalism o cinese. Più in generale diventa chiaro al m ondo che l’«occidentalism o», il m ito di una civiltà - qui incarnata dall’esibizione delle m erci prodotte su scala planetaria (parteciperan­ no duecento paesi) - fatta di «consum o e vizio», ha traslocato anche in O riente. L’ottim ism o che accom pagna sem pre questo genere di traslochi è legato alla convin­ zione assai diffusa che la grande m arcia verso il confort sia inseparabile dal concetto dei diritti um ani, nella m isura in cui l’autorealizzazione del consum atore va d i pari passo con la libertà che essi indicano. A lcu n i dei padiglioni in cui gli organizzatori hanno pensato di accogliere espositori e visitatori riprendono il m odello del palazzo in cui si tenne la prim a esposizione universale, un edificio quasi interam ente rivesti­ to in vetro. L a scelta del design architettonico rende evidente agli osservatori l’inten­ zione d i rinnovare nella nuova capitale2 dell’econom ia cinese i fosti della prim a gran­

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de esposizione universale che si tenne a Londra nel 18 5 1 —in occasione della quale fu edificato in H yde Park, secondo i piani dell’esperto in progettazione d i giardini Joseph Paxton, un edificio fatto di elem enti prefabbricati, il Crystal Palace, che costi­ tu ì per quasi un secolo (fino alla distruzione della sua versione ricostruita a Sydenham , per un incendio, nel 19 36 ) un a delle m eraviglie tecnologiche del m ondo. L’im portanza della p rim a esposizione universale d i Londra non stava solam ente nel fatto d i presentare quella «fantasm agoria delle m erci» del capitalism o industriale in via d i afferm azione in tutto il m ondo che aveva attratto i suoi critici p iù risoluti (da M arx a Benjam in); essa significava anche l’avvento d i quella che, nel secolo successi­ vo, sarà riconosciuta com e la lunga p a x britannica. E ssa n on segnava, cioè, solam en­ te una svolta dal punto d i vista della storia dell’egem onia econom ica del capitalism o europeo sulle altre econom ie regionali, m a anche l’affèrm azione d i un prim ato poli­ tico dell’im pero britannico sul resto del m ondo. L o scrittore russo Fedor D ostoevskij, uno dei visitatori p iù fim o si e uno dei prim i com m entatori critici della seconda «esposizione» londinese (18 6 2 ), credette d i essersi trovato davanti agli occhi il con­ centrato ultim o dell’essenza della rivili7.7a7.inne occidentale (inaugurando una linea d i riflessione «antioccidentalista» am piam ente in voga fino ai nostri giorni: cfr. Buruma - M argaut 20 0 4 , pp. 5 e 89). N e l suo racconto M emorie da l sottosuolo, pubblicato nel 18 6 4 , D ostoevski form ula la tesi secondo la quale nella m ostruosa costruzione d i cristallo si sarebbe m anifestata una struttura che distrugge l’uom o; un nuovo Baal, ovvero un container d i culto nel quale g li uom ini si rendono schiavi dei dem oni dell’occidente: il potere del denaro, il puro m ovim ento e il godim ento che eccita e stordisce3. C on YExpo di Shangai la «civilizzazione occidentale» (m a vale ancora la pena chiam arla cosi?) ha trovato un nuovo epicenno, e Adam Sm ith può dire di aver trovato una nuova residenza. Il quesito ora è: forse si prepara un incon­ tro virtuale con C ari Schm itt? Se è evidente a tutti, in fitti, che la città cinese rende esplicita una volta d i p iù la propria candidatura a diventare un nuovo polo globale, la dom anda che accom pagna questo genere d i riconoscim ento è se in tale candida­ tura sia com presa anche un’am bizione politica inconfessata. G li indizi per dare una risposta a questa dom anda non m ancano, e non casualm ente sono anch’essi legati alla m etropoli dell’est della C ina. N el 19 9 5 era nata la Shangai Five, u ri organizza­ zione m ilitare con cui la C in a tenta di coinvolgere la R ussia nei problem i di sicurez­ za dell’A sia centrale. Sei anni dopo, nel 2 0 0 1, nasce la Shangai Cooperation Organization (SC O ), un’organizzazione econom ica finalizzata all’integrazione dei m ercati, garantita però m ilitarm ente (si è parlato d i nuova N ato, o N ato segreta). L a SC O è u ri organizzazione che com prende la C in a e la R ussia e tre stati centro-asiati­ ci (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan). L’organizzazione include inoltre l’India, l’Iran, la M ongolia e il Pakistan con uno status d i osservatori. 'Secondo alcuni anali­ sti (Khanna 200 9 , p. 1 3 1 ) , il nom e deirorganr7.7a7.inne (Shangai Cooperation Organization) non «lascia dubbi su quale sia la potenza che oggi guida la strategia alternativa [alla N A T O ] p er l’A sia centrale», ossia la C ina, e non la Russia. C osì com e la C arta di W ashington non lasciava dubbi al tem po della fondazione della N A T O sul fitto che fossero gli Stati U niti a guidare l’Alleanza adantica; N el 2009 , a m argi­

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ne del prim o vertice del gruppo BRICs (che unisce Brasile, Russia, India e C in a nella gestione dell’econom ia e delle risorse energetiche globali), si è svolto un incontro della S C O e i funzionari diplom atici del leader iraniano A hm adinejad, presenti com e osservatori, hanno reso noto che Flran chiederà l’ingresso com e m em bro a pieno tito- • lo (fid i member) della SC O . Benché non si siano fotti attendere gli allarm isti da O ccidente, c’è chi ha suggerito che la SC O allargata potrebbe diventare uno stru­ m ento perché la C in a im pegni le sue straordinarie risorse in una responsabilità d i controllo e di vigilanza in tutta l’A sia centrale, facendo assum ere al m ondo, p er la prim a volta, una form a politica pluralistica, ow erossia quella d i un a «m ultipolarità com plessa» ottenuta m ediante un equilibrio geopolitico tra p oli globali e regionali ( D i o d a t o 2 0 10 , pp. 26 2-26 4 ). S i tratterebbe d i uno scenario nel quale decisiva è la capacità della C in a d i assum ere una leadership globale e d i vedersela riconosciuta sia da parte dell’O ccidente sia nella stessa A sia orientale. Se ciò avvenisse, forse, uno degli assiom i d i base della globalizzazione —che sia giunta al term ine l’epoca dell’unilateralism o salvifico delle «civilizzazioni universali» (abbiano esse o m eno sfum ature reli­ giose) e che agenti sufficientem ente fo rti si rendano reciprocam ente disponibili a evi­ tare collisioni distruttive —potrebbe assumere per la prim a volta anche un significa­ to politico; e, al contem po, perderebbero d i credibilità quei «rom anzi politici» che in questi anni hanno tentato d i m ettere in scena quel genere singolare d i western filoso­ fico, il cui m odello più accreditato è ancora oggi quello dello «scontro di civiltà» (cfr. H u n t i n g t o n 19 9 6 ).

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II 30 novembre del 1999 si riunisce a Seatde il verace dell’Organizzazione M ondiale per il Commercio (W TO ) p e r il M illen n iu m R ound. M entre nelle riunioni ufficiali si aprono conflitti significativi tra paesi ricchi e paesi poveri del m ondo, nelle strade della città che ospite, gli incon­ tri si assiste ad una serie d i manifestazioni m olto accese d a parte d i dim ostranti che arrivano da tutto il m ondo p er contestare il modello di guida politica incarnatalo dall’organizzazione (e da altre organizzazioni intem azionali analoghe). Le manifestazioni si trasformano in veri e propri scontri, inaugurando u n a form a inedite di proteste politica, la quale, anche negli anni successi­ vi, darà vita a d una serie di controvertici organizzati sulla base di u n a m o b ilitato n e che insieme ai meccanismi tradizionali utilizza con grande capacità la rete (Internet). In occasione della dichiarazione di guerra americana all’Iraq nel 2003, uno dei maggiori organi di stam pa statuni­ tensi, com m enterà il ciclo sincronizzato di manifestazioni di protesta contro l’intervento che si svolgono in m oiri paesi occidentali, sostenendo che era scesa in piazza la seconda potenza m on­ diale. A l di là dell’ironia che è stata rivolta a questo genere di iperboli giornalistiche, è evidente che anche la proteste politica, oltre al potere, h a trovato u n a propria espressione globale. L’assenza di u n form a d i raccolta ideologica unitaria per le ondate che la segnano, dim ostra nuovam ente che le categorie concettuali con cui per due secoli si era d ata spiegazione alla contestazione del potere è radicalmente in crisi. H o n g K ong e Shanghai sono i due simboli della C in a m etropolitana dall'aria cosmopolita. Nella prim a giunsero nel 1949 i milionari (fi Shangai che riuscirono a restare nel giro del commercio occidentale sotto la tutela inglese; la seconda è tornata ad essere il centro nevralgico della C ina lanciata nella globalizzazione. Secondo Dostoevskij nel clima di pace perpetua e di relax edonistico che caratterizza la vite nel ((palazzo di cristallo» si sarebbe assisdto alla progressiva compromissione psichica dei suoi abi­ tanti, i quali, in preda ad u na noia ( skuka ) poststorica, si sarebbero dedicati alla libertà triviale e gratuita di compiere il male. Vale la pena segnalare che con questa diagnosi anticipata e inflessibile della «società dei consumi», lo scrittore russo offre anche il prim o m odello d i teoria della fine della storia che si riproporrà p iù volte nel corso del X X secolo.