Schermi corsari. Pasolini in televisione 8878702331, 9788878702332

"Schermi corsari" mette insieme i più significativi interventi di Pier Paolo Pasolini apparsi in televisione (

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Schermi corsari. Pasolini in televisione
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Comunicazione e spettacolo / 6

Collana diretta da

Franco Monteleone

GABRIELE POLICARDO

SCHERMI CORSARI Pasolini in televisione Prefazione di Italo Moscati

BULZONI EDITORE

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-233-2 © 2008 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

INDICE ...............................................

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Una scelta stilistica .................................................................. Superare il limite del mezzo: l’interlocutoreintermediario .................................................................... Il ricorso agli slogan ................................................................. Il problema della verità ......................................................... Dal cinema alla televisione. Le grandi divisioni ....... Il sogno di una élite ................................................................. Le manipolazioni ..................................................................... Un deserto senza «lucciole» .................................................. Le «modeste proposte» di Pasolini ..................................... Modelli ..........................................................................................

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Il conflitto originale ................................................................. «Con te» e «contro te»… ....................................................... La scelta marxista e l’amore per il sottoproletariato ...... Accattone: «il primo “primo piano” della storia del cinema» ......................................................................................... Chiesa, Potere e Televisione: dal pianto di Paolo VI al carisma di Giovanni Paolo II ....................................... Il Cristo che venne a portare la spada ............................. La forma della città ................................................................ Una lingua «di protesta»: nel cuore della realtà ........

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Conclusione ...............................................................................

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Nota bibliografica

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Prefazione di Italo Moscati Prologo

Prima parte. Il grande equivoco

Seconda parte. I contenuti degli interventi televisivi (1957-1975) .....................................................................

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PREFAZIONE di Italo Moscati

Lo ricordavo. Ricordavo Pier Paolo Pasolini in uno studio in bianco e nero davanti a Enzo Biagi – il grande giornalista e scrittore scomparso – mentre si svolgeva la trasmissione Terza B: facciamo l’appello. Ma avevo dimenticato un fatto importante. Quella puntata della trasmissione sarebbe dovuta andare in onda il 27 luglio del 1971 ma fu sospesa per una vicenda giudiziaria che coinvolse Pasolini nella sua qualità di direttore responsabile di «Lotta Continua». Sarà poi presentata in video solo quattro anni dopo, il 3 novembre 1975, all’indomani del suo assassinio. Avevo dimenticato? O non lo sapevo? O non avevo dato molto peso a questo rinvio e al valore della trasmissione? Pasolini partecipava alla puntata accanto ai suoi compagni di scuola del Liceo Galvani di Bologna, città dove Pasolini nacque e dove io stesso ho vissuto per anni dopo la mia nascita a Milano: uno dei nessi che ci lega, come ho cercato di raccontare nel libro Pasolini passione. In realtà, quando vidi e tornai a vedere la puntata, il valore di quel tempo occupato dal poeta-regista negli studi della televisione (televisione che sottoponeva a giudizi molto duri) mi parve, e mi pare, assai chiaro, e ad esso ho fatto, e faccio, riferimento ogni volta che ripenso 9

ITALO MOSCATI

al mondo del piccolo schermo, ai suoi problemi, al suo fascino, alla sua vitalità che si rinnova di continuo. Anche adesso quel valore mi giunge forte, arricchito dalla lettura del libro di cui sto scrivendo poche righe di prefazione: Schermi corsari del bravo Gabriele Policardo. Azzeccato il titolo che rimanda – come tutti noi attenti a Pasolini, alla sua vita e alla sua opera – a quegli «scritti corsari» che restano un documento essenziale per capire non solo l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, un’Italia sballottata tra crisi interne verso traguardi civili e sociali in corso di ansiosa definizione e un mondo che anch’esso cercava nuovi equilibri, nuove prospettive. Ci si dimentica spesso, a questo proposito, che Pasolini viaggiò moltissimo e che pensava tra l’altro che la vera rivoluzione potesse partire addirittura da New York, la città dei grattacieli da lui visitata e amata in un’epoca di esplosioni artistiche (l’avanguardia del Living Theatre di Julian Beck) e di ribellioni violente (la lotta al razzismo dei neri dei quartieri poveri). Azzeccato il terreno di studio scelto da Policardo, quello della televisione e della comunicazione, con particolare riferimento ad un aspetto assai spesso eluso, e cioè il rapporto da ricercare con entrambe le dimensioni, intrecciate, cariche di storie e di zone inesplorate, spesso misteriose.

Il poeta-regista, autore di una inchiesta cinematografica rimasta fondamentale, Comizi d’amore (1964), lavorò non poco in e con la televisione, per la quale girò servizi e rilasciò interviste. Ma se Comizi d’amore è il 10

PREFAZIONE

tentativo riuscito di mostrare con pacatezza l’inquietante ritratto del nostro paese ancora legato a visioni spesso inqualificabili sull’amore e sui sentimenti, sul piccolo schermo gli interventi di Pasolini, tutti molto interessanti e ancora vivi, penetrano nel vissuto quotidiano dell’esperienza più comune delle persone, come assai bene dimostra questo libro, che copre un vuoto nella ricerca sul «corsaro» Pasolini. Azzeccato infine il contributo all’individuare il nocciolo del problema: la posizione del «corsaro» nella comunicazione televisiva. Il dialogo tra Biagi e Pasolini è lo specchio rivelatore di una situazione che appare quasi allucinante. La situazione di una incomunicabilità profonda all’interno della forma di comunicazione più potente e invasiva: quella della televisione, di ieri e di oggi. (E la lezione della lunga citazione che Policardo fa su Terza B: facciamo l’appello vale anche al presente, dato che la televisione, anzi le televisioni, sono diventate una palude di incomprensioni e quindi di incomunicabilità organizzata). Dice Pasolini, in Terza B, che aver ritrovato i suoi amici di liceo nello studio non è gradevole, anche se – incontrandosi dopo tanti anni – sono riusciti ad andare oltre i microfoni e il video, ricostituendo qualcosa di reale; nonostante la situazione creata nello studio risultasse «brutta, falsa». Biagi quasi si risente. Invita il suo ospite a dare una spiegazione. Pasolini dice semplicemente che si trova con gli altri dentro la logica di un medium di massa e che questo medium non può che «mercificarci e alienarci». (Vale la pena di notare che, fatta la tara al vetero linguaggio marxista molto usato all’epoca, il poeta11

ITALO MOSCATI

scrittore sembra anticipare la sorte di tante persone «prese dalla vita» che finiscono in certe trasmissioni pubbliche e private dei nostri giorni e vengono triturate nella fabbrica del trash a produzione continua). Biagi dice che il dialogo, lì nello studio, sta avvenendo in grande libertà e senza alcuna inibizione. Il suo illustre ospite, con la sua voce sottile e garbata, gli risponde che non è vero. «Perché?», gli domanda il conduttore. La risposta di Pasolini è nello stesso tempo una forma di reazione, una dimostrazione di comportamento, una lezione di teoria della comunicazione. Dice che lui non può dire quel che vuole e che deliberatamente si autocensura, perché se non lo facesse direbbe parole troppo sincere e vere che potrebbero danneggiare lui e il pubblico che sta davanti al televisore. Lui potrebbe essere accusato di vilipendio e il pubblico potrebbe non capire per via della ingenuità e della sprovvedutezza di «certi ascoltatori». «Certi ascoltatori». Ovvero, la maggioranza del pubblico televisivo, sempre meno sprovveduto rispetto all’inizio dei programmi (gennaio 1954), ma non sempre provvisto degli strumenti necessari per comprendere quanto il medium presupponga la particolarità di un rapporto che si instaura da inferiore a superiore. Pasolini rifiuta cioè di servirsi del mezzo televisivo per non violare, per non violentare chi guarda e ascolta, cioè chi sta davanti a quel tabernacolo delle immagini e delle parole che gli si offre come veicolo di verità, unico veicolo di verità. (La Rai a quel tempo era sola a produrre e trasmettere, era un monopolio. Ma oggi la situazione non è cambiata di molto con l’avvento delle televisioni commerciali, e con il cosiddetto duopolio Rai–Mediaset. I 12

PREFAZIONE

«veicoli» sono indubbiamente aumentati, ma la verità dov’è? E chi sono i maestri di verità che vanno in onda?) Questo libro è così un viaggio documentato, nel tempo e nello spazio, anche interiore, del suo protagonista. Esso garantisce inoltre un’agevole lettura, svolta col passo di una ricerca che, da un lato, fa riflettere, dall’altro lascia interrogativi aperti. Sono quelli appena ricordati, scaturiti da Terza B: facciamo l’appello, insieme ad altri che il lettore scoprirà da solo nelle teche dei ricordi, nelle pieghe di quella storia, in continuo processo di costruzione del presente, che è e resta la televisione. Niente affatto diabolica. Realtà, invece, mutevole, colma di trappole ma anche di aperture, che vale la pena di conoscere a fondo. Facciamo quindi l’appello. I «curiosi» come Policardo cominciano ad aumentare di numero. Le speranze non sono perdute. Grazie anche al «corsaro».

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PROLOGO

Il titolo del libro si richiama agli scritti «corsari», nei quali vengono indicati e raccolti gli interventi di Pier Paolo Pasolini pubblicati, all’inizio degli anni Settanta, sul Corriere della sera 1. Verso i fatti del mondo prevaleva l’atteggiamento di riflessione rispetto alla ricerca irrazionale e spasmodica dell’emozione; allora la quantità d’informazione disponibile era certamente minore ma ci si soffermava più a lungo sulle notizie, sugli avvenimenti, sui possibili rapporti di causa effetto, su tutto quello che fosse possibile ricondurre – direttamente o indirettamente – alla parola «politica» 2. Era l’epoca dei grandi confronti, quando il pubblico era davvero attento ai contrasti delle opinioni, delle analisi, dei punti di vista. Tutto questo, oggi, ci manca molto. Intendiamoci, anche allora (forse più di oggi) esisteva un corposo sistema di manipolazione e di censura, ma ciò di cui il I primi furono pubblicati nel gennaio 1973. È negli ultimi mesi di vita che Pasolini riscontra un raffreddamento nell’«impegno» del pubblico, come scrive nell’introduzione alla raccolta degli Scritti corsari nel 1975 (l’anno del suo assassinio): «mai mi è capitato nei miei libri, più che in questo di scritti giornalistici, di pretendere dal lettore un così necessario fervore filologico. Il fervore meno diffuso del momento». 1 2

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nostro tempo appare orfano è una figura di scandalo e di pura ricerca, come fu appunto quella di Pasolini. Con «schermi corsari» intendo perciò stabilire un paragone tra gli interventi televisivi del pensatore, del filosofo Pasolini, oltre che dell’«autore» (parola plurivalente, a lui molto cara), e la sua vastissima produzione scritta. Intendo anche indicare in Pasolini uno dei più grandi comunicatori del Novecento, tra gli intellettuali italiani certamente il più capace di «arrivare» al pubblico. Nelle pagine che seguono, non mi limiterò soltanto a mostrare quanto accurato e consapevole fosse il suo uso del mezzo televisivo, ma anche come articolato e multiforme (in ciò, unico) fosse il suo rapporto con il pubblico della tv: dagli elementi più colti, tanto a destra che a sinistra, a quella mitica, e nuova élite di fatto, che Pasolini desiderava riconoscere nelle masse, fino alla minoranza operaia più attenta e ricettiva. Cercheremo di capire in che modo l’organizzazione e l’esposizione del suo intero sistema di pensiero, per quanto vastissimo e rivolto a innumerevoli oggetti, si svolga in maniera concentrica partendo da un unico nucleo centrale (pulsante e irrisolto), il conflitto con il padre; come questo rientri in un perfetto schema comunicativo; e in che modo dello stesso disegno facciano parte i numerosi slogan spesso interpretati come giudizi affrettati o irragionevoli. Smonteremo alcuni di questi equivoci, ne cito un paio per tutti: il Pasolini «religioso» e il suo odio verso la televisione (il «diavolo»). Lo scopo del libro è conoscere e comprendere Pasolini, non interpretarlo o giudicarlo. Perché il modo migliore di penetrare l’universo di un autore è semplice16

PROLOGO

mente esplorarlo 3, inoltrandosi all’interno dei nuovi «sentieri», con umiltà e caparbietà, fino a scoprire che a un certo punto (almeno nel caso di Pasolini) tutti i “conti tornano”, e persino le contraddizioni – che lui stesso reputava irrisolvibili – acquistano alla fine una propria organica funzionalità.

Per questo motivo, limiterò il più possibile il ricorso alle interpretazioni che critici o esegeti vari hanno compiuto (o tentato di compiere) di Pasolini. Questa è una mia precisa scelta per far sì che anche il lettore venga posto davanti a questi temi senza vizi o pregiudizi, così che la sua visione resti, per così dire, vergine, in modo tale da poter «rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta, ricongiungere passi lontani che però si integrano, organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà, eliminare le eventuali incoerenze, sostituire le ripetizioni con eventuali varianti» (Nota introduttiva agli Scritti Corsari, 1975). Fa eccezione il prezioso lavoro di organizzazione critica, o ricostruzione biografica, svolta da intellettuali come Gian Carlo Ferretti o Enzo Siciliano, senza il contributo dei quali sarebbe stato difficile orientarsi nell’ambito della sconfinata produzione pasoliniana. 3

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PRIMA PARTE

IL GRANDE EQUIVOCO

Una scelta stilistica Guarda quei ragazzini, guardali bene, ti sono più simpatici questi ragazzini qui oppure dei ragazzini che siano quelli che tu chiami «figli di papà»? Beh, io ero un «figlio di papà», purtroppo sono stato un «figlio di papà», un padre ufficiale, una madre maestra e… sono vissuto per tanti anni, finché ero già grande, nell’Italia settentrionale, tu lo sai, nel Friuli, a Bologna… poi sono sceso improvvisamente a Roma e ho conosciuto un mondo che non avevo mai conosciuto, cioè il mondo del sottoproletariato… lo sai che cos’è? Non sai che cos’è? É il mondo di gente che lavora dove non ci sono industrie: a Milano gli operai sono dei proletari, a Roma dove non ci sono industrie (a Napoli, in Sicilia) invece c’é il sottoproletariato perché non ci sono delle fabbriche, delle industrie. È un mondo caratteristico, particolare, speciale, è il Terzo Mondo, sai che cos’è il Terzo Mondo? No… di’ la verità! Che cos’è? È il mondo appunto pre-industriale, come l’Asia, l’Africa, l’America del sud, beh il Terzo Mondo comincia qui, vedi? Dove son quei ragazzini lì, da lì verso l’Africa, verso l’Asia si ha il Terzo Mondo.

Queste parole (certamente oggi assai datate, che non corrispondono più alle recenti trasformazioni del mondo) provengono da uno spezzone televisivo in 19

GABRIELE POLICARDO

bianco e nero 1, che mostra la conversazione pacata, dolcemente confidenziale tra un uomo seduto a un tavolo, elegante, dall’aria intensa, e un giovane dai capelli ricci, l’espressione intelligente, curiosa, velata da un’apparente e popolana ingenuità. L’uomo in giacca e cravatta è Pier Paolo Pasolini; il suo interlocutore primario, il fido Ninetto Davoli. L’aggettivo «primario» segna l’immediato ingresso nel cuore della questione: la straordinaria efficacia delle parole pronunciate da Pasolini in qualunque spezzone e di qualsiasi argomento parli in televisione. Ciò è il frutto di un uso estremamente consapevole e perspicace, genialmente intuitivo, del medium televisivo; il che comprende una serie di scelte precise e motivate di ordine stilistico, linguistico, formale; cioè l’esposizione di un pensiero destinato a raggiungere milioni di persone, molte più di quelle che leggono i libri e seguono le rubriche sui giornali. In molti si sono limitati a interpretare la televisione come un mero bersaglio della polemica pasoliniana, ignorando (o dimenticando) la profondità e la complessità del suo messaggio critico: un’analisi articolata e trasversale. Il rimprovero più superficiale e gratuito che a Pasolini veniva mosso in vita (e anche dopo la morte, ingiustamente) era di scagliarsi «ciecamente» contro la televisione, demonizzandola sul solco di un certo anacroniTratto dal documentario Pasolini l’Enragé (1966) di Jean-André Fieschi, appartenente alla serie «Cinéastes de notre tempes», prodotta dalla televisione francese. Pasolini ripercorre il proprio percorso artistico fino a quell’anno in un’intervista, montata con brani tratti da suoi film e interviste a personaggi come Ninetto Davoli e Franco Citti. 1

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SCHERMI CORSARI

stico disorientamento ideologico della sinistra del tempo. A questo anacronismo Pasolini si adeguò, probabilmente senza considerare che per ciò stesso, sarebbe poi stato accusato della medesima miopia di classe. In realtà egli, uomo di contraddizioni, era più arretrato ma anche più avanti della sinistra (leggi Partito Comunista) dell’epoca; in ogni caso – se vogliamo rendergli onore – sfuggiva a tutte le sistematizzazioni che proprio “quella” sinistra volle sul suo conto immaginare e attribuire. Per questo, allora, ci si affrettò a concludere che egli appartenesse ad una certa «chiesa» di sinistra, e ne mostrasse i medesimi limiti, tanto ideologici quanto «ottici». La sostanza è ben diversa. Questa semplificazione del rapporto tra l’intellettuale e la televisione, col tempo, si è curiosamente consolidata in un’opinione monolitica, difficile a demolirsi, che Pasolini fosse un intollerante tecnologico, un reazionario simbolico e un uomo incapace di elaborare (o semplicemente di accettare) i movimenti culturali e sociali del proprio tempo. Inoltre, lo si accomunava ad altri intellettuali suoi contemporanei, che in blocco sembravano opporsi alla tv. Pasolini andava invece in una direzione totalmente diversa. Se, da un lato, egli provava un innegabile e irrazionale astio verso un medium considerato proprietà della borghesia, quindi del Potere, dall’altro lato «in luce» (per usare un’espressione a lui cara) non poteva che comprenderne l’immensa potenzialità, ma al tempo stesso il pericolo, semplicemente per via dell’uso che di un medium di massa poteva essere fatto, ad esempio da uno Stato che non aveva chiuso del tutto la partita con gli spettri del passato. 21

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La televisione, infatti, non è né buona né cattiva, né divina né diabolica. Dipende da come la si usa. Quindi non si può ridurre il pensiero di un intellettuale come Pasolini a un giudizio perentorio e ieratico: la sua affermazione «la tv è diabolica» non è che uno dei molti slogan sotto i quali egli riuniva alcuni «filoni» della sua analisi filosofica e sociale. Pasolini produsse una quantità sterminata di documenti e, con lucidità e impegno, s’interrogò su una quantità sconfinata di questioni. Semmai la difficoltà del suo universo critico sta proprio nella vastità dei contenuti e degli interventi. Muoversi in questo universo è come camminare su un campo minato, perché nulla è mai lasciato al caso. Il primo grande errore che si può commettere, quindi, è di scambiare un’attenta scelta stilistica con un’insensata abitudine a giudizi parziali e incoerenti. Nel brano citato, ad esempio, Pasolini spiega a Ninetto Davoli cosa sia un «sottoproletario», raffigurando (com’era solito fare, sempre) tutto un contesto in cui questa spiegazione viene incorniciata, contestualizzata, arricchita da riferimenti storici e numerosi spunti interpretativi. Ciò è ancora più evidente in un altro momento, protagonisti sempre Pasolini e Davoli, all’inizio del famoso documentario Pasolini e… la forma della città, più noto come La forma della città, trasmesso dalla RAI il 7 febbraio 1974: C’è quella casa che si vede là a sinistra, la vedi? Ecco, questo è un problema di cui io parlo con te, perché non son capace di parlare in astratto rivolto al vuoto, al pubblico televisivo che non so dov’è, dove si trova. Parlo con te, che mi hai seguito in tutto il mio lavoro e mi hai visto molte volte alle

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prese con questo problema. Tante volte siamo andati a girare fuori dall’Italia, in Marocco, in Persia, in Eritrea, e tante volte avevo il problema di girare una scena in cui si vedesse una città nella sua completezza, nella sua interezza, e quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualcosa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c’entrava con questa forma della città, con questo profilo della città che io sceglievo.

Mettendo un momento da parte l’oggetto di questo frammento (vi ritorneremo nella parte dedicata ai contenuti degli interventi televisivi), in poche parole Pasolini traccia tre diverse coordinate, in cui poi si muove con eleganza ed effetto. La prima: l’autore accoglie subito il telespettatore nella fucina magmatica del suo lavoro: i problemi e gli inconvenienti che insidiano il percorso nella creazione di un’opera, il nervosismo, l’impotenza di fronte a certi limiti oggettivi, il continuo riproporsi, ineluttabile e sofferto, di questi problemi. La seconda: il mascherare con un episodio personale (la vita del regista e la testimonianza di Ninetto che lo ha sempre seguito nel suo impegno cinematografico) il nucleo della questione analizzata (in questo caso, la forma della città di Orte, rovinata nella sua purezza paesaggistica, stilistica, da certi palazzi moderni, costruiti abusivamente); la vita dell’autore, dunque, più che da semplice sfondo, funge da rituale drammaturgico del suo pensiero in presa diretta. La terza coordinata, la più interessante: quella per cui Pasolini «finge», quasi come espediente letterario, di rivolgersi a un interlocutore in carne e ossa sempli23

GABRIELE POLICARDO

cemente per evitare il disagio di un interlocutore astratto, senza corpo, senza spazio. Sappiamo bene che questo espediente non è casuale, né dovuto all’imbarazzo, ma una precisa scelta stilistica. È più chiaro quando, in un’altra trasmissione della RAI, Pasolini appare da solo davanti alla telecamera. È l’unico caso esistente nel quale lo scrittore si rivolge direttamente all’obiettivo, senza un intermediario. Risale al 1966. Pasolini si presenta in televisione in una forma per lui inusuale, cioè in studio, con uno schermo alle spalle, un tavolo, un microfono, un foglio con degli appunti. Per dirla con una metafora calcistica, è l’unico episodio in cui egli non gioca «in casa», intervenendo per commentare un drammatico fatto di cronaca, passato alla storia come «la tragedia di Brema»: un incidente aereo in cui avevano perso la vita sette nuotatori della nazionale italiana, un allenatore e un cronista. Nel raccontare la vicenda, egli non manca di soffermarsi sull’impatto emotivo che ha suscitato in lui questa notizia (una semplice azione d’identificazione col pubblico, quasi en passant, con la quale egli si dichiara subito, prima telespettatore, e poi comunicatore). Anche questo, che sembra un dettaglio, è molto interessante. Quel che la tv ha di nuovo, rispetto agli altri mezzi, è di essere un medium emotivo. La radio era fortemente evocativa, ma il potere naturalistico, realistico, della televisione costituiva il suo specifico fondamentale. Pasolini lo sapeva bene, sia come spettatore che come comunicatore. L’importanza del frammento risiede nella forma in cui è costruito. Si tratta dell’unico caso in cui Pasolini viene «ridotto» al formato televisivo, ovvero accetta di 24

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piegarsi alle regole convenzionali della comunicazione in tv; ed è proprio per questo che appare stranamente innaturale, nervoso, astratto. Perde la sua consueta efficacia fino al punto di sembrare un giornalista alle prime armi, che per la prima volta entra nello studio di un telegiornale e cerca di raccontare un fatto dividendosi tra l’articolo scritto e lo sguardo del pubblico, rappresentato dall’obiettivo della telecamera. Questo punto è sostanziale. In un simile contesto, egli appare come tanti altri intellettuali: un pesce fuor d’acqua, un uomo abituato ad altri modi di comunicare, tipici di un altro tempo, impacciato perché il timore di non saper risultare televisivamente adeguato pare prendere il sopravvento sulla concentrazione e sulla formulazione del pensiero (che era, nella comunicativa, il suo «forte»). Il bello di ogni intervento in tv, infatti, è proprio nel vedere l’intellettuale mentre, punto sul vivo, elabora un pensiero, vi trova delle tesi a supporto, dice delle cose che dalle «persone comuni» sarebbe difficile ascoltare. L’astuzia di Pasolini consisteva invece nel ritagliarsi un “proprio” spazio all’interno della cornice televisiva, nel quale sentirsi a suo agio. Ad esempio, parlando con un interlocutore, già appariva più legittimato a essere se stesso, a trovare stimoli (spesso provocazioni) per innalzare il livello della discussione e risultare non di rado spregiudicato, mostrandosi sicuro, diretto e soprattutto naturale. Occorre precisare un dettaglio: verso il proprio interlocutore, chiunque fosse, Pasolini aveva sempre un rispetto sacrale e incondizionato; se questi dimostrava di non capire, o d’ignorare volutamente il suo univer25

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so, egli portava il dibattito su temi a lui più congeniali; persino in quei casi che noi, nei suoi panni, avremmo ritenuto più fastidiosi, egli mantiene un tono gentile, di chi vuole esprimersi sinceramente, confrontarsi liberamente, e – laddove possibile – «far capire» il proprio punto di vista, con un’educazione e una mitezza che forse, per i giorni nostri, sono ormai leggendari: Le presunzioni della malafede negli avversari. Anche quando Cristo esplode nelle più terribili invettive contro gli Scribi i Farisei (guide cieche, sepolcri imbiancati, ipocriti ecc. ecc.) non dispera di essere capito da loro e dalla loro fondamentale volontà di capire: argomenta cioè sempre quello che dice, «dialoga» anche nel momento della più appassionata violenza verbale. Egli insiste sempre, in modo quasi ossessivo, perché entri bene nelle teste, talvolta un po’ rusticamente dure dei suoi apostoli, che bisogna parlare proprio a quelli che sono più lontani, i pubblicani, le peccatrici, le pecore smarrite 2.

Superare il limite del mezzo: l’interlocutore-intermediario Vi è dunque una differenza abissale tra il Pasolini che parla diretto alla telecamera, da solo, e quello che dialoga con l’interlocutore. Nel primo caso, lo vediaArticolo inedito, destinato alla rubrica del 26 novembre 1964 di «Vie Nuove» e poi escluso (probabilmente per ragioni redazionali), infine raccolto in P. P. PASOLINI, Le belle bandiere, Dialoghi 19601965, a cura di Gian Carlo Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 267. Curiosamente in questo articolo Pasolini, che più di una volta ha precisato di non essere religioso, né di credere in Dio, si paragona al Cristo del Vangelo, o meglio paragona i modi di parlare, di dialogare, con lo scopo di giungere anche agli ascoltatori più lontani. 2

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mo sbirciare qualcosa di scritto e tenere il filo del discorso con difficoltà, il che lo rende decisamente inadeguato; ma tutte le altre volte è incredibilmente capace di arrivare – anche senza guardare l’obiettivo – al telespettatore. L’odio di Pasolini per la tv, ovvero per quella che considerava una emanazione della classe dominante, è connaturato e quasi incarnato dall’intellettuale, ma egli non può parlare a chi non vede, e noi l’osserviamo sempre rivolto all’intervistatore; in ogni caso coinvolgendolo, ad esempio con un intercalare, una costruzione delle sue risposte in grado di stimolare puntualmente chi lo interroga: «come le ho detto», «lei adesso è qui», «le ripeto», «ha capito?» e così via. Pasolini è conscio che sta parlando per interposta persona a una massa, ma è questa forma comunicativa la garanzia di non fare un discorso come gli altri, ovvero come altri intellettuali (registi, scrittori, con le dovute differenze anche i politici), presi in contropiede dall’immediatezza della tv, dalla sua velocità. Mettiamoci nei panni di un cineasta, abituato a lavorare giorni e giorni per una sequenza che può durare anche un minuto; e che improvvisamente si trova a parlare da uno schermo come in un piano-sequenza, senza pause di riflessione, senza materiali da montare, e infine senza possibilità di intervenire sul risultato finale. Per Pasolini, questo «flusso» televisivo era alienante. La trasmissione che egli dedica alla tragedia di Brema, davanti all’astrattezza dell’interlocutore, è l’unico episodio che veda messo da parte il rifiuto di riconoscere un interlocutore collettivo anonimo, senza contorni; ovvero il bisogno di eleggere un interlocutore diretto, 27

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con una materialità, una corporeità concreti, che possano richiamare la fisicità del pubblico. Del resto, anche le risposte nelle rubriche dei giornali o delle riviste, così come le lettere al pubblico, erano individuali. Questo fa parte del suo modo di stabilire un rapporto fortemente reale con le persone. Come ricorda l’amico Sergio Telmon, durante la storica intervista di Enzo Biagi a Pasolini 3: Pier Paolo ha sempre avuto una visione nient’affatto aristocratica, è un uomo che ha sempre sentito profondamente le cose, i rapporti umani; io credo che lui interpreti questo mezzo televisivo come un diaframma intermedio, di cui non c’è nessun bisogno per i rapporti tra uomo e uomo, per i rapporti nella società. Per me è eccessivamente pessimista, Pier Paolo. Ma io che ricordo i suoi grandi ottimismi, posso capire che non possa che essere pessimista e scettico.

A proposito di questa realtà dei rapporti umani, alcune volte Pasolini sceglie apposta di mettere in scena un dialogo con Ninetto Davoli, ad esempio nel saggiodocumentario La forma della città. Egli instaura subito un discorso (meglio definirlo un monologo) con Ninetto, per precisare fin dal principio che nelle parole, e nelle immagini che seguiranno, nulla è falso, innaturale, artificiale. Poi, però, Ninetto sparisce dalle inquaSi tratta della trasmissione Terza B: facciamo l’appello, 1971, in cui Pasolini incontra i compagni di classe del liceo Galvani e risponde a molte domande del giornalista, illustrando quel famoso giudizio sulla televisione come medium di massa alienante in sé. Questa trasmissione, oltre a fornire una serie di numerose osservazioni dello scrittore-regista, è un testo fondamentale su cui torneremo spesso. 3

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drature, e Pasolini lancia la sua riflessione ai livelli più vertiginosi, con un climax appassionato che si avverte nel finale, con il ritmo e l’intensità che ritroveremmo in un’opera sinfonica. Dunque la funzione di Ninetto è quella di un intermediario tra il regista e lo spettatore. Per quanto semplice sia il modo in cui esprime il suo pensiero, Pasolini sa benissimo che il rivolgersi direttamente al pubblico (magari proprio a quello che lui definiva più «sprovveduto») potrebbe creare una certa inquietudine. È come se egli scegliesse di parlare a Ninetto affinché il pubblico si senta graziato dal compito di capire immediatamente le sue parole, e semmai sia disposto a cogliere un’espressione d’incertezza sul viso di Ninetto, prima che sul proprio. Possiamo raffigurare Pasolini, in uno dei tre vertici di un triangolo, che evita accuratamente d’interpellare direttamente il telespettatore, per una ragione che forse è paragonabile a quella per la quale, nei primi anni del cinema, era vietato agli attori guardare in camera. Lo spettatore che assiste a una conversazione tra due persone si sente appunto spettatore, e non virtualmente coinvolto in qualcosa che è in ogni caso remoto e con cui non può interagire; questo assunto verrà poi richiamato in causa a proposito dell’«antidemocraticità» del mezzo: specialmente perché la televisione, come Pasolini amava ripetere, trasporta nelle case degli spettatori parole che cadono dall’alto di una cattedra; e proprio sulla responsabilità di questa sua influenza s’interrogava spesso, come si legge nella risposta a un lettore di «Vie Nuove»: È difficile conservare non goffamente la propria democraticità, quando in qualche modo si è in cattedra: io qui, tito-

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lare di una rubrica, proposto, esposto, interrogato sulle mie opinioni ecc. ecc., rischio appunto la cattedra. In altri momenti posso forse aver avuto la inconscia debolezza di lasciarmi un po’ trascinare nel gioco […] comunque ora mi vergognerei selvaggiamente se dovessi prendere in qualche modo atto del mio stato di influenza, del mio parlare con la protezione di meriti acquisiti nel campo della mia specializzazione. È vero, noi abbiamo bisogno di «miti», di «autorità», e colui che, attraverso l’industria culturale o l’appoggio di una corrente di opinione o l’organizzazione di partito o il caso, diventa un «mito», «un’autorità», acquisisce nuovi doveri verso se stesso e verso gli altri. Ormai il suo rapporto con gli altri è quello che è, non è più quello di un pari tra i pari 4.

Il ricorso agli slogan 5 Oltre alle poche trasmissioni esplicitamente dedicate a Pasolini, e ai film-saggi o documentari sulla sua opera 6, esistono molti frammenti televisivi in cui l’autore viene intervistato in occasione dell’uscita di uno «Vie Nuove», n. 42 a. XIX, 15 ottobre 1964 La parola «slogan» è appropriata in un contesto televisivo; tuttavia, nel caso di Pasolini, può assumere vari significati, o perlomeno varie sfumature. A volte si potrebbe parlare piuttosto di un’immagine poetica, o di un’allegoria, come a proposito della famosa «scomparsa delle lucciole» (come metafora dell’omologazione consumistica in Italia); in altri casi si è più vicini all’invettiva, come nella definizione del regime fascista quale «gruppo di criminali al potere», fino ad affermazioni che egli stesso definiva «apodittiche» (molte di queste riguardano certamente la televisione). 6 Come il già citato Pasolini l’Enragé. 4 5

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dei suoi film. Questa categoria è molto ricca, talvolta anche di spezzoni di notevole particolarità. Poco prima d’iniziare le riprese del Vangelo, Pasolini rilascia sull’aereo dichiarazioni che potremmo definire «programmatiche» sul film, pronunciando una frase assai significativa: «vorrei dire, se mi concede uno slogan, è una storia che senza concedere niente dà tutto». Ecco un altro punto fondamentale: nonostante la distanza (sentita, dichiarata) di Pasolini dalla televisione, in realtà egli conosce molto bene i mezzi che usa, e anche la comunicazione televisiva. Dico questo in risposta a quanti sono convinti che Pasolini in realtà non abbia mai capito la tv. Al contrario, lui sa bene che nello specifico televisivo ci si esprime per slogan, usando frasi dirette, rapide, che producano immagini che colpiscano, e Pasolini in effetti ne produce in abbondanza. Rispetto agli interventi saggistici o giornalistici, è come se al video aggiungesse una semplificazione che è al tempo stesso un dono, cioè un passo in più verso l’intervistatore e quindi verso il pubblico, al punto da offrire all’interlocutore la «frase chiave» che riassuma il suo discorso 7. Questa scelta ci dice anche molto del timore (giustificato) di Pasolini di essere frainteso, cosa che avveniva molto di frequente. In effetti, quel che accadeva non era propriamente un fraintendimento: la maggior parte delle persone – e tra questi considero soprattutto quelle dotate di strumenti culturali e intellettuali – più che fraintendere le parole, non capiva di cosa si stesse parlando. Essa dialogava in superficie, tant’è che le risposte che Pasolini riceveva sono quasi sempre fuori luogo, lontane anni luce dalle profondità che intendeva elaborare. 7

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L’approfondimento e il ragionamento complesso, di alto profilo, restano propri di altre forme di comunicazione (ed anche in queste, egli sembra sempre dare il massimo). Tuttavia, rispetto agli scritti 8, Pasolini esige certamente un po’ di meno dall’audience di massa, sapendo che di questa fanno parte individui che non cercano i suoi interventi, come nel caso dei lettori, ma si possono trovare «per caso» a seguire le sue parole dal video. L’uso dello slogan è, nuovamente, una scelta stilisti9 ca . Ma non bisogna confondere lo slogan teorico, al servizio della produzione culturale, con gli altri slogan, quelli che provengono dal mondo dell’industria e partendo da questo si sono riversati sul mondo della produzione culturale di massa, e poi anche nelle espressioni parlate, creando una miriade di clichè, impoverendo una lingua la cui ricchezza era già in crisi: 8 «Io desidero discutere: e ciò mi costa fatica, il che è, poi, mi dà diritto di pretendere un po’ di fatica anche dai miei lettori. La conoscenza di parole nuove – e quindi di concetti difficili – la conoscenza di allocuzioni generali nuove – e quindi di un mondo specializzato e diverso – non deve spaventarti: non deve farti appellare, demagogicamente, a una semplicità falsamente salutare e diretta». «Vie Nuove», n. 47 a. XVII, 22 novembre 1962. 9 Basta avere una discreta conoscenza del mondo pasoliniano, per scoprirvi delle concentricità critiche, ovvero dei grappoli teorici intorno ai quali si sviluppano i vari filoni del suo ragionamento, e nei quali la riflessione è sempre inscritta (nulla è lasciato al caso). Egli in questo fu un abile «editor» della propria opera, coniando le famose immagini dello Stato clerico-fascista, della scomparsa delle lucciole, dando un corpo «italiano» e un volto provinciale alla lettura marxista della Storia (la civiltà arcaica inesorabilmente, brutalmente spazzata via dal neocapitalismo, i sottoproletari la cui grazia esistenziale viene progressivamente cancellata dall’omologazione della civiltà dei consumi, ecc.).

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C’è solo un caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipata, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita. La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato 10.

Pasolini, dunque, usa i vari strumenti che ha a disposizione senza forzarne la natura, tuttavia trascendendola. Ai film lascia la rappresentazione delle sue analogie immaginifiche, marxiste, per un pubblico da visione; alla poesia rivolge l’intuizione e ai romanzi l’eresia del vitalismo in opposizione all’aleggiare della morte; alla televisione dà slogan, frasi a effetto, che colpiscono l’una dopo l’altra con un grado di altissima concentrazione di senso: chi ascolta Pasolini ha una raffica di stimoli, d’immagini tutte di grande effetto, come tanti colpi a ripetizione, sui quali si può cominciare a riflettere solo alla fine, riprendendo il respiro. Il ruolo della tv è straordinario: essa è contemporaneamente «un nemico» ma anche il mezzo attraverso il quale poter ulteriormente ampliare le possibilità della comunicazione, fino a raggiungere vastità di 17 maggio 1973. Analisi linguistica di uno slogan, in Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975, p. 12. 10

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pubblico impensabili per altre epoche, per gli intellettuali del passato. A proposito di questa apparente «integrazione» all’interno del sistema di produzione editoriale, Pasolini lucidamente spiega che sta usando i mezzi di quel sistema contro il quale si batte – una lotta descritta come impari, come un braccio di ferro (ancora uno slogan) – ma il senso è proprio quello di utilizzare i mezzi del capitalismo per potersi esprimere contro il capitalismo; un cavallo di Troia che consente di avere accesso agli strumenti di comunicazione della borghesia per attaccarla dall’interno, con l’aiuto fondamentale del suo mezzo diabolico, ma che dà la possibilità di arrivare. È il modo critico, anche se forse, ingenuo, di accettare quell’integrazione, quei compromessi che secondo Pasolini gli intellettuali italiani diversamente accettano: Il compromesso si può riassumere in uno solo: è quello di accettare in un modo acritico – perché se fosse critico si può anche ammettere, anzi credo che sarebbe inevitabile – l’integrazione. [Io la accetto] ma in modo critico. Cioè, certo non posso non accettarla, perché devo essere un consumista per forza anch’io, mi devo vestire, devo vivere, non soltanto, devo scrivere, devo fare dei film, quindi devo avere degli editori, devo avere dei produttori… la mia produzione consiste nel criticare la società che in un certo modo mi consente – almeno per ora – di produrre in qualche modo 11.

11 Terza B: facciamo l’appello, 1971, Programma Nazionale, 1975. In alcuni casi, per gli spezzoni che citerò in seguito, non mi è stato possibile risalire alle informazioni esatte sul programma originale. Ho dunque citato l’edizione, o la raccolta, dalle quali ho trascritto i brani.

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Il problema della verità Otello: ma qual è la verità? È quello che penso io di me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là lì dentro? Jago: cosa senti dentro di te, concentrati bene, cosa senti, eh? Otello: sì sì… si sente qualcosa che c’è… Jago: quella è la verità, ma… sssst! Non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più 12…

Che cosa sono le nuvole, 1968 La versione che Pasolini gira dell’Otello nel cortometraggio è emblematica di questa verità. Ninetto Davoli, del personaggio shakespeariano non ha quasi nulla, se non l’immediatezza delle passioni, la forza incondizionata e selvaggia di queste emozioni, che sono poi il vero elemento di naturalezza che stava a cuore a Pasolini (al di là delle scelte ideologiche, linguistiche per le quali Otello parla in romanesco e fa le smorfie di un sottoproletario romano); diversamente, Totò interpreta Jago – verde di bile e d’invidia – in una maniera intensamente drammatica. Entrambi rendono l’interpretazione così appassionante, che durante la rappresentazione al teatro delle marionette il pubblico è sentimentalmente rapito al punto da invadere la scena e concludere a proprio piacimento il dramma: Jago e Otello, che hanno colpe e responsabilità diverse, vengono uccisi. Desdemona (Laura Betti) viene soccorsa da un gruppo di spettatrici, Cassio (Franco Franchi) portato in trionfo, disorientato. Tuttavia, solo dopo esser stati gettati in una discarica, in mezzo alla «mondezza» che ritroviamo anche nei romanzi, i due «pupi» di pezza (Davoli e Totò) scoprono il mondo reale, quelle nuvole di luce e di vapore bianco che nel «cielo di carta» del teatrino non esistevano. Nella metafora al rovescio di Pasolini, due personaggi della fantasia, che nella finzione vengono «ammazzati» dalla realtà, solo così possono vedere coi loro occhi la “straziante meravigliosa bellezza del creato”. Ma questo è un lusso concesso solo al mezzo cinematografico; alla televisione, la questione del reale è molto più complessa. 12

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C’è un punto in cui Telmon ha colto nel segno durante il programma di Biagi. Pasolini, per via delle sue origini contadine, e del suo arcaico bisogno di concretezza, di fisicità, di autenticità, in un certo senso vedeva la televisione come una specie di sovrastruttura, dotata di molte utilità, ma del tutto insensata se intesa quale strumento di creazione di rapporti sociali, o di produzione «di umanità». Invece è proprio in questa direzione che il medium si è sviluppato, evidentemente per ragioni che hanno la loro ragion d’essere in tutta la storia dell’umanità: è interesse del potere riprodursi e autolegittimarsi, inducendo nella massa l’illusione di unificazione, ma creando in realtà divisione, una divisione non minacciosa, cui è preclusa ogni reale evoluzione progressista. La televisione è proprio questo: bravissima a fingere di essere il medium che unisce, mentre invece è proprio il mezzo che separa. Inoltre è «il mezzo naturalistico» per eccellenza, e come tale non poteva che scatenare in Pasolini il rancore più intimo. È divenuta ormai famosa la lapidaria conclusione dell’autore che, nell’inedito del 1966 dal titolo «Contro la televisione» 13, dichiara: Ciò esclude i telespettatori da ogni partecipazione politica – come al tempo fascista: c’è chi pensa per loro, e si tratta di uomini senza macchia, senza paura, e senza difficoltà neanche casuali e corporee. Da tutto ciò nasce un clima di Terrore. Lo vedo chiaramente il terrore negli occhi degli annunciatori e degli intervistati ufficiali: non va pronunciata una parola di scandalo – e poiché è scandalo anche un mal di

Poi raccolto in PIER PAOLO PASOLINI, Tutte le opere, I Meridiani, Mondadori, Milano, 2001, p. 137. 13

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pancia – se esso potenzialmente mette in discussione la sicurezza della spiritualità statale, ne rivela la possibilità di un minore ottimismo – praticamente non può essere pronunciata alcuna parola in qualche modo vera.

Il problema della verità ritorna in numerosi interventi televisivi di Pasolini. L’episodio più interessante da questo punto di vista, è l’intervista di Biagi. È quindi giunto il momento di parlare di questa trasmissione, perché la sua storia è emblematica e il suo destino appare fatalmente intrecciato ai contenuti che vi sono trattati. Terza B: facciamo l’appello 1971 avrebbe dovuto essere trasmessa il 27 luglio di quell’anno 14, ma fu sospesa per una vicenda giudiziaria che coinvolse Pasolini quale direttore responsabile di «Lotta continua». Scandalosamente, essa andò in onda solo all’indomani del suo assassinio, il 3 novembre 1975. Ma ancor più scandalosa fu, da parte della RAI, la distruzione di due dibattiti televisivi (L’inquietudine dei giovani e Italiani oggi), sicché oggi l’intervista di Terza B acquista ancora più valore, essendo rimasta in pratica l’unico dibattito monografico sull’autore in tv. È qui il caso di riportare parte del dialogo tra Enzo Biagi e il regista, perché si giunge a un vero e proprio scontro di ideologie sul problema del poter dire “tutto quel che si vuole” in televisione 15, ovvero a uno scontro che vede da una parte l’ideologia marxista, l’antico sa14 Questa, e altre importanti informazioni sul materiale televisivo su Pasolini, sono tratte dall’articolo di Roberto Chiesi su «Libero, la rivista del documentario», n. 4 a. 1 luglio 2006. 15 Le domande di Biagi sono scritte in corsivo.

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pere degli studi enciclopedici, dall’altra il nuovo sapere televisivo: Per esempio il fatto di aver trovato i miei amici qui, alla televisione, non è bello; per fortuna noi siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video e a ricostituire qualcosa di reale, di sincero, ma come posizione, la posizione è brutta, è falsa. perché, cosa ci trova di così anormale in questa situazione? Perché la televisione è un medium di massa, e il medium di massa non può che mercificarci e alienarci. Ma oltre ai formaggini e al resto, come lei ha scritto una volta – «questo mezzo ci porta soprattutto dei formaggini in casa» – esso porta adesso le sue parole: noi stiamo discutendo tutti con grande libertà senza alcuna inibizione, o no? non è vero sì è vero, lei non può forse dire tutto quello che vuole? No, non posso dire tutto quel che voglio… lo dica! No, non lo potrei perché sarei accusato di vilipendio, uno dei tanti vilipendi del codice fascista italiano, quindi in realtà non posso dire tutto; e poi a parte questo, oggettivamente di fronte all’ingenuità, o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose; quindi mi autocensuro. Ma a parte questo, non è tanto questo, è proprio il medium di massa in sé: nel momento in cui qualcuno ti ascolta dal video, ha verso di te un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.

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Beh, io penso che sia anche in certi casi un rapporto alla pari, che lo spettatore che è davanti al teleschermo riviva nelle vostre vicende anche qualcosa di suo, non è in uno stato di inferiorità. Perché non può essere alla pari? Sì, teoricamente questo può essere giusto, alcuni spettatori che culturalmente, per privilegio sociale ci sono pari, prendono le nostre parole ecc. ecc. ma in genere proprio il video, le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, anche le più sincere…

Emerge subito una verità, seppure parziale: Pasolini e Biagi non si capiscono. Parlano due lingue diverse, ed è piuttosto Biagi a non capire il senso delle parole di Pasolini, a sforzarsi di riportare continuamente al particolare (quella trasmissione, quello studio, quegli ospiti, quelle parole) un discorso che è quanto mai universale. Il problema di Pasolini non è la sua libertà in quel momento, né ciò che potrebbe in effetti dire; persino l’abisso tra le affermazioni possibili e un certo tipo di pubblico – culturalmente inadeguato a recepire con esattezza alcuni messaggi – passa in secondo piano. Il punto è che la tv è di per sé, ontologicamente, un medium che impone un rapporto non democratico. E Pasolini spiega il perché: la televisione configura un rapporto di subalternità per chi è davanti al video, molto più di quanto non avvenga con tutti gli altri mezzi di comunicazione. Le parole scelte da Pasolini, «mercificarci» e «alienarci», sono puramente marxiste, e instaurano una similitudine tra l’alienazione degli operai rispetto al proprio lavoro, quindi nei con39

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fronti dei padroni, e l’alienazione del pubblico di massa, di fronte al potere della televisione, che è invisibile ma non astratto, ed è il potere stesso della classe dominante: Che cosa vuol coprire la televisione (Bernabei, Granzotto, ecc. ecc., magari, ora, anche Paolicchi)? Vuol coprire la vergogna di essere l’espressione concreta attraverso cui si manifesta lo Stato piccolo-borghese italiano. Ossia di essere la depositaria di ogni volgarità, e dell’odio per la realtà (mascherando magari qualche suo prodotto con la formula del realismo). Il sacro è perciò completamente bandito. Perché il sacro, esso sì, e soltanto esso, scandalizzerebbe veramente le varie decine di milioni di piccoli borghesi che tutte le sere si confermano nella propria stupida «idea di sé» davanti al video 16.

Qui Pasolini, da «innamorato» della vita autentica e incondizionata, si lascia prendere un po’ dall’emotività, cedendo a espressioni forse troppo impetuose, che culminano in un ritratto della televisione come nuova Inquisizione, francamente esagerato. Che in tv possa passare, dopo una divisione «netta, fatta con l’accetta», soltanto chi è «imbecille, ipocrita, capace di dire frasi e parole che sono puro suono» è più vero per la tv del nostro tempo che per quella d’allora, clamorosamente. Del resto, noi oggi siamo indotti a difendere la tv che veniva fatta in quegli anni (lo scritto è del 1966), e che seppur con qualche scivolamento bacchettone, ha prodotto spettacoli e testi rimasti nella storia. 16

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Contro la televisione, in P. P. PASOLINI, Tutte le opere, cit., p. 130.

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Il fatto che la censura, o la sospensione ad interim di programmi tra cui anche Terza B, non cancella il fatto che essi siano stati comunque pensati e prodotti. Tuttavia, Enzo Biagi non colse tutti questi rimandi nelle parole di Pasolini (anche in Contro la televisione c’è qualche cedimento allo slogan, segno che inevitabilmente il nostro autore si era accorto di come la tv stesse contaminando e cambiando il mondo circostante – basti pensare al modo in cui si è trasformata l’impaginazione dei giornali). Biagi difende accanitamente l’atmosfera di distensione e sincerità (persino di «libertà» diceva) nello studio della sua trasmissione. Ma il punto su cui insiste Pasolini non è l’oggetto, ma la cornice ovvero «il medium di massa in sé», come ripete poco dopo, riprendendo il discorso interrotto da alcuni dei suoi ex compagni di liceo: Però io vorrei chiarire una cosa che mi sembra importante, cioè io non parlavo di noi in questo momento alla televisione, parlavo della televisione in sé come medium di massa, come mezzo della circolazione di massa, quindi ammettiamo che invece di esser noi qui, ci sia anche una persona assolutamente umile, un analfabeta, interrogato dall’intervistatore, l’insieme della cosa, vista dal video, acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché viene sempre data come da una cattedra, il parlare dal video è parlare sempre ex cathedra, anche quando questo è mascherato da democraticità ecc. ecc.

Su un punto Biagi ha decisamente ragione: quel mezzo che portava nelle case degli italiani i formaggini denunciati da Pasolini, ora portava le sue parole. Ma 41

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erano sempre parole di autocensura, misurate e centellinate, ed è quasi ironico il fatto che dopo questo tiremmolla del dire e del non dire, il programma sia finito nel «congelatore» per ben quattro anni. Tant’è, persino gli amici di un tempo, presenti in studio, faticarono poi a comprendere la portata, la dimensione della riflessione pasoliniana. Agostino Bignardi, che aveva iniziato anche lui da ragazzo con la scrittura per finire poi eletto nelle liste, del Partito liberale italiano, è quello che ci capisce di meno. Per lui dalle parole di Pasolini si evince una «dichiarazione di fede aristocratica intellettuale», etica, un’appartenenza a un ceto intellettuale «che è in certa misura incomunicabile». Biagi rincara la dose dicendo di avere «l’impressione di una persona che vive una grande solitudine e che può magari sentirsi o vittima o incompreso e che in ogni caso è rassegnato a quelli che sono i fatti». Com’è evidente, tutti si affrettano a giudicare Pasolini, ma nessuno in realtà si muove dalla propria rigida posizione, per sforzarsi di capire. Nessuno, in realtà, si sforza di capire fino in fondo cosa intenda, perché tutti cercano – per esprimersi – la via più facile, non quella più difficile. Dico questo, di passaggio, in riferimento a coloro che, con ondate d’irrisione e di disprezzo, continuano a distanza di anni ad affermare che Pasolini abbia detto (anche) delle idiozie. Potrebbe pure darsi, perché no; eppure chi afferma ciò si guarda bene dal documentare o contestualizzare un tale giudizio. Una delle cose che deve aver fatto soffrire maggiormente Pasolini, nella sua indefessa ricerca di verità parziali, era 42

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probabilmente il sentimento d’incomprensione, di solitudine intellettuale, conseguente alla difficoltà di trovare interlocutori all’altezza del suo impegno e della sua profondità. Il caso di Biagi ci insegna che a Pasolini 17 si rispondeva solo in superficie, non nelle profondità che hanno fatto di lui la persona geniale di cui ci racconta Enzo Siciliano. Come per coloro che leggevano i suoi scritti, anche dagli interlocutori Pasolini pretendeva fatica, impegno, ossia dovere di migliorare. Mi piace ricordare come questo fosse consigliato persino a un suo lettore di «Vie Nuove», operaio, che si riteneva sgrammaticato ma desiderava ardentemente potersi esprimere: Se lei sente dentro di sé oltre che dei sentimenti, anche il bisogno di esprimerli, non cerchi, per farlo, il modo più facile, ma il più difficile: lei ha il dovere, davanti a se stesso e ai suoi compagni, di farsi da solo un’istruzione, di progredire. Sa quanti socialisti e comunisti, che adesso occupano posizioni importanti e di responsabilità nella lotta politica, hanno cominciato così! Questo è il primo passo che un operaio deve compiere nella sua lotta ideologica contro la classe sociale che lo vuole ignorante e intellettualmente impotente. È un primo passo personale, individuale, particolare, lo so: ma tuttavia quello che la spinge a farlo è la fede politica che lei ha, ed è soprattutto per essere utile a questa fede politica – che significa poi il riscatto totale e popolare di una nazione – che lei ha il dovere, lo ripeto, di migliorare 18.

17 Eccezion fatta per altri importanti intellettuali, come Moravia o Calvino, rispetto ai quali ci restano memorabili confronti, a cui guardiamo con nostalgia. 18 «Vie Nuove», n. 51 a. XV, 24 dicembre 1960

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Dal cinema alla televisione. Le grandi divisioni La funzione «livellatrice» della tv, la sua autoritaria imposizione di un conformismo omologante, è una peculiarità contemporanea all’avvio stesso del servizio regolare di diffusione, nel 1954. Per Pasolini, vi è da subito una netta differenza rispetto al mezzo che, fino a quella data, aveva detenuto il primato dell’immagine in movimento, il cinema 19. In un’intervista del 1958 20, quand’era ancora ritenuto un appartenente alla «schiera dei giovani scrittori italiani», Pasolini analizza gli effetti sul pubblico di ciò che egli chiama neocapitalismo televisivo. Quando io scrissi il mio primo romanzo, Ragazzi di vita, la televisione non era ancora entrata in funzione. Dirò di più: molte cose che oggi riempiono la vita dei giovani e dei poveri in generale non c’erano. Non c’erano i flippers, i calcio-balilla, i circoli giallo-rossi o bianco-azzurri che siano, il fumetto o il fotogramma sviluppati e affascinanti come sono oggi, non si era affermato, o almeno non nella misura attuale, quel certo cinema che i produttori destinano al pubblico dei poveri. L’esistenza dei Ragazzi di vita era, quindi, dal punto di vista dei divertimenti, squallida e vuota. Oggi invece, la società non offre al giovane lavoro, ma infiniti modi di dimenticare il presente e di non pensare al futuro.

Tuttavia la televisione è figlia più della radio che del cinema, come dimostrano – nella loro concezione – le prime trasmissioni e rubriche, nonché l’impostazione stessa di medium «in diretta». 20 Pubblicata su «Vie Nuove», n. 51 a. XIII, 20 dicembre 1958, a cura di Arturo Gismondi. Le successive citazioni saranno tratte dall’edizione di Tutte le opere, cit., p. 1555. 19

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La televisione è passata anche sui sottoproletari del Tiburtino III, di Donna Olimpia, dell’Acqua Bullicante, trasformando il modo di pensare e di parlare dei borgatari romani, i quali dopo appena quattro anni di trasmissioni avevano iniziato a esprimersi diversamente, con una ricchezza maggiore ma con l’ironica rassegnazione del distacco da un linguaggio conformistico (già imbruttito da un eccesso di parole straniere e tecnologiche), che si usa ma nel quale è difficile «credere» totalmente, quasi come una forma d’istintiva e debole difesa. Una maggiore resistenza dimostravano, ad esempio, certi “strati della popolazione romana più ricchi e forti”, come a indicare che il livellamento culturale – per così dire – parte sempre dal basso. Se la penetrazione del cinema è più forte, e di differente efficacia, lo si deve proprio allo statuto di «finzione» che il linguaggio cinematografico istituisce davanti allo spettatore 21; a differenza dell’illusione di verità Diversamente da quello televisivo (che è falso, retorico), il naturalismo del cinema è una funzione del suo linguaggio. In Empirismo Eretico, Pasolini lo spiega con un esempio divertente, polemizzando (e un po’ scherzando) rispetto alle idee di Moravia e Bertolucci: «Se attraverso il linguaggio cinematografico io voglio esprimere un facchino, prendo un facchino vero e lo riproduco: corpo e voce. […] Il cinema è «semiologicamente» una tecnica audiovisiva, quindi facchino in carne, ossa e voce. […] Per esprimerlo, sia pure come immagine, è lui stesso che io uso. Ora, poi, mettiamo che quel facchino parli come Hegel. Ebbene è un facchino che parla come Hegel. Perché? Nella realtà – sia pure in un caso strano della realtà – non ci potrebbe essere un facchino che parla come Hegel? Dunque un facchino che dica «Li mortacci tua», o un facchino che dica «Tesi e antitesi», sono poi tutti e due personaggi della realtà, che il cinema riproduce così come sono. In tal senso il cinema è fatalmente naturalistico». Empirismo Eretico, Garzanti, Milano, 1972, p. 248. 21

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(dall’espressione «lo ha detto la radio» si passò in breve tempo, e con maggior credenza, a «lo ha detto la televisione») prodotta dalla tv, che risulta più «fredda», «artificiosa», «distaccata» e «ufficiale». È curiosa, in questa dissertazione sul neocapitalismo televisivo, una riflessione en passant sul meccanismo psicologico per cui, laddove la tv stava livellando il linguaggio dei sottoproletari, il cinema aveva invece agito, con il suo habitus epico prima che linguistico, sull’immaginario della malavita romana, con quella che Pasolini definisce una “sorta di crudeltà moralistica di stampo protestante derivata soprattutto dai film americani”. Sembra l’equivalente drammatico, noir, di quella messa in ridicolo che il Sordi «americano» faceva dell’impatto (e delle molte imitazioni) dei film con Marlon Brando (motociclista e col giubbotto di pelle), sul povero immaginario degli strati culturalmente meno ricchi in quello stesso periodo. Com’è evidente, ci si riferisce qui a quell’Italia irriducibilmente provinciale, a quella grande periferia nazionale che negli anni si è trasformata, travestita, corrotta, ma mai definitivamente evoluta. Perciò una cosa su cui, già in quei primi anni, Pasolini dimostra grande acutezza, fino a vedere molto in là nel futuro, è lo squilibrio, lo sfasamento dell’effetto di arricchimento culturale sui vari strati sociali. Una delle critiche più ricorrenti, sulla demonizzazione (ragionata) che Pasolini fa del mezzo televisivo, è che esso – al di là del suo essere uno strumento di diffusione ideologica, e di consacrazione del potere della classe egemone – sia stato un formidabile mezzo di sviluppo intellettuale degli italiani, oltre che di unificazione linguistica (su questo, torneremo più avanti in dettaglio). 46

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A proposito di ciò, egli dichiara: La tv, a mio parere, mettendo assieme spettacoli di un certo valore artistico e culturale (la prosa) e altri di assai minore livello, mettendo cioè la parte più povera, culturalmente parlando, a contatto con diversi livelli, per così dire, di cultura, non solo non concorre ad elevare il livello culturale degli strati inferiori, ma determina in loro un senso di inferiorità, quasi angoscioso. I poveri, cioè, vengono indotti continuamente ad una scelta, che cade, per forza di cose, a vantaggio di spettacoli improntati a livello inferiore. In questo senso, se mi si consente, la tv s’inserisce nel fenomeno generale del neocapitalismo. In quanto essa tende a elevare un po’ il grado di conoscenza in coloro che sono di livello superiore, ma a precipitare ancora più in basso chi si trova a un livello inferiore.

Fatalmente, anche ciò è più comprensibile oggi che allora. Gli ascolti plebiscitari che certi generi televisivi attuali, più degradanti, mettono a segno, sono proprio il frutto di questa divisione, e il segno che, nonostante la buona volontà di «quei» dirigenti (Bernabei, Granzotto, ecc.), non vi sia stata in verità alcuna vera acculturazione passata traverso la televisione, se non quella di un’elementare alfabetizzazione intellettuale, o creazione di quella «medietà» dell’italiano che, quasi con disprezzo, Pasolini etichettava appunto come «medio». Ancora una volta, il medium che si propone di unire, in verità divide, separa, riproduce divaricazioni sociali, culturali, e in tal modo anche ingiustizie e distinzioni di classe 22. Particolarmente oggi, in vista del passaggio definitivo al digitale sulla cui data non si è ancora certi, questa divisione appare già 22

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Così, mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa sempre più raffinata e per pochi, questi «pochi» divengono, fittiziamente, tanti: diventano «massa». È il trionfo del «digest» e del «rotocalco» e, soprattutto, della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre più irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso 23.

Negli ultimi anni, anche il linguaggio del cinema – almeno in Italia – ha finito con l’essere contaminato da codici provenienti dalla tv. Complice la pratica delle co-produzioni televisive, il cinema ha finito col perdere il suo naturalismo propriamente cinematografico, per assorbire il naturalismo televisivo, e risultare in molti casi falso, artificioso, incapace di convincere. Non è solo un discorso d’inquadrature (di linguaggio), di scelta degli attori, d’imposizione del cast o di esauste variazioni su storie piccoloborghesi: la natura stessa del sentimento cinematografico, che ne è il motore prima al botteghino e poi nell’immaginario comune, si è convertita nel suo equivalente televisivo, cioè il più retorico sentimentalismo. Mentre gli americani continuano – nonostante la crisi – a girare ancora qualche grande sogno di celluloide, i nostri film si sono ridotti a un neorealismo pedissequo del mondo rappresentato in tv, e sono sempre fortissima. Tra il consumo delle classi più agiate e quello delle classi inferiori c’è già un abisso: le prime accedono a contenuti complessi, culturalmente importanti e pagano questo servizio. Per le altre classi, ancora la maggioranza, rimane l’accesso a una televisione generalista culturalmente degradante, standardizzata verso il basso e divorata dalla pubblicità. 23 «Vie Nuove», n. 38 a. XVII, 20 settembre 1962.

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più sentimentalistici, sempre più falsi, e perciò sempre più brutti. Il sogno di una élite Alla consuetudine – che Pasolini denunciava – d’integrarsi nel sistema neocapitalistico, di soggiacere alle nuove leggi che ogni intellettuale (che volesse continuare a vivere e produrre nell’industria culturale) avrebbe dovuto accettare, egli opponeva due tendenze: rivolgersi ad una nuova élite, da creare ed educare, e produrre opere (merci) inconsumabili. Il passaggio dalla letteratura al cinema era già avvenuto, come spesso egli diceva in televisione, per protestare contro la nuova lingua della società e quindi contro la società tout court. Era dunque solo ad una parte di questa società che Pasolini si rivolgeva con le sue opere: non più l’élite storica, quella benestante e culturalmente avanzata, ma una nuova élite, proveniente dal popolo: La questione resta in questi termini: i primi miei film, da Accattone a Il Vangelo secondo Matteo alla Ricotta ed Edipo Re, li ho fatti sotto il segno di Gramsci. E infatti con i miei primi film mi sono illuso di fare opere nazionalpopolari nel senso gramsciano della parola, e quindi da ciò consegue che pensavo di rivolgermi al popolo, al popolo come classe sociale ben differenziata dalla borghesia, almeno in modo ideale naturalmente, così come l’aveva conosciuto Gramsci e come io stesso l’avevo conosciuto da giovane, almeno compresi tutti gli anni Cinquanta. È successa poi quella che si chiama la crisi (in un certo senso positiva) della società italiana. Cioè il passaggio dell’Italia da un’epoca a carattere ancora in gran parte agrario, artigianale, o comunque paleocapitalistico a

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una nuova epoca, quella del benessere, del neocapitalismo; e quindi con la trasformazione radicale, per quanto fulminea, della società italiana. Il trasformarsi cioè di questo popolo idealizzato da Gramsci e da me giovane in qualcos’altro, in quella che i sociologi chiamano «massa». E a questo punto io mi sono in un certo senso rifiutato, non programmaticamente, non aprioristicamente, ma in seguito alle prime esperienze, di fare dei prodotti che fossero consumabili da questa massa. E quindi ho fatto dei film d’élite, che apparentemente antidemocratici, aristocratici, in realtà – essendo film prodotti in polemica contro la cultura di massa che è tirannica, che è antidemocratica per eccellenza – sono stati invece, secondo me, un atto, per quanto forse inutile in quanto idealistico, di democrazia 24.

Sembra qui riapparire il rischio del fraintendimento di Bignardi, l’incomunicabilità di un intellettuale che formula una dichiarazione di superiore «aristocrazia». Anche un giornalista in studio, naturalmente, ha difficoltà a capire di cosa si parla, in che termini e in quali «territori» si articoli il discorso di Pasolini, tant’è che egli dovrà precisare più a fondo – pazientemente – il senso che attribuisce alla parola «élite»: Un’operazione apparentemente aristocratica in realtà è un atto di democrazia, perché io proprio a questa élite mi voglio rivolgere, mica alla élite classica, sarei un pazzo se dicessi una cosa di questo genere. Quindi si tratta di un equivoco; siccome la parola «élite» è ormai usata da decenni in un certo

24 Cinema 70, RAI Secondo Canale, 1970. La citazione è lunga perché Pasolini elabora il ragionamento di getto, senza prender fiato; così mi pare giusto nei suoi confronti lasciare che il discorso sia riprodotto nella sua interezza.

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senso, e non ce n’è un’altra per sostituirla, l’equivoco verbale nasce proprio dalla parola; io non intendo, quando dico «faccio un film per l’élite», parlare dell’élite classica, dei privilegiati, detentori del potere e quindi della cultura, niente affatto, parlo di un’élite che cerco là dove la trovo, e posso benissimo trovarla, appunto, nelle minoranze operaie avanzate. Quando parlo di élite intendo un nuovo tipo di élite evidentemente, l’élite rappresentata da un nuovo tipo di decentramento, a qualsiasi livello.

Questo discorso, rivolto al pubblico che Pasolini desiderava «selezionare» dalla massa, è anche valido per il suo stesso apparire in televisione: oltre il video c’è quella «massa» di cui fanno parte le minoranze operaie avanzate, la cui attenzione spera di suscitare. Le sue parole suonano come un invito, o un appello diretto «alla massa», cosa che il cinema e i giornali, ad esempio, non gli consentivano. Ricordano altre parole, parole rivolte all’amico sgrammaticato, corrispondente di «Vie Nuove», cui aveva consigliato di farsi una cultura e desiderare di migliorare «per dovere». Dal canto suo, Pasolini si tutelava dal rischio, sempre in agguato, di divenire egli stesso oggetto di consumo. Per preservarsi da tale rischio, cercava di mantenere sempre un velo mistico intorno a sé e alle sue opere. Le quali, peraltro, venivano concepite proprio nel segno dell’impossibilità ad esser «consumate»: La società cerca di assimilare, di integrare, certo; è l’operazione che deve fare per difendersi, però non sempre riesce, alle volte ci sono delle operazioni di rigetto. Tanto più che adesso non possiamo parlare di poesia come di merce; cioè io produco, ma produco una merce che in realtà è inconsumabile, quindi c’è un rapporto strano fra me e i consumato-

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ri… Immagina che a un certo punto in Lombardia qualcuno inventi un paio di scarpe che non si consumeranno mai più, e un’industria milanese costruisca queste scarpe; pensa alla rivoluzione che succederebbe nella Valle Padana, almeno nel settore dei calzaturifici. Cioè io produco una merce, che dovrebbe essere la poesia, che è inconsumabile; morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo, ma la poesia resterà inconsumata. […]

Questa idea, molto poetica, della poesia che non si consuma, oggi non funziona. Perché il libro è passato in secondo piano rispetto all’autore. Non è più il suo romanzo ad essere consumato, o la raccolta di poesie, ma l’autore stesso. Il timore di Pasolini era più che giustificato, al punto da divenire oggi il paradigma letterario corrente. È l’autore il marchio stesso della sua produzione culturale, il che lo solleva da quasi tutti i compiti e i doveri di un autore in senso classico. Non ha bisogno di slogan per lanciare una sua opera, egli stesso è lo slogan, il messaggio, la merce da consumare: il suo volto, le sue parole sullo schermo, il suo appartenere ad altre categorie o professioni (ormai scrivono tutti, dai calciatori ai preti, alle suore, agli assassini, agli ex terroristi, agli adolescenti in preda alle tempeste e alle ribellioni della pubertà) hanno preso il sopravvento. Dirò di più: ciò che rappresenta il contenuto di un’opera, in fin dei conti, non importa più. Il successo può dipendere esclusivamente dal fatto di aver prodotto un oggetto di consumo il cui titolo sia evocativo, e alle spalle del quale si sia mossa un’importante casa editrice, con una imponente e costosa operazione di mar52

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keting. Infatti non esistono più libri belli o brutti, ma libri famosi e non famosi, autori celebri o sconosciuti. Questo è così vero, che il libro è divenuto un oggetto di consumo quotidiano a tal punto da portare alla chiusura di centinaia di storiche librerie, prive di pubblico, dal momento che i libri vengono distribuiti nelle edicole assieme ai giornali 25, come un caffé da consumare al mattino, come qualcosa che va acquistata per un consumo immediato, giornaliero. E siccome un libro non si può leggere in una mattinata, gli italiani comprano milioni di libri per arredare il salotto, senza leggerne uno. Pasolini ha vinto: nessuno ha potuto consumare lui, né la sua opera. Quanto in ciò la sua prematura scomparsa abbia giocato un ruolo determinante, è un giudizio che lascio al lettore. Le manipolazioni Per milioni di italiani la televisione è l’unico «portale» su una realtà «altra» rispetto a quella di cui essi hanno esperienza quotidiana. Per motivi di ordine economico, anagrafico, in alcuni casi anche clinico (la televisione è il solo collegamento con l’esterno di ospeAnche per i giornalisti è valida questa considerazione: gli articoli da loro pubblicati contano meno di ciò che dicono in televisione; l’autorevolezza della loro penna è proporzionale al grado di notorietà e alle ore di apparizione in tv; in molti hanno totalmente confuso non solo informazione e spettacolo, ma giornalismo e intrattenimento; le loro inchieste sulle riviste e sui giornali hanno successo soltanto se sono narrabili attraverso le immagini, cioè solo se sono rappresentabili in tv. 25

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dali, strutture sanitarie e parasanitarie), o più semplicemente perché ormai il lavoro richiede troppo tempo e troppe risorse, molte persone hanno difficoltà a conoscere il mondo intorno a sé, fuori della propria ristretta gamma di azioni e luoghi quotidiani, prescindendo dalle immagini che tutte le sere la televisione porta nelle loro case. Quindi hanno una percezione deviata di questa realtà altra, deviata proprio dal mezzo che gliela porge. Da un lato, la rappresentazione televisiva della vita pubblica, delle vicende politiche e della elaborazione delle idee, deve – e sente rigidamente tale dovere – operare secondo una selettività di scelta e una serie di norme linguistiche che assicuri innanzi tutto che «tutto va bene», ed è fatto per il bene. Il bene non deve avere difficoltà: ed ecco che infatti il mondo presentato dalla televisione è senza difficoltà; se difficoltà ci sono state, sono state sempre provvidenzialmente «appianate»; se disgraziatamente l’appianamento non è ancora avvenuto (ma avverrà), provvede a dare questo perduto senso di pianezza la lingua informativa orale-scritta dello speaker. L’ideale piccolo-borghese di vita tranquilla e perbene (le famiglie giuste non devono avere disgrazie, ciò è disonorevole davanti agli altri) si proietta come una specie di Furia implacabile in tutti i programmi televisivi e in ogni piega di essi 26.

Dall’altro lato, però – e ciò avviene specialmente negli ultimi anni – questo ideale di tranquillità piccolo-borghese si è ineluttabilmente incrinato a causa di terribili vicende di cronaca (il terrorismo, i cataclismi 26

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Contro la televisione, cit., p. 137.

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naturali, gli omicidi efferati che conquistano lunghe dirette tv). Ma ciò non significa che il grado di realtà che passa attraverso la televisione si sia accresciuto. L’informazione televisiva, particolarmente nel periodo corrispondente all’ultimo governo di centro-destra, ha segnato un primato nel campo della manipolazione. Non si parla esclusivamente di una censura, ma di una vera e propria «adulterazione» informativa dei fatti 27, adoperata – ad esempio – con l’uso improprio, irritante, delle immagini di repertorio. Esse vengono spesso usate in assenza di nuove immagini, come riempitivo, cosa che non avviene in nessun altro paese europeo (altrove si indica in sovrimpressione «immagini d’archivio»; a farci caso, buona parte di ogni telegiornale è costituita da questo tipo di immagini, sulle quali si può «costruire» praticamente qualsiasi realtà). La costruzione di questa realtà falsata crea un dispositivo ammortizzatore delle tensioni sociali: l’informazione televisiva mantiene costante queste tensioni, ma le confina in ambiti «a noi lontanissimi». Cioè la tv si guarda bene dall’affermare, ad esempio, «tra dieci anni non avremo più soldi per pagarvi le pensioni», però bombarda con informazioni del tipo «tra dieci anni il surriscaldamento globale giungerà a un livello tale che i ghiacci del polo si scioglieranno, 27 Cfr. il saggio di Fabrizio Tonello, Dall’Italia delle mondine a quella delle veline, in AA. VV., Televisione ieri e oggi, a cura di Franco Monteleone, Marsilio, Venezia, 2006. Cfr. anche G. C. BOSETTI, Spin. Trucchi e tele-imbrogli della politica, Marsilio, Venezia 2007.

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e questo sarà un guaio» 28. Insomma, dà corpo a una serie di «terrori» 29, ritrae un pericolo che non è mai immediato e non coinvolge mai il pubblico: riguarda sempre, pur terribilmente, qualcun altro, che è molto lontano 30. La tensione si accompagna sempre ad una certa quota di pietismo, di sentimentalistica (dunque retorica) compassione: rispetto al passato, l’informazione ha perduto così la funzione analitica per esaltare esclusivaNel caso dell’informazione meteorologica, il problema non è il meteo in sé, ma il complesso di rubriche di costume e spettacolo forzatamente ricondotte agli aggiornamenti evasivi sul clima. 29 Si può parlare di vero e proprio terrorismo a proposito delle malattie: vi è una scandalosa campagna terroristica attuata tramite pubblicità di farmaci, rubriche di medicina, maratone televisive. Il concetto è che tutti siamo minacciati, la morte sembra incombere, ma la scienza – che tuttavia non riesce a fornire certezze verificabili al 100 % neppure sulle cause delle più banali malattie – induce non solo a prevenire, ma a curare, intervenire, operare, «tagliare», sempre e comunque. Persino nello spot pubblicitario dell’anticalcare della lavastoviglie si parla di attacco agli «organi vitali». Le conseguenze di questo terrorismo sono facili da immaginare. Mossi dal terrore del «male» che incombe, milioni di consumatori saccheggiano le farmacie e fanno un uso smodato, irrazionale oltre che pericoloso, delle medicine. Alla televisione, questa «medicina», fa bene: le industrie farmaceutiche investono milioni nella pubblicità. Così ogni altra ricerca o scoperta in campo medico viene censurata, anche se comprovabile con percentuali superiori a quelle protocollari, a meno che – com’è facilmente verificabile – non implichi un profitto multimilionario. 30 Ne abbiamo avuto un esempio nella lettura, pesantemente eurocentrica, dello tsunami che colpì il 26 dicembre 2004 le isole che si affacciavano sull’Oceano Indiano. Nell’informazione di quel periodo, la notizia veramente importante non era «quel che è accaduto», le dimensioni della tragedia, ma quanti inglesi, francesi, tedeschi, italiani ecc. vi erano coinvolti. 28

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mente la capacità di emozionare. Per cui l’atteggiamento irrazionale, la risposta sentimentale, sono le reazioni più ricercate nel pubblico, rispetto ad un consumo critico. Inoltre, noi italiani non abbiamo, nella nostra cultura, quella visione biblico-allegorica tipica del mondo statunitense, e che si è manifestata nell’interpretazione che gli americani hanno dato dell’11 settembre (è caratteristico, nella loro visione storica, sovrapporre il destino del loro popolo a quello della Bibbia). Dunque, la nostra reazione a certi fenomeni preoccupanti è stata segnata da una radicale svolta verso l’avanspettacolo. Piuttosto che aumentare la riflessione critica sul complesso periodo che l’umanità sta attraversando (guerre che perdurano da decenni, civiltà sull’orlo dello scontro, polveriere sul punto di esplodere), ci siamo dati al varietà, agli spettacoli comici, alla spensieratezza un po’ becera di un totale intrattenimento, stile «sabato sera». Ogni tanto qualche programma assolve al dovere di riportarci alla crudezza del «mondo reale»: lo fa «servendo» di volta in volta il «delitto del giorno» con programmi di approfondimento giornalistico sulle indagini dei vari omicidi, che divengono grandi saghe tra il noir e l’horror. Queste trasmissioni, in realtà, non approfondiscono nulla (compito degli inquirenti e della magistratura). Si crea allora una perversa messa in scena, aberrante, sul giallo che fa solo spettacolo di tanti omicidi. La cronaca, purtroppo, ne produce a un ritmo tale da approvvigionare tempestivamente qualsiasi contenitore di «approfondimento». 57

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Per fare un esempio concreto: l’ultima «grande inchiesta» che ha focalizzato l’attenzione di giornali, telegiornali e programmi giornalistici, in ordine di tempo e durante la stesura di questo libro, è stata quella sulla sanità italiana. Un giornalista del settimanale «L’Espresso» 31 ha raccontato di essersi fatto assumere dal Policlinico di Roma, per documentare lo stato di abbandono, di sporcizia, di deturpamento malsano presente in alcuni ambienti della struttura. Si tratta di un’inchiesta che non è affatto aggiuntiva di sapere, in nulla: nessun telespettatore, neppure quello più ingenuo, ha mai potuto supporre – conoscendo il proprio paese – che i sotterranei di un policlinico somigliassero ad una clinica svizzera. È come scoperchiare i tombini per le strade: si sa che ci sono, se ne conosce la storia e se ne può dunque intuire il futuro, e si sa anche «cosa c’è sotto». Il problema posto è in realtà un non-problema: ci si tiene sempre alla superficie delle cose, si gira intorno alle questioni. Pasolini invece partiva dal centro, sa che nessuna soluzione verrà adottata, se non di facciata, che col tempo è destinata a rivelarsi miseramente parziale. Da un lato non ci sono soldi ma solo debiti; dall’altro è impossibile che gli italiani abbiano cura e affetto per le cose pubbliche – una totale assenza di senso civico, contro la quale la tv nulla ha potuto, anzi forse ha avuto perfino un effetto negativo. Più interessante, e utile, sarebbe stata un’inchiesta sul vero orrore che riguarda la sanità in Italia: il giro di collusioni tra politica, mafia e ospedali, la quantità impressionante – tale da dover destare sospetto 31

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«L’Espresso», n. 1 a. LIII, 11 gennaio 2007

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– di cariche pubbliche ricoperte da medici, direttori sanitari, e primari soprattutto al Sud. Ma siccome in queste indagini si può rischiare la vita, è più facile e spettacolare ispezionare le cantine e i sotterranei degli ospedali, dove si trovano scheletri che, sì, creano indignazione, ma sono assai meno pericolosi per chi, con una fastidiosa e ostentata ingenuità, finge di scoprirli. Tornando a Pasolini, è quindi il caso di affermare con chiarezza quanto il suo allarme di allora fosse giustificato: perché la tv che abbiamo ereditato oggi è il frutto di quelle aberrazioni che già allora egli denunciava. Anche se ritengo che il quadro attuale sia di gran lunga peggiore rispetto a qualsiasi pessimistica previsione che Pasolini poteva immaginare allora. Si è già detto e scritto molto (forse troppo) del rapporto tra politica e televisione. E se oggi la politica è un vero e proprio genere televisivo, che potremmo chiamare reality politic, già nel 1966 Pasolini aveva intuito quanto stava avvenendo, ovvero la definitiva riduzione degli intellettuali e dei politici al «formato televisivo»: Io, da telespettatore, […] ho visto sfilare, in quel video, un’infinità di personaggi: la corte dei miracoli d’Italia – e si tratta di uomini politici di primo piano, di persone di importanza assolutamente primaria nell’industria e nella cultura; spesso persone di prim’ordine anche oggettivamente. Ebbene, la televisione faceva e fa, di tutti loro, dei buffoni: riassume i loro discorsi facendoli passare per idioti – col loro, sempre tacito beneplacito? – oppure, anziché esprimere le loro idee, legge i loro interminabili telegrammi: non riassunti, evidentemente, ma ugualmente idioti, idioti come ogni espressione ufficiale. Il video è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell’Opinione Pubblica – servilmente servita per ottenerne il totale servilismo – l’in-

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tera classe dirigente italiana: la ciocca bianca di Moro, la gamba corta di Fanfani, il naso alto di Rumor, le ghiandole sebacee di Colombo, sono uno spettacolo rappresentativo, tendente a spogliare l’umanità di ogni umanità 32.

Rispetto a quegli anni, le cose sono molto cambiate. Ma lo sono più in politica o in televisione? Probabilmente in entrambi i casi, perché se allora queste erano le due facce della stessa medaglia «pubblica», oggi esse ne sono la medesima faccia. Non possono esistere politici che non siano uomini di spettacolo, non può esistere un’attività politica che ignori la televisione. Letteralmente non esisterebbe. I politici vivono in televisione e, per quello di loro che arriva ai telespettatori, non hanno altra umanità se non quella televisiva. È la conseguenza del regime dei consumi applicato alla democrazia: la politica è destinata al consumo, come qualunque altra merce. Un deserto senza «lucciole» È ora il caso di domandarsi: su quale terreno la televisione si è potuta così fortemente sviluppare, al punto da unificare e livellare totalmente il popolo di un’intera nazione, più di quanto sia avvenuto nelle altre nazioni europee 33? Contro la televisione, cit., p. 133. Va qui osservato che i nomi dei notabili democristiani del passato (al tempo tanti Capi di governo) potrebbero oggi essere brillantemente sostituiti da altri notabili, indistintamente di maggioranza o di opposizione. 33 In Francia, ad esempio, già sul finire degli anni Sessanta vennero creati 13 centri regionali di produzione televisiva, allo scopo di 32

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Pasolini teneva spesso a precisare che questa sua visione negativa era limitata alla nazione italiana. Da noi il consumismo ha devastato ogni realtà precedente perché, a differenza degli altri popoli, l’esperienza dell’identità italiana era ancora giovane e debole. Per molti secoli l’identità degli italiani, cioè dei popoli dell’intera penisola, era stata la storia di gruppi separati e, seppur accomunati da una morale cattolica, pesantemente frammentata dai vari dominî. Dopo il fascismo e durante gli anni Cinquanta e Sessanta questa identificazione cattolica si era addirittura rafforzata, ma neppure la Chiesa era riuscita a contenere l’improvviso impatto della società dei consumi. E proprio la televisione, che la Chiesa credeva trionfalmente di dominare con la propria morale, fu responsabile del più vasto movimento di laicizzazione e dissacrazione della società italiana 34. Pasolini l’aveva detto, che in tv nulla di rispondere alle nuove componenti sociali e mantenere le realtà locali, successivamente moltiplicatisi fino a quasi 100 centri produttivi. Il concetto di proximité è così servito da un sistema di programmazione alternata (locale, nazionale) che lavora per aree concentriche. Anche l’apertura del mercato alle tv private ha avuto una storia del tutto diversa dalla nostra: il fortissimo Servizio Pubblico Francese (ORTF) è stato suddiviso, nel 1972, in ben 7 società, delle quali la principale (TF1) privatizzata; essa, insieme alla neonata Canal+, fornì le basi per il pluralismo editoriale e informativo che al nostro Paese è purtroppo ignoto. In Inghilterra, addirittura nel 1954 un Royal Act stabilì la creazione di 13 televisioni indipendenti. 34 «La Chiesa ha insomma fatto un patto col diavolo, cioè con lo Stato borghese. Non c’è contraddizione più scandalosa infatti che quella tra religione e borghesia, essendo quest’ultima il contrario della religione. Il potere monarchico o feudale lo era in fondo di meno. Il fascismo, perciò, in quanto momento repressivo del capitalismo, era meno diabolico, oggettivamente, dal punto di vista della Chiesa, che

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«sacro» può esistere, perché sarebbe scandalizzante e disorientante. Bernardo Bertolucci, nella testimonianza per un documentario sul regista, spiega molto bene cosa Pasolini volesse intendere con quella teoria che prende il nome dal famoso scritto sulle «lucciole» apparso sul «Corriere della Sera» in un articolo del 1973, nel quale l’autore paragonava la scomparsa delle lucciole estive dai giardini, dai parchi e della campagne, ad una omologa scomparsa della bonarietà e della semplicità dall’Italia precapitalistica: Pier Paolo parlava di una specie di corruzione messa in moto dalla società dei consumi per cui culturalmente quello che conviene alla società dei consumi è di distruggere, cancellare qualsiasi cultura popolare locale in modo da poter vendere di più. Se si crea un deserto culturale, è molto più facile vendere. Nel deserto tutto è un miraggio 35…

Questo deserto culturale, come una «notte in cui tutte le vacche sono nere», era dunque una tabula rasa il regime democratico: il fascismo era una bestemmia, ma non minava all’interno la Chiesa, perché esso era una falsa nuova ideologia. Il Concordato non è stato un sacrilegio negli anni Trenta, ma lo è oggi, se il fascismo non ha nemmeno scalfito la Chiesa, mentre oggi il Neocapitalismo la distrugge. L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino». Scritti Corsari, cit., p. 14. 35 Dal Documentario Pier Paolo Pasolini una disperata vitalità, a cura di Simona Gusberti, regia di Paolo Brunatto, testi di Antonio Debenedetti.

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che democraticamente – cioè indotta con la seduzione anziché con la repressione – il regime dei consumi, cioè il dominio economico, politico, industriale, aveva creato, per poterla poi colonizzare prima a livello simbolico (la nuova Italia di Carosello, delle pubblicità in tv, della merce che iniziava a scorrere immateriale e liquida sullo schermo), poi consumisticamente (il boom economico, i prodotti di massa, i primi elettrodomestici del nuovo benessere, i beni secondari, al centro di una vera seconda rivoluzione industriale). La televisione, per la prima volta nella storia di un popolo, forniva a tutti gli spettatori un «mondo comune», lo stesso mondo moltiplicato per milioni di schermi, creando così, per le nuove generazioni, una sorta di «passato unico collettivo», nel quale tutti si ritrovano, al quale tutti vengono educati, e dal quale nascono gusti, opinioni, percezioni comuni, collettivi. L’esperienza individuale, che aveva costituito l’unica realtà tangibile per secoli, veniva così accostata – e man mano letteralmente «erosa» – da questa esperienza (o vissuto) collettiva. Ma l’unione è stata solo psicologica, comportamentale: la televisione ha distrutto l’antica tendenza aggregativa, tipica della vita nei paesi e nelle periferie, generando all’inverso un individualismo che è il tratto predominante delle società neocapitaliste. Pasolini non si scagliava dunque contro l’opera di unificazione linguistica, culturale, che la televisione, come l’industria, aveva prodotto; ma contro il fatto che tale unificazione avesse distrutto le «realtà particolari», ricchissime e secolari, del paese, operando non tanto un’integrazione, quanto una rimozione di massa. 63

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Non criticava, ad esempio, la diffusione dell’italiano tecnocratico tout court, ma la mancanza di un contestuale movimento di salvaguardia dei dialetti, delle eredità regionali. Terreno sul quale istintivamente (erano ancora gli anni Quaranta 36) egli si era mosso all’inizio della carriera letteraria, con lo studio, la comparazione e infine la produzione di poesie in dialetto, nel suo caso il friulano 37. Passeggiando sulla spiaggia di Sabaudia, in un filmato nel quale «il vento che gli batte addosso, scompigliandogli i capelli disordinatamente, lo avvolge di un’aria vagamente spettrale e funebre» 38, Pasolini conclude le sue riflessioni sullo scempio edilizio tristemente tipico del malcostume italiano (dopo averne mostrato in concreto i risultati), e da questo sentimento di sdegno giunge rapidamente a una drammatica conclusione sul mutamento antropologico che la storia italiana ha prodotto sugli individui: Ricorda in proposito Pasolini: «A sette anni e mezzo d’età, adottando la più eletta delle lingue italiane, ho scritto i miei primi versi; facevo la seconda elementare e nei miei versi si parlava di rosignolo e di verzura anziché di usignolo e di erba, dopo di che ho scritto sempre poesie fino a verso i 27-28 anni, poco prima di venire a Roma». Un poeta d’opposizione, Secondo Canale, 1967. 37 Il volume di poesie friulane La meglio gioventù, Sansoni, Firenze, 1954, raccoglie anche il libro d’esordio, Poesie a Casarsa, Palmaverde, Bologna, 1942; con alcuni profondi rifacimenti, Pasolini ripubblicherà le poesie in dialetto in La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975. Cfr. anche P. P. PASOLINI, La poesia popolare italiana, Garzanti, Milano, 1960. 38 Roberto Chiesi, La realtà violata. Annotazioni su Pasolini e… la forma della città (1973-’74) su «Libero, la rivista del documentario», n. 4 a. 1 luglio 2006. 36

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Il regime [di oggi] è un regime democratico ecc. ecc., però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi – cioè il potere della civiltà dei consumi – invece riesce a ottenere perfettamente; distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha, che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distruggendo in realtà l’Italia, e posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia, e questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che forse non ce ne siamo resi conto: è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni. È stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi, sparire, e adesso, risvegliandoci da questo incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che forse non c’è più niente da fare 39.

Il fascismo dunque aveva imposto dall’alto un modello, «monumentale e reazionario», che però era rimasto «lettera morta», in quanto la realtà antecedente, come il popolo l’aveva storicamente vissuta (contadini, sottoproletari, operai), tendeva a riprodursi in base agli stessi modelli arcaici, profondamente radicati, che sottacevano alle stesse culture particolari 40. Pasolini e… la forma della città, cit., 1974. Vi era un solo tratto di omologazione, ed era quello costituito dal potere della Chiesa: «L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo; questa ideologia era formalmente l’unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo». Scritti Corsari, cit., p. 23. 39 40

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Ora, come un anno prima egli aveva anticipato nell’articolo Sfida ai dirigenti della televisione 41, la situazione era radicalmente mutata: La rivoluzione del sistema delle informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

Le «modeste proposte» di Pasolini In attesa di una radicale riforma [dell’istruzione], sarebbe meglio abolire (lo so che è utopistico, ma ne sono fermamente convinto) sia la scuola dell’obbligo che la televisione: perché ogni giorno che passa è fatale sia per gli scolari che per i telespettatori… «Corriere della Sera», 29 ottobre 1975

Inizio questo paragrafo, centrale nell’analisi del «corpo a corpo» tra Pasolini e la televisione, ovvero tra l’intellettuale e la demoralizzante situazione dello staRiprodotto con il titolo 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione in Scritti Corsari, cit., p. 22. Il brano riportato nel testo è citato da questo articolo. 41

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tus quo, con un brano tratto dall’articolo che egli pubblicò nel suo quartultimo giorno di vita. Non poteva saperlo (forse poteva solo immaginarlo, già da tempo), ma quella «massa», culturalmente sempre più infima, ignorante del tradizionale conflitto tra il bene e il male, che alla fine di ogni bene, e dunque di ogni «pietà», aveva scelto colpevolmente l’«impietrimento», stava per spegnere la sua voce appassionata, la sua agguerrita battaglia. Diversamente da altri intellettuali, apocalittici in astratto ma inconcludenti in concreto (per esempio, Moravia con la sua visione «letteraria» e lontana, non a caso in polemica in quei giorni con queste due proposte), Pasolini fornisce sempre delle ipotesi di fuga, dei suggerimenti per apportare miglioramenti parziali, come parziali sono quelle verità per cui lottava giorno per giorno. Alcune di queste proposte, dichiaratamente swiftiane, suonano paradossali, iperboliche, ma alla fine molto serie nella sostanza. Altre sono molto concrete, e a rileggerle oggi, suonano a dir poco profetiche: Il metodo più efficace sarebbe quello di abolire la televisione di stato, e di dare la possibilità di operare a televisioni private: così la concorrenza tenderebbe a rialzare il livello (almeno in linea teorica) dei programmi. Siccome poi in realtà il livello si abbasserebbe perché la lotta di concorrenza avverrebbe a colpi di musichiere, il discredito sarebbe tale che la televisione scomparirebbe o si ridurrebbe, come in America, a un aggeggio domestico, com’è ora la radio 42.

Strumento di governo, raccolto in Tutte le opere, I Meridiani, Mondadori, Milano, cit., p. 736. 42

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Anche qui bisogna fare una riflessione rispetto agli Stati Uniti. Sebbene essi, in quanto nazione, abbiano una storia molto più recente di quella europea 43, il culto per la tradizione è fondamentale e radicato, quasi centrale, nell’industria culturale (canzoni, celebrazioni, spettacoli, film), il che salva molti prodotti dal degrado che investe invece – qui da noi – certa tv commerciale, matrice di molti programmi di vasto consumo e di scarsa qualità intellettuale. Pasolini aveva persino previsto che la concorrenza privata, candidata a essere l’unica possibile soluzione alla corruzione di massa operata dalla tv di Stato, sarebbe ben presto naufragata a causa della italica tendenza a «buttarla in canzone», per così dire, cioè a cercare sempre la spensieratezza invece della riflessione. Se la «modesta proposta» di Jonathan Swift era di sfamare i ricchi con i bambini irlandesi, quella di Pasolini è in apparenza radicale: abolire la televisione e la scuola. Egli però precisa, abolire nel senso di «sospendere», in attesa di una «radicale riforma», più precisamente di un altro sviluppo («ed è questo il nodo della questione») che – assai utopisticamente – ci si aspettava dalle sinistre: le quali invece, colte in contropiede storico, finiranno in pezzi come l’ideologia comunista, spappolate come gli stati dell’ex Unione Sovietica. È importante il contesto in cui queste due proposte vengono formulate: Pasolini s’interroga su come «eli43 Questo aspetto si vede bene nei serials televisivi prodotti negli USA: in essi è la psicologia dei personaggi, il loro groviglio interiore presente, spesso psicanalitico, al centro delle trame, non il loro passato, come nelle produzioni europee.

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minare la criminalità in Italia» 44. Come altre volte, la riflessione parte dall’osservazione diretta di quanto accadeva nell’universo popolare romano, dove aveva il proprio osservatorio. In esso Pasolini aveva notato un abbrutimento causato dal livellamento culturale, per cui la perdita dei valori morali, delle culture particolaristiche, degli schemi di comportamento, ovvero dei modelli autonomi, aveva reso quell’universo «odioso». A parte il trasporto emotivo, l’amarezza dell’avvertimento di tali profondi mutamenti nell’anima bella di un poeta, non va smarrita l’acutezza di questo pensiero: all’origine di atteggiamenti non da criminali, ma da «criminaloidi», c’era in effetti questo vuoto creato dalla nuova civiltà fatua ed edonistica, spensierata ma disperata, frutto di una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo «reale», trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali, e la loro ferocia prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene. Ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà. Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Ciò che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà.

«Corriere della Sera», 18 ottobre 1975. Le successive citazioni saranno tratte da questo articolo. 44

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Sotto questo meccanismo di produzione di vuoto, e criminale, non elaborato come scelta consapevole ma scaturito come potenzialità implicita, dalla noia delle nuove generazioni, si cela uno spirito distorcente che è nato con alcune illusioni, dall’epoca del boom ai furori del ’68, e cresciuto fino a oggi con una sequela di delitti impressionanti. Epoca di conflitti polverizzati, privi di un’alta direzione ideologica, che hanno portato con sè una falsa “dialettica” delle vita pubbica, dunque un movimento evolutivo che solo apparentemente ha marcato il superamento storico della realtà precedente. Furono delitti come quello dei neofastisti del Circeo (che non a caso mossero Pasolini a tale riflessione) a dominare la scena moderna, la scena di una realtà ibridata con lo spettacolo televisivo. È il delitto giallo, assurdo, macchinoso, privo di movente, commesso per rancore, per tedio, per stupidità, a dominare la cronaca, a finire in televisione. Il delitto come genere, immerso in un flusso televisivo, che lavora per «equivalenza». Non più il giallo alla Poe, alla Hitchcock, perfettamente incorniciato e isolato, testuale; ma un flusso di morte, in cui si confondono verità e finzione. Sono perciò divenuti infelicemente celebri, per la cronaca nera, i delitti di Novi Ligure, di Cogne, del piccolo Onofri, quello recente di Erba, grandi tragedie dell’impietrimento: non delitti efferati e crudeli come quelli che implicavano, nel mondo arcaico, la scelta del male, ma il segno di una follia spietata che si esprime principalmente nella furia verso i bambini, verso i neonati. La responsabilità della televisione non è tanto, allora, 70

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quella d’influenzare, di indurre all’imitazione. È soprattutto la responsabilità di creare il vuoto, la noia, la depressione, che in certi individui instabili possono risultare pericolosi. Per eccesso, questo aspetto ci riporta da un mondo estremamente moderno a un mondo brutalmente preistorico, anteriore ad ogni civiltà e umanità. Un mondo in cui l’assenza di stimoli può far nascere l’interesse per esoterismi, spiritismi, sette sataniche, fino a giungere, ai delitti assurdi, ai sacrifici umani, nel pieno della «civiltà» del XXI secolo. Anche la strage nasce in formato televisivo: nella realtà come nel video, scorre nel flusso, senza alcuna ombra di distinzione, di differenziazione. Tanta televisione, che riempie tante vite, e finisce con il divorarle, con il rappresentarne l’unico gradiente di reale. Sono grandi «solitudini», casi-limite, che purtroppo fanno parte della realtà. Non a caso Pasolini chiama in causa anche la scuola media dell’obbligo. Perché in essa egli vede una scuola di «iniziazione» a quel «male assoluto», la vita piccolo-borghese, cui sono funzionali le cose che vi si insegnano, «inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori». Una sfumatura di questo ragionamento ci ricollega alla critica sul ’68: «si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento, ecc.: tutto un imbroglio». È smascherando le illusioni sessantottine, «la fantasia al potere», che emerge clamorosamente la reale opera della scuola, un’opera repressiva, ordinatrice, che impone un conformismo di cui non si ha percezione, e induce a rite71

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nere anticonformistiche molte espressioni di ribellione e disordine, consentite agli studenti solo perché inserite perfettamente all’interno del quadro generale. Ma la cosa più importante è che la scuola non dà – come dovrebbe – la possibilità d’imparare criticamente, di conoscere, di crescere: è anch’essa – come la tv – un luogo di distribuzione e di riproduzione di una sola ideologia. «Imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono…» e producono una forma di schiavitù del cittadino, privo di altra coscienza che non sia quella unica prevista, sul modello piccolo-borghese a prescindere dal ceto reale di provenienza così, il suo sentimento medio dell’esistenza lo rende prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e scandalizzato di fronte ad ogni novità. Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento, che è una degradazione, è delittuoso, perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza.

In effetti, la nostra scuola è storicamente un luogo in cui ogni originalità, ogni creatività, in definitiva ogni particolare unicità degli studenti, vengono ridotte allo stesso modo in cui gli universi del sapere e del pensiero vengono ridotti nei programmi d’insegnamento, impacchettati nei libri di testo. Con l’assurda pretesa d’insegnare un po’ di tutto, si finisce con il fare impa72

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rare un po’ di niente, e far concepire agli studenti l’organizzazione delle proprie proiezioni del mondo e della vita solo in superficie. Per un paradosso, la scuola precedente al ‘68, sebbene ancor più autoritaria e repressiva, forniva almeno una profondità culturale superiore, e proprio gli insegnanti maggiormente coercitivi (preti, frati, ecc.) preparavano gli studenti al più alto livello. Allora, diversamente da oggi, il sapere discendeva dal ministero ecclesiastico che per secoli l’aveva detenuto; oggi invece il sapere è tipico di una cultura mass-mediologica banale e banalizzante. Qui ci ricongiungiamo all’attacco di Pasolini contro i «figli di papà» che, a Valle Giulia, picchiavano i poliziotti: sempre nella famosa intervista di Biagi, egli ricorda com’era il mondo di quei ragazzi in fotografia, la classe del liceo Galvani, ai tempi immediatamente precedenti la guerra: In queste cose faccio delle affermazioni che per quanto sgradevoli in un senso e timide dall’altro possono sembrare reazionarie: quel gruppo di giovani della fotografia era un gruppo di giovani tutto sommato obbedienti, ma non soltanto obbedienti al regime (perché fino a un certo punto noi eravamo obbedienti al regime), non sapevamo che ci fosse altro, eravamo immersi dentro questa atmosfera, non avevamo possibilità di alternative o di scelte, ma nel momento in cui abbiamo fatto un’altra scelta, cioè ognuno per le sue strade (io allora verso il Partito d’azione, mettiamo, Bignardi verso il liberalismo, ecc.) nel momento in cui siamo diventati antifascisti, non lo siamo diventati aggressivamente, abbiamo anche lottato (mio fratello è morto, altri miei amici sono morti lottando), ma non è mai stata una lotta aggressiva, fe-

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roce, perché concepita con gli stessi sentimenti delle persone contro cui lottavamo 45.

Pasolini spiega il motivo reale per cui quel «conformismo» dell’«anticonformismo», così evidente nei contestatori nel ’68, lo irritava. Essi rispondevano con la violenza, cioè con un’arma tipica dell’autorità, alla repressione autoritaria che lo Stato esprimeva nelle università e nelle scuole: cioè senza un impegno, senza una articolata analisi politica, sociale, economica, vale a dire senza quel sapere, quelle conoscenze che avrebbero dovuto costituire il motore unico di una possibile palingenesi. Dopo quasi quarant’anni quel disordine irrazionale non ha neanche lontanamente scalfito l’impostazione «clerico-fascista» dell’amministrazione; né portato ad alcuna riforma di struttura (del resto, i contestatori non possedevano alcuna ideologia alternativa); anzi, mentre nelle scuole e nelle istituzioni s’insinuava un nuovo disordine, deleterio e paralizzante, i più violenti di quei contestatori si sono poi votati al terrorismo, opponendo alla ferocia delle bande di estrema destra una ferocia identica, anche se di segno opposto. Ritorniamo così a quella civiltà dei consumi che ha livellato tutto, eliminando diversità e distinzioni nelle quali era possibile individuare un progresso di tipo marxista, ovvero una situazione da poter identificare come negativa e dunque riuscire a superare 46. Terza B: facciamo l’appello, 1971, cit. In un articolo, Pasolini parla di questa crisi, ricordando brevemente come nella storia italiana, in un primo momento, al «classicismo agrario» l’Italietta giolittiana abbia sostituito un «classicismo piccolo-borghese», poi sfociato nella retorica fascista; e come 45 46

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In questo quadro, il sapere medio fornito dalle nostre scuole livella quelle sincerità, quelle purezze istintive che i giovani individui posseggono all’origine, in quella fase molto delicata nella quale si consolida la personalità. L’intero sistema crea così individualità innaturali, falsità, conformismi. Colpisce dunque la risposta che Pasolini diede a Biagi allorché questi gli chiese quali fossero le persone che amava di più: Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Ma non lo dico per retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese (almeno nella mia nazione, ma forse anche in Francia e in Spagna) è qualcosa che porta sempre a delle corruzioni e a delle impurezze. Mentre un analfabeta, o uno che abbia fatto i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia, che poi va perduta attraverso la cultura 47.

dalla Resistenza in poi, quella spinta popolare dal basso non fosse più a carico del ceto medio, ma di un nuovo ceto protagonista formatosi sotto la guida del PCI e che sembrava destinato a rinnovare gli italiani dal basso. Fino a che questo meccanismo, in sé apparentemente «buono», non si è inceppato a causa di un nuovo fenomeno, cioè il proporsi in termini brutali di una borghesia italiana (erede di quella che aveva appoggiato il fascismo, e lontanissima da quel liberalismo che l’Italia non ha mai davvero conosciuto) affermatasi come classe egemonica. Cfr. «Vie Nuove», n. 7 a. XX, 18 febbraio 1965. 47 Terza B: facciamo l’appello, 1971. Va sottolineata l’analogia che Pasolini instaura tra la finezza di pensiero di coloro che hanno avuto una conoscenza istintiva della realtà, non mediata da una cultura media «corruttrice», e coloro che riescono a ritrovare tale immediatezza solo dopo aver raggiunto le alte vette del sapere, dove evidentemente la profondità analitica e la semplicità del sentimento si fondono in una nuova naturalezza della percezione.

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Modelli Su questo argomento, in sedi accademiche e in prodotti letterari di varia natura, si fanno le più fantasiose speculazioni, e l’approccio sociologico e psicologico normalmente tratta la questione in maniera astratta, senza partire da dati oggettivi e quindi senza cogliere verità utili. Basti pensare a quante ore di televisione vengono dedicate a trasmissioni che parlano dei modelli, con risultati sempre di ordine polemico, con opinioni provinciali, demagogiche, di stampo moralistico. Il problema dei modelli si pone generalmente nel termine di quale tipo di modelli. Pasolini invece attacca la questione alla radice. Sono i modelli stessi, di per sé, a costituire un problema; come oggetto, non come soggetto di varietà più o meno dannose: Si tratta non di un insegnamento, ma di un «esempio»: i «modelli» cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè. Era in cui dei giovani, presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all’infelicità (che non è una colpa minore) 48.

Pasolini, da regista della realtà oltre che da intellettuale, parla di modelli così come un altro regista (del48

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«Corriere della Sera», 18 ottobre 1975.

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la realtà), Stanislavskij, aveva parlato di clichè, istituendo un nuovo modo di concepire l’attore e la realtà rappresentata a teatro. Entrambi restano esempi isolati perché si scagliano energicamente, sistematicamente contro tutto quanto è precostituito, falso, innaturale, e che porta ad azioni, e atteggiamenti, a loro volta falsi e innaturali, come se fossero veri e propri «prodotti del comportamento di massa». Entrambi fanno un discorso né moralistico, né sociologico, ma filosofico, ontologico. È l’essere la grande vittima dei modelli, l’essere di un popolo diversificato che si omologa a un gruppo ristretto di modelli, con un procedimento difficilmente reversibile, in quanto anche le minoranze progressiste non possono nulla contro questi modelli, che sono tali perché autoritari, e sono autoritari perché statali, e lo Stato è «la nuova produzione di umanità». «Ritrovare un proprio modello di vita» è il grande problema di questa umanità, nel momento in cui la mutazione antropologica denunciata da Pasolini nei termini di un vero e proprio «genocidio» (termine marxista) è ancora in corso, e si somma ad una nuova mutazione – non ancora prevista dall’autore nel periodo in cui scriveva – messa in moto dalla civiltà dei computer, della realtà virtuale, un ossimoro che rientra perfettamente nell’universo pasoliniano, ma che tuttavia l’avrebbe fatto probabilmente inorridire: Io quando parlavo di una certa omologazione degli italiani, parlavo a un livello statistico che abbracciava milioni, milioni e milioni di persone. Tu in una piazza popolata da cinquemila persone, mentre una volta, soltanto fino a dieci anni fa, tu stesso dall’alto del quinto piano indicandoli dicevi

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“quello è uno studente, quello è un operaio, quello è un ragazzo del sud, quello è un vecchio del nord, ecc. ecc.” questo non lo puoi più fare, in una piazza tu non distingui più nulla, cioè il linguaggio del comportamento, il linguaggio fisico-mimico, è completamente omologato 49.

Negli Scritti corsari, la questione del linguaggio fisico-mimico è al centro dell’articolo 7 gennaio 1973. Il «Discorso» dei capelli (pubblicato sul «Corriere della sera» con il titolo Contro i capelli lunghi). I capelloni di Praga, che Pasolini aveva incontrato nella hall di un albergo durante un viaggio, esprimevano con i loro capelli quel che rendeva le parole superflue: la loro appartenenza a una sottocultura di sinistra. La quale, con il passare degli anni (e degli eventi politici e sociali) aveva finito col mescolarsi e confondersi alla sottocultura di destra, poiché quel «linguaggio della presenza fisica», ontologico ma irrazionale, finiva col non esprimere più nulla. Infatti, nella città di Isfahan in Iran, altri capelloni incontrati da Pasolini esprimevano in modo non verbale tutt’altro significato, quello di una non-appartenenza al numero dei «morti di fame», ma di un’imitazione dei modelli europei (borghesi, ricchi, capitalistici) della cui conoscenza quel linguaggio era un’ostentazione, un segno di riconoscimento. Per uno strano ciclo, quei capelli di «sinistra» avevano girato il mondo, fino ad assumere un valore opposto, alludendo a «cose di destra». Anche in questo passaggio, vi è un attacco all’omologazione giovanile seguita al ’68. Così come era stato 49

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Programma «Controcampo», 19 ottobre 1974.

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un penoso equivoco lo scontro degli studenti di Valle Giulia con i figli dei veri poveri, i poliziotti, allo stesso modo le nuove «maschere ripugnanti», che i giovani avevano messo sulla faccia, erano lo scandalo e l’equivoco di una insensata rivolta ai loro padri; e se proprio Pasolini aveva costruito – possiamo dire – il suo intero sistema simbolico intorno allo scontro con il padre, i giovani del tempo non avevano compreso il significato ancora una volta marxista di questa opposizione, di questa dialettica obbligatoria per natura (la sintesi di una nuova generazione, migliore, nella stessa specie umana). Essi non avevano prodotto un conflitto e dunque un superamento, ma una ribellione che aveva il senso di una «condanna radicale e indiscriminata», non tanto contro i padri biologici, ma contro la «storia in evoluzione e la cultura precedente» che essi rappresentavano. Questa condanna non era una presa di coscienza, per dirla in termini di fenomenologia hegeliana, un momento del progresso verso il passo successivo, l’autocoscienza, ma una barriera insormontabile, che li aveva isolati dai loro padri, impedendo quindi ogni opposizione dialettica: ancora un richiamo alla crisi del marxismo, dovuta al ritrarsi di un elemento fondamentale per il progresso in termini di tesi e antitesi. Ora non restava altro che prender coscienza dell’«isolamento in cui si sono chiusi, come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù», cristallizzati in un’«insopprimibile realtà storica», che aveva arrestato ogni progresso, producendo al contrario un vero e proprio regresso. Essi erano andati più indietro dei loro padri, tramite quella tendenza che Pasolini definiva il «conformismo dell’anticonformismo», una libertà che 79

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non era affatto tale, poiché distruttrice di quei valori e di quelle conquiste che parevano stabilmente acquisiti dopo la tragedia della guerra. Allora, nel ’45 e quasi per un decennio a seguire, gli italiani avevano dovuto inventarsi un modo di essere «italiani». All’indomani della liberazione, quell’emergenza nazionale e umana aveva portato ad un veloce progresso, solidale e toccante, che poi il regime dei consumi avrebbe spazzato via, sommergendo quel complesso di realtà (e di verità) rapidamente consolidatesi per necessità, e facendo affiorare in superficie una sola realtà, l’unica ammessa, dotata di una sola fondamentale proprietà: che fosse consumabile 50.

50 Anche la Chiesa viene chiamata in causa in questo processo: «Il Vaticano non ha capito che cosa doveva e cosa non doveva censurare. Doveva censurare per esempio ‘Carosello’, onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani ‘devono’ vivere. E non mi si dirà che si tratta di un tipo di vita in cui la religione conti qualcosa. D’altra parte le trasmissioni di carattere specificamente religioso della televisione sono di un tale tedio, di un tale spirito di repressività, che il Vaticano avrebbe fatto bene a censurarle tutte. Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un ‘modello di vita’ ha potuto essere propagandato con tanta efficacia quanto attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. […] Gli eroi della propaganda televisiva – giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici – proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà». Scritti Corsari, cit., p. 59.

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SECONDA PARTE

I CONTENUTI DEGLI INTERVENTI TELEVISIVI (1957-1975)

La seconda parte di questo libro intende costituire un piccolo «zibaldone» critico degli interventi televisivi di Pasolini, ovvero una raccolta dei principali «testi», trascritti e organizzati coerentemente, in forma di un ulteriore «scritto corsaro», il cui spirito si accosta spesso agli articoli e ai saggi, ma non di rado si avventura in tematiche e riflessioni – frutto di intuizioni estemporanee – di cui manca un corrispettivo negli scritti. Nonostante essi riguardino temi che esulano dalla tv, o che la riguardano indirettamente, è tuttavia interessante porre queste riflessioni in «dialogo» con altri suoi scritti contemporanei, per una più esatta ricostruzione dell’universo pasoliniano. I programmi, le rubriche e i documentari da cui questi spezzoni sono tratti verranno citati di volta in volta. Il lettore vorrà scusare l’autore nel caso di qualche piccola e involontaria imprecisione: la mia buona volontà nelle ricerche non mi assicura una completa certezza della provenienza delle fonti e dei brani, poiché purtroppo non esiste ancora una raccolta completa e sistematica, consultabile per intero, del patrimonio intellettuale affidato da Pasolini alla «memoria» della televisione. Non è tanto una fatale «vendetta» del mezzo, quanto la rimozione freudiana – da parte della politica – di un 81

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artista che, come disse Moravia il giorno dei funerali, qualunque paese sarebbe stato felice di avere 1. E contro il quale si perpetua un ipocrita, colpevole, ingiusto oblio. Il conflitto originale Intorno al conflitto con il padre si costruisce praticamente tutto l’universo pasoliniano. Un conflitto viscerale, lancinante, arcaico, che ha segnato l’uomo, il poeta, lo scrittore, il regista, l’intellettuale-contestatore, per tutta la sua travagliata esistenza. Un conflitto che ha generato un dolore di cui egli stesso non nascondeva l’intensità, ed è stato continuamente superato nell’opera (in perenne antitesi) con una forza espressiva, una vastità e una articolazione assai rare. Il conflitto paterno è il centro del sistema autoriale di Pasolini, il fulcro del suo discorso estetico e della sua ricerca sul linguaggio, nonché il motore primo della contestazione all’autorità e dell’impegno civile, di così alto livello da aver costituito – in Italia – un caso decisamente unico. Questo conflitto genera intorno a sé l’intero sistema, come ho detto, e ogni tema pasoliniano ricalca in qualche modo lo scontro paterno. Come questa filiazione tematica si svolga, lo racconta egli stesso: «Qualsiasi società sarebbe stata contenta di aver Pasolini tra le sue file, abbiamo perso prima di tutto un poeta, e il poeta… non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in ciascun secolo… quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta, il poeta dovrebbe esser sacro…» dal documento filmato dell’orazione funebre di Alberto Moravia, il 2 novembre 1975. 1

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Mio padre… è difficile parlare di lui, perché era uno molto diverso da me e con cui ho avuto dei rapporti molto difficili. I tipici rapporti tra padre e figlio, quando questi rapporti sono drammatici. Drammatici prima di tutto inconsciamente, per ragioni che Freud spiegherebbe, meglio di me; e anche poi per ragioni oggettive di carattere: mio padre era un uomo un po’ all’antica, un ufficiale, cioè esattamente il contrario di me, la pensava esattamente all’opposto di come la pensassi io, allora e adesso. Quindi c’era proprio una diversità di ideologia, di carattere. Ma forse sono un po’ ingiusto a dire questo, perché se io inconsciamente ero nemico a lui, lui era profondamente nemico a me, anch’egli, certo, inconsciamente. Tuttavia, in realtà è stato poi lui che mi ha quasi spinto a scegliere la carriera che ho preso. C’è questo misto di sentimenti, gratitudine, odio: è il rapporto più drammatico che abbia avuto nella mia vita. Ogni mio rapporto drammatico avviene con tutto ciò che è paterno, cioè – mettiamo – con lo Stato, o con il sentimento medio della vita che hanno gli uomini, con la società, eccetera eccetera… 2

Dalla massa conflittuale, dunque, come cerchi concentrici, si originano altri conflitti, sempre di natura «paterna»: il primo e più importante, con l’autorità dello Stato, un grande padre tentacolare e burocratico, contro il quale Pasolini si è battuto, non tanto in una critica alla struttura in sé, quanto in una deplorazione degli uomini di questo Stato, nei quali egli vedeva una prosecuzione di quella piccola borghesia venuta alla luce durante il fascismo. La stessa ideologia segue la lotta dei lavoratori (come figli) contro i padroni, cioè dei deboli contro i più 2

Un poeta d’opposizione, RAI, Secondo Canale, 1967.

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forti, un’immagine che Pasolini ebbe impressa per via di alcune scene cui assistette in gioventù, durante le rivolte contadine, e che lo porteranno a scegliere come «naturale» la strada del marxismo 3. Il secondo conflitto è contro la Chiesa, ovvero la sua imposizione moralistica e costrittiva, nonché l’imperdonabile collusione con il regime fascista: dunque soprattutto contro l’impostazione ministeriale di tale istituzione; in contrasto con quella semplicità e purezza contadina – a tratti pagana –, delle quali era intrisa la religione nell’epoca pre-industriale. A Pasolini, inoltre, piaceva «giocare» con il doppio uso che Cristo, nei Vangeli, fa della parola «padre» (riferendola sia a San Giuseppe che a Dio). Il terzo conflitto, quello con la società, è espresso tramite la scelta di una tecnica espressiva sempre diversa, fino al totale abbandono della lingua come stru-

In Terza B: facciamo l’appello, 1971 Pasolini, rispondendo alle domande formulate da Enzo Biagi, parla prima della madre, poi del padre, intrecciando la religione a una immediata rappresentazione dialettica dei genitori: I racconti che le faceva sua madre nella sua infanzia hanno avuto un peso nella formazione del suo carattere? I racconti non tanto. La sua ideologia sì, che era formata da tutte quelle illusioni di cui lei mi parlava prima: l’illusione dell’essere buoni, dell’essere bravi, dell’essere generosi, del darsi agli altri, del credere, del sapere, eccetera eccetera. La sua famiglia era religiosa? No. Mio padre, che era nazionalista anche se non proprio fascista, quasi, aveva una religione puramente formale: in chiesa la domenica alla messa grande, la messa dove vanno tutti i borghesi ricchi. Mia madre invece aveva una religione contadina, rurale, presa da sua nonna, una religione molto poetica, per niente convenzionale, per niente confessionale. 3

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mento letterario, decisione che Pasolini interpretava come contestazione alla società intera. Oltre la lingua, anche l’uso dei mezzi del neocapitalismo rientrava in questa forma di contestazione. Gli altri conflitti seguono l’impostazione dei precedenti, inoltre si dispiegano nella storia come schema interpretativo, secondo lo stesso andamento marxista, dialettico: anche il fascismo aveva rappresentato una retorica autoritaria paterna, cui si era opposta in un primo momento (in antitesi) la forza popolare guidata dal Pci, ma non si giunse mai ad un’effettiva sintesi (la palingenesi della società italiana) a causa dell’esplosione del consumismo (un nuovo ritorno, repentino e sregolato, al dominio piccolo-borghese antecedente). Così anche il discorso sulla lingua finisce col confluire nell’aspetto conflittuale paterno: essa non è che uno strumento di costruzione di una diversa realtà, nelle intenzioni migliore rispetto a quella precedente e suscettibile di continua evoluzione. Infine, soprattutto, il conflitto con il padre biologico è riprodotto con impressionante parallelismo nel rapporto con il «padre intellettuale», cioè Gramsci. «Con te» e «contro te»… Pasolini dedica all’intellettuale che ha segnato la sua formazione teorica alcuni dei versi più belli da lui scritti, nella raccolta Le ceneri di Gramsci 4:

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P. P. PASOLINI, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 1957.

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Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere; del mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra di azione – mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza; è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia… Come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno. Ma nella desolante mia condizione di diseredato, io possiedo: ed è il più esaltante dei possessi borghesi, lo stato più assoluto. Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce?

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La poesia, ambientata nel Cimitero Acattolico di Roma ai piedi della Piramide Cestia (nel quartiere Ostiense, che Pasolini amava e frequentava, sovrastato dalla solenne architettura aerea del gazometro), è fortemente sinestetica e, pur nella sua forza ideologica, esteticamente decadente. In essa si respira l’umida atmosfera del «giardino inglese», il marcire delle foglie e il vago aleggiare – mai opprimente – del senso di morte. Il rimando alle macerie di una città, di un paese ancora non ricostruito, è immediato. Anche la lontana eco dei lavoratori, udibile nel colpo d’incudine che risuona nelle officine del quartiere Testaccio, fa da sfondo alla poesia ma, al contempo, dà corpo al discorso storico e dialettico. L’intensa passione che vi si percepisce, l’amore e la presa di coscienza rispetto alla persona cantata, insieme con il fluire continuo delle terzine, ricordano i versi che Walt Whitman dedicò al Presidente Lincoln, dopo il suo assassinio. Può sembrar strano, ma anche nei versi Pasolini lavora per immagini, e sembra anticipare il linguaggio cinematografico, in quella versione epica che caratterizza tanta letteratura americana. Questi passaggi sono il vero nucleo magmatico, passionale, del mondo di Pasolini. Il conflitto paterno resta centrale: nel rapporto ideologico tra Pasolini e Gramsci, come tra un allievo e un maestro o tra un figlio e un padre, si esprime tutto lo «scandalo» di una contraddizione, che per il «figlio» sembra non solo insuperabile, ma alla base stessa del suo modo di sentire, di vivere, di esprimersi. Pasolini è «con» Gramsci «in luce», cioè nella riflessione, nell’interpretazione razionale della società, dello 87

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scontro di classe, del progresso e dello sviluppo; ma «contro» Gramsci «nelle viscere», nell’irrazionalità, nell’eresia vitalistica perfettamente incarnata dai ragazzi di vita: non sono la «lotta» né la «coscienza» della vita proletaria «anteriore» a scatenare in lui le passioni, l’allegria, ma la natura primigenia dell’uomo, che nell’incivilimento è andata irrimediabilmente perduta. Questo punto è fondamentale perché, pur essendo strettamente inerente al campo della poesia e dell’estetica, fornisce un maggior senso ideologico anche al resto della produzione e dell’opera di Pasolini; rende più comprensibili persino molti interventi televisivi, in cui questi sentimenti vengono espressi con minore enfasi, ma con i medesimi contenuti 5. La scelta marxista e l’amore per il sottoproletariato Nel documentario Pasolini l’Enragé, citato in apertura del libro, il «poeta» spiega a Ninetto cosa sia vitale nel concepimento di un’opera: quell’ispirazione data dalle cose che colpiscono profondamente la sensibilità dell’artista. Egli ricorda la fortissima impressione che aveva suscitato in lui il mondo del sottoproletariato romano, non appena vi era venuto a contatto. Ma un’altra immagine, una più forte impressione erano già fermamente fissate nella sua memoria, pron5 Per conoscere più approfonditamente quanta importanza abbia rivestito nella formazione dell’autore l’opera di Antonio Gramsci, oltre all’esperienza diretta e al contributo di Gianfranco Contini e Carlo Emilio Gadda, cfr. ENZO SICILIANO, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano, 2005, p. 191.

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te a germogliare nelle prime opere letterarie, dalla straordinaria ricchezza umana. In fondo io ho preso il Friuli per una specie di piacevole – e allo stesso tempo tragico – esilio, una specie di prigione dove compiere gli atti e le operazioni del mio narcisismo, in mezzo ai gelsi, alle vigne, ai prati verdi del Friuli, e nel tempo stesso un luogo dove covare il dolore per la morte di mio fratello, che era avvenuta un anno prima proprio alla fine della guerra, da partigiano. L’incontro con la realtà, è avvenuto appena son nato, cioè il primo rapporto con la realtà l’ho avuto nei primi anni dell’infanzia, anzi direi il definitivo. Ma con una realtà sociale, di cui prendere una coscienza a livello della maggiore consapevolezza, l’ho preso proprio in queste mie specie di prigioni, o di esilio friulano, dedicato esclusivamente a una poesia mistica, cioè una poesia in dialetto friulano. Questa presa di contatto è avvenuta attraverso le lotte tra i braccianti e i padroni, quelli che i braccianti chiamavano i loro padroni, cioè una specie di sopravvivente feudalesimo nel Friuli, e io sono stato dalla parte dei braccianti, ed è attraverso questa scelta istintiva che poi ho preso la mia strada, che è ancora quella di oggi, cioè la strada del marxismo, dell’opposizione totale alla mia società 6.

Una simile dichiarazione compare anche in una «risposta mai spedita» su Mondo Nuovo 7, nella quale Pasolini aggiunge ai termini opposti padroni-braccianti (da cui la sintesi nella scelta del marxismo) un terzo elemento, quello religioso: 6 Intervista prodotta dalla televisione tedesca nel 1973. Essa, insieme al documentario francese, è tra i documenti più importanti sull’ideologia dell’autore. 7 Pubblicata il 1° novembre 1964.

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Ho amato, alla fine degli anni Quaranta, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vesperi. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei braccianti friulani, nell’immediato dopoguerra: e da allora tutta la mia angolazione culturale e le mie letture sono state marxiste.

I fatti cui fa riferimento, si erano svolti agli inizi del 1948, in occasione di manifestazioni a San Vito al Tagliamento, osteggiate dai «padroni» e represse dalla polizia: le proteste dei contadini, durate alcuni giorni, contestavano l’attuazione del «lodo De Gasperi», ovvero la decisione politica di assegnare ai mezzadri dei compensi a parziale risarcimento dei danni economici seguiti alla guerra. Fu intorno a queste lotte di rivendicazione contadina, dal sentimento universale e metastorico, che Pasolini «coagulò il romanzo del suo Friuli. Il romanzo avrebbe visto la luce molto più tardi, nel 1962, “debitamente tagliato, restaurato, verniciato e incorniciato”, col titolo Il sogno di una cosa – e il «sogno» (parola di Marx in una lettera ad Arnold Ruge, del 1843) era la speranza nella palingenesi sociale, tenuta dagli uomini sotto l’ala della coscienza con pudore e fatica» 8. Oltre alla scelta ideologica, questi episodi segnano in maniera decisiva il sentimento democratico che Pasolini anteponeva a ogni rapporto umano, fissando in lui una sorta di sentimento dell’uguaglianza universale, Questo brano, e le informazioni precedenti sulle lotte dei braccianti, provengono dalla biografia scritta da Enzo Siciliano, cit., p. 141. 8

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cioè un rispetto assoluto privo di pregiudizi e sovrastrutture, tipico in qualche modo dell’infanzia. Se all’autorità egli si opponeva con la risolutezza irrazionalistica di un beatnik e la razionalità degli strumenti comunicativi più efficaci, alla concretezza delle azioni interpersonali riservava invece le più alte sensibilità. Caratteristica che, oltre a rendere pressoché unico – per un intellettuale – il suo modo d’immergersi e di vivere nella realtà sociale (pur con tutte le sue brutture e brutalità), spiega l’unitarietà delle sue opere fino alla fine degli anni Sessanta, dai romanzi, al cinema, alla produzione critica (in seguito, la delusione per l’irrimediabile degenerazione antropologica degli italiani, e l’acuirsi della crisi umana e politica del paese, produrranno nell’opera dell’autore contrasti viscerali così forti, da forgiare prodotti conseguentemente troppo sofferti e forse addirittura sbagliati, come il film Salò 9). Ma nel 1966, all’intervistatore francese che gli domanda la ragione del suo interesse per il sottoproletariato, Pasolini risponde: 9 È significativo, in proposito, citare un estratto dall’intervista di Biagi (1971): Lei si batte contro l’ipocrisia, sempre. Quali sono i tabù che vuole distruggere? Le prevenzioni sul sesso, lo sfuggire alle realtà più crude, la mancanza di sincerità nei rapporti sociali? Mah, questo l’ho detto fino a dieci anni fa, adesso non dico più queste cose perché non ci credo; le ripeto… la parola speranza è cancellata completamente dal mio vocabolario, quindi continuo a lottare per verità parziali, momento per momento, ora per ora, mese per mese, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza perché non ci credo più.

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Credo che ci siano due ragioni a spiegare questo mio amore, questo mio agio di comportamento nell’ambito del sottoproletariato. Una ragione è psicologica, cioè io non riesco – proprio neanche se lo volessi – psicologicamente, direi fisicamente, a fare delle discriminazioni fra un individuo e l’altro. Trovarmi di fronte al capo della polizia o a un alto magistrato o di fronte a un umile operaio o spazzino è proprio la stessa cosa credo, dal punto di vista psicologico. Questo per una specie di «timidità» infantile… pensi che delle volte mi scopro a far fatica a dare del tu a un cane. Non soltanto di fronte a un essere umano, ma di fronte a un essere animale io ho questa specie di timidità per cui attribuisco un grande prestigio alla persona che mi è davanti. Senza fare discriminazioni appunto per le persone, cioè tutte le persone che sono davanti a me, tutti gli esseri animati che sono davanti a me sono quasi sempre dei padri e delle madri. Ma poi c’è una ragione storica, un po’ meno divertente ma ugualmente importante 10.

Poco dopo, nello stesso programma, Pasolini passeggia per le stradine sterrate della periferia romana, nel quartiere di Rebibbia: una periferia «particolare», tra casupole e muri «costruiti a mano» dai sottoproletari (non dal fascismo, come le case popolari che ospitavano grandi concentramenti di poveri): è l’immagine vivente di quella città preindustriale descritta nei romanzi, un deserto mediorientale attraversato dai vari Accattone, dove la gente vive «come ad Algeri, al Cairo, a Bombay ecc 11». Pasolini mostra pure la casa in cui aveva vissuto una quindicina d’anni prima, tra il 1951 e il 1954, nel periodo in cui scrisse il primo romanzo, Ragazzi di vita, 10 11

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Programma tv, Pasolini l’Enragé, cit. Id.

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alcune raccolte poetiche tra cui Le ceneri di Gramsci, un’antologia della poesia dialettale italiana, e fa questo per rispondere «a quegli idioti» che l’avevano accusato di essere venuto tra i sobborghi di Roma da turista, quando invece vi aveva abitato per anni, in un passato povero, da disoccupato, prima di trovare il lavoro d’insegnante in una lontanissima scuola di Ciampino, per ventisettemila lire al mese 12. È tra queste casupole che egli veniva folgorato ogni giorno dal forte contrasto tra quella esistenza vitalistica e la continua minaccia della morte, che come un temporale all’orizzonte dominava la caducità delle vite in borgata. Misere, ma irripetibilmente spontanee. Un sentimento universale, la scoperta di quell’azione nella realtà che era di per sé già letteraria, espressiva, originata dalla rappresentazione di un mondo – pur raccontato sotto un’ispirazione talmente passionale da essere quasi fanatica – che egli aveva sperimentato in tutta la sua violenza come esperienza della propria vita. Un sentimento implicito in Accattone (1961), poi generalizzato, sublimato e trasformato nella favola Uccellacci e uccellini (1965), dove le parole del corvo, ovvero l’ideologia, esprimono un’invidia per l’«innocenza, la semplicità, la grazia» dei personaggi messi in scena da Totò e Ninetto, avvertite come religiose. Il corvo, cioè la componente razionale-marxista di Pasolini, invidiava in essi, che altro non erano se non due figure estrapolate dalla periferia mostrata nel programma, quell’abitudine a «discutere della vita e della morte con le prime parole che vengono alle labbra». 12

E. SICILIANO, Vita di Pasolini, cit., p. 193.

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Ninetto, come Totò, è un personaggio totalmente innocente, che «vive e non conosce la vita»: l’opposto del corvo teoretico, che «pensa alla vita ma non vive» 13. Ritorniamo di colpo allo «scandalo del contraddirmi»: il corvo è «con» Gramsci, è la «coscienza» umana proiettata nella Storia e nel progresso, ottimista (sperava in un futuro migliore) ma infelice; i due sottoproletari, «contro» Gramsci, sono invece destinatari di quel «calore degli istinti», di quell’«estetica passione» tipici di una vita proletaria anteriore, dalla naturale forza originaria («nell’atto s’è perduta»), per le quali Pasolini provava amore, ammirazione, ma anche nostalgia. Ma erano, per un’ironica opposizione – di carattere quasi Queste parole sono tratte dal programma Pasolini l’Enragé. Ricorda inoltre Pasolini, in un’intervista televisiva contemporanea all’uscita del film e raccolta nel già citato documentario Pier Paolo Pasolini una disperata vitalità (1986), di S. Gusberti, A. Debenedetti e P. Brunatto: «Questo film è una favola, e come in tutte le favole i personaggi sono simbolici, Totò e Ninetto sono un padre e un figlio che rappresentano un po’ tutta l’umanità. Il corvo un personaggio-simbolo che rappresenta l’ideologia, la presa di coscienza sulla realtà che i due poveri padre e figlio non riescono ad avere. Gli altri uccellacci e uccellini, quelli convertiti dai due fraticelli nella favola di S. Francesco, rappresentano i buoni e i cattivi, gli umili e i potenti, i ricchi e i poveri: la lotta di classe. [Il film rappresenta per me] un esame di coscienza in quanto mi sono raccolto un po’ in me stesso spinto dagli avvenimenti […] cioè il mondo intorno a noi è molto cambiato, non soltanto in Italia ma in tutta Europa, in tutta la terra, e allora evidentemente le idee che mi hanno finora sostenuto e suggerito un’interpretazione della realtà, si sono dimostrate improvvisamente invecchiate e superate, e l’adattamento che io ho dovuto fare a questa nuova realtà sociale, politica, letteraria intorno a me ha causato quella crisi che ha causato a sua volta il mio esame di coscienza». 13

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esistenzialista – pessimisti eppur intimamente, irrazionalmente, inconsapevolmente felici. Accattone: «il primo “primo piano” della storia del cinema» Quando Pasolini cambia tecnica letteraria, passando dai romanzi ai film, sceglie di esordire con un’opera che s’inserisce ideologicamente nel solco dei formalisti russi degli anni Venti: c’è, nella sua volontà di applicare il marxismo al testo cinematografico, un richiamo alle teorie dei primi registi sovietici. Ma gli scritti teorici e il montaggio di Ejzenstejn adattavano il materialismo dialettico alla forma del film, mentre Pasolini lo applica, com’è solito fare, al contenuto, riconducendo la messa in scena – e il totale concepimento iconografico dell’opera – a un discorso strettamente linguistico: per Pasolini il cinema non è che una nuova tecnica letteraria, una forma espressiva, scelta per opposizione, per protesta alla società. Su questo aspetto di contestazione egli si allontana dagli ideali esclusivi di acculturazione (e propaganda comunista) di massa del cinema russo, e conduce il suo discorso sul sottoproletariato in termini molto simili a quanto fa nei romanzi. Ritenendo il cinema un equivalente «per immagini» del linguaggio letterario, in cui la realtà viene rappresentata con la realtà (e non con un sistema codificato di parole), egli nella rappresentazione del sottoproletariato non tiene a cuore solo l’aspettativa (e il percorso oppositivo) di un futuro migliore, ma anche quella che potremmo definire la «trascendenza» di una suggestione sacrale, caratteristica del suo intimo atteggiamento di 95

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osservatore della realtà, aspetto assai importante che, con grandissima finezza, egli non si limita ad esprimere solo simbolicamente o iconograficamente, ma con un uso straordinario della musica nella colonna sonora: Io ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma. Io sentivo, sapevo che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago, generale della parola. E allora questo aggettivo sacro l’ho aggiunto con la musica, ho detto – cioè – la degradazione di Accattone è sì una degradazione, ma una degradazione in qualche modo sacra. E Bach mi è servito a far capire, ai vasti pubblici, questa mia intenzione 14.

L’effetto, certamente, è impressionante e suggestivo: c’è un che di religioso ma per nulla cattolico, né clericale, nelle sequenze di Accattone. Come se, idealmente, il mistico (o il religioso), esattamente come nell’opera di Kierkegaard, fosse un livello ulteriore al quale si giunge, dopo il superamento della propria condizione umana: non è una scelta morale, come in AutAut, bensì una specie di rimando, di sintesi naturale per cui un mondo degradante e brutale – per così dire – tende a trascendere se stesso. È quanto accade, anche sul piano estetico, nel romanzo Ragazzi di vita: si percepisce sempre un che di trascendente, persino nell’immagine dei praticelli senza vita, bruciati da un sole che non dà vita, persino nelle sterminate distese di «mondezza» che opprimono i paesaggi periferici della Roma del dopoguerra. Un memento mori. 14

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Il cinema della realtà, RAI, Secondo Canale, 1969.

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Il riferimento ai «vasti pubblici» riguarda sempre l’intento nazional-popolare che Pasolini aveva dichiarato con l’espressione «sotto il segno di Gramsci»: ovvero il rivolgersi a un pubblico di massa da «educare» e «coltivare» come una nuova élite, il che conferma un ulteriore legame con il cinema formalista russo. Aggiungendovi quella visione «miracolosa» del tutto estranea a quel cinema, al punto che in Accattone è già implicito il senso e il sentimento del film successivo, Il Vangelo secondo Matteo 15. Parlando invece della forma, è evidente come Pasolini vi presti attenzione limitatamente al «prestigio letterario» di questa nuova «lingua»: ed è un aspetto di cui ci occuperemo nel discorso sul linguaggio. Sulle scelte stilistiche del lessico cinematografico, occorre quindi far riferimento alle parole di un altro regista, Bernardo Bertolucci, che aveva assistito Pasolini durante le riprese: Tale intendimento è ribadito in termini simili in un altro intervento televisivo, con gli stessi slogan, a testimonianza della consapevolezza televisiva nel modo di comunicare dell’autore: «I primi film li ho scritti, li ho girati, sotto il segno di Gramsci, che parlava di opere a carattere nazionalpopolare, rivolte a un popolo ideale. Poi è successo un fatto molto importante per l’Italia: è cioè agli inizi degli anni Sessanta che l’Italia è entrata nel grande dominio del nuovo capitalismo, e quindi anche in Italia si sono avuti i primi movimenti della cosiddetta cultura di massa. E allora a questo punto facendo il film io ho perso l’illusione gramsciana di rivolgermi al popolo: in realtà questo popolo era la massa, e quindi i miei film avevano il destino di una consumazione di massa». Questa citazione, e la successiva di Bertolucci, sono sempre raccolte nel documentario Pier Paolo Pasolini una disperata vitalità, di S. Gusberti, A. Debenedetti, P. Brunatto, 1986. 15

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[Pier Paolo] rifondava il linguaggio con l’animo di un pioniere, o di un naif… bisognerebbe dire un falso naif… però il suo atteggiamento era quello di uno che per la prima volta guarda nel buco nero della macchina da presa. […] Assistevo al primo «primo piano» della storia del cinema: Accattone è un film girato tutto frontalmente, non ci sono mai momenti di avvolgimento intorno ai personaggi. Pier Paolo filmava frontalmente come nelle pale d’altare toscane trecentesche, Pier Paolo amava certi film perché un pubblico popolare che lui amava, amava questi certi film 16.

L’ideologia espressa nella forma, è dunque sovrapposta e intersecata alla componente estetica della rappresentazione: non è il materialismo dialettico che Ejzenstejn applicava alle inquadrature (dall’opposizione di immagini contrastanti nasceva un significato ideologico, concettuale), ma un linguaggio ispirato alla pittura: essenziale, frontale, più ieratico che espressivo. Profondamente ideologico era invece il contenuto: tant’è che la reazione del pubblico e della critica non mancò di portare alla luce sentimenti insospettabili e suscitare scandali: Il film Accattone ha suscitato in Italia forse il primo caso abbastanza clamoroso – per quanto limitatissimo – di razzismo. Lei sa benissimo che gli italiani non sono razzisti, c’è qualche piccolo sintomo, per esempio certi cartelli nei bar di Torino dove c’era scritto «proibito l’ingresso ai terroni», cioè sono dei piccoli elementi. Ma gli italiani sono stati razzisti, pur essendo borghesi, come i francesi, gli inglesi, ecc. ecc., e non hanno mai avuto occasione di manifestare il lo-

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Id.

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ro razzismo. Un’occasione gliel’ho data io con “Accattone”, cioè rappresentando un personaggio come Accattone, di razza diversa 17.

Questa manifestazione di razzismo forniva a Pasolini un elemento in più per rafforzare la propria convinzione che anche la società italiana del tempo, non solo il potere centrale, ricordasse in maniera non troppo indefinita la precedente società, scivolata giorno dopo giorno nelle spire del regime fascista. Anche all’epoca del primo libro di poesie, lo scrittore ventenne si era dovuto misurare con un razzismo evoluzionistico (il rinnegare le proprie origini) del regime, in sé contraddittorio (da un lato – concretamente – si negava la lingua di un popolo; dall’altro – astrattamente – ne si produceva una tronfia celebrazione, retorica e irreale, nelle grandi campagne mussoliniane come quella «del grano», rivolte allo stesso popolo la cui esistenza, linguisticamente e dunque culturalmente, s’intendeva censoriamente cancellare). Il mio primo libro è uscito nel ’42, è un libro di poesie in dialetto friulano che è il dialetto di mia madre. Le ho scritte verso i 18 anni e le ho pubblicate esattamente a 20 anni. Perché ho scritto in friulano? Allora non me ne sono ben reso conto, ma me ne son reso conto immediatamente appena è uscito il libro; alcuni critici avrebbero voluto recensirlo, non l’hanno potuto fare perché le riviste di allora – erano gli ultimi anni del fascismo – non volevano che si parlasse di dialetti, che esistesse una letteratura dialettale, e questo perché l’Italia di allora, l’Italia ufficiale di allora, era un’Italia com-

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Pasolini: cultura e società, RAI, Programma Nazionale, 1967.

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pletamente stereotipa e falsa, probabilmente al di fuori di ogni forma di realismo, anche se completamente poetico com’era questo. Se non si voleva che in Italia si parlasse il dialetto, praticamente non si voleva che in Italia ci fossero dei contadini e degli operai 18.

Eppure, nel ’42, il regime si era già macchiato di colpe ben più gravi che non quella di rifiutare l’esistenza di contadini e operai: oltre la folle impresa bellica, il vero orrore umano – commesso da quel gruppo di «criminali al potere» – fu l’emanazione delle leggi razziali, peraltro firmate dal Re d’Italia. Intanto, il «popolo», dopo la breve esperienza dell’«Italietta» pallidamente liberale d’inizio secolo, non aveva avuto occasione storica per formarsi una qualunque coscienza critica. Il fascismo aveva approfittato di un abissale vuoto di potere, di una crisi che rendeva l’Italia un paese a tutti gli effetti equiparabile a quelli del Terzo Mondo, senza tuttavia giungere a riempire questo vuoto (che lo stesso Pasolini giudicava ancora tale, fino agli anni in cui scriveva 19). Un primo momento di riflessione critica, sulla propria storia, condizione e identità, era stata fornita agli Italiani nell’immediato dopoguerra. Com’era avvenuto nella Russia degli anni Venti, così in Italia un ruolo fondamentale lo ebbe il cinema, che trascese la propria natura di genere spettacolare per divenire rappresentaId. Cfr. l’articolo 1° febbraio 1975. L’articolo delle lucciole, pubblicato sul «Corriere della Sera» con il titolo Il vuoto del potere in Italia, riprodotto in Scritti Corsari, cit., p. 128. 18 19

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zione sacrale – come il teatro nell’Antica Grecia – e “di fondazione” per una nuova società. Il Neorealismo ha rappresentato il primo atto di coscienza critica – dal punto di vista politico, ideologico – che l’Italia ha avuto di se stessa. L’Italia fino a quel momento non aveva avuto una storia unitaria, la storia di una nazione, ma la storia di un insieme di piccoli popoli, di piccole nazioni (a parte la grande divisione tra nord e sud). Gli ultimi vent’anni poi erano la storia del fascismo, cioè una storia di un’unità aberrante. Soltanto con la Resistenza è cominciata la storia italiana, tale da potersi paragonare alla storia della Francia, dell’Inghilterra o della Spagna. Prima di tutto è la riscoperta dell’Italia, il primo sguardo che l’Italia ha di se stessa senza veli retorici, senza falsità, col piacere di scoprirsi, e col piacere anche di denunciare i propri difetti, e questo è un carattere comune a tutti. E l’altro aspetto comune a tutti è il prospettivismo di carattere marxista, cioè che tutte le opere neorealistiche si basano sull’idea che il futuro sarà migliore, in quanto si adempirà ad una rivoluzione che non si sa quale fosse poi 20…

Questo frammento apre il discorso a una serie di dicotomie: la prima è tra la mancata rivoluzione progressista – che le sinistre non riuscirono mai a compiere, e che sfociò nei due filoni del ’68 e del terrorismo (in parte sovrapposti) – e il golpe (o la serie di golpe) strisciante per cui Pasolini lanciò diversi gridi d’allarme. Una seconda dicotomia riguarda le modalità di opposizione al potere centrale: come già ricordato, Pasolini insisteva fermamente sul fatto che un movimento di opposizione si manifesti con azioni e idee diverse da 20

Il cinema della realtà, cit.

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quelli del regime cui si oppone. Nasce così la contraddizione ineluttabilmente implicita nel movimento di contestazione giovanile: esso, pur usando mezzi aggressivi e d’intolleranza uguali (in alcuni casi peggiori) a quelli del sistema contro cui si scagliava, s’inseriva nel solco di quella Resistenza italiana – così diversa da quella degli altri paesi europei – che pur consistendo, nei fatti, in una vera e propria guerra civile, era animata da sentimenti diversi dal dominio che intendeva combattere. Più che una questione di mezzi, è una questione di fini. Quello della Resistenza era la libertà, scoperta solo negli ultimi mesi, da un’oppressione totalitaria, liberticida e «aberrante»: nonostante i partigiani uccidessero – per forza di cose – i rappresentanti del vecchio regime (macchiandosi di delitti inaccettabili e a volte gratuiti), intendevano sostituire il precedente status quo con uno più giusto e democratico. Insomma, una vera rivoluzione. Purtroppo l’esplosione della civiltà dei consumi arrestò quella che Pasolini definiva «palingenesi», che poi tramontò definitivamente nel segno di un ritorno a una nuova forma di regime, in cui il dominio centrale ereditava alcune modalità del ventennio (uso della polizia, carattere pesantemente repressivo, ricorso all’alleanza cattolica, forte influenza sui media di massa e negazione di un vero confronto con le forze politiche avversarie) e in cui la società piccolo borghese era simile all’equivalente società degli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. Il passaggio è tale da indurre Pasolini a un confronto sulle nuove generazioni di «arrabbiati». Eredi ideali di quei partigiani che avevano liberato l’Europa dai nazi102

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fascisti e che anche in altri paesi si erano espressi con forme non troppo diverse tra loro: ma in Inghilterra e in Francia esisteva un’autentica borghesia in senso moderno, di origini più colte e di maggior coscienza storica e civile, contro la quale le generazioni giovanili degli anni Sessanta si scagliavano con una rabbia proporzionale, cioè – per così dire – una «grande rabbia». L’Italia, che invece non conosceva quel tipo di borghesia, ma appunto una «piccola borghesia», manifestava allo stesso modo solo una «piccola rabbia», un sentimento che, come il proprio avversario ideologico, era caratterizzato dal medesimo aspetto provinciale, limitato. Ciò che Pasolini definiva – a proposito della Resistenza – una «sorta di grande rabbia organizzata, per cui gli italiani avevano rivoluzionato il loro modo di essere e la propria storia precedente 21», non era più valido per il ’68, che contraddittoriamente attingeva al «serbatoio ideologico» della Resistenza solo per colmare un proprio vuoto, e che poi sarà il principale responsabile del fallimento di quei tentativi di cambiamento: Quando un giovane critica la borghesia, lo fa con schemi di critica alla realtà preparati già dalla Resistenza e dalla cultura marxista italiana (vedi i canti partigiani) ma gli schemi si sono fatti vecchi, ufficiali: non arrabbiati, ma rivoluzionari dunque, assumendo un’altra forma di moralismo sempre borghese (non conformismo borghese e cattolico, ma marxista) 22.

Tant’è che l’autentica «rabbia» scandalosa di Pasolini, che in Italia non veniva compresa ma attaccata, ca21 22

Programma tv Pasolini l’Enragé, cit. Id.

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talogata, e ignorata, veniva compresa meglio dai critici francesi. Non è un caso che questo momento riflessivo sulla rabbia fosse ritenuto a tal punto importante, da dare il titolo alla puntata del documentario che la tv francese produsse con la serie sui cineasti del tempo. Quella di Pasolini è, in effetti, una rabbia non catalogabile, unica in Italia, paragonabile – lo fece lui stesso – alla sublime rabbia di Socrate, che senza reagire da rivoluzionario, ma da arrabbiato, contestava il potere della sua città come uno «straccione che andava in giro da una palestra all’altra di Atene, alla periferia di Atene», senza quella demagogia e quel moralismo, previsti da Pasolini come pericoli probabili, di cui furono rivestiti gli atti del ’68: l’occupazione violenta dei luoghi pubblici, la rivendicazione di uno spazio democratico che poi veniva riempito da un nuovo atteggiamento antidemocratico (meccanismo fatale, come racconta George Orwell nella favola La fattoria degli animali) che egli soleva definire, con un’«odiosa formula», un «fascismo di sinistra 23». Chiesa, Potere e Televisione: dal pianto di Paolo VI al carisma di Giovanni Paolo II Il sottoproletariato di Accattone, essendo ontologicamente emarginato al punto di collocarsi al di fuori e al di là della Storia, è lo stesso che, senza sostanziali differenze, popola i film che Pasolini ambienta in altre epoche, in luoghi lontani dalle borgate romane. 23

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Id.

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È il caso de Il Vangelo secondo Matteo (1964), che egli sceglie di raccontare proprio dal punto di vista di un umile, cogliendo tutta la meraviglia del «miracolo», l’apparizione improvvisa dell’ultraterreno nella vita di una creatura semplice. Proprio ciò che sta a cuore a Pasolini: fermare sulla pellicola, come nelle pagine di un romanzo, il sentimento eterno, universale dell’incredulità disarmata di fronte allo scandalo del metafisico rapportato all’umano, la lotta tra la ragione e l’irrazionale, tra il sacrale, il mistico, il trascendente e il terreno, l’immanente, il materialistico. Facendo un passo indietro, di ciò che Pasolini da tempo pensava ed esprimeva a proposito della Chiesa, vi sono abbondanti testimonianze, scritte e filmate. È storica la sua analisi sulla crisi del cattolicesimo prodotta della laicizzazione consumistica di massa; e la presa di coscienza di questa crisi da parte del Papa, ritratto nell’immagine che diede lo spunto al celebre Pianto di Paolo VI a Castelgandolfo 24. È utile rileggerne un passo, perché il rischio della fine della Chiesa, motivo della preoccupazione del Papa, sembra da Pasolini imputato a una questione non solo consumistica, ma specificamente pubblicitaria: Uno dei più potenti strumenti del nuovo potere è la televisione. La Chiesa finora questo non lo ha capito. Anzi, penosamente, ha creduto che la televisione fosse un suo strumen-

24 Con una punta di sarcasmo, Pasolini cita così, nell’articolo «Chiesa e Potere» («Corriere della Sera», 6 ottobre 1974) l’oggetto di un precedente articolo sul «declino di un grandioso apparato di potere», pubblicato con il titolo «I dilemmi di un Papa, oggi» (22 settembre 1974). Cfr. Scritti Corsari, Ibid., p. 71 e p. 84.

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to di potere. E infatti la censura della televisione è stata una censura vaticana, non c’è dubbio. Non solo, ma la televisione faceva una continua réclame della Chiesa. Però, appunto, faceva un tipo di réclame totalmente diversa dalla réclame con cui lanciava i prodotti, da una parte, e dall’altra, e soprattutto, elaborava il nuovo modello umano del consumatore. La réclame fatta dalla Chiesa era antiquata e inefficace, puramente verbale: e troppo esplicita, troppo pesantemente esplicita. Un vero disastro in confronto alla réclame non verbale, e meravigliosamente lieve, fatta ai prodotti e all’ideologia consumistica, col suo edonismo perfettamente irreligioso (macché sacrificio, macché fede, macché ascetismo, macché buoni sentimenti, macché risparmio, macché severità dei costumi ecc. ecc.). È stata la televisione la principale artefice della vittoria del «no» al referendum 25 [sull’aborto, NdA.], attraverso la laicizzazione, sia pur ebete, dei cittadini. E quel «no» del referendum non ha dato che una pallida idea di quanto la società italiana sia cambiata appunto nel senso indicato da Paolo VI nel suo storico discorsetto di Castelgandolfo 26.

Tra i fatti che maggiormente contribuirono alla creazione dell’equivoco del Pasolini cattolico, fu il suo non schierarsi a favore dell’aborto: non per ragioni morali o cristiane (magari anche per quelle), ma per l’ascrivibilità di quella scelta al generale atto di mercificazione della vita: la possibilità di una «legalizzazione dell’omicidio», segno di una società italiana che della vita perdeva la dimensione e l’intrinseco valore. Ciò nonostante, esprimendo solo una «perplessità» in merito, Pasolini usò toni neanche lontanamente paragonabili a quelli di Fanfani e della Chiesa, che anzi riteneva non avessero «capito niente di ciò che è successo nel nostro paese in questi ultimi dieci anni: il popolo italiano è risultato – in modo oggettivo e lampante – infinitamente più «progredito» di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale». Cfr. «Mondo», 28 marzo 1974 e «Corriere della Sera», 10 giugno 1974. 26 Ivi, p. 81. 25

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Per Pasolini, la tv aveva portato la Chiesa alla crisi estrema oltre la quale, come unica soluzione, essa non avrebbe potuto – per continuare a esistere – che liberarsi da «se stessa», cioè dal «potere»: quel potere (e quei delitti di potere) che aveva caratterizzato la sua storia, ma anche l’«ignoranza» degli ultimi due secoli. Cioè il fatto di aver fermato il riconoscimento del progresso culturale e intellettuale a San Tommaso (negando l’importanza di autori come Marx), come un tempo era avvenuto con gli ipse dixit aristotelici. Se l’ignoranza paradigmatica della Chiesa era speculare all’ignoranza «qualunquistica» della borghesia (Pasolini affianca quasi sempre questi due sostantivi), la crisi dell’Istituzione ecclesiastica nel 1974 – a distanza di un trentennio – non avrebbe mai potuto lasciare speranze al futuro che, in verità, la attendeva. Tre anni dopo la morte di Pasolini, infatti, dopo la breve parentesi di Giovanni Paolo I (della cui improvvisa morte certamente egli si sarebbe interessato), l’elezione di Giovanni Paolo II avrebbe segnato un’importante svolta modernista nella storia della Chiesa. Papa Wojty¬a, abituato al palcoscenico per via del suo passato teatrale, e dotato innegabilmente di un carisma raro nel Novecento tra i personaggi pubblici, seppe riuscire nell’impresa di riformare l’aspetto della comunicazione ecclesiale, facendo della televisione un fondamentale strumento di condivisione e testimonianza del proprio pontificato, dall’elezione (cos’era quell’amabile «se sbaglio mi corrigerete», se non un geniale per quanto involontario slogan?) alla compianta conclusione. 107

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Anch’egli, come Pasolini, aveva compreso e sfruttato le immense potenzialità del mezzo, grazie al quale poté divenire il punto di riferimento non solo spirituale ma persino familiare per milioni di fedeli e, persino, di non credenti. Tuttavia, come scrisse Eugenio Scalfari nell’editoriale che commentò la sua scomparsa, Wojty¬a ebbe un grande limite, che per anni era stato il punto di forza suo e della «sua» Chiesa: Questo abbiamo visto negli ultimi tre giorni. Ieri quella voce che ha risuonato nel mondo intero per ventisette anni, prima robusta, solenne, combattiva, pastorale; poi sempre più fievole, infine ridotta a un suono disarticolato, struggente, espressione d’un corpo crocifisso nella finitudine umana e volutamente esibito come esempio e testimonianza; quella voce si è spenta per sempre. Lascia nella Chiesa un vuoto incolmabile e in tutti noi dolore e affettuoso rispetto. Ma invita anche alla meditazione su questo grande pontificato. Wojty¬a ha rivestito la Chiesa con il mantello del suo carisma personale. Ora, dopo la sua scomparsa, la Chiesa è nuda. La sua forza e le sue debolezze appaiono in tutta evidenza insieme alla forza e ai limiti del lungo regno di Giovanni Paolo II, che ci obbligano all’esame e al ricordo 27.

C’è un legame tra il carisma del Papa «tra la gente» e la conclusione del già citato articolo «Chiesa e Potere»: in esso Pasolini, provocatoriamente, ipotizzava per la Chiesa la scelta di una cultura «libera, antiautoritaria, in continuo divenire, contraddittoria, collettiva, scandalosa». Inoltre, immaginava un Papa che donasse la scenografia dei palazzi vaticani, con tutto il «ciarpa27

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«La Repubblica», 3 aprile 2005.

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me (folcloristico) di stole e gabbane, di flabelli e sedie gestatorie», agli operai di Cinecittà, e scegliere per sé una dimora più umile in «qualche scantinato di Tormarancio o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di San Damiano o Santa Priscilla». Giovanni Paolo II, pur non facendo nulla di tutto questo, fu comunque il primo e unico Papa della storia moderna a immergersi tra la folla, ad abbracciare i poveri, gli umili, i reietti, i dimenticati del Terzo Mondo. A partecipare fisicamente di una realtà che, virtualmente, veniva riprodotta su milioni di schermi, creando un seguito che è stato visibile solo nei giorni successivi alla sua morte, con i milioni di persone che hanno affollato le strade di Roma per rendergli un ultimo omaggio, con il coinvolgimento emotivo – un autentico lutto – di chi va a salutare un proprio familiare. Questo suo «mantello» carismatico se n’è andato insieme a lui, e la Chiesa – per quanto sia azzardato giudicare, dopo soli due anni, il pontificato di Benedetto XVI – è rimasta nuda, priva di un’identità che sia diversa da quel rigore teologico (sempre un po’ anacronistico) e da quel ritorno all’esercizio ministeriale del vecchio potere, lo stesso animatamente scongiurato da Pasolini. Prima di tutto la distinzione radicale tra Chiesa e Stato. Mi ha sempre stupito, anzi, per la verità, profondamente indignato, l’interpretazione clericale della frase di Cristo: «Da’ a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»: interpretazione in cui si era concentrata tutta l’ipocrisia e l’aberrazione che hanno caratterizzato la Chiesa controriformistica. Si è fatta passare cioè – per quanto ciò possa sembrare mostruoso – come moderata, cinica e realistica una frase di Cristo che era, evidentemente, radicale, estremistica, perfet-

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tamente religiosa. Cristo infatti non poteva in alcun modo voler dire: «Accontenta questo e quello, non cercar grane politiche, concilia la praticità della vita sociale e l’assolutezza di quella religiosa, da’ un colpo al cerchio e uno alla botte ecc.» Al contrario Cristo – in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione – non poteva che voler dire: «Distingui nettamente tra Cesare e Dio; non confonderli; non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di potere servire meglio Dio; “non conciliarli”: ricorda bene che il mio “e” è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o, se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto “inconciliabili”» 28.

Il Cristo che venne a portare la spada Un discorso completamente diverso, del tutto estraneo alla Chiesa e al suo potere, temporale o spirituale che sia, riguarda l’opera cinematografica che Pasolini trasse dal Vangelo di Matteo, mettendo semplicemente in scena, a suo dire, quanto è scritto. Sulle ragioni di una simile scelta, egli aveva già ironizzato tramite il suo alter ego Orson Welles (doppiato da Giorgio Bassani) nella scena dell’intervista ne La ricotta (1962): Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera? il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.

6 ottobre 1974. Nuove prospettive storiche: la Chiesa è inutile al potere, sul «Corriere della Sera» con il titolo Chiesa e potere, in Scritti Corsari, cit., p. 85. 28

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Arcaico… Cattolicesimo… e che cosa ne pensa della società italiana? Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa. E che ne pensa della morte? Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.

Dopo questo scambio di battute, Welles legge e recita Io sono una forza del passato, spiegando come «il poeta» inizi col paragonare le antiche opere architettoniche, tanto artistiche quanto popolari, alle orribili costruzioni contemporanee, per poi cantare le proprie origini contadine e il culto di un mondo che non è più, la cui arcaica religione può sopravvivere solo nell’umiltà di quelle opere. Ci troviamo di fronte a un intreccio tematico all’apparenza incomprensibile, quindi la chiave di lettura va ricercata più in profondità. Siamo sempre nell’ambito del conflitto paterno: mentre si fa strada un nuovo discorso sul valore intrinseco dell’architettura popolare (preziosa come la poesia dialettale e ogni altra cultura «particolare» preindustriale), tra i più cari al poeta e regista (è lo spunto del programma La forma della città). Pasolini sardonicamente professa un radicato animo cattolico, per poi disprezzare il popolo e la borghesia che ne sono espressione. È qualcos’altro che lo interessa profondamente. È qualcosa d’intellettuale in cui egli vede rivivere i temi cari alla sua poetica, alla sua ideologia: lo scontro tra i braccianti e i padroni, tra i figli e i padri, il cui valore non è spirituale, né consolatorio, ma appunto ideologi111

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co, estraneo a qualunque discorso religioso che non sia quello meramente inerente allo sguardo con cui la realtà di queste vicende narrate prende forma nella sensibilità dell’artista. Siamo al famoso equivoco del Pasolini religioso, cristiano, persino cattolico. Anche Enzo Biagi pare sia scivolato «nelle vicinanze» di questo equivoco. Senta Pasolini, come mai un marxista come lei trae tanto spesso ispirazione da soggetti che escono dal Vangelo, o dalle testimonianze dei seguaci di Cristo? Mah, torniamo sempre alla cosa adombrata da Bignardi. Cioè quel mio vivere in maniera molto interiore le cose. Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico, vedo sempre le cose come un po’ miracolose, ogni oggetto per me è miracoloso; cioè ho una visione – in maniera sempre informe, diciamo così, non confessionale – ma in certo qual modo religiosa del mondo. Ecco perché investo questo mio modo di vedere le cose anche nelle mie opere. Il Vangelo la consola? Mi consola? Sì Ma… non cerco consolazioni… cerco umanamente ogni tanto qualche piccola gioia, qualche piccola soddisfazione. Le consolazioni sono sempre retoriche, insincere, irreali… Ah, lei dice il Vangelo di Cristo? No, allora in questo caso escludo totalmente la parola «consolazione»…

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Che cos’è per lei il Vangelo? Per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera di pensiero, che non consola, che riempie, che integra, che rigenera, non so come dire, che mette in moto i propri pensieri. Ma la consolazione… che farcene della consolazione? Consolazione è una parola, come «speranza» 29.

È dunque chiaro come, a Pasolini, interessi esclusivamente il «testo» evangelico, non il «messaggio», che retoricamente è sempre il centro di ogni disquisizione intorno a esso. E se in lui c’è un che di religioso – lo dice esplicitamente – non riguarda l’interpretazione o la rappresentazione dell’opera, ma semplicemente il suo sguardo – personale – verso le cose del mondo. Un certo plusvalore, in parte condizionato da un’antica morale cristiana (contadina) acquisita da bambino 30, e cerTerza B: facciamo l’appello, 1971. Nell’intervista rilasciata alla televisione tedesca, nel 1973, Pasolini approfondisce questo punto: «Io ho vissuto una certa esperienza religiosa in un mondo contadino, cioè nel paese di mia madre, dei miei nonni, dei miei avi, e si può dire che la religione sia essenzialmente un fenomeno contadino; o se non contadino un fenomeno arcaico, contadino, artigianale; ora questo mondo arcaico, artigianale sta finendo è agli sgoccioli, perché è soppiantato da un nuovo tipo di cultura, di civiltà, la civiltà borghese capitalistica. […] Vorrei precisare che questo uomo abbandonato e solitario nel mondo è appunto il contadino, il borghese non è caratterizzato da solitudine, è caratterizzato dalla vita di massa. Ma è chiaro che io non intendo dire, credo, che la religione sia così legata al mondo contadino che con la fine del mondo contadino finisca anche la religione, è chiaro che la religione rappresenta un momento eterno, una categoria umana, il mistero, insomma, l’inconoscibilità, l’angoscia, ecc. Quindi è chiaro che la religione non finirà col mondo contadino». 29 30

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tamente più caratterizzato da tratti estetici, cioè da una trasfigurazione di carattere artistico, intuitivo, degli oggetti percepiti. Lo aveva precisato anche nel 1962, anno de La ricotta, in un articolo su «Vie Nuove» 31: Io non credo in Dio. Se poi nelle mie opere sopravvive un «afflato» cristiano di amore verso le cose del mondo e gli uomini – un amore voglio dire, irrazionale, ispirato – non credo di dovermene vergognare.

Ma ciò che, nell’unitarietà della visione pasoliniana, ci aspetteremmo di trovare, è nuovamente un «con te» e un «contro te». E quale miglior alter ego che il Cristo del Vangelo, per imbattersi in un figlio che vive testimoniando la sofferta divisione dal padre? A Pasolini interessa molto un passaggio del racconto di Matteo, che visualizza con un primo piano minaccioso e suggestivo del suo Cristo cinematografico: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra, io non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Perché sono venuto a dividere l’uomo dal padre suo, e la figliola dalla madre sua, e la nuora dalla suocera sua, e i nemici dell’uomo saranno i suoi familiari. Chi ama il padre e la madre più di Me e chi ama il figliuolo e la figliuola più di Me non è degno di Me 32.

La frase della spada era a tal punto importante per Pasolini, che non mancò di citarla anche nell’intervista televisiva con Biagi. 31 32

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«Vie Nuove», n. 47, a. XVII, 22 novembre 1962. Matteo, 10,34.

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Seguendo perfettamente la progressione dialettica, Cristo si oppone all’autorità paterna e crea proselitismo tra umili discepoli (resi al cinema come sottoproletari del dopoguerra 33) e giunge a dire di essere «sceso sulla terra» non per creare unione, ma divisione. Perché è nella scelta di un nuovo «Padre», che per la religione è Dio e per l’ideologia marxista è l’Assoluto hegeliano, il superamento di questa autorità. Creare divisione (lo «scandalo» del Santo di Kierkegaard in Aut-Aut) è tipico della proprietà riflessiva, critica degli antichi profeti. Ed è quanto un intellettuale moderno, disinteressato «contestatore vivente», dovrebbe sempre fare. A dire il vero, vi è anche un passo abbastanza divertente di un altro Vangelo, quello di Luca, che Pasolini certo aveva ben presente anche se non lo cita direttamente, in cui è riportato il momento esatto della nascita di quella frattura tra il Padre e il Figlio. I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. […] Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelli-

Nel film di «appunti» Sopraluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo (1963), trasmesso dalla RAI, Pasolini è ripreso sui luoghi in cui immaginava un tempo svolgersi gli episodi della predicazione di Cristo, paragonando le rive del lago di Tiberiade, la sua «umiltà, piccolezza, modestia», a certi paesaggi desolati, brulli «della Calabria o delle Puglie». 33

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genza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole 34.

Sembra quasi di poter sovrapporre al fanciullo del racconto il piccolo Pasolini, affamato di curiosità e assetato di conoscenza, abituato a far domande troppo intelligenti per non creare perplessità e ad esprimersi con tale acutezza da essere spesso frainteso o addirittura incompreso. In effetti, il passo di Luca è forse più indicativo – rispetto all’ammonimento del film – di come sia stata netta la divisione descritta nel Vangelo tra i padri e i figli. Infatti, dopo l’esperienza del Tempio, Gesù compie un atto molto importante: dichiara di non riconoscere più l’autorità paterna. Questo è quanto interessa a noi, perché rientra perfettamente nel discorso iniziale del conflitto con il padre, riconducendoci al cuore della riflessione pasoliniana 35. Luca, 2,41. È da seguire l’implicito consiglio di Pasolini, di occuparsi dei testi detti «sacri», perché in essi si trovano – se non altro – delle straordinarie opere intellettuali; nonché qualche misteriosa contraddizione, nel cui segno sembra dischiudersi l’intera concezione testuale della Bibbia: solo nelle prime pagine contiene un apparente errore narrativo, poiché Dio crea per due volte le piante e gli animali, sia prima che dopo aver creato l’umanità. Poi, crea la donna… che era già stata creata insieme all’uomo. Sarebbe interessante esplorare questi aspetti intellettuali in quelli che sono i testi di fondazione della nostra cultura (attenzione che altri popoli riservano ai propri testi) rompendo lo schematismo che riconduce esclu34 35

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Cristo, dopo aver studiato e compreso, contesta il padre e l’intera impostazione della propria società, pacificamente ma con risolutezza, com’era già accaduto a Socrate, e affrontando una simile sorte. La forma della città Il titolo di questo paragrafo avrebbe potuto essere «l’architettura prodotta da un popolo», a voler significare una riflessione assai profonda cui Pasolini giunge osservando il profilo della città di Sabaudia – ovvero quella che il titolo del programma indica come «forma» –: e cioè che, sebbene ordinata ed edificata dal fascismo, la «fascista» Sabaudia non contiene nulla di ridicolo, cioè di fascista, come ci aspetteremmo da un oggetto creato da quel regime che ridicolo era, bensì tradisce delle caratteristiche altre rispetto a quelle inutilmente imposte dalla dittatura. Questa riflessione, a mio parere, è la più interessante nel documentario d’autore Pasolini e… la forma della città 36, di Paolo Brunatto, con inserti della città (la prima parte del documentario è filmata a Orte) girati dallo stesso Pasolini, a sostegno delle tesi e delle osservazioni che condivide in un primo momento con Ninetto, poi con l’intero pubblico televisivo. Della devastazione paesaggistica dell’Italia, attuata in quegli anni, Pasolini parlava spesso nei suoi interventi, sivamente i Vangeli alla Chiesa, o alla morale cattolica (che se ne sono appropriate, anche con pesanti interventi testuali). 36 RAI, Secondo Canale, 1974.

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soprattutto sui giornali. La distruzione della «forma» dell’Italia, della sua bellezza antica rovinata irrimediabilmente da una miriade di abusi edilizi e obbrobri architettonici, era uno dei motivi per i quali l’intellettuale avrebbe voluto vedere alla sbarra gli intrallazzatori della Dc, prevedendo scenari che si sarebbero poi verificati una quindicina d’anni dopo il suo assassinio. Nello stesso anno del documentario su Orte, Pasolini era intervenuto nel programma Controcampo 37, per fare chiarezza su che cosa egli intendesse veramente criticare nel concetto di progresso: Non è affatto vero che io non creda nel progresso; io credo nel progresso, non credo nello sviluppo, e nella fattispecie in questo sviluppo, ed è questo sviluppo semmai che dà alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste, quasi tragica: appunto perché non sono un sociologo, un professore, ma faccio un mestiere molto strano, che è quello dello scrittore. Sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici; cioè tutte le sere, tutte le notti la mia vita consiste nell’avere rapporti immediati con tutta questa gente, che io vedo che sta cambiando. E questo fa parte della mia vita intima, della mia vita privata, della mia vita quotidiana, è un problema mio…

Oltre alla «gente» che stava cambiando, anche i paesaggi dell’Italia stavano perdendo la loro natura particolaristica di prodotto delle civiltà storiche e diversificate, dall’anima arcaica. Anche dal punto di vista formale, l’Italia era preda di un selvaggio livellamento architettonico: i casermoni di cemento proliferavano come un’in37

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fezione omogenea, con identiche caratteristiche tanto al nord quanto al sud, sebbene nel meridione la situazione fosse resa ancor più grave da una capillare collusione (e sovrapposizione) tra politica e malavita. I luoghi scelti da Pasolini per «mostrare» gli effetti di questo scempio (contro il quale, a dire il vero, si pronunciarono anche altri intellettuali, tra i quali Italo Calvino) erano a lui cari anche per ragioni biografiche (nei dintorni di Orte Pasolini aveva una casa in cui si ritirava a scrivere in solitudine, soprattutto nell’ultimo periodo, allorché iniziò a porre mano all’incompiuto romanzo Petrolio). Anche a Sabaudia aveva una casa, sulla spiaggia, acquistata con l’amico Moravia. Come racconta Paolo Brunatto, nella fase iniziale delle riprese del documentario Pasolini comprese immediatamente che gli era necessario parlare di una pietra o di un muretto di confine, cioè di un particolare architettonico frutto di una cultura popolare, quasi figurativa seppur anonima, definendo una stradina «un’umile cosa» e condensando proprio in questa umiltà l’immenso valore che egli vi attribuiva, quasi come un archeologo che si meravigli della perfezione senza tempo di un capitello classico, o di un’antica porta sumera. Non a caso Pasolini accosta tra loro due città, Orte e Sabaudia, profondamente diverse storicamente: la prima medievale, la seconda fascista. Ma egli trova in questa apparente inconciliabilità un elemento comune, che poi è il vero protagonista del racconto: entrambe le città sono opera del medesimo popolo, e presentano caratteri simili in quanto prodotto della stessa cultura contadina che ha in sé i caratteri della bellezza, dell’armonia. Ancora una volta è il pretesto per affermare come, anche paesag119

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gisticamente, nonostante alcuni interventi «fascisti», il regime non abbia saputo produrre quella omologazione culturale che, invece, nel ventennio successivo il neocapitalismo consumistico raggiungerà con aspetti mostruosi. Tutto ciò viene espresso da Pasolini con parole che, rilette oggi, somigliano a un vero e proprio trattato da umanista rinascimentale, confortate dalla presenza delle immagini che, nel documentario, dimostrano perfettamente quanto esse intendono descrivere. Riascoltiamolo questo passo: Io ho scelto una città, la città di Orte, cioè ho scelto come tema la forma di una città, il profilo di una città. Ecco, quello che vorrei dire è questo: io ho fatto un’inquadratura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta. Basta poi che io muova questo affare qui, nella macchina da presa, ed ecco che la forma della città, il profilo della città, della massa architettonica della città, è incrinata e rovinata e deturpata da qualcosa di estraneo. C’è quella casa che si vede là a sinistra, la vedi? Ecco, questo qui è un problema di cui io parlo con te [Ninetto, NdA.], perché non son capace di parlare in astratto rivolto al vuoto, al pubblico televisivo che non so dov’è, dove si trova. Parlo con te, che mi hai seguito in tutto il mio lavoro e mi hai visto molte volte alle prese con questo problema. Tante volte siamo andati a girare fuori dall’Italia, in Marocco, in Persia, in Eritrea, e tante volte avevo il problema di girare una scena in cui si vedesse una città nella sua completezza, nella sua interezza, e quante volte mi hai visto soffrire, smaniare perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualcosa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c’entrava con questa forma della città, con questo profilo della città che io sceglievo.

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Poco dopo, Pasolini prosegue la riflessione con toni che ricordano i suoi interessi pittorici, nonché la passione per il disegno, che peraltro pensava di riprendere a esercitare proprio in un piccolo atelier costruito, insieme alla casa, vicino Orte: Siamo adesso di fronte a Orte da un altro punto di vista, c’è la solita bruma azzurro-bruna della grande pittura nordica rinascimentale; se la inquadro vedo un totale ancora più perfetto di quello di prima, la forma della città si rivela nella sua perfezione massima. Ma se io panoramico da sinistra a destra, quello che ti dicevo prima risulta in modo ancora più grave, infatti la città finisce con uno stupendo acquedotto su quel terreno bruno, ma immediatamente attaccate all’acquedotto ci sono altre case moderne dall’aspetto non dico orribile, ma estremamente mediocre, povero, senza fantasia, senza invenzione, sono case popolari – che rappresentano assolutamente necessarie non dico di no – ma che lì sono un altro elemento disturbatore della perfezione della forma della città di Orte, come la casa che abbiamo visto prima.

Qui Pasolini, sulla suggestione di un sentimento che confessa essere di profondo scoramento, giunge ancora più in profondità, illustrando meglio i vari aspetti del problema: Ora, che cos’è che mi dà tanto fastidio, anzi direi quasi una specie di dolore, di offesa, di rabbia, la presenza di quelle povere case popolari (che comunque devono esserci, il problema era semmai di costruirle da un’altra parte, di prevedere di poterle costruire da un’altra parte)… dunque che cos’è che mi offende in loro? È il fatto che appartengono a un altro mondo, hanno caratteri stilistici completamente diversi da quelli dell’antica città di Orte e la mescolanza tra

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le due cose infastidisce, è un’incrinatura, un turbamento della forma e dello stile. Questo forse io lo soffro in modo particolare non soltanto perché ho un senso estetico forse esagerato, eccessivo, da «anima bella», ma anche perché ho tanto lavorato su dei film storici in cui questo problema era un problema pratico. Perché questo non è un difetto solo italiano, ma un difetto di tutto il mondo ormai, soprattutto del terzo mondo.

Mentre introduce un tema che è montato come un vero e proprio inserto (o flashback) del documentario, cioè la parte che paragona gli scempi edilizi italiani a quelli (addirittura peggiori, in certi casi) che egli ha incontrato all’estero, Pasolini percorre una stradina di pietre sconnessa, tipica di quella cultura popolare a lui cara, che era poi lo spunto iniziale del documentario, in parallelo con il discorso sulla salvaguardia dei dialetti, della letteratura e della poesia dialettale italiana: Questa strada per cui camminiamo, con questo selciato sconnesso e antico, non è niente, non è quasi niente, un’umile cosa, non si può nemmeno confrontare con certe opere d’arte, d’autore, stupende della tradizione italiana. Eppure io penso che questa stradina da niente, così umile, sia da difendere con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore con cui si difende un’opera d’arte di un grande autore, esattamente come si deve difendere il patrimonio della poesia popolare anonima, come la poesia d’autore, come la poesia di Dante, di Petrarca, ecc. ecc. E così il punto dove porta questa strada, quell’antica porta della città di Orte, anche questo non è quasi nulla, vedi delle mura semplici, dei bastioni, dal colore così grigio… e in realtà nessuno si batterebbe con rigore, con rabbia, per difendere questa cosa, e io sento invece proprio il dovere di difendere

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questo. Quando dico che ho scelto come oggetto di questa trasmissione la forma di una città, la struttura di una città, il profilo di una città, voglio proprio dire questo, voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende, che è opera – diciamo così – del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città, di un’infinità di uomini senza nome, che però hanno lavorato all’interno di un’epoca, che poi ha prodotto i frutti più estremi, più assoluti, nelle opere d’arte d’autore. Beh, è per questo che non è sentito, perché con chiunque tu parli è immediatamente d’accordo con te nel dover difendere un’opera d’arte di un autore, un monumento, una chiesa, la facciata di una chiesa, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico è ormai assodato, ma nessuno si rende conto che invece quello che va difeso è proprio questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare.

In un’apparente divagazione, Pasolini si sofferma a commentare immagini tratte da spezzoni girati in alcuni paesi mediorientali, nei quali ha poi ambientato (o rifiutato di ambientare, proprio per queste ragioni) sequenze dei suoi film. Per rispondere a chi, probabilmente, doveva averlo accusato di essere eccessivamente apocalittico nei confronti dell’Italia, egli dimostra che ovunque nel mondo lo «sviluppo», disgiunto dal progresso, ha devastato la bellezza e la diversificazione culturale della realtà materiale precedente 38. «Io, che sono sovversivo, secondo loro, un eversore della tradizione, mi trovo alle volte, non dico davanti a un grande edificio, a una bella piazza, ma addirittura davanti a un vecchio muretto che porti impressi nel suo umile peperino, nei pori dei suoli ornati corrosi, i segni di uno stile del passato – mi trovo con le lacrime agli occhi: lacrime di nostalgia e di rabbia. Come vedi, parlo di “passa38

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Come un appassionato ambasciatore dell’Unesco, Pasolini cita alcune di queste città deturpate da una criminale barbarie di stato: la bellissima Yazd, sul Golfo Persico, presso la quale avrebbe voluto girare alcune immagini per Il fiore delle Mille e una notte, «una città meravigliosa perché tutte le città avevano un sistema di ventilazione antico, di due, tremila anni fa, che era rimasto intatto: delle colonnine che raccoglievano il vento e lo facevano entrare dentro la città. Quindi il panorama della città era dominato da questa specie di ventilatori che sembravano un po’ dei tempietti greci arcaici, o egiziani». Su questa meraviglia perduta, brutalmente contrastata dall’azione modernizzante di scavatrici passate «come un vero e proprio bombardamento a tappeto», Pasolini ritornerà ancora durante una conferenza stampa della Lega Italo-Araba 39. Una sorte simile toccò alla «stupenda porta, gigantesca, di granito, bianca come tutto il resto della città» presso lo stato di Aden, un manufatto antichissimo dal valore inestimabile, che una sconsiderata ventata di moderna urbanizzazione distrusse senza pietà, né consapevolezza. Il riferimento al fallimento del comunismo 40, nei paesi del Terzo Mondo, è evidente: nessuna to” come storia nei suoi prodotti irripetibili sublimi: anche più umili». «Vie nuove», a. XVII, 22 novembre 1962 39 Raccolta in Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, Tomo secondo, in PIER PAOLO PASOLINI, Tutte le opere, I Meridiani, cit., pp. 2116-2117. 40 È proprio il paese più comunista dell’Asia, la Cina, ad aver commesso le peggiori devastazioni paesaggistiche in nome di uno sviluppo ultraoccidentale: valli, antichi templi, intere regioni sono stati distrutti, indipendentemente da qualunque valore archeologi-

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ideologia, tanto più quella del consumismo, poteva preservare qualunque civiltà dalla desertificazione culturale, che al contrario trasformava certe zone desertiche, di naturale bellezza (e le cui costruzioni s’inserivano nel paesaggio con un’armonia esteticamente apprezzabile) in agglomerati cementizi a dir poco disarmonici. Parlando delle mura di Sana’a, alle quali dedicò un ulteriore film di montaggio girato nei sopralluoghi per Il Fiore (trasmesso dalla RAI il 16 febbraio 1971), Pasolini tradisce quella natura trasfigurante implicita nel suo sguardo, per la quale le mura yemenite rendevano la città «posata sul deserto come una specie di rustica Venezia». Esattamente come i luoghi del Vangelo che, nella sua immaginazione, ricordavano le regioni del meridione italiano. Da questo «sogno» di suggestione orientalistica, Pasolini ritorna all’Italia, e all’oggetto centrale del documentario della RAI, la «città», un’altra città del Lazio, che ugualmente egli sceglie di mostrare per proseguire il discorso sulla «forma»: co o storico, per creare nuove infrastrutture a fronte di una crescita demografica incontenibile. Negli ultimi anni, anche l’intolleranza religiosa si è aggiunta alla distruzione delle tracce del mondo antico: è il caso dei Buddha di Bamiyan, alte decine di metri, scolpite nella pietra quasi duemila anni fa, distrutte per ordine dei talebani (musulmani iconoclasti) nel 2001 senza alcun reale motivo (nella cultura e nelle intenzioni degli scultori, le statue rappresentavano figure umane e non divine, sicché non potevano in nessun modo ritenersi idolatre. Si tratta di un ulteriore elemento di allarme, perché se da una parte il livellamento neocapitalistico prosegue, dall’altro gli integralismi e le intolleranze religiose segnano un ritorno minaccioso ai vandalismi dell’epoca delle crociate.

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Eccoci di fronte alla struttura, alla forma, al profilo di un’altra città immersa in una specie di grigia luce lagunare benché intorno ci sia una stupenda macchia mediterranea, si tratta di Sabaudia; quanto abbiamo riso, noi intellettuali sull’architettura del Regime, in città come Sabaudia. Eppure adesso proviamo una sensazione assolutamente inaspettata: la sua architettura non è niente d’irreale, di ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere – diciamo così – tra metafisico e realistico, metafisico in un senso veramente europeo della parola, cioè ricorda – mettiamo – certa pittura metafisica di De Chirico; realistico perché anche vista da lontano, si sente che le città sono fatte – come si dice un po’ retoricamente – a misura d’uomo…

In un passaggio, poi tagliato nel montaggio definitivo del programma, Pasolini paragonava nuovamente qualcosa di «vicino» a qualcosa di «lontano», e cioè certe forme di Sabaudia, sovrapposte fantasticamente a forme di minareti orientali, a moschee filmate ne Il Fiore, com’era caratteristico del suo stile. Ma nel brano che segue, fino alla conclusione del documentario, Pasolini ricava le conclusioni ideologiche, storiche, di quanto ha scelto di mostrare nelle immagini di Orte e Sabaudia: afferma cioè quel che la «scomparsa delle lucciole» aveva rappresentato, l’impotenza omologante del fascismo, che era passato sopra l’Italia senza modificarla in profondità, e la natura perversa di una vera omologazione, in atto in quegli anni. Come ci spieghiamo un fatto simile, che ha del miracoloso: una città ridicola, fascista, improvvisamente ci sembra così incantevole… Sabaudia è stata creata dal Regime, non c’è

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dubbio, ma non ha nulla di fascista, se non alcuni caratteri esteriori. Allora io penso che il fascismo, il regime fascista, non è stato altro – in conclusione – che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto in realtà fare niente. Non è riuscito a incidere e nemmeno a scalfire lontanamente la realtà dell’Italia. Sicché Sabaudia – benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante, accademico – non trova le sue radici nel regime che l’ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire. È la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleoindustriale che ha prodotto Sabaudia, non il fascismo. Ora invece succede il contrario: il regime è un regime democratico, ma quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi – cioè il potere della civiltà dei consumi – riesce invece a ottenere perfettamente; distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. Il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi, che sta distruggendo l’Italia, e ciò è avvenuto talmente rapidamente che forse non ce ne siamo resi conto: è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni. È stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi, sparire. Adesso, risvegliandoci da questo incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.

L’obiezione che, a questo punto, si potrebbe muovere a Pasolini è che, nonostante l’incapacità di «scalfire» (o di produrre) l’identità del popolo italiano, quel «gruppo di criminali al potere» abbia tuttavia reso possibile un primo momento di progresso nel Paese, proprio nel senso di una modernizzazione che, diversa127

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mente, un regime con meno «polso» avrebbe probabilmente faticato a realizzare. Renzo De Felice, noto (e discusso) studioso del fascismo, ha dedicato diversi saggi 41 alla politica italiana del Ventennio, analizzando minuziosamente un’ampia documentazione interna al fascismo, fino alla conclusione che esso abbia potuto vantare caratteri di razionalità e modernità unici nella storia italiana fino a quel momento. È ormai noto, infatti, che il regime coincise in Italia con un momento di notevole impulso allo sviluppo e con una manifesta modernizzazione nella cultura, nell’economia, nell’urbanistica, così come nell’architettura e nelle arti figurative, senza trascurare gli interventi nel campo delle strutture di previdenza e assistenza sociale. Sugli intellettuali del tempo, del resto, alcuni di questi aspetti avevano esercitato un richiamo indiscutibile (Pirandello, ad esempio, trovò molte affinità con gli ideali di ordine e razionalità apportati dal fascismo). La riflessione di Pasolini va oltre la questione della modernizzazione: egli insiste soprattutto sulla questione del vero progresso del paese, che non è tanto da ritenersi un merito della lungimiranza del potere centrale (repressivo e, in certi aspetti, inconsistente), ma del più generale patrimonio umano, culturale, individuale degli italiani 42, cioè insito in un popolo dalle «radici» rustiche, Cfr.: Le interpretazioni del fascismo (Laterza, 1976), Mussolini (Laterza, 1983), Intellettuali di fronte al fascismo (Bonacci, 1985) e Intervista sul fascismo (Laterza, 1975), oltre alla monumentale biografia di Mussolini, in più volumi, pubblicata da Einaudi. 42 È dello stesso avviso Federico Zeri, cfr. il suo ultimo libro Caro Professore, Di Renzo Editore, Roma 1998. 41

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provinciali, storicamente definite, che il fascismo dominò tirannicamente senza riuscire a modificare. Il fascismo si era limitato ad organizzarne la vita, credendo di poter competere con i modelli sociali di altri paesi, più progrediti, in cui esisteva invece un reale disegno di progresso, favorito da una politica autenticamente liberale ed efficace. Un equivoco in cui, secondo Pasolini, anni dopo cadde anche la Democrazia cristiana: Le Opere del Regime non sono Opere del Regime. Sono soltanto Opere che il Regime non può non fare. Le fa, naturalmente, nel modo peggiore (e in questo la Democrazia cristiana non si distingue dagli altri Regimi) ma, ripeto, non può non farle. Qualsiasi governo in Italia verso la fine degli anni Trenta avrebbe bonificato le Paludi Pontine: il Regime Fascista ha elencato tale bonifica, di comune amministrazione, tra le proprie Opere. Di tutte le Opere che Andreotti liturgicamente elenca come Opere del Regime Democristiano, si potrebbe ripetere la stessa cosa: il Regime Democristiano non poteva non farle. E, ripeto, le ha fatte malissimo 43.

Qui siamo nel segno di quella epopea clerico-fascista, per usare un termine assai presente nel «gergo» pasoliniano, che dopo il boom economico consolidò un potere dagli stessi caratteri repressivi e polizieschi, rafforzato da un nuovo strumento di propaganda, di costruzione di consenso e di autolegittimazione, la televisione, che non influiva tanto sull’orientamento politico degli italiani, quanto ne modificava profondamente soprattutto i modelli di comportamento (consumo) e di coscienza, dunque il pensiero, a tal punto omoge43

18 febbraio 1975. I Nixon italiani, in Scritti Corsari, cit., p. 137.

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neizzato da spegnere (o da rendere inefficace) quasi ogni movimento di opposizione o di «rabbia» verso gli artefici di questo nuovo status quo 44. Una lingua «di protesta»: nel cuore della realtà Scelgo come ultimo argomento da trattare la questione della lingua 45: sebbene essa sia il punto di partenza del discorso di Pasolini, anzi il suo effettivo codice espressivo (che si tratti di rappresentare la realtà con le parole o con la realtà stessa), è però fondamentale aver prima chiari i punti del suo pensiero, i nodi teorici, che vengono espressi da una lingua non sempre omogenea ma viva, come ciascuna delle sue rappresentazioni. Molti ritengono che uno dei limiti dell’artista Pasolini sia stato quello di aver cercato sempre, quasi ossessivamente, nuove tecniche espressive, nuovi linguaggi, senza essere mai giunto al perfezionamento di alcuno di essi. Questo discorso riguarda solo una critica di ordine estetico alla sua opera creativa: io ritengo al contrario che non sia una questione di limiti espressivi, ma di eccessivo tormento interiore, quello per cui alcune opere di Pasolini presentano caratteristiche oggettivamente esaspeIn Francia, invece, l’impostazione maggiormente democratica della società, ancor oggi vede nascere movimenti di «rabbia» organizzata, per lo più giovanile, che in episodi anche recenti dimostra la possibilità di un’azione – per così dire – periferica, che riesce ad influire anche sulle scelte politiche «centrali». 45 Per un approfondimento dello studio sulla lingua, cfr. P. P. PASOLINI, Nuove questioni linguistiche in Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972, p. 5. 44

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rate. Forse opportunamente questo tormento è stato «confinato» in alcuni testi artistici, piuttosto che minare l’acutezza o la perseveranza degli interventi civili. Di questo limite caratteriale, generato da un incontenibile impeto emotivo, Pasolini era ben cosciente fin dall’epoca dei primi film, delle lettere sui giornali: So bene che le mie lettere su «Vie Nuove» sono piene di difetti: sono implacabili «spie» di stati d’animo spesse volte inutili, fittizi, falsati dall’immediatezza delle circostanze che li determinano, indifesi, immaturi, eccessivi… non bisognerebbe mai scrivere, neanche una riga, nei momenti in cui le emozioni sono nel loro farsi, ancora inattuate. È il segreto dello stile! Invece la sede stessa in cui stendo queste risposte, è, per definizione, contraria al distacco: quella che i critici ermetici chiamavano la «decantazione» delle passioni 46.

Al di là di questo, esiste anche un vero e proprio codice linguistico-espressivo cui Pasolini faceva ricorso. Ne abbiamo visto un esempio a proposito degli slogan. E c’è pure una figura retorica centrale, che egli non mancò di citare – quasi a eleggersi oggetto di una critica letteraria – nel programma di Biagi, ed è la figura che maggiormente può spiegare l’ambiguità, o contraddittorietà, del suo discorso civile ed estetico: C’è un amore oppositorio, inconciliabile, che si potrebbe chiamare l’ossimoro, cioè il definire le cose per opposizione, ragazza bionda e mora per esempio. Se una figura centrale nelle mie opere è questo ossimoro, questo definire le cose per opposizione, questo contrasto insanabile, può darsi che que-

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«Vie Nuove», n. 47 a. XVII, 22 novembre 1962.

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sto dia alle mie opere l’impossibilità di essere consumate in modo normale, quindi susciti delle reazioni di cui lei [Biagi, NdA.] parla 47.

A questa dichiarazione di «inconsumabilità», si aggiunge un’ulteriore dichiarazione, rilasciata qualche anno prima (1966) sul set di Uccellacci e uccellini, a proposito dello scandalo naturalmente legato alla sorte di ogni autore che sia autenticamente tale, cioè disposto a esprimersi senza compromessi né mediazioni: Un autore, quando è disinteressato e appassionato, è sempre una contestazione vivente; appena apre bocca, contesta qualcosa, il conformismo, ciò che è ufficiale, ciò che è statale, ciò che è nazionale, ciò che insomma va bene per tutti. Quindi non appena apre bocca, un artista è per forza impegnato, perché il suo aprire bocca è scandaloso, sempre.

Un autore è dunque un ossimoro vivente, che si esprime sempre per opposizione dialettica alle cose del mondo. Gli altri elementi del discorso, a dimostrare la fluente omogeneità teorica dell’universo pasoliniano, possono seguire questo filo concettuale, sempre fondato su quell’aspetto della contestazione che – ricordiamolo – Pasolini aveva impostato sul conflitto con l’autorità paterna. Noi capiamo le metafore agricole del Vangelo, ma parli con un giovane – nato in questi anni, educato in questi anni – di moggio, di maggese, di bilancia, insomma usi la terminologia agricola, per lui è una terminologia incomprensibile, bisogna tradurgliela, addirittura non capisce il senso di certe

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Terza B: facciamo l’appello, 1971, cit.

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parole. Cioè voglio dire che il Vangelo e Cristo sono espressione di un mondo contadino arcaico, che è sopravvissuto per duemila anni, perché fino a vent’anni fa il mondo non era molto cambiato in sostanza; valeva ancora il passare delle stagioni, i contadini lavoravano i loro campi, aspettavano che tornasse il proprietario, cioè c’era l’eterno ritorno, il problema del bene e del male, ecc. ecc. ma negli ultimi cinquesei anni in Italia – negli altri paesi ancora prima – c’è stato un rovesciamento di tutto questo. La produzione non è più un fatto ciclico della terra, la produzione è un fatto ciclico di quella seconda natura che è l’industria 48.

Com’è solito fare, quando affronta una questione intellettuale, Pasolini inizia il ragionamento con una contestualizzazione storica, tipica del suo sentirsi responsabile per via del suo mestiere di studioso, il che giustifica l’intervento nella trasmissione Sapere, sul Programma Nazionale, del 1968, nell’ambito di quella tv che aveva ancora un impegno pedagogico e, in questo caso, persino scolastico: L’italiano è stata una lingua soltanto letteraria, per molti secoli, cioè fino a dieci, vent’anni fa. Mentre, per esempio, il francese si è formato come lingua unitaria per ragioni politiche, burocratiche e statali, l’italiano è diventato una lingua unitaria, che comprende tutta l’Italia, per ragioni puramente letterarie. E questo prestigio letterario è nato a Firenze in una situazione storica naturalmente molto diversa dall’attuale; i tre grandi padri dell’italiano, cioè Dante, Petrarca e Boccaccio, si sono imposti al resto della popolazione italiana per ragioni di prestigio letterario.

Frammento raccolto in Pier Paolo Pasolini Poeta di Gabriella Sica, Magazzini Einstein, RAI, 2005. 48

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Accennando ai contenuti di quella che fu, precedentemente, una crisi personale dell’autore, tale da sintetizzarsi successivamente in un cambio repentino di tecnica espressiva, egli naturalmente fa subito un collegamento tra la lingua italiana e la società che la rende viva, criticando i cambiamenti che in quel tempo entrambe stavano rivelando nel segno dell’appiattimento culturale, fortemente accelerato dalla rapida diffusione dei mezzi di comunicazione di massa: L’italiano va cambiando nel senso che si sta facendo veramente unitario. Ripeto, fino a quindici, venti, trent’anni fa non si poteva parlare di un italiano veramente unitario; si può cominciare a parlarne adesso, anche per merito della televisione, dei giornali, oppure della vita statale che è infinitamente più unita che molti anni fa; le infrastrutture sono enormemente accresciute, ma il centro linguistico dell’italiano non è più letterario, e non è più Firenze, ma è tecnico o tecnologico ed è Milano. Secondo me l’italiano è unito soprattutto dal linguaggio tecnico; mettiamo la parola «frigorifero»… tutti gli italiani la adoperano, dalla massaia di Milano alla massaia di Palermo, tutte usano la parola «frigorifero»; cioè le parole tecniche sono una specie di cemento, non so come dire, di patina che sta livellando e unificando tutto l’italiano. […] Non è né migliore né peggiore, questa è la realtà. Io tendo certo ad amare di più – alla guida di una lingua nazionale – una lingua letteraria, ma se questa lingua invece di essere letteraria è tecnologica, non posso fare altro che prenderne atto.

Questo è proprio il caso (l’unico di cui il lettore mi perdonerà) di dire un po’ ironicamente «se Pasolini fosse vivo oggi…», chi sa quale agonia e struggimento coverebbe il suo animo, nel vedere la lingua di Dante e 134

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Petrarca devastata, più che i paesaggi italiani, dai neologismi, insidiata da decine, centinaia di termini esplosi con l’affermazione dell’elettronica computerizzata, imbalsamata in clichè ed espressioni convenzionali ormai inesorabilmente passati dalla tv agli spettatori, un misto di parole mutuate (con una goffaggine spesso grossolana) per lo più dall’inglese, in una specie d’impasto linguistico di stampo mediologico che ha impoverito ogni espressività, persino sentimentale. E se la tv livella la lingua e la riduce ad un codice convenzionale, dal numero di parole spaventosamente ristretto, la scuola sembra non riuscire a compiere nulla di risolutivo contro questo fenomeno: sorvolando sul discorso dei telefoni cellulari, i nuovi libri di testo, nonché i corsi e persino la concezione stessa delle modalità didattiche dopo la riforma Moratti (l’inquietante sistema dei crediti formativi), sembrano anzi concepiti perfettamente all’interno di questo sistema formativo televisivo (nel quale i quiz hanno sostituito le domande di un tempo, e il grado di cultura degli studenti, scoraggiante, è proporzionale alla «fortuna» nel segnare le caselle giuste). Per molto meno, Pasolini scelse una drastica risoluzione: abbandonare quella lingua – sensibilmente migliore di quella contemporanea – come vera e propria protesta verso la società: Ho dato – di questo mio passaggio dalla letteratura al cinema – varie spiegazioni. La prima è stata la più ovvia, cioè ho pensato di aver voluto cambiare tecnica. Tutta la mia produzione letteraria è caratterizzata dal fatto che ho cambiato spesso tecniche letterarie, e pensavo che il cinema fosse una tecnica nuova. Poi ho capito che questo non era vero, perché

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il cinema non è una tecnica letteraria ma è un’altra lingua. Allora ho pensato, in maniera forse un po’ avventurosa, esagerata, di essere passato al cinema, cioè a un’altra lingua, per abbandonare l’italiano. Cioè per esprimere una specie di protesta contro l’italiano e contro la mia società, una specie di rinuncia alla nazionalità italiana. Ma neanche questa in fondo è una spiegazione totale. La spiegazione vera secondo me è questa: le ho detto che il cinema è una lingua, transnazionale e transclassista, cioè un negro del Ghana, un americano e un italiano quando usano questa lingua del cinema, la usano tutti alla stessa maniera. È un sistema di segni che è valevole per tutte le possibili nazioni del mondo. Ora, qual è la caratteristica principale di questo sistema di segni? È quella di rappresentare la realtà non attraverso dei simboli, come sono le parole, ma attraverso la realtà stessa. Se per esempio io voglio rappresentare lei, rappresento lei attraverso lei. O comunque attraverso qualcun altro in carne e ossa, che è analogo a lei. Cioè rappresento sempre la realtà usando la realtà stessa. Questo mi permette – facendo il cinema, cioè usando questo mezzo di espressione artistica – di vivere sempre al livello, e nel cuore della realtà 49.

La realtà, che in Empirismo Eretico 50 Pasolini arriva a chiamare «cinema in natura», è per lui più fedelmente rappresentata nel cinema (con il montaggio, cioè con la scelta letteraria di parti rappresentative di essa) che non nella televisione: Le tecniche audiovisive colgono l’uomo nell’atto in cui egli dà l’esempio (volendo o non volendo). Per questo la televisione è così immorale. Perché, non fondandosi appunto sul

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Intervista a cura della televisione tedesca, 1973. Cit., p. 137.

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montaggio, essa si limita a essere una tecnica audiovisiva allo stato puro: è molto vicina, dunque, a quell’ininterrotto «piano sequenza» che è virtualmente il cinema. I «piani sequenza» della televisione mostrano gli uomini naturalisticamente: cioè fanno parlare la loro realtà per quello che essa è. Ma poiché l’unico intervento non naturalistico della televisione è il taglio della censura, fatta in nome della piccola borghesia, ecco che il video è una fonte perpetua di rappresentazione di esempi di vita e ideologia piccolo-borghese. Cioè di «buoni esempi». Ecco perché la televisione è ripugnante almeno quanto i lager. […] Mi ci è voluto il cinema per capire una cosa enormemente semplice, ma che nessun letterato sa: che la realtà si esprime da sola; e che la letteratura non è altro che un mezzo per mettere in condizione la realtà di esprimersi da sola quando non è fisicamente presente. Cioè la poesia non è che una evocazione, e ciò che conta è la realtà evocata che parla da sola al lettore, come ha parlato da sola all’autore 51.

Anche se, in definitiva, Pasolini tende a calcare un po’ la mano, coi suoi slogan, come si vede dalla similitudine (certamente fuori luogo) tra la televisione e i lager, ad ogni modo non va perduta la complessità e multilateralità della sua riflessione. Se c’è un insegnamento che gli si può riconoscere, è quello di aver mostrato come la realtà vada sempre osservata da vari angoli prospettici, specialmente in quegli aspetti che divengono automaticamente «scandalosi», cioè tali da infrangere un’idea media: quella che oggi si è consolidata nell’atteggiamento che egli, ormai rassegnato, definiva come sentimento medio della vita che hanno gli uomini. 51

Id.

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Occorre ricordare che questa sua sincerità, e l’impegno per la ricerca delle «verità parziali» verso le quali da intellettuale si sentiva responsabile, gli costarono – oltre alla morte – una profonda solitudine in vita. Nonostante l’amicizia e il sostegno di grandi e piccoli personaggi, e il sentimento di accoglienza che il suo sottoproletariato gli riservava (come leggiamo in moltissimi episodi), nella sua ricerca fu e rimase sostanzialmente solo: non soltanto umanamente, quanto professionalmente. È sbagliato dire che egli sia stato l’«unico» intellettuale in senso generale. Ma che lo sia stato dal punto di vista civile, e abbia in solitudine affrontato vere e proprie inchieste-indagine (volutamente ignorate da istituzioni e giornalisti), è a tal punto vero, che quella ricerca della verità causò il suo assassinio 52.

Per una forma di contrappasso dantesco, nel 2005 è stata proprio la televisione dei «reality» show – cioè quella che da tutti è ritenuta essere la peggiore – a restituire un po’ di verità su quanto accaduto la notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. Pino Pelosi, unico accusato dell’omicidio, ha raccontato la propria verità, cioè che a uccidere Pasolini fossero stati almeno tre uomini, che all’epoca lo indussero al silenzio, con minacce di morte. La verità, come in quasi tutte le altre stragi e infamie della storia italiana, molto probabilmente non verrà mai alla luce. 52

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CONCLUSIONE

Nelle pagine che precedono, abbiamo tentato di ricostruire, a distanza ormai di più di un trentennio il senso e il significato degli interventi che Pasolini realizzò per la televisione, cercando di mettere in luce la singolarità del rapporto che eggli ebbe con un mezzo di comunicazione che stava diventando sempre più invasivo. Giunti a questo punto occorre tuttavia chiedersi quale sia la lezione che si può ricavare oggi da questi interventi; che cosa in essi appare datato e che cosa è ancora attuale. A mio modo di vedere ciò che in quegli interventi suscita ammirazione è innanzitutto la grande umanità del nostro autore, che rischia di apparire forse appannata, sia dal passare del tempo sia dall’insorgenza di altre e più complesse questioni, ma che conserva comunque una forza espressiva ancora intatta, pienamente restituita dall’immagine televisiva. Una umanità che avverte il proprio isolamento con angoscia, quasi con disperazione, temperata solo dalla saldezza delle convinzioni intellettuali, come ben si vede in questo brano del 1969: Io sono completamente solo. E, per di più, nelle mani del primo che voglia colpirmi. Sono vulnerabile. Sono ricattabile. Forse, è vero, ho anche qualche solidarietà: ma essa è puramente ideale. Non può essermi di nessun aiuto pratico. È

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chiaro che, nella lotta contro il potere, bisogna porre una certa forma di potere: se non altro come prestigio. In questo momento, grazie a Dio, mi aiuta, in tal senso, miserando, il successo delle mie opere all’estero […] Fatti questi calcoli, se tornano, potrò conservare la mia indipendenza: la mia provocatoria indipendenza. È questa infatti […] che fa nascere contro di me tante ostilità. La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza 1.

Questo isolamento, che Pasolini scontò proprio in virtù del suo impegno civile, fu la costante, non solo del suo “mestiere di vivere”, per dirla con Pavese (altro intellettuale chiuso nella sua indicibile solitudine), ma di tutta la sua esuberante creatività e di tutta la sua ricerca di maitre à penser: perché sempre e comunque oggetto di una incessante, intensa riflessione. Non a caso il nostro principale interesse, come i lettori avranno compreso, si è concentrato soprattutto sulla figura di un intellettuale “militante”, che non disdegnava di ricorrere agli apparati di diffusione culturale di massa, che per altri versi condannava non in quanto tali ma in quanto strumenti adoperati con logiche di potere a lui estranei. Una figura di intellettuale che, secondo una vulgata divenuta ormai luogo comune, cadde nella contraddizione, da un lato, di prestarsi ed apparire in televisione e dall’altro di giudicarla con rabbiosa negatività. Sfatate le confusioni, dovute a un’errata interpretazione di un abusato slogan – «la tv è il diavolo» – è bene tuttavia aver presente che la televisione di quegli anni – da Pasolini duramente attaccata – dava nondimeno vo1

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«Il caos», n. 2 a. XXXI, 11 gennaio 1969.

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ce alle sue parole. Esse finivano per avere un senso definito, un significato profondo, nei confronti dei telespettatori, che in quegli anni erano milioni! L’elemento interessante e inedito – finora ignorato – sta quindi, al contrario, proprio nel rapporto “laico” che Pasolini stabilì tra il mezzo televisivo e gli intellettuali. Un circuito che allora funzionava, produceva cultura, spingeva a riflettere; e che oggi è andato completamente perduto, rimosso dalle pratiche della “postmodernità”. Pasolini ebbe un’eco notevolissima nella televisione di quegli anni, nonostante l’esiguo numero delle sue apparizioni. E applicò nel modo migliore l’intuizione che il messaggio di un intellettuale fosse tanto più efficace quanto più grande l’effetto che era in grado di riscuotere nel pubblico. Dopo più di tre decenni, quelle riflessioni sono ancora vivide nella memoria, sia di coloro che ne furono osservatori allora, sia di quanti ne sono studiosi oggi. Non a caso in altri, recenti documentari sulla sua figura, alcuni frammenti di quelle trasmissioni vengono riutilizzati, senza che ne risulti affatto perduta la patina di una antica, talvolta persino sorprendente, attualità. Erano davvero “altri tempi”. È quasi un luogo comune, ma come sarebbe, oggi, possibile biasimare la convinzione – che contrapponeva Pasolini a Enzo Biagi – che nella televisione di allora fosse vietato dire tutto ciò che si volesse? Eppure è proprio da quel circuito intellettuale-televisione-società che quelle parole sono giunte a noi, con tutta la carica di denuncia e di critica che contenevano. Il paradosso è un altro. Il paradosso è che, rispetto a quegli anni lontani, la proliferazione degli schermi e 141

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dell’offerta, quindi delle linee editoriali, non ha risolto quel problema di libertà ma, anzi, lo ha aggravato. Oggi un intellettuale come Pasolini non potrebbe disporre di quegli spazi e di quelle possibilità argomentative; si vedrebbe sistematicamente negato non già il diritto di esprimersi liberamente, bensì il semplice accesso ai mezzi di comunicazione; sarebbe scomodo, cancellato dalla televisione 2. Forse non troverebbe spazio neppure sulla stampa quotidiana o settimanale, tanto diversa essa oggi appare rispetto agli anni in cui un grande direttore del «Corriere della Sera» come Piero Ottone “osò” ospitare gli articoli di Pasolini nella prima pagina del giornale. La causa di questo impoverimento complessivo sta in quel fenomeno – la cui portata sembrava a volte sfuggire persino a Pasolini – che già allora cominciava a manifestare i suoi primi segni e che, nella sua analisi, veniva appena adombrato dallo scontro tra la nostalgia del vecchio mondo contadino e l’allarme per il rivelarsi di una società violenta e indifferente. Era l’emergere di quella insidiosa forma di populismo che, oggi più che mai, dà vita e legittimità ad un’unica realtà, buona per tutti, contro la quale non sono ammesse obiezioni. A differenza dell’epoca in cui Pasolini scriveva le sue opere e girava i suoi film, la società italiana – per tutto ciò che abbiamo cercato di ricostruire in questo libro – è Un’immediata verifica di questa osservazione è il totale silenzio della televisione, il completo oscuramento della notizia della proposta – avanzata dal sindaco di Roma Walter Veltroni e sottoscritta da più di settecento intellettualli di rilievo – di riaprire, alla luce di una recente controindagine, l’inchiesta sull’uccisione del poeta. Cfr. il «Corriere della Sera» del 20 giugno 2007. 2

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andata sempre più evolvendosi proprio verso una degenerazione populista che fa comodo a tutti, tanto a destra quanto a sinistra. Questo populismo ha lentamente sostituito il vecchio potere di matrice post-fascista e clericale con un nuovo potere (questo sì, denunciato da Pasolini), che si legittima soprattutto nella sua dimensione mediatica. Accolta come alternativa ideologica, esso ha colmato il vuoto apertosi nei partiti italiani all’indomani del crollo del comunismo sovietico. Un populismo di seconda mano, una imitatio che scimmiotta l’uso commerciale della televisione applicato alla politica, concorrendo all’irreversibile trasformazione della televisione nell’autentico contenuto della politica attuale. L’intero sistema della comunicazione è divenuto un “grande gioco”, i cui toni sono sempre esasperati e infantili. Un sistema ludico che si prende molto sul serio, che non ammette concorrenti, e che infatti non tollera – caso unico in Europa – il sopravvivere, in televisione, di un genere come la satira. Perché il linguaggio della televisione è ormai quello di un’interminabile liturgia di massa, priva di profondità psicologica, immune da “veri” contrasti. Nel 1975 Pasolini è stato ucciso. Allora sembrò un ammonimento generale a quanti avevano ancora il coraggio di far sentire la propria voce dissonante. L’assassinio del poeta come un apologo, dunque, una anticipazione, brutale e privata, di quella pervicace «rimozione» che sarebbe poi divenuta – nell’Italia dei decenni successivi – la consuetudine di tanti aspetti e misteri della realtà italiana. 143

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Pasolini fu ucciso – in uno dei tanti misteri italiani che erano la sua passione – forse perché ritenuto troppo libero di dire ciò che voleva, e con gli strumenti che aveva a disposizione; proprio perché troppo coinvolto nelle più disparate controversie. Paradossalmente si potrebbe osservare che oggi in Italia non si uccide più (diversamente da quanto accaduto di recente in Russia con l’assassinio di Anna Politkovskaja), semplicemente perché in Italia nessuno ha più strumenti per manifestare davvero le cose che pensa. La ricerca compulsiva di un’apparizione in tv non è più esclusiva dei ceti popolari, ma soprattutto dei professionisti, delle persone di cultura, dei rappresentanti delle istituzioni. Una volta giunti sullo schermo, non conta ciò che si è in grado di esprimere: lo scopo è già raggiunto, perché il problema – com’è emerso nell’interpretazione pasoliniana – non sta nel contenuto, bensì nella cornice. Peccato che a un intellettuale così onesto e indipendente, a un talento di tale ampiezza, sia stata tolta così presto la possibilità di esprimere il proprio punto di vista, la propria elaborazione del mondo, la propria visione della storia. Un sacrificio a tutt’oggi ancora svilito da quanti, sempre più, sembrano allinearsi a quel cinico genere di interpretazioni così “candidamente” espresso da Andreotti all’indomani dell’uccisione del poeta: «Pasolini quella morte se l’è cercata» 3. Pier Paolo Pasolini è un intellettuale fortemente radicato nel suo tempo e nella sua epoca, più di tanti altri. Il suo insegnamento forse non regge alle mutazioni della storia italiana e mondiale di questi ultimi tren3

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Citata da Enzo Siciliano nella sua biografia di Pasolini (p. 475).

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t’anni. E la sua solitudine in vita rappresentò probabilmente l’anticipazione, umana e personale, del suo destino. Come scrisse il 3 novembre 1975 Enzo Siciliano su «Stampa Sera», «il suo cuore era fermo là, non aveva creduto ai possibili riscatti della società, del benessere, non aveva creduto all’encomiastica di certi politici. L’umile Italia ormai versava nella bruttura e nel fango: sparito il suo dolore, sparite le sue timide vergogne, essa ha il volto della violenza, una violenza immedicabile. […] Il suo discorso è rimasto a mezzo, in un momento in cui sembrava che la sua mente fosse ricchissima di contenuti, di parole inespresse e anche di vaticinio. Ripeto: era un uomo dolcissimo, un amico sollecito. […] Aspettavo per oggi, per domani una telefonata: dovevamo studiare i modi in cui mettere mano alla raccolta. L’umile Italia ormai irresolubilmente violenta l’ha ucciso. La telefonata non verrà. Non sentirò la sua voce dire, ciao, sono Pier Paolo».

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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COMUNICAZIONE E SPETTACOLO Collana diretta da Franco Monteleone

1. Cecilia Martino, Comunità mediatiche. Il sacro e il profano delle nuove tribù tecnologiche, 2002. 2. Massimiliano Parcaroli, La telenovela brasiliana, 2003. 3. Barbara Maio, Christian Uva, L’estetica dell’ibrido. Il cinema contemporaneo tra reale e digitale, 2003. 4. Elisa Giomi, Il piacere di vivere. Analisi di una soap di successo e del suo pubblico, 2004. 5. Geraldina Roberti, Mediamente giovani. Percorsi, stili e consumi culturali, 2005. 6. Gabriele Policardo, Schermi corsari. Pasolini in televisione, 2008. 7. Eva Bajas]evic, Una radio contro. L’emittente B/92 nel dramma jugoslavo, 2007.

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