Fare televisione. I format
 8858105613, 9788858105610

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Libri del Tempo Laterza 469

Axel M. Fiacco

Fare televisione I format

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2013

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0561-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Far televisione, oggi come un tempo, è un mestiere più difficile di quel che sembra. Le variabili che entrano in gioco sono davvero tante e la situazione non è mai completamente sotto controllo. Sbagliare un programma è, ed è sempre stata, una possibilità tutt’altro che remota. Ciò che è cambiato in maniera drastica è il contesto. Fino a non molti anni fa si operava in una situazione che non è improprio definire «protetta». In pratica il mercato era diviso tra le poche reti nazionali e le tante, ma molto frammentate, reti locali. Ognuna aveva il proprio bacino di pubblico e gli equilibri erano abbastanza consolidati: le reti nazionali si dividevano la torta della stragrande maggioranza dei telespettatori; quel che rimaneva era bottino delle reti locali, che però potevano contare su uno zoccolo duro di affezionati. Il sistema si reggeva in tutte le sue parti e non c’era da aspettarsi troppe sorprese. Sbagliare un programma voleva dire, se proprio le cose si mettevano male, spegnere la fascia oraria di quella rete per un po’. Poi, quando si trovava di nuovo il programma giusto, le cose si riequilibravano subito, come un sistema di vasi comunicanti ben calibrato. Tutti sappiamo che adesso le cose non sono più così. Lo scenario sopra descritto ci sembra appartenere a un remoto passato, e questa sensazione di lontananza è dovuta al fatto che il cambiamento che è sopravvenuto può essere tranquillamente definito epocale, perché niente sarà più come prima. Si è arrivati a uno di quei punti di svolta che, in ogni campo, periodicamente, segnano un «prima» e un «poi», scandiscono le epoche e sparigliano definitivamente le carte. Non è questa la sede per fare l’elenco ragionato dei mutamenti che si sono succeduti in un lasso di tempo tutto sommato breve. ­­­­­V

Basta sottolineare qual è il risultato finale di questa trasformazione, in parte ancora in corso. Da un contesto dai confini tutto sommato ristretti e conosciuti, relativamente semplice e chiaro (e quindi, fino a un certo punto, prevedibile), si è passati a uno scenario multipiattaforma dai confini fluidi e labili, cognitivamente poco strutturato, estremamente complesso, frammentato e imprevedibile, con un sistema di alleanze e di blocchi contrapposti tutt’altro che stabile. Oltre che – ed è questo il punto principale – dannatamente competitivo. È una realtà sotto gli occhi di tutti: ma la cosa strana è che solo pochi ne hanno tratto la corretta conclusione. E la corretta conclusione è una e solo una: fare televisione è diventata una vera e propria guerra; una guerra dove non si fanno più prigionieri. Perdere un telespettatore con un programma sbagliato può significare perderlo per sempre, perché avrà approfittato dell’occasione per trovare un’alternativa più allettante, tra le centinaia possibili. È una guerra di tutti contro tutti. Le grandi reti generaliste, oltre a continuare a scontrarsi tra di loro, come è sempre stato, devono combattere la quotidiana battaglia contro nemici che si annidano in tutte le piattaforme possibili (digitale, satellite, internet, iptv ecc., senza contare i «competitor mascherati», come per esempio i videogiochi, che, pur facendo parte di altre categorie, sottraggono anch’essi porzioni significative di telespettatori). La loro missione impossibile è di cercare in tutti i modi di frenare o perlomeno limitare l’erosione degli ascolti, che inevitabilmente si accompagna a un aumento dell’offerta così rigoglioso. I piccoli (per modo di dire: la grandezza sta diventando un concetto relativo) canali, oltre a confrontarsi con i colossi, lottano disperatamente tra di loro, in una battaglia campale fatta a colpi di micro-share, per sottrarsi l’un l’altro le prede rubate alle reti generaliste. Ogni giorno nascono competitor nuovi e non è più possibile (e tantomeno ha senso) trovare un concorrente unico con cui confrontarsi e su cui modellare la propria offerta. Più che una guerra classica, è una guerriglia: spietata, sporca e senza esclusione di colpi. Lo scenario mediatico è diventato un «teatro delle operazioni» nel senso bellico del termine. Ogni canale è un’armata, che spesso, insieme ad altre armate alleate, fa parte di un esercito più vasto, che poi è il network. Ogni giorno questi eserciti e armate lanciano le proprie truppe (i programmi) contro quelle degli avversari, in battaglie dall’esito tutt’altro che scontato. ­­­­­VI

Non esistono note di merito, né valgono crediti pregressi. Vincere una battaglia non significa vincere anche le successive, e non serve nemmeno ad accumulare vantaggi. Ogni giorno si riparte (quasi) da zero, perché lo scenario cambia e si trasforma continuamente, in un vorticoso mutamento di contesti e situazioni, che vanifica ogni esperienza passata e annulla perfino il valore delle curve di apprendimento. Cosa significa tutto ciò? Tante cose, a dire il vero. Ma, per quel che ci riguarda direttamente, significa una cosa sola, ben precisa. È una guerra che bisogna combattere con armi di nuovo tipo. Quelle vecchie non funzionano più. Andare all’assalto con clave e bastoni, o con qualche vecchia Colt a sei colpi, è un suicidio, nell’epoca delle armi nucleari. Fuor di metafora: bisogna ripensare e rinnovare in modo radicale l’offerta audiovisiva. E questo rinnovamento deve cominciare soprattutto dai format, che, insieme alla fiction autoprodotta, sono le «truppe scelte» dell’armata-canale. E invece anche questo dato di fatto fatica ancora a passare. Sono tuttora molti gli operatori del settore (dai dirigenti delle reti agli autori) che non si sono resi conto (o fingono di non rendersi conto) che siamo in guerra: una guerra sporca con regole di nuovo tipo, che rende necessario dotarsi di un apparato bellico più sofisticato e moderno. La sensazione è che invece troppo spesso si vada ancora avanti per inerzia, continuando a fare quello che si è sempre fatto e nel modo in cui lo si è sempre fatto. Vengono così continuamente proposti (o meglio: riproposti) programmi di vecchio stampo, costruiti con ingredienti standard e oramai stantii (l’intervista al vip, il siparietto comico, la notizia di cronaca...), tutti troppo uguali, senza un’identità precisa, privi di un’idea o di un concept forte e distintivo e che, come vedremo, non si possono neppure definire format. Oppure si propongono programmi più o meno nuovi, magari anche carini, magari anche onesti, magari anche corretti e pieni di belle intenzioni. Ma deboli, dannatamente deboli. Buoni al massimo per qualche scaramuccia da cortile, mica per battaglie campali senza esclusione di colpi. Detto in termini più espliciti: i programmi vecchi, costruiti con formule vecchie, viste e riviste centinaia di volte, non funzionano più. E non funzionano più neanche i «formattini», carini ma inutili. Servono invece format di nuovo tipo, come se ne vedono nelle reti televisive estere più avanzate, progettati con perizia e professionali­­­­­VII

tà, originali ma non eccentrici, perfettamente curati in ogni singolo dettaglio, in grado di conquistare l’ingaggio col telespettatore minuto dopo minuto, con le unghie e con i denti, attraverso un processo di costruzione e limatura rigoroso e attento. Servono dei «combat format», ossia dei veri e propri «format da combattimento». Per questa ragione l’attività di progettazione dei format deve essere ripensata in modo radicale e deve acquisire una centralità strategica. Perché bisogna rendersi conto che, adesso come non mai, se si sbaglia il lavoro di progettazione alla base di qualunque produzione, o se anche solo lo si sottovaluta (come si tende troppo spesso a fare), l’intero edificio che verrà costruito in seguito cadrà miseramente al suolo appena messo in onda, come un gigante dai piedi d’argilla. Lo scopo di questo libro è proprio fornire le competenze tecniche, gli strumenti e i piccoli «trucchi» che servono per costruire format forti ed efficaci, cercando al contempo di evitare gli errori più comuni ed esiziali. Perché il mestiere del progettatore di format deve essere considerato, appunto, un mestiere e non un semplice passatempo dilettantesco. Questo libro serve quindi a chi è già un autore, o lo sta diventando, e voglia approfondire questo specifico argomento. Ovvero a chi già lavora nella macchina televisiva e ha accumulato esperienze nel settore, e voglia proporre a una rete o a una casa di produzione un paper format di sua creazione. Un paper format vero, intendo, perfettamente strutturato, sviluppato e calibrato, in grado di distinguersi dall’innumerevole folla di progetti anonimi e spesso sbagliati. Può servire però anche a chi la televisione la guarda, ne è affascinato e magari anche la studia, ma non ha ancora avuto la fortuna di mettere piede in uno studio televisivo. In questo caso scrivere un paper format come si deve e presentarlo a qualcuno «che conta» non servirà forse a essere promosso autore di punto in bianco, ma potrebbe essere un valido biglietto da visita per farsi notare e farsi prendere in considerazione per un ingresso – magari inizialmente in ruoli non di primissimo piano – nella macchina produttiva. E serve anche a chi i format li deve valutare e non creare, senza fermarsi a un giudizio «nasometrico». A chi sta dall’altra parte della scrivania, insomma, come responsabile di una rete o di una realtà produttiva, e deve decidere su quale cavallo puntare, in una sfida di contenuti che sta diventando sempre più spietata e difficile. Se non si ha infatti la giusta competenza per poter discernere in modo pro­­­­­VIII

fessionale il grano dal loglio tra le centinaia di proposte che affollano ogni giorno gli scaffali di chi ricopre questi ruoli, ben difficilmente si riuscirà a sopravvivere nell’attuale contesto multipiattaforma, ipercompetitivo. E si rivolge, infine, a chi voglia approfondire questi temi, per ragioni di didattica o di interesse personale, senza voler necessariamente intraprendere una professione legata a questo mondo. A chi cioè voglia capire in modo chiaro e preciso perché alcuni programmi funzionano e altri invece falliscono miseramente, mantenendosi però all’esterno della macchina. Insomma, conoscere e padroneggiare l’attività della progettazione di format (insieme alle imprescindibili attività correlate di scrittura e di adattamento) è sempre e comunque fondamentale, ora più che mai, sia per chi già lavora nel settore televisivo, sia per chi ambisce a lavorarvi, sia per chi ne è attratto dal punto di vista teorico e didattico. Nel licenziare il volume, un doveroso ringraziamento va alle molte persone che mi hanno aiutato con i loro consigli e la loro disponibilità. Vorrei ricordare in modo particolare Leonardo Pasquinelli, Pierangelo Marano e tutta la struttura format di Endemol: Salvatore Spirlì, Andrea Franco, Antonio Moreno e Dante Sollazzo. Grazie infine a Paola Capra, Daniela Cardini, Maria Chiara Duranti, Ilenia Ferrari ed Elia Stabellini per i loro preziosi suggerimenti. Buona lettura.

Fare televisione I format

Capitolo 1

Il contesto

1.1. L’intrattenimento e i suoi generi Tradizionalmente il mare magnum delle produzioni televisive si suole suddividere in quattro tipologie (o macro-generi) principali: sport, news, fiction e intrattenimento. Lo sport e le news sono i macro-generi più autoesplicativi: il primo ha come nucleo l’evento sportivo in quanto tale; le seconde si basano sulle notizie, di varia natura e «spessore» (cronaca, politica, gossip, cultura...). Dare confini precisi alla fiction è già meno facile: in modo molto generico si può dire che essa è caratterizzata da attori (professionisti o meno) che recitano una parte, all’interno di una sceneggiatura più o meno definita e rigorosa. In ogni caso, tutti e tre questi macro-generi hanno tassonomie abbastanza precise e si presentano in forme concordemente accettate (perlomeno a livello esteriore). Definire e classificare l’intrattenimento in modo univoco e definitivo è invece assolutamente impossibile (oltre che inutile). La sua caratteristica più evidente, infatti, è proprio quella di avere una natura magmatica, dai contorni incerti, labili e continuamente ridefiniti. Ed è soprattutto il macro-genere bastardo (nel senso di ibrido) per definizione. L’intrattenimento incrocia e confonde in continuazione generi e sottogeneri, mescola al suo interno tutto con tutto, dando vita a mostri dalle definizioni spesso grottesche (crossmedial-docureality-fiction, tanto per dirne una). Si accoppia perfino, sovente, con gli altri macro-generi, dando vita, per esempio, alla fictionality (se il reality, uno dei suoi generi principali, flirta con la fiction) o all’infotainment (se le news si incrociano con modalità espressive tipiche dell’intrattenimento). Insomma, una gran confusione. ­­­­­3

Giusto per fissare qualche paletto preliminare, si può anzitutto dare questa definizione, un po’ generica, ma perlomeno chiara: i programmi d’intrattenimento sono quelli in cui le cose accadono «davvero», ovvero quelli in cui i partecipanti (sconosciuti o famosi) fanno cose vere e/o subiscono sulla propria pelle, in modo reale (e non fittizio), le conseguenze della loro partecipazione al programma. Questo vuol dire, per esempio, che il concorrente di un game show vince davvero i soldi che è riuscito a conquistarsi nel corso della puntata; il partecipante a un reality subisce davvero gli eventuali disagi (fame, isolamento ecc.) che la trasmissione impone e vive davvero le avventure che si svolgono quotidianamente (flirt, litigi ecc.); l’opinionista di un talk show dice quello che pensa davvero su un determinato argomento; il protagonista di uno swap effettua davvero il cambio (di famiglia, di casa...) oggetto della trasmissione; e così via. Nell’intrattenimento ci si muove dunque su un piano reale (o almeno questo è il patto stipulato con il telespettatore), mentre nella fiction ci si muove su un piano immaginario. È una distinzione fondamentale (e con più d’un’eccezione), su cui torneremo più avanti per capire come sviluppare al meglio i punti di forza insiti in questo complesso e affascinante macro-genere. Per passare adesso a un livello di dettaglio superiore, senza perderci subito in un groviglio di definizioni e sottodefinizioni tanto contorto quanto vano, è bene operare una distinzione preliminare, di natura teorica ma nondimeno estremamente utile, tra aree di contenuto e generi veri e propri. 1.1.1. Aree di contenuto Le aree di contenuto sono i «serbatoi» da cui viene tratta la materia e il principale motivo d’interesse dei programmi d’intrattenimento. Sono solamente quattro: gioco, show, informazione ed emozione. L’intrattenimento è un vampiro. Per funzionare deve trarre la sua linfa vitale da alcuni contenuti base. Si potrebbe credere che tali contenuti siano di numero molto elevato. In realtà, quelli che funzionano davvero, quelli la cui linfa è davvero buona e nutriente, in grado di garantire al programma una buona tenuta sul medio-lungo periodo, sono solamente quattro. La storia della televisione e le verifiche quotidiane dei dati d’ascolto ci insegnano infatti che i programmi che si basano in modo efficace su uno o più di questi contenuti ­­­­­4

funzionano; quelli che invece puntano su contenuti completamente diversi e su altri presupposti falliscono miseramente. Consideriamo dunque più da vicino queste quattro aree, che possono essere disposte in modo da formare quello che ho definito il «quadrato dei contenuti»:

GIOCO

SHOW

EMOZIONE

INFORMAZIONE

Per capire come funzionano e perché sono così importanti, occorre passarle velocemente in rassegna, mettendo in evidenza le promesse e i principali motivi di interesse. Ritorneremo poi in modo più approfondito su ciascuna di esse. gioco. Al

contrario di quanto comunemente si pensa (e spesso, ahimè, si scrive), l’essenza del gioco non sta affatto nelle domande, che determinano invece solo alcune tipologie di game. L’essenza del gioco sta piuttosto nel premio, o posta1 finale, ovvero nella vincita e/o nella perdita dei concorrenti. Siamo dunque «in gioco» quando l’essenza del programma è la determinazione di uno o più vincitori e/o uno o più perdenti. Tale determinazione avviene attraverso il dilemma, che può avere diverse nature e stabilisce la tipologia (o, meglio, il sottogenere) del gioco stesso. Per il telespettatore uno dei principali motivi d’interesse in quest’area è proprio sciogliere il dilemma (rispondere alle domande, superare le prove...) prima del concorrente in gara e quasi in competizione con lui. Attraverso il gioco il telespettatore è quindi stimolato a indovinare qualcosa, e se

1   In senso stretto, si ha una «posta» quando il concorrente rischia qualcosa di suo, ad esempio quando punta una cifra, più o meno alta, nella speranza di vincere un premio superiore. Questo non avviene quasi mai nei giochi televisivi (con poche, trascurabili eccezioni): quel che si perde però in caso di sconfitta è la faccia. E, dal momento che si tratta di una perdita di non trascurabile entità, dato che spesso viene patita al cospetto di una platea televisiva molto vasta, parlare di «posta» anche per questi casi non mi pare sbagliato.

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questo stimolo si traduce in successo (rispondendo in modo corretto) ne ricava soddisfazione. Il gioco si presta, inoltre, sia ad essere contaminato proficuamente con l’area dell’emozione, offrendo al telespettatore un appagamento congiunto di queste due aree di contenuto, sia all’ibridazione con tutti gli altri generi. Questo perché fissare un premio evidente e notevole al termine del percorso di un programma costituisce un motore potente, che sorregge e scandisce con grande efficacia l’intera struttura narrativa del format. Può capitare addirittura che il dilemma sia costituito dal format stesso, preso nella sua totalità. È questo, per esempio, il caso del Grande Fratello la cui vincita spetta appunto al concorrente che ha superato tutte le prove imposte nel corso dell’intera serie, prime tra tutte le eliminazioni periodiche. Non a caso, infatti, questo genere, definito reality in modo generico, viene denominato tecnicamente psycho drama game, il cui «game» finale indica appunto una delle essenze di tale format (non certo l’unica). In questi casi, però, quando la posta – e la conseguente determinazione del o dei vincitori – non coincide con la finalità primaria del programma, ma è solo uno strumento per scandire e strutturare meglio la trasmissione, sarebbe più corretto dire che il format ha una «struttura da game» e deve essere ascritto più precisamente a un’altra area di contenuto. show.  Ci troviamo in quest’area di contenuto quando l’elemento critico di successo del programma è di natura essenzialmente performativa, ovvero si basa sulle esibizioni artistiche dei partecipanti, siano essi professionisti dello spettacolo o meno. Il principale motivo di interesse è dunque semplicemente (e passivamente) quello di assistere alle varie esibizioni, in tutte le più ampie accezioni. In primo luogo quelle più classiche e collaudate: canto, ballo e comicità in testa. Ma le tipologie sono potenzialmente infinite. Imitatori, fantasisti, attori, mimi, prestigiatori, illusionisti, virtuosi di un qualche strumento musicale, contorsionisti, giocolieri, acrobati, circensi vari, e chi più ne ha più ne metta: tutti possono aspirare a esibirsi nella grande arena dello show televisivo. Attenzione, però. In quest’area di contenuto rientrano a pieno diritto solo quei programmi il cui principale motivo di interesse è dato dalla performance pura, e non invece dai momenti, carichi di tensione, prima dell’esibizione, o da quelli, ancora più drammatici, del verdetto della giuria a esibizione finita. Questa infatti è la mate-

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ria di cui si nutrono i talent, un genere di cui parleremo tra poco e che ibrida con indubbia efficacia l’area di contenuto dello show con quella, ben più vitale, dell’emozione. Ed è proprio grazie a questo incrocio, va detto – con buona pace dei nostalgici –, che lo show classico ha trovato nuova linfa e s’è preservato dall’estinzione. Per tutta una serie di ragioni, infatti (non ultima quella dei costi elevati), quest’area di contenuto ha perso da un po’ di tempo gran parte della sua attrattiva. Con una grande eccezione: gli show che prevedono l’esibizione di comici. È infatti proprio quello del comico il segmento più vitale e più formattizzato di quest’area e per questa ragione verrà trattato in modo più approfondito più avanti. informazione. Siamo in quest’area quando il principale motivo d’interesse è dato appunto dal contenuto informativo prodotto. La promessa legata a quest’area è infatti quella di fare apprendere al telespettatore qualcosa che per lui ha una certa rilevanza, nei campi più diversi: dai più impegnativi e «nobili» (le virgolette sono d’obbligo) ai più disimpegnati e leggeri. I confini non si esauriscono però con il cosiddetto infotainment. Al contrario: sono molti i programmi e i format che traggono la loro linfa vitale da quest’area di contenuto. In linea di massima rientrano in questo campo i programmi definiti «di parola», categoria che comprende una costellazione abbastanza ampia di generi al cui centro è il talk, che, grazie anche al fatto di essere abbastanza economico, è da un po’ di tempo molto utilizzato. Ma attingono a questo serbatoio anche altre tipologie di format, per esempio il cosiddetto service-taitment, che ibrida l’area dell’emozione con quella dell’informazione. emozione.  È

forse il serbatoio più ricco e impattante tra quelli fin qui considerati. Però è anche quello potenzialmente più pericoloso. L’emozione è infatti una materia che, come gli esplosivi più efficaci ma dagli effetti più devastanti, va sempre maneggiata con estrema cautela. La spiegazione del perché ricaviamo tanta soddisfazione nel vedere emozionarsi i protagonisti dei format ha base scientifica. Vedere qualcuno emozionarsi produce infatti l’effetto di far emozionare anche noi, grazie all’azione dei neuroni-specchio, oggetto di interessanti studi. Dunque, si provocano reazioni emotive nei partecipanti a un programma per far emozionare di riflesso i telespettatori; con il vantaggio che questa emozione riflessa avviene «in sicurezza», poi­­­­­7

ché è priva di rischi e di conseguenze, cosa molto utile nel caso di storie senza lieto fine. Naturalmente qualcosa di molto simile avviene anche con la fiction: ma nell’intrattenimento, che mette in scena situazioni – e quindi emozioni – vere e reali, questa reazione biologica è potenzialmente molto più efficace. Una sola inquadratura, ben catturata, di uno sguardo particolarmente significativo (di gioia, di dolore, di speranza, di compassione...) può avere effetti molto più profondi di lunghe, articolate e ben più costose scene di film. Prima di passare ad analizzare i generi e i sottogeneri che si nutrono e traggono origine da queste aree, conviene spendere ancora qualche parola sulla loro disposizione all’interno del quadrato, prendendo in considerazione i loro rapporti e le loro contrapposizioni reciproche. Va messa anzitutto in evidenza una bipolarità che potremmo definire, in modo generico ma di immediata comprensione, «testa vs cuore». L’asse che lega il gioco all’informazione è infatti più freddo e intellettivo dell’asse che lega l’emozione e lo show, più caldo e intuitivo. Cercare di sciogliere un dilemma e apprendere qualcosa sono infatti attività che coinvolgono la sfera razionale; invece l’emozionarsi attraverso le emozioni altrui e l’ammirare esibizioni di tipo artistico coinvolgono una sfera che potremmo definire passionale. Da un punto di vista progettuale, una giusta miscela tra elementi di assi contrapposti porta spesso risultati eccellenti. Per esempio, Chi vuol essere milionario? ibrida in dosi perfette l’area del gioco con quella dell’emozione, ottenendo un mix straordinariamente efficace di giocabilità da casa (scioglimento del dilemma: sfera razionale) e partecipazione emotiva alla scalata verso il milione del concorrente in gara (vivere le gioie e lo sconforto dei concorrenti: sfera passionale). Nei format, così come in molti altri campi, un ibrido è spesso migliore delle razze cosiddette «pure». Un’altra bipolarità interessante è quella che lega le aree di contenuto più tradizionali con quelle di storia più recente. I programmi dell’area gioco e quelli dell’area show hanno un passato più lungo alle spalle rispetto a quelli dell’area contrapposta. Anche questa è una variabile che va tenuta in debito conto. I programmi delle due aree di contenuto in alto sono infatti, generalmente parlando, più conservativi di quelli delle due aree in basso, che si dimostrano invece più aperti alle novità, sia di formato che di genere. E non è un caso che tutti i nuovi ­­­­­8

filoni siano ascrivibili quasi sempre all’asse emozione-informazione, spesso incrociando questi due serbatoi con grande originalità e spregiudicatezza. Molti reality, quasi tutti i factual e altri generi si situano infatti all’incrocio di queste aree, e una delle loro caratteristiche principali è quella di conservare solo in modo molto labile i legami con il passato. Sono tipologie di programmi che sembrano quasi non avere antenati legittimi. Al contrario, i nuovi game e i nuovi varietà devono molto ai loro diretti predecessori degli anni d’oro e, di conseguenza, hanno spesso strutture e meccanismi più consolidati. È vero che a volte questa tendenza conservativa è eccessiva ed è dovuta più alla paura d’innovare che a considerazioni di carattere tecnico. È però anche vero che, là dove c’è un passato importante (per non dire ingombrante) di cui non si può non tener conto, è molto più difficile e pericoloso fare completamente piazza pulita di ciò che c’era prima. Accenniamo infine brevemente a una terza e ultima bipolarità, forse la più importante per quel che ci riguarda. Si tratta dell’asse della formattizzazione: come viene evidenziato nel terzo schema, tale asse passa per i riquadri gioco-emozione, che costituiscono le aree in cui il grado di formattizzazione è alto o altissimo; invece nell’asse show-informazione il grado di formattizzazione è più debole o addirittura nullo. Ma anche su questo aspetto torneremo in seguito, quando parleremo dei programmi racchiusi in questi due riquadri meno formattizzabili. GIOCO

SHOW GIOCO

EMOZIONE EMOZIONE

INFORMAZIONE ASSE DELLA TRADIZIONE

ASSE «TESTA-CUORE» GIOCO

SHOW

EMOZIONE

INFORMAZIONE

ASSE DELLA FORMATTIZZAZIONE

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SHOW

INFORMAZIONE

1.1.2. Generi e sottogeneri I generi e i sottogeneri sono gruppi di programmi di tipologia similare (per struttura, argomento, trattamento dei partecipanti), in cui vengono declinate le quattro aree di contenuto. Con l’introduzione del concetto di genere si sale a un livello superiore di organizzazione. E qui iniziano i guai seri. L’intrattenimento sembra infatti rifiutare costituzionalmente ogni tentativo di sistematizzazione non dico rigido, ma quantomeno ordinato. Nell’intrattenimento l’unica regola certa sembra essere proprio la mancanza di regole e la sua principale caratteristica è la fluidità e incertezza dei confini, accentuata da un continuo e incessante cambiamento e ibridismo. Tanto che, se proprio si dovessero mappare i generi e i sottogeneri principali, si avrebbe uno schema confuso e vago, come quello tentato qui sotto: GIOCO

SHOW Varietà classico

Action

Quiz

One man show VARIETÀ Comico PEOPLE SHOW

GAME SHOW Light quiz Psycho-drama game

Alea Adventure Dating game

Panel game NT LE TA Swap

S

W HO

MUSICALE COURT SHOW SATIRICO

Docufiction Coaching Service-taitment TALK Constructed reality SHOW INFOTAINMENT FICTIONALITY Docusoap FACTUAL Reality fiction DIY Emotainment Make-over Candid SHOCKUMENTARY REALITY

EMOZIONE

INFORMAZIONE

Il lettore non si spaventi: è solo un gioco, o un semplice esercizio teorico, e deve essere preso come tale. Si potrebbe infatti discutere all’infinito sull’ordine dato alle varie tipologie (perché alcuni generi sono più spostati su un’area anziché su un’altra?), sul loro livello gerarchico (quali sono i generi e quali i sottogeneri?) e sul perché sono state incluse alcune ed escluse altre. La verità, in questo campo, non esiste e ognuno è libero di farsi lo schema mentale che più ritiene opportuno. Però le definizioni riportate sono quelle che circolano sul mercato internazionale e bisogna dunque conoscerle, almeno a ­­­­­10

grandi linee. Mi pare quindi utile dare dei punti di riferimento, anche se fluidi, riguardo a termini che si sentono ripetere tanto spesso a proposito e, più spesso ancora, a sproposito. game show. 

Si caratterizza, come si è detto, per la presenza di uno o più giocatori, di un dilemma da sciogliere e di un premio, o posta, finale. Questo semplice schema base, naturalmente, si presta alle più varie declinazioni, contaminazioni e varianti, che analizzeremo nel capitolo 3. Qui ci limitiamo a passare in rassegna alcuni dei principali sottogeneri. Quiz. Il dilemma è costituito da domande poste in forma esplicita, di argomento vario. Tali domande possono essere di diverse tipologie (multiple choice, vero o falso, domande aperte, o con facilitazioni, come per esempio la lettera iniziale della risposta...) e relative ai più vari argomenti (cultura generale, gossip...). Va dunque sottolineato che «game show» e «quiz» non sono sinonimi: il quiz è un sottogenere specifico all’interno della grande famiglia dei game show; più precisamente, è quello in cui il dilemma è costituito da domande. Light quiz. Il dilemma non è racchiuso e formulato come una domanda esplicita, ma è relativo ad abilità intellettive di altro tipo. Indovinare il prezzo di un oggetto (Ok, il prezzo è giusto!), indovinare il titolo di una canzone ascoltando solo poche note (Il musichiere, Sarabanda) o indovinare che lavoro fanno delle persone viste per la prima volta (I soliti ignoti) sono dei buoni esempi di questa tipologia (anche se non sempre il confine tra questi due sottogeneri è netto e chiaro). Il termine «light» è utilizzato perché non ci sono domande secche e perché in genere l’atmosfera di questi programmi è più leggera e meno tensiva rispetto ai quiz. Da quest’ultimo punto di vista, però, fanno spesso eccezione i light quiz con dilemmi psicologici, in cui per vincere il premio in palio bisogna intuire come si comporterà l’avversario: esempio classico è il «dilemma del prigioniero», che viene sfruttato, per esempio, nel game inglese Shafted. In questi casi, infatti, la tensione del quiz è sostituita da una tensione psicologica altrettanto se non addirittura più marcata. Alea. Per sciogliere il dilemma bisogna fare ricorso esclusivamente alla fortuna, in quanto non c’è nulla da indovinare, ma, al massimo, da intuire. Esempio classico è Affari tuoi, in cui il concorrente deve scegliere quali pacchi togliere dal gioco e se è conveniente o ­­­­­11

meno accettare l’offerta che gli arriva dalla produzione, senza però esercitare altra abilità che il suo istinto. Action. Il dilemma è in questo caso di tipo fisico. I concorrenti devono superare prove di abilità e destrezza fisica, come l’ultra-classico Giochi senza frontiere e il sempreverde Fort Boyard. Queste prime quattro sottocategorie possono mescolarsi tranquillamente tra loro: un quiz può avere una parte light o addirittura di alea, così come, all’inverso, un game basato quasi solo sull’alea può prevedere un segmento quiz... In questi casi, se non c’è una categoria di dilemma predominante, tale da caratterizzare il gioco nella sua interezza, è consigliabile usare il nome generico di «game show», senza specificare il sottogenere. Adventure game. Anche in questo caso i vari dilemmi sono prevalentemente di tipo fisico. Però, a differenza dell’action, che comprende al suo interno format anche molto diversi tra loro, gli adventure game hanno delle caratteristiche formali abbastanza omogenee, che rendono questo gruppo di format molto coeso. In pratica si tratta, come dice la definizione, di grandi avventure, ambientate in luoghi estremi (foresta amazzonica, regioni polari...) o esotici (Pechino Express, per esempio) in cui i protagonisti (singoli, gruppi, nuclei familiari...) affrontano prove e disagi anche notevoli per vincere la posta finale, sconfiggendo gli avversari. È un sottogenere che presenta affinità evidenti con alcuni reality, e tuttavia se ne differenzia perché il superamento dei vari dilemmi e la tensione verso la conquista del premio finale (gli aspetti cioè che caratterizzano il game) vengono maggiormente enfatizzati. Panel game. È un sottogenere trasversale rispetto a quelli analizzati finora, dato che la sua peculiarità è la partecipazione dei vip, al posto o insieme ai concorrenti «normali» (per esempio Il gioco dei 9). Tale filone è molto spostato verso l’area show, dato che la presenza di personaggi famosi è utilizzata a fini spettacolari. Il dilemma, in questo caso, è solo un pretesto, o meglio un mezzo per dare modo ai personaggi famosi di fare dei piccoli «numeri». Dating game. È un game in cui il principale premio in palio è la conquista di un rappresentante del sesso opposto; ad esso può eventualmente aggiungersi un bottino supplementare (vacanza, cena o altro regalo per la coppia appena formata). In questo sottogenere, che ha una lunga tradizione e delle regole abbastanza ben codificate, il dilemma è quasi sempre rappresentato da modalità di light quiz ­­­­­12

(indovinare i gusti dell’altro, o cosa pensa, o altri giochi a tema) o di alea. reality.  Veniamo ora al genere più chiacchierato, criticato, frainteso. Bisogna d’altronde riconoscere che l’incomprensione di cui spesso è oggetto deriva anche dalla sua definizione fuorviante. «Reality», infatti, non sta ad indicare la «realtà» delle situazioni che vengono proposte: il tratto reale, come abbiamo visto, è caratteristico dell’intrattenimento nel suo insieme. Il rischio è dunque quello di confondere un genere, per quanto importante, con tutto il macro-genere di cui fa parte. Reality va invece inteso (forse) come realtà delle reazioni emotive dei partecipanti, dato che ha il suo principale motivo d’interesse nei sentimenti umani, proposti in maniera formattizzata e spettacolare. A dire il vero questo termine, abbastanza complesso da circoscrivere, può essere considerato secondo due diverse prospettive. La prima è quella che potremmo definire ristretta. In questa accezione il reality è un genere vero e proprio, con al suo interno due soli sottogeneri, che, pur avendo caratteristiche proprie, partono dallo stesso ceppo e possono essere considerati in qualche modo uno l’evoluzione dell’altro (si parla a volte di prima e di seconda generazione di reality). La seconda prospettiva può essere invece definita generica, in quanto considera il reality non già un genere vero e proprio (al pari, per esempio, del game show o del talk), bensì una sorta di nebulosa indistinta, che include molti generi, anche abbastanza diversi tra loro, i quali convivono uno accanto all’altro, senza un rapporto gerarchico chiaro e diretto. In questa accezione possono essere considerati reality tutti i generi dell’area emozione, parte di quelli dell’area show (talent, people show) e alcuni generi liminali con l’area informazione (fictionality, parte dei factual ecc.). Per ragioni soprattutto didattiche, faremo adesso riferimento all’accezione ristretta del termine, e considereremo quindi sottogeneri legittimi del reality le due sole tipologie elencate di seguito. Emotainment. È il sottogenere delle emozioni per antonomasia, come dice il termine stesso, ottenuto dalla crasi delle parole emotion ed entertainment. Ha una data di nascita precisa: il 1992, quando va in onda la prima serie olandese di All you need is love. Per la prima volta le emozioni (l’amore, in modo particolare, con tutte le sue infinite sfumature: gelosia, rancore, attrazione, affetto, nostalgia...) entrano dalla porta principale del format e non come effetto collate-

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rale di altre situazioni. I protagonisti sono stati scelti, infatti, non per la loro cultura o la loro abilità a fare qualcosa, bensì solo ed esclusivamente in quanto «portatori sani di emozioni», dal momento che la caratteristica peculiare di questo sottogenere è proprio quella di far emergere e deflagrare, in maniera spettacolare, le emozioni degli ospiti in studio, legate al loro vissuto pregresso. È proprio l’emotainment quello che viene definito la prima generazione di reality, ma sarebbe un errore considerarlo superato. Esempi di emotainment vecchio stampo ce ne sono ancora oggi in tutto il mondo, anche se è innegabile che la seconda generazione ha preso ormai il sopravvento, grazie alla sua straordinaria capacità di innovarsi e di generare sfumature sempre nuove e diverse di format. Psycho drama game. Anche la seconda generazione di reality ha una data di nascita precisa: la fine del 1999, quando va in onda, sempre in terra olandese, la prima serie del fortunatissimo Big Brother, il padre (o la madre) di tutti gli psycho drama game (e non solo), format così innovativo da aver dato una svolta fondamentale alla storia della televisione. Com’è noto, gli elementi strutturali che caratterizzano e marcano fortemente i programmi appartenenti a questa categoria sono la reclusione di alcuni partecipanti in uno spazio delimitato e circoscritto (casa, isola, castello...), l’essere sotto l’occhio delle telecamere 24 ore al giorno, le nomination e le conseguenti eliminazioni. Va fatto ancora cenno, infine, al «sottosottogenere» degli psycho celebrity (o celeb-reality), ovvero psycho drama con protagonisti vip. Capostipite di questo gruppo è l’inglese I’m a celebrity... get me out of here!, e in Italia va ricordato naturalmente per la fortunata serie dell’Isola dei famosi. talent show. 

Anche i talent potrebbero a buon diritto essere considerati sottogeneri dei reality, essendo un po’ «cugini di primo grado» degli psycho drama game. Qui, però, li tratteremo come un genere a sé stante per due ordini di ragioni. Il primo è l’enorme sviluppo che hanno avuto sin dal loro esordio (il loro capostipite è l’australiano Popstars, nel 2001), per cui mi sembrava riduttivo etichettare come semplice sottogenere una delle tipologie di programmi di maggiore successo al mondo. Il secondo è che, nonostante le molteplici differenze e sfumature, i talent sono giunti alla codificazione di un linguaggio e di una modalità espressiva molto forti, che li rendono ­­­­­14

estremamente coesi come gruppo e li differenziano in modo deciso da tutti gli altri generi: al contrario di altri casi, è infatti quasi sempre facile ascrivere un format al genere dei talent, senza timore di errori. In estrema sintesi, questa tipologia di programmi è finalizzata alla formazione artistica e/o professionale di un gruppo di persone, che devono dimostrare il loro talento e le loro capacità per imporsi sugli altri concorrenti e conquistare un premio finale, generalmente legato alla loro disciplina. È abbastanza sorprendente il censimento, anche se incompleto, dei campi affrontati in questa tipologia di format, sempre sulla cresta dell’onda. Al primo posto, dal punto di vista cronologico e di numero di programmi, ci sono naturalmente le discipline più propriamente artistiche, il canto in particolare: oltre al già citato Popstars, si possono ricordare format celeberrimi, come gli inglesi Pop idol, The X factor e tantissimi altri. L’arte, però, non ha confini precisi e così, accanto alle discipline canoniche, compaiono ben presto anche discipline di altra natura, come per esempio la cucina, campo affollatissimo e pieno di format di enorme successo (Masterchef, Jamie’s kitchen o Hell’s kitchen tra tutti), importati in massa anche in Italia. Ma anche molte altre figure professionali hanno avuto l’onore della ribalta con programmi a loro dedicati. Sportivi di tutte le discipline (boxeur, cestisti, giocatori di football americano, calciatori...), cabarettisti, modelle, guardie del corpo, parrucchieri, cantanti lirici, musicisti di varia estrazione, mimi, avvocati, presentatori televisivi e perfino uomini politici (l’inglese Vote for me, l’americano American candidate) sono solo alcuni esempi. factual.  Genere

molto difficile da circoscrivere con precisione, il factual2 si caratterizza per essere incentrato su storie trattate in modo apparentemente aperto e libero, quasi in presa diretta, senza meccanismi e snodi sovrastrutturali. Il factual sembra raccontare la realtà così com’è, seguendo semplicemente le vicende personali di singoli individui o di un gruppo omogeneo di persone, con particolare attenzione ai loro risvolti psicologici ed emotivi. Semplificando un po’, si può dire che un factual è un reality con pochi o punto elementi formattizzanti. È molto difficile delimitare con certezza i sottogruppi di questo genere, che si pone programmaticamente al di là di ogni classifica2  O, più correttamente, «factual entertainment», dato che con «factual» si intende il documentario tout court.

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zione e schematismo. Ci limiteremo dunque a elencare e spiegare qualcuno dei termini più in voga, avvertendo sin dal principio che non solo se ne potrebbero aggiungere ancora molti altri, ma che possono essere introdotti criteri di classificazione di tutt’altro tipo, ugualmente validi. Docusoap. È il sottogenere più diffuso e di più lunga tradizione (specie nei paesi anglosassoni), al punto che a volte si confonde con il suo stesso genere di appartenenza: docusoap e factual sono infatti spesso considerati termini interscambiabili e quasi sinonimi. Come dice il nome, sono storie a metà tra documentario, e quindi «realtà», e «soap». La caratteristica di questo sottogenere, come negli altri factual, è quella di raccontare in presa diretta (ma con un canovaccio di fondo) storie di persone o situazioni generiche di varia vita quotidiana, senza far ricorso a sovrastrutture esterne che ne limitino artificiosamente il naturale sviluppo narrativo. Le storie possono riguardare la vita quotidiana di una persona o, più facilmente, di una famiglia (The Osbournes, per esempio), o raccontare quello che avviene all’interno di una situazione o di un ambiente preciso e circoscritto (una scuola guida, un salone di parrucchiere, un gruppo di catechisti...). Rispetto agli altri sottogeneri dei factual, le docusoap hanno un tema non specifico ma piuttosto generico e non hanno una finalità precisa. Inoltre, al contrario di quasi tutti gli altri sottogruppi, le cui puntate sono perlopiù autoconclusive, le storie delle docusoap si sviluppano quasi sempre su più puntate, quindi con uno sviluppo narrativo lungo, che ricorda appunto quello delle soap opera (da cui prendono parte del nome). Swap. Come dice il nome stesso, negli swap c’è uno scambio iniziale (di moglie/marito, di famiglia, di città, di nazione, di classe sociale...) tra due individui o gruppi di individui, di cui si seguono poi gli sviluppi e le conseguenze. In questo caso si ha dunque un intervento esterno e uno snodo narrativo iniziale (lo scambio, appunto): dopo di che, però, come in tutti i factual, ci si limita a osservare come si sviluppano la vicende, sottolineandone gli inevitabili disguidi, disagi e fraintendimenti, ma anche la ventata di novità positiva che lo scambio molto spesso comporta. Service-taitment (o edu-taitment). Si tratta di docusoap la cui finalità è dare al telespettatore informazioni utili su un particolare argomento. Si parte dunque da alcuni casi specifici (una persona che vuole smettere di fumare, un’intera famiglia che ha problemi ali­­­­­16

mentari, una giovane coppia con problemi finanziari...) e si arriva a dare consigli generali ai telespettatori che in qualche modo possono riconoscersi in quelle medesime situazioni. Coaching. Strettamente legato ai service-taitment è il sottogenere dei cosiddetti coaching: programmi in cui a una persona o a un gruppo di persone con particolari problematiche o con un sogno da realizzare viene affiancato un esperto che alla fine della puntata farà raggiungere al suo o ai suoi allievi gli obiettivi prefissati, grazie a tecniche ed esercizi appropriati. Tipologia molto diffusa e apprezzata, spesso i coach protagonisti di questi programmi divengono delle vere star, coprendo, come nel caso dei talent, una gamma enorme di campi e discipline. Esperti di amore e di sentimenti, di conquista e di seduzione dell’altro sesso, di cucina, di alimentazione, di finanza, di educazione, di psicologia, di sport di tutti i tipi, di bon ton e di stile, di estetica, di shopping, di medicina, di arredamento, di fitness, di pedagogia, di risparmio energetico, di animali, di ballo, di musica e delle più svariate discipline artistiche, e chi più ne ha più ne metta, hanno ormai invaso gli schermi di tutto il mondo. A cercare il pelo nell’uovo, si dovrebbe ascrivere un programma al sottogenere dei service-taitment se il principale motivo di interesse è posto sull’intento educativo astratto nei confronti del telespettatore, a quello dei coaching se invece è l’esperto in quanto tale a essere al centro del programma che, in alcuni casi, prende addirittura il nome da lui. Make-over. Anche qui il tema della trasformazione è enormemente sfruttato. Tutto ciò che può essere migliorato (e il cui processo di miglioramento può essere spettacolarizzato) diviene prima o poi oggetto di un programma di make-over. Si è iniziato con le persone, naturalmente, che sono state cambiate a livello di immagine, con interventi più o meno invasivi (dalla semplice dieta e un po’ di trucco e parrucco, alla chirurgia estetica radicale). Ma ben presto si è provveduto a trasformare in senso migliorativo anche il mondo intorno alle persone stesse: la casa, il giardino, l’ufficio, gli animali domestici, e anche tutte queste cose insieme, hanno subito un processo di palingenesi incessante, sotto l’occhio curioso ma benevolo delle telecamere. diy. Anche i factual incentrati sul tema del Do It Yourself sono molto diffusi e applicati ai campi più svariati (casa e giardino in particolare). Molto stretti sono ovviamente i punti di contatto con i coaching e i service-taitment; d’altro canto, quello del Do It Yourself è un filone così consolidato e con caratteristiche proprie talmente spiccate ­­­­­17

(ci sono grandi magazzini dedicati in modo esclusivo a questa attività) che anche i prodotti televisivi basati su questo principio sono a volte ben riconoscibili e distinti dagli altri programmi analoghi. Naturalmente, i confini tra tutti questi sottogeneri possono essere intrecciati tra loro, senza riuscire a dare una definizione inequivocabile: un programma può riguardare il tema del make-over, prevedere la presenza di un coach e avere il passo (e magari anche la durata) di una docusoap. In caso di dubbi (e ce ne saranno sicuramente), basta limitarsi a dire «factual». fictionality.  Genere ancora più «bastardo» degli altri (dato che prevede l’ibridazione con un macro-genere esterno all’intrattenimento), non sempre ha una fisionomia propria e pienamente autonoma, schiacciato com’è tra i due generi, ingombranti e ben più sviluppati, del reality e del factual. Il tratto distintivo principale, tale da ascrivere inequivocabilmente un programma a questa strana famiglia meticcia, è la presenza di parti esplicitamente sceneggiate (e che quindi prevedono la presenza di attori). Le modalità in cui tali parti entrano nel programma determinano i sottogeneri principali di cui è composto. Non sempre, a dire il vero, i programmi frutto di questo incrocio sono dei buoni programmi. L’intrattenimento e la fiction sono un po’ come l’acqua e l’olio: all’apparenza sembrano affini, ma le loro differenze sono sostanziali e la possibilità di generare composti equilibrati e stabili è tutt’altro che scontata. Docufiction. In questi programmi viene utilizzata una tecnica particolare, detta re-enactment: una storia vera è ricostruita come se fosse una fiction (e quindi con attori e con una sceneggiatura precisa). Questo tipo di prodotto è vecchio come la televisione ed è presente in una quantità enorme di programmi. In genere, però, è sempre stato utilizzato in frammenti di pochi minuti, inseriti in un contesto più vasto, con funzione prevalentemente didascalica: ricostruire qualcosa (un delitto, un incidente, un avvenimento spettacolare...) accaduto nel passato per fornire spunti e situazioni da discutere poi in studio. Dunque un qualcosa privo di valore autonomo e al servizio di altro, in genere all’interno dell’area informazione. Da qualche anno, invece, si stanno facendo esperimenti – alcuni riusciti, altri meno – per dare a questa tecnica un valore e un’importanza che nel recente passato non si sarebbe neanche sognata di avere. Sono stati infatti progettati format, anche molto diversi tra loro, completamente incentrati sul re-

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enactment, affini al mondo del reality e quindi completamente ascrivibili all’area delle emozioni. Per tale ragione da un po’ di tempo questo filone viene denominato a volte constructed reality, intendendo con questa espressione il fatto che si va appunto a presidiare il mondo del reality, però in modo «costruito», ovverosia sceneggiato, con tecniche e modalità di ripresa tipiche di una fiction (anche se a basso costo). Tentativo molto difficile, dato che la cifra dell’intrattenimento, e delle emozioni in particolare, è la realtà «vera», e un prodotto dichiaratamente fiction va invece per forza di cose in senso inverso. Tra gli esperimenti di maggior interesse in questa direzione va ricordato il format tedesco di grande successo Die Schulermittler. La serie prende spunto dagli avvenimenti di una (vera) scuola di periferia, con alunni molto problematici e situazioni potenzialmente esplosive. Per questa ragione il preside decide di assumere i tre mediatori del titolo (due assistenti sociali e un poliziotto) per risolvere alcuni casi particolarmente complessi e pericolosi. Tutto è recitato da attori secondo un copione scritto, ma i tre mediatori scolastici interpretano sé stessi, le storie sono attinte, o comunque ispirate, a quel che è accaduto davvero nella scuola, e perfino l’istituto scolastico è quello originale: quando i veri studenti e professori lasciano le aule, quegli stessi ambienti diventano altrettanti set. Reality fiction. In questo sottogenere le parti di fiction dichiarate sono giustapposte a quelle del reality puro. Il rischio, sempre molto alto in questi casi, è che queste due anime rimangano separate, senza dar vita a un composto unitario e armonico. Così è avvenuto, per esempio, nel coraggioso (e costosissimo) esperimento del format americano Murder in small town X. Un gruppo di veri concorrenti (non attori, quindi) viene radunato nel commissariato di polizia della piccola città del titolo per indagare su una serie di inquietanti delitti, che, naturalmente, sono finti. Si mescolano quindi in continuazione il piano della realtà, rappresentato dai concorrenti che gareggiano tra loro per un vero montepremi, e quello della finzione, rappresentato da una moltitudine di attori che interpretano le vittime, il colpevole, gli indiziati e tutta la serie dei figuranti necessari a mettere in scena ogni giallo che si rispetti. Bellissimo da un punto di vista produttivo, spettacolare nella sua realizzazione, ambizioso nelle aspettative, il format ha fatto però flop dal punto di vista degli ascolti. Candid camera. Ai due precedenti sottogeneri, relativamente recenti – almeno nei loro sviluppi più compiuti –, si affiancano le ­­­­­19

buone, vecchie candid camera, che possono a ottimo diritto essere considerate le primogenite di questo filone. La formula è nota a tutti: attori che interpretano una parte fanno scherzi, o creano comunque situazioni comiche, ai danni di persone ignare (famose o meno), che avranno quindi reazioni emotive autentiche. people show. 

Rientrano in questa tipologia i programmi che si basano sull’esibizione e su prove di varia natura (artistiche o pseudo tali, di seduzione, di generica simpatia...) affrontate da gente cosiddetta comune (più rari i vip). È un genere che ha conosciuto un buon successo in passato e che ancora adesso può vantare degli evergreen di indubbio fascino (La corrida tra tutti) e anche alcune interessanti nuove proposte a livello mondiale. È però indubbio che abbia duramente subito la concorrenza del ben più aggressivo e versatile talent, genere per molti versi affine, ma che, tra i tanti altri vantaggi, offre anche quello di essere più spostato nell’area più vitale dell’emozione (mentre i people conservano il loro baricentro nello show). Rispetto ai talent, in questo filone è completamente assente l’aspetto formativo: i concorrenti, infatti, non devono imparare alcunché e manca quindi il senso di crescita e, di conseguenza, anche la tensione verso la meta finale. Inoltre, al contrario dei talent, i people show si presentano sempre in forma autoconclusiva (non hanno l’arco narrativo lungo della serie in più puntate) e tutto è giocato sul singolo «numero» e la singola esibizione, da consumarsi in modo disimpegnato, veloce, senza alcun investimento emotivo nei confronti dei partecipanti. Per questa ragione la chiave più sfruttata è quella comica (o comunque brillante), che invece è utilizzata poco nei talent, proprio per la loro maggiore pregnanza emotiva.

talk show.  Capostipite dei cosiddetti «programmi di parola», il talk show si basa su un dibattito in studio tra vari interlocutori o gruppi di interlocutori. Protagonisti e argomenti possono essere i più vari, così come la struttura e i meccanismi formattizzanti (che tuttavia in questa tipologia di programmi sono rari). Ascrivere un programma a questo gruppo è comunque relativamente semplice: se il dibattito e il contraddittorio che si viene a creare tra le parti costituiscono il principale, se non unico, motivo di interesse della trasmissione, siamo in ambito talk. infotainment. Anche in questo caso la definizione nasce dalla (brutta) unione dei termini information ed entertainment e indica

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quei programmi che fanno divulgazione, o comunque danno notizie e informazioni di vario tipo, attraverso formule più o meno accattivanti, così da risultare leggere ed entertaining. Cosa significhi «formule accattivanti», e di conseguenza quando ascrivere un programma a questo genere e quando invece alla categoria dell’informazione pura, è questione troppo sottile (oltre che sommamente inutile) per essere trattata in questa sede. Per comodità, tutti i programmi con un contenuto informativo predominante vengono generalmente considerati appartenenti al filone degli infotainment, a meno che non si tratti delle classiche news istituzionali. Magazine. Difficile stabilire una precisa linea divisoria tra un magazine e un infotainment: ragion per cui sono considerati quasi termini interscambiabili. Un magazine dovrebbe in genere essere caratterizzato da una varietà maggiore di argomenti, toni, situazioni (come il corrispondente cartaceo), ma, di fatto, il criterio di classificazione è assolutamente opinabile. shockumentary.  Famiglia

molto piccola, ma con una peculiarità, anche sul piano formale, molto forte: indica infatti quei programmi composti da frammenti visivi realizzati al di fuori delle logiche televisive e quindi non con lo scopo principale di essere messi in onda. Rientrano in questo gruppo filmati molto eterogenei, per tipologia e qualità, come spezzoni di filmati di telecamere a circuito chiuso di banche, negozi, luoghi pubblici, nonché immagini riprese dalle forze dell’ordine e da altri professionisti impegnati in missioni pericolose e spettacolari (per esempio i pompieri) nel corso delle loro missioni. Il nome del genere deriva dal fatto che molto spesso questo tipo di filmati ha un taglio molto crudo e drammatico (come rapine, incidenti), tale da poter perfino provocare shock emotivi.

court show. 

Si tratta di un’altra famiglia di programmi piccola, ma estremamente ben caratterizzata, tanto da doverla considerare genere a sé. Come dice il nome, i court show sono format che ricalcano le dinamiche e le ritualità dei normali processi civili (più raramente penali): c’è un giudice (spesso un vero giudice), ci sono due o più parti in causa, ci sono a volte anche gli avvocati, una parte civile e una giuria popolare. E c’è, soprattutto, un verdetto finale, con una sentenza che, in alcuni casi, può essere addirittura vincolante (se, con un atto formale prima della sua formulazione da parte del giudice, le due parti in causa si impegnano a riconoscerla). Un po’ game, un po’ reality, un po’ ­­­­­21

fictionality (spesso si utilizzano le tecniche del re-enactment, con attori che interpretano storie vere), un po’ infotainment, i court show vanno però ascritti soprattutto all’area dello show, per le valenze spettacolari che i migliori format riescono a esprimere. musicali. 

Sotto questo termine generico si comprendono tutti quei programmi (e non sono pochi) che hanno come tema centrale la musica, ma che non fanno parte né dei talent, né di altri generi affini. Le caratteristiche di questi programmi, data l’indeterminatezza della definizione, sono molte e varie; nella quasi totalità dei casi, però, l’esibizione canora di uno o più artisti (accompagnata da momenti di approfondimento) costituisce il principale motivo di interesse. Chart show. Sottogenere molto preciso, questi programmi costituiscono il corrispondente televisivo della classifica radiofonica dei brani più venduti o trasmessi del momento. Da sottolineare il fatto che, con la proliferazione delle piattaforme, anche i chart show hanno avuto nuovo impulso, accostando alle classifiche classiche quelle digitali (i brani più scaricati, quelli più presenti nei cellulari o negli i-pod ecc.).

satirici.  Altro

nome molto generico per quei programmi affini al genere infotainment, in quanto propongono quasi sempre un contenuto informativo più o meno sviluppato, ma distinti da esso in quanto, come dice la definizione, è preponderante l’intento satirico. Di conseguenza, sono più spostati nell’area dello show, anche se le proporzioni di questo mix (satira e informazione) possono essere varie e spesso non misurabili con esattezza.

varietà.  Conclude

questa carrellata lo storico, eterogeneo e sfaccettato genere del varietà, ovvero quei programmi basati essenzialmente sulla dimensione artistica e performativa. In pratica, quei programmi in cui artisti e showmen di varie discipline si esibiscono in «numeri» di intrattenimento, collegati o meno da un fil rouge complessivo. All’interno di questa etichetta molto vaga si possono distinguere diversi sottogeneri. Quelli che citeremo non sono gli unici, ma solamente i più diffusi e caratterizzati. Varietà classico. Si distingue per l’eterogeneità delle performance contenute. In genere la logica complessiva è quasi completamente assente e tutto si basa sulla forza e l’importanza delle singole esibizioni. ­­­­­22

One man show. Si tratta sempre di un varietà classico, ma con un elemento forte e unificante, cioè la presenza di un mattatore, attorno a cui gira tutto il programma, che in molti casi prende il nome da lui. Circo. Le esibizioni sono tutte di carattere circense e quasi sempre sono ambientate in uno o più circhi veri. Per tale ragione a volte si considera questo gruppo un genere distinto e a sé stante. Comico. Le performance sono sempre di carattere comico (sketch, monologhi...), anche se spesso sono alternate da brevi intermezzi musicali o di altro tipo. Al termine di questo lungo discorso occorre ripetere che la classificazione sopra proposta è utile soprattutto per il suo fine didattico. Nella pratica, l’incessante ibridazione dei programmi e dei generi rende qualsiasi tipo di demarcazione impreciso e sfumato. Proprio per questa ragione spesso tali definizioni – per forza di cose sempre un po’ accademiche – vengono sostituite da altre, più maneggevoli e comode. In alcuni paesi si preferisce usare definizioni che si riferiscono all’argomento del format, anziché alla sua tipologia e al modo in cui è costruito. Si dice quindi, per esempio, cooking show se si tratta di un programma che ha al suo centro l’arte del cucinare e il cibo in genere, indipendentemente dal fatto che sia un talent, un service-taitment, una docusoap o tutte queste cose insieme. Con questo presupposto, si possono introdurre nuove terminologie a getto continuo, quando un filone o una tematica particolare acquistano una certa rilevanza. Ci sono, così, i paranormal show, ovvero quei programmi basati sulle (presunte) capacità extrasensoriali di alcuni individui, o i pet show, basati sugli animali, e molti altri ancora. Ho preferito tuttavia utilizzare in questa sede le terminologie classiche perché sono molto utili per sviluppare nel modo migliore la trattazione successiva. Capire il modo in cui sono costruiti e funzionano i vari generi di format è fondamentale, infatti, per progettarli in modo professionale ed efficace. 1.2. Il format Nelle pagine precedenti si è fatto abbondantemente uso della parola «format» e di alcuni suoi (brutti, ma necessari) derivati, come «formattizzato» e «formattizzante». È ora giunto il momento di spiegare ­­­­­23

il significato esatto di questo termine, molto utilizzato, ma spesso in modo improprio. Iniziamo subito col dire che il termine «format» può avere due diverse accezioni: la prima comune e generica, la seconda tecnica e specifica3. Nel primo caso «format» equivale più o meno a «tipologia» o a «caratteristiche di fondo» di un prodotto televisivo: a volte si sente dire «il format del programma» per intendere come il programma stesso è fatto, quali sono i suoi elementi costitutivi e le sue caratteristiche peculiari. È un modo di dire che suona bene e che fa molto addetto ai lavori. Però è solo un modo di dire, appunto; ed è un modo di dire impreciso e fuorviante. L’accezione corretta di «format» è la seconda, quella più tecnica. È infatti l’accezione originaria, derivante da una necessità molto pratica e concreta, che sta alla base stessa dello sviluppo di questo campo: quella commerciale-economica. Tanto per cominciare va detto che un format, per definizione, non è mai un progetto su carta, bensì sempre e soltanto un prodotto audiovisivo compiuto. Ovvero un programma già realizzato, almeno sotto forma di pilot (ma meglio se già trasmesso in un altro paese, con dei dati di ascolto a supporto), che si possa vedere e non soltanto «leggere». Ma va aggiunto soprattutto che, se è vero che tutti i format sono programmi, non è vero l’inverso, ovvero che tutti i programmi sono format. I format sono infatti una sorta di sottoinsieme ben preciso e specifico del mare magnum dei programmi televisivi; più precisamente, sono quelli che godono di uno status ben definito. In modo sintetico ma preciso si può affermare che un format è un programma televisivo, già andato in onda da qualche parte, il cui schema base ha un valore economico. Per capire fino in fondo il senso di questa definizione occorre specificare che i programmi televisivi si vendono in due modi: come prodotto finito (finished) o, appunto, come format. 3  Spesso, in modo del tutto erroneo, si dà a «format» pure un terzo significato: quello di programma proveniente dall’estero (quindi contrapposto ai programmi nazionali). Tale accezione non è solamente imprecisa, ma anche completamente sbagliata. È infatti vero che i programmi che provengono dall’estero sono format, però non lo sono per il fatto di provenire dall’estero, ma esattamente per il contrario: provengono dall’estero proprio perché sono format. Come infatti vedremo più avanti, una delle caratteristiche base del format è di essere esportabile e di poter quindi viaggiare senza problemi da un paese all’altro. In ogni caso, dare a «format» il significato di «programma televisivo straniero» tout court è un errore grossolano.

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Nel primo caso al broadcaster vengono venduti i diritti per trasmettere un prodotto già «chiuso», realizzato cioè da una casa di produzione (più o meno) indipendentemente dal broadcaster stesso, che si limita a farlo doppiare o sottotitolare per poi metterlo in onda. Film, telefilm, serie tv, documentari, cartoni animati e, più recentemente, anche programmi d’intrattenimento «finiti» (cioè trasmessi nell’edizione originale in cui sono stati prodotti) rientrano in questa categoria4. In alternativa, non viene venduto un programma già fatto e finito, bensì, appunto, il format, cioè l’idea base e le istruzioni per l’uso con cui si può poi «assemblare» il programma televisivo per conto proprio (ma sotto il controllo, più o meno rigido, dei detentori dei diritti del format stesso). Si può a prima vista ritenere che tutti i programmi siano teoricamente dei format, poiché tutti hanno uno schema base. E invece no. Sono molti i programmi che non possono essere fatti rientrare in questa categoria perché il loro schema base, di fatto, non vale nulla. Ciò avviene nei casi in cui lo schema base non può ritenersi originale, oppure non è l’elemento distintivo, caratterizzante e portante del programma stesso. Detto in altri termini, non è il suo motivo d’interesse principale. Spieghiamoci meglio con qualche esempio. Nei game (che sono format per definizione) lo schema base è costituito dal regolamento con tutte le meccaniche di gioco. È ovvio quindi che sia l’elemento distintivo, caratterizzante e portante del programma. In parole povere, se il format è bello, per il fatto di avere meccanismi forti, giocabili e tensivi, con ogni probabilità il game avrà successo. Certo, le meccaniche da sole non bastano. Se il presentatore è debole, le domande banali e i concorrenti insignificanti (tutti elementi che prescindono dallo schema base e non sono dunque formattizzabili), il risultato finale sarà deludente. Però è indubbio che possa valere la pena spendere dei soldi per acquisire il format, se è davvero ben congegnato, perché replicando gli stessi meccanismi base si può ragionevolmente sperare di ottenere il medesimo successo avuto in un altro paese. 4   Il discorso è assai più lungo e complesso di quanto si sia qui sintetizzato. Per non commettere imprecisioni si dovrebbe infatti introdurre una vasta gamma di variabili come la territorialità, il tipo di piattaforma, le finestre temporali, nonché concetti come co-produzione, esclusiva, e molti altri ancora che non possono essere sviluppati in questa sede.

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Anche i varietà hanno uno schema base. Nella maggior parte dei casi, però, tale schema si limita alla successione, più o meno ragionata, dei diversi «numeri» di cui il varietà stesso si compone. È arduo in questo caso affermare che siamo in presenza di un format. Ciò che caratterizza e distingue il programma, infatti, non è questo semplicissimo schema (comune a moltissimi altri programmi dello stesso genere), bensì tutta una serie di altri elementi, non riconducibili a meccanismi e a snodi formali di fondo: in primo luogo l’interesse e la forza delle performance e degli artisti che le eseguono, ma poi anche il sapore del programma, il modo in cui le varie parti vengono giustapposte in scaletta, e così via. Tutti elementi, appunto, non formattizzabili. Riassumendo, si può dire che un game è un format perché il suo schema base (quello che si ripete pressoché identico in ogni puntata) lo caratterizza fortemente e può essere ragionevolmente ritenuto l’elemento critico di successo (e per questa ragione ha un valore economico in sé). Un varietà non è (generalmente) un format perché i principali motivi d’interesse non sono contenuti nel suo schema base, che non ha quindi valore commerciale autonomo. Non bisogna peraltro fare l’errore di dare al termine «format» un giudizio di merito assoluto: ci sono pessimi format e ottimi programmi generici. Quello che cambia sono le caratteristiche del prodotto e il modo in cui va costruito; oltre che, naturalmente, il modello economico che si determina. Come al solito, però, nella pratica le cose non sono mai semplici e schematiche come nella teoria. In molti casi è estremamente difficile individuare dove si trova il baricentro di un programma, se cioè nel suo schema base oppure nei suoi elementi non formattizzabili. Com’è facile intuire, quasi sempre queste due componenti formano un intreccio inestricabile. Prendiamo i reality, per esempio. È indubbio che, almeno per quanto riguarda i capostipiti di questo genere, lo schema base e gli elementi di formato sono stati determinanti per la fortuna di tali prodotti. Le nomination, il rituale delle eliminazioni, il confessionale, tanto per citarne alcuni, sono diventati vere e proprie pietre miliari della storia della televisione e hanno reso i format che li contengono dei veri successi planetari. È però ugualmente indubbio che in questo tipo di programma gli aspetti non formattizzabili sono altrettanto importanti: i personaggi che entrano a ogni nuova edizione nella casa del Grande Fratello (o che sbarcano sull’Isola dei famosi...), le dinamiche relazionali che si stabiliscono tra di loro, ­­­­­26

le sorprese che si verificano in ogni puntata, e molto altro ancora, sono ingredienti fondamentali. Oltretutto, nelle ultime edizioni gli elementi formattizzanti si sono, per così dire, decolorati. I tratti distintivi principali sono diventati comuni a una moltitudine di format similari e vengono oramai un po’ dati per scontati. Di conseguenza, hanno assunto un’importanza ancora maggiore il gossip, le dinamiche relazionali, gli ospiti esterni e tutti gli aspetti sovrastrutturali e contingenti (contrapposti a quelli strutturali e fissi, nel senso che si ripetono in ogni puntata), a scapito delle meccaniche e degli snodi di formato puri. I reality possono quindi ancora essere considerati format? Certamente sì, nella maggioranza dei casi. Perché comunque è quasi sempre possibile rintracciare qualche elemento formattizzante di fondo, che funge da binario, o piuttosto da gabbia all’interno della quale il programma viene contenuto e prende forma. Sarebbe in effetti più corretto, anziché stabilire in maniera rigida e dicotomica se un prodotto televisivo sia un format o meno, valutare il suo «grado di formattabilità», ovvero in che misura siano presenti nel programma quegli elementi formattizzanti in grado di dare valore economico al suo schema base. I prodotti con un «grado di formattabilità alto» sono soprattutto i game, in cui gli elementi di formato, sempre imprescindibili, si cristallizzano in un regolamento molto puntuale e preciso, che ha anche validità legale. Non è un caso che i primi format commercializzati, sin dagli albori del mezzo televisivo, siano stati appunto i game. Dal lato opposto, i programmi con «grado di formattabilità basso» sono quelli in cui il contenuto performativo o informativo è preponderante (ovvero quelli che rientrano nelle aree di contenuto dello show e dell’informazione). In questi casi, addirittura, una gabbia formattizzante troppo rigida e serrata rischia di essere controproducente. Infatti le performance di tipo artistico (canto, ballo, comicità...) e le informazioni in senso lato (dibattiti in studio, filmati e servizi di approfondimento...) sono spesso refrattarie a schemi base troppo vincolanti e quindi, per loro natura, limitano al massimo gli elementi formattizzanti in senso stretto. In mezzo, con un «grado di formattabilità medio», si trovano quei prodotti che mescolano con varie formule e varie gradazioni elementi di formato con elementi di altro tipo. Rientrano in questa categoria generi fondamentali come il reality e il talent, mentre per il factual bisogna considerare i vari sottogeneri o addirittura il singolo programma: in alcuni casi è ­­­­­27

possibile rintracciare snodi ed elementi formattizzanti di una certa importanza; in altri, se ci si limita a raccontare un personaggio o un gruppo di personaggi senza alcun intervento esterno percepibile, il «grado di formattabilità» risulta naturalmente basso. In ogni caso, a determinare in ultima istanza lo status di format è il fattore economico e, di conseguenza, anche l’abilità e la forza contrattuale di chi detiene i diritti. Se viene venduto come format un programma con pochi o punto elementi formattizzanti, quel programma diventa format ipso facto. La vera e unica regola certa in questo campo molto complesso e molto confuso è infatti la seguente: è format tutto ciò che si riesce a vendere come tale. Ci sarebbero ancora moltissime cose da aggiungere. Anche tralasciando gli aspetti legali, che esulano dai confini di questo libro, quello del format è infatti un tema potenzialmente inesauribile. Per non appesantire troppo questo capitolo introduttivo, però, ci limiteremo ad accennare alle tre caratteristiche fondamentali che qualunque tipo di format deve necessariamente possedere per potersi davvero fregiare di questa definizione. 1) Originale Lo schema base del programma deve differenziarsi in modo significativo da tutti gli altri presenti sul mercato. Dal momento che è impossibile che l’intero schema base sia completamente originale, è necessario che sia originale almeno un aspetto o un dettaglio caratterizzante. La mancanza di originalità in un prodotto televisivo può essere di due livelli. Può trattarsi di una mancanza di originalità assoluta, nel senso che il suo schema base è costituito (coscientemente o meno) da elementi del patrimonio comune dell’universo televisivo, senza nessun dettaglio davvero innovativo e distintivo. Programmi (difficile parlare di format, in questi casi) che si basano per esempio su interviste, su una semplice giustapposizione di «numeri» artistici, sul lancio e il commento di filmati in esterna, sullo scambio di opinioni tra gli ospiti, o su altri contenuti di questo tipo, non possono essere considerati originali, perché in circolazione ci sono infiniti altri programmi con questi stessi elementi. Se dunque uno schema base non contempla alcun aspetto realmente distintivo, ma si limita a riproporre con minime variazioni schemi diffusi da decenni, è ovviamente molto difficile che possa avere valore economico: sarebbe infatti estremamente sciocco sborsare una somma di denaro per ­­­­­28

qualcosa che è a disposizione di tutti, dal momento che si tratta di cose vecchie come la televisione, su cui nessuno può vantare diritti. Oppure può trattarsi di una mancanza di originalità relativa. In questo caso lo schema base ha dei meccanismi e degli aspetti che differiscono in modo significativo da quasi tutti i prodotti in circolazione, e tuttavia esistono già format (o anche un solo format) che presentano quegli stessi elementi. Non si tratta solamente di plagi intenzionali (che pure ci sono). Chi non conosce il mercato dei format tende sempre a sottovalutare il numero dei prodotti in circolazione. Bisogna farsene una ragione: di format (belli o brutti, poco importa) è pieno il mondo. E «pieno» non è un semplice modo di dire: ogni mese vengono sfornati in ogni angolo del globo centinaia di format, il che fa migliaia di format all’anno. Di contro, gli schemi base efficaci e in grado di assicurare il successo, o perlomeno una dignitosa tenuta del prodotto, non sono poi moltissimi. Capita dunque molto più spesso di quanto non si immagini di scoprire che la nostra bellissima idea, di cui eravamo tanto fieri e che tanta onesta fatica ci è costata, fa già bella mostra di sé da anni in un format danese o argentino, o di qualche altro paese ancora. Inutile prendersela: questo è il contesto in cui ci si trova a operare, e non resta che prenderne atto. È un’attività, questa, che non si può pensare di portare avanti chiusi in una torre d’avorio, guidati soltanto dal proprio senso artistico e creativo. Per lavorare in modo serio e professionale bisogna prima di tutto sforzarsi di conoscere nel modo migliore possibile i prodotti più interessanti in circolazione. Quindi, una volta resisi conto della varietà dell’offerta, dirigire i propri sforzi per cercare di trovare non tanto uno schema base completamente originale (cosa praticamente impossibile), ma almeno un particolare o un dettaglio caratterizzante di reale innovazione. 2) Replicabile Il format è replicabile per definizione. Deve cioè poter andare in onda tutte le volte che serve, per il numero di puntate che serve. Un programma che è, per sua natura, «a scadenza», ovvero che riveste carattere d’eccezionalità, ed è limitato a un contesto o a una situazione specifica e contingente, non è e non potrà mai essere considerato un format. Il format deve essere un motore, efficiente e affidabile. Quando è necessario metterlo in moto, basta girare la chiave e il format parte. ­­­­­29

Certo, come tutti i motori e le cose di questo mondo, anche il format ha un suo ciclo di vita: dopo un po’ invecchia e muore. Ma deve morire dopo un periodo sufficientemente lungo di onorato servizio, di morte naturale o ucciso da format più aggressivi, che si sono darwinianamente adattati meglio all’ambiente. Non perché abbia impressa sin dalla nascita la data di scadenza. I format e i «programmi evento» sono due categorie distinte. Sono entrambi fondamentali per un broadcaster, ma non bisogna confonderli. Se un programma è legato in modo indissolubile a un avvenimento particolare e contingente, a un personaggio speciale la cui comparsa sul piccolo schermo è già di per sé qualcosa di eccezionale, o a qualunque altro fatto che lo caratterizzi come straordinario (proprio nel senso letterale di «al di là dell’ordinario»), non può essere un format. Un format è, al contrario, qualcosa di routinario, quotidiano, continuo. Si può nutrire della cronaca e di quel che accade qui e ora, ma, nella sua struttura di fondo, è oltre la cronaca e il qui e ora. La sua messa in onda dipende perciò solo da scelte strategiche di palinsesto e non da altri fattori esterni (persone, avvenimenti particolari ecc.). Un format è quindi per definizione sempre replicabile, perché, fondamentalmente, dipende solo da sé stesso. 3) Esportabile Il format viaggia. Supera confini, barriere, nazioni e continenti, adattandosi a qualunque realtà (o quasi). Se un programma è così strettamente legato a un singolo e specifico contesto da rendere impossibile la sua esportazione, non può essere considerato un format. Delle tre condizioni date, quest’ultima è la meno difficile da rispettare. Più un format pesca in profondità, ovvero si basa su meccanismi ed emozioni di base, che fanno leva su valori profondi e condivisi, più la sua efficacia è globale. I format più forti, quelli meglio progettati, funzionano infatti quasi ovunque, al Nord come al Sud, all’Est come all’Ovest. Quello che può variare da un paese all’altro è, al limite, il «vestito» del format, ovvero l’aspetto più superficiale del prodotto, la sua confezione visiva e i particolari di contorno. Tratteremo nell’ultimo capitolo l’argomento, complesso ma affascinante, dell’adattamento. Per ora basti semplicemente accennare al fatto che è estremamente pericoloso modificare troppo il meccanismo e il concept primigeni. Se si ritengono necessari cambiamenti radicali, è meglio scegliere e puntare direttamente su un altro for­­­­­30

mat (o costruirselo su misura, che a volte è la soluzione migliore). Inoltre gli adattamenti, anche se non sono proprio dannosi, molto spesso sono francamente inutili. Al di là degli elementi di contorno, infatti, se un format è davvero buono non ha quasi mai bisogno di essere adattato. Per questa ragione un vero format può sempre essere esportato: tutti i format, se sono format veri, valgono sempre e valgono pressoché ovunque. In ultima analisi, è proprio questo il loro vero segreto e la loro vera forza. Alcuni meccanismi base su cui lavorano molti dei migliori format in circolazione hanno infatti un’efficacia quasi universale, al pari di certe fiabe e intrecci narrativi che attraversano con forza inalterata secoli e nazioni.

Capitolo 2

Primi principi

2.1. Cosa significa progettare format Le coordinate teoriche sono state date: ora è tempo di immergerci nella pratica. Bisogna iniziare a mettere in fila i principi base per intraprendere l’attività di progettazione di format in modo corretto, efficace e professionale. Prima però occorre rispondere a una domanda di fondo, che potrebbe apparire banale ma che invece banale non è affatto: cosa significa di preciso progettare un format? Tutti, o quasi, sono convinti di conoscere la risposta, almeno in linea di massima. Se però si va a vedere il frutto dell’operato della maggior parte degli autori (o presunti tali), si scopre che solamente molto pochi di loro hanno idee sufficientemente precise al riguardo. Nel corso della mia attività ho dovuto esaminare per lavoro oltre 5.000 (presunti) paper format, che costituiscono appunto il risultato finale concreto e tangibile dell’attività di progettazione. Ebbene, posso assicurare per esperienza diretta che solamente una minima parte era formalmente corretta. Ovvero, senza entrare nel merito del fatto che i progetti fossero interessanti o meno, solo una minima parte di quei lavori poteva fregiarsi a buon diritto dell’etichetta di paper format. E questo vuol dire che solo una minima parte degli autori di quei progetti (e sto parlando di alcune migliaia, non di poche decine) aveva ben chiaro che cosa significhi davvero progettare i format. Mi sembra perciò corretto iniziare il discorso sulla progettazione rispondendo per prima cosa a questa problematica di base. Iniziamo col dire cosa non significa progettare un format. Buttare sulla carta una semplice idea, priva di sviluppo, non significa ­­­­­32

aver progettato un format. Un’idea è solo un’idea: può essere bella o brutta, ma, da sola, non vale nulla, assolutamente nulla. Chiunque può avere un’idea per un programma televisivo; una quantità enorme di persone è fermamente convinta di averne avuta una, e non una semplice idea: un’idea geniale e di originalità assoluta, naturalmente. Ma, anche nella remota ipotesi che ciò possa essere vero, non significa ugualmente aver progettato un format. Un’idea su carta è un’idea su carta e basta, senza valore né status di alcun tipo. Chi si ferma a questo stadio, e pensa di aver scritto un paper format o, addirittura, un format tout court (che invece, come abbiamo visto, è solo un prodotto audiovisivo già realizzato e messo in onda), è viceversa convinto che l’attività del progettatore di format consista esclusivamente nell’avere idee, astratte e non calate in un contesto preciso, che poi qualcun altro si incaricherà di sviluppare, trasformandole in qualcosa di visivo e di concreto. Naturalmente pagando profumatamente l’autore della favolosa idea di partenza. Bisogna invece mettere subito in chiaro che progettare un format vuol dire averlo pensato nella sua interezza, in tutti i suoi possibili sviluppi e in tutti i suoi possibili snodi, come se fosse pronto per andare in onda, e «ridurlo» quindi su carta. Spero che il diverso cambio di prospettiva sia chiaro. Nel primo caso ci si limita a pensare un’idea generica, senza nessun tipo di articolazione né di dettaglio. Si è quindi in presenza solo di uno spunto (più o meno buono, ma non è questo quello che conta), che è poco più di una dichiarazione d’intenti. Nel secondo caso, invece, si ha un semi-elaborato che cerca di riprodurre, o meglio ancora di tradurre su carta, un programma pensato nella sua compiutezza e nella sua plasticità audiovisiva, strutturato nella sua interezza, con tutti gli snodi di meccanismo, di sviluppo diacronico, comprensivo anche degli elementi di vestito più esteriori ma fondamentali (ambientazione, esempi, dettagli grafici e scenografici...), che servono a caratterizzarlo e a dargli un’identità precisa e definitiva. Un paper format formalmente corretto deve essere quindi la trasposizione su carta quanto più fedele del risultato audiovisivo finale, in modo che il progetto cartaceo sia il più vicino possibile all’effettiva resa televisiva. Un bravo progettatore di format è dunque colui che non solo riesce a progettare snodi e meccanismi formattizzanti efficaci, ma è anche in grado di tradurre su carta tali meccanismi in immagini, suoni e perfino emozioni, sviluppando in modo compiuto le idee da ­­­­­33

lui concepite al fine di ridurre lo iato esistente tra paper format e format vero e proprio. È chiaro che, stando così le cose, avere avuto un’esperienza concreta di almeno qualche anno all’interno di una produzione aiuta molto. Si può iniziare a elaborare dei paper format anche subito, agli esordi dell’attività autoriale. Ma è indubbio che aver conosciuto la macchina televisiva dall’interno permette di strutturare i paper format in modo più completo e professionale. È vero però anche che, in alcuni casi, un’eccessiva pratica può essere controproducente. Alcuni addetti ai lavori, infatti, proprio per il fatto di avere partecipato alla realizzazione di moltissimi programmi, hanno la tendenza a replicare tutti gli stereotipi che hanno assorbito nel corso della loro lunga attività, perdendo la capacità di distinguere le cose che funzionano davvero da quelle che si devono fare solamente perché si sono sempre fatte (almeno in Italia). Per questo servono menti fresche, che si cimentino in modo non dilettantesco nell’attività di progettazione di format. Autori, giovani e meno giovani, che abbiano ben chiaro quali caratteristiche strutturali debba avere un buon format e che però, al contempo, non disdegnino di sporcarsi le mani con i mille problemi, i vincoli, le difficoltà e le incongruenze della macchina produttiva. Che sappiano unire un po’ di robusta teoria (sfortunatamente ancora poco presente in questo campo) con la sana pratica quotidiana. Che abbiano un metodo di lavoro preciso e una visione rigorosa della meta finale, ovvero di quali siano le caratteristiche di un buon format, ma che conoscano anche il contesto con il quale bisogna venire necessariamente a patti. 2.2. Le sette regole di base Partiamo dal generale. Ovvero dalle caratteristiche base che tutti i format devono possedere, indipendentemente dal genere, dalla durata, dalla rete, dalla collocazione in palinsesto e da qualunque altra variabile, pur rilevante: una sorta di prerequisiti di base, senza i quali i format, molto semplicemente, non sarebbero tali, oppure sarebbero terribilmente deboli. Nei prossimi capitoli scenderemo invece nel dettaglio, suddividendo i format nelle macro-aree di contenuto delineate nel capitolo 1, in modo da analizzare meglio le specificità di ciascuna famiglia. ­­­­­34

Non sono poi molte le cose che contano davvero in questo campo: mi sono sforzato di non superare il tetto di sette e non è stata impresa eccessivamente difficile. Sono però tutte di importanza fondamentale, tanto che il mancato rispetto di una sola di queste indicazioni comprometterebbe irrimediabilmente l’esito finale. Certo, alcune di esse potranno apparire sin troppo semplici: ammettiamolo pure; ma è un dato di fatto che molti dei format in circolazione hanno fallito clamorosamente gli obiettivi d’ascolto proprio per aver disatteso queste poche, semplicissime, regole. Quindi il fatto di elencarle in modo sistematico non penso sia fatica inutile. 1) Avere un’idea L’idea centrale deve essere una sola, ma forte abbastanza da costituire il perno dell’intero format. Evitare le costruzioni «ad accumulo»: una serie di idee giustapposte, nessuna delle quali in grado di dare una vera identità al programma. I prodotti così concepiti non sono mai veri format; e spesso non funzionano neanche. Tanto per cominciare, è fondamentale che l’idea centrale alla base di ogni format sia una e non più di una, ma deve essere così forte da innervare l’intero programma, di cui costituisce al tempo stesso il motore e l’elemento portante. Il format non è infatti una somma di elementi disparati o un contenitore che raccoglie in ordine sparso spunti eterogenei. Il format, casomai, è simile a una ruota, che gira costantemente attorno a un perno centrale. Quel perno centrale è, appunto, l’idea-nucleo, che fa ruotare tutti gli altri elementi intorno al proprio asse. Se si assimila questo concetto fondamentale si è già a buon punto, sia per quanto riguarda l’atto di progettazione originale, sia per quanto riguarda la corretta valutazione di molti casi di insuccesso. Molti programmi (non chiamiamoli format, per favore) sono andati male semplicemente perché, alla base, non c’era un’idea chiara e forte. E quando si cerca di sopperire con tante ideuzze deboli alla mancanza di un’idea centrale forte il programma non solo non è un format, ma molto spesso non funziona nemmeno. Eppure, specie qui in Italia, questo concetto basilare fa ancora molta fatica a essere accettato. Una delle ragioni del mancato rispetto di tale regola è che da noi si ragiona ancora più per «volti» che per format. Ovvero si costruiscono programmi non partendo da un’idea nucleo di base, bensì intorno a un personaggio, più o meno famoso. In questo caso, ovviamente, il perno centrale è dato dal personaggio stes­­­­­35

so, attorno al quale si aggiungono pezzi senza una logica complessiva. La cosa funziona se il personaggio in questione è davvero straordinariamente forte e rilevante (e non sono molti i personaggi così); in caso contrario questo modo di procedere non porta mai ai risultati sperati. In altri casi, invece, un’idea centrale ci sarebbe pure, almeno in teoria. Però non viene ritenuta sufficientemente forte e le vengono perciò affiancate idee secondarie che dovrebbero farle da supporto. Il risultato finale in genere è un disastro. L’idea centrale viene smarrita e si perde per strada, mentre quelle ancillari sono troppo deboli per prenderne il posto. Il programma non ha di conseguenza né baricentro, né logica interna. Se si ritiene che l’idea centrale non sia sufficiente per sostenere l’intero programma, l’unica cosa da fare è avere il coraggio di accantonarla e cercare un’idea più forte, anziché mettere dei puntelli che non servono a niente, e anzi danneggiano il programma spesso in modo irreversibile. In altri casi ancora, infine, si procede quasi scientemente a una costruzione «ad accumulo», altrimenti detta «cose a caso». Ovvero ci si riunisce tutti (autori, produttori, regista, artisti...) in una sala senza partire da una base comune e ognuno espone le sue idee. Poi qualcuno si incarica di mettere insieme il tutto, in modo più o meno coerente, e il programma è fatto. Anche in questo caso i risultati sono quasi immancabilmente disastrosi. Ma il vero peccato è che spesso alcune o molte di quelle idee sarebbero buone o perfino ottime. Però, buttate tutte insieme in un calderone unico, non hanno lo spazio né la possibilità di emergere e sono quindi condannate all’insuccesso o, al massimo, all’anonimato di una prestazione mediocre. La costruzione ad accumulo, infatti, oltre a privare di fatto il programma di una precisa identità narrativa, rende il telespettatore (distratto e volubile per definizione, specie quando guarda programmi d’intrattenimento) più propenso a cambiare canale a ogni cesura tra un pezzo e l’altro, penalizzando quindi gli ascolti. Invece un racconto lineare e consequenziale, retto da un’idea centrale e da un motore unico, agisce in direzione esattamente contraria: ovvero spinge alla visione prolungata del programma, per la curiosità di vedere come evolve e come va a finire. 2) Essere semplici La semplicità, nell’intrattenimento, è una delle regole fondamentali. È il contenuto che deve sforzarsi ad arrivare al target e non viceversa. Questo significa incentrare l’intero programma su una promessa unica ­­­­­36

e chiara e sviluppare un percorso diretto e di immediata comprensione. La bravura sta nell’evitare la banalità, dati questi paletti stringenti. Torneremo più e più volte su questo punto, di importanza davvero fondamentale. Nell’affollata arena mediatica il telespettatore non ha voglia di fare fatica. Non l’ha mai voluta fare, a dire il vero; o perlomeno non di fronte ai programmi d’intrattenimento, che sono, per definizione, di consumo immediato e totalmente disimpegnato. Ma adesso questa tendenza è forse ancora più accentuata, dato che si troverà sempre un’alternativa meno faticosa in uno delle decine o centinaia di canali concorrenti a disposizione. L’autore televisivo, invece, è spesso convinto che la propria creatura abbia sempre e comunque qualcosa di speciale e che, per questa ragione, il telespettatore le accorderà un’attenzione particolare, scegliendola fra tutte le altre, sintonizzandosi all’inizio esatto del programma per non perderne nemmeno un minuto e seguendolo fino alla fine, a dispetto delle sue complessità e lungaggini. Le cose non stanno affatto così, ovviamente. A parte i pochi appuntamenti fissi, la regola è che si capita su un programma molto spesso per caso, e quando è già iniziato, non importa se da tanto o poco tempo. Se si è messi nelle condizioni di capire subito quello che sta accadendo, forse (e sottolineo forse) ci si fermerà, protraendone la visione. Altrimenti, è sicuro che si cambierà immediatamente canale. Semplicità vuol dire quindi farsi capire da tutti, in qualunque momento, anche a programma già cominciato, a partire da quelli che non hanno la minima idea di ciò che stanno vedendo. Non è un risultato facile da perseguire. Paradossalmente (ma neanche tanto) la facilità è difficile. Per essere semplici occorre come prima cosa che l’idea base (o idea nucleo) su cui il format si regge deve poter essere racchiusa in poche frasi (4 o 5) di chiarezza cristallina, per un totale di 15/20 righe al massimo. Sono ordini di grandezza di massima, ovviamente. Ma se si analizzano i concept (ovvero la parte del paper format che descrive l’idea nucleo) dei più importanti format d’intrattenimento a livello mondiale, questi numeri trovano immediata conferma. L’enorme successo del game Affari tuoi, per esempio, è in parte dovuto anche all’estrema semplicità del suo meccanismo, che è in grado di raccontare una storia avvincente e ricca di colpi di scena attraverso poche, facilissime regole, di immediata comprensione. Fondamentalmente, infatti, l’intero edifico narrativo si regge su due ­­­­­37

soli principi: 1) il concorrente deve togliere dal gioco a uno a uno i 19 pacchi dentro cui si celano altrettanti montepremi di valore diverso; 2) il concorrente può accettare o meno le offerte e le proposte che gli vengono fatte di volta in volta da un personaggio misterioso. Il telespettatore non ha bisogno di sapere altro per capire il gioco e seguire senza difficoltà la storia del concorrente protagonista, impegnato nella ricerca della parte di bottino più consistente possibile. Anche lo sviluppo del format deve essere il più possibile lineare. Date dunque le premesse iniziali, il racconto deve scorrere liscio e fluido, all’interno dei binari dell’idea nucleo, seguendo quasi una legge fisica di causa/effetto: se immetto i fattori A e B, devo avere come conseguenza diretta C, che è la più logica e inevitabile; e così via per tutti gli altri snodi che il format di volta in volta propone, fino alla chiusa finale. Infine, è bene che i generi di riferimento siano il più possibile «dritti». I sottogeneri con una doppia chiave di lettura, o che si muovono su più piani (realtà e finzione, per esempio), funzionano meno bene degli altri, o comunque devono essere trattati con una cautela molto maggiore. Si potrebbe pensare che tutti questi paletti costituiscano una barriera insormontabile alla creatività e che i format nati all’interno di questi angusti confini non possano che essere a loro volta angusti e miseri. E invece no. Trovare soluzioni facili e dirette ma efficaci, progettare format di purezza cristallina che possono essere racchiusi nella loro essenza in poche e semplici righe, ma che riescono a varcare confini, catturando un pubblico vastissimo di molte nazioni e continenti, è un esercizio fortemente appagante di creatività. I più bei format a livello mondiale sono sempre estremamente semplici: e questo è un dato di fatto. Un bravo autore, insomma, deve perseguire ostinatamente la semplicità, evitando però accuratamente la banalità. 3) Puntare su ciò che conta Le cose che contano davvero, nei programmi d’intrattenimento, sono solo quelle racchiuse nel quadrato dei contenuti. Quindi un format o deve fare emozionare il telespettatore, o deve stimolarlo a indovinare qualcosa, o lo deve far ridere (o, perlomeno, sorridere), o deve fargli apprendere qualcosa (o dargli l’illusione di apprendere qualcosa). Se il programma non fa niente di tutto ciò, quasi sicuramente non funzionerà. ­­­­­38

Le idee nucleo alla base dei format d’intrattenimento possono essere infinite. Le loro finalità, invece, sono di numero estremamente limitato. In pratica, le idee devono assolvere a pochi, semplici bisogni. Tali bisogni sono tutti racchiusi nel quadrato dei contenuti analizzati nel capitolo precedente. A essi il progettatore di format, sia alle prime armi sia di lunga e navigata esperienza, dovrebbe attenersi scrupolosamente, senza andare a cercare troppo lontano. Fare emozionare, trasmettere sensazioni e stimoli forti al telespettatore è forse la cosa che, nei format d’intrattenimento, conta di più. Per fare emozionare il telespettatore occorre far emozionare i partecipanti al programma, con cui in precedenza il telespettatore deve essere fatto immedesimare. Ergo, i format devono essere pensati come macchine per trasmettere shock emotivi ai protagonisti. I reality, i talent e perfino i game migliori (ma non solo loro) sono esattamente questo e funzionano proprio per questo. Ma anche i format che non sono totalmente racchiusi in queste etichette possono (e anzi devono) attivare questo tipo di leva. Che, quando c’è ed è utilizzata nel modo giusto, non è mai inutile. È bene quindi che ci sia una «spruzzata» d’emozioni, più o meno consistente, in quasi ogni tipo di programma, sia pure come elemento accessorio. Spesso non si tratta di ottenere chissà quali scosse emotive. A volte basta uno sguardo significativo di un partecipante, una smorfia di contrarietà o un fugace sorriso di gioia, per dare all’intero format un motivo d’interesse ulteriore, che si aggiunge agli altri già presenti, a cui il format attinge in modo più cospicuo (ad esempio, il contenuto informativo). Insomma, l’emozione è un po’ il sale di quasi tutti i programmi d’intrattenimento: ne basta poco per valorizzare tutti gli altri ingredienti e dare più gusto all’intera pietanza. Anche stimolare a indovinare qualcosa, facendo quindi giocare in modo attivo il telespettatore, è un meccanismo estremamente potente. Come già detto, e come d’altronde è facilmente intuibile, si ottiene questo risultato principalmente nei game show, ponendo domande o dilemmi di altro tipo al concorrente in studio, a cui anche il telespettatore è chiamato a rispondere. Ma non solo. Come l’emozione si può trovare in piccole dosi in programmi non interamente incentrati su di essa, così anche alcuni meccanismi base di gioco si trovano inseriti qua e là in alcuni snodi fondamentali di programmi che non rientrano nella categoria dei game (o vi rientrano solo parzialmente). Cercare di prevedere se la persona amata comparirà ­­­­­39

o meno dietro la porta di Stranamore, o quale dei concorrenti in nomination subirà l’onta dell’eliminazione nei reality, o quale sarà il giudizio della severa giuria al termine di un’esibizione di un talent, sono alcune delle infinite declinazioni con cui si attiva questo intrigante meccanismo. In particolare, questa tecnica può essere utilizzata per stimolare l’attenzione del telespettore, chiamandolo in causa in punti cruciali del programma, in modo da tenerlo sempre sul chi vive. Ovvero, farlo partecipare in maniera attiva, che è sempre una delle chiavi principali del successo televisivo. Far ridere è un altro elemento chiave. La risata arriva subito al telespettatore. Se un programma fa ridere, non ha bisogno d’altro, neanche di essere formattizzato. Però l’arte di far ridere è tutt’altro che facile e gli autori che la padroneggiano a regola d’arte sono relativamente pochi. Sembra assurdo, ma la maggior parte delle proposte di programmi che arrivano sono delle semplici dichiarazioni d’intenti. Cioè si limitano a dire che il programma dovrebbe far ridere, specie se viene assicurata la presenza di comici brillanti. Il che è ovviamente una sciocchezza: è come dire che un film funziona se ha una trama forte, un ottimo regista e bravi attori. In realtà la risata, come abbiamo visto, è solo una delle componenti del vasto e variegato mondo degli show, che è un’area di contenuto a sé stante. Mentre però tutte le altre forme di spettacolo sono una sorta di blocco monolitico confinato all’interno della singola esibizione o performance (il musicista che esegue il suo brano, il mago che esegue il suo numero, l’attore che recita il suo pezzo ecc.), la risata, oltre a essere più efficace (tanto da poter reggere un intero programma), è più trasversale e si presta quindi meglio a essere inserita senza forzature e incoerenze in programmi di altro tipo, dando una chiave e un motivo d’interesse ulteriori, così come l’emozione e la giocabilità. L’ultima delle quattro modalità (l’informazione) è invece decisamente la più problematica, la più segmentante e quella che fuoriesce di più dai confini di questo libro, dal momento che tale tipo di programmi ha quasi sempre un grado di formattizzazione molto basso o addirittura nullo. Pressoché tutti i programmi di informazione presentano infatti quasi sempre delle formule e schemi base molto comuni e ipercollaudati, in modo da concentrare l’attenzione del pubblico sul contenuto in quanto tale. Per concludere, si può affermare che questi quattro contenuti base, più che essere prerogativa di quattro generi distinti, sono ele­­­­­40

menti che possono essere presenti simultaneamente in programmi anche molto diversi. È bene, infatti, che un format faccia riferimento a una sola classe di contenuto, in modo da presentare una promessa unica e netta. Fatta salva questa chiarezza di fondo, però, quasi ogni format può essere proficuamente arricchito con innesti intelligenti e mirati di elementi propri delle altre aree del quadrante. Se questa operazione è fatta con intelligenza e coerenza, il contenuto base non solo verrà salvaguardato, ma sarà impreziosito di sfaccettature e chiavi di lettura ulteriori che lo renderanno più unico ed efficace. 4) Dare sviluppo Il format non è statico, ma deve essere fatto evolvere lungo una direzione chiara e precisa, fino a una conclusione forte e sanzionatrice. Il format è una specie di motore che porta avanti l’azione, dando un impianto narrativo alla materia trattata. Tutti i format, in fondo, raccontano quindi una storia. Il format progredisce, si sviluppa. Questo perché tutti i format raccontano una storia, nonostante le apparenze e le diverse forme che la storia stessa viene ad assumere. E questo vale anche nel caso dei format che, per loro natura, sembrano essere molto lontani da una struttura esplicitamente narrativa. Per esempio, il concorrente di Chi vuol essere milionario? è un vero e proprio eroe, che deve compiere un viaggio scandito in quindici prove (le quindici domande di cui si compone il percorso) per riuscire a raggiungere un fantastico tesoro (il milione di euro finale). Durante il suo viaggio, oltre a superare le prove esterne, affronta anche un vero e proprio percorso di formazione, vincendo la tentazione di fermarsi per intascare quanto già vinto, abbandonando la ricerca. A sua disposizione ha però tre aiuti magici (la telefonata, il 50% e il giudizio del pubblico), che può utilizzare quando serve. La storia che il format racconta è quindi quella di un vero e proprio viaggio iniziatico, dotato di tutti gli elementi dell’epos classico. Il rapporto format-sviluppo è talmente forte da presentarsi quasi in forma biunivoca. Ovvero, (quasi) tutti i format hanno uno sviluppo e (quasi) tutti i programmi che presentano uno sviluppo possono essere considerati format. In concreto, «dare sviluppo» significa che la storia raccontata dal format deve evolversi e cambiare, andando da una situazione A di partenza fino una situazione B di arrivo, che sia significativamente ­­­­­41

diversa (in termini visivi, psicologici e strutturali) da A. È infatti fondamentale dare al telespettatore la sensazione che stia sempre accadendo qualcosa. Per questa ragione il format si deve muovere lungo un binario predeterminato e deve sempre avanzare verso una meta precisa. Il concetto di sviluppo si accompagna sempre a quello di mutamento, che si verifica all’interno e per mezzo del format stesso. Attraverso il format si verifica un cambiamento di stato, graduale o improvviso, che modifica significativamente la situazione di partenza, trasformandola in qualcosa di nuovo e di diverso, fino a sfociare verso una conclusione appropriata, che sappia dare un senso e una sanzione definitiva a tutta quanta la storia che viene raccontata. Per loro specifica natura, i veri format si possono paragonare a una specie di motore che fa avanzare l’azione in una direzione ben precisa, attraverso tappe intermedie e ben scandite, fino alla sua naturale conclusione, che in genere non è mai completamente aperta e libera, ma limitata a poche opzioni possibili (in genere solamente due, di segno opposto: sì/no, vincita/perdita, alternativa A/alternativa B). Questo modo di portare avanti un’azione (di qualunque azione si tratti) è di per sé già una modalità di racconto e, di conseguenza, contiene in sé anche gli elementi fondamentali per avere uno sviluppo di tipo narrativo; e quindi per costruire una storia vera e propria. Il fatto che debbano esserci uno sviluppo e un mutamento di stato chiaro ed evidente è un concetto affatto banale quando si parla di fiction; meno scontato se il soggetto è l’intrattenimento. Eppure i due mondi, almeno da questo punto di vista, non sono poi così distanti. In Stranamore, e negli emotainment in genere, il protagonista dell’episodio entra in una struttura formattizzante che lo renderà una persona diversa alla fine dell’episodio stesso: ritroverà l’amore perduto in caso di lieto fine; avrà maggiore consapevolezza di sé e della sua situazione in caso di mancanza di happy end. Nei talent si parte da un numero grande e anonimo di sconosciuti, per arrivare nell’ultima puntata a un solo vincitore, già in parte affermato presso il grande pubblico, finalmente sicuro di sé, delle sue capacità e del suo talento. Per non parlare delle docusoap e dei generi e sottogeneri affini, che mutuano direttamente dalla fiction la struttura narrativa (adattandola, ovviamente, ai ritmi e ai vincoli dell’intrattenimento). E così via. Nel corso dell’attività di progettazione, l’autore deve dunque porsi le seguenti tre domande: ­­­­­42

i) Il format sta andando da qualche parte, ovvero si sta evolvendo lungo una direzione? ii) Tale direzione è chiara, univoca e immediatamente decifrabile anche da parte del telespettatore più distratto? iii) La conclusione del format sancisce in modo evidente il percorso compiuto dal format stesso, dando un senso generale e un finale degno di questo nome? Quindi un autore che si sta accingendo a progettare un format deve (punto i) pensarlo da subito in vista e in ragione del suo sviluppo e in modo che una progressione narrativa di qualche tipo, in senso più o meno lato, sia naturale, logica e non forzata. Deve poi (punto ii) punteggiare l’intero percorso del format di snodi chiari e visivamente oggettivi, in grado di rendere evidente lo sviluppo del percorso stesso. Questo avviene se si introducono, per esempio, eliminazioni progressive di concorrenti così da dare appunto il senso della scansione temporale, magari sviluppando un percorso a imbuto; oppure visualizzando da qualche parte (banchetti, pannelli luminosi) a cadenza regolare il punteggio, in modo, anche in questo caso, da rendere evidente il progressivo avanzamento verso la meta; oppure introducendo elementi simbolici che, accumulandosi o viceversa diminuendo progressivamente, scandiscano le tappe di questo sviluppo; o ancora affidando questo ruolo di «evidenziatore di sviluppo» a effetti luminosi, scenici o grafici; e così via. Insomma, i mezzi a disposizione sono vari e bisogna utilizzarli al meglio per segnare in modo lampante la direzione e l’evoluzione che la parabola del format sta compiendo, anche a uso di chi non si è sintonizzato esattamente all’inizio della trasmissione. Infine (punto iii), ci deve essere un finale all’altezza delle aspettative, che dia una conclusione evidente e una sorta di sigillo sanzionatore a tutto il percorso, senza dare la sensazione di arenarsi e perdersi un po’ nel vuoto solo perché il tempo a disposizione è terminato. Questo si ottiene presentando una situazione finale sostanzialmente ed evidentemente diversa rispetto a quella iniziale. Tale diversità deve essere sempre evidenziata in modo netto ed esplicito, anche a costo di sembrare un po’ ridondanti. Pure in questo caso i mezzi a disposizione sono vari e riconducibili all’elemento umano, scenografico, grafico e simbolico. Tutto ciò che si vuole, purché si dia rilievo al fatto che c’è un finale vero e non un semplice termine di percorso. Bisogna anche tenere a mente una considerazione molto importante. Questo processo di avanzamento non è mai automatico o ­­­­­43

spontaneo. Le cose davvero interessanti non accadono mai da sole. Le cose che spingono avanti il programma devono essere fatte accadere, e non si deve aspettare, più o meno passivamente, che avvengano. Solo i meccanismi artificiali, creati ad hoc dal format (eliminazioni, sistemi di punteggio...), sono in grado di dare uno sviluppo costante e significativo. Se tali meccanismi non ci sono (nemmeno in forma larvale), e ci si limita a seguire banalmente qualcuno che fa qualcosa, si avrà quasi sicuramente un programma debole e noioso, che non andrà da nessuna parte e non sarà neppure un format in senso stretto. Un esempio su tutti. Mettere le telecamere dentro una casa, per poter osservare 24 ore su 24 il comportamento di un gruppo di coinquilini, è una bella intuizione. Un’intuizione che ha dato origine ad alcuni programmi, addirittura precedenti il Grande Fratello (tra cui l’italiano Davvero, che ha rivendicato il diritto di primogenitura sui reality). Ma, prima di Big Brother, non si è andati mai oltre questa intuizione primigenia: ci si limitava a osservare quello che accadeva, senza nessun tipo di intervento. Il risultato era inevitabile: passati i primi momenti di curiosità, non c’è più stato alcun motivo per guardare il programma. Per il semplicissimo motivo che non c’era alcuno sviluppo e il format non andava da nessuna parte. Il merito del Grande Fratello è invece stato proprio quello di far accadere le cose, attraverso gli implacabili meccanismi di nomination e di eliminazioni periodiche. In questo modo si hanno sempre reazioni emotive indotte, quando si vuole e tutte le volte che si vuole. Tali momenti sono come boe attorno a cui ruota e si sviluppa l’intero format, ravvivandolo ogni volta di nuovi impulsi e di nuove motivazioni per proseguire nella visione. Nel caso di Davvero ci si è fermati dunque a un semplice programma, con una bella idea di base, ma senza meccanismi formattizzanti in grado di portare avanti l’azione per un periodo sufficientemente lungo di tempo. Nel caso di Big Brother abbiamo invece un vero, efficacissimo format, dotato di un motore così potente da riuscire a sostenere l’impianto narrativo per un periodo davvero molto lungo. Tutti i format hanno dunque sempre bisogno di meccanismi, snodi e dinamiche formattizzanti che sorreggano l’intero impianto e lo spingano avanti fino alla conclusione finale. Senza tutto ciò il format non ha sviluppo, perde ben presto mordente, si esaurisce e si arena nel nulla. Un format senza struttura è come un corpo senza scheletro o una casa senza muri portanti: non è in grado di stare in piedi. ­­­­­44

5) Mantenere la promessa Ogni format contiene sempre in sé una promessa, esplicita o implicita, grande o piccola. A volte un format non funziona solamente per il fatto che la promessa percepita non è appropriata al format stesso. In questi casi basterebbe lavorare meglio sulla promessa (rendendola magari meno impegnativa) per dare immediatamente nuovo appeal al prodotto. Il bello dell’intrattenimento è che c’è spazio per (quasi) tutto. Ci sono programmi di ogni genere e di ogni tipologia; programmi che durano quindici o addirittura cinque minuti e altri che durano quasi quattro ore; programmi che vanno in onda a notte tarda, altri che ci accolgono alle prime ore dell’alba e altri ancora che occupano la frequentatissima fascia del prime time; programmi che fanno ridere, programmi che fanno giocare, programmi che fanno emozionare, programmi che informano, programmi che stimolano un confronto e programmi che fanno tutte queste cose insieme. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. E tutti questi programmi hanno una promessa di fondo, formulata in modo più o meno esplicito. Alcune promesse sono impegnative e di una certa importanza; portano con sé uno sviluppo, dei meccanismi e dei sapori di un certo tipo. Altre, invece, sono di spettro più limitato. In Chi vuol essere milionario? ci viene subito comunicato sin dal titolo che c’è un milione di euro in palio. Un milione di euro (ma anche i premi dei livelli immediatamente precedenti) cambia in modo decisivo la vita di una persona. È chiaro quindi che il tono di questo quiz non deve essere troppo disimpegnato, che si può scherzare solo fino a un certo punto e che poi bisogna seguire la scalata, con i successi e le cadute ad essa legati, con rispetto e attenzione. Anche i concorrenti devono avere un grado minimo di preparazione e devono essere meritevoli quanto meno di essere stati selezionati per partecipare a questa grande occasione che viene loro offerta. Dal canto suo, il format deve rispettare la promessa fatta e il milione deve essere vinto, qualche volta; e in altre occasioni ci si deve andare molto vicino. Tutto deve essere importante e alto (compatibilmente con gli standard dell’intrattenimento): il tono complessivo, la regia, le musiche, la grafica, gli elementi scenografici. The X factor è un format che si propone programmaticamente di scoprire i nuovi talenti musicali di tutti i paesi in cui è andato in onda. È ovvio quindi che i partecipanti devono essere tutti davvero ­­­­­45

bravi, che le sfide devono essere avvincenti, che la giuria deve essere di un certo livello e che le esibizioni devono essere particolarmente curate e di grande impatto. Se si scendesse sotto questi standard, anche di poco, non si manterrebbe la promessa fatta. Anche il Grande Fratello e l’Isola dei famosi hanno una promessa, anche se meno esplicita, di alto livello. Da format di questo tipo, che durano vari mesi, che hanno un prime time della durata di diverse ore, con location importanti e ricche (l’ambientazione esotica nel caso dell’Isola, una casa composta di diversi ambienti, costruita appositamente, nel caso del Grande Fratello), ci si aspettano storie ricche, interessanti, intriganti e di grande pregnanza emotiva. Non si costruiscono case e non si va dall’altra parte del mondo solo per vedere i concorrenti giocare insieme a carte o pescare tranquillamente in riva al mare. Grandi reality esigono grandi storie; altrimenti la promessa viene disattesa. Ma non ci sono solo quiz come il Milionario, talent come The X factor o reality come il Grande Fratello e l’Isola dei famosi. Se si abbassa la promessa, i format possono essere meno impegnativi ed economicamente più sostenibili. Ci sono per esempio quiz che non mettono in palio cifre stratosferiche, ma che sono pensati e realizzati solo per coinvolgere il telespettatore nei meccanismi ludici e farlo giocare in prima persona in modo disimpegnato. Ci sono talent che non promettono di scoprire le star musicali del pianeta, ma si accontentano di mettere in campo simpatiche sfide, magari relative ad ambiti artistici e professionali non di primissimo piano, ma pur sempre interessanti e curiosi. Ci sono reality che non durano un’eternità e che non hanno bisogno di location strabilianti perché si propongono semplicemente di mettere in luce qualche eccentrico personaggio, senza dover creare situazioni emozionalmente estreme e conflitti a ogni puntata. È tutta questione di promesse: non esistono format buoni per ogni occasione. Un game può benissimo funzionare lo stesso, anche senza montepremi astronomici, a patto di puntare tutto su meccanismi leggeri e disimpegnati, di grande giocabilità da casa, all’interno di una cornice di divertimento complessivo. Un game che enfatizzi invece la sfida tra i concorrenti, dando al format un tono epico e una ritualità molto accentuata, pur essendoci pochi soldi in palio, verrebbe classificato subito come un «milionario dei poveri» e verrebbe rifiutato in blocco; e questo nonostante i suoi meccanismi siano ­­­­­46

magari veramente interessanti e giocabili. Stessa cosa con tutti gli altri generi. Bisogna rendersi conto in modo molto onesto di quello che il format può realisticamente offrire, ovvero i suoi reali punti di forza, e limitare le promesse solo a questi aspetti. Se invece ci si fa prendere dall’ambizione o dalla sovrastima che noi tutti naturalmente nutriamo nei confronti del parto del nostro ingegno, e si innalza fittiziamente il livello della promessa, si rischia di vedere rifiutato il progetto nel suo insieme. 6) Avere un quid in più (o di diverso) Non è più sufficiente che un format sia soltanto formalmente corretto. È ormai assolutamente indispensabile che si faccia scegliere. Per farsi scegliere deve essere notevole, ovvero avere un quid in più o di diverso rispetto agli altri, senza però essere né eccentrico né complicato. Deve quindi gettare le basi e le premesse in generi e filoni già noti, e differenziarsi per un solo, semplice dettaglio, tale però da impattare in modo determinante sull’intera struttura. Si è già fatto cenno all’enorme numero di format che circolano sul mercato con vorticosa rapidità. È come un fiume straripante e sempre in piena: arrivano quantità di format da ogni parte, di ogni genere e su ogni argomento. È un fatto: e bisogna tenerne conto. Occorre emergere. Ovvero, farsi notare: dai telespettatori, ma prima ancora dagli addetti ai lavori (responsabili di rete, produttori, distributori...), che devono decidere se investire o meno sui progetti che vengono loro presentati. E se un progetto non ha le caratteristiche per farsi notare, non viene neanche preso in considerazione. L’obiettivo è dunque la rilevanza. Solo un progetto che ha qualcosa di rilevante ha una qualche chance di concretizzarsi; e, una volta concretizzato e messo in onda, di essere notato nell’affollatissimo contesto competitivo multipiattaforma. Potrebbe sembrare un obiettivo facile, se solo si è dotati di un po’ di creatività. Invece non lo è affatto. Perché nei programmi televisivi d’intrattenimento l’originalità non è un obiettivo che deve essere perseguito a tutti i costi. Un format molto originale, ma anche molto eccentrico, o comunque troppo al di fuori dell’orizzonte di attesa del pubblico di riferimento, sarà forse notato. Ma quasi sicuramente sarà anche rifiutato. Bisogna inoltre porre la massima attenzione a non infrangere la fondamentale regola della semplicità. Se un progetto ha qualcosa di rilevante, ma tale rilevanza è ottenuta ­­­­­47

attraverso una complicazione di qualunque tipo, e va dunque a scapito dell’immediatezza, non è un’opzione praticabile. La semplicità, totale e assoluta, è una precondizione che va perseguita sempre e comunque, senza eccezioni. Ricapitolando: se il format, pur essendo formalmente corretto e senza criticità evidenti, è troppo neutro e anonimo, rischia di non imporsi e di non emergere abbastanza per farsi scegliere, e quindi ragionevolmente andrà male; è dunque indispensabile ottenere una certa dose di rilevanza, per essere notato e staccarsi dal rumore di fondo sempre più invasivo. Se però si esce troppo dalle piste già battute (e, per questa ragione, tranquillizzanti), oppure se viene minimamente intaccata la cristallina linearità del format, il risultato sarà ugualmente negativo. In poche parole: da una parte Scilla, dall’altra Cariddi. In questa situazione, appare evidente che le cose non sono affatto facili come sembravano all’inizio. I margini di manovra sono molto ridotti: sembra quasi che, qualunque direzione si prenda, si sbagli. In effetti il rischio di errore è sempre presente, ma esiste una strada che permette quantomeno di ridurlo a proporzioni accettabili. La strada è quella di formulare un progetto che abbia le sue basi e le sue premesse in un genere e in un universo mainstream, salvo differenziarsi per un solo, semplicissimo dettaglio, ma tale da impattare sull’intero format. Il programma, dunque, nella sua confezione complessiva deve rimandare subito a un qualcosa di noto e già accettato dal pubblico di riferimento, ma deve poi cambiare le regole (anzi: una sola regola), risultando così classico e nuovo al tempo stesso. Deve essere qualcosa di apparentemente già visto, ma con un elemento di novità rilevante al suo interno. Deve avere un guscio riconoscibile e immediatamente comunicabile, ma una polpa diversa. Deve avere un quid (in inglese direbbero twist) in più (o di diverso) in una struttura consolidata. Il format olandese The voice, per esempio, rientra senza possibilità di equivoco nel genere dei talent. Ci sono aspiranti cantanti che si esibiscono e una giuria di professionisti che deve valutarli. Tutto è molto chiaro, netto, consolidato. Tranne un solo dettaglio: i membri della giuria, almeno nella prima fase del programma, non vedono i candidati che devono giudicare. Danno quindi delle valutazioni al buio, basandosi solo sull’elemento fondamentale di questa professione: la voce, appunto. Questa nuova, semplicissima regola introduce tutta una serie di varianti e di possibilità narrative inedite: ­­­­­48

la sorpresa della scoperta di chi si cela realmente dietro quella voce che aveva incantato, il doppio registro che pone il telespettatore in una posizione di superiorità rispetto ai membri stessi della giuria (dato che a lui è concesso il privilegio di sapere tutto sin dall’inizio), e così via. Eppure questo elemento di innovazione non stravolge né complica il format e neppure lo rende eccentrico o difficilmente collocabile. The voice rimane a tutti gli effetti un talent, che si distingue (ed emerge) dagli altri prodotti simili per il fatto di introdurre questo elemento di sorpresa. In tal modo risulta nuovo e rassicurante al tempo stesso, senza perdere la sua estrema semplicità di fondo. The money drop è un quiz molto classico. Ci sono, com’è noto, una coppia di concorrenti, una scalata di otto domande, le multiple choice e un milione di euro in palio. A differenza degli altri quiz (Milionario in primo luogo), però, i soldi non sono virtuali, ma sono presenti fisicamente in studio e sono letteralmente nelle mani dei partecipanti. A ogni errore le botole in corrispondenza delle risposte sbagliate si spalancano e i mucchi di banconote spariscono giù nel tunnel, dando un fortissimo pathos e una caratterizzazione estremamente marcata. Il procedimento è assolutamente analogo al caso visto sopra. Anche The money drop appartiene a tutti gli effetti a un genere ampiamente consolidato e storicizzato. Il semplice cambio di una regola (la sostituzione dei soldi soltanto evocati con soldi reali) lo rende però innovativo e diverso rispetto gli altri, facendolo dunque emergere dalla massa indistinta dei quiz, senza però intaccare la classicità dello schema né la cristallina semplicità di fondo. Dating in the dark è tutto sommato un dating game ultra-classico (con richiami evidenti ed espliciti ai capostipiti di questo sottogenere). Ma, in questo format, tutta la fase di conoscenza e di corteggiamento viene svolta, come dice il titolo, completamente al buio, introducendo un elemento di novità che serve a rendere questo prodotto, se non unico, quantomeno difficilmente confondibile con tutti gli altri dello stesso tipo. Stesso principio, dunque: presento un format in una forma esteriore immediatamente riconoscibile, ma sostituisco una (e una sola) regola, rendendolo così nuovo e notevole. Non è un caso che in tutti gli esempi citati sopra l’elemento di novità sia presente in modo chiaro sin dal titolo. Questo fatto è indice e garanzia di due cose fondamentali. La prima è che il quid in più è realmente significativo e impattante. Cambiare un dettaglio che è solo marginale, e non muta fino in fondo le regole del gioco, è ­­­­­49

un esercizio inutile e forse addirittura dannoso. La seconda è che il format così rinnovato non ha perso nulla della sua primigenia semplicità. L’idea nucleo che sta alla sua base rimane infatti così lineare e immediata da poter essere comunicata solo con pochissime parole. The voice, The money drop e Dating in the dark rivelano il loro quid in più sin dal titolo, ottenendo quindi quella rilevanza (anche in fase di presentazione) che costituisce il loro pregio principale. Gli sforzi creativi devono dunque essere indirizzati a trovare un quid nuovo, e non il nuovo in assoluto. Molti giovani autori sono convinti invece che bisogna perseguire l’originalità a tutti i costi. Che per rinnovare la vecchia (e cattiva, ça va sans dire) televisione occorra assolutamente allontanarsi dalle strade battute. La vera bravura sta, al contrario, nel migliorare o perfezionare qualche particolare di un genere consolidato, rinnovandolo, magari anche profondamente, ma sempre dall’interno. Creare al contrario un programma che si allontani troppo dall’orizzonte di attesa del pubblico contribuirà forse a sviluppare l’ego del suo autore, ma sarà semplicemente ignorato dalla maggior parte dei telespettatori. E non contribuirà quindi a rinnovare un bel niente. 7) Vero è meglio La forza dei format d’intrattenimento è la verità. I partecipanti e le loro reazioni emotive devono essere il più possibile veri, così come vere devono essere le conseguenze derivanti dalla loro partecipazione al format, di qualunque segno esse siano. Più si riesce a preservare questa condizione, meglio è. Quest’ultimo aspetto riguarda più la parte di produzione del programma che quella di progettazione vera e propria. Nondimeno è un punto molto delicato e della massima importanza, che sta alla base del concetto stesso di intrattenimento. Ragion per cui è corretto tenerlo sempre a mente, dato che il mancato rispetto di tale regola comprometterebbe in modo serio tutta l’attività ideativa e creativa svolta in precedenza. Abbiamo visto che la caratteristica che contraddistingue meglio il macro-genere dell’intrattenimento è la realtà. Questo vuol dire che i partecipanti sono esposti davvero alle conseguenze che il format mette in scena, nel bene o nel male. I protagonisti dei format d’intrattenimento non sono attori e non recitano una parte: sono semplicemente sé stessi e tutto quello che fanno lo fanno senza mediazioni ­­­­­50

né copioni scritti. Tutto ciò che accade nei format d’intrattenimento, dunque, è vero. O, perlomeno, viene sempre presentato come tale. Tale senso di verità, che è la cifra più profonda di tutti i format, va preservato a ogni costo e va salvaguardato il più possibile. Se una cosa non è vera si sente, anche se magari in modo latente e inconscio. È come una nota stonata, o un qualcosa di fuori posto che dà fastidio, anche se non si riesce a capirne pienamente la ragione e l’origine. Oppure, semplicemente, la mancanza di verità lascia come un vuoto, una carenza invisibile che però comunque disturba o, quantomeno, non soddisfa fino in fondo. Prova evidente di ciò sono le cosiddette puntate zero, ovvero programmi di prova registrati per essere testati, con pochi mezzi economici e in forma semplificata. Nei game, per esempio, per evidenti esigenze di budget, non possono essere davvero assegnati i premi in palio e questo naturalmente i partecipanti lo sanno. I concorrenti, dunque, fanno solo finta di battersi e impegnarsi per un montepremi che è solo fittizio. Ebbene, questa mancanza di verità (lottare per un montepremi che non c’è) rende immancabilmente il format debole e poco incisivo. Gli sguardi e lo stesso tono di voce dei concorrenti non sono quelli giusti, tutto risulta fasullo e artefatto. Anche se le domande sono belle, i meccanismi ludici interessanti, i concorrenti simpatici e il presentatore all’altezza della situazione, il risultato è sempre poco convincente. Si avverte istintivamente che manca qualcosa, che c’è qualcosa fuori posto. Questo qualcosa è, appunto, la mancanza di verità di fondo. Quella stessa puntata con un montepremi vero in palio farebbe brillare negli occhi dei concorrenti una luce diversa, darebbe un sapore differente a tutto quanto il gioco, renderebbe l’insieme più avvincente e credibile. Per questa ragione in puntate zero particolarmente delicate si decide a volte di dare davvero ai concorrenti una percentuale di quanto vinto: se per esempio il premio massimo è di un milione, portano effettivamente a casa 1000 euro; se si fermano a 500.000 euro, ne intascano 500; e così via. Non è la stessa cosa che lottare per il bottino pieno, ma, in ogni caso, questo sistema permette di dare al programma qualche sfumatura emotiva in più e di renderlo meno finto. Dunque, la verità è una condizione essenziale per un format d’intrattenimento, di qualunque genere esso sia. Ma allora, come si concilia questa esigenza con l’altra, ugualmente importante, di introdurre nel format stesso meccanismi e snodi formattizzanti artificiali ­­­­­51

(e quindi, in un certo qual modo, finti) per dare sviluppo e portare avanti la vicenda come spiegato sopra? Molto semplice: quello che il telespettatore deve percepire come vero è la reazione dei partecipanti, non i mezzi con cui si arriva a tale reazione. In poche parole, il contesto in cui sono calati i partecipanti può essere tranquillamente fittizio, purché sia dichiarato come tale; sulla sincerità delle conseguenze (sul piano emotivo e reale) derivanti da quel contesto non ci deve però essere ombra di dubbio. L’intrattenimento non è mai specchio fedele della realtà (a pensare il contrario non si fa buon intrattenimento e nemmeno si racconta bene la realtà): molto spesso è finzione tanto quanto la fiction; solo, con reazioni emotive e conseguenze sul piano personale autentiche e concrete. Quindi, non c’è niente di strano se della gente comune o dei vip vengono abbandonati su un’isola deserta, con poco cibo e in balia di avverse condizioni ambientali, anche se circondati da telecamere e personale della troupe con cui sono costantemente in contatto. Non dà neanche fastidio che, per sovrapprezzo, questi naufraghi prezzolati vengano sottoposti a giochi e prove molto duri ed esplicitamente fittizi, studiati ad hoc dagli autori, il cui fine è il miglioramento o il peggioramento della loro situazione. Anche il fatto che questi novelli Robinson Crusoe dopo qualche settimana di solitudine vengano messi in contatto con un parente stretto che non vedono da settimane, facendo scatenare violente reazioni emotive, non disturba il telespettatore né è sentito come qualcosa di falso. Anzi, se tutto questo è ben costruito e, soprattutto, se è presentato esplicitamente per quel che è, ovvero una serie di situazioni artificiali create appositamente a tavolino per provocare reazioni emotive di vario tipo, dà un grande valore aggiunto al programma, caratterizzandolo fortemente e positivamente. Non deve però mai essere minimamente messo in discussione il fatto che tutte le conseguenze derivanti da tali situazioni siano davvero autentiche e non fittizie. Quindi, i concorrenti devono davvero patire la fame, la pioggia e quant’altro (anche se sono circondati da personale ben nutrito e vestito appropriatamente); devono davvero perdere metà delle già scarse razioni alimentari per il semplice fatto di non aver superato una prova (anche se è una regola arbitraria), innescando in questo modo una serie di dinamiche sociali molto interessanti; soprattutto, devono davvero avere forti reazioni emotive derivanti dai difficili rapporti interpersonali e/o dal sentire il ­­­­­52

messaggio di una persona cara che non si vede da tempo, convocata appositamente in studio (nonostante sia stato il concorrente stesso a decidere di lasciarla per poter partecipare al programma). Lo stesso discorso vale per tutti gli altri programmi, come nel caso di incontri con una persona con cui non si hanno più rapporti da tempo, nascosta dietro una gigantesca busta finta o dietro una porta dalle forme più strane. I meccanismi e i contesti artificiali, che creano la cornice, l’ambientazione e le dinamiche portanti del format, tutte le sue sovrastrutture narrative create ad hoc, non solo quindi non disturbano, ma gli danno anzi un’identità precisa, incuriosiscono il telespettatore e sono oltretutto indispensabili a dare quello sviluppo che tutti i format devono avere. Se però l’effetto di tutto ciò sui partecipanti dovesse essere messo in discussione, e quindi ci fossero dubbi sulle conseguenze umane di fronte a questi stimoli, l’intero impianto e la promessa di fondo verrebbero a cadere miseramente, provocando il rifiuto immediato da parte del pubblico. Il problema è che a volte non è facile né agevole creare e mantenere tale condizione di verità, basica e fondamentale. Questo per ragioni di ordine economico, di tempo e logistiche. Per esempio, in alcuni casi non si hanno né tempo né soldi per fare dei casting come si deve, e ci si rivolge perciò all’ambigua categoria dei figuranti, che però non è la stessa cosa che avere partecipanti veri: i figuranti hanno già troppa dimestichezza con il mezzo, sono scaltri, un po’ istrioni, e non sono mai sinceri al 100%. E questo, ahimè, in televisione passa. In altri casi, invece, il meccanismo narrativo che dovrebbe suscitare una reazione emotiva non funziona; bisognerebbe quindi buttare via tutto il girato e ricominciare da zero, ma non si può farlo per ragioni di budget e si è costretti così a rigirare in fretta e furia la stessa situazione, chiedendo però alla vittima di essere condiscendente, di stare al gioco e di fingere di provare quelle reazioni emotive che non si è riusciti a ottenere in presa diretta. E ancora si potrebbe continuare. Il rischio di tutto ciò è che, ogni volta che si ripiega su queste logiche, si perde un grado di definizione, rendendo il tutto sempre meno vero e sempre meno credibile. In poche parole, si indebolisce sempre di più il format. E, se si scende sotto una certa soglia, scatta il rifiuto del pubblico, che bollerà il format come totalmente finto (anche se magari è finta solo una parte marginale) e cambierà canale all’istante. ­­­­­53

La verità è un valore su cui è meglio non scherzare, nemmeno nel mondo fondamentalmente fatuo dell’intrattenimento leggero. 2.3. Le cose da non fare Concludiamo questo capitolo sulle regole di carattere generale con alcuni consigli riguardo a tre comuni errori da non commettere quando ci si accinge alla progettazione di un format d’intrattenimento. Naturalmente, sono da evitare per prima cosa tutti i principi contrari ai sette punti esposti in precedenza. Quindi, format costruiti ad accumulo, non immediatamente semplici, che non si basano sui quattro contenuti base, che non hanno uno sviluppo compiuto ecc., sono i primi errori da cui guardarsi in fase di ideazione. Tuttavia, per chi compie i primi passi in questo campo così complesso e pieno di insidie, potrebbe essere utile anche avere un essenziale elenco di regole in negativo, che servono a evitare alcune delle più comuni trappole e atteggiamenti poco produttivi. 1) Proporre programmi generici L’attività di progettazione, specie per un autore agli esordi, deve contenersi all’interno dei format in senso stretto. Proporre programmi generici di altro tipo (ad esempio basati su attività di tipo performativo o sull’informazione) ha senso solo se si è in grado di procurare in prima persona il fattore critico di successo che sta alla base del programma (l’artista famoso, gli ospiti, i contenuti informativi necessari ecc.). Il primo avvertimento è di concentrare le proprie energie creative solo su progetti che possano essere considerati format in senso tecnico, evitando invece i programmi che, per una ragione o per l’altra, non lo sono. È un consiglio semplice ma fondamentale. Abbiamo visto, infatti, che solo i format posseggono una struttura portante originale e adeguatamente sviluppata, con meccanismi e snodi formali di una certa importanza, e hanno perciò uno schema base dotato di valore economico. Solo i format, quindi, hanno un senso e un valore autonomo anche solo su carta, e dunque in forma scritta. Quindi solo nell’ambito dei format un autore può sperare di veder riconosciuti i frutti del proprio lavoro (beninteso: sempre ammesso che il progetto sia valido). In tutti gli altri programmi generici, invece, il motivo di interesse principale risiede in altri fattori e non si dà, giustamente, molto peso ­­­­­54

alla stesura cartacea, che serve poco più come promemoria o «lista della spesa», e quindi, di fatto, non vale nulla. Presentare progetti scritti appartenenti a queste tipologie di prodotto è dunque tempo sprecato. Provo a spiegarmi meglio. Un autore scrive (in forma corretta) il paper format di un game, di un reality, di un talent, o di altri generi e sottogeneri che possono essere considerati format veri e propri. Tale progetto può piacere o meno al ricevente, ma costui quantomeno lo può valutare pienamente e può esprimere il proprio parere in forma compiuta. Si sta parlando di un qualcosa di concreto, di un progetto vero, definito e (si spera) originale, anche se si tratta pur sempre di un semilavorato. Se però quello stesso autore presenta lo schema di un programma non formattizzabile, non si sta parlando di un bel niente. Non ha minimamente senso, infatti, che un autore proponga un progetto che ha come motivo di interesse principale la presenza di uno o più artisti famosi. La prima cosa che il ricevente chiede è, in modo molto logico, chi si debba occupare del reclutamento di tali artisti. E se l’autore risponde (come io stesso mi sono sentito rispondere in varie occasioni): «Li dovete procurare voi [broadcaster o casa di produzione]. E chi se no?» fa davvero una ben magra figura. Cosa mi sta vendendo, infatti, in questo caso l’autore? Della grande aria fritta. Sta cercando di proporre una ricetta a cui manca l’ingrediente principale, una cornice vuota di un quadro senza il dipinto, una casa con un po’ di suppellettili sparse ma priva del tetto e dei muri portanti. Una cosa totalmente inutile. Diverso è il caso in cui il proponente è l’artista stesso, o il suo agente, o comunque una persona a lui vicina. Si discute a questo punto se l’artista è di interesse o meno per la rete; ma, questa volta, si discute di qualcosa di concreto. Il vero oggetto della discussione è però l’artista e non tanto il progetto che lo vede coinvolto (che ci deve essere, ovviamente, ma viene in un secondo tempo). Stesso discorso per programmi basati sul contenuto informativo. Non ha davvero senso presentare progetti in cui si descrivono per sommi capi gli schemi base di prodotti incentrati su questi contenuti, se non si è concretamente in grado di scrivere, o di procurare in altro modo, i contenuti stessi. Ha senso proporre un progetto del genere solo se si è un giornalista affermato, oppure un autore con una riconosciuta competenza sugli argomenti trattati. Qualcuno insomma, che, al di là di stendere il progetto del programma (in genere molto semplice nella sua struttura principa­­­­­55

le), sia in grado di assicurare i contenuti e le risorse umane necessarie al programma stesso. Ricapitolando, si possono proporre progetti che non siano format a patto che si sia in grado di produrre il fattore critico di successo del programma (e, soprattutto, che questa capacità ci venga effettivamente riconosciuta e che non si basi su una promessa difficile da mantenere). Altrimenti, se non si dispone d’altro che della propria creatività e del proprio talento personale nella progettazione, è meglio limitarsi a proporre paper format che bastino a sé stessi, ovvero che non abbiano bisogno di altre componenti extraprogettuali per stare in piedi e avere valore autonomo. 2) Non conoscere il contesto I format non devono essere progettati in astratto, ma sempre facendo riferimento a un contesto televisivo ben preciso. Occorre come prima cosa conoscere tale contesto per evitare di commettere errori grossolani, che rivelano subito la scarsa professionalità di chi scrive. Un altro grave errore è avere la pretesa di scrivere un programma televisivo senza conoscere la televisione. Non si progetta un format per dare sfogo al proprio estro artistico. Si intraprende questa attività per una consapevole scelta professionale e la si porta avanti in modo conseguente. Quello dei format è infatti solo un segmento, anche se pregiato, di un mondo più vasto e complesso, che è quello della televisione nel suo insieme. Poter pensare di esercitare questo mestiere senza conoscere realmente tale contesto è velleitario e poco serio. Quantomeno – ed è davvero il minimo – bisogna seguire e tenersi aggiornati sulla programmazione corrente di ogni piattaforma. Vedere quel che c’è in circolazione: quali sono i programma in onda, come funzionano, se provengono dall’estero o se sono originali, se sono format o meno, in che fascia vanno, quanto durano, qual è la loro frequenza, chi li produce. Insomma, confrontarsi con il mercato. Ci vuole davvero poco: basta guardare i titoli di testa e di coda (o cercare il sito del programma in internet). Eppure molti di coloro che propongono i propri progetti non reputano necessario fare questo piccolo sforzo. Vengono così presentate spesso fotocopie di programmi trasmessi poco tempo prima o, addirittura, ancora in onda. E quando viene fatta presente tale assurdità si riceve a volte questa disarmante risposta: «Ah sì? Non lo sapevo. Guardo poco ­­­­­56

la televisione, io». Complimenti, viene da rispondere, e per quale strana ragione ha deciso allora di pensare un programma televisivo? Altre volte la mancata conoscenza del contesto porta a commettere errori di tipo diverso, ma sempre grossolani ed evitabili con facilità. Non ci vuole molto, per esempio, a rendersi conto che, in Italia (e nei paesi mediterranei in generale), un format che aspira alla fascia di prime time nelle grandi reti generaliste deve poter reggere almeno due ore e, in alcuni casi, anche di più. Di conseguenza presentare progetti, pensati espressamente per questa fascia, molto più brevi è quantomeno arrischiato. Oppure, non ci vuole neanche molto a constatare che quasi tutti i programmi in day time hanno in genere cadenza quotidiana, e quindi, a parte quelli che vengono trasmessi durante il week end, vanno in onda cinque (o sei) giorni alla settimana: devono perciò poter reggere questo tipo di cadenza. E così via: la lista di queste – chiamiamole così – disattenzioni è fitta e varia. Programmi troppo lunghi per la fascia in cui dovrebbero venire inseriti, oppure troppo corti; programmi incentrati su un argomento eccessivamente stretto per la fascia pensata; programmi con un target di riferimento non compatibile con l’orario proposto; programmi appartenenti a un genere già abbondantemente presente su quella rete (la programmazione di un broadcaster deve essere per quanto possibile varia: se dunque un genere è già rappresentato da altri format non ha molto senso presentarne un altro di tematica simile, anche se diverso). E si potrebbe ancora continuare. Ma la conoscenza del contesto italiano è solo il grado minimo. Se c’è un mercato compiutamente e perfettamente globalizzato, infatti, è proprio quello dei format, che è un prodotto esportabile per definizione. Dunque, uno sguardo a quel che va (o è andato) in onda nei principali paesi esteri non sarebbe male. Ovviamente in questo caso le difficoltà sono un po’ maggiori. Ma non si tratta di un’impresa impossibile. Ci sono in internet siti appositi1, oppure si possono consultare direttamente i siti dei principali broadcaster internazionali o leggere riviste specializzate. Tutto sommato basta abbastanza poco. Dare un’occhiata ai due o tre format più importanti della stagione è già una cosa molto utile, interessante, formativa, che denota professionalità e ampiezza di vedute. Non sarà mai fatica sprecata, in ogni caso. 1

  Un valido esempio in proposito è il sito www.formatbiz.it.

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3) Innamorarsi delle proprie idee In questo mestiere innamorarsi delle proprie idee è un grave sbaglio. Si rischia infatti di commettere errori di prospettiva e di progettazione. Ma, soprattutto, si va sicuramente incontro a grosse delusioni. Quest’ultimo consiglio riguarda un errore di atteggiamento, piuttosto che di contenuto. Ed è un errore molto frequente e anche molto dannoso, più di quanto non si immagini. Per chi aspira a svolgere questo mestiere innamorarsi delle proprie idee è pericoloso sia per l’idea in sé sia per sé stessi. Innanzitutto perché non ne vale la pena. I format sono un argomento bellissimo e di grande fascino (ovviamente per chi è interessato). Ma è un errore considerarli prodotti di tipo artistico. Al massimo sono dei nobili e rispettabili prodotti artigianali (che è un gran bel complimento). Innamorarsi della propria idea perché la si considera un parto artistico è quindi sbagliato, perché fare format non è una forma d’arte, né aspira a esserlo. E questa potrebbe sembrare una precisazione superflua, ma non lo è: non sono pochi coloro che hanno di questa attività tale concezione assolutamente erronea e fuorviante. Molti altri, invece, si innamorano delle proprie idee perché esse riflettono i loro interessi e i loro hobby. Anche questo è un errore da evitare nel modo più assoluto. Non si fanno format per appagare i propri gusti personali: i format sono un prodotto destinato al mercato e devono rispecchiare le regole del mercato. Un format, per funzionare a dovere, deve essere costruito in modo preciso e deve attingere a bacini di contenuti altrettanto precisi. Ci sono però almeno altre due ottime ragioni che rendono sconsigliabile innamorarsi troppo del frutto del proprio lavoro. La prima è che la produzione di tutti i programmi televisivi, e quindi anche dei format, è sempre un lavoro di squadra. Capita molto spesso che l’idea originale e primigenia, quella che abbiamo chiamato idea nucleo, sia frutto di una mente sola. Ma poi, se viene accolta e inizia quindi il suo percorso verso la realizzazione, passa attraverso numerose altre teste, che la modificano e arricchiscono. L’apporto di altri autori, del produttore, dei responsabili della rete e della casa di produzione, del regista, dello scenografo e spesso anche di altri professionisti, come il direttore della fotografia e il costumista, è fondamentale per sviluppare in modo adeguato un programma e renderlo televisivo al 100%. Guai se un format fermasse il suo stadio evolutivo alla prima stesura cartacea. Più un progetto riceve il contributo di persone ­­­­­58

diverse (beninteso, a patto che siano collaborative e sinceramente interessate al progetto stesso e al suo successo), più si arricchisce e diventa interessante. Però questo processo di collaborazione modifica più o meno profondamente l’idea originale di base. E se l’autore di tale idea è troppo legato ad essa, potrebbe vivere queste modifiche come ingerenze indebite, se non come veri e propri tradimenti. Con due possibili risultati: o l’autore si oppone fermamente e il progetto quindi rinuncia ai contributi, sempre vivificanti, di altre idee e menti fresche (che magari, vedendo il progetto da fuori, riescono a scoprire difetti che invece sfuggono a chi l’ha ideato e ne è troppo coinvolto); oppure le modifiche vengono fatte, però con grande sofferenza e dispetto dell’ideatore. Comunque vadano le cose, l’autore troppo chiuso nelle sue posizioni e troppo innamorato della sua creatura non ne ricava nulla di buono. La seconda ragione è invece più pratica. È bene che chi affronta questo mestiere sappia che non si tratta di un mestiere facile. La domanda di programmi si è contratta (e, per ora, non basta a risollevarla la moltiplicazione delle reti, che hanno un budget ridotto), la concorrenza è spietata e arriva, letteralmente, da tutto il mondo, gli interlocutori non sempre sono all’altezza delle loro posizioni, il contesto è confuso e i percorsi che portano i progetti alla loro messa in onda sono quanto di più tortuoso e illogico si possa immaginare. Insomma, le possibilità che il progetto che ci sta tanto a cuore e in cui abbiamo profuso tanto amore ed energia vada in porto sono purtroppo abbastanza basse. Non bisogna quindi mai essere troppo legati a una sola e unica idea, su cui riporre tutte le speranze. Il rischio di subire delusioni anche molto cocenti è infatti purtroppo estremamente elevato. È perciò più opportuno dedicarsi a questa attività con passione e impegno, ma anche con un po’ di sano distacco. E, soprattutto, portare avanti il maggior numero possibile di progetti (mantenendo però sempre alto il livello qualitativo; è un grave errore allegare una quantità troppo elevata di proposte mediocri solo per fare numero). In questo campo così duro e difficile, puntare tutto su un solo cavallo non è infatti la strategia più consigliabile.

Capitolo 3

Il game show

3.1. L’essenza del gioco I giochi, da un punto di vista temporale, sono stati i primi format. Sono stati cioè i primi prodotti televisivi in cui è stato attribuito valore economico al puro schema base (che nei giochi prende forma di un regolamento preciso). C’è stato dunque qualcuno che, sin dalle origini del mezzo televisivo, ha ritenuto vantaggioso acquistare non già il prodotto finito, bensì i meccanismi ludici di base, per poi riprodurre il programma, adattandolo alla propria realtà locale. La cosa ha avuto un successo enorme. Mentre infatti i game «già giocati» (ovvero le puntate già registrate di un game show in un altro paese) sono di fatto inesportabili, i meccanismi e le strutture di fondo sono tra i prodotti più globalizzati e di valore più universale che esistano. Un buon schema di gioco funziona in ogni parte del mondo e, cosa ancor più sorprendente, in ogni tempo ed epoca, o quasi. È possibile infatti rintracciare antenati diretti dei quiz televisivi in alcuni spettacoli live che si svolgevano in spazi appositi e in contesti diversi1. Addirittura, certi meccanismi ludici, basati soprattutto sull’azzardo, sono straordinariamente simili ad alcuni giochi di cui si hanno testimonianze già nell’antica Roma o anche prima. È difficile sintetizzare in poche parole il perché della continua e fortissima attrazione che da sempre l’umanità ha avuto verso il gio-

1   Un certo Earl Craig, noto come «Professor Quiz», per esempio, negli anni Trenta ebbe un grosso successo proponendo domande di cultura generale ai telespettatori delle sale cinematografiche, tra un tempo e l’altro dei film. Chi rispondeva prima e meglio degli altri vinceva una somma di denaro.

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co. Giocare è una delle grandi attività umane (condivisa con alcune delle razze animali più evolute), come ridere, amare e poche altre. Gli studi generali sull’argomento sono molti, approfonditi e a cavallo di numerose discipline. In questa sede limiteremo ovviamente il discorso alla sola declinazione televisiva del gioco, ovverosia a quel variegato genere di programmi che prende il nome di game show. Si tratta pur sempre di un argomento vasto e complesso, che va trattato con grande attenzione, per non cader vittima di facili banalizzazioni, stereotipi diffusi, analisi superficiali e sommarie. Progettare un buon game è infatti un’operazione complessa: i sistemi di punteggio, il calibramento del peso delle diverse manche, la gestione delle varie eccezioni che si creano anche nel più perfetto dei regolamenti, per non parlare della messa a punto dei meccanismi ludici veri e propri, eliminando gli inevitabili bachi, rendono questo settore un terreno infido anche per gli autori più esperti. Il game show è un prodotto di alta artigianalità, che richiede competenza, passione e molta pazienza. Non a caso è un mondo un po’ a parte, anche all’interno dei format, con autori specializzati (e sovente un po’ maniaci) che pongono questo genere di lunga e nobile tradizione al centro della loro attività. È anche estremamente trasversale. Chi si occupa dei giochi televisivi non può ignorare i videogiochi, i giochi online, i giochi d’azzardo, i giochi in scatola e i giochi dal vivo. Il gaming è infatti un universo vero e proprio, molto ampio, stratificato e completamente crossmediale. Conoscere come funzionano i giochi non solo a livello televisivo, oltre a essere una cosa interessante in sé, è assolutamente fondamentale, perché un game deve poter essere trasposto in piattaforme diverse: la versione online è ormai, di fatto, obbligatoria. Per potersi muovere con disinvoltura nei diversi contesti bisogna conoscerli molto bene e molto a fondo, partendo dai loro elementi costitutivi. Non si può infatti descrivere come fare a progettare un buon game se prima non si hanno ben presenti le variabili a disposizione. È quindi necessaria un’accurata analisi preliminare, che deve partire dall’essenza profonda del gioco televisivo in quanto tale. Abbiamo già visto che, per parlare di game show, è necessario avere un premio, o meglio una posta finale, uno o più concorrenti che lottano per conquistare tale posta e il dilemma da sciogliere, che è il modo in cui tale lotta si presenta. Esamineremo questi e altri aspetti in modo approfondito più avanti. Qui possiamo fare invece un ­­­­­61

ulteriore sforzo di sintesi, concentrando la già breve definizione in un’unica parola: sfida. Si può dire infatti che il premio, i concorrenti e il dilemma sono gli elementi di cui si compone e si alimenta la sfida: di conseguenza, tutti i giochi in onda si basano fondamentalmente sul concetto di sfida, che è ciò che più caratterizza nella sua essenza profonda ogni gioco televisivo, sin dalle origini. Quello che tutti i game show in tutte le epoche e in tutti gli angoli del mondo mettono di continuo in scena e spettacolarizzano, sempre e senza eccezioni, è quindi essenzialmente una sfida, che può presentarsi sotto tre forme diverse ma complementari, che si possono anche trovare intrecciate all’interno dello stesso format: sfida contro gli altri. 

È il concetto più classico e diffuso (anche se con innumerevoli varianti): un concorrente (o un gruppo di concorrenti) si scontra con altri avversari, in una battaglia in cui solo uno o solo alcuni potranno essere i vincitori (ma anche nessuno di loro).

sfida contro sé stesso.  Non

ci sono avversari esterni: la sfida è con le proprie conoscenze, i propri limiti, le proprie paure. Oltre a rispondere correttamente alle domande, infatti, bisogna resistere alla tentazione di accontentarsi di un premio minore, mettendo ogni volta tutto in gioco per cercare di conquistare la posta più alta (come avviene nel Milionario).

sfida contro il fato. 

Tipico degli alea, in questa sfida ci si scontra addirittura con il destino, che può prendere diverse forme e incarnarsi in diversi simboli, affidandosi unicamente al proprio intuito e alla propria buona sorte. In alcuni casi, questo fato generico viene personalizzato e riferito a un’entità dai contorni più o meno precisi: per esempio il cubo all’interno del quale si svolgono le sfide dell’omonimo format (The Cube), il «dottore» in Affari tuoi che fa proposte più o meno ingannevoli e, in rari casi, anche il presentatore che assurge al ruolo di «cattivo». Se però da un lato è corretto catturare l’essenza profonda del gioco televisivo in una sola parola, dall’altro bisogna stare attenti a una semplificazione eccessiva. Il game show è infatti un genere complesso e ricco di sfumuture. Considerarlo come un blocco monolitico è riduttivo e fuorviante: i game, infatti, si compongono (almeno) di quattro strati sovrapposti, che vanno da un nucleo più interno a un vestito ­­­­­62

più esterno. Distinguere e capire questi diversi strati significa capire realmente come funziona un game e, di conseguenza, quali sono le diverse leve sulle quali agire per una progettazione efficace e originale. 1) La materia ludica Il primo strato dei game show è quello per cui si gioca, ovvero la materia (o l’oggetto) del gioco. È il che cosa, inteso come l’insieme delle competenze che vengono, appunto, messe in gioco. Il nucleo più profondo di ogni game è costituito dalla materia ludica, ovvero dall’area di competenza attivata (ciò per cui si gioca). La prima materia ludica che viene in mente (nonché la più sfruttata) è la cultura generale. Di giochi con domande «culturali» (facili o difficili, alte o basse, generiche o riguardanti una sola disciplina...) è pieno il mondo e alcuni sono dei veri e propri evergreen. Ma, anche all’interno di questo amplissimo campo, si possono trovare sfumature e declinazioni che, di fatto, rendono tale materiale ludico originale e distintivo, dando in questo modo una fortissima caratterizzazione al game, a partire dalle fondamenta. In Passaparola, per esempio, le domande (di cultura generale) sono sempre attinenti al mondo delle parole e delle lettere, imprimendo in questo modo al programma l’etichetta di «gioco sulle parole», che lo rende originale e diverso da tutti gli altri. Altri giochi, viceversa, concentrano le domande sull’universo numerico (tutti i quesiti hanno per risposta un numero), trasformandosi quindi da genericamente culturali a giochi sui numeri. Ma la cultura, nelle sue varie declinazioni (molte delle quali sono ancora da trovare), non è l’unica materia ludica utilizzabile. Molti giochi sono incentrati sul mondo della logica (anche in questo caso in molte declinazioni), meritandosi quindi l’appellativo di «giochi che fanno pensare», e distinguendosi così dai «giochi in cui bisogna sapere». Anche la memoria, nelle sue infinite potenzialità, è un’area di competenza che ha dato origine a molti game, di natura profondamente diversa da quelli sopra ricordati. Svariati sono anche i game che attivano come area di competenza l’intuito e il cosiddetto «sesto senso», declinato in molte – e spesso molto interessanti – accezioni. Facendo attenzione e sforzandosi un poco, si scopre che le materie ludiche di base utilizzate nei giochi sono più di quante si possa sospettare. La musica (intesa non solo come argomento per domande classiche, ma anche come bacino per quesiti di natura completamente diversa, come riconoscere un motivo da solo poche note, ­­­­­63

oppure distorto...), i prezzi delle cose, i volti dei personaggi famosi, deformati da un morphing, l’uomo e quello che fa o che è (il suo lavoro e le sue attività), i sondaggi sui più svariati argomenti, il confine labile del vero e del falso, la capacità di prevedere come si comporterà o risponderà una determinata persona sono solo alcuni esempi di materia ludica utilizzata in numerosi programmi, alcuni dei quali di grosso successo. Lo sforzo maggiore quando ci si concentra su questo nucleo profondo dei game è di trovare una materia ludica che presenti almeno una sfumatura originale rispetto a quelle già sfruttate, ma che non restringa troppo il target, facendo riferimento ad aree di competenze troppo strette e segmentanti. Questo strato primario è infatti il terreno comune con il telespettatore e costituisce la principale chiave di accesso al programma. Lavorare su un terreno comune troppo ristretto, interessante solo per una piccola parte dei telespettatori, comprometterà il successo finale. Nessuno infatti guarderà, per esempio, un quiz con domande solo a carattere cinematografico, se non è interessato (e molto) all’argomento, per quanto belle possano essere le domande stesse e le dinamiche di gioco. Aree di competenza ancora più circoscritte (teatro, musica classica, arte...) non hanno alcuna chance su broadcaster a carattere generalista e possono al limite avere ospitalità solo su reti fortemente tematiche (e non è comunque detto che funzionino). 2) Il quesito base Il secondo strato dei game show è come si gioca, inteso nella sua forma più basilare. Ovvero il modo in cui la singola prova o la singola domanda di cui si compone il dilemma vengono poste e formulate ai concorrenti. Subito dopo la materia viene la forma. Ovvero, dopo aver stabilito ciò per cui si gioca, bisogna determinare il come si gioca. Lo strato secondario dei game show è infatti la forma in cui la materia viene posta ai concorrenti. Non parliamo ancora di meccaniche e di manche, bensì della singola unità base, cioè il modo in cui viene formulato un singolo quesito (nel senso ampio del termine). Quando si pensa alla domanda, vengono infatti sempre in mente, per inerzia, le stesse due o tre tipologie, oramai trite e ritrite: multiple choice (a 2, a 3 o 4...), domanda aperta (ovvero senza un ristretto numero di risposte tra cui scegliere) e poco altro. In realtà le tipologie sono ­­­­­64

molte e molto varie e, cosa che a noi più importa, è ancora possibile trovarne di nuove. Solo per rimanere nel campo delle domande esplicite (quiz), si può fare una velocissima e incompleta carrellata di modalità di quesiti base, giusto per dare un’idea della vastità dell’offerta. Si possono ricordare per esempio la domanda a risposta aperta, però con facilitazioni sulla parola (o parole) che costituisce la risposta, come dare la lettera iniziale, o i trattini per indicare il numero di lettere, o le lettere stesse che compongono progressivamente la risposta; le multiple choice alternative (in numero crescente, con una o più alternative al buio, a tempo...); le domande a risposta numerica, in cui bisogna avvicinarsi il più possibile al numero esatto; la scelta della o delle risposte sbagliate anziché di quella esatta; l’accoppiamento di due termini o di due parti di risposte coerenti tra loro; i quesiti di logica in tutte le numerosissime accezioni; le domande che richiedono doti di memoria (ricordarsi le risposte già date o visualizzate in precedenza) o di fortuna (multiple choice selezionate a caso, o di numero variabile); e molto altro ancora. Se poi si esce dall’ambito della domanda classica, le possibilità sono ancora più numerose. Riconoscere un motivo da poche note; assegnare un prezzo a un oggetto; capire cosa fa, pensa o dice una persona (conosciuta e vicina al concorrente o meno); indovinare come va a finire una certa cosa (filmato interrotto, notizia incompleta, prova da superare...); eliminare gli estremi (primo e ultimo) da una serie di cose e/o persone; ordinare alcune cose e/persone secondo criteri dati (peso, numero di anni, misure varie, coordinate geografiche...); individuare una cosa e/o persona che non c’entra con le altre; risolvere indovinelli ed enigmi di vario tipo; elencare quanti più elementi di una categoria o secondo criteri dati; e così via. In alcuni casi è lo strato primario a determinare, in modo vincolante, lo strato secondario, che deve soltanto essere messo un po’ a punto. Se la materia ludica di un game è costituita, per esempio, dall’essere umano e da ciò che fa o che è, viene abbastanza naturale mostrare un individuo e chiedere al concorrente di indicare, tra le risposte date, la caratteristica da associargli (il suo lavoro, una cosa che ha fatto o che ha detto...). In altri casi, invece, i due strati sono del tutto indipendenti, e bisogna lavorare a fondo su entrambi. Va sottolineato, infine, che il dilemma del game show è costituito, nella stragrande maggioranza dei casi, da questi primi due strati più ­­­­­65

interni. E siccome un game, per essere considerato davvero nuovo e originale, deve presentare un dilemma di nuovo tipo, è sempre conveniente investire tempo ed energia creativa su questi due strati più profondi. 3) I meccanismi portanti Il terzo strato è relativo ai meccanismi portanti, che sono quelli che portano avanti diacronicamente il game. Ovvero considera il modo in cui i singoli quesiti base sono collegati e il modo in cui si determinano le interrelazioni dei concorrenti tra di loro e con il premio finale. I primi due strati sono, per così dire, sincronici. Hanno cioè un tempo di consumo minimo: il tempo della singola domanda. Il terzo strato costituisce invece il vero e proprio tessuto connettivo del game. Non considera come viene posta la domanda, bensì come si svolge il gioco nella sua interezza. I meccanismi portanti determinano insomma lo sviluppo diacronico del format, stabilendo in modo preciso come le varie unità-domanda sono collegate tra loro e come impattano sui concorrenti in gara (meccanismi di scalata, di eliminazione, di competizione...). Come assioma generale si può affermare che più questo strato è sviluppato ed efficace, meglio funziona il format. La materia e le singole domande costituiscono il terreno comune e sono il «biglietto d’ingresso». Un telespettatore, infatti, inizia a guardare un gioco televisivo soprattutto perché è colpito istintivamente da un singolo quesito (che verte su una competenza specifica). Rimane però alla visione del format solo se i vari quesiti sono collegati tra loro secondo una logica e una meccanica allettanti e tensive. In questo modo, alla pura e semplice giocabilità immediata fornita dai primi due strati si aggiunge l’interesse per uno sviluppo narrativo, determinato dal terzo strato. È gustoso, per esempio, tentare di indovinare qual è un certo pianeta che inizia con la S, ma più gustoso ancora è seguire il percorso di tutte le ventuno lettere dell’alfabeto, accompagnando i concorrenti in questa corsa. Le multiple choice a quattro risposte sono eleganti e straordinariamente efficaci e, se la domanda è ben formulata, è molto difficile per un telespettatore, anche se occasionale, non cercare di dare la risposta; ma l’interesse risulta moltiplicato se si segue l’avventura di un concorrente che cerca di dare la scalata alla favolosa cifra di un milione attraverso un percorso scandito in quindici domande di difficoltà e valore crescenti. Gli esempi sono ­­­­­66

infiniti perché, più che nei due strati precedenti, è su questo aspetto che si focalizza la creatività degli autori. Molto interessanti, oltre che di grande efficacia, sono quei meccanismi che collegano in modo diretto e conseguenziale la successione delle domande con le dinamiche interne dei concorrenti. In 1 vs 100, per esempio, le domande determinano l’eliminazione diretta e immediata di un numero più o meno alto dei cento sfidanti, che impatta a sua volta sul montepremi potenziale dell’unico concorrente ufficiale in gara. In The weakest link le domande hanno valore crescente man mano che si va avanti a rispondere senza mettere al sicuro la cifra accumulata, col rischio però di perdere l’intero importo (e questa eventualità, ovviamente, ha un grande peso nella scelta del compagno da eliminare dal gioco). E si potrebbe continuare ancora a lungo. Questo strato è fondamentale anche in quei game molto light – in particolare i panel game – in cui le domande e la struttura ludica in genere sono poco più di un pretesto per far esibire alcuni vip in veloci «numeri». In questo caso, i meccanismi portanti tengono insieme l’intero game, dandogli un percorso e una meta precisa, impedendogli di sfilacciarsi in mille direzioni e in un eccesso di chiacchiere a vuoto. Per esempio, la casetta di 3x3 finestre che costituisce la griglia del Gioco dei 9 incanala le domande e i commenti relativi dei nove personaggi all’interno del classico gioco del tris, dando al game stesso una struttura e una direzione molto chiare. 4) Il vestito esteriore Il quarto strato fornisce il vestito finale e costruisce in modo visivo e immediatamente comprensibile il mondo del game. Tale mondo può essere già implicito negli strati precedenti (e, di conseguenza, il vestito esteriore deve limitarsi a valorizzarlo), oppure può essere costruito ex novo da quest’ultimo strato. I game (come tutti i programmi televisivi) hanno una forma esteriore che viene trasmessa soprattutto attraverso la scenografia, la grafica e le componenti visive in genere, ma anche attraverso il linguaggio utilizzato, la tipologia dei concorrenti, il titolo, lo stile di conduzione e molto altro ancora. Tutti questi aspetti, insieme ovviamente ai contenuti, formano e determinano il mondo del game, ovvero l’universo simbolico che il game esprime e racchiude. Trovare un bel mondo è molto importante per la buona riuscita di un game (e non solo). Le domande, i meccanismi e lo svolgimento ­­­­­67

globale di un gioco sono infatti molto più efficaci e godibili se si «incarnano» in un universo simbolico di riferimento e non rimangono invece su un piano troppo astratto e asettico. Detto in altre parole: è meglio, in genere, dare un’evidenza e una concretezza visiva al game piuttosto che puntare tutto sulle meccaniche nude e crude. Per esempio, il percorso del concorrente di Affari tuoi, che elimina uno dopo l’altro le varie somme di denaro in palio, fino a rimanere con pochi premi potenziali, è ottimo e perfettamente calibrato. Ma l’espediente di inserire fisicamente i premi stessi in pacchi molto ben caratterizzati a livello visivo e di personalizzare i pacchi stessi affidandoli a futuri concorrenti provenienti da tutte le regioni d’Italia ne aumenta senza dubbio l’efficacia. Bisogna però fare molta attenzione, perché spesso il confine che divide la caratterizzazione dal trash e dal pacchiano è sottile. Lo sforzo degli autori deve essere infatti quello di dare concretezza visiva al mondo del game senza però ridurlo a farsa. Un buon vestito deve essere piuttosto suggerito e abbozzato con pochi ed efficaci tratti e non esibito in modo troppo plateale. I venti rappresentanti delle regioni di Affari tuoi funzionano e arricchiscono il gioco, ma se si presentassero in studio abbigliati con i costuni tipici (e finti) dei loro paesi comprometterebbero la credibilità del gioco stesso, introducendo una nota grottesca e gratuita. A volte l’universo simbolico che il game racchiude è una conseguenza diretta e naturale dei primi tre strati. In questi casi, naturalmente, il quarto strato assolve soltanto a una funzione chiarificatrice, ovvero si limita a sottolineare e a rendere più evidente un universo già stabilito. Sarabanda è il gioco della musica e questo mondo è l’emanazione stessa dell’argomento di tutte le domande. Ok, il prezzo è giusto!, per la stessa ragione, è il gioco dei prezzi delle cose (e in entrambi questi casi tale evidente assioma è lampante sin dal titolo). A volte, invece, l’universo è, per così dire, posticcio. In Il pranzo è servito, per esempio, le domande non sono di carattere culinario (perlomeno, non tutte) e il mondo conviviale e mangereccio non deriva neppure dalle meccaniche di gioco o dal rapporto tra i concorrenti. Tale mondo è stato creato esclusivamente da questo quarto strato, in quanto è un vestito aggiunto a livello grafico e visivo (ogni risposta esatta vale una portata). La ruota della fortuna deve il suo titolo e il suo elemento più caratterizzante non già alle domande e al meccanismo di gioco vero e proprio (la risoluzione di una frase a chiave), bensì a un particolare apparentemente secondario, ovvero la determinazione del valore delle ­­­­­68

lettere indovinate. Il meccanismo delle identità misteriose de I soliti ignoti avrebbe potuto essere inserito nei contesti più disparati: è stata una precisa scelta autoriale dargli un’ambientazione forense, che caratterizza anche il lessico usato e alcuni dei principali snodi rituali (il tipico martelletto in legno che il concorrente utilizza per confermare in modo definitivo la sua risposta). In alcuni game questo quarto strato manca del tutto. Il caso più celebre è il solito Chi vuol essere milionario?, che presenta gli strati centrali (secondo e terzo) così eccezionalmente e straordinariamente compiuti da poter fare a meno di un vestito esteriore. Ma è abbastanza rischioso tentare di emulare un esempio di tale livello... 3.2. I fattori critici e i meccanismi base Uno degli aspetti più affascinanti dell’universo ludico è la possibilità di avere infiniti sviluppi con un numero estremamente esiguo di elementi. Di fatto tutta l’architettura dei game show è fondata su due categorie distinte: i fattori critici e i meccanismi base. Del primo gruppo fanno parte gli elementi che più di ogni altro caratterizzano i game e sono quindi i veri pilastri portanti. Con meccanismi base si intendono invece quei principi che, utilizzando i fattori critici in determinate combinazioni, stabiliscono la struttura dei game e il modo in cui essi funzionano. Per fare un paragone culinario, se il game show è la ricetta finale, i fattori critici sono gli ingredienti principali, mentre i meccanismi base sono i metodi di preparazione e di cottura. O, per usare un altro tipo di paragone, i fattori critici sono i materiali di costruzione, mentre i meccanismi base sono le modalità con cui questi materiali vengono assemblati tra di loro. 3.2.1. I fattori critici I fattori critici sono le «materie prime» che costituiscono l’essenza di ogni gioco televisivo. Sono quegli elementi fissi e irrinunciabili che si ritrovano in ogni game, pur nelle loro infinite varianti. Sono solamente quattro: il dilemma, i concorrenti, i soldi (punti, premi ecc.) e il tempo. Le cose con cui si fa un game show sono molto poche. Ogni game è infatti costituito solamente da quattro elementi principali, che si possono ritrovare, in forme e declinazioni diverse, in tutti i giochi, sin dall’origine della televisione stessa. ­­­­­69

dilemma.  È ciò che più profondamente caratterizza un game e costituisce il principale motivo di distinzione tra un game e l’altro, determinando anche, come abbiamo visto, la tipologia di game show (quiz, light quiz, alea, action). Il dilemma è il contenuto, e spesso anche la forma, in cui la sfida si presenta, e costituisce l’essenza più profonda della sfida stessa, che è poi a sua volta l’essenza più profonda del gioco in quanto tale. Per questa ragione si può affermare che un game con un tipo di dilemma nuovo è, di fatto, un game nuovo; mentre un game con un dilemma già visto è un game vecchio con un vestito nuovo. Per questa sua centralità gli dedicheremo più avanti un approfondimento specifico. concorrenti.  I concorrenti sono coloro che devono sciogliere il dilemma per conquistare il premio finale in palio. Sono dunque gli eroi del game, i paladini che, dopo un lungo e pericoloso percorso, cercano di entrare in possesso del Sacro Graal, i protagonisti di un viaggio iniziatico alla conquista di un favoloso tesoro. Ma sono soprattutto i protagonisti della sfida: poiché infatti il tesoro è unico e difficile da conquistare, i partecipanti sono in aperta competizione tra di loro (ma a volte la competizione è tutta interna all’individuo). I modi in cui i concorrenti si contrappongono sono infiniti e determinano la struttura e il percorso del game. Le strutture più comuni sono fondamentalmente tre: quella «in parallelo», ovvero quella in cui il numero iniziale dei concorrenti rimane inalterato fino alla fine e tutto viene deciso nell’ultima manche, che determina il vincitore finale; quella «a imbuto», in cui un gruppo relativamente elevato di concorrenti viene scremato attraverso eliminazioni successive, fino alla determinazione del finalista o dei finalisti; e quella del «testa-a-testa», in cui si scontrano frontalmente due concorrenti o due squadre di concorrenti. A partire da questi schemi base si hanno però varianti così innumerevoli da non poterne dare conto in modo completo. In alcuni, interessanti casi si assottiglia e perfino scompare il confine tra alleati e avversari, dato che, nel corso della stessa partita, chi era dalla nostra parte come alleato si trasforma improvvisamente in feroce competitore, o viceversa. Per quanto riguarda il numero complessivo dei concorrenti, si può andare da uno solo a molti, potenzialmente tutti quelli che uno studio televisivo può contenere: ci sono infatti casi in cui tutto il pubblico presente al programma partecipa al gioco come concor-

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rente effettivo. Nella variegatissima gamma dei game show si può affermare che sono state esplorate tutte le combinazioni numeriche, da 1 a n concorrenti, dove n è compreso grosso modo tra 100 e 200 (e forse, in alcuni casi, anche di più). Ma, al di là dei singoli casi, è possibile identificare un numero, se non perfetto, quantomeno ottimale di concorrenti di un gioco televisivo? Anticipando una delle fondamentali considerazioni che verranno svolte in seguito, va detto che il contatto visivo, abbastanza prolungato, tra il telespettatore e i concorrenti in studio è un fattore fondamentale per il successo di un game. Fissando quindi questa regola come una sorta di assioma, risulta difficile ottenere questo obiettivo con la presenza contemporanea di più di otto concorrenti. Da uno a otto partecipanti è dunque il range ottimale che, al di là di eccezioni, si può fissare con ragionevole certezza. Si possono anche prevedere giochi in cui ci siano, nelle fasi iniziali, più di otto concorrenti, purché vengano presto ridotti di numero, fino ad arrivare a questi ordini di grandezza in un tempo relativamente breve. È molto pericoloso, infatti, progettare game che abbiano un numero di partecipanti molto elevato dall’inizio alla fine del programma, poiché in queste condizioni un prolungato contatto visivo è pressoché impossibile e non si arriverebbe quindi a stabilire un’identificazione forte e duratura con i partecipanti (fanno parziale eccezione a questa regola certi «gioconi» fisici o a carattere musicale, in cui l’impronta allegra e festosa è predominante rispetto alle altre componenti). Attenzione però a non confondere i veri partecipanti (i reali fattori critici) con gli elementi che possiamo definire di contorno. In 1 vs 100 il vero concorrente è, come dice il titolo, uno solo. I cento che fronteggia sono semmai dei co-protagonisti, o meglio degli antagonisti, che costituiscono una massa anonima e indistinta contro cui il nostro eroe, l’unico con cui è possibile un’identificazione, si batte strenuamente. Solo nel finale del gioco, se il concorrente è riuscito a operare una drastica selezione, i pochi sopravvissuti assumono un’identità distintiva propria (si presentano con nome e cognome) e, di fatto, assurgono al ruolo di concorrenti a tutti gli effetti. Per queste stesse ragioni di fondo, quando si arriva alla fase finale del format, in particolare nell’ultimo gioco (se il game è progettato a manche), conviene ridurre ulteriormente i concorrenti, attraverso un drastico processo a imbuto. I giochi più forti in assoluto sono infatti quelli che nei segmenti finali si concentrano sull’ultimo o, ­­­­­71

al massimo, sugli ultimi due concorrenti rimasti, anche se, per loro natura, non sono giochi di particolare tensione. Anche pensare a giochi con nessun concorrente presente fisicamente in studio è molto pericoloso. Puntare tutto sulla possibilità di una partecipazione attiva da casa (attraverso telefono, internet o altro) è infatti una scelta sconsigliabile: un conto è dare ai telespettatori la possibilità di partecipare attivamente, o anche dedicare una sezione limitata di gioco esclusivamente a questo momento, un conto è rinunciare del tutto a delle presenze fisiche in studio per l’intera durata del format. Non è possibile mantenere l’attenzione degli altri telespettatori (quelli che non partecipano attivamente alla modalità interattiva, che sono pur sempre la stragrande maggioranza) su un programma privo di concorrenti concreti per più di cinque minuti. Naturalmente fanno eccezione a questa regola i cosiddetti call game, in cui lo scopo principale è spingere i telespettatori a chiamare in trasmissione per rispondere a semplicissimi quesiti, a fronte della prospettiva di una vincita. Ma in questo tipo di programmi il fine non è certo fare ascolto e suscitare l’interesse del maggior numero di spettatori possibile. Questi giochi, che sono televisivi solamente perché si svolgono all’interno di una piattaforma televisiva, hanno infatti come principale e unico fine sviluppare traffico telefonico a pagamento. Per concludere, si può dire in sintesi che, se un gioco non supera la mezz’ora di programmazione, il numero di concorrenti non dovrebbe essere superiore a tre o quattro, riservando però la parte finale soltanto a uno solo o, al massimo, a due di loro. Se invece il gioco è più lungo, si può rimanere su questi ordini di grandezza solo a patto che esso sia altamente tensivo e preveda una posta in gioco significativa. Altrimenti, se il game è più leggero o vuole comunque puntare di meno sul montepremi e su un livello di competitività troppo spinto, è meglio allargare la base fino a un massimo di circa il doppio dei partecipanti (divisi in squadre o meno), riservando sempre, però, il segmento finale all’ultimo concorrente rimasto in gara, o agli ultimi due. soldi, punti e premi. 

In questo gruppo, per la verità alquanto eterogeneo, sono compresi sia gli elementi che servono a segnalare le tappe della scalata verso la conquista del premio finale, sia il premio finale stesso. Quindi sia il mezzo per arrivare al tesoro in palio, sia il tesoro in quanto tale, ovverosia il fine di ogni game. ­­­­­72

I soldi, per la loro particolare natura, svolgono egregiamente entrambe queste funzioni. Infatti, in virtù della loro modularità (si possono vincere, o perdere, pochi euro, oppure molte centinaia di migliaia di euro, in tutte le infinite gradazioni) sono in grado sia di segnalare il percorso compiuto dai concorrenti (che vedono calare o aumentare il montepremi in palio, a seconda della loro condotta di gioco), sia di costituire la posta finale. Nei game in cui questo avviene (per esempio in Chi vuol essere milionario?), il percorso è marcato in continuazione dalla vincita o perdita di soldi, che fungono quindi da cartina di tornasole sull’andamento del gioco da parte dei concorrenti; infine, al termine della puntata, il vincitore o i vincitori portano a casa quanto sono riusciti ad accumulare o conservare fino a quel momento. Più frequente è però l’uso di un sistema di punteggio, numerico o di altro tipo, scindendo quindi la funzione di segnalazione da quella di premiazione. Spesso infatti, per motivi produttivi o di altro tipo, è indispensabile mettere in palio una somma di denaro fissa e certa, e quindi non determinata dall’andamento del gioco e dalla bravura dei partecipanti. In questi casi risulta più pratico e sicuro segnalare l’andamento della sfida con un sistema di punteggio neutro, e assegnare alla fine il premio stabilito. Attenzione, però: questa funzione segnaletica all’interno dei giochi non è solo di servizio (stabilire chi vince e chi perde), ma ha anche un valore simbolico molto importante e profondo. S’è detto infatti che il game può essere considerato una sorta di viaggio iniziatico alla conquista di un tesoro. Ebbene, i punti (o i soldi, i premi, o altro) guadagnati nel corso del gioco sono le tappe fisiche in cui è scandito questo percorso. Il punteggio, dunque, che deve essere sempre visibile e presente sullo schermo, segnala e marca il cammino dei concorrenti impegnati nella conquista del tesoro e per questa sua importante funzione non solo deve essere molto accurato e preciso, in modo da far capire immediatamente al telespettatore l’andamento della gara (ovvero a che tappa del percorso prestabilito si è arrivati fino a quel momento), ma deve anche avere un resa visiva e grafica all’altezza di questa sua valenza rituale. Altrettanta attenzione va posta ovviamente anche al premio finale, che è il punto di arrivo del percorso dei concorrenti. Nei game in cui il montepremi è di una certa importanza, la sua conquista va valorizzata adeguatamente. Alla vincita effettiva si deve infatti aggiungere, anche in questo caso, una vincita di carattere simbolico/rituale. ­­­­­73

Chi prevale è stato il migliore, ha sconfitto tutti gli altri, è il vero eroe della puntata. È insomma un campione a tutti gli effetti, e questo suo status deve essere sottolineato in modo forte e inequivocabile: il premio finale è quindi la posta in gioco ma anche il simbolo d’una supremazia conquistata sul campo, e non deve mai deludere le aspettative. Anche nei giochi più leggeri, comunque, un punto di arrivo chiaro e simbolicamente preciso ci deve sempre essere: il termine del percorso dei concorrenti va infatti sempre sottolineato chiaramente, pur senza mettere in palio cifre o premi di grande valore. tempo. 

Anche il tempo si può considerare, per certi aspetti, un segnalatore di percorso, al pari dei punti e dei soldi. Non sono rari, infatti, i game in cui, nel corso della gara, si vincono (o si perdono) secondi, che servono poi in genere a conquistare il montepremi in palio nel gioco o nella manche finale. Ma il tempo non può essere ridotto solo a questo, essendo un altro dei fattori critici per eccellenza. Per completare la definizione data nel capitolo 1 si può dire infatti che siamo «in gioco» quando l’essenza del programma è la determinazione di uno o più vincitori e/o uno o più perdenti attraverso un dilemma e in un lasso di tempo stabilito. Quindi, in un game ci sono dei concorrenti, che lottano tra di loro per la conquista del premio in palio; questa lotta avviene attraverso il dilemma ed è contenuta entro precisi riferimenti temporali, che servono anche a scandire, in modo perentorio, il percorso. Il tempo è sempre presente, ma può essere – per così dire – portato in superficie o mantenuto a livello sotterraneo, a seconda delle esigenze e delle finalità del format. È ovvio infatti che i game show, come qualsiasi altro programma, sono caratterizzati dal fattore temporale, dal momento che hanno un inizio e una fine. A differenza però della maggior parte degli altri programmi, il tempo nei giochi può essere evidenziato e valorizzato con profitto visualizzandolo a livello grafico, per dare una maggiore tensione: il tempo è un acceleratore emozionale formidabile e regolabile in modo quasi chirurgico. In linea generale, si può dire che rendere esplicita la presenza del tempo (mettendo in grafica orologini, cronometri, barrette che si consumano o altri simboli che esprimono lo scorrere e l’incalzare dei secondi) significa sempre imprimere uno scarto di ritmo interno. Di solito, inoltre, l’introduzione esplicita del tempo si accompagna ad altri accorgimenti registici e visivi: l’abbassamento delle luci, il ricorso a ­­­­­74

primi piani sempre più stretti, un cambio di sottofondo musicale per accentuare l’aspetto più drammatico del momento. Il messaggio che in questo modo si vuole comunicare al telespettatore è più o meno: finora abbiamo scherzato e ci siamo divertiti, adesso però si fa sul serio, perché c’è una somma di denaro importante in ballo. Va anche messo in luce l’uso non convenzionale di questo fattore critico in molti game dal Milionario in poi, che svincolano di fatto il tempo, variabile, del gioco dei concorrenti da quello, fisso e rigido, della puntata. In pratica in questa struttura, che si definisce «non autoconclusiva», il percorso dei concorrenti non deve per forza coincidere con la fine della puntata, ma può estendersi su più puntate, o concludersi prima che una puntata sia terminata. Le puntate, quindi, non hanno un andamento predefinito, in quanto il percorso del concorrente si può interrompere in qualunque momento (perché si ferma, o viene eliminato, oppure raggiunge il gradino più alto della scalata) e subentra un nuovo partecipante. Ogni puntata può dunque iniziare con la parte finale del percorso di un concorrente e continuare con la parte iniziale della scalata di un nuovo partecipante, o prevedere la presenza di più partecipanti uno dietro l’altro che si succedono in una veloce alternanza, o essere viceversa incentrata su un solo concorrente che invece resiste molto a lungo. Per fare un esempio, la concorrente che, ultima in ordine di tempo, ha conquistato in Italia il premio massimo di Chi vuol essere milionario? è rimasta complessivamente in video tre puntate: la parte finale della prima, tutta la puntata successiva e la parte iniziale della terza, quella in cui le è stata posta la quindicesima e ultima domanda, del valore appunto di un milione. Il vantaggio principale di questo tipo di struttura è la modularità. Scardinando la tirannia di un tempo prestabilito e immutabile, si rie­ sce a valorizzare meglio le performance dei vari concorrenti. Quelli più forti e preparati possono scavallare la puntata e possono quindi vivere meglio e più a lungo; quelli più deboli e meno caratterizzati, invece, finiscono la loro scalata presto, senza tirarla troppo per le lunghe. In questo modo, oltretutto, ogni puntata non è mai uguale a un’altra e lo spettattore non sa mai cosa aspettarsi. Di contro, però, in format di questo tipo il picco emotivo del programma, il momento più alto e tensivo (ovvero il tratto conclusivo del percorso), non è detto che coincida con la fine del programma stesso; e questo, specie nei game che hanno funzione di traino (e che quindi hanno bisogno del finale più forte possibile), è un problema non secondario. ­­­­­75

Concludendo, si può dire che il tempo, oltre a essere indispensabile, è uno strumento utilissimo ed estremamente flessibile per dare al game la dose di tensione e di importanza che serve; e solamente nei punti precisi in cui serve. Saper dosare bene questo fattore è dunque molto importante: anche un gioco all’apparenza semplice e lineare può rivelare un carattere inaspettato quando viene introdotto il fattore tempo nella giusta misura, come una particolare spezia che dà un sapore nuovo e inatteso a una pietanza altrimenti piatta e banale. Non è un caso, infatti, se di un presentatore che conduce bene un gioco si dice che «ha tempi giusti». 3.2.2. I meccanismi base I meccanismi base costituiscono il modo in cui i fattori critici interagiscono e si modificano al loro interno e tra di loro. Sono dunque i principi fondamentali che regolano ogni gioco e gli permettono di svolgersi e di giungere all’esito finale. Nella loro forma elementare sono solamente quattro: sottrazione, addizione, scelta e scambio. I meccanismi base sono il vero e proprio motore del game, in quanto permettono al gioco di svilupparsi, creando aspettative, tensione, interesse. È infatti grazie ai meccanismi base che il gioco va avanti e si determina quel cambiamento di stato tra un prima e un dopo che è alla base della regola dello sviluppo vista nel capitolo precedente. I meccanismi base ci sono sempre e spesso sono più di uno. È buona norma, in genere, individuarne uno principale che funga da traino e da principio di regolazione dell’intero format e poi aggiungerne, dove serve, altri secondari, che regolano aspetti minori e più di dettaglio (la singola manche, il dilemma...). Il meccanismo base principale funge dunque, in pratica, da fil rouge dell’intera competizione ed è la spina dorsale, l’ossatura portante, la chiave di volta che regge l’intero edificio ludico; quelli secondari possono invece trovarsi in ogni aspetto del game e portano avanti singoli segmenti, dilemmi e snodi. Il meccanismo base principale e quelli secondari non devono necessariamente essere dello stesso tipo: basta solo che ci sia una qualche forma di coerenza, anche solo a livello formale. sottrazione. È il meccanismo che determina la diminuzione di uno o più fattori critici. È un meccanismo molto potente, se usato adeguatamente, perché la scomparsa progressiva e regolamentata di

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alcuni elementi (soldi, punti, tempo, concorrenti...) costituisce una spinta naturale verso la fine del gioco. Il motivo d’interesse principale di questo meccanismo è costituito dalla lotta e tensione costante tra conservazione e perdita, dato che il completo esaurimento del fattore critico soggetto a diminuzione segna l’inesorabile conclusione del programma. È dunque una conclusione oggettiva, inoppugnabile ed evidente: se sono finiti i soldi, il tempo, i punti a disposizione, è chiaro che è finito anche il gioco. È una fine naturale e fatale, su cui c’è poco da obiettare: bisogna fare in modo però che l’esaurimento del fattore critico non arrivi troppo presto, prima della fine della puntata. A dispetto del nome, questo meccanismo non ha necessariamente sempre e soltanto una valenza negativa. Certo, nel caso in cui venga applicato ai soldi, ai premi e, in generale, alla vincita finale, è in effetti più probabile che sia un meccanismo penalizzante. Però, per esempio, in Affari tuoi la sottrazione dei premi dentro i pacchi ha una logica assolutamente casuale, e quindi può determinare un andamento negativo della gara, ma anche positivo. Anche la sottrazione applicata ai concorrenti ha segno doppio. Nell’Eredità la fine di ogni manche corrisponde all’eliminazione di un concorrente, secondo una classica struttura a imbuto. È chiaro che questo inesorabile meccanismo è negativo per gli eliminati, ma positivo per coloro che rimangono ancora in gara, che ereditano le vincite dei loro sfortunati colleghi. In 1 vs 100 lo spegnimento progressivo del muro dei cento anonimi sfidanti (che in questo caso sono punti a tutti gli effetti) è un evento estremamente positivo per l’unico concorrente, che vede salire il proprio montepremi in proporzione al numero delle vittime: questo meccanismo si traduce infatti in quello, speculare, di addizione, che poi è la traduzione della somma di denaro che viene accumulata. addizione. 

È il meccanismo speculare a quello precedente, nel senso che prevede l’aumento di uno o più fattori critici. A differenza della sottrazione, che si applica a tutti e quattro i fattori, l’addizione esclude i concorrenti, che invece è bene che si riducano di numero progressivamente, senza mai aumentare. Per il resto, anche i meccanismi di addizione, nelle loro infinite declinazioni, sono estremamente efficaci, se utilizzati in modo opportuno, e trovano vasta e proficua applicazione un po’ ovunque. Molto utilizzate sono, per esempio, le scalate monetarie alla Milionario: le risposte esatte corrispondono al raggiungimento di un livello ­­­­­77

superiore, in una progressione spettacolare e carica di tensione, sempre in bilico tra ascesa e caduta. I meccanismi di addizione trovano inoltre larghissima applicazione nei fattori critici del punteggio e del tempo, anche perché il loro uso è facile, lineare e, generalmente, privo di rischi e criticità. Aumentare di un tot il punteggio dei concorrenti che rispondono a una domanda in modo esatto o superano una determinata prova, e premiare quindi al termine del game quelli col punteggio maggiore, è un po’ il «grado zero» di tutti i giochi televisivi, ancora molto in voga. Nei game in cui si vuol far risaltare in modo evidente la materia ludica o il quesito base, può far comodo ricorrere a questa struttura, proprio perché non si fa notare e non necessita né di spiegazioni né di sottolineature, così da concentrare l’attenzione dei telespettatori solo su questi primi due strati del gioco. Come la sottrazione non sempre ha valenza negativa, così l’addizione non sempre ha valenza positiva (anche se è più facile che l’abbia). Se, per esempio, aggiungiamo a ogni errore del concorrente una risposta sbagliata in più al suo domandone finale, allontaniamo la possibilità di vincere il jackpot e l’addizione verrebbe dunque usata con effetto penalizzante. scelta.  Il meccanismo base della scelta è applicato soprattutto al fattore critico del dilemma, di cui regola le infinite varianti e declinazioni, anche mescolandosi e creando ibridi con i due meccanismi visti sopra. A parte infatti il caso delle risposte aperte, che sta un po’ a sé, quasi tutti i tipi di domanda più comuni si basano sul meccanismo di scelta, a partire dalle classiche multiple choice, in cui, appunto, bisogna scegliere la risposta esatta tra le varie opzioni disponibili. Si può addirittura dire (con una schematizzazione forse un po’ eccessiva, ma non del tutto assurda) che il quiz moderno è nato quando nei dilemmi i meccanismi di scelta hanno sostituito quelli a risposta aperta, poiché quest’ultima permette di giocare solo a un numero ridotto di telespettatori (quelli più colti e informati), mentre con la scelta tutti sono in grado di giocare, anche in caso di domande molto difficili: e vedremo più avanti quanto importante sia il tema della giocabilità da casa. La scelta è dunque un meccanismo largo e popolare, perché permette di supplire con il caso (o, se proprio vogliamo, con l’intuito) alle carenze conoscitive. Anche se non si conosce la risposta esatta si può infatti provarci comunque, scegliendo la meno implausibile tra la A, la B o la C, o dicendo «Vero» anziché «Falso», oppure ordinando

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una serie di cose secondo un determinato criterio, e così via. Per non dire, ovviamente, dei meccanismi di scelta basati interamente sul caso e che escludono quindi a priori ogni implicazione culturale. Oltre che al dilemma, la scelta viene talvolta applicata ai concorrenti. Per esempio nell’Eredità questo meccanismo si affianca a quello di sottrazione, nel senso che il concorrente che ha perso la manche deve scegliere, col rituale del dito puntato, un avversario a cui viene posta una domanda (scelta a sua volta fra tre possibilità), e che dovrà lasciare il gioco in caso di risposta errata; altrimenti viene eliminato colui che lo ha additato. Molto più rari sono invece i casi in cui si applica ai punti, ai soldi o al tempo: tutti fattori che, avendo natura numerica, sono soggetti nella stragrande maggioranza dei casi ai meccanismi di sottrazione e addizione. scambio. 

Quando si introduce il meccanismo di scambio, fa irruzione nel game il caso alla sua ennesima potenza. Lo scambio infatti rimette tutto in gioco, mescola le sorti dei concorrenti, ribalta i risultati fino a quel momento raggiunti e stabilisce un ordine nuovo. Per questa ragione va usato con estrema cautela. Un particolare interessante è che è sempre a somma zero. Ovvero il fattore critico oggetto di scambio passa sempre e soltanto da un concorrente all’altro, senza subire aumenti né diminuzioni. Viceversa, nei precedenti tre meccanismi i fattori critici vengono prima immessi dall’alto, ovvero a livello produttivo/autoriale. Si può dire che si ha uno scambio quando c’è un rimescolamento dei fattori critici già presenti nel gioco, senza aggiungere né sottrarre alcunché. Un bell’esempio di questo meccanismo è la possibilità data talvolta al concorrente di Affari tuoi di scambiare il proprio pacco con uno a scelta tra quelli rimasti ancora in gioco, con conseguenze a volte fortunate ma a volte anche catastrofiche. Lo scambio si limita dunque a rimescolare le carte già sul tavolo, creando però spesso dei cambiamenti più radicali e profondi rispetto agli altri tre meccanismi. Ciò che viene cambiato non è infatti una certa cifra di denaro o un determinato punteggio conquistato nel corso della partita, bensì, a livello più profondo, il destino stesso dei concorrenti. Se dunque ogni gioco oscilla sempre tra fato e ragione, fortuna e conoscenza, lo scambio è il meccanismo che più lo sposta verso i primi termini di questa dualità, introducendo nella sfida un elemento di irrazionalità e di aleatorietà estremamente affascinante ma anche, in un certo senso, spaventoso. ­­­­­79

3.3. Le regole del gioco Dopo aver preso in considerazione il game show nel suo insieme, le sue stratificazioni e i suoi elementi costitutivi, è giunto il momento di concentrare l’attenzione sulle quattro regole base per affrontare la progettazione in modo corretto. Si tratta di principi molto generali, ma di importanza fondamentale, che non devono essere mai trasgrediti. 1) Semplicità Come e più ancora di tutti gli altri format, i game devono essere semplici. Le meccaniche devono essere immediate, le regole essenziali ma rigorose. Più un gioco è semplice, meglio funziona: la bravura sta nel raggiungere la massima semplicità possibile senza scadere nella banalità. Nel film Non ci resta che piangere Leonardo da Vinci, senza carte davanti, non riusciva a capire le regole della scopa, lasciando perplesso e costernato Massimo Troisi. La gag, pur paradossale, ha un fondo di verità indiscutibile. Capire le regole di un game, in astratto, è difficilissimo. Non c’è niente di peggio della spiegazione prolungata da parte del presentatore, nei primi minuti del programma, su come funziona il gioco stesso. Anche i meccanismi più semplici, spiegati a voce, appaiono complicati e la voglia di cambiare canale è immediata. Ridurre al massimo la potenziale complessità di tali meccanismi è dunque una delle cose più importanti e difficili che un autore televisivo deve fare. I giochi televisivi devono sempre risultare di immediata comprensione, fino a essere praticamente autoesplicativi. Giusto per dare qualche unità di misura, si può dire che, per ogni sezione di gioco, tali regole devono poter essere racchiuse in non più di 8/10 righe e devono poter essere spiegate in 3, massimo 4 frasi (brevi ma chiare). Ovviamente il rispetto di questi vincoli davvero stretti non deve andare a scapito della creatività. Lo sforzo costante del progettatore di game è infatti di abbinare questi due termini apparentemente in contrasto: fare cioè il gioco bello, ricco, vario e avvincente, rendendolo però al tempo stesso anche il più semplice possibile. Si può dire anzi che i giochi più belli in assoluto sono quelli che riescono a suscitare il maggiore interesse con il minor numero di regole. Un buon sistema per ottenere questo risultato è mettere i concorrenti di fronte a scelte di tipo binario, molto semplici e nette. ­­­­­80

Ovvero, il concorrente, a un certo punto del gioco, può scegliere tra l’opzione A e l’opzione B; in alcuni casi, dopo averne scelta una, si può trovare di fronte a un nuovo bivio, dovendo scegliere tra le due ulteriori opzioni C o D. Questo tipo di percorso ha il pregio di poter essere spiegato con estrema semplicità: addirittura si può raccontare all’inizio solo la prima possibilità di scelta (quindi dire che il concorrente può decidere A o B) e, una volta presa una direzione, raccontare la seconda possibilità di scelta (C o D, a partire da A o B). In questo modo il già semplice regolamento viene ulteriormente diviso in due micro-spiegazioni, ancora più brevi e immediate. Inoltre, costruire un regolamento basato sui meccanismi binari di scelta (mi fermo o continuo la scalata? mi assumo l’onere di una risposta o la giro a un avversario? mi fido di qualcuno o no?) presenta il vantaggio di scadere raramente nella banalità e nella ripetizione. Se la doppia alternativa è costruita con perizia, si ottiene un piccolo dramma interiore che, se ben valorizzato, è sempre efficace, interessante e, soprattutto, vario. Il dilemma è infatti sempre lo stesso, ma il modo di affrontarlo, le motivazioni della scelta e le reazioni emotive che ne scaturiscono sono sempre diversi e dunque appassionanti. 2) Coerenza Ogni game racchiude un mondo, e tale mondo deve essere coerente. Ovvero deve avere un principio regolatore chiaro e unico, e tutti gli elementi costitutivi devono uniformarsi a esso, senza stonature. Ogni game è una sorta di piccolo mondo e questa caratteristica lo differenzia dagli altri generi. Gli altri format si sforzano infatti di circoscrivere il mondo reale, quello in cui viviamo, porgendo al telespettatore una parte significativa ed emozionalmente densa di esso. I game show, invece, creano mondi nuovi e alternativi. Sono dei veri e propri universi paralleli al nostro, con leggi e regole proprie. È sempre stato così e nessuno lo trova strano, né tantomeno si scandalizza. Purché il mondo alternativo del game sia assolutamente coerente. Ci sono almeno due livelli di coerenza. Il primo è più intuitivo e semplice da spiegare. È una coerenza che possiamo definire di tono, di sapore, di finalità. Ci sono quiz molto duri, agonistici, incentrati sulla cultura o su qualche conoscenza specifica, con vincite importanti, quasi sempre di carattere monetario. Altri game sono invece più morbidi, leggeri, divertenti, il livello di competizione è volutamente smussato e i partecipanti gareggiano tra di loro senza eccessivo agonismo; in alcuni ­­­­­81

casi, addirittura, il gioco è poco più di un pretesto, o meglio una cornice, per creare occasioni di allegria, oppure per mostrare qualcosa di interessante o curioso. In mezzo, ci sono tutte le gradazioni possibili. E tutte vanno bene, almeno in teoria: ma tutte devono essere coerenti con la tipologia e il modello scelti, dal punto di vista delle meccaniche, degli effetti audio, della musica, della grafica, della scenografia, della regia ecc. Insomma, ogni gioco deve avere il suo mood coerente, che sappia valorizzare e mettere in risalto il principio regolatore scelto. Ma esiste anche un secondo livello di coerenza, un po’ più sofisticato e profondo. È un tipo di coerenza che possiamo definire simbolica. Si tratta in questo caso di individuare, sottolineare o costruire un Leitmotiv, di varia tipologia e natura, per rendere il format più coeso, compatto e riconoscibile a livello grafico, numerico, scenografico o simbolico. Per esempio, in Chi vuol essere milionario? questa coerenza è di natura numerica. Tutto il format è costruito intorno ai primi cinque numeri: gioca un solo concorrente per volta, a cui viene posta una serie di domande a quattro multiple choice (2 volte 2); tali domande, nelle prime edizioni, valevano una cifra che raddoppiava a ogni gradino (x2) ed erano divise in tre gruppi da cinque domande ciascuno, con tre conseguenti milestone; il concorrente ha inoltre a disposizione tre aiuti e, nelle prime edizioni, veniva scelto tra dieci aspiranti partecipanti (2x5). Il format americano Face off è invece un buon esempio di coerenza che possiamo definire geometrica: l’intero format si basa infatti sull’elemento ricorrente del cerchio e della rotazione. Lo spazio di gioco è disposto su quattro cerchi concentrici e i concorrenti sono in piedi sopra dei segnaposti circolari. Si parte dal cerchio più esterno, che è quello di diametro maggiore. I dodici partecipanti iniziali devono dire un elemento di una categoria data (per esempio i pesci d’acqua dolce). Quando un concorrente sbaglia o ripete una risposta già data è fuori dal gioco. Quando quattro concorrenti sbagliano, finisce la prima manche di gioco e si passa a quella successiva: i concorrenti ancora in gara scendono nel cerchio interno, più piccolo, e si ricomincia a giocare. Le domande, inoltre, sono rivolte al concorrente inquadrato da una telecamera al centro dello spazio di gioco, che, girando su sé stessa, si ferma in modo random di fronte a uno dei partecipanti. Il suo movimento rotatorio richiama evidentemente il motivo del cerchio che costituisce la cifra stilistica del game. ­­­­­82

3) Correttezza Un gioco deve essere sempre corretto, ovvero fair. Questo significa rispetto assoluto per i concorrenti, che possono ovviamente essere fatti cadere, ma in modo coerente con la struttura di base del game, senza interferenze indebite e arbitrarie, e senza sovvertire in modo palese i valori espressi in campo. I telespettatori tifano quasi sempre per il concorrente più bravo (o fortunato), perché si identificano con lui. Questa banale ma fondamentale considerazione deve essere sempre tenuta a mente quando si progettano le regole e i meccanismi di un game. È chiaro che non si possono far vincere sempre cifre da capogiro a ogni puntata, per ovvie ragioni di budget e anche perché, alla lunga, questo renderebbe il gioco terribilmente noioso e prevedibile. Far in modo che i concorrenti perdano è dunque giusto, oltre che inevitabile. Nella vita non si vince sempre; e nei giochi (che della vita sono metafora) neppure. C’è però modo e modo di far cadere i concorrenti. Si può farli cadere in modo fair, o in modo unfair. Nel primo caso la caduta è una conseguenza diretta dei meccanismi che hanno regolato il game sino a quel momento, senza forzature che possano essere percepite come volutamente penalizzanti. Insomma, un concorrente, per quanto bravo, alla fine può perdere perché, quando il gioco si è fatto più duro, egli non è stato duro abbastanza. Ma questo dramma deve essere svolto sempre all’interno di una coe­ renza complessiva e delle regole stabilite all’inizio in modo chiaro e univoco. Per fare un esempio, ci sta che un concorrente del Milionario caschi su una domanda molto difficile, quando ci sono in palio molti soldi. Sarebbe anzi strano e sbagliato il contrario. I soldi, in un quiz, devono essere sempre meritati e sudati. Se un concorrente vince tanto è perché è molto bravo (o molto fortunato, se è un game basato dichiaratamente sulla fortuna). Far vincere tanti soldi con una domanda troppo semplice è dunque addirittura controproducente: se la posta in gioco è alta, la difficoltà del dilemma deve essere ugualmente alta (in realtà anche sulle domande difficili si può essere fair o unfair, ma questo lo vedremo più avanti). Se il concorrente non è in grado di rispondere a domande con tali livelli di difficoltà, la colpa è sua, non del format: quel concorrente non meritava fino in fondo di vincere. Tutt’altra storia è far cadere un concorrente in modo unfair. Immaginiamo per esempio che, sempre nel Milionario, i partecipanti che vogliano uscire dal gioco, dopo avere raggiunto i gradini più ­­­­­83

alti della scalata, debbano tirare una monetina e, a seconda che esca testa oppure croce, possono incassare o meno tutto quello che hanno guadagnato fino a quel momento. Brutto, no? E perché è così brutto? Perché è appunto qualcosa di incoerente con la struttura complessiva, che è basata esclusivamente sulla competenza e non sulla fortuna. È un corpo estraneo inserito con l’evidente intenzione di far cadere il concorrente nel 50% dei casi e quindi risparmiare sul budget del montepremi. È una cosa non corretta; unfair, appunto. Viceversa, ci sono game basati interamente sul meccanismo del testa o croce. In pratica, i concorrenti vincono tanto più quanto più sono in grado di predire l’esito di una serie di lanci di una monetina. Alea allo stato puro. Niente di strano, quindi, che, in quello specifico caso, il concorrente esca dal gioco perché non è stato in grado di indovinare se è uscito testa oppure croce. In questo caso il lancio della monetina appare perfettamente fair, mentre nel caso precedente era terribilmente unfair. Correttezza e coerenza, molto spesso, sono due concetti fortemente intrecciati. Si può comunque affermare in sintesi che il gioco è fair quando il pubblico stabilisce che la responsabilità della caduta sia imputabile agli stessi concorrenti (non abbastanza preparati, pronti, capaci, fortunati...); viceversa il gioco è unfair se il pubblico percepisce che la caduta dei concorrenti è imputabile al format e alla sue regole arbitrarie, che hanno volutamente penalizzato i partecipanti (e questo non deve mai accadere). Possono infine essere fatti rientrare nel capitolo della correttezza quei meccanismi, poco amati da chi scrive, che prevedono punizioni ai concorrenti in caso di perdita. Non escludo a priori che questi meccanismi non possano mai funzionare. Occorre però fare molta attenzione, usando tutte le cautele del caso e facendo in modo di non penalizzare troppo o addirittura ridicolizzare il concorrente (che gode della totale solidarietà e simpatia dei telespettatori). L’ironia, in questi casi, è la chiave di lettura migliore; ma la sola ironia potrebbe non bastare se si calca troppo la mano. 4) Verità I game show sono metafora della vita reale e devono quindi essere profondamente veri. Se questa certezza dovesse venir meno, l’intero game non avrebbe più senso. Alla fine degli anni Cinquanta l’America fu travolta da uno scan­­­­­84

dalo di cui si conserva ancora memoria: un quiz truccato. Si scoprì che nel popolarissimo Twenty one la produzione aveva favorito alcuni concorrenti passando loro le risposte esatte. La cosa ebbe una ripercussione enorme: non solo il programma fu chiuso, ma anche tutti gli altri game in onda subirono una forte flessione per lungo tempo. Non si era trattato di una semplice truffa, e quindi di una questione prettamente legale. Si era trattato di un vero e proprio tradimento nei confronti dei telespettatori. Un tradimento che brucia ancora a distanza di decenni (sulla vicenda è stato anche realizzato nel 1994 un interessantissimo film, Quiz Show). Tutti i giochi (non solo quelli televisivi) si basano infatti sul presupposto fondamentale del rispetto assoluto delle regole. Al limite, ci sono game in cui è previsto che alcune regole possano essere infrante (per esempio, in Dirty rotten cheater a uno dei concorrenti vengono mostrate di nascosto le risposte alle domande a cui deve fingere di saper rispondere): ma, di fatto, anche questa è una regola ben precisa e quindi il principio generale rimane intatto. Il gioco è una metafora della vita: ma, a differenza della vita reale, è infinitamente più semplice ed è retto da regole chiare, certe e incrollabili. Il gioco può essere a volte anche duro, crudele e imprevedibile, come la vita (e, per questa ragione, è molto affascinante), ma è sempre giusto e non è mai ambiguo. E questo proprio grazie alle regole, che, nel gioco, vengono sempre fatte rispettare. Rompere le regole significa infrangere il concetto stesso di verità e di trasparenza: e questo sarebbe insopportabile. Un gioco che non dia l’impressione di essere vero al 100% non solo sarebbe rifiutato, ma scatenerebbe un’ondata enorme di risentimento. Dunque, nei game show, ancora più che in tutti gli altri format, non bisogna fare mai niente di finto; e non fare neppure niente che possa dare l’impressione di essere finto. Se infatti si dovessero avere dubbi sulla veridicità anche solo di un particolare secondario (per esempio, una persona del pubblico presentata come parente di un concorrente, mentre invece non lo è), si getterebbero ombre sull’intero edificio ludico, infrangendo il patto stretto con i telespettatori, che si sentiranno imbrogliati. È stato già detto, a proposito di tutti i generi, che vero è meglio. Ma nei game questo principio è ancora più stringente e assoluto. Un game show finto è infatti un vero e proprio tradimento. E i tradimenti non si possono perdonare, nemmeno a distanza di anni. ­­­­­85

3.4. Il coinvolgimento Il rispetto delle quattro regole appena viste è condizione necessaria ma non sufficiente per la buona riuscita di un game show. Ciò che invece determina il successo di questo tipo di format è un concetto molto semplice, almeno in linea teorica; così semplice che può essere sintetizzato in una sola parola: coinvolgimento. Un coinvolgimento declinato in due aspetti diversi ma complementari: un coinvolgimento che possiamo definire indiretto, e che provoca l’immedesimazione del telespettatore con i concorrenti in studio; e un coinvolgimento diretto, che spinge i telespettatori a giocare attivamente e alla pari con i concorrenti in studio, confrontandosi in prima persona con il loro stesso dilemma. In pratica, si può affermare quindi che un gioco funziona se il telespettatore si rispecchia nell’avventura umana del concorrente, seguendo con empatia e partecipazione emotiva il suo viaggio alla ricerca del tesoro, e se si cimenta in prima persona con il suo stesso dilemma. Se ben sviluppati, questi due aspetti possono essere efficaci anche singolarmente: ovvero un gioco può funzionare anche quando il telespettatore si immedesima esclusivamente nell’avventura umana del concorrente, anche se non è messo nelle condizioni di giocare in prima persona (come nel caso degli alea); oppure anche solo quando il telespettatore gioca in modo attivo per tutto il tempo, pur senza sviluppare un particolare interesse emotivo nei confronti dei giocatori in studio. È vero però che se sono entrambi presenti e ben sviluppati, il format sarà sicuramente più efficace: due punti di forza sono sempre meglio di uno. 3.4.1. Coinvolgimento indiretto: l’immedesimazione con i concorrenti Un buon game deve creare un contesto in grado di porre in rilievo e dare pathos all’avventura umana dei concorrenti, in modo da sviluppare il più possibile un processo di immedesimazione emotiva nei suoi confronti da parte del telespettatore. Abbiamo detto che gioco è sfida. O anche viaggio iniziatico e avventura esistenziale. Ebbene, lo scopo dell’autore di game è rendere questa sfida, questo viaggio, questa avventura il più coinvolgenti pos­­­­­86

sibile. In questo modo le emozioni provate dal concorrente in studio passano al telespettatore al di là dello schermo, che può goderle e assaporarle in tutta sicurezza. Nel senso che, in caso di esito negativo, non dovrà scontare le conseguenze psicologiche in prima persona. È un discorso di importanza fondamentale, che va al nocciolo della questione. Il successo dei game show televisivi (in particolare quelli con premi di un certo valore) non deriva dal fatto che il telespettatore è interessato al destino di uno sconosciuto, ma dal rispecchiarsi nelle sue emozioni come fossero le proprie. La causa, come già accennato nelle pagine precedenti, va cercata nei cosiddetti «neuroni-specchio», che assolvono a questa specie di transfert inter-individuale di sensazioni ed emozioni tra un cervello e l’altro. Detto in termini forse eccessivamente semplificatori, ma non del tutto scorretti, se vedo qualcuno provare una forte emozione dall’altra parte dello schermo, mi viene naturale e spontaneo provare la sua stessa emozione, perché i «neuroni-specchio» attivano i medesimi centri cerebrali che si attiverebbero se fossi io stesso il protagonista delle azioni che vedono coinvolto il concorrente in studio. Nei format ludici, inoltre, questa valenza risulta accresciuta perché si somma ai due sentimenti della perdita e del rimpianto. Recenti esperimenti hanno dimostrato che l’intensità di questi sentimenti non è data tanto dall’ammontare di ciò che si sarebbe potuto vincere, quanto dalla vicinanza della possibilità sfumata. Per fare un esempio concreto: per dare intensità drammatica alla sconfitta di un concorrente (e quindi, di riflesso, al telespettatore da casa) non c’è bisogno di dargli la possibilità tutte le sere di vincere un premio stratosferico; è sufficiente una cifra minore, ma che gli sfugga sempre per un pelo. È necessario quindi che il concorrente senta intensamente la vincita a portata di mano, salvo poi non riuscire ad aggiudicarsela all’ultimo istante per colpa di un piccolo, beffardo dettaglio: ha aperto la cassaforte rossa anziché quella blu, ha scelto la risposta A anziché B, non ha trovato la combinazione esatta solo per aver messo come ultima cifra un 2 anziché un 3. In questo modo risulta più facile per la nostra mente immaginare lo scenario possibile, che però non si è realizzato: quello, appunto, in cui il concorrente (e il telespettatore da casa) sarebbe stato in grado di aggiudicarsi il premio e assaporare il gusto della vittoria; cioè quello che non è successo ma che poteva benissimo accadere. Viceversa, se la possibilità di vittoria è troppo distante e remota, anche questi mondi possibili rimangono troppo lontani e non riescono a sprigionare quella carica emotiva ­­­­­87

che invece viene attivata quando la vincita sembra essere a portata di mano e viene mancata solo di un soffio. Bisogna però tenere molto bene a mente il fatto che tale processo di immedesimazione non scatta sempre e comunque. Come prima cosa occorre banalmente che si stabilisca un contatto oculare prolungato tra i concorrenti in studio e il pubblico da casa, con inquadrature frequenti e abbastanza strette (ed è per questa ragione che è sconsigliato mettere in scena un numero eccessivamente elevato di personaggi). Il telespettatore deve infatti poter guardare il concorrente dritto negli occhi, gustando fino in fondo il suo imbarazzo, le sue incertezze, il suo timore di non farcela, la sua gioia per una prova superata, il suo dolore per una risposta sbagliata. Ma, soprattutto, occorre studiare con grande perizia meccanismi ludici in grado di produrre il maggior numero possibile di stimoli psicologici nei concorrenti impegnati nella sfida. Le dinamiche di gioco devono essere progettate in modo tale da rendere il game show nel suo insieme un vero e proprio acceleratore emozionale, tenendo aperto il finale fino all’ultimo e dando l’impressione che la possibilità di vincita sia sempre aperta, fino all’ultimo istante. Non è affatto un compito facile. Per riuscire a progettare meccaniche di questo tipo, semplici ma al tempo stesso micidiali come bombe a orologeria, servono esperienza, un po’ di talento, tanta precisione e una grande pazienza. Però alcuni suggerimenti possono essere dati, facendo una veloce rassegna di alcuni format ludici di successo degli ultimi anni. Naturalmente non si tratta di una ricerca esaustiva. I game show in circolazione sono tantissimi e ne esistono sicuramente molti altri con meccanismi diversi da quelli sotto elencati, ma altrettanto efficaci. Inoltre – cosa ancora più importante – molti altri nuovi se ne possono inventare, creando giochi e meccanismi del tutto originali, non ancora sperimentati. L’importante è tenere sempre presente la formula del meccanismo perfetto dei game show televisivi: riuscire a produrre nei concorrenti un alto numero di reazioni emotive, di maggiore forza e fino agli ultimi istanti del format (lasciando quindi il finale aperto fino alla fine), col minor numero di regole possibile. tanti soldi.  Sembra una banalità, ma mettere tanti soldi in palio è, ed è sempre stato, un acceleratore emozionale potentissimo. Il punto vero è come vengono messi in palio, in modo da creare il maggio-

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re coinvolgimento e pathos possibile. Molto interessante, a questo proposito, è la modalità adottata dal già citato The money drop. I soldi sono fisicamente a portata di mano della coppia di concorrenti: possono vederli, toccarli, annusarli. Hanno la sensazione di averli già in tasca. Però, se non li posizionano sulla botola giusta, scompaiono letteralmente nel nulla, lasciando la coppia a mani vuote. In questo modo anche il concetto di vicinanza viene egregiamente rispettato: si perde una quantità incredibile di soldi solo perché si è sbagliata l’allocazione di pochi centimetri; bastava infatti puntarli sulla botola di fianco e gli amati bigliettoni sarebbero stati ancora nelle nostre mani. lotta intestina.  Lo scontro tra i concorrenti è sempre stato un elemento imprescindibile e molto forte di ogni format ludico, che va valorizzato. Uno dei modi per renderlo ancora più drammatico e coinvolgente è effettuare improvvisi capovolgimenti di fronte. Nel senso che quelli che prima erano amici e alleati diventano di colpo dei nemici: e la sfida, dal fronte esterno, si sposta improvvisamente su quello interno. Una vera e propria lotta intestina, appunto. Il perché dell’efficacia di questo meccanismo è chiaro. Un conto è sfidarsi a viso aperto con gli altri: si tratta di uno scontro a volte doloroso, ma comunque chiaro e codificato. Un conto invece è sfidare o essere sfidati da quelli che in teoria dovrebbero aiutarti e con cui è stato fatto gioco di squadra fino a un momento prima. È una lotta che provoca un impatto emotivo più forte, sia per i concorrenti protagonisti, sia per il telespettatore da casa. Un buon esempio in questo senso lo troviamo in Greed, che racconta il percorso di una squadra di concorrenti uniti nello sforzo di accumulare il montepremi più ricco possibile, per poi dividerlo tra i sopravvissuti. A un certo punto però scatta il meccanismo del Terminator, che scombussola piani e alleanze. A un concorrente viene offerta una cifra per uno scontro all’ultimo sangue con un suo compagno: chi vince soffia la parte del bottino all’ex socio. Il concorrente può anche rifiutare (regola della correttezza), ma, se accetta, può intascare la cifra offerta qualunque sia l’esito finale della sfida. Ovvio quindi che, salvo lodevoli eccezioni, quasi tutti accettano l’offerta perpetrando il tradimento. Lo scontro tra i due diventa quindi qualcosa di più di un semplice e leale scontro testa a testa tra due avversari: diventa una lotta intestina fra un traditore e una vittima, creando un contesto molto drammatico ed emotivamente potente.

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sfida epica. 

Un altro sistema efficace per dare maggiore pathos alla sfida è quello di far diventare il normale scontro fra i contendenti metafora di qualcos’altro, più epico e simbolico. Per esempio il game inglese Grand slam stabilisce un interessante e suggestivo parallelismo tra il quiz e il pugilato. I più forti campioni dei quiz britannici si affrontano in una grande sfida per contendersi il titolo di super campione e un premio di 50.000 sterline. La meccanica dello scontro (due campioni per volta disposti uno di fronte all’altro, in un faccia a faccia davvero molto aggressivo), la scenografia (che richiama il ring), la terminologia usata («round» per indicare la manche), i commenti stessi dei due presentatori (che parlano dei concorrenti proprio come si parlerebbe di due pugili) accentuano questa metafora e innalzano enormemente il livello dello scontro. Il naturale conflitto presente in potenza in tutti i giochi viene in questo modo eccezionalmente inasprito: la sconfitta di un concorrente equivale infatti a un simbolico ma non per questo meno drammatico KO. È chiaro quindi che, stando così le cose, tanto la vittoria quanto la sconfitta vengono vissute con reazioni emotive notevoli, senza far ricorso a cifre da capogiro.

conflitto interiore. 

C’è un’ulteriore declinazione del concetto di sfida, come abbiamo già accennato: quella che si svolge unicamente all’interno del concorrente. Una sfida con sé stessi, spesso la più insidiosa e drammatica di tutte le sfide. Il problema vero è portarla alla luce. L’intrattenimento non è infatti adatto all’introspezione psicologica. Tutto deve essere reso netto, oggettivo, evidente. Negli scontri esteriori non è difficile: qualcuno vince, e rimane in gara, e qualcun’altro perde, e deve uscire dal gioco. Tutto molto chiaro e visibile, di immediata comprensione. Ma come si fa a rendere evidente una sfida interiore? Il format americano The chair risolve brillantemente il problema visualizzando in grafica il battito cardiaco del concorrente. Il concept di questo game è semplice: in fase di casting a ogni giocatore viene misurato il ritmo cardiaco medio, anche attraverso piccoli scherzi (come l’esplosione della biro con cui sta compilando un test), trasmessi poi anche nella scheda di presentazione. Dopo di che, nel gioco vero e proprio, deve rispondere a una serie di domande a montepremi crescente, con un’ulteriore difficoltà: a seconda del livello della domanda viene fissato un tetto massimo di ritmo cardiaco (alto ­­­­­90

nelle prime domande, sempre più basso nelle successive) e il concorrente può rispondere alla domanda posta solo se riesce a tenere il proprio battito al di sotto di quella soglia. Addirittura, se le sue pulsazioni superano il tetto fissato, vede diminuire il montepremi accumulato fino a che non riesce a riportare i propri battiti al di sotto del limite. Per rendere la prova ancora più ardua, in alcuni momenti di gioco il concorrente viene sottoposto ad alcuni shock emotivi (per esempio, viene fatto calare improvvisamente un coccodrillo vivo dall’alto, che si ferma proprio all’altezza del volto). Anche in questo caso, se la macchina a cui il concorrente è costantemente collegato dovesse registrare un’impennata improvvisa dei battiti, il suo montepremi inizia a calare fino a quando non è in grado di riportare il proprio ritmo al di sotto del livello stabilito. In questo modo il concetto che il partecipante gioca a una partita (anche) con sé stesso è reso in modo semplice, efficace e visivo: in grafica viene infatti sempre segnalata la soglia fissata e, sotto, con tacche di colore diverso (dal verde pallido al rosso acceso), l’andamento del suo battito cardiaco, così che la sua avventura interiore possa essere seguita da casa. conseguenze fisiche. In alcuni game l’accelerazione emotiva è ottenuta facendo in modo che i concorrenti scontino anche fisicamente, sulla propria pelle, le conseguenze di un dilemma non risolto. Niente di pericoloso o di troppo umiliante, per carità. Bisogna sempre tenere bene a mente la fondamentale regola della correttezza, che impone di non abusare mai della posizione di forza che si ha nei confronti dei partecipanti. Però il timore di una conseguenza anche piccola può bastare per dare alla sfida dei concorrenti un pizzico di brivido emotivo in più. Nel game israeliano Still standing e, prima ancora, nell’americano Russian roulette si ricorre per esempio all’espediente della botola. Il concorrente che perde una sfida diretta con un avversario (Still standing), o che non sa rispondere a una domanda posta da uno dei suoi avversari (Russian roulette), viene fatto precipitare dentro una botola che si spalanca improvvisamente sotto i suoi piedi, scomparendo per sempre alla vista. Questo meccanismo avviene con certezza in Still standing, o è affidato al fato in Russian roulette, rendendo forse ancora più sottilmente perfida la punizione. Le conseguenze sul piano fisico sono trascurabili. Però chi sta su una botola sapendo che può aprirsi sotto di lui da un momento all’altro, facendolo

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precipitare nel nulla, non può non sentire una certa apprensione. In questo modo il «peso» delle domande aumenta di molto, la tensione sale alle stelle, la gioia dello scampato pericolo diventa ancora più manifesta, la smorfia di paura di chi sa che sta per precipitare nel vuoto acquista una drammaticità e un’evidenza notevoli. Insomma, l’intero game acquisisce una densità emotiva molto maggiore. dinamiche sociali.  In alcuni giochi si ottiene un inasprimento del conflitto lavorando sulle dinamiche sociali e sulle relazioni interpersonali dei partecipanti. È un qualcosa di non troppo dissimile dalle lotte intestine viste sopra, ma con un’applicazione più allargata e generale. Per esempio, nel game Captive (il cui concept è stato ripreso più di recente in Stuck in a game show) i concorrenti vivono letteralmente insieme per tutte le 23 ore precedenti la gara vera e propria. Si preparano alle domande, mangiano, litigano, stringono alleanze e si rilassano sempre in stretta simbiosi. Poi, quando scocca l’ora X, si presentano tutti nello studio adiacente al posto in cui hanno vissuto e la lotta ha inizio. È chiaro però che, date queste premesse, gli scontri non potranno mai essere neutri e asettici: dietro ogni sfida c’è infatti sempre un pregresso fatto di simpatia, antipatia, lealtà e tradimenti, e quindi avrà un sapore e uno spessore drammatico diversi (bisogna però porre molta attenzione a non dare per scontata nei telespettatori la conoscenza di questi antefatti). scontro col fato.  Sono compresi in questo gruppo i game di alea, ovvero quelli in cui il concorrente sfida niente di meno che il destino, nelle sue variegate manifestazioni e incarnazioni. La gara contro la sorte, se ben rappresentata, è sempre di grande efficacia, perché contiene in sé qualcosa di primordiale e paradigmatico. Questo scontro, però, per risultare davvero interessante, deve essere realmente grandioso ed epico: il destino, quello vero, esige una posta importante, in grado anche di cambiare la vita del concorrente, altrimenti non di vero destino si tratta, ma solo del suo «parente povero», il caso, che però è un po’ meno interessante. Nell’americano Set for life, per esempio, i concorrenti devono estrarre delle specie di «carotoni» infilati in speciali contenitori che punteggiano lo studio. Se il colore estratto è bianco aumentano il numero di mensilità di una sorta di stipendio stabilito all’inizio del gioco; se il colore è invece rosso scendono di livello e, quel che è

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peggio, non possono fermarsi, ma devono obbligatoriamente procedere a un’ulteriore estrazione. Al terzo rosso perdono tutto e sono fuori dal gioco. Anche in questo caso ci sono tutti gli ingredienti per ottenere un’immedesimazione di indubbia efficacia: una posta in gioco alta, sufficiente a giustificare la sfida col destino (se un concorrente trova tutti i «carotoni» bianchi, lo stipendio si trasforma in vitalizio, sistemando così la sua esistenza di colpo), e una disfatta sempre in agguato, che può sopravvenire in qualunque momento per un dettaglio all’apparenza insignificante, ma in realtà denso di valori simbolici (il colore rosso, anziché bianco). 3.4.2. Coinvolgimento diretto: giocare in prima persona Un buon game deve far giocare il telespettatore allo stesso gioco del concorrente in studio, dandogli l’illusione di giocare alla pari insieme a lui. Il dilemma deve quindi essere costruito in modo da costringere il maggior numero di persone a cimentarsi nella sua risoluzione. Il game show non è solo avventura umana del concorrente, per quanto interessante ed emozionalmente ricca sia. Il game show è anche gioco, naturalmente. Un gioco a cui partecipano, in un rapporto fatto sia di complicità che di rivalità, il concorrente vero in studio e i ben più numerosi concorrenti virtuali a casa. È il dilemma a permettere questo coinvolgimento diretto. Esistono anche game con dilemma che non consente questa modalità: gli alea, gli action e gli adventure game non sono partecipativi per loro natura (e quindi si affidano solo alla partecipazione indiretta del pubblico). Moltissimi giochi hanno però un dilemma aperto e i telespettatori possono parteciparvi in prima persona. Ed è qui che scatta la trappola. I dilemmi migliori, infatti, non sono quelli che permettono ai telespettatori di partecipare: sono quelli che costringono i telespettatori a partecipare. Tutti i dilemmi aperti (domande, indovinelli, quesiti ecc.) permettono infatti un certo grado di partecipazione. Ma solo i dilemmi meglio costruiti hanno una forza d’attrazione così implacabile da tenere avvinto il telespettatore allo schermo e non lasciarlo scappare fino a quando il dilemma proposto non è stato risolto. Per ottenere tale risultato, come prerequisito di base occorre anzitutto prestare attenzione alla forma della domanda. La regola generale da rispettare è che, in un game, qualunque tipo di dilemma deve essere sempre proposto anche in grafica (per esempio i «bi­­­­­93

scotti» con le domande e le risposte nelle multiple choice). Solo in questo modo il telespettatore può giocare in modo pieno, completo e soddisfacente. Certo, potrebbe giocare anche sentendo semplicemente il quesito che il presentatore propone a voce al concorrente in studio, senza bisogno del supporto grafico. Ma non è la stessa cosa. In primo luogo perché vedere la domanda a cui bisogna rispondere è più semplice che sentirla e basta. Ma anche perché la grafica coinvolge pienamente il telespettatore, comunicandogli un senso di esclusività. Le domande a voce sono infatti rivolte ai concorrenti in studio (naturalmente le sentono anche i telespettatori, ma il loro principale destinatario è il concorrente), mentre le stesse domande riportate in grafica chiamano in causa direttamente il telespettatore e lo invitano esplicitamente a giocare: sono messe lì apposta per lui, in un «a parte» che esclude tutte le persone presenti in studio. È quindi proprio grazie alla grafica che il telespettatore può giocare sullo stesso piano del concorrente vero; senza la grafica, invece, egli ha un ruolo subordinato e gioca solo di riflesso, come avveniva nei quiz del passato. La grafica, insomma, non serve solo a far giocare meglio il telespettatore, ma lo pone al centro stesso del programma, ricordandogli che quello è il suo gioco, che non è una semplice figura accessoria, con un ruolo solamente passivo, ma è, in un certo senso, se non il protagonista, quanto meno lo spettatore privilegiato. Naturalmente, però, è soprattutto la sostanza del dilemma a spingere il telespettatore alla soluzione del dilemma stesso. Qui il discorso è un po’ più complicato e merita un approfondimento particolare. Come abbiamo visto in precedenza, i quesiti base che costituiscono i dilemmi possono presentarsi in varie forme, anche molto diverse e fantasiose. È impossibile passarli in rassegna tutti, sottolineando i punti di forza e il grado di giocabilità di ognuno. Per ragioni pratiche possono però essere divisi in tre tipologie principali, che chiameremo «domande mute», «domande puzzle» e «domande classiche». domande mute.  Sono costituite da persone, oggetti, animali, foto, filmati ecc. La loro caratteristica peculiare è quella di non essere mai formulate verbalmente o in modo esplicito: in genere c’è una domanda implicita che governa l’intero format e ad essa i concorrenti devono attenersi, risolvendo i vari dilemmi che vengono man mano proposti. Light game come I soliti ignoti, Ok, il prezzo è giusto! e altri simili sono regolati da questa tipologia di domande. I parte-

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cipanti solo guardando una persona devono indovinare che lavoro fa; oppure, vedendo un oggetto, devono dire qual è il suo prezzo (con tutte le varianti sul tema). Anche ordinare una serie di oggetti o persone secondo un principio regolatore dato (età, valore, anno di scoperta ecc.) rientra in questa classe di quesiti, che costituiscono una categoria abbastanza ben definita. Le domande mute garantiscono quasi sempre una giocabilità molto elevata, anzitutto perché non presuppongono quasi mai conoscenze di tipo culturale o astratto, ma si basano sull’intuito e sul senso pratico delle persone, garantendo quindi una partecipazione molto allargata e trasversale, senza nessuna barriera all’ingresso. Inoltre, se sono bene presentati, i dilemmi così formulati costringono il concorrente a risolverli. Se si vede una persona immobile in mezzo allo studio, illuminata e inquadrata in un certo modo, e si sa che il gioco consiste nell’indovinare che lavoro fa, scegliendo tra una serie di opzioni date, è molto difficile resistere alla tentazione di provarci. È come se la persona stessa, anche se rimane muta, richiedesse a viva voce di risolvere il dilemma di cui è portatrice. Stessa cosa per un oggetto a cui bisogna attribuire un prezzo, o per una serie di cose da ordinare secondo un criterio facile e oggettivo. domande puzzle.  In questa tipologia di quesiti la soluzione viene aiutata un po’ per volta, aggiungendo tasselli all’enigma iniziale, proprio come avviene appunto nei puzzle. Il capostipite di questa pseudofamiglia è il classico La ruota della fortuna, che ha fatto giocare (e, in alcuni casi, continua a far giocare) milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Come è noto, viene data una chiave per risolvere un enigma celato dietro tante caselle quante sono le lettere che costituiscono la risposta. Tali lettere vengono poi rivelate un po’ per volta, a seconda dell’abilità dei giocatori nell’indovinare quali sono quelle giuste. Ed è proprio in questo svelamento progressivo che si nasconde il segreto del successo di questo gioco. Gli indizi che si accumulano un po’ per volta, la soluzione che si rende sempre più evidente man mano che il tempo passa, il vuoto misterioso delle caselle che viene sostituito da brandelli di risposta sempre più intellegibili, sono anche in questo caso richiami irresistibili per il telespettatore, che si trova quasi costretto a cercare di risolvere il quesito prima che lo faccia il concorrente in studio o che scada il tempo a disposizione. Se ben costruite e calibrate, in modo che lo svelamento non sia né troppo veloce né troppo lento,

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le domande formulate in questo modo sono delle vere bombe a orologeria, con un grado di giocabilità davvero altissimo, anche da parte del telespettatore più distratto o disinteressato. domande classiche. Infine,

naturalmente, ci sono le domande di tipo classico, ovvero esplicite e inequivocabili (quelle dei quiz), a cui il concorrente in studio e il telespettatore da casa devono cercare di rispondere, scegliendo tra due o più opzioni date (multiple choice), o con aiuti di altro tipo (per esempio l’iniziale della risposta), o ancora senza avere a disposizione nessun tipo di aiuto (risposta aperta). Generalmente si ritiene che sia facile scrivere delle domande, il che in parte è vero. È scrivere delle belle domande che è dannatamente difficile. Cosa si intende per bella domanda? Per essere davvero bella, una domanda deve avere almeno due caratteristiche essenziali. La prima è che sia precisa. Non genericamente precisa: deve essere di una precisione assoluta e inconfutabile, a prova di qualunque attacco da parte dei concorrenti, che hanno tutto l’interesse ad aggrapparsi strumentalmente a ogni imprecisione, vera o presunta. Detta così sembra semplice, ma, quando si parla di quesiti, le insidie sono sempre dietro l’angolo. Prendiamo ad esempio una domanda di Passaparola, all’apparenza innocua: «compose Per Elisa, con la B». Semplice, potrebbe pensare chi ha un po’ di infarinatura di musica classica. Il grande Ludwig van Beethoven ha scritto una celeberrima composizione per piano con questo titolo, le cui prime note risiedono in qualche angolo della memoria di un sacco di gente. Peccato però che anche Franco Battiato, il cui cognome inizia parimenti con B, abbia scritto una canzone intitolata per l’appunto Per Elisa, interpretata da Alice e vincitrice del 31° Festival di Sanremo. In questo caso, se un concorrente dovesse dare questa seconda risposta, non si può non considerarla corretta, magari compromettendo irrimediabilmente l’intangibilità del montepremi. A volte più che di errore vero e proprio bisognerebbe parlare di imprecisione, ma le cose non cambiano di molto. La seguente domanda, per esempio, è all’apparenza molto precisa: «Chi accese la radio il 19 giugno 1927 poté ascoltare la prima radiocronaca di un evento sportivo. Si trattava di: A. Una gara ippica; B. Una partita di calcio; C. Una gara ciclistica; D. Un incontro di boxe». Per la cronaca (appunto), la risposta giusta è la A, poiché si trattava della radiocronaca di Alfredo Gianoli del Gran Premio di galoppo dal ­­­­­96

San Siro di Milano. Qual è il problema, dunque? Il problema è che manca una parola che tutti diamo per scontata, tanto da diventare invisibile, ma che in realtà è estremamente importante per rendere il quesito davvero inconfutabile. La parola è italiana. Bisogna infatti specificare che era la prima radiocronaca italiana: omettendo questo aggettivo, la domanda può riferirsi a qualsiasi Stato. E qualche concorrente deluso avrebbe potuto aggrapparsi a questa imprecisione per tacciare di vaghezza e imprecisione la domanda. Dunque, le domande per essere belle devono essere innanzitutto assolutamente precise. Perché c’è vera bellezza anche nella precisione, e una domanda splendida e perfetta in ogni sua parte, come un diamante ottimamente lavorato, ha un suo indubbio fascino. Ma questo ancora non basta. La seconda caratteristica che una bella domanda deve avere è di essere coinvolgente, ovvero deve spingere i telespettatori da casa a cimentarsi con essa. Una bella domanda è quella a cui si è appunto costretti a rispondere; o, se non si è in grado di farlo, deve impedirti di cambiare canale prima che la risposta sia stata rivelata. Proviamo quindi ad analizzare con quanto più metodo possibile (tenendo presente che non si tratta di una scienza esatta e che c’è una certa dose di soggettività) come deve essere costruita una domanda coinvolgente. A fini esclusivamente didattici si può anzitutto dividere ogni domanda in un tema e nella sua proposizione. Ovvero ciò di cui la domanda parla (il suo argomento generale) e ciò che essa chiede (il particolare che costituisce l’oggetto di quello specifico quesito). Bene, in termini molto teorici si può dire che una domanda coinvolgente è una domanda che ha un tema ordinario e una proposizione straordinaria. In altre parole, è coinvolgente una domanda che ha un argomento molto comune e accessibile a tutti (o perlomeno al maggior numero di persone possibile), inquadrato però in un’ottica e da un’angolazione particolari e curiose. Il tema (o argomento) della domanda è infatti una sorta di terreno comune con il telespettatore e deve quindi essere il più possibile condiviso, ovvero deve essere relativo ad argomenti noti e familiari al maggior numero di telespettatori. Cose di tutte i giorni, argomenti di cultura popolare, personaggi famosi, reminiscenze scolastiche, accadimenti e fatti noti alla stragrande parte della popolazione, icone delle scienze, delle arti e della cultura (purché siano davvero tali) sono buoni esempi di temi adatti a domande di quiz. Ce ne possono essere anche ­­­­­97

molti altri, ma devono essere altrettanto larghi e condivisivi. Se il tema di una domanda è viceversa troppo stretto (un personaggio, un fatto, un settore non molto conosciuti), manca appunto il terreno comune con il telespettatore medio e il coinvolgimento ben raramente riuscirà a scattare. La semplice regola generale è infatti che se non conosco, o conosco troppo poco, ciò di cui si sta parlando, non me ne importerà niente di ciò che viene chiesto. Ma il terreno comune da solo non basta: se non viene chiesto qualcosa di stuzzicante, la domanda risulterà piatta e banale. Ecco dunque alcune delle caratteristiche che una bella domanda deve avere. a) Deve far scoprire un aspetto inedito e/o curioso su un argomento noto. «Secondo la Genesi, quale fu la prima azione compiuta da Adamo uscito dal Paradiso terrestre? A. Offrì sacrifici a Dio; B. Lavorò la terra; C. Si unì a Eva; D. Edificò una casa» (domanda da un milione di euro, nella puntata del 27 gennaio 2011 di Chi vuol essere milionario?). Il momento della cacciata dal Paradiso terrestre è conosciuto da tutti (anche dai non cristiani) ed è pertanto ultrapopolare. La domanda però riguarda un dettaglio di cui solo pochi sono a conoscenza: che cosa è successo poi? La curiosità (e la bellezza della domanda) è accresciuta dalla rivelazione della risposta esatta, che è la C: la prima cosa che, secondo la Bibbia, hanno fatto Adamo ed Eva appena scacciati dal Paradiso terrestre è stata accoppiarsi. Se la risposta esatta fosse stata una delle altre tre opzioni, il quesito avrebbe avuto un appeal minore: stando così le cose, invece, la domanda svela un dettaglio curioso, divertente e inaspettato. «Il colore rossiccio di molti rossetti e di alcune bibite al gusto d’arancia spesso è ottenuto da: A. Stelle marine; B. Petali di papavero; C. Coccinelle brasiliane; D. Scaglie di pesci rossi». Anche in questo cosa si parla di cose comunissime (rossetti, bibite), ma rivelando un dettaglio inedito (e, per certi aspetti, un po’ inquietante). Tre risposte su quattro risultano infatti particolarmente spiazzanti e la risposta esatta è proprio una di queste tre (sarebbe stata deludente se fosse stata quella meno sorprendente, ovverosia i papaveri). Da una particolare specie di coccinelle brasiliane, attraverso un apposito trattamento si ottiene infatti il «rosso cocciniglia», indicato anche, con un termine più neutro, E120. Allo stupore di questa rivelazione si può anche aggiungere che questo colorante si trova in altri pro­­­­­98

dotti alimentari molto comuni: serve per esempio a dare il colore rossiccio ai gelati alla fragola. Questi due esempi, con tutti i particolari di contorno che si possono dare, rivelano un altro punto di forza tipico di domande di questo tipo: danno l’illusione ai telespettatori di imparare qualcosa; un qualcosa che riguarda appunto un argomento condiviso e noto, e quindi, in qualche modo, rilevante. E se il ricordo della domanda (e della risposta relativa) dura nel telespettatore il tempo di ripeterla anche solo una volta a un familiare o a un amico al bar, si è raggiunto abbondantemente lo scopo per cui è stata scritta. b) Deve sorprendere e spiazzare, con una risposta che non ci si aspetta. Diversamente dal caso precedente, qui il telespettatore è convinto di conoscere la risposta; invece, inserendo possibilità alternative, si lascia aperto il dubbio che le sue convinzioni siano clamorosamente errate. Sta all’abilità degli autori alternare i casi in cui questo è vero (e quindi la risposta è realmente spiazzante) ad altri in cui, al contrario, quella giusta è proprio la risposta più banale e immediata. «A chi rispose obbedisco Giuseppe Garibaldi, nel 1866?» Al re Vittorio Emanuele II, risponderanno tutti. E invece no. Il telegramma con la famosa frase era diretto al comandante in campo, generale Alfonso La Marmora, che aveva dato l’ordine all’eroe dei due mondi di sgombrare il Trentino a seguito dell’armistizio di Cormons. Certo, l’ordine venne fatto a nome del re, ma il telegramma fu inviato da La Marmora e il celeberrimo «obbedisco» era quindi rivolto a lui, nel pieno rispetto delle gerarchie militari. «Quale costruzione umana è visibile a occhio nudo dalla luna?» Lo sanno tutti: la Grande Muraglia cinese, naturalmente. Invece non è vero: è una bufala bella e buona. L’imponente opera si vede al massimo a una distanza di 100 km dal nostro pianeta, quindi ancora all’interno dell’atmosfera terrestre. La luna dista invece dalla terra dai 360.000 ai 405.000 km circa. Da lassù si distinguono a mala pena i continenti: nemmeno l’occhio più acuto è in grado quindi di scorgere assolutamente nulla che sia stato costruito dall’uomo. La risposta esatta è quindi: nessuna. «Quanti occhi ha un pipistrello?». Questa domanda dà da pensare. Non può essere la risposta più ovvia, sarebbe troppo facile, ragioneranno in molti. E quindi via con le ipotesi più avventate: 0 occhi, 4 occhi, o forse solo uno (non sono molti quelli che hanno avuto modo ­­­­­99

di vedere un pipistrello da vicino). Ma stavolta si tratta solo di un trabocchetto. I pipistrelli hanno, molto semplicemente, due occhi, come tutti i mammiferi. Sarebbe davvero beffardo, cadere su una risposta così. Ma l’attenzione si conquista anche in questo modo... Fanno parte di questa tipologia anche domande che incuriosiscono con il tema e non tanto con la domanda (proposizione) in quanto tale. Per esempio, è spiazzante una domanda del genere: «In quale specialità dell’atletica il record mondiale femminile è superiore a quello maschile?». Pochi infatti si aspettano una notizia del genere, anche (e forse soprattutto) chi segue lo sport. E la sorpresa si accresce ancora di più quando vengono date le quattro opzioni di risposta: «A. Lancio del peso; B. Lancio del giavellotto; C. 3000 m siepi; D. Lancio del disco». Sembra infatti strano che in una di queste specialità apparentemente così maschili le donne superino gli uomini (perlomeno nello stabilire il record del mondo). Eppure è così: e il punto debole della supremazia maschile è... il lancio del disco. Il tiro più lungo dei maschietti arriva infatti solamente a 74 metri circa, mentre la granitica tedesca Gabriele Reinsch ha lanciato l’attrezzo ben oltre i 76 metri. Va detto che il disco femminile pesa un po’ meno dell’equivalente maschile, ma la domanda non perde per questo di validità né tantomeno di curiosità. c) Dare la sensazione di poter trovare la risposta, anche se non è necessariamente vero. Tutte le domande devono far giocare. Alcune però fanno giocare più di altre, nel senso che sono state scritte con lo scopo preciso di spingere i telespettatori a trovare la soluzione. Si ottiene questo risultato quando le opzioni di risposta permettono ai concorrenti (e al pubblico da casa) di ragionare, nella speranza di scovare in fondo alle proprie conoscenze la risposta che serve. Mi spiego meglio. Le domande viste sopra spingono a giocare perché si è curiosi di trovare la risposta esatta. Quindi, in un certo senso, il risultato finale (la rivelazione della risposta esatta) è più importante del processo che porta a tale risultato, ovvero del ragionamento compiuto per arrivare a scegliere una delle risposte date. In quest’ultima tipologia di quesiti, al contrario, i termini sono invertiti. La cosa più importante, quella che dà maggiori soddisfazioni, è il percorso mentale che porta a determinare la risposta esatta; importa invece un po’ meno la risposta in quanto tale. «Albino Luciani fu il primo papa in assoluto: A. Con un nome doppio; B. Originario del Veneto; C. Eletto prima dei 70 anni; D. ­­­­­100

Con l’anello piscatorio». Un telespettatore (e naturalmente anche il concorrente in studio) potrebbe ragionare all’incirca così: il nome da papa di Albino Luciani era Giovanni Paolo I e, a memoria, non vengono in mente altri nomi di pontefici con questa peculiarità (anche se nessuno può saperli tutti). Sul fatto che sia stato l’unico originario del Veneto vengono invece tanti dubbi: quasi tutti i papi del passato erano italiani e c’è una grossa tradizione religiosa in Veneto; quindi il fatto che lui sia stato il primo risulta un po’ strano. Anche il fatto che sia stato l’unico eletto prima dei 70 anni è un po’ strano: molti pontefici del passato sono stati eletti giovani o addirittura giovanissimi. L’anello piscatorio non tutti sanno cos’è, ma suona antico; e se Albino Luciani l’avesse introdotto per primo, forse lo si ricorderebbe. Quindi, per logica e intuito, la risposta corretta dovrebbe essere la A, come in effetti è. E quando il presentatore conferma la scelta, il telespettatore si sentirà altamente gratificato dal suo bel ragionamento e dal fatto che è riuscito a rispondere a un quesito che gli pareva impossibile risolvere; e questo solo grazie alle sue straordinarie capacità deduttive... In questo filone, però, uno dei miei esempi preferiti rimane sempre la semplicissima domanda «Qual è il colore più esterno dell’arcobaleno?». Pochi conoscono di preciso la risposta, ma tutti ci possono provare. Perché gli arcobaleni stanno sotto gli occhi di tutti e tutti ne hanno visto uno, almeno una volta nella vita. Quindi tutti pensano di poter rispondere in modo corretto, se solo scavano nella propria memoria e riescono a recuperare un’immagine abbastanza nitida di questo fenomeno meteorologico. Proprio come da definizione, quindi, la domanda dà la sensazione di poter trovare la risposta, anche se non tutti risponderanno effettivamente in modo esatto. (A proposito: qual è il colore più esterno dell’arcobaleno?) d) Far giocare attraverso piccoli enigmi. Rientrano in questo gruppo, simile ma non del tutto uguale al precedente, le domande che escludono completamente, o quasi, la cultura generale, puntando solo sull’intuito, la logica, le capacità di osservazione ecc. Sono quindi molto giocabili quasi da tutti (cosa estremamente positiva), anche se raramente sono dotate di un contenuto informativo particolarmente interessante. Hanno questa caratteristica comune soprattutto gli enigmi e gli indovinelli di ogni tipo, o i quesiti logici di varia natura, come per esempio trovare una parola che congiunge due ­­­­­101

termini («Cosa lega un fiore e la pizza? La margherita»), o la parola a cui si riferisce una serie di termini dati (come nella «Ghigliottina», il gioco finale dell’Eredità), o anche indovinelli veri e propri, e via discorrendo. Ci sono però anche classiche multiple choice che puntano programmaticamente solo su questo aspetto, trasformandosi quindi in piccoli enigmi. «Un uovo di struzzo a quante uova di gallina equivale? A. Da 3 a 5 ca; B. Da 10 a 15 ca; C. Da 20 a 25 ca; D. Da 30 a 35 ca». Ovviamente non serve essere colti e avere tante nozioni teoriche sui gallinacei e i pennuti in genere per essere in grado di rispondere. Basta solo avere presente che grandezza ha un uovo di gallina (facile) e quanto è grande invece uno di struzzo (meno facile, ma ben immaginabile). Dopo di che è solo questione di calcoli e proporzioni mentali, forse di un po’ di intuito, molto più probabilmente di fortuna. Però è una domanda che permette una giocabilità molto ampia, attraverso un piccolo e semplicissimo enigma mascherato da domanda. (Per la cronaca, la risposta esatta è la C.) e) Far sorridere, almeno un po’. C’è anche un ulteriore asset che rende una domanda carina e gustosa: la sua capacità di strappare un sorriso, magari piccolo e fugace, ma sempre apprezzato. Non deve necessariamente trattarsi di domande buffe: a volte, anzi, l’eccessiva ilarità stona con la natura profonda dei quiz, che sono quasi sempre un po’ seriosi (se ci sono dei soldi in palio si può scherzare, ma fino a un certo punto). Tenere un tono leggero in alcuni momenti della gara serve però a stemperare un po’ la tensione e a preparare un momento di forte climax attraverso un sapiente anticlimax. Non si può infatti pretendere di tenere una tensione costante e crescente per l’intera durata del format: sarebbe sbagliato e inutile. Le domande divertenti servono appunto a questo: a creare una sorta di intermezzo comico tra domande più dure e impegnate. La capacità sta nel rendere interessanti e giocabili anche quesiti di questo tipo, senza «sbracare» troppo. Anche queste devono quindi sempre essere delle vere domande, ma di tono più leggero e disimpegnato rispetto alle altre. «Se in montagna vedi delle coccole, significa che sei di fronte a: A. Un piccolo ghiacciaio; B. Un formicaio; C. Una pianta di ginepro; D. Una varietà di funghi». È evidente che l’interesse della domanda poggia esclusivamente sul termine «coccole», che, oltre al significato ­­­­­102

più familiare e comune, ne deve avere evidentemente un altro più tecnico. In effetti sono chiamate propriamente «coccole» le bacche del juniperus phoenicea, volgarmente conosciuto come ginepro, da cui si estrae un olio essenziale utilizzato per produrre, tra l’altro, il gin. Si può quindi affermare che il gin è fatto con le coccole, e la cosa fa appunto sorridere, senza nulla togliere al gusto (e alla difficoltà) della domanda in quanto tale. Per concludere, queste sono solo alcune delle infinite modalità di proposizione di una domanda. Altre domande possono essere belle per altre caratteristiche e coinvolgenti per altre qualità. La cosa fondamentale è tenere sempre bene a mente che per scrivere domande belle bisogna sforzarsi e lavorare sodo, perché altrimenti si avranno domande magari anche formalmente corrette, ma piatte e banali. E un quiz fatto di domande piatte e banali non può durare: una volta finito l’effetto di novità perderà inesorabilmente ascolto e interesse, puntata dopo puntata. Sono infatti le dinamiche e le meccaniche di gioco che decretano il successo immediato di un game, ma sono le belle domande (insieme all’attività di casting, ovvero alla scelta di bei concorrenti) a perpetuarne il successo e farlo durare a lungo. Scrivere belle domande è perciò un’attività autoriale estremamente complessa, di grande responsabilità e che richiede una grande esperienza. Anche perché, oltre a scrivere domande che riescano a coinvolgere, bisogna porre un’enorme attenzione a un altro aspetto fondamentale, che è però impossibile trattare in questa sede: graduare con maniacale precisione la difficoltà delle domande stesse, ovvero scrivere domande di bassa, media, alta e altissima difficoltà. Cosa, come si può capire, della massima importanza per la salvaguardia e la gestione del montepremi in palio, che può essere anche molto cospicuo. Un autore deve saper dunque scrivere domande facili, che però non appaiano banali (non bisogna mai dare l’idea di regalare i soldi, fosse anche nei primi livelli di gioco), e domande difficili, che però non sembrino eccessivamente penalizzanti (non bisogna nemmeno dare l’impressione di accanirsi su un concorrente e di non volerlo far vincere programmaticamente). Dati tutti questi paletti e stando così le cose, si può capire l’importanza e la delicatezza di questa attività, nonché quanto complesso, sfaccettato e ricco sia il mondo del game nel suo insieme. ­­­­­103

Capitolo 4

I format d’emozione

4.1. Formattizzare le emozioni È il 1992 e in Olanda, negli studi della (relativamente) piccola rete televisiva Veronica (che adesso non si chiama più così), va in onda la prima di una lunghissima serie di puntate di uno dei programmi più importanti in assoluto della storia della televisione: All you need is love (in italiano Stranamore). La sua importanza è dovuta a vari fattori, ma principalmente al fatto di aver formattizzato per la prima volta le emozioni. Che cosa vuol dire, di preciso, formattizzare le emozioni? Vuol dire una cosa fondamentale per la storia dei format, che va spiegata in modo puntuale. Cominciamo intanto col dire che le emozioni in televisione ci sono sempre state, sin dai primissimi esordi. Solo per rimanere in ambito italiano, il primo programma in assoluto trasmesso dalla neonata Rai, subito dopo la cerimonia inaugurale delle trasmissioni il 3 gennaio 1954, è stato lo storico Arrivi e partenze (presentato da un giovanissimo Mike Bongiorno, insieme ad Armando Pizzo). Il concept è noto: nei principali aeroporti e porti italiani venivano intervistate persone che erano in procinto di partire o in arrivo da qualche parte, raccogliendo in presa diretta le loro testimonianze, dotate spesso di una forte carica emozionale. Che si trattasse di un vero e proprio reality ante litteram lo conferma, tra parentesi, il fatto che tale concept è stato ripreso tale e quale dal recente format olandese (trasmesso anche in Gran Bretagna) Hello, goodbye, che si svolge, al pari del programma nostrano, tutto all’interno di aeroporti: quello della capitale olandese di Schiphol e quello londinese di Heathrow. Ciò che a noi interessa, però, è un’altra cosa. Nonostante ­­­­­104

la notevole intuizione del programma, che ha reso possibile una sua riproposta internazionale più di mezzo secolo dopo, la trasmissione delle emozioni era a un livello soltanto orale: ovvero avveniva attraverso le parole e i commenti verbali dei protagonisti. Non c’era, diciamo così, azione, non c’erano meccanismi, non c’era sviluppo, né una direzione precisa verso cui il programma tendeva. Tutto era contenuto all’interno delle semplici parole, raccolte e provocate dalla forma usuale dell’intervista. Un altro sistema per far passare le emozioni era quello di appoggiarsi a una diversa tipologia di programmi, più consolidati e strutturati, e sfruttarne i meccanismi tipici per ottenere reazioni emotive di vario genere. Il game show, come abbiamo visto, è perfetto per questo tipo di operazione. I quiz storici italiani – per rimanere ancora nel nostro paese – hanno sempre attinto a piene mani all’emotività dei concorrenti, tanto che molti di loro sono ancora ben vivi nella nostra memoria a distanza di molti decenni – che, per i tempi televisivi, equivalgono a un’era geologica. Dunque le emozioni ci sono sempre state, ma erano espresse solo verbalmente, oppure derivavano da altri generi, e quindi non avevano ancora una centralità e un’autonomia riconosciute. Con All you need is love le cose cambiano. Innanzitutto, come il titolo rivela in maniera esplicita, le emozioni costituiscono il centro assoluto del format: sono anzi l’unico elemento caratterizzante del programma. Non entrano di soppiatto, non sono una tematica accessoria, non sono qualcosa che deriva naturalmente (e quasi casualmente) da altre situazioni. Tutto il contrario: l’intero format è pensato e costruito con la finalità specifica di suscitare emozioni di un determinato segno nei partecipanti, che vengono scelti proprio in quanto «portatori sani di emozioni». Ma ancora più interessante è il modo in cui le emozioni stesse vengono rappresentate. Al contrario dei format «di parola» (a cui va senz’altro ascritto Arrivi e partenze), in All you need is love le emozioni acquistano uno sviluppo visivo e una meccanizzazione mai riscontrati in precedenza. Vengono oggettivizzate e rese addirittura quasi plastiche, ed entrano nel corpo vivo degli snodi portanti del programma, incarnandosi nei suoi principali meccanismi strutturali. Vengono formattizzate, appunto. Questo nuovo tipo di approccio ha avuto una conseguenza molto profonda. Le emozioni costituiscono infatti l’area di contenuto forse più potente ed efficace dell’intrattenimento; però fino alla comparsa ­­­­­105

di questo format tale materia era difficile da trattare televisivamente. L’istintività e l’imprevedibilità delle reazioni emozionali sembravano anzi quanto di più lontano ci potesse essere dalla logica precisa e rigorosamente scandita dei tempi televisivi. Le emozioni erano un qualcosa in più: se si riuscivano a ottenere, tanto meglio; altrimenti, pazienza. In ogni caso non si potevano mai mettere in scaletta. Nessuno, neanche il più smaliziato degli autori, poteva assicurare con certezza che al minuto X del terzo blocco ci sarebbe stata una manifestazione emotiva di un certo tipo e di una certa durata. Adesso invece si può. Con la loro formattizzazione, le emozioni possono venire imbrigliate e piegate allo sviluppo narrativo, in modo da avere picchi emozionali quando serve e tutte le volte che serve. Attraverso meccanismi ampiamente collaudati possono essere fatte deflagrare (quasi) a comando, a patto che il casting sia stato fatto in modo mirato e che tutto funzioni alla perfezione, come gli ingranaggi di un orologio di precisione. Da All you need is love in poi, dunque, le emozioni sono disponibili allo stato puro, non diluite in troppe parole, frasi, discorsi, interviste, ma presenti nel tessuto vivo dell’azione scenica. Vengono fatte scoppiare dal vivo in momenti predeterminati, in tutta la loro forza travolgente e contagiosa. E la televisione, a quel punto, non sarà più la stessa. Da un punto di vista pratico, tale formattizzazione è stata realizzata attraverso tre modalità, complementari tra loro: i rituali, la semplificazione/compressione e gli shock emozionali. 4.1.1. I rituali Si definiscono «rituali» di un format quelle tappe del percorso narrativo a cui viene attribuita una speciale rilevanza, in termini visivi e/o verbali, e che servono a dare concretezza visiva alle emozioni, nonché a caratterizzare fortemente il percorso stesso. Il primo problema che si presenta nei programmi di emozioni è quello di rendere l’emozione stessa più evidente possibile. La cosa non è semplice: al contrario della fiction, nell’intrattenimento le camere sono di numero relativamente limitato, sono piazzate tutte all’inizio del programma, sono sempre le stesse fino alla fine e non sono quindi relative a una sola scena; non c’è la possibilità di rigirare il momento in cui deflagra la reazione emotiva e deve quindi essere buona la prima; ci sono spesso molti elementi (umani e scenici) in ­­­­­106

studio ed è perciò abbastanza difficile concentrare troppo l’attenzione su un solo protagonista; e, per concludere, ci sono talmente tante variabili in gioco che non si può mai essere sicuri al 100% della resa finale. Insomma, c’è sempre il serio rischio di buttare via una reazione emotiva particolarmente importante, che magari costituisce il principale climax e il fine ultimo dell’intero format. Le emozioni devono dunque essere rinforzate, enfatizzate, rese immediatamente visive e fatte addirittura diventare plastiche. In questo modo si evita il duplice rischio di affidarsi troppo al parlato, e pertanto declinare l’epressione emotiva solo in modalità orale, oppure di indebolire l’effetto finale. I rituali dei format servono, in primo luogo, a dare corpo alle emozioni, rendendole concrete e, in una certa misura, oggettivizzandole. Per questa ragione si può dire che i rituali dell’intrattenimento hanno una valenza «oggettivizzante», in quanto danno una forma concreta, plastica e visivamente definita alle emozioni e ai sentimenti. Volendo fare un paragone forse un po’ alto, si potrebbe accostare questa valenza al correlativo oggettivo in poesia. Questa tecnica, inaugurata da T.S. Eliot e ripresa poi da altri poeti, tra cui Montale, oggettivizza in immagini concrete le emozioni vissute dal poeta: figure e oggetti quotidiani, a volte anche banali, diventano emblematici equivalenti di un sentimento o di una condizione interiore, che non rimane dunque su un piano astratto, ma si incarna in un qualcosa di molto preciso e reale. Un po’ di esempi, tra i tanti disponibili. Uno dei miei format preferiti è l’israeliano The package. Il concept è semplice: una persona vuole dire qualcosa a un’altra persona a lei cara, ma non fisicamente vicina; il messaggio, però, prima ancora che orale, è, appunto, oggettivizzato in un qualcosa di molto concreto, che viene messo dentro al pacco del titolo, che poi è una scatola imbottita, con una specie di timer con cui il mittente segna l’anno a cui si riferisce il fatto incarnato dall’oggetto che vuole spedire. Si tratta di solito di oggetti molto comuni, della vita di tutti i giorni, che non sono stati scelti per la loro importanza, né tantomeno per il loro valore, ma in quanto emblematici di una situazione passata o di un sentimento. Sono quindi un modo per chiedere scusa, o per ringraziare il destinatario, oppure solo un pretesto per dirgli «ti voglio bene», «ti penso sempre» e così via. Hanno però dentro di sé una carica evocativa davvero eccezionale, che le sole parole difficilmente possiedono. Per esempio, una vecchia signora costretta sulla sedia a rotelle per le conseguenze di una polio­­­­­107

mielite contratta da piccola, vuole salutare e ringraziare suo fratello, che l’ha molto aiutata ai tempi della malattia, ma che ora ha un po’ perso di vista. Per questa ragione gli spedisce ciò che rappresenta un po’ il simbolo del loro legame: una mela sbucciata e, di fianco, l’intera buccia avvolta a spirale, tagliata con un unico movimento del coltello. Ai tempi della loro giovinezza, infatti, per ringraziare il fratello degli sforzi che faceva nei suoi confronti sbucciava la mela in questo modo e la offriva al ragazzo, che era solito mangiare prima la buccia, che apprezzava particolarmente, e poi la polpa. La signora inserisce quindi questo comunissimo frutto all’interno della scatola e regola il timer sul lontano 1954. Vediamo un breve momento del viaggio del pacco in soggettiva dal pacco stesso, attraverso una microcamera montata appena sotto il coperchio (altro rituale), e assistiamo quindi all’arrivo a destinazione. Il destinatario, anche lui ormai anziano, trova il pacco davanti a casa sua, lo porta dentro, osserva la data, si fa già qualche idea, apre il pacco, trova la mela con la sua buccia intatta accanto e... viene improvvisamente investito da una marea di ricordi, emozioni, sensazioni, che lo commuovono immediatamente fin quasi alle lacrime. E tutto questo solo grazie a un comunissimo frutto e prima ancora che sia stata pronunciata una sola parola! Dopo questo preambolo, la storia dei due fratelli viene raccontata in prima persona dai protagonisti, a due voci e a distanza, e tutta la vicenda ci viene rivelata con poche, semplici pennellate. Ma quella stessa storia, senza un ancoraggio concreto e visivo, ben difficilmente avrebbe avuto la stessa temperatura emotiva, nonché lo stesso effetto di verità e di evidenza che invece in questo modo riesce a raggiungere. Il format prosegue a questo punto con il destinatario che diventa a sua volta mittente: è infatti il suo turno di mettere dentro il pacco (lo stesso pacco) un altro oggetto, da spedire a una terza persona, a cui vuole comunicare a sua volta qualcosa. E così la catena continua. I rituali in questione sono da un lato il fatto che ogni messaggio è racchiuso e rappresentato da un qualcosa di molto concreto, ma al tempo stesso molto evocativo (un vecchio long playing, un block-notes, un paio di jeans fuori moda, una torta confezionata per l’occasione ecc.), dall’altro il fatto che tutti i viaggi della scatola sono seguiti per un breve tratto dalla soggettiva della scatola stessa. Parimenti, sono due i «correlativi oggettivi» di questo semplice ma bellissimo format: da una parte c’è l’oggetto inserito materialmente nella scatola, che rappresenta e incarna il messaggio e il sentimento ­­­­­108

relativo (anzi, li rafforza, dal momento che poi la storia che c’è dietro viene comunque raccontata a voce); dall’altra c’è il pacco in quanto tale e il suo ininterrotto girovagare, che rappresenta concretamente il filo rosso dell’affetto che unisce persone anche molto distanti tra loro, oggettivizzando quelle impalpabili relazioni di tipo affettivo che legano in vario modo le persone nel mondo. Molto bello è anche il pay off del format (la formula che accompagna a volte il titolo di un programma): The package: extraordinary moments in ordinary lives..., che può tranquillamente assurgere a slogan dell’intrattenimento, o almeno di gran parte di esso. Bellissimo e di straordinaria efficacia è anche il rituale del momento dell’eliminazione dei concorrenti nell’edizione americana di Survivor. Tutti i partecipanti ancora in gioco si radunano attorno a un fuoco, al primo calar delle tenebre, accomodandosi su rozzi sedili di pietra. Dietro ognuno di loro è piantata un’asta, in cima alla quale c’è una fiaccola con una fiamma accesa che brilla (la fiamma della vita?). Chiamati dal conduttore, uno dopo l’altro tutti i concorrenti si alzano e votano in segreto l’avversario che vorrebbero eliminare. Quando tutti hanno espresso la loro preferenza, il conduttore legge i risultati e il concorrente più votato deve lasciare immediatamente l’isola. Ma a questo punto, per sottolineare ed enfatizzare questo momento decisivo, c’è un rituale davvero molto forte (anzi, per la precisione ce ne sono due). Il conduttore invita il prescelto ad alzarsi, si fa porgere la sua asta e spegne platealmente la sua fiaccola, con un evidente, suggestivo richiamo alla morte simbolica del concorrente, che viene fisicamente spento all’interno del gruppo. Subito dopo (secondo rituale) il «deceduto» prende le sue poche cose e attraversa un piccolo ponticello di legno, al di là del quale sparisce definitivamente dalla nostra vista. È questo un altro modo per sottolineare con grande efficacia drammatica l’uscita dal gioco del concorrente, il suo morire all’interno del gruppo, l’andare in un aldilà misterioso e non meglio definito (il ponte come simbolo di passaggio è un archetipo diffusissimo). Da notare il fatto che entrambi questi rituali non rispondono a finalità di meccanismo o di regolamento. Per eliminare un concorrente basterebbe semplicemente dire che è stato eliminato e che quindi se ne deve andare. Ma non sarebbe la stessa cosa. Con i due rituali sopra descritti questo momento riceve un’importanza, uno spessore, un peso specifico, una densità scenica e drammatica che altrimenti non avrebbe. Inoltre è anche funzio­­­­­109

nale a rendere le reazioni emotive del protagonista più accentuate ed espressive. Il momento dello spegnimento della fiaccola è infatti sempre accompagnato da espressioni magari minime, ma molto significative, da parte di chi lo subisce, che forse non si avrebbero con la sola comunicazione orale. Anche in questo caso, quindi, i rituali hanno oggettivizzato alcuni momenti particolarmente significativi del racconto, rendendoli più visivi ed efficaci, ed elevandoli su un piano eminentemente simbolico. In poche parole, hanno reso più concreta e netta tutta una serie di sentimenti astratti come la paura, l’affetto, la riconoscenza, il dispiacere, la delusione, la speranza... Tutta la gamma delle emozioni umane, insomma. Se invece il format è ambientato in studio, si possono sfruttare con profitto elementi scenografici costruiti appositamente e che diventano quindi la cifra visiva dell’intero programma. La grande busta al centro dello studio di C’è posta per te, la porta di Stranamore, la poltrona dei confessionali del Grande Fratello (dentro la speciale camera annessa) e molto altro ancora sono esempi particolarmente efficaci al riguardo. Esistono inoltre anche rituali grafici, o relativi a elementi visivi di altro tipo. Il format olandese Superrobert ne fornisce, per esempio, un buon campionario. Il percorso del protagonista è diviso in due momenti ben distinti: quello che possiamo definire dell’investitura e quello della sorpresa. Nel primo, il protagonista viene sottoposto a una piccola prova; se la supera viene dichiarato «super» e può ricevere la sorpresa. Questo snodo di grande importanza viene sottolineato attraverso un rituale declinato in più livelli: un livello linguistico (l’aggiunta del prefisso «Super» al suo nome, per esempio «Superpieter»), un livello grafico-registico (la sua foto a pieno schermo, incorniciata dentro uno stemma da «supereroe»), un livello costumistico (la consegna ufficiale del distintivo col suo nuovo nome, che dovrà portare addosso per l’intera durata del programma) e, infine, un livello scenografico (la foto del «super-protagonista» appesa in studio accanto a quelle di tutti i suoi predecessori). Molto importanti sono inoltre i rituali verbali, di pertinenza del presentatore, che ripete alcune formule fisse nel corso del programma, in modo da farle diventare una sorta di tormentone. Queste formule servono a rendere più cruciali alcuni snodi del format, elevandoli su un piano prettamente simbolico. Per citarne una su tutte, si può ricordare la lapidaria frase pronunciata da Donald Trump, in The apprentice, ogni volta che deve sancire l’uscita dal gioco dei ­­­­­110

concorrenti esclusi, quel «you’re fired» (nella versione italiana: «sei fuori!») che è diventato quasi proverbiale in America e che ha reso quel format unico e in un certo qual modo perfino memorabile. Ma l’oggettivizzazione delle emozioni dei concorrenti e la conseguente concretizzazione visiva non sono l’unica finalità dei rituali. Un buon rituale assolve almeno ad un’altra importante funzione, che non è limitata a questa sola area di contenuto, pur se trova in essa la sua maggiore importanza. I rituali servono anche a caratterizzare il format: ovvero, a creare un mondo di riferimento ben definito e riconoscibile intorno al format stesso. È un aspetto che si ricollega molto da vicino al vestito esteriore del game e della sua coerenza. Ma nei programmi di emozione ha un valore ancora superiore. Tutti i game show posseggono infatti naturalmente delle strutture e dei meccanismi ludici molto sviluppati. Invece nei programmi di emozione, generalmente, è proprio una struttura forte ed evidente che manca: di conseguenza caratterizzare visivamente e plasticamente un programma d’emozione è spesso una vera e propria necessità, perché a volte è l’unico modo per dare a questo tipo di format un’identità visiva chiara e immediatamente riconoscibile anche da parte del telespettatore più distratto. Senza contare che ben difficilmente un programma di emozioni senza rituali concreti e visivi può essere considerato un format vero e proprio (con tutti i vantaggi che questo status comporta: dalla possibilità di esportazione del format stesso, alla sua maggiore protezione legale). Per fare un esempio, un programma in cui vengono organizzati semplicemente degli incontri tra due persone che hanno qualcosa da dirsi avrà per forza di cose un grado di formattabilità molto basso, se non c’è una precisa caratterizzazione strutturale e/o visiva. Fare incontrare due persone non può infatti essere considerato un meccanismo originale o una struttura precisa, né tantomeno uno schema base distintivo: è un semplice concetto o idea di fondo. Molto bella, efficace e tutto quello che si vuole, ma pur sempre poco formattizzata. C’è posta per te, viceversa, è un format a tutti gli effetti. Questa stessa materia (l’incontro tra persone che non si vedono da tempo), di per sé priva di originalità e di un’evidenza visiva e scenica caratterizzante, viene ingabbiata all’interno di rituali specifici, appartenenti a un preciso universo simbolico: la busta, lo spazio del francobollo che permette di vedere da una parte all’altra, i postini che recapitano il messaggio, i due personaggi protagonisti dell’episodio che si trasformano rispettivamente in mittente e destinatario di una missiva. Nessun altro programma che si basi su un ­­­­­111

tale argomento (gli incontri) può infatti utilizzare quel mondo e quei riferimenti visivi, che sono diventati di pertinenza esclusiva di questo prodotto. Sono dunque molto spesso proprio i rituali, e le relative oggettivazioni in senso plastico e scenografico, a conferire un’identità precisa ai programmi di emozione e a dar loro un universo simbolico e visivo unico e originale, formattizzandoli a tutti gli effetti. 4.1.2. La semplificazione/compressione I format di emozione sono un concentrato di vita. Al contrario della vita vera, però, in essi tutto è semplificato e reso lineare; oltretutto l’intero arco narrativo è compresso in modo da avere sempre un finale certo e inconfutabile al termine del format stesso. I format di emozione possono essere considerati un surrogato, o meglio un concentrato (sia in termini di quantità sia, soprattutto, di densità), della vita vera. Anzi, per certi aspetti sono perfino meglio. Perché i format, rispetto alla vita vera, offrono due vantaggi fondamentali: il primo è che sono semplici, mentre la vita non lo è mai; il secondo è che nei format c’è sempre una conclusione certa, precisa e incontestabile, mentre nella vita, si sa, è raro che ci siano conclusioni così nette ed evidenti, o, quanto meno, non in tempi ristretti. Il concetto di semplificazione è stato già affrontato più volte, ma conviene soffermarvisi anche in questa sede. Stavolta prendiamo un esempio concreto: la struttura base, ridotta alla sua estrema sintesi, di ogni modulo di Stranamore. Con il passare del tempo e delle puntate sono state apportate innumerevoli variazioni sul tema, ma, nella sostanza, lo schema base è rimasto il medesimo, ovvero: 1) presentazione (in esterna) del protagonista (maschile o femminile) della storia e intervista col conduttore. Il protagonista, rivolto in camera, registra il suo videomessaggio; 2) rientro in studio. Ritroviamo il protagonista seduto sul divano insieme al conduttore. Viene commentato quanto successo e vengono forniti altri particolari sulla storia; 3) l’inviato (a volte il presentatore stesso), al volante di un pulmino, raggiunge a sorpresa il destinatario del videomessaggio, nel suo ambiente (posto di lavoro, casa, scuola...); 4) stupore (e imbarazzo) del destinatario. L’inviato cerca di convincerlo a prendere visione del videomessaggio. È questo il primo snodo del format, perché siamo di fronte al primo bivio: ­­­­­112

a) il destinatario rifiuta di salire sul pulmino; b) il destinatario accetta di salire sul pulmino; nel primo caso (poco frequente, ma possibile) il modulo si conclude, dopo un breve rientro in studio, il commento del protagonista e il suo mesto congedo. Nel secondo caso, invece, il format va avanti con i passaggi successivi; 5) il destinatario prende visione del videomessaggio – di cui il telespettatore già conosce il contenuto, perché ha assistito alla sua registrazione (punto 1). Una finestra nello schermo tiene costantemente inquadrato il protagonista, che cerca di decifrare le espressioni del destinatario nel corso della visione; 6) rientro in studio. Il presentatore commenta col protagonista quanto si è visto. Si fanno le prime ipotesi sull’esito della storia: finale positivo o negativo? 7) rivelazione finale. Si apre la grande porta che costituisce l’emblema e lo spirito stesso del programma. Secondo e ultimo grande snodo del format, con il bivio cruciale: a) la porta si apre e il destinatario non compare (esito negativo); b) la porta si apre e il destinatario compare (esito positivo); ci possono anche essere alcune piccole variazioni: la porta si apre la prima volta e il destinatario non appare, poi si apre però una seconda volta e il destinatario appare (e questo è solo un modo per accentuare la suspense e dare un colpo di scena in più); oppure, variazione più significativa: la porta si apre, il destinatario compare, ma solo per dire che la sua risposta è negativa (altro colpo di scena); 8) conclusione della storia. In caso di esito negativo, il presentatore consola e congeda il protagonista, che esce mestamente di scena. In caso di esito positivo, il presentatore si congratula e congeda protagonista e destinatario, che si sono riuniti e quindi formano di nuovo una coppia; 9) varie ed eventuali: vengono dati aggiornamenti sui protagonisti delle puntate precedenti (come sta andando il nuovo rapporto; si sono sposati ecc.). Come si può vedere, lo sviluppo è reso semplice, lineare, standardizzato. Tutte le storie d’amore (che, per definizione, sono sempre una diversa dall’altra) possono essere ricondotte all’interno di questo schema, senza forzature. D’altro canto questa estrema semplificazione non degenera mai nella banalità. La standardizzazione dei momenti narrativi non significa, infatti, standardizzazione delle ­­­­­113

emozioni. Gli snodi sono sempre gli stessi, come boe che segnalano il percorso compiuto fino a quel momento, ma la gamma delle reazioni emotive contenute al loro interno è infinita. Anzi: il telespettatore, una volta presa confidenza con quegli snodi (il che accade molto velocemente, essendo sempre gli stessi), può concentrarsi sui personaggi e sul loro portato emozionale (che invece cambiano ogni volta), cogliendone meglio tutte le minime sfumature. Ed è proprio questo uno dei risultati più importanti che i format (e quelli d’emozione in particolar modo) devono ottenere: fare assimilare al telespettatore il più possibile la struttura base in modo da renderla, in un certo senso, quasi invisibile e poter quindi spostare tutta l’attenzione sulla variegata gamma dei personaggi e delle emozioni di cui sono portatori. La semplificazione del format ha dunque una funzione fondamentale: più semplice e più naturale (nel senso di più vicina alla vita vera e meno forzata possibile) è la struttura, più diventa invisibile e più viene valorizzato, per contrasto, l’elemento umano nelle sue innumerevoli declinazioni, che da sempre è alla base dell’intrattenimento. In altre parole, bisogna fare in modo che il telespettatore non presti più attenzione allo schema di fondo, efficace ma semplice e che si ripete identico puntata dopo puntata, e concentri invece tutta la sua attenzione sui protagonisti dello schema stesso, che invece sono sempre diversi, interessanti, imprevedibili. I format di emozioni non sono dunque nient’altro che dei meccanismi invisibili tesi a provocare reazioni emotive nei confronti dei partecipanti, sempre diverse e uniche pur nella loro ripetitività. Anche dotare il format di un finale sicuro è in un certo senso una forma di semplificazione. La vita, che invece semplice non è, non ha quasi mai dei finali così tempestivi e definitivi. È quindi estremamente appagante vedere una storia vera, con emozioni vere e forti, che abbia un finale certo, chiaro, senza mezze misure. I finali così netti, che prevedono quasi esclusivamente due soli esiti possibili (positivo e negativo), permettono inoltre una cosa che generalmente non viene associata al mondo delle emozioni in quanto tale: la giocabilità. È una cosa naturale, a cui non si può resistere. Se la storia e i personaggi coinvolti sono interessanti e se il percorso del format porta inevitabilmente a un esito binario (positivo/negativo), non ci si può esimere dallo scommettere su quale sarà la conclusione. E, di conseguenza, si sarà costretti a rimanere alla visione del programma sino al suo epilogo, per verificare se la scommessa fatta è vinta oppure no. ­­­­­114

Questa è la grande forza dei finali che possiamo definire ad «esito aleatorio», ovverosia aperti, come nel caso di Stranamore, appunto. Nella sua estrema sintesi, infatti, uno dei motivi d’interesse del telespettatore per questo grande classico dell’emotainment è in fondo proprio questo: cercare di prevedere se, all’aprirsi della porta, si affaccerà la persona convocata dal protagonista in studio, oppure se si aprirà sul nulla perché la persona attesa si è rifiutata di comparire. Un finale semplice, diretto e carico di grande suspense: se la persona c’è, l’amore ha trionfato e abbiamo il lieto fine; se non c’è, l’amore non ha (ancora) trionfato e il lieto fine è stato (per ora) rinviato. Una dualità priva di sfumature, ma enormemente efficace: sì o no, presenza o assenza, bianco o nero. È un po’ come giocare alla roulette: però, anziché puntare su numeri freddi e impersonali, si punta sulle calde emozioni di uno sconosciuto che per qualche attimo sentiamo molto vicino. Esistono però anche format che non prevedono una pluralità (o meglio: una dualità) di finali possibili, ma solamente uno: quello che il format ha promesso sin dall’inizio. Non siamo quindi in presenza di finali con «esito aleatorio», bensì di finali con «esito pianificato», nel senso che accadrà esattamente quello che è stato programmato che accada. Per esempio, i protagonisti dei numerosi programmi di make-over sanno (e il telespettatore sa con loro) che il cambiamento in oggetto si verificherà proprio come è stato pianificato: l’esito negativo non è contemplato (sarebbe davvero il colmo se così non fosse!). Eppure una scommessa emozionale sul finale da parte del pubblico a casa c’è anche in questo caso. La scommessa non è su quale sarà l’esito, bensì su quale sarà la reazione del protagonista all’esito stesso. Come in tutti i buoni format d’emozione, il telespettatore tende infatti a immedesimarsi con il protagonista della storia e non può fare a meno di chiedersi come reagirebbe lui stesso alla situazione che sta per capitargli; assiste quindi al finale del programma per verificare se la reazione da lui ipotizzata è quella che effettivamente si scatena. 4.1.3. Gli shock emozionali Gli shock emozionali servono a ottenere dai partecipanti le reazioni emotive più evidenti e impattanti possibile. I più frequenti e sicuri sono quattro: rivelazione, sorpresa, incontro, mutamento. Un buon format d’emozione, un format veramente efficace, non deve limitarsi a mettere in scena e a registrare le emozioni stesse, ­­­­­115

così come vengono. Deve, al contrario, potenziarle, renderle il più possibile incandescenti e farle quindi deflagrare nei tempi e nei modi più convenienti ai fini del racconto, con chirurgica precisione. Deve essere in grado di amplificare le emozioni il più possibile e fare in modo che si presentino, per così dire, in forma concentrata. Non si sbaglia mai per eccesso: più si ottiene dai protagonisti del format una reazione emotiva forte, meglio è; se invece la reazione è troppo attenuata e trattenuta (troppo neutra, insomma), l’efficacia del format potrebbe essere compromessa. I metodi più sicuri per ottenere questi shock sono quattro: rivelazione, sorpresa, incontro, mutamento. rivelazione.  Come

dice la definizione, si tratta di fare una rivelazione al o ai protagonisti del format, di grande impatto psicologico e tale da rivestire un’importanza fondamentale per l’intera loro esistenza. In questi casi il format va pensato in funzione della rivelazione che deve essere data, posizionando questo evento nel momento più opportuno (in genere intorno alla parte centrale o verso la fine, più raramente all’inizio), in modo da avere un picco emozionale perfettamente calibrato. Va sottolineato che il protagonista è a conoscenza del tipo di rivelazione che sta per essergli fatta, dal momento che si tratta di un rituale preciso del format e si ripete dunque uguale a sé stessa in ogni puntata; ignora però (fatto fondamentale) il segno della rivelazione stessa, ovvero se sarà positiva o negativa. In questo modo il principale sforzo autoriale è quello di costruire una macchina formattizzante che sia funzionale e ruoti intorno a una certa tipologia di rivelazione. Dopo di che, se tutto è stato progettato a regola d’arte, non rimane altro da fare che scegliere i personaggi giusti (quelli che reagiscono in modo molto evidente alle sollecitazioni emotive), fare loro la rivelazione attesa e aspettarne la reazione. Uno dei momenti fondamentali del Grande Fratello (e di tanti altri reality) è quello dell’eliminazione. Tutti i nominati sono radunati in uno spazio apposito a favore di camera e attendono con ansia la rivelazione su chi di loro debba lasciare il programma. Tutto è stato costruito in modo da dare a questo importantissimo snodo la pregnanza emotiva che merita. Lo svelamento del personaggio che vede di colpo infrangersi i suoi sogni di vittoria è dunque uno dei pilastri cardine dell’intero format, nonché un generatore pressoché inesau­­­­­116

ribile di reazioni emotive di diverso tipo. È vero infatti che i nominati sanno perfettamente che la rivelazione su chi debba andarsene può riguardare uno di loro, ma è vero pure che tale consapevolezza non diminuisce l’effetto della rivelazione stessa. Anzi, il fatto di essere già a conoscenza di ciò che può capitar loro amplifica la portata emozionale del momento fatidico in cui apprendono la loro sorte. Sono come dei condannati che stanno davanti al giudice in attesa di conoscere il proprio destino: sanno perfettamente qual è la posta in gioco, ma, quando la sentenza definitiva arriva (favorevole o sfavorevole che sia), provoca sempre uno shock emotivo di grande intensità. Ancora più violenta e impattante è la rivelazione al centro del format americano (andato in onda anche in Gran Bretagna) Change the day you die. Una persona con uno stile di vita squilibrato (troppo lavoro e stress, alimentazione sregolata, fumatore/fumatrice, alto consumo di sostanze alcoliche, eccessiva sedentarietà...) viene sottoposta a una serie di esami e di test sofisticati sotto la supervisione di una serie di medici specialistici. Lo scopo è determinare con la migliore approssimazione possibile l’età del suo probabile decesso, se continuasse ad adottare quel dannoso regime di vita. Tale rivelazione, già di per sé cruciale, viene preparata e amplificata con grande perizia. Al protagonista viene infatti chiesto di scrivere su un foglio di carta la sua aspettativa di vita, ovvero l’età a cui pensa ragionevolmente di arrivare. Inutile dire che quella indicata da tutti è un’età molto avanzata. A questo punto si apre la busta in cui gli specialisti hanno scritto invece l’età di morte presunta sulla base degli esami effettuati, e il divario tra i due numeri risalta in tutta la sua devastante drammaticità. Tale rivelazione non può non smuovere il protagonista: come si fa a rimanere indifferenti quando si spera di campare tranquilli almeno fino a 80 anni (giusto per essere prudenti), e invece degli esperti ci avvertono a bruciapelo che, se continuiamo a vivere come abbiamo sempre fatto, è difficile che riusciamo a tirare oltre i 60? Naturalmente dopo questo annuncio shock il format deve per forza avere una virata positiva. Così gli stessi medici che hanno sconvolto lo sfortunato protagonista gli vengono ora in soccorso, suggerendogli tutti i rimedi per procrastinare la sua fine precoce e spostare le lancette del suo orologio vitale il più avanti possibile. Abitudini e cibo più sani, al bando fumo e alcool, piccoli consigli e trucchi quotidiani, attività sportiva regolare. E, dopo un certo periodo di terapia, il soggetto viene sottoposto a nuovi esami, che portano a una nuova rivelazione, di segno positivo: comportan­­­­­117

dosi come sta facendo ha già allungato le sue aspettative di vita di un certo numero di anni. E, se continuerà a comportarsi in questo modo, l’età della sua morte potrebbe, forse, coincidere con quella da lui stesso indicata. Anche in questo caso si crea dunque un meccanismo che comporta come esito una rivelazione, si scelgono i personaggi giusti, li si mettono di fronte alla rivelazione stessa, confezionata con il giusto pathos, e si colgono in presa diretta le loro reazioni emotive. Semplicissimo ma dannatamente efficace. sorpresa.  Al contrario della rivelazione, che in qualche modo è già annunciata (nel senso che il protagonista è perfettamente conscio che sta per ricevere una rivelazione e ne conosce anche l’oggetto), la sorpresa, come dice il nome stesso, è totalmente inaspettata. Addirittura, in molti casi, per accrescere ancor più la reazione emotiva, i protagonisti non sanno neanche di stare per ricevere una sorpresa, che si rivela in questo modo doppia: la sorpresa di essere protagonista di un programma e la sorpresa vera e propria. Dal punto di vista produttivo è un metodo più impegnativo del precedente. Occorre infatti trovare ogni volta sorprese davvero forti e in grado di smuovere emotivamente i personaggi coinvolti (e per ottenere questo risultato si ricorre a sorprese anche abbastanza costose). Bisogna inoltre tenere all’oscuro di tutto i personaggi stessi, ricorrendo a espedienti di vario tipo. Però, se tutto è costruito e predisposto come si deve, si ottengono ottimi risultati. Non sono pochi i format basati esclusivamente su questo concetto allo stato puro, senza elaborazioni ulteriori. È questo per esempio il caso del classico programma inglese Surprise surprise, o del francese Rêve d’un jour (da cui l’italiano Sogni). Interessante è anche il modo in cui i protagonisti di tali format vengono distratti dalla finalità vera affinché, quando la sorpresa viene rivelata, subiscano il maggiore shock psicologico possibile e abbiano quindi una reazione emotiva di grande intensità. In Surprise surprise i protagonisti non sanno di essere tali: sono infatti in studio tra il pubblico, credendo di essere semplici spettatori. È il presentatore a rivelare all’improvviso a uno di loro che c’è una sorpresa pronta per lui e costui, prima ancora di aver potuto assimilare razionalmente la notizia, riceve il secondo scossone emotivo all’apparire dell’oggetto della sorpresa vera e propria. In Rêve d’un jour, invece, si ricorre a volte alla tecnica della finta sorpresa: si dà prima ai protagonisti una sorpresa minore,

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che ha in genere lo scopo di distogliere la loro attenzione da ciò che accadrà di lì a poco, e si fa poi l’affondo psicologico definitivo, sconvolgendoli (positivamente) con la sorpresa principale. Per esempio, a un’anziana coppia di coniugi che vive in un piccolo e brutto appartamento viene fatto credere d’aver vinto un weekend in una località turistica. Nel periodo della loro assenza, grazie alla complicità della figlia, una squadra di esperti arredatori ricostruisce letteralmente il loro appartamento, migliorandolo sotto tutti i punti di vista e dotandolo di tutti quei comfort che per loro erano soltanto bellissimi ma irraggiungibili sogni. In questo modo, quando i due teneri signori ritornano dalla vacanza, già appagati e contenti del regalo ricevuto, nell’aprire la porta di casa si trovano improvvisamente davanti alla sorpresa principale (che non s’immaginano neanche lontanamente) e hanno una reazione emotiva tale da non riuscire letteralmente a fare altro che ripetere ossessivamente «mon dieu!» per una decina di minuti buoni (ma le loro espressioni sbalordite ed estasiate a un tempo esprimono molto più di qualunque parola). In altri format, invece, il concetto della sorpresa viene vestito in modo da dare al programma una caratterizzazione più particolare e personalizzata. Nel già citato Superrobert, per esempio, il protagonista, segnalato da una persona che lo conosce bene, deve prima superare una piccola prova per dimostrare di essere degno della sorpresa che sta per ricevere. Il conduttore, travestito, lo sottopone a una candid camera per misurare la sua pazienza, la sua bontà d’animo ecc. Se decide che la prova è superata, si rivela, lo investe del titolo di «super» e gli annuncia che sta per ricevere qualcosa che per lui ha molta importanza. Per esempio, un giovanotto che ha sempre guidato camion altrui riceve in regalo un gigantesco tir, diventando così un «padroncino». L’unico vincolo che gli si pone è che, se il programma lo richiede, deve dare la sua disponibilità ad aiutare la produzione nell’allestimento della sorpresa per altre persone, che sono diventate «super» come lui (sempre nello stesso esempio, il bravo ragazzone, col suo tir nuovo di zecca, deve trasportare tutti i mobili di una ragazza che deve fare un trasloco e non ne ha i mezzi). In questo modo la sorpresa si incrocia con tematiche più nobili, quali la bontà, l’altruismo, l’amicizia e il rispetto del prossimo. Al contrario degli esempi precedenti, in cui la sorpresa varia ogni volta, in Surprise wedding la sorpresa a cui vanno incontro gli ignari partecipanti (maschi) è sempre la medesima: credendo di partecipa­­­­­119

re a un programma di altro tipo, si trovano improvvisamente davanti la loro partner – con cui hanno legami di lunga data ma senza mai essere giunti al grande passo – vestita in abito nuziale, insieme a un ufficiale giudiziario, pronta a sposarsi lì su due piedi. Il giovanotto ha pochi minuti di tempo per pensarci su, dopo di che, se accetta, viene celebrato il rito in studio (con valore più o meno vincolante a seconda della legislazione vigente nei vari paesi) e la coppia diventa ufficialmente marito e moglie sotto gli occhi delle telecamere. Si tratta ovviamente di una sorpresa a tutti gli effetti, dato che il ragazzo protagonista non ha la minima idea di ciò che sta per accadergli e, sempre se il casting è stato effettuato con attenzione, la sua reazione è in genere molto forte e particolare, nel senso che può essere di qualunque segno e può andare dalla felicità assoluta al panico più totale. incontro.  Il metodo dell’incontro può in qualche modo essere fatto rientrare nelle tipologie precedenti, con cui ha senz’altro qualche area di sovrapposizione. Ha però un’importanza tale in questo genere di programmi che è doveroso trattarlo a parte. Come dice la parola stessa, è un metodo che si basa sull’organizzazione di un incontro tra due o più persone, delle quali almeno una ha un gran desiderio di rivedere l’altra o le altre. Le modalità e il grado di consapevolezza dei protagonisti sono diversi, tanto che si può quasi dire che ogni format fa storia a sé. In ogni caso si possono individuare almeno tre gruppi distinti di incontri, tenendo comunque sempre presente che nella realtà tali tipologie non sono mai completamente divise e perfettamente distinguibili l’una dall’altra, e che in ogni format ci sono sempre abbondanti eccezioni rispetto alla tipologia prevalente. Un primo gruppo di incontri è quello in cui il protagonista principale è totalmente ignaro di ciò che sta per accadergli (per questa ragione, si tratta di una sorpresa a tutti gli effetti). Per esempio, nel format francese Stars à domicile a un giovane adolescente viene fatto incontrare l’idolo dei suoi sogni (cantante, attore ecc.), senza che il protagonista abbia la minima idea di ciò che sta per succedergli fino al momento in cui se lo trova improvvisamente davanti, magari in un contesto particolare (per esempio, è il vip in persona a portare la torta, in occasione del suo compleanno). Un secondo gruppo di incontri è quello in cui è il protagonista a rivolgersi alla trasmissione, per poter rivedere una o più persone. In questo caso, visto che manca l’effetto sorpresa (almeno da parte

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del protagonista principale), la suspense e la reazione emotiva sono date dal fatto che l’incontro può avvenire o meno (esito aleatorio). Oltre al solito All you need is love, si può anche ricordare a questo proposito un altro format olandese: Het familiediner (La cena di famiglia): un personaggio prende l’iniziativa di invitare, attraverso la mediazione del conduttore, uno o più membri della sua famiglia, con cui è in rotta, a una cena preparata appositamente da uno chef, che è a tutti gli effetti un co-conduttore e sceglie le ricette in base all’occasione e alle persone coinvolte. Ovviamente lo scopo è la riappacificazione di tutti, ma, anche in questo caso, l’incontro ci può essere (esito positivo, posto che i convitati non litighino durante la cena), oppure la riunione sperata può andare drammaticamente deserta (esito negativo). Un terzo gruppo di incontri è quello che possiamo definire misto, nel senso che i format giocano con una certa creatività sui vari livelli di consapevolezza, oppure non hanno una pratica precisa e ritualizzata sulle modalità dell’incontro e si muovono perciò con una certa libertà tra varie soluzioni. C’è posta per te, per esempio, adotta una tecnica particolare, che possiamo chiamare a immedesimazione variabile. Al contrario di tutti i format sopra descritti, infatti, qui non c’è un solo protagonista principale, con cui il telespettatore viene fatto immedesimare per tutto il tempo del racconto, bensì due. All’inizio il protagonista assoluto è colui che ha richiesto l’incontro: è il suo punto di vista che adottiamo quando l’invito viene recapitato a sorpresa al destinatario (co-protagonista inconsapevole). Quando però quest’ultimo si presenta in studio, il punto di vista privilegiato diventa il suo: è infatti lui a decidere se rimanere o meno a sentire quello che il primo personaggio ha da dirgli; ed è infine lui a prendere la decisione fondamentale se far togliere la busta, e accettare quindi di incontrarsi fisicamente con l’altro personaggio, o meno. Il punto di vista del telespettatore viene così spostato gradatamente nel corso del racconto, fino ad avere due centri d’immedesimazione speculari. mutamento. 

Rientra in questo grande gruppo tutta la schiera, multiforme e variopinta, dei format di make-over. Com’è ovvio, il mutamento consiste nel far subire una trasformazione essenziale e molto evidente al protagonista del format (in genere in senso fisico), o a cose/persone/animali che rivestono per lui una particolare importanza (la casa, la moglie, il cane...). ­­­­­121

Nell’affrontare questa categoria di programmi bisogna tenere presente che il fine consiste sempre nel provocare reazioni emotive nei partecipanti (esattamente come in tutti i format di questo macro-gruppo) e che la trasformazione in quanto tale è «solamente» il mezzo per arrivare a tale risultato. E questa considerazione implica a sua volta una cosa di fondamentale importanza: per quanto bella, suggestiva ed esteticamente apprezzabile sia la trasformazione finale, o il processo della trasformazione stessa, se non porta come conseguenza una reazione emotiva notevole da parte del soggetto interessato rimarrà fatica sprecata. Ci sono però alcune problematiche produttive da tenere presenti. Anzitutto, se si procede a un cambiamento radicale, bisogna considerare i tempi lunghi che la cosa comporta. Per esempio, nel caso di un intervento di chirurgia estetica, tra operazione, degenza e recupero definitivo possono passare anche alcuni mesi. Questo intervallo di tempo comporta complicazioni dal punto di vista produttivo, ma soprattutto dell’effetto finale. La cosa migliore sarebbe infatti che il protagonista scoprisse solo all’ultimo momento, e in contemporanea col pubblico a casa, il risultato della sua trasformazione, in modo da subire il maggiore shock psicologico possibile. È però davvero impensabile che il soggetto non si guardi allo specchio per più di un mese e, anche se ciò avvenisse, sarebbe poco credibile. Le soluzioni quindi sono due: o ci si accontenta di mutamenti più superficiali (trucco-parrucco, nuovo look), che saranno sicuramente meno d’impatto e meno interessanti a livello visivo, ma hanno il grosso pregio di essere molto rapidi e immediati (è questo, per esempio, il modo in cui funzionava lo storico Brutto anatroccolo); oppure, se si vuole ricorrere a interventi di tipo chirurgico e puntare quindi di più sulla qualità del mutamento, occorre trovare un secondo protagonista, molto vicino alla persona che ha subito l’operazione (il marito, la moglie, il fidanzato, i genitori, i figli...), e sfruttare le sue reazioni emotive alla vista della trasformazione (a cui il protagonista effettivo, per forza di cose, si è già un po’ abituato). Frequente in questi casi è l’organizzazione di una festa a cui sono invitate tutte le persone care, che vedono il protagonista per la prima volta dopo l’operazione e possono quindi avere reazioni emotive di un certo interesse. Per non disperdere troppo il processo d’immedesimazione occorre però avere sempre un solo punto di vista privilegiato (la persona più vicina in assoluto ­­­­­122

al nostro protagonista) e seguire tutta la storia, e soprattutto la conclusione finale, con i suoi occhi. In questi casi, dunque, abbiamo un protagonista nominale, cioè la persona che viene mutata in senso estetico, ma la storia va seguita soprattutto attraverso una persona a lei molto cara, che è poi quella che avrà la reazione emotiva più intensa. Più facili da trattare sono ovviamente i casi in cui il make-over viene fatto su cose o animali legati al protagonista. Quest’ultimo, semplicemente, deve essere portato lontano dal luogo in cui viene effettuato il mutamento e riportato a cose finite, per poter godere la sua reazione. Non è affatto necessario che il tutto sia trattato come una sorpresa assoluta: il soggetto può essere tranquillamente a conoscenza di cosa sta per accadere; infatti, se la cosa trasformata gli sta davvero a cuore ed è realmente importante per lui, le sue reazioni di fronte all’avvenuto cambiamento saranno senz’altro molto espressive e televisivamente interessanti. Va sottolineato, infine, che attraverso questi shock si ottiene, oltre alle reazioni emotive desiderate, anche il cambiamento di status del protagonista del format, che è una delle regole base viste nel paragrafo 2.2. Se l’esito del format è positivo, il cambiamento è evidente e spesso immediatamente percepibile anche con una semplice occhiata: il protagonista si è riconciliato con l’oggetto del suo desiderio (partner o persona cara che sia) e quindi la singolarità della situazione iniziale è stata sostituita dalla dualità della condizione finale; oppure, nel caso di format con sorprese o meccanismi di altro tipo, ci saranno cose o situazioni nuove e/o diverse rispetto alla situazione di partenza (la casa rinnovata, un oggetto di grande importanza avuto in regalo, un miglioramento in senso fisico...). Ma anche in caso di esito negativo si produce un cambiamento notevole, anche se solo a livello psicologico: il protagonista ha in genere assunto una maggiore consapevolezza di sé e delle cause dei suoi errori e può quindi ripartire verso un miglioramento futuro, che non può venire raccontato ma che è sempre sottinteso e implicito. Si può perciò affermare, senza esagerare neppure troppo, che tutti i format in generale, e quelli di emozione in particolare, sono dei racconti di formazione a tutti gli effetti, ovvero un percorso di crescita al termine del quale, indipendentemente dall’esito, il protagonista si è evoluto e ha raggiunto un livello di consapevolezza di sé che all’inizio non aveva. ­­­­­123

4.2. I generi dell’emozione Dopo aver descritto i metodi di formattizzazione che valgono per tutti i programmi basati prevalentemente sul contenuto emozionale, analizziamo ora gli elementi che caratterizzano i generi principali di quest’area di contenuto, mettendo in luce gli aspetti di maggior interesse e criticità per quanto riguarda l’attività di progettazione. Per ragioni pratiche, il discorso sarà limitato alle tre tipologie più diffuse e importanti, che però, come abbiamo visto nel capitolo 1, non sono le uniche di questo grande e variegato gruppo. 4.2.1. I reality Il motivo di interesse di tutti i reality sono le reazioni emozionali dei protagonisti, proposte in modo formattizzato e spettacolare. Nella prima generazione di reality (emotainment) bisogna porre attenzione soprattutto al pregresso dei protagonisti, alla linearità e alla coerenza; in quelli di seconda generazione (psycho drama game) contano innanzittutto le relazioni interpersonali che si instaurano nello svolgimento del format, sviluppate attraverso l’uso intelligente di «fertilizzanti sociali». Nei reality di prima generazione, ovverosia gli emotainment, siamo in una dimensione che possiamo definire artigianale. Le emozioni nascono infatti nella realtà extratelevisiva (il vissuto pregresso dei partecipanti), anche se vengono portate a compimento e spettacolarizzate sotto l’occhio delle telecamere. In Stranamore, per esempio, i protagonisti si innamorano e poi rompono il loro rapporto nella vita vera, al di qua dello schermo: la loro riunione (o la mancata riunione) e lo shock emozionale conseguente avvengono però in studio. Lo stesso discorso vale per C’è posta per te: il caso che dà origine a ogni storia accade sempre in una dimensione extratelevisiva (una figlia abbandonata dalla madre, un anziano signore che vuol ritrovare un amore della sua gioventù...), mentre la conclusione esplode nell’ambiente televisivo per eccellenza: lo studio. Gli emotainment sono dunque essenzialmente dei catalizzatori e non ancora dei generatori di emozioni: la vita vera, quella vissuta al di qua dello schermo, resta ancora un punto di riferimento e un magazzino di storie umane imprescindibile. Da un punto di vista pratico questo significa che, con un lavoro e una pazienza appunto di tipo artigianale, i casi devono essere selezionati a uno a uno, poiché non esiste mai un caso uguale ­­­­­124

all’altro. Se il programma si compone, per esempio, di sei o sette segmenti, gli autori devono trovare sei o sette storie diverse, da far deflagrare una dopo l’altra, con sfumature e sapori diversi. E questo perché è diversa la loro matrice originaria, quella nata nella realtà vera, che è più complessa, variegata e sfuggente della realtà televisiva. Nei reality di seconda generazione, quegli psycho drama game che hanno avuto origine con Big Brother, abbiamo invece il passaggio alla dimensione industriale. Tale passaggio di portata così decisiva si è potuto realizzare grazie alla coscienza pienamente maturata dell’autoreferenzialità del mezzo, che si è appropriato prepotentemente del concetto stesso di realtà, inglobandolo nello specifico televisivo. Negli psycho drama, infatti, non conta più (o, almeno, non conta tanto) ciò che è accaduto fuori dallo schermo: i protagonisti iniziano letteralmente a vivere nel momento stesso in cui inizia il programma ed è importante soprattutto la porzione della loro vita inquadrata 24 ore al giorno (con significative eccezioni). Viene quindi svolto un percorso emozionale integrato, perfettamente autosufficiente, dai suoi prodromi fino alle sue conclusioni. È vero che in alcuni casi (specie dopo un elevato numero di edizioni di uno stesso programma, che perciò ha bisogno di linfa e di trovate nuove) si fa riferimento e si attinge anche al vissuto dei protagonisti, sfruttando persone e situazioni della vita precedente all’inizio del format, ma si tratta in ogni caso di un arricchimento del vissuto vero, che non è, paradossalmente, quello della vita reale, bensì quello che si svolge «qui e ora» sotto gli occhi dei telespettatori. I vantaggi pratici di questa nuova condizione sono evidenti. Nella produzione artigianale, il format si modella sul vissuto dei personaggi e per alimentarsi ha bisogno continuamente di trovare sempre nuovi vissuti, diversi l’uno dall’altro. Invece, nella produzione di tipo industriale è il vissuto dei personaggi che si adatta al format e basta solo trovare all’inizio del programma un certo numero di personaggi in possesso di determinati requisiti di base per avere un carico potenziale di emozioni che permette di arrivare fino in fondo alla serie. Inoltre, mentre negli emotainment ogni picco emotivo è raggiunto da un solo personaggio per volta (al massimo due), nella seconda generazione di reality è possibile far deflagrare drammi emozionali «in batteria», ottenendo economie di scala fino a quel momento nemmeno lontanamente immaginabili. Nella prima edizione del Gran Hermano spagnolo, per esempio, tutti i partecipanti erano diventati amici e avevano perciò ­­­­­125

fatto un patto singolare (poi vietato per regolamento nelle successive edizioni): tutte le nomination seguivano un ordine prestabilito, in modo che tutti loro venivano nominati una sola volta e l’onere dell’eliminazione spettava unicamente al pubblico da casa attraverso il televoto. E quando ciò avveniva, il dramma era veramente collettivo. Piangeva e si disperava l’eliminato, ovviamente; ma anche tutti i suoi amici, che poi erano tutti gli abitanti della casa, senza nessuna esclusione. Una reazione emozionale a catena, appunto. Non ci sono controindicazioni a questo modo di procedere. Quello che conta veramente per il telespettatore è che la reazione del personaggio sia autentica, ovvero che egli stia provando veramente quella particolare sensazione (di gioia, di dolore, di commozione...) che determina la reazione emotiva stessa. Da dove provenga e quali siano le cause di quella sensazione, risulta tutto sommato abbastanza indifferente. Come infatti abbiamo già detto, quello che il pubblico a casa richiede è che un concorrente si emozioni, che la sua reazione emotiva risulti sufficientemente sincera e che sia espressa in modo evidente. Se poi all’origine dell’emozione stessa ci sia un caso di un amore infelice risalente a vent’anni prima o la visione del figlio nello studio televisivo da parte di un genitore confinato su un’isola deserta a migliaia di chilometri di distanza, non fa grande differenza. Anche se nel primo caso si attinge alla vita vera, mentre nel secondo la realtà raccontata è interamente racchiusa nell’universo mediale. Negli emotainment, dunque, le emozioni si possono ottimizzare, spettacolarizzare e trasmettere al telespettatore nel modo più diretto ed efficace possibile. Però devono esistere prima dell’inizio del programma, almeno in uno stadio larvale o potenziale. Da Big Brother in poi le emozioni si possono invece creare pressoché dal nulla. Con gli psycho drama, quindi, non è nato solo un nuovo genere televisivo, con un nuovo linguaggio e un nuovo modello produttivo. È nata anche una vera e propria fabbrica delle emozioni, che ha potenziato il filone dei format d’emozione come mai era accaduto nel passato. Da un punto di vista pratico, queste considerazioni non sono ininfluenti. Tanto per cominciare, negli emotainment il pregresso extratelevisivo dei partecipanti è per forza di cose una base di partenza imprescindibile ed è il primo aspetto a cui porre attenzione. Il punto è che, essendo appunto pregresso, non accade sotto gli occhi delle telecamere, ma è già accaduto e deve solo essere raccontato. Il rischio è di avere solo un inutile prologo alla vicenda vera e propria: ­­­­­126

e i prologhi, in televisione in generale e nell’intrattenimento in particolare, non pagano mai. Bisogna dunque riuscire a fare di queste situazioni preliminari una parte viva, rendendole interessanti per il telespettatore, e non considerarle soltanto un antefatto noioso ma di cui, ahimè, non si può fare a meno. Per esempio, nel già citato The package il racconto della storia che lega mittente e destinatario viene fatto dopo l’arrivo a destinazione del pacco, quando cioè il telespettatore ha già avuto modo di familiarizzare con i due protagonisti e addirittura si è già immedesimato con il destinatario, dal momento che costui ha già avuto la prima forte reazione emotiva provocata dal contenuto del pacco stesso. Il pregresso televisivo viene dunque portato in scena quando il processo di immedesimazione è già scattato e i protagonisti non sono più degli estranei, ma persone che in un qualche modo sentiamo vicini. In alcuni casi si è addirittura riusciti e fare di queste situazioni del passato l’oggetto stesso dello shock emozionale e non semplicemente i prodromi da cui partire per fare poi deflagrare la reazione emotiva principale. Per esempio nel celeb-reality inglese The house that made me ad alcuni personaggi famosi viene offerta l’occasione di fare un salto indietro nel tempo, tornando addirittura alla loro infanzia. La produzione ha infatti preso possesso della vecchia casa in cui sono nati, ricostruendola esattamente come era un tempo. Il vip inconsapevole viene quindi portato al suo interno e, come per magia, si ritrova improvvisamente fanciullo. Riscopre i giochi che aveva fatto, gli oggetti che gli erano stati familiari, risente perfino i vecchi odori di un tempo, ricreati artificialmente. Inutile dire che una tale vertigine temporale provoca una serie di reazioni di varia natura nel protagonista, che si trova di colpo investito da una marea di ricordi, sensazioni e sentimenti. Si tratta ovviamente di un caso limite, ovvero di un format in cui è proprio il passato a causare lo shock emotivo principale. Però anche in quei casi in cui il pregresso è – e rimane – un pregresso, bisogna sempre porre molta cura a vivacizzarlo e a renderlo il più interessante e il meno «orale» possibile, utilizzando, per esempio, immagini di ogni tipo (filmati d’epoca, vecchie foto ecc.) e, naturalmente, rituali e simbologie oggettivizzanti di forte impatto. Una volta affrontati i prodromi della vicenda, bisogna concentrarsi sulla problematica cruciale di questo tipo di format. Negli emotainment si ha infatti un solo colpo da sparare. Ciò vuol dire che la reazione emotiva principale, la più forte, la più interessante, quella ­­­­­127

attorno a cui tutto il programma ruota, è una e solo una: quella che sancisce la conclusione (felice o meno) della vicenda. È come se all’inizio del format, o di uno dei segmenti di cui il format si compone, venisse posto un grande punto interrogativo, che sarà poi sciolto (in modo positivo o meno) alla fine del programma o del suo segmento. Tutto deve andare in quella direzione, in modo semplice, chiaro, netto. Non ci devono essere deviazioni secondarie o sottostorie; nel caso in cui fossero assolutamente indispensabili, devono essere trattate con estrema cautela, per poi ritornare subito alla storia principale e concluderla nel modo più plateale possibile. Creare un format, in questo caso, è come costruire un arco: bisogna incoccare la freccia, tenderla al meglio e infine scoccarla con forza, dritta verso il bersaglio. Non importano tanto la tecnica, gli elementi di contorno od orpelli di altro tipo: importano solo la forza con cui la si scaglia e la precisione del colpo. Tutto il format deve essere costruito, dunque, in funzione di quest’unico affondo e tutto ciò che non è necessario a questo fine non solo è inutile, ma è anche nocivo, perché in qualche modo attenua il colpo stesso. Gli emotainment, da questo punto di vista, sono format molto netti e privi di grandi sfumature. Ma sono tutt’altro che banali, o di semplice ideazione. Sono, al contrario, un grande esercizio di essenzialità e precisione, perché la «macchina» deve essere perfetta e perfettamente calibrata. L’ultimo concetto che bisogna tenere presente è quello (già affrontato a proposito dei game show) della coerenza. Un emotainment coerente è quello il cui concept giustifica appieno lo shock emotivo che si prepara a infliggere, in modo da non poter mai venire accusato di crudeltà in caso di esito negativo. Se le cose dovessero andare per il verso storto, infatti, la colpa non può essere attribuita al format, che ha fatto tutto quanto rientrava nelle sue possibilità, bensì al protagonista, che non è stato all’altezza delle aspettative. È dunque la possibile mancanza di happy end la cartina di tornasole per stabilire se un emotainment è dotato di coerenza intrinseca, dal momento che le storie coerenti sono sentite come naturali e vicine alla vita reale; e nella vita reale, si sa, non sempre tutto finisce bene. Il buon, vecchio Stranamore fornisce, ancora una volta, un ottimo esempio al riguardo. Nelle storie trattate tutto appare logico, coerente, lineare. Sembra che tutto si svolga spontaneamente, che tutto sia nelle mani del protagonista dell’episodio, che tutto (il successo o il fallimento della sua storia) dipenda unicamente da lui, dalla sua ­­­­­128

capacità di convincere il partner della bontà e della sincerità delle sue intenzioni. Sembra inoltre che il format lo aiuti dandogli tutto l’appoggio logistico necessario (la consegna del videomessaggio, col famoso pulmino) e che si limiti a dare risalto alla sua vicenda privata, amplificandola e portandola alla conoscenza del pubblico a casa, senza condizionarla. È solo un’illusione, naturalmente. È stata la televisione a creare la «macchina» che porta avanti l’intera storia e, se non ci fosse stata la televisione, la storia stessa non sarebbe mai nemmeno esistita. Però questi interventi non vengono mai allo scoperto: la storia scorre sui suoi binari logici, come se andasse avanti da sola; i passaggi e gli snodi del programma si susseguono uno all’altro in modo consequenziale e naturale. È la coerenza stessa della storia a renderla verosimile, nascondendo l’artificiale presenza del mezzo. Questo non avviene invece nel caso dell’emotainment inglese I’d do anything (da cui l’italiano Cosa non farei). Il concept è che qualcuno deve fare qualcosa di estremamente difficile o imbarazzante per permettere a una persona a lui cara di realizzare un suo grande sogno. Tra la prova affrontata e il premio ottenuto non c’è però nessun tipo di collegamento logico, e tutta quanta la situazione ha uno sgradevole sapore di artefatto. Si vede per esempio una donna lanciarsi col paracadute (soffrendo di vertigini, beninteso) per dare la possibilità al suo fidanzato di trascorrere una giornata con i calciatori della sua squadra del cuore. Oppure un ragazzo che effettua uno spettacolare lancio di bangee jumping per permettere all’amica di realizzare un servizio fotografico come modella. E così via. Di fatto, però, non si tratta mai di storie coerenti: anzi, sono sempre due pezzi di storia di fatto distinti e separati, il cui nesso forzato è imposto solamente dal mezzo televisivo. La naturale legge di causa/ effetto (che dovrebbe quanto meno prevedere un’affinità tematica) cede il posto a una legge artificiale e forzata, stabilita arbitrariamente dal format. Cosa c’entra infatti un lancio col paracadute con l’incontro con i propri idoli sportivi? Cosa c’entra il bangee jumping con un servizio fotografico? In entrambi i casi assolutamente niente. In questo caso, quindi, la mancanza di esito positivo è un problema. Se una persona ha un sogno davvero grande, che il format ha la possibilità di realizzare (e anzi, presumibilmente, si è già attivato per realizzarlo), ma la persona cara non riesce a superare la prova nonostante tutta la sua buona volontà, di chi è la colpa? Soltanto del format (non del protagonista), che ha imposto in modo arbitrario quella prova e l’ha ­­­­­129

resa poi troppo difficile da superare (che sia vero o meno, non ha importanza). Il format ha quindi prima illuso una persona, facendole balenare davanti agli occhi un suo grande desiderio, poi l’ha amaramente disillusa. Un emotainment non coerente rischia insomma di passare per un programma cattivo: e questo non va bene. Passiamo adesso agli psycho drama game, che, nell’accezione comune, sono considerati i reality per antonomasia. Anche in questa tipologia la coerenza è un tema della massima importanza: il loro concept deve infatti giustificare le pressioni psicologiche e tutti gli altri disagi a cui i partecipanti sono soggetti nel corso delle puntate. Diversa è però la modalità con cui viene applicato tale concetto, che dipende dalla diversa natura di questi due generi. Negli psycho drama game, infatti, il retroterra extratelevisivo è ridotto al minimo e i personaggi sono trasportati in una sorta di universo alternativo in cui cominciano a vivere un’esistenza parallela a quella reale, sotto gli occhi delle telecamere. Il fattore a cui porre attenzione è che tutto ciò che deriva da tale universo alternativo deve essere coerente con l’universo stesso e le conseguenze dell’essere immersi in quella determinata realtà parallela devono essere strettamente logiche e prodursi in qualche modo «naturalmente» dalla realtà parallela stessa. Se si vuole quindi sottoporre i partecipanti a dure condizioni e pressioni psicologiche (cosa molto importante per ottenere, al solito, reazioni emotive significative) bisogna costruire universi paralleli coerenti con le dure condizioni che si vogliono imporre. Se così non fosse, quelle stesse dure condizioni verrebbero sentite come arbitrarie e in un certo senso ingiuste. Per esempio, è coerente che i partecipanti soffrano la fame e abbiano privazioni di vario tipo se l’universo parallelo a cui hanno deciso di partecipare è un’isola deserta e selvaggia, come avviene nei diversi format con questa ambientazione (Survivor, L’isola dei famosi, I’m a celebrity... get me out of here! ecc.). Così come è coerente che le dodici celebrità protagoniste del format francese 1ère compagnie soffrano per il duro addestramento militare che viene loro impartito in un campo della Guyana francese, con tutto ciò che questo comporta (alzatacce all’alba, marce estenuanti sotto il sole cocente, pulizia dei servizi igienici...). E sono altresì coerenti le durissime condizioni che i partecipanti devono affrontare quotidianamente quando sono portati indietro nel tempo, senza i comfort della vita moderna, come avviene per esempio nei format, entrambi svedesi, The farm (da cui l’italiano La fattoria) e The empire, in cui la regressione temporale ­­­­­130

arriva addirittura al Medioevo (ma ci sono format che regrediscono fino alla preistoria, o fanno un salto iperrealistico in un futuro prossimo venturo ancora più duro del passato). In mancanza di un vero e proprio universo parallelo, a rendere coerenti le pressioni fisiche e psicologiche sui concorrenti può bastare anche il semplice concept, o filo rosso, del format stesso, se ben comunicato e reso esplicito fin dal titolo. In Tempted, per esempio, un gruppo di aitanti ragazzi scandinavi rinchiusi in una lussuosa villa in Turchia lotta contro tentazioni di ogni tipo (in senso positivo e negativo), in uno scontro continuo tra il proprio vantaggio personale e il vantaggio della propria squadra. Ma che questo fosse il disagio a cui sarebbero andati incontro era evidentissimo sin dal titolo, e dunque i concorrenti (e i telespettatori con loro), per quanto crudeli e laceranti siano le tentazioni che devono affrontare, non possono incolpare nessuno: cos’altro ci si può aspettare, infatti, da un programma che s’intitola Tempted? A questo tipo di difficoltà e disagi vanno inoltre aggiunte, sempre e comunque, tutte quelle sollecitazioni artificiali che oramai sono connaturate a questo genere: nomination ed eliminazioni tra tutte. Sono meccanismi irrinunciabili in questo tipo di programmi perché danno shock emozionali aggiuntivi e regolari ai partecipanti, sviluppando al contempo tutta una serie di dinamiche relazionali veramente notevoli. È dunque bene introdurre sempre tali elementi formattizzanti nel proprio progetto, anche se non risultano più particolarmente originali. Alcuni autori, al contrario, non sono molto propensi a farlo, forse perché pensano (a torto) che questi elementi ludici rendano il format finto e poco verosimile, o quantomeno troppo distante dalla vita reale. I meccanismi di questo tipo, infatti, vengono a volte percepiti come qualcosa di incompatibile con l’ideale di un programma televisivo che sia specchio di realtà. Si potrebbe discettare a lungo sull’incompatibilità dei termini «realtà» e «televisivo» (ciò che va in televisione è sempre e comunque, in una certa misura, finto, proprio per il fatto di andare in televisione), ma non è questa la sede per farlo. Basti qui semplicemente sottolineare ancora una volta che questo modo di vedere è frutto di un malinteso senso di verità. Quello che il telespettatore deve percepire come vero e che a lui interessa che sia vero è la reazione dei partecipanti, non i mezzi con cui si arriva a tale reazione. Il fatto che alcune reazioni emotive siano frutto di meccanismi ludici artificiali è largamente accettato, in quanto regola di un gioco che già si conosce ­­­­­131

e si apprezza da tempo. Rinunciare a questo tipo di supporto compromette in modo serio la tenuta del format, specie sul lungo periodo, senza peraltro apportare alcun vantaggio significativo. Ma negli psycho drama game non ci sono solo le reazioni emotive a comando dei concorrenti. Gli psycho drama game sono anche, e forse soprattutto, dei fantastici generatori di storie. Storie che non hanno bisogno di alcun retroterra, né di alcuna informazione preliminare. Perché nascono nel corso del programma, in vitro, sotto gli occhi dei telespettatori, che ne possono seguire tutta la genesi e lo sviluppo, dai primi indizi sino alle estreme conclusioni (positive o negative). E la cosa bella è proprio questa: i telespettatori fruiscono della storia proprio nel momento esatto in cui accade, sono e si sentono testimoni di un evento in diretta, piccolo o grande che sia. È dunque fondamentale fare in modo che ci siano le condizioni perché queste storie si possano verificare e che si verifichino con frequenza e regolarità, in modo da impreziosire tutte le puntate della serie con almeno uno snodo narrativo (ma spesso molti di più) particolarmente succoso e significativo. Com’è intuibile, è soprattutto una corretta attività di casting a rendere possibile un risultato del genere. Selezionare i personaggi giusti, che abbiano dentro di sé (magari anche a livello latente) le potenzialità per sprigionare dinamiche umane interessanti, è la condizione necessaria (anche se non sufficiente) per dare vita a un tessuto relazionale in grado di garantire una tenuta narrativa efficace e continua. I personaggi vanno dunque scelti sulla base e in funzione di una sorta di plot invisibile studiato talvolta a tavolino dagli autori; ma bisogna avere anche l’intelligenza e la sensibilità di apportare modifiche a tale plot se ci si imbatte in personaggi singolari, dotati d’una certa interessante particolarità, che conviene valorizzare in qualche modo. Sono dunque le storie a far scegliere i personaggi giusti, ma a volte sono anche i personaggi a determinare storie nuove, in un intreccio bizzarro che è frutto in parte di un disegno preciso, in parte del semplice caso e delle occasioni che capitano all’interno del programma in modo del tutto inaspettato. I personaggi devono però anche essere favoriti e incentivati con situazioni e stimoli adeguati. Ed ecco che vengono ancora una volta in aiuto le pressioni psicologiche, le dure condizioni di vita e i meccanismi ludici di eliminazione visti sopra. Perché tutti questi elementi, oltre a provocare reazioni emotive immediate, sviluppano in modo ­­­­­132

formidabile le dinamiche umane di ogni segno, positivo e negativo, agendo come una sorta di fertilizzante sociale. Le nomination, il patire la fame e la sete, gli sforzi, le frustrazioni di una prova fallita, la gioia per la vincita di un bene di prima necessità, e via discorrendo, sono infatti tutti acceleratori dei rapporti sociali, spingendo incessantemente i partecipanti a posizioni anche estreme di amicizia, amore e solidarietà, oppure, al contrario, di rivalità, odio, conflittualità, e tante altre sfumature emozionali ancora. In questo modo le potenzialità umane dei partecipanti, accuratamente scelti perché presentano almeno un aspetto particolare e interessante, trovano l’humus necessario a svilupparsi e a deflagrare di continuo, rendendo possibile l’esplosione periodica e costante di «drammi umani» (human drama), che sono il principale ingrediente del tessuto narrativo e il principale motivo di interesse di questo genere di format. 4.2.2. Il factual Sono le storie in presa diretta e senza apparenti distorsioni a caratterizzare maggiormente il variegato e multiforme genere del factual. Occorre però trovare storie, situazioni e personaggi dotati di per sé di una densità emotiva notevole, spingere la vicenda verso direzioni precise per mezzo di una sapiente opera di regia invisibile e valorizzare il tutto attraverso un montaggio espressivamente efficace. Appartengono al gruppo dei factual quei format che sembrano limitarsi a raccontare una o più storie (un’unica storia sviluppata su più puntate, o tante storie diverse dello stesso argomento/situazione/ambiente) senza meccanismi artificiali, snodi sovrastrutturali e parti in studio. Il tratto che maggiormente caratterizza questo genere è pertanto quello della realtà in senso stretto e quasi senza filtri, dal momento che sembra che ci si limiti a osservare e registrare (o, al limite, selezionare) quello che accade, senza condizionamenti esterni troppo evidenti o invasivi. Questa apparente libertà, espressa anche in termini di linguaggio e di stile narrativo, non deve però trarre in inganno. Il fine ultimo di questi format è esattamente quello di tutti gli altri appartenenti a questo gruppo: trasmettere emozioni ai telespettatori attraverso le emozioni fatte provare ai protagonisti della storia. Il fine è insomma quello solito: suscitare il maggior numero possibile di reazioni emotive lavorando a fondo sulle dinamiche psicologiche dei partecipanti. Sono dunque le emozioni e non l’appa­­­­­133

renza di verità a costituire il maggiore motivo di interesse di questo genere (come di altri). La verità, la sensazione di stare guardando uno spaccato di realtà senza filtri imposti, è piuttosto una precondizione di fondo, necessaria ma non sufficiente. Nessuno (o quasi) guarda un factual solo perché racconta vicende reali. Se lo spaccato di realtà che viene presentato è noioso, non ha tensione narrativa, è poco interessante o è anche solo mal confezionato, può essere vero e reale quanto si vuole, ma sarà ignorato e basta. Si guarda un factual perché sa trasmettere emozioni forti, con uno sviluppo narrativo coinvolgente e in una confezione televisivamente efficace e accattivante, con in più la sensazione di star assistendo a qualcosa di vero e genuino, senza troppe distorsioni artificiali. Insisto su questo punto perché è un errore abbastanza comune. Molti aspiranti autori, ma anche gente di provata esperienza, sono convinti invece che per fare un buon factual basti, diciamo così, l’onestà delle intenzioni. Ovvero che sia sufficiente trovare bei personaggi e delle situazioni interessanti per avere un bel prodotto, dato che poi non rimane altro da fare che seguire queste persone e riprendere queste situazioni così come vengono, senza sporcare il tutto con ingerenze di altro genere. Questo modo di pensare deriva appunto dalla convinzione – del tutto erronea – che il factual sia una storia che va avanti da sola, senza spinte esterne, e che basti solo salvaguardare il senso di realtà finale. È uno sbaglio, sempre e comunque: anche i factual (che sono format sui generis, ma sono pur sempre format) non vanno mai avanti da soli. Senza un’abile costruzione autoriale, tesa ad ottenere quel vero e proprio sale dei format che sono le emozioni, non si va da nessuna parte. E questo è un fatto di cui bisogna sempre tenere conto. Stando così le cose, la domanda è ora la seguente: come è possibile ottenere questo risultato facendo a meno dei meccanismi formattizzanti di cui abbiamo parlato in precedenza? Per la loro stessa natura, infatti, nei factual non si possono immergere i personaggi in universi alternativi, non si può ricorrere a rituali oggettivanti fittizi, a shock e ad affondi psicologici costruiti ad hoc, non si può creare la giusta dose di suspense calibrando le entrate a sorpresa in studio, né si possono utilizzare tutte le decine di altre tecniche adatte allo scopo. Tutti questi sono infatti elementi chiaramente sovrastrutturali, ottimi ed efficaci (se ben dosati) in tutti gli altri generi, ma incompatibili con i principi di fondo del factual. ­­­­­134

Le cose da fare, in questo caso, sono tre: 1) la scelta di storie, situazioni e personaggi forti e dotati di per sé di una densità emotiva notevole; 2) il ricorso a un’attenta regia invisibile per rinforzare la storia con picchi emotivi sapientemente calibrati nei momenti opportuni; 3) un attento lavoro di selezione di immagini e l’uso di un montaggio espressivamente efficace. scelta della storia. 

È l’elemento fondamentale, il principale fattore critico di successo. La storia, i personaggi e le situazioni che costituiscono l’oggetto del factual non devono essere solamente interessanti in senso astratto e generico: devono avere in sé tutti gli elementi e tutte le premesse per poter ricavare le reazioni emotive di cui si ha bisogno. Devono essere come una miniera non ancora sfruttata, ma potenzialmente ricca di minerali preziosi allo stato grezzo. La cosa non è per nulla facile. I factual si sviluppano generalmente su un numero anche abbastanza elevato di puntate e trovare tutti gli stimoli di cui si ha bisogno, puntata dopo puntata, non è affatto banale. Per fortuna è ammesso un piccolo aiuto. Se infatti nei factual è escluso il ricorso a universi paralleli troppo artificiali, è però consentito dare alla vicenda una regola o spinta iniziale, una sorta di precondizione che non esisteva prima del format ed è stata quindi creata ad hoc per il format stesso, a partire dalla quale le vicende si sviluppano poi «spontaneamente». La differenza tra questa spinta iniziale (tipica dei factual) e un universo parallelo vero e proprio (tipico dei reality) a volte non è così marcata. Si può dire, giusto per intenderci, che la spinta iniziale si limita a creare una condizione che prima, è vero, non esisteva, ma che però non appare poi tanto inverosimile o astratta, e quindi la sua introduzione non compromette il senso di verità di fondo; gli universi paralleli, invece, sono dichiaratamente una costruzione ludica e alternativa alla realtà vera, rispetto alla quale si pongono programmaticamente in antitesi. È però anche vero che in alcuni casi la linea di confine tra questi due generi è davvero labile. Alcuni universi paralleli sono infatti abbastanza vaghi e generici, mentre, di contro, alcune spinte iniziali sono molto costruite e tutt’altro che invisibili. Per questa ragione si usa spesso, per designare prodotti particolarmente ibridi, la definizione generica di docureality, intendendo appunto un prodotto in cui elementi artificiali e reali sono indissolubilmente intrecciati. ­­­­­135

Ecco alcuni esempi, pescati un po’ a caso dalla straripante moltitudine di factual che circola sul mercato. Nell’inglese Toughest place to be a… alcune persone che svolgono mestieri particolari (un’infermiera, un conduttore di autobus, un paramedico...) si trasferiscono (vengono fatti trasferire) per due settimane in località disagiate dove continuano a esercitare la loro professione, ma in condizioni molto più dure. Per esempio, il paramedico accetta di andare a Città del Guatemala, uno dei posti con il più alto numero di omicidi al giorno. È ovvio che le reazioni emozionali, trovandosi a contatto con una realtà così sconvolgente, nella pratica quotidiana del suo lavoro, che è di per sé particolarmente duro, non possono che essere molteplici ed estremamente forti. E questo risultato è stato ottenuto attraverso uno spostamento spaziale, creato in modo fittizio, ma che non risulta troppo inverosimile o arbitrario (potrebbe esserci stato uno scambio tra i due paesi) e, soprattutto, non altera troppo lo sviluppo successivo del format (il paramedico continua in fin dei conti a esercitare il proprio mestiere, anche se in un diverso contesto), imprimendogli però al contempo un’accelerazione emozionale notevole. In The class of 07, una delle dieci peggiori classi elementari della Svezia viene affidata a un team di ottimi insegnanti (dal punto di vista professionale e umano) che, in un solo semestre, la farà diventare una delle tre migliori in assoluto. In questo caso gli spunti per i picchi emotivi si dividono in due gruppi: da un lato i nuovi insegnanti, che si trovano catapultati in una realtà più dura e difficile di quella a cui erano abituati (le scuole in cui lavoravano prima erano moderne e ben frequentate, molto diverse da quella, degradata e ostile, in cui si sono trasferiti); dall’altro i giovani alunni, che trovano chi crede in loro e si prodiga in tutti i modi per la loro crescita e il loro benessere. Ovviamente entrambe le parti, al termine dell’avventura, avranno imparato l’una dall’altra e si troveranno migliori in tutti i sensi. E tutto questo solo innestando un team di nuovi insegnanti (veri) in una scuola (vera) e osservando poi le conseguenze (vere) che questa spinta iniziale (creata ad hoc ma non inverosimile) comporta. In The prison choir, come dice il titolo, viene istituito un coro maschile dentro le mura di un carcere dei Paesi Baschi, sotto la guida di un insegnante musicale (bravo, anche in questo caso, sia nel suo lavoro sia nei rapporti umani) e di uno psicologo. In questo caso è lo scontro dialettico tra la bellezza dell’arte e le dure condizioni materiali di vita a fornire il principale serbatoio per le reazioni emotive ­­­­­136

necessarie. Un risultato, ancora una volta, ottenuto con una spinta iniziale e l’introduzione di personaggi (il musicista e lo psicologo) estranei, ma coerenti con il contesto di partenza: in fin dei conti un’iniziativa del genere avrebbe potuto essere stata organizzata dalla stessa istituzione carceraria. Di tutt’altro genere il norvegese Babes on the bus: 25 ragazze single fanno una specie di tour dei posti agricoli più isolati del paese. Si fermano nelle varie fattorie che punteggiano il percorso, conoscono i fattori, fanno quello che fanno loro (solo se ne hanno voglia). Quando poi il tour riprende ciascuna di loro decide se fermarsi, perché ha adocchiato qualche giovanotto interessante, oppure rimettersi in viaggio alla ricerca di nuove conoscenze. Ovviamente, in questo caso, la gamma emotiva sarà molto diversa da quella dei casi precedenti, toccando corde come l’eros, la seduzione, l’attrazione, la rivalità, il senso di libertà e via discorrendo. Ma, qui come negli altri esempi, una tale ricchezza emotiva è stata ottenuta ancora una volta introducendo un solo elemento estraneo (la gita delle belle scandinave) che, con discrezione e senza troppi stridori, dà quella spinta iniziale che provoca una serie di reazioni necessarie a dare interesse al format. Si potrebbe continuare ancora a lungo, ma penso che il modo di procedere sia chiaro. Si prende una situazione di partenza e/o dei personaggi carichi di interesse almeno a livello potenziale (gente abituata a lavorare in contesti difficili, una classe di alunni disagiati, dei carcerati, un gruppo di single in cerca di marito...) e si introduce un elemento di disequilibrio, una sorta di turbativa che metta in moto tutta una serie di dinamiche in attesa di esplodere (e quindi sentite in un certo senso come naturali), ma che senza quella spinta non sarebbero mai esplose, perlomeno non nei tempi e nelle modalità volute. Naturalmente, in tutti gli altri sottogeneri dei factual diversi dalle classiche docusoap, ovverosia gli swap, i coaching, i Do It Yourself, i service-taitment e i make-over, questa spinta iniziale è insita nel genere stesso ed è quindi data per sottintesa. Scambiare qualcosa con qualcuno, migliorare sé stessi o migliorarsi in un qualche campo, e così via, sono tutti fattori che agiscono appunto come turbativa e spinta propulsiva, mettendo in moto la situazione di stasi iniziale e provocando le dinamiche umane che servono a dare interesse al format. regia invisibile.  Un factual non utilizza mai meccanismi formattizzanti troppo evidenti, che comprometterebbero il senso di verità

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che si vuole trasmettere. Ciò non vuol dire, però, che tali meccanismi non ci siano. Solo, sono più nascosti, camuffati nell’azione stessa. Sono tecniche di tipo narrativo e registico, non meccanismi di tipo sovrastrutturale e artificiale, ma il fine ultimo è il medesimo. In poche parole, lo scopo finale è quello di ottenere, per una pezzatura classica di circa 25 minuti, almeno un paio di picchi emotivi di particolare pregnanza e/o punti di svolta capaci di imprimere all’azione un’accelerazione importante. Per la pezzatura di 45-48 minuti circa, ne occorrono il doppio esatto o poco meno. Un compito non facile, non potendo disporre né di meccanismi precisi tipici dell’intrattenimento, né di sceneggiature puntuali tipiche della fiction. Per ottenere questo risultato, assolutamente indispensabile per la tenuta complessiva del format, si fa ricorso a due metodi. Il primo è poter disporre di una quantità di girato veramente notevole. Il che vuol dire seguire il o i protagonisti del factual per moltissimo tempo, registrando porzioni molto prolungate della loro avventura umana. In questo modo è, diciamo così, statisticamente probabile che accadano, prima o poi, cose meritevoli di andare in onda che, valorizzate attraverso un montaggio appropriato, permettono di ottenere puntate sempre interessanti. Si tratta però di un modo di operare oneroso. Tenere attiva una troupe, anche leggera, per un periodo prolungato di tempo, pagando tutte le trasferte e quant’altro – per non parlare delle spese del girato e del montaggio successivo, lungo e faticoso –, non è una cosa da poco. E spesso non ci sono le risorse economiche per poterlo fare. Ed ecco che si ricorre allora al secondo metodo, quello della regia invisibile. Non si tratta, è bene metterlo in chiaro, di falsificare la realtà delle cose. Infatti imporre dei copioni ai protagonisti dei factual rovinerebbe quasi sicuramente il senso di verità, che invece deve essere preservato a ogni costo. Le persone (salvo rarissime eccezioni) non sanno recitare e chiedere loro di farlo porterebbe a un risultato davvero misero. Si tratta, diciamo così, di indirizzarle. Ovvero di fare in modo che alcune cose, che accadrebbero comunque prima o poi, accadano prima, anziché poi. È un discorso molto delicato, difficile da sintetizzare in poche righe. Basti qui solo accennare che, ancora una volta, è quella spinta iniziale, quell’elemento esterno al quadro di partenza, che può venire in soccorso. Per esempio, i nuovi insegnanti di The class of 07 possono imporre un test a sorpresa: e questo scatenerebbe ovviamente alcune reazioni significative. Oppure, senza ­­­­­138

ricorrere agli artificiali meccanismi di eliminazione, nel coro del carcere ci potrebbero essere dei ricambi di coristi più o meno imposti, e così via. Tutte cose coerenti con il contesto e perfettamente naturali e logiche, data la situazione (in una classe si fanno normalmente test e in tutti i cori ci sono elementi che vengono rimpiazzati). Ma, se sono fatte bene e vengono ben raccontate, sono importantissime per puntellare la storia di quei picchi narrativi indispensabili per la tenuta della storia stessa e per dare sempre nuovi motivi per spingere il telespettatore a continuare a seguirla, puntata dopo puntata. montaggio espressivo.  Il

montaggio è ovviamente un elemento fondamentale in tutti i generi dell’intrattenimento, e anzi in tutti i prodotti audiovisivi. È un argomento estremamente complesso, che meriterebbe una trattazione a sé, da parte di chi ha competenze specifiche del tema. Mi limiterò a farne un breve cenno solo a proposito dei factual, perché in questa tipologia di programmi ha un’importanza e un significato particolari: serve infatti a costruire letteralmente il racconto (che, di per sé, per forza di cose, è sfilacciato e discontinuo) e a imprimergli in un certo senso il sigillo della verità. La prima funzione è facile da spiegare. Il factual non si svolge in studio, ma segue i protagonisti nel loro ambiente naturale: il posto dove abitano, lavorano, passano il loro tempo libero. Quando poi si passa in fase di post-produzione, si fa un’attenta cernita delle parti più interessanti e più utili alla costruzione della storia che si vuole raccontare. Per far questo si selezionano segmenti di girato in genere abbastanza brevi, e a volte anche brevissimi. Nella fase di montaggio vero e proprio tutto deve quindi incastrarsi al posto giusto, come in un puzzle, in modo da dare una sensazione di unità (una storia unica), là dove prima c’era molteplicità e frammentarietà. In un certo senso il montaggio, nei factual, fa le veci dei meccanismi e degli snodi formattizzanti visti sopra. Nei reality (e non solo), infatti, sono tali meccanismi e snodi a portare avanti l’azione, ingabbiandola e incanalandola in una certa direzione. Nei factual, invece, dove tali meccanismi non ci sono, è appunto il montaggio a svolgere questa funzione, dando al format una direzione e uno sviluppo precisi, chiari e lineari. Ricorrendo a una metafora zoologica, si può dire che i factual sono format senza spina dorsale (i meccanismi formattizzanti) e quindi, per stare insieme, hanno bisogno di una corazza o guscio esterno (il montaggio) che dia loro una forma e un’identità precise e identificabili. ­­­­­139

Ma il montaggio svolge anche un’altra funzione: quella di confermare l’autenticità di tutto ciò che viene raccontato. Il factual, per essere considerato vero, deve dare l’impressione di essere registrato in presa diretta, senza artifici né filtri particolari, da telecamere invisibili (sia al telespettatore sia ai protagonisti del format) che non influiscono minimamente sull’azione e su tutto quanto sta accadendo. La cosa può essere vera fino a un certo punto, ovviamente. Per questa ragione il telespettatore va costantemente rassicurato sull’autenticità della storia raccontata, e tale risultato si ottiene, appunto, con un particolare tipo di montaggio, che deve essere sempre un po’ sporco. Montaggi troppo puliti e rifiniti danno infatti l’idea di un prodotto costruito e artificiale: in due parole, non vero. Al contrario, un montaggio apparentemente (ma solo apparentemente) poco curato e magari anche un po’ naïf, oltre a risultare particolarmente espressivo e adatto a certi argomenti e tematiche, suggerisce la vicinanza con la cronaca e, quindi, con la verità. Che la cosa non sia poi vera è un altro discorso... 4.2.3. Il talent Oltre alle dinamiche comuni agli altri reality, i talent hanno come ulteriore motivo di interesse le performance dei partecipanti (se utilizzate bene) e una maggiore concentrazione di conflitti psicologici legati alla speranza di raggiungere il proprio sogno, o al timore di vederlo infrangere. Fondamentale a tale proposito è lo scontro dialettico con la giuria, che deve sempre avere una forte centralità. Il genere dei talent propriamente detto nasce in Australia nel 2001 con il capostipite Popstars. Il fine era quello di trovare la band di successo del futuro attraverso un percorso molto ben scandito: selezione dei partecipanti, formazione dei finalisti, incisione di un disco e documentazione della loro scalata verso il successo. In questo primo esperimento il modello adottato è abbastanza diverso da quello che avrà più successo in seguito. Tutta la struttura a imbuto, ovvero la fase di selezione con conseguenti eliminazioni progressive, occupa solo la prima parte, mentre tutta la seconda parte, ben più lunga, è più simile a una docusoap: si assiste in presa diretta al percorso di formazione dei componenti del gruppo, che da inesperti e sconosciuti (anche se talentuosi) diventano sempre più affiatati e professionali, e alla loro affermazione artistica. Tipico delle docu è ­­­­­140

infatti il racconto senza filtri e senza apparenti meccanismi formattizzanti, eccezione fatta per la straordinaria spinta iniziale, che è poi la possibilità data a un gruppo di giovani cantanti di diventare un affermato gruppo pop. Il modello che si affermerà maggiormente nei format successivi (e che è in voga anche oggi) è invece un po’ diverso. Anche se in genere c’è quasi sempre una forte scrematura iniziale, indispensabile per ridurre le migliaia di aspiranti partecipanti a un numero molto più ristretto, il processo eliminatorio (con eventuali ripescaggi) e la conseguente struttura a imbuto continuano per tutta la durata del programma, dando una scansione e una direzione precisa molto forte puntata dopo puntata, fino all’incoronazione del vincitore assoluto. Si abbandona dunque la «metodologia factual», priva di snodi e strutture artificiali, a favore di una spiccata meccanicizzazione, in modo che ogni puntata sia scandita da una serie di eliminazioni rituali. La ragione di questo spostamento è semplice: un’eliminazione (e, di contro, un salvataggio) nei talent ha un peso emotivo specifico molto maggiore rispetto a un normale reality. Un conto è infatti essere eliminati attraverso il televoto o dai propri stessi compagni sulla base della semplice simpatia o antipatia personale; un conto è invece subire l’onta dell’eliminazione da parte di giudici ai quali si riconosce competenza e autorevolezza, sulla base di un giudizio negativo molto preciso sul proprio talento. Un conto è uscire di scena da un reality, rinunciando a un premio finale e a un po’ di visibilità in più; un conto è invece uscire da un programma che promette al vincitore di veder coronato il sogno della propria vita, nel campo in cui i protagonisti hanno riposto tutta la loro passione e le loro speranze. Un conto, infine, è perdere (la gara e la faccia) di fronte ad avversari che, rispetto all’eliminato, hanno avuto soltanto il merito di essere stati un po’ più empatici e un po’ più furbi (o più falsi, a seconda delle interpretazioni); un conto è perdere in uno scontro frontale e diretto su un terreno specifico, ammettendo così di essere stati meno bravi, meno talentuosi e meno meritevoli degli avversari. Insomma, i talent show, in virtù della materia su cui lavorano (i sogni, la speranza di successo, il talento personale), offrono una ricchissima potenzialità emozionale, che può essere «spremuta» in modo relativamente semplice: dando la possibilità, puntata dopo puntata, ad alcuni protagonisti del format di continuare la corsa verso la vittoria e negandola agli altri. Questo meccanismo, oltre ­­­­­141

a essere dannatamente efficace, presenta il vantaggio di apparire sostanzialmente corretto (fair), anche se crudele: solo pochissimi possono raggiungere il successo nella vita ed è quindi giusto che ci sia una selezione naturale che faccia emergere solo i migliori. Dunque i talent sono delle straordinarie macchine per provocare shock emotivi di straordinaria efficacia e di segno opposto (gioia per aver passato il turno, disperazione per non avercela fatta), tutte le volte che serve e nel momento in cui serve. Ed è per questa ragione che continuano a essere uno dei generi d’intrattenimento di maggiore successo al mondo. La conseguenza di tutto ciò, per quanto riguarda la progettazione (e la successiva fase di produzione), è molto semplice: l’arte o la disciplina oggetto del format – e le performance relative – devono costitui­ re il mezzo e non il fine del format stesso; il fine ultimo, più profondo e importante, rimane il solito: le reazioni emotive dei partecipanti che, nel caso specifico dei talent, scaturiscono come conseguenza dell’esito delle loro esibizioni. È questo un punto di importanza fondamentale, che merita di essere ribadito. Le performance, se ben utilizzate, costituiscono senz’altro un elemento di forza. Ma, da sole, non bastano. Se si punta tutto su questo aspetto, il format è destinato a fallire, per quanto belle e spettacolari esse possano essere. In molti casi, anche recenti, si è caduti invece proprio in questo errore. Alcuni programmi hanno concentrato tutto l’interesse sulla disciplina oggetto del talent, ritenendo che le prove e le esibizioni dei partecipanti in quel campo fossero sufficienti a suscitare e trattenere l’attenzione dei telespettatori per tutta la durata della serie. In pratica questi programmi si basavano sulla semplice giustapposizione delle diverse esibizioni: le eliminazioni, quando c’erano (in alcuni casi sono state sostituite da formule più soft), sono state di fatto relegate a margine del programma, come se ci si vergognasse della loro presenza e fossero soltanto un male necessario, un mezzo un po’ rozzo e tutto sommato disdicevole per mandare avanti il format. Questo modo di pensare è un grave errore, appunto. Il processo di eliminazione, se ben valorizzato, ha una straordinaria carica emotiva ed è un propellente eccezionale: rinunciarvi o sminuirlo è semplicemente senza senso. D’altro canto le performance che i partecipanti devono periodicamente eseguire, se usate e dosate con intelligenza, sono senz’altro un valore in più. Bisogna però fare almeno una distinzione preliminare, un po’ sommaria ma didatticamente utile, tra le discipline che ­­­­­142

possiamo definire artistiche (canto e ballo in particolare) e tutte le altre. Per quanto riguarda il primo gruppo, gli elementi spettacolari sono per così dire naturali (anche se occorre valorizzarli al meglio, cosa tutt’altro che semplice) e il rischio da evitare è proprio quello di sovrastimare la loro importanza. I personaggi selezionati, per quanto bravi e talentuosi possano essere, soprattutto nelle puntate iniziali non sono ancora conosciuti al pubblico; in più sono tanti, e costituiscono quindi un insieme ancora abbastanza indistinto. Bisogna perciò lavorare sul ritmo, con esibizioni brevi (un minuto e mezzo l’una, due al massimo) e il più possibile caratterizzate, così da far risaltare la personalità dell’interprete. E bisogna soprattutto lasciare spazio ai momenti emozionalmente più intensi: confronto/scontro con i membri della giuria e tra i protagonisti stessi; incontri (diretti o a distanza) con amici, genitori, e persone care in genere; sfoghi, confessioni, scambi dialettici con il presentatore; riflessioni intime su di sé, sulle proprie motivazioni profonde, il proprio talento, i propri sogni, la voglia di vincere, il timore di non farcela e così via. Per quanto riguarda invece il secondo gruppo di discipline, il discorso è un po’ diverso. Come abbiamo già detto, sono stati fatti talent show in ogni campo artistico, professionale e sportivo. E, in tutti questi casi, le performance devono essere trattate con grande perizia. Se infatti risulta spesso addirittura poco interessante l’interpretazione di una bella canzone o di un intrigante ballo da parte di sconosciuti, a maggior ragione le prove legate a un campo meno artistico, se lasciate così come sono, senza alcun tipo di guizzo creativo, possono diventare mortalmente noiose. Il trucco è lavorare sull’effetto sorpresa, rendendo una prova scontata (perché riproduce fedelmente l’attività oggetto del talent) qualcosa di speciale e, appunto, sorprendente. Ecco dunque – per fare solo qualche esempio – che in una ricetta di cucina classica compaiono ingredienti molto particolari e spiazzanti (alghe, fieno, spezie mai viste...) che gli aspiranti cuochi devono cercare di inserire nel miglior modo possibile nel loro piatto; oppure l’obbligo di cucinare in location molto particolari e sovente disagevoli, cercando di accontentare clienti molto esigenti e dai gusti molto particolari. Gli shooting a cui si sottopongono le aspiranti modelle si possono svolgere in condizioni estreme (posare seminude quando fuori fa freddissimo, o insieme ad animali feroci, addomesticati ma pur sempre inquietanti), in modo da rendere un normale servizio fotografico un’esperienza unica e bizzarra. Le pro­­­­­143

ve di business che i giovani uomini d’affari in erba devono superare avvengono in mezzo alla strada, cercando di convincere gente inconsapevole a comprare o fare qualcosa di particolare, mescolando quindi la prova vera e propria a un divertente «effetto candid». E a tutto questo (e a molto altro ancora) va aggiunta la possibilità di introdurre «super-ospiti», cioè divi e celebrità del campo oggetto del talent, che intervengono per una o più puntate con funzioni diverse: concorrenti tra i concorrenti; tutor o allenatori; giudici e/o antagonisti (ma sempre a fin di bene); e così via. C’è infine un ultimo aspetto, caratteristico di questa sola tipologia di format: la presenza di una giuria. Esattamente come i meccanismi di eliminazione, considerare e trattare la giuria come un semplice dato di fatto, un puro elemento tecnico per mandare avanti il format, è un grave errore e un grande spreco. La giuria, al contrario, è uno degli elementi principali di tutti i talent, e la sua funzione è molteplice e stratificata, assommando su di sé una serie di valenze sorprendenti. Anzitutto la giuria ha una funzione, appunto, giudicante: deve infatti prendere la decisione fondamentale su chi può continuare il percorso e chi invece non è meritevole di andare avanti. La giuria assiste quindi alle varie esibizioni, esprime i propri pareri in base a ciò che ha visto e sentito, ed emette infine il proprio giudizio, positivo e negativo. Non è necessario e neppure utile che i giurati vadano sempre d’accordo: una decisione sofferta e contrastata è anzi televisivamente più efficace di una decisione semplice e plebiscitaria. È però importante che i giudizi sembrino il più possibile giusti ed equi; magari duri, ma sempre e comunque dati in buona fede. Ma la giuria ha anche la funzione di acceleratore delle reazioni emotive dei concorrenti. Essendo i partecipanti dei talent in una situazione psicologica particolarmente esposta, dato che in gioco c’è il loro futuro, i loro sogni, le loro aspirazioni, sono naturalmente molto soggetti a reazioni emotive più accentuate rispetto a quanto può avvenire in programmi di altro tipo. E il ruolo dei giudici è appunto quello di favorire e scatenare questo tipo di reazioni, nel modo più conveniente possibile ai fini del programma. I giudici, da questo punto di vista, devono quindi essere simili a divinità un po’ capricciose e imprevedibili, di cui bisogna avere sempre un po’ di timore reverenziale. Possono infatti essere comprensivi e amichevoli, ma, di fronte a una prova non perfetta, o comunque di fronte a qualcosa che non va loro ­­­­­144

a genio, mutano atteggiamento di colpo, esprimono giudizi terribili, hanno scoppi d’ira improvvisi. Insomma, per quanto affabili possano sembrare a prima vista, non devono mai essere totalmente tranquillizzanti e devono sempre tenere i concorrenti sulle spine, perché non sanno mai cosa si possono aspettare da loro. Lo chef Gordon Ramsey (Hell’s kitchen), il discografico Simon Cowell (The X factor) e altri ancora devono la loro fortuna proprio al loro carattere duro e difficile, unito però a un indiscusso talento nel loro campo. Comunque, anche senza arrivare a tali estremi, è indispensabile che uno o più membri della giuria svolgano questo compito essenziale di dare scosse emotive ai concorrenti, per stimolare la loro reazioni. Giurie troppo morbide e condiscendenti, che non finiscono più di scusarsi quando devono eliminare qualcuno, non funzionano. Le eliminazioni o i giudizi negativi, per quanto giusti e meritati, devono anche essere duri e drammatici, in modo da scuotere il destinatario il più profondamente possibile. Un conto infatti è bocciare il piatto di un aspirante cuoco dicendo molto pacatamente che c’è qualcosa che non va, un conto è buttarlo platealmente nel bidone dell’immondizia di fronte agli occhi allibiti del povero concorrente, affermando che non lo mangerebbe neppure un cane (esempio tratto dall’edizione italiana di Masterchef). Oltre a tutto ciò, una giuria così dura e al limite anche capricciosa spinge il telespettatore da casa a schierarsi più apertamente con i concorrenti del programma, identificandosi ancora di più con loro. Dunque da un lato i partecipanti, in virtù di questa durezza, hanno reazioni emotive molto pronunciate, in senso positivo o negativo; dall’altro lato i telespettatori da casa subiscono maggiormente tali sollecitazioni emotive, poiché sono più coinvolti nel loro dramma. Ma una buona giuria ha anche una terza funzione: può costituire un valore, e avere interesse, in sé. Se infatti i suoi membri sono (come dovrebbero essere) autorevoli nel proprio campo, abbastanza famosi, carismatici e con un carattere particolare, possono sviluppare dinamiche interne di un certo interesse. Anche in questo caso è tutta questione di misura. È chiaro che i concorrenti devono rimanere sempre al centro del format. È di loro che si parla, è loro la storia che si racconta, loro sono i sogni, è il loro futuro a essere in gioco. È giusto quindi che la giuria sia al loro servizio, sviluppando la loro storia e ampliando le loro emozioni. Però, senza perdere di vista questo obiettivo primario, la giuria può fornire una sorta di linea narrativa secondaria, parallela, anche se intrecciata, a quella primaria, ­­­­­145

che è quella dei protagonisti principali. Tra i giurati possono infatti scattare dinamiche di amicizia, rivalità, tensione, simpatia, antipatia, alleanze, complotti, scontri aperti e via discorrendo. Come è risaputo, è il format The X factor ad avere formattizzato per primo esplicitamente questo concetto. I giudici, infatti, dopo una prima fase in cui sono tutti dalla stessa parte per scegliere i candidati più talentuosi tra le migliaia che sfilano sotto i loro occhi, diventano apertamente rivali. A ciascuno di loro viene assegnata una categoria di cantanti (maschi, femmine, gruppi...), che essi devono cercare di tutelare in tutti i modi, così da arrivare in finale con uno dei propri protetti. I giurati sono quindi dei secondi concorrenti, dal momento che alla vincita di un concorrente vero corrisponde la vincita del giurato suo tutor. Stando così le cose, è perfettamente logico che anche tra i giurati si sviluppino dinamiche di rivalità (o di alleanze sotterranee) molto forti; ed è altresì perfettamente comprensibile per il pubblico a casa che si abbiano scontri anche molto accesi. Tutto questo infatti non risulta per niente forzato, poiché ha una giustificazione formale precisa e codificata. Ma anche quando tale funzione della giuria non è compresa in modo così esplicito nel regolamento della gara, è bene che una certa dialettica tra i membri ci sia sempre, così da costruire una sorta di discreto «controcanto» all’avventura umana principale. Insomma, facendo sempre molta attenzione a non far degenerare questo tipo di rapporti, trasformandoli in una sorta di fastidioso «teatrino», ci sta, per esempio, che due giurati si becchino spesso tra loro facendo diventare i loro alterchi un Leitmotiv del programma; o che un giurato assuma su di sé la parte del cattivo o comunque del bastian contrario, risultando in contrasto con gli altri membri che la pensano quasi sempre in un altro modo; o ancora che possano esplodere liti improvvise tra due o più giurati, per poi ricomporsi poco dopo; e così via. In conclusione, il ruolo della giuria nei format di talent è fondamentale e insostituibile (anche se può assumere varie forme). E quando si lavora bene su tale ruolo, il talent stesso ha quasi sempre un grande successo, anche se non presenta novità di formato particolarmente significative. I giurati, in questo caso, rappresentano la cifra stilistica più forte del programma, diventando anche, a volte, delle vere e proprie star. I concorrenti infatti passano, cambiano edizione dopo edizione, ma i giurati restano (almeno alcuni di loro), e costituiscono il vero filo rosso tra una serie e l’altra. ­­­­­146

Capitolo 5

Informazione e show

5.1. L’asse della non-formattizzazione Delle quattro aree di contenuto, le due più a destra nel quadrato (informazione e show) costituiscono l’asse che si può definire della nonformattizzazione, in quanto presentano un grado di formattizzazione basso o addirittura nullo e, per questa ragione, possono essere trattate solo di sfuggita in questo libro, incentrato sui format in senso stretto. Per capire meglio le ragioni di tale definizione, occorre anzitutto tornare sul concetto di format, facendo una distinzione quanto più chiara possibile tra elementi di formato ed elementi non di formato. Del primo gruppo (che possiamo definire per motivi didattici la «parte fissa») fanno parte tutti gli elementi di un format che si ripetono di puntata in puntata; che sono consustanziali e immanenti al format stesso e non possono quindi essere cambiati, pena lo stravolgimento dell’essenza del programma; che possono essere esportabili e fanno quindi parte del pacchetto che viene venduto con i diritti del format; che costituiscono, infine, la cifra e l’essenza profonda di ogni format degno di questo nome. Il secondo gruppo (che può essere definito la «parte variabile») comprende invece tutti quegli elementi più di superficie che cambiano di puntata in puntata e che non possono essere esportati da un paese all’altro, perché fanno parte di un «qui ed ora», si basano su un personaggio locale, su un evento particolare, su un contenuto informativo, o su una performance specifica. Il primo gruppo comprende soprattutto lo schema base che, se è valido, dà valore economico all’intero progetto. Però vi rientrano anche alcuni snodi di meccanismo, sottolineati in termini visivi e registici (rituali), alcuni elementi scenografici (specie se legati a momenti vivi ­­­­­147

del percorso e non a semplici finalità estetiche), grafici e audio (sigla e jingle, tappeti musicali che caratterizzano e sottolineano alcuni momenti significativi), alcuni software e supporti informatici di vario tipo e, naturalmente, il titolo e il suo logo distintivo. Tutto questo fa parte del cosiddetto format package e serve a rendere più fisico, plastico ed espressivamente evidente lo schema base nudo e crudo. È un po’ come se lo schema base fosse il motore della vettura da vendere e tutto il resto la carrozzeria o addirittura gli optional in omaggio. Il secondo gruppo comprende invece tutta la componente umana (presentatore, concorrenti, ospiti, performer...), che non può quasi mai venire esportata da un paese all’altro, tutto ciò che viene scritto solo ed esclusivamente per una singola puntata e quindi muore con essa (copione, domande...), i contributi audiovisivi d’acquisto o realizzati appositamente per un episodio, e poco altro. Ci sono numerose eccezioni a questo schema, che non è così rigido come può sembrare a prima vista. L’intero intrattenimento, del resto, è una continua eccezione e non c’è una sola regola che non trovi almeno una smentita in un qualche format sparso sulla terra. Per esempio, nel caso di alcuni format di argomento specialistico (la medicina, il paranormale...) vengono forniti nel format package anche alcuni contributi audiovisivi, o dei set di argomenti già preconfezionati, e perfino degli esperti in carne e ossa. Nei game a volte vengono forniti set di domande o di prove già pronte. Nel quiz inglese The weakest link è diventata addirittura elemento di format la presentatrice stessa, la giornalista Ann Robinson, che ha indissolubilmente legato il suo stile – talmente algido e indisponente da farla soprannominare Iced Queen – al format stesso. E, in quanto elemento di formato, è stata ingaggiata per condurre la versione americana, caso più unico che raro nella storia della conduzione televisiva, mentre per la versione australiana è stata addirittura creata una vera e propria sosia. Ma queste sono appunto eccezioni, che non intaccano il concetto di fondo. Possiamo quindi dire che siamo in presenza di un format, o meglio di un programma con un grado di formattabilità medio-alto, se gli elementi della «parte fissa» hanno una certa consistenza, importanza e valenza in sé. Non siamo invece in presenza di un format vero e proprio, o meglio siamo in presenza di un programma con grado di formattabilità bassa o nulla (e quindi di un generico programma), quando gli elementi della «parte variabile» sono l’aspetto ­­­­­148

predominante e i principali fattori critici di successo del programma stesso. In quest’ultimo caso, infatti, appare evidente che ci sia poco da vendere a un broadcaster o a una casa di produzione estera, dato che il format package di questi prodotti si riduce a ben poco. Stando così le cose, è abbastanza facile capire come i programmi di informazione e di show rientrino nella maggior parte dei casi in questo secondo gruppo. Nei programmi di informazione, infatti, i principali fattori critici di successo sono appunto il contenuto informativo predisposto per ogni singola puntata e/o le persone fisiche ospiti del programma. Nei programmi basati sullo show, invece, gli elementi di gran lunga più importanti sono gli artisti, e quindi l’elemento umano in genere. Tutte cose che rientrano nella «parte variabile», non esportabile. Va sottolineato che non c’è un modello migliore di un altro in senso assoluto. Format puri e programmi generici convivono fianco a fianco ed è giusto che sia così. Ogni prodotto televisivo va giudicato in sé, ovvero se è fatto bene o male, sulla base dei parametri che lo caratterizzano maggiormente, e non in base alle categorie d’appartenenza. La differenza sta nel fatto che ha poco senso parlare di schema base (e quindi delle tematiche strettamente legate al concetto di format) nei programmi che hanno la loro ragion d’essere soprattutto nei contenuti informativi e performativi. Uno schema base c’è, per forza di cose, anche in programmi di questo tipo. Però ha un valore e un’importanza trascurabili: nella maggioranza dei casi, infatti, tale schema, oltre a non essere particolarmente distintivo, non è quasi mai nemmeno originale, né è tenuto ad esserlo. Dunque non ha valore economico in sé: è difficile pensare di trovare un acquirente disposto a sborsare dei soldi per acquisire i diritti di un concept generico, ripetitivo e privo di qualunque originalità, già presente in centinaia di programmi dello stesso tipo. È proprio per queste considerazioni che reputo fuorvianti espressioni come «format del programma» riferite a prodotti televisivi relativi a queste due aree di contenuto. Il fatto che un talk di tipo tradizionale abbia quattro ospiti anziché cinque o tre, che abbia il pubblico di un certo tipo disposto in una determinata maniera, che faccia uso di filmati particolari, che in scaletta avvenga una certa cosa prima di un’altra e che il presentatore adotti uno stile di conduzione più morbido o più aggressivo non rende questi programmi format, e neppure rende i loro schemi base sostanzialmente diversi gli uni ­­­­­149

dagli altri. Con questo non voglio affatto dire che non siano scelte delicate o importanti. È giusto e corretto che il presentatore e gli autori modellino il programma sulle caratteristiche del conduttore stesso o sulla base della propria sensibilità. Dico però che si tratta di decisioni che riguardano sempre la «parte variabile», ed è quindi scorretto parlare di format, che è invece un termine che si riferisce solo alla «parte fissa». Capisco che usare la parola «format» dia più soddisfazione e faccia un altro effetto rispetto a parole più comuni e banali. Però chiamare format un qualcosa che non lo è contribuisce a creare ancora più confusione in un campo che, vuoi per la sua intrinseca complessità, vuoi per mancanza di studi e linee guida comunemente accettate, è già abbastanza confuso di suo. Ad ogni modo, anche se questi programmi nella maggioranza dei casi non possono essere considerati format nel senso tecnico del termine, è interessante notare che molte delle regole generali che abbiamo esposto in precedenza valgono anche in questi campi. Non c’è nulla di strano: si tratta di regole di buon senso, che servono a evitare errori comuni e che conservano la loro validità anche in caso di programmi generici, con uno schema base poco originale e standardizzato. La presenza di un’idea unica attorno a cui gira il format, un fil rouge caratterizzante, anche se leggero e appena accennato, giova infatti anche ai programmi con basso grado di formattizzazione, se non altro perché permette di evitare le costruzioni «ad accumulo», che nuocciono sempre e comunque. Stessa cosa si può dire per le regole della semplicità, di puntare su ciò che conta davvero, della promessa da rispettare e della verità di fondo. Anche la regola del quid in più rimane valida, con però alcune precisazioni. In linea di massima, infatti, ogni programma, per essere scelto nel complesso e competitivo scenario multipiattaforma, deve contenere al suo interno un qualcosa di particolare e, nel suo piccolo, di eccezionale. Occorre quindi che in ogni puntata ci sia almeno una sorpresa, degli elementi in grado di suscitare un certo interesse immediato, un qualcosa di non totalmente standardizzato e prevedibile – una notizia di particolare rilievo, un ospite non banale; un qualcosa, insomma, che spicchi e che si faccia notare in qualche modo, costringendo il telespettatore a concedere al prodotto che sta vedendo un po’ della sua preziosa attenzione. Ed è proprio a questo proposito che si può notare in modo evidente la differenza tra i format e i non-format. Il quid del format è (soprattutto) ­­­­­150

relativo alla sua «parte fissa», ovvero allo schema base profondo e immutabile. Se dunque si trova un buon quid di partenza, questo aspetto di differenziazione e di novità varrà per tutta la durata del format, senza doversi (quasi) inventare altro. Viceversa, i quid dei non-format sono relativi sempre e soltanto alla «parte variabile» del programma e devono quindi essere continuamente rinnovati. Bisogna trovare ospiti interessanti, notizie rilevanti, performance particolari ecc. in tutte le puntate del programma, e se in una di queste puntate non si raggiunge il livello di quelle precedenti gli ascolti potrebbero calare in modo anche drastico. È vero dunque che il format non è affatto migliore, in sé, di un programma generico. È però anche vero che i format sono più efficienti (non più efficaci) dei programmi generici. I programmi non formattizzati devono conquistare l’attenzione dei telespettatori e reinventarsi a ogni puntata; nei format, invece, se si azzeccano la formula e il concept di base si può quasi vivere di rendita per l’intera serie (sto estremizzando: è chiaro che anche le singole puntate dei format vanno costruite con perizia e fatica; è vero però che non bisogna costruire ogni puntata della serie come se fosse la prima, cosa che invece avviene, più o meno, nei programmi di bassa o nulla formattabilità). Sul concetto di sviluppo, invece, si può essere più flessibili. Lo sviluppo è tipico dei programmi che hanno un motore interno, che è appunto l’idea nucleo del format. Ottimi programmi di intrattenimento non formattizzati possono permettersi di fare a meno di questo motore, rinunciando quindi dichiaratamente a un impianto di tipo narrativo. Per esempio, uno show comico con artisti che svolgono alla perfezione il loro mestiere di far ridere non ha bisogno di svilupparsi e procedere per ottenere validi risultati d’ascolto. È però anche vero che in alcuni casi, specie nei programmi d’informazione, non nuoce avere una conclusione chiara e sanzionatrice, anche se non c’è stato un vero e proprio sviluppo narrativo: avere un finale forte degno di questo nome non fa mai male. 5.2. I format di risata e i format di parola Anche all’interno di queste due aree di contenuto si possono trovare dei veri format; non tantissimi, ma alcuni sì. Programmi cioè a contenuto prevalentemente artistico e informativo in cui la «parte fissa», e lo schema base in particolare, sono sufficientemente sviluppati e ­­­­­151

originali. Si tratta di due gruppi di prodotti abbastanza omogenei, che si possono racchiudere nelle generiche definizioni di «format di risata» e «format di parola». 5.2.1. I format di risata Nell’area di contenuto dello show i programmi più formattizzati sono quelli comici. Le formattizzazioni seguono prevalentemente due filoni, che possiamo definire «sketch con ostacoli» e «candid strutturate». In entrambi i casi è fondamentale che la vis comica non sia indebolita dalla struttura e dai meccanismi introdotti, che devono essere un qualcosa in più rispetto alla risata, senza mai contrapporsi a essa o depotenziarla. Per quanto riguarda lo show, i programmi comici hanno sicuramente il grado di formattabilità più alta. Una spiegazione può essere semplicemente il fatto che, essendo quello della risata il filone più vitale e ricco, è stato necessario per forza di cose trovare nuove formule e declinazioni per differenziare un po’ di più i numerosi programmi; e così, agli schemi base più tradizionali e lineari se ne sono affiancati altri, con meccanismi di formato propriamente detti. Oppure è la comicità in quanto tale a prestarsi a una gamma più variegata di schemi base, perché è più flessibile e modulabile rispetto ad altre forme artistiche. O magari sono vere entrambe queste ragioni. Sta di fatto che è più facile trovare concept strutturati in programmi con comici che in quelli con qualunque altra categoria di artisti. Queste strutture seguono prevalentemente due filoni distinti. Il primo è quello che possiamo genericamente definire «sketch con ostacoli». Nei format di questo tipo ci sono cabarettisti che si esibiscono in numeri comici, a cui però sono state aggiunte delle regole precise, delle difficoltà o degli handicap supplementari. Uno dei capostipiti del genere è il tedesco Schillerstrasse, adattato in Italia col titolo Buona la prima. Nella versione originale, un gruppo di bravi comedian dà vita a esilaranti sit-com ambientate in un appartamento in via Schiller, da cui il programma prende il nome. L’elemento di formato introdotto consiste nel fatto che gli artisti sono a conoscenza solo del tema generico della sit-com, e devono improvvisare tutte le gag, poiché un capocomico, collegato con gli attori attraverso auricolari, assegna sul momento a ciascuno di loro spunti su cui improvvisare («hai appena visto un fantasma», «parla in modo che nessuno ti capisca»...). ­­­­­152

Più arduo ancora è forse il compito dei comedian nel format australiano Thank God you’re here, andato in onda anche in Italia col titolo di Grazie al cielo sei qui. In ogni segmento del programma un vip viene letteralmente catapultato nel bel mezzo di una situazione in pieno svolgimento, senza sapere nulla di quello che sta per accadergli. Per esempio, in un episodio il protagonista viene vestito da medico chirurgo e buttato dentro la scena che rappresenta una sala operatoria di un ospedale, in cui tutti aspettano il primario (che è l’attore stesso) per dare inizio a un difficile intervento. Il protagonista ha quindi solamente pochissimi istanti per rendersi conto di qual è il contesto in cui è chiamato ad agire, in modo da portare avanti l’azione nel miglior modo possibile, tenendo testa agli altri attori (che invece sono perfettamente a conoscenza della loro parte), che tenteranno in tutti i modi di metterlo in difficoltà con battute, trabocchetti e simpatici scherzi. Nel format finlandese Hide the smile! ai cabarettisti viene complicato il compito in un altro modo: devono far riuscire a ridere nel minor tempo possibile delle persone che cercano in tutti i modi di resistere. Il concept è semplice: dei comici danno vita a sketch comedy in studio e alcuni componenti del pubblico sono scelti a turno dalla produzione per interpretare piccole parti secondarie. Il loro vero compito è però un altro: nel momento in cui viene pronunciata la fatidica frase «hide the smile!» devono cercare di non ridere, qualunque cosa avvenga sul set; se ci riescono abbastanza a lungo vincono una somma di denaro. Naturalmente gli attori impegnati nella sketch-com hanno il compito opposto: devono cercare di far ridere i concorrenti e devono cercare di farlo il prima possibile. Si assiste in questo modo a una specie di braccio di ferro che costituisce una linea di lettura supplementare rispetto a quella racchiusa nella sketch-com vera e propria: da una parte c’è chi cerca di far ridere, dall’altra chi cerca di resistere in ogni modo. In altri casi invece l’ostacolo è di carattere, per così dire, tematico, nel senso che il contenuto comico è imbrigliato da paletti più o meno vincolanti. Nel format israeliano Comedians at work, per esempio, due comedian a puntata svolgono per un giorno un lavoro differente (pony express, aiuto pompiere, animatore di feste per bambini, muratore, spogliarellista...). Il format inizia con brevi clip che testimoniano la loro avventura, che costituisce poi la materia per lo sviluppo successivo: i due attori devono infatti condensare in ­­­­­153

un breve e fulminante monologo a caldo la loro esperienza davanti a una platea di spettatori. Limiti di questo tipo sono d’altronde molto frequenti, in questa tipologia di programmi comici con ostacolo. I comedian devono per esempio improvvisare sketch sui fatti d’attualità della settimana o del giorno; oppure su sondaggi tematici presentati in studio; o su domande e tematiche bizzarre e improbabili; o su situazioni che si vengono a creare di volta in volta in modo sempre nuovo e inaspettato. In tutti questi casi al meccanismo della semplice risata si può a volte sovrapporre una dinamica da game: alla fine del programma viene votato (dal pubblico in studio, da quello a casa o da una giuria) l’artista migliore, quello che, nonostante tutti gli handicap predisposti, è riuscito a far ridere più degli altri. Affinché i format così costruiti funzionino è essenziale una sola, semplicissima cosa: che non vengano mai meno alla loro finalità principale, che rimane sempre quella di suscitare la risata. Gli ostacoli, le difficoltà e gli elementi di struttura e meccanismo devono essere un qualcosa in più, ma non devono mai far passare in secondo piano l’elemento comico principale, che deve essere curato con la massima attenzione. In pratica la prima reazione del telespettatore deve essere la risata pura e semplice, come nei classici show comici privi di formattizzazione; poi, mentre ride, deve anche pensare: «però, come sono bravi questi comici: riescono a far ridere anche in queste difficili condizioni». Se si ottiene questo risultato, il format risulta efficace e gli elementi di meccanismo e di struttura sono un vero e proprio valore aggiunto, perché, oltre a divertirsi, si prova ammirazione per chi riesce a raggiungere un tale obiettivo nonostante le difficoltà. Se però, a causa di questi meccanismi, la vis comica complessiva risulta attenuata, o addirittura spenta quasi del tutto, il programma è destinato al fallimento. Il fatto che ci siano degli ostacoli, magari ben studiati e interessanti, non costituisce un alibi e non serve a compensare il minor effetto comico. Un programma che dovrebbe far ridere e non ci riesce, anche se a causa di regole interne imposte dal suo stesso concept, è infatti in assoluto una delle cose peggiori dal punto di vista televisivo. Quindi, va bene strutturare e formattizzare i programmi di sketch in questo modo, purché non si corra mai il rischio che tali meccanismi vadano a scapito dell’obiettivo principale, che è quello di far divertire il più possibile il telespettatore. Il secondo filone di format di risata formattizzati è invece quello che si può definire delle «candid strutturate». Anche in questo caso ­­­­­154

siamo davanti a un prodotto (le candid camera, appunto) che ha una fortuna televisiva ininterrotta da più di mezzo secolo a questa parte. Non stupisce quindi che anche in questo campo si sia cercato di differenziare l’offerta, formattizzando un po’ di più questo tipo di prodotti, in modo da avere oltretutto maggiori opportunità e maggior valore commerciale. Tanto per cominciare, si è lavorato sui protagonisti delle candid stesse. È nato infatti una sorta di sottofilone di candid senza meccanismi e snodi strutturali particolari, ma che si caratterizzano soltanto per le tipologie umane impiegate. Il rappresentante più famoso di questa classe è il celebre e divertente (anche se, a mio parere, un po’ sopravvalutato) Benidorm bastards. Si tratta di un programma belga a candid di stampo classico e tradizionale, tranne per il fatto che gli attori (non professionisti) sono tutti arzilli vecchietti che si divertono a fare scherzi agli ignari e allibiti passanti. Il punto di forza di questo prodotto è che le situazioni acquistano una maggiore forza comica proprio grazie alla particolarità dei protagonisti, che fanno e dicono cose che, in teoria, nessuna rispettabile persona anziana dovrebbe fare o dire. Per esempio una candida, vecchia signora, dall’aria innocua e serafica, scandalizza una ragazza raccontando al cellulare, con voce volutamente troppo alta, la sua trasgressiva serata appena trascorsa, con sbronze colossali a base di tequila, partite a strip poker e avventure sessuali decisamente hard. Si può parlare di format, in questo caso? È un po’ dura, a dire il vero. Eppure il programma ha vinto il prestigioso premio «Rose d’Or» nella sua categoria ed è stato venduto in vari paesi. Stesso principio seguono altri programmi in cui i protagonisti delle candid sono persone con handicap mentali e/o fisici. Per esempio, nell’olandese Upside down un gruppo di quattro ragazzi disabili, coordinati da una presentatrice, fa scherzi a persone varie (tra cui qualche vip) giocando volutamente sulla propria condizione di «anormali». Anche in questo caso le reazioni delle vittime sono tra l’imbarazzato e l’indignato, non sapendo mai bene come rapportarsi con queste categorie di persone. Ancora una volta la domanda è: ma si tratta di format, visto che non c’è alcuna struttura base e le novità sono relative soltanto alla «parte variabile» del prodotto (i protagonisti delle candid)? Chi vende questi – presunti – format tende a sottolineare che la scelta di una ben precisa categoria di attori (anziani e portatori di handicap) è, di per sé, un elemento che riguarda la ­­­­­155

struttura base del programma e quindi siamo in presenza di format. In realtà il grado di formattabilità è quantomeno basso, e non a caso questi prodotti raramente sono stati venduti come format, ma quasi solo, com’è giusto, come finished, ovvero come prodotto finito. Per questa ragione sono stati immessi sul mercato alcuni programmi con meccanismi strutturali più robusti. Per esempio nel format israeliano Deal with it! una persona che si trova in un luogo pubblico con parenti e/o amici viene avvicinata dalla produzione, che le fa una proposta: se farà tutto quello che una coppia di comici le suggerirà attraverso l’auricolare, senza farsi scoprire, potrà vincere una certa somma di denaro. Com’è facile immaginare, i comici faranno di tutto per creare situazioni grottesche e paradossali, che metteranno in grande imbarazzo il protagonista della sfida, il quale si troverà a gestire situazioni sempre più assurde davanti agli occhi allibiti sia delle persone a lui care, sia di perfetti sconosciuti, che si trovano lì per caso. Tecnicamente, si tratta di una candid vera e propria (tutta la scena viene ripresa da telecamere nascoste e il meccanismo comico nasce dalle reazioni di persone inconsapevoli di vivere una situazione sceneggiata a tavolino). Ma è altresì innegabile che, in questo caso, siamo in presenza di un format nel senso pieno del termine: c’è infatti un meccanismo originale e ben preciso, e l’intero programma è sostenuto da una struttura portante evidente. Per quel che riguarda invece l’efficacia, non si può fare altro che ripetere le considerazioni fatte sopra: questi meccanismi formattizzanti vanno bene, e anzi rafforzano il prodotto, a patto che non ne scalfiscano il potenziale comico. In una candid da ridere la risata deve essere sempre la finalità primaria. Se, in più, si riesce ad aggiungere altre motivazioni alla visione, meglio ancora. Nell’ultimo caso descritto, per esempio, un altro tirante è quello ludico: ovvero vedere se il protagonista supererà la sfida oppure no. Ma, come nel caso degli «sketch con ostacoli», se questi meccanismi depotenziano la vis comica il format andrà male, poiché qualunque meccanismo, per quanto ben studiato e originale, non può sostituirsi all’effetto comico di base. Concludendo, dunque, i format di risata possono funzionare, e spesso anzi funzionano meglio dei generici programmi dello stesso tipo (senza contare le maggiori opportunità commerciali che un format in quanto tale è in grado di assicurare). A patto però che siano in primo luogo di risata e solo in seconda battuta format. ­­­­­156

5.2.2. I format di parola L’area di contenuto dell’informazione ha al suo interno pochi format in senso stretto. Analizzando i non moltissimi esempi in proposito, si ricava che la formattizzazione in quest’ambito segue tre diverse modalità: formattizzazione d’ambientazione, formattizzazione per ibridazione e formattizzazione attraverso la meccanizzazione. Non sono molti i programmi basati essenzialmente sulla parola, e sul contenuto informativo in genere, che possono essere definiti format in senso stretto. I contenuti informativi sono infatti più numerosi e modulabili rispetto alle attività performative alla base degli show. Questo significa che i programmi d’informazione sono per loro stessa natura più vari, e si sente perciò meno la necessità di introdurre meccanismi di struttura per differenziarsi dalla moltitudine di prodotti dello stesso tipo. Certo, senza elementi formattizzanti non possono essere messi sul mercato come format, e quindi generare guadagni con la vendita di eventuali diritti all’estero. Spesso, però, è il contenuto informativo in quanto tale a non poter essere esportabile, per ragioni sia economiche che culturali, e quindi la formattizzazione dell’involucro che lo contiene è inutile anche da questo punto di vista. Nonostante ciò, i format di parola ci sono, anche se pochi. Un primo, semplicissimo modo per tentare di formattizzare i programmi di questo genere è quello di ricorrere ad ambientazioni particolari («formattizzazione d’ambientazione»). È una forma di formattizzazione alquanto debole, a dire il vero. E difatti i prodotti così concepiti hanno una commercialità abbastanza ridotta e problematica. Il programma francese Le goût du noir è un buon esempio in proposito, ed è anche uno dei pochi di questa categoria ad aver suscitato, qualche anno fa, un certo interesse sui mercati. Un presentatore, assistito da una persona non vedente, riceve due ospiti famosi in un ambiente sprofondato nella più completa oscurità, al centro del quale c’è una tavola apparecchiata. I telespettatori vedono il tutto attraverso una telecamera a infrarossi, mentre gli ospiti non possono vedere nulla. Oltre a consumare la cena, abituandosi al buio, essi devono rispondere alle domande del presentatore e della sua assistente come a un normale talk. L’assunto del programma è che l’oscurità darebbe un senso di intimità maggiore (passati i primi momenti di disagio), e quindi le chiacchierate in queste condizioni dovrebbero essere meno formali, più libere e confidenziali. ­­­­­157

Senza dubbio più efficace è il secondo metodo: la «formattizzazione per ibridazione». Come la definizione suggerisce, si tratta di formattizzare i programmi di parola ibridandoli con altri generi più strutturati, appartenenti all’area di contenuto del gioco e dell’emozione (ovvero i serbatoi più formattizzabili e formattizzati). Uno dei capostipiti di questi format ibridi è lo storico It’s your turn, programma davvero molto bello che ha dato origine a tanti adattamenti e anche a tanti cloni al limite del plagio. In un classico studio da talk (postazioni sedute, tavolo centrale che accoglie ospiti e presentatore) fanno il loro ingresso, uno dopo l’altro, dei personaggi non famosi ma dotati tutti di una particolarità, grande o piccola, interessante o francamente risibile. Possono avere qualcosa di curioso da dire, una posizione o una tesi particolare da sostenere, oppure possono avere alcune piccole capacità o doti, o avere hobby curiosi. In tutti i casi il loro obiettivo è sempre lo stesso: resistere il più possibile al loro posto, catturando l’attenzione e l’interesse del pubblico in studio, secondo dopo secondo. Il concept del programma è infatti il seguente: il presentatore fa parlare il suo ospite, come in tutti i talk; quando però le cose che dice (o che fa) cominciano a venire a noia, i membri del pubblico schiacciano il tasto di uno speciale apparecchio dato loro in dotazione. In grafica si vede in tempo reale la percentuale degli scocciati, che aumenta a ogni secondo che passa. Non appena la percentuale supera la fatidica soglia del 50%, l’ospite, ormai non più gradito, viene letteralmente espulso dallo studio, trascinato inesorabilmente via da un tirante collegato alla sua postazione. Chi riesce a resistere per più di tre minuti vince una certa somma di denaro, che aumenta man mano che passa il tempo, fino a un tetto massimo, raggiunto il quale l’ospite di turno si aggiudica l’intero montepremi e può lasciare lo studio con le sue gambe. Si alternano in questo modo i personaggi più disparati, e il programma può spaziare dalle riflessioni più serie (e talvolta anche drammatiche) agli aneddoti più divertenti e disimpegnati. Il tutto senza snaturare mai l’idea nucleo del format, che rimane sempre chiara e centrale, in termini narrativi e visivi (la grafica che segnala l’aumento della percentuale d’insoddisfazione nei confronti dell’ospite). Tale formattizzazione è stata ottenuta ibridando fortemente il genere del talk (che rimane comunque preponderante) con un meccanismo mutuato dal gioco (il concetto di vincita collegato all’interesse della sua performance), ma anche con elementi di show. Infatti gli ospiti che parlano si alternano a ­­­­­158

ospiti che fanno qualcosa (presentano le loro improbabili collezioni, danno una dimostrazione di una loro capacità...). Senza contare che in alcuni momenti del programma ci sono delle esibizioni artistiche vere e proprie, giudicate sempre con lo stesso sistema alla base del programma: quando l’esibizione comincia a venire a noia, schiacciando il solito pulsante si contribuisce ad abbassare un po’ per volta il sipario davanti a chi si sta esibendo, fino alla sua totale scomparsa. Il francese Réunion de famille ibrida invece il talk con elementi presi dall’emotainment. Anche in questo caso il concept è semplice. In ogni puntata è ospite in studio una famiglia che ha problemi di comunicazione al suo interno o è dilaniata da rivalità e lotte intestine. Scopo del programma è recuperare i rapporti e ristabilire il clima sereno di un tempo. Per ottenere questo risultato il percorso del format è scandito in tappe e snodi molto precisi. In un primo momento il conduttore intervista i singoli protagonisti per capire meglio tutta la storia e mettere bene in luce le rispettive posizioni (ed è questo il passaggio più vicino al talk tradizionale). In un secondo tempo i singoli membri parlano e si confrontano con altre persone che sono passate attraverso quegli stessi problemi, ma sono riuscite a superarli. Nel momento conclusivo, infine, c’è la vera e propria riunione di famiglia del titolo, in cui viene fatto il punto generale della situazione e si cerca di gettare le basi di una nuova ripartenza, improntata a un maggiore rispetto e comprensione reciproci. Anche in questo caso è indubbio che siamo in presenza di un format vero e proprio, con tanto di snodi di meccanismo precisi, rituali ben delineati e uno sviluppo narrativo forte e chiaro. Il punto è: siamo ancora nell’ambito dei programmi di parola? La risposta finale è tutto sommato positiva: in fin dei conti tutto il programma è costruito sui dibattiti e le prese di posizione degli ospiti. È però ugualmente indubbio che, al pari del format precedente, c’è anche molto di più. In particolare, il finale è chiaramente improntato su quelli dei format d’emozione, con un meccanismo narrativo molto forte, che travalica il puro e semplice talk. Totalmente diverso è il caso del terzo e ultimo metodo: quello della formattizzazione attraverso la meccanizzazione di alcuni elementi interni e peculiari di quest’area di contenuto. Ciò vuol dire che fanno parte di questa classe alcuni programmi che sono format di parola nel senso stretto del termine, perché non si avvalgono di apporti e innesti esterni al genere d’origine per raggiungere una piena, o quantomeno sufficiente, formattizzazione. Per ottenere questo ­­­­­159

risultato di solito ci si concentra su uno specifico elemento costituente del genere e lo si meccanicizza o, perlomeno, gli si dà una nuova valenza, utilizzandolo in maniera significativamente diversa da quella tradizionale. Nello «scandaloso» talk francese Scrupules, per esempio, sono i cento spettatori presenti in studio a formattizzare il programma. Al centro dello spazio scenico, su un divano a forma di S (la S di Scrupules, naturalmente) siedono due persone che la pensano (e si comportano) in modo completamente opposto rispetto a un tema controverso o comunque imbarazzante. Per esempio, a un’estremità del divano siede una donna che ha subito un tradimento, mentre all’altra estremità siede una donna che, al contrario, tradisce allegramente il suo compagno. Il pubblico, prima del dibattito, è diviso in due fazioni: quelli «con gli scrupoli», che siedono dalla parte della tradita, e quelli «senza scrupoli», che siedono dalla parte della traditrice. Moderato da una presentatrice, segue il dibattito, sotto forma di talk tradizionale, in cui le due ospiti raccontano le loro esperienze e spiegano le loro posizioni, cercando di sostenere il loro punto di vista nel modo più convincente possibile. Alla fine del tempo a disposizione il pubblico si ridistribuisce di nuovo, e chi vuole può passare fisicamente da una posizione all’altra. Quanti avranno cambiato idea? E a favore di chi? In questo modo un elemento generalmente passivo (il pubblico) diventa non solo completamente attivo, ma addirittura determinante per stabilire qual è la posizione più convincente. Non solo: grazie al rituale dello spostamento da una parte all’altra, gli spettatori segnalano anche fisicamente la conclusione sanzionatrice del racconto, dando plasticità e concretezza visiva alle opinioni espresse. Insomma, il pubblico diventa sia elemento di novità, assumendo un’importanza che in genere non ha, sia elemento di formattizzazione, dal momento che meccanizza lo snodo cruciale del dibattito e marca concretamente il percorso svolto all’interno del format. Ancora più strutturato è il format If, andato in onda, come puntata pilota, anche in Italia (sebbene come una sorta di spin off di Stranamore). Due vip in studio, seguendo un intreccio pre-sceneggiato, in cui il piano della finzione si mescola a quello della realtà, devono decidere di volta in volta tra due alternative che riguardano questioni spinose e controverse. Per esempio un uomo ha invitato per la prima volta una ragazza a un ristorante e là scopre improvvisamente ­­­­­160

il padre in compagnia di una giovane donna che non è la madre; cosa fa: lo affronta apertamente chiedendogli spiegazioni, oppure lascia perdere e continua la sua serata facendo finta di nulla? I vip devono dire quale opzione scelgono e perché, in modo da far emergere anche la loro personalità (al di là del personaggio che interpretano) in situazioni non banali. Si ha la possibilità, inoltre, di sentire l’opinione di gente comune presente in studio che ha vissuto davvero quelle stesse situazioni e che ha preso una decisione in un senso o nell’altro. Il limite di questa operazione è che risulta forse eccessivamente cerebrale, ma è comunque molto interessante il modo in cui il flusso orale dei programmi di parola è stato meccanizzato, scandito e formattizzato in maniera evidente, facendo diventare le varie tappe del racconto altrettanti snodi rituali del percorso narrativo, resi peraltro molto visivi grazie a un uso puntuale della grafica. Per concludere, bisogna accennare al fatto che in quest’area di contenuto, che rimane pur sempre quella col grado di formattabilità più basso, può bastare a volte un solo elemento originale per conferire eccezionalmente status di format a un programma che pure non si basa su schemi base strutturati e meccanismi precisi. È il caso, per esempio, del programma di attualità e informazione politica spagnolo 59 segundos, in onda ormai da diversi anni con buoni risultati. Si tratta appunto di un generico programma di parola, di taglio molto standard e istituzionale. Una giornalista alterna filmati di stampo giornalistico, che riguardano una situazione di stretta attualità, con interviste in studio a ospiti di rilievo che hanno qualcosa da dire sull’argomento della puntata. Ma c’è un piccolo particolare, che caratterizza e dà il titolo al programma: gli ospiti hanno esattamente 59 secondi per rispondere alle domande poste loro; al termine di questo tempo il microfono si ritrae di colpo, scomparendo sotto il tavolo, e togliendo letteralmente le parole di bocca all’intervistato. Un semplice dettaglio, quindi. Che però, in questa categoria di prodotti con pochi o punto tratti di formato davvero distintivi e caratterizzanti, è bastato a mettere in luce sul mercato internazionale questa trasmissione, che è stata considerata alla stregua di un format nel senso pieno del termine.

Capitolo 6

I format evoluti

6.1. Format crossmediali, transmediali e iperformat: definizione e classificazione «Crossmedialità» è parola che piace e che viene usata, più o meno, in ogni occasione. Quando però si abbina al concetto di «format» diviene sfuggente e molto vaga. Quando un format è davvero crossmediale? E cosa vuol dire, in concreto? La faccenda è meno semplice e più articolata di quanto comunemente si pensi, e merita una trattazione approfondita. Iniziamo con una plausibile, anche se molto generica definizione: si definisce «format crossmediale» un format in cui si instaura un legame complementare e coordinato tra il contenuto televisivo e quello di altri media, primi tra tutti il computer e il telefono cellulare. Va anzitutto messo in chiaro che il contenuto degli altri media non è il semplice sito standard di supporto al programma televisivo, o la possibilità di rivedere il programma stesso in download. Queste cose devono infatti ormai essere date per assodate e non occorre spendere troppe parole al riguardo. Ma, anche liberando il campo da questi equivoci, la faccenda è tutt’altro che risolta. Il punto è che dire «format crossmediale» è estremamente limitativo e incompleto. La crossmedialità di un format televisivo può presentarsi infatti a diversi livelli e sotto diverse forme, che è necessario conoscere per poter dare un corretto sviluppo alle varie piattaforme. Cominciamo quindi con l’elencare i diversi gradi di integrazione tra i media, che corrispondono a livelli crescenti di profondità, dal più basso al più alto. ­­­­­162

1) Primo livello: grado di profondità nullo/basso Non c’è vera integrazione, bensì una semplice duplicazione di contenuti sulle diverse piattaforme. Siamo al grado zero della crossmedialità, e forse non è neanche corretto definirla tale. A questo livello uno stesso contenuto è a disposizione di diverse piattaforme. Attenzione: non un contenuto sostanzialmente analogo ma declinato in modo diverso a seconda della piattaforma utilizzata, bensì lo stesso identico contenuto, pensato per un medium specifico (con le sue peculiarità), che viene poi piazzato così com’è sulle altre piattaforme. Gli esempi tipici sono i contenuti nati per il web e trasposti in modo pedissequo sul mezzo televisivo, come i famosi UCG (User Generated Contents). Parliamoci chiaro: in tv questi prodotti non hanno mai funzionato. È perfino banale dirlo (ma non per questo inutile), però i contenuti che non hanno forza né reale specificità televisiva non sono adatti a essere trasmessi in televisione. Uno degli argomenti che i fautori di questi contenuti sostengono è che gli UGC sarebbero destinati ad avviare un processo di «democratizzazione» televisiva, in quanto tutti noi siamo teoricamente in grado di produrli. In questo modo, quindi, la televisione non viene più passivamente subita, ma diventa un campo di sperimentazione aperto a tutti. È un errore. Il fatto che un largo numero di utenti sia tecnicamente e potenzialmente in grado di produrre contenuti non vuole affatto dire che sappia farlo bene. Anche gran parte della popolazione mondiale è in grado di scrivere, ma questo non implica che tutti siano bravi scrittori. Già molti professionisti dell’audiovideo producono contenuti di bassa qualità, figuriamoci chi di questa pratica conosce a mala pena i primi rudimenti. Inoltre, anche se può sembrare strano, la passività non è percepita sempre dalla stragrande maggioranza del pubblico come fatto negativo. Non è questa la sede per addentrarci in questo discorso. Basti qui solo accennare al fatto che l’essere umano ha anche bisogno di prodotti mediali da consumare passivamente; e la televisione – quella d’intrattenimento in particolare – assolve appunto a questa importante funzione. In ogni caso, tale pedissequa trasposizione di contenuti non ha mai prodotto risultati accettabili, né con gli UCG né con altro. L’altra faccia della medaglia dei prodotti situati a questo primo livello sono i contenuti tipicamente televisivi (soprattutto di genere fiction) fruibili su altre piattaforme (PC e mobile). Il risultato di questa trasposizione sono ibridi dai nomi un po’ strani (sitweb, ­­­­­163

webdrama, mobilesit...), che però non possiamo trattare qui, essendo materia che attiene, più che ai professionisti della televisione, agli specialisti degli altri mezzi di comunicazione. In ogni caso, bisogna almeno accennare al fatto che, come in televisione non funzionano contenuti tipici degli altri media, anche sul computer ci deve essere una ragione specifica per mettere contenuti esclusivamente visivi, senza alcun punto di forza di questo specifico medium (partecipazione diretta, comunicazione...). Può essere una ragione di tipo tematico (per esempio, nella celebre serie Web therapy si fingono sedute psicanalitiche via web, ed è quindi «naturale» che siano appunto sul web), oppure di altro genere (per esempio si può decidere di testare una serie su web prima di un eventuale passaggio televisivo), altrimenti l’operazione rischia di apparire gratuita e poco efficace. In conclusione, si può dire che il rischio che si corre fermandosi a questo livello è quello di fare apparire la televisione un «computer dei poveri» e il computer o il cellulare una «televisione dei poveri», dal momento che le piattaforme non sfruttano le potenzialità a loro connaturate. 2) Secondo livello: grado di profondità medio I contenuti dei vari media sono diversificati in modo da tener conto delle rispettive «specificità mediali». C’è però sempre un contenuto chiaramente principale (in genere quello televisivo, ma non sempre), mentre sugli altri media ci sono esclusivamente contenuti integrativi, che fungono in genere da supporto (o da «serbatoio») a quello primario. A questo livello si assiste finalmente a una sana diversificazione delle varie piattaforme. Questo vuol dire che in televisione si vedono contenuti adatti al mezzo televisivo, sulla rete i contenuti sono specifici per la rete e la stessa cosa avviene per il mobile. Però c’è sempre uno e un solo medium principale: quasi sempre quello televisivo. I contenuti sugli altri media sono creati esclusivamente a suo supporto: sono dunque «media ancillari» (senza che l’aggettivo abbia alcuna valenza negativa) il cui compito è quello di «portare acqua», essendo finalizzati in genere a fornire materiale – contenutistico e umano – che verrà poi rielaborato e trattato coerentemente con le caratteristiche della piattaforma primaria. In pratica, nella maggioranza dei casi lo scopo dei contenuti in rete è quello di fornire materiale audiovideo da inserire nel program­­­­­164

ma televisivo (contestualizzandolo); oppure sviluppare competizioni o forme di casting online il cui scopo è la partecipazione in prima persona al format; oppure altre cose ancora, purché abbiano sempre come fine il lancio, lo sviluppo, il mantenimento e la promozione del programma stesso. Non si tratta di operazioni banali, tutt’altro. Al contrario del primo livello, in cui i vantaggi sono spesso miseri, se i contenuti (primari e ancillari) sono efficaci e coerenti con i diversi media, si possono ottenere vantaggi competitivi anche molto notevoli. Solamente, le altre piattaforme sono così subordinate e direi quasi «appiattite» sul medium principale che non hanno una valenza in sé e ben raramente sono dunque fruite dagli utenti in modo indipendente e autonomo. La sitcom I-Carly è un ottimo esempio di crossmedialità di questo secondo livello. La parte televisiviva è d’impianto classico. La Carly del titolo è una tredicenne che, con la sua amica Sam e il loro amico Freddie, dà vita a uno show su web, che ha subito successo e viene battezzato appunto I-Carly. Si tratta di una fiction assolutamente tradizionale per struttura, battute, personaggi; e, proprio per questo, perfettamente adatta e funzionale al mezzo televisivo. Ma c’è una particolarità, data dall’utilizzo dei contributi audiovisivi caricati dai giovani telespettatori sul sito dello show. In pratica la finta web-tv della fiction raccoglie dal vero sito web i veri contributi autoprodotti dal loro vero pubblico. I-Carly, va detto, funziona soprattutto perché funziona la parte televisiva, non tanto perché all’interno di ogni puntata viene trasmesso per pochi secondi il contributo di un utente preso dal sito. È però sicuramente vero che questi pochi secondi danno al programma un tratto distintivo peculiare, permettono di comunicarlo molto bene e creano una fidelizzazione fortissima con il suo giovane pubblico (oltre agli enormi vantaggi che ne ricava il sito in quanto tale). Insomma, è vero che è la parte televisiva pura ad aver decretato il successo della serie, e se questa parte non fosse stata efficace tutto il resto non avrebbe avuto ragione d’essere (gli utenti caricano i loro video sul sito nella speranza di vederli trasmessi nella «vecchia» televisione). È però senz’altro anche vero che questa opportunità arricchisce enormemente il format e ne ottimizza la resa e il gradimento complessivi. In alcuni, rari, casi il contenuto primario è invece quello su web. Tipico esempio è il reality israeliano uMan, pensato per essere fruito soprattutto in internet, mentre la parte televisiva, di soli dieci minuti ­­­­­165

una tantum, serve in pratica solo da sintesi e quasi da promo al contenuto principale. 3) Terzo livello: grado di profondità alto Il peso dei contenuti sui diversi media inizia a riequilibrarsi, di modo che ognuno abbia un senso e una validità «in sé» e possa quindi essere fruibile anche in modo indipendente, pur mantenendo una forte interconnessione. In questo livello tutti i contenuti di tutti i media coinvolti sono sempre diversificati e coerenti col medium stesso (condizione che, dal secondo livello in poi, si darà per scontata). A questo grado di profondità, però, i vari mezzi coinvolti hanno rapporti gerarchici meno predefiniti e più bilanciati. Ovvero, anche se continua ancora a esserci molto spesso un mezzo primario, le altre piattaforme sono sufficientemente sviluppate, così da poter essere fruite anche in modo indipendente. I diversi mezzi partecipano dunque in modo equilibrato a un medesimo progetto complessivo, senza un rapporto di subordinazione troppo rigido o stabilito a priori; non ci sono contenuti che devono «portare acqua» a uno più importante degli altri: o meglio, tutti i contenuti devono «portare acqua» a tutti, in un rapporto virtuoso di interscambio continuo. Nel format israeliano The frame, per esempio, otto coppie di concorrenti per vincere devono rimanere dentro il frame (l’inquadratura fissa della telecamera) per trenta giorni, sottoposti alla visione costante del pubblico che li spia e li vota (via internet e mobile), mentre la televisione seleziona i momenti più spettacolari e divertenti (in particolar modo le fantasiose punizioni per la coppia meno popolare e i premi, altrettanto fantasiosi, per quella più popolare). Niente di nuovo sotto il sole, è vero. Però i contenuti sulle varie piattaforme appaiono ben bilanciati e in grado di assicurare un certo grado di interesse sia nella puntata televisiva, che monta i momenti più interessanti di tutte le coppie in gara, sia nello streaming web (l’inquadratura fissa di tutte le coppie a scelta è perfettamente compatibile e coerente col mezzo, dando esattamente l’idea di una «finestra» – il frame – nella quotidianità delle persone). Per rimanere invece in Italia, l’esempio finora di gran lunga più significativo è a tutt’oggi sicuramente la seconda edizione Sky di X factor. Si può affermare addirittura che il passaggio dalla prima alla seconda edizione segna un corrispondente passaggio dal secondo al ­­­­­166

terzo livello di crossmedialità. L’edizione del 2012 ha infatti messo in campo un apparato crossmediale così eccezionalmente sviluppato (sms, sito web, pagine dedicate su Facebook, Twitter e Pinterest, interattività col telecomando del decoder, app per iPhone e Android, partnership radiofoniche che sfruttano il secondo canale audio) da poter essere fruito non solo in modo integrato col format televisivo (per esempio commentando su Twitter e Facebook le fasi del programma), ma anche con modalità assolutamente autonome e indipendenti. 4) Quarto livello: grado di profondità altissimo Il contenuto sui vari media è così interconnesso da non poter essere più fruibile indipendentemente sulle varie piattaforme, e necessita quindi di una lettura complessiva per essere compreso nella sua interezza. In questo livello occorre mettere insieme tutti i pezzi del puzzle – ovvero tutte le diverse piattaforme – non solo per poter fruire il progetto nella sua interezza, ma addirittura per poterlo comprendere fino in fondo. I fili non sono più paralleli, con magari qualche snodo comune, ma fortemente intrecciati l’uno con l’altro. Il significato complessivo è dato dalla somma dei diversi media e non dalla loro semplice giustapposizione. Non solo quindi non c’è più un medium principale, ma non c’è neanche più un medium che abbia una sua autonomia: l’interconnessione è così forte che il passaggio dall’uno all’altro mezzo è una scelta obbligata per poter ricostruire il senso d’insieme. Il format italiano Black box è un buon esempio in proposito. Si tratta di un ibrido anche a livello televisivo, dato che si presenta come un incrocio tra reality e fiction. Le storie raccontate, infatti, sono vere, così come sono veri i protagonisti, che però reinterpretano la loro stessa storia, seguendo una sceneggiatura che loro stessi hanno scritto, insieme a degli autori professionisti. La storia visibile sullo schermo televisivo presenta però volutamente lacune e omissioni: gli aspetti più riservati e segreti dei protagonisti non vengono rivelati, e spesso persino il finale rimane in sospeso. L’assunto dell’operazione è infatti che, per raccontare in modo sincero le storie dei ragazzi di questa generazione, il mezzo televisivo classico non è più sufficiente. E così, quando la storia ha termine, i protagonisti entrano nella grande scatola nera del titolo, montata in un punto emblematico del luogo in cui si è svolta l’azione (la piazza principale, la stazione...). Le telecamere rimangono escluse da questo spazio «intimo»: in video ­­­­­167

compare solo un cartello che invita a fare un salto crossmediale nel sito del canale, che, come le scatole nere degli aerei, contiene tutti i segreti e le verità più profonde e importanti. Solo a questo punto il ragazzo rivela quanto non detto in televisione, in un faccia a faccia diretto con gli utenti, che possono poi chattare con lui subito dopo la confessione, per continuare il dialogo in modo realmente interattivo. Queste verità più profonde, non rivelate sul mezzo televisivo, sono anche a disposizione su mobile: componendo un numero arriva infatti un mms con lo stesso contenuto disponibile sul sito (il primo piano del ragazzo che svela uno dopo l’altro i nodi rimasti irrisolti) o, in alternativa, un sms con un breve testo di spiegazione. Va detto che progetti così concepiti, per quanto interessanti, non hanno finora mai raggiunto incoraggianti risultati in termini di puro dato d’ascolto. Il risultato finale è infatti spesso più notevole da un punto di vista teorico che soddisfacente da un punto di vista pratico; più apprezzato dagli addetti ai lavori che dagli utenti «comuni». 5) Transmedialità: grado di profondità estremo Nella narrazione transmediale («participation format») il contenuto diventa invasivo e permea (o ambisce a permeare) la vita degli spettatori, facendoli diventare attori/agenti, attuando così il passaggio da semplici viewer a VUP (viewer/user/player)1. Il tratto caratterizzante della transmedialità è dato dall’interazione attiva e pregnante del pubblico, che influenza e modifica realmente (nel senso di «fisicamente» e «per davvero») l’andamento della storia. Non più quindi spettatori passivi o moderatamente attivi (ma confinati nello spazio virtuale delle varie piattaforme), bensì veri e propri co-protagonisti in grado di influire direttamente sul format, la cui struttura diventa così oltremodo fluida e soggetta a continui e inaspettati cambiamenti. L’esempio forse più spettacolare è il progetto svedese The truth about Marika, molto complesso e stratificato. Tutto inizia con un prodotto televisivo, che si presenta come una fiction su una persona scomparsa: Marika, appunto. A un certo punto, però, in internet scoppia una polemica feroce. Una ragazza accusa l’emittente (pubblica) svedese di aver letteralmente copiato una storia vera, e sostiene che 1 

La definizione è di Stephen Erin Dinehart.

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Marika è una sua amica, sparita purtroppo per davvero, ed è stato perfino aperto un sito sulla sua storia. La serie televisiva si interrompe tra le polemiche e va in onda una specie di talk (condotto da un volto ufficiale e credibile della rete) a cui partecipano le parti coinvolte – gli sceneggiatori della fiction, amici e parenti di Marika (a partire dalla ragazza che ha fatto scoppiare il caso) – e altri personaggi. A questo punto le cose si complicano terribilmente. I telespettatori sono invitati a cercare le tracce della scomparsa in giro per la città, dove sono stati disseminati indizi di ogni sorta. Una specie di grande caccia al tesoro (disponibile anche in versione videogioco online), in cui spuntano fuori un’inquietante setta segreta che rapisce bambini, doppiogiochisti vari e chi più ne ha più ne metta. In televisione si alternano pezzi di fiction, contenuti prodotti dai telespettatori che aggiungono pezzi sempre nuovi al puzzle, e altri dibattiti in cui si fa il punto della situazione. Si scopre alla fine che è tutto finto (ma va?). Le riserve sono le stesse fatte a proposito del livello precedente. Il limite di tali progetti è di essere studiati troppo a tavolino, per adempiere a un astratto modello teorico d’insieme, più che concentrarsi sulla forza e l’efficacia dei singoli contenuti sulle singole piattaforme (quella televisiva in particolare), che, allo stato attuale delle cose, è l’unico modo per vincere la quotidiana, durissima battaglia degli ascolti. 6) Un passo in più: l’iperformat Si ha il passaggio da format crossmediale a iperformat quando il contenuto esce dallo schermo (televisivo, del computer, del mobile) e si proietta anche nella vita reale grazie a una nuova «piattaforma»: l’on the ground. È la «piattaforma» territoriale che rende un format un iperformat (più ancora dei format transmediali, anche se le definizioni non sempre si elidono a vicenda). Per essere veramente tale, l’iperformat ha bisogno di «ancorarsi» a un evento concreto e reale: la sua caratteristica essenziale è infatti quella di non essere confinato solamente in mondi virtuali, bensì di avere una «messa a terra» nella realtà ordinaria e quotidiana. Gli iperformat devono cioè espandersi oltre gli schermi (siano essi della televisione, del computer o del mobile), per impattare in modo quanto più possibile significativo con la vita di tutti i giorni del target di riferimento della rete. La cosa ha un’importanza, anche simbolica, molto notevole: la grande forza dell’estensione territoriale deriva infatti soprattutto da ­­­­­169

una funzione mediatica ben precisa, quella cioè di trasformare l’audience (o almeno una parte significativa di essa) in pubblico2. L’assunto di base è che il «pubblico è compresente nello stesso tempo e nello stesso luogo (abitualmente, appunto, pubblico); mentre l’audience è compresente temporalmente, ma in luoghi diversi, di solito privati o semiprivati»3. È dunque proprio con gli eventi sul territorio, emanazione fisica dei format tradizionali, che si ricompone questo iato; ed è grazie a tale operazione che il programma d’intrattenimento ritrova quella sua originaria matrice on stage che ancora oggi viene percepita come un valore aggiunto. La dimensione territoriale appare naturale e ovvia nei contenuti televisivi che hanno al loro centro un evento reale preciso che si svolge in un qualche luogo pubblico (un concerto musicale, una manifestazione sportiva o di altro tipo). Il vero scarto si ottiene quando si trasferisce questa modalità ulteriore anche nei programmi più classici e tradizionali, quelli confinati per definizione solo all’interno dello schermo televisivo. Tra i format di questa categoria un posto particolare spetta allo svedese The bar, un interessante sviluppo di Big Brother, in cui i concorrenti, anziché in una casa, sono rinchiusi in un bar, accessibile al pubblico (che poteva recarsi nel locale, dal momento che era, appunto, pubblico), diventato subito un vero cult. Nel format australiano di enorme successo The block, invece, quattro coppie avevano il compito di sistemare altrettanti appartamenti: nelle puntate finali della serie la gente poteva poi visitarli di persona e addirittura acquistarli – attraverso quattro aste pubbliche a cui hanno partecipato moltissime persone –, per poterci poi abitare. A livello nazionale si può citare l’ottava edizione del Grande Fratello, in cui gli autori hanno pensato di «ancorare» il lancio della prima puntata a un oggetto concreto, in grado di catturare l’attenzione dei passanti: la «bolla» trasparente costruita di fronte al Ponte Milvio (che, con i suoi lucchetti dell’amore, già rappresenta un punto in cui il mondo virtuale del romanzo e del film si salda con quello della realtà quotidiana). In questo caso, però, più che di un iperformat vero e proprio siamo in presenza di un «semplice» format crossme2   Cfr. l’introduzione di D. Cardini in S. Livingstone, Lo spettatore intraprendente, Carocci, Roma 2006. 3  F. Colombo, Il pubblico, questo sconosciuto, in «Link», n. 5, 2007.

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diale che ha puntato su un evento territoriale per promuovere in maniera spettacolare il lancio di una nuova edizione. Importante fattore di successo dello show di Fiorello su Sky Uno è stata invece senza dubbio anche la sua presenza sul territorio, con uno spettacolo vero, aperto al pubblico per svariate settimane, in uno spazio creato ad hoc per l’occasione, diventato subito appuntamento imperdibile per un gran numero di romani (e non solo). Non è un caso che gli esempi siano molti e cospicui (e spesso coronati da un ottimo successo). L’ancoraggio a un evento o una situazione concreti nel mondo reale, se ben pensato e con un valore chiaramente percepibile dal target, comporta infatti vantaggi quasi sempre notevoli a vari livelli. Il pubblico è ovviamente più coinvolto e ricettivo, tanto per cominciare, perché un conto è fruire un contenuto televisivo dall’esterno, un conto è viverlo in prima persona dall’interno. Il ricordo di una partecipazione attiva dura molto più a lungo di qualunque altro contenuto confinato solamente all’interno di uno o più schermi e viene trasferito più velocemente ed efficacemente, attraverso il passaparola, a più persone. Infine, dati tutti questi fattori positivi, è più facile coinvolgere nell’operazione eventuali sponsor, che possono sfruttare l’evento, oltre che per ottenere visibilità, per fare sampling, product placement o altre forme di comunicazione diretta sul territorio. L’unico problema è il costo per contatto. È vero infatti che, se un progetto è ben studiato, il numero delle persone coinvolte è spesso tutt’altro che trascurabile. È vero però anche che un evento efficace, in grado di attirare un gran numero di persone, non costa poco. Questo però solo se si guarda all’immediato. Su un piano più strategico, i vantaggi che un iperformat comporta sono spesso così consistenti, in termini di ricadute positive sul marchio (del format, del canale e dell’intero network), che, una tantum, converrebbe fare un sacrificio economico e investire sul lungo periodo. 6.2. Le sette regole dei format crossmediali Sono due gli errori più comuni a proposito della crossmedialità: sottovalutarne l’importanza, oppure sopravvalutarla. Il secondo è forse ancora più insidioso del primo e deriva dall’errata convinzione che la tecnologia abbia un valore in sé. Bisogna fare attenzione: nessuno ­­­­­171

guarda un programma per il solo fatto che ha un buon sviluppo crossmediale. È inutile sbandierare il fatto, come avviene troppo spesso, che un format costituisce (a torto o a ragione non importa) la «nuova frontiera del reality», o «la nuova generazione del game», se in sé vale poco e tutto ciò che ha di notevole è un imponente apparato tecnologico di contorno. È questo che intendo quando affermo che è pericoloso sopravvalutare la crossmedialità: è pericoloso pensare a estensioni crossmediali che vadano a scapito del prodotto televisivo tradizionale, dal momento che una buona estensione crossmediale non può mai compensare la carenza progettuale di un format. La crossmedialità è un qualcosa in più (anche se sempre più imprescindibile), non un valore alternativo. La regola basilare è dunque la seguente: se il format televisivo è forte, è sempre possibile trovare uno sviluppo crossmediale altrettanto forte; se però il format è debole, tutto ciò che è collegato a esso sarà inevitabilmente debole; e a questa regola non ci sono, per ora, eccezioni. È da questa considerazione di fondo che prendono le mosse le sette regole per una corretta crossmedialità dei format televisivi. Il rischio di una cattiva estensione crossmediale, infatti, non è soltanto quello di non cogliere i risultati auspicati, ma di danneggiare irrimediabilmente l’intero progetto. 1) Tv anzitutto Un format crossmediale è forte soltanto se il contenuto televisivo è forte. È quanto abbiamo appena detto. Non bisogna mai innamorarsi delle applicazioni in quanto tali e non bisogna nemmeno voler fare qualcosa di nuovo, di diverso e di tecnologicamente avanzato a tutti i costi. Addetti ai lavori a parte (universo molto piccolo, per fortuna), nessuno guarda un format perché ha un’estensione multimediale affascinante. Un format si guarda perché è bello e ha delle caratteristiche, intrinseche al programma in quanto tale, che lo rendono appetibile per quel target. Quindi va progettato principalmente in funzione della sua resa e della sua efficacia televisiva, e tutto quanto detto a proposito dei format tradizionali vale anche (e forse in misura maggiore) per i format crossmediali. Giusto per essere chiari, X factor è anzitutto un gran bel format, realizzato molto bene e straordinariamente efficace da un punto di vista televisivo. A partire dalla seconda edizione Sky, come abbiamo ­­­­­172

visto, su questo format di comprovata tenuta è stato innestato un impianto crossmediale così ricco da sviluppare un circolo virtuoso: l’apparato crossmediale ha rafforzato e amplificato il programma televisivo, che ha rafforzato a sua volta tutti gli altri media coinvolti e così via. Ma se alla base non ci fosse stato un format di tale efficacia, questo circolo non si sarebbe mai prodotto e lo sviluppo crossmediale, per quanto forte potesse essere, si sarebbe miseramente spento insieme al programma (come è puntualmente accaduto in molti altri format progettati e realizzati in modo meno accurato). L’unica eccezione a questa regola è costituita dai format di secondo livello «al contrario», ovvero quei format, come uMan, che hanno come medium principale internet e usano la televisione solo come medium ancillare. È ovvio che in questo caso è sulla piattaforma primaria che si deve concentrare lo sforzo creativo maggiore. 2) Specifico mediale La televisione è televisione, internet è internet e il mobile è il mobile. Ogni piattaforma ha il suo specifico mediale e i suoi punti di forza peculiari. Scimmiottare un mezzo con un altro, rinunciando al proprio specifico mediale, è un errore che si paga sempre molto caro. Nessun mezzo deve far finta di essere quello che non è. È banale dirlo, ma ogni piattaforma ha il suo specifico mediale, che non coincide con quello delle altre piattaforme e che va rispettato a ogni costo. Mettere la tv in internet (o sul mobile) e internet (o il mobile) nella tv è sempre un grosso errore. Il mancato rispetto di questa regola provoca ciò che chiamo «crossmedialità patetica»: un medium scimmiotta stilemi, modelli e situazioni di un altro medium, oppure tenta di riprodurne i punti di forza, senza esserne in possesso. Esempi di questa – fittizia – crossmedialità si hanno quando alcuni programmi televisivi, che implicano l’uso di computer, cercano di richiamarne l’essenza adottando una falsa «grafica da internet» (con finti siti, finti upload e via discorrendo); oppure quando vengono innestati al programma stesso, senza una giustificazione profonda, filmati presi da internet o altri contenuti tipici della rete, che sullo schermo televisivo appaiono immediatamente del tutto fuori contesto e inappropriati. Anche inserire modalità partecipative del pubblico a casa attraverso internet o altre piattaforme, senza una valida ragione, ma solo per apparire più «moderni», non ha mai portato risultati significativi, specie se ciò va a scapito della qualità audiovisiva del programma. ­­­­­173

Stesso discorso con gli altri media. Per citare uno degli errori più comuni, le fiction, prodotto tipico dei grandi e medi schermi, su quelli piccoli del mobile non hanno mai funzionato e non funzioneranno mai, date le dimensioni fisiche dell’apparecchio. Un altro tipico caso in cui il mancato rispetto dello specifico mediale ha causato danni e brutti prodotti. 3) Coerenza crossmediale Non è indispensabile inserire nel contenuto televisivo richiami o rimandi espliciti alle altre piattaforme. Se lo si fa ci deve essere una coerenza col concept che contestualizzi in modo non pretestuoso quei rimandi. È un concetto intimamente collegato ai due precedenti. Abbiamo detto che un format crossmediale deve essere forte ed efficace «in sé» e non deve scimmiottare internet. Bisogna adesso anche aggiungere che non serve nemmeno mettere richiami troppo espliciti, diretti e impegnativi al suo sviluppo crossmediale sulle altre piattaforme, a meno che non siano pienamente giustificati dal concept stesso del programma. È giusto e logico, per esempio, che in I-Carly ci siano rimandi continui al sito internet e alla web-tv, perché è il soggetto stesso della serie che lo richiede. Nel format israeliano The real chat house il richiamo alle chat (sia pure in ambiente «protetto») è parimenti giustificato dall’essenza del concept. In questi e in altri casi analoghi, dunque, i rimandi alle altre piattaforme appaiono privi di forzature perché è la stessa idea nucleo televisiva che li esige; in molti altri, invece, questi richiami risulterebbero del tutto gratuiti, fastidiosi e pretestuosi. 4) Libertà e sincerità Lo sviluppo crossmediale non deve mai essere vincolante per l’utente, nel senso che non deve avere mai la pretesa di farlo diventare attivo «a comando», o imporgli comportamenti predeterminati. Peggio ancora è tentare di ingannarlo facendo passare per vere cose che non lo sono. L’utente crossmediale va trattato con una certa cautela. Non si può pretendere che faccia le cose che il format gli dice di fare, quando gli dice di farle e nel modo in cui dice di farle. Chi lavora in televisione è abituato invece a una certa passività dell’utente (che di per ­­­­­174

sé non è un male) e quando progetta lo sviluppo crossmediale rischia a volte di avere in mente il medesimo modello. È un errore: bisogna rendere ben chiare all’utente tutte le possibilità crossmediali (che devono essere tante e ricche), senza però mai trasformarle in vincoli. L’errore principale del già citato format Black box (molto interessante, peraltro, sotto vari aspetti) è stato appunto questo: si imponeva un salto crossmediale da una piattaforma all’altra in un momento preciso (quando cioè finiva il format televisivo) e in modo troppo direttivo. Le cose non funzionano così: l’utente si sposta sulle altre piattaforme e compie (eventualmente) le azioni predisposte seguendo un impulso e un tempo interni, e non quando il format stabilisce che devono essere fatte. È giusto quindi mettergli a disposizione quanti più strumenti, piattaforme e modalità di partecipazione possibile, ma senza che diventino mai vincolanti: l’utente deve poter utilizzare l’apparato crossmediale (tutto o in parte) quando e come vuole; e quando non ne ha voglia, deve poter fruire del prodotto televisivo «puro» liberamente e senza «penalizzazioni». Peggio ancora è tentare di ingannarlo con cose evidentemente finte, come simulare un’interattività che in realtà non esiste. Se già nei format tradizionali «vero è meglio», in quelli crossmediali tale regola è un dogma assoluta, anche perché tentare di ingannare l’utente smaliziato è un autentico suicidio. 5) Ancora semplicità Un format crossmediale funziona solo se è intrinsecamente e assolutamente semplice e diretto. Il prodotto su più piattaforme non deve comportare in nessun modo una complicazione, ma solo un arricchimento della fruizione. Un’altra conferma alla regola della semplicità, che vale per ogni tipo di format, tradizionale o crossmediale che sia. Anzi, nei format crossmediali bisogna porre ancora più attenzione, perché l’aumento delle piattaforme a disposizione potrebbe comportare un aumento della complessità del progetto nel suo insieme. È un aspetto su cui si deve porre la massima attenzione, perché se le estensioni crossmediali introdotte complicano la fruizione del format televisivo in quanto tale sono controproducenti. Le estensioni crossmediali funzionano (per ora) solo quando non impattano in modo eccessivamente invasivo sul contenuto della piattaforma principale, che deve rimanere semplice, diretto ed efficace e, come abbiamo visto ­­­­­175

nel punto precedente, deve poter essere fruito indipendentemente da tutto il resto. Per questa ragione (sempre per ora) i livelli più proficui ed efficaci di profondità sembrano essere il secondo e gli esempi più lineari del terzo. Il quarto livello e la transmedialità sembrano invece funzionare solo per nicchie molto ristrette di appassionati, ma sul pubblico più largo non hanno mai fatto breccia e al momento non pare che tale tendenza sia destinata a invertirsi. 6) Promesse chiare Un format crossmediale deve rendere esplicite in modo molto chiaro le sue promesse, ovvero i vantaggi, le ricompense e le gratificazioni riservati a chi si sposta sulle altre piattaforme. Far compiere un salto crossmediale, o comunque far fruire pienamente e a 360° un progetto crossmediale ai telespettatori, significa, di fatto, chiedere loro di compiere un (piccolo) sforzo. E uno sforzo, anche se piccolo, si affronta solo se c’è una ricompensa chiara e certa. Si intende «ricompensa» in senso lato (ma non fasullo). Per esempio, una ricompensa è la possibilità di partecipare come concorrente al programma in televisione dopo aver superato una selezione virtuale sul sito internet (come nel game The bank job e in molti altri). Oppure inserire all’interno del programma i propri video caricati in precedenza sul sito, dando loro una visibilità più ampia (come in I-Carly). O ancora, poter influire sulla sorte dei partecipanti del programma televisivo, attraverso votazione sul sito internet o su mobile (come in uMan o The frame). O anche premiare in qualche modo la partecipazione attiva in internet, con regali concreti (denaro, oggetti ecc.) o facendo partecipare i vincitori a eventi speciali (concerti, eventi sportivi o di altri tipo con biglietti gratuiti o, se l’evento è di per sé già gratuito, mettendo a disposizione dei vincitori spazi privilegiati). Oppure dare accesso a un numero di informazioni superiore rispetto ai telespettatori «normali», coloro cioè che guardano solamente la parte televisiva (per esempio, collegandosi a Web factor 10 minuti prima che il programma andasse in onda si poteva assistere al backstage), in modo da far percepire gli utenti crossmediali come privilegiati. Nei format più forti ed efficaci (come il più volte citato X factor) può bastare perfino come ricompensa la semplice sensazione di far parte di una comunità «ristretta» di appassionati, una sorta di circolo «esclusivo» di cui piace essere membri, pur senza ricavarne ­­­­­176

vantaggi specifici (né «materiali» né «informativi»). Va detto però che quest’ultimo caso funziona solo se il format è davvero così forte da diventare un vero e proprio cult e, a questo proposito, si rimanda alla regola principale esposta all’inizio. In alcuni casi, infine, può trattarsi anche di un semplice svago ludico, senza nessun’altra implicazione, se è dichiarato molto onestamente e se si tratta di uno svago davvero appagante. In ogni caso, se si chiede all’utente di far qualcosa, egli deve a sua volta ricevere qualcosa in cambio. E questo qualcosa, oltre che essere chiaro, deve essere anche verificabile e certo. 7) Fatelo e basta La crossmedialità è utile per arricchire il progetto e avere una serie di vantaggi. Ma non va mai enfatizzata in quanto tale, né tantomeno usata per vantare una presunta «modernità». L’estensione crossmediale va fatta e basta, senza sbandierarla in modo pretestuoso. La crossmedialità, da tempo, non è più una novità; né una cosa di cui andar fieri solo perché la si è attuata. Dare al format un’estensione crossmediale significativa porta molti vantaggi; ma sbandierarla come se fosse stata fatta chissà quale scoperta è ridicolo. La stessa cosa dicasi per l’utilizzo in trasmissione di strumenti tipici di internet (social network tra tutti), o di materiale tratto da internet: se servono davvero al format e sono strettamente funzionali al suo svolgimento, va bene. Ma far vedere ogni tanto qualche volenterosa persona intenta a controllare un computer in diretta, o trasmettere qualche video tratto dalla rete solo per mostrarsi «moderni» e poter pronunciare le paroline magiche «crossmediale», «multimediale» e altri termini con il suffisso «mediale», è francamente patetico. È inutile e controproducente enfatizzare una presunta novità, quando invece di novità non c’è neppure l’ombra. Se un impianto crossmediale serve (e serve sempre, anche se in misura e con profondità diverse) va fatto e basta, nel modo più completo, ricco ed efficace possibile; ma senza spacciarlo come l’innovazione del secolo. Se queste regole vengono rispettate e lo sviluppo crossmediale è costruito in modo efficace (senza che il contenuto televisivo puro sia compromesso), i vantaggi che se ne ricavano sono davvero rilevanti. Tanto per cominciare, l’esperienza complessiva ne risulta arricchita. Al telespettatore viene data la sensazione che la promessa del format ­­­­­177

sia più interessante e, di conseguenza, che anche la sua fruizione sia più appagante (anche se non viene messa in pratica effettivamente, o viene messa in pratica solo in modo parziale). Ma a trarne vantaggio non è soltanto il singolo format: è anche il canale televisivo o il network nel suo complesso. Grazie alla crossmedialità si ottiene infatti un rafforzamento dell’immagine di rete e una maggiore fidelizzazione generale. A parte i risultati sulla brand fidelity, questo rafforzamento comporta inoltre maggiori entrate per l’azienda, che vende spazi pubblicitari e offerte commerciali di vario tipo in tutti i media coinvolti. Infatti, se si sfrutta bene l’effetto traino legato al programma, si intensifica generalmente in modo cospicuo il traffico sugli altri media, e questo incremento può essere capitalizzato in vari modi. Ultimamemente, infine, è stato dimostrato che in alcuni casi un impianto crossmediale efficace e ben studiato può avere ricadute positive sull’audience televisiva. L’effetto non è immediato né automatico. Non è detto cioè che, solo per il fatto di avere uno sviluppo crossmediale, il programma abbia diritto a qualche punto di share in più. Generalmente, anzi, non è (ancora) così. Se però a un format già molto forte di suo si innesta uno sviluppo crossmediale altrettanto forte, si può aspirare a dar vita a quel circolo virtuoso che permette alle varie piattaforme di rafforzarsi reciprocamente e di cui abbiamo parlato in precedenza. Ma, anche se ciò non avvenisse (o non fosse comunque immediatamente dimostrabile), i vantaggi di avere un impianto crossmediale solido e ben studiato sono tanti e a così tanti livelli che è semplicemente sciocco rinunciarvi.

Capitolo 7

La finalizzazione

7.1. La scrittura Progettare un buon paper format non basta: bisogna anche riuscire a convincere gli interlocutori della sua bontà. Per questa ragione la scrittura (e il pitch, come vedremo poi) è un’attività assolutamente fondamentale, in quanto condensa e finalizza l’attività di progettazione vera e propria. Di progetti non presi in considerazione perché scritti male o, perlomeno, non sufficientemente bene ce sono davvero tanti. E siccome piazzare un format si sta rivelando un mestiere sempre più difficile e competitivo, è opportuno fare in modo che anche lo strumento con cui lo si presenta sia il più sicuro e incisivo possibile. Va detto come prima cosa che non esiste un modo standard e codificato per scrivere e presentare i format. Qualunque metodo in realtà va bene, purché il risultato sia chiaro ed efficace. Quella che segue non è quindi una griglia rigida, bensì una sorta di catalogo ragionato delle cose che conviene o non conviene inserire nella stesura del progetto, nonché del peso e importanza da attribuire a ognuna. Si tratta inoltre di un approccio di massima: dal momento che i format d’intrattenimento sono molto eterogenei tra loro e possono presentare una varietà di generi elevatissima, anche i paper format relativi variano in misura notevole gli uni dagli altri. Eppure, nonostante gli inevitabili distinguo che bisogna fare tra un paper format e l’altro, è possibile identificare un modello comune, con una sua comprovata efficacia e una sua validità anche a livello internazionale. Quanto alla lunghezza, basti dire che un paper format non dovrebbe mai essere più corto di un paio di pagine (altrimenti si ha solo una generica idea), né più lungo di una ventina (al di sopra di ­­­­­179

questa misura si avrebbe già una cosiddetta «bibbia», su cui ci soffermeremo più avanti). 1) Il titolo (ed eventuale pay off) Il titolo è il biglietto da visita del format: deve essere incisivo e molto evocativo. Il titolo può essere eventualmente rafforzato con un buon pay off, che lo completi e lo renda più chiaro. Il titolo è la prima cosa che si legge del paper format ed è quella che colpisce di più. Un paper format deve essere quindi sempre accompagnato da un ottimo titolo, il più possibile evocativo e accattivante. È consigliabile perciò impegnarsi in una sessione creativa ulteriore, in modo da poter dare una denominazione appropriata al prodotto appena creato. Il titolo è molto importante anche per il format compiuto, naturalmente. È la prima cosa che i futuri telespettatori sentono o leggono a proposito di un nuovo programma e deve quindi essere sufficientemente forte e memorabile per spingerli a guardarli effettivamente. Ma per un paper format non è solo importante: è addirittura essenziale. Un buon titolo fa spiccare il proprio progetto in mezzo a centinaia d’altri, fornisce la prima chiave di lettura, desta le prime curiosità. È insomma il viatico che introduce al progetto vero e proprio e che predispone il valutatore a un atteggiamento più o meno positivo. Non conviene mai mettere in circolazione un progetto con un titolo provvisorio, o di servizio, troppo piatto e banale; il titolo, così come qualunque altro brand, marchia infatti indelebilmente il prodotto sin da subito: presentarsi con un titolo debole o inappropriato può danneggiarne la valutazione. L’unica eccezione a questa regola è di presentare il paper format con un titolo provvisorio sì, ma per eccesso: nel senso che è talmente forte e (volutamente) provocatorio che potrebbe avere difficoltà a restare così com’è fino all’eventuale messa in onda del programma. Non ha importanza: se questa ipotesi si dovesse realizzare, ci sarà tempo di cambiarlo successivamente. Intanto però (se non si è esagerato), questo titolo «scioccante» ha ottenuto l’effetto desiderato: colpire gli interlocutori, imporsi con la sua personalità e dare interesse al progetto che si porta dietro. Ma come dev’essere un buon titolo di format? Un buon titolo deve fare solo accenno all’argomento del programma, senza svelarlo troppo. Deve incuriosire, non descrivere. Deve dare una traccia, lasciar baluginare qualcosa, ma sempre in modo evocativo e un poco ambiguo. ­­­­­180

Deve essere l’amo che cattura la prima attenzione, che deve poi venire confermata con la successiva lettura dell’intero progetto. Chi vuol essere milionario? è un buon titolo, oltre che un ottimo format. Dà un semplice indizio, ma molto significativo (c’è un milione in ballo), nascondendolo però in una formula che non può non attirare l’attenzione, in modo anche provocatorio (chi è quel pazzo che non vorrebbe essere milionario?). Anche Bisturi è un titolo efficace. Molto crudo, secco, originale. Nonostante l’apparente precisione, quasi tecnica, evoca più che descrivere (c’è un bisturi, d’accordo; ma che tipo di programma è? un giallo-horror? un documentario di ambiente medico?). Ciao Darwin è un altro titolo che funziona: originale e curioso, in quanto unisce un termine «alto» (Darwin, lo scienziato per eccellenza) a un familiare, cordialissimo «ciao», suggerendo più che rivelare. In tutti e tre questi casi, quindi, si tratta di titoli quasi esclusivamente evocativi, ma, proprio per questa ragione, decisamente efficaci a livello comunicativo. Molto utilizzati in televisione sono anche i titoli presi a prestito da celebri film, romanzi, storie, opere liriche o modi di dire (I soliti ignoti, Così fan tutte...). La cosa ha i suoi pro e i suoi contro. Il vantaggio principale è che il telespettatore (o meglio: il lettore-valutatore del paper format) trova già un mondo conosciuto ed entra quindi più facilmente nel progetto. Lo svantaggio è però che titoli di questo tipo non sono originali e non riusciranno mai a caratterizzare fino in fondo in modo stretto il format televisivo. I soliti ignoti è un buon titolo, certo; un titolo calzante, evocativo e coerente col programma. Ma non sarà mai associato esclusivamente al format televisivo; non lo caratterizzerà mai fino in fondo in modo univoco e immediatamente riconoscibile come Chi vuol essere milionario?, con il suo bello (e strano) punto interrogativo finale. Però è un titolo facile da accettare (proprio perché già utilizzato in precedenza, in un altro contesto) ed è un titolo che, di sicuro, avrà messo d’accordo tutte le (molte) teste coinvolte nella fase decisionale (autori, dirigenti della casa di produzione e del broadcaster). E questa è una qualità che non va disprezzata... Un ultimo appunto sui titoli in lingua straniera. Un tempo considerati proibiti nel modo più assoluto, sono adesso generalmente ammessi (anche se a volte ancora con riserva), grazie soprattutto all’amplissima offerta sulle reti satellitari e digitali di format esteri. Il caso di The money drop nella fascia «popolare» del preserale di Canale 5 ha fatto un po’ da apripista in tal senso. Se dunque è forse ­­­­­181

ancora un po’ prematuro proporre un titolo inglese per un programma serale di Rai 1, in quasi tutte le altre realtà televisive è invece ormai un’eventualità abbastanza accettata. Non deve però diventare un vincolo in senso opposto, come sembrano invece pensare alcuni giovani autori che attribuiscono sistematicamente un titolo anglosassone a ogni loro progetto cartaceo. La regola è, al solito, quella del buon senso. Se per esprimere il concept del progetto la sinteticità dell’inglese è effettivamente un valore aggiunto (come appunto nel caso di Money drop, per cui tutte le traduzioni tentate sono apparse inadeguate) si può ricorrere a questa lingua senza problemi; in tutti gli altri casi, però, un buon titolo in italiano rimane ancora, a mio parere, la scelta migliore. Non si rende un format più moderno e appealing solo perché si usano parole inglesi (o di un’altra lingua) anziché le equivalenti in italiano, e la cosa non ha niente a che vedere con una sorta di purismo inteso in senso astratto. Il titolo può essere inoltre rafforzato da un pay off (o claim). Per pay off si intende qui genericamente (e anche un po’ imprecisamente) sia un vero e proprio sottotitolo del programma, con cui fa binomio in modo (quasi) inscindibile (per esempio Bisturi. Nessuno è perfetto), sia una sorta di slogan, che però raramente accompagna il titolo fino alla messa in onda (come Bigodini. Il primo quiz che non fa una piega); in altri casi siamo invece a metà strada (Ciao Darwin a volte è seguito e a volte no da L’anello mancante, sostituito nel 2010 dal nuovo pay off La regressione). Pay off è insomma, in questo contesto, qualunque formula che segua il titolo per spiegarlo, arricchirlo o ampliarne il potere evocativo. Non è un elemento essenziale e dunque se ne può anche fare a meno. Però un buon pay off, se si sposa armoniosamente con il titolo a cui è legato, può essere di grande aiuto. A volte infatti il semplice titolo, specie se molto breve (e molto spesso i buoni titoli sono molto brevi), non basta da solo a far intravedere tutte le potenzialità che il format racchiude: ecco che allora si può intervenire con un pay off d’accompagnamento, che completa e dilata il titolo del progetto, rafforzandone l’effetto evocativo e promozionale. Un buon pay off è leggermente meno enigmatico del titolo e lascia intravedere qualche dettaglio in più del programma (senza però rivelarlo troppo). Più in generale, deve essere complementare al titolo stesso, compensandone eventuali difetti (spiegare un po’ di più il format se il titolo è troppo criptico; colpire di più l’interlocutore se è il titolo, al contra­­­­­182

rio, a essere troppo descrittivo; e così via). Nessuno è perfetto, per esempio, compensa bene l’eccessiva crudezza di Bisturi, immettendo una fondamentale sfumatura ironica. Si può ricordare che, in fase di lancio di quello che sarebbe diventato il più importante format del decennio, Big Brother venne fatto conoscere ai broadcaster esclusivamente attraverso un pay off, che sarebbe stato in seguito abbandonato: I’ll watch you. Nessuno (tranne ovviamente i suoi creatori) sapeva che tipo di programma fosse e di cosa esattamente si trattasse; tutto quello che era dato sapere era il titolo (di per sé poco esplicativo), il logo (il famoso occhio della telecamera spalancato verso il telespettatore) e, appunto, questo pay off, di forte impatto e, per la verità, anche un po’ inquietante. L’effetto fu notevole e, anche se certo il successo del format non si può attribuire a questa singolare campagna promozionale, la sua efficacia rimane comunque indubbia. 2) Il concept Il concept deve descrivere nel modo più efficace possibile l’essenza profonda del programma. Deve racchiudere in poche righe tutte le suggestioni che il format può dare e trasmetterle all’interlocutore in modo chiaro ma anche evocativo. Il concept è il vero e proprio cuore del paper format. Insieme al titolo è l’elemento a cui non si può assolutamente rinunciare: al limite è possibile rimandare a un secondo momento la parte di struttura vera e propria, che pure è fondamentale ma che può essere rinviata, limitandola magari a quei progetti che, dopo la lettura del concept, sembrano più promettenti. Il concept è la sintesi dell’intero programma in poche righe (indicativamente da 10 a 40). Sono però righe molto dense, che hanno un peso specifico superiore a tutto il resto del documento, e devono perciò essere studiate e calibrate con la massima attenzione, parola per parola. In queste poche righe bisogna riuscire infatti a unire il massimo della chiarezza possibile (ovvero far capire all’interlocutore ciò di cui si sta parlando) con la massima efficacia (ovvero convincere l’interlocutore stesso della validità della proposta). Il concept deve quindi in primo luogo essere chiaro: chi lo legge deve farsi un’idea precisa (anche se non dettagliata) del progetto che verrà spiegato più approfonditamente nella sezione successiva. Evitare quindi i concept troppo criptici o involuti: il concept non è una semplice introduzione ­­­­­183

o una sorta di prologo del progetto, bensì è il progetto stesso in forma concentrata. Non è lungo come l’intero paper format, ma deve contenere i suoi elementi essenziali. Deve indicare con chiarezza di cosa si sta parlando (è un game? un reality? Quali sono gli ingredienti principali di cui è composto?) senza però dilungarsi troppo. Per avere un’idea più precisa di come deve essere un buon concept, è utile tenere sempre a mente che c’è la possibilità che il valutatore possa leggere solo quello. Cosa è dunque indispensabile che egli sappia? Quali sono le notizie, i meccanismi, i sapori che è fondamentale che gli vengano comunicati? Scrivere un concept che risponda in modo soddisfacente a tali quesiti significa scrivere un buon concept. Il concept, però, non deve solo spiegare: deve anche convincere. Spiegazioni troppo didascaliche potrebbero risultare anche chiare, ma se ottengono il risultato di annoiare l’interlocutore o di non appassionarlo abbastanza hanno fallito il loro obiettivo. Il concept deve quindi informare ma anche destare interesse, deve raccontare il progetto lasciando al contempo intendere che si tratta di un progetto buono, anzi, eccellente. Date queste premesse, non è facile scrivere un buon concept. Occorrono tempo, idee chiare e un’ottima abilità di scrittura. È però fatica ben riposta: a volte infatti si sottopone a un interlocutore esclusivamente una serie di concept (corredati di titolo, con l’eventuale aggiunta di pay off), tra cui verranno scelti quelli più accattivanti, che verranno poi presentati in dettaglio, per far capire il progetto in modo completo. È implicita, in questo caso, l’eventualità che, se nessun concept convince fino in fondo, nessun progetto potrà avere futuro. Scrivere bene il concept è dunque un’attività fondamentale dell’intero processo creativo ed è bene applicarsi a essa con impegno. Occorre a volte riscriverlo più e più volte e, se non convince abbastanza o non è sufficientemente chiaro, bisogna avere la capacità di buttare via tutto e di riscriverlo, fino a quando non si sarà raggiunto l’obiettivo desiderato. 3) La struttura La struttura è il paper format. È la sua compiuta descrizione, in stile chiaro e piano. Una buona struttura deve raccontare in modo preciso e diacronico l’intero svolgimento, senza tralasciare alcun passaggio e snodo. Al termine della lettura, il valutatore deve avere la sensazione di aver capito il progetto per filo e per segno, senza dubbi o zone d’ombra. ­­­­­184

Se il concept è il cuore del paper format, la struttura è il vero e proprio corpo. Se il concept riguarda in genere solo l’idea nucleo del progetto, la struttura deve raccontare compiutamente tutti gli sviluppi precisi di tale idea nucleo. Il compito del concept è (anche) quello di convincere l’interlocutore; quello della struttura è invece solo quello di spiegare il progetto nel modo più chiaro e completo possibile. Lo stile del concept deve anche essere espressivo; quello della struttura, viceversa, solamente informativo. Di tutte le parti che compongono il paper format, la struttura è una delle meno schematizzabili. La struttura di un game show differisce molto da quella di un talk show o di uno psycho drama game, e quindi anche le rispettive spiegazioni cartacee devono essere in grado di rispecchiare queste differenze. In ogni caso, la regola generale è che la struttura del paper format deve descrivere il progetto in modo compiuto, cercando di raccontarne diacronicamente lo sviluppo. Questo significa non limitarsi a raccontarne le potenzialità o a girare intorno all’idea nucleo centrale, bensì seguirne lo svolgimento passo dopo passo, dall’inizio della futura trasmissione fino alla sua conclusione, aggiungendo inoltre alcuni elementi «di vestito» particolarmente caratterizzanti. Occorre quindi sforzarsi di spiegare ciò che si vede realmente nel corso del programma come lo si vedrebbe se fosse in onda, senza commenti, digressioni o considerazioni di altro tipo. E poiché ogni programma è diverso dall’altro, la parte della struttura si deve adattare alle caratteristiche peculiari di ciascun genere. In un game, per esempio, dovranno essere spiegate in modo esaustivo le meccaniche di tutti giochi, uno dopo l’altro; in un emotainment vanno raccontati con chiarezza i vari momenti e i vari snodi rituali che compongono e punteggiano le storie introdotte; in uno psycho drama game vanno descritte le varie dinamiche che si possono sviluppare all’interno del gruppo dei partecipanti, sia nel corso di una singola puntata, sia nell’arco complessivo dell’intera serie; in un talk show bisogna specificare in che modo viene regolamentato e portato avanti il dibattito; e così via. Per poter scrivere una buona struttura occorre quindi avere estremamente chiaro lo svolgersi del programma nella sua interezza e raccontare con la maggiore semplicità possibile questo svolgimento, come se scorresse in video istante dopo istante. Stendere la struttura di un paper format è poi anche un ottimo esercizio per verificare che tutti gli snodi e le dinamiche siano chiari e scorrano via precisi e sen­­­­­185

za intoppi. Se non si riesce a raccontare in modo piano tutte queste cose i casi sono due: o si hanno problemi di scrittura (il che, per un autore, è un grosso problema), oppure c’è qualche intoppo oggettivo nella struttura stessa; nel qual caso è bene provvedere subito. 4) Gli esempi Gli esempi devono far vivere il paper format. Devono dargli calore e sapore. Devono dargli spessore e plasticità, facendo avvicinare il più possibile il progetto cartaceo al prodotto audiovisivo finale. In un paper format non deve mai mancare un buon numero di esempi, che sono importantissimi per completare il progetto cartaceo, spiegarlo meglio e coinvolgere maggiormente l’interlocutore. Sono infatti soprattutto gli esempi a dare profondità, a rendere visivo e ad animare il paper format, che è per sua natura «piatto», avvicinandolo quindi al format vero e proprio. Ogni tipologia di programmi ha bisogno di esempi differenti. Se si tratta di un game, dopo aver illustrato le meccaniche di gioco bisogna inserire esempi di domande che possono essere poste ai concorrenti, per dare un’idea più precisa del livello di difficoltà e del sapore che si vuole dare alle varie manche. Se si tratta di un programma d’emozione, occorre fare precisi esempi (inventati) su alcuni casi umani che possono essere trattati nel corso della trasmissione. Se si tratta di un talk show, è opportuno dare un elenco dei possibili temi da discutere nel corso delle varie puntate, per poter valutare meglio il tono complessivo del programma. E così via. Non bisogna mai risparmiare sugli esempi: degli esempi ben studiati e ben scritti non solo rendono più chiaro e comprensibile il progetto, ma catturano anche l’attenzione molto più di tante pagine di struttura e di meccanismi astratti. Gli esempi permettono infatti al valutatore di farsi un’idea più precisa e più vicina al risultato finale del progetto, dandogli inoltre una carica emozionale che altrimenti non avrebbe. Per questa ragione sono sempre graditi a chi legge: e questo contribuisce naturalmente a rendere il valutatore un po’ più ben disposto nei confronti del progetto che ha davanti. Fare dei buoni esempi è dunque un ottimo esercizio e un eccellente epilogo dell’intera fase creativa. Gli esempi dicono molto più sul proprio lavoro di tante descrizioni teoriche; e questa è un’evidenza che va sempre tenuta a mente. Gli esempi possono essere introdotti, in modo sintetico, sia all’interno della struttura (mentre viene descritto un meccanismo, un pas­­­­­186

saggio, uno snodo), sia al termine di essa. Quindi, se si descrive la meccanica di un game si può introdurre subito un esempio per spiegarla meglio; poi, al termine della descrizione, si possono introdurre altri esempi, molto più numerosi, per trasmettere meglio lo spirito e il sapore del programma. Se invece si sta scrivendo la struttura di un reality si può inserire subito un rapido esempio di un possibile protagonista e di una cosa che può capitare all’interno del gruppo; quando si è completata la struttura si può introdurre una sezione conclusiva in cui viene descritto l’intero gruppo dei possibili partecipanti (ovviamente inventato, ma il più realistico possibile), con tutta una serie di prove e situazioni che possono avvenire nel corso della serie. E così via. I quattro elementi appena descritti non devono mai mancare in nessun paper format. Oltre a questi, possono essere introdotte altre informazioni, che però devono essere trattate con estrema cautela. Vediamone alcune. genere. Specificare il genere a cui il programma appartiene è un’informazione che non toglie né aggiunge nulla al progetto. Bisogna inoltre porre molta attenzione a quel che si scrive perché, come abbiamo visto, molto spesso è un vero problema etichettare un format col termine esatto. Il rischio è che, senza volerlo, si usino denominazioni obsolete e/o imprecise, specie per quei prodotti non chiaramente e immediatamente classificabili (sconsigliatissime sono le denominazioni troppo arzigogolate, o arbitrarie). È chiaro che se il paper format è inquadrabile in un genere classico (quiz, talk show...) non ci può essere spazio per equivoci o errori di sorta. Però è anche vero che, in questi casi, specificare il genere non aiuta poi molto. Ha invece senso aggiungerlo se i progetti presentati sono svariati e quindi le etichette servono a mettere un po’ d’ordine e a fare da guida all’interlocutore. Comunque sia, in caso di dubbio è consigliabile tralasciare questa specificazione, dato che la sua presenza non sposta in alcun modo la valutazione finale del prodotto. durata/fascia/rete.  A

volte si usa indicare la durata precisa del programma (30, 60, 45 minuti...), e/o la fascia di collocazione privilegiata (preserale, day time, prime time...), e/o la rete di riferimento. Anche per quanto riguarda queste informazioni (che pure sono utili e indicative della natura e dello spirito del format) occorre fare attenzione. Se un autore ha per esempio indicato chiaramente che il ­­­­­187

programma da lui pensato deve avere una durata di 15 minuti, ma l’interlocutore non è interessato a quella pezzatura, il progetto corre il rischio di essere bruciato, quando magari sarebbero bastati semplici aggiustamenti per portarlo al minutaggio desiderato, senza stravolgerlo o modificarlo troppo. È chiaro però che se è l’autore stesso a porre questi limiti con puntigliosità, sarà quantomeno più difficile far marcia indietro e ritarare il progetto a seconda delle esigenze dell’interlocutore. Per non incappare in questi rischi, è preferibile fornire questi dati non in forma troppa perentoria e precisa, ma in modo un po’ più elastico (per esempio: 15-30 minuti...). In ogni caso, il consiglio di fondo è analogo a quello del punto precedente: inserire nel paper format queste indicazioni solo se si è perfettamente sicuri di quel che si sta scrivendo; oppure nel caso in cui ci sia stata una richiesta precisa di lavorare con quei limiti (se è stato richiesto un format per una rete precisa, per una data fascia e con uno specifico minutaggio è lecito riportare questi dati). Va detto però che è anche perfettamente superfluo. Anche in questo caso, infatti, si tratta solo di informazioni tecniche che non contribuiscono a far vendere meglio il proprio prodotto e che, alla fin fine, fanno correre più rischi di quanti non siano i vantaggi che potrebbero produrre. scaletta. 

La questione se introdurre o meno in un paper format la scaletta del futuro programma è annosa. Una scaletta ben fatta aiuta sicuramente l’interlocutore a capire la scansione e i tempi del progetto. Però ci sono anche controindicazioni di cui bisogna tenere conto. Anzitutto una scaletta bisogna saperla scrivere. È uno strumento di lavoro ben preciso, che richiede conoscenze e competenze tecniche di base: scrivere una scaletta e sbagliarla sarebbe una palese prova di scarsa professionalità. Non è possibile, tuttavia, darne una descrizione approfondita in questa sede, perché non appartiene alla fase di progettazione, ma piuttosto a quella successiva di produzione. Ma anche chi padroneggia questo strumento deve prestare attenzione. Non esiste infatti una scaletta standard. Una scaletta deve per forza essere concordata con il broadcaster, che fornisce agli autori o alla casa di produzione una griglia operativa a seconda del tipo di programma, della rete e della fascia oraria di destinazione. Quindi, anche chi sa costruire una scaletta, se non conosce perfettamente il contesto specifico, rischia di scrivere cose imprecise. La scaletta ­­­­­188

deve infatti sempre essere fatta su misura: in mancanza di indicazioni dettagliate conviene farne a meno, perché il rischio di fare brutta figura è troppo alto, e il gioco non vale la candela. Per rendere più chiaro e schematico il progetto la cosa migliore è «scalettizzare» il più possibile la struttura, rendendola più agile e chiara con molti paragrafi e sottoparagrafi (per esempio prima fase/parte prima, o primo gioco, seconda, terza...). note tecniche.  Alcuni autori inseriscono al termine del progetto delle note tecniche, registiche o di altro tipo. È un campo molto delicato e pericoloso. Innanzitutto perché, se non si è molto ferrati in materia, si corre il rischio, come nei casi precedenti, di dire inesattezze. Ma anche se si è competenti queste note non sono esenti da criticità. Se vengono introdotte solo per cercare di mettere in mostra la propria preparazione e far vedere che si è degli «addetti ai lavori», è decisamente meglio lasciar perdere. Soprattutto se il tono, intenzionalmente o meno, sa un po’ di lezioncina, impartita dall’autore al broadcaster o alla casa di produzione di turno. Inutile dire che la cosa non è gradita. Introdurre nel paper format un paragrafo dedicato all’argomento ha senso solo quando faccia parte integrante del progetto un aspetto tecnico veramente rilevante e assolutamente non standard: per esempio un’apparecchiatura speciale, o un software particolare, o un qualche altro ritrovato tecnologico non convenzionale. In ogni caso, prima di introdurre tale sezione occorre chiedersi molto seriamente se è assolutamente necessario farlo, se non si stanno dicendo banalità o cose probabilmente già risapute e, soprattutto, se le cose di cui si parla danno un effettivo valore aggiunto al paper format.

7.1.1. La «bibbia» La «bibbia» è una sorta di manuale con tutte le istruzioni per l’uso del format. È uno strumento molto articolato, che deve essere compilato da tutte le figure principali che hanno contribuito allo sviluppo del format stesso (regista, scenografo, grafico...). Per concludere questo paragrafo dobbiamo almeno introdurre un ultimo documento scritto: quello che in gergo viene definito «bibbia». Se il paper format è soprattutto uno strumento di vendita, la «bibbia» è invece esclusivamente uno strumento di lavoro. È una sorta di manuale con le «istruzioni per l’uso» che si allega general­­­­­189

mente al supporto audiovisivo del format vero e proprio, affinché l’acquirente abbia tutte le indicazioni, in forma particolareggiata, per poter produrre a sua volta il format nel modo più corretto possibile. In altre parole, la cosiddetta «bibbia» è il documento, lungo anche parecchie centinaia di pagine, che raccoglie tutte le informazioni e tutti i dati, di qualunque natura e di qualunque tipologia (scenografica, informatica, produttiva...), necessari a produrre un programma. In genere si stende la «bibbia» o in fase avanzata di pre-produzione, quando cioè sono stati definiti tutti i dettagli tecnici e organizzativi, o, meglio ancora, dopo che il programma è stato già realizzato (indipendentemente dal fatto che sia stato messo in onda o meno): in quest’ultimo caso il vantaggio consiste nel fatto che si può disporre di materiali (per esempio le foto della scena allestita) che altrimenti non si potrebbero avere. La «bibbia» non è mai opera di un solo individuo. Ciascun professionista che ha lavorato al progetto predispone il materiale relativo al suo campo di competenza: gli scenografi forniscono tutte le planimetrie e gli altri materiali a supporto; i softwaristi descrivono i loro programmi con tutte le informazioni tecniche necessarie; il regista spiega il numero e il tipo di camere utilizzate e la loro disposizione nello spazio scenico; e così via. Più che un documento omogeneo, la «bibbia» si presenta quindi come un vero e proprio patchword di parti giustapposte, ognuna con caratteristiche proprie. La «bibbia» svolge anche una funzione che possiamo definire normativa. In virtù della sua stessa puntigliosità e precisione, stabilisce infatti dei paletti e dei limiti estremamente rigorosi che garantiscono chi detiene i diritti del format da un suo travisamento o stravolgimento da parte dell’acquirente. Elementi visivi o comunque in grado di connotare il format in senso formale, come il logo, gli elementi scenografici, il tipo di grafica (ma anche le musiche di sottofondo), trovano largo spazio nella «bibbia» e impongono un preciso standard di riferimento all’acquirente. Spetta poi al detentore dei diritti decidere quanto essere rigido e inflessibile su questi e sugli altri elementi del suo prodotto e quanto invece accettare cambiamenti e (eventuali) migliorie da parte dell’acquirente (sapendo che, una volta concluso l’accordo commerciale, tutti i cambiamenti del format accettati dal detentore dei diritti rimangono di sua proprietà, ed egli può includerli in una nuova «bibbia», riveduta e aggiornata). ­­­­­190

Per concludere, ecco un sintetico elenco delle cose che ogni «bibbia» deve comprendere: – la struttura del programma, in forma più completa ed esaustiva rispetto a quella di un paper format. In questa sede non ci deve essere nessun risvolto, per quanto statisticamente improbabile, che non venga contemplato e risolto. Nel caso sia già stata registrata una puntata (numero zero o in onda), può essere utile inserire anche una scaletta e un copione completo di tutto quanto è stato detto e fatto nel corso della puntata stessa. Se si tratta di un game è indispensabile inserire anche un nutritissimo elenco di domande; – tutte le informazioni tecniche relative allo studio (disposizione e tipologia delle telecamere, luci, led e vidiwall...); – tutti gli elementi scenografici presenti in studio (oltre alla scenografia vera e propria, vanno inseriti i modelli e le sezioni degli eventuali banchetti e di ogni altro oggetto presente in scena); – caratteristiche tecniche di tutto il pacchetto software impiegato, comprese le problematiche della compatibilità con i vari tipi di hardware; – il piano di produzione dettagliato, corredato da documenti di lavoro concreti; – logo e grafica impiegati nel programma; – musiche, effetti sonori e ogni altro tipo di segnale audio rilevante per la produzione; – caratteristiche ideali dei concorrenti e/o dei partecipanti; consigli e documentazioni da produrre al riguardo; – una sezione dedicata al presentatore, contenente suggerimenti sul suo movimento in studio e sulle modalità di interrelazione con i partecipanti; – FAQ, vere o ipotetiche; – varie ed eventuali (adattamenti in paesi esteri, problematiche legali peculiari, ecc.). Esiste infine anche un’accezione ristretta (e un po’ imprecisa) della «bibbia», che possiamo definire «bibbia autoriale». Si tratta di un paper format più dettagliato e tecnico, che si concentra solo sugli aspetti contenutistici del programma (in pratica solo il primo punto dell’elenco tracciato sopra). Questo documento segue generalmente un paper format più generico, quando il valutatore si è dimostrato interessato alla proposta e chiede quindi maggiori delucidazioni e dettagli sul progetto, per farsene un’idea più approfondita, o poterlo ­­­­­191

a sua volta vendere al meglio. C’è quindi una sorta di sdoppiamento del paper format: un primo documento più agile, incisivo, commerciale (ma comunque mai troppo generico), per catturare l’attenzione dell’interlocutore, a cui fa seguito un secondo più approfondito, tecnico e specifico per spiegarlo nel dettaglio, dopo che il primo ha già avuto un apprezzamento e una valutazione positiva di massima (ma non è stato ancora venduto). 7.2. Il pitch Il pitch (letteralmente: «promuovere qualcosa», «piazzare qualcosa») è l’atto con cui gli autori cercano di convincere l’interlocutore (o gli interlocutori), con cui si ha un rapporto interpersonale diretto, della validità del loro aspirante format. È dunque una forma particolare e specifica di esposizione efficace. È una pratica diffusa soprattutto nei paesi che presentano un mercato dei format più evoluto e dinamico rispetto al nostro. In queste realtà vengono periodicamente organizzati dei momenti istituzionali in cui le case di produzione (più raramente gli autori indipendenti) possono esporre i loro progetti ai responsabili dei canali, che ascoltano a una a una le presentazioni. Non si tratta di semplici chiacchiere a ruota libera. Per ogni sessione vengono specificati regole, modalità e tempi di esposizione estremamente precisi e vincolanti, che devono essere rispettati con la massima attenzione. Generalmente, il tempo concesso va dai 3 ai 15 minuti al massimo (ma ci sono anche casi di speedy pitch da un solo minuto); sono in genere ammessi materiali a supporto della presentazione (power point, brevi filmati, immagini di vario tipo), ma in alcuni casi è espressamente vietato ogni tipo di aiuto e ci si deve basare esclusivamente sulla propria capacità di persuasione orale. Si tratta quindi, spesso, di una vera e propria audizione, anche molto impegnativa (a volte i valutatori sono più di uno e formano una sorta di commissione che assomma competenze diversificate), in cui la bontà del progetto deve abbinarsi a un’altrettanto forte capacità comunicativa. Per questa ragione, in molti paesi quella del pitch sta diventando una vera e propria «scienza», con regole, consigli pratici e teorici e veri e propri specialisti del campo. Secondo uno di loro, addirittura, ­­­­­192

«nello scenario competitivo televisivo attuale, non vince il prodotto migliore, ma quello a cui è stato fatto il miglior pitch»1. Un’opinione sicuramente un po’ estrema, ma forse non del tutto sbagliata (almeno nelle realtà in cui il pitch è così diffuso). È difficile schematizzare in poche pagine le regole di un buon pitch. Anche perché in questo campo si trovano mescolate discipline diverse e collaterali, come la programmazione neurolinguistica, altri modelli di psicologia interpersonale, tecniche di persuasione e di vendita e altro ancora. Per rimanere focalizzati sul tema principale di questo libro – il format – e non divagare eccessivamente, mi limito a suggerire quattro consigli di base, insufficienti forse a insegnare l’arte del pitch nella sua compiutezza, ma utili a valorizzare al meglio il proprio progetto televisivo. 1) Concentrarsi sull’idea forte È difficile raccontare in pochi minuti un progetto televisivo. Ma raccontarlo nella sua interezza è assolutamente impossibile. Occorre dunque selezionare il tratto distintivo forte e concentrarsi solo su di esso, valorizzandolo al massimo. Il primo consiglio è di concentrarsi quasi esclusivamente sull’idea nucleo alla base dell’intero format, almeno per tutta la prima parte dell’esposizione. Bisogna infatti tenere sempre presente che l’interlocutore (salvo casi particolari) sente parlare per la prima volta e per pochi, velocissimi minuti, del progetto, magari dopo averne sentiti in precedenza molti altri. Un pitch che riesce quindi a trasmettere all’interlocutore il suo tratto distintivo forte, con chiarezza e sinteticità, è già un buon pitch. Il rischio principale che si corre è infatti quello di voler dire troppe cose, dare troppe informazioni, spiegare tutti gli aspetti del programma, e non solo le cose davvero rilevanti. Anche se supportati dai migliori power point, anche se si dispone di una capacità espositiva eccellente, voler essere a tutti i costi esaustivi è sempre un errore. Prima di preparare la presentazione, chi fa il pitch deve quindi chiedersi: qual è la cosa (o le due o tre cose al massimo) fonda-

1   L’affermazione è di Paul Boross, «The Pitch Doctor», esperto – come dice il nome d’arte che si è scelto – dell’attività di pitch, tema su cui tiene conferenze e corsi d’addestramento specifici.

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mentale del mio progetto? quando avrò terminato cosa voglio che l’interlocutore si ricordi, considerato che il suo spazio mentale è per forza di cose limitato? Almeno per le prime esperienze, consiglio quindi di procedere in modo molto elementare e schematico. Presentare anzitutto il progetto solo con il titolo (accompagnato eventualmente dal suo pay off), in modo da sprigionare subito quell’alone di evocatività che un buon titolo porta con sé. Successivamente però, a differenza di quanto detto a proposito del paper format, è buona cosa spendere qualche parola per spiegare in linea di massima di che tipo di progetto si tratta, per dare qualche coordinata al valutatore: specificare quindi, nei limiti del possibile (e senza bruciare troppo la sorpresa), il genere e la pezzatura prevista, con eventualmente qualche altro dato di contesto. Subito dopo si introduce il piatto forte: l’idea nucleo del progetto, esposta in modo semplice ma efficace e senza troppi arzigogoli. Bisogna insomma «venire al succo», ribadendo i concetti fondamentali anche più e più volte (la ripetizione, nei pitch, è sempre una buona cosa), in modo da essere sicuri che il nostro interlocutore li abbia ben chiari. Gli esempi, come al solito, aiutano molto. Dopo aver esposto (e ripetuto più volte) l’idea nucleo, ribaditela ancora una volta con esempi significativi. Invece di introdurre nuovi particolari, che potrebbero rendere il pitch più dispersivo e confuso, conviene senz’altro spendere un po’ di tempo e di parole per fare esempi concreti che valorizzino il più possibile l’idea nucleo precedentemente esposta. Il resto dipende dal tempo complessivo concesso. Se il pitch ha un tempo massimo di 5-6 minuti, non bisogna andare oltre. Chiudere un pitch con dei buoni esempi, che lascino nella bocca dei valutatori il «sapore» del format, è un’ottima cosa. Se invece il tempo a disposizione è superiore (dai 7 ai 15 minuti; in ogni caso questo limite massimo non deve mai essere superato, anche se non dovesse essere stato fissato preventivamente) si può aggiungere qualche dettaglio ulteriore. Senza esagerare, però. È sempre meglio concludere il pitch lasciando nell’interlocutore il desiderio di volerne sapere di più, piuttosto che intontirlo di particolari. Nel primo caso, infatti, il valutatore può sempre leggersi l’intero progetto sul paper format (che bisogna sempre portare con sé e consegnare al destinatario, ma solo dopo che si è concluso il pitch) per averne una conoscenza più approfondita. Nel secondo si rischia invece di perderlo per sempre. ­­­­­194

2) Trasmettere entusiasmo A differenza del paper format, il pitch ha il vantaggio di poter trasmettere in modo diretto all’interlocutore la passione e l’entusiasmo di chi ha ideato il progetto. E l’entusiasmo è un’arma potente, che va sfruttata. Fare un pitch non è – e non deve essere – un esercizio «freddo». Avere un contatto diretto, faccia a faccia, col proprio interlocutore permette un cosa che il paper format, per quanto ben scritto, non potrà mai fare: comunicare le proprie emozioni. Attenzione: emozioni in entrambi i sensi, positive e negative. Spetta a chi espone fare in modo che prevalgano le prime e non le seconde. La prima condizione perché questo possa accadere è crederci: credere al proprio progetto e credere che possa entusiasmare anche il nostro interlocutore. È persino banale dirlo, ma se non siamo noi i primi a credere in ciò che abbiamo scritto, è duro pensare che possano crederci gli altri. I programmi televisivi hanno il vantaggio di essere dei prodotti emotivamente coinvolgenti. E questa capacità di coinvolgere deve essere trasmessa da chi racconta il programma a chi lo ascolta. Quest’ultimo deve capire anzitutto di cosa si sta parlando; ma, subito dopo, deve percepire l’entusiasmo di chi sta esponendo. Non voglio suggerire di essere plateali o di usare dei trucchetti da venditore da quattro soldi. Sono semplicemente convinto che chi si dedica con impegno, energia e professionalità alla progettazione di un format televisivo e, dopo ripetuti sforzi, ottiene un risultato qualitativamente buono, deve provare per forza una grande soddisfazione (altrimenti, è meglio che cambi mestiere). Ebbene, tale soddisfazione non deve rimanere repressa, ma deve venir sprigionata, con i dovuti modi, nel proprio pitch, affinché contagi anche chi si trova di fronte a noi. La presentazione non deve quindi mai essere troppo rigida e ingessata. Chiara e semplice sì, ma anche «calda». Il pitch non deve somigliare a una lezioncina imparata a memoria, priva di calore e di sfumature emozionali, come la lettura del verbale di una riunione di condominio. In fin dei conti stiamo parlando di programmi di intrattenimento, che hanno come fine specifico quello, appunto, di intrattenere, di emozionare e di divertire le persone. L’entusiasmo si deve percepire, deve essere evidente e palpabile. È lecito quindi dire in modo esplicito che il punto di forza che abbiamo appena esposto ci convince molto, che lo troviamo originale ed efficace e che, con ogni probabilità, anche il pubblico a casa la penserà come noi. È chiaro che una presentazione ­­­­­195

non deve essere fatta solo di proclami di questo tipo. La cosa più importante è avere davvero un punto di forza, effettivo e oggettivo. Ma, se le cose stanno effettivamente così, è giusto e consigliabile caricarlo con valenze emotive molto evidenti. Occorre scuotere l’interlocutore e trasmettergli tutto l’entusiasmo di cui siamo capaci, in modo da dargli la sensazione che questo stesso entusiasmo arriverà anche ai telespettatori a casa, una volta che il programma sarà in onda. Altro consiglio molto importante è di concentrarsi al massimo sul proprio interlocutore. Bisogna parlare a lui (o a loro, se sono più di uno) e non a un’entità astratta e incorporea. Bisogna cercare di ingaggiarlo con la propria esposizione, interagendo il più possibile. Bisogna starlo a sentirle e ritarare sui suoi commenti, sulle sue sensazioni e sulle sue domande l’intera presentazione, cambiandola anche completamente, se è necessario. E, se i commenti non dovessero venire in modo spontaneo, bisogna spingere a farli, chiedendoli apertamente. Bisogna insomma trasformare il monologo in un vero e proprio dialogo, in modo da costruire la presentazione a due voci (o quasi). E bisogna anche guardare negli occhi l’interlocutore, anziché tenerli bassi sul computer o fissi sul punto dove è proiettata la schermata di presentazione. Bisogna insomma concentrarsi il più possibile sulla singola P (la persona che sta di fronte) e un po’ di meno sulla doppia P (il power point con la presentazione). 3) Farsi notare Fare una presentazione chiara ed entusiasmante è una condizione necessaria ma spesso non sufficiente per emergere: bisogna sforzarsi per riuscire a renderla un’esperienza davvero originale e unica. Tutti i mezzi sono leciti (o quasi). Partire da un’idea nucleo forte, raccontarla bene, trasmettendo entusiasmo, può a volte non bastare per far sì che il nostro pitch sia unico e memorabile. Bisogna arricchirlo, dargli un vestito accattivante, renderlo particolare. Serve un supplemento di creatività da spendere unicamente per rafforzare la presentazione, in modo che spicchi, nel ricordo del nostro interlocutore, in mezzo a tutte le altre. Le modalità sono infinite. Fortunatamente, in questo campo la creatività e l’originalità sono ancora considerate dei valori importanti; è quindi possibile sbizzarrirsi un po’ e inventarsi qualcosa di nuovo, di curioso, fuori dagli schemi più ovvi e ripetuti. Basta solo non sconfinare nella stravaganza a tutti i costi e nel cattivo gusto. ­­­­­196

Tanto per cominciare, si può arricchire il pitch con foto e brevi filmati, anche non originali, che facciano entrare nel progetto l’interlocutore in modo emotivamente coinvolgente e inaspettato. Partire con una serie di immagini d’effetto, o con un video preso da internet che non può lasciare indifferenti per la sua simpatia o per il suo impatto emotivo, è un buon modo per catturare istantaneamente la curiosità di chi ci sta di fronte. Oppure si possono predisporre dei piccoli gadget od oggetti legati al tema o al titolo del programma, che poi possono essere consegnati al valutatore insieme al paper format al termine della presentazione. Si tratta di un programma di cucina? Preparate un piccolo simbolo gastronomico del programma, magari con il logo del programma stesso. È un reality con un meccanismo di eliminazione particolare? Preparate l’oggetto che simboleggia questo snodo (busta o quant’altro). È un programma sui matrimoni? Presentatevi con un velo da sposa, o anche solo con un piccolo bouquet in mano. È un gioco in cui si possono vincere tanti soldi? Stampate qualche banconota con il titolo e il logo del programma in bella mostra. E così via, senza porre troppi limiti all’immaginazione. Anche la presentazione scritta in quanto tale può essere resa meno standard e più d’impatto. Frasi, citazioni, massime e slogan sono raccomandati, se non sono banali. Oppure si può ricorrere a domande retoriche con risposte inaspettate, «errori» volontari che sottolineino il contrario di quanto in realtà vogliamo affermare, e tanto altro ancora. Se chi espone il progetto è più d’uno, si può preparare una presentazione a più voci, in modo da cambiare ritmo e rendere meno monotono il pitch. Così, mentre un autore spiega i meccanismi in modo razionale e preciso, un altro può introdurre parentesi più leggere, fingendo per esempio di essere uno dei protagonisti del programma e comportandosi di conseguenza. O ancora, si può simulare una breve manche del format, facendo finta di essere i concorrenti, oppure dividendosi i ruoli di conduttore e concorrenti; e così via. È infine assolutamente fondamentale, nel caso in cui si presenti un game, preparare una presentazione giocabile. Un gioco è infatti il genere più complesso e lungo da spiegare; anche il meccanismo più oliato, se raccontato solo in teoria, risulta spesso ostico e farraginoso. È dunque indispensabile far giocare in prima persona il valutatore, coinvolgendolo in modo diretto. Chi ne ha la possibilità e la capacità può preparare un piccolo software che simuli ciò che si vedrà direttamente in onda. Molto spesso, però, basta anche un’esemplificazio­­­­­197

ne fatta su power point dinamico; o addirittura possono raggiungere efficacemente lo scopo anche dei supporti costruiti a mano, semplicemente con carta o cartoncino e scritti con pennarelli colorati (se fatti bene). L’importante è che la persona davanti a noi giochi, anche in modo elementare, ma effettivo, e non rimanga invece un semplice ascoltatore passivo. Insomma, sotto questo punto di vista ci si può inventare di tutto (o quasi) e ogni mezzo è lecito (o quasi). Purché non si esageri e non si utilizzino questi espedienti per colmare buchi e carenze del progetto. Queste idee devono essere qualcosa in più da aggiungere all’essenziale, che è e rimane un progetto televisivo forte ed efficace in sé, e non dei modi per puntellare un programma che non sta in piedi da solo, cercando di distogliere l’attenzione di chi ci sta di fronte dai reali problemi di fondo. 4) Prepararsi Un buon pitch non s’improvvisa. È anzi frutto di un lavoro di preparazione lungo, attento e accurato. Occorre impegnarsi a fondo sia sui materiali di supporto alla presentazione, sia sulle modalità della presentazione stessa. Ripetetela più e più volte; e, quando vi sentite sicuri, ripetetela ancora. Si dice che la gente che parla davanti a una platea (come appunto nel caso di un pitch) si divide in due categorie: quelli che hanno paura e quelli che mentono. Parlare davanti a qualcuno (specie se si deve riuscire a convincerlo) è dura per tutti. Solo gli irresponsabili non si preparano a dovere. Ciò significa che il pitch non va preparato solo bene: deve essere preparato in maniera perfetta; deve essere una vera e propria macchina da guerra, in grado di convincere anche i valutatori più riluttanti. Bisogna tenerlo bene a mente: in questo campo avere delle buone idee non basta più. In primo luogo, queste idee devono essere sviluppate in modo coerente, efficace e completo in tutti i loro risvolti; in secondo luogo, bisogna saperle valorizzare e vendere al meglio. L’ultimo consiglio, il più semplice, è proprio questo: trattate il pitch come un’attività vera e propria, che richiede una preparazione e un impegno specifici, e non come una semplice formalità da sbrigare senza doverci pensare troppo. Insomma, nel pitch creatività deve fare sempre rima con professionalità. Esattamente come nell’attività di progettazione di format nel suo insieme. ­­­­­198

Capitolo 8

L’adattamento

8.1. I format esteri I format hanno ucciso la creatività. È un ritornello che si sente ripetere spesso e volentieri, anche da parte di chi, a dire il vero, non ha le idee molto chiare su cosa sia esattamente un format. In realtà lo sviluppo dei format, ormai inarrestabile a livello mondiale, non va affatto a detrimento della creatività e della professionalità autoriale, tutt’altro. Progettare un format, un vero format, è una pratica impegnativa e stimolante, che richiede forse anche più perizia e creatività di un programma generico. È una creatività di tipo diverso, più di struttura e di architettura generale: ma le buone idee ci vogliono lo stesso. Anzi: ci vogliono idee perfino migliori di quelle dei programmi generici. Perché è estremamente complesso formulare idee che siano abbastanza forti da reggere l’intero arco narrativo, che siano replicabili tutte le volte che serve e che possano essere esportate in tutto il mondo (caratteristiche che contraddistinguono il vero format). Non c’è quindi il minimo dubbio: anche con l’avvento dei format (del resto oramai ultra-decennale) le idee continueranno a rimanere al centro del prodotto televisivo, forse anche più di prima. È però vero che in Italia l’importazione di format di altri paesi è forse eccessivamente elevata, superiore a quella di altri Stati comparabili per dimensioni e reddito. Ho ritenuto perciò utile, prima di affrontare il discorso dell’adattamento vero e proprio, elencare le motivazioni principali per cui si acquistano i diritti di un format estero, per arrivare quindi a capire perché nel nostro paese questi prodotti sono di gran lunga più numerosi di quelli originali. ­­­­­199

Si dovrebbero acquisire i format esteri perché piacciono o perché sono di provato successo. A volte però lo si fa soltanto perché è più facile e comodo («effetto placebo»), o per avere una maggiore tutela legale in caso di contestazioni. Non c’è assolutamente niente di male o di sbagliato a comprare i diritti di un format estero. Se il tasso di acquisto è normale e fisiologico è un vantaggio per tutti, perché ne traggono giovamento i broadcaster, le case di produzione e il mercato di format nel suo insieme, che si mantiene attivo e vivace. Anche i paesi più innovativi e intraprendenti dal punto di vista televisivo comprano con regolarità il prodotto andato in onda con successo in altri Stati, e nessuno trova niente di riprovevole in questo. È la pura e semplice legge del mercato, che vale in tutti i prodotti di tutte le categorie merceologiche, e non c’è motivo quindi per cui non debba valere anche per il prodotto televisivo, che è quanto di più globale esista. Se un format è bello, se ha avuto successo in uno o più paesi (come dimostrano i dati d’ascolto, che sempre devono accompagnare un format degno di questo nome), se si ritiene che possa andare altrettanto bene anche nel proprio, perché non comprarlo? Una rete televisiva, il cui scopo è vincere quotidianamente la battaglia degli ascolti nei confronti di competitori sempre più numerosi e agguerriti, può rinunciare ad accaparrarsi un format che può fare la differenza, col rischio che cada nelle mani della concorrenza? No, non può. Se si fosse ragionato in questo modo non sarebbero andati in onda in Italia format di successo come Grande Fratello o Chi vuol essere milionario?, e prima ancora Stranamore, Ok, il prezzo è giusto! e giù giù fino a quel Lascia o raddoppia?, il primo grande successo della televisione italiana, che deriva dal francese Quitte ou double?, derivante a sua volta dall’americano The 64.000$ question. Insomma l’autarchia in televisione non esiste, ed è meglio così. Confrontarsi con il mercato globale, oltre a essere inevitabile, è stimolante e serve a uscire dal provincialismo a cui altrimenti saremmo condannati. Inoltre, da un po’ di tempo a questa parte si importano format anche per un altro vantaggio: la possibilità di sfruttare la scenografia originale nel luogo in cui è stata costruita, evitando quindi importanti costi di struttura. E questa è un’altra ragione tutt’altro che trascurabile, visti i risparmi che in questo modo si ottengono. Fin qui, tutto bene. Purtroppo, però, a volte la scelta di comprare format stranieri viene fatta per ragioni un po’ meno stringenti. Tanto ­­­­­200

per cominciare, banalmente, è più facile capire, apprezzare e innamorarsi di un programma già realizzato, con una ricca scenografia, un pubblico caloroso che fa da contorno e tutto il resto, rispetto a un progetto ancora a livello cartaceo, di cui c’è la semplice descrizione su un power point o, al limite, una puntata zero, fatta in economia e con mezzi inevitabilmente ridotti all’osso. Parafrasando la celebre frase di Per un pugno di dollari, quando un format propriamente detto incontra un paper format o una numero zero, il paper format e la numero zero sono morti. La cosa è forse comprensibile, ma un po’ rammarica. A volte il paper format o la numero zero non avrebbero nulla da invidiare al format estero già andato in onda, dal punto di vista dell’efficacia. Tranne il fatto di non avere ancora la perfezione formale del prodotto finito. Ma, se nessuno ha il coraggio o la fantasia per mandarli in onda, questo passaggio fondamentale non potrà mai avvenire. Non va neanche sottovalutata quella sorta di «effetto placebo» che un format già rodato esercita. Fare televisione è un mestiere rischioso, oggi più che mai. Sbagliare un programma è facilissimo: è dunque più tranquillizzante scegliere un programma che ha già dimostrato di avere una certa tenuta (anche se non si può parlare di successo), piuttosto che puntare su una novità assoluta, che non ha mai avuto nessun tipo di riscontro. Puntare su un prodotto originale vuol dire infatti prendere una decisione coraggiosa, che ci si può ritorcere contro. Acquistare un format già trasmesso altrove, pur con dati d’ascolto non straordinari, è invece più facile, perché significa che qualcun altro, in qualche posto del mondo, ha deciso di puntare su quel programma, scegliendo di mandarlo in onda: e a questo qualcun altro si può attribuire una sorta di «responsabilità morale» in caso di insuccesso. Ma esiste anche un’ulteriore ragione per importare un programma di un’altra nazione, anche in caso di prodotti non straordinari. Tale ragione è che a volte si comprano format esteri, più che il prodotto in sé, per la maggiore garanzia legale che essi assicurano. È un discorso molto complesso, che fuoriesce dai limiti di questo libro. In estrema sintesi, tutto parte dall’enorme quantità di prodotti televisivi presenti sul mercato: migliaia e migliaia di format che circolano vorticosamente ogni anno da un paese all’altro, in decine di lingue diverse, con opzioni in ogni parte del mondo. Dal momento però che il numero delle situazioni e dei meccanismi base (gli «elementi primari») è relativamente scarso, è evidente che le frizioni legali sono ­­­­­201

all’ordine del giorno, in un campo in cui si lavora sulle sfumature. Per questa ragione, specie quando si vuole realizzare un programma con un tema o una struttura molto standard e generici, in cui non serve, o non si vuole, apportare troppi elementi di novità (programmi musicali, talent molto classici...), può risultare conveniente ricorrere a un format già andato in onda da diverso tempo e con una storia alle spalle, piuttosto che a un prodotto originale (che comunque non potrebbe essere originale più di tanto), poiché si hanno maggiori tutele legali: nell’ipotesi infatti che qualcuno intentasse causa di plagio, è un po’ più facile difendere un format già andato in onda (senza aver avuto problemi pregressi) rispetto a un prodotto del tutto nuovo. Anche su questo aspetto non si può dare un giudizio di merito troppo netto e univoco: a volte tale espediente è perfettamente lecito (serve un format molto standard e mainstream e si cerca di tutelarsi da chi vuole estorcere del denaro in modo pretestuoso, o accampare pretese di originalità che invece non ci sono), a volte molto meno. Per concludere questo breve elenco di considerazioni sul ricorso eccessivo ai format esteri che viene fatto in Italia (ma non solo), bisogna però aggiungere, a onor del vero, che ci sono anche carenze da parte di non pochi autori nostrani. Nella nostra televisione, infatti, il concetto di «format» non è ancora ben radicato e chiaro: se ne parla molto, ma non tutti sono a conoscenza del significato e delle implicazioni profonde di questo termine. La realtà è che in Italia si progettano pochi format in senso stretto (e quindi esportabili). Molti autori hanno ancora un retaggio tutto sommato un po’ troppo tradizionale e la loro concezione dei programmi è spostata sullo show o sull’informazione: le due aree di contenuto meno formattizzabili per definizione. Addirittura, molto spesso il prodotto originale italiano è pensato e costruito su misura per un artista specifico. Cosa molto comprensibile, dal momento che in questo modo si riesce a mandare in onda un prodotto originale con maggiore facilità. Ma, così facendo, le possibilità di esportazione calano ancora più drasticamente, perché programmi così concepiti risultano inevitabilmente troppo legati e limitati al personaggio in questione. Insomma, in Italia si ragiona ancora più «per volti» che «per formati» e il concetto stesso di «format» risulta ancora oscuro e spesso osteggiato aprioristicamente. Il risultato di tutto ciò è che si riesce solo molto raramente a far compiere quel salto fondamentale da paper format a format vero e proprio (salto che può avvenire solo con ­­­­­202

l’effettiva messa in onda) ed è pertanto impossibile esportare all’estero format originali, dato che vendere un progetto solo su carta è impresa quasi disperata. È forse per questa ragione che da noi il termine «format» viene identificato tout court con «format estero» (cosa in realtà, come abbiamo visto, molto imprecisa). Una confusione che non si avrebbe se anche in Italia, come in molte altre nazioni, si sviluppasse un sano mercato di format che funzioni finalmente in entrambi i sensi. 8.2. Perché si adatta Prima di capire come adattare un format, bisogna capire perché lo si adatta. Il format infatti è un prodotto esportabile per definizione, ma non è quasi mai trasferibile esattamente così com’è da un paese all’altro. Deve subire appunto un processo di adattamento; e tale adattamento va fatto per alcune specifiche ragioni. Analizzarle nel dettaglio aiuta a svolgere meglio e con maggiore efficacia il lavoro successivo. Le ragioni per cui i format esteri vanno adattati sono di due ordini principali: uno specificamente televisivo o «interno» (diversa durata temporale, diverso slot di palinsesto); l’altro extratelevisivo o «esterno» (elementi culturali e di costume, vincoli normativi). Rientrano in quest’ultimo gruppo anche ragioni strettamente soggettive: la volontà di personalizzare il format e lasciare così la «firma» sul proprio operato. Parlando in senso assoluto e in modo puramente astratto, se un format è davvero efficace non ha bisogno di essere adattato. I format sono infatti esportabili per definizione; e le idee nucleo su cui si basano ancora di più. Ma la televisione non si fa mai in senso assoluto e in modo astratto. E così, se da un lato ci sono dei format che praticamente non sono stati modificati, nella maggioranza dei casi prima di mandarli in onda in un diverso contesto bisogna sottoporli ad adattamenti più o meno sostanziosi. Tali adattamenti sono dovuti principalmente a due tipologie di motivazioni: una di carattere propriamente televisivo, nel senso «tecnico» del termine; la seconda, diciamo così, di carattere extratelevisivo. Dei due gruppi di motivazioni, il primo è sicuramente superiore per peso, importanza e profondità. Si è infatti spesso costretti ad ­­­­­203

adattare un format principalmente perché deve variare la sua durata e a volte anche la sua posizione in palinsesto. Cambiando questi due fondamentali parametri di base, il format deve per forza di cose modificarsi per inserirsi nel nuovo contesto, che è a volte molto diverso da quello originario. La durata è forse l’aspetto più evidente. Per fare un semplice esempio, le prime serate italiane delle reti generaliste sono lunghe quasi il triplo delle prime serate della maggior parte degli altri paesi, tra cui quelli anglosassoni. In alcuni casi e per alcune tipologie di programmi la cosa non presenta problemi eccessivi. Allungare, per esempio, un talent show alle tre ore e passa classiche del prime time italiano non è troppo difficile, almeno da un punto di vista strutturale. A livello teorico e di progettazione cartacea basta infatti aumentare il numero di concorrenti (e/o delle loro esibizioni) e la cosa, almeno a livello di scaletta e di paper format, viene sistemata. Certo, bisogna fare in modo che il programma non si sfilacci troppo e che non risulti eccessivamente inutile e noioso. Ma questa è una problematica che attiene più alla fase di «allestimento» del programma, e che riguarda quindi il ritmo, la forza dei protagonisti, la capacità del conduttore, la bravura degli autori a dare sempre ai telespettatori nuovi spunti e nuove motivazioni alla visione, e così via. Sono però aspetti tutto sommato affrontabili. La versione italiana di The X factor, per esempio, pur essendo, com’è consuetudine, di un paio d’ore buone più lunga di quella standard inglese e americana, ha dimostrato, grazie a un attento lavoro autoriale, di avere buona capacità di tenuta, limitando al massimo gli inevitabili cali di tensione. A volte, invece, l’impresa appare da subito molto più impegnativa. Nella versione originale del format crossmediale uMan. Take control!, a cui abbiamo già fatto cenno, s’è dovuto passare dalla durata originale televisiva di dieci (!) minuti scarsi a quella, italiana, superiore alle tre ore. È chiaro che, dovendo intervenire così pesantemente sulla pezzatura, e invertendo in modo tanto radicale il peso delle due piattaforme, il format ha subito delle forzature e degli scompensi inevitabili, che hanno avuto un impatto negativo sulla struttura complessiva. È proprio (anche) per supportare programmi così lunghi che le prime serate italiane da una certa pezzatura in su hanno tutte un’impostazione «studiocentrica». Ovvero, o tutto il format si svolge all’interno di uno studio (con qualche apertura esterna), oppure c’è ­­­­­204

sempre una parte di studio che fa da raccordo, sviluppo, «cassa di risonanza» e approfondimento di un’azione principale che si svolge in esterna o in un altro tipo di location. Va detto che si corre sempre un certo rischio aggiungendo una parte di studio originariamente non prevista. D’altro canto è oggettivamente impossibile (o comunque molto difficile) tendere un format per più di un’ora solo in esterna, senza l’appoggio e il respiro di un punto di riferimento fisso, che è costituito appunto dallo studio. Per questa ragione, per esempio, un format come The bachelor, che nella versione americana si svolgeva unicamente in una splendida villa, nella localizzazione italiana, come al solito più lunga rispetto a quella originaria di due ore o giù di lì, s’è fatto ricorso allo studio, per commentare e approfondire quanto avveniva in esterna (in realtà per riuscire a raggiungere il traguardo delle tre ore canoniche). È solo in quest’ultimo periodo e grazie al nuovo contesto televisivo che anche da noi si sta finalmente diffondendo la sana abitudine di contenere i prime time entro i limiti dell’ora precisa. In questo modo si può rinunciare alle «protesi» di studio, che solo in rari casi danno un reale valore aggiunto, mentre il più delle volte – per dirla in maniera chiara e netta – sono solo un modo per allungare i tempi e raggiungere la pezzatura prestabilita. Altre volte, invece, l’adattamento deve tenere conto di una diversa collocazione in palinsesto del format d’origine. Il cambiamento di durata, in questi casi, è la conseguenza minore: più arduo è infatti adattare il prodotto per un’altra fascia oraria, dato che ogni slot ha esigenze, aspettative, regole e abitudini di fruizione diverse e peculiari. Quando questo accade, prima di procedere all’adattamento vero e proprio bisogna sempre focalizzare e aver ben chiaro quali sono le caratteristiche del nuovo contesto orario a cui il format è destinato (e che non possono qui essere esposte per motivi di spazio). Per fare un esempio, The alphabet game era un game inglese di day time, molto elegante, leggero e della classica pezzatura da mezz’ora. Ebbene, da questa semplice idea centrale (fare un gioco partendo dalle lettere dell’alfabeto) sono stati tratti un lunghissimo prime time francese (in quanto a lunghezza delle prime serate i cugini d’oltralpe non hanno nulla da invidiarci), che dava grande spazio allo spettacolo e al divertimento spensierato e un po’ caciarone, e il preserale italiano Passaparola, di pezzatura intermedia. La versione di casa nostra si è ben inserita nel nuovo contesto, grazie a un’attenta ­­­­­205

miscela degli elementi di game e di spettacolo delle due versioni precedenti, legando il tutto con un fil rouge temporale (non presente, perché non necessario, né nella versione inglese né in quella francese) e, soprattutto, aggiungendo un gioco finale ex novo, la cosiddetta «Ruota finale», per dare quell’«effetto traino» indispensabile a ogni preserale, coerente col resto del format ma anche perfettamente autonomo e fruibile in sé (altra caratteristica essenziale dei prodotti di questa fascia). Passando ai cambiamenti di natura «esterna» o extratelevisiva, va detto, come premessa molto semplice e perfino banale, che la televisione è lo specchio (o perlomeno: uno degli specchi) della società. Considerazione trita e ritrita quanto si vuole, ma con un’innegabile verità di fondo. Questo significa, molto semplicemente, che i format sul mercato vengono scelti sulla base dello specifico culturale del nostro paese, o perlomeno di quello che si pensa sia lo specifico culturale (e già a partire da questa precisazione si potrebbero fare lunghissime riflessioni, che però verranno risparmiate in questa sede). Ma significa anche un’altra cosa: che questo primo gruppo di motivazioni determina la selezione a monte dei format da acquistare, piuttosto che la successiva fase di adattamento. Ovvero, format che sembrano essere troppo distanti culturalmente, o problematici per la tematica trattata, o eccessivamente pericolosi per le polemiche che potrebbero provocare, semplicemente non vengono presi in considerazione. Per esempio, in Italia non sono mai arrivati (e difficilmente arriveranno) format che hanno come concept di fondo tematiche religiose (filone che invece all’estero gode di una certa fortuna, grazie soprattutto ad alcuni reality di successo), o che sono caratterizzati da una dose di cinismo e cattiveria ritenuta eccessiva. E così via. Si può essere d’accordo o no, ma c’è un’innegabile logica di fondo. Si potrebbe ovviamente discutere a lungo su quali sono le reali aspettative, i reali bisogni e le reali motivazioni del nostro pubblico (ammesso che sia possibile saperlo con una certa esattezza), ma una cosa è sicura: se si acquista un programma e si cerca poi di cambiare il concept originale, snaturandolo del tutto, perché si ritiene, a torto o a ragione, che non sia adatto al nostro pubblico, si va incontro senza ombra di dubbio a un insuccesso. Meglio dunque scartarlo a priori ed evitare sprechi inutili di soldi e di energie creative. In altri casi – molto più rari –, invece, l’impedimento all’acquisto dei diritti di un format deriva da problematiche legali vere e proprie. ­­­­­206

Per esempio, alcuni anni fa avevano suscitato un certo interesse alcuni format incentrati sulla rieducazione di minori con gravi problemi di alcool e droga, oppure addirittura precocemente avviati sulla via della delinquenza. Nonostante lo spirito dei programmi fosse fondamentalmente educativo e rispettoso dei giovani protagonisti, i problemi legali relative alle liberatorie dei minori, maggiori in Italia rispetto ad altri paesi, ne resero impossibile la produzione. Più spesso invece le motivazioni legali influiscono sull’adattamento del format solo in modo marginale, relativamente ad aspetti di contorno, facilmente risolvibili. Per esempio, in Italia ci sono regole molto rigide sull’esibizione dei soldi in televisione. Se le banconote sono finte (e lo sono quasi sempre per motivi di sicurezza: fa eccezione The money drop, che basa il suo concept proprio su tale esibizione), bisogna indicare chiaramente che sono facsimili. Questo rende improponibile la loro presenza in un game (sembrerebbe che si giochi per soldi finti o, peggio ancora, che tutto sia finto). E quindi in Italia, per ovviare a questo vincolo, si adattano i game sostituendo il denaro esibito con assegni, carte di credito, sacchetti (chiusi) con dentro improbabili gettoni d’oro, e altro ancora. Ma l’esempio in assoluto più interessante per quanto riguarda la motivazione extratelevisiva nel suo complesso, anche perché svolto su scala praticamente mondiale, è quello dei cambiamenti a cui sono state sottoposte le varie versioni di Big Brother. Infatti, dopo le prime edizioni relativamente omogenee e più o meno in linea con l’edizione storica olandese, le successive localizzazioni si sono andate sempre più diversificando per intercettare i gusti, le abitudini e gli stereotipi delle singole nazioni. Quindi, mentre gli adattamenti italiani puntavano, al solito, all’intrigo amoroso classico, fatto di relazioni più o meno occasionali, di tradimenti, litigi e colpi di fulmine vari, in alcune nazioni si virava decisamente sull’hard (con strisce in tarda serata veramente osé); in altre invece si è spinto su una certa crudeltà di fondo, con prove e conseguenti punizioni durissime; in altre ancora si giocava di più sulla giustapposizione, a volte anche bizzarra, di tipologie umane estreme; oppure si è trasformata la casa in una sorta di laboratorio per esperimenti sociali di vario tipo; e così via. Insomma, dallo stesso schema base si sono sviluppati adattamenti locali in grado di riflettere le singole specificità nazionali, a livello più o meno superficiale, ma comunque estremamente interessanti e rivelatori. ­­­­­207

Per concludere questo argomento bisogna fare cenno a tutti quei cambiamenti che sono di pertinenza esclusivamente autoriale e derivano da considerazioni di carattere soggettivo e di sensibilità personale. Quando cioè si cambia qualcosa nel format non perché si deve farlo, ma perché si ritiene opportuno farlo. Ragioni di puro e semplice gusto, insomma, e non ragioni «obiettive» (le virgolette sono d’obbligo). Anche adattamenti di questo tipo sono assolutamente leciti, ci mancherebbe. Però bisogna porre molta attenzione: la cosa va benissimo e ha un senso se ci si limita a cambiare aspetti secondari e dettagli minori del format. Ma, ancora una volta, quando si arriva a mettere in discussione il suo cuore profondo, l’idea nucleo centrale, modificandola, o aggiungendo parti non conformi, o spingendo il programma in una direzione diversa da quella originariamente pensata, si fanno dei disastri molto gravi, sempre e senza eccezioni. Torneremo più puntualmente sulla questione tra poco. Per ora, per restare nell’argomento di questo paragrafo, esamineremo soltanto le due vere motivazioni che spingono a interventi di questo tipo. La prima è che non si crede fino in fondo al format stesso. E quindi si tenta di «puntellare» l’idea centrale, che non viene reputata abbastanza affidabile da reggere l’intero impianto, con altre di natura diversa. Si arriva così a quella famigerata costruzione «ad accumulo» più volte stigmatizzata. Stravolgere l’idea portante di un format, anche se a fin di bene, non salva mai il format stesso: lo affossa ulteriormente. La seconda motivazione è di carattere psicologico. Gli autori a volte subiscono con una certa malavoglia il processo di adattamento che sono chiamati a compiere. Lo ritengono una pratica se non proprio degradante, quantomeno poco nobile. Tale atteggiamento può essere comprensibile. Come abbiamo detto, buona parte dei format importati non sono fenomenali. Se non si conoscono le ragioni precise che hanno portato all’acquisto dei diritti del format in questione e si giudica solo il format in sé, non si capisce perché sia stata fatta una tale scelta, anziché puntare su un format originale (magari proposto da quegli stessi autori a cui è toccato il compito di adattare il format straniero). E così, invece di essere complici del format che si sta adattando, comprendendolo intimamente e mettendosi al suo servizio, si entra in competizione con esso. Si vuole dimostrare a tutti i costi che fare l’autore è ben altra cosa che fare l’adattatore, e quindi ­­­­­208

si stravolge il format di partenza per dimostrare il proprio valore. Si vuole «lasciare la propria firma» sul format, in modo evidente e chiaro a tutti. A volte la cosa è comprensibile, perché la gioia massima per un autore, com’è giusto, è vedere in onda un proprio programma personale, un frutto originale del proprio ingegno. E questa gioia, in Italia, è purtroppo rara. Ma per il format in sé questa è la cosa peggiore che possa capitare. Il risultato finale è spesso ancora una volta disastroso, con l’aggravante che, forse, in quest’ultimo caso l’idea nucleo di base magari era anche buona. Se vengono stravolte e snaturate, tutte le idee, anche le migliori, danno esiti immancabilmente negativi. Se si è chiamati ad adattare un format bisogna mettersi al suo servizio e darsi da fare per svilupparlo nel miglior modo possibile, mantenendosi coerente con il suo spirito fino in fondo, anche se l’idea non è nostra e magari non ci convince nemmeno del tutto. Avere un format da adattare è come avere un neonato in affido: se si accetta il compito (e non si è costretti a farlo) è indispensabile essere ottimi genitori adottivi, e voler bene alla creatura come se fosse figlio nostro. E questo vuol dire fare tutto quello che si ritiene necessario per il bene suo, e non per sviluppare la vanità personale. Un’ultima precisazione prima di voltare pagina. Tutte le cose sin qui dette si basano sul presupposto che gli adattamenti di un format, pochi o tanti che siano, possano essere fatti in totale libertà e senza alcun tipo di vincoli da parte di chi ne detiene i diritti. Ovviamente non è così, o almeno non sempre. I rapporti che si stabiliscono tra chi compra e chi vende i diritti di un format d’intrattenimento sono quanto di più complesso si possa immaginare. Non c’è nessuna regola o principio generale: tutto dipende dai rapporti di forza, dalle strategie e dagli interessi delle due parti. Si può andare da un estremo all’altro. In alcuni casi i detentori dei diritti sono iperprotettivi nei confronti della loro opera. Non accettano alcun tipo di modifica, per quanto sensata, argomentata e dovuta a ragioni oggettive possa essere. Ogni cambiamento, anche minimo, è per loro un vero e proprio tradimento, che rifiutano quasi con sdegno. Dall’altro lato ci sono gli iperliberisti, che approvano ogni tipo di adattamento, sempre e senza condizioni. Questo avviene soprattutto nel caso dei produttori o distributori di piccole dimensioni, che hanno piazzato pochi prodotti sul mercato e sono più interessati ad allargare il parco dei propri clienti, che non vogliono scontentare mettendo fastidiosi paletti alle loro esigenze. Oppure, nel caso di soggetti più grandi, si tratta di una politica commerciale ben ­­­­­209

precisa, che mette in primo piano il business puro e semplice e, di conseguenza, viene autorizzata senza batter ciglio ogni tipo di localizzazione, anche la più estrema, purché si riceva il giusto compenso. Nella maggioranza dei casi, però, il rapporto tra venditore e acquirente è fortunatamente improntato alla ragionevolezza e al buon senso. Chi vuole comprare un format spiega nel dettaglio quali cambiamenti vuole apportare e perché. Chi il format lo vende, ascolta attentamente le esigenze e le proposte ed esprime il proprio parere. Dopo di che entrambe le parti collaborano attivamente per trovare una giusta via di mezzo, che permetta tutti gli indispensabili aggiustamenti, senza recar danno al format originale. In questo modo l’immancabile cifra di budget che va sotto il nome di «consulenza» non è solo un modo per arrotondare quella del format fee, ma è l’equo compenso per un lavoro comune, spesso molto stimolante e utile, teso ad assicurare il successo delle varie localizzazioni, in modo che tutte le parti in gioco ne abbiano il giusto vantaggio. 8.3. Tecniche di adattamento E veniamo ora al cuore del problema: le tecniche di adattamento vere e proprie. Va detto anzitutto che, in fin dei conti, l’adattamento non è un’attività poi tanto diversa da quella della progettazione originale. Adattare un format è un po’ come progettarlo, partendo però da un’idea già data. Tutte le regole e i consigli dati nelle parti precedenti valgono quindi anche quando si è chiamati ad adattare un format estero. Con però un ostacolo in più. Perché nell’attività di progettazione originale si «vuole bene» e si vuole a tutti i costi proteggere il parto del proprio ingegno, di cui si è orgogliosi. Nel caso di adattamento di format altrui, invece, bisogna sforzarsi a provare questi stessi sentimenti, almeno all’inizio. Ma vediamo nel dettaglio i tre passaggi necessari a compiere un buon lavoro di adattamento, dove per «buono» si intende non solo fare un’operazione neutra e asettica di trasferimento da un contesto all’altro, limitandosi ad allungare un po’ da una parte e tagliare dall’altra, ma anche dare nuova linfa al format originale, in modo che la versione localizzata non sia semplicemente un copia e incolla un po’ pasticciato, ma un format nuovo a tutti gli effetti, anche se gli interventi sono stati minimi. ­­­­­210

8.3.1. Prima fase: comprensione Prima di affrontare il lavoro di adattamento vero e proprio bisogna comprendere profondamente il format originario, studiandolo nei minimi dettagli e in tutti i suoi risvolti. Occorre inoltre capire nel modo più preciso possibile quali caratteristiche deve avere il prodotto finale: qual è la sua nuova collocazione di palinsesto, quali sono le problematiche da risolvere, di quali vincoli bisogna tener conto ecc. La prima fase è di studio, sia del punto di partenza, sia di quello di arrivo. Affrontare infatti con cura e precisione questo primo compito semplifica tantissimo i passi successivi e impedisce di cadere in errori e trappole di vario tipo. Per assorbire e conoscere davvero un format nuovo e a noi sconosciuto o quasi, bisogna anzitutto visionare con la massima attenzione tutto il materiale a disposizione. Se è stata fatta solo una puntata pilota, non si può far altro che studiare quella. Se invece è un programma già andato in onda, occorre guardare il maggior numero di puntate di ogni serie: ci sono infatti dei risvolti e delle eventualità che si possono cogliere solo dopo qualche puntata; o, nel caso siano state prodotte più serie, è interessante notare i cambiamenti tra una serie e l’altra. Anche leggere tutta la documentazione che è stata prodotta è un’attività essenziale. Il paper format, tanto per iniziare; ma anche la «bibbia», se esiste, e tutto il materiale «di contorno» che a volte viene allegato (considerazioni e articoli di vario tipo, note di produzione, consigli vari...). Leggere il materiale a supporto è infatti un’attività diversa e complementare rispetto al visionamento del format. Il paper format rivela in modo più cristallino e chiaro la sua struttura più profonda, gli snodi di meccanismo, la sua essenza più astratta e gli elementi rituali e ricorrenti (ovvero gli elementi formattizzanti in senso tecnico). Col visionamento delle puntate si notano invece meglio gli aspetti più formali e di superficie; oltre a capire più precisamente la reale forza del prodotto e la sua reale tenuta, specie nel caso di pezzature lunghe, o di sviluppo su un numero esteso di puntate. Ma si può ancora fare un’altra cosa, oltre a visionare il materiale e studiarne il paper format. E, se si riesce a farla, porterà sicuramente a un livello di conoscenza superiore: parlare (vis à vis, per telefono, o via mail) con il suo o i suoi creatori. S’è già fatto cenno al fatto che, nei contratti di cessione diritti, c’è praticamente sempre una cifra ­­­­­211

che va sotto la voce «consulenza». Questo vuol dire che a disposizione della rete o della casa di produzione acquirente ci sono alcune persone che conoscono il format nei minimi particolari (in genere l’autore, o un produttore, o, nel caso di format più importanti, appositi incaricati che sono i «depositari» di tutto ciò che c’è da sapere sul format stesso) e possono dare tutte le indicazioni necessarie e risolvere ogni tipo di dubbio. Ora, si possono trattare queste persone con asettica cortesia, accettando la loro consulenza come una cosa dovuta ma non necessaria, e neppure troppo gradita. Oppure ci si può confrontare apertamente con loro, facendosi raccontare la genesi del format in tutti i dettagli e facendosi spiegare tutte quelle cose che non si vedono in onda, né, tantomeno, sono scritte nel paper format (difficoltà superate, incidenti di percorso risolti...). Se il rapporto si rivela proficuo si può addirittura affrontare la fase dell’adattamento insieme a loro, lavorando fianco a fianco (o con un costante scambio di mail) in modo davvero stimolante, come un vero e proprio team transnazionale. In ogni caso, anche se non si arriva al punto di aprire un tavolo di lavoro comune, parlare e ascoltare molto attentamente il consulente incaricato non è mai tempo sprecato. Per arrivare alla messa in onda di ogni format, infatti, si attraversano immancabilmente difficoltà di ogni genere. Farsi raccontare in che modo sono state superate e quali sono quindi gli errori che si possono evitare è spesso un aiuto prezioso per impedire che si ripetano, o, almeno, per ridurli in modo significativo. E infine c’è l’altra faccia della medaglia. Ovvero la conoscenza approfondita di quali caratteristiche deve avere e in quale direzione deve andare il format localizzato. Bisogna quindi conoscere nei minimi dettagli le aspettative del broadcaster a cui il format è destinato. Questo significa farsi dire il nuovo minutaggio e il nuovo slot di palinsesto, come prima cosa. Ma anche riuscire a capire nel modo più preciso possibile gli altri desiderata più o meno espliciti: far diventare un gioco autoconclusivo, anche se in origine non lo è; o semplicemente abbassare il costo complessivo del programma, lasciando il più possibile inalterato il livello qualitativo (richiesta molto frequente, ma, com’è logico, non sempre realizzabile); oppure rendere il format adatto a un conduttore specifico, che però magari ha caratteristiche molto diverse da quello dell’edizione originale; o ancora inserire una parte di studio su un impianto che prevede esclusivamente esterne; o infine cambiare alcuni elementi più o meno importanti del ­­­­­212

format per renderlo più simile a quelli già andati in onda in passato e che hanno avuto successo, oppure, al contrario, per differenziarlo in modo significativo da un programma troppo simile già in onda sullo stesso canale o su un canale concorrente. E così via. Va detto però che a volte non è facile ottenere questo secondo livello di conoscenza in modo chiaro e preciso. Questo perché spesso manca un momento di incontro con tutte le parti in causa (responsabili della rete, responsabili della casa di produzione, autori) per confrontarsi in modo franco e aperto su tutte le questioni sul tavolo. Il fatto è che purtroppo è prassi comune procedere sempre di fretta, a strappi e in modo convulso; non è quindi per niente infrequente che, operando in questo modo, si verifichino dei fraintendimenti a più livelli. In ogni caso, è buona regola fare sempre e comunque di tutto per conoscere nel modo più dettagliato possibile sia il punto di partenza (il format estero originale) sia quello di arrivo (le caratteristiche ideali del format adattato). E solo dopo aver ben chiari questi due aspetti il lavoro vero e proprio di adattamento può cominciare. 8.3.2. Seconda fase: adattamento Nella fase di adattamento è bene modificare il format originale il meno possibile. Nel caso in cui sia indispensabile fare aggiustamenti, bisogna sempre avere cura che vadano nella stessa direzione dell’idea nucleo e ne rispettino lo spirito originario. Se gli aggiustamenti lasciano intatto, valorizzano e sono coerenti con questo nucleo, la localizzazione andrà forse a buon fine. Se invece lo si stravolge, lo si annacqua o si introducono elementi estranei, la localizzazione andrà sicuramente male. Sintetizzando, la regola base dell’adattamento è molto semplice: modificare il format originale il meno possibile; nel caso in cui alcuni aggiustamenti siano indispensabili, bisogna sempre fare in modo che siano coerenti con il suo spirito; in pratica non devono stravolgere il concept generale, né annacquarlo e neppure introdurre elementi estranei all’idea nucleo di base. I veri format hanno sempre un’idea centrale forte, che è simile al perno di una ruota attorno a cui tutto gira, in modo armonico e bilanciato. Questa idea nucleo non può essere toccata o violata in alcun modo. Si può estenderla, svilupparla, magari anche valorizzarla e renderla più incisiva; in ogni caso non si deve mai cambiarla, rendendola diversa da quel che era in origine, e neppure introdurre ­­­­­213

dettagli che ne tradiscano o che non siano intimamente coerenti con il suo spirito di fondo. Spetta alla sensibilità autoriale capire qual è il «punto di rottura», ovvero il limite massimo entro cui si possono spingere gli aggiustamenti. L’obiezione viene spontanea. Ma cosa si deve fare nel caso si reputi che proprio il concept originario sia carente o addirittura sbagliato? Purtroppo la risposta è drastica: poco o niente. I format hanno questa caratteristica: se la loro idea nucleo, il motore, l’hardware interno o come vogliamo chiamarlo funziona, tutto funziona e il format può essere replicato ed esportato finché si vuole (entro un certo limite, ovviamente); ma se questo nucleo interno è debole o fallace c’è ben poco da fare, se non buttare via tutto e trovarne un altro, come quei computer che, se hanno un difetto al sistema operativo centrale, non possono essere aggiustati, ma soltanto sostituiti. Quindi, se un format ha un concept sbagliato nel fondo, meglio non prenderlo; e se quel format, per ragioni varie, è stato già acquistato e bisogna quindi trovare il modo di limitare i danni, è meglio sempre e comunque cercare di sviluppare il concept originario, tentando di rafforzarlo e migliorarlo «dall’interno», piuttosto che cambiarlo o cercare dei correttivi esterni. Nel primo caso, infatti, magari si può fare in modo che il programma vada «solo» male (ma forse potrà anche andare bene o, quantomeno, benino); se invece lo si inizia a pasticciare, aggiungendo a un’idea di fondo non fortissima altre ideuzze di puntello che servono solo a rendere ancora più confuso il tutto, il risultato sarà sicuramente disastroso. Eppure questo modo di procedere è purtroppo diffuso, anche nel caso di format in cui l’idea nucleo originale potrebbe funzionare, anche senza troppe modifiche, ma viene comunque «imbastardita» con alcuni elementi standard, ritenuti – a torto – indispensabili nella nostra tradizione televisiva (una parte comica, un momento talk, un’intervista a un vip o presunto tale, un intermezzo musicale...), che finiscono per annacquare il tutto, ottenendo un «effetto minestrone» che rende il prodotto finale privo di un’identità precisa, poco incisivo e generalmente debole. Tra i numerosi esempi in proposito si può citare Fratelli di test, che deriva dal format olandese di enorme successo Test the nation, esportato anche in moltissimi paesi prima del nostro. Il concept di base è di grande impatto: testare un’intera nazione sotto un determinato profilo e parametro (intellettivo, culturale, emotivo...) con tutti ­­­­­214

i mezzi a disposizione (internet e sms in primo luogo). La versione originale (e la maggior parte delle numerosissime localizzazioni) punta in modo radicale su questo aspetto, mettendo a pieno schermo i cartelli grafici del test per interminabili secondi e dando i risultati dei test stessi soltanto alla fine di ognuna delle varie sezioni in cui sono organizzati e divisi. Tutti gli altri elementi del programma, a partire dalla composizione dello studio, scomposto in tante categorie spesso contrapposte (bionde vs brune; studenti vs insegnanti...), rafforzano e sottolineano il concept di fondo: tutto il format risulta in questo modo molto compatto e convergente verso la meta finale (conoscere il risultato di questo grandioso test). Un trattamento del genere, che spesso è addirittura quasi «antitelevisivo» per il prolungato uso della grafica a pieno schermo, può convincere o meno. Ma il format è questo: preciso, chiaro e netto. In Olanda questa formula ha funzionato, e ha funzionato anche in molti altri paesi, più vicini a noi culturalmente e televisivamente (Francia, Spagna, Portogallo in testa). In Italia s’è deciso invece diversamente, annacquando appunto il concept originario con tutta una serie di elementi presi dal repertorio del varietà classico, con «stacchetti» e ospitate varie, che con l’idea nucleo non c’entrano proprio niente e che hanno finito per fare perdere identità e incisività al prodotto, depotenziando la forza della promessa iniziale e ottenendo alla fine un programma anonimo, costituzionalmente debole e simile a cento altri. Intendiamoci, gli adattamenti possono, e a volte devono, essere fatti; e possono anche essere profondi, purché vadano sempre nella stessa direzione e mai «contro» il format originario. Se si procede in questo modo, con intelligenza e rispetto, in alcuni casi è addirittura possibile potenziare il concept primigenio, ottenendo una localizzazione migliore del prodotto di partenza. Tipico esempio in questo senso è Affari tuoi, tratto dal game olandese Deal or not deal, che però era costituito da vari giochi, di cui quello che conosciamo era solamente l’ultimo. Gli autori hanno intravisto le potenzialità di questo segmento e l’hanno allungato, valorizzato e potenziato, fino ad arrivare alla versione nota. L’operazione ha avuto un tale successo che nel mondo hanno cominciato a circolare entrambe le versioni del programma: quella originale olandese, con tanti giochi in sequenza, e quella italiana, con il solo ultimo gioco arricchito e spettacolarizzato nel modo che sappiamo. Addirittura, se si volesse fare un bilancio, è quest’ultima versione ad ­­­­­215

aver avuto maggiore successo nel mondo, sbarcando anche in America. Raro (ma non unico) esempio in cui l’adattamento non solo non ha rovinato il prodotto originale, ma l’ha reso perfino migliore, sviluppando delle potenzialità già presenti nel format di partenza, ma solamente in nuce e non in forma piena e compiuta. Separare questa parte dal resto del format è stata dunque al tempo stesso un’operazione rispettosa del format primigenio, ma anche estremamente radicale. Il risultato è stato sia di continuità che di innovazione, dal momento che l’idea nucleo non solo è stata salvaguardata, ma è stata resa ancora più forte e centrale. In generale, però, il consiglio migliore che si possa dare è di imparare a fidarsi dei format originari (specie quelli già sperimentati con successo in vari paesi). I format più forti e più efficaci funzionano infatti in tutto il mondo e non si capisce perché non debbano funzionare, così come sono, anche da noi. Può essere una cosa difficile da accettare, ma è così. Molti dei cambiamenti che si introducono sono frutto di preconcetti, che non trovano riscontro alla prova dei fatti. Molte delle cose che vengono ritenute televisivamente irrinunciabili, perché – si sostiene – in Italia i gusti sono diversi, in realtà non sono tali. E quando, per forza o per intima convinzione, si è seguito il dettato del format originario, anche quando ciò sembrava stridere con le convenzioni comunemente accettate, i risultati hanno quasi sempre premiato questo tipo di scelta. In fin dei conti né Chi vuol essere milionario? né The money drop hanno subito adattamenti, se non per qualche elemento di contorno, e hanno funzionato benissimo così com’erano. The money drop non ha nemmeno cambiato il titolo e non ci sono stati problemi di sorta. Questa evidenza si sta facendo attualmente sempre più chiara. Il grande successo e la grande novità della prima edizione Sky di X factor, per esempio, sono dovuti in gran parte a un recupero quasi «filologico» dello schema, della struttura e dello spirito del format inglese originale (con l’apporto dell’esperienza delle più recenti edizioni americane). L’aderenza al modello anglosassone è relativa a molti aspetti, tra cui forse quello più eclatante è la decisione di partire subito, in prima serata, con ben quattro puntate di montaggio delle diverse fasi di selezione dei candidati (anziché con lo show live), proprio come avveniva nella versione originaria, e come invece non era mai accaduto in Italia. Ma gli elementi di vicinanza con il format inglese, che stridono un po’ con alcune nostre abitudini consolida­­­­­216

te, sono anche altri: la scelta di avere una conduzione più tecnica e di servizio, molto «anglosassone», e quindi molto diversa dalle quattro edizioni precedenti targate Rai; oppure l’accento fortissimo dato alla sfera emotiva dei concorrenti (non è un caso che la prima esibizione in assoluto mostrata nella prima puntata si sia conclusa con un pianto liberatorio, e che il racconto in prima persona delle sensazioni provate dal protagonista sia stato più lungo e più denso dell’esibizione stessa). Ma, soprattutto, non ci sono stati i famigerati annacquamenti, che avrebbero sfilacciato il nucleo narrativo profondo del format, rimasto per fortuna, anche nella versione italiana, una lotta dura e senza esclusione di colpi, combattuta sul palco dai partecipanti e sugli scanni dai membri della giuria. Anche l’ottima localizzazione di Masterchef Italia è stata improntata a un’aderenza molto stretta al prodotto originale, di grande successo mondiale. Questo rispetto ha portato addirittura a infrangere due delle regole più radicate dell’intrattenimento nostrano: la mancanza totale di presentatore (le funzioni tipiche della conduzione sono state assegnate direttamente ai tre cuochi professionisti) e di uno studio televisivo nel senso tradizionale del termine (sostituito da una sorta di «laboratorio culinario» modulabile a seconda del numero dei partecipanti e delle fasi di gioco). A dire il vero sarebbe stato impossibile attuare questa formula se ci fosse stato il solito vincolo di una prima serata di lunghezza «mediterranea» (le classiche, infinite 3-4 ore). In questo caso un presentatore che regga meglio le fila del programma e un luogo dove poter espandere l’azione sarebbero stati la soluzione più indicata. Ma sicuramente il prodotto finale ne avrebbe risentito. Anche in questo caso, Masterchef Italia è stato un successo perché è rimasto Masterchef, senza «imbastardirsi» di elementi estranei e incongrui. Un’ultima considerazione. Non sto dicendo che tutti i format stranieri devono essere lasciati sempre così come sono. Sto dicendo soltanto che ogni format ha la sua anima e il suo mood, che devono essere rispettati in modo fedele e preciso, anche a costo di andare contro abitudini locali consolidate e considerate intoccabili. Capire quest’anima, questo nucleo centrale, e preservarla il più possibile nel processo di adattamento, rende più forte ed efficace il format originale (ammesso che sia forte ed efficace di suo) e contribuisce al contempo a rendere la nostra televisione più varia e interessante. Solo chi non sa bene come stanno le cose a livello internazionale accusa ­­­­­217

i format di essere responsabili di quel processo di omologazione in cui la nostra televisione si dibatte da lungo tempo. Al contrario, se si usassero tutte le tipologie di format presenti sul mercato, in tutte le pezzature e con tutte le sfumature a disposizione, e non si riducesse ogni programma alla solita marmellata preconfezionata fatta con i soliti, scontati ingredienti e i soliti sapori, si avrebbe di sicuro un intrattenimento più ricco e molto meno scontato. 8.3.3. Terza fase: rifinitura Una volta effettuati i cambiamenti necessari, occorre rivedere con la massima attenzione il tutto, cercando di renderli il più possibile invisibili, in modo da non fare notare alcuna differenza tra il prodotto originale e le parti o i dettagli introdotti ex novo. In pratica, dopo l’«operazione chirurgica» vera e propria ci deve essere un intervento di estetica per far scomparire e «cicatrizzare» le tracce dell’operazione eseguita. La fase dell’adattamento non esaurisce gli interventi necessari a un corretto lavoro di localizzazione. Specie se nel format originale vengono introdotti parti o anche solamente dettagli ex novo, è inevitabile che in una prima stesura del progetto essi non siano perfettamente coerenti, o comunque abbiano uno scarto e una peculiarità tali da renderli un po’ distonici rispetto al corpo principale. Si avverte insomma che si tratta di cose aggiunte. E, anche se si tratta di un lavoro ben fatto, è una sensazione abbastanza fastidiosa. È come una specie di cicatrice, piccola o grande che sia, dopo un’operazione chirurgica che è comunque andata a buon fine. Certo, l’operazione è riuscita e il paziente sta bene, ed è questa la cosa più importante. Ma in ogni caso la cicatrice disturba, ed è sempre lì a ricordarci che un’operazione è stata fatta, e che se non ci fosse stata per niente sarebbe stato meglio. È molto difficile stabilire regole e dare consigli di carattere generale sul come ottenere tale risultato. Ogni format, come abbiamo visto, ha un’idea nucleo, un sapore e un vestito specifici, diversi da tutti gli altri (perlomeno quando si tratta di format validi e originali e non semplici fotocopie di altri già esistenti). Ogni intervento di «cicatrizzazione», dunque, è diverso da tutti gli altri, in quanto deve essere necessariamente fatto su misura. In linea di massima si può dire che la cosa migliore da fare è individuare il Leitmotiv di ogni format, ovvero il filo rosso che ca­­­­­218

ratterizza e rende unico il format su cui si sta lavorando. Questo filo rosso può riguardare la struttura e i meccanismi del programma (la tipologia di domande, i rituali che presidiano alcuni snodi, una certa tipologia di partecipanti o di prove...), oppure può essere più superficiale e relativo quindi al vestito del format stesso (particolarità grafiche o scenografiche, rituali più superficiali, alcuni numeri o simbologie ricorrenti...). Una volta preso atto del o dei motivi caratterizzanti (cosa che avrebbe già dovuto essere chiara sin dalla fase della comprensione) bisogna assicurarsi che compaiano e siano ben visibili anche nelle parti introdotte nel processo di adattamento, in modo da «imprimere il marchio» del format anche in questi dettagli posticci. Addirittura, se il Leitmotiv non fosse abbastanza evidente, o fosse troppo debole, o troppo astratto e troppo poco «fisico», oppure semplicemente inadatto per la parte aggiunta, si può pensare di aggiungerne uno ex novo, sempre che non si turbi l’equilibrio complessivo, e che lo spirito generale del format non venga stravolto né alterato. A volte, quindi, è meglio introdurre una linea rossa che non esiste nel prodotto originale, con il compito di rendere omogenee tutte le parti del format, sia quelle vecchie sia quelle nuove, piuttosto che lasciare tutto com’è, col rischio però di avvertire quella distonia dei dettagli aggiunti di cui si parlava sopra. L’esempio dell’adattamento di Passaparola risulta ancora una volta funzionale a spiegare questo modo di procedere. Da un lato, infatti, la «Ruota finale» riprende e sviluppa al massimo il concept del format originale: si gioca con tutte le lettere dell’alfabeto in forma condensata, in modo da non creare distacchi e sbilanciamenti rispetto agli altri giochi. D’altro canto, però, nella versione italiana è stato aggiunto un particolare, importante a livello sia di meccanismo sia di simbologia generale, che non esisteva né nella versione inglese, né in quella francese. Tutti i giochi italiani mettono infatti in palio un certo numero di secondi: questa somma, aggiunta a una base fissa e uguale per entrambi i concorrenti (60” nelle prime edizioni), costituisce il monte-secondi a disposizione di ognuno dei due giocatori per cercare di completare la ruota. Naturalmente, più un giocatore è andato bene nelle manche precedenti, più secondi accumula e più si trova avvantaggiato nel gioco finale, che permette di aggiudicarsi il jackpot complessivo. L’aggiunta di questo filo rosso, oltre a essere estremamente funzionale per lo svolgimento tecnico del game, è importante anche per un altro aspetto, più a livello di vestito e di ­­­­­219

confezione generale che di meccanismi ludici veri e propri. I riquadri grafici con i secondi accumulati, che si ripetono alla fine di ogni manche, sono infatti un ottimo elemento di omologazione e quasi di «cementificazione» dei giochi stessi, fino a trovare il loro sbocco e la loro conseguenza naturale nella ruota, che funge da «collettore» dei secondi conquistati nelle fasi precedenti. In questo modo tutti i giochi sono legati a un progetto complessivo molto forte, che include per forza di cose la «protesi» dell’ultimo gioco, il quale risulta quindi non soltanto coerente, ma in un certo qual modo perfino inevitabile rispetto al resto del format. Questo semplice espediente è risultato così funzionale che, nel corso delle varie edizioni, ha permesso l’introduzione nel corpo del programma anche di alcuni giochi intermedi che poco o niente avevano a che fare col prodotto di partenza, senza alcuna crisi di rigetto. In pratica quindi (e un po’ paradossalmente) i giochi erano ritenuti coerenti col format per il fatto di permettere di vincere secondi utili alla risoluzione della «Ruota finale», anziché, come sarebbe giusto, per il fatto di essere relativi alle lettere dell’alfabeto. Insomma, questo semplice filo rosso aggiunto nella localizzazione non solo non ha intaccato o distorto il nucleo centrale del concept, ma lo ha rafforzato ed ha reso possibile quella perfetta «cicatrizzazione» della parte finale aggiunta di cui si diceva. Anche quest’ultimo accorgimento è dunque funzionale al fine complessivo a cui un autore di nuova generazione deve costantemente puntare: valorizzare e preservare il più possibile l’idea nucleo di ogni format, sia in caso di adattamento, sia in caso di progettazione originale. Format veri, intendo, e non programmi-minestrone, vecchi e sempre uguali a sé stessi. Format con una cifra e un’anima uniche e chiare, che siano al tempo stesso semplici ed efficaci, dotati di uno sviluppo preciso e di un meccanismo rigoroso e implacabile. Dei veri combat format, appunto.

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Indice

Introduzione

v

1. Il contesto

3

1.1. L’intrattenimento e i suoi generi, p. 3 - 1.1.1. Aree di contenuto, p. 4 - 1.1.2. Generi e sottogeneri, p. 10 - 1.2. Il format, p. 23

2. Primi principi

32

2.1. Cosa significa progettare format, p. 32 - 2.2. Le sette regole di base, p. 34 - 2.3. Le cose da non fare, p. 54

3. Il game show

60

3.1. L’essenza del gioco, p. 60 - 3.2. I fattori critici e i meccanismi base, p. 69 - 3.2.1. I fattori critici, p. 69 - 3.2.2. I meccanismi base, p. 76 - 3.3. Le regole del gioco, p. 80 - 3.4. Il coinvolgimento, p. 86 - 3.4.1. Coinvolgimento indiretto: l’immedesimazione con i concorrenti, p. 86 - 3.4.2. Coinvolgimento diretto: giocare in prima persona, p. 93

4. I format d’emozione

104

4.1. Formattizzare le emozioni, p. 104 - 4.1.1. I rituali, p. 106 - 4.1.2. La semplificazione/compressione, p. 112 - 4.1.3. Gli shock emozionali, p. 115 - 4.2. I generi dell’emozione, p. 124 4.2.1. I reality, p. 124 - 4.2.2. Il factual, p. 133 - 4.2.3. Il talent, p. 140

5. Informazione e show

147

5.1. L’asse della non-formattizzazione, p. 147 - 5.2. I format di risata e i format di parola, p. 151 - 5.2.1. I format di risata, p. 152 - 5.2.2. I format di parola, p. 157

­­­­­225

6. I format evoluti

162

6.1. Format crossmediali, transmediali e iperformat: definizione e classificazione, p. 162 - 6.2. Le sette regole dei format crossmediali, p. 171

7. La finalizzazione

179

7.1. La scrittura, p. 179 - 7.1.1. La «bibbia», p. 189 - 7.2. Il pitch, p. 192

8. L’adattamento

199

8.1. I format esteri, p. 199 - 8.2. Perché si adatta, p. 203 - 8.3. Tecniche di adattamento, p. 210 - 8.3.1. Prima fase: comprensione, p. 211 - 8.3.2. Seconda fase: adattamento, p. 213 - 8.3.3. Terza fase: rifinitura, p. 218

Bibliografia

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