Prima lezione sulla televisione
 9788842095231

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Prima lezione sulla televisione

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© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato  su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata  Gius. Laterza & Figli Spa,  Roma-Bari Finito di stampare   nel gennaio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della   Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9523-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia  è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto  di un libro è illecita e minaccia  la sopravvivenza di un modo  di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera  ai danni della cultura.

Introduzione

Nel racconto di David Sedaris che apre la raccolta Mi raccomando: tutti vestiti bene1 appare la figura di un certo signor Tomkey, famoso tra i vicini perché non credeva nella televisione: «Dire che non credevi nella televisione era diverso dal dire che non ti interessava. Il verbo “credere” suggeriva che la televisione avesse un qualche piano, e che tu fossi contrario. Suggeriva inoltre che forse pensavi un po’ troppo. Quando mia madre ci comunicò che il signor Tomkey non credeva nella televisione, mio padre disse: “Be’, buon per lui. Per quel che ne so, nemmeno io”. “La penso esattamente come te” disse mia madre, dopodiché entrambi si misero a guardare il telegiornale, e tutti i programmi che seguirono il telegiornale». Non credere più ciecamente nella televisione è stata una lunga, lenta conquista. Per anni, contando sulla sua natura magica e favolistica (che esperienza fatata dev’essere stata quella di vedere per la prima volta un evento ripreso da una telecamera, l’ebbrezza del mondo che entra in casa!), la televisione ha dispensato conoscenze 1  D. Sedaris, Mi raccomando: tutti vestiti bene, Mondadori, Milano 2006.

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più vere del vero, come se provenissero da una sorta di entità suprema. E la frase più abusata per suggellare molte chiacchiere o discussioni era questa: «L’ha detto la televisione». Punto e basta. Questa fiducia cieca nei confronti del mezzo nasceva dal fatto che, in tutti i contesti in cui si stava sviluppando, la televisione contribuiva vistosamente e immediatamente al rafforzamento o all’edificazione di una nuova e fino ad allora sconosciuta identità nazionale; in maniera esemplare nei paesi europei, principalmente in Italia. Oggi si sottolinea come il ruolo dei media e della televisione nella costruzione di uno spazio pubblico nazionale sia stato il contributo più rilevante che l’industria culturale ha svolto nel processo di modernizzazione. Forse perché estremamente rilevante nel caso italiano, il tema della funzione nazionale della televisione è stato colto e affrontato piuttosto precocemente nel nostro paese2, la cui effettiva unificazione dal punto di vista linguistico e culturale è avvenuta più nella lingua del piccolo schermo che in quella delle aule scolastiche. Sul periodo della cosiddetta “televisione delle origini”, cioè la televisione del monopolio Rai, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, c’è oramai una certa unanimità. Accanto alle considerazioni sul progetto pedagogiconazionale del servizio pubblico, sulle radici umanistiche della nostra televisione, sul succedersi nel palcoscenico del piccolo schermo delle mille province e delle mille 2  Cfr. G. Bettetini, A. Grasso (a cura di), Televisione: la provvisoria identità italiana, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1985; per quanto riguarda il ruolo d’unificazione linguistica, cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita (1963), Laterza, Roma-Bari 200810.

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Italie ancora in gran parte sconosciute agli stessi italiani, si è riconosciuta a quella televisione la funzione di istituzione sociale. La televisione presentava dei vantaggi consistenti: sia per la sua capacità di articolare il pubblico nel privato; sia, ovviamente, per la sua accessibilità e popolarità, per quella sua caratteristica complementare, integrativa (contrapposta alla settorializzazione della cultura a stampa), intuita molto precocemente da Marshall McLuhan e ribadita da Joshua Meyrowitz3; sia, infine, per la sua specificità di medium generalista di flusso che tendeva a sincronizzare i ritmi di una comunità: la televisione assorbiva e insieme dettava i tempi di una nazione. Proviamo a soffermarci sul nostro paese. La dimensione rappresentativa e quella relazionale, il patrimonio simbolico e il potere ritualistico del piccolo schermo trovano, per esempio, una sintesi piuttosto coerente nel progetto di servizio pubblico che ha animato la Rai monopolistica per oltre un ventennio. L’Italia era stata fatta, o meglio “rifatta”, ricostruita sui miti fondativi della liberazione dal nazifascismo, della Resistenza, della Repubblica e della Costituzione. Ora occorreva “fare gli italiani”. A questo compito verrà chiamata, in maniera più o meno consapevole dalla classe dirigente d’allora, anche la televisione, che andrà ad affiancarsi ad altre istituzioni “pedagogiche” come la scuola di Stato ma anche l’esercito, con la sua leva obbligatoria. Quando la televisione muove i primi passi, negli anni Cinquanta, l’Italia si esprime di preferenza nei dialetti regionali e il 3  Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967 e J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1993.

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principale mezzo di trasporto è il treno. D’improvviso, il giovedì sera, appare un giovanotto, tal Mike Bongiorno, che presto diventerà il bersaglio delle più raffinate critiche e che, per intanto, comincia a porre domande ai concorrenti sotto forma di quiz. Le famiglie in possesso di un televisore tengono corte bandita, i bar sono affollati fino all’inverosimile, i cinema vampirizzati dalla televisione (la regolare programmazione è di sovente interrotta), le strade deserte, tutti i televisori esistenti accesi per vivere in diretta l’avventura della conoscenza. Come si riconoscerà più tardi, è Lascia o raddoppia? la trasmissione che ha unificato il paese. L’avvento della televisione è stato un sommovimento tellurico di lunga durata (una decina d’anni almeno) che a poco a poco ha coinvolto l’intera nazione; qualche picco di forte intensità e molte onde sismiche che hanno sospinto la televisione da fenomeno parziale a fenomeno dominante della società contemporanea. La televisione italiana non ha i tratti del Grande Fratello, almeno non di quello descritto da George Orwell; non è stata, e non è, solo apportatrice di abbrutimento, tristezza, squallore, diffidenza, odio. Anzi, a dar ascolto alle tesi di alcuni, i già citati storici del futuro non troveranno paradossale un’affermazione che oggi potrebbe ancora stupire: l’avvento della televisione è stato pari alla Divina Commedia e alla spedizione dei Mille. Se Dante aveva dato all’Italia post-latina una lingua unitaria, se la spedizione dei Mille aveva realizzato politicamente quell’unità che per seicento anni era rimasta solo una utopia letteraria, dobbiamo anche ammettere che l’italiano di Dante era ristretto a pochi intellettuali. La televisione, secondo Tullio De Mauro e Umberto Eco, ha unificato linguisticamente la penisola, là dove non vi era ancora riuscita la scuola. Lo ha fatto nel bene come nel male: ha unificato

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non con il linguaggio di Dante ma con quello di Mike, nel migliore dei casi con quello delle cronache sportive, del Festival di Sanremo, della lotteria di Capodanno, del telegiornale. Si è trattato di un fenomeno di proporzioni enormi che ha accelerato i ritmi della vita sociale italiana in maniera impressionante: i secoli si sono compressi in anni, gli anni in mesi, i mesi in ore. Lo scopo iniziale della televisione era anche quello di costruire una sorta di struttura connettiva capace di rendere pensabile l’idea di un “noi” nazionale, non solo come comunità legata a un territorio, ma anche come emotional community. Se, come ha dimostrato Benedict Anderson4, una nazione, per esistere, deve innanzitutto immaginarsi come tale e se, in questo processo, il capitalismo a stampa ha svolto un ruolo centrale nella ritualità immaginativa che unisce persone separate spazialmente ma unite nell’hegeliana «preghiera laica del mattino» della lettura dei giornali, il discorso va senz’altro ripreso e rilanciato per la televisione, che – più ancora dei suoi contenuti particolari – trasmette la sensazione, anzi la certezza, che altri, vicini e lontani, sono all’ascolto, sono spettatori, nello stesso istante, della medesima rappresentazione, sono un “noi” accomunato dall’appartenenza a un comune spazio pubblico nazionale. Ha scritto Giovanni Bechelloni: «la televisione rende gli italiani visibili gli uni agli altri, li mette in condizione di parlarsi, di riconoscersi come membri di una stessa collettività nazionale, di pensarsi come italiani. Al di là delle mediazioni tradizionali offerte dalla Chiesa, dalla scuola, dagli intellettuali»5. 4  B. Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 1996. 5 G. Bechelloni, Televisione come cultura, Liguori, Napoli 1995, p. 4.

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Due sono, dunque, le funzioni fondamentali ascrivibili, da questo momento, alla televisione delle origini: costruire, da una parte, la visibilità degli italiani, nella tradizionale funzione di rappresentazione e autorappresentazione già assolta precedentemente dal cinema (si pensi al Neorealismo); sincronizzare, dall’altra parte, i ritmi di una comunità e renderla perciò più consapevole di se stessa, più in grado di riconoscersi e immaginarsi come un insieme, come un “noi” che affronta un destino comune (quello della definitiva ricostruzione, del boom economico, dell’avvento della società dei consumi, opportunamente mediata dalla spettacolarità rassicurante di Carosello). Il pedagogismo della televisione non è soltanto para-scolastico (con le lezioni del professor Cutolo e del maestro Manzi, con la telescuola destinata ad alfabetizzare un’Italia ancora contadina), ma di socializzazione e di “nazionalizzazione”. In tutta Europa, la stagione della televisione delle origini e del monopolio pubblico può essere letta nei termini di un complesso equilibrio sperimentato e alfine faticosamente raggiunto: l’iniziativa di costituire un servizio pubblico statale, originatasi da ragioni tecniche (costruire un servizio televisivo nazionale sulla scorta dell’esperienza radiofonica; regolamentare una “risorsa scarsa” come la banda delle frequenze) in funzione di quelle culturali (“fare gli italiani”), ha l’effetto di istituire nuove ritualità radicate in una “comunità immaginata” estesa e potenziata dal nuovo “medium istantaneo” e, contemporaneamente, di definire un patrimonio simbolico comune, che va dagli sceneggiati ai telequiz al varietà. In questi ultimi anni, grazie alle nuove tecnologie, la televisione ha subìto però un radicale cambiamento: il passaggio dal tradizionale segnale analogico a quello digitale ha spinto verso una decisa personalizzazione del

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consumo. L’immagine chiave per capire questa fase di transizione è la progressiva sostituzione del palinsesto con il video on demand e l’allargamento dell’interattività. Nella lingua corrente, il termine “digitale” significa «qualcosa che prevede l’uso di segnali discreti per rappresentare dati sotto forma di numeri o di lettere alfabetiche». Nell’ambito tecnologico la parola “digitale” (che porta in sé i significati di dito/misura/numero) è utilizzata per definire un codice in grado di trasformare in bit le informazioni testuali, sonore e visive. Attraverso questo codice è possibile far parlare tutti i media con la stessa “lingua”. Il digitale viene distribuito dal satellite, dalle fibre ottiche, dal web, dal telefono, dal “digitale terrestre” (il vecchio sistema analogico convertito) e consente ai telespettatori servizi integrativi come sondaggi e votazioni in diretta, acquisti online, operazioni bancarie, ecc. Nicholas Negroponte ha spiegato che “televisione” è una parola sola ma significa ormai quattro cose separate, e che tutte e quattro stanno attraversando una fase di cambiamento radicale: la produzione di contenuti, la trasmissione del segnale, il device fisico attraverso cui la si fruisce, il modello di business. In primo luogo, produzione di contenuti sempre più “indifferenti” rispetto agli schermi che li mostreranno (ne sono esempio i mobisodes, brevi episodi di serial da consumare sul telefonino). Poi, una trasmissione del segnale affidata sempre più frequentemente all’Internet Protocol (Ip): il terminale di visione non è più solo il televisore ma tutta una gamma di tecnologie, dai telefonini alle tavolette digitali tipo l’i-Pad. Infine, modelli economici che tendono a pluralizzarsi sempre di più. L’esplosione dell’idea di “televisione”, attualmente in corso, deriva curiosamente da un movimento cen-

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tripeto opposto, ovvero la convergenza6: i contenuti televisivi viaggiano su molteplici piattaforme distributive, cambiano le tecnologie di fruizione, le modalità di articolare contenuti e linguaggi, i mercati e i modelli economici e, più in generale, il significato culturale e sociale del medium. Nell’universo mediatico è in corso una grande mutazione. Da quando è in atto il passaggio dal rispecchiamento del mondo alla creazione del mondo virtuale, fondamentali cambiamenti estendono i loro effetti sulla nostra quotidianità. Convergenza significa anche alleanze, abbattimento delle frontiere, unione fra settori differenti. Il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la comunicazione. E se è vero che i media formano ormai nuovi ambienti sociali che includono o escludono, uniscono o dividono le persone con modalità inusuali, è altrettanto vero che i cambiamenti dei media stabiliscono nuovi rituali, pubblici e personali. Convergenza è la voce del molteplice, indiscernibile e ibridato. Se un tempo Marshall McLuhan scriveva che «il medium è il messaggio», a indicare la centralità e la rilevanza sociale dei moderni mezzi di comunicazione di massa, oggi potremmo quasi invertire i termini e affermare che «il contenuto è il mezzo». L’attuale trasformazione dei media ruota attorno a un presupposto cruciale: il contenuto si sta affrancando dal suo contenitore, diventa il motore centrale, il driver della convergenza, è il passaporto che permette di viaggiare fra le diverse piattaforme distributive. Di fronte alle sfide lanciate dal nuovo scenario mediale, la televisione ha reagito. E lo ha fatto meglio di   H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.

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altre industrie, da quella cinematografica a, soprattutto, quella musicale. Tale cambiamento è maggiormente evidente negli Stati Uniti, là dove l’industria televisiva è più avanzata, fiorente, competitiva. La televisione è riuscita a ripensare se stessa e a conformarsi al multiforme panorama. Chi la dava per morta di fronte all’avanzata dei new media è stato (ancora una volta) smentito. Invece di chiudersi a riccio, di arroccarsi sulle proprie posizioni, di difendere il proprio modello, la televisione si è adeguata al nuovo, si è espansa al di fuori del proprio guscio, ha messo in atto un movimento di trasformazione. Un cambiamento che non è solo il frutto di mere possibilità tecnologiche, istituzionali, economiche, culturali, ma è frutto anche di un vero e proprio ripensamento estetico7. La televisione ha portato avanti pratiche di migrazione del proprio contenuto su altri media, catturando il proprio spettatore là dove si era perduto. Ma questa espansione non è solo un movimento al di fuori di essa, è anche un cambiamento interno. È un ripensamento delle regole di costruzione del testo, una sorta di espansione interna agli stessi programmi. Come detto, il contenuto ridiventa centrale, ed è già pensato per rompere gli argini del piccolo schermo. Dal punto di vista culturale, la televisione ha attraversato fasi differenti. Alle origini era pura magia, stupefazione, incanto. Qualunque programma sembrava recare le stimmate della scoperta, dell’arricchimento, della crescita culturale. La televisione era anche frequentata dagli intellettuali. Per lungo tempo, poi, è parso che abbassare il ti7  Si veda M. Scaglioni, A. Sfardini, MultiTV. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza, Carocci, Roma 2008.

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ro fosse la maledizione della televisione, il suo Geist, il demone inquieto. Per anni la televisione non ha fatto altro che spostare i confini, dell’accettabile, del visibile, del sopportabile. Sulla buona televisione c’è stata rassegnazione. Quando si trattava di “spessore”, siamo stati abituati all’indigenza, alla mendicità, alla ristrettezza. Gli uomini di pensiero erano presentabili solo se accettavano la guitteria di un talk show (e in molti l’hanno accettata). La prosopopea era soverchiante rispetto all’essenziale. Oggi, con la frantumazione dell’offerta e il moltiplicarsi dei canali, si assiste a una rinascita culturale della televisione, specie quando il suo modo di comunicare si abbandona a una ritrovata fascinazione della scrittura. La struttura di questo libro è pensata per gettare uno sguardo essenziale su alcuni degli approcci principali e delle questioni aperte che innervano gli studi sul piccolo schermo, indagato sia come “tecnologia”, sia, soprattutto, come «forma culturale», secondo la celebre definizione data da Raymond Williams8. Il tentativo è quello di dar conto dei diversi “campi di forza” che attraversano e sfaccettano l’identità del piccolo schermo. Per prima cosa si proporrà un approccio storico al medium. Come si è detto, la televisione è essenzialmente una tecnologia: è utile quindi ricostruire la storia di un’invenzione davvero “plurale”, perché nata attraverso sentieri e percorsi intricati, attraverso la convergenza di tasselli di ricerca di scienziati al lavoro separatamente, in diversi contesti nazionali. Ma la televisione è anche una “forma culturale”, un serbatoio che raccoglie e dà forma all’immaginario di generazioni, 8  R. Williams, Televisione. Tecnologia e forma culturale, De Donato, Bari 1981.

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società, nazioni. Ecco allora il senso di una piccola storia della televisione italiana, raccontata per capire come il medium è nato e si è sviluppato in Italia, dai primi, timidi passi mossi nel dopoguerra, allo scenario attuale della sovrabbondanza dell’offerta. La multidisciplinarietà degli approcci alla televisione è ciò che caratterizza e determina la ricchezza degli studi sul medium: da qui il tentativo di ricostruire i principali filoni di ricerca teorica che hanno eletto il piccolo schermo a oggetto di riflessione e pensiero. Si sa che il piccolo schermo è un terreno insidioso e scivoloso, parlando del quale si tende spesso a dare molto per scontato; è utile invece fare il punto su alcuni concetti che spesso vengono richiamati quando si discute della televisione: la nozione di servizio pubblico e il rapporto, improntato ad ambivalenti sentimenti di attrazione e rifiuto, tra la televisione e il suo controcanto riflessivo, la critica. Da cosa è costituito il flusso televisivo, il ventre molle del piccolo schermo? Essenzialmente dai programmi, che, intesi come testi, si raccolgono intorno ad alcuni generi principali, che verranno raccontati nelle loro caratteristiche fondamentali e nel loro percorso evolutivo con particolare riferimento alla televisione italiana. Si è scelto di concludere con una riflessione sullo scenario della convergenza mediale, e sui cambiamenti a cui il medium televisivo sta andando incontro, primo fra tutti il passaggio in Italia dal sistema analogico a quello digitale terrestre.

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Lo scenario è a 10 chilometri da Manhattan, dove si stende una grande area chiamata Flushing Meadows, che un tempo era una palude infestata dalle zanzare. È il 30 aprile del 1939: di lì a pochi mesi Hitler invaderà la Polonia e in Europa sarà l’inizio della seconda guerra mondiale. Ma anche qui sta per compiersi un evento di portata epocale. Si apre, tra grandi cerimonie, l’Esposizione Universale di New York. Il titolo è impegnativo: Costruire il mondo di domani. L’obiettivo delle grandi corporations americane che hanno prenotato uno “spazio”, qui nel Queens, è stupire il mondo con qualcosa di straordinario. C’è la General Electric, colosso dell’elettricità, che presenta Elektro, una specie di robot attaccato alla presa della corrente che riesce a fare molte cose divertenti, persino fumare una sigaretta; la General Motors, regina delle automobili, presenta un’animazione delle autostrade del futuro, fiumi di macchine che, comandate a distanza, corrono velocemente lungo i grandi spazi del continente americano; c’è la Borden, che si spinge ancora oltre con Rotolactor, un bizzarro dispositivo a valvole in grado di lavare, asciugare e mungere ben 150 mucche. C’erano mezzo milione di persone, quel giorno, all’inaugurazione della grande Fiera. Alcune a bocca

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aperta, altre un po’ perplesse. E ce n’erano poi alcune migliaia sparse nell’area metropolitana di quella che sarebbe diventata la Grande Mela, alle quali era stato concesso il privilegio di partecipare in prima persona all’evento. La Rca, la società che possedeva la catena radiofonica Nbc, aveva scelto la Fiera del 1939 per presentare l’ultima meraviglia delle meraviglie, una “cosa” chiamata tv. Una telecamera primordiale, montata su una struttura ingombrante quanto una gru, era stata installata su una piattaforma a poco meno di 20 metri dal palco degli speaker. Alle 12.30 si era accesa per inquadrare il sindaco di New York, il mitico Fiorello La Guardia, che, curiosissimo, era sceso dal palco per avvicinarsi a quello strano trabiccolo. Subito dopo, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt veniva inquadrato mentre pronunciava il discorso di inaugurazione. C’erano soltanto 200 televisori accesi quel giorno nell’area metropolitana di New York, per la gran parte posseduti da dirigenti della Nbc o da eccentrici miliardari. Ma c’erano anche parecchi monitor nel grande atrio del quartier generale della Rca a Manhattan, in alcune vetrine di grandi magazzini e negli stand dell’Esposizione riservati alle società. Tutti coloro che videro le prime inquadrature di La Guardia e Roosevelt rimasero impressionati dalla nitidezza delle immagini. David Sarnoff, gran capo della Rca, rilasciò subito un’entusiasta dichiarazione ai giornalisti, non esitando a definire rivoluzionaria quella fresca invenzione e annunciando che, dal giorno dopo, la Rca avrebbe messo in vendita gli apparecchi necessari perché tutti godessero di un simile prodigio della tecnica. Sono passati più di 60 anni da quel giorno. Di Elektro, il robot che fuma sigarette, non c’è traccia, le

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autostrade continuano ad essere solcate da automobili guidate da esseri umani, e nessuna fattoria si è dotata di quel dispositivo ideato per lavare e mungere le mucche. Quanto alla tv, come sappiamo, è andata diversamente. Le parole di Sarnoff non erano esagerate: ha cambiato il mondo in cui viviamo. 1.1. Un’invenzione “plurale” e internazionale La tv non venne inventata nella primavera del 1939, né dai tecnici della statunitense Rca. In realtà decine e decine di scienziati, tecnici, accademici e inventori da salotto sparsi in mezzo mondo avevano contribuito nel cinquantennio precedente a far sì che allo spettacolo di Flushing Meadows potesse arridere il successo. La storia delle origini della tv è la storia di un progetto collettivo, sviluppatosi in parte in modo involontario, come capita spesso per le grandi scoperte o le grandi svolte dell’umanità. Ed è una storia poco conosciuta, forse proprio perché non è legata a un singolo evento o a un personaggio di grande spicco. La tv vide la luce al termine di quel mezzo secolo straordinario per la storia dell’umanità che ci ha regalato tra l’altro la fotografia, il cinema, la radio, il telefono. La sua invenzione non ha rappresentato una svolta così straordinaria rispetto alle precedenti dal punto di vista tecnologico: ne è stata una perfetta sintesi. Non è un caso che ipotesi e fantasie si siano sviluppate prima dell’invenzione della radio, sulla base invece delle meraviglie viste al cinematografo. O che qualcuno, non potendo ancora immaginare le possibilità offerte dalla trasmissione di un segnale elettromagnetico via etere, abbia pensato prima che alla tv al videotelefono, cioè a una tecnologia che si è sviluppata solo in tempi più

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recenti. L’invenzione della tv, dunque, è molto controversa e circa la sua paternità non sono mancate accese polemiche. Se la sono disputata gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma un ruolo decisivo hanno svolto alcuni studiosi di origine russa. Proprio perché legata allo sviluppo di tecnologie, l’evoluzione del mezzo televisivo ha attraversato fasi alterne, con accelerazioni e stasi, complici gli eventi economici e politici del secolo. In sintesi, si possono indicare quattro periodi fondamentali nella fase pionieristica: quello compreso tra il 1870 e il 1890, nel quale si iniziò a configurare la trasmissione di immagini a distanza come tecnologia a sé stante, mentre procedeva lo sviluppo del cinema e del telefono; gli anni che vanno dal 1920 al 1935, durante i quali la sperimentazione conobbe un’accelerazione grazie alla crescita collaterale della radiofonia; il periodo compreso tra il 1935 e la seconda guerra mondiale, che vide la nascita dei primi servizi di diffusione pubblici e privati nel mondo anglosassone; infine, dopo il conflitto, gli anni in cui decollò l’industria televisiva vera e propria, con al centro il sistema produttivo, e si affermò lo show business americano. La nascita dell’idea di tv – per usare un’espressione platonica – si può collocare approssimativamente attorno al 1870, cioè alcuni anni prima dello storico esperimento di Marconi. Come si è accennato, in seguito all’invenzione e allo sviluppo della telefonia e della telegrafia, apparve naturale pensare di abbinare la rappresentazione delle immagini alla trasmissione della voce. Ma l’impulso decisivo a questa fase pre-pionieristica venne in realtà dalle ricerche nel campo dell’elettricità, che avevano già consentito la realizzazione di prodotti pronti per il consumo, come i generatori, la pila, il parafulmine. L’ipotesi di una tele-visione (cioè di un “ve-

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dere a distanza”, come dice l’etimologia della parola) stimolava anche la fantasia degli artisti. Nel 1879 una rivista britannica pubblicò un disegno che mostrava una giovane coppia davanti a un caminetto, intenta a guardare una partita di tennis su uno schermo. Tre anni dopo, sempre per restare nel campo della pura immaginazione, il francese Albert Robida disegnò una serie di immagini raffiguranti una famiglia in salotto impegnata a seguire le fasi di una guerra lontana e, addirittura, a frequentare corsi universitari a distanza o a fare shopping davanti a uno schermo. Robida scrisse anche un romanzo, dal titolo Ventesimo secolo, nel quale il congegno immaginato veniva chiamato «telefonoscopio». Quanto agli scienziati del tempo, essi sapevano benissimo qual era la strada da percorrere per trasformare la fantasia in realtà. Pensiamo a una fotografia in bianco e nero pubblicata su un giornale: ingrandendo l’immagine o usando una lente, la foto si scompone in una serie di puntini neri. Se i puntini in una certa area sono molto fitti, quella zona appare nera; se la concentrazione è inferiore avremo il grigio e infine, in assenza di puntini, si vedrà soltanto il bianco. Ebbene, se qualsiasi immagine si può sminuzzare in un certo numero di piccoli segnali elettrici, proprio come i puntini neri, trasmessi e quindi ricostruiti da un ricevitore, allora il gioco è fatto. Sembra semplice, ma ci sono voluti anni e anni per trasformare la teoria in un’apparecchiatura davvero funzionante. Il problema principale era quello di trovare un mezzo capace di convertire in segnali elettrici le variazioni di luminosità delle immagini che si volevano diffondere. I ricercatori, inoltre, erano in grado di risolvere il problema della trasmissione di immagini fisse, ma per quelle in movimento le cose apparivano notevolmente più complicate.

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Un passo importante fu la scoperta, nel 1873, da parte di Joseph May, delle capacità fotoelettriche del selenio: esposto alla luce, questo elemento chimico consentiva di trasformare l’energia luminosa in energia elettrica. I ricercatori di fine Ottocento giunsero ben presto a immaginare che, aggregando migliaia di cellule di selenio organizzate come l’interno dell’occhio umano nel punto di formazione dell’immagine di un obiettivo e collegandole una ad una ad altrettante lampadine, si poteva ricostruire un’immagine. Sfortunatamente, per inviare un’immagine di qualità almeno accettabile ci sarebbe stato bisogno di 250.000 piccole lampadine collegate con 250.000 sottilissimi fili. Bisognava escogitare un metodo più semplice: occorreva esplorare l’immagine in modo sequenziale, elemento per elemento, invece che tutta in una volta, nel suo insieme. Ciò si poteva realizzare con una tecnica chiamata scanning (“scansione”), che è tuttora alla base del funzionamento della tv. Per migliorare la trasmissione occorreva esplorare per punti e linee l’immagine, e ciò si poteva effettuare mediante due specchi rotanti, uno sul piano verticale e l’altro sul piano orizzontale. Nel 1880 una nuova tecnologia rivoluzionaria, la lampada elettrica a incandescenza inventata da Edison, spianò la strada, finché nel 1884 Paul Gottlieb Nipkow, un ricercatore tedesco di origine russa, giunse a una soluzione fondamentale per la nascita della tv. Realizzò un disco rotante con fori equidistanti in una figura a forma di spirale: mentre il disco girava, una porzione sempre diversa di una data immagine appariva dai fori; qualche metro più in là, un altro disco collegato con una cinghia si muoveva in sincronia con il primo, regolando la quantità di luce che filtrava e veniva a cadere su uno schermo di selenio fotosensibile. Il segnale trasmesso

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agiva, all’arrivo, sull’accensione di un tubo al neon posto dietro al secondo disco, in modo che la luce modulata in intensità fosse vista solo attraverso la successione dei fori, dando vita così all’immagine. Considerato a buon diritto uno dei padri della tv, Nipkow brevettò tale dispositivo, ma non riuscì mai a costruire un modello che funzionasse davvero. In realtà aveva già raggiunto un traguardo importante. Il disco di Nipkow, con opportune modifiche, rappresentò l’elemento chiave della tv “meccanica” (o, per meglio dire, elettromeccanica), che fu alla base dei prototipi sviluppati fino alla metà degli anni Trenta, data in cui il mezzo televisivo divenne totalmente elettronico. Altri ricercatori proseguirono sulla strada di Nip­ kow. A San Pietroburgo un professore di fisica, Boris Rosing, studiò un metodo alternativo al disco di Nip­ kow. Utilizzando un nuovo dispositivo, il tubo a raggi catodici (o tubo di Braun), egli riuscì a riprodurre una scena elettronicamente, utilizzando un flusso di elettroni fatti scorrere sullo schermo fotosensibile sotto la guida di magneti. Anche Rosing brevettò la sua invenzione, che chiamò «occhio elettrico» (1907). Quattro anni dopo riuscì effettivamente, con questo sistema, a inviare un’immagine grezza. Sfortunatamente il suo lavoro venne interrotto dallo scoppio del primo conflitto mondiale e poi della rivoluzione russa (il geniale professore fu arrestato ed esiliato). Il tubo di Braun, comunque, sarebbe rimasto la base per lo sviluppo dei moderni tubi da ripresa e cinescopi. Per una di quelle straordinarie coincidenze che accompagnano le grandi scoperte dell’umanità, negli stessi anni un inventore scozzese, Alan Archibald CampbellSwinton, era riuscito per conto proprio a costruire un dispositivo molto simile a quello di Rosing.

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1.2. I “padri” Alla fine della prima guerra mondiale, dunque, i princìpi teorici che sono alla base del funzionamento della tv erano stati di fatto già acquisiti e si erano anche effettuate alcune dimostrazioni pratiche con qualche successo. La parola cominciava a circolare negli ambienti accademici, anche se in alternanza con altre possibili denominazioni. Nel frattempo, la prosecuzione degli studi sulla radio assicurava il supporto necessario per la trasmissione delle immagini. Infine, con l’invenzione del triodo, progenitore dei tubi elettronici, iniziò la tecnica di generazione, amplificazione e modificazione della forma d’onda dei segnali. I dieci anni di gran lunga più importanti per lo sviluppo della tv furono gli anni Venti, nei quali i progressi andarono di pari passo con la crescita della radiofonia. Ed è una storia quasi tutta americana. Si ricordano alcune delle tappe principali: l’ideazione di una tecnologia tv a scansione meccanica, pratica ma di vita breve; poi, lo spostamento delle sperimentazioni dai laboratori dei singoli inventori a quelli di grandi compagnie come Rca e General Electric; infine, la conquista del futuro business da parte dell’industria radiofonica. Negli Stati Uniti, in effetti, né il mondo hollywoodiano dello spettacolo né l’amministrazione federale di Washington colsero l’importanza della novità. Fu così che il sistema televisivo si sviluppò a immagine e somiglianza di quello radiofonico. In questa fase evolutiva, comunque, si incontrano alcuni tra i “padri della tv”. Negli Stati Uniti Charles Francis Jenkins, un inventore geniale che aveva già idea­ to un proiettore di immagini in movimento e aveva trovato il modo di spostare il motore dell’automobile da

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sotto i sedili alla parte anteriore, iniziò a occuparsi di quella che chiamava «radiovisione». Nel 1925, utilizzando un nuovo sistema a scansione, riuscì a trasmettere un segnale a distanza di 10 chilometri. In Gran Bretagna, nel gennaio del 1926, lo scozzese John Logie Baird presentò al pubblico nella vetrina di un negozio un aggeggio da lui battezzato «televisore» (fu il primo a usare il termine). Utilizzando il disco di Nipkow, riuscì a mandare in onda tre spettacoli al giorno per tre settimane e il risultato fu così incoraggiante che Baird trovò subito un finanziatore interessato ad arricchirsi vendendo quegli apparecchi. Baird aveva realizzato un’evoluzione del famoso disco grazie all’utilizzo di tubi elettronici che consentivano un’adeguata amplificazione dei deboli segnali emessi dalla cellula fotoelettrica. Il suo televisore rudimentale trasmetteva una minuscola immagine analizzata su 28 righe in ragione di 12,5 volte al secondo. Fu grazie a Baird che la Gran Bretagna, insieme agli Stati Uniti, conquistò la leadership della nuova tecnologia. Nel 1929 un trasmettitore a Daventry realizzò trasmissioni con un’immagine scandita su 30 righe. Ricerche sulla scia di quelle di Baird vennero compiute in altri paesi europei, tra cui l’Italia con Banfi e Castellani. In America, Jenkins pensò subito a come trasformare in business le sue invenzioni e diede vita a una società per la costruzione sia di trasmettitori sia di apparecchi di ricezione tv. Nel 1929, la Frc (Federal Radio Commission) aveva già concesso il nulla osta a 18 stazioni. L’audience di queste emittenti sperimentali, naturalmente, non era né ampia né di buon livello, essendo composta in prevalenza da ingegneri elettrici e da eccentrici ricconi in grado di pagarsi ricevitori prototipo.

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Un episodio curioso, in quegli anni, si svolse alla Nbc. Uno dei primi programmi sperimentali diffusi da quello che sarebbe diventato un colosso della tv dei nostri giorni aveva per protagonista il gatto Felix. La scelta non era casuale: per collocare sotto il calore terribile dei riflettori un oggetto che non si fondesse, i tecnici della Nbc avevano scelto un gatto di legno posto sul piatto di un fonografo (né un gatto vero né un essere umano avrebbero potuto disporsi sotto l’occhio della telecamera di allora senza finire arrosto). L’immagine di Felix era comunque in movimento e, nonostante la primitiva scansione a sole 60 righe (gli standard attuali sono di 525 linee negli Usa e 625 in Europa), la sagoma del felino risultava abbastanza riconoscibile. Alla fine degli anni Venti la tv sembrava in ogni caso avviata negli Stati Uniti verso un’ascesa folgorante. Ma così non fu. La tecnologia meccanica, a causa dei limiti cui s’è fatto cenno sopra, presentava troppi inconvenienti. Trasmettere “ombre” di un gatto rotante non poteva bastare, nonostante l’impegno profuso nel campo dell’elettronica da diverse società, desiderose di accrescere il proprio raggio d’azione. Gli schermi tv avevano le dimensioni di pochi centimetri quadrati, le immagini (tendenti al rosa o all’arancione) erano molto disturbanti, e l’intera apparecchiatura necessaria era grossolana e rumorosa. Dopo il 1929, con la Grande Depressione, divenne sempre più difficile per le imprese trovare risorse da destinare a un’attività dal futuro così incerto. Le autorità pubbliche ci credevano talmente poco che l’agenzia governativa Frc non fece nulla per definire gli standard necessari alla nascente industria, né per trovare alla tv uno spazio nell’etere attraverso l’attribuzione di frequenze nello spettro elettromagnetico. Occorreva, insomma, un passo in avanti tecnologico, il salto verso

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l’elettronica. E ancora una volta furono singoli inventori a compierlo. I due personaggi che più hanno contribuito allo sviluppo della tv furono Vladimir Kozmicˇ Zvorykin (ancora un russo) e Philo Farnsworth. Il primo era stato allievo di Boris Rosing a San Pietroburgo e, emigrato negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale, era stato assunto nei laboratori di ricerca della Westinghouse. Lì iniziò il suo lavoro su quello che aveva chiamato l’«iconoscopio», cioè l’occhio di una telecamera elettronica, progettato nel 1923. Nel 1929 convinse David Sarnoff della Rca che il futuro della tv non poteva che essere nell’ambito della tecnologia elettronica. Venne assunto e proseguì le sue ricerche nel campo dei ricevitori e delle apparecchiature di ripresa. Nei primi anni Trenta, sotto la guida dei due sperimentatori russi, i progressi tecnici nei laboratori Rca risultarono di tutto rilievo. Più affascinante la storia di Philo Farnsworth. Cresciuto nell’Idaho, lontano dalle grandi società della East Coast, mentre era al liceo il ragazzo stupì i suoi insegnanti tracciando su una lavagna lo schema di funzionamento di un’apparecchiatura che era già una vera e propria tv elettronica. Nel 1926 Farnsworth si trasferì a Salt Lake City, nello Utah, e cercò di convincere investitori privati a finanziare le sue ricerche. Il giovane inventore sviluppò ben presto l’image disector, che raggiungeva gli stessi risultati dell’iconoscopio di Zvorykin, in base però a una progettazione diversa. La Depressione costrinse Farnsworth e i suoi soci a passare più tempo a cercare fondi che a promuovere ulteriori esperimenti. Alla fine il progettatore passò alla Philco, una produttrice di radioricevitori concorrente della Rca. Negli anni Trenta la ricerca negli Stati Uniti continuò a ritmi accelerati. Zvorykin perfezionò il suo dispo-

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sitivo interamente elettronico, Nbc e Cbs inaugurarono le prime emittenti sperimentali a New York con le sigle W2xbs (oggi Wnbc) e W2xab (oggi Wcbs). A guidare l’industria del settore restava comunque David Sarnoff della Rca. Nel 1935, all’assemblea degli azionisti della società, egli annunciò un piano da un milione di dollari per portare la tv dai laboratori di ricerca al grande pubblico. Ma il passo necessario ancora da compiere era quello di migliorare la qualità delle immagini. Il sistema di Zvorykin aveva aumentato le righe di scansione da 120 a 240 (il gatto Felix, ricordiamo, era a sole 60) e già nel 1937 le trasmissioni si effettuavano a 441 righe, cifra molto vicina agli standard attuali. In soli dieci anni, comunque, la tv si era trasformata da un arcaico sistema di cinghie, specchi e fari in un sistema elettronico con una singola parte meccanica in movimento. Già all’inizio degli anni Trenta, come si è detto, le strategie per il controllo del nuovo business erano ben avviate. Sul carro della tecnologia tv in America si erano insediate grandi corporations come Westinghouse, Rca e Philco, mentre sul fronte del broadcast tutto era in mano alle catene che già offrivano radiofonia. Nel 1937 ebbero luogo i primi esperimenti di network, cioè di emittenti tv in catena. Collegate da cavi presi in affitto dalla compagnia telefonica, due stazioni a New York e Filadelfia iniziarono a dividersi la programmazione. Nel frattempo anche la Gran Bretagna aveva avuto il suo giorno storico: il 2 novembre 1936 all’Alexandra Palace di Londra il ministro delle Poste e Telegrafi del governo Baldwin inaugurava la prima trasmissione televisiva quotidiana della Bbc. Così il Regno Unito conquistò la palma del primo paese al mondo con una programmazione regolare: due ore, una al pomeriggio e una la sera, con i discorsi di circostanza e una canzone

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di Adele Dixon. La prima emissione copriva solo la capitale e gli immediati dintorni. Il debutto ufficiale della Bbc fu seguìto naturalmente da quelle poche centinaia di londinesi che si erano potute permettere l’acquisto dell’unico tipo di televisore allora in commercio: dieci pollici di schermo, costo pari a quello di un’utilitaria. Ma già nel 1937 la cerimonia di incoronazione di Giorgio VI venne seguita, si stima, da 10.000 spettatori. Senonché il 1° settembre 1939 una telefonata dal quartier generale della Bbc ad Alexandra Palace ordinò di spegnere tutto: era scoppiata la guerra e in onda c’era un allegro cartone animato di Topolino. La tv britannica si riaccenderà solo il 7 giugno 1946, sempre con Mickey Mouse. Ma avrà accumulato, dal punto di vista tecnologico, dieci anni di ritardo. Negli Stati Uniti, intanto, dopo la storica presentazione di Flushing Meadows nel 1939, il gruppo RcaNbc avviò una programmazione regolare di dieci ore alla settimana, che trasmetteva prevalentemente film ed eventi sportivi. Per stimolare le vendite di televisori, unico modo per creare un’audience, Cbs e Rca si resero conto che occorreva puntare sulla qualità tecnologica e presentarono alle autorità di Washington due progetti concorrenti per l’introduzione della tv a colori. La Frc, divenuta nel frattempo Fcc (Federal Communication Commission), si decise infine a stabilire gli standard tecnici per la produzione di televisori, ma bocciò le richieste per il colore, definendole premature. Al 1941 risale un altro passo avanti importante, con l’approvazione delle licenze per tv commerciali a tempo pieno. Il 1° luglio dello stesso anno, la stazione della Nbc a New York trasmise il primo spot pubblicitario della storia della tv mondiale. Venne inquadrato per un minuto un orologio Bulova: la società versò nelle casse del network

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4 dollari. Alla fine del 1941 le licenze concesse negli Stati Uniti erano salite a 32. Scoppiata la seconda guerra mondiale, le nuove stazioni tv furono pronte a riprendere tempestivamente gli eventi. Nel giorno dell’attacco giapponese alla flotta Usa a Pearl Harbor si sparse a New York la voce che aerei tedeschi erano in volo sull’Atlantico con l’obiettivo di bombardare la città. Alla Cbs venne montata in tutta fretta una telecamera su una finestra che dava sull’oceano per riprendere il nemico in arrivo; a un certo punto lo staff del network pensò che i bombardieri tedeschi potessero utilizzare il segnale tv come faro e smontò l’apparecchiatura. I nazisti, naturalmente, non arrivarono mai. La guerra ebbe un doppio effetto sul nascente business tv: la costruzione di molte stazioni venne bloccata e quasi tutte quelle esistenti, tranne poche, abbandonarono l’etere; ma, al tempo stesso, i migliori scienziati del paese si dedicarono alla ricerca militare studiando soprattutto l’elettronica delle alte frequenze. Il loro lavoro migliorò notevolmente la tecnologia del radar e, di riflesso, ebbe influssi positivi sulla tv. Lo stesso stava avvenendo in Germania, dove venne impiantato un sistema di controllo televisivo a distanza per seguire i lanci di prova dei razzi V2, destinati a piovere sulla Gran Bretagna. A differenza degli Stati Uniti, dove l’affare era nelle mani delle grandi corporations private, l’Europa si caratterizzò subito per l’impegno dello Stato nel nuovo settore. Oltre che in Gran Bretagna e Germania, esperimenti pubblici vennero condotti in Italia a partire dal 1930 e in Francia dal 1932. Nel nostro paese le prime trasmissioni di carattere sperimentale si effettuarono nel 1939, in un padiglione della Fiera di Milano: un quindicennio prima del varo ufficiale della tv italiana.

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Le conoscenze tecnologiche accumulate da molti paesi grazie all’economia di guerra vennero subito applicate nell’industria televisiva, in forte sviluppo. Le linee di produzione furono riconvertite per costruire apparecchi di ricezione a valvole e i militari esperti nelle operazioni radar trovarono un nuovo posto di lavoro grazie alla preparazione acquisita nel campo dell’elettronica. Ora che tutto era pronto, restava però il problema di che cosa trasmettere. La scelta cadde immediatamente su un paio di generi, tra cui prevalse la programmazione sportiva. Nel 1947, negli Stati Uniti, il 60% delle trasmissioni erano di sport. Per ragioni tecniche si partì con il pugilato e il wrestling, più facili da riprendere; poi si passò al football e al baseball. Il livello qualitativo, però, restava modesto; il pubblico era abituato alla ricchezza della programmazione radiofonica, ai suoi personaggi più popolari. Il 1947, al di là della modesta audience, può essere comunque considerato l’anno di nascita della tv in America. Il televisore standard per eccellenza era un Rca, modello 630 TS, schermo di dieci pollici, 30 valvole. Più che a un moderno televisore, assomigliava a una vecchia radio da tavolo con un piccolo schermo in mezzo. Bisognerà aspettare il 1950 per vedere apparecchi dall’aspetto a noi familiare, rettangolari, dalle dimensioni di almeno 20 pollici. L’anno di svolta fu però il 1948. Venne introdotta la programmazione in network e alcuni popolari show radiofonici partorirono la propria versione televisiva. Il più amato divenne Texaco Star Theater della Nbc, con Milton Berle, la prima star tv d’America. Fu il boom: nel 1948 la Fcc ricevette richieste di autorizzazione a trasmettere da 300 stazioni, oltre alle 29 già funzionanti. In soli due anni, dal 1946, i televisori nelle case americane passarono da 8000 a

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172.000, in gran parte sulla costa orientale atlantica. Mentre gli anni Quaranta volgevano al termine, le “potenze televisive” al mondo erano soltanto quattro: Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Francia. Nel 1953 la rivoluzione si poteva considerare compiuta negli Stati Uniti, dove si contavano 328 stazioni televisive che servivano un pubblico di 27 milioni di famiglie. In soli due anni, tra il 1954 e il 1956, ben 19 altri paesi europei avviarono ufficialmente servizi televisivi. In Italia la data ufficiale di nascita del medium è il 3 gennaio del 19541. 1   Per una storia tecnologica del medium si veda M. Temporelli, Tecnologia della ricezione. Per una storia tecnologica della Tv, in G. Canova (a cura di), Dreams: i sogni degli italiani in 50 anni di pubblicità televisiva, Mondadori, Milano 2004. Si veda inoltre P. Ortoleva, M. Temporelli, Vedere lontano. La televisione dalla trasmissione meccanica al digitale, Tivù, Milano 2010.

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2.1. Un processo di modernizzazione Quando apparve la tv, il 3 gennaio 1954, l’Italia era un paese povero, aveva un tasso di analfabetismo che superava largamente il 50% della sua popolazione, viveva in condizioni igieniche precarie, usava il treno come mezzo principale di trasporto, la chiamata al servizio di leva e il viaggio di nozze erano per molti le uniche occasioni di spostarsi dal proprio luogo di nascita. E siccome un apparecchio televisivo costava più di 215.000 lire (quando un buono stipendio “statale” non superava le 80.000 lire), l’avvento della tv fu all’inizio un affare di pochi. Per fortuna c’erano i bar, le osterie, le società di mutuo soccorso, che trasformarono la visione in un’occasione di incontro sociale. Per chi stava in provincia e non aveva l’età, esisteva un formidabile sostituto del bar: la latteria. Il televisore era posto su un trespolo; una scritta minacciosa, a turbare la visione dei più distratti, diceva «Consumazione obbligatoria» ed era posta sopra un’altra che intimava «Non toccate la televisione». Si potevano consumare bibite e, per i maggiorenni, alcolici fino a 21 gradi (quegli orribili amari che allora sembravano così chic)1. Di quel momen  La storia della televisione italiana è raccontata in A. Grasso,

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to cruciale Piero Dallamano ci ha lasciato un ritratto incancellabile: «Il fatto è che in Italia il possesso di un apparecchio televisivo esorbita dai confini di una sola famiglia; è proprietà e uso estendibile non tanto ai parenti ed agli amici (il che è naturale) quanto agli inquilini del piano di sopra e di sotto fino a coinvolgere l’intero caseggiato; nelle sere estive in quei grandi palazzoni multiformi di periferia che allevano balconcini e terrazze in ordinata monotonia è facile accorgersi dell’importanza sociale che viene ad assumere il possesso di un televisore. Le famiglie per così dire fortunate tengono corte bandita: le loro terrazze, i loro balconi formicolano di gente, bambini, vecchi, adulti, ragazzi assiepati dinnanzi al piccolo schermo che lampeggia gaio e tentatore per i meschini che spiano da lontano nell’oscurità notturna. Sopra e sotto invece i balconi e le terrazze rimangono deserti. Ma è nei bar, nei caffè dove si misura in tutta la sua intensità il potere fascinatore della televisione. Sta nascendo un nuovo costume e pochi se ne accorgono»2. Dallamano era di sinistra, ma era uno dei pochi che si interrogava sul rapporto fra il nuovo mezzo e «i grandi modi collettivi del vivere sociale». In genere c’era molta diffidenza. Una celebre ed epigrammatica affermazione di Alberto Moravia di quegli anni ne racchiude l’essenza: «L’Italia televisiva è una sotto-Italia, un’Italia di serie B». La prima constatazione – oggi di sapore beffardo – è appunto che la tv è nata fra la ritrosia e l’ostilità degli intellettuali: troppo occupati dal riscatto delle masse, troppo legati al valore catartico dei vari “realismi”, troppo ingenuamente romantici. La destra si dimostraStoria della televisione italiana, Garzanti, Milano 1992 (ed edizioni successive). 2  P. Dallamano, Il televisore, «Il Contemporaneo», 36, 1955.

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va più attenta. In una corrispondenza dagli Stati Uniti apparsa su «La Stampa» del 5 gennaio 1954, Gianni Granzotto (che diventerà poi amministratore delegato della Rai nel 1965) scriveva: «Cominciamo intanto con il dire che non bisogna aver paura della televisione. Ho letto anch’io, qui in America, il bell’articolo di Paolo Monelli sui pericoli e le minacce della televisione. Le stesse cose si dissero e si scrissero quando la televisione incominciò a diffondersi negli Stati Uniti. Si disse che avrebbe ucciso la cultura, che avrebbe ucciso la conversazione, la lettura, le vecchie abitudini della vita sociale. Si è cominciato in America con venti ore di televisione alla settimana: ora la media è di sei ore e anche meno. La ipnosi da tv non è un male cronico, ma una febbre passeggera. Se la televisione prende un posto preminente nelle abitudini di certe famiglie questo accade nelle case dove non esistevano nemmeno prima quelle forme di vita sociale che si teme vengano distrutte: case dove non si leggeva o si leggeva poco e male, dove non si tenevano conversazioni brillanti o concerti. In quelle case la televisione ha colmato un vuoto, e Dio volesse che la stessa cosa avvenisse anche in Italia». Mentre gli intellettuali si defilavano schizzinosi, la Rai muoveva i primi passi in un roveto di aspirazioni: c’erano gli “aziendalisti” (un gruppo prevalentemente torinese che faceva capo a Marcello Bernardi e considerava la Rai come una branca dell’industria delle telecomunicazioni), c’era il responsabile dell’informazione Antonio Piccone Stella (convinto storicista, rappresentante di un potere accademico, attento a una produzione di livello colto), c’era il direttore dei programmi Sergio Pugliese (un drammaturgo legato al fascismo che sognava una tv come teatro casalingo, come una radio illustrata) e c’era Filiberto Guala, il cui compito

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principale era quello di aprire la porta della tv alla Dc e, detto meno brutalmente, alla tradizione culturale del cattolicesimo. Alla fine prevarrà, pur con tutte le ambiguità e gli equivoci di una vocazione “a sinistra”, la tenace managerialità di Guala, grazie alla stretta alleanza con la vincente egemonia democristiana. Ma sarebbe ingiusto liquidare questa presa di potere come puro gioco di segreterie partitiche. L’amministratore, voluto da Amintore Fanfani, accettò di dirigere la Rai anche perché mirava a un compito primario: fare della tv uno strumento di crescita sociale. Una delle più grandi preoccupazioni dei primi dirigenti Rai fu infatti quella di usare il nuovo mezzo come strumento di promozione culturale; nelle loro intenzioni la tv avrebbe dovuto sostituire, almeno in parte, i libri scolastici, le letture “obbligatorie”, i classici della letteratura di ogni tempo. Molti programmi – riduzioni teatrali, sceneggiati, rubriche – nascevano con questi scopi pedagogici e divulgativi: dalle risposte del professor Cutolo ai Promessi sposi, dall’appuntamento con la novella di Giorgio Albertazzi a programmi critici come L’approdo. Inoltre, il progetto di costituire un rapporto organico con la provincia fu una delle operazioni più originali della programmazione. La novità di questo contatto consisteva nel coinvolgere paesi e cittadine e intere popolazioni in trasmissioni divertenti, in gare spettacolari, sostituendo il singolo concorrente di Lascia o raddoppia? con una collettività. Campanile sera, in onda dal 1959, è stato lo psicodramma della scoperta della tv e il più perfettamente italiano dei game show, tanto da apparire oggi, nei lacerti di videoteca, un ritratto antropologico di quegli anni di rara efficacia. La vera sperimentazione linguistica della televisione italiana si nascose per anni nelle pieghe di Carosello, il

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programma contenitore di pubblicità in onda dal 19573: l’esiguità del tempo a disposizione per ogni singolo spot favoriva l’affermarsi di una vera e propria ricerca stilistica e narrativa condotta, fra gli altri, dai nomi più rilevanti della regia cinematografica. Il racconto breve si insinuava così nei modi produttivi della tv cercando sbocchi onorevoli in migliaia di sigle e di titoli di testa e di coda. Il fatto è che in Italia, nei primi anni di esistenza del medium, nessuno sapeva bene cosa fosse la tv: si congetturava, si teorizzava. O si tirava a indovinare attraverso le “imitazioni” italiane di successi stranieri. Quasi tutte le grandi trasmissioni spettacolari erano frutto di importazione: dal Musichiere a Lascia o raddoppia?, da Duecento al secondo a Telematch. Il primo alveo su cui scorre il flusso di immagini della televisione italiana è fatto di adattamenti, di rifacimenti, di scopiazzature, ma è proprio questo lavoro di riadattamento che fa emergere le caratteristiche fondamentali, il Dna della tv italiana. L’avvento della tv segna un confine temporale nella storia nazionale, un prima e un dopo. Grazie alla tv l’Italia si trasforma rapidamente e inizia il suo faticoso processo di modernizzazione. 2.2. Il trapasso Gli anni Settanta rappresentano il lungo trapasso dalla idealità della tv delle origini all’avvento delle tv commerciali, la lenta, opaca transizione dalla progettualità forte alle leggi dell’audience. Fluttuano lì, in mezzo, né carne né pesce: anni malandrini ma ancora fortemente centristi, anni in cui vigeva il dogma del «credere, obbe3  M. Giusti, Il grande libro di Carosello, Sperling & Kupfer, Milano 1995.

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dire, minimizzare», i famosi anni dei mezzibusti così sapidamente raccontati dal critico televisivo dell’«Espresso» Sergio Saviane4. Le immagini più congrue di quegli anni televisivi sono l’austerità, la riforma del 1975, l’introduzione del colore. Dal 1º dicembre 1973 al 2 giugno 1974 venne decretato dal governo lo stato di «austerità» per risparmiare energia: le auto non potevano circolare la domenica, cinema e teatri chiudevano alle 23, la Rai doveva cessare le trasmissioni entro le 22.45. Il provvedimento si rivelò del tutto inutile ma fu il perfetto sigillo di un clima sparagnino e provinciale, di una miseria inventiva e culturale. La famosa riforma del ’75 stabilì che l’asse del servizio pubblico si doveva spostare dal governo (Dc e Psi) al Parlamento, per assicurare «un maggior pluralismo, completezza e obiettività dell’informazione». Di fatto il Pci, secondo partito italiano, poté rivendicare una rete (la futura Raitre). Le intenzioni saranno certo state le più democratiche e il ruolo padronale della Dc venne di fatto ridimensionato, ma in realtà venne legalizzata la lottizzazione, quel morbo delle istituzioni inutilmente denunciato da Alberto Ronchey già nel 1968. Da allora, la parola “riforma” diventò mefitica, non significò più nulla. Andò a ingrossare quel repertorio lessicale che segna il punto massimo di distacco dalla realtà. La Rai avviò ufficialmente le trasmissioni televisive a colori soltanto il 1º febbraio 1977. L’incredibile ritardo (le tv degli altri paesi da almeno dieci anni godevano del colore; la prima trasmissione a colori negli Stati Uniti risale al 1951) era dovuto a una decisione del senatore Ugo La Malfa: temeva che l’ingresso del colore potes  S. Saviane, Dietro il video. I mezzibusti, Feltrinelli, Milano 1972.

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se scatenare tendenze consumistiche e inflazionistiche. Così, in poco tempo, l’industria italiana dei televisori cedette di schianto alla concorrenza straniera. L’avvento della tv a colori – procrastinato dai moralistici anni dell’austerità e da intempestive malevolenze politiche – coincise con la nascita delle prime tv commerciali; e quasi per farsi perdonare della lunga attesa, il tv color recò con sé una novità sconvolgente, una protesi invisibile, il telecomando, che permise di “saltare” da un canale all’altro, procurando non poche, barbariche gioie. La Rai, però, aveva così scarsa fiducia nell’avvenire della tv che il suo gesto più significativo fu in quegli anni quello di finanziare il cinema: Rossellini (che teorizzò un nuovo linguaggio universale, qualcosa che adesso assomiglia molto a RaiEducational), Olmi, Bertolucci, Fellini, i Taviani, la Cavani, Antonioni, Comencini, i giovani sperimentalisti. Certo ci furono anche programmi “mitici”, pensati nei termini di linguaggio essenzialmente televisivo, come L’altra domenica, Rischiatutto, 90° minuto, Orlando furioso, per non parlare della trasmissione di Italia-Germania 4 a 3, il 17 giugno 1970. 2.3. Il crollo del monopolio Nel novembre del 1980 Telemilano, una tv a diffusione regionale, si era collegata con altre 23 emittenti per presentare su scala nazionale la seconda edizione di Sogni nel cassetto, l’eterno quiz condotto da Mike Bongiorno: è la nascita ufficiale di Canale 5, che riesce a strappare alla Rai uno dei suoi volti più significativi, uno dei padri fondatori della televisione italiana5. Dopo anni di   La storia della nascita delle tv locali in Italia è raccontata in A.

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sommovimenti tellurici, con le antenne di mezza Italia orientate per captare il segnale di Telecapodistria e altri network, per aggirare il monopolio d’offerta Rai, le televisioni commerciali muovono i loro primi passi ufficiali. Da subito, cominciano a dare un serio impulso alle piccole e medie industrie che prima non potevano accedere al video per reclamizzare i loro prodotti. Trasformano così il televisore in un enorme supermercato, dove si trova di tutto: eventi, film, spettacoli di varietà, telefilm, telenovelas, giochi, sport e spot6. Nel 1980, un terremoto nell’Irpinia causa più di 6000 morti e lascia senza casa oltre 300.000 persone; Bill Gates realizza per la Ibm il linguaggio operativo Ms-dos; c’è il boom del fax e dopo qualche anno cominciano ad apparire i primi telefoni cellulari; Umberto Eco ottiene un clamoroso successo di vendite con il romanzo Il nome della rosa. Nello stesso anno, a marzo, nasce la Net (Nuova emittenza televisiva), una catena di 18 tv locali legate al Pci, il cui direttore è Walter Veltroni; a settembre la Rizzoli vara una propria rete televisiva, diretta da Mimmo Scarano, e un proprio telegiornale, Contatto, diretto da Maurizio Costanzo. Silvio Berlusconi, il proprietario di Telemilano, a novembre, acquista i diritti del Mundialito, un torneo di calcio che si tiene in Uruguay: è l’inizio di un duro scontro con la Rai, la quale, dopo lunghe trattative, otterrà di trasmettere in diretta le partite dell’Italia e la finale, mentre Telemilano dovrà accontentarsi di trasmettere in differita tutte le altre partite. Il 12 giugno Grasso, La TV del sommerso. Viaggio nell’Italia delle tv locali, Mondadori, Milano 2006. 6  Cfr. P. Ortoleva, Un ventennio a colori. Televisione privata e società in Italia 1975-95, Giunti, Firenze 1995.

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Sergio Zavoli viene nominato presidente della Rai, in sostituzione di Paolo Grassi; una settimana dopo Willy De Luca viene nominato direttore generale in sostituzione di Pierantonino Bertè. Sempre nel 1980, i programmi di maggior successo della Rai sono Fantastico con Heather Parisi, Giochiamo al varieté, l’ultimo grande show di Antonello Falqui che rievoca la gloriosa rivista italiana degli anni Quaranta e, naturalmente, Portobello di Enzo Tortora, «la madre di tutti i programmi delle tv libere». Mike Bongiorno è a mezzo servizio perché, mentre si fa attrarre dalla sirena Berlusconi, lavora ancora per la Rai con il quiz Flash. Inizia il Processo del lunedì di Aldo Biscardi e gli intellettuali continuano a manifestare fastidio per il mezzo, come spiega bene Leonardo Sciascia su «Paese sera»: «La televisione. Non la vedo mai. Da anni per me non esiste, non mi interessa. Neppure i telegiornali. Non vado molto nemmeno al cinema, non riesco a stare fermo al buio, per ore... Mi innervosisco, le immagini mi danno fastidio. Ho la nausea di tutte queste immagini che mi circondano. L’anno scorso, eccezionalmente, ho acceso dopo tantissimo tempo la televisione per un film di Lubitsch, Vogliamo vivere, un film comico sulla Resistenza che avevo visto tanti anni fa e che volevo rivedere. Per me la televisione è come scrivere un libro sull’acqua: il nulla, il vuoto: ho un rifiuto totale a vederla». Alla fine del 1980, la programmazione televisiva nazionale inizia all’ora di pranzo su Raiuno e Raidue (la neonata Raitre trasmette ad orario ridotto, a partire dalle 19) e si conclude intorno alla mezzanotte, con una media giornaliera complessiva di quasi 13 milioni di spettatori. I palinsesti della Rai riformata da un quinquennio ruotano attorno agli appuntamenti fissi dell’informazione (le quattro edizioni del Tg1, alle 13.30, 17, 20, 23.30,

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e le altrettante edizioni del Tg2) e riproducono quella logica dell’“appuntamento settimanale” praticata fino ad allora dal monopolio pubblico, pur aggiornata secondo i dettami della «concorrenza interna» introdotta con la riforma del 1975. Quest’ultima ha sì modificato alcune salienti caratteristiche dell’offerta (avvio di un terzo canale «regionale» e «culturale», autonomia di reti e testate), ma non ha avuto grosse ripercussioni sulle strategie palinsestuali. Pomeriggi definiti da Telescuola e dalla Tv dei ragazzi e serate scandite da appuntamenti ricorrenti e consolidati nelle abitudini di consumo (il film del lunedì, il quiz del giovedì, il varietà del sabato, lo sceneggiato della domenica…) caratterizzano i canali pubblici. Quanto alla terza rete, essa tenta di realizzare un progetto pedagogico e di divulgazione di “alta cultura” come nemmeno la paleotelevisione degli anni Cinquanta aveva osato. La rivoluzione copernicana dei palinsesti non avviene, dunque, attraverso la via istituzionale della riforma del 1975, ma più sottotraccia, con l’avvento dei network commerciali nel corso dei primi anni Ottanta: sono soprattutto Rusconi (Italia 1) e Fininvest (Canale 5) a ingaggiare battaglia col colosso Rai a colpi di palinsesto, in parte ispirati alla consolidata esperienza delle tv commerciali americane e in parte frutto di un’accorta politica di contro-programmazione adattata al contesto nazionale. Col ribaltamento delle finalità del broadcasting – non più “servizio pubblico” venato di intenti didascalici, ma impresa tesa al profitto, alla massimizzazione degli ascolti e alla raccolta di pubblicità – cambia radicalmente il ruolo della programmazione, e il suo rapporto con la produzione. Quando si parla di “americanizzazione” della televisione italiana negli anni Ottanta bisogna subito precisare che essa riguarda molto più profondamente

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la logica che informa i palinsesti e il rapporto produzione/programmazione di quanto non tocchi la natura stessa dei prodotti in onda. Soprattutto sulle tv commerciali arrivano serie e serial d’importazione in grande quantità, ma le vere novità riguardano la loro collocazione in un palinsesto che si caratterizza, fin da subito, anche come produzione autonoma, nel solco della più consolidata tradizione nazionale e popolare: Canale 5 inaugura i suoi programmi con l’emblema stesso della tv italiana, Mike – come accadrà, qualche anno più tardi, con altri “divi” della tv pubblica –, l’offerta filmica alterna Hollywood con commedie italiane anni Sessanta e Settanta. I palinsesti dei network commerciali, superata la fase pionieristica, sono un ibrido di serie americane e di spirito nazional-popolare. Spingono verso l’estensione delle ore di programmazione e il rafforzamento del flusso televisivo, introducono massicciamente la logica orizzontale della “striscia” nel day-time, collocando il medesimo programma (tipicamente, un prodotto seriale) alla stessa ora durante tutta la settimana, ma anche il trascinamento verticale grazie a serate dall’offerta omogenea. Ma soprattutto definiscono la programmazione in vista dei target da colpire, delle teste da vendere agli inserzionisti pubblicitari e, su questa base, definiscono produzioni e acquisti. Anche il consumo complessivo di tv subisce un’impennata (passando dai quasi 13 milioni di spettatori del 1981 a quasi 15 milioni e mezzo nel 1983). Nel giro di pochi anni il panorama televisivo nazionale risulta così radicalmente mutato. Se la Rai, esaurito il compito di rappresentazione e costruzione di un’identità nazionale unitaria, si sforza di dare maggiore attenzione ai diversi volti delle molte “Italie”, attraverso una politica di decentramento e un riferimento a una dimensione territoriale “regionale”

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(peraltro piuttosto artificiosa), la deregolamentazione dell’etere genera prima un universo radiotelevisivo locale (e talvolta strapaesano) e poi, accanto a quest’ultimo, uno “nazional-americano” (da Premiatissima con Johnny Dorelli a Il pranzo è servito con Corrado, da Dallas al catalogo della Titanus) che trova il suo più felice compimento nell’apertura di un nuovo, ampio mercato pubblicitario. 2.4. Una proposta di periodizzazione Se la tv si afferma come la più importante industria culturale del nostro paese, allora è utile ripercorrere alcune tappe cruciali della sua storia, attraverso una periodizzazione che metta in risalto l’evoluzione del mezzo e il suo impatto sul sociale. – 1954-1975: la tv del monopolio come istituzione La tv italiana, come quella di altri paesi europei, intende informare, educare e divertire i suoi spettatori. Quello delle origini appare come un progetto pedagogico ambizioso: con il nuovo mezzo che entra nelle case, i cittadini possono imparare a leggere e scrivere (in quegli anni, in Italia, il numero degli analfabeti è ancora molto elevato), ma anche a divertirsi, attraverso spettacoli che altrimenti sarebbero loro preclusi, con intrattenitori che ben presto diventeranno amici fedeli, compagni di una vita. C’è chi ha letto nella “separatezza” la peculiarità dell’industria televisiva italiana rispetto all’emittenza di altri paesi7: separatezza della tv all’interno dell’industria culturale, in quanto specifico sottosistema che si dota 7  D. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana (18802000), Il Mulino, Bologna 2000.

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di proprie regole di funzionamento, e separatezza tra apparati produttivi e pubblico come regola d’oro della tv italiana (che segue in questo il modello britannico). Infatti, mentre negli Stati Uniti la radio e la tv nascono e si sviluppano come network privati, il modello che si impone in Italia è quello del public service broadcasting di derivazione britannica. Negli Stati Uniti la tv è un segmento all’interno del più vasto sistema dell’industria culturale: major cinematografiche, case editrici, etichette discografiche ed emittenti televisive hanno come scopo comune quello di soddisfare la stessa domanda. Ciò che cambia sono gli apparati produttivi e distributivi e, sul piano linguistico ed espressivo, i prodotti, ma quello che si offre è comunque un prodotto-merce elaborato in base ai bisogni espressi dai “consumatori culturali”. La tv americana trova nel cinema un modello organizzativo: è la struttura dello studio system. E il network diviene broadcaster, semplice distributore di programmi. La strategia d’impresa utilizzata dalla tv italiana si fonda invece sul concetto del pubblico servizio, considerato come segmento separato dell’industria culturale: la tv intende piuttosto orientare il consumo, non farsi condurre da questo. Si crea un mercato, prima unico e indifferenziato, poi via via più specifico e articolato in gruppi. Sul piano produttivo, la strategia della separatezza si traduce nello sviluppo di una produzione autonoma, gestita in proprio attraverso propri centri di produzione e utilizzando professionalità specifiche. Questo implica l’adozione del modello “grande fabbrica”: un forte centro decisionale (Roma) con alcuni stabilimenti decentrati (Milano, Torino, Napoli). Ciò implica anche una produzione connessa a luoghi specifici (gli studi, gli interni), e l’utilizzo di professionalità che si sviluppano

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all’interno dell’azienda: se la tv italiana deve comunque guardare al cinema, e soprattutto al Centro sperimentale di cinematografia, per trovare tecnici, registi, programmisti, cerca al contempo di organizzare propri corsi di preparazione, fin dagli anni Cinquanta (si tratta del famoso «reclutamento dei corsari», attraverso il quale entreranno in Rai personalità come Umberto Eco e Furio Colombo). – 1975-1995: avvento e sviluppo della tv commerciale Con lo sviluppo delle tv private, la storia del mezzo come industria culturale entra in una fase nuova: quella commerciale. È una tv orientata all’evasione che si avvale delle strategie del marketing moderno, non più attento al prodotto ma al consumatore, che presta attenzione ai bisogni del pubblico e degli investitori pubblicitari, sviluppa la cronaca quotidiana e pone la “gente comune” come oggetto privilegiato di discorso, considera gli ascolti fondamentali strumenti di orientamento e di verifica. L’industria culturale televisiva entra nella sua fase di mercato, prima artigianale (le piccole tv commerciali e locali che nascono a cavallo degli anni Settanta e Ottanta), poi di vero e proprio sistema, che si sviluppa attraverso diverse e progressive tappe. Per esempio, la creazione dei network, come nel caso di Fininvest, negli anni Ottanta; poi la progressiva definizione di una situazione di “duopolio imperfetto” e i relativi riconoscimenti legislativi con la legge Mammì, nel 1990; infine, lo sviluppo di strutture verticali e integrate che coordinano attività diverse, di produzione, emittenza, gestione del mercato pubblicitario. Il modello commerciale influenza anche l’attività produttiva del servizio pubblico che è costretto ad adeguarsi alla nuova realtà. L’aumento delle ore di program-

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mazione e la politica di articolazione e differenziazione dell’offerta portano così a soluzioni di compromesso più o meno efficaci, ma che comunque collidono con la tradizione sviluppata fino a quel momento: uso e abuso dei “contenitori”, della diretta e della fiction importata dall’estero; paradossale sotto-utilizzo delle professionalità e delle risorse interne; allentamento dell’attività produttiva nell’area finzionale – teatro, serie, spettacoli; necessità di reperire altrove mezzi, professionalità e strutture produttive (la tendenza sarà di appaltare sempre di più le produzioni a società esterne). Si studiano soluzioni nuove: il gruppo Ricerca e Sperimentazione Programmi riflette sulla necessità di rilanciare la produzione seriale, mettendo a punto una nuova macchina industriale, leggera, basata su un modello di società consociate a rete. Il dissolvimento del concetto di servizio pubblico coincide con il trionfo della neotelevisione8. La neotv si afferma nel panorama televisivo americano già dagli anni Settanta, quando viene individuata dalla critica e dai teorici della televisione9, ma raggiunge l’Italia solo durante gli anni Ottanta. A parlare per la prima volta di neotv è Umberto Eco nel 1983. Per analizzare e definire questo complesso fenomeno – e comprendere nello stesso tempo lo scarto temporale nella sua emergenza in 8   Il dibattito intorno alla neotelevisione è stato avviato da un articolo di U. Eco, TV: la trasparenza perduta (ora in U. Eco, Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983) ed è proseguito, tra l’altro, con gli interventi di F. Casetti, Tra me e te. Strategie di coinvolgimento dello spettatore nei programmi della neotelevisione, Rai-Eri, Torino 1988, e di F. Casetti, R. Odin, De la paléo à la néotélévision, in «Communications», 51, Seuil, Paris 1990. 9  Si pensa in particolare al concetto di «flusso televisivo» elaborato da Raymond Williams in R. Williams, Televisione. Tecnologia e forma culturale, De Donato, Bari 1981.

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diversi contesti geografici e culturali – bisogna innanzitutto considerare gli aspetti salienti che caratterizzano la storia del mezzo televisivo sul piano della produzione, della distribuzione e del consumo durante gli anni Settanta e Ottanta. I fattori rilevanti sono in particolare: gli sviluppi della tecnologia e del mercato dei media (a partire dall’affermazione del telecomando e del videoregistratore); l’aumento degli apparecchi domestici e la loro diversificazione (televisore casalingo – spesso più d’uno –, monitor portatile, videoproiettore per locali pubblici, ecc.); la moltiplicazione dei canali, con l’emergere di emittenti private locali e poi nazionali, cui si lega lo sviluppo impetuoso della pubblicità televisiva; l’aumento dei tempi di trasmissione, fino alla copertura totale (24 ore al giorno); la polifunzionalità dello schermo televisivo e l’introduzione di nuovi device collegabili (televideo, regolazione a distanza, videoregistratore, telecamere a circuito chiuso); la concorrenza delle reti tra loro, e in particolare tra emittenti private e servizio pubblico Rai, e la conseguente evoluzione del concetto stesso di servizio pubblico. Su questi macrofenomeni, visibili principalmente sul piano socio-economico della produzione (relativi, cioè, alla tv come apparato tecnologico e produttivo), si innestano tutte le modifiche e le novità che riguardano in modo specifico il mezzo come istituzione e linguaggio. Col tramonto del monopolio Rai, che aveva caratterizzato il panorama televisivo fino agli anni Settanta, si segnalano importanti trasformazioni linguistiche nelle modalità di costruzione dei programmi. Un primo aspetto di novità è la crescente autoreferenzialità della tv, che parla sempre meno del “mondo esterno” e sempre più di se stessa e del proprio rapporto con lo spettatore, per costruire prove della propria verità.

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È una tv che fa di sé l’oggetto privilegiato del proprio discorso e pone le basi per l’elaborazione del proprio culto, organizzandone i riti (le gare e i premi per la tv), i miti (la costruzione e il rafforzamento dell’immagine dei personaggi televisivi – nuovi “divi” – attraverso celebrazioni in cui i loro volti sono presentati come ospiti illustri in programmi “vetrina”, che promuovono altri programmi), i rituali sociali (come quei programmicontenitore e game show in cui compaiono personaggi che hanno fatto del ruolo di ospite una professione). Una modalità fondamentale che testimonia di questa funzione mitopoietica della tv è costituita da quei programmi che lavorano sulla storia della tv o, più spesso, dell’emittente. Il discorso è piuttosto complesso perché incrocia un tema “caldo” quale quello del medium come archivio e costruttore della memoria sociale. L’autoriflessività del mezzo e la messa in evidenza delle proprie modalità di enunciazione avvengono anche attraverso strategie come l’esibizione degli strumenti tecnici e degli operatori (la telecamera inquadrata, il tecnico in campo, il microfonista aitante che diventa una star), i “provini”, gli errori, e i ciak sbagliati – messi in onda come una golosa chicca alla fine del programma o della serie, raccolti in appositi programmi –, lo svelamento di alcune routine di produzione, come le telefonate tra il conduttore e la regia, l’applauso del pubblico in sala a richiesta o, infine, la pratica del “fuori-onda”. Un’altra importante caratteristica della neotv è la tendenziale dissoluzione del sistema dei generi e dei loro rigidi confini, attraverso processi di commistione e ibridazione: si pensi al reality show, uno spazio ibrido che mescola fiction e realtà, o l’infotainment, sottogenere che alterna e confonde l’informazione e l’intrattenimento e che costituisce buona parte della programma-

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zione generalista della fascia del tardo pomeriggio. Oppure attraverso l’indebolimento delle marche di confine tra i singoli testi che compongono la programmazione. Quest’ultima pratica porta alla modalità di presentazione dell’offerta e dello stesso atto di fruizione definita da Raymond Williams come «flusso». Anche il rapporto tra emittente e destinatario della comunicazione si trasforma con l’avvento della neotv: rispetto alla programmazione della tv degli anni Cinquanta, l’emittente si propone al pubblico non più, o meglio non solo, come fonte autorevole, strumento per l’apprendimento, portatore di un punto di vista istituzionale (la politica, lo Stato, la Chiesa), ma come un interlocutore alla pari, amichevole e di fiducia, quasi un complice, ammiccante e un po’ goliardico. Il pubblico è sempre più spesso chiamato a interagire con il mezzo, attraverso le telefonate in cui può esprimere la propria opinione, fare domande agli esperti, televotare, rispondere all’irresistibile invito del “giocate con noi” e chiedere, senza timore di sembrare insistente o inopportuno, “un aiutino”. Ma lo “spettatore” può anche intervenire concretamente nel programma, occupando con il proprio corpo, le proprie esperienze e, soprattutto, con la narrazione della propria quotidianità uno spazio in cui domina il privato, sia dell’“uomo qualunque” sia del vip, diventando di pubblica visibilità. Si modificano anche le pratiche di fruizione: il flusso della neotv richiede un comportamento erratico, una ricezione distratta e ondivaga, modulata attraverso l’uso del telecomando. È la tv dello zapping come pratica privilegiata di fruizione, vivisezionata da certa critica televisiva in specifiche pratiche, analizzate ed elevate al rango di pratica decostruzionista e al paradosso di nuova testualità, sul tipo di quella di Blob.

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Questa modalità di fruizione tipica della neotv va però anche considerata in chiave storica come l’affermazione di uno stile di consumo mediale e culturale discontinuo, non sequenziale, multimediale, che appare, probabilmente come forma più tipica, con i new media, con l’avvento della tv satellitare. – 1995-anni 2000: l’irrompere delle nuove tecnologie, il digitale terrestre e il futuro della tv A seguito dei processi di digitalizzazione che hanno coinvolto l’intero scenario mediale e l’avvento in Italia della televisione satellitare a pagamento (prima con l’offerta Tele+ e poi con l’ingresso sul mercato, nel 2003, del gruppo Sky) la tv italiana è spinta ancora di più alla trasformazione e al ripensamento del proprio modello aziendale: la multimedialità, i processi di convergenza fra diversi media (Internet, telefonia, tv) e di integrazione degli apparati produttivi (con la nascita di grandi colossi mondiali della comunicazione), il sempre maggiore sviluppo di strutture piccole e medie, come gli studi di produzione e post-produzione, sono alcune delle tendenze più evidenti che marcano questa nuova fase dell’industria culturale televisiva nazionale. Anche sul piano sociale la televisione cambia il proprio mandato, moltiplicando e modificando l’ambito del suo intervento. Lo scenario è in continuo mutamento: dal 2005 anche Mediaset entra nella competizione della tv a pagamento, inaugurando un’offerta pay su piattaforma digitale terrestre. Pensando al futuro della tv, anche a quello più immediato, è necessario ragionare innanzitutto in termini di tecnologia. L’Italia va incontro al cambiamento scegliendo di puntare tutto sulla tecnologia del digitale terrestre: entro il 2012 dovrebbe essere portato a termine il processo di switch off del segnale televisivo analo-

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gico. L’intero parco televisivo nazionale sarà convertito in digitale, radicalizzando sempre di più le pratiche di personalizzazione del consumo. Grazie alla rivoluzione portata dalla digitalizzazione, i media si separano dalle proprie piattaforme di trasmissione e il flusso comincia a viaggiare anche altrove: dvd, computer, satellite, web, telefonini, i-Pod, cavo in fibra ottica... E poi: tv satellitare, web tv, Iptv, mobile tv... Insomma, lo scenario si complica e si arricchisce notevolmente: nuovi attori entrano in gioco affiancandosi ai marchi storici di Rai e Mediaset, e alla tradizionale offerta generalista, che ha scandito cinquant’anni di storia televisiva nazionale, si affiancano altre proposte gratuite, vicine all’idea dei canali tematici o delle cosiddette “minigeneraliste”.

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3.1. Che cos’è la televisione? Da parecchi anni, la televisione è oggetto di discussione, di attenzioni, di studi. La riflessione storica e teorica sul mezzo televisivo si è modellata sulla base di due fondamentali sguardi: la televisione è stata vista ora come “offerta” o “prodotto”, ora come “specchio” o “canale” attraverso il quale la società si rende leggibile. In questo secondo senso la televisione appare soprattutto come discorso, strumento linguistico attraverso il quale una società può parlare di sé, raccontarsi, riflettere. Approfondire, invece, il primo aspetto – la televisione come offerta – significa considerare il mezzo soprattutto come apparato produttivo, istituzione, industria culturale. Da questo punto di vista deriva anche l’idea di televisione come produttrice di effetti sociali. La riflessione sull’industria culturale è stata avviata senz’altro dalle tesi della Scuola di Francoforte, che hanno descritto e analizzato la nuova e specifica fase della rivoluzione industriale, caratterizzata dall’applicazione delle tecnologie e delle procedure industriali di lavorazione a oggetti immateriali e simbolici. L’industria culturale si può definire come sistema compatto e integrato per la produzione di “merci culturali”, siano

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esse riviste a stampa, dischi, film, programmi radiofonici o televisivi. Dopo aver coinvolto merci materiali, la seconda industrializzazione si rivolge alle immagini e ai sogni, penetrando nella «grande riserva che è l’anima umana», secondo la definizione di Edgar Morin1. L’ottica dei francofortesi è fortemente critica circa la valutazione dei prodotti culturali, sia sul piano estetico sia su quello politico: la standardizzazione e la ripetizione – cioè il predominio della produzione seriale secondo formule fisse e ampiamente collaudate, sul modello della grande fabbrica “fordista” – sono le caratteristiche più evidenti dei prodotti mediali e più contrastanti con il valore di unicità e sacralità attribuito all’oggetto artistico dai sistemi culturali passati2. L’unidirezionalità dei processi comunicativi e la perdita del senso critico da parte del fruitore, sempre più passivo, sono le conseguenze più importanti sottolineate dai «teorici critici». L’industria culturale, insomma, segnerebbe in modo definitivo la morte dell’arte. Nello stesso tempo, la «teoria critica» – così è definito l’insieme di assunti e posizioni che fanno capo alla Scuola di Francoforte – pone alcune imprescindibili basi all’analisi della televisione in quanto industria: l’industria culturale è vista come sistema composto da settori specifici (cinematografico, televisivo, radiofonico, pubblicitario, editoriale...); se ne considerano le diverse attività, di produzione, distribuzione e consumo; si fissa lo sguardo su diversi generi. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, le tesi dei fran1  E. Morin, L’industria culturale. Saggio sulla cultura di massa, Il Mulino, Bologna 1963, pp. 14-15. 2  Il riferimento obbligato è a M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo (1947), Einaudi, Torino 1966.

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cofortesi sono state riprese, sviluppate, ma anche corrette nei loro accenti più “apocalittici”. Particolarmente significativa è la posizione di Edgar Morin, che pone l’industria culturale, e in particolare quella cinematografica, in stretta relazione con l’immaginario collettivo, inteso come insieme di bisogni, valori e pratiche sociali. Morin avvicina la produzione e il consumo: l’industria culturale non costruisce il proprio pubblico di fruitori passivi, come pensavano i francofortesi, ma è posta al servizio dell’immaginario collettivo, che alimenta in modo non molto diverso, sul piano funzionale, dal teatro classico, dal poema epico-cavalleresco e dal romanzo popolare. Per spiegare l’importanza della televisione nel nostro tessuto sociale, è giusto partire da un’affermazione dello studioso inglese Roger Silverstone, che ha tentato di chiarire l’importanza dei media nella nostra società. Secondo Silverstone «i media sono ubiqui, costitui­ scono la quotidianità, sono una dimensione essenziale dell’esperienza contemporanea, vanno studiati perché sono centrali per la nostra vita quotidiana, in quanto dimensioni sociali, culturali, politiche ed economiche del mondo contemporaneo e in quanto elementi che contribuiscono alla nostra capacità variabile di dar senso al mondo, di costruire e condividere i suoi significati»3. I media non sono soltanto uno specchio della realtà esterna; sono realtà essi stessi. Estensione delle nostre capacità sensoriali, entrano a far parte ogni giorno della nostra vita quotidiana. In questo senso, la televisione, medium quotidiano per eccellenza, ha costituito gran parte della normale esperienza di vita dell’uomo dalla seconda metà dell’altro secolo ai giorni nostri. 3  R. Silverstone, Perché studiare i media?, Il Mulino, Bologna 2002, p. 17.

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Anche per questo, il piccolo schermo è oggetto di ampie e frequenti discussioni: se ne sottolinea il ruolo essenziale nella formazione dell’opinione pubblica, si paventa con preoccupazione la sostituzione fantasmatica della realtà e l’avvento della videocrazia (e quale paese potrebbe essere più adatto per testarne la consistenza, se non l’Italia?). Intanto, giornali e settimanali – ben più blasonati strumenti di quella stessa opinione pubblica – si riempiono di articoli e servizi che danno conto, fra il serio e il faceto, della quotidiana guerra degli ascolti, dell’ennesimo rivolgimento nei palinsesti, delle cronache dallo star system, esteso a vip titolati, a personaggi presi dalla strada, persino a direttori e dirigenti televisivi che solo qualche anno fa se ne stavano nascosti dietro l’anonimato del loro ruolo di “eminenze grigie” e ora si sentono comprimari del grande spettacolo. Tutti segnali di un’attenzione ipertrofica nei confronti del medium. E, d’altra parte, pur nella ribadita certezza della centralità dello schermo domestico, del suo potere riverito o criticato, la televisione rischia il più delle volte di perdere visibilità, di farsi trasparente nel suo essere data per scontata: oggetto su cui, evidentemente, non vale la pena interrogarsi troppo seriamente. Fra questi due estremi – ipertrofico chiacchiericcio e invisibilità del medium – si situano alcune considerazioni che depongono a favore di un serio impegno nell’analisi critica della televisione. In primo luogo, la pervasività del mezzo televisivo e la sua centralità nell’esperienza contemporanea sono evidenze poco contestabili. Mentre gli apparecchi televisivi nel mondo si moltiplicano di giorno in giorno, così come si pluralizza l’esperienza di visione (schermi di computer, smart phone, ecc.), gli spettatori – abituali, occasionali o potenziali – crescono in misura

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esponenziale, e può persino capitare che “si ritrovino” tutti quanti, “dai vari angoli del mondo”, a guardare le medesime immagini, a essere testimoni della Storia che si dispiega live davanti ai loro occhi, come è accaduto durante l’attacco terroristico alle Twin Towers. Stesso discorso per le numerose “crisi” che sono seguite, dalla guerra in Afghanistan al secondo conflitto iracheno, quando le immagini – più copiose e “pluralistiche” rispetto a quelle della prima guerra del Golfo – sono tornate a essere un territorio aspramente conteso, un luogo di propaganda, di logoramento psicologico. Quanto alla penetrazione, mentre in tutti i paesi industrializzati il piccolo schermo è presente nella quasi totalità delle abitazioni, nei paesi in via di sviluppo l’accesso alla televisione, sebbene in forme diverse e meno individualizzate, è piuttosto ampio, e in alcuni casi, come quello cinese, è cresciuto sensibilmente nell’ultimo decennio, nonostante le teorie apocalittiche sulla “morte della tv” dovute allo sviluppo dei personal media, soprattutto di Internet. Nel nostro paese, poi, i rapporti Censis, con la descrizione della “piramide dei media” più presenti, utilizzati e consumati dagli italiani, non fanno che ribadire un concetto: che la televisione, soprattutto nella sua versione generalista, free, è a tutti gli effetti l’unico linguaggio mediatico universale che le persone conoscano e che «essa raggiunge la totalità degli italiani, è in grado di parlare con qualsiasi livello sociale e costituisce la pietanza di base di tutte le tipologie di dieta mediatica che si possano immaginare: dalle più variegate, delle persone culturalmente più attrezzate, alle più povere, delle persone prive di mezzi culturali, e che pertanto hanno una dieta mediatica basata esclusivamente sulla televisione, che rappresenta per essi l’unico tramite con il mondo».

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Se studiare la televisione, oggi, non richiede più giustificazioni, farlo seriamente significa invece oltrepassare l’indistinzione di numerosi e diffusi luoghi comuni: provare a comprendere le diverse dimensioni del medium e le loro correlazioni, l’articolazione dei suoi linguaggi, le molteplici “storie” (tecniche, sociali, istituzionali, simboliche e soprattutto culturali) che esso innerva, le trasformazioni cui, oggi più che mai con l’avvento del digitale e la progressiva convergenza dei media, pare soggetto. Ma quale tipo di televisione abbiamo di fronte oggi? quale televisione fa parte della nostra esperienza, o quale televisione vorremmo ne facesse parte? Spesso esecriamo la trash tv a favore di una televisione culturale, ma siamo così sicuri di questa distinzione? Di fatto, lo stesso Silverstone, per sottolineare la presenza dei media nella nostra esperienza quotidiana, parte proprio da un esempio della peggiore televisione in circolazione, la trash tv del talk show americano di Jerry Springer, in cui famiglie difficili e veri e propri “casi umani” discutono i loro problemi davanti al pubblico presente in studio. Scrive Silverstone: «è un momento di televisione che in ogni modo fa al caso nostro, poiché rappresenta l’ordinario e il continuo, ed è, nella sua unicità, veramente tipico: un elemento del costante rimasticare la quotidianità da parte dei media, i cui significati dipendono dal fatto che noi lo notiamo, che ci tocchi, ci colpisca, ci respinga o ci attragga mentre ci muoviamo dentro, fuori e attraverso il nostro ambiente mediale sempre più insistente e intenso»4. Anche la trash tv quindi fa parte della nostra esperienza, magari più della televisione cosiddetta culturale.   Silverstone, Perché studiare i media?, cit., p. 18.

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È vero, un certo freno alla volgarità va messo, ma bisogna anche fare attenzione a combattere queste facili crociate: dietro il facile moralismo spesso si annida la peggiore delle volgarità. La più bella definizione di volgarità televisiva è dell’americano George Gilder e la si trova nel libro La vita dopo la televisione5. In poche parole: la volgarità non consiste solo nel dire parolacce, mostrare scene di violenza o esibire donnine scosciate. La volgarità della televisione è ben più radicata, più sostanziale: è la volgarità dei grandi numeri. Fra le persone, si sa, sono le circostanze più alte, più nobili, più difficili a fare la differenza, a discriminare, a disunire. Sono invece quelle più grette a fare massa. La televisione generalista deve ogni giorno confrontarsi per forza con la volgarità: la quantità infatti è la sola misura del suo proselitismo. C’è un altro punto su cui poco si riflette, ed è l’abusato confronto tra la televisione di ieri e quella di oggi. Perché la televisione di ieri sembra essere migliore di quella di oggi? Semplicemente perché era così al centro della scena mediatica da condizionare non solo la vita degli spettatori ma anche quella degli altri media. Ma c’è un’ulteriore riflessione da fare. Non si tiene mai conto di due elementari differenze. In primo luogo, la televisione di ieri era fatta da professionisti del mondo dello spettacolo e si rivolgeva alla media borghesia: era una televisione da salotto, per il salotto. La televisione generalista d’oggi, invece, è fatta soprattutto dalla gente comune e si rivolge primariamente alle fasce più deboli della popolazione. La trash tv cerca di trasferire in video storie di persone comuni, facendole uscire dall’anonimato in cui tirano avanti, portandole alla ri  G. Gilder, La vita dopo la televisione, Castelvecchi, Roma 1995.

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balta e facendole esplodere. Ovviamente non lo fa – come qualche trasmissione prova a farci credere – per senso filantropico. Lo fa invece perché anche la gente comune ha diritto di apparire: nel mondo moderno nulla esiste se non viene sancito dai media. Si realizza così una funzione di terapia dell’escluso: sia pure in modi discutibili (la gente comune, per essere riconosciuta come “autentica”, si sdoppia in un ectoplasma televisivo, completamente assoggettata alle dure regole imposte dai professionisti del video), anche il poveraccio ha diritto di mostrarsi, di dire la sua, di segnalare la sua esistenza. La televisione generalista è così passata dall’universo simbolico del consumo intellettuale all’universo concreto del consumo materiale. Oggi la produzione televisiva è culturalmente bassa perché è basso e periferico il suo pubblico. La seconda differenza riguarda il ruolo pedagogico della televisione. Per statuto, alla sua nascita il servizio pubblico doveva svolgere una funzione educativa. Paradossalmente però la televisione (almeno quella generalista) svolge una funzione molto più educativa oggi che si rivolge a questo pubblico marginalizzato, periferico, più debole per censo, per istruzione, per tenuta psicologica. Anche se l’insegnamento della televisione è un insegnamento a breve termine, del giorno per giorno, si fonda su un progetto pedagogico senza pedagogia. La televisione non fa che accrescere un’atmosfera di continua e apparentemente incurabile precarietà. 3.2. La televisione è un servizio pubblico? Il concetto di servizio pubblico vede la luce in un’epoca molto lontana dalla nostra. Sono gli anni Venti del secolo scorso quando in Europa nasce la radio, e con essa il

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monopolio di Stato e il concetto di servizio pubblico: lo Stato si assicura cioè che a controllare il nuovo e potente mezzo di comunicazione sia la longa manus del governo6. Con la nascita della televisione, tale sistema viene adattato senza troppe modifiche al nuovo medium. In Europa la comunicazione via etere viene da subito intesa come un bene comune di importanza nazionale, al pari di gas, ferrovie, energia. Un bene però alquanto scarso: scarse le frequenze disponibili, scarse le possibilità finanziarie per sfruttarle. Solo lo Stato – questa è l’autogiustificazione – poteva assicurare un servizio universale. L’esperienza europea del public service broadcasting si differenzia così radicalmente da quella americana, caratterizzata dalla libera iniziativa – sul modello della competizione fra più catene televisive finanziate dagli investimenti pubblicitari –, e cerca la propria legittimazione nella rilevanza strategica della comunicazione di massa, nella necessità di assicurare piena rappresentanza alle differenti istanze politiche, sociali e culturali che costituiscono le società democratiche, nella volontà di assicurare un servizio d’informazione, di educazione e d’intrattenimento a tutte le fasce della popolazione. Il concetto di servizio pubblico nasce perciò in un panorama mediale ben specifico, e si sviluppa secondo percorsi e strategie diversi da paese a paese. Non è un concetto unitario, monolitico, a-temporale: è piuttosto un’idea guida che ha subìto numerose modificazioni nel corso dei decenni, e che si trova oggi ad affrontare nuove sfide. Nato in quella che John Ellis ha definito l’età della scarsità, il servizio pubblico si trova ora 6  F. Monteleone, La radio italiana nel periodo fascista, Marsilio, Venezia 1976; G. Isola, Abbassa la tua radio, per favore... Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, La Nuova Italia, Firenze 1990.

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immerso nell’età dell’abbondanza7. La deregulation del sistema televisivo ha causato la fine del monopolio, con la nascita di televisioni private prima e di corporations internazionali poi, veri e propri media giants capaci di gestire l’intera filiera delle telecomunicazioni attraverso l’applicazione di un’economia di scala. Il processo di digitalizzazione che ha recentemente investito l’intero scenario dei media ha infranto poi il rapporto esclusivo contenuto/piattaforma: i contenuti viaggiano ora su più media, senza più vincoli di spazio e di tempo. In questo panorama, il servizio pubblico rischia di perdere la sua identità, e diventare una televisione fra le tante8. L’accesso al bene pubblico radiotelevisivo è alla portata di tutti; la pluralità delle istanze politiche, sociali e culturali è assicurata dalla varietà e molteplicità dei canali, dei media, delle fonti. Ma allora, cosa significa oggi servizio pubblico? Ha ancora senso tenere in piedi una struttura, per di più elefantiaca, per garantire il godimento di un bene ormai fornito anche da altri? La risposta potrebbe essere positiva. Ma a una condizione irrinunciabile: il servizio pubblico può avere ancora un importante ruolo da giocare nell’attuale panorama della convergenza, solo se si dimostra capace di adeguarsi ai cambiamenti dello scenario globale. Come è accaduto per la Bbc9, che, così come pensata e realizzata da John Reith, costituisce da sempre il modello di riferimento principale di servizio 7   La proposta di «tre età della tv» è contenuta in J. Ellis, Seeing Things, I.B. Tauris & Co, London 2002. Si veda anche A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la televisione. Il piccolo schermo fra cultura e società, Garzanti, Milano 2003. 8  Sul servizio pubblico nella televisione contemporanea si veda C.S. Nissen (a cura di), Fare la differenza, Rai-Eri, Roma 2007. 9  Sulla storia del servizio pubblico inglese si veda M. Hibberd, Il grande viaggio della BBC, Rai-Eri, Roma 2005.

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pubblico europeo. Nell’interpretazione reithiana, la Bbc doveva prefissarsi obiettivi di alto livello: il broadcasting «aveva la responsabilità di portare nel numero più ampio possibile di case il meglio di ciò che era stato formulato in ogni area della conoscenza umana»; non doveva perciò adeguarsi ai gusti del pubblico, ma semmai guidarli, in una missione educativa che facesse della radio un nuovo centro diffusore del sapere. In quanto servizio nazionale, la Bbc era inoltre uno strumento di rafforzamento dell’identità e dell’unità del paese. Alla base dell’idea di servizio pubblico formulata da Reith stavano inoltre ideali democratici: il broadcasting rendeva possibile una più ampia diffusione dell’informazione e delle opinioni politiche, contribuendo alla formazione di una sfera pubblica più consapevole. In questo senso si comprende l’insistenza reithiana in difesa della più piena autonomia della Bbc dal potere politico: sottratto alle logiche del mercato, e perciò alle influenze economiche e dei gruppi di potere, il servizio pubblico, pur dipendendo dallo Stato, doveva mostrarsi indipendente dalle pressioni governative o partitiche. Già nel 1955 si affaccia però sul panorama inglese Itv, la prima televisione commerciale europea. Il settore privato viene subito regolarizzato dal Parlamento e conta oggi sei canali e numerose reti satellitari e digitali terrestri. Di fronte a questa nuova abbondanza, la Bbc non ha abdicato al ruolo di servizio pubblico, perseguendo la sua missione e ridefinendo i propri princìpi e obiettivi. Grazie a investimenti tecnologici consistenti e mirati, grazie a una visione editoriale chiara e a lunga scadenza, la Bbc è ancora il competitor principale per le reti private. Si è trasformata in un brand multipiattaforma solido ma allo stesso tempo fluido, che si associa alla garanzia di un’offerta di qualità. La Bbc è stata cioè capace di delineare con chiarezza l’identità

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del suo marchio, rendendolo appetibile per il pubblico vecchio e nuovo, nonché fruibile su diverse piattaforme, attraverso un’offerta differenziata e specifica. Il caso italiano è sin dalle origini molto differente da quello inglese. Esiste oggi un modo per la Rai, da sempre cannibalizzata dai partiti e oggetto degli appetiti della politica, di tornare a dar valore al proprio ruolo di servizio pubblico? Ha ancora senso che esista un servizio pubblico nel sistema televisivo nazionale? Le ragioni per cui il sistema televisivo trae beneficio da un servizio pubblico forte e competitivo sono numerose10. Il mercato lasciato totalmente libero a se stesso potrebbe portare alla nascita di un nuovo monopolio, stavolta privato: una concentrazione di risorse economiche e contenuti che rischierebbe in realtà di ridurre le possibilità del cittadino, anziché aumentarle. Il rischio è che si formi una doppia cittadinanza televisiva, per segnale e contenuti: la televisione di bassa qualità, gratuita e destinata a tutti; la televisione ad alta qualità, a pagamento e destinata a pochi. Una frattura insomma tra televisione “per i poveri” e televisione “dei ricchi”. Nel nostro paese ha preso vita un duopolio della qualità a pagamento, che vede fronteggiarsi Mediaset sul digitale terrestre e Sky sul satellite. La Rai è a una svolta epocale: deve continuare a mantenere in vita i suoi costosi apparati produttivi (studi, sedi regionali, dotazioni tecnologiche, ecc.) o concentrarsi sull’informazione e 10  Si vedano anche: F. Iseppi, V. Bossi, Il ruolo e la missione del Servizio pubblico e l’etica d’impresa, Eri, Roma 1998; A. Zaccone Teodosi, F. Medolago Albani, Con lo stato e con il mercato? Verso nuovi modelli di televisione pubblica nel mondo, Mondadori, Milano 2000; P. Scannell, Public Service Broadcasting: The History of a Concept, in A. Goodwin, G. Whannel, Understanding Television, Routledge, London 1990; A. Smith, Television as a Public Service Medium, in AA.VV., Television. An International History, Oxford University Press, Oxford 1995.

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trasformarsi in una sorta di finanziaria, come già fa con il cinema e la fiction? La Rai deve investire sulla propria creatività producendo all’interno, o magari favorire nuove e innovative case di produzione? La qualità del pubblico è un’altra delle questioni aperte per il servizio pubblico italiano. L’universalità del servizio non significa più catturare il maggior numero di spettatori in maniera indifferenziata, ma coltivare i differenti target socio-economici e anagrafici seguendo la frammentazione dell’audience già all’opera da anni, un passaggio progressivo e senza strappi, seguendo un progetto a lungo termine. L’informazione è il terzo baluardo di un servizio pubblico che si voglia ancora vincente: deve assicurare il pluralismo e l’obiettività, prendere le distanze dal potere politico, assicurare la rappresentanza a tutte le minoranze. La strada in questo caso è una sola: quella dell’autorevolezza. Il direttore generale, i direttori delle reti e dei tg non devono essere scelti in base alla loro appartenenza politica ma in base alla capacità professionale. Rispettando queste imprescindibili condizioni, un servizio pubblico nazionale può mantenere un ruolo guida nel sistema televisivo, riuscendo a fare del suo marchio un simbolo dell’identità e unità nazionale. Certo, il servizio pubblico deve farsi carico di alcuni eventi e riti importanti per la comunità, ma il suo ruolo di collante è più forte se rimane fonte e luogo di raccolta dell’immaginario collettivo. Nel caso specifico dell’Italia, la Rai ricopre questo ruolo di collante se richiama a sé vari strati della popolazione attraverso la messa in onda di eventi significativi, programmi adeguati, personaggi di richiamo. Con uno spostamento evidente però: nell’era del digitale, la visione contemporanea di uno stesso evento nello stesso momento non è più la sola

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via per l’unità del pubblico. Del contenuto si usufruisce in luoghi e momenti diversi (Internet, satellite, mobile tv; in diretta, in differita, in pillole audiovisive). Questa possibilità di visione personalizzata non sminuisce però il valore del contenuto, che anzi può essere condiviso attraverso le nuove tecnologie, creando così nuovi luoghi di aggregazione come forum, community, siti. Il contenuto di qualità è infatti cercato dallo spettatore anche su altre piattaforme. Una sfida fondamentale per il marchio del servizio pubblico, il brand Rai, è dunque quella di rafforzarsi, anche rendendosi riconoscibile e disponibile su diverse piattaforme (digitale, web, ecc.). Molte delle incertezze che in Italia accompagnano l’idea di servizio pubblico dipendono dal fatto che il Parlamento non ha definito una volta per tutte la sua concezione sulla televisione di Stato: il vero dubbio sull’opportunità dell’esistenza, in Italia, di un servizio pubblico nel sistema televisivo contemporaneo riguarda la volontà politica, culturale, economica di lavorare a una Rai competitiva, capace di rifondarsi, e dare un senso al suo brand in un’epoca di offerta sovrabbondante, per mantenere un ruolo determinante che le permetta di restare il baluardo contro il monopolio privato, un punto fermo per il cittadino, una guida per il mercato nazionale. Alcune posizioni assunte dai vertici Rai sul finire del decennio aumentano le incertezze sul destino del servizio pubblico. Per esempio, nell’estate del 2009, Viale Mazzini non ha più rinnovato il contratto che le permetteva di fornire a Sky le sue reti generaliste, più altri canali “extra”. Sul satellite si vedono ancora le tre reti generaliste ma molti programmi vengono criptati (in particolare gli eventi sportivi). L’atteggiamento della Rai è di non facile lettura, e comunque non del tutto in linea con la nozione di universalità del servizio

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pubblico. Questa presa di posizione prende le mosse dalla rivoluzione tecnologica che sta coinvolgendo il sistema televisivo italiano: il passaggio a tappe forzate dall’analogico al digitale. La Comunità europea ha giustamente imposto questo nuovo sistema di trasmissione per liberare frequenze e per ampliare lo spazio di partecipazione al sistema televisivo. Ma, nell’enfasi che ha accompagnato il processo di digitalizzazione in Italia, si è spesso sottolineata l’inevitabilità, quasi la naturalità delle scelte intraprese, che sono, al contrario, solo decisioni politiche. Digitale significa, infatti, anche satellite o cavo o Iptv. Rai e Mediaset hanno scelto il digitale terrestre (Dtt) anche perché erano proprietarie della rete distributiva (optare per il satellite significava dismettere i propri trasmettitori e “giocare” in campo avverso). A switch off ultimato, il digitale terrestre rappresenterà quindi per l’Italia lo snodo di accesso universale, quello che potremmo definire “il minimo comune denominatore” per guardare la televisione. Sviluppare un’offerta a pagamento sul Dtt è un’operazione particolarmente vantaggiosa: come dimostra l’aggressiva politica di diffusione delle “carte prepagate” che Mediaset ha commercializzato dal 2005, forte anche di un’offerta qualitativamente alta e ben strutturata che la Rai sembra invece non possedere. 3.3. Il ruolo della critica Non passa giorno che la suscettibilità offesa di qualche personaggio dello schermo non si traduca in querela, intimidazione, ingiuria. Antiche amicizie che avevano superato ben altre temperie si sgretolano per un giudizio negativo su una valletta o su un pupazzo. Persino l’ultimo dei conduttori, quando viene giudicato, si sente in dove-

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re di usare il video per svillaneggiare il critico. Non è cosa nuova: «Non so se la televisione dia alla testa a quelli che appaiono su teleschermi, o se si crei in costoro una specie di psicopatia o di ipersensibilità morbosa. Ormai è diventato un fatto consueto polemizzare dal video con giornalisti che si occupano di televisione, e addirittura servirsi della televisione per fatti personali». Così, già negli anni Cinquanta, Achille Campanile stigmatizzava il brutto vizio, un vero e proprio abuso, di certi conduttori televisivi: usare la televisione per avversare chi è di diverso parere11. Anche Sergio Saviane, quando è stato “allontanato” dal settimanale «L’espresso», ricordava malinconicamente insulti, maledizioni, querele, incomprensioni, scontri. Mestiere a rischio o funzione inevitabile della critica? La critica televisiva, da quando esiste la rilevazione degli ascolti, da quando a ogni inquadratura corrisponde un valore di share, appare come un rottame. Più del dovuto. Paradossalmente, però, la sua esistenza è garantita dalla profonda avversione che suscita ed è legittimata dagli stessi personaggi televisivi. Che non si accontentano di sbancare l’audience. No, insieme pretendono anche il consenso della critica e se non l’ottengono si infuriano, reagiscono a male parole. Di critiche, ne ammettono una sola: «Io le accetto tutte, ma solo se costruttive» (anche se le “critiche costruttive”, per la verità, riguardano un altro settore dello showbiz, il consulente d’immagine). Il grande cruccio della critica televisiva nasce da una difficoltà logica insolubile: il sostantivo si riferisce ad una attività che normalmente si esercita nel campo dell’estetica; l’aggettivo indica invece la presenza di un 11  Le critiche di Achille Campanile sono raccolte in A. Campanile, La televisione spiegata al popolo, a cura di A. Grasso, Bompiani, Milano 2003.

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corpo, di una materia, che sembra aver perduto ogni connotazione estetica e che, anzi, viene assimilato alla spazzatura con sempre maggiore frequenza. Difficile stabilire su quali criteri si fondi. Difficile che le altre critiche, specie quella letteraria, le riconoscano dignità d’esistenza. L’aggettivo trascina nel gorgo il sostantivo. Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà, cui ci dobbiamo rassegnare, è che nel grande disegno delle cose, anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero. Ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni: al nuovo servono sostenitori! (Anton Ego, critico enogastronomico, Ratatouille, 2007)

La critica cambia progressivamente il suo status e la sua funzione. La televisione è forse l’esito estremo di quelle trasformazioni, figlie della «riproducibilità tecnica», intraviste da Walter Benjamin negli anni Trenta: perdita dell’aura e caduta del valore culturale dell’arte12. Ai problemi estetici – che pure non spariscono del tutto – vengono a sostituirsi le questioni «comunicative» proprie del medium (industria editoriale, cinema, radio, televisione...). Come ha scritto Edgar Morin, il nuovo prodotto, nato con l’industrializzazione della cultura, «è strettamente determinato dal suo carattere industriale, da una parte, 12  W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.

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e dal suo carattere di consumo quotidiano, dall’altra, senza potersi sollevare all’autonomia estetica. Non è raffinato, né filtrato, né strutturato dall’Arte, valore supremo della cultura degli uomini colti»13. Ma la posizione del critico televisivo è anche più complessa e problematica di quella dei critici teatrali, letterari, cinematografici o musicali nell’epoca della riproducibilità tecnica. Essi conservano una funzione di orientamento – o l’illusione di questa funzione – che non è attribuibile al critico televisivo. Per quanto, a proposito di gusto del pubblico che frequenta i teatri, già Alfred Polgar scrivesse: «Il pubblico di teatro, vale a dire: la massa disomogenea della gente di città che ogni sera viene spinta a teatro dalla noia, dalla curiosità o dal bisogno di sottrarsi all’insulsaggine della propria esistenza, non ha assolutamente gusto, nemmeno cattivo. È un contenitore universale. Il singolo ha nel sistema nervoso le sue specifiche zone affamate d’eccitazione dove prova particolare piacere a essere toccato, mentre alla massa è comune una sola cosa: la disponibilità a lasciarsi eccitare»14. C’è grande differenza tra questo pubblico urbano e la sterminata audience televisiva? Nel 1973, Umberto Eco (riprendendo uno schema di Franco Fortini) distingueva fra tre tipologie di «finalità culturali» in cui si può suddividere la critica15: a) la critica normativa si prefigge di mettere a confronto «l’opera analizzata ad un ideale di opera perfetta e si richiama a una tavola di regole auree per dire come si dovrebbe fare arte». La «bellezza classica» o una pre  Morin, L’industria culturale, cit., pp. 14-15.   A. Polgar, Manuale del critico, Adelphi, Milano 2000, p. 23. 15  U. Eco (a cura di), Criteri e funzioni della critica televisiva, Eri, Torino 1973; F. Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Il Saggiatore, Milano 1968. 13 14

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cisa visione religiosa o morale sono il metro di paragone per ogni testo; b) la critica fiancheggiatrice o militante non si origina da un ideale universalistico, ma da una definita posizione di parte, a favore di una certa «poetica»: la singola opera è difesa in quanto appartenente a un «modello di modernità» (pensiamo alle critiche legate all’Avanguardia: critica ermetica, surrealista...); c) la critica orientativa si pone invece al servizio del lettore, di cui il critico fa le veci: lo avverte del valore artistico dell’opera, lo aiuta nell’interpretazione, lo consiglia sull’«acquisto» di una determinata merce culturale. Come si è già detto, questa terza tipologia critica – quella orientativa – nasce e diventa predominante con l’emergere dell’industria culturale: dalle recensioni letterarie sui Misteri di Parigi di Sue agli articoli sui film nelle sale, la critica orientativa ha un destinatario preciso, il lettore, cui intende dare consigli. Ma la critica televisiva non può essere orientativa per diverse ragioni. Se un film recensito, di solito in anteprima, è disponibile a tutti nelle sale; se un disco è pronto per essere acquistato nel negozio sotto casa; se un best seller è presente in ogni libreria, il programma televisivo, quando viene recensito, è già stato consumato. È vero che nella televisione attuale dominano princìpi di forte serialità, e un programma è fatto secondo formule o format che si ripetono a ogni puntata, ma resta vero che ogni testo è un unicum, e spesso l’interessante in televisione sta proprio nelle deviazioni dalla norma. Senza contare che l’esperienza televisiva è soprattutto “esperienza del flusso”, un continuum indistinguibile, e offre aree marginali alla più tradizionale “esperienza” di testi definiti e chiusi. Vi è poi una ragione ulteriore che gioca contro ogni velleità orientativa: la televisione di oggi (ma anche la

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musica, il cinema, la letteratura...) fa parte di un “mercato culturale” sempre più complesso e variegato. Nel momento in cui gli andamenti di questo mercato sono regolati dalla logica della misurazione dell’audience, la critica ha davvero poche speranze – se pure se le pone – di “incidere” o “spostare numeri”. La critica spesso non è una scienza; è un mestiere, dove occorre più salute che spirito, più lavoro che capacità, più abitudine che genio. (Jean de La Bruyère, I caratteri, 1668)

Lo scrittore Achille Campanile ha insegnato che grande critico è colui che trasforma lo spettatore in palcoscenico e lo schermo in un incontro di humour, estro, invenzione. Dunque, la parodia (lo stile) sembra essere la condizione primaria di lettura. E l’ironia critica è l’unico interrogativo che attraversi la televisione. Di fronte al “pensiero unico televisivo”, la voce della critica è quella della dissonanza, non della complicità. Ma la televisione pare un mondo privo d’ironia. Preferisce la scomunica. Anatemi lanciati dagli stessi schermi televisivi, nella totale ignoranza di una legge del tutto ovvia, già teorizzata da Eco ai tempi della Fenomenologia di Mike Bongiorno: la distinzione fra «persona» e «personaggio». Il critico ha continuamente a che fare con “materiale umano”: non critica le pagine di un libro o le immagini di un film – frutto di un autore, individuale o collettivo – ma immagini impastate di personaggi “veri”. Un ulteriore guaio è costituito dal fatto che molti critici amano confondersi con il mondo di cui parlano. Come sostiene giustamente Stanis¢aw J. Lec, «il critico deve stare tutto o sulla scena o sulla platea, altrimenti il sipario gli cadrà sul collo come una ghigliottina»16.   S.J. Lec, Pensieri spettinati, Bompiani, Milano 1965, p. 106.

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Nel nostro paese la critica televisiva è nata con il nuovo mezzo. Fin dagli anni Cinquanta, i quotidiani e le riviste hanno riservato spazi d’intervento sul nuovo mezzo, affidati spesso a firme autorevoli, a letterati. Col passare degli anni, e con la crescita dell’incidenza sociale della televisione, alla critica si è affiancata una cronaca sempre più dettagliata, fino alle attuali pagine degli spettacoli dei giornali. Nel frattempo, anche il mondo accademico ha iniziato ad interrogarsi sui meccanismi linguistici e sugli impatti sociali della televisione. Ma, come ha scritto Stefano Bartezzaghi, gli ambiti e le finalità restano separati: se la “cronaca” fornisce anticipazioni e retroscena al lettore curioso (e costituisce un’importante forma di publicity per gli stessi canali televisivi), se l’Accademia cerca di mettere a punto apparati teorici da verificare sul campo (dell’analisi testuale o sociale), la critica «elabora giudizi attraverso la propria scrittura»17. Potremmo distinguere tra una critica televisiva tradizionale, che si mette in gioco in prima persona, «dichiara amori e umori», e parla per lo più dalle pagine dei giornali, e alcuni recenti tentativi di critica meta-televisiva, come nel caso di Blob, che ricicla la televisione e affida il giudizio alle logiche del montaggio. In un’opera di psichiatria mi interessano solo i discorsi dei malati; in un libro di critica, solo le citazioni. (Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati, 1973)

La critica televisiva tradizionale gode di pessima reputazione e di commossa solidarietà. Anni fa, sulle pagine di «Repubblica», Sandro Viola si è assunto il compito di vergare severe parole di compatimento: «Noi 17  S. Bartezzaghi, La critica? Fa impressione, in «La Stampa», 12 settembre 1996.

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vediamo scorrere dinanzi ai nostri occhi la Cuccarini, la Goggi, Curzi, Pippo Franco, Pirrotta, Chiambretti, Baudo e Biscardi e non riusciamo a scorgere nient’altro che la loro tremenda ineleganza. Il critico televisivo li scruta invece come se fossero bilanci della Fiat, statistiche sul crimine, rapporti sulla situazione internazionale: convinto che dietro quelle presenze così fastidiose esistano Significati d’interesse generale che vanno colti, analizzati, spiegati al lettore della sua rubrica»18. In genere, si pensa, come avrebbe detto Totò, che il compito del critico sia quello di criticare, cioè “parlare male”. Non è vero niente. Il compito del critico, semmai, è un altro: quello di segnare la sua presa di distanza dal circo mediatico, di non far parte della compagnia di giro. Se è bravo, come lo era Achille Campanile, riesce anche a usare una materia “vile” come la televisione per un esercizio di immaginazione e di intelligenza. La critica televisiva – come la critica in genere – può insegnare poco: non è normativa, non è orientativa, non è pedagogica. Diciamola tutta: non serve a nulla. Ma insegna una cosa: l’esercizio critico. L’analisi di un programma diventa uno spunto, un attivatore della curiosità di chi guarda. C’è una definizione di Ardengo Soffici che si attaglia perfettamente a questa preziosa “inutilità”: «Compito [della critica] non è solo quello di apprezzare e fare apprezzare altrui il buono ed il bello, bensì e massimamente, quello di non prender per bello e buono il brutto e il cattivo; insomma, non tanto di distinguere tra l’ottimo e il pessimo, quanto di riconoscere il vero dal falso»19. E comunque la migliore critica televisiva è quella che

18  S. Viola, Che calvario dissertare su Biscardi e Cuccarini, in «la Repubblica», 4 luglio 1991. 19  A. Soffici, Taccuino di Arno Borghi, Vallecchi, Firenze 1933.

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ha saputo inventarsi uno stile, una scrittura, a partire dalle immagini, che diventano talvolta puro pre-testo. È la critica di Achille Campanile, di Sergio Saviane, di Beniamino Placido. È la critica che si è acquistata autorevolezza e riesce a juger en connaisseur, a giudicare da esperti. Il porcello, venuto nel morir la state alle querci, appié la reina loro v’incontrò un boleto tutto ritto e scarlatto: perlocché accostati a quella invereconda porpora i due buchi del grifo gli bofonchiò a livello: «Io vo a tartufi». Questa favola ne ammonisce: che ad esercitare la critica, il buon critico deve prendere esempio dal porcello. (Carlo Emilio Gadda, Il primo libro delle favole, 1952)

Ma il critico ha un metodo? Segue, ogni volta che si occupa di televisione, una precisa applicazione analitica, una disciplina scientifica? No, il critico dovrebbe appartenere a quella categoria di persone – come Mario Praz scrisse di sé citando Charles Lamb – «dotate di intelligenza imperfetta. “Esse si contentano di frammenti e di ritagli della Verità. Questa non si presenta loro di faccia, ma con un lineamento o di profilo tutt’al più... Le loro menti sono meramente suggestive”»20. E, di conseguenza, il loro guardaroba critico è composto di capi stravaganti, bizzarri, oggetti fuori d’uso, frammenti fuori moda. Ma il giorno in cui l’«intelligenza imperfetta» decide di presentarsi in pubblico, ecco che all’improvviso si dispiega tutto il fascino di chi sa osservare nelle più svariate direzioni, con occhio tanto acuto quanto imprevedibile. Un buon consiglio: studiare i  M. Praz, Voce dietro la scena, Adelphi, Milano 1980, p. 15.

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metodi critici per poi dimenticarli. O meglio: risolverli in uno stile personale. Quando Anton Ego, il severo critico di Ratatouille, si siede al ristorante “gestito” dallo chef Rémy (un piccolo ratto che agisce per il suo tramite umano, l’imbranato Linguini) non chiede un piatto ma un po’ di «prospettiva», qualcosa di cui stupirsi. Anche in televisione, lo dimostrano i reality, «non tutti possono diventare dei grandi artisti ma un grande artista può celarsi in chiunque» (Ego); l’importante è offrire un po’ di prospettiva, un progetto, un domani non privo di talenti. Aprire il libro in modo che inviti come una tavola apparecchiata dove noi prendiamo posto con tutte le nostre idee, domande, convinzioni, con i nostri ghiribizzi, pregiudizi, pensieri, in modo che i duecento lettori (saranno tanti?) scompaiano in questa compagnia e proprio per questo se la godano – la critica è questo. (Walter Benjamin, Ombre corte, 1928-29)

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4.1. La serialità americana Da tempo, la televisione generalista ha abbassato i suoi standard linguistici e instaurato il regno dell’eccezionale. Questo principio regolatore – va in onda solo ciò che può colpire l’audience – ha ormai contaminato la nostra vita sociale, persino la politica. Si comincia a constatare come sia in atto una planetaria trasformazione dell’ideologia. Lo scrittore Milan Kundera ha chiamato questa metamorfosi «imagologia»: «Le ideologie facevano parte della storia, mentre il dominio dell’imagologia inizia là dove la storia finisce»1. Ogni programma, ormai, si pone al di là del Bene e del Male, dell’utile e dell’inutile, nel senso che non c’è più lavoro produttivo, ma soltanto lavoro riproduttivo. Non ci sono più consumi produttivi e consumi improduttivi: il tempo libero è altrettanto produttivo del lavoro, quindi riproduttivo. Viviamo non più nella contemplazione estetica della riproducibilità ma nel dominio assoluto della medesima. E allora, tanto vale abbandonarsi a un genere che riesce ancora, nella convenzione dei generi, a farci partecipi   M. Kundera, L’immortalità, Adelphi, Milano 1990, p. 132.

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della meraviglia che si prova quando si incontrano le cose per la prima volta. Adesso che alcune serie come Sex and the City, Desperate Housewives, Lost, I Soprano hanno ottenuto un grande successo «di pubblico e di critica» diventa più facile sostenere che la buona televisione, la tanto ricercata televisione di qualità, esiste da tempo. Anzi, non c’è mai stata una televisione tanto vitale, intelligente e ricca di risonanze metaforiche e letterarie come l’attuale. Sembra quasi un paradosso ma spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm2. C’è in giro, ad esempio, un’opera che rappresenti un viaggio metafisico fra i segreti del Male più avvincente di Twin Peaks? Destino vuole che la cattiva televisione, la nostra quotidiana cattiva televisione, generi un’orda sterminata di cattivi discorsi sulla televisione: come sempre, la moneta falsa scaccia quella vera per convincerci della inevitabilità del trash. «La televisione è un’idra a tre teste. Una delle sue bocche riversa sullo spettatore un fiume di parole e di discorsi rozzi, assertivi, manipolatori: dalla televendita alla discussione ideologica passando per i giochi di massa, i dibattiti di società e le risse da salotto. La seconda cerca o finge di spiegare il mondo attraverso programmi d’informazione, documentari, testimonianze. La terza sussurra fiction... Ispirate al mondo umano, come lo sono quelle della letteratura e del cinema, [le fiction] lottano senza posa per diventare migliori, con humour e dignità. E per rendere, di rimando, il mondo migliore»3. 2  A. Grasso, Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti dei libri e del cinema, Mondadori, Milano 2007. 3  M. Winckler, Les miroirs de la vie. Histoire des séries américaines, Le passage, Paris 2002, traduzione dell’autore.

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Da quando in Italia le reti digitali hanno permesso di seguire con regolarità le serie televisive (considerate prima come un riempitivo, suscettibile di ogni alterazione in palinsesto), ci si è finalmente accorti che il telefilm è il genere che meglio d’altri rappresenta le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni. Naturalmente, la straordinarietà di molti telefilm sta nella scrittura con cui queste vicende si legano e si dipanano, si sostengono e si rilanciano nell’obbligatorietà degli appuntamenti settimanali4. Sorrette, in genere, da un’ottima sceneggiatura e da un ritmo calibrato, le storie presentano quasi sempre più risvolti, uno “esterno” e uno “interno”: uno pubblico, riguardante un tema che coinvolge la comunità, e uno più intimo. Gli americani non amano fare prediche sull’educazione civile, preferiscono mettere in scena i molti tormenti da cui sono afflitti, scelgono di renderli in questo modo casi esemplari, ricordi incancellabili, apologhi notturni. Da alcuni anni, dalla serie cult Star Trek a X-Files, da Dawson’s Creek a Six feet under, da CSI a NYPD, da Buffy a Ally McBeal, da Dr. House a 24, i telefilm raccontano storie affascinanti per parlare anche d’altro: le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano ma “vibrano” in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo. La sensazione è che nei telefilm americani si lavori per una nicchia di pubblico che sta diventando sempre più decisiva nella spartizione dell’audience, per un linguaggio sciolto da ogni vincolo di obbedienza ideologica o sociale. 4  Sulla capacità della serialità americana di costruire mondi di invenzione complessi e ammobiliati si veda A. Grasso, M. Scaglioni (a cura di), Arredo di serie. I mondi possibili della serialità americana, Vita e Pensiero, Milano 2010.

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Il dato più significativo è questo: i telefilm sono ricolmi non solo di citazioni attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, ma trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti “rubati” a modelli alti. Ripetizione, standardizzazione, ripresa, serialità: tutti fenomeni che non sono tipici della televisione ma che attraversano da sempre la produzione letteraria mondiale e, semmai, rivelano ora nuove dinamiche della creatività, nuovi ritmi imposti dalla produzione industriale. È difficile che un ragazzo si accosti ancora alla grande narrativa ottocentesca, che affidi le sue pene d’amore a un libro di Stendhal, di Jane Austen, persino di Cesare Pavese, che cerchi di placare le sue angosce esistenziali con Henry James o Joseph Conrad o Franz Kafka. Ma è molto probabile che lo stesso ragazzo sappia tutto di The O.C., di Beverly Hills, di Dawson’s Creek ed è molto probabile che in queste serie trovi orme di soluzioni linguistiche tratte dagli autori appena citati (ben conosciuti dagli sceneggiatori). Stessa cosa per il cinema, per gli evergreen, per la moda. Succede, insomma, che l’educazione sentimentale degli adolescenti di tutto il mondo si formi ora sui cosiddetti teen drama, sui telefilm di “formazione” per l’appunto. Oltre ad accrescere il loro livello di auto-riflessività, le serie televisive degli ultimi anni si sono affermate spesso come modelli di “testualità di culto” destinati a generare fandom5, ovvero forme di fruizione intensa, 5  Il termine fandom è un sostantivo derivato dall’unione del nome fan e del suffisso -dom, in analogia con le parole king-dom o duke-dom, e indica precisamente una collettività di persone – i fan, appunto – unite dal comune interesse e dalla comune passione per un qualche oggetto o fenomeno (un prodotto culturale, un particolare genere, un autore, uno sport). L’Oxford English Dictionary fa risalire l’uso del termine al 1903 in riferimento allo sport. Il termine si è legato

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dedicata, appassionata sino all’estremo limite dell’immedesimazione, colorate da toni affettivamente caldi, diffuse particolarmente fra i giovani spettatori delle ultime generazioni. Come già succede per altri oggetti di consumo culturale (il cinema dei cult movie, certe forme di letteratura, alcune icone della musica pop e via dicendo), anche la televisione, nella forma soprattutto del teen drama, è stata in grado di creare fenomeni “di culto”, una complessa forma di telefilia. A differenza dei cult movie, che normalmente si rivolgono a gusti minoritari e definiti gruppi d’interesse, le serie cult sono spesso programmi mainstream, frutto di consistenti investimenti produttivi, e si rivolgono sia a un tradizionale pubblico di massa sia a una base di fan consacrati al prodotto (così consacrati da dar vita a interessanti forme di feedback). Per questo alcuni telefilm di successo rappresentano anche la “buona letteratura” dei nostri giorni. I telefilm organizzano la loro struttura narrativa intorno a logiche seriali, per cui Umberto Eco ha proposto due modelli fondativi: la saga e la serie. La serie (per esempio CSI) mette sempre in scena dei personaggi fissi e, con minime variazioni, ripete gli stessi eventi; proprio come la maggior parte dei fumetti, da Superman a Tex Willer, o come la serie delle avventure gialle di Hercule Poirot o di Miss Marple. La saga, invece, prende dei personaggi e li mette al centro di una lunga storia, poi i personaggi muoiono o scompaiono (come in Beautiful, come nelle telenovelas brasiliane) e la storia continua particolarmente alle forme di consumo di alcuni generi trans-mediali, in particolare alla fantascienza. Si veda M. Scaglioni, TV di culto. La serialità televisiva americana e il suo fandom, Vita e Pensiero, Milano 2006.

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coi loro figli e nipoti, cugini e cognati. «La saga è sempre in effetti una serie mascherata. In essa, a differenza della serie, i personaggi cambiano (cambiano in quanto si sostituiscono gli uni agli altri e in quanto invecchiano): ma in realtà essa ripete, in forma storicizzata, celebrando in apparenza il consumo del tempo, la stessa storia, e rivela all’analisi una fondamentale astoricità e atemporalità. Ai personaggi di Dallas accadono più o meno gli stessi eventi: lotta per la ricchezza e per il potere, vita, morte, sconfitta, vittoria, adulterio, amore, odio, invidia, illusione e delusione. Ma accadeva diversamente ai cavalieri della Tavola Rotonda, vaganti per le foreste bretoni?»6. Ripetizione, standardizzazione, ripresa, serialità: fenomeni, tuttavia, che non sono tipici dell’epoca contemporanea dei media, ma che attraversano da sempre la produzione letteraria mondiale e, semmai, rivelano ora nuove dinamiche della creatività, nuovi ritmi imposti dalla produzione industriale. Nei telefilm-saga i personaggi nascono, si sposano, muoiono, spesso per mere ragioni contrattuali; i loro nipoti avranno gli stessi guai dei loro nonni, ma caratteri e situazioni che sembrano diversi; soprattutto c’è una crescita dei personaggi a ritmo televisivo. Nei telefilmserie i personaggi non nascono, non muoiono, rimangono immobilizzati in un’età ideale; la loro «staticità» è comunque una staticità televisiva, sono congelati eppur si muovono a venticinque fotogrammi al secondo. Oggi si preferisce classificare i telefilm diversamente, soprattutto in base al formato, alla morfologia (episodio “chiuso” o puntata “aperta”), alla narrativa (evoluzione 6  U. Eco, L’innovazione nel seriale, in Id., Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985, p. 131.

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cronologica o meno delle vicende e dei personaggi). È possibile perciò distinguere tra alcune grandi famiglie: – Serie, che è suddivisa in episodi, cioè segmenti narrativi conchiusi senza sviluppo cronologico delle vicende, e che prevede un ritorno ciclico del tempo; – Serial, che è suddiviso in puntate, cioè segmenti narrativi aperti con sviluppo cronologico delle vicende, e che prevede uno sviluppo lineare del tempo; – Miniserie (o miniserial) che è suddivisa in puntate, da due a sei, e prevede uno sviluppo cronologico delle vicende attraverso un percorso narrativo molto breve rispetto ad altre forme seriali ed è perciò definita una «forma seriale debole»; – Film per la tv, storia compiuta che non presenta caratteri di serialità, la cui durata è di circa 90 minuti (al netto dei break pubblicitari), e che è la forma più affine al lungometraggio cinematografico. In realtà, ognuno di questi formati seriali è a sua volta composto da sottoformati, che spesso compaiono in un preciso momento storico, legati come sono a esigenze produttive, al tipo di pubblico cui si rivolge il telefilm, alla complessità della narrazione che si vuole costruire. Seguendo la distinzione proposta da Milly Buonanno7, è possibile suddividere la serie e il serial in diverse sottofamiglie. Lost, Desperate Housewives, 24 sono tutti serial. Storicamente però il serial si è identificato con il suo sottoformato più diffuso e popolare, il continuous serial, contraddistinto dal numero elevato di puntate e dalla lunghissima durata del percorso narrativo. Il continuous serial è a sua volta suddiviso in due famiglie, 7  M. Buonanno, Le formule del racconto televisivo. La sovversione del tempo nelle narrative seriali, Sansoni, Milano 2002.

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spesso tra loro confuse, ma che si presentano distinte per la diversa temporalità della struttura narrativa o per l’area geografica produttiva: il continuous serial chiuso, che prevede una conclusione delle vicende narrate, e prende il nome di telenovela, forma seriale televisiva nata nei paesi dell’America Latina (Messico, Cuba, Brasile, Puerto Rico); il continuous serial aperto, che non prevede cioè una chiusura narrativa del racconto, e viene invece definito soap opera, genere caratteristico degli Stati Uniti, dell’Europa (ma in Gran Bretagna viene normalmente definito real drama) e dell’Australia. A partire dagli anni Ottanta, però, serie e serial si avvicinano sempre di più, e nasce la serie serializzata, nella quale ogni episodio mantiene una sua autonomia con una storia conclusa (anthology plot), ma contemporaneamente presenta una continuità narrativa interepisodica e un’evoluzione cronologica attraverso alcune vicende, di solito legate alla vita personale dei personaggi, che si prolungano per più episodi (running plot). Successivamente, molte serie serializzate hanno utilizzato running plot protratti da una stagione all’altra (come in Lost) e non legati solamente alle vicende personali dei protagonisti. Il confine tra serie serializzata e serial si è fatto perciò sempre più labile, e il telefilm si è reso più complesso proprio per il moltiplicarsi delle linee narrative e temporali8. Sono in molti ormai a riconoscere ai telefilm tutta la dignità che meritano. In fondo, anche il telefilm seriale si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori 8   Naturalmente questa è solo una delle molte possibili ripartizioni. Per un’analisi della serialità degli ultimi anni si vedano A. Ndalianis, Television and the Neo-Baroque, in M. Hammond, L. Mazdon (a cura di), The Contemporary Television Series, Edinburgh University Press, Edinburgh 2005 e G. Creeber, Serial Television: Big Drama on the Small Screen, British Film Institute, London 2004.

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riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario. Probabilmente, poi, è proprio la molteplicità dei generi – in un format tipicamente postmoderno com’è il telefilm (caratterizzato dal pastiche e dalla contaminazione) – a saper metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni9. È il caso appunto di alcuni telefilm targati Hbo, come I Soprano o come Six feet under (è la profondità dell’interramento della cassa da morto). Di tutti gli scopi offerti all’esistenza, nessuno sfugge alla farsa (anche del potere) o all’obitorio. E tutti ci rivelano quanto siamo futili o sinistri. I motivi per cui i telefilm meritano maggiore attenzione critica sono almeno tre. Il primo è che il telefilm cerca di mettere un po’ di ordine nel disordine del flusso televisivo. Che strumenti ha la fiction per operare un simile assetto? Ha il potere della forma, quella lunga e spesso complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia, montaggio che permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una fisionomia; e infatti, la fiction è una delle ultime riserve televisive dove è possibile incontrare il regista, una specie in via di estinzione. Il secondo è che il telefilm mette comunque in scena un sistema di valori cui fare riferimento. Qualcuno può storcere il naso sulla levatura artistica di alcune di queste opere. Poco importa, la fiction è pur sempre un punto di riferimento rispetto, ad esempio, ai talk show o ai reality dove non c’è mai gerarchia di valori, dove una chiacchiera vale l’altra, dove si può dire 9  D. Del Pozzo, Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani, Lindau, Torino 2002.

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tutto e il contrario di tutto. Il telefilm suscita nostalgia per un mondo nel quale, generalmente, i cattivi finiscono in prigione, l’amore trionfa, un malato guarisce anche in ospedale: in questo senso, la fiction supplisce a un bisogno di affetti. Il terzo motivo, infine, riguarda quelle strategie discorsive e comunicative che accendono le passioni non solo dei protagonisti ma anche degli spettatori di fiction. Il telefilm traccia infatti dei percorsi passionali, delle vie obbligate al sentimento, e lo spettatore viene inconsciamente preso per mano e trasferito d’incanto nella dimensione emotiva che lo risarcisce dell’aridità della vita quotidiana. Ma perché è così difficile riconoscere al telefilm uno statuto di “artisticità”? Proviamo per ipotesi a supporre, anche solo per un momento, che le più deprecate forme dell’intrattenimento di massa – videogiochi, tv spazzatura, cinema di consumo – non rappresentino la deriva morale della nostra società ma si rivelino invece utili per una crescita intellettuale: ebbene in quell’esatto momento noi ci troviamo all’interno della «Curva del Dormiglione», un espediente interpretativo per cercare di capire, di analizzare il mare della comunicazione dentro il quale più o meno felicemente nuotiamo. La Curva del Dormiglione è stata messa a punto da Steven Johnson in un suo libro che tanto scalpore ha fatto in America10. Johnson è un ricercatore molto serio e molto stimato: da anni analizza il funzionamento del cervello, l’interazione uomo-macchina, le modalità di appropriazione e delle influenze sociali dello spazio digitale. Studiando il funzionamento dei videogiochi, dei programmi televisivi, di Internet, dello sviluppo delle 10  S. Johnson, Tutto quello che ti fa male ti fa bene, Mondadori, Milano 2006.

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metropoli, intreccia diverse discipline per tracciare le linee guida di una nuova scienza della complessità e dei sistemi emergenti. Johnson, dunque, sostiene che la cattiva maestra televisione, cavallo di battaglia di tutti i moralizzatori del mondo, la tv Moloch, la tv Golem, la tv Odradek, «un antro di tentazioni del non tentante», che turba così tanto i nostri sogni, è in realtà un’ottima maestra e contribuisce ad accrescere le nostre capacità intellettive. Bisogna però subito spiegare cos’è la Curva del Dormiglione. Nel film Il dormiglione di Woody Allen del 1973, c’è una sequenza che prende di mira la scienza e la fantascienza. Risvegliatosi dopo molti anni, nel 2173, il protagonista si accorge che gli scienziati irridono la nostra società per non aver capito i benefìci nutrizionali di torte, creme e merendine. Nell’ottica di una sana e corretta alimentazione, noi crediamo che le merendine siano dannose quanto la televisione: fanno male. Però basta un lungo sonno, una distanza temporale ed ermeneutica, per capovolgere le convinzioni. Per decenni abbiamo agito con l’idea che la cultura di massa seguisse un percorso, in costante declino, verso uno standard che rappresenta un minimo comun denominatore e invece dobbiamo oggi constatare che, da un punto di vista intellettuale, la cultura di massa ha stimolato la nostra mente in modo nuovo e convincente, ha accresciuto le nostre capacità intellettive. La Curva del Dormiglione è un paradosso che ci aiuta a spogliarci di molti luoghi comuni, a non addossare solo ai media le colpe di questa società. È vero, la sensazione è quella di aver consumato in questi anni una televisione assolutamente priva di sfumature, capace solo di attanagliare lo spettatore con stupefazioni baracconesche, con l’esibizione di mostri, con strabilianti genericità. Ma la

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televisione, e con essa i videogiochi (da Tetris a The Sims) e le mille offerte del web offrono a un numero impressionante di persone una grande quantità di stimoli che hanno accresciuto la media del quoziente d’intelligenza. Una volta i percorsi del sapere erano una prerogativa per pochi, adesso gli stessi complessi cammini logici sono racchiusi nel più diffuso gioco elettronico. Gli spettatori di The O.C., X-Files, Dawson’s Creek, Sex and the City, CSI, NYPD, Six feet under, I Soprano, Buffy, Ally McBeal, Lost, Desperate Housewives, I Simpson sono nella fase discendente della Curva del Dormiglione, non hanno più bisogno di una preparazione alla trama multipla (uno sforzo cognitivo che le generazioni precedenti non hanno mai affrontato) perché venti, trent’anni di televisione sempre più complessa hanno affinato le capacità cognitive: «Come in quei videogame che obbligano a imparare le regole durante il gioco, parte del piacere offerto da queste narrazioni televisive moderne deriva dallo sforzo cognitivo richiesto per completare i dettagli»11. Si può tranquillamente sostenere che la televisione americana contemporanea (e di conseguenza tutta la televisione di area occidentale) è come spaccata in due, manifesta due anime, due specifici, giusto per usare un termine che mette ancora i brividi. Da una parte la televisione generalista, free, ha eletto il talk show e il reality come i suoi due generi privilegiati per “far vedere” la realtà; anzi, per far entrare la realtà in corto circuito con la televisione (si chiede ai protagonisti, gente comune in carne e ossa, di essere come tutti ma contemporaneamente di fare audience, cioè di incarnare l’eccezione, la diversità),

 Johnson, Tutto quello che ti fa male ti fa bene, cit., p. 70.

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come se la televisione stessa fosse uno specchio “deformante” del reale. Dall’altra, la pay tv ha invece eletto il telefilm come oggetto di consumo culturale (la serialità diventa lo specifico di questa altra parte del mezzo), come capacità di cogliere e rappresentare l’aspetto contraddittorio della realtà, come se la televisione fosse ancora uno specchio ma “magico”, “letterario”, “notturno”. In molti sostengono che il reality sia falso, che sia “irreality”. Forse è la cosa più sincera della televisione. È un hard discount della psicoanalisi. È una confessione in pubblico, dopo che la fatica, il clima della competizione, le «dinamiche di gruppo» (come amano dire le conduttrici colte) hanno fatto il resto, hanno cioè dissolto ogni remora, bruciato i freni inibitori, offuscato l’immagine dei singoli. Il gioco segreto del reality non è il diktat della trasparenza assoluta o il diritto di lasciare sentimenti, desideri, emozioni nell’ombra (questo diritto, semmai, è stato da tempo violato dai conduttori dei talk show, soprattutto da quelli che fingono comprensione), come vorrebbe certa letteratura popperiana. No, il reality è la più pirandelliana delle rappresentazioni televisive: una schiera di ombre, tutte percorse dall’ansia di divenire personaggi. Il personaggio, pur del tutto diseroicizzato, ridicolizzato, in mutande, viene sorpreso nel momento della sua torbida esasperata coscienza, quando realizza l’orrore del proprio apparire. Ma nel reality anche la televisione trova una seconda vita, il suo comeback. I reality rientrano così nel novero di quei rituali pubblici con cui la nostra società finge di parlarsi e mettersi in discussione, ben sapendo che ormai nel Grande Acquario della Vita (di cui il Grande Fratello o L’isola dei famosi sono perfette metafore) anche le distinzioni sono fluide, liquide e, dunque, tutto appare esattamente uguale al suo opposto, «autenticamente inautentico».

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Il telefilm non è mai cosa di un soggetto singolo e ciononostante si nutre ancora di uno scambio simbolico, si sforza ancora di «andare all’anima delle cose», per ripetere una celebre esortazione di Gustave Flaubert. Il telefilm è sogno: sogno come luogo di premonizioni, profezie, rivelazioni fino alla più banale interpretazione freudiana del sogno come strumento di scoperta dell’interiorità; sogno come tensione progettuale, sfida, utopia realizzabile. Il mestiere stesso della scrittura è sogno: è quella cosa che impone di misurarsi con la grandezza (della grandezza bisogna infatti conoscere l’ambizione, il respiro, l’ossessione morale) e con la capacità mitica di aprire in sé un vasto spazio dove ospitare le figure più contrastanti (aprirsi a tutte le contraddizioni e mantenere una caparbia unità). È quella cosa che fa credere che tutti i telefilm siano sogno; se i pochi di qualità o i molti senza qualità, addestrati solo alle consuetudini del consumo, non importa. Anche quello dei telefilm è un sapere che si assimila alla ricerca dell’assoluto, specie quando (in una puntata, in un frammento) si abbandona alla fascinazione e all’impronta della scrittura. A partire dagli anni Ottanta, nasce in America quella che Robert J. Thompson definisce «quality tv», la televisione “altra”, diversa, versione televisiva del cinema d’essai12. Sono telefilm che mettono in campo un uso raffinato dei processi seriali, temi adulti e atipici, complessità della trama, cura per l’immagine. Grazie alle sue caratteristiche estetiche, è il telefilm di qualità a definire il valore dei canali. La serialità televisiva del nuovo millennio porta alle estreme conseguenze le innovazioni stilistiche e tema12  R.J. Thompson, Television’s Second Golden Age, Syracuse University Press, Syracuse (NY) 1997.

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tiche inaugurate nel corso dei decenni precedenti. Le produzioni del canale via cavo americano Hbo danno vita a telefilm di successo (I Soprano, 1999-2007, di David Chase; The Wire, 2002-2008, di David Simons; Six feet under, 2001-2005, di Alan Ball) caratterizzati da un’estrema complessità formale, influenzando in questo modo anche le produzioni di altri network, come dimostrano serie quali Lost (2004-2010, di Damon Lindelof, Jeffrey Lieber e J.J. Abrams) e Desperate Housewives (2004-presente, di Marc Cherry) per la Abc. Lost mette in scena uno dei topoi della grande letteratura (Omero, Boccaccio, Campanella, Shakespeare, Swift) e anche del cinema: il naufragio. A seguito di un tremendo disastro aereo, quarantotto superstiti sono scaraventati su un’isola deserta. Ogni superstite è portatore di una storia (recuperata in flashback) che va a intrecciarsi con altre storie, generando incroci, tensioni, scontri, allegorie. E che, soprattutto, va a inserirsi in un ambiente sconosciuto, ostile, inquietante. Per riflettere su di sé, la nostra società ha bisogno di inventarsi un luogo estremo (l’isola sperduta), una metafora esistenziale (il naufragio), una condizione inusuale (la sopravvivenza). Nel racconto non c’è un attimo di tregua e ogni inquadratura è un’occasione per esaltare la sceneggiatura e la regia. Lost è anche la serie che ha ridato dignità espressiva al flashback, il più sfruttato ed esausto degli artifici retorici della fiction, e che ha osato sperimentare il racconto prolettico, sviluppando una narrazione multitemporale estremamente complessa, che verrà portata alle estreme conseguenze da Flashforward (2009, Abc). Con il suicidio di Mary Alice Young ha invece inizio Desperate Housewives, vivido e ironico racconto della vita nei sobborghi residenziali, nelle linde città “satellite” dove l’apparenza gioca un ruolo non solo sceno-

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grafico. La morte di Mary Alice porta a galla i segreti mai confessati degli abitanti del quartiere, e quelli delle sue quattro amiche (Susan, Lynette, Gabrielle e Bree), altrettante casalinghe disperate. Ed è la voce stessa della morta a fare da guida allo spettatore, con una serie di meditati, e talvolta ironici, aforismi. L’espediente della voice over femminile, utilizzato per legare la narrazione seriale e approfondire tematiche e situazioni che si sviluppano sullo schermo, sembra d’altronde caratterizzare molti telefilm americani degli ultimi anni, da Sex and the City alla medical soap Grey’s Anatomy. Dal punto di vista registico, le scene di Desperate Housewives sono solo apparentemente semplici, a favore del dialogo. In realtà c’è una cura maniacale del dettaglio, ogni gesto è misurato, ogni movimento sorvegliato. Di puntata in puntata, il telefilm raggiunge una perfezione narrativa non facilmente riscontrabile al cinema o in letteratura: i destini incrociati delle protagoniste sono tenuti insieme da una cura esasperata dei particolari, da un montaggio analogico di rara efficacia (gli stacchi sono sempre legati da un oggetto, da un gesto, da una combinazione), da citazioni colte, da una scrittura apparentemente popolare, piana, quasi da soap opera, ma riscattata continuamente dal talento di Marc Cherry. Il telefilm è anche un riuscito mix di genere, dal melodramma alla soap, dal mistery alla commedia. Mettendo in scena storie al femminile che si evolvono di puntata in puntata, Marc Cherry pesca a piene mani nel melodramma e nella sua versione moderna, la soap opera. Il trucco sta nel legare progressivamente i segreti delle quattro protagoniste all’altro mistero con cui si apre la serie, ovvero il suicidio di Mary Alice. E in questa continua alternanza, lo spettatore inizialmente vuole conoscere il segreto della defunta, ma è poi irrimediabilmente attratto dagli altri

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segreti, dalle altre sottotrame che, partite in sordina, prendono il sopravvento. I telefilm degli ultimi anni hanno dato prova di nuovi esperimenti di continuità narrativa, che hanno reso sempre più labile il confine tra serie e serial. Alias (20012006, Abc) di Jeffrey J. Abrams fa uso di una continuità interepisodica che recupera la regola del cliffhanger, legandola al suo significato originario, quello cioè nato nei serial movie degli anni Venti, quando ogni film finiva con l’immagine dell’eroina (nella serie l’agente Sydney Bristow) in pericolo. 24 (2001-presente, Fox) di Robert Cochran e Joel Surnow è forse il punto più avanzato della sperimentazione poiché ogni puntata-episodio rappresenta un’ora di un’unica giornata dell’agente speciale Jack Bauer, incaricato di sventare un attentato. Il telefilm è perciò composto da ventiquattro episodi per stagione, che raccontano in tempo reale (in realtà ogni episodio contrae in quarantacinque minuti l’ora canonica) le ventiquattro ore di Bauer. Per accrescere la tensione, ogni puntata presenta una seconda storia, di carattere personale, che si insinua nelle pieghe della principale e coinvolge la vita privata del protagonista. L’innovazione stilistica principale della serie è proprio quella del tempo reale, come nel famoso Nodo alla gola di Hitchcock. Bauer conduce una strenua lotta contro lo scorrere dei secondi, e più procede la narrazione meno tempo gli rimane per portare a termine la propria missione. 24 è così un serial perché non c’è chiusura dopo ogni puntata che anzi termina sempre con un cliff­ hanger. Le ventiquattro puntate sono concepite come una struttura narrativa unica e compatta, con i titoli a rappresentare le unità di tempo («I fatti seguenti accadono fra le 4 e le 5»). 24 fonda la sua intensità su tre dinamiche linguistiche ravvivate da altrettante tecniche

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atte a destare l’attenzione dello spettatore: il tempo reale, la suspence e l’“effetto multi”, che consiste nell’uso dello split screen, ovvero della partizione dello schermo in diverse sezioni per dinamizzare la scena e istituire una sorta di montaggio parallelo. L’evoluzione stilistica che caratterizza il panorama dei telefilm del nuovo millennio ha portato alla creazione di “serie evento”, telefilm che tentano di stupire il pubblico, e che per via della particolarità e complessità della loro narrazione non riescono a durare più di alcune stagioni. In questo panorama, molti sono i temi controversi affrontati: la morte in Six feet under (2001-2005, Hbo) di Alan Ball, la chirurgia plastica in Nip/Tuck (2003-presente, Fx) di Ryan Murphy, la corruzione della polizia in The Shield (2002-presente, Fx) di Shawn Rayan, lo spaccio d’erba tra gente per bene in Weeds (2005-presente, Showtime) di Jenji Kohan. A questa tendenza si affianca però un ritorno alla serialità episodica classica, legata a un consumo televisivo, più saltuario, non compatibile con una forte continuità narrativa: ne sono esempio il successo di Law & Order (1990-presente, Nbc) di Dick Wolf, e di CSI: Crime Scene Investigation (2000-presente, Cbs) di Anthony E. Zuiker. CSI racconta le indagini dei poliziotti della scientifica di Las Vegas: ogni episodio comincia con il ritrovamento di un cadavere, e successivamente diventa un viaggio a ritroso tra prove, supposizioni, deduzioni e ricostruzioni della scena del crimine. Dotati delle più sofisticate apparecchiature elettroniche, gli agenti della scientifica accorrono sulla scena del delitto e cominciano a scrutare ogni più piccolo dettaglio, tutto ciò che sfugge all’occhio umano. Questi detective post-mortem trasformano l’indagine in una storia e il laboratorio d’analisi in un laboratorio linguistico, grazie

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anche a una forte idea stilistica di base. Oltre all’uso frequente di un flashback polarizzato, che si completa con il procedere delle indagini, c’è infatti un uso particolare della fotografia, che muta in continuazione, dalla luce del laboratorio, fredda e quasi inespressiva, fino a tutte le sfumature artificiali della città di Las Vegas, dove persino il sole sembra falso. Nel 2002 e nel 2004 sono stati ricavati da CSI due spin off, CSI Miami e CSI New York: una delle grandi novità stilistiche dei tre telefilm è quella di individuare in ogni delitto una sorta di stato d’animo ambientale. Le città in cui è ambientato il telefilm sono contraddistinte da una specifica fotografia e da uno stile visivo ben preciso: Las Vegas è la notte, Miami è il giorno e la sua luminosità, New York è la vivida essenza della convulsione metropolitana, con il trionfo della scala dei grigi, in una luce forte e tagliente. I telefilm americani degli ultimi anni si sono dimostrati sempre più ansiosi di raccontare il presente, quasi spaventati di non essere anche loro in diretta come le notizie, convinti che dare una forma all’informe dell’emergenza, specie se drammatica, sia la loro missione principale. E spesso ci riescono, con intelligenza e delicatezza. Gli eventi dell’11 settembre 2001 e del terrorismo fanno per esempio capolino in molte serie. Tra gli esempi più interessanti vanno ricordati l’episodio speciale di Third Watch (1999-2005, Cbs; Camelot – Squadra emergenza) di John Wells ed Edward Allen Bernero, che narra le vicende di pompieri, paramedici e poliziotti di New York e Over There (2005, Fx) di Chris Gerolmo e Steven Bochco, serie dedicata alla guerra in Iraq. Una riprova della capacità della fiction americana di misurarsi con l’incalzare degli avvenimenti e dell’attualità più stringente. Alla capacità di raccontare il presente si associa il desiderio di esplorare il passato, come fa Mad Men, una

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delle serie più complesse e premiate degli ultimi anni. Immaginate una serie che racconti i fasti della pubblicità e delle sue principali star, i creativi. C’è stata un’epoca, i favolosi anni Sessanta, in cui il creativo era un luminare della comunicazione, un numero uno, un dio in Terra. C’è stata un’epoca in cui il lavoro del creativo – fare luce sulla quotidianità, rendere attraente la banalità, far comprare merce – era molto ambito, invidiato, vagheggiato. E i creativi si sentivano dei guru, guadagnavano soldi a profusione, erano circondati da belle donne (o uomini). Ebbene questi creativi sono i «Mad men», i pubblicitari di Madison Avenue a New York, il centro nevralgico della creatività pubblicitaria dell’epoca: determinati fino al cinismo, ambiziosi, politicamente scorretti, che hanno dato forma all’immaginario dell’American dream così come lo conosciamo ancora oggi. Ambientata appunto nel 1960 a New York, Mad Men, ideata dall’autore e produttore dei Soprano Matthew Weiner, parla del mondo pubblicitario (in particolare dei dipendenti della Sterling Cooper Ad Agency) e della loro vita privata, ma soprattutto di quella professionale, vissuta al motto: «Non importa chi sei, cosa vuoi o quali siano i tuoi valori. L’unica cosa che conta è come ti vendi». 4.2. Lo sport Ogni sport si modella sul medium che al tempo della sua nascita e del suo sviluppo è quello egemone; ogni sport, fin dall’inizio, si dà norme, comportamenti, ritualità, attraverso un costante riscontro mediatico (come reagiscono gli aedi, cosa scrivono le gazzette, come ne parla la radio). Succede così che alcuni sport siano indissolubilmente legati a certi media e non ad altri; succede che i cambiamenti nel mondo della comunicazione produca-

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no profonde metamorfosi anche in campo sportivo. Le Olimpiadi, e più in particolare l’atletica, sono per esempio pensate e costruite secondo un modello di rappresentazione teatrale. La boxe (altra performance tipicamente teatrale) ha trovato nel cinema una felicità espressiva che altri sport non conoscono. Il ciclismo resta inguaribilmente uno sport giornalistico, legato alle reinvenzioni del suiveur: la “corsa all’italiana” – gli ultimi 50 chilometri tirati a morte – è un modo di correre che è nato da un preciso adeguamento alla televisione, che si collega in diretta proprio nell’ultimo tratto. I chilometri percorsi precedentemente sono “inutili”. Per questo, si ha spesso nostalgia di una penna felice che racconti quello che l’occhio televisivo non mostra. I corridori moderni, anche grandissimi, non riusciranno mai a entrare nella leggenda perché nessuno è in grado di sublimare le immagini che si vedono con tanta facilità: il facile sconfina volentieri nel banale, la televisione non crea eroi ma solo personaggi. Il calcio, persa la sacralità della visione unica, quando si andava allo stadio per una e una sola partita, è uno sport radiofonico che tenta di adattarsi sempre più alla televisione; privilegio, questo, che invece hanno già raggiunto il football americano, il basket, lo sci. La televisione tenta continuamente di inghiottire corpi estranei e farli suoi. Per un po’ di tempo il cinema ha esibito la sua diversità, ma poi ha dovuto cedere le armi. Le interruzioni pubblicitarie, gli sfregi alla temporalità di un film, gli sminuzzamenti sfacciati di scene altro non sono che i segni visibili del dominio televisivo, le ferite inferte nel corso di una guerra ormai vinta: il film interrotto dalla pubblicità è pura televisione. Qualcosa del genere succede con lo sport: per raggiungere la piena “televisività”, l’evento sportivo dev’essere sfrangiato da una tecnologia che originariamente non gli pertiene. I

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replay, i ralenti, le sovrimpressioni, il moltiplicarsi dei punti di vista, le telecronache parallele, le varie moviole servono soprattutto al mezzo televisivo per decretare la sua raggiunta normalizzazione. La televisione stimola nei confronti dello sport nuove modalità di racconto, diverse da quelle vagamente letterarie, espresse in una particolare prosa d’arte, finemente sensibile alle gesta del pugilato, del ciclismo (memorabile l’incipit con cui Mario Ferretti iniziò una sua radiocronaca – la Cuneo-Pinerolo del Giro del 1949 – per annunciare la fuga di Coppi: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi...»), dell’atletica, dello sci. Si va affermando, al contrario, un’attenzione allo sport non più lineare ma a espansione, magmatica, che incrocia piani diversi (comportamenti indotti, abbigliamento, partecipazione ai talk show, ecc.). Oggi, il carattere rappresentativo dello sport è cresciuto a dismisura: la prestazione avviene soprattutto fuori del campo di gara. Per esempio, nelle reazioni dei tifosi (la televisione li ha resi tutti uguali: simili ad animali addomesticati, lanciano gli stessi versi, hanno le stesse reazioni, si esprimono con gli stessi comportamenti) nelle chiacchiere, sulla stampa, in video. L’evento è sempre più spesso un pretesto, in senso letterale e in senso semiotico. Come se ogni sport fosse destinato, ben che gli vada, a diventare un piacevole videogame. Nel 1967 il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges scrisse un racconto con Bioy Casares, Cronache di Bustos Domecq, in cui descriveva l’ultima partita giocata in uno stadio, il 24 giugno 193713. Dopo quella data 13  J.L. Borges, A. Bioy Casares, Cronache di Bustos Domecq, Einaudi, Torino 1975.

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«il calcio, come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, interpretato da un solo uomo in una cabina o da attori davanti al cameraman». Fidando nella sua inventiva, Borges aveva già immaginato il calcio e lo sport di oggi: vivono di un paradosso che gli sottrae credibilità e fascino. Quale punto di vista bisogna privilegiare, sapendo che solo dal punto di vista discende l’etica e l’interpretazione del gioco del calcio? Il punto di vista dello spettatore da stadio (diciamo 70.000 persone per una partita di cartello) o il punto di vista dello spettatore televisivo (diciamo 7 milioni per la medesima partita)? Il gol fatto con la mano, la simulazione in area, il fallo maligno e traditore appartengono alla logica del “vecchio” calcio perché, al più, si trattava di ingannare l’arbitro e il pubblico. Oggi gli stessi falli sono inammissibili e inaccettabili perché all’occhio della telecamera non si sfugge. L’arbitro si trova in una evidente situazione di inferiorità visiva: non può vedere quello che possono cogliere dieci-dodici telecamere. Sembrerebbe che, per sciogliere il “paradosso Borges”, non resti che una via: la tanto discussa moviola in campo. Per il sostanziale cambiamento del punto di vista (e non dimentichiamo che ogni punto di vista è anche una scelta morale) e per altre ragioni di ordine economico (nell’era della globalizzazione del calcio, dei giocatori che costano milioni e milioni e delle partite fuori orario per esigenze televisive, delle azioni in Borsa che si alzano e si abbassano anche per clamorosi errori arbitrali) è venuto il momento di servirsi dell’elettronica per dirigere le partite. Almeno per gli aspetti determinanti e tecnicamente non laboriosi: il fuorigioco, il gol, il fallo non visto, la simulazione. Se il quarto uomo salisse in una cabina di regia e segnalasse via radio all’arbitro, quasi in tempo reale, l’evidenza dei fuorigioco, dei gol o d’altro, il controllo e l’autorità

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dell’arbitro verrebbero rafforzate, senza togliere carisma, come si dice, alla “giacchetta nera”. Dall’avvento della trasmissione via satellite e della mondovisione, i grandi eventi sportivi, come le Olimpiadi o i Mondiali di calcio, sono diventati per definizione quelli che interessano il pubblico di ogni parte del globo. Lo sport che aspira a essere linguaggio universale o mezzo di comunicazione di massa è tale in quanto riprodotto, veicolato dalla televisione. Questo dato di fatto porta a una prima conseguenza: gli sport radicati in un’unica area geografica o in singoli paesi sono destinati a diventare minori e a cadere in declino (in Italia e in alcuni paesi europei tale è stata la sorte del ciclismo), mentre gli altri (calcio, automobilismo, atletica leggera, tennis), dopo l’impatto con il sistema radiotelevisivo, hanno subìto una chiara trasformazione. Questa “riscrittura” consiste in un adeguamento del referente sportivo alla rielaborazione in segni audiovisivi; la televisione da telescopio, che osserva eventi sportivi e li ripropone con fedeltà, assume in seguito un ruolo direttivo nei confronti dello sport e ne altera alcune dinamiche, forme organizzative, sistemi di competizione in base alle esigenze del pubblico da casa. Gli esempi sono numerosi: nel calcio si è adottato il pallone di colore chiaro perché fosse immediatamente visibile al telespettatore; negli anni Settanta è stato introdotto nel tennis il tie break – utilizzato poi anche nella pallavolo – per l’ultimo set; cambiamento simile a quello apportato alle manifestazioni calcistiche più importanti, in cui si stabilisce di ricorrere ai calci di rigore nelle partite chiuse in parità. Lo scopo di questi interventi innovativi è di ridurre la durata degli incontri più equilibrati e alla lunga poco avvincenti in modo da poterli inserire nei palinsesti e nelle logiche comunicative della televisione. Ricordiamo anche che, con gli anni

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Settanta, si registra l’inizio della pratica della sponsorizzazione: le grandi aziende cominciano a cogliere la possibilità di propagandare i propri prodotti alle platee universali richiamate dalla televisione durante gli appuntamenti sportivi di massimo interesse. Il primo sport a servirsi della sponsorizzazione fu l’automobilismo, ma dagli anni Ottanta in poi lo sport è diventato il contenitore naturale della pubblicità. L’adeguamento dello sport alla dimensione televisiva coinvolge anche gli atleti e il loro comportamento nel corso delle prove agonistiche. Torna ancora in primo piano a questo punto l’Olimpiade di Montreal, già indicata come evento cardine nel percorso dello sport internazionale verso la sua “riscrittura” televisiva. Citiamo un episodio particolarmente significativo: al termine dei 10.000 metri piani, gara in cui aveva appena conquistato la medaglia d’oro, l’atleta Virén si esibì in un lento e trionfante giro d’onore a piedi nudi facendosi seguire da vicino dalle telecamere che, in quel frangente, non mancarono di concedere primi piani al marchio Adidas delle scarpette che Virén portava con sé in trionfo. Questo aneddoto è stato giustamente posto a confronto con la più contenuta manifestazione di gioia del vincitore della maratona olimpica di Tokyo del 1964, Abebe Bikila, che si inchinò a terra quattro volte in direzione dei quattro punti cardinali con un gesto semplice, istintivo, certamente non pensato ad hoc per la diretta televisiva. Un fatto successivo nel tempo, ma molto simile, riguarda la sensazione di gioia, orgoglio e rabbia insieme che Diego Armando Maradona, durante i Mondiali di calcio Usa ’94, decise di condividere non con i compagni di squadra o con la sua panchina, bensì con milioni di spettatori, guardando direttamente nella telecamera più vicina.

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In questo percorso di trasformazione dello sport, un’altra tappa fondamentale si compie con il perfezionamento delle tecnologie. Le tecniche della computer graphics, della moviola, le moderne telecamere aeree, le microapparecchiature, l’alta definizione, il sonoro a bordo campo, addirittura una telecamera fissa sulla panchina, arricchiscono progressivamente le possibilità di visione del telespettatore, che può non solo compartecipare emotivamente all’esperienza del pubblico presente nelle arene o sugli spalti o ai bordi delle piste automobilistiche, ma può rivedere le azioni salienti da più angolazioni o godere di replay esemplificativi per episodi dubbi e persino accedere a zone del campo di calcio tradizionalmente oscurate alla vista ed escluse dal sonoro perché lontane dallo svolgersi del gioco (la panchina, la porta, la tribuna). Con tali strumenti a sua disposizione, la televisione abbandona la riproduzione oggettiva dell’evento agonistico per rielaborare il fatto sportivo secondo nuove vesti, ritmi, spazi del tutto televisivi. L’evento sportivo diviene così preda del mezzo televisivo che lo ingloba, per proporre al pubblico un discorso fortemente autoreferenziale. Questa “vampirizzazione” di cui si rende protagonista il mezzo elettronico è particolarmente evidente durante la trasmissione di appuntamenti internazionali globalizzati come i vari tornei calcistici o i Giochi Olimpici. Ai Mondiali di calcio del 1986 svoltisi in Messico, per esempio, gli orari delle partite vennero stabiliti in base alle esigenze delle televisioni europee e ai momenti di massima audience (anche se questo comportò per i giocatori lo sfidarsi con i 40 gradi del solleone), e il ricorso a strumenti digitali fu per la prima volta veramente ampio. Grazie a un replay in successione computerizzata, in cui l’azione veniva inquadrata da una prospettiva del campo opposta rispetto all’inquadratura della macchina

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da presa, il pubblico in mondovisione poté constatare l’errore arbitrale che portò a convalidare il gol di mano segnato da Maradona all’Inghilterra (la famosa «mano de Dios»). Se in questo caso l’errore era ormai irreparabile, in altri frangenti la possibilità di rivedere le azioni sportive ha portato a modificare decisioni già prese, e quindi ad intervenire a posteriori su gare il cui esito era già stato determinato dalle prove degli atleti e dall’abilità dimostrata: dopo i Mondiali di atletica del 1987, per esempio, Giovanni Evangelisti venne squalificato e perse così la medaglia di bronzo a seguito di un’irregolarità riscontrata nelle riprese televisive. Ma cosa sta davvero succedendo allo sport? Cosa gli sta facendo la televisione? Succede che il sempre più serrato rapporto con la televisione mette in crisi molte concezioni che abbiamo su di lui. Per esempio, il fatto che lo sport abbia ancora un immaginario legato al mito del campanile, della competizione, della lealtà e serva per inscenare i drammi formali che assillano i sogni di una comunità. Niente di tutto questo: gli scenari futuri disegnano un mondo dello sport dominato e condizionato dalle esigenze televisive; uno sport sempre più praticato in funzione delle telecamere, uno sport svuotato del suo storico immaginario. La televisione sta diventando padrona assoluta dello sport, facendolo slittare in modo definitivo dalla sua area naturale a quella dello show business. C’è il rischio concreto che, un domani, si affermi uno sport dei “ricchi”, fatto per la televisione e arricchito dai miliardi della televisione, e uno dei “poveri”, per coloro che conservano ancora una idea romantica dello sport, praticato in qualche assolato e deserto stadio di periferia. Decisiva nello strutturare il rapporto tra calcio e televisione è, come si è detto, la tecnologia. Pensiamo per

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esempio all’alta definizione, portata nelle case degli italiani dalla televisione a pagamento. Vedere una partita di calcio in HD (ripresa, tra l’altro, con telecamere di nuova generazione) non è come essere sul campo, è qualcosa di più. È un’esperienza sensoriale che segna la massima distanza finora raggiunta tra la visione da stadio (essere sul posto, ma godere di un solo punto di vista) e la visione da grande schermo: una distanza ormai abissale, come se si assistesse a due diversi eventi. O seguire il Tour: diventano quasi più interessanti i dettagli che si riescono a cogliere (le strade, i boschi, la faccia della gente, un campanile sbrecciato...) della corsa stessa. O andare (stando a casa) al cinema. Una volta si diceva «quel film lo puoi vedere solo su grande schermo perché la televisione lo uccide»; è vero, anzi era vero, prima dell’HD. La prima esperienza italiana con l’HD è stata nel 1990. In occasione dei Mondiali di calcio, all’Auditorium di Corso Sempione in Milano, la Rai organizzò per la partita Italia-Uruguay la prima visione in alta definizione (Hdtv, High definition television). Sembrava un miracolo: schermo piatto, un segnale la cui definizione viaggiava a 1250 linee (contro le 625 abituali), 12 telecamere, possibilità di cogliere anche la disposizione degli uomini in campo (l’Hdtv permetteva allora scarsi replay). Certo, allora l’emozione fu grande perché per la prima volta veniva rotto un tabù. Il difetto del calcio in televisione, si teorizzava, è che la telecamera considera come soggetto principale della partita il pallone, per la ristrettezza del campo d’immagine segue solo quello e lo spettatore perde tutti i movimenti tattici di una squadra. Ebbene, allora, con l’alta definizione, si vedevano anche i giocatori lontani dalla palla. Le Olimpiadi invernali di Vancouver 2010 hanno rappresentato il trionfo dell’alta definizione. La grande

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novità di Vancouver è consistita nel fatto che Sky ha trasmesso le gare su cinque canali, in modo che l’utente potesse scegliere quale seguire tra quelle che si sovrapponevano per motivi di orario. Le Olimpiadi rappresentano sempre un punto di osservazione privilegiato sull’evoluzione tecnologica del mezzo: mentre la Rai trasmetteva su Raitre in maniera tradizionale (antologizzando o incaricandosi della scelta della disciplina) secondo i canoni della televisione generalista, RaiSport­ Più dedicava il suo canale del digitale terrestre alla manifestazione (visibile anche in streaming). Sempre però nei limiti del canale unico. È ormai evidente che da quando esistono in Italia le offerte di televisione a pagamento, il racconto dello sport si è progressivamente spostato dai canali generalisti del servizio pubblico ai canali tematici del satellite o del digitale terrestre, che offrono più scelta, ritmi narrativi più dinamici e tecnologie di ripresa all’avanguardia. 4.3. I generi neotelevisivi Sul finire degli anni Ottanta si è verificata una svolta radicale nella televisione italiana. Che non ha coinvolto soltanto programmi come Chi l’ha visto? o Telefono giallo, ma più in generale l’intera linea editoriale di Raitre. Nasceva infatti la cosiddetta “tv verità”: pareva fosse finita l’era della televisione come totale finzione, tutta lustrini e paillettes. Era finalmente giunto il tempo di una televisione che aveva il coraggio di andare per le strade, di rappresentare la realtà così com’era. Il direttore di Raitre Angelo Guglielmi si richiamava a modelli “alti”, in particolare a Pier Paolo Pasolini: «Raccontare la realtà attraverso la realtà». Successe veramente questo? I programmi di Raitre raccontarono la

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realtà mostrando la realtà? O piuttosto non si verificò un cambiamento ancora più radicale? Ciò che accadde fu che, per la prima volta, la televisione cominciò a far vedere non tanto la verità del fatto – i fatti, cioè, sottratti al reale –, ma se stessa nel momento in cui si realizzava. La televisione, “giocando” a mostrare la realtà, ha mostrato se stessa, ha fatto cadere quel retroscena che prima era una sorta di zona off limits, invisibile, di cui non bisognava sapere niente. Dietro a questo cambiamento agiva un’astuzia: accompagnare con un apparato teorico i nuovi programmi, non più lasciati a se stessi, al loro semplice impatto sul pubblico, alla loro forza emotiva. Si parla di “tv verità”, di “neo-neorealismo”, di nuova narrativa popolare. Per esempio, nel caso di Chi l’ha visto? (un programma del 1989 dedicato alla ricerca delle persone scomparse, ai rapimenti, ma anche alle fughe volontarie), Angelo Guglielmi faceva riferimento alla grande letteratura popolare dell’Ottocento. La tv verità compiva insieme tre gesti fondamentali: esibiva “la verità”, mostrava se stessa nel suo farsi e si presentava accompagnata da un apparato teorico. Tanto per mettere un po’ in soggezione i giornali che cominciarono a riempirsi di concetti astratti, a dare voce non soltanto alle star del piccolo schermo, ma anche ai suoi “realizzatori”, ai produttori al lavoro dietro le quinte. Di questa aura di tv verità hanno goduto molti programmi dell’epoca: quelli che invece non possedevano le “istruzioni per l’uso” erano di solito destinati alla pubblica esecrazione. Come i talk e i reality show, nati dalle stesse premesse della televisione verità, che hanno progressivamente colonizzato i palinsesti della televisione generalista degli anni Novanta e del primo decennio del Duemila. Il fondamento teorico della tv verità e del-

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la reality tv è il medesimo: la prassi comunicativa che presenta come “veri” e “contemporanei” i personaggi, le location e gli eventi intorno a cui vengono costruiti i programmi, cui possiamo assistere “in diretta”, nel farsi stesso degli avvenimenti. Pretesa di realtà dunque, a cui si associa la sapiente miscela di ingredienti tratti da generi televisivi classici, con cui essi si ibridano (talk show, game show, varietà tradizionale, ecc.). Sul finire del secolo scorso, molta letteratura di taglio sociologico dedicata alla televisione ha parlato di prostituzione dello sguardo, di oscenità del vedere, di ipervisibilità iperrealista14. Termini forti, accompagnati da un curioso equivoco di fondo nel quale sono caduti in molti: una sorta di errore di strabismo che ha portato a confondere il reality con l’intera televisione. L’oggetto della massima esecrazione, assunto a punto di riferimento critico, diventa tale da non essere più riconosciuto come un genere in mezzo ad altri generi. Tutte le teorizzazioni, anche interessantissime, sulle oscenità del vedere, sul richiamo dell’uomo qualunque in televisione, sulle zone meno esplorate del video; tutte le attenzioni non più rivolte alla nobiltà dello spettacolo – a qualcosa che bisognava costruire con professionalità e che richiedeva tempo, preparazione, prove – sottolineavano l’instaurarsi di una sottile forma di controllo sociale. In una sorta di panoptismo, la società non ha più zone d’ombra: la nuova trasparenza rappresenta la forma più perversa di dominio. Col tempo, il mito della “tv verità” si è progressivamente offuscato. Oggi conta sempre meno che la televisione 14  Si pensi in particolare alle posizioni di Jean Baudrillard. Cfr. per esempio J. Baudrillard, Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano 1996.

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“dica il vero”, conta sempre di più che la televisione, nel suo insieme, sia percepita come vera. Questo è il grande snodo della televisione generalista contemporanea. Da un punto di vista antropologico, c’è da considerare un altro fattore essenziale: come già detto, il reality show cerca di traghettare storie di gente comune, di farle uscire dall’anonimato in cui generalmente vivacchiano, di portarle alla ribalta del video e farle esplodere. Ovviamente non lo fa – come qualche trasmissione ha provato a farci credere – per senso filantropico, né ricorrendo – come voleva suggerirci Angelo Guglielmi – a quelle strutture narrative consolatorie che garantivano la fortuna del romanzo ottocentesco. Lo fa invece per qualcosa di molto più pratico. Come la cosiddetta “gente comune” si trasforma in personaggio? Spogliandosi della propria identità e accettandone una nuova, ridefinita dalle regole della televisione. La televisione moderna non cerca nello spettatore l’individuo, cerca semmai il suo individualismo, quella forza, cioè, che lo può spingere a uscire dall’oblio. Per questo, nelle forme più varie, spesso anche nelle forme più deprecabili, il reality show si è assunto un compito molto curioso: dare voce alla parola “debole”, laddove la parola “forte” viene espressa dal talk show. Il talk show oggi è diventato il luogo dove si discute di politica, dove si affrontano i grandi temi della società e dei suoi processi trasformativi; tutto ciò, insomma, che rappresenta, per una nazione, la parola “forte”. Al contrario, il reality rappresenta il luogo della parola “debole”. Il reality è dunque un’idea di realtà; non un progetto sociale, ma un semplice format. Questa è la differenza sostanziale: un progetto ambisce a cambiare la realtà, mentre il format si accontenta di sfruttare al massimo la televisione. Per questo, ribaltando l’ordine

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cronologico, parliamo prima del reality, e della sua epifania più famosa, il Grande Fratello, e poi del talk. 4.3.1. Il reality   Big Brother è un format televisivo creato nel 1997 sul modello di un surveillance show, uno show basato su un meccanismo di sorveglianza e controllo, dagli olandesi John De Mol e Paul Römer, venduto e trasmesso in moltissimi paesi sul finire del secolo scorso, e rivelatosi quasi ovunque un grande successo di pubblico nonché, di frequente, un caso discusso sui giornali fra innumerevoli polemiche. Nato dall’idea di un microambiente ecologico autosufficiente e abitato da un piccolo gruppo di uomini e donne, isolati dal mondo per un lungo periodo di tempo, Big Brother è un format in bilico fra un voyeuristico reality show, un game show giocato al ritmo di nomination ed eliminazioni in grado di far emergere concorrenzialità e individualismo (e talvolta persino cattiveria) dei partecipanti, e un talk show destinato a tradurre in curiosità e chiacchiera gli avvenimenti della Casa, soprattutto se legati ai sentimenti, al sesso, alla dimensione melodrammatica. In Big Brother la commistione dei generi raggiunge l’esito più estremo: un ibrido che pretende l’oggettività (come nella tv verità) ma che, per l’artificiosità della situazione, ne è l’esatta negazione. L’altra caratteristica strutturale del format è il suo distendersi multimediale, la sua dimensione convergente: la televisione generalista, con il talk show settimanale, riorganizza un discorso sulla vita nella Casa e si propone come centro d’interesse per il meccanismo delle nomination e delle eliminazioni (ogni concorrente deve esprimere delle nomination sui compagni che vorrebbe veder uscire dalla Casa; in ogni puntata un concorrente è costretto a uscire dopo essere stato sottoposto al giudizio del televoto; chi resta fino

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alla fine vince un consistente premio in denaro). Ma il flusso delle immagini senza conduttore, riorganizzato dal montaggio nelle strisce quotidiane oppure offerto alla libera e sempre disponibile fruizione dello spettatore sulla pay tv o sul web, rappresenta l’altro lato del programma. In Italia Big Brother approda su Canale 5 nella stagione 2000-2001, con la produzione della Aran Endemol di Marco Bassetti e la conduzione del talk show settimanale affidata a Daria Bignardi, brava nel raffreddare una materia di per sé incandescente. All’inizio, il Grande Fratello è stato una eccezionale cerimonia di iniziazione: per dieci persone, s’intende, ma anche per tutto il pubblico che ha variamente seguìto il noviziato. In un periodo limitato, un manipolo di nuovi eroi, o più semplicemente di tipi, è passato dall’anonimato alla notorietà (l’aspirazione principale della nostra società), come succede in altre trasmissioni dedicate alla gente comune, sebbene con fasi molto più lunghe e intermittenti. Chiamati a superare alcune prove, a dimostrare la loro povera sintassi interiore, a stringere alleanze, a “conoscersi”, a odiarsi, i dieci “reclusi” di Cinecittà si sono abbeverati alla fama, più nel suo principio che nel suo dispiegarsi, indifferenti verso ogni forma, verso ogni qualità. Ma quel gruppo è la società tutta; la Casa del Grande Fratello, spesso svillaneggiata, è il luogo in cui è possibile racchiudere l’intero corpo sociale. Per questo il GF è anche una brillante metafora sociale. Il programma mette in scena alcune modalità espressive e alcuni modelli di comportamento molto efficaci per capire le trasformazioni in atto nella società. La caricatura della grande fratellanza, messa in atto da gruppi di concorrenti, sta per esempio a indicare che in certi conflitti sociali non c’è più vertice, non c’è più centro. Il GF è un processo mediatico complesso quanto un

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mosaico, che ibrida media (da Internet alla radio, dai giornali al telefonino), accumula e mescola linguaggi e generi televisivi, suscita le più difformi parodie, produce notizie, titoli, servizi, commenti, racconti paralleli, psicodrammi collettivi. Più interessante come processo e come generatore di discorso che come prodotto, a volte noioso, come sa essere noioso il quotidiano, soggiogato dalle miserie delle nostre storie individuali, ma spesso avvincente, quasi seguisse un copione scritto da una mano antica e sapiente. In realtà, nei reality il casting è tutto: se hai azzeccato i concorrenti, il più è fatto. Basta aspettare, puntata dopo puntata, dentro e fuori, sperando che almeno un’ossessione si converta in espressività. Il GF ci pone di fronte a una situazione televisiva inedita: per tre o più mesi viene attivato un laboratorio di situazioni comportamentali (alleanze, amicizie, incontri, scontri, confronti), una grandiosa seduta di autocoscienza che curiosamente intercetta un bisogno esteso, uno psicologismo già molto diffuso nei giornali (qualunque cosa succeda, si chiede subito il parere alla psicologa). Questo laboratorio – e qui sta la grande novità – è multiforme e insieme multimediale: funziona sulla televisione generalista, su Sky, su Mediaset Premium, su Internet, sui cellulari. A ogni pubblico corrisponde una diversa modalità di fruizione: si intrecciano le storie dei protagonisti ma si intrecciano anche le diverse disposizioni d’animo con cui seguire le storie. Per molti è diventato un gioco di società (e di ruolo), un divertimento da spartire con i colleghi d’ufficio: per chi tifi? Con chi stai? Hai visto la bastardata di quei due appena lei se ne è andata? E così via. Per altri, il GF è una soap opera senza trama, un talk show senza conduttore, padre e padrone, un flusso di coscienza che finalmente si sposa con il flusso televisivo, un notevole

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salto in avanti della televisione. Per altri ancora è una fucina di mascalzonate da svergognare in pubblico: i ragazzi sono eterodiretti, seguono un copione, recitano spudoratamente, lo fanno per soldi. Anche i demistificatori più spietati, però, sono costretti ad ammettere che il GF esaspera un’attitudine già molto sfruttata. Lo psicologismo che domina gli attuali programmi è dovuto essenzialmente a due fattori: da una parte, molte persone comuni ambiscono apparire, con tutto quello che ne consegue, perché sono convinte che apparire equivalga a esistere, e pur di accedere alla ribalta sono disposte a spogliarsi delle caratteristiche che fino ad allora le avevano costrette nell’ombra. Dall’altra, molti conduttori non cercano nei loro ospiti l’individuo (ma figuriamoci!), semmai l’individualismo, quel comportamento cioè che spinge il singolo a uscire dal gregge. Tutti sappiamo che i protagonisti del GF recitano (perché sono spiati da sessanta telecamere, perché seguono le regole di un gioco, perché vivono esposti dentro un set televisivo, perché hanno già visto altre edizioni del GF) ma sappiamo anche che recitano in senso pirandelliano, interpretano cioè le parti di un’esistenza costrittiva dove l’attività principale è confessarsi. Nel format del programma esiste un luogo specifico che si chiama appunto «confessionale» (così in Italia e in Spagna, paesi cattolici, mentre in Olanda si chiama «stanza dei segreti» e in Germania «parlatoio»). Nella Casa del GF non c’è molto da fare: mangiare, dormire, provvedere alla pulizia delle stanze e del proprio corpo, ma soprattutto parlare, parlare, parlare di sé. Lo spettatore, da tempo deprivato di esperienze estetiche, non guarda più la televisione per giudicare la bontà o meno di uno spettacolo ma per giudicare il simulacro di vita che lì vi scorre. Nulla come l’avversione o la parodia rende grande

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un testo. Soprattutto nelle ultime stagioni (nel 2010 è andata in onda la decima su Canale 5), a decretare il vero successo del GF non sono gli ascolti ma il numero infinito di attacchi e di prese in giro allestite in particolare dal suo spin off comico, Mai dire Grande Fratello. Il programma, ideato dalla Gialappa’s, ha permesso a molti di aggirare la retorica negativa che accompagna la visione del reality, fornendo un alibi di “comicità intelligente” al consumo del GF. E a decretare il successo del reality è arrivato ultimamente un nuovo sottogenere: il talent show. Negli ultimi trent’anni, la televisione generalista ha “inventato” essenzialmente tre grandi generi: il talk show, il reality e il talent show. I tre generi sono intimamente legati tra loro, sia pure con caratteristiche differenti. Il talk è servito soprattutto per dare voce a chi aveva difficoltà ad apparire in televisione e a traghettare la famosa “gente” da un ruolo passivo a uno più attivo; il reality è il post-moderno di massa, l’assoluta indistinzione tra televisione e realtà, «tra realtà bruta e realtà formatizzata», come ha giustamente spiegato Walter Siti15; da una costola del reality è nato il talent show che, paradossalmente, ha il compito di riportare la professionalità in televisione, dopo anni in cui sono salite alla ribalta molte persone “senza mestiere”, al più fenomeni da baraccone. Il talent show, la cui forma iniziale risalirebbe alle gare di studenti nei college, ha avuto la sua consacrazione cinematografica nel film Fame (Saranno famosi, 1980), storia di alcuni studenti della High School of Performing Art di New York che, a sua volta, ha dato origine alla omonima serie tv (1982-1987, Nbc), vera matrice di  W. Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2006.

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tutti i format del genere e delle loro localizzazioni nazionali: American Idol, Pop Idol, The X Factor, Popstars, Operación Triunfo, Amici, Ti lascio una canzone, ecc. Nel 2009 American Idol, versione statunitense del talent show più famoso del mondo, ha incoronato vincitore dell’ottava edizione il cantante Kris Allen, che ha raccolto qualcosa come 100 milioni di voti e altri 24 milioni di audience. Ma la cosa strana è che tutti davano per superfavorito l’altro contestant, Adam Lambert, la cui voce era stata considerata la migliore di sempre tra i concorrenti della trasmissione, impressionando giudici e spettatori. Cos’è successo? E, soprattutto, cosa ci insegna questo nuovo corso della televisione? È successo che ha vinto la televisione generalista. Allen è un tipo normale, il classico average joe (“bravo ragazzo”), dotato di capacità canore ma privo di personalità. Il giovane studente dell’Arkansas è un ragazzo timido, rimasto per tutta la stagione lontano dai riflettori e dalle copertine delle riviste: «Dici sul serio? No, davvero?», ha reagito Allen al presentatore Ryan Seacrest che gli comunicava l’esito della finale. Adam Lambert, ventisettenne di San Diego, è invece il primo personaggio di American Idol che ha appassionato spettatori che normalmente non seguono lo show, persone che di norma vanno ai concerti dei Led Zeppelin, di Bruce Springsteen, tanto per farci capire, quelli che hanno votato Obama e non Sarah Palin, quelli che amano il rock e non il country. E per la prima volta American Idol ha catturato un pubblico più trasversale, meno scontato. Ma Adam Lambert è stato il vincitore dell’altra televisione, quella che si vede su YouTube (anche se, dopo un exploit iniziale, molti brani sono stati rimossi per intervento delle major, a tutela dei diritti d’autore). Il pubblico più tradizionale ha dunque votato il personaggio più tradizionale, mentre il pubblico più gio-

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vane e innovativo, quello di YouTube, quello orfano di Mtv che ormai si dedica solo ai reality, ha consacrato il giovane di talento. La figura del “soccombente” ci aiuta a capire meglio la differenza tra talent show americano e italiano. Adam Lambert, nelle considerazioni dei critici, è un personaggio legato alla teatralità di Broadway, free-spirited californian, dotato cioè di un talento creativo e musicale difficile da gestire per l’industria televisiva, difficile da portare (se proprio vogliamo fare un esempio italiano) al Festival di Sanremo. In Italia, per ragioni economiche e peculiarità culturali, il talent diventa invece una sorta di lungo reality, con serate interminabili, liti continue, giudici che rubano spazio ai concorrenti. Per non parlare di Amici di Maria De Filippi (la prima però che ha intuito le potenzialità del genere), che si configura come un’istituzione retta da una strana pedagogia volta alla cattiva creanza. Il talent italiano crea ascolto ma non scrittura. Le puntate di American Idol sono invece molto più tecniche: canzoni dal vivo, partecipazione di grandi star e commenti degli esperti: la verbosità del talk è rigorosamente bandita. Il “dietro le quinte” è spostato su altri canali come E-Entertainment o abbandonato all’attenzione maniacale dei siti web. 4.3.2. Il talk show      È consuetudine far coincidere la nascita del talk show in Italia con Bontà loro di Maurizio Costanzo (18 ottobre 1976), e leggenda vuole che sia stato Angelo Guglielmi il regista occulto dell’operazione. Con un budget ridotto ed elementi scenografici quanto mai scarni (le famose tre poltroncine color aragosta per gli ospiti e lo sgabello mobile per il conduttore), la trasmissione inaugura un fenomeno destinato a dilagare e a diventare modello di ogni discorso televisivo: il

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bisogno di confessarsi in pubblico. Da questo momento anche i personaggi più schivi sono disposti (o costretti dall’abilità del conduttore) a mettere a nudo i propri stati d’animo. La “messa in discorso” di ogni problema diventa una delle principali strategie di controllo del sociale e insieme di sottile sabotaggio delle certezze e delle impalcature ideologiche che ci attorniano. Inizia così una sorta di dominio della parola sulla cosa, un indefinito propagarsi della voce sull’immagine. Naufraga il modello colto del talk show (Match, condotto nel 1977 da Alberto Arbasino, o Sotto il divano, del 1979, con Adriana Asti) e vince invece quello della gente comune, quello degli ospiti che cercano nella platea televisiva il riscatto sociale, il certificato di esistenza: Acquario, 1978; Grand’Italia, 1979; Maurizio Costanzo Show, 1982; Pronto Raffaella?, 1983 (la congiunzione in video con il modello radiofonico); Samarcanda di Michele Santoro, 1987 (l’abbassamento del politico al privato). Vince anche il modello della rissa o del discorso da bar: l’archetipo è rappresentato dal Processo del lunedì di Aldo Biscardi (1980), capostipite di numerose trasmissioni su televisioni locali e nazionale. Inutile però sottolineare che il talk show in Italia si è a lungo identificato essenzialmente con Maurizio Costanzo. Il talk show è un centro di potere o, meglio, è una formidabile macchina narrativa che produce storie a basso costo (appetite dai pubblicitari) e insieme instaura una forma di controllo sulla vita delle istituzioni come nessun’altra trasmissione televisiva riesce a fare. È curioso che la sua influenza sia inversamente proporzionale al budget, almeno se confrontata con il resto del palinsesto. Come sottolinea Walter Siti nel suo romanzo Troppi paradisi, «il talk-show, e il reality, fanno con l’arte narrativa qualcosa di più e di qualitativamente diverso che “sfruttarla”, come invece fanno gli altri generi

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televisivi che comunque alla letteratura si richiamano, come i programmi culturali sui libri o i romanzi sceneggiati. Che cosa fanno, dunque? Per prima cosa, la fanno entrare in corto circuito con la vita reale... Anziché “sfruttare” la letteratura, il talk e il reality sembrano inventati dal nuovo Potere per neutralizzarla, per dichiararla antiquata, noiosa e forse terroristica»16. Umberto Eco ha cercato per anni, sulle pagine del­ l’«Espresso», di dar vita a un confronto con la televisione americana, sia per definire il genere del talk, sia per capire l’insorgenza di un fenomeno che stava dilagando sui palinsesti e trasformando la natura “spettacolare” della televisione. Eco ha ricordato in un suo articolo per «l’Unità»: «Agli inizi degli anni Settanta ricordo che pubblicavo una rassegna sui talk show americani, come luoghi di una conversazione civile, spiritosa, che poteva tenere gli spettatori inchiodati a tarda notte davanti al video, e li proponevo appassionatamente per la televisione italiana. Dopo, appariva sempre più trionfalmente sui teleschermi italiani il talk show che, però, a poco a poco diventava luogo di uno scontro violento, talora anche fisico, scuola di un linguaggio senza mezzi termini (a onor del vero una evoluzione del genere si è avuta parzialmente anche in alcuni talk show di altri paesi). Così la televisione diventa la prima fonte di diffusione delle notizie». Figlio primogenito, comunque prediletto, specchio e compendio, il talk show è il prodotto tipico della neotelevisione e neogenere per eccellenza. Il termine neotelevisione, com’è noto, descrive il tramonto della “paleotelevisione” del monopolio di Stato, e definisce i mutamenti in campo televisivo derivanti dall’avvento dei network privati e in particolare il conseguente   Ivi, p. 354.

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assoggettamento delle televisioni, pubbliche e private, alla logica concorrenziale e commerciale17. Curiosamente la neotelevisione e il talk show – perlomeno il primo vero talk show italiano, Bontà loro, nel quale Maurizio Costanzo ha indossato per la prima volta i panni del talk show man – nascono insieme, come abbiamo visto, verso la metà degli anni Settanta. I natali in comune assicurano una comunanza di tratti e di caratteristiche. La prossimità (la dimensione del quotidiano che informa, per la maggior parte, gli attuali palinsesti), la convivialità (cioè l’insistenza retorica sul valore dello “stare insieme”) e il flusso continuo (con il conseguente sincretismo) sono le peculiarità proprie della neotelevisione, fatte proprie in toto dal talk show. Ciò che conta nella neotelevisione è l’interazione, i suoi protagonisti e l’intimità che si stabilisce tra di essi. Sono, queste, anche le modalità comunicative connotanti il talk show. Se la paleotelevisione si qualificava per la volontà di trasmettere contenuti, la neotelevisione, preoccupata di costruire rapporti comunicativi, esorta continuamente una relazione empatica e fiduciaria con il telespettatore e con la sua rappresentazione televisiva vicaria, il pubblico in studio. La coloritura affettiva dell’appello è nel talk show particolarmente esplicita: il contatto con il destinatario è sollecitato ripetutamente, attraverso atti linguistici – invocazioni, evocazioni, richiami – e soprattutto attraverso l’interpellazione, cifra stilistica assai frequente. Le chiacchiere regnano sovrane, il dialogo la fa da padrone. La natura dialogica del talk show è resa evidente dalla distinzione dei due ruoli comunicativi – chi pone

17  Eco, Sette anni di desiderio, cit.; Casetti, Odin, De la paléo à la néotélévision, cit.

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domande e chi fornisce risposte, che metaforicamente rimandano a chi costruisce il testo e a chi lo fruisce – ed è essenziale al costituirsi e allo svolgersi di una trasmissione di questo genere. L’insistenza sull’interazione e sui suoi protagonisti viene enfatizzata attraverso l’evidenziazione delle presenze che “fanno” e che “guardano” il programma18. La verità della trasmissione è più importante della verità di ciò che viene trasmesso; di conseguenza la costruzione del programma viene messa in rilievo in ogni modo: attraverso lo sguardo in camera e attraverso l’esibizione delle tecnologie di ripresa. Nel talk show ciò avviene continuamente. Si sprecano i riferimenti alle tecniche di ripresa da parte del conduttore, il quale spesso fornisce indicazioni alla regia, manifestandone la presenza. In alcuni casi i tecnici assurgono alla dignità di “divi” televisivi: gli affezionati telespettatori del Maurizio Costanzo Show ormai conoscevano, in virtù della lunga frequentazione virtuale, il seduttivo cameraman Valentino e il debole per il gentil sesso del maldestro microfonista Schultz. E anzi l’enfasi sul “dietro le quinte” era proprio una delle principali caratteristiche del Maurizio Costanzo Show; basta ricordare l’espressione tipica dell’anchorman: «mi fanno cenno che...» riferita ai suggeritori fuori campo e denotante il fuori campo tout court19. Ogni gesto, ogni parola del talk show rassicura sulla confidenzialità e sulla domesticità dello spettacolo (è lo stesso spettacolo a farsi “domestico”, anche attraverso l’acquisizione di familiarità con i fautori del pro18   Tali presenze costituiscono dei rimandi espliciti della situazione enunciazionale. L’evidenza dell’enunciazione è una caratteristica tipica della neotv, già sottolineata da Eco in TV: la trasparenza perduta, cit. 19  Sul Maurizio Costanzo Show si veda G.P. Caprettini, Totem e tivù: cronache dell’immaginario televisivo, Marsilio, Venezia 1994.

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gramma); ogni mossa concorre a creare quell’atmosfera intima e intimistica essenziale allo svolgersi del talk. Il salotto televisivo è il luogo che, più di ogni altro, incarna l’esigenza neotelelevisiva di creare una comunicazione affettiva con l’audience, di stabilire un rapporto conviviale; attraverso il talk show la neotelevisione mette in scena la relazione fiduciaria che vuole intrattenere con il telespettatore. Magari pagandogli qualche prezzo, svelandogli qualche retroscena, invitandolo “dietro le quinte”: tutto avviene in un unico spazio simbolico comunitario, nessun luogo è interdetto, nessuna barriera si frappone al desiderio di “stare insieme”. Curiosamente, per osmosi familiare, il testimone del genere è passato negli ultimi anni da Costanzo (il Maurizio Costanzo Show ha chiuso i battenti nel 2009) a sua moglie Maria De Filippi, che conduce su Canale 5 Uomini e donne. La trasmissione è iniziata nel 1996 come un talk show, una discussione a tema, il cui argomento viene scenograficamente esibito con una scritta, una disamina che coinvolge i protagonisti della vicenda e il pubblico in sala. Uomini e donne è l’ennesima testimonianza del fatto che il talk show ha sostituito il confessionale, è la volgarizzazione della seduta d’analisi, la laicizzazione della sfera privata. La nostra è la società del “parliamone” e Uomini e donne era alle origini un talk calibrato e duro. Funzionava perché in onda tutti i giorni, perché serializzava le esperienze quotidiane e le trasformava in un racconto familiare, perché si serviva degli ospiti in studio in chiave drammaturgica: parlando “per esperienza diretta” consentivano al pubblico di casa di sentirsi parte viva della storia che in quel momento andava in onda. Quanto a Maria De Filippi, si è da subito rivelata un vero stantuffo narrativo; con la sua voce da basso con-

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tinuo sorreggeva la narrazione, incalzava i protagonisti, dettava il ritmo di quei frammenti di vita vissuta. La sua conduzione era una sceneggiatura in tempo reale. Come si è detto, il programma era partito come un talk show, ma in itinere si è trasformato in soap, in rea­ lity, in una estremizzazione di una realtà tipicamente romana, mettendo in scena il rituale del corteggiamento tra i partecipanti, chiamati a scegliere nel corso delle puntate l’anima gemella. Ha scritto Carlo Freccero per spiegare questa evoluzione: «Bisogna procedere per aggiustamenti progressivi utilizzando insieme materiale nuovo e già sperimentato. Uno degli artifici per introdurre il nuovo, senza correre rischi, consiste nell’utilizzare idee mai usate in quel contesto ma già sperimentate altrove»20. La De Filippi ha un sesto senso nel mettere in scena il pubblico che la segue (a prescindere dall’età) e nel sedurlo con esigui ma continui cambiamenti. Da Uomini e donne è nata poi una figura abbastanza inquietante, quella del “tronista”. Il tronista è un ragazzo, di solito un modello, che siede al centro dello studio su uno scanno da trovarobato e diventa oggetto di corteggiamento da parte di un gruppo di ragazze. Il più famoso è stato Costantino Vitagliano, che ha persino teo­rizzato le basi della sua nuova professione: «Il termine tronista non è sinonimo d’amore, ma descrive chi vuole entrare nel mondo dello spettacolo e, perché no, tenta di trovare la donna della sua vita giocando. Da quattro mesi faccio altro, ma Uomini e donne di Maria De Filippi è stato il mio trampolino di lancio». Costantino e i suoi simili hanno rappresentato l’ultima incarnazione del mito del 20  C. Freccero, Il condizionamento dell’audience, in Treccani: il libro dell’anno 2002, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2002, p. 490.

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«buon selvaggio», strappato dalla barbarie e dal disagio dell’Anonimato e incamminato da Maria De Filippi, nelle vesti di Jean-Jacques Rousseau, sulla strada del Successo, moderna incarnazione della Ragione analitica. 4.4. L’informazione Fin dalle origini della televisione, l’informazione ha rappresentato una delle colonne portanti dei palinsesti, insieme all’intrattenimento e alla televisione educativa e divulgativa, sia nel contesto del servizio pubblico all’europea (il famoso motto programmatico della Bbc si articolava in tre punti: informare, educare, divertire) che in quello commerciale americano. Oggi i programmi informativi occupano una buona fetta del flusso di trasmissione e raccolgono platee di impressionante ampiezza. Molto più di quotidiani e riviste, l’informazione televisiva rappresenta il principale strumento di conoscenza del mondo per la maggior parte della popolazione. L’informazione costituisce un macro-genere che comprende testi di diverso formato e finalità: telegiornali, programmi “di servizio”, inchieste e documentari, rotocalchi e rubriche di approfondimento (di carattere politico, sportivo, religioso, culturale...), dibattiti e talk show, speciali, e quelli che sono stati definiti media events. Se volessimo trovare una definizione, potremmo dire che l’informazione è quel genere televisivo che si pone la finalità di offrire una rappresentazione credibile e veritiera della realtà, di mettere in scena lo spettacolo del mondo, di fare della televisione una finestra sulla società attuale. Anche la fiction può essere “realistica”, ma il suo universo – generato dall’inventiva di sceneggiatori e registi – vuole essere solo verosimile, mentre l’informazione afferma di ricercare la verità. Ciò non significa,

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ovviamente, che nell’informazione non coesistano scopi differenti (come quello, fondamentale, di intrattenere e divertire: essa è sempre più infotainment, informazionespettacolo) o spesso taciuti (come quello “pedagogico”, se non addirittura “propagandistico”), né che la televisione d’informazione sia effettivamente uno specchio trasparente dei fatti e della realtà. Una quantità incommensurabile di eventi accade ogni giorno nel mondo, e solo una piccolissima parte d’essi assurge a pubblica visibilità, diventa notizia o fenomeno degno d’osservazione grazie alla mediazione (cioè alla “messa in forma da parte dei media”) dei grandi organi d’informazione. Questi ultimi – siano essi agenzie di stampa, quotidiani o riviste, radio o televisione – operano una sistematica opera di selezione e discorsivizzazione sulla base di criteri precisi (detti news values), che definiscono la “notiziabilità” degli eventi21. Vi sono criteri comuni a tutti i mezzi d’informazione (come per esempio la preferenza per eventi «recenti, inattesi, chiari, rilevanti e vicini», legati alla vita politica ed economica nazionale o di paesi “importanti” – soprattutto Europa e Stati Uniti –, o alle vicende di persone note, o comuni nel caso di conflitti, violenza, episodi straordinari o storie accattivanti), e altri più specifici che riguardano particolari mezzi (per esempio la televisione, per la quale è fondamentale il reperimento di immagini filmate) o formati (per esempio il telegiornale, che in cinquant’anni d’esistenza, ha 21  La teoria dell’agenda setting è formulata in M. McCombs, D.L. Shaw, The agenda-setting function of mass media, in «Public opinion Quarterly», 36, 1972, pp. 176-187. Per un panorama esaustivo sugli studi relativi al newsmaking è utile C. Fracassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, Editori Riuniti, Roma 2007.

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definito norme piuttosto precise circa la selezione, l’impaginazione, la presentazione delle notizie). L’informazione ha rappresentato per lungo tempo il tratto distintivo e qualificante delle televisioni di tutto il mondo: il valore di una rete veniva giudicato in rapporto alla completezza e all’obiettività delle sue trasmissioni di informazione. Un network era il suo telegiornale. Ma dagli anni Ottanta, almeno in Italia, la diffusione delle reti commerciali ha determinato una crescita di importanza del genere dell’intrattenimento e una sua progressiva contaminazione con quello dell’informazione. Nonostante questi radicali mutamenti, l’informazione continua a rappresentare l’“anima nobile” della televisione; anche se tende sempre più spesso a ibridarsi con altre forme, rappresenta pur sempre un centro di potere, permette di influenzare l’opinione pubblica. Per questo, per restare in casa nostra, Rai e Mediaset hanno disseminato il palinsesto di appuntamenti con le notizie. Esistono gravi problemi che travagliano l’informazione televisiva mondiale (celebre e icastica la frase di Dan Rather, a lungo colonna portante dell’informazione sul network americano Cbs: «In video non si possono più fare interviste cattive, né inchieste spietate; bisogna leccare i c..., compiacere le masse, nel nome dell’audience non irritiamo più nessuno»), ma i nostri telegiornali sembrano deficitari, gravati non poco dalla coscrizione obbligatoria di quote di rappresentanza. Le news Rai, poi, sono storicamente cresciute sotto l’egida di ferree regole di impaginazione (il primato della politica, l’ossessivo dosaggio delle notizie, il mascherare la noia da obiettività, la dislocazione sapiente delle notizie scomode, ecc.) per cui mostrano difficoltà ad affrontare i cambiamenti che l’attualità impone. Da qualche stagione, per esempio, tutta la cultura

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politica, soprattutto quella istituzionale, ruota attorno ai talk di approfondimento, in particolare a Porta a Porta (Raiuno), il programma di Bruno Vespa che rappresenta l’essenza stessa dell’informazione ufficiale, al di là delle intenzioni dei singoli. Come tempo addietro era ruotata attorno al salotto di Maurizio Costanzo, il Costanzo Show. A proposito di informazione politica, la televisione italiana mostra uno dei suoi paradossi quando si avvicinano le elezioni. In Rai, uno dei servizi pubblici più funestato dalle ingerenze dei partiti, si applica infatti il “regime della par condicio”. La dizione par condicio è una formula giuridica che significa “pari condizione”, parità d’importanza: in video tutti i partiti politici, grandi o piccoli che siano, devono avere le stesse opportunità per dire chi sono e raccontare il proprio progetto. In sé parrebbe una decisione giusta; di fatto, si trasforma spesso in un atto liberticida, un torto morale ed economico alle aziende tv, un grande regalo che si fa alla maggioranza, qualunque essa sia. Per due motivi principali: applicare la par condicio a programmi consolidati e seguiti (i telegiornali, ma soprattutto i talk di approfondimento) significa anestetizzare la comunicazione, frammentarla, disperderla in mille insignificanti rivoli; non solo, ma la capacità di simili programmi (costruiti secondo i criteri astratti della par condicio) di spostare un solo voto è messa in dubbio da tutte le principali teorie della comunicazione politica. La vera campagna in televisione si gioca altrove, in quella vasta area, apparentemente innocua, dell’infotainment, dei talk di costume, degli opinionisti22. Molti analisti addossano alla par condicio la colpa dei 22  Si veda G. Mazzoleni, A. Sfardini, Politica Pop. Da «Porta a Porta» a «L’isola dei famosi», Il Mulino, Bologna 2009.

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mali dell’informazione politica che di solito precede le elezioni. La par condicio non è una causa ma un effetto di quella malattia devastante che Alberto Ronchey aveva battezzato, con un’espressione molto efficace, la lottizzazione. Vale a dire la spartizione sistematica da parte dei partiti dei settori informativi della Rai (e non solo informativi). Di qui il rischio che tutta l’informazione si tramuti, come purtroppo spesso è accaduto, in comunicazione partitica. Ma può davvero esistere l’imparzialità nell’informazione televisiva? O è una pia illusione, una nobile falsa coscienza? Non ci hanno sempre insegnato a combatter il mito dell’imparzialità, dell’informazione super partes e a coltivare invece un altro principio? Che è questo: il compito del giornalista non consiste nel convincere lettori e ascoltatori che egli sta dicendo la verità, bensì nell’avvertirli che egli sta dicendo la “sua” verità. Presentando un numero speciale di «Problemi dell’informazione» dedicato ai telegiornali, Fabrizio Tonello ha scritto: «Rimane largamente vero che in Italia il giornalismo televisivo appare assumere la sua legittimazione dalla funzione che esso svolge nei confronti del potere politico. Malgrado i tentativi di importare l’ideo­ logia di un giornalismo indipendente che stabilisca le priorità dell’azione pubblica e le imponga al sistema politico, Rai e Mediaset rimangono due aziende dove gli interessi politici dei due editori di riferimento continuano a prevalere sulle considerazioni commerciali o sul giudizio indipendente dei giornalisti»23. Ecco ben circostanziata la pecca storica del giornalismo televisivo italiano: non ha mai svolto una funzione di vigilanza 23  F. Tonello, Autopsia del telegiornale, in «Problemi dell’informazione», 3, settembre 2000, pp. 257-277.

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sulle istituzioni nel solco della tradizione anglosassone, non ha mai saputo rivendicare una chiara autonomia rispetto al potere politico. Sebbene i telegiornali siano la fonte informativa più importante del paese. Da un po’ di tempo poi, nel giornalismo televisivo l’effetto spettacolare è prevalso sui contenuti dell’informazione. E questo ha complicato non poco i parametri di giudizio. Basta infatti accendere il televisore per accorgersi che è andato in crisi il giornalismo tradizionale e sta trionfando il giornalismo varietà. Dalla nascita della televisione commerciale, la tendenza alla spettacolarizzazione ha investito tutti i generi televisivi producendo programmi ibridi, specie quelli informativi. Analisi politiche e soubrette, parole e musica, denunce e gag: si discute molto di questa mescolanza di ruoli. Nell’ibrido, però, un sospetto. Che in televisione il genere dell’informazione da solo non sia più in grado di sostenere il suo ruolo tradizionale, che stia attraversando una grave crisi di identità, che chiacchiere e saltimbanchi mascherino qualcosa. Mascherino, ad esempio, il fatto che il mezzo televisivo forse non è più il centro dei cambiamenti del nostro paese, che la fissità dei ruoli ha omologato tutte le trasmissioni, che il rapporto politica-televisione è entrato in un circolo sempre più vizioso. Spesso l’appartenenza politica e le ragioni del mercato soffocano la tonica circolazione delle opinioni. Per raggiungere il più vasto pubblico bisogna abbandonare ogni asprezza, ogni conflittualità, ogni problema troppo audace. Così, in una televisione dominata dalla paura della noia, l’informazione, il pensiero e la politica soffrono di semplificazioni demagogiche: si sforzano di non urtare nessuno al solo scopo di incontrare i gusti dei più. Letteralmente, si avviliscono. Ecco perché la

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“depoliticizzazione” dei programmi giornalistici coincide con l’esaltazione del giornalismo-spettacolo. Non succede, come abbiamo già rilevato, solo in Italia: le figure del reporter o dell’editorialista vengono sacrificate a favore del giornalista-animatore, l’esperto cede il posto al personaggio divertente. Insomma, al produttore di notizie si preferisce il rappresentante, il salesman di notizie. Attraverso questo processo, Striscia la notizia, Le iene e altri programmi comici sono diventati i più coraggiosi e autorevoli telegiornali italiani. C’è anche da tener conto che in televisione la credibilità è qualcosa che pertiene più alle leggi della fisiognomica che alla corretta informazione: la faccia invia informazioni a chi ascolta, fornisce dati sulla personalità, stabilisce una catena silenziosa di stimoli e risposte. Inoltre, il giornalismo televisivo è principalmente fondato sull’oratoria, sull’arte del parlare in pubblico. La retorica televisiva non è solo un repertorio di aneddoti e di locuzioni forbite ma anche una tecnica di argomentazione in grado di esporre notizie, problemi, dati; è l’applicazione di regole, artifici, trucchi per trasformare il convenzionale in spontaneità. Così, un efficace giornalista televisivo non si preoccupa solo della veridicità delle notizie quanto di essere assertivo; l’assertività (dal latino asserere, cioè “affermare, sostenere con forza”) definisce la capacità di esprimere o di apparire in modo autorevole, affermativo, categorico; lo spettatore, pur di fronte a giornalisti sconosciuti, li identifica in questo modo con l’apparato televisivo. Per questo il modello ideale del telegiornale italiano sembra sempre ostentare un’impaginazione pulita e molto gerarchizzata, anelare allo sguardo ecumenico. La calibrata alternanza fra studio e servizi sottolinea poi il desiderio di un’ordinata

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illustrazione della realtà con uno stile esplicativo, a tratti pedagogico, a tratti persino caricaturale. Come si è detto, vi sono criteri di “notiziabilità” comuni a tutti i mezzi d’informazione e altri più specifici che riguardano solo mezzi particolari. Ma non vogliamo entrare qui nei particolari, se non per sottolineare ulteriormente il carattere discorsivo e, diciamo così, “artificioso” dell’informazione televisiva: nonostante il forte effetto di realismo, molto superiore a quello della carta stampata (che non può rendere visibile un fatto, ma solo raccontarlo con le parole), la televisione offre “un’immagine” della realtà – una fra altre possibili –, fortemente condizionata dai suoi limiti tecnici (bidimensionalità, confini dell’inquadratura, assenza di altri sensi che non siano vista e udito...), da valori culturali, ideologici e professionali che definiscono cosa sia rilevante e perché, e quali siano gli strumenti adatti a “narrare il reale”. In questo senso dobbiamo intendere l’informazione come una messa in scena del mondo. L’informazione televisiva si rivela così fondamentale, sebbene, in termini meramente quantitativi, il numero di notizie date in un’edizione del telegiornale – circa una ventina – sia decisamente inferiore a quello offerto sulle pagine di un quotidiano o dai i lanci di un’agenzia di informazione. Da un po’ di tempo esistono anche i canali all news come Cnn, Sky News (Gb), Fox News (Usa), Al-Jazeera, Euronews, RaiNews 24, SkyTg24. All news significa che queste reti trasmettono notizie a ciclo continuo, 24 ore su 24, inserendosi con prepotenza nel flusso televisivo. È ovvio che, essendo accese tutto il giorno, queste reti informative arrivano sempre per prime sui fatti; ma il loro vero compito è un altro, è una sorta di interessante turismo giornalistico, di trasformazione della nostra casa in una grande platea mondiale. In altre parole, la nuova

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realtà prodotta dalla televisione viene a configurarsi, nella percezione degli spettatori, come una sorta d’estensione, immediatamente disponibile nello spazio domestico, della propria diretta esperienza. L’importante non è la notizia (a meno che non succeda una catastrofe) ma l’essere sempre in contatto con il villaggio globale. Una gran parte del significato sociale della televisione consiste non tanto in ciò che viene diffuso, quanto nell’esistenza stessa del mezzo come arena collettiva. La televisione permette la più ampia percezione simultanea di un messaggio mai sperimentata finora dall’umanità. Un’ultima considerazione. Con l’avvento della Rete (Internet), il ruolo dell’informazione televisiva sembra, di nuovo, destinato a mutare. Se è in atto un processo di “democratizzazione” che rende possibile a ciascuno di raccogliere notizie da fonti “più dirette” e varie, l’informazione televisiva è spinta a rafforzare il suo ruolo di “mediazione”, di organizzazione dello sguardo sul mondo, di interpretazione e valutazione degli eventi, per tutta quella parte della popolazione che, per diversi ragioni, non ha accesso alle nuove tecnologie. Non c’è pace nell’etere. Ma quando è difficile essere obiettivi è molto meglio essere onesti. 4.4.1. L’evento mediale   La notizia che più esalta il mezzo televisivo è quella su cui è possibile costruire l’evento. L’evento mediale – dall’inglese media event, espressione utilizzata da Daniel Dayan ed Elihu Katz in uno studio divenuto un classico della ricerca mediologica24 – può essere definito innanzitutto come un particolare gene24  D. Dayan, E. Katz, Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, Baskerville, Bologna 1993. Si veda anche A. Grasso (a cura di), Fare storia con la televisione, Vita e Pensiero, Milano 2006.

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re: la messa in scena televisiva di un fatto o una serie di fatti giudicati importanti, memorabili o addirittura “storici” dai responsabili delle reti e da un pubblico molto vasto. Cosa accomuna avvenimenti diversi e distanti nel tempo come i funerali del presidente John Kennedy, lo sbarco sulla Luna, i viaggi di papa Wojty¢a, la visita del presidente egiziano Sadat a Gerusalemme, i Giochi Olimpici, i Mondiali di calcio, il matrimonio di Carlo e Diana, gli eventi rivoluzionari in Cecoslovacchia o in Romania, o il funerale di Diana Spencer e le manifestazioni dell’Anno Giubilare, e ancora, entro contesti nazionali più definiti, lo scandalo Watergate, quello Lewinsky e la crisi “Rodney King” (per gli Usa), la tragedia di Vermicino, il Live 8, l’attacco alle Torri Gemelle, le esequie di Karol Wojty¢a? Potremmo rispondere, in prima approssimazione: l’aver raggiunto contemporaneamente, grazie alla trasmissione televisiva, le case di milioni, o centinaia di milioni, di spettatori, dislocati talvolta sull’intero globo. Gli eventi mediali rompono le normali routine di programmazione e vengono vissuti dalle persone che li seguono in televisione come riti o cerimonie cruciali, perché mettono in gioco valori fondamentali (come, per esempio, il senso d’appartenenza ad una comunità nazionale, o la possibilità di un cambiamento politico), o perché sono considerati “appassionanti” e “irrinunciabili” (come accade negli eventi più esplicitamente ludici, come le gare sportive, o il Festival di Sanremo). L’evento mediale rappresenta spesso valori di grande portata e costituisce una nuova forma di ritualità capace di coinvolgere attivamente pubblici molto vasti, che non si limitano a una visione distaccata, ma partecipano con precise e marcate tonalità affettive, come dolore,

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gioia, orgoglio, pianto, spirito di ribellione (si pensi al funerale di Kennedy per il popolo americano, o la visita di Giovanni Paolo II per quello polacco, soggetto al regime comunista e a una “sovranità limitata”). Grazie alla televisione, un intero popolo può partecipare a un avvenimento collettivo fortemente simbolico, sentirsi parte di una comunità, testarne i valori fondanti, riaffermarli o metterli in discussione. È evidente il potere che tali eventi possono incarnare ed esercitare. Funzionando per lo più in senso “egemonico”25, sembrano avere delle affinità con le grandi manifestazioni di massa dei regimi autoritari. In realtà, esiste una differenza cruciale fra queste ultime e i media events che costituiscono un aspetto di primo piano nelle democrazie moderne: i media events nascono da un processo di libera negoziazione che coinvolge una o più istituzioni (gli organizzatori dell’evento), varie imprese televisive (che sono, almeno in linea di principio, indipendenti dal potere politico) e l’audience. In democrazia, questi tre attori sono liberi di rifiutare il loro assenso ad un evento mediale, dando luogo ad un evento mancato (nel caso manchi l’adesione del pubblico, e il programma si riveli un flop), rifiutato (se, caso più raro, sono gli organizzatori a impedire la presenza delle telecamere) o negato (quando manca la partecipazione dei media che, per diverse ragioni, decidono di non scommettere sull’evento). Il processo di “messa in forma” o “messa in scena” dell’evento è costruito per lo più dagli organizzatori, 25  Come affermano Dayan e Katz: «Questi programmi integrano le società in una pulsazione collettiva ed evocano una rinnovata lealtà alla società e alla sua legittima autorità»; Dayan, Katz, Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, cit., p. 11.

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ma la televisione svolge un ruolo altrettanto cruciale: non solo perché è chiamata ad abbracciare e sostenere la definizione ufficiale dell’avvenimento (anche se, in linea di principio, potrebbe non farlo, così come gli stessi spettatori possono assumere “letture oppositive”), ma soprattutto perché fa uso dei suoi mezzi specifici per trasformare e ricostruire l’evento. Si potrebbe osservare che il “vero” evento non è tanto collocato negli spazi effettivi del suo svolgersi (una chiesa, una strada, uno stadio, un’aula parlamentare), quanto è fluttuante nelle onde che viaggiano nell’etere e raggiungono milioni di case: solo grazie alla televisione gli spettatori “sono simultaneamente dappertutto” (nel corteo, vicino all’altare, accanto agli sposi...), e godono di una condizione privilegiata e irraggiungibile al pubblico fisicamente presente (che, in effetti, vive un’esperienza del tutto differente). Nel mettere in forma un evento mediale, la televisione fa uso di un linguaggio specifico: costrui­ sce una serie di soglie che preparano la trasmissione e permettono l’uscita dalla quotidianità, protegge l’avvenimento da eventuali “rumori” (esclude, per esempio, interruzioni pubblicitarie, o le limita). Raccorda fatti talvolta diversi e distanti in una narrazione fluida e coerente (per esempio con collegamenti che mostrano le reazioni all’evento e che entrano a pieno titolo nel racconto). Mette fra parentesi il senso critico delle correnti trasmissioni informative e svolge una “missione apostolica” (il linguaggio del commentatore è ricercato e riverente, vera “poesia celebrativa”). Cerca costantemente di evocare immagini simboliche o metafore inaspettate dal forte impatto emotivo (per esempio, le scalette dell’aeroporto israeliano che si congiungono con il velivolo egiziano, o l’apertura delle monumentali Porte Sante da parte del pontefice anziano e malato,

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quello stesso papa che “ha fatto crollare molte porte e molte divisioni storiche”). Lungi dall’essere un freddo specchio dei fatti, la televisione contribuisce con tutti i suoi mezzi a creare il rituale, e a trasmettere un senso di “partecipazione a distanza” e di comunione. Nello scenario della convergenza mediale, anche i media events evolvono, soprattutto grazie al web. Il memorial per Michael Jackson (7 luglio 2009), per esempio, costituisce un valido punto di osservazione sull’evoluzione del genere: è stato il funerale di lady Diana più il Live Aid e il Live 8, è stato il cordoglio in mondovisione per la morte di Madre Teresa più l’orfanità inconsolabile dei fan, da Elvis e John Lennon in poi. Le televisioni di tutto il mondo hanno trasmesso questa “messa secolare” per un’audience stimata intorno al miliardo di persone. Meno di altri celebri funerali mediatici, ma la ragione è presto detta: la vera esplosione mediatica riguarda la Rete. Il mondo globalizzato è ormai percorso da ondate emotive che i grandi media, come la televisione, non riescono più a contenere e dominare. Dal giorno della sua morte, Jacko è diventato il soggetto principale del web 2.0. I notiziari tv hanno subito dato la notizia ma non sono più stati in grado di gestirla, almeno dal punto di vista emotivo. YouTube e i social network hanno incominciato il loro silenzioso tam tam, Twitter è esploso come una ragnatela, Google è impazzito al limite del collasso (bastava digitare la lettera “emme” perché subito apparisse il nome del Re del Pop). I turisti che si trovavano a New York si ammassavano a Times Square solo per farsi fotografare col cellulare avendo alle spalle lo schermo gigante che trasmetteva le sue clip. Il memorial per Jacko è stato un altro grande, perfetto evento mediatico: a differenza dei precedenti, però,

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non aveva più un andamento verticale (finora è sempre stata la televisione a scandire la temporalità delle cerimonie) ma orizzontale. Come se la televisione fosse diventata un enorme deposito, una smisurata cineteca da cui attingere materiale per alimentare Internet. Tra la morte (25 giugno) e il tributo (7 luglio) c’è stato un lasso di tempo che ognuno ha riempito secondo i propri gusti, la propria appartenenza di gruppo, la propria sensibilità. Il media event tradizionale non era soltanto la rottura della normale routine di programmazione, era anche una liturgia pubblica che ognuno consumava a casa propria ma secondo il rituale imposto dai conduttoricelebranti. Il tributo a Michael Jackson ha funzionato invece come una sorta di personale colonna audiovisiva: migliaia di siti coniugavano la diretta con commenti dei fan, secondo le modalità del liveblogging.

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Con un piccolo trauma, il divorzio fra televisione e televisore, si è aperta una nuova epoca delle comunicazioni. È l’età dell’abbondanza mediale e della cultura convergente1. Secondo lo studioso inglese John Ellis, la storia sociale della televisione si divide in tre grandi epoche: l’età della scarsità (scarsity), l’età della disponibilità (availability) e l’età dell’abbondanza (plently). La prima età coincide con l’avvento della televisione nel contesto domestico e con la sua istantanea diffusione come principale e popolare mezzo di intrattenimento e di informazione. In questo periodo, la televisione è il più formidabile strumento di modernizzazione delle società e delle culture. In Europa il medium è in mano allo Stato e viene strutturato sul modello del servizio pubblico. A partire dagli anni Settanta, e poi più decisamente negli Ottanta, l’avvento di una seconda età dipende da una varietà di fattori. Avvengono importanti trasformazioni culturali e sociali, riassumibili un po’ sbrigativamente nell’idea del passaggio da una “società dei 1  Il riferimento è a H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007 e a A. Grasso, M. Scaglioni (a cura di), Televisione convergente. La tv oltre il piccolo schermo, Link Ricerca, Rti, Milano 2010.

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consumi” a una “società consumistica”. Si parla anche di deregulation, intesa come fenomeno che mette in discussione il modello istituzionale precedente e causa la fine del monopolio della televisione di Stato, con un conseguente ampliamento dell’offerta che affranca lo spettatore dalla scarsità della proposta tv. In Italia, la deregulation coincide con l’avvento delle televisioni commerciali e l’ingresso in scena di Silvio Berlusconi. L’età dell’abbondanza si caratterizza per una serie di dinamiche nuove che coinvolgono i diversi aspetti del medium (istituzione, testualità, pubblico), dinamiche legate a doppio filo al processo di digitalizzazione dei media. La trasmissione delle informazioni in digitale ha reso possibile che i mezzi di comunicazione si separassero dalle proprie piattaforme di trasmissione esclusive: il flusso televisivo ha cominciato a viaggiare anche su supporti diversi dal televisore, supporti che la televisione ha in breve tempo colonizzato (dvd, computer, satellite, web, telefonini, i-Pod, cavo in fibra ottica). La televisione ha dunque moltiplicato i suoi canali di accesso ai contenuti, espandendosi oltre il tubo catodico: televisione satellitare, web tv, Iptv (la televisione che viaggia sulla linea telefonica e di dati), mobile tv. I canali si sono fatti più numerosi e si sono specializzati alla ricerca di nicchie di pubblico più remunerative: il broadcasting si specializza in forme di narrowcasting. Il consumo televisivo tende a farsi sempre più personalizzato, in un’ideale linea di sviluppo che conduce dalla griglia del palinsesto alla libertà video on demand2. Così il telespettatore si trasforma, per usare un’espressione di Alvin Toffler, in un prosumer (neologismo nato dalla 2  Il caso più avanzato è rappresentato dal sito web Hulu, portale di streaming di contenuti televisivi, accessibile solo dagli Stati Uniti.

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fusione delle parole producer e consumer)3. Il prosumer decide quello che vuole vedere, è il costruttore del proprio palinsesto personale e acquista più libertà nel suo rapporto con l’emittente in quanto non è più vincolato agli orari e ai ritmi imposti dall’istituzione televisiva. In linea teorica, dovrebbe anche acquisire una maggiore consapevolezza di quello che decide di vedere. Alla digitalizzazione della televisione si lega anche il tema dell’interattività: la televisione digitale è interattiva in quanto offre al telespettatore la possibilità di costruirsi un palinsesto personale (attraverso appunto la programmazione on demand), di scegliersi il punto di vista dal quale guardare un evento (tramite la multiregia), di scoprire quali programmi sono in onda (grazie all’Epg, Eletronic Program Guide). Il grado di scambio è per ora ancora limitato, soprattutto se per interattività s’intende la capacità di agire in una relazione di reciprocità con gli altri. Per oltre mezzo secolo, la televisione ha avuto una sua precisa collocazione e ha alimentato un’esperienza tanto diffusa quanto condivisa per lo spettatore, riassumibile nella semplice espressione del “guardare la televisione”. Lo scenario attuale di trasformazione e convergenza tecnologica ha comportato anche una mutazione nell’identità del telespettatore, oggi virtualmente chiamato a dare vita a un’eterogeneità di pratiche e modalità di visione differenti. L’immagine del nuovo spettatore della “multitelevisione” appare oggi ancora sfuggente perché il “vecchio” e il “nuovo” coesistono, si intrecciano e si intessono l’un l’altro, sono ugualmente protagonisti. Senza troppo entrare in un discorso tecnico, sul mer  A. Toffler, La terza ondata, Sperling & Kupfer, Milano 1987.

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cato si confrontano ora non tanto le tecnologie, quanto le piattaforme, entità complesse in cui si compongono tecnologia, modelli di business, forme d’offerta e affordances (cioè quelle proprietà di un oggetto che indicano come farne uso). Le principali piattaforme sono l’etere (il digitale terrestre è l’evoluzione del vecchio segnale analogico e ha quindi bisogno di molta energia per far funzionare i trasmettitori), il satellite, il cavo coassiale, l’Adsl, la fibra ottica, il mobile. Ognuna delle cosiddette “nuove televisioni” inizia a definire il suo “specifico”: l’Iptv fornisce al suo spettatore il grado più ampio di interattività e flessibilità: vuoi vedere qualcosa di nuovo o rivedere la puntata del reality che ti sei perso e hai dimenticato di registrare? Nessun problema, gli archivi digitali dell’on demand tengono tutto a disposizione per sette giorni. È il regno della flessibilità del tempo: una volta lo spettatore si adattava agli orari del piccolo schermo, ora è quest’ultimo ad adattarsi alle esigenze di una società che segmenta e pluralizza i suoi ritmi e i suoi orari. Sul web, invece, scorre la televisione della (presunta!) libera espressione: meno censure, possibilità di organizzare un canale con pochi mezzi e renderlo immediatamente disponibile all’infinito pubblico della Rete. Ma soprattutto, possibilità di rilanciare i contenuti andati in onda sulla televisione tradizionale, rendendoli disponibili allo spettatore in replica (l’intero programma oppure brevi clip, che possono essere poi condivise sui social network, i blog, i portali di streaming come YouTube). I canali tradizionali si stanno progressivamente attrezzando di “spin off” online, i loro siti ufficiali, che permettano loro di restare in contatto con il pubblico anche nei momenti non specificamente dedicati al consumo televisivo tradizionale.

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Il grande sviluppo della televisione online ha reso possibile anche un’altra grande trasformazione: il passaggio dello stesso spettatore in autore o produttore di quelli che si chiamano tecnicamente “user generated content” e comprendono tutto il materiale audiovisivo che viene realizzato dalla gente comune, con i telefonini o telecamere amatoriali. La versione basic è rappresentata dai contenuti caricati su YouTube, quella più raffinata dal canale internazionale CurrentTv, che si propone niente meno che “allargare gli spazi di partecipazione alla sfera pubblica”, basando gran parte della sua programmazione su contenuti prodotti dagli spettatori. C’è poi la televisione sul cellulare, che ha sfondato nei paesi dell’Estremo Oriente (come la Corea) e sta cercando un percorso di diffusione anche in Italia. Quale sarà mai lo specifico di una televisione miniaturizzata? Il contenuto snack, breve, per allietare i tempi di attesa? Oppure la possibilità di consumare contenuti extra, gemmati dalla televisione tradizionale (gli americani hanno per esempio inventato i mobisodes4, episodi delle serie tv in versione mobile)? Nell’età della convergenza, con il medium oggetto di spinte divergenti che ne moltiplicano i punti di accesso, sono proprio i contenuti televisivi a rivestire un ruolo sempre più importante: non più (o non sempre) legati ai grandi eventi da prima serata, possono persino acquistare valore di ripetizione in ripetizione, di passaggio in passaggio. Non c’è più solo il programma in sé, ma una vera e propria esplosione di oggetti, di discorsi e di altri contenuti di supporto costruiti intorno al prodotto televisione 4  Per una panoramica della serialità televisiva americana nell’età della convergenza si veda S. Carini, Il Testo Espanso. Il telefilm nell’età della convergenza, Vita e Pensiero, Milano 2009.

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dall’industria mediale o dalla creatività dei fan. Per non fare i soliti, luminosi esempi tratti dalle serie Usa, basti pensare all’ormai forte legame tra televisione e discografia nei talent show (da Amici a X Factor), o alla ricchezza del merchandising per adolescenti e non solo di fiction italiane come I Cesaroni o Tutti pazzi per amore. Ma, in una televisione che si rivede e persino si conserva, anche la modalità di accesso, la “finestra” in cui un programma appare, diventa uno snodo strategico: e così abbiamo le anticipazioni promozionali sul web, e soprattutto il rimando continuo tra la televisione a pagamento e quella generalista, tra contenuto premium e basic, particolarmente efficace, per esempio, per un gruppo come Mediaset, attivo in entrambi i settori. Ulteriore elemento che ha riguadagnato centralità nell’età dell’abbondanza è poi l’identità, il marchio delle reti e dei programmi: quando le offerte disponibili crescono di numero, la sola via di uscita dalla confusione è la chiarezza della proposta. I canali Fox, in onda dal 2003, sono un esempio lampante, hanno tracciato la via, mentre i più giovani Joi, Mya, Steel (che fanno parte del pacchetto a pagamento di Mediaset) sembrano cercare di seguire la stessa direzione. Perché l’evidenza e la facilità d’accesso sono la base di un nuovo rapporto con gli spettatori. Non più “passivi” (l’etimo di spettatore significa “stare a vedere”), ma da corteggiare. Non più spettatori, dunque, ma clienti. Nel panorama tv, ormai così esteso grazie alle reti satellitari e al digitale terrestre, la partecipazione dello spettatore non può più essere data per scontata. È sempre più difficile catturare il pubblico, attrarlo a sé e coinvolgerlo in una relazione prolungata e attiva. Il brand è quindi un valore economico perché permette di distinguersi, di riconoscere il prodotto anche su piattaforme diverse, di attirare spet-

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tatori e investitori: obbliga il “produttore” a una qualità costante e solleva, almeno in parte, il “consumatore” dall’ansia della scelta. In questo scenario d’offerta sovrabbondante, che fine fa la cara, vecchia televisione generalista? Ai tempi della scarsità eravamo affetti da misoneismo, da un’avversione per le cose nuove (la televisione è la morte del cinema, la televisione è la morte del libro!). Adesso soffriamo del contrario, di neofilia. Mentre fioriscono nuove televisioni su ogni mezzo grazie alla traducibilità infinita del digitale, sembra restare pur sempre centrale il ruolo della vecchia televisione generalista, quella che si vede sullo schermo di casa, in famiglia, e i cui generi forti sono gli evergreen di sempre. Perché la televisione non è fatta di sole tecnologie né di soli contenuti. Ma anche, o soprattutto, di ritualità condivise. Per questo, nonostante le mille occasioni che abbiamo per informarci, tendiamo a non rinunciare a ritrovarci – assieme a buona parte di quella “comunità immaginata” che si chiama Nazione – davanti al tg delle venti, al Giro d’Italia, a una partita di calcio, agli appuntamenti consolidati con i reality e i talk show. 5.1. La televisione italiana nello scenario della convergenza Per comprendere lo scenario attuale della televisione italiana bisogna fare un piccolo passo indietro, esattamente nel 1990, quando nasce Tele+, la prima offerta di televisione a pagamento distribuita via piattaforma satellitare. Successivamente, fondendo insieme Tele+ e l’offerta Stream, è entrato sul mercato il colosso internazionale NewsCorp, portando in Italia l’offerta Sky (2003). Dopo anni di lenta penetrazione, la televisione

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satellitare si è ormai affermata come il terzo polo della televisione italiana per almeno tre motivi di fondo. Il primo: è insieme una televisione generalista (per esempio con l’offerta di serialità Usa, gli eventi sportivi) e settoriale (i canali tematici, i contenuti di nicchia). In mancanza di un evento, lo spettatore sa che sul satellite trova sempre qualcosa. Come in altri settori dell’editoria, i nuovi canali stanno praticando la settorializzazione e la fidelizzazione dell’audience (gli amanti di caccia e pesca non sono una folla oceanica ma ci sono e sono fidati, assidui). Il secondo: l’audience delle reti satellitari non è l’audience “periferica” della televisione generalista. Si tratta invece di una Italia giovane, composta soprattutto da venti-trentenni e trenta-quarantenni, che manifestano livelli socio-economici e culturali sopra la media. Il terzo: la televisione satellitare non è soltanto un’offerta di prodotti, un enorme contenitore di “contenuti”. È al contempo anche un servizio (la programmazione dei canali spostata di un’ora, il cosiddetto time-shifting, il decoder MySky con registratore incorporato, la programmazione ciclica, ecc.), che svincola lo spettatore dalla schiavitù dell’audience e lo pone sul piano del consumatore, del cliente. Assorbita la rivoluzione del satellite, il sistema televisivo italiano sta ora andando incontro a una nuova, importante trasformazione: il passaggio alla televisione digitale terrestre (o Dtt, dall’inglese Digital Terrestrial Television: è la televisione terrestre rappresentata in forma digitale), che dovrebbe essere completato entro il 2012 attraverso un processo detto di “switch off”. La conversione in digitale dell’intero sistema nazionale, nonostante sia stata accompagnata da alcuni inconvenienti tecnici, ha comportato un deciso aumento delle reti visibili gratuitamente, con i tradizionali brand televi-

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sivi (Rai e Mediaset) costretti a ridefinire la loro offerta e rinvigorire il loro marchio attraverso la proposta di un bouquet di canali più ricco e variato tra proposte “tematiche” e “minigeneraliste”. All’offerta di televisione pay satellitare si sono aggiunti altri pacchetti a pagamento visibili su digitale terrestre, con il gruppo Mediaset capofila tra gli investitori impegnati nel settore. Lo scenario televisivo italiano nell’età della convergenza è segnato dunque da una grande battaglia, che ha come posta in gioco l’accesso. Ovvero il modo in cui gli oltre 23 milioni di famiglie italiane raggiungeranno nel prossimo futuro i contenuti televisivi. Due sarebbero, almeno in linea di principio, le possibilità in campo: da un lato, un solo “portale” universale, il digitale terrestre, in grado di sostituire tutta la televisione analogica, che rappresenti la base di partenza su cui innestare le diverse offerte premium; dall’altro lato, una pluralità di piattaforme di primo accesso “paritarie” e in concorrenza tra loro (il Dtt, il satellite, l’Iptv, ecc.), caratterizzata ciascuna da una o più forme di upgrade a pagamento. La prima ipotesi è quella che si è deciso di attuare. I broadcaster tradizionali (Rai e Mediaset in primis) hanno infatti puntato sul digitale terrestre. Questo significa che, indipendentemente dalla presenza di altre piattaforme distributive nelle case di alcune famiglie, magari già digitalizzate (come i sottoscrittori di Sky o delle offerte Iptv di Telecom o Fastweb), il Dtt rappresenterà lo snodo di accesso universale, quello che potremmo definire “il minimo comune denominatore” per guardare la televisione. Come si è detto, rispetto alla vecchia televisione analogica, l’offerta è stata arricchita da nuovi operatori, da nuovi canali gratuiti e dalla possibilità di accedere a contenuti a pagamento. Sviluppare un’offerta a pa-

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gamento sulla televisione digitale terrestre è un’operazione particolarmente vantaggiosa: dalla “base” d’accesso rappresentata dal digitale terrestre può risultare “naturale” passare a sposare forme di offerta pay o pay light (che richiede quindi un investimento economico minore rispetto all’offerta satellitare) grazie alle carte prepagate. Il passaggio al digitale ha comportato alcuni riassestamenti nel sistema televisivo nazionale, che hanno visto i diversi player alle prese con uno scontro decisivo per la rideclinazione dei rapporti di forza dei vari attori che operano sul mercato italiano. Dietro alle scelte aziendali di questa fase di transizione, si intravedono così le tattiche di un conflitto che forgerà l’assetto prossimo venturo del sistema dei media, al cui centro la televisione resta saldamente impiantata sia per le risorse che sa mobilitare sia per la sua popolarità che resta inscalfita (a fronte, per esempio, della conclamata crisi dei quotidiani). Proveremo allora a decodificare alcune delle dinamiche e a descrivere gli scenari del processo che è in corso. Grande eco sugli organi di informazione ha avuto nel 2009 la notizia (qui tradotta in termini molto semplificati), data dall’annuale relazione dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, del “sorpasso” nei ricavi di Sky su Mediaset. La notizia ha qualcosa di simbolico: dalla metà degli anni Ottanta, e per oltre un ventennio, il sistema televisivo nazionale era considerato bloccato nel suo “duopolio imperfetto”, con la centralità del gruppo di Cologno per la raccolta di risorse pubblicitarie. Il newcomer multinazionale, erede di una lunga ma non particolarmente brillante tradizione di televisione a pagamento, sembra essere riuscito dove altri erano falliti: non solo a portare in attivo la televisione “a sottoscrizione”, incrementando il numero di abbonati e

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schiacciando la pirateria, ma a permettere a Sky di diventare il secondo polo televisivo nazionale per risorse. La dimensione simbolica di questo fatto, per il contesto mediale nazionale, consiste in una parziale, maggiore apertura del mercato: non più due soli colossi con accanto qualche piccolo player (Telecom Italia, in campo sulla televisione generalista con l’avventura di La7 e Mtv Italia), ma tre operatori vicini per quote di mercato. Proprio nell’ottica di un riassestamento delle posizioni di forza dei player televisivi si inscrive anche il prolungato braccio di ferro tra Sky e Rai per la possibilità di trasmettere, entro la propria offerta, i canali di servizio pubblico di quest’ultima. In altri contesti nazionali, le politiche dei public service broadcasters non hanno mai condotto alla ritirata da una piattaforma distributiva, anche a partire dall’idea che le reti di servizio pubblico debbano garantire un accesso universale, “tecnologicamente neutrale”. Anche qui, dunque, un mutamento dall’alto valore simbolico. Successivamente, anche Mediaset è scesa in campo, criptando alcuni dei suoi programmi sulla piattaforma satellitare. L’uscita di Rai dall’offerta Sky si spiega chiaramente con la volontà di promuovere il Dtt, proprio perché gli unici utenti “già digitalizzati” non incentivati, al momento, a fare un “passo indietro” nelle tecnologie (dal satellite al Dtt) sarebbero proprio gli spettatori del satellite. Seguendo il modello di paesi ad “alta digitalizzazione”, anche in Italia, accanto al satellite (con la piattaforma TivùSat, destinata alla distribuzione dell’offerta gratuita del digitale terrestre nelle zone non coperte dal segnale) e al digitale terrestre (che vede fiorire, prima ancora che un’offerta gratuita ricca e paragonabile a quella di altri paesi, come la britannica Freeview,

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un’ampia offerta a pagamento gestita da Mediaset, coi canali Premium di cinema, calcio e serialità), altre tecnologie per la distribuzione del segnale televisivo muovono alcuni primi, timidi passi: la cosiddetta Iptv, che rappresenta probabilmente lo standard più avanzato (per servizi disponibili, interattività, numero di canali), si è trasformata da pura tecnologia in offerta commerciale ampiamente visibile (anche attraverso un’aggressiva campagna di comunicazione messa in atto dagli operatori Telecom e Fastweb), sebbene ancora piuttosto poco diffusa. C’è l’universo della televisione in movimento, la cosiddetta mobile tv, che ha nell’offerta commerciale degli operatori di telefonia (H3g, che più vi ha puntato, ma anche Tim, Vodafone e Wind) una propria concretezza, sebbene tuttora piuttosto fragile: non è infatti ancora chiaro se la televisione in mobilità, disponibile anytime anywhere, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, trovi delle resistenze per via della sua offerta, dei problemi tecnici legati a una buona copertura, dei modelli di business (sottoscrizione, pagamento per contenuti specifici o gratuità sostenuta dalla pubblicità?) oppure più ampiamente legati a ragioni culturali (l’unico luogo al mondo in cui la televisione mobile ha effettivamente attecchito è, a oggi, l’Estremo Oriente, abituato alla gestione di oggetti miniaturizzati e più propenso a una “radicale personalizzazione” del consumo audiovisivo). E così potremmo continuare a lungo... Dietro ognuna di queste innovazioni o mutazioni nel panorama delle tecnologie con cui guardare la televisione si giocano importanti partite fra gli attori coinvolti. Che hanno una principale posta in gioco: quella dell’accesso. In che modo, tramite quali canali e quali percorsi accederemo al contenuto audiovisivo nel corso dei prossimi anni?

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possibili della serialità americana, Vita e Pensiero, Milano 2010. A. Hill, Reality Tv: Audiences and Popular Factual Television, Routledge, London-New York 2005. G. Marrone, Estetica del telegiornale. Identità di testata e stimoli comunicativi, Meltemi, Roma 1998. E. Menduni, I linguaggi della radio e della televisione: teorie e tecniche (2002), Laterza, Roma-Bari 20102. I. Pezzini, La tv delle parole. Grammatica del talk show, RaiEri, Roma 1999. M.P. Pozzato, G. Grignaffini, Mondi seriali, Link Ricerca, Rti, Milano 2008. M. Scaglioni, TV di culto. La serialità televisiva americana e il suo fandom, Vita e Pensiero, Milano 2006. A. Sfardini, Reality tv. Pubblici fan, protagonisti, performer, Unicopli, Milano 2009.

Capitolo 5 F. Colombo (a cura di), La digitalizzazione dei media, Carocci, Roma 2007. A. Everett, J.T. Caldwell, New Media. Theories and Practices of Digitextuality, Routledge, New York 2003. A. Grasso, M. Scaglioni, Televisione convergente. La tv oltre il piccolo schermo, Link Ricerca, Rti, Milano 2010. H. Jenkins, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York 2006; trad. it., Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. M. Scaglioni, A. Sfardini, MultiTV. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza, Carocci, Roma 2008.

Indice dei nomi

Abrams, Jeffrey J., 77, 79. Adorno, Theodor Wiesengrund, 40n. Albertazzi, Giorgio, 22. Allen, Kris, 100. Allen, Woody, 73. Anderson, Benedict, ix e n. Antonioni, Michelangelo, 25. Arbasino, Alberto, 102. Asti, Adriana, 102. Austen, Jane, 66. Baird, John Logie, 11. Baldwin, Stanley, 14. Ball, Alan, 77, 80. Banfi, Alessandro, 11. Bartezzaghi, Stefano, 59 e n. Bassetti, Marco, 96. Baudo, Pippo, 60. Baudrillard, Jean, 93n. Bechelloni, Giovanni, ix e n. Benjamin, Walter, 55 e n, 62. Berle, Milton, 17. Berlusconi, Silvio, 26-27, 123. Bernardi, Marcello, 21. Bernero, Edward Allen, 81. Bertè, Pierantonio, 27. Bertolucci, Bernardo, 25. Bettetini, Gianfranco, vin. Bignardi, Daria, 96. Bikila, Abebe, 87.

Bioy Casares, Adolfo, 84 e n. Biscardi, Aldo, 27, 60, 102. Boccaccio, Giovanni, 77. Bochco, Steven, 81. Bongiorno, Mike, viii-ix, 25, 27, 29. Borges, Jorge Luis, 84 e n, 85. Bossi, Vittorio, 50n. Buonanno, Milly, 69 e n. Campanella, Tommaso, 77. Campanile, Achille, 54 e n, 58, 60-61. Campbell-Swinton, Alan Archibald, 9. Canova, Gianni, 18. Caprettini, Gian Paolo, 105n. Carini, Stefania, 126n. Carlo d’Inghilterra, principe, 117. Casetti, Francesco, 33n, 104n. Castellani, Arturo, 11. Cavani, Liliana, 25. Chase, David, 77. Cherry, Marc, 77-78. Chiambretti, Piero, 60. Cioran, Emil, 59. Cochran, Robert, 79. Colombo, Furio, 32. Comencini, Luigi, 25. Conrad, Joseph, 66. Coppi, Fausto, 84.

­140 Costanzo, Maurizio, 26, 101-102, 104, 106, 111. Creeber, Glenn, 70n. Cuccarini, Lorella, 60. Curzi, Sandro, 60. Cutolo, Alessandro, x, 22. Dallamano, Piero, 20 e n. Dante Alighieri, viii-ix. Dayan, Daniel, 116 e n, 118n. De Filippi, Maria, 101, 106-108. Del Pozzo, Diego, 71n. De Luca, Willy, 27. De Mauro, Tullio, vin, viii. De Mol, John, 95. Dixon, Adele, 15. Dorelli, Johnny, 30. Eco, Umberto, viii, 26, 32, 33 e n, 56 e n, 58, 67, 68n, 103, 104n, 105n. Edison, Thomas Alva, 8. Ellis, John, 47, 48n, 122. Evangelisti, Giovanni, 89. Falqui, Antonello, 27. Fanfani, Amintore, 22. Farnsworth, Philo, 13. Fellini, Federico, 25. Ferretti, Mario, 84. Flaubert, Gustave, 76. Forgacs, David, 30n. Fortini, Franco, 56 e n. Fracassi, Claudio, 109n. Franco, Pippo, 60. Freccero, Carlo, 107 e n. Gadda, Carlo Emilio, 61. Gates, Bill, 26. Gerolmo, Chris, 81. Gialappa’s Band, 99. Gilder, George, 45 e n. Giorgio VI, re d’Inghilterra, 15. Giovanni Paolo II (Karol Woj­ tyła), papa, 117-118.

Indice dei nomi Giusti, Marco, 23n. Goggi, Loretta, 60. Goodwin, Andrew, 50n. Granzotto, Gianni, 21. Grassi, Paolo, 27. Grasso, Aldo, vin, 19n, 26n, 48n, 54n, 64n, 65n, 116n, 122n. Guala, Filiberto, 21-22. Guglielmi, Angelo, 91-92, 94, 101. Hammond, Michael, 70n. Hibberd, Matthew, 48n. Hitchcock, Alfred, 79. Hitler, Adolf, 3. Horkheimer, Max, 40n. Iseppi, Franco, 50n. Isola, Gianni, 47n. Jackson, Michael, 120-121. James, Henry, 66. Jenkins, Charles Francis, 10. Jenkins, Henry, xiin, 122n. Johnson, Steven, 72 e n, 73, 74n. Kafka, Franz, 66. Katz, Elihu, 116 e n, 118n. Kennedy, John, 117-118. Kohan, Jenji, 80. Kundera, Milan, 63 e n. La Bruyère, Jean de, 58. La Guardia, Fiorello, 4. La Malfa, Ugo, 24. Lamb, Charles, 61. Lambert, Adam, 100-101. Lec, Stanisław J., 58n. Led Zeppelin, 100. Lennon, John, 120. Lieber, Jeffrey, 77. Lindelof, Damon, 77. Lubitsch, Ernst, 27. Mammì, Oscar, 32.

Indice dei nomi Mantoni, Corrado, 30. Manzi, Alberto, x. Maradona, Diego Armando, 87, 89. Marconi, Guglielmo, 6. May, Joseph, 8. Mazdon, Lucy, 70n. Mazzoleni, Gianpietro, 111n. McCombs, Maxwell, 109n. McLuhan, Marshall, vii e n, xii. Medolago Albani, Francesca, 50n. Meyrowitz, Joshua, vii e n. Monelli, Paolo, 21. Monteleone, Franco, 47n. Moravia, Alberto, 20. Morin, Edgar, 40 e n, 41, 55, 56n. Murphy, Ryan, 80. Ndalianis, Angela, 70n. Negroponte, Nicholas, xi. Nipkow, Paul Gottlieb, 8-9, 11. Nissen, Christian S., 48n. Obama, Barak, 100. Odin, Roger, 33, 104n. Olmi, Ermanno, 25. Omero, 77. Ortoleva, Peppino, 18n, 26. Orwell, George, viii. Palin, Sarah, 100. Parisi, Heather, 27. Pasolini, Pier Paolo, 91. Pavese, Cesare, 66. Piccone Stella, Antonio, 21. Pirrotta, Onofrio, 60. Placido, Beniamino, 61. Polgar, Alfred, 56 e n. Praz, Mario, 61n. Presley, Elvis, 120. Propp, Vladimir Jakovlevicˇ, 68. Pugliese, Sergio, 21. Rather, Dan, 110.

141 Rayan, Shawn, 80. Reith, John, 48-49. Robida, Albert, 7. Römer, Paul, 95. Ronchey, Alberto, 24, 112. Roosevelt, Franklin Delano, 4. Rosing, Boris, 9, 13. Rossellini, Roberto, 25. Rousseau, Jean-Jacques, 108. Sadat, Anwar al-, 117. Santoro, Michele, 102. Sarnoff, David, 4, 13-14. Saviane, Sergio, 24 e n, 54, 61. Scaglioni, Massimo, xiiin, 48n, 65n, 67n, 122n. Scannell, Paddy, 50n. Scarano, Mimmo, 26. Schultz, 105. Sciascia, Leonardo, 27. Seacrest, Ryan, 100. Sedaris, David, v e n. Sfardini, Anna, xiiin, 111n. Shakespeare, William, 77. Shaw, Donald Lewis, 109n. Silverstone, Roger, 41 e n, 44 e n. Simons, David, 77. Siti, Walter, 99 e n, 102. Smith, Anthony, 50n. Soffici, Ardengo, 60 e n. Spencer, Diana, 117, 120. Springer, Jerry, 44. Springsteen, Bruce, 100. Stendhal (Henri Beyle), 66. Sue, Eugène, 57. Surnow, Joel, 79. Swift, Jonathan, 77. Taviani, fratelli, 25. Temporelli, Massimo, 18n. Teresa di Calcutta, 120. Thompson, Robert J., 76 e n. Tocco, Valentino, 105. Toffler, Alvin, 123, 124n. Tonello, Fabrizio, 112 e n.

­142 Tortora, Enzo, 27. Totò (Antonio De Curtis), 60. Veltroni, Walter, 26. Vespa, Bruno, 111. Viola, Sandro, 59, 60n. Virén, Lasse, 87. Vitagliano, Costantino, 107. Weiner, Matthew, 82. Wells, John, 81. Whannel, Garry, 50n.

Indice dei nomi Williams, Raymond, xiv e n, 33n, 36. Winckler, Martin, 64n. Wojtyła, Karol, vedi Giovanni Paolo II. Wolf, Dick, 80. Zaccone Teodosi, Angelo, 50n. Zavoli, Sergio, 27. Zuiker, Anthony E., 80. Zvorykin, Vladimir Kozmicˇ, 1314.

Indice del volume



Introduzione

v

1.

Le origini della televisione

3

1.1. Un’invenzione “plurale” e internazionale, p. 5 - 1.2. I “padri”, p. 10

2. Piccola storia della televisione italiana

19

2.1. Un processo di modernizzazione, p. 19 - 2.2. Il trapasso, p. 23 - 2.3. Il crollo del monopolio, p. 25 - 2.4. Una proposta di periodizzazione, p. 30

3. Pensare la televisione

39

3.1. Che cos’è la televisione?, p. 39 - 3.2. La televisione è un servizio pubblico?, p. 46 - 3.3. Il ruolo della critica, p. 53

4. I generi della televisione

63

4.1. La serialità americana, p. 63 - 4.2. Lo sport, p. 82 - 4.3. I generi neotelevisivi, p. 91 - 4.4. L’informazione, p. 108

5.

Televisione e convergenza

122

5.1. La televisione italiana nello scenario della convergenza, p. 128



Bibliografia essenziale

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Indice dei nomi

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