Cinema, televisione, informazione 8876414029, 9788876414022

Il volumetto presenta una raccolta dei saggi, degli interventi, delle polemiche e delle recensioni di film esemplari di

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Italian Pages 155 Year 1999

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Cinema, televisione, informazione
 8876414029, 9788876414022

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Serge Daney

Cinema televisione informazione Traduzione dal francese di Giulia Cariuccio Introduzione di Paolo Mereghetti

edizioni elo

Questo volume viene pubblicato in collaborazione con l'Associazione Italiana Amici del Cinema d'Essai (AIACE) di Torino

© Copyright 1991 Aléas Editeur, Lyon © Copyright 1999 by Edizioni e/o Via Camozzi, 1-00195 Roma [email protected] www.edizioni-eo.it Grafica/ Emanuele Ragnisco per Mekkanografici Associati ISBN 88-7641-402-9

Introduzione

Che cose il cinema oggi? La grandezza di Serge Daney potrebbe stare tutta in questa domanda, nel rigore con cui il critico francese scomparso sette anni fa ce la ricorda, prima ancora - per assurdo - che nella capacità di darle una risposta coerente: interrogarsi ogni volta, pedantemente, ostinatamente, coerentemente, sul senso profondo della propria ricerca per non dimenticare il Cinema quan­ do si scrive o si parla di Film. Ecco il grande merito di Da­ ney, che ne fa sempre di più un punto di riferimento ob­ bligato e un interlocutore prezioso. Asistematico e occasionale nei suoi scritti, anche se puntuale e incalzante, Daney è stato capace di tracciare con i suoi scritti - che fossero occasionali, diaristici, po­ lemici o più riflessivi - le coordinate di un rapporto ap­ passionato e intensissimo in cui riuscire a legare con la logica e la passione della sua intelligenza il Cinema al Mondo e viceversa, in un rapporto di vicendevole tensio­ ne emotiva e intellettuale che emerge da ogni pagina e che contagia irrimediabilmente chi lo legge. Nato nel giugno 1944 in Normandia, critico ai «Cahiers du cinéma» (il suo esordio è una recensione di Dove vai sono guai di Tashlin con Jerry Lewis sul nume­ ro 156, giugno 1964) poi redattore capo dal 1974 fino al 1981, Daney lascia la rivista quando accetta di diventare il critico di cinema del neonato quotidiano Libération as­ sumendo poi le funzioni di editorialista, per fondare poi, nell’inverno 1991, il trimestrale «Trafic» che gli è soprav­ vissuto dopo la sua morte per Aids nella notte tra 1’11 e il 12 giugno 1992 (lui stesso ha voluto esplicitamente che non si nascondesse la causa della sua scomparsa), man­ tenendo sempre una scélta di campo rigorosamente dalla parte dell’autore. Scriveva su L’exercice a été profitable Monsieur: «Il

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critico è un traghettatore tra due poli. Tra chi fa e chi ve­ de quello che è stato fatto. Quello che bisogna sapere, è l’ordine delle priorità. Per me, il critico scrive per prima cosa una lettera aperta all’autore e questa lettera è letta poi dal pubblico eventuale del film. La critica rappresen­ ta dunque gli interessi di chi "fa”di fronte a quelli che non fanno. Può assomigliare a un avvocato. Ed è una cosa che mi sembra assolutamente normale e morale». Ma è un avvocato dei più rigorosi e inflessibili, anche nello sce­ gliere i clienti da difendere. Daney ha un ideale altissimo della critica, proprio per­ ché ha un ideale altissima del cinema. Nello stesso libro scriveva qualche riga prima: «La critica era necessaria quando, nella società, c’era un luogo dove la violenza, il senso, il bisogno di dire o di fare formavano come un no­ do, un eccesso. Ma perde questa necessità a partire dal momento in cui il "diritto alla creazione”, come dicevano i comunisti, è aperto e riconosciuto a tutti. Il critico da­ va notizie di certi viaggiatori ad alto rischio personale. Tarkovskij, Godard, Cassavetes, Fassbinder, delle perso­ ne come loro, che erano dei viaggiatori. Il critico non ser­ ve a niente quanto tutto questo è sostituito dall’autopro­ grammazione turistica dell’individuo. Un film come L’or­ so non chiede un critico di cinema, chiede un grande con­ corso dove il primo premio sarà il diritto ad assistere alle riprese del film, perché il momento delle riprese è la sola cosa avventurosa del progetto Orso». Difficile trovare un modo più rigoroso e più nobile di pensare alla funzione della critica cinematografica. Un modo più «morale». Esistono naturalmente altri percor­ si e altre scelte, ma agli occhi di Daney non trovano giu­ stificazione, perché vi vede nascoste degenerazioni e com­ promessi. Ancora dalTExercice: «Altri critici hanno un’idea contraria [alla mia]: rappresentano gli interessi del pubblico di fronte a chi crea. Assomigliano piuttosto a dei giudici. Altri funzionano abbastanza bene sul mo­ dello della critica di moda che sceglie tra "quello che si porta” e quello che "non si porta”. E la guida del consu­ matore, a volte anche illuminata o che mima l’illumina­ zione, a volte anche insolente o che mima l’insolenza. Ma tutto questo porta velocemente al conformismo puro e 6

semplice perché, per definizione, ogni pubblico, anche il­ luminato, anche adulto, vuole del consenso». E allora i ri­ schi sono quelli di vedere in un film solo l’aspetto di «fe­ nomeno sociale», e finire per difendere solo quello che piace, per aggiungere il proprio «granello di sale persona­ le» a un prodotto che non chiede uno spettatore ma solo un pubblico che applaude. E un’intransigenza critica che Daney si è formato ne­ gli anni, e che spiega perfettamente nel primo capitolo di un libro che la morte non gli ha permesso di portare a ter­ mine e che è contenuto nel bellissimo libro-intervista Lo sguardo ostinato (a cura di Serge Toubiana, Edizioni II Castoro). È la riflessione che prende spunto da un artico­ lo di Rivette sul film Kapò di Gillo Pontecorvo e che de­ scrive «l’abiezione» di un movimento di macchina este­ tizzante per filmare la morte di Emmanuelle Riva. Daney non aveva mai visto il film, aveva letto solo il testo, ma da quel momento «la mia rivolta aveva trovato parole per esprimersi. Ma c'era di più. La mia rivolta era accompa­ gnata da un sentimento meno chiaro e senza dubbio me­ no puro: la confortante consapevolezza di aver acquisito la mia prima certezza di futuro critico. Nel corso degli an­ ni, infatti, il “carrello di Kapò" costituì per me il dogma universale, l’assioma su cui non si discute, il punto limi­ te di ogni dibattito. Con chiunque non avesse colto im­ mediatamente l’abiezione del “carrello di Kapò"» non avrei avuto nulla a che vedere, nulla da condividere». È un’idea, dunque, quella che il critico francese rivendica, è una scelta di campo morale che chiede ai film di essere strumenti di conoscenza e non di compiacenza, per sot­ tolineare invece un rigore che il giovane Daney trovava in altri film (Notte e nebbia di Resnais, o I racconti della luna pallida d’agosto di Mizoguchi) e non poteva trovare in una concezione del cinema approssimativa e «immo­ rale» come quella di chi non ha rispetto per la morte e la utilizza solo per fare spettacolo. È un nodo centrale della propria riflessione e della pro­ pria formazione, su cui Daney toma anche nelle pagine seguenti di quel capitolo, quando ricorda l’impressione che fece su di lui la scena della morte di Miyagi nei Rac­ conti della luna pallida d'agosto; «Mi ricordo ancora la 7

scena: nella campagna giapponese alcuni viaggiatori so­ no attaccati da un gruppo di banditi affamati e uno di questi trafigge Miyagi con un colpo di lancia. Ma lo fa quasi inavvertitamente, esitando, come spinto da un re­ siduo di violenza o da un riflesso condizionato. Questo gesto resta così poco in posa che la cinepresa sembra sul punto di "passargli accanto", e io sono convinto che in quel momento ogni spettatore di I racconti della luna pallida d'agosto è sfiorato dalla stessa folle idea, quasi su­ perstiziosa: se il movimento della macchina da presa non fosse stato così lento, l’avvenimento sarebbe rimasto fuo­ ri campo o - chissà? - forse non sarebbe proprio accadu­ to». E continua: «La colpa è della macchina da presa? Svincolandola dai gesti degli attori, Mizoguchi ha fatto esattamente il contrario di Pontecorvo in Kapò. Al posto di un colpo d’occhio, per di più aggraziato, ha scélto uno sguardo che "fa finta di non vedere nulla”, che preferireb­ be non aver visto nulla e, per questo, mostra il fatto nel suo prodursi come fatto, cioè ineluttabile e di traverso. Un fatto assurdo e senza valore, assurdo come ogni cosa che volge al male e senza valore, come la guerra, catastrofe che Mizoguchi non accettò mai. Un fatto che non ci ri­ guarda mai abbastanza da poterne attraversare il cam­ mino, un fatto vergognoso. Perché scommetto che in quel preciso istante ogni spettatore dei Racconti sa nel modo più assoluto in che cosa consiste l’assurdità della guerra. Non importa che lo spettatore sia occidentale, il film giap­ ponese e la guerra medioevale: è sufficiente passare dall’atto di mostrare con il dito all’arte di fissare con lo sguardo perché questo sapere, sfuggente e universale allo stesso tempo, l’unico di cui il cinema sia capace, ci sia elargito». E conclude così: «Schierandomi così in fretta per la panoramica dei Racconti contro il carrello di Kapò, compio una scelta di cui misurerò la portata solo dieci anni più tardi, nel fervore tanto radicale quanto tardivo della politicizzazione post-sessantottina dei «Cahiers». Perché se Pontecorvo, futuro autore della Battaglia di Al­ geri, è un regista coraggioso del quale condivido grosso­ modo le convinzioni politiche, Mizoguchi sembra aver vissuto solo per la sua arte ed essere stato politicamente un opportunista. Dov’è allora la differenza? Nel «timore e

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tremore» appunto. Mizoguchi ha paura della guerra per­ ché, a differenza del suo allievo Kurosawa, gli ometti che si tranciano la carotide in nome della virilità feudale lo prostano. Da questa paura, nausea e desiderio di fuggire deriva la panoramica inebetita. Una paura che fa di que­ sto movimento un movimento giusto, cioè condivisibile. Pontecorvo, invece, non conosce né timore né tremore: i campi lo sconvolgono solo ideologicamente. E così si in­ serisce come un di più nella scena sotto le vesti sconce di un carrello aggraziato». Con buona pace di certe polemi­ che italiane francamente strumentali. Nato «nello stesso anno di Roma città aperta», Daney rivendicava fin da questa contaminazione biografica la propria adesione a un’idea di cinema che avrebbe sorretto il suo percorso critico e la sua riflessione. All’origine c’è na­ turalmente Bazin e la sua riflessione sull’etica del realismo ma prima, forse, c’è una scelta esistenziale: cine-figlio più che cinefilo, non fa fatica ad ammettere di aver aperto gli occhi sul mondo - lui, nato una madre di modestissime condizioni sociali, abbandonata da un padre attore di se­ condo piano forse morto in un campo di concentramento forse svanito in America - proprio grazie al cinema. E que­ sto legame diventerà sempre più indissolubile. «Se non si crede un po’ a quello che si vede sullo schermo, non vale la pena di perdere il proprio tempo con il cinema» dice e dietro questa affermazione non c’è solo l’obbligo di pren­ dere sul serio il cinema (perché non si può sprecare il pro­ prio tempo) ma nello stesso modo c’è la convinzione che quello che il cinema ci offre può essere serio (e quindi giu­ stificare il proprio impegno). Un rapporto a due corsie, di andata e ritorno, che legittima il proprio ruolo e la propria funzione nello stesso momento in cui legittima l’impor­ tanza del cinema. Dietro questa affermazione si possono vedere le in­ fluenze della frequentazioni ai «Cahiers» e dell’idea, cara a Truffaut e Rivette, secondo cui il cinema sarebbe l’arte del XX secolo così come il romanzo lo era stato del XIX, ma è anche un atto di fede che non va spiegato, va piut­ tosto vissuto e verificato giorno dopo giorno. E che pro­ prio l’esercizio critico giustifica. Nel momento in cui Da­ ney riesce a leggere in profondità dentro certi film, a fame

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risaltare la ricchezza e la grandezza, allora non c'è bisogno di tante spiegazioni più o meno sociologiche: è la sua stes­ sa intelligenza critica che gli attribuisce l'autorità per po­ ter parlare e dire quello che dice. È un concetto rischioso, che si tiene in equilibrio su una linea sottile, ma che emer­ ge con forza dalla lettura dei suoi testi. Verrebbe da dire che chi non lo capisce non lo merita, ma non è solo un at­ to di fede. Il diritto a parlare di cinema e in nome del ci­ nema Daney se lo conquista con la capacità di prolunga­ re il più a lungo possibile, neU'intelligenza e nella sensibi­ lità di chi legge, lo «choc dell'opera d'arte» (per usare le pa­ role di un altro maestro di Daney, Jean Douchet): i suoi articoli nascono dall’entusiasmo, dalla forza con cui sa trasmettere il fuoco della passione, di chi riesce a comu­ nicare agli altri il modo in cui il film ci sa coinvolgere. Ma contemporaneamente dal rigore con cui sa analizzare questa passione e riesce costantemente a rimetterla in gio­ co, a confrontarla, ad analizzarla, a spiegarla. Da una parte c'è lo snobismo di chi sa di essere rap­ presentante di un'élite culturale e che aveva i suoi comandamenti e le sue regole di gruppo (i redattori dei «Cahiers», paladini di un'idea di cinema alta ed esigente insieme), ma dall'altra c'è il senso altissimo di una mis­ sione pedagogica che rifiuta di legittimare l'ignoranza del pubblico per sforzarsi invece di dividere il proprio sapere con quello stesso pubblico. E proprio come l'autore è un'«immagine patema» che ti aiuta a vedere il mondo in un certo modo («vista la mia storia personale, io non po­ tevo che avere dei rapporti con quel cinema in cui sei pre­ so per mano da qualcuno, l'autore che ti dice: "Ecco io guardo il mondo così, così mi ci ritrovo, vieni con me e ne avrai una visione coerente» scrive in Lo sguardo ostina­ to), allo stesso modo il critico Daney diventa una specie di padre che prende lo spettatore per mano e lo accompa­ gna dentro una visione altrettanto coerente del cinema. Una visione, bisogna sottolinearlo, che non si chiude su se stessa per appiattirsi su una concezione onanistica della cinefilia, ma che invece non può che aprirsi sul mon­ do: «la forza del cinema è stata proprio quella di offrirci magnifici accessi ad altre esperienze, diverse dalle nostre, permettendoci, per qualche secondo, di condividere qual­

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cosa di assolutamente nuovo». Una visione che illumina il lettore e lo guida nei labirinti di quell’universo visivo, che Daney ha esplorato con pazienza e sagacia e di cui ha messo in mostra tutto il fascino e il pericolo. E ha saputo svelare l’insopportabile accademismo di un cinema che stava perdendo la sua forza e la sua carica vitale per ac­ cartocciarsi su se stesso nella vana speranza di compete­ re con la televisione o la pubblicità sui loro terreni. E proprio di questo cinema contaminato e bastardo, che accetta senza molte preoccupazioni ogni tipo di com­ promesso, Daney ha saputo sottolineare l’inadeguatezza, l’incompletezza, il tradimento. Formatosi sulle opere dei grandi - Hawks, Hitchcock, Lang - ha rifiutato per tutta la vita di chiedere al cinema meno di quello che quegli au­ tori e quei film gli avevano dato. Non erano possibili com­ promessi o sconti, anche a rischio della solitudine e del’emarginazione. Leggere le sue cronache sui film pas­ sati in televisione o le sue riflessioni sul modo in cui la te­ levisione snatura l’informazione durante la guerra del Golfo (raccolte in Devant la recrudescence des vols de sacs à main, di cui pubblichiamo alcuni testi qui di se­ guito) non aiuta solo a non chiudere gli occhi davanti dl­ l’imbarbarimento visuale della realtà, ma anche a non di­ menticare che il cinema può, e deve, offrirci molto di più. Nonostante l’involuzione che lo fa dubitare del futuro di un’arte e che gli fa rispondere a Toubiana in Lo sguar­ do ostinato: «Come Bazin penso che alla base del cinema ci sia stato un desiderio o un bisogno assolutamente ir­ refrenabile, come un incendio in una foresta, e che que­ sto sia accaduto una volta sola nella storia dell’arte. Ho combattuto in passato contro questa idea, perché volevo che il cinema si iscrivesse in uno svolgimento lineare del mondo, dopo la fotografia e prima della televisione o del video. Era un pensiero molto rassicurante, che promette­ va un seguito. Ebbene, ci siamo sbagliati ancora, come tutte le volte in cui abbiamo pensato in termini lineari. In realtà, siamo in un giro di spirale, e il problema non si po­ ne oggi in termini di tecniche ma in termini di desiderio di massa di essere nuovamente meravigliati dal visuale e dal sonoro». E quando si sente chiedere se c’è qualche spe­ ranza che il cinema ritrovi i suoi tempi migliori, rispon­

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de: «Non vedo come il cinema possa essere altro che un filo rosso o una contestazione...», anche se poi, davanti a questo pessimismo, aggiunge: «La cosa straordinaria è che per noi, anche un secolo dopo, il treno continua ad arrivare alla Ciotat. È ancora possibile mettersi al posto dello spettatore che ha avuto paura, a dimostrazione che qualcosa nel cinema appartiene sì al passato, ma non è passato».

Paolo Mereghetti

I libri di Serge Daney: 1983 La rampe - Cahier critique 1970-1982, Cahiers du Cinéma, Gallimard. 1986 Ciné journal 1981-1986, Cahiers du Cinéma (trad, it: Ciné journal, Edizioni Bianco&Nero 1999) 1988 Le Salaire du zappeur, Ramsay poi P.O.L. Editeur 1993 1991 Devant la recrudescence des vols de sacs à main, Aléas (trad, it: Cinema, televisione, informazione, Edizioni e/o 1999) 1993 L'Exercice a été profitable Monsieur, P.O.L. Editeur (trad, it: Il cinema, e oltre, Editrice II Castoro 1998) 1994 Persévérance, P.O.L. Editeur (traduzione italiana: Lo sguardo ostinato - Riflessioni di un cinefilo, Editrice II Castoro 1995)

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I FANTASMI DEL PERMANENTE (DAL CINEMA ALLA televisione)

Quello che produce La mia Africa Dal momento che i rapporti tra cinema e pubblicità sono diventati stretti come quelli tra l'uovo e la gallina, una sola domanda si pone: chi è l'uovo e chi la gallina? Succede quando un lunedì mattina, all'alba, ci si im­ batte in quella cosa molto oscarizzata che fu La mia Africa (1985). La cosa è diventata davvero lunghetta e molliccia, e il passaggio in televisione le ha fatto perde­ re un po’ di quel poco di aura che le si era generosa­ mente concessa. La mia Africa appartiene, in effetti, a un vero e proprio «genere»: il fìlm-che-fa-pubblicitàper-il-cinema, genere oscarizzabile che va avanti a for­ za di professionalità e di leccato nostalgico1. La secca­ tura è che alla televisione questo genere non regge. O meglio, ritorna alla sua casella di partenza, vale a dire la pubblicità. Tutto ciò è già stato detto. Si è fatta crudelmente la lista dei prodotti (dal cocktail tropicale alla compagnia aerea) che il film «vendeva». Ma la crudeltà non basta più, e, anzi, si deve andare oltre (è uno dei fini di que­ sta rubrica). Non basta più constatare l'incesto tra film e spot, bisognerebbe chiedersi a partire da quale mo­ mento l’incesto è stato consumato. E soprattutto biso­ gnerebbe iniziare la descrizione del «com’è», l’estetica pubblicitaria, e a che cosa somiglia il mondo al quale la pubblicità ci ha da tempo introdotto. La mia Africa è uno di quei film che impiegano un'ora per costruire la scena e un'altra ora per collocarvi una storia così intima e bella da «far dimenticare la scena». Ciò che era la caratteristica del cinema accademico è di­ ventato l’essenza stessa della pubblicità. Una pubblicità non funziona se non ha saputo costruire la scena; e vi­ sto che dura poco, deve farlo in fretta. Monotona suc­

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cessione di momenti «privilegiati», La mia Africa somi­ glia, vista da lontano, a un film, ma se lo si guarda da vi­ cino tutti i suoi momenti sono costruiti come degli spot. Ora, ci sono due tipi di spot. Ci può essere un perso­ naggio che ne sa più di un altro e glielo fa notare (si­ stema detersivo, banale, a base di Mastro Lindo), o ci possono essere più personaggi che comunicano in un elemento terzo, rappresentato in generale dalla musica (sistema chic a base di coppie dalla bellezza iperreale). Gli spot del primo tipo sono migliaia nella prima ora de La mia Africa. Alla scoperta del Kenya, la baronessa Blixen non fa che incontrare per caso personaggi che si trovano lì unicamente per aiutarla a «farsi un’idea», a giudicare lei stessa la solidità del prodotto «Africa». Tutte le scene seguono così un unico schema, monoto­ no e miserello, dove colui che sa dimostra (o rivela) qualcosa all’altro che non sa. Non si tratta, quindi, che di rapporti di forza, stancamente filmati, e non c’è nes­ suna scena che si concluda con un vero guadagno (di sapere) per uno - uno solo - dei personaggi. All’inizio la baronessa Streep si fa impartire la lezione, poi, dato che non manca di fascino, è lei che sorprenderà il suo mondo. In ogni caso, è sempre imilaterale. Nella seconda parte del film prevalgono gli spot del secondo tipo, più moderni. Una volta costruita la scena, bisogna passare alla vibrante storia d’amore che lega i due divi e ai momenti indimenticabili che condividono. Qui le cose si fanno più languide. Si suppone che i divi si dissolvano nel grande tutto dell'Africa, cosa che sa­ rebbe del tutto impossibile (non ci si «dissolve» in una scena, ci si «staglia» su di essa) se, per fortuna, non si fosse inventata la musica da film e non fosse nato John Barry per tirarne fuori una. La prova? Quando Denys Finch Hatton (Robert Redford) fa la dimostrazione di un antenato del Moulinex («Finalmente hanno inventa­ to una macchina utile»), suonando Mozart nella savana: invece di lasciare Mozart, Pollack lo copre immediata­ mente con un purè sonoro firmato Barry. A che cosa ser­ ve la musica in quel momento? Non a prolungare l’emo­ zione della scena (Mozart sarebbe bastato), ma a signi­ ficare2 allo spettatore che c'è stata emozione. 14

Non sorprende, allora, che le cose difficili da ripren­ dere vengano puramente e semplicemente evitate. A fu­ ria di aver digerito le procedure della pubblicità, ci so­ no cose che anche un cineasta degno di stima come Pol­ lack non sa più mettere in scena; e quando la barones­ sa uccide un leone, ci vuole almeno un ralenti per poter capire che cosa è successo. A volte riaffiora, per caso, un po’ di «cinema». Una leonessa in collera ruggisce, ma finisce per riprendere il suo cammino. Un gruppo di Masai si accontenta di attraversare l'immagine senza degnare di un solo sguardo i bianchi paralizzati. Sim­ patici Masai, amabile leonessa, comparse inutili: belle inquadrature. (11-10-1988)

Tre anni dopo il Dragone Che cosa è vicino e che cosa è lontano? Vi sono do­ mande che rischiano di non sopravvivere al cinema. Co­ me fanno le cose ad arrivare fino a noi dall’estremità del mondo? E come possiamo vederle arrivare? Le popola­ zioni, le informazioni, le droghe rientrano tra queste co­ se. Esse sono al centro de L’anno del Dragone (1985)3 e del cinema di Michael Cimino. Rivedere, a distanza di tre anni, L'anno del Dragone su Canal Plus ci rende consa­ pevoli di quanto questa domanda non apparterrà mai al­ la televisione. Ciò che è lontano è sempre-già-là, «fedele al suo posto», senza aura né fronzoli. D vero esotismo della TV è quello che succede «da noi» quando, per caso, capita qualcosa che eravamo lontani dall’immaginare. Al cinema le cose andavano diversamente, e non era raro che i grandi cineasti (Cimino a volte lo è) facessero pro­ pri dei problemi tipici dei giornalisti. Strani giornalisti, convinti che «tutto si tiene» e che basta tirare un filo per far venire - perché no - il mondo intero; un mondo che sarebbero sufficientemente pazzi (paranoici è il termine esatto) da inserire in un solo e unico film. «Questo viene da lontano» è il leitmotiv del capitano White, l'eroe rabbioso travestito da Mickey Rourke del­ 15

I’Anno del Dragone. Questo cosa? Questo tutto. L’attività delle gang di Chinatown che deriva dalla mafia cinoamericana che deriva da quella delle «triadi»di HongKong che deriva da diversi millenni di Cina e dalla presenza ottusa dei cinesi negli Stati Uniti. Per non par­ lare della droga, che arriva da Bangkok su una nave po­ lacca, il «Kazimierz Pulawski», ironia della sorte se si pensa che anche White viene da lontano, dalla Polonia per l’esattezza - con una penosa deviazione in Vietnam. Anche il risentimento viene da lontano, come l’ira che si gusta fredda e il rancore che arretra i confini del mondo. Ci si ricorda del «dibattito» che ha accolto il film al­ la sua uscita: razzista o no? Alla televisione si vede me­ glio fino a che punto il razzismo non sia altro che la ra­ zionalizzazione meschina di ciò che Cimino sa ancora filmare con quella golosità e quella follia che ogni ci­ neasta degno di questo nome non può non avere, e che va sempre al di là delle sue coordinate ideologiche. Bisogna vedere L'anno del Dragone come un esercizio (a volte inutile) di stile su questa questione del vicino e del lontano. È qui l’effetto della televisione su questo film. Bisogna vedere come provi tutto, prima di giunge­ re all'unico faccia a faccia che possa sciogliere tutti i no­ di del film. Bisogna vedere il modo in cui Cimino co­ struisce le sue scene a partire da grandi movimenti di macchina all'interno dei quali proliferano azioni non si­ multanee (come alla televisione), ma parallele (come al cinema). Come accostarsi alle cose è stata, un tempo, la questione centrale. Ma là dove lo zoom ha sostituito gli spostamenti dell’attore con quelli del nostro sguardo, Cimino lancia Rourke come uno zoom vivente nel cuo­ re di ciò che passa improvvisamente dal «troppo lonta­ no» al «troppo vicino», dalla gelosia alla fobia. Per Cimino è necessario anche che il lontano indie­ treggi a mano a mano che il vicino lo raggiunge4. Ci so­ no, più o meno a metà de L'anno del Dragone, alcune scene straordinarie. Criticato da tutti gli altri personag­ gi del film, sotto analisi, messo a nudo, Stanley White accusa il colpo e diventa, per qualche scena, un relitto. È allora che, senza preavviso, Cimino lo abbandona e segue il suo nemico, l'affascinante Joey Tai, il giovane 16

capo della mafia cinese, in un viaggio «d’affari» nella fo­ resta thailandese (o birmana?). Episodio aberrante per­ ché ci obbliga a «identificarci» con questo personaggio, che è pur sempre il «cattivo» del film. Cimino cede a una tentazione ben strana: quella di rimpiazzare il suo giustiziere esausto con il suo nemico giurato, al quale concede un bel pezzo di cinema d’avventura. Così, quando si ritorna a New York e ai cori polacchi del funerale della moglie di White, si ha come una pre­ gnante illustrazione del cinema cui aspira l'inconscio di Cimino. Un cinema con cerchi concentrici sempre più larghi, dove i fili tra il vicino e il lontano si tessono sot­ to i nostri occhi, dove il mondo intero comunica con se stesso. Questo era stato, peraltro, il colpo di genio de II cacciatore, che passava senza preavviso dal Vietnam al­ la Pennsylvania; ed era questo tipo di cose a fare di Ci­ mino (prima de II siciliano) un cineasta prezioso. Ma non si tratta, tuttavia, che di una tentazione. Al­ largare i cerchi all'infinito o gettarsi sul centro del ber­ saglio, là dove, tra due uomini, uno solo deve sopravvi­ vere? L'Anno del Dragone sceglie la seconda soluzione, più conforme al suo moralismo stantio ma contraria al­ la natura del talento di Cimino. (14-10-1988)

Sul neo-imbecille Oltre a essere una voce, Patrick Brion è anche, se non di più, un pedagogo. Trasmettendo in successione, do­ menica sera, Maria Antonietta e King Without A Crown, ha mostrato perché il cinema americano degli anni tren­ ta si è ritenuto, nella massima serietà, obbligato a rice­ vere l’eredità anche dell’Europa e àeWancien régime (corti, re, regine e altri fronzoli). Maria Antonietta (1938) è un moscio polpettone firmato Van Dyke, con le sceno­ grafie di Gibbons e le moine della Shearer, e King Without A Crown è un cortometraggio educativo, firma­ to Jacques Toumeur e ispirato senza dubbio da Le due città di Jack Conway.

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È la fine del piccolo film di Tourneur (altrettanto el­ littico e contorto di un falso Raoul Ruiz a corto di falsa TV) che offre la chiave della grande cosa che lo ha pre­ ceduto5. King 'Without A Crown rievoca la storia di Elea­ zar Williams, uno degli innumerevoli possibili Luigi XVH, di professione pastore americano. Il film si chiu­ de su un’immagine del pubblico di una sala cinemato­ grafica e su una voce off che tuona: «Forse tra voi c'è un discendente del Delfino!?». Si capisce che, in queste condizioni, il Luigi XV-Barrymore di Maria Antonietta sia particolarmente male ispirato quando pronuncia il celebre «Dopo di me... il diluvio!». Questo imbecille avrebbe dovuto dire: «Dopo di me... la MGM». È nel nome di questo eventuale Luigi XVII america­ no che la Hollywood chic e parvenue della MGM si oc­ cupa nel 1938 (un anno dopo la morte di Thalberg) del­ la moglie di Luigi XVI. È sufficiente fare interpretare Maria Antonietta da Norma Shearer, vedova Thalberg uscita da un fumetto disegnato da Greuze, perché il pubblico sia diviso tra il concetto (che si suppone su­ blime) di regina e il comportamento (nettamente da sartina) di un corpo di attrice. Questo gioco di presti­ gio, un pochino brechtiano, è noto. Da un lato la picco­ la borghesia dei divi della casa si appropria dei ruoli re­ gali, e dall’altro il proletariato delle comparse della ca­ sa fa le smorfie nel ruolo del popolo francese (in realtà una plebe che più immonda non si può). Un’aristocra­ zia improbabile e un popolo innominabile vengono co­ sì sussunti dalla gerarchia, ben altrimenti dura, dello star system hollywoodiano. Maria Antonietta fa parte di quei film in cui il sogno americano (quello delle classi medie) si veste dei vecchi e nobili abiti della storia europea. Il fascino di questi film è anche il loro limite, poiché, se si può decidere che Tyrone Power è Axel Fersen, è comunque meglio che non debba interpretare troppe scene. Una rivista televisiva ha raccomandato di guardare questo film con la coda dell'occhio, come un prodotto kitsch. Per coloro cui dà fastidio questa procedura da furbetti, Maria Antonietta rimane, nel 1988, il film im­ becille che era stato nel 1938 (e il savoir-faire di Van

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Dyke - divenuto all’epoca il tuttofare delle missioni im­ possibili - non riesce a cambiarlo); è semplicemente di­ ventato, nel 1988, un prodotto neo-imbecille e, perdipiù, diffìcile da guardare. Ora, infatti, ci si attiene (da bravo piccolo francese) alla verità storica e si storce il naso di fronte alla frivolezza della sceneggiatura, ora si vede il film come un involontario documento sulla stucchevo­ le Norma Shearer e sul suo modo di recitare per la mac­ china da presa e mai con i partner. Un buon film di cinema è un film che racchiude due o tre letture, a seconda del pubblico e dell’epoca. Un cat­ tivo film non ne racchiude che una: la prima. E poiché, dopo quarant'anni, nessuno spettatore è abbastanza imbecille da leggere il film come lo lesse il suo pubbli­ co originario, non gli resta che ricorrere al kitsch, que­ sta falsa seconda lettura la cui parola d’ordine potrebbe essere «si può portare il proprio cibo». Ciò non impedisce che Maria Antonietta abbia le qua­ lità medie del cinema americano, e che queste qualità funzionino talmente a vuoto da permettere a tutti di ve­ derle. Il modo, ad esempio, di far derivare qualsiasi co­ sa da qualsiasi altra, come se tutto si riducesse a cause semplicistiche e conseguenze sempliciotte e nulla fosse più importante dell’isterica saldatura di anelli di una ca­ tena (che peraltro non interessa a nessuno) che non ha né coda né testa. Un solo personaggio, se non altro, ha dei dubbi sul fatto che questa storia valga la pena di es­ sere vissuta e poi divulgata: è il prode Luigi XVI inter­ pretato da Robert Morley, tutto imbronciato. A un certo punto, Van Dyke (che è piuttosto uno specialista dei film di avventura) non ce la fa più, e riprende il futuro Luigi XVI che per poco non spacca la faccia a Luigi XV-Barrymore, tutto sifilitico nella sua poltrona. Un po' di corpo a corpo, improvvisamente: si respira. (18-10-1988)

Un poliziotto nel piccolo scrigno

La TV è accesa, ma non la si guarda. Ronza, sbraita 19

o esulta (in breve: funziona) in un'altra stanza. Tuttavia, un dubbio si insinua: questo suono sordo e ovattato è davvero la televisione? E se si fosse spenta da sola? E se si mettesse, come uno zombie, a sognare a voce bassa? Allora, visto che bisogna verificare, si guarda. E si vede. In un treno, un colosso con i capelli gialli sorveglia una valigetta nera piena di polvere bianca e si installa per la notte nel suo scompartimento. Da un elicottero che sorvola il treno un uomo scende lungo una corda, penetra nella toilette del vagone, si toglie la tuta e slac­ cia le sue scarpe da basket, esce nel corridoio in vesta­ glia, forza la porta con l’aiuto di una grossa calamita, stordisce il colosso addormentato, ruba la valigetta, ri­ torna nella toilette, si riveste, esce e ritorna al suo eli­ cottero. Tutto questo in tempo reale, senza una parola. Non è Missione impossibile, è Notte sulla città, l'ultimo film di Jean-Pierre Melville (1972). È raro che il suono di un film non esca a pezzi dal pas­ saggio alla televisione. Qui regna la legge del più forte, vale a dire di chi parla più forte6. Legge nulla, poiché, a parte la sua scarsa qualità tecnica, il suono della televi­ sione non supera mai il livello di un rumore segnaletico. Legge alla quale si può rispondere gridando ancora più forte (che è quello che fa la pubblicità) o, più raramen­ te, facendo meno rumore. Perché «meno rumore» alla televisione inquieta quanto un bimbo che improvvisa­ mente non si sente più giocare. Il Melville di Notte sulla città è questo bambino defini­ tivamente serio che ha scelto una volta per tutte i suoi giocattoli, che non molla e non ne uscirà più. Rotti da tempo, i giocattoli in questione sono stupiti di reggere ancora lo choc di una storia, di resistere alla prova del­ l'immagine e alla sfida del tempo. La Resistenza interes­ sa Melville. Resistenza degli uomini all'occupazione, poi resistenza dei corpi a ciò che degrada la loro immagine. I giocattoli di Melville sono degli uomini, e la base del gioco (a somma zero) è l’amicizia virile. Ma questo (che si sa) non è l’essenziale. L’essenziale è che, nel 1972, Melville va fino al limite del narcisismo e non fa finta di integrare dei giovani (o delle donne: il ruolo della De­ neuve è minimo) nella sua storia. Ha questa tranquilla 20

sfacciataggine: riprendere piuttosto persone della sua età (ha 55 anni), quarantenni e cinquantenni efficaci ma lenti, professionali ma appesantiti. Se il film non fosse così cupamente ieratico, sarebbe burlesco. Un burlesco da esteta che si ingegna a molti­ plicare un accessorio (un vestito, degli occhiali, un vol­ to, un Burberry, un colore, un rumore di fondo) per due, per tre, per quattro, per enne volte. Delon, la star del film, sfugge a stento a questo gioco di specchi dove tutto è clone1. Per cui le emozioni dei personaggi, non del tutto «rientrate» dietro la maschera degli attori, non cessano, al contrario, di «uscire» e di propagarsi da un'inquadratura all'altra. Basta che due personaggi di­ stanti accendano contemporaneamente una sigaretta perché vacillino tutti i punti di riferimento (e non solo la vecchia metafisica del bene e del male, divenuta qua­ si vetusta). Basta che qualcuno guardi perché un ogget­ to gli venga incontro, sempre quello «buono», sempre quello che si doveva vedere e che non aspettava che que­ sto: essere visto. È ciò che succede a un mondo privo di incrinature: prolifera all’interno dei suoi limiti. Perché è così bello? Perché è vulnerabile, perché que­ sto «lega» tutto e non «tiene» nulla. Perché è così facile parlare di «manierismo». Perché è così bello alla televi­ sione? Perché alla televisione l’intimismo troppo visto­ so del cinema di Melville diventa pura e semplice inti­ mità. Questa intimità non è più un «valore» morale (pu­ dore ecc.), è la materia stessa di Notte sulla città, la so­ la realtà alla quale il piccolo schermo possa servire da scrigno. Il piccolo schermo diventa piccolo scrigno. Che cosa c’è dentro lo scrigno? Delle cose vulnerabili, per l’appunto: degli inserti tremolanti, delle pesantezze di un secondo, delle zaffate di pathos. Degli assassini so­ briamente vestiti che si organizzano per procurare ai lo­ ro corpi troppo muscolosi un po’ di sonno. Degli uomi­ ni che non saranno mai tanto nudi che quando si dedi­ cano ai piccoli lavori della manutenzione del corpo. L’erotismo maldestro dei forzuti e lo sguardo materno del travestito sul suo duro d’uomo®. In Notte sulla città Melville non idealizza più, non su­ blima più, non moraleggia più. Come tutti i grandi ci­ 21

neasti, finisce per accontentarsi di filmare ciò - ovvero quelli - che ama. (21-10-1988)

Minnelli preso nella sua tela - Sono io, dice una voce. - Tu chi? - Io, Cobweb, La tela del ragno (1955). - Ancora un Minnelli? - Guardami. Sono molto bello, sono molto «psic». - E hai un cast pazzesco, lo so. - Quello che non sai, è che James Dean avrebbe do­ vuto interpretare il ruolo del giovane nevrotico. - Ma sì che lo so. Dean era troppo caro, e la parte è stata interpretata da John Kerr. Minnelli ha detto tutto nella sua autobiografia. Il mio tono era secco. A dire il vero, ero irritato per un sacco di ragioni. Il mio lato «autoriale» mi diceva che questo Minnelli era un’ulteriore meditazione sulla scenografia, dato che racconta come una clinica psichiatrica «moderna» sci­ voli - senza distinzioni tra assistiti e assistenti - verso la crisi di nervi generale. Crisi il cui pretesto è la necessità di cambiare le tende della biblioteca della clinica! La te­ la del ragno era certo molto «minnelliano». E, allo stes­ so tempo, non dimenticavo che il mio compito non era tanto di dimostrare che un autore è fedele a se stesso, quanto di giudicare come i suoi film «reggano» il pic­ colo schermo, uno per uno. In fondo temevo che i gran­ di Minnelli degli anni Cinquanta, con i loro Eastman­ color risciacquati, i loro Cinemascope tosati e la loro te­ matica psicologica, reggessero meno bene delle pure commedie musicali del periodo precedente. - Evidentemente preferisci II pirata, sospirò il film che aveva indovinato il mio pensiero. - Non è questo il punto, mentii. È che per i film de­ gli anni Cinquanta il passaggio alla televisione a volte è difficile.

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- Capisco, vuoi umiliarmi. - Ma no, cedetti. Così ho rivisto La tela del ragno, e ne ho ammirato una volta di più il modo in cui Widmark, Grahame, Ba­ call, Gish, Boyer, Kerr, Strasberg e Levant dividevano lo spazio-tempo del film. Oggi nessuno saprebbe ospi­ tare così democraticamente un tale numero di perso­ naggi in un solo film. Ognuno con i suoi «problemi», e correntemente parlante in termini freudiani - soprat­ tutto i malati. Strano ottimismo quello di Minnelli, Houseman (grande produttore) e Gibson (sceneggiatore), tutti persuasi che la psicanalisi sia un buon meto­ do, moderno e umano, e che essa possa senza alcun dubbio guarire, a patto che gli assistenti si uniscano agli assistiti nell’elegante terapia di un balletto collettivo. Il self government dei malati non è forse il fine perseguito dal dottor Widmark? Ma un balletto di sintomi non è più una commedia musicale. Una danza, una canzone hanno un inizio e una fine: esse risolvono qualcosa; il dialogo mai. Il pira­ ta reggeva nello schermo quadrato in Technicolor, La tela del ragno non regge più nello spazio dello studio né nei tempi di un film «normale». La tela del ragno sa di avere dei buchi, di essere esposta a rabberciamenti, a semplificazioni, a pii desideri. Si sente che la crisi del­ lo studio system è imminente; lo si sente nel modo in cui Minnelli trattiene in extremis i suoi attori in uno spazio comune. Ecco perché le tende della biblioteca sono essenzia­ li. Sono quasi come il trailer delle nuove abitudini di questa nuova Hollywood che sarà fatale a Minnelli. C’è Gish, economa tirchia, che le vorrebbe di reps o di chintz; c’è Grahame, moglie trascurata del padrone, che le vorrebbe in mussolina; c’è Bacali, la più vicina ai ma­ lati, che vuole affidarne la confezione a questi. Nel film prevale quest’ultima proposta; nella realtà è la seconda a imporsi. Le tende in mussolina sono orrende: come il personaggio di Grahame, esse anticipano Dallas. Se la scenografia è brutta - brutta da far paura -, è perché essa non è più un rifugio. Uomo di gusto, Min­ nelli fugge di fronte alla bruttezza. Fughe paniche alla

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fine di A casa dopo l'uragano e soprattutto di Qualcuno verrà. Fuga del giovane pittore squilibrato (John Kerr) alla fine de La tela del ragno. Fuga di Minnelli e della sua troupe verso la pioggia notturna e il fiume che si sta dra­ gando - fuori dallo studio che non li trattiene più, far from home. H film ci tocca, ma non come prima. Forse perché sappiamo troppo bene che cosa è venuto dopo. La tele­ visione ha fatto la sua comparsa negli Stati Uniti nel momento in cui i film perdevano le loro caratteristiche: troppi personaggi, troppe idee, troppe piste, e soprat­ tutto troppe lungaggini. Ha riformattato questa ric­ chezza, ha adottato un Freud da cucina, ha colmato queste linee di fuga che in Minnelli sono così chiara­ mente visibili perché lui ancora vi resiste, e vi cede so­ lo quando è a corto di argomenti. Così, quando si rivede La tela del ragno sul piccolo schermo, è come se la televisione, rovistando nei suoi armadi, esibisse il brulichio malato da cui è derivata, e che ha messo in buon ordine. (22-10-1988)

Questo è cinema Recentemente, parlando di Dròle d'endroit pour une rencontre, una persona le cui opinioni contano molto’ diceva due cose. La prima: è molto buono; la seconda: è cinema. Ma quest'ultima affermazione non era più espressa con quell'ammirazione vendicatrice che si concedeva una volta agli spettacoli capaci di suscitare euforia («questo almeno è cinema»), bensì come una semplice constatazione. Pare che oggi si sappia con maggiore certezza a che cosa somiglia «un film di cine­ ma». Non a un telefilm né a un exploit audiovisivo, ma, sempre di più, a uno «strano posto per un incontro». Witness di Peter Weir è, dunque, un film di cinema. Un bel film, peraltro, come sognato da un australiano negli Stati Uniti, con uno strano posto e un numero suf­ ficiente di esseri umani perché si incontrino. Dopo Wit24

ness tutti conoscono il posto: questo paese amish che vi­ ve in un altro secolo (il XIX), secondo le proprie cre­ denze (religiose, rigide, egalitarie, pacifìste), vicino a Fi­ ladelfia e, ciononostante, lontano dal mondo industria­ le (non ci sono automobili, né telefono, né televisione). Gli Amish del film di Weir sembrano uscire da un Ford in costume10 o, a causa della loro lingua nordica, da un Dreyer elegiaco. Eppure siamo nel 1984. Rachel e Samuel, madre e figlio, lasciano il villaggio amish per andare, così credono, a Baltimora. Questo si­ gnifica non tener conto della sceneggiatura, che tra­ sforma il bambino nel testimone (witness) di un assas­ sinio e l'ispettore incaricato dell'inchiesta (Harrison Ford) in un partner obbligato per tutto il resto del film. Il fatto è che l’inchiesta vacilla, e il film con essa. Dopo avere scoperto che i criminali altri non erano che poli­ ziotti corrotti «usciti dalla retta via» (tra cui il proprio superiore), l’ispettore ferito si rifugia in un posto in cui nessuno lo troverà: nel paese amish. Qui è (per un po’) al sicuro, perché questo (strano) posto è fuori dal tem­ po. Segue una lunga parentesi - il film - in cui egli in­ contra la comunità amish, le opere e i giorni e, beninte­ so, Rachel (la bella Kelly McGillis). Un film parte in una direzione, si biforca, cambia idea, fa una deviazione e ritorna - «pieno di senno e di esperienza» - al suo punto di partenza. Questa libertà di aprire parentesi, riconosciuta allo scrittore, manca ai cineasti a tal punto che siamo grati a Peter Weir per averla, sia pure modestamente, ritrovata. Tutti i per­ corsi di un film conducono, in ogni caso, alla parola «fi­ ne», ma alla lunga non vi è nulla di più sinistro di un modo di guidare «simulato» lungo le autostrade delle sceneggiature di cemento e dei concetti «portanti». È ciò che succede lungo la strada che crea il fascino del viaggio; è il modo in cui le cose fanno finta di non ac­ cadere che fa sì che esse accadano davvero. Un film «di cinema», oggi, è forse questo: lasciare le autostrade battute e riprendere i sentieri che si biforca­ no, anche quelli che non vanno da nessuna parte o ri­ portano alla casella di partenza. Perdere del tempo per finire per guadagnarne, inventare del tempo perduto. È

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in ogni caso quello che si dice quando si è preda del fa­ scino di Witness, poiché il film ha questa rara qualità, di far procedere tutto allo stesso tempo, senza eccessi­ va fretta. Chiunque apra una parentesi la richiuderà, questo è certo. Ma al momento voluto. Sono molte le scene in Witness ad avere questa strana freschezza del vecchio cinema, quando bisognava attendere l'inizio di una nuova scena prima di essere certi che nella vecchia non sarebbe successo più nulla. In questo modo di colloca­ re un avvenimento nell'ultimo terzo di una scena, in quest'arte del rimbalzo fluido e fatale, Ford (John) era il più grande. In Witness c’è un po' di questo, e, vedendo il film alla televisione, misuriamo all’improvviso fino a che punto essa ci abbia privato di questa attesa di un avvenimento sempre possibile e tanto più bello - quan­ tunque minimo - da trovarci abbastanza svegli per ve­ derlo accadere. Ford si voleva modesto, e la modestia è la virtù car­ dinale degli Amish. Del resto Harrison Ford è il più mo­ desto dei divi, e il film è inconcepibile senza di lui. Egli appartiene a quella specie, molto preziosa, di attori americani distanti dall’Actor's Studio e dalle sue moine psicologiche tanto quanto il paese amish dal resto del­ l’America. Egli recita un po’ come Wayne, con un cor­ po sempre più agile di quanto non sembri e un modo molto rapido di giudicare, in un batter d’occhio, lo spa­ zio che gli viene attribuito. Questo film, decisamente, è fordiano. (24-10-1988)

L'ultima tentazione del primo Rambo

Quando non è più possibile separare un film dal fe­ nomeno di massa che è diventato, quando un eroe di celluloide è diventato un emblema per ogni cosa, non è inutile rivederlo alla televisione, così come lo accoglie il piccolo schermo. Privato della sua aura, esso ritorna quello che era all’inizio: immagini e suoni in mezzo ad 26

altre immagini e altri suoni. Capita addirittura che in questo modesto riciclaggio il film non perda niente. Sopraffatti dalle recenti metamorfosi di Rambo II e HI, abbiamo ancora abbastanza sangue freddo da restit uire a Rambo I (firmato Ted Kotcheff) le sue qualità ori­ ginarie. Come John Rambo, eroe del Vietnam, sia di­ ventato una belva feroce, è la domanda del film. Come Rambo - il film - sia degenerato in «seguiti» sempre più insulsi, è la stessa domanda. Come non sia indubbia­ mente più possibile che delle idee abbiano un seguito è sempre la stessa domanda, stavolta indirizzata a tutto quanto il cinema. Questo vale per Rambo come per Rocky, vale a dire per Stallone, che è stato grande e poi grottesco in entrambi. Sfruttare un filone oggi significa tradirlo alla prima occasione. Prima di essere un bruto assetato di vendetta, Rambo è stato una bestia braccata, in stato di legittima difesa. Rambo, in realtà, non esiste; e se all'inizio è così dolce e sensibile è perché, all’epoca ( 1983), l’America non si era affatto riconciliata con la sua guerra e Jane Fonda non si era ancora scusata con i veterani. Quando l’America smise di portare il suo lutto vietnamita, Rambo guadagnò in bicipiti quello che per­ se definitivamente in neuroni. La serie non ha una logi­ ca sua propria: essa è un sondaggio in progress. Questo non impedisce che la tele-visione del primo Rambo sia una delle cose più piacevoli che ci siano. Tut­ to è chiaro in questo film che ha le caratteristiche del cinema primitivo americano, con l'azione al centro deH’immagine e le motivazioni al centro dei dialoghi. Tutto è chiaro perché l’unica cosa non-molto-chiara (la guerra del Vietnam, ancora recente) è evocata solo alla fine del film, quando un Rambo in lacrime si arrende. Nel mezzo tutto accade sotto forma di trauma, a im­ magine della recitazione, troppo denigrata, dell’attore Sylvester Stallone. Rambo non è soltanto un film su qualcuno che ha quasi perso l’uso della parola, è sostanzialmente un film muto. Muto sulle grandi domande di cui ritarda il più possibile la formulazione. Muto sulle cause nascoste e i fini ultimi, muto davanti alla violenza e alla natura. Bi­ sogna essere grati a Stallone per aver reinventato per 27

questo film una drammaturgia dell’occhio tondo e del­ lo sguardo a semaforo. Questo lo fa somigliare agli at­ tori dei primi western, muti come dei pesci, traumatiz­ zati da un nonnulla e guizzanti nella natura ostile. Se Rambo fosse un western, l'attore Rambo sarebbe un indiano. Non l'indiano vinto dei film di De Mille, bensì l’indiano in collera che ritorna per sfidare i suoi ex vincitori che il Vietnam ha vinto. Questo aspetto we­ stern è la parte migliore del film, e anche la più signifi­ cativa. Rambo non ha bisogno di sceneggiatura perché Rambo è la sua sceneggiatura, vale a dire la sua memo­ ria. Memoria recente del trauma del Vietnam, memoria antica del genocidio degli indiani, memoria affatto semplice del popolo americano nel senso che non deve dimenticare di essere anche un popolo guerriero". Al contatto (un pochino rude) con Rambo, grazie alla guerra che egli dichiara loro da solo, le «forze dell’ordi­ ne» di una cittadina americana imparano nuovamente a combattere. È questo il sacrificio di Rambo, è questa la sua dimensione cristologica. A lui il calvario, agli al­ tri la presa di coscienza. In questo senso Rambo è un ve­ ro Cristo, e la sua «ultima tentazione» (quella di essere un uomo come tutti gli altri) coincide con il «primo san­ gue» (quello che, per pura cattiveria, gli si fa subito ver­ sare). Ecco qualcuno che, almeno, salva il mondo, in­ vece di vivere, come il suo futuro fratellino di Scorsese, i tormenti snob dell’individualismo contemporaneo. È proprio per questo che così tanta gente si è identi­ ficata con il suo corpo di culturista masochista. Tutti co­ loro per i quali l'individualismo è ancora un lusso si ri­ conoscono negli eroi salvatori, e non si preoccupano mai troppo della natura profonda di ciò che viene salva­ to. Perché questi eroi troppo seri che li fanno divertire li salvano almeno da una cosa: la noia. (28-10-1988)

La diva e gli avanzi Era la sera prima del giorno in cui l’influenza mi mi­

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se fuori combattimento. Avevo deciso di dare un’oc­ chiata a E Dio creò la donna (1956), curioso di rivedere questo film che aveva lanciato la Bardot e preparato la strada alla Nouvelle Vague. - Non sono dunque altro che questo?, gemeva il film. Non sarò mai altro che questo? - Sono sicuro che il tuo fascino è intatto, risposi tra due attacchi di tosse. Ed era vero. Il fascino era intatto. Non il fascino de­ sueto del passato, ma il fascino innocente del presente. Rivedendo i film alla televisione, si constata sempre di più fino a che punto vi fosse già molta pre-televisione (gestione, digestione, edificazione) nei vecchi film e in parecchi «classici» (La bellezza del diavolo è un esempio recente). Di colpo, si riconosce sempre più facilmente quelli in cui gli autori avevano chiamato il pubblico co­ me testimone della nascita di qualche cosa. C'è cinema quando prevale l'emozione degli inizi, e c'è televisione quando si tratta di utilizzare gli avanzi. Forse è perché la Bardot, estrema star del cinema francese, non è mai stata vista riciclata alla TV che si prova una commossa curiosità nel rivedere i suoi inizi in un piccolo film qua­ si amatoriale prodotto in piena glaciazione «Qualité Fran^aise» da Raoul Lévy e diretto da Roger Vadim: E Dio creò la donna. Ciò che è bello in questo film, peraltro modesto, è che i personaggi del film sono come il pubblico: essi sco­ prono, improvvisamente sconcertati, che la svergogna­ ta starlette di Saint-Tropez ha non solo i mezzi per sedurli (perché è bella), ma anche quelli per smasche­ rarli (perché è una star). La sua sete di assoluto relati­ vizza le parate virili dei piccoli maschi che hanno cre­ duto troppo in fretta di essere in un film sexy. H film, che era iniziato su un tono quasi campestre, oscilla im­ provvisamente verso l'ignoto, e questo a scapito dei suoi personaggi. I tre uomini (Jurgens, Marquand e Trintignant) sperimentano - in misura ineguale - che una donna di questo genere non si possiede. La donna sco­ pre di non essere come le altre perché non sa mentire. È da molto tempo che non siamo più rattristati o de­ lusi dai film fatti in seguito da Vadim. In E Dio creò la

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donna si vede bene che le sue riprese sono già fiacche, il suo montaggio senza ritmo e il suo modo di raccontare senza nerbo. Non si può nemmeno dire che egli guardi la Bardot con l'esaltazione di un innamorato timido. Ma questo non è troppo grave. Perché la forza del film ri­ siede soprattutto nei dialoghi. Ci sono delle frasi dette dalla Bardot che all’epoca solo lei poteva pronunciare, e che bastano per conservare la modernità del film. Da «faime pas dire au revoir» a «je trovatile à ètre heureuse», passando per «quel comichon ce lapin!»12, le piccole fra­ si di BB hanno questa forza, di essere già senza replica. Vadim ha scritto questo dialogo, o si è soltanto reso disponibile a ciò che prometteva questa voce? Che im­ porta, visto che egli fu presente al momento della na­ scita di un mito, e che questa presenza, ancora oggi, fa di E Dio creò la donna un piccolo evento nella storia del cinema francese. Che importa, visto che anch’egli era al debutto e non disponeva ancora di quello sconvolgente savoir faire che possiederà in seguito. Nel 1956 il sem­ plice fatto di dover riprendere un dialogo che non era la botta e risposta del teatro filmato allora dominante, che richiede non tanto la replica quanto il silenzio, che lascia i partner «in campo», costringeva Vadim a fare delle inquadrature e (quasi) a ripensare il modo di fare cinema. Alla televisione l’attore è una funzione. Al cinema è stato anche un enigma. Non è esagerato affermare che ogni volta che un cineasta si è tenuto il più vicino possi­ bile a questo enigma, questo ha sconvolto - non sempre intenzionalmente - il «linguaggio» del cinema. Né è ec­ cessivo considerare le tempestose trasformazioni di que­ sto linguaggio l'effetto della successione di storie d’amo­ re, abbastanza singolari per essere vissute e abbastanza universali per essere offerte al pubblico. È una visione un pochino da sartina? Proprio. Quando si guardano i film di successo di oggi - da Le grand bleu a L’orso -, quelli che stabilizzano l’immagine di un consenso possi­ bile tra la sala e il pubblico, si comprende meglio perché nessuno compia delle innovazioni nel modo di girare. È che possono benissimo fare a meno degli attori - e a maggior ragione dei divi13. Estetica post-pubblicitaria: 30

dal momento in cui è il prodotto a essere la star, è del tut­ to inutile metterlo in concorrenza con una sola delle sue componenti. (12-11-1988)

Un buon Lelouch? Sì

Sapevamo piuttosto bene come un brutto Lelouch passa sul grande schermo, ma non sapevamo ancora come un buon Lelouch passa sul piccolo. Dopo lunedì sera e Un tipo che mi piace (1969) su FR3, lo sappiamo un po’ meglio. Poiché un buon Lelouch è, per defini­ zione, un oggetto curioso, la sua tele-visione non può che accentuarne la stranezza e aumentarne il valore. Certo, si dirà, ma in fondo che cos'è un buon Lelou­ ch? Un buon Lelouch, si risponderà senza turbarsi, è un I .elouch che invece di rappresentare ostentatamente sot­ toluno grandi sentimenti slavati (è nota la terribile mi­ naccia chabadabadizzante dei pudori repressi sullo sfondo di amore della vita), enfatizza molto finemente dei piccoli sentimenti meschini. È quando riprende dei vuoti (e dei fondi) che Lelouch è interessante, non quan­ do crede di riprendere in (pro)fondo. Ora, si dà il caso che la coppia protagonista di Un tipo che mi piace (Bei­ mondo debole e simpatico, la Girardot fragile e sincera) fosse già colpita, all’alba degli anni Settanta, da quel fe­ nomeno che da allora continuiamo a registrare: il cine­ ma non sa davvero più che farsene dei suoi ultimi divi. Si può vedere Un tipo che mi piace come un docu­ mentario che cambierà soggetto una o due volte nel cor­ so del suo svolgimento: documentario sul «mondo del cinema» da un lato, e documentario sull'«America» dal­ l'altro. E poiché il documentario, anche se molto ri­ spettato, annoia sempre tutti, Lelouch ha chiesto a due allori molto popolari e molto francesi di servire, loro e la loro piccola storia d’amore, da fili conduttori. Grazie a loro noi penetriamo senza fragore (Lelouch preferisce la musica al rumore e la perdita al fragore) in due mon­ di che si presumono incantati: il cinema e l’America. 31

Fin troppo consapevolmente francesi, i due divi sono già riciclati nella prestazione gratuita e nella mancia di lusso. «Non dimenticate le guide!», sembrano dirci in ogni momento. Essi non sono quindi né buoni né cattivi, sono - in tutti i sensi del termine - altrove. L'unico problema è che questo altrove è diventato anch’esso vuoto. È terribile, ma laltrove non è più quello che era. Troppo tardi per lo sguardo del cinema-ombelico su se stesso; troppo tar­ di per il sogno americano o l’America insolita; troppo tardi per la conquista spudorata del West. Senza dubbio Lelouch non pensava di superare lo stadio grazioso del­ la demistificazione (il mondo dello showbiz adora mol­ tiplicare le prove della sua normalità), ma così facendo (ricordiamoci che si tratta di un buon Lelouch) ha im­ prudentemente consegnato le chiavi contraffatte della sua estetica. C'è infatti qualcosa di festoso nelle due scene in cui Beimondo (che interpreta il ruolo di un compositore di musica da film) è filmato «al lavoro», nell’atto di ag­ giungere emozione a una scena debole con grandi colpi di violino, o, più tardi, mentre spiega alla Girardot come si scrive la musica per un attacco di indiani. Prima di tutto, è raro che venga filmato il lavoro; poi, è raro che venga filmato il cattivo lavoro; infine, è raro che un ci­ neasta si offra così ingenuamente all'autocritica. Quan­ to all'America di Un tipo che mi piace, essa non è asso­ lutamente più una terra, da scoprire o da mitizzare, ma, molto semplicemente, un paese ancora un po’ sorpren­ dente dove è possibile - tra due aerei, due adulteri, due film - fare ancora un po' di turismo. Con la moglie. La franchezza di Lelouch è, anche in questo caso, simpatica. Essa coglie sul nascere un fenomeno socio­ estetico: la resistibile ascesa dell’idea turistica a scapito della vecchia metafìsica del viaggio. Pur essendo privo di grandezza, questo liberava, a partire dal 1969, una materia fìlmica assolutamente reale: quella del turismo ordinario con le sue emozioni completamente false, i suoi clichés, il suo cattivo accento inglese, gli aneddoti che si abbelliranno più tardi a casa, le sale d'attesa de­ gli aeroporti e i bar degli alberghi tutti uguali, la con32

versazione galante al momento dello spostamento di orario, le risate idiote a Las Vegas, e tutto questo falso naturale della timidezza da gradasso dei piccoli france­ si che se la tirano in ze Stètes. Da ciò viene un film che ha il fascino atonale di que­ gl i anni Settanta nei quali si iniziò a rinunciare al pathos. Nella gestione del tempo quasi morto e della sorpresa impossibile, Lelouch non ha certo la feroce anti-effìcacia di un Ferreri; ma a forza di non filmare più frontalmente delle cose forti, egli è comunque riu­ scito a registrare di sbieco delle cose deboli. Tanto di cappello! (16-11-1988)

John Ford for ever

Secondo un'idea tanto diffusa quanto discutibile, al­ la televisione il primo piano è re. Se così fosse, l’uomo che un giorno gridò «Non voglio più vedere dei peli del naso su uno schermo di quindici metri!» non avrebbe alcuna speranza sul piccolo schermo. John Ford, in ef­ fetti, non amava molto i primi piani. Oppure, il che è lo stesso, i quadri da esposizione. Egli girava molto in fret­ ta, e gli ci sono voluti solo ventotto giorni per realizza­ re She wore a yellow ribbon (e non La charge héro'ìque, un titolo [quello francese] stupido, un grande contro­ senso). Era il 1949, ed egli era allora produttore di se stesso e faceva di testa sua. Quarantun anni più tardi, il film passa perfettamente dal grande al piccolo schermo (TF1). Elementare, dite? Non esattamente. Gilles Deleuze ha ricordato una volta ai giovincelli della FEMIS che il loro lavoro di cineasti consisterebbe nel produrre dei «blocchi di durata-movimento». Ora, se i «blocchi» di John Ford sono così perfetti è perché essi rispettano la più elementare delle sezioni auree: non durano più del tempo necessario a un occhio eser­ citato per vedere tutto quello che essi racchiudono14. Il tempo per vedere tutto quello che c'è da vedere, equiva­ le alla buona durata e al buon movimento di un occhio

tanto disciplinato nell'arte di guardare quanto un cava­ liere fordiano lo è in quella di montare a cavallo. Questo principio, così semplice, ha permesso a Ford di complicare, raffinare, e anche arzigogolare le cose dando sempre un senso di classicismo immemorabile. Non è l'azione che dà le durate, è la percezione di uno spettatore ideale, di un esploratore che vedrebbe da lon­ tano tutto ciò che c’è da vedere (ma nulla di più). Un contemplativo rapido, ecco il paradosso Ford. È impossibile guardare i suoi film con occhio obliquo, poiché in tal caso non si vede più nulla (se non delle sto­ rie di marmittoni sentimentali). L'occhio dev'essere pronto perché, in una qualunque immagine di un film di Ford, si possono trovare alcuni decimi di secondo di contemplazione pura, prima che giunga l’azione. Si esce da una capanna o da un’inquadratura e ci sono delle nu­ vole rosse sopra un cimitero, un cavallo abbandonato nell’angolo destro dell’immagine, il brulichio blu della cavalleria, il viso sconvolto di due donne: sono delle co­ se che bisogna vedere subito all’inizio dell’inquadratu­ ra, perché non ci sarà una «seconda volta» (tanto peg­ gio per gli occhi svogliati). Ford è uno dei grandi artisti del cinema. Non solo gra­ zie alla composizione delle sue inquadrature e delle sue luci, ma, più profondamente, perché egli gira così in fretta da fare due film per volta: uno per scongiurare il tempo (stiracchiando le storie, per paura di finire), e un altro per salvare l'istante (quello del paesaggio, due se­ condi prima dell’azione). E lui che gode dello spettacolo per primo15. E inoltre non si devono cercare nei suoi film dei personaggi che, davanti a un bel paesaggio, dicano: «Oh! Com'è bello!». Non è compito del personaggio sug­ gerire allo spettatore quello che deve vedere. Questo comportamento sarebbe immorale. Tanto più che i personaggi hanno già abbastanza da fare nel ritardare l'età della pensione e la fine delle pe­ ripezie della storia. È un tema che inizia ne I cavalieri del Nord Ovest e che non cesserà di ritornare. I perso­ naggi di Ford (militari compresi) non sono mai soltan­ to saltimbanchi al servizio delle loro convinzioni, e que­ ste inoltre tenderanno sempre meno a condurli verso 34

(erre promesse, anche se contribuiscono a disegnare la sagoma dei cavalieri sullo sfondo in technicolor di un cielo in fiamme o di un chiaro di luna. Questa immagi­ ne si trova, evidentemente, ne I cavalieri del Nord Ove­ st. Questa sfilata-girotondo, che va da sinistra a destra, è collettiva e interminabile. Ma c'è un altro movimento, più misterioso, che giun­ ge dal fondo dell'inquadratura. E che sorge al centro dell’immagine, sempre16. Come se questo cineasta che aveva costruito tutto sul rifiuto del primo piano e del quadro da esposizione talvolta lasciasse qualcosa anda­ re verso i suoi personaggi. È così che troviamo un primo piano ne I cavalieri dei Nord Ovest. Vi vediamo Nathan Brittles-John Wayne-Raymond Loyer che parla a sua moglie, morta da tempo e sepolta lì a due passi, spie­ gandole che ha ancora sei giorni prima della pensione e che non ha ancora deciso nulla. Allora, sulla tomba, si disegna la sagoma di una donna. Si tratta, ovviamente, di una ragazza inoffensiva, ma per chi ha imparato a ve­ dere Ford come va visto, questo breve istante fa paura. È il passato che ritorna al centro dell’immagine, senza preavviso, «alla Ford». Inutile dire che quando l’imma­ gine ha non soltanto dei contorni, ma un cuore, il pic­ colo schermo l'accoglie con tutti i riguardi che le sono dovuti. (18-11-1988)

Beineix opera prima

All’inizio degli anni Ottanta un cineasta sconosciuto ridefiniva, in fanfara, il Bene e il Male al cinema. Solo il pubblico ha apprezzato Diva, snobbato invece dalla critica17; questa si è accontentata di rimproverare a Jean-Jacques Beineix di essersi abbandonato a un fasti­ dioso esercizio di «pubblicità applicata». Beineix è l'ul­ timo cineasta ad aver suscitato, in Francia, qualcosa di simile a un «dibattito estetico». Dopo Lo specchio del de­ siderio, in effetti, ci si è stancati dell’opposizione mani­ chea tra arte del cinema ed estetica pubblicitaria. Non 35

c'è stata riconciliazione, ma la pubblicità ha finito per vincere. Di qui l'attuale deserto (nessun dibattito, nes­ suna critica, solo del bla bla bla). Se il dibattito è finito, è stato perché la questione era posta male. La pubblicità, in realtà, è più di un’«estetica», è un modo di essere e di percepire, di valutare e di giudicare; una visione del mondo, insomma. Il succes­ so di Diva si deve al fatto che Beineix per primo ha vo­ luto moralizzare l'eredità pubblicitaria proponendo una nuova linea di distinzione tra l'invendibile (l'anima, la creazione) e il prevenduto (gli oggetti, i clichés). Mi sembra che i più nietzschiani tra i lettori comin­ cino a spazientirsi. Cosa c'entrano il Bene e il Male in tutto questo? Iniziamo dal Male. Nel film c’è un perso­ naggio molto negativo, uno dei due assassini agli ordi­ ni dell'indegno Saporta. È un piccolo teppista malsano che merita mille volte di morire in una tromba d’ascen­ sore, non tanto perché non ami nessuno quanto perché non ama nulla. «Non amo Beethoven», «Non amo i par­ cheggi», «Non amo gli ascensori». Non amare nessun oggetto, nessun ambiente, è questo il Male. Dal lato del Bene c'è, oltre al giovane impiegato po­ stale melomane, questo strano deus ex machina inter­ pretato da Bohringer. Se quest'ultimo svolge tutti i fili dell'intrigo e permette Yhappy end, è perché egli rappre­ senta la coscienza e la padronanza degli oggetti e degli ambienti. L'uomo che ha fatto del suo loft un capolavo­ ro e che può anche elaborare la teoria della tartina di burro e caviale non può che essere dal lato del Bene. Non serve saperne di più su questo personaggio. Basta che la macchina da presa sappia girargli intorno di­ scretamente per farci fare la visita guidata del suo mu­ seo personalizzato. Tutti, forse, dovrebbero vivere in un museo personalizzato in cui ogni oggetto avrebbe il suo volto privato e il suo volto pubblico. Sarà questa la le­ zione di Beineix? La prova migliore è data verso la fine del film, dal­ l’episodio della macchina bianca, messa a disposizione dall’indegno Saporta, e come teleguidata dalla voce di Bohringer. È un momento molto divertente in cui tutti i fili si ricompongono a favore di questo oggetto ideale, 36

che è passato nelle mani dei poliziotti e dei cattivi pri­ ma di arrivare in quelle dei direttori di museo: una Ci­ troen Traction Avant. Ironia di questa voce che mima nello stesso tempo la pubblicità, la visita guidata e i clichés. Oggetto indistruttibile questa auto bianca, che esploderà e verrà presto sostituita da un'altra. Come di­ ce la piccola vietnamita all'inizio del film: «Non si di­ rebbe che una Rolls possa avere un incidente». Oggetti come questi sono l'anima del mondo. Nel cinema recente c’è dunque stato un momento (di cui Diva è un esempio) in cui le storie e i desideri han­ no iniziato a essere ammassati più nelle scenografìe e negli oggetti che nei personaggi. Un momento in cui tutti hanno avuto voglia di ritornare in studio, non per ricostruirvi la strada, ma per scoprirvi che la parola «studio» aveva, da quel momento, due significati: di luogo dove si filma (per fare del «falso vero»), e di luo­ go dove ci si guarda vivere (nel mezzo del «vero falso»). Rivedere Diva una domenica mattina su Canal Plus, significa, certo, verificare fino a che punto il film alla te­ levisione sia come un pesce nell’acqua. Perché? Perché Beineix ha avuto nel 1980 la giustissima intuizione per cui non ci si doveva più aggrappare a sceneggiature di ce­ mento, ma comporre, un dettaglio dopo l'altro, dei film che fossero di per sé delle piccole griglie di programma, eterogenee e preselezionabili. Nel programma Diva vi so­ no numerosi sottoprogrammi: un poliziesco molto fran­ cese ma appena abbozzato, una riflessione sull’artista e sul suo pubblico, degli spot di aerazione, un documen­ tario sui loft di Parigi, ecc. Beineix ha avuto la franchez­ za di non cercare di far passare qualche cosa attraverso tutti questi elementi. Se, infatti, c'è qualcosa che la pub­ blicità non può filmare e di cui ha addirittura perduto il ricordo, è proprio quello che c'è tra gli esseri e le cose. (21-11-1988)

Mod Max, opera seconda

Uno degli inconvenienti dei film rivisti alla televisio­

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ne è che nella stragrande maggioranza appartengono a due sole categorie: il cinema americano e il cinema francese’*. Si può ben ammettere che si tratta - da sem­ pre - di due grandi poli della storia del cinema, ma bi­ sogna anche constatare che quanto non rientra nel braccio di ferro franco-americano è destinato a un tri­ ste oblio televisivo. L'idea di un film sovietico, indiano o semplicemente inglese in un orario di grande ascolto sembra un rigurgito di terzomondismo o il capriccio di un cinefilo antiquato. In questo senso la televisione ag­ grava questa desertificazione del mondo che si trova a essere, quasi per caso e ormai da tempo, uno dei gran­ di temi del cinema contemporaneo non americano. Da La région centrale (di Michael Snow, sublime) a Stalker (di Tarkovskij, niente male) passando, perché no, dal­ l'australiano Interceptor, il guerriero della strada (1981). Uno dei vantaggi dei film rivisti alla televisione è che, nella stragrande maggioranza, sono stati realizzati una decina di anni prima, e che quindi è possibile vedere i punti in comune che avevano già all'epoca. È per que­ sto motivo che disponiamo di un distacco sufficiente per individuare ciò che fa di Interceptor, il guerriero del­ la strada un film contemporaneo di Diva. Mentre Bei­ neix cercava di filmare delle emozioni «stoccate» in og­ getti accatastati in vassoi-loft o dei clichés fissati nella memoria dalla pubblicità, George Miller filmava sensa­ zioni «stoccate» in svariati oggetti, generosamente of­ ferti a ogni sorta di distruzione lungo le strade e i de­ serti australiani. In entrambi i casi c'è il dispiegamento della panoplia, la sua esibizione sentimentale o la sua dimostrazione assassina, che costituisce l'essenza del film. A porte chiuse o nei grandi spazi, si tratta sempre dell’utilizzo estensivo di un numero finito di oggetti. Come se, di fronte alla difficoltà di inventare delle storie e dei per­ sonaggi, si fossero chiamati a raccolta gli accessori che sono serviti a tutta la storia del cinema e dei generi, pronti a far fare loro un altro giro di pista, per il piace­ re (Spielberg farà lo stesso con i suoi toons). Qualche anno prima dei primi veri «classici del vuoto perfetto» tipo L'orso, ci sono quindi stati dei cineasti che hanno

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giocato per un po' con questo ameno paradosso: filma­ re in luoghi ingombri e abbandonati. Vuoti e sovrappo­ polati. Il deserto australiano, per esempio. Interceptor, il guerriero della strada comincia molto bene, sul genere voce off e falso documento in bianco e nero da post-fine del mondo. Ma finisce in modo piut­ tosto piatto, al termine di un inseguimento nel quale la monotonia è comunque superiore al lato pirotecnico. A dire il vero, il film comincia dove finisce il documenta­ rio e finisce dove ricomincerebbe il mito. Esiste solo per un breve momento, tra il trauma del passato e l’utopia dell'avvenire. Il mito è di natura biblica, con una co­ munità assediata, raccolta intorno al bene più prezioso: la benzina. Ma la benzina (essence) deve qui essere pre­ sa sul serio, poiché si tratta nientemeno che dell’essen­ za (essence) umana, preferita finalmente alla barbarie fol floristica delle tribù. Interceptor, il guerriero della strada appartiene ancora alla categoria dei film che mettono in scena l’umano contro l’inumano, vale a dire che hanno l’umano come valore e l’inumano come spet­ tacolo. Max è il compagno di strada per eccellenza di questi nuovi cristiani assetati di carburante. Compreso tra questi due poli, il film non «funziona» mai così bene che quando si radica (con umorismo) nel­ la perversione. Come quando questa accozzaglia di buo­ ni e di cattivi, tutti singolari, si abbandona con la massi­ ma furia alle violenze più banali, con l’aiuto di una pa­ noplia poco banale di cui si scopre allo stesso tempo il funzionamento e la stranezza. I binocoli coesistono con un cannocchiale, la balestra con il lanciafiamme, il ser­ pente con la macchina volante, il boomerang con il mi­ crofono. Non vi è nulla di più stimolante per lo spetta­ tore che l’essere costantemente sottoposto all'obbligo di scegliere tra l’identificazione di una macchina (che cos’è?) e lo spettacolo della sua efficacia (come funzio­ na?). Tutti gli etnologi lo sanno, e la falsa etnologia di George Miller era comunque, in quei primi anni Ottan­ ta, tra le più inventive. Lo scotto da pagare è che questo funzionalismo sfrenato finisce per non sorprendere più, e, francamente, per stancare. Ed è proprio quando la stanchezza ha vinto (Max e lo spettatore) che la sceneg­ 39

giatura tira fuori il suo asso nella manica: la morale del­ la storia e il senso della Storia. (22-11-1988)

Un vero-falso Bruce

- Quello che non capisco, dice il film, è perché tu ab­ bia scelto proprio me. La mia notorietà è nulla e, detto tra noi, non valgo una cicca. - Sei il solo Bruce Lee che non ho mai visto. In un certo senso mi sei sempre mancato”. - Io non manco a nessuno, credimi. Io a malapena esisto, sono indifendibile. Lasciami perdere. O, piutto­ sto, guardami e capirai. È così che entrai a ritroso in L'ultimo combattimento di Chen (1977). Di colpo toccai il fondo. Un giovane ner­ voso di nome Billy Lo, star delle arti marziali, lottava da solo e a mani nude contro i bruti del «Sindacato», po­ tente organizzazione intemazionale con base a Hong Kong che depredava lo show-business e il gioco d’azzar­ do. Stranamente Lo, il buono, si vedeva meno dei catti­ vi del Sindacato e, come succede in tal genere di film, questi ultimi erano i soli a mostrare incessantemente al­ la macchina da presa le loro crudeli sembianze. Il buo­ no si accontentava di colpirli coraggiosamente ogni tan­ to. La sua fidanzata e un giornalista - entrambi bianchi - erano i soli ai quali rivolgesse qualche parola, essen­ ziale e sempre sobria. I combattimenti si svolgevano di preferenza di notte, in qualche viuzza, contro piccoli as­ sassini mascherati appollaiati su motorini. Cerano po­ chissimi primi piani e, a dire la verità, c'era una sorta di disagio. - Non senti niente?, chiese il film con triste acidità. - Quello che non capisco, pensai ad alta voce, è come mai un divo così preoccupato della sua immagine come Bruce Lee abbia optato per una recitazione così intro­ versa, quasi bressoniana. - L’hai detto, ridacchiò il film. Il seguito ha confermato i miei dubbi. Nel bel mezzo 40

di Le Jeu de la Mort, Billy Lo riceveva una pallottola in pieno zigomo ed era considerato morto dal Sindacato. Veniva organizzato un grandioso funerale, e il volto del divo creduto morto si vedeva nella bara bianca. Invece, dopo un passaggio dal cinesiterapista, Billy Lo ricom­ pariva, truccato e irriconoscibile, ed eliminava pazien­ temente, uno a uno, i membri del Sindacato. In con­ fronto agli altri gli ultimi combattimenti erano partico­ larmente spettacolari, e lo scontro finale tra Billy-Bruce e il gigante nero di 2 metri e 20 Kareem Abdul-Jabbar, un giocatore di basket con i calzoncini bianchi e gli oc­ chiali neri, aveva tutta l’aria di un pezzo da antologia. - Non hai ancora capito?, si spazientì il film che sen­ tivo pronto a svelare il suo segreto. Ti ricordi in che an­ no è morto Bruce Lee? - Luglio 1973, nel letto della starlette Betty Ting Pei, in circostanze mai chiarite. Perché questa domanda? - Ebbene, disse il film che non si tratteneva più, era già morto quando i produttori hanno chiesto a quel mercenario di Robert Clouse di girare lo stesso L’ultimo combattimento di Chen\ Quello che hai appena visto è un’impostura o, se il termine ti pare più baudrillardiano, un simulacro. Qualunque bambino di Barbès o di Kowloon lo sa. Tu no. Mi deludi. - Ma se non è Bruce Lee quello che ho visto con i miei occhi, chi era a dimenarsi al suo posto? - Lee Shao Lung o Ho Chung Tao o magari Bruce Li, che importa! Un clone come ce ne sono stati a bizzeffe. - Eppure, insistetti piccato, ho avuto l’impressione che a volte si trattasse del vero Bruce Lee. Non ci giu­ rerei, ora, ma talvolta ho riconosciuto il suo sguardo in­ tenso e i suoi miagolii strazianti. - Allora non sei del tutto stupido, continuò il film, e meriti di sapere tutta la verità. Raymond Chow (il pro­ duttore) ha utilizzato dodici minuti di spezzoni girati qualche tempo prima, prima ancora de I tre dell’opera­ zione Drago, il penultimo film. Dodici minuti soprattut­ to di combattimenti. - Quelli della fine? - Esattamente. - Quelli con la tuta gialla? 41

- Proprio così. - Capisco. - No, tu non capisci, perché ti ho nascosto il più bel­ lo (e qui il film emise una risata sardonica e strozzata). Ti ricordi della sequenza con il finto funerale di Billy Lo, con la folla in lacrime per le vie di Hong Kong e il viso del morto nella bara bianca? Ebbene, si trattava del vero funerale di Bruce Lee! - Vuoi dire che hanno preso un'immagine del divo morto per davvero per fargli interpretare il ruolo fittizio del divo morto per fìnta? E incredibile, cinico, grande. - Capisci ora cos’è un mito? - Ti chiedo scusa, non lo sapevo. - Va bene, adesso basta. (24-11-1988)

Bunuel essenziale I film di Bunuel somigliano a Bunuel, che non somi­ glia a niente. Bunuel non ha imposto il suo marchio ai diversi sistemi di produzione cinematografica dai qua­ li è passato, ma ha piuttosto messo in evidenza ciò che ognuno di questi sistemi successivi aveva di bunuelia­ no. Ciò che è bunueliano è, certamente, il fatto che il gi­ rotondo oscuro degli oggetti non esaurisce né intacca il desiderio, e l'esistenza di una fondamentale dissimme­ tria tra il desiderio dell'uomo e quello della donna (il primo è un fantoccio e la seconda è doppia e, in Quell’oscuro oggetto del desiderio, quadrupla). Ma ciò che è bunueliano, in fondo, è che le cose sono abba­ stanza complesse (e buffe) di per sé, tanto che diventa inutile complicarle ulteriormente. Quali che siano i da­ ti di partenza, Bunuel li riduce all'osso della loro logica interna. Ecco perché i suoi film dell’ultimo periodo so­ no così enigmatici: si tratta proprio di cinema francese borghese medio, della radiografìa ironica e senza orpel­ li di un genere condannato al quale il vecchio maestro ha dato - in extremis - l'estrema unzione. Come tutti i film in cui non esiste che la successione

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logica delle situazioni. Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977) passa molto bene alla televisione. Nulla può di­ strarre dall'essenziale poiché non resta altro che l’es­ senziale. Tanto che all’improvviso sorge questo oscuro desiderio di fare la lista di tutti gli oggetti dei quali Bunuel ha fatto economia. Si ottiene così uno strano quadro, in negativo, di tutto ciò che in generale ingom­ bra la nostra percezione (considerata a torto «natura­ le») del cinema. C’è, ovviamente, la musica. In Bunuel la musica è as­ sente. Non c'è bisogno di musica. C’è bisogno, invece, di effetti sonori molto precisi (di solito da lui stesso rea­ lizzati). C’è il suono che stordisce e il ritmo costante di un sogno continuo, di cui nessuna musichetta indica che stia diventando un incubo o una commedia. Il so­ gno bunueliano non è il sogno dell'orsetto de L’orso, possiede l'esagerata nitidezza del (frammento di) sogno che si racconta perché lo si ricorda. E questo sogno lo si racconta perché in Bunuel non vi è nulla che non acca­ da tra esseri umani. La musica avrebbe un altro torto. Creerebbe quello che il cineasta - ed è questa la sua morale - rifiuta più di ogni altra cosa: una complicità, una connivenza tra lo spettatore e il film. Si tratta di capire (e di ridere), non di giudicare. Una scena non inizia mai veramente prima che sullo schermo vi siano già almeno due personaggi: è tra loro, e solo tra loro, che accade qualcosa. Ultimo grande cineasta della pulsione e del sociale, Bunuel non sa che farsene della solitudine degli uni e degli altri. Nei suoi film non si vedranno mai quei facili giochi di scena dove la macchina da presa coglie, alla fine della scena, la smorfia o la mimica di un personaggio rimasto solo. Martin, il domestico di Don Mateo, costituisce a questo proposito un esempio piuttosto divertente: egli vorrebbe commentare l'azione, dire la sua, in breve rappresentare lo spettatore (e il buon senso) in questa storia a cui assi­ ste in silenzio ma su cui sta comunque riflettendo. Per due volte interviene addirittura (declamando in entram­ bi i casi degli aforismi misogini); per due volte è richia­ mato seccamente all’ordine. «No comment» (musicale o di altro tipo) potrebbe essere la parola d'ordine del film.

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Volendo continuare questo piccolo gioco che consiste nel riconoscere (nella loro assenza) le facilità che Bunuel si nega, si dovrebbero aggiungere anche i campi-controcampi o le soggettive. Ce ne sono pochi. Come se l'eterno intreccio della donna e del fantoccio fosse lunico soggetto del quadro, soggetto eterno e l'uni­ co importante. E come se, per il fatto stesso di essere eterno, questo soggetto non dovesse più essere trattato in base a una successione di tempi forti e tempi deboli, ma come una deriva ossessiva che non può finire - prov­ visoriamente - che per mancanza di combattenti. Si tratta dell'ultimo film di Bufìuel. In esso si parla molto di terrorismo, e persino di un GARE! (Gruppo Armato Rivoluzionario del Bambino Gesù) che non sto­ nerebbe affatto nel clima odierno. Il terrore non manca nel film: esso viene sottilmente spostato in avanti nel modo brusco con cui la macchina da presa non cessa di cogliere i personaggi nel momento in cui si mettono in cammino per non smettere mai di reincontrarsi di nuo­ vo. Ed è presente nel modo in cui il film finisce, per ca­ so, perché il film deve pur finire davanti agli spettatori. È attraverso la cortina di fumo che ci nasconde i perso­ naggi che Bunuel finisce ciò che aveva iniziato con un occhio tagliato. Come a teatro. (29-11-1988)

Rossellini, Luigi XIV, prima

Tanto rari quanto belli sono i momenti in cui non ci si chiede più se ciò che si vede è televisione o cinema perché questo non ha nessuna importanza. Se la televi­ sione non fosse il fiacco disastro al quale siamo anche troppo abituati, essa ospiterebbe più spesso immagini come quelle de La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966), e tutti sarebbero contenti. La cosa più strana non è tanto che il telefilm di Rossellini venga conside­ rato un grande film e un grande momento della storia della televisione francese, quanto che la lezione di Ros­ sellini non sia stata ripresa né capita, né, almeno in par­

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te, studiata. Perché, come tutto ciò che si presenta con l’eleganza della più grande naturalezza. La presa del po­ tere si basa su alcuni ferrei princìpi. Prendiamo una scena a caso. La scena della caccia del giovane re e della sua corte, una bestia braccata e i cani, qualche paesaggio e dei cespugli. Prendiamo un'inqua­ dratura di questa scena - la zoomata sui cani che nuo­ tano furiosamente dietro alla loro preda - e poniamo una semplice domanda: perché c'è così tanta intensità ed emozione in questa zoomata? È una domanda che abbiamo motivo di porre, visto che la scena successiva cambia direzione, abbandona la caccia e accompagna il re che amoreggia con Madame de La Vallière nel sotto­ bosco sotto gli sguardi e il cicaleccio della corte. Perché ora abbiamo la sensazione che prima di questa scena nessun cane abbia mai guaito, nuotato o cacciato? La risposta può essere questa. È per contagio, per ad­ destramento che questi cani hanno l’aria di essere i pri­ mi cani da caccia della storia dell'umanità. È perché (quasi) tutti gli altri avvenimenti narrati nel film sono filmati come degli avvenimenti, che accadano per la pri­ ma volta. Ciò che distingue Rossellini (o il Renoir de La Marsigliese) dagli altri evocatori televisivi della Storia in costume è l’interesse esclusivo per avvenimenti del passato che furono percepiti immediatamente dai pro­ tagonisti come sconvolgenti. Rossellini e Gruault foca­ lizzano la loro attenzione sul modo in cui Luigi XIV reinventa le regole dell’esercizio del potere. Mostrano la regina madre offesa, Fouquet arrestato e la corte in subbuglio, costretta a tacere e a mascherarsi; mostrano tutto questo come un putsch e, di colpo, abbiamo l'im­ pressione di intravedere, prima che sia troppo tardi, a che cosa somigliava la vita quotidiana alla corte di Francia appena prima del putsch. Il cinema è un’arte che fallisce sempre nella ricostruzione del passato, ma quello che può fare è captare il momento in cui le cose avvengono. È per questo che Rossellini si è sempre interessato agli eroi. Non nel senso sciocco di «superuomo», ma di colui dopo il quale le cose non saranno più come prima. Nei telefilm didattici televisivi dell'ultimo periodo, l’eroe 45

è colui che rimette le pendole a zero, o inaugura un ge­ sto fondatore, o pensa qualcosa di straordinario20. Il ci­ nema, arte del presente, deve svolgere il suo ruolo, che è quello di registrare un’ora zero e registrare allo stesso tempo le espressioni felici o avvilite dei testimoni del­ l’epoca. La galleria laica degli eroi rosselliniani com­ prende Gesù, Sant'Agostino, Cartesio, Cosimo de’ Medi­ ci, Alberti, Pascal, Socrate, Marx e Luigi XIV: dei rischiatutto. «Questo mi sembra molto importante» ha dichiarato Rossellini. «Per me bisogna rischiare conti­ nuamente. In altre parole: non annoiarsi mai». Per un giocatore, infatti, è sempre la prima volta. «Ho notato spesso - osserva dal canto suo il giovane Luigi XIV (un formidabile Jean-Marie Patte) - che il mio primo pensiero era giusto». Tutte le azioni del film, dopo il momento immutabile della morte di Mazarino, sono delle «prime». Primi consigli itineranti, prima re­ staurazione della regina madre, prima enunciazione del programma di Colbert e, soprattutto, prima vestizione del re-cavia, per dare l’esempio che segna il brusco pas­ saggio dalla moda leggermente austera della Fronda al­ le follie e ai fronzoli di una Corte inchiodata a Versail­ les e soffocata dai nastri. In queste condizioni, che importa che gli attori siano più o meno bravi o che la loro recitazione sia rigida? Che importano i difetti consueti della rappresentazione in costume? Dal momento in cui Rossellini ha avuto l’intelligenza di raccontare come, da un giorno all’altro, gli uomini non siano stati più in grado di sapere né do­ ve mettersi né cosa mettersi, vi è una perfetta corri­ spondenza tra il soggetto e il mezzo. Ecco come persino dei cani rientrano nella storia. (5-12-1988)

Alien che potrà Esistono, allora, i film che non «passano» bene alla televisione? Sì, e Alien è uno di questi. Si ricorda bene la pubblicità che ne accompagnò il lancio: «Nello spazio

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nessuno può sentirti urlare». Ma lo spazio-tempo della sala cinematografica non è quello dei nostri apparta­ menti debolmente illuminati dalla televisione. Si può urlare di paura quando l'alieno sanguinolento perfora la cassa toracica del povero John Hurt, ma questo urlo sarà comunque più debole del baccano dello spot che immediatamente segue, approfittando del nostro terro­ re per dilagare (Chanel, Braun, Tefal, Oasis, Mir Laine e tanti altri). La pubblicità fa irruzione nel corpo del film esattamente come l’alieno fa la sua «uscita» dal cor­ po dell’uomo. Alla paura segue troppo rapidamente la vergogna. È così che uno dei film più inquietanti degli ultimi dieci anni diventa, sul piccolo schermo, niente più che un oggetto curioso e difficile da afferrare. Proveniente dalla pubblicità, Ridley Scott è tuttavia uno dei pochi cineasti che si siano sistematicamente chiesti a quali soggetti di film corrispondesse il vacilla­ mento sensoriale nato dalla retorica pubblicitaria. In Alien ha cercato piuttosto una storia che giustificasse le procedure subliminali della pubblicità, e l’ha trovata nel terrore più contemporaneo possibile, quello che fa rie­ mergere l'elemento organico tutto gocciolante in mez­ zo a macchine impeccabili. Non sapremo mai se, di fronte alle apparizioni del­ l’alieno, ne abbiamo visto abbastanza. Per alcuni è già troppo, per altri non sarà mai abbastanza. Per tutti, in ogni caso, non ci sarà modo di abituarsi al mostro per­ ché questo è in continua metamorfosi. La forza para­ dossale di Alien è di essere un film al limite del visibile, che obbliga lo spettatore a consumare gli occhi a forza di aggiustare il suo sguardo. È un film che necessita di un grande schermo; soprattutto è un film che ha biso­ gno del nero. Più lo schermo è grande, meno si è scusa­ ti di non vedervi nulla; più la sala è nera, più si ha il tem­ po di diventare, molto progressivamente, nittalope. Come molti film che verificano la nostra percezione, Alien ha una sceneggiatura che si tende a riscoprire a ogni nuova visione. Obnubilati dal mostro, dimentichia­ mo che gli umani dell'equipaggio sono sottoposti allo stesso trattamento: è solo progressivamente che ci avvi­ ciniamo ai loro volti nella speranza di leggervi qualche

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cosa. Il film non incoraggia nessuna psicologia del tipo «gruppo umano che si rivela di fronte al pericolo», e se, come Ripley (Sigourney Weaver, davvero magnifica), siamo tentati di saperne di più su quello che c’è nella te­ sta dell’enigmatico Ash, il nostro desiderio sarà realiz­ zato alla lettera. Uno dei rari primi piani del film è, in­ fatti, quello della testa di Ash, strappata tutta grondante al suo corpo di robot, mentre rivela con voce monotona la spiegazione della storia. Non c’è più interiorità, non c’è altro che una successione di interiora sovrapposte. Perché le avventure dei passeggeri del Nostromo (alie­ no compreso) funzionano meno bene alla televisione? Perché il desiderio di vedervi comunque qualche cosa è scoraggiato più rapidamente dalle dimensioni dello schermo. Perché il desiderio di ascoltare è disilluso dal suono anemico del ricevitore. Perché il telespettatore è meno abituato del cinespettatore a cercare dei punti di riferimento. Perché non ha avuto nemmeno il tempo di orientarsi nel Nostromo, che questo diventa per i suoi stessi occupanti un luogo estraneo e illimitato, vero mu­ seo di paure arcaiche (cantina, deposito e nascondigli) ereditate dal pianeta Terra. E poi, grazie a La Cinq, grande macellala di pellicola davanti all’Eterno, noi sentiamo che il nostro disagio si deve anche a un altro motivo. Tra gli spot che hanno in­ terrotto il film, almeno uno sembra provenire dallo stes­ so universo plastico di Alien. Si tratta della pubblicità della Braun in cui un uomo e un rasoio sembrano co­ municare in un futurismo idillico. Ora, quello che Alien in un certo senso racconta è ciò che succederebbe a que­ sto «eroe» se fosse inserito in una durata che non sia quella di uno spot. Gli capiterebbe forse di tagliarsi, di scoprire con orrore che il rasoio è un alieno, di trovarsi coperto di sangue (come nel piccolo film parodistico di Scorsese intitolato The Big Shavé), e di passare dallo sta­ to di immagine pura a quello di un ammasso di viscere. Se nel 1979 Alien-iì glauco era dunque questo re­ presso puritano dell’igienismo pubblicitario, è forse lo­ gico che la sua visione in TV procuri un vago senso di fastidio. (8-11-1988)

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Marilyn inebetita

La vera star di Facciamo l’amore non è Marilyn Mon­ roe; si chiama demerol, amytal, henobarbital o penthotal sodium. Quando inizia a girare questo film Marilyn non sta davvero bene e il dottor Greeson, un freudiano, è spaventato dalla farmacopea che scopre presso la sua paziente. La Fox ha davvero creduto che il ruolo del­ l'oca giuliva fosse l'ideale per lei ancora nel 1960? Cukor ha davvero sperato di trascendere l'insulsaggine della sceneggiatura? Brynner, Grant, Hudson e Heston ave­ vano visto giusto rifiutando, l’uno dopo l’altro, il ruolo del protagonista maschile? Arthur Miller si è fatto delle illusioni sullo stato della coppia che costituiva con Norma Jean? La commedia musicale non era diventata una impalcatura minima di numeri di cabaret, forzatamente intimisti, vista l'anchilosi che aveva investito il genere? Tutte queste domande sorgevano alla rinfusa davanti alla televisione che, domenica sera, trasmetteva Faccia­ mo l’amore. Tutto ciò che il film aveva avuto il compito di mascherare riemergeva come un vecchio rimosso pe­ noso. Tutto ciò che - sul grande schermo - aveva forse potuto creare un’illusione nel 1960 mostrava non solo le fughe, ma uno stato di decomposizione piuttosto triste. Il lifting non aveva tenuto. Ulteriore constatazione che i film americani degli anni Cinquanta e Sessanta, che spesso reggevano solo grazie a uno sforzo disperato di paillettes e di seduzione, sono quelli che vengono disfat­ ti più implacabilmente dalla televisione. Vedere Faccia­ mo l’amore alla televisione è come guardare un docu­ mento su una Marilyn inebetita, un Cukor lassista e la Fox idiota. Non è privo d’interesse, ma non è certo di­ vertente. Quando si cita qualcosa o qualcuno è buona educa­ zione aprire le virgolette. Quello(i) che non si riesce a tenere unito, lo si separa con delle virgolette che sono anche un modo - quasi volontaristico - di riunire. C'è un lieve sospetto di questo in Facciamo l’amore, quan­ do vengono fatti sfilare Milton Berle, Bing Crosby o Ge­ ne Kelly come un piccolo museo di citazioni. Come 49

Hawks in Gli uomini preferiscono le bionde, Cukor ha dovuto capire molto presto che Marilyn, citazione viva e persona estremamente sensibile, non c era per nessu­ no salvo che per la macchina da presa. Più intuitiva di tutti gli altri messi assieme, Marilyn recita come si de­ ve recitare in quel sistema degli studios malato come lei, e che, del resto, non le sopravviverà. Ecco perché si può conservare un buon ricordo di questo film. Proprio grazie a questo effetto di «virgolet­ te», che fa sì che il primo numero musicale del film (My heart belongs to daddy, di Cole Porter) possa rimanere nella memoria escludendo il film cui fa da introduzio­ ne. Grazie al maglione blu di Marilyn. Grazie a Specia­ lization, che è un buon numero. Grazie ai momenti in cui la vitalità ritorna, e con essa la grazia. Girato in cinemascope, Facciamo l’amore soffre più di altri il passaggio al piccolo schermo. Esso non fluttua in­ fatti tra due bande nere, è lui a costituire la banda che scorre tra due grandi blocchi scuri che la racchiudono, ancora, come delle virgolette, trasformandone la visione nello studio di un caso clinico. Blocchi scuri (e non ne­ ri) che non hanno mai smesso, domenica sera, di oscil­ lare tra il nero, il verde molto scuro e il violaceo. Effetto dovuto al capriccio di un solo televisore (il mio)? O colorizzazione clandestina in cui le macchie uniformi dei colori del video fanno improvvisamente oscillare la sot­ tile banda di colori De Luxe nella visione, quasi da batraci, di un mondo di bava longitudinale? La televisione, quella sera, non ha mostrato il film di Cukor, ma ha tra­ smesso un’informazione sulla scarsa tenuta del trucco dei film a colori di trent'anni fa. Non bisogna, è il caso di dirlo?, paragonare questo film ad altri di Cukor. Non perché il suo soggetto non sia eminentemente «cukoriano», ma perché Cukor ha spes­ so dato un accento personale all'ideologia propria dell'ambiente (lo show-business) nel quale egli si è sem­ pre mosso. Una punta di lucidità in più. Per Cukor il so­ lo naturale che esista è quello con cui si fabbrica l’artifi­ ciale. Cukor sa qualche cosa della verità di Hollywood, e in cambio ha accettato che Hollywood gli impedisca di dirla troppo forte. La sua idea è espressa da una battuta 50

di Jean-Marc Clément, il frenchy miliardario del film: «Non si può mai dare che quello che si ha». Cukor ha fat­ to dei film molto belli sulla base di questo stoicismo. So­ lo che, per farli, aveva bisogno del suo contrario. Come chiamiamo colui o colei che sa (come Lacan) che l'amo­ re è, al contrario, donare quello che non si ha? La star, ovviamente. (13-12-1988)

Zeffìreìli, Sci Sci È un'esperienza che tutti possono fare. A un certo punto si decide di non accontentarsi del suono strimin­ zito di Verdi alla televisione, e ci si ricorda che La Tra­ viata è trasmessa alla radio in stereo da France Musique. Si sceglie l'inizio del secondo atto, a caso, il solo momento felice di Alfredo («Dei miei bollenti spiri­ li...»), si chiede a France Musique di unire i suoi sforzi e i suoi decibel ad Antenne 2. Ben presto si lancia un gri­ do: la presenza della musica, all’improvviso, è tale che ci si domanda come si sia potuto, solo venti secondi pri­ ma, accontentarsi di un suono così flebile. La musica è ovunque, e così pure i vari rumori del film: carretti, ca­ valli e persino un piccolo stagno dove la Stratas e Do­ mingo giocano alla «felicità» secondo la più classica tradizione hamiltoniana delle pubblicità Coca-Cola (di cui si conosce l’unica aria: «Sete di oggi...»). Ma ben presto ci si rende anche conto che ciò che fi­ nora appariva così grande e bello, la scenografìa zeffirelliana con tutti i suoi ori (primo atto), i suoi ocra (se­ condo atto) e i suoi blu (terzo atto), era davvero picco­ la cosa. Come piccolo è lo schermo che contiene tutti questi colori. Basta che la musica guadagni un po' di ampiezza perché l’immagine filmata dell'opera sia ri­ condotta alla sua fondamentale modestia. L'immagine è lì, alla stregua di uno schermo di simulazione o di un acquario in cui i pesci siano curiosamente «in sincro­ nia» con la musica. Essa propone allo sguardo del me­ lomane un luogo non peggiore di altri dove (ri)posarsi.

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Un luogo dove dei corpi muti eseguono una pantomima che ricalca alla lontana l'opera che si sta ascoltando. Al melomane all'antica che seguiva l’opera «sulla partitu­ ra» può ben succederne uno che la segua su uno «scher­ mo di controllo». Quale non è, peraltro, la sua sorpresa nel riconoscere i corpi degli stessi di cui ascolta la voce. Non basta, quin­ di, che i cantanti siano traditi dal suono della televisio­ ne, né che siano inesorabilmente doppiati nel momento in cui cantano: bisogna anche che compaiano sullo schermo di controllo come dei simulacri di se stessi. Quest’immagine «al ribasso» degli stessi sarebbe dun­ que un «di più»? Non c'è dubbio che per Zeffirelli la ri­ sposta sia sì. L’opera filmata, quale viene praticata dall’autore del­ l’immortale Gesù di Nazareth, riposa su un principio ferreo, tanto più forte in quanto implicito: niente è più orribile dello spettacolo dei cantanti. Nulla è più noioso, lungo e fastidioso di queste bocche aperte, queste casse toraciche che si gonfiano, questi occhi stralunati o am­ miccanti. Tutto ciò che può «naturalizzare» questi ec­ cessi è quindi un «in più». Il buon più è, se si vuole, un più «in meno». Meno intensità paralizzante nel canto, più scioltezza simpatica nei movimenti del corpo (sem­ pre Coca-Cola). Quando Violetta canta, alla fine del pri­ mo atto, la celeberrima «Sempre libera...» si sente che è troppo, e che bisogna che il corpo di Teresa Stratas si rotoli nella scenografìa per illustrare dei sentimenti che la voce della Stratas continua a esprimere, ma «off» (a meno che non si debba piuttosto parlare di «voce uff»). C’è la tentazione del videoclip in questa Traviata. Un videoclip dove si vedrebbero dei cantanti cattivi, ma «in persona», in ruoli «naturali», mentre le loro voci «so­ prannaturali» si accontenterebbero di accompagnarli da lontano. Ci si chiede quale tabù impedisca a Zeffirelli di andare più lontano su questa linea. Perché si accon­ tenta di qualche soggettiva, metà delle quali oniriche, in cui si prefigura il futuro di Alfredo sposato? Perché è co­ sì timido? Stanislavskij deplorava, già nel 1925, che la maggior parte degli attori «pur cantando secondo un certo tem­

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po e ritmo, camminano secondo un altro, agitano le braccia in base a un terzo, provano sentimenti secondo un quarto. Come è possibile, con questa sfasatura, rag­ giungere quell armonia senza la quale non esiste la mu­ sica e che, innanzitutto, esige ordine?». Eppure, quando Sobel trovava la giusta distanza per mostrare come la Stratas interpretava e cantava Lulù, non faceva che il suo lavoro. La televisione faceva il suo lavoro, che con­ siste (nel migliore dei casi) nel mostrare in che cosa con­ siste il lavoro degli altri21. Ma quando Zeffirelli si accon­ tenta di rimpiazzare il più possibile lo spettacolo dei cantanti (doppiati) con la recitazione da videoclip degli stessi cantanti diventati attori (appuntati), dimostra sol­ tanto di non rispettare né il canto né l'attore. E neppure il cinema, che a quanto pare avrebbe dovuto sapere due o tre cose su questa impossibilità. (21-12-1988)

Fellini realista

I personaggi dei film hanno a volte dei grandi mo­ menti di lucidità. A Ginger, che dal canto suo resiste, Fred confida sotto voce di sentirsi come un fantasma, che non sa da dove viene né dove va. Sa solo che biso­ gnerebbe fare qualcosa. Ballare, parlare o fare scandalo, a scelta. Ballare perché è venuto per questo, parlare a Ginger perché è venuto anche per questo, fare scandalo alla televisione perché è anche per questo che è venuto. Un triplice programma che riuscirà - ed è qui tutta la tri­ stezza del film -quasi a svolgere. Cade nel bel mezzo del suo numero di tip-tap, ma si riprende piuttosto bene e chiude degnamente (anche se sulle ginocchia). Dice a Ginger due o tre cose che gli stavano veramente a cuore da anni. È solo al suo terzo proposito che rinuncia: ve­ nuto per gridare ai telespettatori che sono come le vac­ che e i montoni di Panurge, è abbandonato dal coraggio e si ritrova a dimenarsi come meglio può, inebetito, tra l'accondiscendenza generale. Peggio ancora: in tal mo­ do salva un po' della sua dignità. E terribile.

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La dialettica dell'istrione è sempre piaciuta a Fellini. In Ginger e Fred egli la arricchisce di un nuovo capitolo, che riguarda la stranezza del nostro rapporto con la te­ levisione. Contrariamente a quanto si è detto un po’ af­ frettatamente, Ginger e Fred non è solo una satira anti­ televisiva, ma è anche un interrogarsi privo di illusioni sul modo in cui noi conviviamo con lei. Non ci ha forse trasformato tutti in spacconi a domicilio, sempre pron­ ti a farla a pezzi da lontano, a sognare di farvi un puti­ ferio e di avere una risposta a tutto, a essere maleducati in mezzo alle liturgie tranquillanti e ai vitelli del pubbli­ co, in breve a far sentire un urlo22, uno vero? E non ci sorprendiamo un giorno, per quanto poco familiare pos­ sa esserci, su una scena televisiva, a trovare tutti quanti dei simpaticoni, a rispondere alle domande con voce tre­ mante, a stare al gioco e, buoni come delle immagini, a rigare dritto? È anche di questo che parla Fellini, ed è per questo che Ginger e Fred è molto più di una satira o di un gioco al massacro. Il film parla del telespettatore tanto quanto dello spettacolo. Ciò che fa sì che questo bel film sulla televisione, quando passa - per humour nero - alla TV sia un film e nient'altro, riguarda piuttosto il senso del tempo che emana. Perché l'inizio del film, con l’arrivo di Ginger al­ la stazione di Roma, il suo trasferimento all'hotel Ma­ nager e i pochi passi arrischiati che fa di fuori, è così bel­ lo? Perché Fellini è un grande cineasta dotato di un oc­ chio da veggente? Certo. Ma alla televisione questa bel­ lezza non è più esattamente la stessa. Ci si dice che Fel­ lini è un grande visionario meno di quanto si constata che è innanzitutto un grande realista. Senza di lui forse dimenticheremmo definitivamente a che cosa somiglia­ no Roma e i suoi ingorghi, una pioggia sui cartelloni pubblicitari, un albergo sorto in un posto qualunque, un falso giorno installato saldamente sulle attività schia­ mazzanti e vagamente efficaci degli uomini. Non è una visione, sono cose che non si vedono quasi più nei film e mai alla televisione. E se si vedono così bene in Fellini, è perché non c'è nulla nel film che misuri in anticipo il tempo assegna­ to all’azione. È perché bisogna prendere le cose come 54

vengono, e in ogni caso ne vengono molte, sempre trop­ pe, del resto. Se facciamo uno sforzo, ci accorgiamo che alla televisione sappiamo in anticipo tutte le dura­ te, e questa conoscenza scoraggia - prima ancora che sia stato attivato - il desiderio di vedere. L’esempio più straordinario è quella curiosa intonazione nelle frasi dei presentatori del telegiornale che annuncia che quel­ lo che dicono sarà immediatamente seguito da un bre­ ve servizio con immagini. Il parlato introduce (o ricol­ lega brevemente) ciò che viene mostrato, sotto la sor­ veglianza dello spettatore che, aH'improwiso, guarda ciò che si inscrive nella durata meno di quanto non ve­ rifichi quest’ultima. È in rapporto a questo diritto di prelazione del tem­ po «utile» sull'immagine «inutile» che qualsiasi opera di un cineasta sembra, sempre di più, il frutto di un’in­ verosimile libertà. Soltanto, non si deve chiamare «ge­ nio» o visione (di Fellini) quello che dopotutto non è, in realtà, che il normale esercizio di questa libertà di un ci­ neasta che ci tiene, come tutti, a essere applaudito, ma che trova un po’ ributtante l'immagine di questo assi­ stente di infimo livello piegato in due che fa il giro del­ la scena con un gesto immondo delle mani al fine di far applaudire in anticipo un pubblico di fantasmi. Non gli si può certo dare torto. (23-12-1988)

L’aura di Laura

Quale fu la frase buona? «Va bene, vecchio fetente, può iniziare a girare lunedì», o piuttosto «Può comin­ ciare da lunedì a fare questo film, ripartendo da capo»? A chi credere? A Leonard Mosley, nel suo libro su Zanuck, o a Preminger, nella sua autobiografia? Nel mo­ mento in cui Zanuck, tiranno della Fox, dà via libera a Preminger, Vertigine (di cui nessuno immagina che sarà prima un successo commerciale e di critica, e poi un film-culto) è una povera cosa sinistrata. Il numero del­ le persone semplicemente offese dal progetto Vertigine è

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sbalorditivo. Vera Caspary, perché il suo romanzo era stato inizialmente destinato al reparto B della Fox. Brian Foy, capo del reparto suddetto, che aveva dete­ stato la sceneggiatura ma era stato sconfessato da Zanuck. Clifton Webb, attore di teatro, al quale fu chiesto di sottoporsi - suprema umiliazione - a un provino. Mamoulian, scelto come regista e che accettò controvoglia per guadagnare un po’ di soldi. Dana Andrews, che per il suo primo vero ruolo fu disprezzato da Zanuck. La moglie di Mamoulian, che aveva dipinto il primo ritrat­ to di Laura, poi sostituito da una grande foto ritoccata. Judith Anderson, che si credeva Medea e che si dovette richiamare a una recitazione più sobria. E lo stesso Za­ nuck, che dopo aver imposto un finale da lui pensato dovette rinunciarvi. Produttore, poi «autore» di questo mucchio di odi vellutatiassopiti, solo Preminger ha avu­ to ragione di ingoiare il rospo e di tenere duro. Vertigi­ ne non soltanto è il film che fonderà la sua fama di re­ gista, ma anche quello che, curiosamente, rimarrà il nlm-faro di questo tormentato periodo della Fox. Questi aneddoti non sono stati rievocati per sottrar­ re dei meriti a Vertigine, ma per ricordare la regola del gioco (che è anche la bellezza del cinema): i film non so­ no solo il risultato delle loro condizioni materiali di pro­ duzione, ma, a volte, ne sono lo specchio. Vedere e rive­ dere Vertigine significa capire come, a partire dal 1944, più niente è semplice a Hollywood. Assistiamo in diret­ ta alla nascita di un manierismo. E poiché è una diret­ ta, vediamo, sui volti inespressivi e nella recitazione di­ lettantesca di Gene Tiemey e di Dana Andrews23, con quale reale innocenza essi sprofondino in un mondo di inutili complicazioni, di verità facoltative e di rimbalzi di luce. Cos'è Vertigine se non la storia di uno sguardo che tar­ da ad arrivare, lo sguardo di Mark MacPherson (An­ drews) sulla Laura in carne e ossa che sostituisce quella del ritratto mentre fuori infuria la pioggia? Per tutto il tempo in cui conduce a pieno ritmo la sua inchiesta im­ placabile, Dana Andrews non guarda che il piccolo soli­ tario di baseball che tira fuori dalla tasca, come se i suoi occhi fossero quelle palline di ferro che rifiutasse di fis­ 56

sare su un oggetto non degno di merito. Dana Andrews, di cui non si apprezzerà mai tutto ciò che il grande ci­ nema americano degli anni Cinquanta dovette alla sua recitazione ermetica e testarda, è uno di quegli attori che ascoltano con gli occhi. Egli ascolta (le menzogne degli uni e degli altri) finché si trova davanti un oggetto degno di essere guardato: Laura Hunt. E quando questa (che esiste così poco) è davanti a lui, egli precipita di colpo nella più pura tradizione degli eroi premingeriani, che non hanno, in tutto e per tutto, che uno sguardo solo lo­ ro (come dimenticare quello di Jean Simmons alla fine di Seduzione mortale, come?). D manierismo non è fare delle maniere, ma è com­ piere dei prelievi. I personaggi di Vertigine appartengo­ no ancora a un mondo in cui si parla molto, ma in cui si comunica molto poco perché gli organi della comu­ nicazione sono spesso colpiti da infermità. Se il poli­ ziotto non ha che uno sguardo, lo scrittore non ha che una voce, la sua, che, cosa più importante, è una voce off. La voce di Waldo Lydecker (Clifton Webb) apre il film e accompagna il suo possessore fino alla morte, al suono della sua propria trasmissione radiofonica. Quanto a Laura, ella esiste così poco che il film si sfini­ sce nello sforzo di dare consistenza alla sua immagine, in mancanza di altro. Di Laura conosciamo le due case, il ritratto, il négligé fatale, la carriera fulminea: tutte co­ se prese da un personaggio scialbo, una giovane donna cui riesce tutto, ma che non sa, nel modo più assoluto, che cosa sia un uomo. Si è chiamato «messa in scena» questo savoir-faire che salva le apparenze una volta che gli organi della fa­ scinazione siano diventati indipendenti dai corpi che decoravano. (27-12-1988)

Sissi impérautruche24

«Possiamo dire che Sissi abbia ignorato la paura di ve­ derci chiaro? Certamente no. Ella parla della "maschera­ ci

ta interiore" alla quale deve piegarsi, o ancora della "testa d'asino apparenza delle nostre illusioni" che bisogna ac­ carezzare, e accarezzare senza posa. Ella postula l’illusio­ ne, come tutti coloro che non si uccidono pur avendo sve­ lato l’inutilità della vita, di questa “malattia", come lei stessa la definisce». - Trovo queste righe davvero notevoli, disse lei po­ sando il libro. Chi le ha scritte? - Non potete conoscerlo, cara arciduchessa. Si tratta di un certo Cioran, un romeno che ama Sissi da sempre. - Anch'io l’amavo, disse l’arciduchessa Sofìa. Vi pare strano, non è vero? Suppongo che abbiate visto quei film in cui mi si assegnava il ruolo della cattiva. - Maestà, li ho visti e li considero delle grandi por­ cherie. - Dite bene, continuò l'arciduchessa rassicurata, per­ ché se non mi fossi sacrificata ad accettare Vunico ruo­ lo negativo non ci sarebbe stato niente da raccontare né da filmare, niente film, niente Sissi, niente di niente. Gli sceneggiatori non avevano idee. Ero contento di ricevere l’arciduchessa Sofìa, l'unico personaggio sopportabile dell’immonda serie delle Sissi. Amavo il modo in cui sembrava l’unica a essere esaspe­ rata dai quintali di emozione caramellata e di sentimen­ ti grossolani che, a metà degli anni Cinquanta, avevano invischiato l’Europa occidentale. Avvolta da una serie di abiti blu, l’occhio degno e beffardo di una Darrieux au­ stro-ungarica, ella era, nel 1956, la sola che sfuggisse già allora - al consenso amorfo. In seguito avevo ulte­ riormente odiato l'infetta trilogia per avermi dato, di un personaggio così straordinario come Elisabetta di Ba­ viera, un’immagine così deliberatamente imbecille. - Ho sofferto, credetemi, riprese l’arciduchessa. Sof­ ferto per avere giocato (come un calzino) alla suocera smorfiosa che non ama né la birra, né gli ungheresi, né i crauti e che non trova niente di meglio da fare che se­ questrare il bambino della nuora in nome della ragion di stato! Sofferto per questa produzione austriaca con i suoi vecchi marpioni della UFA, usati fino all’osso dal­ l’operetta viennese e dalla commedia nazista. - Arciduchessa! Il film è del 1956! 58

- Non penserete certo, carissimo, rispose Sofìa con ar ia gelida, che l’estetica di Sissi, la giovane imperatrice sia di un'altra natura rispetto alle commedie tirolesi della fine del cinema nazista, con chalet, Agfacolor, in­ genue moderne e maestri di sci perfetti ariani. - Ammetto che c'è un modo servile di filmare il pote­ re, con contre-plongées leggere e costipate, e un modo paternalistico di filmare il popolo come dei bifolchi di un'altra razza. Un'estetica da cortigiano, se volete. - Nazista, vi ripeto. - Arciduchessa, siete troppo godardiana! - Molto bene, non parlo più, rispose l'arciduchessa, e si rituffò nella lettura di Cioran. Ciò non toglie che l’aver rivisto questo cumulo di sciocchezze mi avesse lasciato come un disagio retro­ spettivo. Pensavo che era con queste Sissi idiote che l'Austria del dopoguerra era riuscita a reintrufolarsi tra i paesi rispettabili, e mi chiedevo che cosa ne avesse pensato Waldheim all'epoca. Pensavo alla povera Romy Schneider, costretta a passare da Visconti per annulla­ re Ernst Marischka prima di avere, come la vera Sissi, un oscuro destino. Pensavo al buon popolo di Francia che non aveva mai avuto il coraggio di dirci che aveva amato i film tedeschi durante l'occupazione, e che più tardi aveva fatto di Romy, figlia di Magda, il proprio leutone represso. Pensavo a quei vecchi tedeschi che, agli inizi degli anni Ottanta, approfittavano del festival di Berlino per rivedere di nascosto (era al cinema Astor) i bei film nazisti della loro giovinezza. A poco a poco capivo perché il rigore dolciastro di questo Sissi, la giovane imperatrice mi desse sempre tan­ to fastidio25. Alcuni film sono fastidiosi non tanto per la loro intrinseca nullità, quanto perché abbiamo la tena­ ce sensazione che nel momento in cui ci opprimono con il loro nirvana di vignette qualcosa di ignobile continui a perpetrarsi. Ci sono immagini - quelle di Sissi, per esempio - che esistono solo per renderne altre inimma­ ginabili. Immagini per distrarre lo sguardo. Eppure, Cioran scrive: «Possiamo dire che Sissi abbia ignorato la paura di vederci chiaro? Certamente no». (29-12-1988)

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Citizen Cain Se è sempre curioso vedere un film per il cinema com­ parire nelle reti televisive, questa curiosità diventa pura ironia quando questi film iniziano con delle immagini di reti. Ora, quelle che separano Kane morente dal resto del mondo sono tra i primi oggetti che si vedono in Quarto potere. Passato il cartello che dice che «non si passa», un movimento della macchina da presa fa muro, creando una concatenazione di una sorta di reticolato con una specie di griglia, fondendo il tutto con il ferro battuto della lettera K e con le immagini enigmatiche di una Xa­ nadu notturna, con parchi, scimmie e persino delle gon­ dole. E quando il film finisce insieme all’inchiesta non portata a termine, con l'inquadratura della slitta Rose­ bud in fiamme, comparirà di nuovo la scritta no tre­ spassing, e sempre in punta di piedi. Con Welles succede più o meno ciò che succede con Fellini, Kubrick e gli altri cineasti ritenuti «barocchi». Succede che bisognerebbe ridare a questo aggettivo (barocco) un po' di attualità. Perché il barocco, in que­ sti registi, non si riduce al gusto dell'irregolarità o dell'anamorfosi. O, piuttosto, questo gusto dev'essere sor­ to in loro contemporaneamente alla consapevolezza che hanno avuto, uno dopo l'altro, di una vera e propria metamorfosi di quello che non si chiamava ancora né «paesaggio» né «audiovisivo». In effetti, è con i baroc­ chi che l’intreccio tra vita pubblica e privata è diventa­ to un vero rompicapo. «Raramente una vita privata è stata così pubblica», dice, parlando di Kane, un sottotitolo del film. È Wel­ les per primo che con Rosebud inventa un gimmick che è già meno una «parola della fine» romanzesca che una «piccola frase» data in pasto alla voracità dei media. La linea che separava pudore ed esibizione, malafede e pietosa menzogna, imbroglio e illusionismo dev’es­ sere incessantemente ritracciata, rimessa in gioco; e Welles passerà la vita a farlo. L’uomo della radio che ha spaventato i suoi concittadini con La guerra dei mondi non rinuncerà mai a giocare con quella linea. Morale: Welles sarà lacerato dal desiderio di diventare

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un citizen come gli altri e quello di restare Kane, vale a dire Caino. È inutile sfondare la prima porta aperta dell’anno di­ cendo fino a che punto Quarto potere è un bel film. È utile, in compenso, interrogarsi sul passaggio televisivo del vecchio capolavoro (1941). Perché è esattamente di ciò che noi oggi chiamiamo i media che Welles già par­ la. È chinandosi sulla loro culla che è riuscito a realiz­ zare le sue cose migliori. Queste appartengono da tem­ po alla storia del cinema, ma più il tempo passa, più si capisce che esse rappresentano anche una sorta di «di­ ritto di sguardo» storico di un cineasta - Welles, gran­ de mediatore - su un mondo - quello dei media - che si allontana dal cinema (dopo avergli fatto la pelle). Basta vedere il falso reportage sulla vita di Kane (News on the March) che apre il film, per rendersi con­ to di quanto esso anticipi i grandi e pomposi necrologi televisivi basati su documenti d'archivio. Basta vedere il modo in cui Cotten, Sloane e gli altri, truccati e in­ vecchiati, sono ripresi nelle loro interviste (con il gior­ nalista all'inizio) per vedere come Welles anticipi anche questa fame di commemorazioni e di «testimonianze» dei sopravvissuti che fanno la felicità della radio e del­ la televisione. In altre parole, una delle grandi ragioni della modernità dello stile di Quarto potere è l’utilizzo, da parte di Welles, di stili compositi e di retoriche dif­ ferenti di ripresa, come farebbe per una rete TV (che sa­ rebbe come il sogno dell'ubiquità della sua redazione del «Mercury»). La saggezza wellesiana, degna di Zenone di Elea, di­ ce che, qualunque sia la tecnica usata, essa mancherà qualcosa nell’informazione (forse l'essenziale, ma non necessariamente). Ma la grandezza di Welles consiste nel non fame mai un affare di stato. È il movimento che va verso l'informazione a essere positivo (facendo di noi dei buoni «cittadini»), e non la credenza, sempre disil­ lusa, che la verità possa essere detta interamente o con­ sistere in una sola parola (trasformandoci in piccoli Caino, vale a dire in ben noti invidiosi). Welles non ha mai smesso di inventare dei mostri co­ me Kane, Arkadin, Quinlan e altri falsificatori del­ 61

l’informazione. Egli ha esorcizzato quello che doveva sembrargli il demone suo proprio e del suo secolo: l’ar­ te di sedurre le vittime e di far sparire i testimoni. Wel­ les profeta si è sbagliato su un solo punto: i suoi mostri avevano una parte infantile e una glauca grandezza che doveva mancare crudelmente ai loro successori a capo dei programmi e delle reti26. (2-1-1989)

Il caso Dumbo Dumbo è prima di tutto un inno alla notte. Che si tratti di un treno carico del suo circo o del lavoro degli elefanti che sollevano il tendone sotto la pioggia, del­ l’ombra che cala su questo stesso tendone distrutto o del capanno isolato dove piange la madre di Dumbo diventata un mad elephant - tutti i grandi momenti del film hanno come scenario la notte. È di notte che il to­ polino suggerisce all’uomo che crede di sognare l'idea dello spettacolo di cui Dumbo sarà la star, ed è di notte che, dopo il disastro, l’elefante dalle orecchie troppo grandi e il suo amico topolino cadranno in un pozzo di champagne. Strano cartone animato questo Dumbo nella penombra. Strana storia quella di questo falso ele­ fantino27. Alla domanda «da dove vengono gli elefanti?», la ri­ sposta (siamo nel 1941) sembra, innanzitutto, «quando passano le cicogne». È così che comincia il film, con le cicogne così zelanti da coprire le esigenze anche di una parte del mondo animale. Ma se l’orsa è felice di rice­ vere il suo orsetto, l'elefantessa (madre per altri versi ir­ reprensibile) sospetta che queste orecchie ipersviluppate non procureranno al piccolo altro che noie. Sono le altre elefantesse (gelose) a battezzare «Dumbo» (dumb=stupido) colui che non sarà mai Jumbo, e che esse decidono di «radiare dalla specie degli elefanti». Come più tardi sarà il topolino a dirgli, per consolarlo: «Devi dirti che avevi dei mammut per antenati!». Ma lui ci crede veramente? Perché Dumbo, che è l’incamazio62

ne della goffaggine, non impara niente, non si elefantizza, e addirittura non parla. La morale del film è nota. Ed essa è ancora più cono­ sciuta perché è tipicamente americana (da Disney a Spielberg). Secondo questa morale, un individuo non fa mai così onore al suo gruppo che quando ha trovato la forza di trasformare il suo handicap personale in un punto di forza collettivo28. Non saremo, quindi, sorpresi di vedere Dumbo rivelato a se stesso e agli altri nell’ultima parte del film: piccolo albatros cui le orecchie giganti impediscono di camminare, egli volerà e, così facendo, toglierà agli altri il ruolo di vedette. La fine è un’apoteo­ si, con l’elefantino volante che scorta il treno, il circo e la sua mamma. Ma questa lettura moraleggiante di Dumbo non è ob­ bligatoria. Il film è forse più bello se non vi si vede tan­ to la rivincita di Dumbo quanto un processo descritto da numerose mitologie, il processo che racconta la dop­ pia nascita dell’eroe. Prima nascita: dal giorno alla not­ te. Seconda nascita: dalla notte al giorno. Dumbo sa­ rebbe in un primo tempo mal programmato nel ruolo dell’elefantino che non è, e in un secondo tempo si ri­ velerebbe essere Dumbo, unico esemplare di una specie composta da un unico individuo: il dumbo. Al termine di una dura serie di prove notturne si finirebbe per fare luce sulla «vera natura» di questa entità celeste. In bre­ ve: Dumbo non sarebbe un elefante. Perché azzardare questa tesi eccentrica? Perché in Dumbo c'è un momento straordinario. Prima di trovar­ si su un albero, pronto a volare, Dumbo passa un’ultima notte sulla terra; ed è in quest'ultima notte che, in tutta innocenza, si ubriaca copiosamente. Gli amanti del car­ tone animato, dell’allegro delirio o, semplicemente, dell’invenzione grafica, conoscono tutti la sbornia di Dumbo con il suo corteo di elefanti rosa su fondo nero. Ma questo grande momento di follia non è privo di logi­ ca. Dal fondo nero sul quale delle figure in forma di ele­ fante si stagliano dapprima ridendo, alle nuvole rosa dell’alba del vero primo giorno di Dumbo c’è un vero ri­ to di passaggio. Ed è tutta una serie di figure che sfilano, danzano e sgambettano, figure ilari, grottesche, che

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dell'elefante non conservano che la proboscide, o meglio un’«idea» di proboscide. Bipedi di carnevale, lubrici e indifferenti, con dei buchi neri al centro di una masche­ ra, elefanti-cammelli, elefanti-maiali, elefanti-gondole, elefanti-automobili, tutti felici di essere «improbabili», vera «gabbia di forme» di un rituale pagano, che veglia­ no gioiosamente sulla vera nascita di uno di loro: il Dumbo. All’improvviso siamo ben lontani dalle cicogne e dalle mamme dell'inizio. Dumbo è passato lunedì su Canal Plus. L'indomani, sempre sullo stesso canale, si poteva vedere - folgorati la sublime Quarta dimensione di Zbigniew Rybcziiiski. Stranamente, questi due film, separati nel tempo da quasi mezzo secolo, suscitavano le stesse domande. Non è più l'antropomorfismo a essere un problema; è il ritor­ no della figura. E quando questa è in tutti i suoi stati es­ sa porta il bel nome di metamorfosi29. (5-1-1989)

La storia in nero Ci sono utopie alle quali teniamo. Vedere, un giorno, le prime immagini di un film senza sapere né dove van­ no né che cosa vogliono. Essere testimone di qualche co­ sa che nasce, si costruisce, oscilla e si disfa. Rinunciare a sapere troppo presto chi è buono e chi cattivo, perché è molto più interessante osservare. In breve, spremere le proprie meningi e stupirsi di essere ancora così intelli­ genti, almeno quanto l’uomo che ha firmato il film, in questo caso Jerzy Skolimowski. Nel 1982 Skolimowski non è uno sconosciuto per le schiere dei cinefili. Solo che del film che ha appena fi­ nito di girare (a tutta velocità) a Londra, e che rappre­ senterà la Gran Bretagna a Cannes, non si sa niente. Moonlighting si vede ancora prima di aver potuto sape­ re di cosa si tratta. Per una volta, la visione del film è stata più veloce àeìYimmagine predigerita del film. E se il film ha incantato Cannes è perché concretizzava il so­ gno nascosto di ogni critico: scoprire un film a mano a

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mano che questo sviluppa la propria storia sotto i suoi occhi. L'utopia del tempo reale. Il soggetto di Moonlighting è, evidentemente, proprio il tempo reale. Per risparmiare, un potente dignitario polacco fa ristrutturare il suo appartamento londinese da alcuni operai polacchi, che passeranno un mese (la durata del loro visto turistico) a lavorare (in nero) come bestie prima di tornare in Polonia dove verranno lauta­ mente pagati (ma in zloty). Un certo Novack, che parla inglese, è incaricato di scegliere gli operai (non molto furbi) e dirigere le operazioni (con polso di ferro). Sia il tempo che il denaro sono contati, e i quattro uomini non hanno il tempo di vedere di Londra che un lugubre tratto di marciapiede (sono le feste di fine anno), un si­ nistro supermercato e la macchia rossa della cabina te­ lefonica, all'angolo della strada. Il film è raccontato dalla voce off e dal roteare degli occhi di Novack (Jeremy Irons, decisamente nevraste­ nico, ma grande). Novack detesta i suoi operai e si dà faticosamente un tono con ridicoli esemplari della po­ polazione inglese (indimenticabile la sorvegliante del supermercato in tailleur rosso). Quando apprende del colpo di stato militare in Polonia, decide di attendere l’ultimo momento (sulla strada dell’aeroporto) per dir­ lo agli altri. Perché raccontare la storia? Per sentirci sceneggia­ tori per qualche minuto. Perché ci sono dei film di cui non ci stancheremo mai di far sentire a chi non li ha vi­ sti con quanta intelligenza sono raccontati. Per far in­ dovinare a chi non l’ha visto che chi ha trovato un si­ mile mezzo per fare le pulci sia al suo paese d'origine (la Polonia) sia a quello dove si è stabilito (l'Inghilter­ ra), non avrà alcuna difficoltà a filmare come si do­ vrebbe fare più spesso questa cosa ingrata e appassio­ nante che è il lavoro. Vista sul piccolo schermo (dove, tramite la pubblicità, vaga ancora qualche immagine grottesca del lavoro), la frenesia con la quale i lavorato­ ri in nero di Skolimowski abbattono tramezzi e posano tubi aveva qualcosa di - sì - rinfrescante. Moonlighting è uno degli ultimi film che abbiamo vi­ sto a essere talmente aderente alla realtà da beneficiare 65

dell’energia di quest'ultima. Poiché la realtà polacca è, giustamente, lugubre, il film non è allegro, anche se è divertente. Ma, Moonlighting è uno dei primi film che, su queste storie trite e noiose della comunicazione, ab­ bia la bellezza di un uovo di Colombo. Tagliati fuori da tutto, costretti a vivere come talpe, i quattro polacchi di Londra non hanno che da scendere in strada per bene­ ficiare di una di quelle cabine pubbliche miracolose dalle quali è possibile telefonare all'altro capo del mon­ do con due soldi. È da lì che parlano con le loro mogli a Varsavia. E quando Jaruzelski prende il potere in Po­ lonia, Novack quasi striscerà sotto la pioggia per con­ templare, inebetito, le immagini dei carri armati nella vetrina di un negozio di elettrodomestici. Queste immagini sono belle perché hanno tutte le possibilità di essere, oggi, le più giuste. Non è necessa­ rio essere esiliato, ubriaco o polacco, per incontrare al­ l'angolo della strada le innumerevoli prove che il mon­ do continua, talvolta altrove e quasi sempre senza di noi. Questo distilla una sorta di appetito senza fame, di voglia fredda e di nostalgia rabbiosa, che sono l'effetto delle tecniche di comunicazione su chi - come Novack - ha già enormi difficoltà nel comunicare con se stesso. (7-1-1989)

Le braccia di Liliom

«- Mi dispiace che non abbiamo avuto l'occasione di incontrarci prima, dice Goebbels. -Sì. - Avrà delle difficoltà a ritrovare l'uscita? — No». È così che un giovane sceneggiatore americano im­ magina (nel curioso Langopolis) la conclusione del fa­ moso dialogo tra Goebbels e Fritz Lang. Quest’ultimo trova così bene l’uscita da ritrovarsi, qualche minuto più tardi, su un treno diretto a Parigi. Siamo nel 1934, e Lang non sarà mai il patrono del cinema nazista. Sul treno delle 17.30, in viaggio verso la Gare du Nord, Lang 66

è già l’uomo che rivolgerà il cinema contro se stesso e denuncerà la punizione con le armi stesse della sorve­ glianza. Primo cineasta ad avere visto la minaccia del panottico audiovisivo, primo moralista dei media di là da venire, egli lascia la nascente televisione a Leni Rie­ fenstahl e a Olympia. Avrà tutto il suo «periodo ameri­ cano» a disposizione per dimostrare che il cinema può, a forza di rigore, essere utile. Ecco perché non vi è oggi nulla di più utile che rive­ dere i film di Fritz Lang; e rivederli alla televisione fran­ cese. Nel momento in cui questa trabocca di processi si­ mulati e di video-redenzioni di massa, e prima dei re­ make TV dei processi di Pétain o di Barbie, è bello rive­ dere Lang, che filmò molti processi e citò spesso il ci­ nema come testimone. Se quello di Furia è più cono­ sciuto di quello di La leggenda di Liliom è percné Liliom (1934) è un film più raro e, apparentemente, distante da Lang. È un adattamento dell opera teatrale di Molnar, e fu girato da Lang a Parigi per il suo amico Pommer pri­ ma di partire per la California. È per questo che il pro­ cesso di Liliom si svolge non sulla terra, ma in cielo. Liliom è un malvivente inoffensivo che si fa largo nel­ la vita come un pitecantropo parigino che non saprebbe mai cosa fare delle sue braccia. Sono le braccia di Char­ les Boyer, fatte per accogliere più di una donna, e che, di colpo, non sanno cosa fare del corpo fragile e dell’amo­ re cocciuto di Madeleine Ozeray. Liliom si lascia con­ vincere da Alfred (l’immenso Alcover) a fare un cattivo colpo, che finisce così male al punto che il braccio di Li­ liom non trova di meglio da fare che conficcare un col­ tello da cucina nel cuore di Liliom, che quindi muore. Lang non era di quelli che credono che la morte can­ celli i torti da riparare («Sarebbe troppo comodo. E la giustizia?»). Ecco perché Liliom, ancora caldo, viene arrestato una seconda volta («Noi siamo la polizia di Dio») da due angeli pre-wendersiani. Lontano, molto lontano dalla Terra, il morto viene scortato a un com­ missariato celeste il cui personale (dotato, è vero, di pic­ cole ali) è lo stesso che sulla Terra. Liliom, con le brac­ cia sempre ciondoloni, candido e beffardo, fa lo spaval­ do, ma invano, davanti al commissario. Invano, perché 67

questi tira fuori dalla sua manica una carta mai vista, la carta del cinema. Dalla cineteca celeste esce dunque il film-testimo­ nianza della vita di Liliom Zadowski e, più specificamente, una scena. D 17 luglio, alle 8 e 40, Liliom ha schiaffeggiato Julie perché gli ha lasciato bere tutto il caffè che lei aveva preparato per entrambi, allo scopo (dice lui) di colpevolizzarlo facendosi passare per vitti­ ma. Lo spettatore di La leggenda di Liliom ha visto que­ sta scena e l’ha già trovata bella, come ha trovato belle tutte le scene con due personaggi (con la cinepresa di Lang che a volte si avventa su un dettaglio prima di la­ sciare la presa). Egli la rivede, quindi, in una proiezione privata e in compagnia di uno sbalordito Liliom. Questa volta, però, la rivede in qualità di giurato o, diciamo, di critico cinematografico. Non si dice più che Lang ha sti­ le e che questo stile ha un certo fascino, si chiede a che cosa serva questo stile, quale sia Yutilità di questa mac­ china da presa che si getta sulle cose e di quest'occhio che cerca un punto di vista per scagliarsi. Lang era orgoglioso, ma non al punto da rivaleggiare con l’Occhio supremo dello sguardo divino. Quest’oc­ chio, d’altronde, è un orecchio. L’uomo ha inventato i corpi inquieti del cinema muto, poi i discorsi soddisfat­ ti del cinema sonoro. L'uomo non ha inventato i pensie­ ri sonori del cinema sordo. Nella sua saggezza (e nella sua cineteca personale), il buon Dio è l’unico a possede­ re la versione veramente originale, con i pensieri di Li­ liom che spiegano le braccia di Liliom, i pensieri che ba­ sterebbe ascoltare perché queste braccia diventassero umane. Durante tutto il tempo della scena-testimonian­ za, infatti, la sua voce interiore lo rimproverava, ed è di­ sgustato di se stesso che egli ha colpito la donna che amava senza poterglielo dire. È il cinema che salva Liliom (e che comincia a man­ carci terribilmente). (17-12-1989)

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Note

1 Per definire questo genere di film Jean-Claude Biette ha trovato un'espressione irresistibile: «cinema filmato». Havana è l'esempio più re­ cente di cinema filmato secondo Pollack. È orrendo. 1 Sarebbe stato meglio scrivere «segnalare». * Si veda l'articolo pubblicato all'uscita del film (in «Ciné journal», p.303). 4 Immagine insuperabile di questo duplice movimento fobico: l'inqua­ dratura verticale della scala del campanile della missione in La donna che visse due volte di Hitchcock. * L’enorme talento di Ruiz non si addice più ai cinema d’arte e d'essai ma a una purtroppo introvabile TVR (televisione ruiziana). I cineasti defi­ niti «barocchi» sono sempre, in potenza, dei formidabili programmatori. 4 Se la televisione è come un animale domestico (un cane), allora il suo­ no è il suo guinzaglio. 7 Quando Melville realizza i suoi ultimi film, questi vengono visti a ma­ lapena dal loro autore. Crudele ironia, dato che nel momento in cui non si parla (sui «Cahiers») che dell'«aggiramento» e della «reiscrizione» dei co­ dici del cinema «dominante», l’unico cineasta francese che sia riuscito a compiere questa operazione di neutralizzazione interna dello star system è per l’appunto Melville. Bourvil non si «rivela» un grande attore in / senza nome (lo era già), raggiunge al primo colpo il genio deU’anonimato singo­ lare. Lo stesso Delon e Montand. Grande ingiustizia. 4 L’autore confessa che, all'epoca, non apprezzava che Tadzio. Grande ingiustizia (bis). * Si tratta di Serge July, Capricorno, direttore di «Libération». M Era prima del deplorevole L’attimo fuggente. Va notato che se quest’ul­ timo film fosse stato diretto da Ford sarebbe stato il personaggio di Robin Williams a «costituire un problema», non gli allievi. " Due anni e mezzo più tardi, Stallone annullava un viaggio a St.Moritz (Svizzera) per paura di attentati. La vera guerra, quella del Golfo, ha di­ spensato l’attore dall’incamare ulteriormente il coraggio americano. È lui che diventa missing in action. 12 Frase che la Bardot oggi deve rimproverarsi. Si veda il suo terrifican­ te attuale discorso sulla purezza degli animali contrapposta alla sozzura umana. 17 Dev’essere possibile ri-raccontare la storia del cinema partendo dalle individualità dei grandi attori. È ciò che ha fatto il canadese Paul Warren in *Le secret du star system américain (L'Hexagone). 14 Questa osservazione è stata suggerita all’autore dal cineasta porto­ ghese A. P. Vasconcelos. 15 Si potrebbe azzardare che, al contrario, è «immorale» il modo in cui il cineasta assume un certo distacco per mostrarci la bellezza dello spetta­ colo, «dopo».

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“ L'autore ha ribadito il suo fordismo, a p.62 dell'eccellente numero spe­ ciale dei «Cahiers du Cinéma» su John Ford. 17 Nonostante tutto, non è facile per un cineasta essere adottato dal pub­ blico e non salutato dalla critica. Quest'ultima, in effetti, non serve più a nulla se non a battezzare come «film» questo o quel prodotto audiovisivo; non le resta che questa risicata funzione simbolica. La cosa fastidiosa è che un cineasta che non abbia avuto la «fortuna» di essere riconosciuto (da per­ sone a cui il più delle volte non riconosce nulla, e di cui a volte vuole la pel­ le) non si rimetterà e rischierà di inacidirsi. Questo è stato il caso di Jerry Lewis, eternamente disprezzato dalla critica americana, o di Pagnol, Gui­ try o Lelouch. Spesso questi cineasti vengono canonizzati; si perdona loro di essere stati prima di tutto popolari, quando il popolare non c'è più. Di re­ cente il risentimento si è accelerato nella misura in cui è il cinema nel suo complesso che non può più permettersi di puntare sul tempo affinché sia fatta giustizia. Di qui i patetici Césars, autoassoluzione spiccia della «pro­ fessione» sotto lo sguardo beffardo ed estasiato della televisione. “ La cosa è più grave. Non è solo alla televisione che i film non francesi o non americani scompaiono, è nella coscienza dei nuovi cinefili che si can­ cellano dieci o venti anni della storia del cinema. Si tratta dei «nuovi cine­ ma» degli anni Sessanta e Settanta: c’è da scommettere che i primi film di Glauber Rocha, Tanner, Oshima, Skolimowski, Eustache, Ferreri, Kramer, Olmi, Bene, Passer, Perrault, Ioseliani, Fassbinder e altri siano oggi scono­ sciuti. L'autore, irritato, spera che si tratti soltanto di un purgatorio. 19 A dire il vero, per quanto fondamentale sia Bruce Lee, si può riscon­ trare un fascino più «frammentato» in Wang Yu o in Alexander Fu Sheng. ” II sistema Rossellini ha comunque un limite: egli è obbligato a pren­ dere come eroi soltanto degli inventori, dei profeti o dei pensatori di primo piano, perché solo questi hanno creato, mentre erano in vita, un senso di rottura con i loro contemporanei. In fondo, sprezzante sia del romantici­ smo cieco che dell'inconscio astuto, Rossellini fa come se l’wi/órrnazxone fosse sempre circolata in modo tale che tutte le grandi svolte della Storia siano accessibili agli attori di questa. Per un cineasta che aveva esordito mo­ strando degli individui qualsiasi in preda all’ignoranza, si tratta di una svol­ ta così radicale che induce a chiedersi se, nella sua fuga in avanti, Rosselli­ ni non abbia generato un altro dogmatismo. " È un punto aperto alla discussione. Pigro notorio, l'autore ardisce spesso deplorare la scomparsa del lavoro nei film o negli altri. Ma se si può confrontare il simulacro zeffirelliano con degli approcci al canto un po' più realistici (le lezioni di Elisabeth Schwarzkopf, Moses und Aron o Mon cher sujet di Anne-Marie Mieville), è perché si tratta ancora di un lavoro fisico. In un mondo in cui i mestieri della mediazione (i «servizi» della comunica­ zione) sono sempre più numerosi, è forse inevitabile che il lavoro perda non solo la sua aura morale (e cristiana), ma diventi decisamente astratto. Or­ mai molte cose lavorano da sole e per noi: le macchine, i robot, i segni, le im­ magini. ” Anche questo punto è aperto alla discussione. Non è detto, infatti, che questo pubblico non consideri sempre di più la televisione come un utensi­ le messo a sua disposizione, come una cosa sua. In seguito a un inizio di polemica sulla trasmissione Perdu de vue, un sondaggio ha rivelato che la maggioranza di telespettatori vedeva nella televisione un mezzo pratico per regolare, in pubblico, dei problemi personali.

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u Gene Tierney e Dana Andrews sono due attori particolari, inseparabi­ li da un certo momento del cinema americano, brillante e nevrolizzato; non sono conosciuti che dai cinefili, e la loro frigidità minerale è il loro tratto comune più evidente. Questo modo di avere a disposizione dei divi «bis» è la forza del cinema americano dell'epoca. 24 Gioco di parole intraducibile tra impératrice, autruche (struzzo) e Autriche (Austria) [N.d.T.]. “ Questa recensione è stata scritta come precisa reazione a un articolo, apparso su «Libération», che celebrava il «secondo grado» del film; il se­ condo grado non esiste, tranne che nelle equazioni. ’• Gli attuali avventurieri dei media saranno un giorno degni di una sa­ ga? La vita di Ted Turner, il creatore della CNN, merita di diventare leg­ genda? La questione è aperta. ” L'autore, che non apprezza molto i cartoni animati, ha visto Dumbo per due motivi: si annoiava da morire a Malta; gli piacciono gli elefanti. Ha visto il film in una sala immonda e vuota. “ Ecco perché c’è qualcosa di propriamente eroico negli ultimi film di Chaplin, Monsieur Verdoux, Luci della ribalta e Un re a New York. Quest'ul­ timo può essere a buon diritto considerato uno dei capolavori più asciutti e lugubri del cinema; non lo si ripeterà mai abbastanza. ” Proveniente dall'Est, Rybcziriski ha forse più attenzioni per le grandi figure del cinema, e le rivisita una per una (Tango, Steps) come un presti­ giatore che compie sotto i nostri occhi la necessaria metamorfosi da un mondo plastico a un altro, giocando su una sorta di super-persistenza reti­ nica della Storia del Cinema.

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(Intervista a

Il «passatore» Serge Daney di Philippe Roger)

Sei stato critico di cinema, poi zappeur [appassionato di zapping? della televisione, recensore di «Libération». Insomma, come ti definiresti? Amo molto questa piccola parola: «passatore». Mi ri­ cordo un magnifico articolo di Comolli su Eric Dolphy: «Il passatore». E se Douchet, che è stato come un mae­ stro, ora è un amico, è perché lui ha anche un'anima di «passatore». I passatori sono strani: hanno bisogno di frontiere, al solo scopo di contestarle. Non vogliono ri­ trovarsi soli con i loro «tesori», e al tempo stesso non si occupano troppo di coloro ai quali passano qualche co­ sa. E poiché «i sentimenti sono sempre reciproci», non ci si occupa molto neppure di loro, non si «passa» loro niente, si ripuliscono loro volentieri le tasche. Allora, a un certo punto, ho provato più piacere nello scrivere su un vecchio film, anche brutto, trasmesso alla televisione e visto da molte persone piuttosto che su una novità meritevole uscita in una sala vuota. Perché anche i film passano e ripassano. Perché anche per noi è pas­ sato del tempo, ed è allettante scrivere per quei lettori di «Libération» che hanno vent'anni, che non si conoscono e ai quali si vorrebbe trasmettere la sensazione che tutto ciò è già terribilmente esistito per altri, prima di loro.

Questo non fa di te, anche involontariamente, una sor­ ta di «storico» del cinema? È piuttosto un atteggiamento comune a certe perso­ ne della mia generazione. L'atteggiamento dell'erede che vuole sapere in quale momento di questa storia egli giunge e che cosa, esattamente, eredita. Noi, figli del do­ poguerra, ereditiamo ima certa «storia del cinema» e sorvegliamo che non manchi nessun anello. A poco a 72

poco ci rendiamo conto che la storia di questo secolo è il cinema. Io lo sento in uno come Wenders. Da un lato ha avuto questa idea malinconica della «morte del ci­ nema», ma dall'altro ha voluto pagare il suo debito ai maestri del passato (a Nicholas Ray, a Ozu, a Lang). C'è qui qualcosa di devoto, di bravo bambino un po' sec­ chione, non abbastanza poeta, troppo «primo della classe». Siamo dei buoni eredi, gli ultimi forse, gli ulti­ mi ad aver visto in carne e ossa i Dreyer o i Lang quan­ do passavano da Langlois, vale a dire da noi. Detto questo, io, da parte mia, non sono esattamen­ te uno storico (non ho nessuna pazienza, nessun rigo­ re), ma un po’ lo sono diventato. A lungo andare mi so­ no fatto «una» storia del cinema, e vi sono legato solo perché posso collocarvi la mia storia - come Wim, sup­ pongo. Mi piace molto dire: sono nato con il cinema moderno, lo stesso anno di Roma città aperta. Lo chia­ mo «egoismo cinefilie©», per copiare Levinas che re­ centemente parlava di «egoismo ontologico» a proposi­ to di Heidegger. È una vigilanza narcisistica, un «non vedo l'ora che finisca perché si possa cominciare» assolutamente os­ sessivo. Quando Wim mi diceva che aveva riletto VOdissea e che nulla oggi era più forte di quella storia, senti­ vo questo desiderio di collocarsi esattamente là dove il cerchio si chiude, dove si seppellisce il cinema con i ri­ guardi che gli sono dovuti, prima che i grandi racconti, forse, ricomincino. Le ultime immagini de II disprezzo, erano una promessa per certi versi simile. Io, che non ho mai guidato la macchina, che sono un camminatore, ho la memoria del camminatore: mi ri­ cordo di un film inquadratura per inquadratura, come mi ricordo del modo in cui, per trentanni, ho misurato questo paese «in più», allo stesso tempo molto reale e molto immaginario, chiamato Cinema, con i suoi sen­ tieri strabattuti e i suoi angoli dove non vado mai. Tut­ to quello che ho scritto, in fondo, appartiene al genere del diario di viaggio. Avevi letto molto sul cinema prima di metterti in viaggio?

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Piuttosto poco, tutto sommato. Il cinema per me è la concatenazione più o meno riuscita di tre momenti: vedere-parlare-scrivere, non tanto leggere. Non ho letto, devotamente, che quello che aveva pubblicato la casamadre, ossia i «Cahiers du cinéma» degli anni Cin­ quanta e Sessanta. Anche Bazin l’ho letto tardi, al mo­ mento della nostra deriva materialistica a oltranza del post-Sessantotto, e ho ritenuto opportuno «risponder­ gli» (sul suo rapporto con gli animali, con lo schermo come imene, con il «vestito senza cucitura del reale», delle cose così). In fondo era una debole velleità di sfug­ gire a qualcosa che, me ne sono reso conto più tardi, è il vero nocciolo duro dei «Cahiers», e in ogni caso il mio. Perché se non si crede neanche un po’ a ciò che si vede su uno schermo, non è il caso di perdere tempo con il cinema. Come direbbe Guitry, Bazin aveva ragione. Dòpo Bazin, il bazinismo è continuato, ma piuttosto a destra, con diverse teorie della fascinazione. Rohmer non mi ha influenzato perché parlava dall’alto e non ci capivo niente. Invece il testo di Mourlet (Sur un art ignoré) mi ha impressionato tanto quanto, più tardi, il li­ bro di Debord (La società dello spettacolo), e senza dub­ bio, nonostante le opposte ideologie, per motivi affini. Ma, ovviamente, chi mi ha spinto a scrivere è stato Douchet. Mi ha insegnato non solo la fedeltà agli auto­ ri (e la fedeltà tout court), ma anche l’interesse di vede­ re un film nei minimi dettagli, a rischio del delirio in­ terpretativo. In un'ottica oggi più distaccata, vista la piattezza attuale della critica, quel delirio non mi sem­ bra più così grave. Tanto più che, per controbilanciar­ lo, c'era la traccia dei testi corti, lucidissimi, delle criti­ che sensibili di Rivette, l’ammirevole Lettre sur Rossel­ lini. Io mi basavo su queste due campane. Rimaneva Truffaut, i cui testi importanti erano già stati digeriti, e Godard, che solo molto più tardi è diventato per me la sola fabbrica di idee sul cinema. Ecco per quanto ri­ guarda la Nouvélle Vague. Devo avere avuto la sensazione di avere molto presto «fatto il pieno» di letture sul cinema perché, per i perio­ di più recenti, a parte ciò che è stato scritto e pubblica­ to dagli autori dei «Cahiers» della mia generazione o le 74

incursioni dall'esterno (il testo di Barthes sul fotogram­ ma eisensteiniano o i due libri di Deleuze), non vedo che il libro di Jean-Louis Schefer (L'homme ordinaire du cinéma). È un libro magnifico perché parla dell'infan­ zia, che evidentemente è un tema che tocca me come tutti coloro che invecchiano. Da adolescente non vede­ vo l'ora di diventare - grazie al cinema - adulto. Il mio primo articolo, su Hawks, si intitolava del resto «Un’ar­ te adulta». Oggi questo mi fa ridere perché Hawks è, no­ nostante tutto, un puro cineasta dell'adolescenza. La tua rubrica non è un tentativo per tornare al modo in cui hai iniziato a scrivere sui «Cahiers», venticinque anni fa? È grazie a «Libération» che, senza giochi di parole, mi sono «liberato» del modo piuttosto asciutto e invo­ luto con cui avevo scritto sui «Cahiers» degli anni Ses­ santa e, soprattutto, Settanta. Scrivere «sui "Cahiers”» è sempre stato un po' come scrivere «per i "Cahiers”», come se la rivista fosse questo grande Altro che si nu­ triva più del nostro godimento (piuttosto masochista) che del nostro piacere. Quella esperienza equivale, do­ po tutto, a quella di una chiesa, di un partito o di una burocrazia. Esserci passato senza averci rimesso tutte le penne permette di comprendere, in extremis, molto dei grandi deliri politici di questo secolo. Detto questo, tutte le «idee» (o, piuttosto, le idee fìs­ se) disseminate in questa rubrica derivano direttamen­ te da ciò che nacque e si sviluppò nei «Cahiers». È ve­ nuto fuori in modo più naturale perché prendevo i ri­ schi (molto limitati) di una scrittura estroversa e perché ciò che vi è di bello in un giornale è che, come si dice, «serve ad avvolgere il pesce». Puntare sulla possibilità di un incontro e sapere che, quando questo avviene, non è mai ciò che si crede, è il buon dosaggio di orgoglio e di semplicità di cui, nel 1981, avevo veramente bisogno.

Il fatto che il lettore sia uno sconosciuto che si può, co­ munque, incontrare ti ha fatto capire meglio il rapporto tra il cineasta e il suo pubblico? Certamente, ma non al punto di schierarmi dalla par­ 75

te del pubblico. Questo mi ha permesso di capire, per esempio, perché i film di Straub, che erano stati molto importanti per noi, restavano dei buoni film anche se non vengono visti quasi per nulla. Mi ricordo di Jean-Marie che mi raccontava che un amico di un suo amico (un operaio o un contadino, in ogni caso non un piccolo bor­ ghese), che aveva visto uno dei loro film, gli aveva detto pressappoco: «Abbiamo visto una cosa alla téle, l'altra sera, era buona, non come quello che si vede di solito: c’erano delle cose che somigliavano alle cose». Per gli Straub è sufficiente che una persona senta che «è diver­ so dal solito», che un altro abbia la sensazione che qual­ cosa d'altro è possibile perché il loro lavoro sia legitti­ mato. Il pubblico è sempre «uno», e quando manca, co­ me dice Lacan, «manca al suo posto». Altrimenti è solo audience, o «segmenti di mercato», vale a dire una fra­ zione, una lobby, ima percentuale. Il passatore è forse colui che si ricorda che la vera co­ municazione, quella che ha lasciato delle tracce nella sua vita, non è quella che si è voluto imporgli (dalla scuola, dal catechismo, dalla pubblicità, da tutto quello che è «edificante»), ma quella che ha avuto luogo in mo­ do quasi furtivo, trasversale e anonimo. Più si procede nella conoscenza del proprio pubblico, più ci si mette al suo servizio. Ma allora non si «passa» più niente, si di­ venta un colabrodo, si fa un altro mestiere (che, d’al­ tronde, «paga» molto di più). Il contrario del passatore, l’«anti-passatore». Sì, il colabrodo. L'evoluzione dei media, sotto i nostri occhi, segna la fine dei passatori come me. Non si chie­ de più a colui che sa (o che ama o, peggio, che sa perché ama) di dividere il suo sapere con il pubblico, si chiede a colui che non sa nulla di rappresentare l'ignoranza (a volte crassa) del pubblico e, così facendo, di legittimar­ la. Recentemente mi sono arrabbiato con Pivot che, in piena guerra del Golfo, apostrofava Jacques Berque sul tema: «Lei ha trenta secondi per dire ai francesi se il Co­ rano è o non è una macchina da guerra diretta contro di loro». Parlare «a nome degli altri» non significa sempre esigere un diritto di prelazione sulla loro ignoranza? 76

Mentre ciò che è stato magnifico con il cinema è che un individuo (l’autore, l'attore) poteva comunicare con un altro individuo nell'anonimato collettivo della sala. Era elitario, certo, ma di un elitarismo popolare che funzionava per «uno qualsiasi». Parli al passato. Vuoi forse dire che tutto questo non esiste più? Voglio dire che esiste di meno. Non c’è incontro se non quando ci sono abbastanza flusso, circolazione, in­ croci, «strani posti» per quest’incontro. Più il flusso-ci­ nema è debole, più la vita dei film è corta, più i veri in­ contri diventano rari. È un dato statistico. Il mercato del cinema è ormai conosciuto e regolato: l’informazio­ ne sui film è fatta meglio, la pubblicità è più facile da decifrare, la sociologia del pubblico meno opaca, e il pubblico stesso più autonomo nei suoi gusti. Non c’è nulla da ridire su questo, tranne che, di colpo, l’esigen­ za è meno grande e il cerchio è chiuso più rapidamen­ te. Le petit criminel è un buon film, che mi piace, penso che faccia il pieno del suo pubblico, e ho un po' paura che il pubblico di Rocky V, per esempio, sappia imme­ diatamente che Doillon non fa per lui (e viceversa). Quando il cinema è forte non si limita a questa sociolo­ gia a porte chiuse, ma permette una sorta di etnologia selvaggia, a porte aperte. C’è un altro modo di esprimere questo: lo snobismo è scomparso. Nessuno lo rimpiange veramente, ma, di colpo, è scomparsa una certa virtù della provocazione. È per snobismo, senza dubbio, che quelli dei «Cahiers» hanno preferito Johnny Guitar all'immondo Hommes des vallées perdue, ma avevano ragione a cercare soddi­ sfazione dal lato della serie B (che non si rivolgeva a lo­ ro) piuttosto che da quello della serie A (che non si ri­ volgeva che a loro). È per snobismo che si è potuto, nel modo più serio, accostare Bergman e Cottafavi in que­ st'ottica: tutti i film nascono uguali, tocca a noi saperli confrontare. Era un modo per dire alle autorità cultu­ rali dell’epoca: non diteci dove trovare la nostra felicità, i buoni incontri non sono programmabili e l’ingerenza dal vicino è un nostro sacrosanto diritto. I cinefili an­ 77

davano spesso pazzi per il jazz: si concedevano il dirit­ to di ascoltare religiosamente Charlie Parker come se si trattasse di Webem, con grande scandalo degli esperti della cultura nera americana che ci rimproveravano di essere dei piccolo-borghesi snob e di non ballare. La cultura è questo: un malinteso riuscito. Il contrario del­ la cultura è la perfetta ricezione della comunicazione a circuito chiuso. Un atteggiamento del genere non equivale oggi all'eroi­ smo puro e semplice? Sì, e questo eroismo è stancante. Tanto più che ten­ de facilmente al cattivo umore puro e semplice. Ma quando butto nel cestino con rabbia i dépliant «perso­ nalizzati» («Caro signor Daney, lei ha vinto»), è eviden­ temente perché non mi va che gli incontri prodotto-ber­ saglio siano ormai programmati da un listing. La sala cinematografica era il luogo di tutti i malintesi, di non poche mescolanze sociali, di oscuri pedinamenti, di ri­ velazioni intense e di vere ipocrisie. Un prodigioso mez­ zo di scambio di identità e forse, come diceva Guattari, la «sola psicanalisi di massa» del XX secolo. Era bello essere ossessivi in un mondo isterico. Meglio che di­ ventare isterici in un mondo ossessivo, cosa che, talvol­ ta, sta per accadermi.

Al di là del cattivo umore, si sente in te una sorta di per­ plessità sul modo in cui, nel mondo della comunicazio­ ne, si pone o si porrà la questione etica. Scrivere sulla guerra del Golfo mi ha costretto a sta­ bilire una differenza tra l'immagine e il visivo. Per ve­ derci più chiaro, nient’altro. Il visivo (che predomina al­ la televisione) è una «prova» perfettamente assestata. È quello che si fa con gli occhi quando non si vuole più cor­ rere il rischio di un brutto incontro, l'incontro con que­ sto altro che è «uno qualsiasi» e che si finisce per perde­ re di vista. Tra me, il presentatore-vedette, il gioco-video della guerra e, in ultima analisi, Bush, c’è un rapporto en abyme, a catena, del genere Dubo-Dubonnet, che va da un terminale all'altro. Quindi l'immagine, è semplice, è il contrario. È ciò che continua a ospitare una certa ete­ 78

rogeneità, è ciò che ci ricorda che non siamo soli al mon­ do, anche se siamo i più forti. La strategia americana in questa guerra ci ha, in fon­ do, sorpreso perché, avendo digerito il Vietnam, non ha avuto paura di battere un nuovo chiodo: vale a dire che se non si vede mai l’altro si potrà meglio accettare la sua distruzione o marginalizzazione. Così si è assistito a una pura esibizione di materiale bellico e di immagini elettroniche, e quando i soldati iracheni si sono arresi, prima del previsto, era come se uscissero da un sogno, da un flash-back, da un'epoca definitivamente passata: quando il nemico aveva ancora un corpo ed era ancora «come me». Si può chiamare quest'epoca «cinema», e il cinema ci manca perché vi è qualcosa di angosciante e di umiliante nel diventare, tutti, dei «terminali», bersa­ gli, fedeli al posto. Perché se sono anch’io un termina­ le, non posso più essere passatore di nulla. È «il» cinema, tutto il cinema, che ci manca o, nono­ stante tutto, soltanto una parte? In altre parole: i tuoi gu­ sti sono cambiati? Quando mi sono sorpreso, in questa rubrica, a dire ancora bene di Fritz Lang e a dire sempre male di René Clair, la mia fedeltà ai tradizionali gusti dei «Cahiers» mi stupiva meno della veemenza con cui rifiutavo ogni «riconciliazione». Questa veemenza è forse diventata il mio problema in una pubblica opinione molto pacifica­ ta. Quando, durante una festa del cinema alla TV, Amanti perduti è stato eletto più bel film francese dall’avvento del sonoro, ho avuto la sensazione che «noi» non avessimo vinto. Chi è questo «noi»? Quelli per i quali il cinema francese è piuttosto La regola del gioco, Pickpocket, Playtime, L’infanzia nuda, o La maman et la putain. Poi ragiono e mi dico che, se abbiamo amato questi film perla loro violenza minoritaria, è nor­ male che in questo periodo di ritorno deH'ipocrisia bor­ ghese (preferisco questo al «consenso molle», che è di per sé uno stereotipo molle) la violenza sia mal vista, il senso critico svalutato e chi è in minoranza venga rapi­ damente messo dal lato del torto. Quindi non dovrei essere sorpreso. Non dovrei sor­

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prendermi che tra il crudo e il cotto la guerra continui. Una guerra culinaria (siamo in Francia) in cui, di fron­ te alle crwdité-naturalismo (Renoir), le crudité-ìmpressionismo (Bresson) o le crudité-arte moderna (Godard), si ritrova sempre la cottura lenta alla Tavemier o la pap­ pa Berri. Non dovrei sorprendermi che costui mi faccia causa come un capobanda ferito. È l'eredità del Delannoy bollito o dello stufato L'Herbier (una vera nullità questo qui). Detto ciò, tutto mi fa pensare che vi sia una specie di «guerra civile» franco-francese, che attiene a questo paese e alla sua storia, che va al di là del cinema e che non avrà mai fine. Qualcuno mi aveva scritto, a «Libération», per rimproverarmi di fare del Truffaut trent’anni dopo. Aveva ragione. Noi siamo «trent'anni prima».

Il che spiegherebbe questo desiderio un po’ folle di ri­ trovare qualcosa della grazia dei «Cahiers» gialli. Non bisogna dimenticare che i grandi testi dei «Cahiers» gialli erano spesso dei testi brevi, facilmente leggibili, talvolta perentori, ma spesso scherzosi. È solo più tardi che l'enunciazione è diventata tortuosa, il vo­ cabolario complicato, il tono autoritario. Una certa leg­ gerezza era diventata impossibile perché, dal canto suo, il cinema era diventato una cosa pesante, importante, buona per il museo. Abbiamo dovuto essere molto «pu­ risti» nel ricordare che il cinema era, come diceva Ba­ zin, un'»arte impura». Ma, in fondo, non si tratta solo di questo. C’era an­ che del giornalismo ai «Cahiers»: prima del periodo avanguardista alla svolta degli anni Settanta, ci fu la scoperta euforica delle nouvélles vagues di tutto il mon­ do. E quando mi sono occupato della rivista, ho per­ messo a Skorecki e a Biette di tenere delle rubriche sul­ la televisione o sui film trasmessi alla televisione. Il ti­ tolo di questa rubrica, peraltro, l'ho rubato a Biette: so­ lo lui poteva trovare un ossimoro così bello: «I fanta­ smi del permanente». Quando, dieci anni dopo, ho fat­ to Le salaire du zappeur, non ho fatto che riprendere ’ Si lascia il titolo non tradotto per rilevare il gioco di assonanza con il celebre Salaire de la peur. [ndt]

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quella fiaccola, quella del presente e dell’emozione del presente. Il riferimento alla Nouvelle Vague, ai «Cahiers» gialli, ritorna costantemente nel tuo discorso: non è un po’ op­ primente? A essere del tutto onesto, mi sembra che la mia ge­ nerazione, quella che è venuta dopo la Nouvelle Vague, sia rimasta presa tra la sincera continuazione di quella e la sensazione che il momento forte fosse passato e che coloro che l’avevano vissuto ci avessero, in qualche mo­ do, tagliato l’erba sotto i piedi. I «Cahiers» sono una ve­ ra e propria istituzione (senza dubbio una delle grandi riviste del secolo) i complessi di Edipo vi si dissolvono per la mancanza di immagini paterne forti. È diffìcile ribellarsi a una banda disomogenea di persone isolate che, ancora oggi, continuano a non far parte della «pro­ fessione». Bazin non è un padre fondatore, Truffaut è piuttosto un severo sorvegliante, Rivette è un guardia­ no notturno, Rohmer un insegnante a vita, Doniol un complice benevolo, Godard uno zio eccentrico. Essi stessi non sembrano avere immagini paterne forti, op­ pure le hanno trovate in altri cineasti: i loro «autori», per l’appunto, quelli di cui hanno fatto una «politica». A noi non è rimasto altro che la politica. E dopo di noi, nient'altro che il significante «Cahiers». La cinefilia è una storia di orfani testardi e di fami­ glie scelte. Come è possibile, quindi, lasciare la famiglia che si è scelta? Quando guardo le persone che fanno og­ gi i «Cahiers», e il rapporto che necessariamente stabi­ liranno con questi anni Settanta che finiranno bene per uscire dal loro purgatorio, mi dico che questa storia continua, e che invecchiare non significa indubbia­ mente altro che prendere coscienza del fatto che appe­ na il termine «generazione» viene pronunciato esso si­ gnifica «troppo tardi», e che nulla è più normale di quel «troppo tardi». Come è «continuata» la storia per voi? Contrariamente a quello che si è abbondantemente detto all’epoca, la Nouvelle Vague non ha voluto rompe­ re tutto, ma ha piuttosto voluto conservare qualcosa.

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Non tutto il cinema, ma una parte preziosa di esso. Quel­ la che passava per Rossellini, Hitchcock, Renoir o Hawks. Mentre è possibile che la nostra funzione sia sta­ ta anche quella degli ultimi «ragazzi viziati» del cinema, come se, anche in questo caso, ci fosse stato il semaforo verde dei «trenta gloriosi». Prima di passare a «Libération» non mi ero mai molto interessato al pubblico del cinema, cioè aireconomia. Il pubblico aveva parecchi problemi con Luci di inverno, Moses und Aaron o Una storia americana? Non ci interessava. Dovevamo dirci che bisognava passare di là, che era necessario seguire l'avventura del cinema fino nelle minuscole sale del Quartiere Latino (e le loro infime condizioni di proie­ zione), un po’ come Freud quando dice: «Sia come sia, bisogna andare». Fino al giorno in cui anch'io ho trova­ to queste minuscole sale troppo vuote e mi sono buttato sulla televisione. E mi vergogno un po’ perché dei bei film come Non ou la vaine gioire de commander, Etoile cachée o Le champignon de Carpathes semplicemente non vengono visti, e ho la sensazione di aver disertato. E allo stesso tempo non ti si sente pronto a giocare la carta dell’«unione sacra», della riconciliazione panica? Forse ho torto a prendermela con quelli che dicono (è il discorso-tipo dei César): il cinema sta troppo male, finiamo la guerra e abbracciamoci, non diciamo più male dei grandi film pomposi che piacciono ancora al pubblico, perché una parte del pubblico di Berri forse tornerà a Garrel. È un argomento seducente, ma in fon­ do io non ci credo. Non ci credo perché ho questa idea fìssa, che il cinema è l'arte del presente e che anche gli effetti del cinema non sono differita ma sempre diretta. L'effetto-Godard, per esempio, è stato enorme sui ci­ neasti, abbastanza grande sulla cultura francese in ge­ nerale, e nel complesso molto modesto sul pubblico del cinema. Ma c’era Lelouch, e abbiamo avuto torto a non vedere che con Un uomo e una donna Lelouch era vera­ mente una versione «pubblica» e quasi simultanea di Godard. Idem per Bresson, per Rouch, per tutti quelli che hanno aperto delle piste. Siamo sinceri: abbiamo veramente creduto che un 82

giorno il grande pubblico avrebbe festeggiato L'eclisse? Non è serio. Il verdetto del pubblico è sempre definitivo: ci sono dei film che non amerà mai. Semplicemente, ciò che era possibile nel cinema era che un'informazione di prima mano, dovuta a un creatore solitario come Bres­ son o Antonioni, potesse essere filtrata dagli altri cinea­ sti e finire per colpire comunque il pubblico. Oggi non ci sono più abbastanza «altri» cineasti, non c'è più ab­ bastanza tessuto, filtro, «ambiente» per fare questo. Co­ sì Oliveira o Garrel restano lì, in versione originale, ed è piuttosto Lelouch - perché no? - a essere riabilitato! Posso persino datare, per quanto riguarda la Francia, il divorzio tra il grande pubblico e uno dei suoi migliori servitori: è il 1967, l'anno di Playtime. Un anno prima de­ gli avvenimenti che conosci. Ma ci sono, comunque, delle differenze tra Godard e Lelouch! Certo. La differenza tra la trivialità e la volgarità, per esempio. Godard è triviale, non volgare; come Mocky, Vecchiali, Moullet e molti altri, come Bunuel, che è il più grande. C’è un lato divertente, fatto in fretta fatto male, raffinato dilettante, che è rimasto e che mi piace molto, un lato buffo che non nasce dalla complicità con il pubblico, ma dalla logica stessa del film. È questo mo­ do di non stringere mai un’alleanza con lo spettatore sulle spalle dei personaggi che mi colpisce. Il contrario di Chatiliez, di Deville, di Greenaway. La trivialità non mi dà fastidio, anzi, mi dice ancora qualcosa della vita, di come va, giorno per giorno. Ecco perché, disperatamente, ho tentato di amare la televisione. Ma si può ancora parlare di «trivialità» alla televisione? Biette e io siamo molto affascinati dai telefilm not­ turni prodotti da Abder Isker, girati molto rapidamen­ te con degli attori indescrivibili. Certo, preferiremmo che fosse Detour o Un bacio e una pistola, ma non si de­ ve sognare. È abbastanza perverso, e io sospetto che qualcuno come Rohmer guardi questa roba come uno scienziato che si accinge a fare i suoi acquisti. Il siste­ ma Rohmer è così perfetto da aver bisogno di cattivi at­

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tori, o, piuttosto, di vedere che cosa significhi «recitare male». Per quanto mi riguarda, quello che mi interes­ sa è riconoscere nel «mal recitato» una sorta di stato universale della menzogna dilettantesca. Ora, la men­ zogna è un elemento di base della televisione, e i re­ centi avvenimenti (questa strana guerra, questo strano post-comunismo) lo provano ogni giorno. Si è detto troppo che «non si vedeva», la menzogna. Non è tanto vero. Allora è meglio guardare Abder Isker che Michel Deville perché è un vero punto zero, una vera «demo­ cratizzazione» del pressappoco, un Club Med genera­ lizzato. Peccato, del resto, che in Francia non esistano le scuole per attori televisivi delle grandi reti TV latino­ americane (TV-Globo in Brasile o Televisa in Messico).

Nella tua rubrica parli molto di più degli attori rispet­ to ai vecchi testi dei «Cahiers». Non si tratta di una sco­ perta tardiva? È il meno che si possa dire. Non posso dire che fino a ora avessi pensato molto agli attori. Essi erano la carne e il sangue del cinema, ma per me contava solo l'autore. Ho preso coscienza molto tardi del fatto che l’attore avrebbe sofferto più degli altri l'evoluzione del cinema. Più andremo verso il «visivo», verso l’immagine sinteti­ ca, meno sapremo che cosa fare di questa carne e di que­ sto sangue. Quello di cui sono certo è che le nostre vite attuali so­ no interessanti solo grazie alla commedia. C'è un dive­ nire ludico di tutta la nostra gesticolazione individuali­ sta, e oggi essere «moderno» è esattamente come al tempo dei Lubitsch e degli Hawks, aderire a questo di­ venire. I film «seri» di oggi sono pomposi e noiosi, ma c’è di che ridere e riflettere in Rohmer, Moretti, Alien, Frears, Scorsese e persino Blier. Rivette è certamente stato il più ostinato di tutti nel captare, in nuce, questa nascita in generale del «mentire-vero». È il solo mezzo tramite il quale sono disposto a tollerarmi, perché la commedia preserva, quantomeno, questa «passione di essere un altro» senza la quale non esiste il cinema. Per­ ché per il «godimento di essere un uno» c’è la televisio­ ne, la pubblicità, la guerra o Le grand bleu. 84

La trivialità non era anche un modo di dire no a tut­ ta una tradizione declamatoria, «poetica», del cinema francese? Senza dubbio. Questa guerra civile di cui di parlavo prima, mi rendo conto che è passata anche di qui. È pas­ sata in un certo modo di declamare il francese che si sen­ te molto bene nei commenti dei cinegiornali di Vichy che Marc Ferro ha trasmesso per mesi alla televisione. Io sono cresciuto nello spontaneo ribrezzo per questa ampollosità, e sono stato sollevato neH'ascoltare, in Bresson, un'altra lingua francese, quella di Pickpocket. Quando penso a tutto quello che si diceva su questa pre­ sunta dizione «neutra» dei film di Bresson! Certo, c'era il rifiuto del teatro, l'accento del XVI arrondissement, il dandismo, ma c’era soprattutto l’odio per la parlata del­ l'occupazione, questo francese stupido della propagan­ da tedesca. Ora capisco meglio l'importanza di Bresson, Pagnol, Guitry, Tati: ognuno di loro ha esagerato, o verso una maggiore declamazione, o verso la lettura piatta, o ver­ so il puro rumore, per parlare un «altro» francese che la Nouvélle Vague, tramite certi attori «passatori» (Bardot, Beimondo, Constantine, Léaud, Dairy Cowl), ha eredi­ tato. Ci sono dei film in cui si vede il passaggio, come il sublime Lesyeux sans visage, dove Franju, che non ama­ va gli attori, lascia declamare Pierre Brasseur in mezzo a un mondo che, in fondo, non declama più. Non dico, comunque, che il triviale sia un fine in sé. È sempre sol­ tanto il sapore del presente, e tenere a questo sapore si­ gnifica preferire definitivamente il presente all'evoca­ zione, l'immagine all’illustrazione. Questo ci dà una sin­ golarità, ovvero qualcosa con cui inventare dei perso­ naggi, ma nulla di più. Bisogna comunque che ci sia una storia, e se Rohmer è forte è perché le sue storie le ha scritte ventanni fa e ha atteso che la società francese ca­ desse oggi nelle loro reti. Ma non è più la società, questa terribile divinità che quattro o cinque cineasti del pas­ sato, e non di più, sono riusciti a descrivere (Bunuel, Re­ noir, Lubitsch, Mizoguchi, non proprio pochi ma nem­ meno una schiera), è una società di individui (che si con­ siderano) tutti singoli. In effetti, il cinema dell'indivi­ 85

dualismo contemporaneo ha avuto molti più geniali pre­ cursori di quanto non abbia, oggi, esperti convincenti.

Mentre il concetto di «autore» continua a funzionare nei testi, l’idea di avanguardia ne è assente. È ancora più sorprendente perché a quindici anni, sebbene molto ignaro, ero per principio favorevole a tut­ to ciò che si muoveva nelle altre arti. L’avanguardia mi sembrava simpatica e obbligatoria, e non appena si pre­ sentava qualcosa che somigliasse alla battaglia di Ema­ ni, io ero dal lato della novità, anche se non era consu­ mabile. La cosa seccante è che queste battaglie erano già state tutte combattute, e che se i Panassié, i Gavoty e altri non fossero esistiti (come, nel cinema, l’assurdo Louis Chauvet o il rancoroso Chalais) non so con chi ce la saremmo presa. Eppure, al cinema, senza dubbio influenzati da Douchet, noi amavamo solo i «classici». E la cosa peggiore è che io sono sempre dell'idea che vi sia più vera mo­ dernità in un western di Walsh che in un film-puzzle di Robbe-Grillet. Semplicemente, ho finito per rinunciare alla parola «classico» perché non c'è sicuramente mai stato un cinema classico (ci sono stati, a mio avviso, dei pionieri, dei moderni e dei manieristi), e per ritenere che, se il cinema è l’arte del secolo, un secolo è troppo breve per non essere, ancora e sempre, «il presente». Perciò l'avanguardia al cinema non mi ha mai vera­ mente interessato. Voglio dire l'avanguardia proclama­ ta, impegnata, in lotta, quella che spesso non ha fatto che accompagnare questa altra storia, quella del terro­ re nel XX secolo. Inoltre, bisogna essere semplici e confessare che nel momento in cui tutte le arti tradizionali erano precipi­ tate, da tempo, in una dissidenza con il grande pubbli­ co, il cinema non era affatto precipitato. Nel Novecen­ to solo il cinema ha amministrato il tesoro di identifi­ cazioni proprio dell'ottocento. Solo il cinema ha tenu­ to in conto i nostri interessi immaginari di piccoli fran­ cesi del dopoguerra. Naturalmente c'erano degli attori, delle storie e delle identificazioni. Senza dirlo, neppure a me stesso, sapevo bene di identificarmi con decisione 86

in James Stewart in uno dei miei film-feticcio, Anato­ mia di un omicidio. Il personaggio di Paul Biegler l'ho amato in incognito. È addirittura straordinario, quan­ do ci penso, come i corpi del cinema nei quali mi sono identificato non siano mai francesi. Sempre la guerra civile. I seduttori americani e le vamp italiane: ecco quello che era desiderabile. Infine, sempre i «Cahiers». Avevano avuto un intuito stupefacente. Avevano eletto «autori» della casa gente come Hawks, Hitchcock, Renoir, Rossellini, che erano certamente già nella storia del cinema, ma nessuno dei quali era, a ben vedere, un demiurgo. Tutti dovevano ve­ nire a patti con il sistema, e ognuno aveva un suo mo­ do di cavarsela. L’autore, quindi, non era necessaria­ mente il grande demiurgo popolare (Chaplin) o l’avan­ guardista demiurgo (Ejzenstejn); l’autore dei «Cahiers» era piuttosto un uomo che, di fronte a delle forme di servitù, faceva non tanto «quello che voleva» ma «quel­ lo che poteva» senza rimetterci l’anima: il Lang ameri­ cano, per esempio, o il Bufiuel messicano. Si fanno film altrettanto buoni con le costrizioni che contro di esse. Era quasi un credo. Perché il cinema è un'arte «impura», perché l'alterità vi si inscrive, come pure la contrarietà, il tempo e il denaro, il caso fortu­ nato, l’imprevisto, tutto ciò che bisogna addomesticare e non ridurre. Stranamente, ho sempre accettato que­ sto come la nobiltà del cinema, come un’eroica lotta tra il peso del sociale e il desiderio dell’autore. Un buon film non è necessariamente la vittoria di quest'ultimo, ma è piuttosto un pareggio. Ci sono film più liberi di Un re a New York, El, Rapporto confidenziale o L'isola della donna contesa? Ma un uomo libero non è una fortezza assediata, è una dignità duratura. Amare questi film era un modo di assumere, comun­ que, un principio di realtà anche troppo assente nella mia vita personale. Questo spiega senza dubbio quello. Ma anche oggi che il sistema è diventato troppo debole perché i cineasti non siano costretti ad assumere pose da demiurgo (aspetto Carax con curiosità), non penso che i grandi film del passato fossero estorti alla realtà, realizzati ai suoi danni. Tanto che quando, molto più 87

tardi, siamo arrivati a Brecht, Ejzenstejn o Vertov, era perché questi, a differenza dei L’Herbier e dei Dulac (e anche dell’underground americano), erano passati at­ traverso un confronto diretto con il potere comunista.

Hai parlato di una «dignità» duratura. Questa idea non esprime oggi una certa aspirazione alla purezza? Diciamo una certa «tenuta» personale di questi ci­ neasti, che si sono abituati presto a camminare sulle proprie gambe e sono poco inclini alle invettive pia­ gnucolose. Non riesco a immaginarmi Rivette che si la­ menta della sua sorte, Rohmer che se la prende con chicchessia, o Godard che attacca il pubblico o i critici. Questo mi colpisce tanto più che in questi ultimi tempi si sono visti i veri boss del cinema francese, quelli che regnano sulla «professione» come dei padrini nevraste­ nici, ossessionarci con i loro gemiti di bestie ben pa­ sciute. Sono i Tavernier, i Berri, i Beineix (come ieri gli Autant-Lara), cioè quelli cui va piuttosto bene, che di­ ventano dei veri e propri blocchi di risentimento. È sempre un cattivo segno quando i vincitori sono così tri­ sti per il loro successo; in questo caso è meglio schie­ rarsi con i franchi tiratori. Ci sono sempre dei franchi tiratori nel cinema fran­ cese. Tanto meglio. È un paese che ha dei problemi con il suo consenso, che ha un consenso poco inventivo. Quando mi manca un po' troppo consenso, io guardo il cinema italiano del dopoguerra, oppure TAmerica. La fabbricazione degli ideali americani non è incompati­ bile con dei grandi film: quelli di Capra, di McCarey, so­ prattutto di Ford. Non mi fido troppo dei cineasti fran­ cesi quando si parla di cose come la legge, il gruppo, la democrazia, il codice civile, la Bibbia o la Madre. Guar­ do Ford. Guardo addirittura gli sceneggiati americani alla televisione, perché si dedicano alla confezione de­ gli ideali di casa con una serietà imperturbabile, come degli artigiani. Soltanto Dallas mi disgusta veramente. Scrivendo sui film trasmessi alla televisione, non sei stato tentato di abbandonare la «politica degli autori», di accettare di confrontarti con dei film, uno per uno?

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Ci ho riflettuto molto. Sarei stato capace di abban­ donare le mie stampelle «autoriali», di non dividere gli oggetti-film in film d’autore e non, in autori che amo e non? Non lo saprò mai. Considerare un film senza preoccuparsi di sapere chi lo ha fatto o chi lo ha voluto, accontentandosi di ciò che è e di ciò che dice, letteral­ mente e in tutti i sensi, è una vera e propria sfida. Ma è possibile questa immanenza di un oggetto ca­ pace di possedere in sé i suoi stessi criteri? Quando in­ contravo Rivette (sempre per caso) e lui mi raccontava i film che aveva visto (lui vede tutto), avevo la sensazione che dovesse essere possibile. Ma forse solo un cineasta può farlo. Dal punto di vista del «fare», per l'appunto. Non io. Perché il critico si nutre di quello che critica, e ciò che lo legittima è, in fondo, rispondere a un deside­ rio. Qualcuno ha desiderato quel certo film in questo mo­ do e gli si «rimanda la palla» in incognito. È chiaro che il desiderio di partenza non è necessariamente quello dell'autore (che spesso non è che il firmatario); forse è l’attore o il produttore, ma è sempre «qualcuno». Dove all'inizio non c’era nessuno, la critica non ha «luogo». Al­ lora si può fare della critica alla moda, vivace e malizio­ sa (dal fìnto somaro al furbetto, come nell'attuale «Libé­ ration»), o si può fare un'analisi strutturalista mirante a comprendere il sistema anonimo che ha prodotto que­ sto o quel sintomo in questo o quel momento. Intendo rispettare queste «critiche», ma nulla di più. Quando ho scritto quotidianamente sulla televisione mi sono reso conto di perché la critica televisiva non esi­ sterà sicuramente mai: perché la televisione opera in base al dovere, alla funzione (alle cose «indipendenti dalla nostra volontà»), e quasi mai in base al desiderio. Non si può «rispondere» al ricatto del dovere, si può ri­ spondere solo alla violenza del desiderio. Ma questa violenza non sta scomparendo, puramente e semplicemente? Il cinema era violento, la televisione è soltanto bru­ tale. Un cineasta al quale penso spesso è Hitchcock, per­ ché è attraverso di lui che l’idea del cinema come forma ci ha toccato. Egli è forse l’ultimo dei moderni e il pri­

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mo dei manieristi, il solo che ci abbia mostrato in tem­ po il cinema al lavoro. I due raccordi sull'asse, troppo rapidi, sull'uomo con gli occhi cavati in mezzo alla por­ cellana in frantumi ne Gli uccelli rimangono nella me­ moria come causa ed effetto allo stesso tempo. Questa violenza è scomparsa dalla televisione perché la televi­ sione non è tanto una «forma» quanto una serie di di­ spositivi di programmazione, e perché la sua violenza sta più in ciò che impedisce di vedere che in ciò che mo­ stra. Ecco perché a volte mi dico che quando la forma è scomparsa (o che la sola che resta e che organizza le al­ tre è la pubblicità) non bisogna aver paura di ritornare alla casella di partenza, comune al cinema e alla televi­ sione, ovvero la storia da un lato e i personaggi dall'al­ tro. È come se avessimo perduto la carne, l’odore, la pel­ le, e non ci restasse altro che gli sceneggiati americani per rassicurarci dell’esistenza dello scheletro e del si­ stema nervoso. Per questo Skorecki ha avuto ragione a raccontare «La legge degli sceneggiati» su «Libération». Ma al tempo stesso c’è qui una profonda tristezza, una specie di risentimento.

Cosa si può fare per reinventare la critica, oggi? Scherzosamente mi dico spesso che il modo miglio­ re di fare critica sarebbe di iniziare, prima di tutto, a porsi una piccola domanda del tipo: e se non fosse un film che cosa sarebbe? Si trova sempre una risposta. Po­ trebbe essere un sermone, un rapporto di polizia, un vo­ lantino, una deposizione, un sogno a occhi aperti, ecc. Più si cerca la singolarità dell'oggetto, più si deve, a un dato momento, osare una metafora. Trovare le buone metafore è, forse, un vero stimolo alla critica. Questa idea di metafora non ti ha portato a una meta­ morfosi estrema, e davvero «limite» della critica: la per­ sonificazione del film stesso? È chiaramente una follia, ma mi ha divertito molto. Come se i film fossero degli «esseri» che si potessero far parlare. Un «antropofilmismo», in qualche modo. Se un film, in fin dei conti, è qualcuno, e se si crede soltanto nella bellezza degli incontri, non c’è nulla di più com­

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movente che incontrare di tanto in tanto lo stesso film nella folla anonima e urlante dei programmi televisivi. Se i film sono degli amici, l'amicizia non consiste nell’averli a portata di mano (in una videoteca ben or­ dinata), ma nel rivederli ogni tanto. Una sorta di rispet­ to reciproco, venato di humour «Che ci fai lì, tutto so­ lo sulla Cinq?». Si può andare più lontano. A volte vedo i film come delle povere ragazze che oggi battono in televisione. So­ no nate in un mondo in cui bisognava sedurre (la sala), ed ecco che continuano in un mondo in cui aiutano a «tappare i buchi» (della TV). I dirigenti della televisio­ ne sono un po’ come dei magnaccia, ma anch'essi di­ pendono economicamente dalla vera mafia: la pubbli­ cità. La pubblicità si veste elegante, la televisione ha uno stile da gigolo-genero ideale, e il film ha i suoi vec­ chi stracci, più o meno fuori moda ma autentici. Un film è qualcuno che una volta ho conosciuto bene, e del quale mi chiedo come è invecchiato. Un film merita dei riguardi perché un tempo ci è piaciuto vederlo, e ci è piaciuto farlo. I piccoli Eddie Constantine degli anni Cinquanta, io continuo a preferirli ai Clouzot dell’epo­ ca. Godard un giorno mi ha rimproverato di parlare co­ me un avvocato, di fare delle arringhe. È vero (sono un chiacchierone), ma perché no? Offro i miei servigi co­ me avvocato - e anche avvocato del diavolo - a un mon­ do di immagini che non era fatto per una sopravviven­ za elettronica. E lo faccio tanto più volentieri perché molti di questi film li ho visti da adolescente, e ho co­ nosciuto il mondo che li ha visti nascere e che non esi­ ste più. E questo è tutto per quanto riguarda la follia. Jean Douchet diceva che la critica è «l’arte di amare». Per te essa non diventa magari «l’arte di accompagnare» ? È una bella parola, accompagnare. Il cinema «ac­ compagnava» il mondo, mentre la televisione mette tut­ ti fuori dalla porta, o su una lista d'attesa. È un senti­ mento di umanità semplice che mi tocca negli ultimi film di Fellini: in Ginger e Fred si riaccompagnano i per­ sonaggi all’uscita, dopo il miserabile show. In Fellini la storia è già iniziata, la scenografia è già allestita, il peg91

gio è già avvenuto, allora la sola cosa decente è blocca­ re le spese. Credo che sia profondamente il nostro de­ stino, il destino di tutti. Freud ci ha detto che la nostra storia cominciava prima di noi, un po' prima di noi. Vi­ verla significa ritardarla. Quando lo si è fatto si muore. Per questo non credo che la «sceneggiatura» e la sua celebre «crisi» siano così importanti. Tutti i buoni film iniziano nel mezzo di una storia, tutto il buon cinema cresce come Deleuze dice che l’erba cresce: dal centro. Non mi disturba che un film non possieda la nettezza che la mia vita non ha, accetto di non capire tutto. Quel­ lo che non accetto è di non poter più entrare in empa­ tia con le esperienze (anche quelle che si temono) che il film restituisce.

In un mondo in cui l'essenziale è essere simpatico, l'empatia non va forse riabilitata? Mi rendo conto di ripetere sempre con emozione questa piccola parola, pur così vaga: «il mondo». Per me è sempre il «vasto» mondo, il mondo i cui limiti sono al­ lontanati dalla macchina da presa e di cui ho il sacro­ santo diritto di dichiararmi «cittadino». Allora il nemi­ co, evidentemente, è spesso la Società, perché la società è il consenso, il «noi» contro «loro», il determinismo di classe, il divieto di fuga. Eppure la mia cinefilia è consistita non nel fuggire la società (con il sogno) o nell'attaccarla (con la rivolta), ma piuttosto nell’awicinarmi a essa (il più tardi possi­ bile) per la sola via del cinema, la deviazione formatri­ ce del viaggio nel mondo promesso dal cinema. Pro­ messa mantenuta, nonostante tutto. La cinefilia è que­ sto rifiuto della società che ha finito per garantirmi una posizione sociale modesta. Era ora, perché oggi il mon­ do (il cinema) scompare e la società (la televisione) ri­ torna sotto questa forma di villaggio globale. Ognuno è rimpatriato nel suo campo, spontaneamente più che a forza: la guerra del Golfo non è la prima guerra in di­ retta, è la prima connessione di tutti i villaggi tra loro. Il villaggio americano, il villaggio arabo, il villaggio francese, con i loro alberi della cuccagna, ì loro soldati­ ni docili e i loro balli del sabato sera nel salone delle fe­ 92

ste. Perché c'è anche questo: il cinema è nato nelle città e io, che sono nato a Parigi, non amo la campagna. Per tornare all'empatia, è una parola che non avevo mai usato fino a tempi recenti. L'opposto di «simpatia» non è «antipatia», ma empatia. Essa è un'identificazio­ ne incompleta che lascia dello spazio per Yinformazione. E ciò che so è che davanti a un western di Boetticher come davanti a un gioco televisivo io sarò sempre, per quanto è possibile, adì lato dell’informazione. L’informazione non è il carburante comune alla na­ vetta cinema-televisione che è l’oggetto di questo libro? Anche questa è una lunga storia. Ma che la si chiami «crudo/cotto», «moderno/accademico», «denotazione/connotazione», è sempre la stessa cosa. Quando era­ vamo (un po’) presi dalla semiologia, ai «Cahiers», era­ vamo ovviamente dalla parte del denotato e volevamo stroncare la connotazione perché sentivamo che era la metonimia, l'ideologia, la pubblicità, il mercato, in­ somma l’orrore. Bene, il tempo è passato e il denotato puro è tutto sommato un terrore di cui posso fare a me­ no. Nel frattempo, e qui c'è tutto l’interesse di essere passato attraverso il giornalismo, ho capito che si pote­ va chiamare questo «informazione». È più semplice ed è terribilmente attuale.

Per l’appunto, sotto quale forma oggi ritrovi questa coppia eterna, denotazione-connotazione? Lasciamo stare il vocabolario linguistico. Diciamo che l’informazione è necessaria, e che è necessaria an­ che la metafora. Perché è in gioco non solo la nostra ca­ pacità di comprendere i segni, ma anche la democrazia. Riprendiamo una forma «pura» di questo dibattito (co­ sì pura da spaventare un po’, come ogni purezza), ri­ prendiamo ancora una volta gli Straub. Essi hanno pro­ dotto delle immagini tali che era difficile averne una percezione vaga o fluttuante. I loro «blocchi di imma­ gine-suono», come dice Deleuze, sono un po' la stessa cosa che il celebre «giusto un’immagine» di Godard. È chiedere allo spettatore l'impossibile: vivere un’immagine-suono al tempo stesso come un assoluto («giusto»)

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e come la relatività stessa («una» immagine). Partendo di qui ci sono due vie, entrambe pericolose: la violenza della durata o la violenza della rottura. O ci si ipnotiz­ za nell'esserci materiale deH'immagine-suono, e l’infor­ mazione è così pura da creare una tensione o una noia mortali; o si aspetta la rottura che, grazie a una me­ tafora, permetterà di passare a un'altra immagine, ma anche a tutta un'«altra cosa».

Come articolare, oggi, Videa di informazione e quella di democrazia? Nessuna domanda mi sembra più urgente, eppure è come se tutto fosse ancora da pensare a questo propo­ sito. Sono sbalordito nel vedere come oggi basti ricicla­ re, di fronte a dei giornalisti professionisti o a degli stu­ denti di cinema, un decimo di quello che compariva in lei et ailleurs per apparire una sorta di guru. Questo fa piacere, ma comunque è strano. Come è strano che, do­ po questa guerra, i teorici e i consueti difensori del «quarto potere» tacciano. Che cosa è democratico? Che sempre più persone di­ ventino semiologi dilettanti e imparino a fare allegra­ mente il surf sulla deriva linguistica che il mercato im­ pone loro attraverso la pubblicità? È un po’ l'idea che è prevalsa negli anni Ottanta: la gioia dei sessantottini di riconciliarsi con l'idea del mercato. Oppure, che sempre più persone siano in grado di vedere ciò che è (giusto un’immagine) e di immaginare quello che manca (quel­ l'immagine più giusta, che forse viene nascosta)? Sarà, questa, un’idea degli anni Novanta? Francamente, non lo so.

Torniamo alla tua rubrica. Vi si trovano dei frammen­ ti sparsi di una riflessione sul manierismo al cinema. Te ne sei reso conto? Certo, ma sono troppo ignorante di storia dell'arte perché possa trattarsi di una vera riflessione. Diciamo che la parola «manierismo» mi è utile. Prendiamo Zurlini. Se avessi visto Estate violenta quando era appena uscito, sarei stato infastidito da una certa affettazione della messa in scena. Quando l’ho visto, in questa fred­

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da segnaletica senza corpo che è la televisione, non ho più avuto voglia di rimproverargli le sue «maniere». Lo stesso vale per i tempi morti di Melville, per i giochi pi­ rotecnici di Leone, per tutto quello che ha l’aria di strombazzare: «Ah, il cinema, è comunque un magnifi­ co meccano!». Lo stesso, senza dubbio, per il De Palma prima maniera, per Peckinpah, Bolognini, Argento e al­ tri «piccoli maestri». Parlavo poco fa della violenza for­ male di Hitchcock; potrei parlare di un certo esibizio­ nismo del cinema, che è anche Yorgoglio di disporre di un tale strumento, con i suoi trucchi magici e la sua grammatica di «colpi». Ciò che è divertente è che delle persone come me, che sono sempre state sospettate di «farsi piacere» con l'arte per l'arte del cinema (e che era­ no molto irritate da questo sospetto), finiscano per ca­ pire che non solo non vi è nulla di male a farsi piacere, ma anche che il piacere dev'essere un valore molto im­ portante, visto che disturba così tanta gente. Melville è uno straordinario cineasta che ho manca­ to di brutto. È un grande manierista, e quello che lui fa con Hawks è un po’ quello che Leone faceva con Ford nello stesso momento. Cos'è un grande manierista? È qualcuno che lavora pazientemente a una certa ana­ morfosi e che conosce intimamente l'immagine, il viso da cui è partito. Ci sono stati diversi tipi di manierismo, ovviamente, a seconda del punto di partenza. Quello che mi lascia freddo in Bertolucci è che anamorfìzza i sistemi di pro­ duzione imperiali del passato («Paramount-Mosfilm»), perché è di quel potere che ha nostalgia. Lo stesso vale per Polanski, che ha riciclato in modo molto intelligen­ te quasi tutti i generi del cinema americano. Spielberg mi tocca a volte, quando accompagna il destino plastico de­ gli esseri disegnati da Disney. Mentre Melville fa ima «ri­ lettura» morbosa e sensibile di tutto un aspetto di Hawks, andando molto lontano dal lato della clonazio­ ne omosessuale e della vuota «professionalità». Si po­ trebbe dire che Melville è il destino plastico del modello hawksiano (di cui Rohmer sarebbe il destino morale). È attraverso Melville che si vede perché Hawks sia un cineasta così importante. Hawks è uno che ha visto due 95

o tre cose con le quali, ormai, viviamo. Si parlava poco di «individualismo-democratico-di-massa» quando so­ no stato colpito, nel 1959, dal fascino definitivo di Un dollaro d’onore, eppure, grazie a questo film, ne ho sem­ pre saputo qualcosa. Un grande film ha, nel migliore dei casi, qualche anno di «anticipo» sulla società. Non può registrare che ciò che comincia a esistere, non può in­ ventare che quello che «è». Il cinema ha parecchie dif­ ficoltà a essere un’arte visionaria. Ciò che è bello in Hawks non è il fatto che abbia vi­ sto giusto, ma il fatto che abbia afferrato gli inizi di qualcosa che poi si è radicato. Perché solo gli inizi sono commoventi. Chi è all’inizio è il contrario di un ideolo­ go, anche se spesso è la parte ideologica della sua visio­ ne che vincerà. Riprendiamo Fellini: è uno dei primi a rinunciare alla sceneggiatura standard perché viene dal varietà e ama gli sketch. Conserva al cinema un'agita­ zione carnevalesca che è un pre-zapping molto raffina­ to (Z clown magnifico). Di fatto sogna quello che do­ vrebbe essere una televisione popolare e viva. Arriva la televisione che «realizza» Fellini, ma talmente «al ri­ basso» che Fellini stesso si rivolta contro questa televi­ sione che aveva visto arrivare. Si potrebbe fare lo stes­ so ragionamento con Rossellini, tra Paisà e War in the Gulfàéùtn CNN. E i manieristi, allora? Sono coloro che hanno posto la propria firma sul divenire anamorfizzato di ciò che avevano intravisto i moderni. Ma prima di diventare un puro effetto del mercato, l’«effetto di firma» in Melville o Leone non risulta del tutto indolore. La firma è come un dettaglio che sostituisce l'insieme che non riesce a dimenticare. È questo il manierismo.

Non è forse perché, malgrado tutto, questi non rinun­ ciano ancora del tutto al realismo, contrariamente ai ci­ neasti che sono venuti dopo? Credo di sì. Il cinema è un'arte realista che ha poco a^ che vedere con l’immaginazione, ma molto con l’immaginario. Fino a quando esso sarà una registrazione au­ diovisiva, le cose andranno così. Senza immaginazione, per contro, non ci sarebbe stato il disegno animato e 96

non ci saranno il video o l’elettronica. Il cinema è un'al­ tra cosa. Noi viviamo in una percezione datata del no­ stro ambiente, ed ecco che tramite il film scopriamo di vivere già in un altro mondo. Il cinema è una macchi­ na, non noi. La macchina ci dà solo del presente, tocca a noi mettervi un po’ del nostro passato. Il nostro ritar­ do non è mai abissale, ed è proprio per questo che c'è una certa «verità» del cinema: presto o tardi, noi verifi­ chiamo. Antonioni non ha inventato i blocchi di ce­ mento, li ha soltanto visti e ha capito che a partire dal momento in cui li aveva visti cerano storie che non avrebbe più potuto raccontare nello stesso modo: allo­ ra ha trovato la Vitti e la coppia moderna. Forse, nondimeno, il bisogno di immagini ha una storia, paragonabile a quella dell'alimentazione. I pio­ nieri filmavano per popolazioni povere, i moderni per coppie agiate, i manieristi per solitari singoli benestan­ ti. E dopo? I giovani cineasti di oggi sembrano accon­ tentarsi di rappresentare agli occhi del dominio elettro­ nico un certo plusvalore culturale ed emotivo legato a un’idea del cinema. Si ritorna ai film «di leggenda», Via col vento, Amanti perduti, Casablanca ', c’è del pompieri­ smo nell’aria.

Torniamo alla televisione. Il passatore non finisce per rinunciare a fame una critica «costruttiva»? È una domanda a doppio taglio. Mi è capitato di so­ gnare una sorta di «riformismo radicale» a proposito della televisione, in cui si direbbe: la televisione va mol­ to bene così com’è, non la si cambia, ma poiché è fatta veramente troppo male, si cerca di migliorarla un po­ chino in tutti gli aspetti. Per esempio, non si riprende più il cantante in playback, si lascia la louma al guar­ daroba, si cerca di registrare il lavoro del cantante. Non si rinuncia al calcio, si esige solo di sentire il rumore del pallone e il dialogo dei calciatori. Cose di questo tipo. E poi, mi dico che non ha senso esigere al posto degli in­ teressati (amanti del varietà o dello sport) che il loro spettacolo sia più «vero». Loro non si lamentano mai. Tutti amano il calcio, ma quando gli italiani filmano il mondiale come dei robot nessuno si dichiara danneg­ 97

giato. Beh, è il vecchio problema della cultura popola­ re: essa non ha bisogno della critica, conosce soltanto o l'adesione (dei sostenitori) o la derisione (di quelli che non contano niente). Ora mi ricordo all’improvviso che, a ogni modo, la mia indifferenza verso questa o quella canzonetta è ab­ bastanza totale e che, tutto sommato, preferisco l'ada­ gio della Quinta di Bruckner. Passando da un super-io all’altro, mi dico che dovrei curare i miei propri interes­ si di consumatore di alta cultura e mettermi a capo di un gruppo di pressione per obbligare Ruggieri a tra­ smettere una delle versioni con Jochum (se esiste). Ma so che, accontentandomi di una «rete culturale» che mi vorrebbe come destinatario, perdo di vista la cultura dell’altra, dell’altra che è in maggioranza. Perciò, a me­ no di cadere nella perversione di uno sguardo «di se­ condo grado» sulla cultura di massa, non posso più guardare la televisione come andavo al cinema: con la speranza di uscire dallo stretto determinismo sociolo­ gico. Ora, non accendo la TV per vedermi (che signifi­ cherebbe vedere Claude-Jean Philippe!), ma in uno sta­ to di disperata curiosità. Datemi notizie di persone che non conosco. Sempre l’informazione.

Il passatore, lungi dall’essere un «comunicante audio­ visivo», sarebbe quindi per l’eternità tra «qui» e «altrove», votato a una spola estenuante? Ho proprio paura di sì. Ma se, a partire da un certo momento, non mi sono accontentato né del «nobile» borbottio cinefilie© né del «volgare» pastone televisivo, è perché mi è sembrato più «realista» oscillare tra que­ sti due poli piuttosto che rassegnarmi alla gestione dell'uno o dell'altro. Cinema e televisione, è ancora una di quelle vecchie coppie che dicono qualche cosa sulla nostra realtà. Ci sono delle sfaldature patogene, ma al­ tre sono inevitabili imprescindibili. Per esempio, il rapporto con l’America. Una parte di me dice sì, un'altra dice no. E questo mi sembra nor­ male per uno come me, nato alla fine della guerra. Es­ sere prigioniero di questa contraddizione non impedi­ sce di vivere, al contrario. Mi sono sempre chiesto co­ 98

me certe persone riuscissero a essere americanolatre o americanofobe al cento per cento. Io amo Keaton, Bil­ lie Holiday, Colombo o Raymond Carver, e odio Di­ sneyland, Anita Bryant, Dallas o i televangelisti. Non mi pare difficile. È persino divertente, di fronte aH’America, essere sempre su un «contropiede di guerra». Se qualcuno (del genere di André Halimi) mi bela la sua ammirazione per la potenza spettacolare di Hollywood, gli ricordo che la musica dei western che ama tanto dev’essere stata scritta da un allievo di Schonberg o di Hindemith. Ma se mi si tira il colpo de «la cultura non è la Coca-Cola», io, che odio la Coca, rispondo: certo, ma alla fine di questo XX secolo, se mi si chiedesse di citare un'immagine che ha fatto il giro del mondo, un’immagine semplice della semplice gioia di essere sulla terra, non la troverei in Europa (perché l'Europa è i lager, è il gulag) né nel Terzo Mondo (che non ha im­ magini proprie), bensì in America. Sarebbe quella di Fred Astaire che balla sui muri di Sua Altezza si sposa.

«La semplice gioia di essere sulla terra». Non si po­ trebbe leggere la tua rubrica sulla scia di Barthes, come uno sguardo, attraverso la televisione, sui «Miti d’oggi» del cinema? Sì e no, perché il Barthes di Miti d'oggi era già un’espe­ rienza del passato, mentre il Barthes che abbiamo co­ nosciuto è piuttosto quello de II piacere del testo. Barthes è prima di tutto qualcuno che ha paura di annoiarsi, e la sua rivendicazione del piacere è piuttosto una protezio­ ne morale contro il terrore del discorso - anche di quel discorso reattivo che rivendica rumorosamente il piace­ re. Sul piacere non c’è niente da dire: le persone dotate per la vita non hanno nessuna teoria della vita. Prendi Lubitsch: è uno dei massimi cineasti, ma non si pensa mai in primo luogo a lui, perché è il solo ad avere mo­ strato che la vera risposta al terrore non è la virtù, ma la non-rinuncia al piacere. Come Chaplin, del resto. Cionondimeno, anche al cinema c’è un «aldilà del principio del piacere», c’è un fondo di paura nella cine­ filia. Finché ci sono delle sale piene, questa paura può trasformarsi in piacere di avere paura insieme. Per que­ 99

sto per molta gente il piacere del cinema era il piacere della sala, quello che Eustache ha ricostruito in Mes petites amoureuses. Mi ricordo dei miei quindici anni in Inghilterra, di quelle sale in cui si poteva fumare, dove si dragavano goffamente delle infelici racchie sotto la minaccia locale dei teddy boys. Le sale si sono in primo luogo svuotate di quelli che amavano innanzitutto que­ sti riti e questi piaceri. Io faccio parte di coloro che so­ no rimasti faccia a faccia con il film, in sale sempre più vuote, poi davanti al televisore. Poco fa parlavo dell’emozione degli inizi. C'è per me qualcosa di straordinario in un film che comincia. In generale conto le inquadrature, dentro di me, dieci, ven­ ti inquadrature, sento il polso del film è so subito se c’è qualcosa, nel ritmo, nella musica, che funziona o non funziona, che mi dice che è «per me» oppure no. Ci so­ no delle immagini prima che ci sia la storia, ed esse so­ no già tutto il film.

Non è forse questo l’«egoismo cinefìlico» ? Sì, ma un egoismo di cui la paura e la vergogna sa­ rebbero gli ingredienti di base. Ho raccontato in La Rampe come il terrore della mia infanzia fosse non l’oscurità, ma, al contrario, quelle che venivano chia­ mate le «attrazioni» dell’intervallo, una specie di eser­ cito della salvezza costituito da prestigiatori, cantanti, comici di quartiere. E io che me la prendo con chi fa ap­ pello alla mia pietà, ma sono incapace di lanciare un pomodoro al peggior incapace di questo mondo, io mi vergognavo. E quando si spegnevano le luci e irrompe­ vano i titoli di testa, avrei pianto di sollievo e di gioia: uscivo dalla sala ed entravo nel film come si rientra a casa propria. Bisogna chiamare questa sensazione «piacere»? Io propenderei, da buon lacaniano, per «godimento»: c'è un buco nero in cui si sprofonda con delizia perché là si sa di essere protetti a forza di esservi esposti diver­ samente. «Appena superato il ponte, i fantasmi gli ven­ nero incontro», una didascalia di Nosferatu, fu quindi la mia frase feticcio. Come non amare, anche alla tele­ visione, questi fantasmi di un cinema permanente, lon­ 100

tano dalla crudeltà del teatro sociale nelle luci dell'in­ tervallo? Non hai avuto paura, a forza, di pensare che la vera vi­ ta era dall’altro lato dello schermo, di diventare un puro cinefago drogato? È più contorto di questo. Si deve credere che ero pas­ sato nei film soltanto per reincontrarvi quegli stessi che avevo rifuggito nella sala, per vederli, per conoscerli. Per vederli uno per uno, «in quanto umani», con l'infinita benevolenza del moralista che si vendica della paura che gli hanno fatto. Per vederli, se possibile, attraverso una mediazione, quella dell’autore del film. Poiché per chi, come me, aveva dimenticato il suo corpo nella sala, la buona mediazione non era quella dell’attore, ma quella di chi immaginavo articolare, dietro la macchina da pre­ sa, tutte le angolazioni di visione secondo un punto di vi­ sta unico, il suo: l'autore.

La «visione del mondo» dell’autore sarebbe quindi pri­ ma di tutto un «punto di vista» spaziale, concreto? Bisogna prendere sul serio la parola «punto di vista». Il punto di vista è una situazione concreta in un pae­ saggio ingombro; è soggettiva e, al tempo stesso, crea l’oggettivo. Se mi pongo dal punto di vista di Lang, mi rendo conto che ci sono delle cose che, da quel punto di vista, non si possono assolutamente vedere, ma so che proprio a causa di questa macchia cieca ci sono delle cose che non posso vedere se non «in» Lang. È così che mi spiego oggi lo straordinario successo che ha da noi la parola «messa in scena». La messa in scena dà delle linee di frattura, degli ingressi di sbieco, dei punti di su­ tura; si può scivolare dentro una messa in scena, con il favore di un cambio di inquadratura, come un passeg­ gero clandestino del film. Si possono imparare le di­ stanze: l'arte di tenerle, di ridurle, di conservarle. In bre­ ve, ci si fa la propria tana, ci si orienta, e questo è mol­ to utile nella vita. Più tardi, il mio «caso» mi è sembrato decisamente banale. Orfano, il cinefilo sceglie di essere rapito da un passatore un po' speciale che lo introduce, ma non in un 101

modo qualsiasi, all'apprendistato del mondo. C’è un film che racconta questa storia, il Mito cinefilico incar­ nato, è II covo dei contrabbandieri di Lang. Nessuno im­ para così in fretta da Jeremy Fox quanto il piccolo John Mohune. Evidentemente, se l’autore è come un padre, non ci si allea con lui per andare a divertirsi con gli altri bambi­ ni. Ci si allea con lui perché ci mostri la gravità del mon­ do. In Lang, per esempio, i bambini sono coloro a cui non si deve mentire. Sia in I fantasmi del permanente che in testi più re­ centi, compresi quelli sulla guerra del Golfo, si ritrova Videa che il cinema dovrebbe essere uno strumento per pensare il mondo. È come chi ha studiato il latino e tutto d’un tratto si rende conto che gli è utile nel mondo moderno. Il cine­ ma è un bello strumento per guardare quello che, forse, è il successore del cinema. Si dovrebbe poter dire: «Quando si ama la vita, si fa la critica cinematografica della vita». Se questa idea potesse essere trasmessa da questo libro, ne sarei contento. Venir fuori bene dalla ci­ nefilia, per me, è parlare agli studenti della FEMIS, al­ l'inizio della guerra [del Golfo], e dire loro che il campocontrocampo non è una figura di stile datata, ma «del pensiero». Un pensiero che alla televisione manca a tal punto che, di colpo, ha senso guardare Fritz Lang che si è occupato unicamente di questo. Finché gli studenti di cinema credevano che fosse furbo sentirsi così superio­ ri alla televisione, non si poteva trasmettere loro gran­ ché. Ma quando, per la prima volta nella loro vita, tro­ vano una guerra sul loro piccolo schermo e questa guer­ ra li scuote o li deprime, allora se ne può approfittare per dire loro che dei concetti come «montaggio» o «primo piano» sono i regali che il cinema ha fatto al XX secolo, e sono fatti per essere usati.

Non è un ritorno a un'idea quasi militante délVutilità del cinema? Perché no? Era indubbiamente più facile per quelli della mia generazione, che spesso hanno trovato dei

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film come Nuit et brouillard molto presto sulla loro stra­ da. E che hanno provato, piuttosto che un improbabile «piacere», un senso di orgoglio nel disporre, malgrado tutto, del cinema, unica arte capace di stare con dignità al livello di un simile avvenimento, di informare e di for­ mare. Perciò mi piace pensare che questa idea su cui in­ sisto, che il cinema è realista, che registra, che testimo­ nia, venga anche da quella guerra e dal fatto di essere arrivato immediatamente dopo di lei.

La tua ultima recensione dei Fantasmi del permanen­ te verte su un film di Fritz Lang, La leggenda di Liliom. Non è innocente, o forse lo è, poiché Liliom è un film che rende il cinema una macchina che dichiara innocenti. E si direbbe che anche tu sia passato dalla colpevolizzazione alTassoluzione del cinema e dello spettatore. Come una redenzione dello sguardo. Liliom è l’unica versione benevola di ciò di cui Lang ha fornito tante versioni dure, come in Furia. Egli im­ magina che vi sia un luogo dove, come dice Legendre, «si sa assolutamente», e che questo luogo sia una cine­ teca in cui si troverebbe registrato non solo il film di ciò che è stato detto, ma anche quello di ciò che è stato pen­ sato. Liliom viene salvato suo malgrado perché si sa, da qualche parte, che i suoi pensieri erano migliori delle sue azioni. È una storia straordinaria. È vero che concludere / fantasmi del permanente con questo film significa chiudere l'epoca in cui avevo dei problemi a non poter sempre considerare il cinema co­ me «giudice e parte in causa» nella storia delle tragedie del secolo. Era un leitmotiv degli anni Settanta: nulla era «innocente», né la forma di un film, né la sua tecni­ ca, né il cinema stesso. Lang avrebbe potuto seguire Goebbels; Ejzenstejn aveva sicuramente obbedito in tutto a Stalin, eppure sono dei grandi artisti. Parimen­ ti, il sonoro aveva richiamato il muto all’ordine per pre­ parare lo sforzo bellico, non si era parlato che per fare propaganda, non si era ballato che per marciare meglio al passo, ecc. Indubbiamente c’è prescrizione. È possibile che i me­ dia ultramoderni ci abbiano fatto immaginare una vio­ 103

lenza altrimenti temibile, quella dei simulacri, o, come dice Comolli, del «mentire-falso». Una violenza tale da far diventare pietose le cine-menzogne di ieri, espressio­ ne di un mentire-vero divenuto inoffensivo e quasi com­ movente. Allora sì, è vero, il Lang sentimentale di Liliom vai bene il Lang duro dei Mabuse o di Furia. Lang è que­ sto maestro decaduto a cui l’esilio americano insegna un certo umanesimo e che oscilla, anche lui, tra il «tutti col­ pevoli» e il «tutti innocenti». Bisognava essere Lang o Bataille, Benjamin o Bunuel per dare agli uomini noti­ zie su quello che, in loro, appartiene al non-umano. Quello che funziona da solo, l’aspetto di macchina, la pulsione di morte, il «permanente» di un certo ritorno all’inanimato. Sono persone che hanno giocato col fuo­ co negli anni Trenta. Cinquant'anni più tardi, che cosa si constata? Che il problema non è più l’umano, ma è, di nuovo, «la vita». I diritti del pianeta, cose del genere. L’odio del desiderio, il ritorno degli dèi e degli animali. Ed è in questo contesto che hai voglia, per reazione, di dichiarare innocente il cinema? Ci sono parole di cui ci si rende conto, un bel giorno, di non averle mai usate, di avere passato la vita a fare «senza di loro». La parola innocenza, per me, non ave­ va modo di essere impiegata. L'innocente si contrappo­ ne al colpevole, o allo scaltro, all’astuto, al furbo. Da bambino ho dovuto voler essere piuttosto dalla parte del «giusto» (tra la giustizia e la giustezza). È questo che mi imponeva la visione di Nuit et Brouillard o di Hiro­ shima mon amour: l’indicibile dei lager, l’irraccontabi­ le della storia di Francia, il fascino torbido del terrore. Ma il giusto (lo specialista di «giusto un'immagine») è sempre soltanto colui che si sa anch'egli potenzialmen­ te colpevole. Colpevoli di venire «dopo»: il cinefilo, il critico, il testimone impotente che non può sostenere (persino una causa) che «con lo sguardo». L’innocente è il primo venuto, colui che arriva subito dopo, come George Stevens nello straordinario D. Day to Berlin quando filma l’apertura del lager di Dachau. È la mancanza di immagini che chiama la guerra. La tentazione dell’iconoclastia è un desiderio di guerra in­

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confessato. Oggi, dopo questa guerra, direi: umano non è colmare tutto con il visivo (la televisione occidentale), non è neppure pendere verso la cecità volontaria (la via araba), ma è lasciare sempre libera la casella vuota che permette di «montare», come lo zero permette di con­ tare. Ma soprattutto è impedire che una sovraimmagine occupi definitivamente questa casella. L’immagine sarebbe, comunque, un luogo d’incontro, un’apertura di pace. Diciamo almeno che non vedo altro mezzo, nella no­ stra cultura, di offrire all’altro la sua possibilità. La pro­ va che il cinema è per natura aperto, incompiuto, è che la fine di un film è talmente artificiale che bisogna scri­ vere la parola «Fine» sull'immagine per convincere lo spettatore. Esiste «l’ultima parola» (e che cosa non si farebbe per averla!), ma non esiste «l’ultima immagi­ ne», perché l’immagine è dalla parte dell’inizio e per­ ché, come dice da qualche parte Bachelard, «ogni im­ magine tende a crescere». Ma una volta cresciuta, per­ de l’emozione. Allora, sì, si può dire senza che suoni troppo sdolci­ nato: il cinema è l’infanzia. Il bambino non è scioccato dal fatto che «il film è già cominciato» quando viene al mondo, sta a lui di aprire bene gli occhi e le orecchie. Guarda i bambini indimenticabili del cinema, quelli di Rossellini, di Laughton, di Kaniewski: non giocano co­ me delle piccole scimmie o dei modellini, ma sono sot­ to l’effetto di uno stupore indicibile e di una curiosità insaziabile. La curiosità è l'unica virtù, è l’esatto con­ trario di un «volgare difetto».

La morte corre sul fiume non è il film che per eccel­ lenza conserva questa parte d'infanzia, come parte di so­ gno, come realtà assoluta? La morte corre sul fiume per me è il più bel film ame­ ricano. Non capisco come all'epoca i «Cahiers» abbia­ no potuto perderlo, come Truffaut non vi abbia visto niente. Io stesso l'ho visto tardi e l'ho apprezzato tardi, ma in misura sempre maggiore. Il momento in cui Mit­ chum insegue i bambini, entra nell’acqua e lancia delle 105

vere grida da belva, e in cui, senza nessuna transizione, l’immagine successiva è quella dei bambini addormen­ tati nella barca alla deriva, è il più bel momento in as­ soluto. È la vita come essa scorre, con la facoltà di di­ menticare propria dei bambini, con quelle riserve di tempo che le immagini tessono allo stesso modo in cui le nuvole fanno scivolare il cielo su se stesso. Il mondo è cambiato ma è sempre lo stesso mondo: continua sul suo slancio. Per tornare alla questione dell’innocenza e della col­ pevolezza, il film di Laughton è di una profonda stra­ nezza. L’innocenza non esiste ancora perché siamo, co­ sì sembra, prima della nascita del bene e del male. H per­ sonaggio di Lillian Gish non è né una madre né tanto­ meno una nonna, si accontenta di vegliare. È come il prologo di una specie che ancora soffre: l’uomo. Per la seconda volta (la prima è con Griffith) Lillian Gish è esattamente all’inizio di qualcosa. Nel film c'è una co­ smogonia: l’uomo non è compiuto, è ancora un preda­ tore; la donna neppure, ella oscilla tra due poli; «i bam­ bini», è ancora troppo generico: la bambina non è asso­ lutamente il bambino, niente è definitivo, «bisogna ve­ dere» che cosa ne viene fuori. E ne viene fuori parecchio. Per andare fino in fondo al mio fantasma, dirò che in un film come questo si tratta ancora di informazione, anche se il soggetto è niente di meno che l’umanizzazione dell’uomo, vale a dire la mitologia, ovvero la sto­ ria degli inizi. E l’inizio è sempre al presente. E direi lo stesso per Griffith, salvo che lui è un sadico e ha pro­ dotto un’unica immagine: quella del primo viso di bam­ bino attraversato dalla certezza che il male esiste. Grif­ fith è il primo reporter che trasmette l’immagine da cui Dickens o Dostojevskij erano ossessionati. E questa im­ magine è un'informazione metafisica: il Male è final­ mente visibile. Un terzo esempio può essere Bunuel, il più grande de­ gli ironisti. C'è un film di Bunuel che mi rende felice, Si­ mon del deserto. Simon lo stilita si sacrifica per vivere quaggiù e nel suo corpo la lotta tra il Bene e il Male. Il diavolo gli tende delle trappole, ma Simon le evita tutte. Tutte tranne una, l’ultima. Il diavolo lo strappa alla sua 106

colonna, lo fa volare, ed ecco che Simon, intellettuale barbuto, si ritrova in una discoteca newyorkese. Che co­ sa è successo? La mia ipotesi, contorta come il film, è che il Male ha vinto. E mi diverte molto immaginare Bunuel nelle vesti di un giornalista abbonato a una sor­ ta di telex segreto della metafisica cristiana, che un gior­ no legge un dispaccio dove si dice che, dopo complesse peripezie, il Male ha vinto la guerra. Allora dice a Si­ mon: mentre facevi lo scemo lassù sulla tua colonna, tutto si è giocato altrove, senza di te, e tu hai perso. Questa lettura è eccessiva, ne convengo, ma è bunueliana. In lui c'è sempre, come peraltro in Kubrick (so­ prattutto in Barry Lyndon}, la sensazione che la Storia degli uomini si svolga altrove rispetto al mondo degli uomini. Come dice misteriosamente Godard, la Storia è sola. Ci sarebbe la nostalgia di un momento zero, di una sce­ na primordiale, ma «filmata». Non è nostalgia, ma piuttosto malinconia. La nostal­ gia valorizza l’oggetto perduto, la malinconia sa che questa perdita è l’ombra del presente, il suo immediato retrogusto. Io amo molto i personaggi di Demy: essi in­ dovinano che la loro storia ne ripete un’altra, ma sono frivoli, con la testa fra le nuvole, e dimenticano rego­ larmente di chiedersi quale storia sia. Oppure in Roh­ mer, il loro modo di assentarsi o di addormentarsi nel momento meno opportuno. Gli amanti della durata so­ no anche gli ossessivi del momento mancante. È così che il cinema ha potuto «inventare il tempo». Mi sono sentito liberato il giorno in cui ho capito che per me il cinema era questo: l’invenzione del tempo. L’immagine, vale a dire l'invenzione dell’altro, è ciò che viene immediatamente dopo. È così che ho perso così tanto tempo a «guadagnare tempo».

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I FANTASMI DELL’INFORMAZIONE

Momento crìtico per la critica

Qualche anno fa, a Gabès, un animatore di cineclub del sud della Tunisia mi comunicò il suo smarrimento. Accadeva spesso, infatti, che dopo la proiezione uno studente barbuto si alzasse e spiegasse con tono severo che la morte dell'eroina alla fine del film si doveva non agli sceneggiatori, ma a Dio, che l'aveva punita per i suoi peccati. In queste condizioni come era possibile animare un dibattito di cineclub, visto che non c’era più dibattito? Nello stesso momento, tra i cristiani, un movimento convulso e bigotto provocava una grande agitazione. Improvvisamente l’opinione di quelli che avevano visto Je vous salue Marie ebbe minor peso di quella di coloro che lo condannarono «a occhi chiusi», senza averlo vi­ sto. Con lo spirito che gli è proprio, l’autore del film, Jean-Luc Godard, fece fìnta di rispettare il parere del papa, non tanto come capo della Chiesa quanto come individuo la cui «questione» personale consisteva nel ri­ flettere su Maria. Godard non rivendicò i diritti sacri dell’individuo alla creazione, ma chiese l'impossibile, vale a dire il diritto per individuo Giovanni Paolo di di­ scutere con l'individuo Jean-Luc di una parte comune del loro lavoro. Godard non era più quello che, per difendere La reli­ giosa di Rivette, scriveva una bella lettera di rottura a Malraux. Di fatto, le cose erano cambiate. La critica ci­ nematografica aveva ceduto anche già troppe volte, e il «diritto alla creazione» era diventato un ritornello sin­ dacale, ancora più rumoroso dal momento che per «i professionisti della professione» da tempo più nulla «faceva dibattito». Qualche anno più tardi, nel clima di

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imbarazzata mollezza che accompagnò l’uscita de L’ul­ tima tentazione di Cristo (molto presto ribattezzata «af­ fare Scorsese»), la critica cinematografica non svolse alcun ruolo1. Che cosa significa questa anemia della critica? Che non si sa più combattere per «la libertà di espressione»2 e che non si è sempre capaci di combattere per la «li­ bertà di consumo». Domanda: esiste un diritto inalie­ nabile del consumatore di film di consumare il film che vuole? Risposta: non è certo. Non è certo perché non so­ no solo gli oggetti a essere consumati; è il «sociale» che è consumato sempre di più da individui che si presu­ mono liberi. Liberi delle loro scelte e dispensati dal do­ verle difendere, quindi dal dover discutere di qualsiasi cosa. Perché il consumo del sociale, se necessita anco­ ra di oggetti-pretesti, ha bisogno più del pretesto che dell’oggetto. L’opera aveva attinenza con la critica, e la critica era dovuta a ciò che era frutto di un lavoro (o almeno di un progetto). Il prodotto non ha attinenza, in senso stret­ to, che con ciò che esso produce a sua volta. Un buon prodotto è quello grazie al quale si vede come funziona la società. È questo che si vuole vedere, il prodotto del prodotto e così via all’infinito. La società si auto-consu­ ma attraverso i suoi «fenomeni» sulla scena parassitaria dei media. Si capisce quindi come nello stesso tempo si svuoti­ no le sale cinematografiche e il senso della critica. La recente «orsificazione» di tutto lo spazio sociale fran­ cese ha permesso a ogni singolo individuo di collegarsi (a suo piacimento) con uno dei numerosi anelli della «linea»-Orso, l’anello-film non avendo più altro privile­ gio che quello della vetrina. È così che, qualche giorno prima dell’uscita de L’orso, incontro due amiche: una, oberata di lavoro, ha l’angosciosa sensazione di manca­ re continuamente il film, e l’altra mi chiede a che cosa io ne attribuisca l'enorme successo. La curiosità circa gli effetti precede ormai il libero esame della causa. Sono cose note, descritte da tempo e i cui paradossi non sono neppure più divertenti. Dove il pretesto si è imposto sull'oggetto, la critica, in un primo tempo, de­

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perisce o scompare. La televisione, per esempio, non ha bisogno di critica perché, invece di sottoporre degli og­ getti al giudizio del pubblico, vende ai suoi padroni del­ la pubblicità spettatori in cattività ai quali, per pigrizia, offre ancora dei «film di cinema» perché stiano tran­ quilli e non facciano troppo zapping. L'unità di base della televisione non è l’anello ma la catena, non il ber­ saglio ma l’ostaggio. Ogni giorno veniamo a sapere un po' meglio queste cose. Sarebbe ingenuo, quindi, pensare che la critica (co­ me funzione) o il senso critico (come valore) possano «sparire» da un giorno all'altro. E piuttosto il loro rici­ claggio che costituisce un problema. Perché se i media sono il luogo in cui le società moderne operano una di­ luizione di massa delle funzioni un tempo riservate sol­ tanto ai mediatori professionisti, questa operazione non si svolge senza intoppi, senza disincanto, né so­ prattutto senza ritorni del rimosso. E questi ultimi, da un po’ di tempo, non mancano. Ogni mediatore, in effetti, assume su di sé una certa parte di abiezione: prendere le cose come vengono, stu­ diarle e giungere a una conclusione, talvolta a un ver­ detto. È questo che si dovrebbe imparare a condividere, grazie senza dubbio alle simulazioni offerte dalla tele­ visione. La televisione è sempre di meno la macchina che si ritiene debba «dare a vedere»; al contrario, essa dà, sempre di più, «da sentenziare». Essa mostra come organizzare un dibattito, estorcere delle verità, confon­ dere il sondaggio con il reale, istituire un processo (an­ che fasullo), o inviare con il Minitei delle sentenze di vi­ ta o di morte, di perdono o di condanna. Essa abitua a non conservare che la fase finale dell’attività critica: il verdetto (o questo verdetto portatile che costituisce una somma di opinioni). Il mondo della comunicazione dei media ha due volti. Noi crediamo volentieri a chi, alle­ gro utopista, ci ha promesso un mondo dove, nel com­ plesso, un numero sempre maggiore di persone avrà più rapido e frequente accesso a una maggiore quantità di informazioni. Ma così facendo abbiamo confuso, un po’ frettolosamente, comunicazione e «trasmissioni». Ormai sappiamo che questo mondo ha anche un volto 110

inquietante: basta confondere, questa volta, comunica­ zione e «contaminazione» perché il peggio riemerga. Torniamo al nostro umile punto di partenza. Criticare, in effetti, dovrebbe essere l’arte di descrivere degli og­ getti singoli trovando le buone metafore (ciò che Go­ dard chiama ostinatamente il montaggio). Ma quando manca la possibilità della metafora, quando è la meto­ nimia a imporsi, le cose si mettono male. Allora ritorna (è l'integralismo) la nostalgia di un nocciolo duro, di un vero oggetto, di una verità incarnata, di un'uscita cata­ strofica dal consumo del societale verso la consunzione del sociale; allora ritorna la bigotteria del terrore. Ci siamo già, ovviamente, visto che Khomeini ha fat­ to giocare a suo favore il gioco della metonimia gene­ ralizzata (la parte per il tutto, il contagio tra vicini, va­ le a dire il terrorismo). Ci siamo perché tutti i curati del mondo - da O’Connor a Decourtray - approfittano del benestare dato dal vecchio ronzino di Teheran per re­ cuperare le loro pecorelle. Non si tratta più di cinema e neppure, nel caso di Salman Rushdie, di critica lettera­ ria3. Non si tratta neppure di dibattito teologico, come ve ne furono - e di ben altra serietà - nell'epoca d’oro dell’IsIam. Si tratta di approfittare del vorticoso giro­ tondo degli oggetti-pretesti per passare al terrorismo dell’oggetto puro. Visto che siamo sempre incapaci di fare la critica del­ le catene, sarebbe poco serio rinunciare a quella degli anelli. Uno per uno, se è necessario. E non solo i film. (24-2-1989)

Quando il ritmo viene a mancare

L’ora del rientro era appena suonata, che il cinemabrodo di cultura parigina era in preda ai sussulti. Da un lato Batman, uno degli innumerevoli film americani adavere-polverizzato-i-record-d ’incasso-della-storia-delcinema, dall’altro I want to go home, puro film d'auto­ re, tanto francese quanto il suo titolo non dice, diretto da Alain Resnais e prodotto da Marin Karmitz. Si trat­ 111

tava dell'ennesimo episodio della lotta stantia tra la no­ stra finezza francese e la loro stupidità americana, tra le loro macchine e le nostre opere? Sì e no, e a conti fatti piuttosto no. I due film, in effetti, hanno deluso. Meno bambini del previsto davanti all'ascetico pipistrello, e meno critici sempre-già-in-visibilio davanti all'ultima opera resnaisiana. Il fatto è che la pazienza è, ogni giorno, minore. Come, Batman è già un evento e bisognerebbe pure ve­ derlo? E ancora, pensarne qualcosa? Quanto a Resnais, già grande cineasta, lo si dovrebbe seguire fino alla fine del suo itinerario di autore? È così che abbiamo senti­ to una sorda rivolta, e come un vago desiderio di mor­ dere e di demordere. Eppure, per quanto appaia sfasato e misterioso, il film di Resnais è uscito sugli schermi la settimana in cui la stampa pensante si faceva eco dell’articolo dell’americano Francis Fukuyama intitolato «La fine della sto­ ria?». Un caso? Sì e no, e, a pensarci bene, no. Oppure un caso «alla Resnais». Alla fine del suo testo, in effetti, Fukuyama si interroga. «La fine della storia - scrive sarà un periodo molto triste (...) E forse la prospettiva stessa dei secoli di noia che ci aspettano dopo la fine della storia servirà a rimettere in marcia la storia». Se si ammette che in queste parole c’è un piccolo granello di verità (anche a titolo di sintomo), e se ci si ricorda che Resnais è per l'appunto quel cineasta che ha registrato alcune delle conseguenze più sinistre della Storia (Nuit et brouillard, Hiroshima mon amour, Muriel), nulla vie­ ta di considerarlo, ancora oggi, in sincronia con il suo tempo. Il suo film è noioso? Sì, ma è perché noi già ci annoiamo tanto. Consideriamo i personaggi di I want to go home... È come con rammarico o in extremis che Resnais e Feiffer trovano l'energia di intrecciarli in una successione di equivoci senza i quali ognuno sarebbe rimasto nel limbo di una storia quasi spenta, classificata. Questo film francese con un titolo inglese è la risposta a quel film - Mon onde d’Amérique - dove non cerano né zio né America. Resnais è quel cineasta molto particolare che ha sempre filmato come se VAmerica non fosse mai

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esistita. Non perché detesti l'America, ma perché ha do­ vuto identificarla con un tipo di energia (dal fumetto al­ la danza) che non ha nulla a che vedere né con l’Euro­ pa né con la malinconia necrofila del cinema. Egli fil­ ma - infine - degli americani solo nel momento in cui questi non sono più sicuri di avere una storia, l’America è sfiorata dall’idea del declino e, di colpo, la vecchia storia di amore-odio tra il Vecchio Mondo e il suo ziorampollo di oltre Atlantico ha perso molto del suo fa­ scino. Resnais ha saputo attendere. E se, per il solo piacere del confronto, ci si gira dal la­ to di Batman, che cosa si vede? Come il Roger Rabbit di Spielberg, questo prodotto da liceali è attraversato dal­ l’idea di una città, Gotham City, culo del mondo e defi­ nitiva porta chiusa, dove si agita un popolo dell’ombra sul quale dei giocattoli giganti rovesciano gas esilaranti o mortali (oppure, come suggerisce Elisabeth Roudine­ sco, del zyklon B). Bello «scambio di favori». Resnais, che filmò l'immagine dei lager, «scopre» l’America nel momento in cui questa «scopre» l’idea concentrazionaria (ripiegamento su se stessa, etnie inferocite, villaggio globale impazzito, paesaggio urbano lasciato alle sue deiezioni, diluizione dello Stato). Resnais filma dei ca­ daveri che avrebbero sniffato per sbaglio una striscia di cocaina, e Tim Burton reinventa un vecchio pipistrello giustiziere che preferirebbe sprofondarsi totalmente nella malinconia. Spingendo più in là il paradosso, si po­ trebbe dire che il giovane Burton aggiunge al suo arma­ mentario di cinefilo un senso del tutto nuovo (per l’Ame­ rica) di disumanizzazione, e che egli lo fa nel momento in cui il vecchio Resnais innesta su ciò che egli conosce dell’inumano le vitamine artificiali della sua cultura di patito dei fumetti. Tra i due film c’è, evidentemente, una differenza. È che il loro insuccesso (e la noia relativa che distillano) si deve a una grave perdita di ritmo. Ora, la perdita del ritmo è una delle conseguenze estetiche della «fine del­ la storia» (fine di cui la troppo celebre «crisi della sce­ neggiatura» non è che la forma tecnica). La perdita del ritmo equivale alla perdita del gusto del racconto. In Batman come in I want to go home, l'anoressia narrati­ li)

va sfocia nell’oblio del tempo. Non ci sono più né un tempo forte né tempi deboli, ma una sorta di ritmo elet­ tronico mal regolato. La differenza tra un autore come Resnais e un arti­ giano su commissione come Burton sta nel fatto che l'autore è, per definizione, più innocente e più lucido. Resnais, del resto, non ha mai cercato nel cinema un rit­ mo che trovava sempre a lato del cinema (nei fumetti che non sono altro che bolle e scansione, nella frase durasiana che è radio, nel teatro di boulevard che non è che astuzie). Poiché da sempre non filma altro che dei sopravvissuti, dei robot, dei sistemi nervosi, sa imitar­ ne abbastanza bene l'apparenza fisica, tranne i battiti del cuore, le diastoli del desiderio e le sistoli dell’emo­ zione, in breve, tranne il ritmo. È la nostalgia della vita che dà ai film di Resnais il loro fascino atonale e forza­ to. Egli ha finito per credere che la commedia sia per natura abbastanza artificiale da dare l’illusione della vi­ ta. In Lubitsch o in Rohmer, sì; ma non in lui. Paralle­ lamente, ciò che rende Batman - malgrado diverse idee di dettagli molto stimolanti - quasi altrettanto noioso di I want to go home è la scelta, come in tutte le macchine cinematografiche di questo stampo, di un ritmo esage­ ratamente rapido e bulimico che non riesce più a ma­ scherare la fondamentale monotonia della ripresa. Più si va avanti, più gli americani filmano e ritmano tutto nello stesso modo. E pur essendo decisamente più nervosi dei francesi, nondimeno sono altrettanto ap­ prossimativi. Lo speed non è la velocità, il doping non è l'energia, la «tossico» non è la magia. Se nelle immagi­ ni contemporanee c’è qualcosa come un cuore che bat­ te, come un respiro, la si potrebbe trovare ogni tanto, in Garrel o in Moretti per esempio. Il resto non è altro che un vago ammasso di pacemaker (Resnais), di massag­ gi cardiaci (Burton) o di ritmi elettronici (tutta la tele­ visione). Improvvisamente la vecchia frase idiota «quando si ama la vita, si va al cinema» va sostituita da questa, più conforme alla sensibilità ecologista e alla mollezza snervata del nostro tempo: «quando ci si inte­ ressa a ciò che è vivo, si può (ancora) andare al cine­ ma». Non tanto per sognare, quanto per contare le ossa

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rimaste. Il debole «vantaggio» del cinema americano è di accelerare tutto là dove l’onestà del cinema europeo consiste nel coraggio di decelerare. Si è meno disturba­ ti da Batman che da / want to go home perché nell'ame­ ricano la noia è il risultato di una bulimia (inghiottire del «nulla» fino all’indigestione), mentre per il francese il più piccolo boccone ai «qualcosa» va per traverso. Una volta i film che «disturbavano» erano ben visti; ora non ci si prende neppure più il «disturbo» di veder­ li. C'è nel film di Resnais, al di là del tentativo derisorio di trasformare una danza di morti in commedia scapi­ gliata, un vero sguardo sulla materia aleatoria di un mondo cui nessun tempo può più, per il momento, da­ re l'impulso4. (6-10-1989)

Nicolae ed Elena legano i loro corpi alla TV

Se si può avercela con Elena e Nicolae Ceausescu per avere governato così male la Romania quando erano in vita, non si può fare a meno di congratularsi con i loro cadaveri per il loro frequente passaggio - e con grande successo - alla televisione. Lunedì sera ci hanno anco­ ra stupito con il sussiego da grandi professionisti con il quale hanno disprezzato le pallide comparse che, anco­ ra una volta, li hanno fucilati. Parimenti, se si può avercela con la televisione per avere fornito un'informazione così scadente sui Ceau­ sescu quando erano al governo, non si può fare a meno di congratularsi con essa per avere offerto ai loro cada­ veri l'occasione di esordire sul mercato mondiale dell'emozione. Sempre più morti, crivellati, gonfi e ter­ rei, i terribili coniugi stavano addirittura per diventare le comparse meno pagate della storia della televisione. Fortunatamente, alla fine si è trovato qualcuno (Sulitzer!) che reclami dei soldi e riporti la situazione alla normalità, vale a dire a una dose normale di sordido. Come si è arrivati a questo punto? È quello di cui si è discusso in più di un convegno (il più recente è quel­ 115

lo di Valence, nella Dróme) dedicato al modo in cui la Romania e la Televisione si sono, in fondo, manipolate a vicenda. Di qui sorgono almeno tre domande. Perché i romeni hanno a tal punto mancato di compiere gli at­ ti simbolici che avrebbero dovuto permettere loro di gi­ rare, senza troppe rotture, la pagina Ceausescu della lo­ ro storia? In che misura questa mancanza è stata ag­ gravata dall’operato morboso delle televisioni occiden­ tali? Non è inutile aspettarsi dalla televisione una qual­ siasi efficacia simbolica? Alla prima domanda si può iniziare a rispondere. Abituati a mentire per la cattiva causa, i romeni non hanno creduto che il giorno in cui la loro causa fosse di­ ventata buona si sarebbe rimproverato loro una legge­ ra forzatura deH’informazione. Di qui quel processo truccato e troncato, e quel carnaio di Timisoara fretto­ losamente proposto ai giornalisti stranieri. Costo del­ l'operazione: pesante. Costretti a ritirare il carnaio e a portare a termine il processo, i romeni danno l’impres­ sione non solo di avere evitato l'«atto televisivo unico» della loro rivoluzione, ma anche di sostituirlo con un macabro sceneggiato, costruito senza il minimo buon senso, lacunoso e infarcito di secondi fini e di cose non dette. Si era dunque discusso troppo in fretta sul carat­ tere esemplare del fermo immagine della caduta di Ceausescu visto che, come gli spettri, il fantasma video di questa immagine non cessa di ossessionarci. È dav­ vero un fallimento. Anche alla seconda domanda si può dare una rispo­ sta. E lo si può fare tanto meglio dato che la nostra te­ levisione ci è nota, e obbedisce a un regime di verità che le è proprio. Regime ferreo che si può scomporre nel modo seguente: 1) non c’è altra verità alla televisione che quella della diretta-, 2) la sola diretta che, al limite, valga la pena è la morte', 3) la sola prova della morte è la possibilità di esibire un cadavere5. In questo senso l'eter­ no ritorno televisivo dei cadaveri Ceausescu è l’evento per eccellenza, ed è senza vera convinzione che i com­ mentatori di lunedì sera (povero Cotta!) hanno fatto fin­ ta di trovare nella versione lunga del processo un inte­ resse che non fosse altro che voyeurismo. 116

Alla terza domanda, invece, non si può fare altro che accostarsi timidamente, vista la sua importanza. Se è simbolico ogni atto che scandisce la durata e instaura il tempo per un gruppo di individui che - per questo stesso fatto - si riconoscono imbarcati su un'unica e so­ la barca, la televisione ha, ha avuto e avrà parecchie difficoltà a creare simili atti. Paradossalmente, è la sua onnipresenza che la rende impotente. Mondiale e per­ manente, essa non scandisce più nulla. Disponibile a piacimento, essa ignora la catarsi. Spogliata del fuori­ quadro, essa è anche priva di altri. Di qui nascono dei temibili effetti perversi. Un avvenimento che, ancora ieri, era considerato «simbolico» (per esempio il viag­ gio del Papa) diventa una pura parodia nella grande tradizione ironica degli ultimi film di Bunuel. Al con­ trario, ciò che solo ieri non era espressione che del «realismo» più triviale (diciamo l'esecuzione dei Ceau­ sescu) diventa, trasmesso alla televisione, la simula­ zione rabbiosa di un atto simbolico che non ha «preso». Ai nostri giorni si sente questa rabbia un po’ ovunque, e soprattutto alla televisione. Riprendiamo i Ceausescu: rabbia dei coniugi vittime, rabbia provocata dal tetano dei boia, rabbia incompetente dei commentatori, rab­ bia oscena dell'auditel, rabbia virtuosa di coloro che si sentono manipolati. Qual’è questa rabbia? Non è quel­ la che nasce da una delusione definitiva, quella stessa che il perverso conosce così bene, quando, costretto a rivedersi instancabilmente il medesimo film, condan­ nato a non vedere o captare mai tutto del momento de­ cisivo che lo ossessiona (piccola o grande morte), sa di essere destinato a inciampare invariabilmente nel rifiu­ to del suo piacere e nel residuo del suo fantasma: un corpo stupido dopo il coito (animale triste) o un cada­ vere inebetito dopo la salva. Ancora un passo e inciam­ perà in ciò in cui egli inciampa. È questo stesso modo di voler inscrivere il simbolico nel reale e di aspettare dai più sanguinosi passaggi all’atto una qualche intro­ vabile verità che ha condotto, una prima volta, al fasci­ smo. Chi ci dice, oggi, che il desiderio di simili passag­ gi all’atto non sia ritornato? Più, infatti, rinunciamo a interpretare il mondo, più

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ci accaniamo sui corpi che lo popolano. Il corpo non è il supporto di una storia singolare, ma il rifiuto disprezza­ to di un sogno. Quanto meno il Libano è comprensibile, tanto più i cadaveri libanesi sono filmabili. Più la Ro­ mania è glauca, più i cadaveri Ceausescu ritornano uti­ li. È questa fobia dell’uomo per la propria immagine, è questa tautologia che degenera, che la televisione ha scelto di abbracciare. Più in peggio che in meglio. Non si spiega altrimenti che con questa fobia l’acca­ nimento esasperato dei moralisti di ogni sorta contro le trasmissioni di Karlin e Lainé, colpevoli unicamente di avere messo alla portata del telespettatore medio l’inte­ ressante umanità delle cavie medie - voi, io - di L’Amour en France. Di questi esseri e di queste cose che sono or­ mai alla nostra portata, là, vicinissimi, osceni e minac­ ciosi per la loro disponibilità, è urgente - per evitare il peggio - che sappiamo fare qualcos’altro che non sia il contare gli impatti delle pallottole nei loro corpi. Il cinema, è noto, è spesso la coscienza sfalsata di co­ loro che non hanno coscienza, vale a dire il clero televi­ sivo (che ha, in mancanza di meglio, un prezzo: il pen­ siero di Guillaume Durand, per esempio, vale sette mi­ lioni di centesimi all’ora, avviso agli amatori). È così che un film che si vedrà presto - il nuovo «ultimo Felli­ ni» - dice a modo suo - anch'esso rabbioso - due o tre cose sulla catastrofe che, forse, ci minaccia. Che cosa racconta La voce della luna? Come sempre in Fellini, molti avvenimenti incompleti culminano in un avveni­ mento troppo definitivo. Un giorno, in una cittadina ita­ liana, degli uomini, degli operai, sono riusciti a cattu­ rare il simbolo stesso di ciò che è distante: la luna. La luna è dunque sulla terra, enorme disco di luce livida, prigioniera tra i curiosi e i notabili. Dapprima si guar­ da la luna, e poi le si parla, le si chiedono dei patti, il senso della vita, cose così, e poiché l’idiota non parla, un esaltato le spara e si vede un piccolo foro nero sul bor­ do sinistro della luna. Catastrofe. Da molto tempo Fellini ci descrive il mondo in cui vi­ viamo, un mondo in cui l’oggetto del desiderio esiste pri­ ma ancora che il desiderio nasca, un mondo in cui, co­ me dice Virilio nel suo eccellente ultimo libro (L’Inertie

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polaire) «ormai tutto arriva senza che sia necessario partire». La luna sulla quale si spara è come i coniugi Ceausescu: offerta da una disponibilità dapprima mera­ vigliosa, insperata, poi sorprendente, poi fastidiosa, poi terrorizzante, poi esposta a tutti gli oltraggi. Come reinventare la distanza? (26-4-1990)

Testardo elogio dell’informazione

Nel 1989, poi nel 1990, l'informazione televisiva co­ nobbe due vittorie di Pirro. Scagliandosi senza precau­ zioni sulla povera Romania improvvisamente filmabile, le sue troupe e le sue redazioni, che avevano scambiato un obitorio per un carnaio e un colpo di stato fumoso per una rivoluzione fumante, si ritrovarono come pri­ ma. Oggi che «Televisione e Romania» è diventato un tema di convegno o un soggetto di scherzo, molti sono coloro che, umiliati, hanno giurato in segreto che, in fu­ turo, guarderanno meglio le immagini. Era ora. Ma appena la deludente Romania era tornata nel suo purgatorio, la crisi del Golfo costituì una nuova sfida. Non era più con un teatro a porte chiuse che l'informa­ zione si confrontava, ma con quest'altro teatro, detto «delle operazioni», marziale e disperso, troppo dispara­ to per fare immagine. Eppure è qui che l’informazione televisiva - quella della CNN - ha conosciuto la sua apo­ teosi e toccato i suoi limiti. È bastato che i grandi del mondo, George Bush e Saddam Hussein, si mettessero a usarla per proprio conto come se si trattasse di un Mi­ nitei gigante. È così che noi non abbiamo visto la cas­ setta del messaggio di Bush al popolo iracheno, e che un po' di TV ha iniziato a farsi e a transitare senza di noi. Come se, essendo finalmente sfuggita alla tutela diretta del politico, la televisione dovesse oggi restituirgli una parte delle sue agevolazioni tecniche. E evidente, infat­ ti, che in caso di guerra il controllo del piccolo schermo è essenziale alla logistica di ognuno dei campi. In entrambi i casi si è trattato di un richiamo all’ordi­

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ne. È nel momento in cui è diventata più «performante» che mai che l'informazione televisiva, con i suoi notizia­ ri e i suoi rotocalchi, le sue servitù supergiocate e le sue vedettes superpagate, riscopre una verità un po' dimen­ ticata: non si può sempre filmare qualsiasi cosa in qual­ siasi modo. Dal lato del reale, qualcosa resiste all'omo­ geneizzazione, rabbiosamente. È lo jus primae noctis formale della televisione su tutti i soggetti, quest'uso in tutte le salse dello zoom fiacco che non fa vedere e del commento istantaneo che non vede, questo ricatto del tempo-che-manca e della linea che bisogna rendere, questa crescente indicizzazione sullo stile dei videoclip e degli spot, quest’attualizzazione, sotto l’apparenza dell’«emozione», dei fantasmi più ammuffiti; insomma, tutta questa omogeneizzazione del mondo sotto la sor­ veglianza dell’elettronica che è minacciata, sotto i nostri occhi, da una sorda perdita di credibilità6. Prendiamo l’esempio recente di un reportage del ro­ tocalco d’informazione Audit, dedicato all'installazione dell’esercito francese nel Golfo. Un soggetto nobile e ineludibile, hanno dovuto dirsi gli autori, che ritrovia­ mo nella calura notturna di Yambu, con il microfono in mano e l’aria grave. Il dispositivo è il seguente: a Parigi il SIRPA e i ghigni giovali del generale Germanos, e a Yambu delle reclute e qualche ufficiale. Da entrambe le parti un solo discorso: abbiamo la situazione sotto con­ trollo. Le reclute sembrano ignorare il senso di questa «guerra» più o meno come se si trattasse della rivolta dei Boxers. I loro superiori, mani sulle anche, dicono che sanno. Il SIRPA dice di sapere che sanno. Quando il reportage è finito, bisogna fare un leggero sforzo per trovare il coraggio di farsi questa terribile confessione: non c’è stata nessuna informazione. Ciò che si è visto, in pose furtive per le esigenze di «imma­ gine» (quella dell’esercito, quella della televisione), è un po’ di «attualità», ovvero che quello sta accadendo in di­ retta, in un'Arabia assolutamente Saudita e che la trou­ pe tecnica ha davvero fatto il viaggio. L'unica informa­ zione è che la televisione è andata laggiù (e noi no). Sia­ mo nella confusione ormai corrente tra l'informazione e l’attualità.

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Questo caso, tra molti altri, è ancora più esemplare perché Audit è una trasmissione dignitosa e persino simpatica. L’esempio illustra, purtroppo, questa legge senza appello: la televisione non ha futuro, per la sem­ plice e buona ragione che essa non è veramente un luo­ go di lavoro. Per esorcizzare le grida delle ossìfraghe ca­ todiche che già sento, preciso che cosa intendo per «la­ voro». Non l'agitazione, lo stress, i bambini sequestrati, la paura dell’Auditel e l'usura delle immagini di marca, né tantomeno lo spostamento eroico e pesante di qual­ che reporter in capo al mondo. Intendo per «lavoro» l'esercizio preliminare di un minimo di riflessione; tal­ mente minimo che sarebbe meglio chiamarlo sempli­ cemente «buon senso». Ora, che cosa dice il buon senso su un simile repor­ tage? Dice che non vi è nessuna ragione per cui l’eser­ cito nel 1990 abbia cessato di essere ciò che è per natu­ ra, ovvero una «grande muta». Il buon senso aggiunge che, se è legittimo dedicare un reportage all’esercito francese, lo è a condizione di trovare - in un modo o nel­ l’altro - un mezzo per farlo parlare o renderlo parlante. Questo «lavoro» non richiede forse che una discussione di cinque minuti intorno a un caffè; ma sono proprio quei cinque minuti e quel caffè che mancano. La televisione fa pensare a una parvenue villana alla quale sarebbe difficile spiegare che, anche se essa ha dato la prova definitiva del suo potere (potere tecnico che attiene più all'amplificazione delle cose che alla lo­ ro creazione), non ha ancora affrontato nulla di serio. Bene, il momento delle cose serie è arrivato. I giornali­ sti di Audit hanno davvero pensato che sarebbe bastato apparire nel deserto perché i generali aprissero loro il proprio cuore? F.-H. de Virieu credeva davvero che la presenza delle telecamere nel palazzo reale di Rabat avrebbe dissolto l’atmosfera cortigiana, che invece perforava lo schermo? E d’Arvor, intervistando Mobu­ tu, sperava davvero che quest’ultimo, faccia a faccia con lui, «Patrick», si sarebbe improvvisamente stancato di mentire e sarebbe scoppiato in lacrime? Tante sbavatu­ re, altrettante lezioni - ogni volta diverse. Se non fosse indubbiamente troppo tardi, si potreb-

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be dire che la nuova temperie che il mondo attuale vive è per l'informazione televisiva l'occasione sperata di far­ vi i suoi veri esordi. Oltre al non-lavoro, c’è infatti una certa dose di ingenuità in coloro che si sono abituati a legare la realtà degli altri al loro letto di Procuste au­ diovisivo. Ingenuità che condividiamo anche troppo, tanto siamo rassegnati a vivere con l'idea malinconica e masochista che il levigato spettacolo che inquina i no­ stri schermi sia il triste esito di un trattamento (in sen­ so medico) inflitto a tutto ciò che non è noi. Il documentario, ha detto un giorno Godard, è ciò che succede all'altro; la fiction è ciò che succede a me. È sempre vero? Certo, le nostre culture hanno inscritto sul frontone dei loro valori, come specialità della casa, l’altro. L’altro come oggetto da ridurre, ma anche come enigma da rispettare. E allo stesso tempo, partecipando dello stesso ripiegamento di identità che fa delirare il sud, il nostro nord vuole sapere che cosa succede a lui. Salvo che per fare questo si affida non tanto alla fiction quanto al fantasma puro e semplice. Grazie ai sondaggi e al narcisismo di gruppo genera­ to dai sondaggi, siamo molto vicini ad accettare che il fantasma acceda alla dignità di «informazione». L’Événement du Jeudi è l’espressione seducente di questo van­ taggioso baratto nel quale «l’altro» - se è liberiano - di­ pende da Kouchner o dalla carità indignata, mentre se è arabo dipende dalla messinscena fragorosa e vuota del fantasma. Non c’è più bisogno di analizzare, di infor­ mare, di andare a vedere di persona: per una società paz­ za del suo corpo cifrato di opinioni-fantasma l'antigiornalismo può cominciare. Qui non si tratta - non sarebbe ragionevole - di dare addosso al fantasma («noi»), ma di ricordare che la fic­ tion («io») e il documentario («egli/ella, essi/esse») sono le due gambe dell’audiovisivo, e che quest'ultimo, a me­ no di sprofondare miserevolmente nelle sue sbavature non potrebbe reggersi su una sola gamba. Il fior fiore della televisione è il primo a esserne cosciente, e ad approffittame per occupare più che mai la ribalta con il tema filisteo di «che cosa ci succede?». Se ci troviamo a una svolta della storia dell'informa122

zione e dell'informazione come condizione di tutte le storie, non è certo perché artisti e moralisti, da Bau­ drillard a Godard, avrebbero finito per farsi ascoltare. «L'altro» in loro è ancora un lusso oppure già un ricor­ do. È piuttosto perché si tratta ancora una volta di guer­ ra che la televisione, figlia del nord (messa a punto dai nazisti) e della pace (cresciuta con Yalta), si trova sem­ pre più a confronto con l'eventuale cattiva volontà o con le astuzie dell’altro, che sentiamo sempre più pronto a dirci che ci odia. Infatti, se lo scenario est-ovest cele­ brava la rivalità tra due sogni, lo scenario nord-sud non conosce che l’invidia (più reciproca di quanto non sem­ bri) tra due stati, il ricco e il povero. In altri termini, qualsiasi Saddam Hussein sa servirsi dell’apparato di informazione degli altri7, ma per nessun Saddam Hus­ sein l’informazione è un «valore». Questa è ormai la re­ gola del gioco; ignorarla sarebbe una vera sciocchezza. Ecco perché, se non si vuole che la gestione del fan­ tasma sostituisca a buon prezzo il mercato dell’infor­ mazione, siamo costretti a esigere dai nostri giornalisti televisivi - visto che sono loro a dare il la, seguiti dalla carta stampata che in genere li imita - che vadano fi­ nalmente incontro a ciò che ha sempre maggiori moti­ vi di opporre loro resistenza. Se non lo fanno, si ridur­ ranno a filmare dei rustici rituali di iniziazione giusti­ ziera, come in quel Perdu de vue da pretonzoli dove si fa irruzione nella cucina della povera gente per captare un «di più» vergognoso e un guadagno pateticamente nullo - le lacrime della madre colpevole e i farfugliamenti del fratello maggiore ritrovato. Tra l’apertura costi quel che costi - sul mondo e la chiusura su una co­ munità catodica, la televisione rischia di dover sceglie­ re molto in fretta. Attualmente è la società più decomunitarizzata del mondo, voglio dire quella sovietica, che ridà lustro al concetto di informazione, nel senso del vecchio «docu­ mentario» della nostra infanzia. Vista l’impossibilità di generare ancora fantasmi da questa mostruosità scon­ gelata, tutti i reportages televisivi sull'URSS sono buo­ ni. Perché tutti, anche in misura modesta, informano; perché la nostra carenza di immagini russe è pressoché 123

illimitata. È in una puntata di Audit che di recente ab­ biamo potuto vedere l’apertura mattutina dei grandi magazzini GUM, con gli scaffali vuoti, i commessi pal­ lidi e le code improvvisamente eloquenti. «Smettetela di filmarci, gridavano delle massaie, è già abbastanza umi­ liante così!». Virtù dell’immagine, improvvisamente; virtù del sonoro. E se i sovietici avessero potuto essere filmati prima, se si fossero visti nello sguardo della te­ lecamera dell'altro, questa umiliazione non li avrebbe spinti a ribellarsi contro quell'immagine di una schia­ vitù subita troppo di buon grado? Utopia? Ma l'unica che valga la pena. Perché l’infor­ mazione non è soltanto ciò che io estorco all’altro con la massima rapidità, è anche ciò che egli apprende di sé fa­ cendosi fare (anche di straforo) il ritratto. È vero che al­ lora l'informazione cede il posto a qualcosa di cui non si dovrebbe parlare se non con il massimo pudore: la co­ municazione. Ma questa è un'altra storia. (31-10-1990)

Il giro dellinformazione in moto-scopa Un anno fa il caso del chador di Creil illuminò im­ provvisamente un vasto lembo del PIF (paesaggio infor­ mativo francese), e, con grande danno di coloro che in un primo tempo non vi videro che una bazzecola ambi­ gua e gonfiata, finì per diventare l’embrione di un vero dibattito: il dibattito sulla laicità. Fu così che per qual­ che settimana i media viaggiarono lungo una linea immaginaria, di una grande trasversale che si sarebbe potuto battezzare, piuttosto che Balard-Créteil, «Cha­ dor-Laicità». Lungo questa linea c'erano delle vecchie stazioni chiamate «Scuola», «Immigrazione», «Velo» o Figlie del calvario; ma esse sfilavano via rapidamente, come tappe un tempo familiari dove non si scende qua­ si più. Stranamente, fu quando qualcuno (nientemeno che Régis Debray, contrapposto a «democratici» e «re­ pubblicani») si adoperò per dare a questa linea il suo massimo accompagnamento teorico che il dibattito ven­

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ne abbandonato, e la linea, che non serviva già più, ven­ ne dismessa. Un anno più tardi, il movimento dei liceali portò più gente in piazza, benché con minore passione. Fu aperta così un’altra linea, anch’essa erratica come la prima. Se infatti partiva dalla stazione «Liceali», essa finiva inva­ riabilmente al capolinea «Casseurs». Per convincersene era sufficiente dare un’occhiata agli innumerevoli dibat­ titi e incontri che la televisione dedicò immediatamente all'80 per cento di testoline bionde con la malattia dell'esame di maturità: questi dibattiti si ravvivavano so­ lo quando il 20 per cento di teste non bionde prendeva la parola o esprimeva il suo risentimento in diretta a rit­ mo di rap. Quanto alle stazioni intermedie («Scuola», «Trasmissione», «Formazione» o «Spleen dei prof»), quasi nessuno vi si fermò. È così che, per la seconda vol­ ta in due anni, nessuno è sceso a «Scuola» (tanto che ci si è potuti chiedere se, analogamente alla triste e rino­ mata Rennes, non si sarebbe dovuto presto chiudere la stazione)8. Rievocare oggi il caso del chador ha qualcosa di stra­ no, come se si trattasse di un avvenimento già archivia­ to, galleggiante e privo di agganci, pressoché privo di rapporti con l’attuale movimento dei liceali. Questa per­ dita della memoria del recente passato è una sensazio­ ne allo stesso tempo banale e vertiginosa, che chiunque può sperimentare. La deformazione professionale del giornalista cinico, che sa che un avvenimento ne can­ cella sempre un altro, è una sensazione sempre più de­ mocraticamente condivisa; a tal punto che è necessario ripensare ciò che, non così tanto tempo fa, chiamava­ mo un «avvenimento». Per i «comunicatori» di professione, in effetti, fare l'avvenimento non significa più isolare un segmento di spazio-tempo prelevato da un flusso (principio del pri­ mo piano), ma significa trovare la buona linea di fuga (principio della panoramica). Non nel senso della co­ caina (benché ci sia anche questo nel senso di ipertro­ fia dell’io che genera ogni consumo eccessivo di infor­ mazioni), ma nel senso pubblicitario di una «linea di og­ getti», linea immateriale e discontinua che passa attra­ 125

verso fatti, opinioni, idee, parole e, sempre di più, fan­ tasmi. Nel senso, infine, della linea di un treno preso in movimento, che ci trasforma in turisti vagamente se­ questrati, che vedono sfilare dal finestrino dei media la nostra società diventata uno show stroboscopico; un treno del quale non ci si chiede più per dove passa, ma sul quale si resta, quasi per curiosità, per sapere fin do­ ve può arrivare. Prendiamo i liceali. Il loro movimento li mette in agi­ tazione, ossia in piazza. Sempre teatrale, la piazza por­ ta al ministero, poi all'Eliseo che rappresenta un primo capolinea. Tutta la Francia guarda Fondata dei liceali passare per le vie e spazzare il paesaggio fino alla sta­ zione «Tonton» [Mitterrand]; stazione dove non può av­ venire altro che un riflusso dell'ondata verso il suo pun­ to di partenza («i veri problemi», sempre a corto di so­ luzioni). Che cosa è successo? È successo che il movimento dei liceali ha funzionato come un immenso scanner elettronico che ha illuminato al suo passaggio9 un certo stato della Francia. È davvero sul modello dell’elettro­ nica e non più dell’ottica, quindi, che funziona l’infor­ mazione. L’informazione, con il pilota automatico in­ serito, è ormai fabbricata secondo gli stessi princìpi del suo modello e supporto tecnico, vale a dire l’immagine elettronica - quella pigra delle telecamere di sorve­ glianza, o quella più astuta dei rebus10 logici e spassosi della videoarte. Le conseguenze di questa mutazione sono innume­ revoli. Esse tracciano un nuovo PIF in cui le nozioni di spettacolo e di media(zione) vengono ridefinite. Elen­ chiamone qualcuna alla rinfusa: 1) In primo luogo, la nozione di spettacolo che, tra­ mite i media, la società dà di se stessa e dà a se stessa. Grazie ai situazionisti, sappiamo che il mondo è desti­ nato a una spettacolarizzazione che avanza allo stesso ritmo dell’estensione, per diritto infinita, del «mercato». Invano molti hanno manifestato la propria disapprova­ zione di fronte a tutta una serie di sbandate «spettaco­ lari» che da ventanni a questa parte hanno assicurato il trionfo estetico della pubblicità e l'egemonia culturale

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della televisione (ovvero, tra l'altro, l’irrimediabile can­ cellazione del cinema, bella miscela vulnerabile di im­ magine e scrittura"). Così abbiamo visto il documenta­ rio sostituito dal «documento» macabro o dallo scoop frivolo, il travelling dalla zoomata, l'accostamento pa­ ziente dalla prossemia fobica, il giornalista di base dal presentatore vedette, l'informazione dall'attualità e, tra­ mite quelle immagini senza corpo e quei prelievi indo­ lori che sono i sondaggi di opinione, il reale dal virtuale. A tutto questo mancava tuttavia un elemento di mi­ surazione: ì’unità di tempo e la velocità di scorrimento. Lo scanner elettronico è questa unità: dice di quanto tempo una «linea» di avvenimenti dispone per esibire alla rinfusa - la sua raccolta di immagini scioccanti e di parole d'ordine, e dice in quale «conto alla rovescia» si collocano all'inizio del gioco tutti gli attori dell’infor­ mazione. In questo senso le cattive maniere delle star del TG, il loro aspetto «prendi i soldi e scappa», fanno parte di questo conto alla rovescia senza illusioni. Co­ me un computer quotidianamente svuotato che non conserva la memoria del giorno prima, la società non conosce che linee di fuga singole. 2) L’informazione-scanner ha bisogno di un nuovo spettatore; non più l'essere passivo e ipnotizzato della grande propaganda dell’altro ieri o della pedagogia di ieri, ma il complice (inter)attivo e contento di uno spet­ tacolo in progress del quale fa parte. E poiché ci trovia­ mo, grazie a Virilio, nell'epoca delle metafore «dromoscopiche», diciamo che il comune denominatore di una società a due velocità è la linea che la attraversa senza mai fermarsi. E questo a scapito dei suoi indigeni im­ mobili, quelli che «perdono il treno» del successo, che lo chiamano mentre passa, o che per odio lo fanno a vol­ te deragliare. È lungo catastrofi sempre possibili che il piccolo treno dell’informazione ci trasforma in turisti «esperti», deliziosamente scampati alla noia dai rischi di questa Parigi-Dakar permanente. Il risultato: c'è una dimensione sempre più estetica nel modo in cui ricchi e poveri, decisori e decisi, consumatori e consumati si lanciano la sfida di una doppia sfilata di moda. Dove l’etica è sprofondata nella carità, l’estetica delle tribù -

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sbalordire, paralizzare, fermare il movimento - ridi­ venta un’arma, se non una politica12. 3) È questa velocità che suona la campana a morto per le vecchie forme di mediazione e di mediatori. Un mediatore non è più un uomo preso tra un pubblico (da informare o educare), un’istituzione (da cui dipendere) e una passione personale (che lo legittima), ma è pas­ sato totalmente «dalla parte del pubblico». È così che, da qualche anno, assistiamo in Francia a un duplice fe­ nomeno: da un lato l'abbandono da parte dello stato dei suoi vecchi «apparati ideologici», dall'altro la tentazio­ ne da parte dei grandi comunicatori di sostituirsi a que­ sti apparati avviati alla pauperizzazione e all'assenza di eredi. È con un vero talento che la televisione reinven­ ta una «commedia umana» della comunicazione, che va dal candido professionista (tipo Pivot) al catechista di base (tipo Cavada), passando dall’acrobata autodistrut­ tosi (tipo Dechavanne) e il tribuno populista (De Clo­ sets). Questo gioco delle sette famiglie, costituite da simpatici intercessori, è forse l’unica «creazione» della televisione, il che la rende qualcosa di un po’ più perso­ nale del telefono, a metà strada tra una tecnologia del futuro e una cultura del medioevo. 4) Affrontiamo qui un punto nevralgico. Una delle conseguenze di questa mutazione dello spettacolo del­ l’informazione, infatti, è evidentemente il ritorno del populismo. Quando lo stato socialista rilascia la società nell'esatto momento in cui questa rilascia le sue false notizie zoppicanti, è senza dubbio inevitabile che si ri­ torni a una delle caselle di partenza della nostra cultu­ ra, quella del populismo. In altri termini, è l'insieme dei comunicatori che «scende da cavallo» e si rimette ad ascoltare il popolo. È il senso della recente posizione dei Léotard e dei Noir. La cosa fastidiosa con il populismo è che questo ascolto avviene di rado senza la contem­ poranea ricerca di capri espiatori. Da quasi dieci anni Le Pen era l’unico che mettesse da parte questo penoso raccolto; dopo averlo fatto diventare l’orco acchiappatutto dei media, tutti hanno deciso di spostarsi sul suo terreno. La vicenda di Paul Yonnet dimostra soltanto che anche gli intellettuali cominciano a fare lo stesso13. 128

5) Ecco perché è impossibile seguire Jean-Franfois Kahn quando riprende la solfa di un tradimento dei chierici («l’intellighenzia di sinistra ha fatto fallimen­ to?», su «L’Événement du Jeudi» del 6 dicembre). Da un lato perché, se di fallimento si tratta, è questo che ha permesso l'ascesa e il successo di «L’Événement du Jeu­ di», la più efficace delle macchine-scanner. Dall'altro la­ to, l'intellighenzia di sinistra (non ne esiste mai una «di destra») è già da tempo troppo morta per essere ancora in grado di fare fallimento. Certo, questo fallimento c'è stato, ma appartiene al passato e non a questo presente che approfitta a tal punto della concezione kahniana del giornalismo. Quello che resta dell'intellighenzia mendica oggi dei posti mediocri nelle trasmissioni di varietà14; Kahn stia pure tranquillo: non intimiderà più. Due parole, per concludere. La Francia non sarebbe che una Polonia leggermente migliorata? Laggiù è un antisemitismo senza ebrei a essere minaccioso; e qui un anti-intellettualismo senza intellettuali? Bisogna sem­ pre diffidare quando chi esercita la realtà del potere sia pure quello dei media - è pronto a resuscitare i suoi «nemici» di ieri per poter meglio continuare a presen­ tarsi come la loro vittima. (19-12-1990)

Uranus, il lutto del lutto Ovvero il ritratto di gruppo di uno sporco periodo della storia della Famiglia Francia. Si può dipingere questo ritratto senza pensare un po’ a quello che si sta facendo? Risposta: no. Mentre girava Uranus, Berri ha pensato qualcosa, una qualsiasi cosa? Risposta: sembra di no. Domanda sussidiaria: non è un po’ tardi per pun­ tare una macchina da presa su quel vecchio paesaggio (1945)? Nessuna risposta. Prendiamo uno di quei piccoli dettagli a partire dai quali si ha ancora voglia di fare «critica cinematografi­ ca», ossia di farneticare. In una scena in cui legge a let­ to, I’attrice Danièle Lebrun sfoglia una rivista di cinema 129

dell’epoca, senza dubbio «Cinémonde». Fin qui niente di male, a parte il fatto che si tratta di un autentico «Cinémonde» di quegli anni, di un pezzo da collezione con le pagine lisciate e la carta ingiallita. In questo pas­ saggio da un «Cinémonde» dell’epoca a un «Cinémon­ de d’epoca» c'è, tra robivecchi e telefilm, tutta l’estetica di Uranus. Quando il passato diventa decorativo fino a questo punto, vuol dire che ha finito di operare sul no­ stro presente. Immaginiamo ora quale sarebbe stata la soluzione «realista» del problema in questione. Era sufficiente fa­ re un facsimile di questo «Cinémonde» da museo per ot­ tenerne una copia, con le pagine fruscianti e non in­ giallite. Passare dal «vero vecchio» al «falso nuovo», mettersi dalla parte del personaggio e non dell’attrice (o del trovarobe). Allora si avrebbe avuto la sensazione che il personaggio interpretato da Danièle Lebrun avesse appena comprato «Cinémonde», un «Cinémonde» ov­ viamente nuovo di zecca. Grazie a questo dettaglio mi­ nimo si avrebbe avuto, per uno o due secondi, la sensa­ zione del presente del 1945. Ovvero della storia senza maiuscola, aleatoria, non ancora diventata un tribuna­ le, e i suoi personaggi non ancora diventati una galleria di attori simpatici nell’atto di «comporre» nel 1990 i ruoli non necessariamente simpatici di ieri. Ed ecco come un film che si supponeva al vetriolo diventa rapi­ damente una pomata da museo e un poster poulidoriano («tutti secondi.’»). Si dirà che a Berri non interessa questo, e che si è ac­ contentato di voler far ridere (a denti stretti) grazie agli anti-eroi che ha trovato in Marcel Aymé. Si dirà anche che non è giusto fingere di scoprire che il cineasta Ber­ li non si colloca dalla parte dei Renoir e dei Guitry, co­ loro per cui, per l’appunto, l’evocazione cinematografi­ ca del passato non è mai dipesa da un «Cinémonde d’epoca». Uranus si inserisce in effetti nell’elenco piut­ tosto ristretto dei film che hanno voluto presentare sul­ lo schermo una Francia ben poco presentabile, quella del periodo 1940-1945. Una scommessa difficile, visto che si tratta di interessare il pubblico a un campione di personaggi non molto interessanti, fondamentalmente 130

deboli o disperatamente medi. Non è impresa da poco, e la cosa sorprendente non è che Berri abbia fallito là do­ ve persino Brecht non è sempre riuscito (ma Losey sì, nel brechtiano Mr. Klein), bensì che, partito per accetta­ re la sfida e saltare verso l'ignoto, egli sia passato sotto l’asticella talmente in basso che è probabile che - ubria­ cato da una serie di urrà consenzienti e mosci - non ab­ bia neppure sospettato la presenza di un’asticella15. Prendiamo un altro esempio. C’è una sola grande sce­ na in Uranus, quella in cui il figlio Monglat affronta il padre, e quest'ultimo, impersonato in modo geniale dal­ l’intenso Galabru, si rivela, nel Male, decisamente shakespeariano. Per Berri, che ha voluto far ridere del­ l’onesta (o disonesta) mediocrità della sua franco-fauna, è un insuccesso, dato che Monglat è grandioso. Il fatto è che, da Diderot in poi, la mediocrità non è un tema che chiunque possa affrontare. Marcel Aymé l’ha trattata di petto (in Le confort intellectuel), ma non attraverso per­ sonaggi di romanzi. Non appena compare in scena an­ che soltanto un personaggio, la morale più elementare consiste nel concedergli tutte le possibilità (dapprima al personaggio, poi al corpo dell’attore, infine soltanto al mestiere dell'attore); e se queste gli vengono date vera­ mente, è fatale che egli susciti un interesse. È la legge ferrea di ogni fiction; la fiction, è più forte di lei, riscat­ ta i personaggi. Affascinato dalla stupidità, Barthes non scrisse mai dei romanzi, e indubbiamente ne soffrì. An­ che Flaubert ammette che a lungo andare Bouvard e Pécuchet gli erano diventati simpatici. L’umanità media è un pessimo conduttore di fiction, e soprattutto al cinema. È perché non ha, come sembra, sospettato nulla di tutto ciò che Berri si è accontentato di registrare il la­ voro, spesso pigro, di una banda di attori amati dal pub­ blico nell’atto di salvare i loro personaggi dal disinte­ resse o dal folklore spesso stantio. Nella tradizione del cinema di «Qualità Francese» è sempre all'attore famo­ so (e ai suoi motti di spirito) che si chiede di esorcizza­ re il personaggio oscuro, vile e medio da lui «incarna­ to». E così che in Uranus il collaborazionista ispira il ri­ spetto, il buon comunista ottuso la simpatia, e il comu­ ni

nista intellettuale la pietà. L'ingegnere è coraggioso (na­ sconde il collaborazionista), il professore è di ampie ve­ dute (aiuta l'ingegnere), e l’oste ambiguo è un bruto sal­ vato dalla sua scoperta della poesia (gli piace Racine). Bilancio globalmente positivo di una Francia che, aven­ do scambiato un po' troppo in fretta la propria ignavia per un rifiuto del manicheismo, sorride nel vedersi no­ nostante tutto molto piacevole nello specchio senza TAIN del passato («tutti umani!»). Si capisce che, in queste condizioni, siano stati dei documentari (del tipo di Le chagrin et la pitié) ad avere, molto meglio della fic­ tion, resuscitato il passato francese, dato fastidio alla censura e creato un disagio; Uranus, da parte sua, non dà fastidio a nessuno e affascina tutti. Si dirà che anche questo significa chiedere troppo a Berri, che dopotutto non è colui che farà scoppiare lo scandalo. Troppo occupato a presentare i suoi rispetti di illustratore agli scrittori regionali più franco-francesi (Pagnol, Aymé, non esattamente dei progressisti), trop­ po ammiratore delle altre arti (la pittura) e non abba­ stanza del cinema, che tuttavia è la sola arte che, essen­ do impura, oscilla per natura tra passato e presente, tra l’età degli oggetti filmati e lo hic et nunc della macchina da presa. E poi, per i lutti collettivi non c’è - come per il consumo degli yogurt - una data di scadenza? Nella vi­ ta dei popoli come nella carriera di un artista non ci so­ no dei momenti in cui qualcosa di simile a un'«elabora­ zione del lutto» (Trauerarbeit, diceva Freud) si possa at­ tuare prima che la fiction non «riscatti» tutto, sia pure a basso prezzo? L’esempio dei tedeschi - Fassbinder, Har­ lan o, di nuovo, Syberberg - non è qualcosa su cui me­ ditare? Domande. Domande ponderose, se non astruse, alle quali si dirà che Berri non ha pensato. Bene, non chiediamogli più niente e passiamo ad altro. Al cinema francese, per esempio. Il cinema francese - lo si è ripetuto fino alla nausea soffre di ima carenza di memoria assolutamente ecce­ zionale. Per questo è, dal dopoguerra in poi, un affare di autori moralisti (la Nouvelle Vague) più che di artigiani narratori (Qualità Francese). Per questo non è assolutamente americano, non è molto italiano, e si trascina, co­

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me una palla soltanto sua, una «crisi della sceneggiatu­ ra» che non è altro, sempre, che una parte di storia fran­ cese mal digerita. Il passato (collaborazione, epurazio­ ne, guerre coloniali: molte bassezze) non è passato16. Certo, i film-regolamento di conti non sono mancati, da II corvo fino a questo Uranus, passando da qualche buon Autant-Lara come La traversata di Parigi o il mi­ sconosciuto Les patates (con Pierre Perret). Se il lutto consistesse nell’istituire e nel rivedere dei processi, nel trovare dei nuovi colpevoli o nel mettere tutti gli uni contro gli altri, tutti questi film dal masochismo soddi­ sfatto e dalla nefandezza decorativa sarebbero suffi­ cienti. Ma il lutto è tutt’altra cosa: non un modo di squa­ lificare il passato ma un modo di distaccarsi, a poco a poco, da un passato che nonostante tutto si è amato; amato quando persino la Storia l'avrebbe condannato in blocco. Dal punto di vista estetico, il lutto è un lavoro ambi­ guo che inizia con il rendere al passato la sua fresca fri­ volezza di ex presente e ai personaggi quella «libertà» di scelta che il più delle volte essi, troppo giovani o troppo ignoranti, non seppero sfruttare. Quando è soltanto ideologico, il lutto si fa male e si perde nell’asprezza di una delazione infinita («tutti marci’»). Il lutto non ideologico è, più concretamente, ciò che separa genitori e figli, è la domanda che questi rivolgo­ no a quelli («What did you do in the war, Daddy?» ), ov­ vero il fardello mal trasmesso delle credenze male ac­ cettate del XX secolo che volge al termine. La credenza comunista, per esempio, evidentemente uno dei grandi casi del secolo, vale molto più del rabberciamento ecu­ menico che se ne fa in Uranus. L'ostinato rifiuto da par­ te del cinema francese di trasformare un comunista bo­ vino al cento per cento in un personaggio di pura fiction dovrebbe spiegare in parte lo stupefacente coma irre­ versibile dell’attuale PCF; un rifiuto così ostinato che il riciclaggio della figura di Marchais deve passare attra­ verso un ruolo di scrofa in un teatrino di marionette te­ levisivo! La storia del padre comunista e dei figli che non possono più esserlo è una di quelle che il cinema fran­ cese avrebbe dovuto raccontare innanzitutto, ma non lo

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ha fatto. Gli italiani, invece, lo hanno fatto, alla meno peggio, e questo ha permesso loro di produrre un cinea­ sta (Moretti) e di passare ad altro (ma non al cinema). Di qui nasce la domanda: non è troppo tardi? E il li­ mite del lutto non è forse biologico, quello che presup­ pone la coesistenza di due generazioni ancora in urto tra loro e, come diceva Straub, totalmente nicht versòhnt (non riconciliate)? Significa forse che il vero lut­ to non è quello delle mie credenze (ciò crea soltanto di­ sillusione, che a sua volta non crea nulla), bensì quello delle credenze della generazione precedente la mia quando aveva la mia età? E il vero scandalo del lutto non è soltanto che vi siano degli innocenti e dei colpevoli (anche rimasti impuniti), è che vi siano state, in tutte le epoche e in tutti i sensi del termine, delle persone trop­ po giovani per non essere state, senza alcun merito, in­ nocenti? È, per esempio, che quegli anni di Vichy sono stati quelli della loro giovinezza e della loro scoperta del mondo - del mondo «come era», ovvero non molto bril­ lante. Lo scandalo non è solamente la colpevolezza de­ gli attori del passato, è anche la loro innocenza («non si è seri quando si hanno diciassette anni»); anche quella della madre di famiglia che compra il suo «Cinémonde» nuovo di zecca e che, sfogliandolo, si ripromette un sa­ no piacere. P.S.: Una recente «Notte del cinema», un'operazione caritatevole allestita da Canal Plus a beneficio del cine­ ma, ha designato come più bel film francese sonoro Amanti perduti. Si è visto il vecchio Marcel Carnè rin­ graziare la giuria, mentre come minimo avrebbero do­ vuto essere coloro che prendono le decisioni alla televi­ sione a ringraziare - attraverso Carnè - quel cinema che ancora riempie i difficili fine mese dei loro programmi assenti. Amanti perduti non è certo un brutto film; sol­ tanto, un paese occupato può produrre di meglio, con la sua fuga verso la scenografia, verso il passato, verso la galleria di attori e i «bei mestieri del cinema». Verso un’arte collettiva votata al ritratto di gruppo e alle no­ stalgie indicibili (che cosa c’è di più «innocente» dei bambini e del paradiso?). Finché il buon popolo dei ci­ nefili e le brave persone preferiranno la cuccagna dora­

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ta di Amanti perduti all'asciutta esercitazione de La re­ gola del gioco, potremo essere certi che da qualche par­ te un'occupazione è ancora in corso. (8-1-1991)

Bellezza, del telefono Una delle ultime cose divertenti di un periodo che non lo è più (divertente) è l’arrivo di soppiatto della grottesca Parigi-Dakar. Questa miscela di prèt-a-téléviser e di fer­ raglia esaltata sullo sfondo di epopea coloniale ha rag­ giunto nella derisione due o tre simulazioni di guerra che alcuni media frettolosi hanno rimuginato in extre­ mis. Come se preferissero dare immediatamente lo spet­ tacolo del tipo Top Gun che non erano sicuri di ritrova­ re sui loro piccoli schermi, qualche giorno dopo; la guer­ ra, quella vera, aveva tutte le probabilità di essere «sen­ za immagini». Già dalle prime notti, infatti, chiunque ha potuto ren­ dersi conto fino a che punto l'informazione non è l’at­ tualità. Perché, se tracciare ed esplorare il campo dell'attualità spetta alla televisione, non per questo essa è sicura di trovarvi l'informazione già bell’e pronta. Co­ sì sono state necessarie una guerra e la riscoperta del se­ greto di stato per accorgersi che non vi sono maggiori motivi di credere al SIRPA che a Radio Baghdad. Tan­ to più che l’immagine televisiva è un medium pesante, difficile da fabbricare (sotto le bombe o in mezzo al gas) e da estorcere (alle diverse censure militari). La radio, a volte, è più efficace. Di fronte a una realtà più coriacea di quelle che era­ no abituate a «trattare», le reti della televisione france­ se hanno fatto quello che hanno potuto. La più onesta è stata senza dubbio La Cinq, perché sembrava scusar­ si per la pochezza dello spettacolo, certamente meno gratificante della Parigi-Dakar perché nettamente più astratto. La più modesta è stata sicuramente M6, che si è accontentata di dare il cambio alla CNN, con in più la traduzione. La più tronfia della propria importanza è

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stata evidentemente TF1, sinceramente convinta di fil­ mare la «guerra in diretta», mentre non faceva che re­ gistrare la CNN in diretta. Unica informazione: loro (i nostri annunciatori-vedette) capiscono l'inglese! Il fatto è che questa espressione, la «guerra in diret­ ta», dev'essere seriamente attenuata. C’è sì una diretta, in effetti, ma è quella dell'attualità, non dell’informa­ zione. Ciò che è «in diretta» è la messa in scena di tutte le informazioni: quelle vere, quelle false e quelle man­ canti. E il luogo di questa messa in scena è lo studio te­ levisivo in collegamento permanente con i nostri studi, tramite lo schermo. C’è davvero una guerra mentre si guarda, ma ciò non significa che la si veda; significa piuttosto che la si sente. Il gesto di Holliman che tende il suo piccolo registratore verso la notte nera di Bagh­ dad rischia di restare nella piccola storia dell’informa­ zione. Ma l'immagine mancante del vero stato di Bagh­ dad bombardata, si è ben consci di non averla ancora vista? Vedere la «guerra in diretta» è un fantasma. È tanto il fantasma dei soldatini che vorrebbero essere nella carlinga dell’aereo di Tom Cruise in Top Gun quanto quello dei moralisti apocalittici che desiderano e temo­ no allo stesso tempo questo voyeurismo totale al quale la nostra civiltà sembra volerci destinare. Ma gli uni e gli altri rischiano di rimanere delusi. Per noi davanti ai nostri schermi, come per Fabrice a Waterloo, la guerra è la cosa più astratta. È proprio per vendicarsi di que­ sta astrazione inevitabile che si fanno tanti film di guer­ ra, a cose fatte; per vedere finalmente quello che si è vis­ suto, che non si è vissuto, che altri hanno vissuto. È proprio qui che gli americani sono i più forti, perché so­ no i più cinici. Avete visto la sigla della CNN, con le let­ tere color oro e sangue di War in the Gulf, come se si trattasse di una heroic fantasy con Schwarzenegger? Oscena, evidentemente. Questa pre-santificazione dello spettacolo vai bene un deal con il governo iracheno. Questa guerra, è probabile che gli apprendisti stre­ goni che l’hanno voluta l'abbiano fatta, come a poker, per vedere; per vedere a che cosa somiglierà la carta geo­ grafica del mondo, dopo. Per il momento ciò che si ve­

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de non sono delle immagini, ma la scenografia degli studi televisivi, i volti degli annunciatori, delle luci in cieli di piombo, delle «22 à Asnières» che collegano Ba­ ghdad a Washington, Parigi a Riyad. È il collegamento di tutti con tutti che viene offerto come spettacolo. Se in questo stesso momento non ci fosse una guerra, que­ sto omaggio all'immenso Fernand Raynaud sarebbe piuttosto toccante. Non bisogna comunque dimentica­ re che la televisione fa parte non della famiglia della stampa o del cinema, ma della famiglia del telefono”. Ci troviamo forse in un momento in cui capiremo a che cosa serviva il cinema: a farsi un’idea (buona o cat­ tiva, onesta o malevola) dell’altro. La televisione ci chia­ ma a testimoniare dell'eccellenza del nostro materiale di distruzione e del nostro sogno di intervento chirurgico «senza sbavature». Si può parlare di immagine quando un Patriot gioca a rincorrersi con uno Scud? Sì, ma sol­ tanto nel senso - limite - per cui i videogiochi sono un'immagine. Il fatto è che noi (noi, al nord) stiamo en­ trando in un periodo in cui l’immagine non esiste più se non dal punto di vista del potere, vale a dire di un campo senza controcampo (di un campo che distrugge il suo controcampo). È sullo schermo della TV che guardiamo il piccolo schermo livido sul quale si vede la distruzione elettronica in atto. Non ci troviamo nella civiltà dell’im­ magine, ma in quella dello schermo. Di fronte, più ar­ caico, Saddam Hussein è rimasto all’immagine dell’altro come sfida e dissuasione; di qui la messa in scena dei pi­ loti umiliati, un’immagine che, vista dalla nostra parte, appare la quintessenza della barbarie. Terrorismo ico­ nico: alla mancanza di volto dell’altro risponde ormai l'esibizione, da parte dell’altro, del nostro sfigurato. Perché un altro schermo, sempre più opaco, ci sepa­ ra dal sud. Che si tratti del sud arabo, di una cultura che - è la sua intima sventura - non ha come propria im­ magine che quella prodotta da coloro (noi) che la di­ sprezzano, ha purtroppo un senso. Perché se la guerra, vista di qui, non è che un videogioco dove, grazie a un mercenario locale, le nostre armi affrontano le nostre armi, vista dal sud è l’occasione di un corpo a corpo sui­ cida e collettivo. Il controcampo è la guerra terrestre

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che ci promettono imminente. Un’immagine conosciu­ ta, questa. (23-1-1991)

Montaggio obbligato. La guerra, il Golfo e il piccolo schermo

L'informazione è di nuovo un affare di capi Anche se provvisorio, il bilancio di quella gigantesca operazione di polizia chiamata «guerra del Golfo» è un richiamo all’ordine. Da un lato, le opinioni pubbliche occidentali si sono progressivamente schierate dietro i loro governanti; dall’altro, questa stessa opinione, per­ lomeno in Francia, ha continuato (è un'abitudine) a la­ mentarsi della sua televisione. Era sufficiente (è il mio lavoro) leggere le lettere inviate a «Libération» per per­ cepire che la sola certezza che restava quando tutto va­ cillava era l'inutile oscenità della TV, paragonabile a una droga di cattiva qualità («la diretta»), tagliata ma­ le, e alla quale non si sarebbe più scampati. Come se, a forza di esultare a vuoto, le teste parlanti dell’informa­ zione televisiva non avessero fin troppo meritato di di­ ventare i capri espiatori del momento. Numerosi sono stati coloro (io ero tra questi) che, te­ mendo l’imballarsi della logica di guerra e l’accumular­ si di tutte le sbavature, rimproveravano in anticipo alla televisione di non essere stata altro che una lettura a vo­ ce alta dello sceneggiato a puntate della CNN o dei brie­ fing del SIRPA. Costoro aderivano (un po’ in fretta) al­ l’ipotesi del peggio e il peggio, una volta di più, non era sicuro. Al limite, questa guerra doveva degenerare per­ ché tutti vedessero fino a che punto il nostro «diritto all'informazione» era in cattive mani. Ma più numerosi (ancorché meno chiacchieroni) furono coloro che, al contrario, fieri di non nutrire eccessivi «stati d'animo» circa la sorpresa divina di un nuovo ordine mondiale e la giustezza di questa guerra, preferivano che fosse vin­ ta in modo chirurgico e senza immagini piuttosto che vederla esposta «sporca» agli occhi di tutti.

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Risultato: i fautori della guerra evitarono di mettere eccessivamente sotto processo i media, un processo che questa volta era contrario alle loro convinzioni. Visto che si aderiva alla ragion di stato e si obbediva ai propri capi (che sono, lo hanno detto essi stessi, l'incarnazione del Bene), tanto valeva riconoscere direttamente al sor­ ridente Raymond Germanos il diritto di gestire l'informazione come la intendeva lui. Risultato: furono coloro che rifiutavano il principio di questa guerra a rimprove­ rare maggiormente alla televisione di volerne eludere lo spettacolo o di non essere in grado di produrlo. Come di­ ce molto bene Lyotard in Le différend (1983) «la realtà è sempre a carico del querelante [...]. La difesa è nichili­ sta, l'accusa difende l’esistente. E per questo che spetta alle vittime dei campi di sterminio addurre le prove di quest'ultimo». Il compito di stabilire il numero dei mor­ ti iracheni sarà dunque affidato a chi si diverte a fare questo tipo di calcoli o alle cure della Storia, della quale non si dirà più troppo che è «immediata». Quando fu chiaro che la guerra era stata nettamente vinta dalla coalizione e che il gendarme americano non aveva slittato, la diffidenza nei confronti della TV as­ sunse così un altro volto, altrettanto bifronte di quello di Giano. O la TV gioca il suo ruolo (ne va del contenu­ to della democrazia), o ascolta la voce del suo padrone (ne va della riuscita dell'operazione di polizia). È l’unio­ ne (o la successione) di questi due atteggiamenti (a vol­ te nelle stesse persone) che ha creato questo senso di oscenità soft e di diretta che produce irrealtà. E se Poivre d'Arvor, cercando di mettersi in posa a fianco di Sad­ dam, di uno Scud, di qualsiasi cosa o del bidone capita­ no Karim, rischia di fare la figura della faccia da schiaf­ fi e dello Zelig tuttofare di questa guerra, è proprio perché si è indebitamente esibito nell’atto di mimare tutti i comportamenti allo stesso tempo, da quello del professionista oltraggiato a quello della segreteria te­ lefonica dalla voce dolce.

Grande Satana, piccolo Saddam Facendo precipitare questa guerra arcaica, Saddam Hussein ha indubbiamente permesso agli occidentali di

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riconciliarsi fino a un certo punto con i loro propri ar­ caismi. Rinunciando volontariamente a una certa par­ te di informazione (questo famoso «quarto potere» che improvvisamente non ha avuto un grande peso e di cui nessuno parla più), il cittadino-consumatore di infor­ mazione dei paesi ricchi ha «guadagnato» qualcosa: ha guadagnato il diritto di regredire, anche lui. Basta ve­ dere l’isteria patriottarda e la ri-tribalizzazione in atto in America, i capi in preghiera e la gente in visibilio nel­ le sue bandiere. Dal canto suo, preferendo ancora una volta il fantasma all’informazione, la «via araba» ha subito una nuova disfatta che ha vissuto, naturalmente, come un'ennesima vittoria. Uno degli insegnamenti di questa guerra è che, nono­ stante i suoi servizi segreti, Saddam Hussein è stato net­ tamente incapace di utilizzare le informazioni di cui di­ sponeva, e che ha giocato tutte le sue carte, comprese quelle più simboliche (ostaggi, religione, terzomondi­ smo), in base a un errato calcolo dei tempi. Siamo en­ trati nell’epoca in cui i capi del sud, per quanto perico­ losi, pazzi e suicidi essi siano, sono diventati incapaci di rivolgere le loro armi - materiali e concettuali - contro coloro che gliele hanno vendute? Saddam, un assassino non poi così astuto, perde la guerra dell’informazione moderna, mentre Bush vince la prima operazione di po­ lizia postmoderna. Che cosa vuol dire qui «postmoderno»? Che prima di essere dovuta al cittadino, l’informazione riguarda il potere, tutti i poteri, politico, economico e (lo si era di­ menticato) militare? Certo, ma non è sempre stato co­ sì? Bisogna dunque aggiungere questo, che per la prima volta da parecchio tempo in qua, il cittadino medio ha piuttosto accettato di lavarsene le mani di questa guer­ ra in vitro. L’evento, in effetti, non è la guerra ma Vin vi­ tro, e questo non può funzionare se non con la nostra attiva complicità. La prova? Una giornalista della CNN, invitata su una scena del dopoguerra, esprimeva la pro­ pria tristezza all'idea che la maggioranza degli ameri­ cani pensasse che c’erano state troppe immagini della guerra; nessuno la consolò. A dire il vero, si sarebbe potuto intuire tutto questo 140

già in estate, quando Bush annunciò il prezzo dell’ope­ razione e fece pagare gli spettatori-beneficiari in antici­ po. È il principio del pay per view, del quale si sa che è senza dubbio l’unico futuro della televisione. Bush ha prima di tutto ottenuto dai suoi il diritto di non con­ dividere più l'informazione con loro e di barattare lo spettacolo gratuito e universale della Guerra con lo spettacolo domestico costituito soltanto dalle parate della Vittoria. Si invita forse il quartiere alla festa an­ nuale della polizia? No. Ci si accontenta di fargli visita­ re l’arsenale del commissariato e lo si dissuade dal vo­ ler troppo verificare «come» l’ordine viene mantenuto. È indubbiamente questo il nuovo «ordine mondiale», e l’onestà obbliga a riconoscere che furono rari coloro (io non ero tra questi) che sapessero che la lezione della guerra del Vietnam (un certo «questo mai più») era sta­ ta tratta in misura tanto radicale. Ma ancora più rari so­ no coloro che hanno capito quanto, nella sua volontà di servirsi del cinema per raccontarsi la propria storia, l’America sia non la regola ma l’eccezione. Unica superpotenza rimasta in lizza, l’America si è dunque trasformata in mercenario di professione, «al servizio» delle Nazioni Unite, e ha schiacciato un mer­ cenario locale, in fondo troppo stupido e poco affidabi­ le. Ma, di riflesso, la guerra ha messo in luce quello che qui, altrove e un po’ dappertutto, è già cambiato. In Francia, per esempio. Se l’idea di contropotere è come evaporata, se la parola «democrazia» è diventata una si­ gla vuota e un facile slogan, e se il «diritto all’informa­ zione» suona come uno stanco ritornello e una causa per perdenti nati, è perché anche in Francia si assiste a una ri-territorializzazione fredda (si sente di nuovo la parola «pacificazione», il caso Boudarel cade come la manna dal cielo, il dibattito sulla riabilitazione dell’«epopea coloniale» inizierà senz'altro tra poco). Di qui questa riconciliazione silenziosa di tutti (e qui la generazione dei grandi comunicatori provenienti dalla sinistra è spesso la meno degna) con l’idea stessa di potere, e questo modus vivendi che cancella quelle «trenta gloriose» del dopoguerra che ebbero tanto bi­ sogno di emancipazioni e di «liberazioni» di ogni sor­ 141

ta. Di qui, nel cinema, questi anni Ottanta caratterizza­ ti dal ritorno e dal successo di un’arte pompier; di qui questo faccia a faccia tra adolescenti a corto di sotto­ missione (L’attimo fuggente) e genitori di alunni a cor­ to di capolavori (Merci la vie). Di qui, infine, l’intermi­ nabile liquefazione di quell'oggetto impossibile che è la televisione. È probabile, in effetti, che a quest’oggetto si rimproveri non tanto la sua docilità quanto la sua pretesa ipocrita di esistere «accanto» al potere, di fron­ te a lui, magari contro di lui. Essa è irritante quando mima ancora l’indipendenza, ed è costernante quando si inchina. La televisione è tutto ciò che esiste di realista Perché allora, guardata da tutti, essa è così poco ri­ spettata? Può darsi che la risposta sia semplice. La te­ levisione viene guardata perché è tutto ciò che esiste di realista; dice la verità e informa in modo assoluto, è l'inquinamento vero del nostro ossigeno mentale. Non ci si ribella contro la televisione più di quanto non si smetta di respirare in nome dell’ecologia. Ma con una piccola differenza, tuttavia: l’unico mondo di cui essa non cessa di darci notizie (altrettanto precise e sovrec­ citate del listino di borsa o della hit parade) è il mondo visto dal potere (come si dice «la Terra vista dalla Lu­ na»). È questa la sua unica realtà. Come potremmo sapere, senza di lei, chi ha potere e chi no? Chi vale quanto e chi non vale nulla? Se il potere che gli uomini esercitano gli uni sugli altri si trova sempre al punto d’incontro tra l’economico e il sacro, la televisione è una quotazione in borsa generalizzata divenuta liturgia (anch'essa quotata). È per questo che la guardiamo, perché su questo, almeno, ci informa. Su questo, sì. ma su nien­ te altro; sulla borsa, sì, ma non sulla vita. È per questo che, comunque, non la rispettiamo. È per questo, anche, che non si deve più parlare trop­ po delle «immagini». Non si è mai parlato tanto del «po­ tere deH’immagine» che da quando essa non ha più po­ tere. La stragrande maggioranza delle «immagini» che oggi hanno diritto di cittadinanza alla televisione non sono tanto quelle che possiederebbero una forza intrin­

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seca, quanto quelle che rappresentano il potere e che «lavorano» per lui come le «immagini di marca» lavora­ no per l'impresa. È strano che ci sia voluta una guerra per riscoprire che l'immagine, in qualsiasi epoca, è sta­ ta anche un inganno (Lacan si interessava al mimetismo animale, agli occhi della coda del pavone e al loro modo grottesco di «farci l’occhiolino»). Un inganno destinato a fare la guardia, a distogliere l’attenzione e a procurare tempo. La pubblicità, per esempio, non consiste tanto nell’inculcare dei riflessi di vendita quanto nel segnala­ re il potere di comprare a prezzi molto alti uno spazio al solo fine di impedire a chiunque altro di occuparlo. Speculazione immobiliare, «acquisto di spazio», im­ magine-robot, immagine-guardia, è tutt’uno. Per con­ vincersene bastava vedere l'atteggiamento dei pubblicitari durante questa guerra. Non appena essa fu finita, la fabbrica di armi Aérospatiale si mise a comprare pagi­ ne sui giornali, mentre un mese prima dei pubblicitari virtuosi si dicevano sinceramente dispiaciuti del fatto che il loro gergo tecnico (da «bersaglio» a «campagna») venisse fatto oggetto di una militarizzazione integrale. Non è che la Aérospatiale volesse vendere degli Exocet ai lettori, è che essa ci teneva a pagarsi dei bollettini di vittoria. A «Libération» ci furono (sembra) dei mugugni e (si dice) delle lettere di protesta. Cavallerescamente, la società dei redattori si limitò a rendere noto che ciò che era scioccante in questa pubblicità era Xumiliazio­ ne inutile di un nemico già a terra. È in questo senso che la guerra del Golfo è stata, mol­ to adeguatamente, coperta (e allo stesso tempo «ri-co­ perta»), dato che la televisione, volente o nolente, non ha potuto mostrare che le immagini di cui oggi è chia­ ro che facevano già parte della vittoria. La riservatezza americana e l’improvvisa laconicità dei soldati, lo spet­ tacolo elettronico che succede all’esibizione logistica, la calcolata sopravvalutazione del «quarto esercito del mondo», tutto questo costituiva, a partire da agosto, un’immagine complessivamente realista, non della guerra (per questo bisogna essere in due) ma della vit­ toria (è il più forte che racconterà la storia, se vuole). È, del resto, una delle lezioni della guerra: ovunque essa ha 143

rafforzato ciò che era forte e indebolito ciò che era de­ bole. In un talk show dell’l 1 marzo («Il punto sulla si­ tuazione») Mougeotte, pezzo grosso di TF1, mostrava le cifre di un recente sondaggio al quale «i francesi» ave­ vano risposto «sì». La domanda posta era: «Pensate che la televisione esca rafforzata dalla guerra?». Come volevasi dimostrare.

«Una guerra senza immagini»? Mi ricordo che durante la guerra delle Falkland mi ero improvvisamente reso conto che questo conflitto, che nessuno aveva previsto, si svolgeva senza colpo fe­ rire e, cosa più importante, senza immagini. Immagini di cui nessuno notava l’assenza perché l’idea fissa dell’epoca, la sua doxa patetica, era che la guerra del Vietnam segnava l’inizio di un’era di pura trasparenza, votata all’oscenità di un rubinetto tragico e di un «toutà-l’image» affascinante. Più tardi, mi ricordo di avere pubblicato su «Libération» due foto più o meno uguali: una di Verdun, l’altra della guerra Iran-Irak, luna ac­ canto all'altra. L'idea era semplice: dato che questa guerra non interessa a nessuno, vediamo in che cosa, at­ traverso il vago ricordo dei fanti francesi e delle trincee, essa può (ri)suscitare un minimo di empatia. Ma era già tardi, e si sentiva chiaramente che l'era delle «guerre senza immagini» era annunciata. Quando il Golfo si infiammò e tutti ebbero passato una o due notti insonni a guardare la CNN, l'espressio­ ne «guerra senza immagini» fece improvvisamente fu­ rore, presto seguita da «videogioco». Molti furono sor­ presi, dato che questa guerra, che non era più di quelle che si facevano fare ad altri (Iran-Irak) o che si lascia­ vano fare a dei sotto-altri (Liberia), ci toccava direttamente. Tuttavia, malgrado qualche grido di disappun­ to, ce ne si fece presto una ragione. Perché così rapida­ mente? Non c’era come il sospetto che quelle immagini (quelle del cinema e della fotografia) non facessero più fede, non fossero più prova e spettacolo con altrettanta efficacia che in passato? Così verificai quello che alcu­ ni di noi (Godard è il più noto) dicevano da anni (ma non venivano mai creduti), cioè che la televisione, in via

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generale, non funzionava «con l’immagine»; questa vol­ ta fummo creduti un po', e fu quasi uno scoop. Era infatti chiaro, viceversa, che tutti gli altri tipi di «visualizzazione» davano informazioni migliori, o, per­ lomeno, «vestivano» in modo più conveniente la vittoria americana. Le simulazioni elettroniche, i disegni ani­ mati o umoristici, le didascalie di sintesi, le carte degli stati maggiori, gli schemi, i logos (come il cormorano invischiato nel petrolio) o le immagini sonore della ra­ dio erano più adatti a illustrare la «guerra» vista da una parte sola. Esattamente come il disegno animato è mil­ le volte superiore al cinema se non si tratta di racconta­ re nient’altro che la rovina assoluta di Tom e il trionfo assoluto di Jerry, queste bestiole altrettanto indistrutti­ bili del Bene e del Male. Nella misura in cui interessano il nervo ottico e passano in televisione, si possono chia­ mare «immagini» tutti questi modi di visualizzazione, di visione o di verifica; ma non si è obbligati.

Lo zappeur riprende servizio Stavo (già) rimuginando su queste cose quando la guerra è iniziata. Da un lato, l’idea di riprendere una ru­ brica su «Libération» era naturale; dall’altro, riprende­ re il bastone da pellegrino di «Monsieur Images» non funzionava più. Per non complicarmi più la vita decisi di operare una chiara distinzione tra l’«immagine» e il «visivo». Il visivo sarebbe la verifica ottica di un fun­ zionamento puramente tecnico. Il visivo non ha con­ trocampo, non gli manca nulla; è chiuso, accerchiato, un po’ come lo spettacolo pomografico che non è altro che la verifica estatica del funzionamento degli organi, e solo di esso. L’immagine, invece, quell’immagine di cui al cinema abbiamo amato tutto fino all’oscenità, sa­ rebbe piuttosto il contrario. L’immagine si produce sempre al confine tra due campi di forze; essa è votata a essere la testimone di una certa alterità e, benché pos­ sieda sempre un nocciolo duro, le manca sempre qual­ che cosa. L'immagine è sempre più e meno di se stessa. Non era una scoperta sconvolgente (anzi, è l'essen­ ziale di quello attorno a cui quarant’anni di «Cahiers du cinéma» hanno gravitato e ristagnato), ma mi aiutava a 145

non trasformare eccessivamente la parola «immagine» in una rendita da esperto in psicologia e a proseguire l’elogio funebre di quella cosa in via di sparizione che è il Cinema. Che vi sia anche dell’altro (piccolo o grande, dipende, ma non ha molta importanza), è dunque que­ sto, l'immagine cinematografica; e che non vi sia che dell’uno (né grande né piccolo, ma immediatamente «grosso», gonfiato, pieno di sé), è il visivo della televi­ sione. E se oggi è il visivo ad avere la meglio, è perché i ritorni, più o meno ben negoziati, dei fantasmi identitari hanno luogo ovunque. Allora non solo l’immagine si fa rara, ma diventa una sorta di ottusa resistenza o di commosso ricordo in un universo di pura segnalizzazione. Ciò che in essa resiste è questo umanesimo tanto vecchiotto quanto degno (diciamo i motivi per cui oggi piangiamo guardando John Ford), che solo con molte difficoltà non si trasforma in un umanitarismo borghe­ se (diciamo il charity business). Perché se l’immagine, anch’essa, informava, non era mai dal solo punto di vi­ sta del più forte, ma sulla base di un rapporto a due in cui si delineava, a volte in extremis, il volto del meno for­ te (nel senso in cui la fisica atomica parla della «forza debole»). Vivere con le immagini è fare due cose alla volta Esercitare un senso critico di fronte alle immagini e ai suoni è sempre stato un curioso capriccio, un flirt con l’impossibile. Guardare questa guerra del Golfo si­ gnificava sottoporsi a una ginnastica estenuante. Da un lato, bisognava prendere conoscenza del materiale informativo disponibile; dall’altro, bisognava esercitare su di esso una sorta di inquieta vigilanza, una diffiden­ za di principio, uno sguardo «di sbieco». «Essere visto mentre non si vede» è la presa di coscienza dello struz­ zo, ossia dell’idiota: è seccante e forse non è nemmeno raccomandabile. È per questo che molti si sono ritirati dal gioco, convinti che, in ogni caso, gli si sarebbe loro mentito sempre. La cosa fastidiosa è che oggi non è più a cuor leggero che si rinuncia a una corretta informa­ zione; o che si lascia ai rappresentanti che abbiamo eletto (anche quando comunque ci piacerebbero) il

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monopolio della gestione di questo campo. Sono anni che non leggiamo più «Pékin Information»: sappiamo che in nessun luogo al mondo la democrazia passa at­ traverso la mancanza di informazione. Ma ci rendiamo conto allora che, come la democra­ zia, l’informazione non è qualcosa di dovuto bensì una pratica, non un sogno bensì una passione. Una cosa è prendersela con coloro «il cui mestiere» è farla male, un'altra cosa è capire che questo dipende anche da noi. Se il visivo ci impedisce di vedere (perché preferisce che si decodifichi, si decritti, in breve, si «legga»), l’imma­ gine ci lancia sempre la sfida di montarla con un'altra, con deZZ'altro. Perché nell'immagine, come nella demo­ crazia, c'è del «gioco» e dell’incompiuto, un assaggio o un’apertura. Ma è un gioco troppo serio, che ci trasfor­ ma presto in moralisti bisbetici o in dispensatori di le­ zioni. Bisognerebbe parteciparvi più numerosi perché il gioco valesse più della candela, e questa non si trasfor­ masse nella fiammella dell'anima bella arrabbiata. Nel­ l'attesa, era divertente vedere certi giornalisti intuire che questo gioco era possibile. Guillaume Durand, per esempio; aveva l'aria sorpresa di avere capito qualcosa che non si potesse ricondurre soltanto al suo «profes­ sionismo».

Gestione dell’ammanco e del resto Se il visivo è un cerchio, l'immagine è allo stesso tem­ po un ammanco e un resto. Vivere democraticamente con le immagini, trame un po' di informazione, è come vivere con degli animali domestici. Ora si nota soltanto ciò che manca loro (la parola, per esempio), ora solo ciò che resta loro (l’amore, per esempio). È un’oscillazione, una spola, non esattamente un «posto» confortevole. Se il cinema la sapeva lunga sul «posto dello spettatore», se poteva giocare con il modo in cui stavo immobile in sala, il mio televisore, lui, non sa nulla di quello che mi manca e di quello che mi resta. Tanto che mi manca sempre qualche cosa e che resta sempre qualche cosa. Prendiamo l'ammanco. E salutiamo di passaggio i piccoli progressi (tutto è relativo) che si sono potuti constatare. Tra le cose che mancavano all'informazione 147

televisiva cera infatti tutto ciò che ormai si scrive sul­ l'immagine stessa: le fonti, le date, gli archivi, i nomi, il volto del giornalista o dell’operatore, la menzione della censura locale, tutto ciò che fa parte del «chi parla?». L’immagine è ormai decorata come il petto di un gene­ rale sovietico. Una delle più «belle» (è Christian Caujolle che me l’ha comunicata) è una foto presa su TF1 e venduta come documento dell’AFP, dove si vede un'im­ magine (d’archivio) di Saddam Hussein con due iscri­ zioni: «Radio Baghdad in diretta» e «Messaggio radio di Saddam Hussein». Una foto presa alla TV dove è scrit­ to che si tratta della radio, è l’ammanco divenuto una gag; ma è uno degli ammanchi meno buffi, degli am­ manchi voluti, deliberati, un’intossicazione. Delle do­ mande senza risposta, dei campi senza controcampi, dei vincitori senza vinti: dell’uno senza l'altro. Mi sembra che durante questa guerra sia esistita una vera e propria immagine mancante, quella di Baghdad sotto le bombe. Immagine la cui stessa assenza ha co­ stretto tutti a «immaginare» qualche cosa, in base alle sue opinioni, ai suoi fantasmi o ai suoi ricordi dei film di guerra. Questa immagine mentale diventava a poco a poco più «vera» delle altre, e suppongo che qualcuno abbia dovuto desiderare di vedere Baghdad in rovine, se non altro per smentire la tesi del bombardamento chi­ rurgico. La rabbiosa energia impiegata per immaginare quello che né Bush né Saddam volevano più mostrare è uno dei primi effetti di questa guerra «senza immagini» sulle cavie che siamo stati. Più il videogioco veniva im­ posto, più la crescente astrazione dei suoi bersagli an­ gosciava. Era per compassione verso il popolo iracheno o perché il cinema ci ha trasmesso dei riflessi di questo genere? E se fosse la stessa cosa?

Montaggio obbligato Mentre tenevo la mia rubrica ho avuto l’impressione, all’inizio euforica e alla fine pesante, di essere diventa­ to un montatore nella mia testa. Si trattava di produrre immaginario in quantità sufficiente per lottare contro una vera minaccia di irrealizzazione. Montavo ciò che vedevo con le immagini mancanti, con tutti i fuori cam­ 148

po, alla rinfusa, come un pazzo. Queste immagini le tro­ vavo dappertutto, a seconda del momento o del capric­ cio, come un isterico che non smette di esigere proprio ciò che non gli viene dato. Certo, è facile manipolare un isterico, visto che basta proibirgli una sciocchezza per­ ché la creda importante. Sospettavo di tutti, mi logora­ vo le meningi per ristabilire un seguito là dove non cera più che l'interruzione del flusso, per non dimenticarmi di ricordare là dove l'amnesia era la norma. Perché non si vede l'emiro Jaber? Perché, improvvisamente, non ci sono più servizi sugli operai indiani o filippini? Perché così tardiva, l'immagine russa della marea nera? Perché questa sensazione di fare un lavoro che non dovrebbe es­ sere il mio? Forse per la prima volta nella storia della televisione, la rarefazione delle immagini a benefìcio del puro visi­ vo ha creato una carenza di immaginazione sempre più difficile da colmare. Non è più sufficiente, infatti, sa­ perne un po’ di più della media dei telespettatori sul montaggio, sul campo-controcampo, sulle astuzie del­ l'enunciazione e sulle liturgie della diretta per disporre automaticamente delle immagini (o dei confronti tra immagini), delle quali non si sa più se ci mancano per caso o se ci vengono bellamente proibite. In questo sen­ so è come se la nostra abituale percezione del mondo uscisse ristretta da questa guerra in mondovisione, re­ stituita a un'astrazione galleggiante permeata da «even­ ti» fantasma, dando quasi ragione a Baudrillard quan­ do annuncia, imperturbabile, che la guerra del Golfo «non ha avuto luogo». A volte, raramente, passava un’immagine, una vera. Ma, si trattasse dei piloti indubbiamente riempiti di botte, di Isaac Stem e il suo pubblico di maschere anti­ gas, di Saddam che accarezzava la testa di un bambino, o dell’inviato della CNN che faceva della radio alla TV, erano sempre delle persone che, volenti o nolenti, «fa­ cevano immagine» e lo sapevano. Non vi è immagine che quando vi sia abbastanza altro perché sia ancora possibile un equivoco. Così ho visto un kuwaitiano la­ mentarsi del suo frigo andato in malora e dei suoi schia­ vi fuggiti: era così convinto che l’immagine che dava di

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sé «ci» sarebbe piaciuta che non mi arrabbiai più con lui per le sue cattive maniere: non costituivano, dopo­ tutto, una delle rare informazioni che mi siano perve­ nute sul «popolo» del Kuwait? La ginnastica è altrettanto faticosa della paura di un passante in una partita a tennis. Occorre non essere mai là dove la televisione ci attende e abbracciare, se neces­ sario, tutti i punti di vista del diavolo. Perché non c'è so­ lo l'ampia gamma degli ammanchi, c'è anche la povera presenza dei resti. A volte si ha la sensazione di dover montare ciò che si vede con ciò che non si vede, e a vol­ te è il contrario: bisogna guardare nonostante tutto quel poco che si vede. È così che i rari servizi realizzati «sot­ to controllo iracheno» nelle strade di Baghdad devono essere stati poco guardati, con l’evidente pretesto che le opinioni dell’«uomo comune» della capitale irachena non erano molto attendibili. Ma non ci sono solo quel­ li che parlano alla telecamera, ci sono anche i passanti che guardano la telecamera dal fondo dell’immagine, con l'aria assente e lo sguardo di traverso. Chi mi dice che quest'aria e questo sguardo non siano il nocciolo duro senza il quale vi sarebbero soltanto segni da «leg­ gere» e non più uomini da «vedere»? Ammetto che, in questo caso specifico, l’informazione sia minima (qual­ cosa come «gli iracheni esistono»); ma essa è minima solo sul piano del visivo, non su quello dell’immagine. La «critica delle immagini televisive», come ogni cri­ tica dei media, implica una curiosa soddisfazione. Una fede nelle immagini, ma diventata cattiva, una «cattiva fede» che si traduce nella triste passione di avere sem­ pre l’ultima parola. La rarefazione dell'immagine inizia quando questi due atti gemelli, vedere e mostrare, non sono più naturali e sono diventati come degli atti di re­ sistenza. Resta allora da immaginare quello che non si vede più. L'immaginazione è il fantasma dell'immagine; essa è la nostra amara vittoria. (aprile 1991)

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Note

1È possibile datare il canto del cigno ufficiale della critica cinematogra­ fica. Fu nel 1982, quando essa ritenne opportuno contrapporre un film di successo, L'As degli assi (con Beimondo) a un bel film sbilenco e poco ap­ prezzato (Urie chambre de ville di Demy). Si fece circolare una maldestra pe­ tizione; fu l'ultima. J L'autore non credeva di esprimersi così bene. Due anni dopo, in rispo­ sta alla sua critica del film Uranus, Claude Berri, responsabile dell’oggetto della critica, non trovò nulla di più degno che di ottenere, tramite una pro­ cedura per direttissima, la pubblicazione del suo diritto di replica (piutto­ sto del genere costernante) su «Libération» del 28 febbraio 1991. Per mi­ nore che sia, questo avvenimento indica in quali limiti (ciò che resta del)la critica cinematografica possa esercitarsi; esso, peraltro, non suscitò alcuna reazione, e tutto filò liscio. * La cosa più sorprendente fu la quasi scomparsa delle antiche (nobili) discussioni sull’essenza della Letteratura; non tanto «che cosa può la lette­ ratura?», quanto «la letteratura e il diritto alla morte». 4 Due correzioni, a ogni modo. La revisione di Batman e quella dell'ec­ cellente Beetlejuice fanno pensare che Burton non è uno qualsiasi. D’altra parte, come molti altri film di Resnais, / want to go home resta nella me­ moria come un vero cattivo ricordo, ma che resiste. Indubbiamente gli am­ miratori di Resnais hanno ragione a considerarlo uno dei rari esploratori di un mondo puramente mentale che da molto tempo non è più debitore nei confronti del ritmo o del movimento dei corpi. L’unica domanda che si po­ ne è: questo mondo è altrettanto lugubre di quello di Resnais? La risposta dalla parte delle «nuove immagini», più tardi. ’ C'è davvero una differenza tra questo macabro romeno e la chirurgia irachena che lo avrebbe seguito? Si tratta piuttosto dei due bordi esterni del mondo dell'immagine: da un Iato l’accanimento gore sui corpi, dall'al­ tro la cancellazione video degli stessi corpi. Due modi di finirla con ciò che resiste. 6 La verità è più amara. Alla fine della guerra del Golfo che cosa si può constatare? Che tutti hanno potuto verificare i limiti delia televisione. Ma che il fatto che essa abbia dovuto obbedire a chi era più forte di lei non le sarà rimproverato eccessivamente, per la buona ragione che la «legge del più forte» è ridiventata la legge tout court. 1 Sopravvalutazione de) suddetto Saddam. Di qui la domanda: il fossato nord-sud si è approfondito a tal punto che un leader del sud, benché peri­ coloso e suicida, non può più interpretare correttamente la logica (porosa e cupa) del nord? ’ Si lascia l'abbreviazione di uso corrente in francese per information. • Caustica allusione a un congresso del partito socialista a Rennes, che suscitò la costernazione di molti.

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* Questa funzione di «illuminatore» resta il privilegio di qualche perso* naggio eccezionale, qualche divo di ieri, il papa oggi. I numerosi viaggi di quest'ultimo attraverso il mondo sono paragonabili allo spostamento di una macchia di luce che, per metonimia, illumini dei frammenti della scena mondiale scollegati da tutto. È grazie al viaggio del papa ad Asunción che abbiamo visto per una volta a che cosa somigliava il vecchio dittatore Stroessner, il meno mediatico dei tiranni dell'epoca. 10 È probabile che la «realtà culturale» delle nostre società consista pro­ prio in questa capacità collettiva di giocare a bure simili squisiti cadaveri. Per esempio, la morte di Gainsbourg non è il caso fortuito che ci ricorda al­ l'improvviso che al mondo non esiste solo il Golfo, ma il seguito oggettivo della guerra, il suo seguito obbligato, che costringe ciascuno di noi a in­ ventarsi una propria transizione tra una linea di avvenimenti esaurita e un'altra possibile. Ritroviamo la fatidica triade del nostro tempo: liberazio­ ne del significante, semi-oblio del significato, perdita del referente. 11 II confronto con l'inglese è eloquente. In francese si gira un film, in in­ glese lo si «tira» (shoot); in francese si tira una copia, in inglese la si «stam­ pa» (print). Il cinema è, comunque, dalla parte dello stampato. 11 Ecco perché bisogna prendere sul serio gli osservatori che, come Mi­ chel Maffesoli (Le temps des tribus), sono sensibili alla rivendicazione este­ tica presso i dominati. Quanto più l'estetica del «centro» ridiventa un or­ pello decorativo e pompier, tanto più quella della «periferia» agisce come uno strumento di segregazione e un’arma di guerra. ” In un articolo molto controverso pubblicato su «Le Débat», il socio­ logo Paul Yonnet (Jeux, modes et masses) ha sviluppato una strana argo­ mentazione. 1 ) In seguito alla profanazione del cimitero ebraico di Carpentras e allo smarrimento che ne è derivato, egli osserva con precisione che, per mezzo della vigilanza antirazzista, la sinistra non sa fare altro che farfsi) paura con 1’evocazione del peggio (la celebre «bestia immonda» di Brecht). 2) Egli trova questa esagerazione tanto più infelice poiché ritiene che, nonostante tutto, l'antisemitismo attuale, molto meno virulento che in passato, stia diventando un residuo «folkloristico», eroso dalla reale avanzata dell'individualismo democratico di massa. 3) Di conseguenza es­ so si rivolge contro coloro che, incapaci di vedere che viviamo in una so­ cietà in via di pacificazione, nutrono nostalgie comunitarie e adottano pe­ ricolose strategie di ripiegamento tribale. Chi, per esempio? Gli ebrei, ov­ viamente. “ Sollers, per esempio. 19 Questo non è più probabile; è certo. u Non è impossibile, dopotutto, che la situazione-tipo del cinema fran­ cese sia quella del prigioniero. In tal caso vi sarebbero due modi di «uscir­ ne». Adattandosi alla prigione, umanizzandola, perpetuandovi «la vita», a colpi di alleanze e di saper-soprawivere. Oppure rifiutandola, anche a co­ sto di vedervi un'occasione di trovare se stesso ritrovando una libertà (l'evasione, spirituale o materiale). Considerato a lungo il più grande film francese. La grande illusione di Renoir (come più tardi Le strane licenze del caporale Dupont ) mostra entrambe le vie. Ma se Renoir è l'arbitro di que­ sto gioco, Bresson (Un condannato a morte è fuggito, Pickpocket, Il proces­ so di Giovanna d’Arco) è colui che sceglie l'evasione. Si vedano anche Coc­ teau (La bella e la bestia), Grémillon (La petite Lise), Becker (Il buco) e mol­ ti altri. Per la Nouvelle Vague, è bastato fuggire lo studio per godere di una

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certa libertà. Ma, nondimeno, quest'ultima non è quasi mai il soggetto del film: anche in Rohmer si continua a essere prigionieri del proprio «essere sociale>. •’ Come ricorda Michel Bonnemaison in un libretto chiarificatore, «To­ tale télévision», pubblicato dal Montfaucon Research Center.

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Indice

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Introduzione di Paolo Mereghetti

I FANTASMI DEL PERMANENTE (DAL CINEMA ALLA

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televisione)

II «passatore» Intervista a Serge Daney di Philippe Roger I fantasmi dell'informazione