Realismo Neorealismo Controrealismo
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UQUESNE UNIVERSETY LISRART

neorealismo controrealismo

Carlo Muscetta

Realismo neorealismo

controrealismo

VERMTY LAP ARE

Nella collezione I Garzanti - Argomenti 1 edizione: settembre 1976

Ogni esemplare di quest’opera che non rechi il contrassegno della Societa Italiana degli Autori ed Editori ‘deve ritenersi contraffatto

© Aldo Garzanti Editore, 1976 Printed in Italy

‘1 Torquato Accetto o la dissimulazione onesta

Pomposo quanto si vuole, quell’anonimo manzoniano, 0 non aveva torto: la storia si pud veramente definire una guerra illustre contro il Tempo ». Dovevano passare ent’anni perché il riesame critico dell’eta barocca addise alla nostra riflessione i cauti moralisti del « secolo © religioso di tutta la nostra storia ». E cosi anche ad oscuro scrittore napoletano é toccata la giusta parte di ma. Dal ’28 ad oggi ben tre edizioni di questo trattatello

ella dissimulazione onesta, hanno portato il nome di Tor© Accetto fra una cerchia via via pit larga di lettori: quale scopo, da ultimo, la « collezione in ventiquattreno » (ed. Le Monnier) sembrava proprio fatta apposta, endo a Goffredo Bellonci la opportunita di un’accurata tampa, seguita da una scelta di versi.

hanno pochissime notizie intorno all’Accetto:

le rac-

il Croce, suo primo studioso e moderno editore, in parte desumendole oltre che dal suo scritto in prosa ), da una raccolta di Rime pubblicate venti anni in-

1 € di cui finora non furono ritrovate le successive ediSiamo stati pit fortunati, e fra mano c’é capitata apla raccolta definitiva del 1638, che ci permette di are il tenue profilo di questo seicentista. to, « stando il sole in Leone >», sulla fine del ’500 ne si puo congetturare dalla didascalia d’un suo so0), glidoli del Rinascimento ebbero ancora il potere di rlo in gran parte dalle mode e dai diletti del secolo deliré ». Lo dicono queste ingenue parole di fede, © quali, principiante, ci si confessa nella prefazione al mo libro (« Grandeé la vilta di colui che nella stretc rta strada di questa vita mortale passa in modo che ura d’imprimere un’orma, ove chi viene appresso ab‘onorarne la memoria »); lo conferma quel commer-

cio tutto intimo e devoto coi propri autori che non 6, nel trattatello, semplice superstizione umanistica. Per molti aspetti, ai pit. accesi fautori dell’« hoggidi », l’Accetto dové apparire un « antiquario », specie nella « difficile e soave impresa dello stile poetico ». Ma quali che fossero i suoi ideali artistici, egli coltivava la letteratura con fede sincera, come si pud vedere dalle parole che per maggior modestia fa dire allo stampatore, in fronte alle sue ultime Rime (amorose, lugubri, morali, sacre e varie): Io mi vo persuadendo, che si potra riscontrare nellaltrui gusto la mia diligenza di aver procurato che il sig. Torquato Accetto si compiacesse ch’io mandassi in luce queste sue Rime, nella maniera che si vede, avendo egli unita la prima e la seconda

parte delle sue Rime

altre volte impresse, e fatte

in quelle molte mutazioni, e di pil in questa impressione si sono aggiunte altre sue Rime, non ancor date in luce. Se il medesimo Signor Torquato avera qualche ozio onesto, dara quanto prima alla stampa, se non tutto, almeno buona parte del Poema sacro, in che sta faticando, e si vederanno pur le sue prose, e tra quelle le lettere che ha fatte per volonta d’alcuni signori, e Valtre per le sue occorrenze.

Non ci consta che lo sfortunato scrittore abbia ritrovato,

fra le sue occupazioni di segretario privato, l’ozio onesto necessario per dare alle stampe il suo poema. Se perd questo” avesse dovuto compromettere il suo povero buon nome, meglio cosi! Piuttosto sara da rimpiangere la perdita delle lettere, che forse ci avrebbero rivelato qualche altro aspetto della sua vita e del suo animo di probo cancelliere, che aveva perduto nel suo ufficio i sonni e i polsi.

Testimonianze di delicato e virtuoso sentire lasciO invece nelle prime rime dove toccd dei suoi affetti domestici (laddio alla madre, la canzone in morte del padre, i consigli al fratello Roderigo), e canto con castigati versi il suo amore per una giovane donna incostante e civetta, colta da’ morte immatura. Fu questa passione, e Valtra, piu travagliata ancora, per la moglie (e poi vedova) d’un suo amico la scuola amorosa dell’Accetto moralista. Non é no

bile che, in mancanza d’un corso di psicologia, l’arte del simulare e del dissimulare egli l’abbia appresa anche i in a sta privata esperienza.

Led

_ Del resto, « come quest’arte puod star fra gli amanti » lo spiega il capitolo xiv del trattatello; dove tuttavia avremmo desiderato, di seguito, un chiarimento sull’annessa questione, assai importante per |’Accetto, e cioé del dissimulare in letteratura. « Male amor si nasconde », cantava il suo Tasso; ed anch’egli, il nostro moralista, ab experto aveva poMopes scrivere che «il medesimo dolor che tormenta gli -amanti, se non bast’a far che dicano i lor affetti, si muta ‘in ambizione amorosa di dimostrarli. » Quando |’Accetto “scrisse i suoi primi versi A una vedova non dubitd che a

| costei e a lui stesso sarebbe accaduto (pit come a Didone

che come a Erminia) di non riuscire a dissimulare a lungo aproprio amore? Quel colloquio dopo la morte dell’amico a fatale alla donna e al poeta: Ella d’affanni, io di verace aita seco trattai; ben v’intervenne Amore

[...]

dimostrare i suoi sentimenti senza, d’altra parte, mancar ispetto alla memoria di un amico? Sincero con se stesso, aveva altro scampo al di fuori della onesta dissimula-

€ amorose, col titolo « contro il sospetto per aver parAig la Sua Donna » (e intanto qualche ritocco Sana

-

Morte spietata, insidiosa, e rea tolse a me degli amici il pit costante [...] ‘Di memoria e di lode a lui prometto mio debito osservar quanto pit lice [...]

; “il quarto, il pid bello di tutti (almeno nell’attacco), — Ne epicriente sn terzine sa

la moralita convenzio-

Quando il ciel mostra il suo stellato aspetto, e la terra con l’ombre a noi si cela,

vinta dal pianto, in tacita querela riede vedova bella in questo letto...

Come la bella vedova fosse divenuta amica del poeta, cosa che umanamente si spiega e perdona. Forse ci furono in mezzo lunghi giorni di dubbi e di rispetto, di sofferta attesa: Quel velo, oimé, quel velo é la mia morte, or che de l’altrui morte insegna appare [...]

Tanto pit. dunque si spiega e perdona il pasticcio letterario, rituale e perdonatissimo a tanti poeti, di far valere per la vedova anche talune poesie scritte per laltra donna, quelle che dipingendola ritrosa e taciturna, non sconvenivano al secondo amore. Cosi unificato nella sua prima par-_ te, il canzoniere acquista agli occhi nostri, se non miglior pregio poetico, almeno una pil ricca coerenza psicologica e una sua architettura letteraria: dove si pud scoprire qualche «interno » caldo e sensuale. Esempio, quel sonetto « al lume che dovea estinguer per non esser visto con la sua donna », o l’altro che canta il velo rimosso dal petto di lei: ... Ne le tenebre mie pace e conforto non vien d’altronde: or tu cortese e pia, non mi celar piu tue bellezze a torto.

Ben vi giunse il mio cuor per altra via, ma co lo sguardo al fin mi son accorto,

ch’egli assai disse, e pur non fu bugia.

;

Anche da queste citazioni risulta dunque giustificata la menzione onorevole data dal Croce all’Accetto fra i pochi scrittori del Seicento non incapaci di concepire una poesia affettuosa. Bellonci ha creduto di obiettare ch’egli « é piu semplice dei contemporanei barocchi... ma non perché abbia conservato incorrotti i modi antichi: usa il linguaggio della poesia di quel suo tempo per darci i risultati di una indagine psicologica, di un esame di coscienza, di una meditazione morale ». Che & mescolanza di vero e di falso.

10

oe

L’Accetto nemmeno nelle rime fu alieno dalle arguzie e dai concetti, specie in quelle che sono piuttosto riempitive esercitazioni. Ma proprio dove é mosso da un interesse psicologico e morale, si dimentica di metaforeggiare in barocco, e perché non riesce a trovare una sua forma personale, pre-

ferisce ricordarsi della buona tradizione napoletana che, da

Sannazzaro al Tasso, gli offriva un linguaggio consono al suo gusto. Naturalmente, quando celebra pit solenni argomenti (mettiamo, il timor di Dio), ritiene doveroso mutuare

dalla letteratura alla moda eleganze pit peregrine, e allora _« precipita (come lui stesso direbbe) in aborti di concetti ». _ E invece in cose tenui e minori, come del resto hanno notato sia il Croce che il Bellonci, ritrovava la buona via,

e gli inizi erano sempre spontanei:



,

if

a my

Un sogno € questa vita, felice chi si desta e sa narrarlo; ahi ch’io talor ne parlo e celeste pieta cid mi consente: il senso lusinghier poi se ne pente, e per cieco desire tra le piume d’Amor torno a dormire.

q Ma in questa malinconica e blanda condiscendenza a se -Stesso lAccetto non ritrovo i grandi sogni della poesia. La ‘sua vocazione era piuttosto quella di acquistar coscienza di sé e del suo limite amaro in una societa, che esigeva come prezzo della vita un abito di circospezione; di chiarire inmma, per liberarsene almeno nell’intelligenza, la natura ‘questa cautela, di questo continuo sospetto di sé e degli tri che appunto in una trepida, sofferta difesa della « perma » (come oggi si-direbbe) aspirava a riscattare il difetto di pit attive. virtu. E se fra le rime dell’Accetto voa la sincera oratoria della sua prosa, son da ricordare certi versi « ad una sua cameretta », dove questa umbratile moale alluma una sua fioca lampada, come in un culto mor-

Camera angusta, a quel pensier gradita, ch’al vulgo cieco a suo poter m’invola,

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poca

tua

luce

molto

mi

consola,

e dolce nel silenzio é la mia vita. Ch’io scrivo o legga, il tuo piacer m/’aita si queta sempre

ti ritrovo e sola,

pero del tempo che sen fugge e vola qui la mia parte rimarra fornita. Tal’é il desir, cosi pietoso il cielo par che prometta [...]

Per quest’anima piamente rassegnata il problema, allora disputatissimo (an dissimulare liceat), diventava davvero un caso di coscienza, alla ricerca non gia dj un codice delPutile ipocrisia, ma della prudens simplicitas.

Lineare € Vimpostazione logica del libretto, benché la linea si contorca, e s’insinui in sottili questioni, portandoci dalla nascita di Adamo fino al Giudizio Universale (il solo giorno in cui, secondo l’autore, non sara pit il caso di dis-

simulare). Si simula quel che non é, si dissimula quel che é. E vivendo tra i simulatori di fede, Vincognito cultore della verita, per un atto di necessaria protezione, non pud che dissimulare la sua buona fede. Ma non a tutti é lecito’ dissimulare: possono e sanno farlo solo gli animi puri, i temperamenti sereni e moderati, che a tempo e luogo, senza farsene una sdrucciolevole norma di vita, ritengono inevitabile celarsi. Solo cosi la dissimulazione, nel suo « sincero significato » non sara altro che un « velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il falso, ma si da qualche riposo al vero, per dissimularlo a tempo; e come la natura ha voluto che nell’ordine delVuniverso sia il giorno e la notte, cosi convien che nel giro dell’opere umane sia la luce e l’ombra... ».

Tutto il trattato’ procede per chiaroscuri.

Ce

« Esangue »,

Vha detto lo stesso autore che non dissimula di aver voluto una prosa allusiva: « E se in questa materia avessi potuto mettere nelle carte i semplici sensi... ». Il testo é limitato, scemato perfino nelle citazioni che sono numerosissime, tra. le implicite e le esplicite. E queste ultime senza le opportune e le lodevoli integrazioni del Bellonci parlerebbero. chiaro solo ad un/aristocratica schiera di provyedit a lettori. Dottamente contenuta, questa prosa si spiega alVeloquenza solo nell’elogio finale della dissimulazione: « le 12

ve

porpore nel loro vermiglio sogliono ricorrere al nero del tuo manto, o virti; le corone d’oro non han luce che non

abbia bisogno delle tue tenebre ». Ma questi (osserva Bel_lonci) « sono secentismi nei quali si esprime la fantasia

- quando é mossa dagli affetti, non scritti dunque per mostrar bravura o per suscitar meraviglia; e d’altra parte non dis' sonano in una prosa cosi tesa e sempre alta d’accento ».

_ Anima tutt’altro che incline a sofisticarsi, smarrendosi nei giochi verbali, Torquato Accetto arriva non senza un _timore pudibondo a questi pericolosi fastigi, dai quali soltanto il Géngora, poeta della pompa funebre, sarebbe riu_ scito ad esaltare i suoi voli di fenice. Era invece nell’interior chiaroscuro che il napoletano (vedi _simulare con se stesso) toccava una tentati di consentire all’entusiasmo poesia parlo nel fervore della sua fp pret.

il capitolo xu, del dissua « poesia ». E si é del Croce, quando di scoperta: margaritam

{

% Molto successo ha avuto fra il pubblico e la stampa il trattatello: il valore letterario del libro é davvero tanto singolare da giustificar |’entusiasmo. Non altrettanto giuStificabile ci appare invece il giudizio morale del Bellonci, che sotto le parole dell’Accetto « sente il caldo del suo sanae di cristiano addolorato e martoriato ». Qui, se non ci ganniamo, |’oratoria dello scrittore ha provocato l’oratoa del critico; il quale anche in un altro punto della sua ere (del resto pregevole, ricca di spunti e di originali

ae ritrattista di fra’ Cristoforo e di Federico Borromeo. Per il nostro

seicentesco « filalete » altri testi manzo-

niani andrebbero forse citati; magari questo, che ci sov-

13

ceva l’Accetto, é il considerare « il favor della fortuna in alcuni del -tutto ignoranti », ma é bene non pensarci perché altrimenti si é « in pericolo di perdere la quiete ». E invece, o salvatrice dissimulazione! « quanti disordini, quante rovine son succedute quando sei stata posta in abbandono, e s’é dato luogo a manifesti furori, da che son seguiti quegl’infortunii, che tante volte hanno disturbato le provincie intere ». Le massime citate dall’Accetto hanno spesso la fredda maesta di certo stoicismo umanistico e al tempo stesso ricoprono un egoismo, un’accidia che sa di chiostro. A parlare di martirio, esiteremmo alquanto. Perché troppo

delicato é il diaframma che separa la quiete interna del savio e il quieto vivere di don Abbondio, se si rifletta che la qualita e la quantita della dissimulazione, la purezza delYintenzione e la frequenza dell’atto sono affidate a una creatura che da troppo poco affidamento, com’é l’uomo. Non sopravvalutiamo dunque la morale chiusa e notturna dell’Accetto: la virtt. che egli chiama decoro di tutte le — altre virth € assai pericolosa di peccato. E poi: salvar se . stessi € veramente possibile senza salvare gli altri? una morale « privata », difensiva, che non si fondi come rigeneratrice di una morale « pubblica », pud. degnamente chia-

marsi « cristiana »? « Saggio di psicologia prudenziale », di uno che « sa di doversi muovere

sulla terra, ma

non

dimentica il cielo >.

Nel giudizio del Croce furono fermamente segnati i limiti dell’Accetto moralista: un debole che ebbe il coraggio di analizzare la sua trepidazione e fu a tratti elegiacamente commosso a rassegnarsi con Dio del suo triste destino. Campanella, Galilei, lo stesso Sarpi ci appaiono al confronto anime pit terrestri e autenticamente religiose. E bisognera rifarsi a Settimontano Squilla per trovare un linguaggio inequivoco, annunciatore d’una morale « antimachiavellista », di luce solare e di aria aperta: Io venni a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia.

Purtroppo, quel che ancora manca alla nostra letteratura

é un manuale dell’imprudenza. 1943 14



y

2

Introduzione

all’« Ortis »

« Nelle Lettere di Jacopo Ortis, documento di morte volontaria, troverai molte cose che offendono la mente di un

_ saggio, molte che ti spiaceranno. Ma prendi il libro come fosse il mio cuore, e pili che l’autore giudica ’uomo. Non son chi fui; perita é ormai la mia gioventl. Ma un monu_ mento di quel tempo io ritrovo in questo libro mestissimo, e ne ho ristoro. Esso mi fu compagno nella solitudine, consigliere nelle sventure, balsamo alle piaghe dell’anima. Non lo - scrissi per gli altri, ma per me solo: e non cercai né lodi né _ lettori: quale che sia, purché a me piaccia, e tra le ambasce - della vita, mi commemori ogni giorno la morte. Ché saviamente disse Menandro convenire al malato il malato e gratissimamente risonare al vecchio la parola del vecchio e _ alluomo infelicissimo il conforto d’un animo provato dalle

~ » By sventure.

Questo frammento di lettera, che per comodita abbiamo tradotto dal suo biblico e lapidario latino, é una delle pit _ belle pagine lasciateci dal Foscolo a difesa del « libro del suo cuore », epperd da ricordare a chi si accosti all’Ortis con un ’affettuosa, direi coetanea confidenza, e al tempo stesso rifiuti di stordirsi alla superficie delle parole con

vere

quell’impotenza ammirativa che ci consigliano ii retori, non’

‘altro cultori se non di parole e di suoni. Ma non voremmo essere fraintesi. A questa « ragazzata» di genio non conferisce prestigio un suo passionale contenuto, bensi | il fascino, annoso se si vuole, d’uno stile potente di vera e _spesso poetica eloquenza: cosa solitaria nella prosa italiana

ardita novita per il tempo in cui avvenne alla storia della ie ten e del costume politico. Della sua alta ambizione, lautore stesso fu cosciente; cosciente altresi dei limiti |ikraggiunti: :

|

1S

Le Ultime lettere hanno uno stile tutto loro proprio; e tale da essere censurato da chiunque volesse guardarlo a parte a parte, ma da sedurre i lettori. Le cose che contengono sono per lo pitt comuni; il modo é sempre nuovo. Lo scrittore accenna piu che non esprime a parole; trapassa senza frapporre mai mezze tinte, da un oggetto all’altro; par che sprezzi sempre la rotondita dei periodi, e talor l’armonia; non cerca yocaboli o frasi eleganti, e pare che il concetto gli suggerisca le voci piu proprie; né si cura che siano fuor d’uso, anzi. la dicitura ha non so che ruggine proveniente dalla lettura de’ piu: antichi scrittori italiani; ma ad onta di certo zelo di purita di lingua, che in generale trovasi in quelle Lettere, vi sincontra alle volte delle licenze tutte nuove e non imitabili: insomma é stile d’uomo che scrive a sé unicamente per sé; che non pensa a chi leggera; che appena tocca fatti e concetti a cui necessiterebbe spiegaziore piu chiara; altri li ripete troppo; d’altri tace e, benché

non li abbia mai accennati, pre-

suppone che siano saputi; e il vigore e la schiettezza delle espressioni escono da impeto d’anima e da uso pratico della lingua, piuttosto che da metodo premeditato di scrivere. Pero ~ chi sul serio dicesse che lo stile di questi libretti piace appunto perché non ha stile (pigliando il vocabolo nel significato delle scuole), darebbe forse nel segno. Non si legge mai, si ode sempre; né s’ode l’oratore o il narratore, bensi l’uomo giovine che parla impetuosamente e lascia discernere i vari colori della sua voce e i mutamenti della sua fisionomia.

Per ridare « forza e novita a una lingua classica da pil secoli », com’é la nostra, per ottenere gli effetti d’una « verace eloquenza » il Foscolo era persuaso che nulla servisse meglio quanto « un certo spirito poetico maestrevolmente — insinuato negli scritti anche filosofici e severi ». Infatti « Tacito fra gli antichi e Gian Giacomo Rousseau fra’ moderni — hanno lettori, che con essi piangono filosofando; e ben pre- — sto si persuade la ragione, quando ne’ mortali sono persua- — se prima le passioni ». Ma a un ideale letterario si mescolava, preponderando, un’intenzione sociale. E benché primo,— forse, ad avvertire il bisogno d’un’arte narrativa italiana da — « contrapporre > a quella europea, il Foscolo le assegnava poi queste finalita: « la storia notomizza la mente de’ pochi che governano, il romanziere insegna la morale a quella | classe di gente che serve al governo e nc co16

manda alla plebe: sola classe di gente che ha d’uopo di morale pel bene della societa; perché i governi non hanno per unica legge la Ragion di Stato, la plebe le supreme necessita della vita? » Cosi scrisse nel 1803; e pid tardi, parlando proprio del suo libro, pil apertamente disse che « quantunque contenga in sé dei tratti poetici, e svolga la passione di un tenero amore... tende alla politica come a suo principal scopo >». Che il Foscolo si rivolgesse alla borghesia liberale moral-

7

mente responsabile, di fronte alla storia, dei destini d’Italia (« plebe » compresa) non v’é dubbio, e col solito acume

- energicamente dubito tra gli altri critici il giovane Scalvini

- osservando

che esso

_ pietose avventure,

non

é «una

schietta

narrazione

ma si bene un accozzamento

di

d’affetti

_ mestissimi, di patetiche meditazioni, poste senza posa le __ une dopo VPaltre. Non vuolsi dire una storia al lettore, vuol-

E si scuoterlo,

agitarlo, menarlo

a farneticare ». Ma

I'Italia

_ huova, non solo quella dei letterati, non aveva troppo bi- | - sogno di essere scossa dalla sua « saviezza » e menata a

' « farneticare » di liberta e di altri deliri? _

Non é un romanzo, l’Ortis,

¢ vero;

e nemmeno

lo formu-

lJeremmo « sepolcrale-politico », come ha fatto un critico ‘modernissimo. Potremmo scambiare POrtis con le Notti ro‘mane di Alessandro Verri, e la formula sarebbe non meno

-appropriata a questo tentativo ampolloso e archeologico, _didascalico e oracoleggiante. Altri ha definito l’Ortis la sola tragedia riuscita della scuola alfieriana, mal contrastando val giudizio del De Sanctis, ché di tragicita alfieriana c’é solo quell’espediente tecnico, assai scoperto, di far campeglare in una luce solitaria e violenta il protagonista; specie nellultima parte dove ogni gesto appare ad arte solidamente scavato nella materia verbale. Chi disse l’Ortis vivente ritratto del Foscolo non fu pit: cauto giudice. Il ritratto fa nsare a un riposo, contemplativo, alla sublimazione di una personalita intera in un volto definito nei suoi lineamenti, € invece proprio la vita, la giovane vita dello scrittore, ge e tumultua nella confessione epistolare. Fra i « tomi 10 » foscoliano solo quello di Didimo Chierico ci offre gine interamente liberate nel distacco dell’arte. Questo el? Ortis squadernato da un soffio di tempesta romantica, 17

rivela scompostamente gelosi e generosi secreti. E si comprende perché sia stato sopra ogni altro caro all’autore, che lo sentiva palpitare nel suo essere profondo — viscera mea —., col trepido affetto d’una madre che speri da un secondo cuore, nel grembo, un/’altra, perfetta vita. Nella situazione lirica di quel libro (il dialogo ardente e solitario di anima ad anima) Foscolo ritrov6 i moduli novissimi della sua poesia, corrispondendo amorosi sensi, come a persone reali nella fantasia, alla Sera, e alla materna sua terra, e a Ippolito, e alle Grazie vereconde. Ma il mito rousseauiano (e vichiano) d’un’arte « primitiva », sentimentalmente imme-

diata era troppo vicina suggestione per lui, quando concepi per Ja prima volta l’Ortis. Tanto che un anno dopo la prima edizione completa (1803) insieme ad antiretoriche verita sullo stile (« la sostanza dello stile sta nella maniera di concepire i pensieri e di sentire gli affetti. Onde l’autore, che pensa fortemente, che vede i pensieri chiaramente e che sente con veemenza le passioni, trova agevolmente parole nella sua lingua, quand’egli l’abbia studiata, e sa, senz affettazione, prevalersi de’ tesori di sintassi, che i nostri antichi

ci lasciarono ne’ loro libri ») si lascid dire che chi correggesse gli errori grammaticali nella lettera scritta da un padre incarcerato alla famiglia, o da un amante appassionato alla sua donna « le troverebbe meglio scritte di quante lettere potessero foggiare i retori e i grammatici su questi argomenti ». Solo pit tardi, nella Notizia bibliografica aggiunta all’edizione zurighese dell’Ortis (1816), dopo un’in-

tensa esperienza d’arte, il Foscolo identificd i primitivi soltanto nei classici; e in quella sua industriosa apologia, paragonando l’Ortis al Werther, tra il giusto orgoglio di ori- ginalita, lascid trapelare la tristezza d’aver vanamente emulato Parte di quel modello, nitido e inimitabile come un “opera antica. Eppure, con che affetto leggiamo ancora l’Ortis e come volentieri sappiamo indulgere a quest’operetta « popolare », se pensiamo alla sua storia cosi travagliata, quanto allo — stile e quanto alle vicende autobiografiche! Composta per — « Strati » la disse il De Sanctis:

una stratificazione, che —

a volerci comprendere anche gli estremi ritocchi dell’edi-

zione londinese (1817) — durd un ventennio. Qui non — 18

possiamo tracciare la fortunosa storia se non per accenni di cronaca e senza quel necessario studio di varianti testuali che solo ci riporta dalla vita all’arte. Ricorderemo dunque al lettore, che l’opera da noi ristampata secondo il testo definitivo del ’17 costituisce la contaminazione di tre Ortis successivi, tre momenti

ideali e reali insieme del Foscolo,

che si integrano e tuttavia non si son fusi tra loro, per motivi pratici non risoluti in una sola volonta di poesia. Lo confesso l’autore stesso: « S’é voluto stampare tutto quello che fu scritto dall’Ortis, senza pigliarsi pensiero se sia tutto conforme alle leggi dell’arte, agli esempi de’ grandi scrittori, € soprattutto a’ modi co’ quali la natura suole procedere ».

|

Sin dal 1796 il Foscolo aveva tracciato un romanzo epi_ stolare (Laura, lettere), misto di verita e letteratura. L’amo-

_ re infelice per una ragazza veneziana e la funesta emozione della morte d’un giovane suicida (Girolamo Ortis, studenY te all’Universita di Padova, dove il Foscolo ascoltava le ~ lezioni del Cesarotti) si confusero con i languidi fantasmi di Young e la protesta rousseauiana contro la societa con_ culcatrice dei naturali diritti del cuore. Romanzetto senti‘mentale, di schietto gusto settecentesco, dove la catastrofe _ doveva avvenire per rinuncia morbosamente elegiaca: se ¢ esatta lingegnosa ricostruzione che un critico ne ha dise_ gnato sulle tracce e i frammenti, che avanzano nelle due _ redazioni successive. In quegli anni d’intervallo tra il primo _ € il secondo Ortis pubblicato a Bologna sul principio del fe1799, il turbine della Rivoluzione era giunto sino a Ve| nezia con le armate di Bonaparte. La vita politica richiamo wa sé imperiosamente il giovane democratico e alfieriano. E _venne Campoformido, la prima, indimenticata delusione, irs . . . . . immancabile del resto agli animi generosi che hanno fede i‘negli avventurieri aureolati di successo. Una durissima realta: la propria patria venduta e la fine della liberta e l’esilio: da:piu ferma contemplazione degli eventi appresa nel com‘Mercio coi grandi spiriti del Rinascimento europeo (Ma- chiavelli, Montaigne, Hobbes) non bastava a pacificare la _ coscienza, ad avvolgersi stoicamente « nell’oscurita della vita privata e nel manto dell’innocenza ». Chi aveva imparato da Rousseau che l’uomo é un animale sociale non _ poteva disertare il regno ferino della vita politica per il 19

chiostro d’una morale

solitaria. Ma a volere accettare lo

stoicismo come una disperata‘religione, bisognava accettarne il suo unico sacramento: il suicidio. E Foscolo sapeva invocare e non darsi la morte: « l’uscita volontaria > di cui pur sentiva nel sangue la funesta sollecitazione (due fratelli suoi morirono

suicidi), gli ossessiond

la fantasia,

come immagine d’assurdo eroismo; e al tempo stesso, come ogni morte, gli fu mistero ansiosamente meditato. L’edizione bolognese del secondo Ortis fu interrotta dagli eventi militari, ossia dall’occupazione della citta da parte degli austro-russi.

Per fortuna!.

Ché la « storia di Laura », com-

plicata da una nuova passione infelice e violenta (per la Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti) era stata affrettatamente impasticciata secondo lo schema narrativo del Werther, e forse gli stessi motivi etico-politici che avrebbero eroicizzato la morte di Jacopo eran destinati ad apparire in forma assai vaga e generica. Fu la coincidenza di un nuovo tenerissimo ed infelice amore con una circostanza affatto esterna a ispirare e quasi a determinare il terzo Ortis (1802). Durante l’assenza del poeta da Bologna, purtroppo un manipolatore prezzolato « converti le lettere calde, originali, italiane dell’Ortis in centone di follie romanzesche, di frasi adulterate e di annotazioni vigliacche ». Era la Vera storia di due amanti in-— felici, continuazione e rifacimento dell’Ortis, non senza cau-

te chiose improntate di opportunismo reazionario. Mentre il Foscolo, capitato a Firenze nel novembre del 1800 dopo | un anno e mezzo di avventurosa vita militare, e innamora-

tosi fino al delirio della bella e giovanissima Isabella Ron- — cioni, riviveva drammaticamente il suo primo amore in- — felice, gli capito fra le mani la Vera storia, e gli dové ap- ~ parire una doppia profanazione dei suoi sentimenti privati ti e politici. Sicché, « pil per fuggire infamia che per acqui- f starsi onore », senti come un dovere rifare la vera storia — di-Jacopo, la sua storia. La scrisse finalmente a Milano, nel he caldo d’una nuova passione (e anzi il libro amoroso fu galeotto) per la contessa Antonietta Fagnani Arese, |’« amica i risanata ». ie Per un romanzo (fu detto) quanti romanzi d’amore! Ma ~ di tutte le varie esperienze erotiche (fra le quali Tone at i i

20

testa anche quella di Isabella Tedtochi

Albrizzi, la dotta

iniziatrice di piaceri!) pit calda orma suggellava il libro: la passione politica maturatasi in una peregrinazione devota e memore attraverso quei luoghi che furono poi im-mortalati nei Sepolcri. Le due edizioni posteriori del 1816 e 1817 compirono. il monumento elevato alla « virtlh sconosciuta » di Jacopo Ortis. E per rappresentare fedelmente e con religiosa sincerita la natura, penetrai nel santuario del mio cuore, interrogai le mie passioni, rilessi tutte le malinconiche pagine che io avevo tentato di scrivere quando nell’esiglio, nelle sciagure domestiche, nelle. pubbliche

calamita,

e nella disperazione

dell’amor

mio

vedeva unico rifugio nella tomba: — piansi, ricordandomi le lagrime che io aveva versate: cercai di obliare cid che aveva letto e imparato sui libri, onde esprimere pit originalmente la verita del mio ingegno e gli errori nati in me spontanea_ mente da l’indole del mio ingegno e dalle circostanze de’ miei tempi, € scrissi...

_ Sono ancora parole del Foscolo, nella lettera al Berpmnoldy, del settembre 1808. a Non poteva, e non riusci ad obliare tutto quello che aveva letto nei libri. Troppo risonavano nella sua memoria if Mi versi di Alfieri e di Petrarca e di Dante. E Iacopo pro‘- seggid con enfasi lirica per essersi « avvezzato a pensare e a idoleggiare ii pensieri e cantarli in mente col metodo dei _versi e con frasi diverse in tutto dalla prosa ». Nutrita di itemi poetici, la prosa dell’Ortis fu nutrice della grande poeSia foscoliana. Anzi, a voler ficcare lo sguardo in quella — - recondita ricchezza, ci si troverebbe una rapsodia di tanti motivi da poter comporre un manifesto del nostro romanti-

_ cismo. democratico (Leopardi e Berchet, Mazzini e Verdi,e ee il Verga giovane avrebbero potuto per qualche € sottoscrivere il loro nome). Ma da Alfieri, Foscolo ‘aveva appreso anche il gusto degli stoici, dei moralisti, della Bibbia. L’unico rifugio nella tomba non significo piu la - malattia- « crescente e incurabile » di Werther, ma il « ri-

Medio di certi tempi, come se il troppo terror della morte avvezzasse i mortali a comperarsi la vita a prezzo d’infeicissima serviti ». Il suicidio di rene: che il cristiano

Nirah

Noe

Dante assolveva, come gesto non imitabile eppure eternamente ammonitore! II suicidio politico che il sano Montaigne sentiva di dover. giustificare non meno sulla fede di Tacito che su quella dei Maccabei! E il suicidio di Ortis, benché esemplato su quello dell’Uticense e di Cocceio Nerva, riusci in certo modo l’allegoria moderna di quel seniore di Gerusalemme,

amante

della citta e di buona fama, che

Si uccise per rimanere incontaminato di servitl, ma non essendosi ben colpito, si precipitO sui nemici invasori della sua casa, e ancora vivo dopo la caduta, per proteggere la propria morte, si strappd i visceri con ambe le mani e li gettO in mezzo alla turba accanita. « Fu chi disse che il libro tende unicamente a insinuare negl italiani la passione dell’indipendenza, l’aborrimento ad ogni setta religiosa, letteraria e politica...» E sempre il Foscolo che scrive e che nella sua stessa pagina inorgoglisce per « l’ardire con che ei fin d’allora parlava dell’uomo, che insieme atterri e fece seco ridicola mezza l’Europa ». (Dopo il mercato della sua patria, l’altra cosa che il Foscolo non poteva perdonare a Bonaparte era la vigliaccheria di-non essersi ucciso perché « predominato da spregevole vanita ».) Il supremo valore storico dell’Ortis nella letteratura europea dell’eta napoleonica fu, come disse un traduttore francese, di avere « nel silenzio universale snidata l’anima dell’oppressore comune ». Epperd nel 1819, un nobile spirito francese, il Jouffroy, dopo la lettura dell’Ortis cosi scriveva a commento e quasi ad esame di coscienza di tutta. un’epoca: Un popolo non deve snudare la spada se non per difendere 0 conquistare la sua indipendenza. Se attacca i vicini per aggiogarli, si disonora; se invade il loro territorio col pretesto di fondarvi la liberta, o é ingannato o s’inganna. Violate tutti i diritti d’una nazione per poi ristabilirli, é al tempo stesso la piu strana incoseguenza e la pil ingiusta tra le azioni. La j spada francese fu portata in Germania, 4a Olanda, in Isviz- _t

zera, in Italia.

E fece dovunque funesti miracoli. Si vide bene

che poteva ogni cosa; ma non si vide che cosa avrebbe saputo rispettare.

OF {} th

L’Ortis fu letto, come il « testamento » del secolo XVIII, — 22

« il suo grido di dolore innanzi alla caduta di tutte le illusioni »; e fu davvero diario fedele d’una vita dissipata e provvisoria e sempre incerta del futuro, con « tutte le disperazioni del disinganno, quelle disperazioni da cui escono le nuove illusioni e le nuove speranze ». Cosi il De Sanctis. Ma due illusioni, del Foscolo 1802 e del Foscolo 1815, par-

vero definitivamente tramontate nell’eta del Risorgimento. Quali, sentitelo dal Mazzini: « Una sublime illusione gli dettava quelle ultime parole addirizzate a Bonaparte: Jo odo

vaticinare

RINATO

per te l’universo,

né il di forse é

lontano. Ma Vuniverso non puo rinascer mai per un uomo, quando anche in esso fosse congiunta |’anima di Washington alla mente di Bonaparte. Bensi gli sforzi concordi di tutti i mortali tormentati dagli stessi bisogni, animati dalle stesse speranze possono farlo rinascere e lo faranno ». E sentitelo _ dal Cattaneo, che sulla politica foscoliana scrisse pagine dimenticatissime: « Le ispirazioni sue rispondono piuttosto - alle ineguali liberta del mondo classico, che non a quella -coscienza del diritto, a quell’istinto d’eguaglianza, che investe ognora pil le nazioni moderne. L’idea di Foscolo -sembra aderire piuttosto a una querela per cid che ci sara _ eternamente negato, che non al lucido presagio d’un futuro _ al quale i popoli pensanti, ammaestrandosi tra loro e sor_ reggendosi coll’esempio, si vanno

visibilmente

accostando.

' Veramente egli non aveva fede nel popolo; quasi si com_ piaceva di chiamarlo plebe... E fu egli il primo a gettare in Italia quella vanissima sentenza, che il < rimedio vero sta nel riunire in una sola opinione tutte le sétte ». E idea chihese, idea bizantina; e per essa la Grecia, si feconda quan-

_ dera piena di sétte, giacque per mille anni nel letargo della _ sepolcrale ortodossia bizantina. Ogni sétta che invoca questo sofisma intende

solo imporre

silenzio

alle altre tutte,

_ fuorché a se stessa, e regnare unica e sola >. __ Pure, se il Foscolo non avesse « consumato infelicemente ie vita sua a disperare,di cid ch’era il sospiro dell’anima

"sua > e se nelle sue pagine la sua parola, quand’esce pit _ sconfortata, non suonasse il rimprovero: « maleditemi e _ fate », Iacopo Ortis non sarebbe stato considerato come il

_ protomartire di nuovi ideali. E se le Uliime lettere contehessero queste sole parole di fede (« il genere umano d’ogay Je

23

_vigorosissio iy varrebbe sempre la pena dile ricordarsene. ‘ Ns

3

L’Esopo moderno

Ecco un libro per il quale non c’é la responsabilita di _ parlarne per primi, ma quella opposta di attardarsi a continuare i discorsi critici, mentre il pubblico non cerca di me_ glio che rileggerlo e goderselo in pace, come un classico _ pieno di sapori e facilissimo ad intendersi. Piacevole e leggero. « Di utile riposo », si contenta di concedere lo stesso _ Pancrazi nell’ultimo poscritto alla prefazione, quasi tentato

_ di syalutarlo e dissimulare con modestia la sua soddisfa_ zione per la benevola fortuna. Mentre poi lui stesso, come critico € come scrittore, ci aveva messo sulla buona via alla

_ «discoverta » del vero Esopo, smoralizzandolo innanzi _ tutto dalle « utilitarie » didascalie d’ogni tempo. a Torna a proposito il grave termine vichiano di « disco_ verta », se si pensi al gran posto che occupa il « moral ifilosofo volgare » nella storia ideale disegnata nella Scienza - Nuova. Tra Omero, epigono cantore degli eroi, e i Sette apienti, primi maestri di « morale e civil dottrina » agli uomini, Vico ha collocato Esopo, benché non lo consideri « particolar uomo in natura», ma « genere fantastico >», carattere poetico dei soci ovvero famoli degli eroi ». E

favole attribuite al favoloso inventore sarebbero « avvisi tili al viver civile libero... sensi che nutrivano le plebi ell’eroiche citta, dettati dalla ragion naturale », dati « per miglianze, delle quali piu innanzi si eran serviti i poeti il sillogismo, « poiché Yordine dell’umane idee € d’osserne le cose vant papi per spiegarsi, dappoi per pruoI almente con Vindavione che ne ha bisogno di pit. Onde crate introdusse il sillogismo, che non regge senza un iversale ». E al tempo stesso un ponte di passaggio tra il oi e quello degli uomini, un immaginoso ri-

25

tratto dal vero della « societa lionina » che lego i plebei ai patrizi, i servi ai padroni. Come Tersite, Esopo sarebbe stato raffigurato brutto, perché plebeo e servo e dunque privo di « bellezza civile », il privilegio degli eroi-padroni. Sulle orme del « ben costumato Fedro », Vico é il primo nel Settecento a scoprire il carattere pil segreto dell’Esopo. E se si vuol leggere qualcosa di parimenti sostanzioso sulla favola, bisogna trascurare gli abati e gli arcaducci forestieri e nostrali, dico La Motte, Roberti, Passeroni e simili, e ri-

farsi a Lessing. O a Chamfort, a Voltaire. O magari al nostro Tommaseo che da Vico derivé molti pensieri critici. Chi legge dira che me la prendo troppo da lontano. Ha ragione. Ma io credo che Pancrazi sia da mettere in buona compagnia anche come prefatore. Il suo discorso d’introduzione all’Esopo familiare, divagante, smussato di sorriso,

assomma, senza parere, quanto di pil giudizioso sia stato scritto intorno a questo genere letterario. E il suo giudizio, la sua pronta sensibilita morale fanno poi tutt’uno col suo concreto gusto di scrittura, nell’atto di favoleggiare. Sicché letto e riletto il libro e gustatolo com’é, « a maraviglia di malizia pieno », ci si rifa alla prefazione per essere illuminati su quel segreto che ci sfuggiva da pagina a pagina e ci provocava ora alla meine, ora (ma non spesso) al divertimento. L’ora quella di ciardini, Dunque,

dell’Esopo di nl é davvero, come lui dice, Seneca, di La Rochefoucauld, di Gracian, di Guic-

un’ora adatta a delibare liquori di forte agrume. altro che favole per ragazzi. « Fate » dice Pancrazi « che un nonno legga la favola del lupo e dell’agnello; il nipotino sorride, ma solo il nonno sa e intende ». Dello stesso parere era Rousseau e, curioso effetto del clima di | S. Elena, Napoleone. Il Memoriale lo raffigura col figlioletto del signor Montholon sulle ginocchia, che gli recita~La — Fontaine. E l’'Imperatore é un po’ divertito, un po’ contra-_ riato che insegnino a bambini favole cosi immorali come questa del lupo e dell’agnello: « Il était faux que la raison : du plus fort fat toujours la meilleure; et si cela arrivait en § effet, c’était la le mal, disait-il, labus qu'il s’agissait de —

condamner ».

ea

Malinconie di tutti i moralisti! La verita ¢ che di Esopo —

26

ey:

si pud ripetere quanto € stato scritto di Machiavelli, che al di la del bene e del male, e tanto peggio per chi vuol cavarci dei precetti. Vico ci ammonisce che qui siamo ai tempi della societa leonina. Pancrazi ci fa osservare che il vero re degli animali esopici é la volpe, la volpe dall’anima « variegata ». Diremmo: l’uno e l’altro. Perché Esopo favoleggia ’uomo nel suo eterno momento economico, quando sta «in su la golpe e in sul lione ». « Il rovescio del paradiso terrestre, » dice Pancrazi. Certo é che proprio nel Principe ricorrono questi due emblemi ferini, come a fissare l’immutabile costante della nostra natura (Ce train toujours égal dont marche l'univers, cantava La Fontaine).

Mentre nel Vangelo si parla di pecorelle smarrite o si accenna a quel tal cammello, che, salvo miracoli, non potra passare per la cruna dell’ago (e comunque nessuna parabola, nessuna metafora fa sospettare che nella natura umaha ci sia qualcosa d’irrimediabile, di reluttante all’onnipotenza dello spirito) per Esopo l’uomo é senza decadimenti originari e senza possibilita di progressi verso una perfe-

zione: antico animale, magari con qualche « virtu ». Ma le code moraleggianti sono tutte posticce, sono un pio trucco di pedagoghi. Sospettd giustamente il Tommaseo che _Lepimithion dovette essere introdotto pit tardi. Questa mitopeia nacque nudamente « politica»: come dire nella

citta, allusiva ai perenni conflitti d’interessi (se dobbiamo - credere a Vico, che polis e pélemos abbiano una stessa ra‘dice...). Il furto, la frode, la morte, frequentissimamente la _ morte: ecco i fatti che materiano queste veloci azioni dram-

_matiche. E gia dalla « Premessa » veniamo a sapere che i Beni son volati in cielo e capitano di rado sulla terra, dove «i Mali hanno stanza abituale tra gli uomini ».

Ma noi continuiamo

a parlare di « favole d’Esopo »,

_ perché é comodo sbrigarci di due noiose incertezze, se cioé

quest’Esopo sia mai esistito e se gli si possano attribuire tutte le favole raccolte sotto il suo nome.

C’é, come si sa,

‘anche una « questione esopica » e molto probabilmente la soluzione vichiana, che questo servo frigio sia un puro mito, sara da rifiutare.

A Pancrazi é tornato conto accettarlo, il

mito, e ce l’ha raccontato con tanto garbo da riuscire pit _ Suggestivo di Planude e non meno di Francesco del Tuppo. "ae

mvee ’

SVs

Pee

e

Esopo sara vissuto nel vi secolo a.C., dice Pancrazi, ma

non é morto, Rinasce continuamente

in noi, quando os-

serviamo uno come parla e che fa, e ci nasce spontaneo il

confronto con questa o con quella bestia. Tremenda verita! I sentimenti e i pensieri ci distraggono in continuo dalla nostra animalita. Ma per poco locchio s’abbandoni alYinerzia visiva, la percezione delle nostre forme fisiche ci sorprende come uno spettacolo che pud diventare motivo di riso (cfr. la teoria bergsoniana), ed ¢ fondamentalmente

di calmo orrore. Non so se abbiate mai visto di sott’in su i movimenti d’un viso capovolto. Quest’immagine mostruosa prima di diventar buffa, annulla per un attimo lo schema consueto nel quale noi pensiamo ed amiamo i nostri simili... Ma questo é un esperimento d’eccezione. E invece, perfino il primo subitaneo incontro con una figura umana puo procurarci questa emozione, dalla quale il riso é inavvertita difesa, forse provvidenziale riscatto. Chiameremo questo colpo d’occhio indifferente e primario « contemplazione esopica » dell’umanita? Magari.

Pancrazi nell’acuto Poscritto 1940 (in occasione della riedizione accresciuta ed elegantemente corretta) mi par che — abbia approfondito in questo senso limpassibile intuizione che primo Esopo invento. Mi si scusi un’osservazione. Non sarebbe stato meglio escludere dalla raccolta quelli che sono propriamente aneddoti ed epigrammi, con intenzioni a meta umoristiche, a meta didascaliche, e lasciar parlare solo Parcana voce degli animali sempre e mai trasumananti? | A parte, io credo, arzigogoli e leggende, Esopo fu. E la~ miglior prova della sua esistenza é in quel compatto nucleo di miti e di logi, ossia favole di animali parlanti, che rive-—

lano una ferma situazione di fantasia, una disincantata con-— cezione dell’uomo. A parte un fatto che ha l’aria d’esser proprio

accaduto

(e lo ricorda

anche

Erodoto),

dico la 4

condanna a morte ad opera dei preti di Delfo, Esopo visse. La maggior parte dei suoi miti — trascrivo i pensieri di Lessing, dal suo profondo Discorso sulla favola — dovet-— tero essere ispirati ad avvenimenti reali. Perché il rapport allegorico o metaforico non é tra la favola e la proposizione morale, superflua e postuma giunta, ma tra la favola e

Yavvenimento: una verita sola circola tra finzione e storia’ tay

e le suggella in un’unica (diremmo oggi) surrealta. Tuttavia Pancrazi (questo principalmente importava) nella discoverta del vero Esopo ha percorso anche la via giusta per rammodernarlo, ritrovando le sue favole nell’esperienza e nell’osservazione quotidiana, « di casi e fatti davvero accaduti, figure e volti simili ». Nate la prima volta dalle occasioni, non potevano che rinascere allo stesso modo, povere a panni ed a cintura, nella loro viva nudita. Naturalmente,

per diventare

buon

favolista

non

basta

essere astuti critici o moralisti perspicui, dagli occhi « emissizi » (come quelli della strega di Poliziano), pronti a tutto adocchiare e a scoprire le umane magagne dei propri tempi. Occorre aver trovato l’espressione definitiva, la spontanea cadenza delle parole in un ritmo sicuro, in una forma _chiusa, ripetibile e sempre diversa e sempre sorprendente. Nella prefazione, Pancrazi... Ma non le avete lette? E allora, che cosa aspettate, che vi ricopi qui le pit belle? E quante ne dovrei citare! O che credete che il merito sia tutto del vecchio gobbo frigio, e niente del suo pit mo_ derno imitatore? Da un pezzo mi aggiro tra gli animali parlanti, esteri e ' nazionali, antichi e recenti. Amabilissimi colloqui! E poi la }favola é un genere fatto apposta per i pigti, oltre che per i sognanti umanisti: se ancora ne sopravvivono. Lessing éSD ocande, sotto molti riguardi; ma almeno per chi lo deve leggere tradotto, riesce un po’ duretto, sforzato. Pit mi

_ attalenta, e credo a tutti, il voluttuoso La Fontaine, col suo

_ Musicale verso oscillante con noncuranza tra il racconto e Fs ila lirica. E noi? Noi abbiamo, a conti fatti, Pancrazi. Tanto ha bazzicato Esopo in Toscana, che infine ha trovato il suo uomo. S‘imbatté felicemente in. taluni volgarizzatori del buon secolo che avevano, quello da Siena pit degli altri, la lingua sciolta; ma troppo sciolta (e quello non ci voleva) anche a moraleggiare: li rimise in onore il purismo, poi sparirono di nuovo. Ma nel Medio Evo Esopo fu ben vivo —€ sorrise anche nell’Inferno di Dante. S’affaccio spesso sul _ pulpito (e trovd, poi, che sembrava tagliata su misura, la

festevole tonaca di S. Bernardino). Ma ammiccé con libera malizia solo nelle ottave claudicanti di Luigi Pulci. Cosi, tra Umanesimo e Rinascimento, venne l’ora buona

per toglierlo di mano ai pedagoghi. Pero il merito non fu tanto di chi lo imitd in latino (Alberti, Valla), ma del Firenzuola, del Baldi e del, poco noto, favolista Leonardo.

Leonardo, il nostro Lessing. E il nostro La Fontaine? Ariosto (se ne avesse scritte di pit. di quelle Satire!). Ma ormai, attraversando la Garfagnana, ci allontaniamo dalla regione elefta di Esopo. Che, si, scese fino a Napoli e parlo mezzo napoletano con Del Tuppo, e « asacagno », rise cioé sazio, scialandosi a bocca aperta. Ma un po’ per colpa dei dialettismi, un po’ per quel grosso bagaglio di allegorie, anagogie, eccetera, di vieta marca medievale, fu messo tra Ie anticaglie. Peccato! Tutte le risciacquature favolistiche del nostro Settecento non valgono la limpida fontanella di Del Tuppo, e a quel profumoso utilitarismo son sempre da preferire le sparate energiche dell’avvocato partenopeo. L’abate Bertola almeno scrisse un bel discorso critico, ric-

co di discernimento e finissimi giudizi. Ma per chi scrisse che la moralita

della favola dev’essere

« breve, vibrata



e ©

luminosa >»? Né per sé, né per gl’italiani del suo secolo. Anticipo le parole per l’elogio di Pancrazi. Non credo d’errare affermando che quest’Esopo dei nostri tempi sara tra i pochissimi libri resistenti all’usura degli anni e ai capricci delle mode. A impiantare paragoni con quello greco, facilmente accresceremmo le delicate sciocchezze profuse sull’ellenismo dai moderni.

Questo

so, che

le favole di Pancrazi si bevono come certi asciutti vini della

sua terra, pit alcolici di quanto sembrino, curati e filtrati a perfezione, puro succo d’uve premute sino all’amaro dei raspi e dei vinacciuoli. Bevi, e chi pensa pit alle amorevoli cure, ai mille travasi e cambiamenti? II filtro poi era, dei mi_ gliori, ’ottimo; era la traduzione di Tommaseo. Quanto ha ~

insegnato a Pancrazi, ma com’é stato bravo il discepolo! « Amiamo la favola (diceva il vecchio dalmata), ch’é so- | rella del simbolo: amiamola schietta e giovane quale ysci dalle snelle menti de’ Greci; vendicatrice elegante e mo- | desta e veloce degli umani doveri e diritti ». Fatta la tara sui « doveri e diritti » (’immancabile clausola gnomica), la¢ |

favola sorella del simbolo e dell’epigramma é stato Videale— che si é proposto Pancrazi. E grande vantaggio sul maestro — era d’esser toscano non per nobilta di studi, ma per nativo

30

ie

ingegno, e di saper fuggire le arguzie linguaiole, troppo soggette alla ruggine del tempo, e di saper scorciare l’espressione senza scavarsi a forza la strada. La saggia dosatura del sale e del pepe! Corte o lunghe (le lunghe son rare), le favole di Pancrazi non pesano un’oncia pit del necessario. Un po’ magri e tuttavia non con l’ossa di fuori (», _ ben distinta dall’istituto romano e da quella del proletariato, con la quale una facile polemica

vorrebbe

confondere

il mussolinismo e Vhitlerismo. L’altro inedito, purtroppo _ frammentario, ma non meno interessante e ricco di spunti _ suggestivi, riguarda il concetto di classe dirigente, con particolare considerazione alla societa italiana. In questi studi come nel commento a uno scritto meridionalista di Gramsci (riportato in appendice alla ristampa di Rivoluzione Meridionale) sono da cercare gli ultimi e pit interes_santi sviluppi del pensiero di Dorso. Tanto pit interessanti 49

in quanto egli, partito dal classismo~ politico di sociologi conservatori, giungeva a conclusioni assai vicine al classismo

economico,

per

vie

che

ignoravano

la dialettica

marxista. Ma per quanto grandi fossero le simpatie di Dorso per il Partito Comunista, esse trovano un limite oltreché nella sua formazione

culturale, nella sua speranza

di un partito

autonomista del Mezzagiorno. Fedele a questa sua utopia, alla vigilia della campagna per la Costituente, aveva rifiutate tutte le offerte che gli vennero fatte (e quelle pit lusinghiere, piu rispettose del suo ingegno e della sua statura intellettuale gli giunsero da Togliatti). Inseguiva il suo fantasma, volle partecipare nelle condizioni piu sfavorevoli alla lotta elettorale. Esule dalla sua Irpinia (come del resto in altri tempi tocco a un parlamentare, tanto pit noto ed illustre, Francesco De Sanctis) Si era presentato candidato in Puglia e in Lucania. Ma benché degnissimamente onorato dalla propaganda dei suoi compagni di lista e pur raccogliendo cospicui suffragi, non fu eletto alla Costituente repubblicana, da cui tutto il Mez-

zogiorno si é ripromesso un degno avvenire. Al vertice del nuovo Stato veniva insediato uno dei pit insigni rappresentanti meridionali della vecchia classe dirigente, contro cui Dorso aveva cosi aspramente polemizzato. Ma non era forse questa la catarsi finale, non era lultimo atto del trasformismo, oramai non pit artefice di com-

promessi istituzionali, ma ridotto a mero simbolo d’una incontenibile volonta di progresso? Malato, colmo di amarezza, Dorso sembrava lui lo sconfitto, proprio quando in- cominciava la rivoluzione meridionale: quando, rovesciatasi la « dialettica dei partiti », monarchici, separatisti e reazionari in qualunque modo travestiti sono costretti a fare un loro meridionalismo di opposizione; e mentre lautonomismo minaccia di diventare uno strumento conserva-

tore, i partiti unitari di sinistra assumono essi il grave compito storico del rinnovamento sociale e politico del Sud. Per altre vie da quelle sognate da Dorso, la « rivoluzione »-T liberale » del Mezzogiorno é cominciata. E vengono in men- — te per lui le splendide parole ch’egli scrisse in uno studio. sul Mazzini, « politico dellirrealta » : 50

Che importa se la storia sembra continuare a dar torto agli ideali, se essi si radicano nell’intimita di quello stesso sviluppo che sembra disconoscerli? Che importa se l’inconsapevolezza della rivoluzione favorisce la conservazione, se questa € continuamente insidiata dal suo spirito d’intrigo e dall’assenza di luce ideale? Che importa se i rivoluzionari marciano portando nel sacco lo spirito di compromesso? Lentamente le promesse intime si realizzeranno, le moltitudini, per vie diverse e imprevedibili, irromperanno sulla scena politica, i sentimenti ele aspirazioni delle classi dirigenti muteranno,

e

gli ideali,

distanti

ed

inaccessibili,

si avvici-

neranno. La realta, quel piccolo tratto di realta su cui avrete ancorato il vostro compromesso, svanira nella storia, e l'irrealta, derisa e misconosciuta, si concretera lungo le vie del tempo.

Politico dell’irrealta anche lui, Guido Dorso, il machiavellico profeta disarmato di quella splendida irrealta che oggi pili che mai ci arride, di un Mezzogiorno strappato alla barbarie africana, al fatalismo del « non c’é nulla da fare » e ricongiunto all’Europa, di cui sono cittadini ideali i suoi figli migliori, Stringe il cuore che Dorso sia morto con la deserta passione di continuare gli studi, ai quali il suo pensiero ricorreva con vani propositi negli ultimi giorni: i suoi studi, e oggetto quasi d’angoscia, la sua tenera bambina ch’egli sapeva di lasciare quasi in miseria. Ma la sua fine € stata serena, evangelicamente rassegnata alla vo-

lonta divina, benché abbia rifiutato di confessare il suo Dio

al sacerdote cattolico. Ora é di la. Non passeggeremo pit con lui nell’ozioso corso della nostra Avellino, o all’ombra dei secolari platani, sulla via che Bernardo Tanucci lanciava per il progresso civile del « Regno ». Ma forse verra il giorno che i -contadini meridionali sapranno e parleranno di lui, e il mietitore, posando all’ombra d’una siepe, lo vedra, presso, ‘un‘isca pietrosa dell’Ofanto, discorrere con le grandi ombre _ di Carlo Pisacane, di Antonio Labriola e di Giustino Fortunato, soavemente

d’accordo,

come

solo i morti possono

essere tra loro, e sorridenti a noi vivi, come solo sorridono i morti, ispirandoci potente malinconia di vita, di pensieri e di opere, d’incorruttibile fede. 1947 Si

5

Leggenda e verita di Carlo Levi

Quando lessi il manoscritto del libro ormai famoso di Carlo Levi, Cristo s’é fermato a Eboli, osservai scherzando

al’autore che la sua discesa nel Mezzogiorno aveva fatto epoca, segnava il cominciare di un’era. Se Cristo non é giunto ancora a redimere le desolate plaghe della Lucania, tutte chiuse nel loro dolore terrestre, se « Cristo s’é fermato

a Eboli»,

come

‘ sua immobile

dice laggit quella gente rassegnata

civilta contadina,

la discesa di Carlo

alla Levi,

pittore e medico, stregone e scrittore, € rappresentata nel suo stesso libro come una vera Epifania, come lavvento e la rivelazione di una divinita da adorare. E non mi si dia del chierico bizzarro, che vuol consegnare ai posteri la figura di uno scrittore cosi noto, avvolgendolo in un nimbo di leggenda, proprio come certi letterati del] Due e del Trecento si compiacquero travestire Virgilio da negromante, taumaturgo e protettore dei napoletani. Alla sua leggenda Carlo Levi ha provveduto riccamente da sé, e chi non presti adeguata attenzione a lui in quanto personaggio essenziale del suo libro, fraintende lopera e si lascia distrarre dal suo argomento: soprattutto non riesce a cogliere la situazione psicologica e artistica nella quale s’é collocato l’autore. Prima che il provvido regime fascista pensasse di confinarlo in provincia di Matera, Carlo Levi aveva maturato la sua esperienza di vita e di cultura nella Torino gobettiana, piena di entusiasmi illuministici, ben desta, al soffio ir-

-requieto del primo dopoguerra mondiale, dalla sua sonnolenza di provincia, e decisa a combattere in nome del mito generoso di una « rivoluzione liberale » quel rigurgito di cafoneria e d’anticaglia, d’ignoranza e di violenza, quale ci apparve il fascismo prima che ne imparassimo a comprendere i motivi di classe e le origini economiche. ‘Alla natura olimpica di Carlo Levi, lauta e versatile, 52

ma un po’ frigida e pigra, questo ambiente esercito utilmente i suoi stimoli. Tra un viaggio e l’altro per ’Europa, egli passO dagli studi di medicina, alla pittura, alla cospirazione, al giornalismo politico, agli studi religiosi. Tutto questo, col distacco del dilettante autentico, cioé d’ingegno, “e€ con un animo naturalmente libero: un animo un po’ raro a trovarsi nel nostro paese, dove una lunga vicenda di regimi reazionari e clericali ci ha reso o indolentemente servi, 0 disperati, atrabiliari cercatori di una trascendente

liberta. Quell’antifascista dell’« altra » Italia si doveva ritenere piu che preparato culturalmente e psicologicamente a intendere il Sud. Egli apparteneva a quel gruppo d’intellettuali che si erano radunati intorno a Gobetti, realizzando ~ una feconda intesa con i Fortunato e i Salvemini, e soprat-

tutto coi Dorso e gli altri giovani meridionalisti del Sud e del Nord, persuasi della necessita di riproporre la questione meridionale secondo nuove prospettive. E giungeva nel Mezzogiorno al tempo della guerra etiopica: nel momento critico in cui il regime riusci a consolidarsi anche fra la piccola borghesia meridionale, conquistandola sentimentalmente con la retorica nazionalista e archeologica dell’« Impero », € con miraggi di avventura e di benessere. Oltre dieci anni di fascismo erano trascorsi quando Levi é sceso in Lucania, altri dieci anni sono trascorsi fra la di-

scesa e la composizione del suo libro. In questo secondo decennio Vhitlerismo aveva offerto a Levi materia di fruttuose considerazioni sui rapporti (per dirla con Freud) fra « totem » e « tabU », rapporti che l’avvento al potere della trib: nazista avvicinava stranamente all’esperienza politicoreligiosa delle civilta primitive. Cosi, all’inizio della séconda guerra mondiale, capitato in luogo deserto della Francia e meditando su una Bibbia _

(unico libro della sua solitudine) Carlo Levi aveva scritto un saggio, La paura della liberta, che costituisce un diffuso

presupposto teorico di quella specie di misteriosofia che appare qua ¢ la nel Cristo, combinata alla psicoanalisi, quando Vautore discorre, del suo prestigio di stregone e degli aspetti religiosi della civilta contadina. E qui torniamo a quanto dicevo innanzi. Fin dal primo _ capitolo di Cristo s’é fermato a Eboli, ci rendiamo conto. 53

che, se ha importanza il problema com’é apparsa la Lucania a Carlo Levi, c’é un problema almeno altrettanto im-

portante e anzi pregiudiziale: com’é apparso Levi alla Lucania. Questo confinato politico che arriva*in Lucania a Gagliano, con le mani

« impedite » e fra i carabinieri, é un per-

sonaggio d’eccezione. Egli é gia stato al confino in un paese poco lontano, la sua fama di medico improvwvisato si é sparsa nella contrada, ci sono dei contadini che l’attendono

e, supplici, gli baciano la mano perché accorra a guarire un malato. Dopo Pomaggio tra feudale e religioso dei contadini sara la volta dei galantuomini, che a cominciare dal Podesta, subiranno in misura diversa e in diretta proporzione del loro coraggio, il fascino del confinato incantatore, che presto si avviera, grandeggiando, verso l’apoteosi. La complicita delle streghe paesane, i loro stessi filtri magici, lo aiuteranno misteriosamente a penetrare nel mondo chiuso, velato di veli neri, sanguigno e terrestre, nelValtro mondo

dei contadini, dove non

si entra senza una

chiave di magia. Ma soprattutto grazie alla complicita del suo intuito di artista, della sua insinuante condiscendenza,

fatta di tempestivo riserbo e di controllati abbandoni confidenziali, secondo un piano di conquista psicologica, degno di un eroe di Stendhal, Levi penetrera in questo universo « stabilito e geloso » dove ai margini delle antichissime costumanze contadine, vegeta la miseria della piccola borghesia, incattivita dall’odio e dall’invidia. Con l’abito di velluto confezionato dal sarto italo-americano del luogo e col cane Barone, che agli occhi ammirati dei gaglianesi pare « un animale araldico, il leone rampante sullo scudo di un Signore », Carlo Levi non sara piu, ormai, il confinato, ma il feudatario di Gagliano. La miseria dei signori locali fa risplendere ancora di piu il suo tratto gentile e la sua liberalita di principe esotico. E dopo che il Podesta diventa il suo proto-carceriere, (buffo miscuglio di protettore e di protetto) tutti si invassallano all’impareggiabile don Carlo: un barbiere gli fa da segretario, quel- — Vangelo gobbo dellufficiale postale gli permette di leggere le lettere prima che siano inviate alla censura prefettizia, le streghe gli fanno da cameriere e da mistagoghe, le donne 54

— chi pit, chi meno — lo disiano, pulzelle e maritate, i bambini fanno a gara a portare i suoi arnesi quando esce a dipingere, e a carnevale inneggeranno sui « cupi-cupi » al suo baronaggio: E don

sona

Carlo

é nu

varone,

cupille si voi sona.

I medici del luogo cedono alla sua concorrenza e se non Pamano, lo temono. Don Carlo é uno strano taumaturgo che nelle sue cure si serve di medicamenti

ultra-moderni,

senza rifiutare l’alleanza degli abracadabra e di altre formule magiche. Come il principe di Stigliano, secondo il mito di laggit, libero quelle terre dai draghi, cosi don Carlo

-

é venuto a liberare la gente dai medicaciucci, dalla malaria

e da cento altri malanni. A Natale gli spettera quindi ritualmente lofferta che, memore di secolari servaggi, questa povera, devota gente va a deporre alle case dei signori. E quando la prefettura di Matera avvertita dai « ricorsi >», cioé dalle proteste di qualche malevolo e preoccupata della fama e della potenza di don Carlo, interviene a proibirgli di esercitare la professione, la gente, oltre a non tener con-

to affatto del divieto, protesta con una specie di dramma satirico, dove don Carlo, assistendo alla mitica rappresentazione (« ci andai anch’io, e mi fu fatto largo ») ha modo

didentificarsi agevolmente nel dottore in bianco che (in contrasto col dottore in nero) personifica l’angelo o il genio del bene, perseguitato dall’avverso tirannico potere di Ro- © ma. Cosi, il suo prestigio naturale di forestiero che viene da lontano e che percid é come un Dio, « riceve dagli oscu-

ri mitografi e drammaturghi del luogo un poetico riconoscimento ». E cosi nasce a Gagliano la leggenda di Carlo Levi, a cui egli stesso tanto contributo autorevole avrebbe dato col suo racconto e con la candida magnificenza di

qualche confessione tra tommaseiana e dannunziana (« mi avveniva mio malgrado di assumere su di me i loro mali, come una mia colpa »). Egli € convinto di avere in sé una

doppia natura, « mezzo barone e mezzo leone », come il suo cane e anche questo essere strano (da lui favolosamen__ te dipinto), con la sua natura misteriosa, col potere evocaNady ,,

a

Bi.

55)

tore e magico ch’esso esercita sui gaglianesi, gli consentira di stabilire una comunione soprannaturale col mondo contadino immerso nel suo « incanto animalesco » dove non c’é posto per la religione appunto perché tutto partecipa della divinita, perché

tutto é realmente

e non

simbolica-

mente divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra... Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose,

degl’infiniti terrestri dei del villaggio, inter quos Vimpareggiabile don Carlo, barone e sacerdote, anzi (come vedremo) tabu.

Si pensi ai suoi rapporti con la strega contadina che lo serve e che nel suo istinto raffinatissimo riverisce in lui non solo il taumaturgo ma il pittore, il leonardesco, terribile « signore della natura », capace di acquistare potere assoluto sulle persone e sulle cose ch’egli ritrae. Quando la strega-cameriera, insaponandolo nel bagno, loda la sua grassezza (« primo segno di bellezza come nei paesi d’oriente ») noi ci rendiamo pienamente conto di questa che ho -chiamata epifania lucana di Carlo Levi, roseo, grasso, lu-

cente nume apparso nel paese dei malarici lucani, denutriti e bruciati dal sole. E si pensi a quella pagina, dove la santarcangelese ormai sottomessa a lui totalmente, lo sogna

allapice della gloria: Doyreste fare lo stregone. — diceva,

quando

fatto il prete: un attore, che prete, medico virtt del Rofé

mi sentiva

Con eguale serieta Giulia mi

cantare:



Peccato

che

non

hai

hai una cosi bella voce. — Per lei il prete era cantava per tutti in modo degno, le lodi di Dio; e mago per la Giulia avrei assommato tutte le orientale, del guaritore sacro.

E infatti non passera molto tempo, che don Liguori, il prete grasso del villaggio, succeduto al misero e reietto don Trajella, intuendo certe qualita sacerdotali di don Carlo, non esita a servirsi di lui per attrarre la gente in chiesa e ricondurre all’ovile le « eretiche » pecorelle di Gagliano. Don Carlo acconsente e almeno per quel giorno, per quel giorno solo, la chiesa si affolla non

perché Cristo

abbia

- varcato i monti di Eboli, ma perché Don Carlo ha accompagnato con l’organo la messa cantata.

56

| a

A questo punto il libro non pud che concludersi. Da Roma ('Impero é tornato sui colli fatali) viene Vordine di rimpatrio per il confinato. I contadini non vogliono Iasciarlo partire: don Carlo sposera una ricca zitella « vacantia », e cosi restera a Gagliano. Quando si avvicina il giorno della partenza minacciano di bucare le ruote dell’automobile... Par di leggere le pagine finali di Typee, le avventure di Melville alle isole Marchesi: « Kannaka (indigeni) non permetteranno andare in nessun luogo... Voi, tabu >. Avrebbero dunque ragione certi lettori a dubitare che questo libro di Levi (per dirla con le parole di laggit) non é un libro « legittimo », bensi un libro « affatturato »? Tutti quegli ingenui meridionali, che vorrebbero verificare la '« legittimita » del libro, come se fosse sul serio un giornale di viaggio presso qualche remota tribii di colore, e si sdegnano se ne ha talora l’apparenza, sono delle vittime necesSarie di un artistico miraggio, vittime per meglio dire della loro stessa incapacita di distinguere il vero dal reale. Ci sono tra i moderni, degli ingegni artistici naturalmen‘te mistificatori, per ricchezza di dono e non per poverta ‘simulatrice. La splendida salute della loro oratoria li porta | a vagheggiare talismani, a far sogni di potenza. Ma un gran talismano é gia in loro possesso, ed é la loro fantasia, la loro capacita di adattamento, di finzione, di mimesi. Naturalmente

nemmeno

la loro persona

si sottrae

a questa

orza estetizzante: i confini tra mimesi artistica e mimesi atica finiscono talora per annullarsi. Sulla via che Cristo on ha mai percorso e non potra mai percorrere, una via he s *indeserta e s’allontana miticamente nel tempo e nello -spazio, fra totem e tabu, Carlo Levi é stato messo dal deino. Ma li lo portava la sua vocazione, quello era il mondo sognato dalla sua poetica: un mondo senza Storia, un ‘mondo chiuso alla Liberta ¢ alla Ragione. Nell’era tremena

del totalitarismo,

lartista che

insegua

una

razionale

Jtopia libertaria non pud non essere attratto dalla Citta t elle Tenebre. Per avventurarsi e conoscerne i segreti, accettera, se occorre, qualsiasi mimetizzazione, qualsiasi ruoUno schiaffo alla serva-strega sara un gesto di potenza cessario per ae la sua natura:

Si

Appena vide e senti Je mie mani alzate, il viso della Giulia si copri di uno sfavillio di beatitudine e si aperse ad un sorriso felice a mostrare i suoi denti di lupo. Come prevedevo nulla era pit! desiderabile per lei che di essere dominata da una forza assoluta... Cosi potei dipingerla, col suo scialle nero che le incorniciava l’antico, giallo viso di serpente.

Episodi siffatti, per la loro verita umana, non possono far dubitare della « legittimita » del libro. C’é un altro episodio, nel quale il personaggio di don Carlo si realizza in pieno. Ricordate quando si reca a visitare un contadino moribondo e per gl’indugi frapposti dalle autorita giunge troppo tardi? Impotente di fronte alla morte, egli si sente assorbire da una calma cosmica che dilaga a una felicita ‘non mai provata, al senso fluente di un’infinita pienezza. Oppresso dal dolore dei superstiti, esce alla luce del mattino sulle orme

della sua ebbrezza di vita e di salute, fin-.

ché s’*imbatte nel brigadiere che (non si sa mai) era venuto a cercarlo: Sui cespugli di ginestra saltellavano gli uccelli, dei grossi merli neri, che si levavano in volo al nostro passaggio. — Vuol tirare, dottore? — mi disse il brigadiere, e mi passo

il moschetto. Del merlo che colpii non rimasero che le penne che scesero lente per l’aria: il corpo doveva essere andato in pezzi a quel colpo a palla, cosi sproporzionato, e non ci fermammo a cercarlo.

Un brigante non avrebbe ucciso un uomo con migliore eleganza. E don Carlo, collocato nel mondo della Iliberta, imita la logica istintiva del fuorilegge Ninco-Nanco, con tutti 1 suoi oscuri passaggi. Mi par chiaro che la prospettiva tradizionale della letteratura in cui il Mezzogiorno é€ protagonista, nel libro di Levi € capovolta. In Verga, in Alvaro, in Vittorini é sempre uno della « tribt » che parla. Vittorini con i suoi astratti furori; Alvaro con la sua assorta memoria; Verga piu di tutti eloquente, col. silenzio della sua grave « impassibilita ». Non Si potrebbero citare scrittori umanamente e artisticamente piu remoti dal gusto di Levi. In Levi tuttavia quel distacco dalla materia, che sembra 58

c

perfino avventuroso e giocondo, e che non é indifferenza, nasce da una emozione

intensa, forse la pit alta della sua

vita d’artista. Io non so se i sentimenti elementari, insorti laggit sotto forma di devozione per questo falso nume in tante anime appassionate, abbiano contato qualcosa per lui. Ma

in quell’atmosfera

« numinosa », non

credo

si possa,

senza conseguenze, dilettarsi ad assumere la parte del nume. Nel cuore incommosso del nostro terrestre Iddio, a cui

tutte le arti di Apollo furono rivelate e tutte le scaltrezze dei suoi preti, m’é parso di sentir vibrare il sentimento della forte esclusione che gli ha inflitto la « civilta nera » dei contadini. La solitudine pratica del confino si é convertita nella solitudine attenta ed intera dell’artista. Gli uomini e il paesaggio della Lucania gli hanno dovuto far sentire quei limiti piu intimi, quel divieto assoluto da cui soltanto

nasce, per liberazione,

un’emozione

poetica.

Ahimeé, anche nel buio cuore di un nume puo annidarsi la « noia zodiacale » che esala spontaneamente dall’apatico fluire dei giorni: crai e pescrai, pescrillo e pescrullo, e maruflo e maruflone e maruflicchio

(come suona la cantilena

ironica di laggit). E appunto sulla lentezza dei giorni che si prolungano in questo domani assurdo (cioé in un eterno mai), Carlo Levi ha saputo misurare il ritmo della sua nar--

razione e il taglio di molti capitoli, che si chiudono come quadri, con un paesaggio serale, sul vuoto del cielo. Né a questo elegante gusto della composizione contrasta il piacere avventuroso di narrare. Onde quella organica placidita di discorso, fluente con egual forza ed agio, sia che l’autore favoleggi e arcaicizzi la « civilta contadina », sia che accondiscenda a ironizzare con benevola distanza la miseria morale dei « galantuomini », sia che ritragga la reale solitudine umana di se stesso o di altri personaggi, immobilmente stagliati nel deserto delle argille lucane, senza colore di tempo. Levi ha raccontato il libro cento volte ai suoi amici, e

poi ha finito per scriverlo. Sicché non ha avuto troppo bisogno di ricercar le parole, e gli é nata quasi sotto la penna questa sua bella prosa senza vezzi, chiara, nutrita, riposata,

splendidamente anacronistica rispetto a certo automatismo dei neo-realisti, a certo affannoso, mitragliante dialogare:

bis

59

che sono ideali di bellezza neurastenica. Le stesse pagine degne di antologia hanno il pregio di non far stacco sul resto, di non

far « capitolo », di non

cadere

cioé in quel

genere che caratterizza, a mio parere, una certa impotenza a descrivere e a narrare (continuo rinvio da immagine a immagine, ricorso ai « come », ai « pareva » e altrettanti espedienti cari ai prosatori dalle mani dolci). Se ci sono delle pagine che si espungono sono forse quelle di carattere politico, che confermano la preparazione e le origini culturali dell’autore, quell’illuminismo gobettiano che nella figura della sorella medichessa trova la sua migliore, anche se

costruita, personificazione. Queste pagine non aggiungono nulla alla funzione « progressista » del libro. Quando Levi dice che il Mezzogiorno deve superare il suo complesso di inferiorita, dice giusto; ma consegue una vera efficacia politica proprio quando rappresenta questo complesso d’inferiorita e di paura della liberta (anche se poi, come artista,

€ portato-ad amare e a conservare questo mondo cosi com’é e come

deve essere nella sua fantasia). Senza contare,

che

per una coincidenza fortunata, mentre la sua poetica tende ad allontanare il Mezzogiorno pit. che l’India e la Cina, il Mezzogiorno oggi, sollecitato da opposti interessi reazionari e democratici, tende ad uscire dalla sua immobilita, ed

€ politicamente e socialmente vivo, in agitazione e in movimento per avvicinarsi e ricongiungersi all’« altra » Italia. Cristo s’é fermato a Eboli ha avuto un successo enorme,

e continuera ad averne soprattutto presso gli stranieri, forse anche per i suoi richiami di contenuto al genere medicoletterario, assai fortunato, forse perché questa Lucania ricorda lincanto ancestrale di certa Italia’ di Lawrence. Quando un libro sorprende l’entusiasmo dei lettori la cosa pit: facile é trovargli delle parentele con libri gia affermati. A Mario Soldati la prosa di Levi (sara per l'uso delizioso e grato del discorso indiretto?) ricorda quella di Massimo d’Azeglio. Levi, che a differenza di Churchill e d’Azeglio,

€ un pittore, non pud sospettare una malignita in questo giudizio. Nemmeno come scrittore. Forse gia vede le patrie storie letterarie collocare il suo libro (degnamente, anche se

eccentricamente) in una tradizione piemontese di autobiografie ormai classiche: dalla Vita del superuomo di buona 60

pasta Vittorio Alfieri, alle memorie demiurgiche di Giovanni Giolitti. 1946 Molti letterati italiani da venticinque lettori furono felici quando usci il secondo libro di Carlo Levi, La paura della liberta.

Avete

visto?

(dissero).

Un’opera

come

Cristo

s’é

fermato a Eboli non la tirera pit flfori, € stata casuale e fin troppo fortunata. In realta quel secondo saggio era stato scritto prima, tra il °41 e il 42, quando « un vento di morte e di oscura reli‘gione sconvolgeva gli antichi Stati d’Europa ». Destinato a pubblicarsi durante il fascismo era stato composto in una prosa segreta e ipercalittica. Levi sprofondava in un suo « Medioevo dell’anima », indulgeva a un capriccioso vichismo, servendosi della Bibbia come di un testo dove sa-

rebbero

(secondo lui) allegorizzati in eterno

i destini del-

YPumanita, dove sarebbe quindi possibile decifrare i piu oscuri e barbarici miti del nostro tempo. Questa ambiziosa _ introduzione a una specie di « summa» dei pil svariati argomenti, ebbe scarso successo; e dal punto di vista filosofico e ideologico ha interessato solo qualche intellettuale americano, che ha salutato in Levi un novello Joseph De Maistre. Fiera compagnia, ahimé, il santo padre della reazione europea per uno scrittore che si professa di sinistra! _ Ma La paura della liberta, se un pregio aveva, era proprio _ quello di confermare la necessita artistica del Cristo. Era _ infatti la poetica (anarchica e inevitabilmente contraddittofia) di chi, respinto come uomo e attratto come scrittore _ dal fascino della Illiberta, cercava di comprendere come la _ tirannide in pieno secolo ventesimo avesse ricostruito i suoi antichissimi idoli, per asservire gli uomini e scatenarli alla

conquista e alla strage. Nella tremenda

involuzione

che

_ fascismo e nazismo hanno tentato di far subire al mondo _moderno, Levi, astraendo dal processo storico e dai fatti

_ economici, credeva solo di scoprire un grande ritorno di . primitive superstizioni. La sua poetica era portata dunque a inventarsi la realta in un immobile mito. Levi sognava un mondo senza Storia, chiuso alla Liberta e alla Ragione.

61

E per questo gli parve di scoprirlo in Lucania, nella « civilta nera » dei contadini dove sembrava che non fosse mai accaduto nulla, e neppure Cristo, secondo un rassegnato proverbio di laggit, sarebbe mai arrivato. La magnifica fantasia di Levi ci presento questa leggenda come una storia vera, anzi molto pit vera della storia effimera dell’impero tornato sui colli fatali di Roma: la storia a cul prestava fede don Luigino e la piccola borghesia stivalonata. Ma nella leggenda Levi aveva racchiuso uno splendido pamphlet antifascista, destinato a far capire al Luigini irriducibili che andare in Abissinia era piuttosto ridicolo per un paese come il nostro dove c’é da risolvere una questione meridionale. Dipingendo la Lucania come un mondo incredibilmente primitivo, l’arte di Levi, benché im-

plicata in una poetica decadentistica, riproponeva in tutta la sua urgenza un problema la cui risoluzione puo contribuire a dare all’Italia la qualifica di paese moderno e civile. Nell’Orologio Levi continua la sua autobiografia leggendaria. Ma non si accampa come il protagonista del libro. Nel Cristo si era raffigurato come una divinita solare. Ora invece appare come una divinita notturna, mezzo gufo e mezzo serpente, giustapposto con molta discrezione (che non vuol dire confuso) ad altre divinita allo stato imperfetto di uomini-uccelli: un gruppo di Dei che ha fallito per eccesso di « realistici » voli tra cielo e terra. Sono gli Dei di un partito social-liberal-democratico (noto col nome di Partito d’Azione) il cui giornale Carlo Levi era stato chiamato a dirigere a Roma in quei tempi... Erano i tempi in cui questo partito molto faceva arrabbiare Benedetto Croce e molto divertire Guglielmo Giannini. Non a caso sono 1 soli nomi autentici che con quello del bandito Giuliano ricorrono nell’Orologio: la storia € sempre partigiana, ma la leggenda nasce talvolta sotto i segni del liberalismo, del qualunquismo e dell’anarchia. Cera

stato un momento

in cui gli uomini

tutti uniti tra di loro e col mondo,

e avevano

si erano

sentiti

visto la morte

e vissuto in un’aria comune. Questo momento non era finito del tutto; continuava nella gente che imparava a vivere negli errori e nei dolori, che frugava tra le macerie, che sapeva di esistere e rinunciava alle cose perdute.

62

Fedele alla sua poetica decadentistica, al gusto della bellezza di cid che muore, Levi ritrae gli uomini del suo partito al momento della crisi Parri, quando la Resistenza fu sconfitta, quando non nasceva « un secondo Risorgimento », ma il primo gettava gli ultimi bagliori del crepuscolo. Fra il vento del Nord e il vento del Sud si insinuava il ponentino di Roma,

che veniva di lontano, dall’Atlantico,

e€ ci riportava la decrepita caravella di De Gasperi, camuffata da nave Erp, e pronta a raccogliere i naufraghi, purché fossero

disposti a trasformarsi,

da mediatori

sublimi

della politica pura, in concreti sensali e manutengoli. Dispersi, abbandonati alle loro labili sorti individuali, gli uomini-uccelli della social-liberal-democrazia appaiono fin troppo spennati all’occhio socchiusamente altero di Carlo ~ Levi. Lo stesso omaggio a Parri (tra le pagine pit alte del libro), il suo ritratto grigio, autunnale e funebre, intriso di fedeli lacrime di brina, é circonfuso di un alone mazziniano

di sconfitta troppo romantico perché « Maurizio » ci appaia nella sua realta intera. Come se la sconfitta fosse stata individuale! E come $e questi individui avessero contato per i loro voli utopistici e non gia per quello che effettivamente operarono, quando gli eventi rendevano ognuno maggior di se stesso. Qui tocchiamo i limiti della poetica di Levi, del suo gusto per la leggenda. La situazione in cui si colloca il contenuto della sua arte in questo libro é l’immobilita, il tempo senza tempo contemplato col rotondo occhio del gufo, Puccello crepuscolare di Minerva, caro a Baudelaire, angelo araldico del Giudizio finale e simbolo di una platonica illusione che si possa trascendere il moto e la vita, e pascersi nel desiderio del moto e della vita, della lotta e dell’amore,

in una infinita, inconsumabile nostalgia. Anche per la Roma di De Gasperi, come per la Lucania di Mussolini non é successo nulla. Apparenza di storia l’impero mussoliniano, _ che i contadini non capivano. Apparenza di storia la Re-

aS

«

sistenza, il tentativo di fondare lo Stato democratico, che i

milioni di Luigini, le inerti forze parassitarie e burocratiche di Roma e d'Italia, hanno preteso di ignorare. Siamo sempre allo Stato di Carita seicentesco, nel quadro della Guerra, della Peste e della Carestia, col clero che dirige, con lo

oA

:=

63

straniero che comanda, con uno sfacelo di mendicanti, che

son ricchi tuttavia di rassegnazione e son certi che almeno un miracolo per ciascuno da qualche Santo protettore non manchera, a tutelare le « infinite sorti individuali ». E tutta

qui la realta del nostro paese? No, evidentemente no. E solo la leggenda che ce ne da Carlo Levi. E leggenda non vuol dir menzogna, ma delibazione, « saggio » di una realta che sembra escludere una lotta e un futuro, di una « verita » immobile nel suo incanto, « come l’eco del mare in una

conchiglia abbandonata ». (Ma, poi, quanta nostalgia di moto e d’azione libro chiuso!)

non

si sente

nell’animo,

a libro letto, a

Son giunto alle ultime parole dell’Orologio e m’avvedo, non senza raccapriccio, che ho omesso di narrarvi cosa c’é dentro, ordinatamente,

come

si deve. Non

€ un racconto,

€ una ingegnosa macchina letteraria la cui finalita non é quella di misurare il tempo ma di combattere una donchisciottesca guerra contro il tempo o addirittura contro lo storicismo. A Roma la notte si sentono ancora ruggire i leoni, passano ancora le pecore come migliaia di anni fa. Sono emozioni che conciliano a Levi i suoi poetici sogni antistoricisti, quando all’alba rincasa dopo le fatiche e le miserie quotidiane del giornale, tornando al suo olimpico appartamento, in un palazzo immenso che compendia in una citta minore, compresi i poveri e gli sfollati, tutta ’Urbe, tutta per lui solo. Dalle finestre, in lontananza, i tetti delle case formano una selva deserta di uomini, tutta in-

tricata coi boschi delle ville. Ogni tanto appaiono su qualche terrazza piccolissime ombre nere per ricordargli che a Roma ci sono anche dei preti: ma sembrano formiche. Il Pantheon, le cupole, i fastigi dei palazzi e dei monumenti, tutto si umilia e si confonde per rendere pili trionfale e illusoria al favoloso contemplatore, la prospettiva che a Roma la realta si conclude nell’orbita del suo partito in dissoluzione, del suo giornale e del suo palazzo, e dei viaggi che lo portano incolume, « con la pienezza solitaria del cuore » attraverso il sottomondo della miseria, dove « la fame € permanente, e seriamente » (come diceva la canzone

di quegli anni, autentico inno del Lumpenproletariat). La restaurazione dello Stato di carita non é senza conse64

guenze anche per un artista. E Levi é cosi immerso nella propria leggenda, che finisce per subirla. Anche la sua fantasia inclina ad elargirsi paternalisticamente. La bellezza (egli dice) € un bene comune a tutti gli uomini. Ma c’é la bellezza dei ricchi e quella dei poveri, perché é giusto dare a ciascuno «lo strumento necessario a sostenere la sua

parte,

in damasco

o in cenci,

in una

bene

ordinata

rappresentazione ». Levi condiscende ai cenci, e popola il nuovo Stato di Carita con una folla strabocchevole di guitti e di pitocchi, di prostitute e borsari neri, attraverso cui sciamano le jeeps, come « insetti impazziti » violando il pudore estremo della morte in una povera donna travolta, sconcertando l’antica armonia delle piazze e delle case di Roma, prima di ridursi, le liberatrici, a strumento di op-. pressione poliziesca. L’Orologio incomincia con leoni immaginari e finisce con la realta della Celere. C’é un po’ di tutto in questo libro, stupendi ritratti di morti, senza nau-

see € senza vomiti neorealistici. E perfino lautocaricatura dell’autore, nel ritratto del « maraviglioso » e versatile signor Giovanni. E c’é perfino una larvata denuncia della bomba

atomica,

come

frutto della civilta americana:

che

sarebbe in crisi, non per il capitalismo, ma perché € « senza déi »... Egli in barocco un argomento fino / trovo (qui direbbe il poeta seicentista). Ma un po’ tutte le teorie di Levi - sono argomentate in barocco, nelle troppo lunghe « partite _ a chiacchiere » che durante le serate romane intavolano i ‘suoi ideologi zoppi, ridotti al sottomondo della politica, a _ divorarsi le loro infermita, per insaziata fame di illusioni e

di astrattezze. Come le teorie, anche le descrizioni e i ritratti in questo _ libro sono baroccamente favolosi e scenografici e allegoreg_ gianti. « Pinacoteche » folte di personaggi per cui si sente : il bisogno di una chiave (come in certi romanzi seicente_ schi) e replicatissime

« bambocciate », anch’esse nel gusto

dei pittori popolareschi di quel secolo. Ma il barocco di _Levi é passato attraverso Baudelaire. La poesia del grande decadente francese (i Tableaux parisiens e i Petits poémes

“en prose) e gli autori che a lui furono cari benché di opposto temperamento (Diderot e De Maistre) son presenti nella cultura di Levi, onde il fascino ambiguo di questo suo Bait »

65

- Orologio pieno di teosofismi e al tempo stesso fortemente anticlericale. Le pagine del viaggio a Napoli che compiono poeticamente il libro e lo salvano da certe ridondanze della prima parte contengono in un sapiente impasto di prosa un pamphlet contro i miracoli e una apoteosi dei poveri trasfigurati in Dei viandanti. Ciascuno andava svelto per la sua via e sembrava attento e appassionato al suo lavoro, carico di energia, di vitalita piena di misura. Ma che cosa spargeva su tutti i volti il pallore, e metteva negli occhi un fuoco febbrile e nei visi e nei gesti una serieta sconsolata, un senso melanconico di consapevolezza, come di chi gia tutto sappia ed abbia provato, e tuttavia viva la sua vita col coraggio di una passione senza speranza?

Quella folla di individui giustapposti e senza storia, questa enorme disgregazione sociale, ricomposta artificiosamente in paradiso picaresco é, se volete, la leggenda della Resistenza che muore nel qualunquismo. E ci voleva un azionista per scriverla. All’autore della Pelle che ha tentato qualcosa di simile, la Musa ruffiana ha concesso solo di grufolare, a sedere alto, fra le immondezze del giornalismo letterario. Levi € un artista, anche se troppo spesso per il gusto baudelairiano della mistificazione si compiace di travestirsi da Dio terrestre. Spogliato della sua aureola mitologica, della sua felicita fittizia,

€ uno del vecchio mondo

che va

mendicando, con fierezza e con dignitosa elegia, un po’ di umanita. Vi dira, per incantarvi, che a lui i contadini della

Lucania o i pezzenti di Roma e di Napoli hanno confidato tutti i loro misteri. Non gli credete. Lo hanno respinto. Lo» hanno escluso. E da questa sua reale sofferenza che egli ammanta di regale solitudine nascela poetica malinconia — delle sue leggende e dei suoi sogni, dei luoghi veri e dei fatti non meno

veri, coi re della borsa nera che vivono a

Poggioreale e con le regine di troppi cuori che passano per la Suburra. Il titolo dell’Orologio deriva da un sogno che tralascio | di raccontarvi perché sarebbe troppo lungo da interpretare con Freud

alla mano

(0. come

vuole l’autore, con Jung). -

66

Be Z

2

Non mintendo abbastanza di psicoanalisi o di oniromanzia. In sostanza da quel sogno si apprende che un orologio incastrato in una sveglia funzionava e le sue sfere si muovevano in avanti, nel loro giusto senso. Era cosi, al tempo della Resistenza, quando le infinite sorti individuali coincidevano con la sorte comune e facevano muovere in avanti la ruota della storia. Strappato dalla sveglia, ’orologio funziona, ma le lancette sono rotte,

e uomo « solo » rischia

di non sapere pit in qual senso possano girare. E il simbolo dell’arte di Levi, e la giusta conclusione del-

le sue leggende che tanto successo hanno avuto, perché han riproposto in un linguaggio « popolare » (cioé tradizionale) V'ultimo tipo del superuomo moderno. 1950

67

6

Gramsci

in carcere

Raccontano che una sera (l’aneddoto é accertato) Benedetto Croce, dopo aver scorso le Lettere dal carcere, dest dal sonno la sua figliola prediletta.e le venne leggendo, mosso da vero entusiasmio, i brani che lo avevano pil interessato. Poi ci fu la recensione sui « Quaderni della critica » (prediffusa da alcuni giornali), assai meno entusiastica e politicamente calcolatissima, con una coda satura di veleno. _E il veleno era questo: Gramsci morto, un pensatore, uno scrittore, un eroe; ma i comunisti vivi, attivi, numerosi, non sono sulla sua strada, sulle sue orme perché sono (e

qui aggiungete pure gli epiteti con cui credenti e. miscredenti liberali sogliono qualificare i comunisti). BastO prima della stessa recensione, la notizia che le Lettere dal carcere non avevano

fatto dormire Croce, per-

ché molti letterati si sentissero pit sicuri e in certo modo autorizzati a lodare in Gramsci lo « scrittore »: che venne « riconosciuto » e infine anche « premiato ». Come corollario minore e volgare all’opinione del filosofo, veniva intanto assicurato largo credito a certi luoghi

comuni presso i ceti ben pensanti, per cui ti capita di ascoltare discorsi di questo tenore sulla bocca di tanta brava gente assettatuzza, che si sforza di cacar senno da tutti i — pori, bilanciandosi sulla pit. rigorosa comodita del giusto mezzo. « Gramsci, ah! che spirito libero. Provvidamente la sventura lo ha collocato fra gli oppressi. Il capo di un partito comunista solo in carcere assume un degno posto per la storia della liberta e merita l'universale rispetto ». Oppure: « Ma come si fa a dire che Gramsci era un marxista? Era un crociano guastato dalla scarlattina comunista, che € una brutta malattia quando non viene in forme blande e benigne ». O

ancora:

« Grande

scrittore,

senza

dubbio.

Pero tutto sommato le carceri mussoliniane non erano cosi 68

insopportabili, se gli hanno consentito di studiare, di scrivere migliaia di pagine e queste lettere bellissime, degne di stare accanto ecc. ecc. ». Che le Leitere dal carcere siano lette da un pubblico « medio » tanto vasto da includere gli stessi fascisti moderati e in buona salute, non é male. Ma bisogna far di tutto affinché vengano comprese per quel che sono, obiettivamente. Un libro bellissimo, se é letto male, riceve un’offesa pro-

fonda, che puo travisarlo per molti anni, proprio perché il fraintendimento si mescola a un’ammirazione indiscriminata e ad errori autorevoli. Come é capitato ai capolavori che si conservano

in certe chiese, dove lo stesso fumo devoto

delle candele ha finito per nuocere alle immagini assai meno delle volgarita prodigate per secoli dai ciceroni vasariani. Una critica a fondo, una critica coscienziosa é ’omaggio migliore che dobbiamo a un libro di cosi alta ispirazione. Dove il gusto dell’obbiettivita ha dato il peso, grave, terrestre peso, ad ogni parola, l’obbiettivita dev’essere per il lettore metodo e misura nella lettura e nel giudizio. E il metodo, la misura, vanno ricavate storicamente, nell’opera

stessa. Dunque, leggiamo queste lettere come Gramsci quando ne riceveva dai suoi (cfr. p. 240): la prima volta, come si leggono le lettere dei nostri pil cari, « disinteressatamente », cioé « col solo interesse della tenerezza » per il compagno pit vivo nel nostro cuore; ma poi, criticamente, per « estrarne » l’essenziale fino alla pedanteria, e che entri nella nostra lettura anche un po’ della sua « carcerite », di quel suo forte disincanto, per cui diceva, del ritrat-

- to del figlio, che era « assai bello, anche oggettivamente » (p. 210). Starei per dire: bisogna riproporsi per rigore estremo, quasi a prevenire ogni possibile estetismo, lo stes’ so dubbio di Gramsci, che il suo stile « carcerario », tem-

pratosi in condizioni particolarissime, potesse riuscire « ridicolo » (p. 217):

dubbio

tremendo

e sublime, degno del

risultato a cui la raccolta delle lettere é giunta, composta in _

un libro (cosa del tutto imprevista da Gramsci, il quale aveva, anzi,« una invincibile avversione all’epistolografia » (p. 74). Quando egli é entrato in carcere, aveva scritto ]

yi

i

69

« tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di 400 pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano, secondo lui, morire dopo la giornata» (p. 137). Aveva scritto di politica e di cultura, tutto rivolto all’occasione assai spesso polemica, e con la febbre del giornalista, delPuomo d’azione, con l’urgente facilita che una certa routine determina nella vita libera, e col solo limite del tempo,

uno stimolo anch’esso. Ma ora la situazione era opposta. Egli era entrato nel tempo senza tempo del carcere. Aveva dinanzi a sé l’opprimente mole di tanti ricordi e il vuoto incognito del futuro: cioé un presente minacciato da difendere, da vivere con un lavoro che non fosse vano, che ristabilisse un colloquio con gli uomini; oltre la solitudine, oltre il carcere, « far qualcosa fiir ewig », « da un punto di vista disinteressato », per leterno (p. 27).

« In verita (scriveva alla moglie il 25 gennaio 1936) io mi trovo in questa situazione da molti anni, forse dallo stesso 1926, subito dopo il mio arresto, da quando la mia esi-

stenza € stata bruscamente e con non poca brutalita costretta in una direzione data da forze esterne, e i limiti della

mia liberta sono stati ristretti alla vita interiore e la volonta é diventata solo volontd di resistere » (pp. 232-233). Se in- | fatti, per un temperamento

introverso,

il carcere

non

da

sufficiente solitudine e la prima, significativa sofferenza é quella di non poter chiudere la porta dal di dentro, per un temperamento estroverso la pena maggiore é invece lo « stato d’incertezza e d’indeterminazione », la violenta astrazio-

ne dal reale e la difficolta estrema di riproporsi, in una sensibile concretezza, i rapporti col mondo.- Se per i primi il carcere pud diventare anche idillico, per gli altri resta sempre un inferno, a cui si pu opporre una dura, non mai rassegnata pazienza. E questo « l’altro carcere » (di cui spe-cificamente soffri e parld Gramsci) non immaginabile dalPuomo di azione, quando ha la liberta di lottare, e fruisce

del privilegio di poter rischiare la vita: « Quello che da me non era stato preventivato era l’altro carcere, che si € aggiunto al primo ed é costituito dall’essere tagliato fuori non solo dalla vita sociale, ma dalla vita famigliare » (p. 94). Per un uomo d’azione l’attivita puramente intellettuale é _ un regime da paralitici, da mutilati. « Leggo molto, libri e 70

riviste; molto, relativamente alla vita intellettuale che si pud condurre in una reclusione. Ma ho perduto molto del gusto della lettura. I libri e le riviste danno solo idee generali, abbozzi di correnti generali della vita del mondo (pit o meno ben riusciti), ma non possono dare l’impressione immediata, diretta, viva, della vita di Pietro, Paolo, Giovanni,

di singole persone reali, senza capire i quali non si puod neanche capire cid che é universalizzato e generalizzato... mi manca proprio la sensazione molecolare: come potrei, anche sommariamente, percepire la vita del tutto complesso? » (pp. 67-68). Il pericolo delle « deformazioni psichiche » era sentito da Gramsci come loffesa pit grave del carcere alla bellezza e all’integrita della persona umana. Sin dalla prima lettera si possono cogliere questi propositi di resistenza e sopravvivenza, una specie di feroce igiene in cui Gramsci imparO-a spendere le sue energie, ora per ora, sottoponendo la sua macchina corporea ad un uso economico, razionale. Si pud seguire lettera per lettera, nelle sue vicende, questa resistenza che é eroica perché umana, con i suoi reticenti dolori, con le sue collere contenute,

i suoi crolli fisici, la sua sempre vittoriosa capacita di recupero. Gramsci portava il rigore di questa dieta morale fino a rifiutare « l’attivita irrazionale e caotica dei propri famigliari » come un pericolo di schiacciamento e di stritolamento per chi si era abituato con fatica a un’atmosfera * cosi artificiosa e condizionata; fino a rifiutare le stesse tentazioni ed autoesaltazioni passionali del volontarismo: « Non bisogna mai fare progetti e promesse vaghe e nebulose, non bisogna limare i nervi, altrimenti avviene anche a

me, che pure sono molto paziente, e capace di ogni inibizione, d’irrigidirmi nell’affermazione della mia propria volonta e di farla contare anche se non ne vale la pena, per dimostrare a me stesso di essere ancora vivo » (p. 162). Ma che cosa era per Gramsci la sua paura della morte, per lui che non avrebbe mai creduto « che tanta gente avesse una cosi grande paura della morte »? (p. 74). La morte per lui non era il dissolvimento, sensibile del resto e avver-

_ tito, del suo corpo malato. Come c’era l’altro carcere, c’era _ per lui la « seconda morte » la rescissione di tutti quei vin; coli, anche

fisici, che legano

71

per accordi

e per contrasti

animale politico alla societa. Ed era la sola cosa che lo tormentasse pit del suo letto di pene, la sola cosa che gli strappasse aperti accenti di dolore: « Ci sono stati dei lunghi periodi in cui mi sentivo molto isolato, tagliato fuori da ogni vita che non fosse la mia propria; soffrivo terribilmente » (p. 74). Mai parlando dei mali del suo corpo egli si era espresso cosi. Eppure tutti insieme costituiscono un tremendo catalogo, al cui confronto quelli invocati, con masochistica immaginazione, da certi monaci medievali, fanno sorridere, a forza di retorica! L’insonnia, l’emicrania, Yemottisi, l’enterocolite, le eruzioni cutanee, le mani deformate, i geloni alle orecchie, la canizie, i denti caduti, le feb-

bri, i sudori notturni, i deliri. Ma pit i mali si aggravano, piti Pespressione diventa impersonale, informativa, diagnostica; di solito Gramsci li attenua, nel desiderio di lenire la pena in chi legge e pud far poco o nulla per lui. Vicino alla morte, scrivera al figlio che si sente « un po’ stanco ». Ora la tensione di questa metodica resistenza alla morte fisica e alla morte

eterna, la morte sociale, era quanto di

pit logorante si possa concepire, quando si utilizza tutta la propria macchina per un fine autonomo, per non farla girare a folle nell’enorme fabbrica del carcere, per non ingranarla mai nei possibili strumenti di tortura psichica, per produrre solo operanti pensieri in parole chiare, non allusive, incensurabili. Tutto cid costituisce una tale vigilia di lavoro, di assiduita, di attenzione, da formare (poiché il la-

_

voro € sulle parole) quel che si dice « stile » e che altro non € se non il risalto volitivo del gusto: scelta di modi, per i retori, possesso delle cose per i non retori, sicuro uso della nomenclatura di esse, rifiuto cosciente di cid che disgrega la compagine o contamina la semplicita dell’espressione, e che puo pullulare non solo dalla corruzione formalistica, ma dagli stessi fermenti sentimentali. « I] pit delle volte sono pedante senza volerlo. Mi sono fatto uno stile di circostanza, sotto la pressione degli avvenimenti, in questi dieci anni di molteplici censure » (p. 238). Ecco perché queste lettere sono tutt’altro che famigliari nella sostanza, e senza intimita (pochi brani soppressi, che cosa potranno aggiungere, da questo punto di vista?). Gramsci ha@ dovuto incessantemente proteggersi dall’indiscrezione dei censori, 72

dalla loro lettura « acrimoniosa e sospettosa », pronta ad _inquisire le stesse intenzioni, ad umiliare con nuovi divieti, a raccogliere il menomo indizio di sconfitta,. Comprendiamo perché solo a un anno di distanza dalla prima lettera (l’unica nella quale si senta traboccare la passione degli affetti e un grido di speranza) egli abbia scritto alla moglie: « Lo stato d’animo che mi dominava quando ti scrissi questa prima lettera (non voglio neanche tentare di descrivertelo, perché ti farebbe orrore), ora mi fa un po’ ridere » (p. 48). Ci rendiamo conto perché la sua parola sara contenuta nei limiti di tanta sobrieta, senza mai fare oltraggio al vero. Con gli anni se gli capitera di sentirsi « dominato » da uno Stato d’animo, preferira tacere, non ammettendo di poter scrivere quando ha troppo da dire, e si sente un ingorgo “al cuore: « Non so cosa scriverti, dopo aver letto la tua _lettera; forse non c’é nulla da scrivere da parte mia, o _ troppo, ma sbriciolato, polverizzato in un caos d’impressioni e di ricordi » (p. 235). L’ipotesi che una certa « pub-

_blicita » di queste lettere potesse tentare Gramsci ad am_mantarsi di frasi (che é un modo pit facile di nascondersi)

€ resa inammissibile dalla perfetta dignita dell’uomo. _ Da considerare € invece un suo virile pudore dei senti“menti (Gramsci aveva in proposito idee molto precise). A tutto cid che riguarda lo stile egli era infatti attentissimo, on una finezza non comune in un uomo d’azione. Testionia Felice Platone (vedi la raccolta di scritti pubblicata nel I anniversario della morte, ristampata dalla societa editrice «Unita », nel 1945) come egli, alla direzione del ornale, spendesse « ore intiere per dare una forma linguiicamente corretta a qualche lettera operaia, rispettando rupolosamente lo stile e il modo di esprimersi dell’au-

tore » per «non

alterare minimamente

il pensiero », per

« rendere il giornale pili vivo e pit aderente alla realta te tempo stesso, per « imparare dagli operai » (op. cit.,

140). _E come studiava le lingue in carcere? Non voleva « infarcirsi la memoria di spropositi stilistici » : per questo preriva perfezionare il suo russo nella prosa di Pusckin e il

esco nei Colloqui con Eckermann. A un vago sentore di unzianesimo in una lettera della moglie é preso da uno

73

stato di vera allergia e non riesce a nascondere la sua reazione. I] sentimentalismo sociale di Virgilio Brocchi gli sembrava « roba da far spiritare i cani». E non amava Yoratoria storica di Croce, giustamente apparsagli di qualita inferiore rispetto al consueto stile del filosofo, del critico, del polemista. La simpatia profonda per la personalita laica e moderna di Silvio Spaventa non gli vieta di avvertire qualcosa di « buffamente anacronistico » nelle sue lettere dal °48 al ’60, e lo « stile romantico e sentimentale dellepoca ». E si capisce che non risparmiasse ironie a tutti i familiari che tentavano di idealizzarlo in un alone romanzesco, da Geremia

1830, e che si rivolgesse con i suoi gio-

vanili « scatti feroci » contro la stessa Tania quando per intenerimento di premurosa pieta, trascorreva a figurarsi la vita del cognato come un idillio. | La verita assoluta di sé, «i motivi essenziali e permanenti della vita », il velo su cid che deve restare ineffabile:

tutto questo, riferito allo stile, ci fa pensare a un’immagine che a lui, « fisico grecizzante » (come lo defini un suo maestro di liceo) grandeggiava nella memoria e due volte la ricordo nelle lettere: la Medea dell’encausto pompeiano, in atto di sgozzare con occhi bendati i figli avuti da Giasone. Segni di questa tragedia taciuta da magnanimo pudore, balenano qua e la dove piu senti il carcerato consumarsi nella nostalgia del mondo: « Sento con molto pungente rammarico Yessere stato privato della personalita e della vita dei due bambini » (p. 211). E quattro anni pit tardi, nel °36, quando ha letto nello specchio la sua morte vicina e vorrebbe vedere Julka: « Non pensare che voglia commuover-

ti; voglio dire che menti, che in gran gnificato pit reale, pressa, fasciata di re con

te da amico

(p,233). Diremmo fabile

dopo parte dopo buio

tanto tempo, dopo tanti avvenimi sono sfuggiti forse nel-loro sitanti anni di vita meschina, come di miserie grette, poter parla-

ad amico,

mi sarebbe

molto

utile »

dunque per questi e cento altri passi, d’inef-

e velato,

perché

disperato

dolore,

che Gramsci

si

possa configurare alla nostra mente nel quadro di una « classicita »? Commetteremmo per lui lo stesso arbitrio di metodo, in sede letteraria, rimproverato da lui a Croce sto74

a

rico d'Italia e d’Europa, cioé di assumere

come

base d’in-

dagine il momento seguente al dramma e alla lotta, quello in cui le forze si sono « catartizzate »? Non dimentichiamo che alla Medea antica il pensiero di Gramsci ricorreva studiando l’episodio dantesco di Cavalcanti. Di Cavalcanti, e non di Farinata, che gli pareva un personaggio troppo scultoreo ed eloquente nel suo nobilesco « dispitto »; di Cavalcanti, che al suo gusto umanissimo parlava pit sofferto, pil vero nella sua dannazione | scontata con cuore di padre. E gli risonava nel suo cuore, come angoscia sua, la domanda: « Mio figlio ov’é? ». E si sentiva nel dramma interrotto col « supin ricadde » il suo dramma, « di esser privato della conoscenza delle cose terrene per un tempo determinato », di vivere come lui viveva, ‘in « un cono d’ombra >», tra fievoli splendori di passato e di futuro, di la dal « dolce lome » che ferisce gli occhi dei, viventi. Onde scopriva dal suo « cieco carcere » di eresiarca _moderno quella stupenda bellezza di « struttura » che é la risposta di Dante — ormai lontano dagli antagonismi politici di Firenze — al povero padre desolato: « Dite a quel caduto, che il suo nato é coi vivi ancor congiunto ». In un

libro come queste Lettere, cosi compatto, cosi refrattario ad ogni deliquescenza sentimentale, il gusto dello scrittore « tende » alla classicita come ad un’ardua purezza; ma per una

strada che, se la formula non fosse sfaticata e facile,

si dovrebbe dire del « realismo socialista ».

_

Ora, se nelle lettere di Gramsci tralasciamo tutto cid che

si lega alla produzione storica e filosofica dei 32 Quaderni _ del carcere; se vogliamo escludere qualche lettera di mero. - scambio (ma ce ne sono? scriveré e ricevere lettere non era per lui « uno

dei momenti

pit intensi di vita? », p. 14);

se vogliamo citare solo quelle che certi valenti critici ame_tebbero lette come pagine « classiche » in obliose antologie (per esempio: quelle del porco arrestato, del passero selvaggio, dello scurzone sardo, del serpente ucciso, dei ricci cacciatori, del topo piatilekta, dei cavallini senza orecchie, della volpe senza paura, dell’elefante evoluzionista) : ebbene, state pur certi che non ne viene fuori una sfilata di pezzi da « capitolo » e da antologia. E nonostante l’ironico _Tispetto da lui professato per le « relazioni » di padre BarAD.

toli, potremmo

confonderli

con

i finissimi pesci rossi, le

scimmie di zoo e i ciuchini di Arcadia?

Questi dell’ere-

siarca Gramsci sono animali allegorici, morali, didascalici,

intagliati sulla sua tomba, nel suo inferno. E per la loro artigiana politezza ricordano il tagliacarte donato alla moglie (« Sai che mi é costato quasi un mese di lavoro, e mezzi i polpastrelli consumati? », p. 68). Quando Gramsci vuol

donare ai figli qualche bella storia di animali, quando rievoca alla madre certi episodi d’infanzia, « quella piccola parte che in prospettiva sembra ora piena di lietezza e di spensieratezza » (pp. 206-207), o compendia per Julka il racconto dell’uomo caduto nel fosso, o narra alla cognata la storia dell’uomo chiuso nel porcile, egli non si abbandona mai al piacere d’istoriare la carta da lettere. C’é sempre quella sua volonta di congiungersi con i vivi, di ricambiare loro un soccorso. Anche quando con Jeopardiana parola. egli dice di voler in qualche modo « rallegrare » i suoi, riconosci l’amorevole inesausta energia dove i compagni andavano « a fare provvista di nuove forze », ’uomo che soleva fraternizzare come medico e come maestro con ogni compagno, premuroso « per ogni aspetto non soltanto della sua vita politica, ma anche, semplicemente della vita » (la testimonianza

¢ di Mario

Montagnana,

nel cit. vol.,

pp. 186-188). Questo animus didascalico, proprio di chi ha scoperto una umanita ingenua, tra i « poveri di spirito » della classe operaia, e crede fortemente

che insieme

a loro e per loro

tutto sia « tesoro » da scoprire, da apprendere e da insegnare, puo riscontrarsi perfino nella pagina, in apparenza piu « favolosa ». Per esempio, quella dei ricci (p. 168). Rileggiamola, analizziamola. Una sola tensione vitale, potente e paziente, vibra nella curiosita dei due ragazzi che si nascondono alla luce della luna per sorprendere i ricci, e: nei ricci che vanno a fare la raccolta delle mele come una: laboriosa famiglia contadina e poi, prigionieri dei giochi: di Antonio, si difendono dalla biscia, uccidendola diligen-. temente, e ne mangiano il corpo a pezzetti, col sapore che gli ha dato la fatica della lotta, finché, rubati al ragazzo,

diverranno cibo essi stessi di non disinteressati cacciatori. Comincia col chiaro di luna e finisce nel buio ignoto di uno 76

stomaco vorace. Non é affatto un idillio, ne siete persuasi? Ma é la pil drammatica, la pil « economica » e la pil’ vera delle storie che mai siano state scritte per bambini da educar virilmente alla comprensione del « mondo grande e terribile >. E Yuomo nel fosso (pp. 195-196) raccontato alla povera Julka perché riacquisti la fiducia in sé e nella vita e « strappi il rospo dal cuore », che altro € mai se non una parabola per umiliati ed offesi, la parabola di una resurrezione senza Dio? E la storia vera del mostro di Ghilarza (p. 221), a cui la madre va a portare il cibo nel suo porcile (vista da Gramsci bambino e mai raccontata a nessuno)

ed ora raccontata a Tania, dopo che la cognata lo ha visto disfatto dal carcere, e agli occhi di lei si € potuto mirare

come in un vivo specchio d’orrore: é forse un ricordo « disinteressato » questo, dove la crudezza tutta allegorica delle parole comanda alla donna di non raccontare a nessuno quello che lei ha visto, come lei lo ha visto?

Sono favole, sono parabole, sono allegorie di un uomo senza vacanza d’immaginazione, oppresso dalla corpulenza dei divieti e teso alla verita che é liberta, alla verita che

« € sempre rivoluzionaria » (come diceva la manchette dell’« Ordine Nuovo »). Critici troppo corrivi a classicizzare Pautore di queste Lettere, stiamo attenti! Lo « spiritello » _ di Gramsci, del « fisico grecizzante », é li, pronto a cauterizzarci la lingua col suo riso infuocato. Se fosse lecito imitare e continuare quel geniale volo del De Sanctis intorno alla rosa di Poliziano, di Ariosto e di |

‘Tasso, si dovrebbe parlare della rosa di Gramsci, parago~ nandola

con quella donata

al chirurgo, tutta lacrimevole,

delle Mie prigioni, 0 ai fiori di Posillipo, sospirati nella ga_ lera borbonica dal sentimentale e pur grande Settembrini! « La rosa ha preso una terribile insolazione: tutte le foglie _ € le parti pit: tenere sono bruciate e carbonizzate; ha un _ aspetto desolato e triste, ma caccia fuori nuovamente le -gemme. Non é morta, almeno finora...» (pp. 71-72). _ Questa rosa precaria e pertinace, con la sua appendice bo_ tanica, gastronomica e pedagogica, con le due ideologie che _-tenzonano in capo al carcerato, se lasciar fare la libera na_tura della pianta o « aiutarla a crescere » dice tutto Gram77

sci, col suo infinito, molecolare affetto ad ogni essere vivente. Colma di forza (« cos’é la rosa, in fondo, se non un pruno selvatico »?), nutrita di « pedanteria », prorompente dalla « vita podpolie » del carcere, questa rosa di ferro mi-

nata dalla ruggine, é bellissimo « fior di virtu » — virtu comunista — e si puod cogliere a simbolo di tutto il libro. Ché veramente in queste lettere non c’é pagina che non nasca da una « concezione del mondo totalitaria », da quella concezione che il linguaggio castigato di Gramsci doveva chiamare per eccellenza « filosofia della praxis ». Marxista come

vive, Gramsci,

come

soffre, come

ride, come

ama,

come scrive, come muore. In queste Lettere ogni documento € insegnamento. Lo storicismo, l’immanentismo « integrale » le ispira non soltanto dove Gramsci tocca occasionalmente o programmaticamente problemi di cultura, ma dovunque egli trovi modo di testimoniare la sua fede invitta:

sia che rifiuti, ma

senza

iattanza,

l’immortalita

se-

condo i cattolici, rivolgendosi alla madre che prega per lui; sia che bolli, ma senza irrisione, il « cinismo morale » di Croce clamante la consolatrice e conservatrice « religione della liberta » nel deserto autorizzato dell’Italia fascista. Cosi, nella sua tomba di eresiarca, chiuso a scontare

la

dannazione di non vivere coi vivi, fa tutto quello che pud per loro, e conquista la sua immortalita, « come una neces-

saria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie € come un incorporarsi di esse nel mondo di fuori » (p. 229). Perfino nel delirio delle sue ore pit fragili ricorrevano continuamente questi grandi pensieri. E li ritroviamo nelPultima lettera al figlio, dove appare ormai sereno, in « quell’unico paradiso reale » di cui aveva scritto una volta

a sua madre. Morente, suggeriva a Delio cure tenerissime per l’uccellino malato di avitaminosi, « V’insalatina fresca, che dev’es-

sere tritata minutamente ». E di Delio cercava di correggere le storture mentali derivategli dalla male intesa teoria dell’evoluzione, e scherzava serissimamente sullipotesi di un mondo popolato di elefanti su due zampe... Ma era divenuto cosi difficile capirsi: tra la moglie malata, coi nervi spezzati, e lui ridotto a un’arida volonta, tra il figlio troppo 78

fantastico e lui incapace d’immaginare il suo pappagalletto, di ricordare quel che aveva scritto nella lettera precedente. Il « cono d’ombra » in cui era immerso il carcerato stava per diventare solida materia. E da quella tenebra sempre piu'stringenfe, oltre il viso fuggitivo del figlio, guardava solo a una luce sempre pit lontana, passata nel futuro, futura nel passato: la storia « degli uomini viventi, tutto cid che riguarda gli uomini, quanti piu uomini é possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra di loro in societa e lavorano e lottano e migliorano se stessi >. Chi scriveva cosi era «il primo marxista d'Italia », il capo del partito comunista italiano e non lasciava un testamento solo al suo Delio: si rivolgeva a quanti uomini liberi si fossero sentiti degni e capaci della sua lezione, di rispondere alla domanda ch’egli poneva a simbolo socratico di nuovi problemi, di nuovi progressi. « Ma é cosi? ». Cosi. Come era vero che piu nulla apparteneva ad Antonio Gramsci, neppure le sue spoglie, rese al vitale sepolcro del « mondo grande e terribile ». 1947

79

7

Per una storia di Pavese e dei suoi racconti

Durante la sua difficile, scontrosa vita d’artista, in varie

occasioni Cesare Pavese ebbe anche un successo di pubblico, e riusci a stabilire un rapporto di cordiale incontro con i suoi lettori. La ricerca del pubblico era per Pavese un fatto importante sul piano umano, prima che su quello letterario: un modo di aprire il carcere dell’interminata adolescenza, entro il quale aveva lorrore e Vorgoglio di maturare in solitudine, la crudelta masochistica di vivere e

Pangosciata voglia di uscirne. Mi son sempre chiesto se, alla base di questa intesa col pubblico, non ci fosse un equivoco favorito dallo stesso scrittore, che in cerca di popolarita volle affrontare i gorghi piu frequentati e piu rapinosi di certe correnti letterarie contemporanee. Scrivendo _Paesi tuoi (1941) egli ebbe in mente

(come poi dichiaro),

un modello americano tra i pit divulgati, // postino di Cain. Il compagno (1947) fu un tentativo di raccontare come i proletari e gli incolti « maturassero alla vita e alla storia negli ultimi anni del fascismo ». « L’autore (avvertiva la notizia editoriale, certamente scritta da Pavese) non si illude di esserci riuscito, ma ha provato ». Tentativo di affrontare un argomento politico dunque, un omaggio agli interessi preponderanti nei lettori dopo la Liberazione. Ma Vargomento non era il contenuto del libro. Quanto al se-

condo e al terzo racconto della Bella estate non v’é dubbio che dovette incoraggiarlo la morbosa curiosita destata da certi romanzi di Sartre.

Nel

1941, nel 1947, nel 1950 si

parlo e riparlo di neo-realismo, e l’equivoco ebbe il suggello di una formula. Ma gli atteggiamenti neo-realistici entro i quali Pavese ci riproponeva il suo contenuto non avrebbero tratto in inganno chi si fosse avvicinato anche a queste opere con una estrema concretezza di gusto, con una conoscenza della poetica dell’autore e soprattutto con 80

un definito punto di vista prospettico nella lotta culturale contro il decadentismo: dico con una posizione cosciente, e cioé anche capace delle necessarie distinzioni. Di solito un poeta é il miglior critico di se stesso, ma talvolta é anche il peggiore, e pud sviarci, conoscendo egli non solo l’arte di esprimersi con le parole, ma anche quella di nascondersi dietro le parole. Se chi legge non sa ripercorrere quella linea reale di sviluppo, di crescita o di involuzione, in cui lo scrittore ha identificato o esaurito la sua

poetica, la ha approfondita o se ne é allontanato, se non ci poniamo con chiarezza il problema che una critica integralmente storicista sempre si pone (che cosa ha voluto fare artista e che cosa ha fatto, in quali condizioni storiche ha agito e quale contenuto é riuscito ad esprimere, vale a

dire in che misura é riuscito a identificare il senso in cui si muoveva la storia del suo tempo ed ha acquistato libera coscienza di questa necessita), una critica si rende impossibile, saremmo sempre portati ad eludére la realta dell’arte, ad allontanarci dalle sue radici nel tempo, a non affrontare mai in pieno la formazione organica di un’opera. Ancora avvezzi ad impuntarci su certi valori astrattamente formali della « pagina » dove tutto sembra che si sia ricomposto e cristallizzato, non ci siamo accorti che cid serve solo a farci

cadere in mistica deliquescenza di fronte a una perfezione episodica, che ci é in tal modo consentito di venerare come reliquia miracolosa di una vita il cui significato intero ci é gia sfuggito. Gli equivoci tra Pavese e il pubblico non sono cessati dopo la morte, anzi si sono moltiplicati. Il suo primo libro di poesie Lavorare stanca, sia alla prima che alla seconda edizione, affondo in un lago di indifferenza: il libretto po_ stumo Verra la morte, avra i tuoi occhi, infinitamente meno

significativo, ha avuto un successo d’occasione dovuto pit alle circostanze della tragica morte, che non

al valore in-

trinseco di questi versi, prevalentemente « privato ». E _Lequivoco ancora continua con la pubblicazione del MeStiere di vivere. Diario:

1935-1950 (Torino, Einaudi, 1952).

Interpellato sulla opportunita di pubblicarlo, non ho avuto dubbi per il si. Era un documento che poteva servire _ subito a una valutazione pit sicura dello scrittore, a cono81

scere i limiti della sua autentica importanza, la poverta di contenuto se si vuole, ma anche le caratteristiche inconfondibili della sua poetica e il significato culturale della sua opera, che ai lettori attenti delle Ferie d’agosto e della Letteratura americana non erano sfuggiti. Ci sarebbero certo stati molti pericoli: che un battage editoriale all’americana sviasse da una lettura seria, che la parte piu retriva della cultura italiana ne approfittasse per sfruttare quegli atroci elementi patologici di sofferenze e sconfitte che abbondano in queste pagine e spesso ne rendono cosi ossessiva, COSsi lancinante la lettura. E-altri pericoli ancora: confuse esaltazioni e demolizioni, ispirate a opposti atteggiamenti provinciali. Tutto questo c’é stato. Ma lo scandalo che qualche baggiano immaginava dovesse accadere per non si sa quali rivelazioni sulla politica di Pavese, non € accaduto. Tutti ne hanno preso atto, a co-

minciare da Emilio Cecchi. E non € accaduto, nonostante i brevi tagli di frasi e parole suggeriti da « riguardi umani » (e che tuttavia avrebbero dovuto essere indicati meglio, precisando a che cosa equivalessero i puntini delle parentesi quadre). Ogni lettore si € subito reso conto che gli interessi politici in un diario cosi introverso non potevano trovare posto, o trovare un posto assai marginale. Comunque, tutti quelli che gia si erano preparati a servirsi di questo scritto postumo come pretesto del loro anticomunismo quotidiano, sono rimasti delusi. Ma un/’altra delusione c’é stata in coloro che avendo frainteso quasi tutto dello scrittore, ed essendosi trovati di fronte a una sua immagine cosi crudamente sola e disperata, piuttosto che prendersela con se stessi, si sono sfogati contro il diario. La pit singolare uscita ci é parsa quella di Davide Lajolo in un articolo sull’« Unita » di Milano, che il diario di Pavese « non sia un libro da leggere ». Per questo libro, come

per tutti i libri,

a meno

che non si creda nel-

Putilita dell’Indice, la questione é una sola: di saperli leggere, di saperli far leggere. E per cio, per la lettura critica di questo diario, non mi sembra che siano da considerare un contributo positivo gli scritti che ne esaltano la « esemplarita » (Massimo Mila) 0 quelli che ne irridono il « provincialismo » (Sandro De Feo). 82

Innanzi tutto se vogliamo fare dei nomi appropriati, per quanto riguarda il tono o l’importanza del diario, non diciamo: Gide, Leopardi. Rifacciamoci piuttosto ai santi padri dello stoicismo e del cristianesimo decadente: Marco Aurelio, Baudelaire. Cid varra a ricondurre pit esattamente

,

_

il diario a un certo tipo di giornalismo rovesciato, nel quale «non accade mai nulla » o gli accadimenti son subito ricondotti alla misura del soggetto-oggetto perpetuo e immobile del « giornale intimo ». Con l’avvertenza, che lo stoicismo, il dandysmo, insomma

una —

Dall’errore di Narciso (cfr. p. 217) all’errore di Icaro. Errori di adolescenza, dell’adolescenza che crede di non avere un corpo e lo cerca, disprezza quello che possiede e vuol lievitarlo e distruggerlo. Nessuno é stato pit indulgente di Pavese verso se stesso, nessuno pit spietato. Eccovi una pagina estrema di autocritica radicale quando egli era trop-

po esausto per farne il programma costruttivo di una maturita reale e vitale:9 gennaio 1950. La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verita demoniaca di piante, acque, rocce e paesi, € un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano. Ferma restando l’esigenza mitica di sentire la realta delle cose, ci vuole il coraggio di fissare con gli stessi occhi gli uomini e le loro passioni. Ma é difficile, € scomodo — gli uomini ‘non hanno

la fissita della natura, la sua larga interpretabilita,

il suo silenzio. Gli uomini ci vengono incontro imponendosi, © agitandosi, esprimendosi. Tu hai cercato in vari modi di impietrarli — isolandoli nei loro momenti piu naturali, immergendoli nella natura, riducendoli a destino. Eppure i tuoi uomini parlano, parlano — in essi lo spirito si dibatte, affiora. E questa la tua tensione. Ma tu questo spirito lo subisci, non

vorresti

trovarlo

lenzio, alla morte.

mai.

Aspiri

all’immobilita

naturale,

al si-

Far di loro dei miti polivalenti, eterni, in-

tangibili, che pure gettino un incantesimo e le diano un senso, un valore.

sulla realta storica

Eppure in tutti i suoi libri la tensione stilistica é qualcosa di sommamente vitale ed eccitante (« un modo di evitare la conclusione » avrebbe confessato qui il suo Sherwood Anderson:

Riso nero, p. 238). Nessuno

fra i nostri

contemporanei « seppe volere » (pp. 15-16) uno stile come lui. Nessuno come lui seppe che questo non é tutto, cheJa gioia di « inventare », di « trovar pit’ volte » situazioni stilistiche é altra cosa che il lavoro creatore del genio. Eppure ogni volta che la sua pagina vibra inconfondibilmente di un « sussulto mitico » (pp. 237-328) di fronte al reale, di fronte alla vita e alle cose, lo riconosciamo poeta. Cerchiamolo in questi momenti iniziali, perché, come diceva un contadino della sua Luna e i fald, « gli innesti, se non si

104

fanno ai primi giorni della luna, non attaccano ». Dove Pavese ha sentito la necessita e la bellezza di un colloquio con l'uomo, dove egli ha trasalito a questa presenza dellaltro, troviamo

Achab, dimentico del suo ulissismo puritano, della sua feroce, solitaria caccia al mostro, al peccato e alla morte, dice al suo secondo: « Pit vicino! stammi accanto, Starbuck;

fammi guardare un occhio umano, é meglio che guardare nel mare o nel cielo, € meglio che guardare in Dio >. Pavese uomo non é tutto in questo diario: una sua biografia lo dovrebbe raccontare meno atteggiato a odiatore di se stesso,

e meno sincero; pill ironico e meno ingenuo, mi-

gliore e peggiore. Ma anche questo egli sapeva di. sé, questo intrepido ricercatore del suo mistero individuale, questo diagnostico implacabile che non volle e non riusci a guarire se stesso: « Ormai so che note di diario non contano per la loro scoperta esplicita, ma per lo spiraglio che aprono sul modo che inconsciamente ho di essere. Quel che dico non é vero, ma tradisce — per il fatto solo che lo dico — il mio essere » (p. 329). Io non so se sia vero (e fosse vero) che i suoi falsi pro-

blemi siano stati gia aboliti da coloro che sono pit giovani di lui. E nemmeno vorrei azzardare a scommettere che egli sara tra gli « scrittori importanti che vengono spazzati al passar delle generazioni » (p. 297). Non so servirmi di questo mito decadente delle generazioni, mito del sangue e del caso, anche se su di esso un critico come Thibaudet ha potuto costruire dei libri cosi intelligenti. So che il mio debito di fronte a Pavese era quello di ridurre a chiarezza il suo stesso mito. Come scrittore egli maturd, e fu pit forte dell’uomo.

La sua opera, non escludo il diario, non

ha bisogno di una nostra pieta ch’egli avrebbe orgogliosaMente rifiutata (cfr. p. 365). Se egli fu ingiusto contro se stesso, noi non gli dobbiamo una giustificazione religiosa, ma una comprensione storica. Non capisco perché Mila, che forse non ha liquidato le superstizioni stoiche e cri-

a ‘

smentito il Pavese di questo diario, dove

per gusto feroce contro se stesso, ha voluto darci un autoritratto pit duro e pili crudele del vero. E il Pavese che amiamo, é quello che in qualche misura é stato capace di far sua la grande lezione di Melville quando il capitano

Sipe,

stiane di Pavese, abbia creduto di poter citare il suo diario,

come documento esemplare dell’individuo, del costruttore di una vita. Io credo di avere dimostrato esaurientemente il contrario, senza bisogno di ricorrere, come pure € stato fatto, ad uomini come Giaime Pintor da contrapporre a lui. Massimo Mila ha creduto di dover recitare il sua culpa per non esser riuscito a salvare il suo caro, il nostro caro amico

dalla morte. Scrupolo cattolico per eccellenza, che confesso di aver avuto

anch’io

e, credo,

avranno

avuto

tanti altri.

Ma a parte il fatto che se fossimo riusciti a salvarlo dal suicidio, molto avremmo dovuto fare per interrompere il suo processo di autodistruzione, io vorrei osservare che non — si trattava e non si tratta solo di salvare Pavese o’ coloro che infelicemente se ne fanno « stampo mitico », per versarci la loro disperazione, vera o fittizia che sia. Si tratta di cambiare le cose, cambiare la vita, perché i pit deboli_ non ci lascino con l’impressione di essere stati assassinati’ dalla nostra indifferenza, e perché l’arte si possa raggiun-

gere senza pagare un prezzo cosi mostruosamente alto. Per questo € necessario, come é€ stato proposto forse solo ironicamente, di « sconsacrare » l’arte, farla discendere dagli altari sanguinosi su cui il decadentismo ha voluto innalzarla e da cui i breviari di estetica non sono stati sufficienti a farla discendere, perché riacquisti la sua semplice grandezza_ e dignita di colloquio con Puomo, di atto umano uguale agli altri atti. Pavese ha conosciuto il suo cancro, ma noi non saremmo degni di comprendere la sua sofferenza e la sua poesia, se non riuscissimo a strappare dai nostri petti il cancro delle superstizioni decadenti. | 1952.

106

4

8

Metello e Ja crisi del neorealismo

« Il movimento

rinnovatore che in questi dieci anni ha

indirizzato e dominato la cultura italiana nel cinema, nelle arti figurative e nella letteratura attraversa, per vari motivi,

un periodo di crisi. Questo movimento secondo alcuni sarebbe ormai gia morto: anzi, secondo una tesi ancora pill estremista, non

sarebbe

mai nato, in quanto

il cosiddetto

neorealismo sarebbe un grosso equivoco e insomma uno pseudo-realismo. Io credo che dallo stesso disorientamento Si possano trarre dei motivi utili, se ridotti alla loro giusta validita critica. E innanzi tutto se si parte dal fatto che il realismo in quanto movimento teorico cosciente ha oltre un secolo di vita e che oggi nelle sue formulazioni pit. avanzate Si presenta non solo come una poetica nuova rispetto al classicismo, al romanticismo e al decadentismo bensi come

una base per la stessa estetica. Come in astronomia non é lecito essere pil tolemaici, cosi in arte ogni discussione e ogni produzione é viva solo in quanto si muove intorno al realismo, che non é una precettistica immobile, ma una poe-

tica in continuo movimento e arricchimento, sempre al passo con la storia, con la realta. La consapevolezza nella produzione creativa é la grande istanza del classicismo che il realismo ha fatto propria combattendo prima contro il romanticismo e poi contro il decadentismo. E se vogliamo definire con esattezza in che cosa consista la crisi del movimento per il realismo in Italia, dobbiamo dire che € appunto crisi di crescenza e di sviluppo in quanto la produzione di opere d’arte filmiche, figurative e letterarie, non é stata \accompagnata da un serio dibattito teorico né da una critica sempre adeguata. In questi dieci anni c’é stata in Italia una attivita creativa di prim’ordine, e sarebbe sottovalutare il movimento se non riconoscessimo che grazie a questa attivita oggi possiamo discorrere non gia su posizioni dot107

trinarie, programmatiche e astratte, ma su opere nelle quali il pubblico ha potuto riconoscere in varia misura, qualita e serieta l’espressione della vita reale di oggi ». Quando scrivevo queste parole,! la pubblicazione di Metello non aveva ancora dato una concreta, ulteriore smentita ai frettolosi becchini del neorealismo, né offerto un’occasione di riprendere quelle appassionate discussioni cominciate appunto dieci anni fa con la Resistenza. Sicché mi

sembra cosa importante che, in luogo di rievocazioni commemorative, sia proprio un avvenimento letterario ad attirare l’attenzione del pubblico e dei critici. Ammiratore di Pratolini e, in particolare, delle sue Cronache di poveri amanti, che m’é parso sempre il suo libro

pil ricco e pienamente impegnato (come allora ancora si diceva) e tale da preferirsi per il suo significato culturale e artistico a tanti altri romanzi della nostra letteratura con-

temporanea, mi ero avvicinato a Metello con Vanimo del’ lettore affezionato e disinteressato, voglio dire senza Vinteressato proposito di doverne scrivere. Accrebbe la mia aspettativa (e credo non solo la mia) la presentazione, editoriale che tutti attribuiscono all’autore, e di cui Pratolini

(ch’io di chi perché riferire

sappia) non ha rinnegato la paternita. Per comodo abbia smarrito la copertina del libro, la trascrivo € un documento al quale capitera spesso di doverci :

« Una Storia italiana é il titolo di un ciclo che abbraccia un determinato periodo di tempo, dal 1875 al 1945, e che nel disegno finora abbozzato non supera la misura di una trilogia.

Diciamo

subito che ciascun romanzo

resultera concluso,

au-

tonomo e senza rapporto, se non di circostanze marginali, con

gli altri. Il filo che unisce la trilogia é dato dal tempo: 1a dove un

libro

finisce,

all’incirca

dallo

stesso

anno

e dalla

stessa

stagione, incomincia il libro successivo. Ancora, di volta in volta campeggiano protagonisti e ambienti diversi, tipici di quei diversi strati sociali, dal proletariato all’aristocrazia alla piccola e media borghesia, che durante codesti settant’anni hanno caratterizzato la vita italiana. Cid, occorrera precisare, non come un’esterna prospettiva sociologica, bensi come la prospet1 Vedi « L’Unita » di Roma

del 9 gennaio

108

1955.

tiva propriamente romanzesca cende

e cose

nelle vicende

e persone

del suo

nel cui sfondo si collocano vi-

storicamente

tempo,

vere.

la storia

Cosi,

connaturata

di Metello

Salani

(il

protagonista di questo primo libro). Essa si basa su alcuni valori indistruttibili dell’uomo: la sua origine, la educazione dei sentimenti, la lotta per la vita, e quindi l’amicizia, il lavoro,

Yamore, la solidarieta, il peccato. Una storia privata, semplice, oscura, che nella Firenze degli ultimi decenni del secolo xix e dei primi anni del xx, riassume

le maggiori esperienze di un’intera categoria e si inquadra nel processo di sviluppo di una societa ».

Intenzioni grosse (come si usa dire per il pudore di adoperare l’aggettivo grande). E del resto sapevo che Pratolini lavorava da molto a questa sua nuova opera. Avrebbe dunque avuto un nuovo romanzo storico questa nostra letteratura che da Manzoni fino a Bacchelli e a Jovine annovera scrittori di diversissima tempra che hanno portato tuttavia una serieta di preparazione adeguata al mondo storico e fantastico che volevano unitariamente rappresentare? Quel periodo storico tra la fine dell’Otto e gli inizi del Novecento, nel quale si erano svolte le piti feroci repressioni — del movimento operaio e che gli avevano dato nuovo slancio e capacita di_passare all’offensiva, sarebbe stato rappresentato nella sua autentica luce drammatica, quale cioé non viene rievocata dalla storiografia borghese e dai nostalgici della bella eta umbertina, l’eta del Re « buono »? Le intenzioni operanti, e non quelle programmatiche di Pratolini mi parvero pit chiare e modeste leggendo il libro. Ma intanto sopraggiungevano i giudizi della critica e cominciai a diffidare delle mie impressioni, che erano state serene misurate

e senza

entusiasmo,

quali poteva suscitare

un libro tanto dosato e limitato nellf esecuzioné, quanto si mostrava ambizioso e risoluto nei propositi. Arricchito da _tante questioni poste via via e insieme divenuto estremamente perplesso di fronte all’incrocio delle esaltazioni e delle stroncature e soprattutto di fronte alle contraddizioni interne (rispetto ai metodi e alle ideologie) che molti critici si rmandavano in un giuoco spettacoloso, mi parve urgente rileggere il libro per ristabilire oggettivamente che _cosa fosse quel romanzo, perché stentavo a ritrovare, ri109

flessa in cento specchi, e non tutti limpidi e di piana superficie, la fisionomia vera di Metello che pur m’era apparsa cosi nitida a prima vista. Aveva cominciato, mi pare, il Vigorelli con quella rever-

sibilita che per certi cattolici avventurosi tien luogo di dialettica, con quella logica dei confusi che surroga una qualSiasi logica dei distinti, quella disinvoltura e capolevatura per cui, a forza di camminar sulle mani costoro son sempre pronti a scoprire che gli altri sono « convertiti », né piu né meno

come

loro, i dinoccolati

contorsionisti.

E un salto

in avanti il salto indietro di Pratolini s’intitolava Varticolo:? nelle Cronache di poveri amanti era un narratore, ora é un romanziere, il suo é ultimo romanzo storico e il primo

romanzo socialista. E anche senza volere « cristianizzare (pitin la di quel che gia.non sia) il socialismo di Pratolini » esso contiene quel « giusto senso dell’eterno » che costituisce « l’impazienza cristiana » la quale « quando é tenuta integra é piu operante (anche nell’arte) dell’impazienza socialista ». Questo affermava il Vigorelli, cosi concludendo

(diciamo

cosi) su Metello:

« esemplare

romanzo,

proprio perché quel Gorkij che c’é in Pratolini sa raggiungere tramite Cechov un suo Manzoni ». In fondo a questa prosa stile 1942 dell’impazientissimo critico cattolico, Carlo Salinari* credette di poter trovare un punto di contatto. E questo é certo, perché in ogni « guazzabuglio » (la parola é di Salinari) qualcosa con cui, andar d’accordo si puO sempre trovare: « mi piace immaginare — scriveva infatti Salinari — che al fondo di quei riferimenti cosi strani e impensati vi sia la stessa impressione che ha fatto sorgere nella mia mente uno slogan (...): che questo libro segini nella nostra narrativa contemporanea la fine del neorealismo e l’inizio del realismo, o per esser pit precisi, la fase di sviluppo del neorealismo in realismo >. Le Cronache di poveri amanti appartengono al neorealismo perché senza personaggio centrale, qui invece c’é ed é « costruito con sapienza e compiutezza, quel suo cuore é rappresentato in tutto il suo sviluppo ». Metello insomma (per 2 Vedi « La Fiera Letteraria » del 6 febbraio 3 Vedi « Il Contemporaneo » del 12 febbraio

110

1955. 1955.

riassumere con un verso di don Salvatore di Giacomo) ha un ben formato cuore e se ne vanta, cuore di uomo e di

socialista: « nello sviluppo della sua personalita le donne. non possono contraddire le sue idee, perché in armonia di quelle idee si € sviluppato il suo gusto, il suo modo di comportarsi, di agire e di pensare anche nelle faccende private. E-viceversa. Imperniato su un personaggio cosi sapientemente costruito tutto il romanzo acquista una struttura organica. Le stesse figure minori non sono macchiette pit o meno riuscite... ma costituiscono lo sfondo necessario della figura principale e insieme momento essenziale della sua rappresentazione. E in questo elemento che si pud trovare il passaggio dal neorealismo al realismo ». Ecco un/altra cosa da cercare nel rileggere il romanzo, pensai, sebbene Salinari avesse onestamente avvertito a proposito del suo slogan, di prenderlo « con tutte le cautele con cui vanno prese simili formule ». Come dire: se io sono stato incauto,

un po’ di cautela mettetecela voi, e tutto andra nel migliore dei modi possibili. Non tardarono a venire opposizioni violente dalla stessa parte cattolica in cui era cominciato losanna. Avverso il Bo,’ contegnosissimo il Piccioni* parlarono di carattere cinematografico del libro e lo ridussero (cito chi si ritiene il piu. autorevole, il collaboratore del « Popolo ») a « una sceneggiatura rapida e magra, pronta a trasferirsi in fotogrammi ». Scrisse infatti il Piccioni un dotto articolo per insegnarci, caso mai non l’avessimo saputo, che nel romanzo storico «lo sfondo deve essere al servizio della invenzione narrativa ». Qui invece c’é « l’intento dimostrativo » di « discretissima, cauta. propaganda ». Che aveva voluto svelare alla gente Pratolini, « la presenza nel mondo della classe operaia »? Ma la storia é « patrimonio di tutti € non puo giocare a vantaggio di alcuna parte ». Che furbo, no? A lui, Leone Piccioni, non gliela fanno. L’arte € questione di linguaggio, di dialogo e di stile. In Metello Pratolini (e qui una citazione a caso, perché ai piccioni della critica stilistica 6 sempre sufficiente beccare un periodo 4 Vedi « L’Europeo » del 13 febbraio 1955. 5 Vedi «Il Popolo » del 13 febbraio 1955.

111

.

qualunque) si é perduto, é sceso al livello del « compitino >». E sapete perché? Lui lo sa, il furbo. Perché Pratolini « si dibatte in qualche grosso equivoco di natura strutturale », perché c’é stata una « proposta » fattagli « da qualche parte interessata »: la proposta « di per sé equivoca della letteratura nazionale-popolare » che lo ha messo sulla strada «senza uscita » del realismo, distogliendolo dal Paradiso della poesia, dove pur lo conduceva una « perenne disposiZione lirica >. Un articolo pieno di simpatia scrisse subito il Bocelli.® La propaganda non c’entra affatto nel libro di Pratolini, che non ha voluto

« dimostrare » nulla, obiettava

al Pic-

cioni. Pratolini ha saputo mantenersi « al di sopra della mischia ». Basti vedere come ha ritratto uno dei padroni, Ving. Badolati, rendendo « omaggio alla sua tempra di lavoratore e di lottatore ». Metello € un’opera d’arte senza dubbio anche se (e qui polemizzava con il Vigorelli) non é un romanzo storico, anzi neppure « un romanzo in senso stretto ». Non ci sono personaggi ma figure, figure non di cinema ma di un affresco dove si era ridotto al minimo il

dissidio della precedente arte di Pratolini « tra elementi rea’ listici e motivi lirici ». Per il Bocelli « la forma e Varte di

Pratolini va colta in questa capacita di affrescatore, di armonizzatore di figure ed episodi, non pur temporale ma spaziale ». D’accordo col Bocelli parve Piero Dallamano:? il romanzo era fin troppo armonioso. Ma senza negargli i pit aperti riconoscimenti aggiungeva che sarebbe un errore porre Metello per certi suoi aspetti estrinseci nella scia dei grandi romanzi storici. Cid per ragioni affatto opposte rispetto a quelle estrinseche e formali di « composizione » addotte dal Bocelli: « anche se le esperienze, le convinzioni, gli umori di Pratolini gli forniscono la chiave per intendere rettamente e talvolta acutamente quali forze muovono la storia e in che direzione, tuttavia la sua natura di scrittore resta sostanzialmente idillica. In Metello manca l’urto, il conflitto, la dialettica delle forze, delle idee. La vicenda

viene vissuta da una sola parte, quella dei lavoratori: 6 Vedi 7 Vedi

«Il Mondo » dell’8 marzo 1955. « Paese-Sera » del 17 marzo 1955.

112

lo

scrittore si cala profondamente in quel mondo che gli é congeniale e radicato nel sangue, nella memoria ». Che che, replicd subito Emilio Cecchi * a questi « altri » (come Dallamano) « di estreme opinioni », che « per conto loro vorranno svalutare e deridere come idillica una lotta di classe cosi interpretata, e come romantica e nostalgica Yemozione di cui Pratolini ’ha pervasa ». Hanno torto. «E sbagliano per idillico e sentimentale cid ch’é semplicemente

vero ed umano ». Anzi, s’era talmente incalorito

il Cecchi a difendere questa verita che « volentieri » porto la sua testimonianza di contemporaneo, come fiorentino « parecchio pit anziano di Pratolini » per dichiarare che la rappresentazione dei « fatti di maggio » 1902 gli era « sembrata riuscita ed autentica ». Quelli erano tempi di « civilta sostanzialmente superiore » (diceva Cecchi riecheggiando il pit idillico Croce) « in paragone ai metodi freddi ed atroci che la lotta di classe ha assunto oggi ». Allora si, quando quella « misera gente » sentiva e soffriva « cosi ingenuamente

ed intensamente » la passione

politica!

Allora,

si,

quando < i datori di lavoro » (0 padroni che dir si vogliano) erano « gelosi naturalmente del proprio utile, e tuttavia non incapaci di comprensione »! E « con quale senso di realta » li ha tratteggiati il Pratolini evitando d’altra parte « di fare di Metello e dei suoi compagni altrettanti sanctificetur »! A queste lodi di Cecchi che venivano a sostenere con vi-

gorosi argomenti

extraestetici,

quasi autorevole

nianza davanti a notaio o maresciallo

testimo-

dei carabinieri,

che

Pratolini aveva detto il « vero », successe poi un articolo seriamente critico di De Robertis,’ tutto fitto di notazioni,

che sembravano scritte ai margini ma che toccavano invece con nervosita polemica i punti nodali del romanzo e le questioni critiche essenziali. Vi si parlava severamente ma francamente dell’immaturita di Pratolini per « una rappresentazione di tal complessita » quale era quella propostasi € si concludeva che la parte viva del libro era l’educazione sentimentale e le figure di donne che « tutte spiccano nel 8 Vedi « Corriere della Sera » del 29 marzo 1955. 9 Vedi «Il Nuovo Corriere » del 14 aprile 1955.

113

nostro ricordo distintamente e creano Il’aria intorno >». Ultimo degli avversari quotidiani e settimanali di Metello, mordace come non pretendeva di essere il Piccioni, ma pit furbo di lui, un furbo di quelli che stanno a sinistra dei comunisti,

accusO esplicitamente

Pratolini di aver trattato

la sua materia « con tattica diplomatica » che rispondeva a « una certa linea di politica culturale ». Non era sapienza artistica quella di Pratolini ma « furbizia » nel costruire. E come l’autore aveva « sogguardato » con paternalismo il suo mondo,

cosi il critico sogguardava

il tutto e scriveva

il suo pezzo d’occasione lanciando l’allarme per il « preoccupante » fenomeno di Pratolini che da scrittore « di » popolo si trasformava in scrittore « per » il popolo. O distinguitrice fierezza d’indipendenti che sui giornali degli agrari «sono dolcemente costretti a rappresentare qualche cosa di estraneo » (proprio come dicono che sia dei personaggi di Pratolini!) Di cosi estraneo all’oggetto di cui discorrono, e alla critica e all’arte, anch’essi « intrisi di lieto fine, sorretti dal senno di poi », veri Giannettini dell’anticomunismo,

che si mettono a compitare il loro libelluccio contro il cinismo

di coloro

che, stiano dentro

o fuori o accanto

al

Partito comunista, applicano sempre, secondo i Giannettini, la linea, anche senza crederci. Essi, i fieri, sono invece dei

credenti: « la terminologia in cui credo ». Secondo questa scienza, educata al pit rigoroso verbalismo, come definiva Antenio Labriola l’abbondanza di parole e Vindigenza di pensiero che contraddistinguono il letterato italiano, il Pampaloni © cosi sentenziava: « quando in un romanzo la tesi prevale sulla poesia, il romanzo é€ reazionario, anche se la tesi ¢ progressiva ». Che le classi lavoratrici italiane si ~ siano conquistate i loro diritti o « la promozione sociale », come scrive il nostro Giannettino anticomunista, non é sto-

ria (e questo lo sa perfino il Piccioni), ma una « tesi >. « Tesi giusta », concede, sogguardando, il Pampaloni. Ma | il guaio é che Pratolini non lha esposta in modo « cosi lineare » come

si conveniva,

ma l’ha condotta in confor-

mita degli « schemi che si conciliano troppo bene con J’ortodossia 1955 ». Pampaloni é un eretico e non si commuo10 Vedi « Il Resto del Carlino » del 31.marzo

114

1955.

,

ve per il brutto romanzo propagandista di Pratolini, ma é abbastanza superiore alle meschinita di parte, per cui riconosce, implicitamente d’accordo con Vigorelli e con Salinari, che « la struttura del romanzo é anzi, una delle cose

meglio riuscite ». O divina terminologia, illuminaci tu e sollevaci alle altezze di questi eretici! Infine vennero i critici delle riviste. Ci fu un ignoto proletario, ma di cultura cosmopolitica,

italiano Metello. Un eros « le piu

che sullo « Spettatore

» ' ha disdegnato come troppo borghese questo Che concetto ha dell’amore il nostro Pratolini? santificato, le cui intimita possono essere anche tetramente e materialisticamente borghesi ». Ascol-

talo. dall’aldila,

o Benedetto

Croce,

questo

antiborghese,

che non immemore dei tuoi frammenti di etica li attribuisce a Pratolini, e per protesta, « senza alcuna ironia » preferisce a tanto borghesume il « clima eroico e celebrativo della letteratura sovietica ». Cos’é infatti questo Pratolini? Un romanzo di gusto « Biedermeier » anche se rinfrescato di nuovi panni operdi. E perché questo romanzo dal « semplicismo elaborato » é « in ogni senso fallito »? Perché é nato da quella « nostalgia del romanzo borghese » da cui non riusciamo a liberarci. Non sarebbe tanto pit saggio leggerci Balzac « anziché affannarsi sulla base degli alberi genealogici che dimostrano come da Balzac possa discendere tanto Proust come

Carolina

Invernizio,

a voler com-

binare matrimoni fra le discendenze di Proust e di Carolina Invernizio, nella speranza che ne rinasca un nuovo Balzac »? Decisamente un cosi bello spirito antiborghese non poteva trovare nulla di-« popolare-» tranne che nelle inten-— zioni di Pratolini. Ma a Metello non spettava il destino di rimaner vittima solo di queste punzecchiature e le sue « spalle larghe » avrebbero potuto sopportare da una parte una rinnovata apologia, le Osservazioni di Alessandro Par-Tonchi,” che citando

un altro cattolico

si avventurava

a

lodare i muratori fiorentini di Pratolini in quanto appaiono « pil giustificati dai vangeli che da Marx, Engels, Cafiero,

.

11 Vedi il n. 3, marzo 1955, pp. 118-19. 12 Vedi « La Chimera » di Firenze, aprile 1955.

7

115

Kropotkin e Bakunin ». Per il Parronchi nel Metello siamo « pil prossimi allo spirito di Tolstoi che a quello di Nietz- — sche ». E dopo avere spropositato su codeste vicinanze continuava: l’arte di Pratolini, proprio perché tradottasi nella « umanita dei suoi personaggi » € andata cosi «al di la dell’idea materialistica della storia » da riuscire a legarsi « a qualcosa che é insieme pit contingente e pili eterno » delle azioni di Metello, di Badolati e di Ersilia:

« si dica

pure ad una immagine della vita che resta dominata da qualcosa che supera luomo e le sue previsioni e le sue ispirazioni ». C’é arte e ’umanita? Dunque non pud non esserci il cristianesimo, non si puo non andare contro le « ragioni- politiche », anche se « gagliardamente sostenute ». E infatti ii modo migliore per sostenere un’ideologia « cosi stretta » come quella marxista, e difficile da « adattare all’arte che sia veramente tale », sarebbe quella di peccare «di umanita, magari di troppa umanita » come Pratolini, i cui personaggi son cosi « veri uomini del popolo » che per fortuna nascondono sempre « una certa diffidenza verso le idee ». Insomma il socialismo é tanto calato nel sentimento

che per fortuna non lo ritroviamo pit, ma

in compenso troviamo non so pit quale « vecchia norma di estetica », in base alla quale se gli scrittori affogano con tutti i loro ideali, il critico cattolico pud ripescarci sempre, oltre che il « pit prossimo » e il « pit eterno », un « Qualcosa » di maiuscola trascendenza. A metter pace, anzi a « concludere con un consiglio di prudenza rivolto alle parti» é infine intervenuto Franco” Fortini su « Comunita »,” deplorando che ci sia stata a proposito di Metello una « discussione di tendenza ». Ma se egli si 6 messo al di sopra delle parti, questo non vuol dire che non abbia preso una posizione apertamente polemica nei confronti di Metello e non abbia fatto propri i giudizi negativi precedenti e non li abbia elaborati con quella sua ambizione di rigore scientifico che € certo una bella ambizione. Riprendendo i motivi critici pit seri non ha creduto di dover trascurare e di approfondire né quelli di Bo sulla forma cinematografica del libro, né quelli di ~

13 Vedi il n. 30, aprile 1955, pp. 54-56.

116

Pampaloni sul modo -« reazionario » in cui il romanzo sarebbe stato condotto. Ma del Pampaloni che (avverte gentilmente il Fortini) « non é affatto marxista » ha voluto

correggere la sentenza su citata, anzi tradurla in una formulazione che nelle intenzioni di Fortini dovrebbe essere « affatto marxista ». Questa specie di legge estetica, la legge Fortini, suona cosi: « Quando in un romanzo la tesi cioé il q.e.d. porta ad obliterare le contraddizioni reali, quando cioé la realta viene facilitata, il romanzo é nella sua dimen-

sione ideologico-politica, reazionario, malgrado le sue intenzioni progressive ». Quindi, aggiunge come corollario il Fortini, « indipendentemente »-dal romanzo

di Pratolini (e

qui il nostro scienziato sospende verbalmente e amichevolmente quella legge che pur discendeva dal romanzo di Pratolini): « Qualsiasi letteratura edificante e non profondamente critica ¢ obiettivamente reazionaria >. Povero Pratolini! A che ti serve quel pietoso « indipendentemente »: una legge é una legge! Metello = Giannettino

=

Omobono,

anche

se le tue intenzioni

siano state

piu progressive di quelle di Collodi o di Cantu. A questo punto mi sembra urgente ritornare sulla questione base: quali sono state le intenzioni di Pratolini?E in che situazione storica si trovava quando ha concepito il suo romanzo? Una lettura critica di un libro non puo prescindere da questo punto di partenza e da queste due questioni che fanno poi una sola. E specie a coloro i quali amano

« volontieri » richiamarsi

a Lukacs,

vorremmo

ri-

cordare appunto quel che egli chiama peccato capitale della critica borghese, il suo difetto di storicismo (e poco im-. porta, -aggiunge Lukacs, che « tale deficienza si manifesti in forma di un antistoricismo apertamente professato o di un lambiccato pseudostoricismo »). Quando Pratolini ha scritto le Cronache di poveri amanti la sua poetica della memoria senza sforzi poteva arretrare agli anni del passato Prossimo, in cui incontrava la sconfitta della classe operaia e la temporanea vittoria del fascismo. L’impeto rinnovatore della Resistenza sorreggeva lo scrittore a rievocare quella situazione in cui la tragedia _ Storica si spegneva nell’elegia crepuscolare dei poveri aman117

ti. Al centro dell’opera si collocava Pepisodio della violenza squadrista fiorentina, la notte dell’Apocalisse, e la materia si sollevava a un’intonazione epica. Il romanzo attingeva, nonostante i suoi limiti di struttura e di forma, che ora non

importa di analizzare, una sua unita d’ispirazione. Lo scrittore era in grado di rappresentare con serenita la tempesta e conoscendo l’episodicita della sconfitta poteva obiettivare, nella opposizione disperata alle forze reazionarie o nello stesso amaro ripiegamento, una carica di ottimismo vitale che non aveva bisogno di ostentare nel racconto, ma che ne era il suo sangue attivo e circolante. Quando ha scritto Metello (nel ’52) la situazione storica era diversa. E tanto piu divergeva nella valutazione soggettiva o nell’animo degli intellettuali che meno seriamente si erano legati al movimento democratico. Le disillusioni seguivano alle illusioni. Gli estremisti di ieri, che volevano fare un Piazzale Loreto della cultura, passarono dalla parte dalla quale non si erano mai distaccati consapevolmente, e per questo rappresentando l’Uomo e il Non-Uomo, li ave_vano sempre concepiti cosi astrattaménte avversi e cosi affini tra loro nella loro concreta vilta fatta di violenza e d’impotenza, carica di tutto il fondo limaccioso del decadentismo dal quale non avevano saputo anche perché non avevano mai seriamente tentato di liberarsi. E che meraviglia? Il coraggio morale e intellettuale uno se lo pud dare meno facilmente del coraggio fisico. Di fronte all’accresciuta pressione dell’imperialismo, la lotta di questi ultimi anni cosi dura, cosi continua, aveva dato l’impressione, soprattutto a chi si era pit logorato dentro, mettendosi nella situazione comoda ma putrescente dell’attesa, che la prospettiva lunga per la classe operaia volesse dire prospettiva incerta, e la stanchezza un precoce sintomo di sconfitta. La letteratura disimpegnata cominciava a succedere a quella letteratura che generalmente si era impegnata piu nelle intenzioni e nella retorica che nei risultati creativi. Come ha reagito Pratolini? In modo istintivamente sano, riaffondando la memoria in un passato meno vicino, per ritrovare alle fonti la sorgente viva di quel movimento storico che sembrava ristagnasse in un’atmosfera pesante, proprio quando la lotta per la pace, alla vigilia di rivelarsi 118

decisiva per le sorti del mondo e dell’Italia, si confondeva nella stanchezza che gia era venuta a toccare alcuni strati della cosiddetta « aristocrazia » operaia italiana, in una a parole non confessata aspirazione alla pace di classe. Pratolini risaliva dunque l’Arno della sua memoria, ma portandosi con sé questa aspirazione allidillio che si era diffusa nell’aria, un sentimento che contraddiceva profondamente all’aspro paesaggio storico che avrebbe incontrato nel suo cammino, lo sfondo degli avvenimenti nei quali avrebbe collocato appunto la sua « storia italiana ». L’ottimismo della sua volonta di artista pit che mai avrebbe avuto bisogno del pessimismo dell intelligenza (per citare una massima cara ad Antonio Gramsci). Ma non gli avevano rimproverato sempre come suo difetto di essere solo un cronista? Voleva andare oltre, elevarsi alla storia, guar-

dare da un punto di vista pit elevato il suo « mucchietto di terra» fiorentina, in modo che s’intravvedesse tutta V'Italia e anche di la dalla nazione. Con una prospettiva cosi ampia, un artista non poteva non preoccuparsi che la rappresentazione sfumasse in un cielo troppo sfolgorato dal sole dell’avvenire, dagli ideali storici del socialismo e dell’internazionalismo, e perdere il rilievo e il colore e il sapore locale. Rimanere fedele al mondo concreto e nativo della sua fantasia era limite serio, non era poverta (come pensano, coi loro degni critici, gli scrittorelli che s’impallonano nella velleita di rappresentare sentimenti « europei »). Nella cronaca fiorentina Pratolini ritrovava un grande fatto che egli voleva polemicamente opporre alla storia ufficiale: lo sciopero dei muratori del 1902, durato quarantasei giorni, e che a un trentennio dalla unificazione nazionale poteva suggellare la « storia » della nostra societa che avéva in mente Pratolini, e che presupponeva una storiografia nuova, nata da un pensiero e da una azione della nuova classe protagonista, che imprime il movimento alla storia moderna. Ma piuttosto che alle linee generali di questa storia che pure esiste allo stato di memorie, di studi, di abbozzi e di frammenti, sembra piuttosto che Pratolini si sia attenuto al rovesciamento polemico c meccanico della classica storiografia borghese, quella di

roce. 119

Il periodizzamento scelto da Pratolini rispondeva alla necessita artistica di individuare al massimo la rappresentazione centrandola su di una figura che impersonasse (o dovremmo dir meglio: incarnasse) la classe operaia. Trenta anni necessari per Metello, per portarlo ad una sua maturita di uomo, di lavoratore e di socialista in coincidenza con l’avvenimento storico che segna questa maturita. Una concezione di tal genere lo avrebbe dovuto portare a creare un personaggio rappresentativo: lo sciopero fiorentino del 1902 era una troppo irresistibile attrattiva perché la sua fantasia non vagheggiasse il protagonista come uno degli scioperanti, un muratore

salariato. La sua condizione,

ha

obiettato il Fortini, non é tipica, perché € pit vicina a quella del bracciante agricolo che a quella del proletariato industriale. Ma veramente (come sembrava a quel modesto marxista che era Engels) « nel paese la popolazione agricola prevale, e di gran lunga, sulla urbana; poche, nelle citta, le industrie sviluppate, scarso quindi il proletariato tipico... » (Lettera a Turati del 26 gennaio 1894).

Molti dei muratori di Metello sono ancora legati alla campagna, ma la loro coscienza politica maturera a contatto dei « cittadini » tra cui sono emigranti e reduci veterani del Risorgimento e della Comune, che si erano evoluti verso l’anarchismo e successivamente verso il socialismo. La storia individuale di Metello é « connaturata alle vicende del suo tempo ». Connaturata é la parola giusta, non solo delle intenzioni di Pratolini. [1 rapporto di Metello con la storia restera infatti affidato pil alla maturazione del suo istinto di uomo

e di lavoratore, che ad una con-

sapevolezza politica e morale. Se a quindici anni era scappato a Firenze dalla campagna dove era vissuto come un trovatello, benché affettuosamente adottato, fu perché aveva saputo per caso che in citta era morto il suo vero padre, un renaiuolo d’Arno, un anarchico: qualcosa di « ancestrale» (come dice Vautore, non dubitando di dover ficcare questa « difficile » parola nel suo « facile » libro) lo guida dunque, dietro al treno, attraverso il buio d’una galleria ferroviaria verso il suo « destino di cittadino ». Avrebbe voluto assaporare l’amaro di quel passato, disposto ad affrontare qualsiasi disagio e qualsiasi ignota avventura, che 120

‘non fosse la vita del garzone di campagna. Ma ritrovo, -invece del padre, gli amici del padre, e il lavoro entusiasmante del costruttore di case e le lotte del proletariato, dure ma vittoriose, e in luogo della madre le donne, le pit varie esperienze d’amore che non avrebbero mai esaurita la vigilia e la prontezza dei sensi predominanti nella sua

natura. Metello si portava con sé Vidillio della sua infanzia campagnola, anche se l’autore commenta che non se ne poteva

ricordare, perché era stato un mondo troppo felice. L’idillio lo ritrovera, se non nelle cose, nella sua avventura a lieto

fine, dove si delinea un compenso quasi provvidenziale al « senza famiglia », attraverso una doppia educazione, quella sentimentale e quella dei sentimenti. Questo non é un bisticcio di parole, perché la « educazione dei sentimenti » (forse sara superfluo ricordarlo) nel linguaggio del mondo socialista moderno significa qualcosa di diverso che riguarda la coscienza dei doveri politici sociali e morali del lavotatore. Sulla copertina Pratolini parla di « educazione dei sentimenti », nel libro di « educazione sentimentale ». Cid non vuol dire che la prima sia rimasta sulla copertina e tanto meglio cosi, come hanno Ilaria di dire i lodatori borghesi di Pratolini. Ma nemmeno vuol dire che il libro possa ridursi solo alle accennate intenzioni della copertina, come vorrebbero sostenere gli eretici di non si sa quale eresia € i problematici di non si sa bene quale marxismo. E mentre essi si affannano a dimostrare che le intenzioni di Pratolini sono « conformiste », per conto loro gli anacronistici filatori di seta del realismo cattolico s’affannano ad esclamare come Renzo Tramaglino, che nel libro « la c’é, la c’é» (la Provvidenza)! In un libro si puo trovare tutto quello che siamo disposti a metterci: anche il realismo, quello cattolico e quello so-

_ Cialista. Meno facile é ritrovarci quello che c’é effettivamente, e come ha potuto esprimerlo la capacita di uno scrittore acquisita dalla sua carriera artistica. Ma i critici devono provarsi a mettere da parte i loro schemi apologetici e i loro paraocchi polemici. C’é un donchisciottismo che da anni si esercita, lancia in resta, sull’arte nuova, ac-curatamente trascurando di capire che cosa essa storica121

mente significhi, quali siano le necessita e le contraddizioni interne della cultura da cui nasce. Quest’arte la vorremmo costruttiva e non edificante, mentre deve rischiare tutti

i pericoli, le strettoie e perfino i vicoli ciechi del didascalismo, come non dubito di rischiarli uno dei maestri di questa letteratura, Massimo Gorki. Testa in fiamme, questi cari

spettri che cavalcano spettri, vanno in cerca di miraggi e di allucinazioni. E cosi hanno piantato la loro lancia in petto a Metello. Era l’ora! Finalmente lavevano incontrato, e nella nostfa letteratura, un campione di quegli eroi positivi che si aggirano nella narrativa dei paesi socialisti e che da tempo essi sognavano di ammazzare, prima che scomparissero, dopo tante prove, tante discussioni e tanti fallimenti. E stato uno dei pit buffi gui pro quo in cui potessero cadere i nostri mangiaconformisti, che di conformismo si pascono, perché altrimenti di che cosa si nutrirebbero? Ma Metello é li, e a leggerlo con pit attenzione e meno prevenzione, si scoprirebbe che é stato concepito direi proprio con lincubo dell’eroe positivo, con la preoccupazione di non volerlo rappresentare secondo questa immagine abusata e convenzionale. Forse Pratolini, fra quei lettori che ci illudiamo debbano sempre contare di pit della piccionaia, teneva soprattutto al riconoscimento giusto di queste sue intenzioni. E invece sono coloro che pit hanno

frainteso,

e sara stata una brutta amarezza, in mezzo a tanti festeggiamenti. Alla tentazione di biografare un eroe positivo lo induceva senza dubbio la materia. La storia di quegli anni non solo l’autorizzava (come sembra che egli abbia Varia di dire e quasi di scusarsi), ma esigeva da una fantasia meno > tepida e meno incline al lirismo e all’elegia, che l’eroe balzasse fuori dall’atmosfera del messianismo socialista, allor-

ché l’istinto combattivo delle masse era la materia prima e incandescente per la lotta organizzata e la sete di educazione ideologica era anch’essa un magnifico potenziale rivoluzionario. La nostra letteratura non ha nulla che possa essere paragonato ai Racconti d'Italia 0 a La madre di Gorki, opere ambientate in un periodo in cui anche nel nostro Paese il movimento tendeva a diventare « sostanza infiammabile », per definirlo con le parole di un celebre arti122

4

colo di Lenin. Un’opera di tal genere sarebbe riuscita qualcosa di profondamente nuovo, a patto, s’intende, di non cadere in una banale imitazione (che era una ipotesi da escludere senz’altro per uno scrittore dalla personalita gia adulta come Pratolini).*Certo, ritrovare il mondo del nostro movimento socialista nella sua giovinezza e rappresentarlo non sentimentalmente nella sua ingenuita era una cosa assai difficile. A parte ogni considerazione sui requisiti geniali necessari, la difficolta era anche di ordine generale, e sus-

siste per qualsiasi scrittore maturato dopo il crollo del fascismo, che voglia farsi « storiografo » della nostra societa. Difficile, quando unareazione cosi lunga e cosi sistematica ha rescisso nel corpo def Paese una continuita di tradizioni che si recuperano con molta lentezza e solo se una grande lotta del movimento democratico non sollecita appunto anche in sede culturale questo recupero. Quando poi si consideri che per il movimento operaio alla « critica sociale » del riformismo € succeduta una critica leninista che per - cinquant’anni, nella pratica e nella teoria, ha generato conseguenze di grande portata, in Italia come in tutto il mondo, ci si rende conto che non si pud prescindere da certe questioni ideali, le quali complicano con quelle letterarie la costruzione di un romanzo storico-politico. E sempre possibile cadere o nell’atteggiamento crepuscolare ironico-

affettuoso o negli anacronismi

esteriori spicciolando un

certo « senno di poi » nel modo pit accessorio ed espungibile: pericoli non sempre evitati da Pratolini, perché non Si € preoccupato di approfondire una concezione e impostazione ideale fortemente .radicata nella storia, che non gli sarebbe stata d’impedimento all’arte, anche se non poteva — surrogare quella forza poetica unitaria, sorretta da una seria e conscia volonta di genio che si richiede per un capolavoro, quell’alta e classica « ingenuita » goethiana di cui

parlava Schiller. Essendo in Pratolini non sempre chiara e robusta l’im_ postazione storico-ideale, non avendo egli seriamente voluto un romanzo storico (e qui tutti i critici sono d’accordo), ma piuttosto una « storia italiana », era inevitabile che

volesse dipingere il suo eroe come il pit « italiano », nel senso che un’allegra sociologia corrente attribuisce alla pa123

rola. Si direbbe anzi che abbia mirato alla tipologia delYeroe positivo come per guardarsene punto per punto. E cosi invece del tipo idealizzato in primo della classe, tutto orgoglioso e consapevole della sua energia e dei suoi doveri, volitivo ma ponderato, ardente in politica e morigerato in amore, col rude viso statuario dell uomo pubblico in cui par quasi offensivo sospettare l’'uomo privato, Pratolini si 6 messo a costruire un personaggio di dichiarata mediocrita,

che non vuole essere né il primo né lultimo,

che dei suoi doveri di militante si dimentica spesso anche se a malincuore, che é sicuro soprattutto quando si affida all’improwvisazione, che é vanitoso del suo prestigio fisico e del suo mestiere, ma € « posato » in politica (giusto mezzo tra l’estremismo anarchico e il ben pensante amore delVordine), con pit boria che coscienza di classe. Percid lo vedremo rappresentato pill in camera da letto che alla Camera del Lavoro, ed é maraviglioso come non divenga un mantenuto e vada in carcere per sfruttamento di donne anziché per le sue idee e per le sue lotte, e sorprende perché, quando é€ messo in liberta, non mantenga i suoi propositi di farsi, come si dice, i fatti suoi, « d’ora in avanti ». Il personaggio positivo é un personaggio che pud riuscire caricaturale in mano ad un artista debole, ma per la logica interna del suo carattere é destinato a sostenere parti epiche o tragiche. Metello invece risulta un personaggio sostanzialmente comico-idilliaco, anche se la sua storia attraversa un’epoca i cui avvenimenti sono drammaticamente tesi e non mancano di episodi epici. Eppure Metello ha del-

le singolari affinita col personaggio positivo. Come quello é scolpito tutto d’un pezzo nel blocco della sua materia intellettuale politica e morale, mai pencolante tra gli opposti estremismi, e senza vera intimita perché le virtu private sono accessorie; cosi Metello é plasmato tutto nel suo cor-. po e nei suoi appetiti, immemore d’ogni pensiero che non s’incarni in un ricordo di donna, senza vera intimita per-. ché i suoi doveri. e i’suoi sentimenti sociali formano un_ ideale garofano rosso che adorna e compie esteriormente la. sua virilita di vero italiano. A caratterizzarlo non é tanto’ la sua vita di lavoro, la sua educazione ideologica e la sua’ 124

lotta politica, quanto la pratica del suo gallismo, e di tanto é lontano dal Paolo Vlassov di Gorki, quanto € vicino al Bob delle Ragazze di San Frediano, il popolare « gallo della Checca ». E un gallismo spiccio voglioso e sicuro, visto nel suo aspetto idilliaco e positivo, che pud al massimo diventare oggetto di scherzi beffardi, ma non di satira come quello dei dongiovanni piccolo-borghesi del povero Brancati che su di loro esercit6 i suoi umori intossicati, fermen-

tanti dal fondo di un cattolicesimo represso (che poi da ultimo € venuto fuori); né pud diventare oggetto di buffoneria come i cialtroni flaccidi, infantili ed equivoci autocompiaciuti ma sempre automoralizzati al punto giusto, che Alberto Sordi interpreta al grido fatidico di : « Ammazza, che fusto! » Nel vasto e fortunato genere « nazionale-sessuale » corrente ai nostri giorni, la simpatia che si concilia Metello € tutta sua, inconfondibile e nasce dall’immagine di salute radiosa che diffonde intorno a sé, sicché anche a

noi viene voglia di dire, senza ironia: « E bravo Cipressino! » Cosi vive e prospera e matura in « bel giovane operaio » questo trovatello della storia, « assistito dalla fortuna» come si dice sianoi figli naturali. E non essendo lacrimoso e scarognato, non avendo crisi di angosce e di disperazioni, mette in sospetto gli epigoni del dolorismo baudelairiano, che gli gridano tutto il loro compiangimento per questo suo ininterrotto prosperare entro cui € circoscritta (e senza dubbio anche limitata) la sua riuscita estetica: prodotto di quel vitalismo che, se non é ancora realismo, pud essere sempre l’eredita non deteriore del decadentismo, contro la quale i decadenti mascherati sputano il loro disgusto e si fanno vezzeggiare intanto i languori del loro mal di crescere, come se fosse doglia di una vera gravidanza prossima al parto dell’arte nuova, che bisogna | trattare « con delicatezza » affinché non si sconci e non produca qualcosa che rischi di essere al livello di questo troppo diritto e troppo sano « Cipressino >. E « delle idee >? ~ Il Fortini ha detto che Metello diviene un socialista malgré lui, ed é vero. Ma proprio per questo non é vano sottolineare arbitrariamente ed esagerare con ironia tutto cid che _ dovrebbe farlo apparire per quel che non é, cioé come un

Lage

personaggio costruito secondo schemi politici a priori? Sembra invece da approfondire la contraddittorieta di questo personaggio che é nato in mezzo alla cosiddetta crisi del personaggio, in mezzo a una ormai storica incapacita della letteratura decadente d’intendere e di volere un personaggio (sia creando, sia giudicando le opere d’arte). Perché Metello non riesce ad essere il protagonista del romanzo? Un personaggio non vive di dichiarazioni programmatiche o di commenti critici anche se dissimulati sotto forma di verismo vernacolo o di modernissimo « parlato »: vive di azione e nei modi dell’azione, caratterizzato dalle situazioni

in cui egli cresce e si sviluppa, attraverso i rapporti con gli altri. Non c’é dubbio che Metello si realizzi come personaggio soprattutto nell’intimita con le ragazze, nella molteplicita delle « occasioni » d’amore che egli cerca con un pensiero dominante

e un’azione

costante,

anziché

realizzarsi

nella storia del movimento operaio, nella vita e nelle lotte del lavoro, che « incontra » nel suo cammino

e che sem-

brano andare in cerca di lui ed esigere da lui una parte di eroe rappresentativo, che egli finisce per addossarsi come cedendo alla sua vanita e che per non ridursi a tale avrebbe richiesto uno sviluppo di rapporti sociali altrettanto complesso ed analizzato quarto quello dei rapporti carnali. E perché la rappresentazione fosse realisticamente realizzata, Pautore non avrebbe dovuto fermarsi all’analisi dei personaggi delle classi lavoratrici, ma darci innanzi tutto Panalisi dei vari gruppi borghesi che ostacolando Vascesa del movimento operaio o tentando di contenerla e dirigerla, ciechi reazionari o liberali paternalisti che fossero, costituivano il mondo storico che nel romanzo non c’é; mentre, a ricordarcene l’assenza e farcene sentire la necessita, si

svolge la « cavalcata » giustamente definita cinematografica e pseudo-storica che fa da sfondo e da scenario, mentre tutta la classe dominante é ridotta a un’ombra di personaggio, Vimpresario edilizio Badolati che fa « il crumiro dei padroni >. «I personaggi principali — scriveva Engels a Lassalle nella famosa lettera sul Sickingen — sono rappresentanti di classi e correnti determinate, e quindi di idee determinate della loro epoca, e trovano i loro moventi

126

anziché in me-

schine voglie individuali, proprio nella corrente storica da cui sono portati »." Quando Pratolini accenna a rappresentare il sovversivismo anarchico di cui abbozza qualche figura (e poi magari l’ammazza, per introdurre qualche elemento di pathos drammatico almeno negli episodi accessori), unica reminiscenza della corrente reazionaria che spin-

geva una parte della borghesia italiana verso i suoi Pelloux e i suoi Bava Beccaris é il nomignolo di « Crispi » dato dai muratori al loro « caporale » e il « merde les generaux » di un ex comunardo moribondo e delirante. Un volto, un solo volto di quei conservatori non riusciti, ma reazionari perfetti che sotto i baffi della bonarieta umbertina celavano il terrore della democrazia e la pit sadica ferocia antipopolare, nel romanzo non lo vediamo. Eppure Firenze nel 98 fu con Milario e Palermo uno dei centri in cui la repressione si scatend proprio a richiesta di quei gruppi della feudale borghesia agraria che ereditavano la tabe reazionaria della vecchia societa italiana e che sentendosi « vicini a perdere ogni influenza ed ogni supremazia » agivano con forsennata disperazione. C’é qualcosa di piu italiano, nella nostra storia moderna e contemporanea, dei personaggi che presi dal panico ricorrono agli stati d’assedio, alle leggi eccezionali o ai tribunali militari? Pratolini ci ha dato le pagine stupende delle donne che chiamano i loro congiunti incarcerati nel ’98, pagine perfette perché ricondotte alla vibrazione dei sentimenti elementari. Ma le facce di coloro che esultavano per queste incarcerazioni volute a freddo, per esercitare un terrorismo di classe, Vidillico Pratolini del 1952 non tenta neppure d’immaginarle. E impaziente di passare a rappresentare l’idillio che si porta con sé, lo fa sbocciare appunto dopo questa tensione drammatica.

Cosi nasce

l’amore di Ersilia, la figlia

del comunardo defunto, l’unica compagna alla solitudine di Metello in carcere, che guidato dal suo istinto non sa pen- sare che alle nozze: « Esco e la sposo ». Le pagine che avrebbero dovuto formare il centro del romanzo per farci comprendere come il movimento opéraio 14 Marx - Engels, Sull’arte e la letteratura, Milano, “15 Napoleone Colajanni, L’Italia nel 1898, Milano,

127.

a

1955, p. 40. 1951, p. 66.

fiorentino si rafforzé anche a Firenze appunto in quegli anni tra il 1898 e il 1902 Pratolini le sorvola. E in luogo di una rappresentazione realistica del mondo di Metello, ci fa vedere Metello cresciuto in una immagine prettamente naturalistica

(« Tuttavia,

come

il suo

corpo

fioriva nella

piena maturita, cosi il suo modo di agire e di pensare, dacché era ritornato a Firenze e al lavoro, si era rafforzato »),

€ qui si giustappone qualche paginetta in cui si compendia tutto quello che sa Metello e che invece doveva essere il presupposto della rappresentazione poetica di Pratoiini, corrispondente a cid che era acquisito dalla coscienza politica del tempo. Filippo Turati scriveva nel 1901 che per condurre efficacemente una lotta bisognava saper distinguere nelle classi possidenti e nel « cumulo di contrasti pil o meno latenti »

in loro.'® Questo insegnamento fondamentale nei metodi di lotta del movimento socialista per liberarsi dai residui dellestremismo, in sede artistica avrebbe richiesto un perso-naggio che rappresentasse le pil aggiornate capacita dirigenti della nuova borghesia liberale. Pratolini non ignorava questi contrasti interni delle classi dominanti, come mostra qualche accenno a discussioni tra l’ing. Badolati e gli altri padroni risoluti a combattere le richieste.dei muratori, e irriducibili. Perché Badolati non apparisse cosi ambiguamente idealizzato da meritare a Pratolini le fodi del « Mondo » e del « Corriere della Sera » che cosa gli manca?, Gli manca la « Verita del nemico interamente dispiegata » dice Fortini, che avrebbe voluto un Badolati « non facilitato », e preferito « un nemico dotato di tutte le virth, non soltanto ; il nemico pit colto, pid umano, pit intelligente, pil sensibile, pit. generoso e che, cid non ostante, é, e non pud non essere, e di qui la vera virtt di chi lo distrugge — il peggiore nemico ». Insomma, |’eroe positivo della borghesia. Ecco un modo alquanto teologale d’intendere i personaggi delle classi storicamente destinate al declino. Figuriamoci, se avesse fatto questo Pratolini! 16 Vedi Il Partito Socialista e V’attuale momento politico, da « Critica Sociale », 26 luglios1901, in Trent’anni di Critica Sociale, Bologna, 1921, p. 69.

128

Ii Pampaloni, che ha definito Badolati un « carandiniano », sarebbe stato messo

in un bell’imbarazzo

se avesse

dovuto riconoscere in un personaggio cosi illustre, portabandiera di Verita maiuscole (gli interessi non contano) un antenato,

che so io?, dell’ing. Olivetti o di Pellizzari o di

altri industriali all’avanguardia nella aggiornata corruzione paternalistica della classe operaia. Ma ling. Badolati era qualcosa di pit modesto, tra l’anarcoide e P'umanitario; fi-

glio di un caporale, aveva fatto fortuna perché marito di una donna proveniente dal milieu borghese (cherchez la femme), per la qualcosa non sa bene distinguere tra il suo « lavoro » e quello di coloro che egli sfrutta. Poteva diventare un antagonista se Pratolini l’avesse visto da un punto di vista di classe ben definito, se avesse (per esempio) approfondito la lezione di quel racconto italiano di Gorki in cui due avversari (un ingegnere e un operaio) sono messi di fronte. Ma Pratolini, dopo averlo avvolto in una deamicisiana benevolenza, gli restituisce la psicologia del padrone solo da ultimo, quando invita Metello a far da caporale alPazienda. Badolati poteva diventare un personaggio realistico se Pratolini avesse sviluppato il contrasto tra le sue velleita umanitarie e gl’interessi, la modesta ma _potentissima

« verita » storica

(con la minuscola),

mettendolo

a

confronto con altri personaggi della sua classe che rifiutano il suo modo pit umano e pit politico di far gli affari. Cosi avrebbe dato finalmente rilievo e varieta di aspetti a questo Padrone (l’inane maiuscola é di Pratolini, e simboleggia la velleita del suo realismo), a questo padrone che finisce per restare mitico, remoto e inconoscibile nella nostra letteratura, vuota di grandi personaggi (a non voler contare mastro don Gesualdo) rappresentati nella loro tipicita profonda, ossia nelle varie situazioni di ascesa, predominio

e

decadenza della borghesia tipica, industriale o mercantile. Non dimentico le introspezioni di Zeno, 0 i panni sporchi sciorinati dall’enfant terrible Moravia. Voglio solo notare _che mentre nella vita il capitalismo italiano si sviluppa e consolida i suoi monopoli, la nostra letteratura vagheggia gli ingegneri Badolati, e non manca chi, in proposito, scrive

che questa é « la fase di sviluppo dal neorealismo al realismo >! 129

Pratolini ha creduto che gli bastasse di annotare il passaggio di qualche carrozza di lusso sui Lungarni, per dare il colorito sociale del lusso. Ma dov’eé la corrente storica del capitalismo che avrebbe portato i padroni del vapore del tempo verso le fortunate « gesta d’oltremare » dell’imperialismo? Dove sono «i morti » della vecchia Italia feudale, che «i vivi » non riuscivano a scaricarsi dalle spalle,

mentre il proletariato cominciava a capire il diverso modo in cui gli uni e gli altri gli stavano addosso? Un artista del popolo che voglia scrivere per il popolo, e non per i Pampaloni, puo ereditare senza critica e senza concreta volonta di superamento le debolezze della tradizione letteraria nazionale, quella mancanza di coraggio a ficcare lo sguardo nei volti delle classi e delle caste dominanti? O crediamo forse che si possa essere degli artisti militanti, senza acquistare la capacita di rappresentare nella sua realta il nemico di classe? Non é l’argomento, ma il punto di vista, non é Poggetto, ma il modo come esso si riflette nella coscienza dell’artista, non

é il contenuto

astratto,

ma

la sua situa-

zione concreta a farci comprendere se e come € rappresentato il reale. E ricordarsi solo delle classi popolari, dimenticando che cosa hanno avuto ed hanno di fronte, é un punto di vista storicamente subalterno, una comoda mutilazione della realta, un modo di cadere nella vecchia Arcadia,

che si puo sempre riconoscere, anche se rimbellettata coi. piu vividi colori strapaesani o stracittadini. Ma Pratolini, riducendo ad ombra e a simbolo il padronato, e mostrandoci

solo una

parte della societa italiana,

ha tentato almeno di rappresentarci la corrente del movimento popolare reale, qual’era in Italia allora e che, nonostante la scarsezza di « proletariato tipico », offriva « una massa fluttuante tra la piccola borghesia e il proletariato >» di futuri combattenti e capi d’un movimento rivoluzionario (Engels, cit. lettera a Turati)? Pratolini aveva nella mente una certa idea della situazione storica. Ma senza rappresentare « odio compresso del proletariato » che contro di loro, in questo periodo, « esplode con una forza subitanea, trasformando il « pacifico » ambiente della lotta parlamentare in teatro di guerra civile... ». Ecco come Lenin giudi130

cava la situazione italiana” abbracciando nel suo sguardo «i due campi nemici » che « lentamente ma ininterrottamente raccolgono le loro forze, consolidando le loro organizzazioni ». Pratolini mostra di non ignorare tutto questo,

ma lo rappresenta nel suo libro? E sufficiente artisticamente quell’accenno all’associazione dei padroni, da una parte,

e la rappresentazione di come si organizzava per la lotta il movimento operaio? Pratolini non ha un’idea sbagliata sulVimportanza della Camera del Lavoro, che Sydney Sonnino e Antonio Labriola, « il pit conscio » borghese e un non meno « conscio » rappresentante del proletariato, consideravano come elemento tipico nella lotta politica: il fatto che erano costituite su basi tevritoriali dava « un carattere piu politico al movimento » e « una pit facile accentuazione della lotta di classe ».'"* Ma, dopo averci rappresentato con

efficacia

pittorica

Passemblea

di Monterivecchi,

egli

rinuncia al modo pit diretto e plastico per dar vita a un organismo storico decisivo. E col timore di fare del segretario della Camera del Lavoro un tribuno del popolo, ha finito per ridurlo a un buon burocrate sindacale, con due fiacche alucce di « Angelo rosso ». Io non so quanto la rappresentazione dello sciopero possa corrispondere ai particolari cronistici:

come lettore del romanzo,

a cui la storia

raccontata deve riuscir coerente e persuasiva, trovo che qui i tempi andavano scorciati perché non ci fosse ristagno nella narrazione. Ma Pratolini ha cercato questo ristagno, per poterci collocare il « peccato » di Metello, non ha esitato a falsare il senso storico dell’avvenimento, il quale si collocava in quello che Turati chiamava « terzo periodo » per il proletariato italiano cominciato col « maraviglioso » sciopero di Genova, del 1901, un « periodo di conquista ».” Pratolini rappresenta gli scioperanti come degli assediati, ma essi erano degli assedianti, contro un nemico che gia si difendeva meglio e che cedeva meno prontamente, e imponeva una nuova consapevolezza nell’organizzare la 17 Vedi Sul movimento operaio italiano, Roma, p. 27. 18 Antonio Labriola, Democrazia e socialismo, Milano, p. 103. 19 Filippo Turati, op. cit., 72.

131

1954,

lotta politica, sicché (notava uno studioso coevo del movimento operaio) nel 1902 gli scioperi raggiunsero quella « vera e completa potenzialita che consiste specialmente nella disciplina, nell’abilita, nella strategia ».” Pratolini rappresenta tutto cid che fa illanguidire lo sciopero, e non cid che nella durata lo sosteneva e lo guidava. E mentre si allontana e si dissolve ogni immagine che possa rappresentare la corrente storica nella sua maturita politica, Metello in.seguito all’arresto del segretario della Camera del - Lavoro, é surrogato a rappresentare lui una funzione di guida, artisticamente assai improbabile, affidata com’é a una sorta di riscatto individuale, che quasi lo fa arbitro della vicenda secondo una psicologia da piccolo-borghese. Per colpa di Metello, che era andato con la sua « ganza » invece che a un’importante riunione, lo sciopero stava per fallire. Dunque per merito suo che «ha le spalle larghe » lo sciopero sarebbe riuscito? La debolezza di struttura e di forza storico-ideale del romanzo si rivela tutta nel modo in cui si risolve la collisione dello sciopero. Agli inizi sembra che Metello debba essere il protagonista della giornata decisiva, statuariamente atteggiato (« appoggiava il piede sul sasso sopra cui sedeva, e con le mani intrecciate si sorreggeva lo stinco >), pronto a sostenere ’urto con Badolati « e a doversi caricare per tutti della responsabilita di continyare ». Pratolini qui, ancora pit che altrove, punta sugli elementi figurativi. Ma la scena, giottesca nel guizzo lirico di qualche commento dell’autore (« un muro, le parole calcinavano gli sguardi >), si riduce alle dolcezze melodrammatiche di Purificato, quando il Padrone, trafitto come un demonio dagli argomenti cristiani del Santino (un muratore che « aveva Don Albertario dentro il cuore ») esclama, arreso: « Non so chi vi dia tanto coraggio ». Le parole decisive, « le pit proprie » (come le chiama I’autore) per distendere gli animi e per incoraggiare gli altri muratori alla lotta, non vengono dette da un socialista, ma da una figura a cui Pratolini ricorre nel tentativo di riparare_l’incongruenza este20 Cfr. Brocchi, in Rigola, Storia del movimento liano, Milano, 1947, p. 219.

132

operaio

ita-

tica di Metello. Questa comparsa cristiana artisticamente non ci compensa dell’assenza di un personaggio socialista. E non tanto mette conto di rilevarne la dislocazione anacronistica e di classe (le leghe cattoliche di resistenza e i circoli erano di gran lunga pit diffusi in Lombardia e nelle campagne, che non in Toscana e in citta), quanto di sottolineare l’esiguita e Vincertezza del mondo ideale che Pratolini non riesce a rappresentare con la forza e il rilievo adeguato alla realta storica. Non volendo risolutamente porsi alla scuola di Gorki, poteva Pratolini attardarsi tra gli epigoni della scuola di Manzoni? Quando i critici cattolici sostengono che nel romanzo di Pratolini intervengono degli elementi di provvidenzialismo, non si pud dire che abbiano torto. Il loro torto é che non si avvedono che in un romanzo in cui si dovrebbe disegnare l’educazione socialista di un operaio attraverso la lotta delle classi, questi elementi ideali non possono non restare estranei al racconto e al mondo storico da rappresentare. E la dissonanza non viene eliminata ma sottolineata dalla stessa ambiguita che gli lascia l’autore (il Caso, la Fortuna

o la mano

del Padreterno?)

nella sua

concezione. In Metello c’é un manzonismo innegabile, che deriva gia mediato attraverso lo scrittore che pil é stato trascurato, e che pit! bisogna tener presente per approfondire la poetica di Pratolini: l’impressionista (come lo chiamava la Vernoon Lee) o, diciamo meglio, verista toscano Mario Pratesi. 11 mondo di Dolcetta e L’eredita (ripubblicato da Pratolini?! con Le memorie del mio amico Tristano, nel 1942, dopo una riscoperta del Croce nella Lettera-

tura della nuova Italia) svolgevano il tema dei campagnoli inurbati, che ai loro traviamenti soccombono in un epilogo tragico di vinti: situazione verghiana, in cui vien trasportata una concezione sostanzialmente

manzoniana,

con rie-

vocazione storica dell’eta risorgimentale agl’inizi e dell’eta granducale al tramonto, con ritratti morali dei personaggi tutt’altro che impressionistici e da macchiaiolo. Il manzonismo di Metello & pit contraddittorio che non 21 Mario Pratesi, L’Ereditd, con prefaz. di V. Pratolini, Milano,

1942

133

sia quello dei romanzi di Pratesi, perché, dovendo Pratolini affrontare la lotta delle classi che é al centro della realta storica in cui vuol collocare il suo romanzo, e d’altra parte non sapendo e non volendo in concreto (malgrado i propositi astratti) far nascere il personaggio dal grembo della storia,

lo attacca

al grembo

delle donne,

e fa giuocare

Velemento sensuale come limite all’ideale socialista. Soltanto in questo si pud trovare una analogia col Manzoni, che trova nel mondo dei personaggi comici il limite al suo ideale cristiano: un ideale cattolico «di ritorno » che non contraddiceva all’immobile societa della Controriforma. In Pratolini il personaggio centrale é storicamente positivo, é€ portato alla vittoria dalla corrente storica e non ha bisogno dellaiuto della Provvidenza. Se Pratolini avesse effettivamente superato l’atteggiamento velleitario che ha fatto definire giustamente il neorealismo come « uno stato d’animo », se avesse cercato di collocare la sua materia nella situazione realistica che richiedeva, esprimendo poeticamente le forze reali della societa, non avrebbe avuto bisogno di sviluppare l’elemento erotico con tanta ossessione,

da fare insorgere nel lettore la convinzione che in questo suo Sesso e socialismo (come verrebbe voglia d’intitolare Metello, alla Tommaseo) il primo divenga il contenuto effettivo e il secondo resti argomento dell’ opera. Questo singolare manzonismo per cui Pratolini ha sentito bisogno di mettere

tanto amore

nel suo romanzo,

con-

vinto che nella vita non ce ne sia abbastanza se gli ha fatto trovare le pagine pit felici del romanzo, che costituiscono: « il mondo di Ersilia », d’altra parte lo ha fatalmente ripor-

tato a toccare la poetica controrealistica dei « due soldi di speranza » (per riferirci all’idillio che tanta fortuna ha avuto e tanta importanza nell’indirizzare la produzione filmica di successo): due soldi di speranza che Metello finisce sempre (e non metaforicamente) per trovare, tanto il vagheggiato idillio esige che l’autore moralizzi le vicende e i personaggi. Se si vuol parlare seriamente di influenza del cinema su Pratolini, che ha potuto fare la ‘sua esperienza di sceneggiatore per le Cronache di poveri amanti prima di _ comporre il Metello, bisogna partire non da considerazioni stilistiche e formali, ma da qui. Pratolini avra potuto speri134

mentare come alla pressione del controrealismo clericale, cosi suadente e cosi perseverante, sia difficile resistere a ogni artista onesto che abbia in sé un nocciolo di durezza, di resistenza alla corruzione. Che Pratolini faccia convertire al cattolicesimo Viola, la maestrina lussuriosa in vedovanza, alla cui scuola si forma l’educazione sentimentale di

Metello, e che poi la trasformi in una sua anonima benefattrice; che intenerisca anche il cuore di una usuraia, e accenni a riprodurre in iscorcio e debitamente moralizzata la « Signora » delle Cronache di poveri amanti, questo possiamo spiegarcelo come effetto di quella, pit. che censura, direzione clericale della cultura che dal cinema oggi tende ad irraggiarsi verso tutti i campi delle arti, e con quali ef-

fetti? Esemplari sono gli effetti di autocensura che questa direzione produce in opere come Giorni d’amore, dove la pornografia va a finire in parrocchia e produce film altrettanto validi per il regime di Franco come son validi i romanzi di Pitigrilli per il regime di Peron. In mezzo a tanto « cuore » piccolo-borghese che imperversa anche nel piu autorevole ed apprezzato neorealismo sotto forma di « totobuonismo »

zavattiniano,

era

difficilmente

evitabile

che

Pratolini vedesse aleggiare l’’OQmobono di Cantu perfino nel suo mondo toscano dove l’amore non era finora riuscito a consolare la crudezza della miseria e dei patimenti. Perché anche il Pratolini piu idillico, quello di Cronaca familiare, pur struggendosi nel pianto delle memorie e degli affetti, non aveva cancellato dal reale un certo fondo aspro e ru-

goso, dove il cristianesimo resta solo una esteriore e formale superstizione, fioretto di bonta che spunta nei paradisi delVinfanzia su di una pianta malata, ma che ha radici forti, disperatamente attaccata alla vita, e che non finisce mai per disarmare nella rassegnazione alla morte e nel gu-

stodi marcire, cioé nel decadentismo cristiano. Metello ha un bel dire che vuole conservare, per il momento in cui gli si rendera necessario, memoria delle « troppe ingiustizie » e del « troppo fiele » che ha mangiato. Predomina in lui quel che l’autore ha finito per sviluppare nel suo carattere, cioé il « pil presto me ne dimentico meglio é ». Enon é certo questa dimenticanza che pud alimentare il suo socialismo. Questa contraddizione tra la memoria e

ive

ie

135

la non-memoria sarebbe interessante, se fosse un elemento

di conflitto interno del personaggio: ma invece resta solo documento di una contraddizione nello scrittore tra la poetica del realismo, tra la poetica della memoria

naturalistica

che tende a sommergere l’'uomo storico nella spontaneita della sua vita fisica e la poetica realistica che non pud non subordinare l’uomo di natura all’uomo della societa, indi-

viduato artisticamente e tipizzato storicamente. Ma si puo comprendere in forma unitaria il processo reale se si vuol capovolgerlo e se si vuol mutilarlo? In Metello la memoria dell’uomo storico, che dovrebbe approfondire anche dall’in‘terno la sua coscienza di classe, cede sempre a quella delPuomo di natura, e sempre nelle situazioni in cui la tipicita del personaggio avrebbe richiesto una profonda serieta di lineamenti ideali. Rileggete la notte di Metello, alla vigilia dello sciopero, Punico momento in cui lo scrittore tenta davvero di rappresentare il personaggio nella sua intimita morale e lo crede di spalle abbastanza larghe per sopportare un conflitto interno che nasceva da un duplice rimorso, dell’adulterio’ e dell’assenteismo politico. Ma, vissuto sempre in superficie, se il primo rimorso é allontanato con adeguata disinvoltura (aveva voluto levarsi una « soddisfazione » sulla provocante e non pill « esosa » vicina di casa), l’altro rimorso scava cosi poco nella sua coscienza di socialista, che mentre ci aspetteremmo di vederlo tutto preso dai problemi dell’immediato presente, come richiederebbe la situazione drammatica dello sciopero che egli ritiene compromesso per sua colpa, Pratolini fa ruotare i pensieri di Metello su tutto tranne che su quello a cui Metello avrebbe dovuto pensare. Perché questa psicologia centrifuga? Perché Pratolini fa indugiare Metello a moraleggiare su se stesso? Lorenzo Tramaglino strizzava il sugo di tutta la sua storia quando sta per cominciare quell idillio, che, giustamente secondo Manzoni, non é interessante perché lascia ’uomo in riposo mo-rale. Qui Metello strizza spesso, e non soltanto alla fine del libro, il sugo che avrebbe dovuto circolare in tutta la storia e darle movimento, quasi per ricordarsi delle virtu che aveva smarrite.o piuttosto mai possedute. Percid l’autore lo toglie dal dramma in cui dovrebbe essere, e lo ricol136

3 nelVidillio, gli rida una memoria delle paure infantili della sua vita, assolutamente stonata e fuori tempo. Vertebbe voglia di chiedere: « Socialista?.socialista proprio davvero? ». La vanita

che, polemizzando

con

Proudhon,

Marx definisce come elemento psicologico distintivo del piccolo-borghese, ¢ cid che fa persona del nostro Metello, per cui si crede il centro motore del suo mondo (« Non ti puoi permettere una distrazione, ché subito ti casca la casa in capo »). Il che va benissimo per un superuomo cristiano, il Giovanni di Fede e Bellezza, o per il superuomo populista Carlo Levi, ma non per quel che in astratto si é proposto di fare Pratolini. Lo mette a studiare il marxismo, e —

quale situazione pil adatta per rappresentarci un operaio assetato di cultura, al quale la scienza si configura come la conquista di un’arma rivoluzionaria? Metello un po’ pensa al suo difficile Turati (e lasciamo stare se allora un operaio leggeva la « Critica soctale » come oggi puo darsi che legga « Rinascita » o « Mondo operaio ») e un po’ all’Idina del piano di sopra; un occhio al libro e un altro alla sua sempre appetibile Ersilia, ma cid nonostante riesce ad afferrar tutto. Altro che eroe positivo, qui si compie l’immagine del ‘piu superficiale e presuntuoso e fiacco militante dei nostri tempi! Nulla di pid estraneo del socialismo a questa anima Piccolo-borghese che Pratolini si é illuso di rappresentarci

come naturaliter socialista.

,

Di uno sciopero che per riuscire « leggendario » nella fappresentazione doveva configurarsi tale nella coscienza dell’autore e nell’azione dei personaggi che cosa si ricordera Metello? La figura di una madre intravvista all’alba Mentre portava agl’Innocenti il suo « mimmino ». Cosa Strana per lui stesso che non sa spiegarsi i tiri che la poetica dell’inconscio gioca al non liquidato decadentismo di uno Serittore che pur aspira al realismo. Dalla prima sera che -Metello sali le scale di Michela, la prostituta deforme, la sua

‘Storia si sdipana secondo lo stesso filo che lega tanti altri -personaggi di Pratolini e in particolare Bob alle sue amiche

di San Frediano, un filo pit forte del filo rosso di Marx. ' Metello resta il protagonista intenzionale del libro: il mondo naturalistico del sesso ha la prevalenza sul mondo

— | Re C

ee

del socialismo. Né il tentativo di dipingere

anime « fonde » (come le chiamava il Tommaseo) riesce a Pratolini quando vuole rappresentarci Viola convertita, e ci ammannisce il suo « inatteso e complicato e curioso discorso ». Ad affondare lo sguardo nel « guazzabuglio del cuore umano » il manzonismo degli epigoni non basta, ci vuole Manzoni. E il Pratolini del Quartiere o della Cro-naca familiare prometteva di meglio.

Pratolini sembra che viva ancora di rendita sui confusi ideali sociali e letterari della Resistenza, e perciO mentre’si sente il suo impaccio e la sua improvvisazione nell’affrontare quel che avrebbe dovuto essere il mondo di Metello, lo sentiamo a suo perfetto agio quando deve rappresentare i personaggi che ebbero la loro adolescenza poetica nel Quartiere, personaggi in un certo senso di qua dalla storia (come l’autore apertamente li caratterizzava mitizzando una loro natura di « secolare » durata); personaggi immersi nel gorgo della spontaneita fisica, per i quali non esistono pro-| blemi ideologici, e a cui basta sapere che « l’aceto si fa col vino » e listinto popolare tiene luogo di coscienza di classe. Per questo a Pratolini € riuscita di getto e viva come non saprei quante altre donne della narrativa italiana moderna la compagna di Metello, Ersilia. Nelle Ragazze di San Frediano Vaveva, piu che rappresentata tra le figure del racconto, intravvista genericamente nelle pagine di tono saggistico e sociologico che lo precedono, su gli abitanti di San Frediano:

« Credono in Dio, com’essi dicono, per-

ché credono « negli occhi e nelle mani che ci ha fatto>, e logicamente la realta finisce con l’apparirgli come il migliore dei sogni possibili. La loro speranza é in cid che giorno per giorno possono conquistare, e che non gli ba-. sta. Proprio perché il fondo del loro animo € pavimentato | dincredulita sono caparbi e attivi; e la loro partecipazione | agli eventi della storia é stata illuminata e costante, a volte addirittura profetica, anche se incomposta. Hanno soltanto rivestito di pit moderni ideali i loro miti e bandiere, ma la’

loro intransigenza, animosita e scanzonatura sono rimaste le stesse ». Ma, com’é ovvio, la spontaneita di un personaggio un artista non la consegue spontaneamente. E se Pratolini non si fosse proposto di costruire un vero romanzo e addirittura 138

nel quadro di una trilogia, forse non sarebbe riuscito a rappresentare nemmeno Ersilia. In Ersilia, un personaggio vivo in tutti i suoi rapportie in tutte le situazioni, fa centro la poetica operante di Pratolini e la sua poesia. Ersilia non ha la freddezza artistica, le ambiguita e le incertezze e le vanita di Metello, e come agisce e come pensa e come parla attira.a sé e subordina gli altri personaggi, a cominciare dal suo uomo che dice di aver fatto « centro in lei » della sua vita, e per il quale essa é sorella e amante, moglie e madre, una

vera donna

italiana, tutto fuoco

nelle vene

e

chiarezza d’idee e decisione di gesti, di qua dalle ipocrisie del confessionale, non adulterata dalla mezza cultura, una

donna cosi pulita e cosi limpida che fa piacere specchiarsi nel suo sguardo. Non riesco a capire come Si possa avere smarrito il gusto per questa semplicita autentica. O meglio capisco benissimo come fra tante mal.maritate e tanti male accoppiati che incontriamo nella vita e nell’arte, Ersilia debba sembrarci il risultato di una intenzione moralistica. I « due Pratolini » di cui ha parlato De Robertis, le dissonanze formali sono il risultato di una diversa maturazione del contenuto che si sviluppa in modo diseguale e incoerente. Avendo evitato di rappresentare il conflitto reale che doveva essere al centro e al fondo della sua « storia », Pratolini punta su certe scene e certi aspetti marginalmente 0 esteriormente drammatici dove l’espressione deve pur sorrogare il difetto di una interna necessita, e all’occorrenza improvvisare l’effettaccio (« Erano due uomini ugualmente carichi di odio e capaci di uccidersi. » Chi? Metello e Badolati!). O degenerare.nella maniera dove sempre uno scrittore impigrisce, quando riscrive se stesso, come, ad esempio, ’ingresso mattutino dei muratori a Firenze, che é proprio una bella pagina di bravura, ma affatto incongruente con l’animo degli scioperanti nella giornata decisiva. L’autore, dopo aver ceduto al piacere dell’indugio descrittivo osserva: « Tutte cose che parevano tramontate »; ma una memoria lirica le ha introdotte fuori tempo, mentre fuori tempo non era, nel Quartiere, la descrizione del paesaggio urbano rivisto da Valerio al suo ritorno dopo il servizio militare. Meno Pratolini ha approfondito il suo mondo sto139

rico e pil che mai insiste sul colorito dei particolari di costume e di linguaggio; quasi a compensare il difetto di realismo nella struttura del romanzo accumula (come altri scrittori d’oggi indubbiamente pit fiacchi e superficiali di lui) un colorito idiomatico, un tritume di parlato o piuttosto di virgolati e di corsivi, ché sottolineano il verismo naturalistico dell’espressione pit che in qualsiasi altro libro suo. Eppure in nessun altro come in questo, egli ha contemporaneamente progredito a un linguaggio « spontaneo come spicca l’acqua dalla sorgente e le labbra pronunciano - le parole ». Un solo esempio (ma altri se ne potrebbero scegliere dalle pagine d’amore o dalla scena degli schiaffoni di Ersilia a Idina che non ci sembrano affatto superflui come son parsi a Cecchi), le donne che chiamano i loro uomini in carcere, e appunto Ersilia fa vibrare il suo grido che per Metello suonera come appello di nozze. Concluderemo

come

Pratolini

concludeva

nel 1942,

a

proposito del Mondo di Dolcetta, che « si potrebbero addirittura isolare le cento pagine che raccontano la storia di questo «cuore semplice » dalle altre duecento e piu inutili pagine che riferiscono le vicende di una societa... e dalle quali a malapena si salvano alcuni tipi propri del bozzettismo toscano »? Oggi probabilmente Pratolini avra anche lui cambiato parere e forse non direbbe che il vantaggio dell’altro romanzo di Pratesi, L’eredita, rispetto a Dolcetta

consiste nell’avere l’autore « scelto una vicenda nella quale il conflitto classista era assente ». Perché, se scrivendo

I]

Quartiere Pratolini guard appunto all’Ereditd, qui invece ha voluto rifarsi al verismo borghese del Mondo di Dolcetta. E scrivendo si sara accorto che le pagine « inutili >. erano poi anch’esse « necessarie » perché lo scrittore narrasse tra l’altro quella bellissima figura di Dolcetta in citta, « cosi sola, cosi giovanina », che Pratolini non ha dimen-

ticato. E magari avesse potuto dimenticare quei « modi vernacoli » del macchiettismo-in

cui Pratesi (come Pratolini

stesso osservava) dimostro di non aver capitola grande le-

zione di Verga. Ma allora che importanza ha Metello? E che cosa significa «importanza »? Non € questo uno pseudo-concetto? Metello, contro chi va in cerca dei due soldi di realismo

140

cattolico, ha dato l’occasione di confermare la nota considerazione di Engels (a proposito di Feuerbach) sulla storica « incapacita » per il cristianesimo, « entrato nel suo ultimo stadio » fin dalla Grande Rivoluzione, di « servire ancora a una qualsiasi classe progressiva come travestimento

ideologico

delle sue

aspirazioni ».

Metello,

a chi

vuol trovare il realismo ad ogni costo (anche a costo del realismo stesso) e senza una lotta conseguente contro tutto cid che ne ostacola il cammino, sta a ricordare quanto siamo lontani dall’aver distribuito quelle « botte_abbastanza numerose e abbastanza efficaci contro la decadenza » che Lukacs invocava fin dal 1938, scrivendo ad Anna Seghers. Metello a tutti g& eretici e a tutti i problematici in buona fede puo insegnare che anche in letteratura la reazione viene da una

parte sola. Ora, se a qualcuno

la mia analisi

sembrera pil severa dei giudizi altrui, e ingiusta perché, nella presente situazione eccetera, bisogna accontentarsi, 10

rispondero, col Voltaire dei taccuini: « Contentarsi? Ma di che cosa? » Metello é importante, ma pit ci importa il futuro di Pratolini e, ancora di pit, il futuro del realismo. Che il neorealismo

continui

come

« stato d’animo », no,

non possiamo accontentarci. 1955 Alla luce di tutte le atomiche di liberta esplose in questi ultimi tempi e che tante cose fanno diventare passato remoto e tante altre fanno diventare presenti e vive, anche per giudicare Metello si pud ritrovare la misura giusta che $i era smarrita e che la discussione ha aiutato a ritrovare,

proprio perché (come ha giustamente osservato Franco Fortini), nata come mera discussione sul valore artistico del’opera, sviluppatasi come problema di estetica e di ‘poetica, é sfociata in un dibattito di politica culturale (cfr.

« Ragionamenti » del gennaio-febbraio 1956). La discussione si € tanto sviluppata (dalla stampa ai circoli, alle se_ zioni dei partiti, immo,

in Senatum

venit) da costringere

_ tutti a prendere posizione o a rivedere le posizioni scartando

formule

estetiche

o politiche

a priori,

senza

aver

_ paura di fondare oggettivamente la critica. Se non fossero 141

venute fuori nuove argomentazioni polemiche e limitatrici (non solo su « Societa »: cfr. ’acuto saggio di Rocco Montano sul « Giornale » di Napoli del 26-3-1956) si potrebbe addirittura concludere con Fortini che « i giudizi di valore si sono

andati

riavvicinando,

nel corso

della discussione,

gli uni rinunciando a vedere nel libro un’opera esemplare, gli altri riconoscendone limportanza e la parziale riuscita »). Infatti i sostenitori piu accesi di Metello hanno corretto i loro ingenui entusiasmi. Quando Salinari chiede che sia riferito « pacatamente » il suo pensiero, bisogna dargli atto che egli si € mosso da una originaria sopravvalutazione che non giovava né all’opera né a Pratolini, né ai lettori, né alla lotta per il realismo. E con lui anche Giancarlo

Vigorelli ha francamente riconosciuto di avere « tirato l’acqua al suo mulino » e « forzato » il testo, sia nel vederci un romanzo

socialista, che nel vederci un romanzo

cristia-

no. (Vigorelli scriveva nel dicembre ’55 e forse sarebbe stato pit esplicito nel confessare questa sua eccepibile « condotta » di critico cattolico se avesse potuto ascoltare le « illuminate considerazioni di Sua Santita circa il soggetto della critica » le quali, cosi come le abbiamo potuto raccogliere dall’« Osservatore Romano

» del 13-14 febbraio

1956, di-

cono appunto che « «il fondamento > di tutto é la « veritas »; e il « termine » e il < coronamento » di tutto é la < caritas ». Il fondamento deve rimanere intatto, altrimenti tutto crolla, anche il < coronamento > e il < compimento > »).

Si aspettera ora il lettore la mia palinodia, il mio « errai, candidi amici ». Io sono, come

é noto, un

« cattivo » in

una cattolica terra popolata di « buoni» dove la bonta ‘maschera Vindifferenza e l’acrisia, dove chiunque si provi a fare della critica é considerato un perfido Iago. Forse per questo, qualsiasi cosa scriva Iago, tutti si mettono a cercarvi le « cattiverie » e trovandone magari pit del necessario non si stancano di assaporarle. Fa sempre piacere soprattutto ai ventriloqui e ai dentiloqui sentir muovere la lingua a chi ha creduto di doverla adoperare senza chiedere l’autorizzazione per ottenere pil sicuri consensi. Ma a che ti vale, povero Iago, se hai cercato di argomentare come meglio sapevi? Tutti si interessano al modo in cui hai mosso la lingua, e si distraggono dai problemi che hai ten142

tato di porre, dai pensieri che hai tentato di pensare e dalla passione che ti animava. Se non si é scolasticamente noiosi sembra che non si faccia scienza. Abituati ad avere tanta fiducia nello Spirito, si diffida dello spirito. Tra i raisonnements d’hommes e¢ i pitt comuni résonnements de cloches 0 résonnements de cruches pare sia divenuto difficile distinguere, come sapeva e sosteneva si dovesse fare l’abate Galiani. Certo, farsi leggere non basta: é la condizione necessaria per intrattenere, ma non é sufficiente per attirare Pattenzione sulla serieta del contenuto. Questo vale per ogni scrittore. E se applicassi al mio saggio il metodo che Salinari applica a Metello, metterei in bella mostra le cose « giuste » che la discussione mi sembra abbia ampiamente confermato, ma dimenticherei che proprio perché ho costruito il mio saggio in un certo modo, é stato possibile fraintenderlo. Ritornerd quindi sui miei principali « errori » (e forse ce n’erano pit di quanti non ne abbia trovati chi, falsando quello che ho detto, ha creduto impartirmi lezioni troppo gratuite) e sulle « verita » (che forse erano in miglior stato di quello in cui Vha ridotte qualcuno dei molti consensi suscitati). Intanto vorrei dire che due osservazioni

mi son parse affatto strane. La prima é che si sarebbe dovuto attendere il compimento della trilogia di Pratolini per ben giudicare Metello, che é solo la prima parte. A prescindere dal fatto che Pratolini stesso ci aveva assicurato che ciascun romanzo della trilogia « resultera concluso, autonomo e senza rapporto », io credo che la critica di tutti i lettori abbia un insopprimibile compito di collaborazione con ogni artista. I rapporti tra Jo scrittore_e il pubblico, ritenuti cosi importanti dal « vecchio » Hegel, e praticati sempre e dovunque esista una cultura viva, cioé una societa consapevole che tra i suoi compiti rientra la discussione e la formazione di una poetica e di un gusto, é pregiudizio assai comune, fondato sul noto e tutt’ora autorevole scetticismo crociano circa tali rapporti. Ma la critica non pud conce-

pirsi come giudizio finale, quando son chiuse le porte del futuro: essa é strettamente connessa con il movimento creativo, a cominciare dal cervello stesso degli artisti (anche

se qui il rapporto si pone in modi diversi). E fara benis143

simo Pratolini (come ha detto parlando nel Congresso degli edili, cfr. « L’Edile » di Roma, gennaio

1956) a valutare

attentamente i giudizi sul suo libro. Spettera al suo ingegno, alla sua forza creativa, di saperne tener conto in modo costruttivo e coerente nella pratica del suo lavoro (tenendo conto, certo, di tutti i giudizi; ma, vorrei dirgli, senza false

umilta dinanzi alle critiche dei cosiddetti « umili » o plici », che avrebbero un ben povero significato se sapessimo approfondire, elaborare, interpretare). Scrivendo romanzi migliori Pratolini contribuira critica piu avanzata di se stesso. Ma proprio per aver dato a Metello Vattenzione

« semnon le a una questo,

analitica, lo studio che si

dedica ai capolavori, pud essere oggetto di biasimo? Ecco Paltra osservazione che ho sentito. lo credo che accompagnare il lavoro di Pratolini sia non solo riconoscenza e rispetto per uno scrittore italiano che é tra i pil. conosciuti oggi nel mondo, ma risponda a una necessita metodica di | ordine pit largo. Io credo che bisogna tornare a quel tipo di critica che Goethe chiamava « produttiva » e che comporta un’attiva partecipazione al processo genetico dell’opera d’arte. Ora era appunto l’opera di Pratolini che poneva un nesso di problemi i quali mi sembrava fossero stati fraintesi disinvoltamente sia da coloro che l’esaltavano come

capolavoro,

sia da coloro che si erano

affrettati a li-

quidarla con disdegno mentre aveva tante qualita per diventare cosi popolare. Si trattava di andare oltre la verifica e la conferma di un giudizio di valore che una parte della critica favorevole aveva formulato gia con prudenza e con tepido applauso (Bocelli, Cecchi, Falqui, Russo, Trombatore). Ed era altresi necessario approfondire tutti i giudizi negativi riproponendo le questioni da un punto di vista nuovo. - Una rivista filoclericale, « Il Caffé », (ma perché usurpa questo nome nato dalla gloriosa « Accademia dei Pugni » di Milano e non s’intitola da un pit’ « moderno » caffé, quello che non fa male al cuore?) mi ha rimproverato la franchezza polemica del linguaggio, perché sarebbe contraddittoria alla distensione e alle tavole rotonde della cultura. Dunque bisognerebbe tollerare gli screanzati che, come neppure tanti americani fanno pit, vorrebbero mettere i 144

piedi sulla tavola e alzare la loro coda pretensiosa sugli scrittori? Non m’é parso giusto usare riguardo a chi ne ha avuto cosi poco per un Pratolini. Ma convengo che nella mia rapida rassegna delle opinioni su Metello il tono polemico era esuberante e distraente, se perfino l’amico Cases non si € accorto che non ho infilato affatto un critico dopo Yaltro, ma ho soltanto riepilogato i pit. notevoli giudizi, quasi per ricordarli al lettore oltre che a me stesso, per tenerli nel debito conto, in parte per accettarli in parte per rifiutarli, considerando insomma tutto .quello che mi era parso comunque significativo e utile al mio stesso lavoro. . Schematizzare le posizioni e spersonalizzarle certo sarebbe stato formalmente pil rigoroso, avrebbe chiarito e reso esplicito il mio consenso oltreché il mio dissenso. Ma non mi pare che le « intemperanze di linguaggio » (come equamente le chiama Fortini) possano servire di pretesto, oltre a chi non ha capito, anche a chi ha voluto fraintendere. E veniamo ora a uno dei punti essenziali della questione metelliana, il rapporto

arte-storia.

Non a caso mi son parse da respingere le posizioni di verismo storico presenti nel giudizio di Emilio Cecchi (mezzo secolo fa la lotta delle classi si svolgeva cosi). In base allo stesso verismo storico da testimoni non borghesi e non per questo meno autorevoli, ho sentito dire esattamente il contrario: che non si svolgeva cosi. Ai fini del giudizio estetico le due testimonianze si potrebbero neutralizzare e ridurre a zero. Che l’arte non sia un equivalente del vero

naturale e storico é una proposizione elementare di estetica. E benché implichi questioni non riducibili alla saggezza del dottor Pangloss, tutti la conosciamo. Per mio . conto credo di averla cominciata a imparare dal « vecchio » De Sanctis, quando cominciai a studiare la sua poetica realistica nel 1931. Ma forse anch’io ho dato l’impressione (citando Turati, Lenin, Labriola e Brocchi in Rigola) di essermene scordato e perci6é il chiarimento non sara superfluo: nemmeno per i miei rammentatori-. Quando un artista si propone un’opera la cui azione si svolge in un passato pit! o meno lontano (e nella sua opera ci sono le tracce di una preparazione storica), anche se non ha voluto e non ha saputo fare un vero e proprio romanzo 145

storico, é egli stesso che ci obbliga a studiare da quale punto di vista del presente si € messo per esprimere il suo giudizio su quel passato, attraverso le vicende dei suoi personaggi e la determinazione della loro fisionomia intellettuale. Il rapporto presente-passato é la condizione inevitabile per lo storico come per l’artista. Pit lo storico € cosciente di quello che si muove, di cid che muore e di cid che nasce nella vita del suo tempo, e meglio sapra comprendere il passato. E cosi pure l’artista sapra darci una rappresentazione pienamente poetica del passato se nella sua coscienza il presente vive con i suoi piu. profondi contrasti reali. Ma é evidente che, di per sé, una piu avanzata posizione ideale non é€ sufficiente né a uno storico né a un artista per fare bene il suo specifico lavoro. Il punto di partenza c’interessa sempre nello storico e nell’artista, ma quel che conta in definitiva é il suo cammino, e il suo punto di approdo, e attraverso quali contraddizioni il suo processo di lavoro (processo formale, costruttivo) giunge a quei risultati. Pratolini ha concepito « una storia italiana » ambientata al’epoca del movimento socialista esordiente. Da quale punto di vista si € messo? Quando io ho tentato di mettere in rapporto Metello con il periodo storico in cui lautore ha lavorato alla sua opera, mi si é detto, col consueto affret-

tato ricorso alla piu: recente terminologia sovietica, che io confondevo la «situazione » con la «contingenza» o « congiuntura » storica, stabilendo un nesso troppo immediato e meccanico tra certi avvenimenti e l’opera letteraria. Benché io parlassi impropriamente di « situazione storica diversa » in cui é stato scritto Metello rispetto alle Cronache di poveri amanti, volevo senza dubbio

riferirmi alla con-

giuntura, e anzi la puntualizzavo fin troppo nell’anno di composizione 1952. Ma in effetti io avevo tentato di considerare il « decennio » seguito alla Liberazione non in blocco, non secondo quella prospettiva luminosamente acritica, dentro la quale si celebrano le sorti magnifiche e progressive del movimento popolare e linfallibilita dei partiti che lo hanno guidato, e si tende a obliterare quella congiuntura non trascurabile che é stata la restaurazione del capitalismo e la reazione clericale, importanti e significa146

tive, credo, anche per quanto riguarda la cultura. A prescindere dal mio tentativo, credo che il problema resti. Che gli artisti si siano trovati in Italia ad affrontare e talvolta a subire questa congiuntura, non credo si possa negare. E si puo esprimere un giudizio sui vari modi individuali di reagire in una determinata congiuntura, astraendo dalla congiuntura? Non si cadrebbe cosi in un giudizio moralistico? E quello che ho voluto evitare, ritenendo

che per arrivare

ad una valutazione storico-critica di un’opera importi molto vedere se e perché l’artista sia rimasto influenzato dai limiti della congiuntura o se, nel tentativo di superare quei limiti, sia 0 no riuscito ad elevarsi alla consapevolezza poetica della situazione storica. Non vogliamo porre il problema in termini negativi? Ma dire di Pratolini che « il suo ottimismo coincide con Vottimismo del movimento popolare italiano dopo la sua liberazione » non altro significa che circostanziare il punto di vista culturale da cui si é messo lo scrittore. E il punto di vista di quei « semplici » che applicano la pratica metelliana del « né primo né ultimo » e per i quali le lotte combattute e i successi conseguiti, pit che rafforzarsi in consapevolezza, tendono a confondersi in un sentimento di « speranza ». Possiamo tuttavia definire Pratolini « poeta » di questa speranza? Non é forse un po’ troppo semplicistico ed ottimistico? Non significa ricorrere a quelle formule definitorie che gli stessi critici di inveterata educazione crociana hanno da tempo abbandonato perché impotenti a individualizzare il processo formale per cui un artista é lui e€ non un altro? Concepire il decadentismo neorealistico come « disperazione » non significa ridursi a posizioni ma-

nichee ed antistoricistiche, implicanti uno schema in base al quale i pessimisti sono i non poeti per definizione? Anche prima del ’48 (dico il 1848) questo schema fu largamente adoperato ad uso del popolo. Manzoni da una parte ~@ Mazzini dallaltra giudicavano poeti Francesco Torti e Pietro Giannone, e non poeta Giacomo Leopardi, perché,

poveretto, non aveva la « speranza >. A chiarimento ulteriore e forse non superfluo, mi sia permesso citare il « vecchio » De Sanctis e la sua famosa le- zione sul Cinque maggio. Quando Manzoni 147

scrisse questa

opera la sua originalita fu di mettersi dal punto di vista delluomo qualunque del tempo e di darci la leggenda di Napoleone in un primo esempio di grande lirica popolare. Perché il Cinque maggio riusci un monumento

letterario e

non un monumento poetico? Perché quell’immagine gigantesca fu concepita « come una forza vuota che vi imprime Veffetto del maraviglioso »: € un Napoleone senza la sua complessa realta storica: « non ci é... il francese, non l’uomo contemporaneo, l’'uomo dalle idee moderne,- il rivolu-

zionario che pose fine alla rivoluzione e instaurd la reazione. Tutto questo contenuto svapora innanzi a Manzoni come Napoleone era svaporato innanzi alle moltitudini. Che era Napoleone pel popolo? Il popolo non vede nelle cose umane che cid che pud ammirare, cid che desta il maraviglioso: ci vede il miracolo » (Manzoni, ed. Einaudi, p. 166). Quante cose voleva De Sanctis dal Manzoni, che il Manzoni non aveva messo nel suo Cinque maggio! Ebbene, vo-

leva la realta poeticamente colta nel suo sviluppo e nel suo movimento, non appiattita attraverso ’immaginazione delYuomo qualunque che si ferma al sentimento esteriore del maraviglioso o si innalza retoricamente di 1a dalla storia verso Vinvisibile « mano » del cielo dov’é il « destino dei regni e degli eroi >. Non c’é dubbio che Metello sia un libro popolare e meritevole del successo che ha avuto. Non c’é dubbio che sia importante e attuale il suo tema. Ma io penso (e mi sara permesso di citare Lukacs) che ogni argomento vada sottoposto sia dallo scrittore sia dal critico a « una elaborazione ideologica (di classe) », perché si possa parlare dell’argomento

« concreto », cioé del contenuto

effettivo realizzato

in una concezione del mondo e incarnato in determinati personaggi e circostanze (cfr. La letteratura sovietica, Feltrinelli, 1956, pp. 79-80).

Che Pratolini ci abbia dato un personaggio socialista vuoto di storia non puod sorprenderci. Egli non é stato né il primo né lPultimo fra coloro che in questi ultimi tempi hanno scarsamente sentito la necessita e lurgenza di un approfondimento dei motivi ideali che devono guidare il movimento popolare sulla via del socialismo e che sono divenuti cosi appassionanti dalla vittoria della Rivoluzione 148

g

cinese in qua. Avendo affrontato un argomento come quello del suo romanzo, senza meditare seriamente sui problemi storici, politici e letterari che esso implicava, non possiamo sorprenderci che abbia concepito con tanta superficialita Veducazione dei sentimenti di Metello e lo abbia rappresentato con

tanta freddezza,

maturare

nel cuore del mondo

senza

mostrare

di aver

sentito

quegli eventi che intanto

contribuivano a farci uscire, anche qui in Italia, dalla « con-

giuntura » e a fare evolvere tutta una nuova situazione storica. Quando leggo un’opera che pur si presenta cosi modesta, come quella delle storie dei fratelli Cervi, tutto questo

io lo sento. Ed é per questo che mi pare un libro bellissimo, e tanto peggio per i critici che non se ne sono accorti. « [...] Io ho affrontato, non so se con pili maestria che nei miei libri precedenti, certo con pit chiaro impegno morale, una storia decisamente imperniata sulla figura di un _lavoratore, e ho cercato di raccontare insieme alla sua vita

privata, i suoi egoismi e debolezze di uomo, le lotte politiche e sindacali che egli combatte unitamente ai suoi compagni, via via acquistando sempre maggior coscienza degli ideali che lo mffovono e dei diritti che gli vengono negati [...]. So benissimo che Metello é un’opera ancora imperfetta ma é giusta la sua impostazione, é nuovo e giusto e riuscito il tentativo di dare finalmente cittadinanza nella nostra letteratura a dei personaggi che rappresentino non demagogicamente, non in modo falsamente comprensivo, e nemmeno in modo astratto e forsennatamente barricadiero,

la realta sempre pil viva e pressante del mondo del lavoro ». Questo gia citato discorso di Pratolini agli edili (come ogni documento della poetica di uno scrittore) va sottoposto a quella che Labriola chiamava « nuova critica delle fonti », intesa a sgombrare il « circolo @illusioni » in cui gli operatori appaiono involti e che si manifestano « nelYanimo e nella forma di consapevolezza » in cui essi « resero conto a sé dei motivi dell’opera loro propria » (La concezione p. 141).

materialistica della storia, Laterza,

1945,

Il problema artistico di Pratolini dopo i vari racconti di minor respiro scritti dal 1948 in qua, é stato quello di su-

149

perare l’impostazione delle Cronache di poveri amanti. Imperniare decisamente un romanzo su di un personaggio, partire dal personaggio é stata la via che egli ha scelto per evitare quell’impostazione corale. Ma invece di seguire la via maestra dei grandi realisti, egli non ha fatto passare decisamente la storia attraverso le vicende individuali, in modo da portare avanti lo sviluppo del protagonista, in modo da farlo educare dai fatti e nei fatti. Esponendo Metello non dobbiamo confondere cid che viene commentato o descritto dall’autore o sentenziato in proverbi dal protagonista con le sue azioni effettive. Sul carcere, sul lavoro, sul servizio militare, sulla vita politica di Metello Pratolini, dopo avere identificato questi temi cosi importanti, trascorre troppo spesso con superficiale rapidita, evitando la narrazione vera e propria. Le « esperienze » attraverso cui Metello s’iscrive al Partito socialista e si trova a dover rappresentare tipicamente « un’altra generazione » dopo quella degli anarchici, sarebbero venute in primo piano se Pratolini avesse avuto la volonta concreta e non la velleita di rappresentare l’educazione dei sentimenti di un proletario. E chiaro che non avremmo voluto da Pratolini un romanzo psicologico. E chiaro che il passaggio dallistinto di classe alla coscienza di classe sarebbe stato rappresentato con pienezza realistica se la storia degli anni di Metello non fosse stata ricacciata sullo sfondo in una serie di figure in abbozzo e di eventi illustrati, che ci danno il colore dei luoghi e dei tempi, senza assurgere alla compiutezza del personaggio e della pittura. Di tanti anarchici, nessuno s’imprime nella nostra memoria con una fisionomia sua inconfondibile, perché l’autore non ha indugiato su nessuno di loro con quell’amore della fantasia che avrebbe dovuto corrispondere a una chiarezza strutturale, alla convinzione che rappresentare almeno un uomo della vecchia generazione era essenziale per costruire il romanzo. Del movimento organizzato che fu decisivo per forgiare la « nuova generazione » socialista s’intravvede un’ombra in Del Buono, l’Angelo Rosso, Angelo Senz’ali.. Forse Pratolini per preoccupazioni di mero verismo era esitante a introdurre nell’opera un sindacalista meno fiacco e sbiadito, perché ai tempi di Metello il Del Buono storico tradi.

150

Ma egli poteva rispettare la storia o non rispettarla affatto; non poteva eludere la necessita di trovare una qualsiasi soluzione artistica per rappresentare il grande fatto nuovo, la nascita del movimento organizzato, essenziale alla coerenza interna di un’opera come Metello. Le forze antagonistiche Pratolini ha creduto di riassumerle nell’ingegnere Badolati, il padrone che si rivela tanto pit boja, quanto meno boja vorrebbe apparire. La critica borghese (Cecchi, Bocelli) ci ha visto solo il « meno boja » e ha lodato Pratolini per questo. I gesuiti, che si aspettavano « un libro non solo dagli intenti troppo scoperti, ma anche carico di odio classista », pur avendo trovato che « la tesi c’é e si affaccia subito, e anche |’odio non manca », hanno osservato che « Pratolini si € comportato, nel dosarli, non da scrittore oltrecortina, ma da italiano, nel quale prevale, di fronte alle medesime contingenze, l’umanita ». (« Civilta

cattolica » del 7 aprile 1956). C’é stato chi, come Pampaloni, ha supposto che Pratolini volesse rappresentare lingegner Badolati secondo una proiezione troppo meccanica del presente nel passato, come una specie di possibile alleato della classe operaia. Altri lettori, come

Calvino,

ci

hanno visto il padrone pit sottilmente nemico, perché abilmente paternalista nel tentativo di fiaccare la coscienza di classe dei lavoratori. Certo, dimenticarsene non si pud, co‘me ha fatto per evidente distrazione Salinari, esponendo Metello come poema della speranza. Ma non meno certo é che per aver concepito Badolati come « un lottatore a cui piace scherzare col fuoco » come un borghese che cavallerescamente si compiaccia di avere degni nemici di classe i quali a loro volta.lo odiano ammirati, Pratolini avra avuto alte ambizioni poetiche, ma per difetto di analisi il personaggio gli é riuscito sfuggente, senza quella tipicita che pud essere complessa psicologicamente, ma deve restare univoca. La rappresentazione é affidata quasi esclusivamente ai colloqui e agli alterchi con Quinto Pallesi, con il Decano e con Metello: al personaggio manca l’atmosfera di tutto il - suo ambiente, di.tutta la sua classe, perché la sua fisionomia.

intellettuale e morale di padrone « pit boja » risulti netta e fuori discussione. Confinato il movimento

storico nello sfondo, non

151

solo

non potevano venir fuori gli antagonisti, ma la materia stessa si impoveriva nei limiti di un racconto (come ha ben visto Calvino). Per dilatarlo a romanzo,

Pratolini da una

parte rappresenta in forma analitica in iscorcio e per cenni tutti gli amori di Metello, dall’altra prolunga un episodio importante, ma la cui drammaticita finisce per stemperarsi, lo sciopero dei quarantasei giorni. Gli amori e lo sciopero, che del resto ad essi é strettamente collegato, occupano meta del libro, sicché il resto inevitabilmente finisce per otteneré una rappresentazione sommaria, col ricorso controllatissimo, letterario e distaccato,

a certe figure, a certi temi e

intrighi romanzeschi cari alla narrativa popolare. Lorfano Metello a differenza del fratello di latte Olindo,

sfortunatissimo come lavoratore, perché prende la tubercolosi, € come crumiro, perché prende le botte, fugge dalla campagna in citta, e qui, da senza famiglia e senza lavoro, ritrova gli amici del padre e un padre novello nell’anarchico Betto.

Col lavoro

e nelle lotte del lavoro,

trova

il

modo di diventare socialista e perfino di capeggiare uno sciopero senza volerlo, riuscendo con i suoi compagni vit~torioso contro un padrone che da ultimo si rivela il piu difficile da combattere. Ma la storia non sarebbe abbastanza interessante se a Metello, da « bel giovane operaio » qual é, mancassero le avventure con le donne. A cominciare dall’adolescenza campagnola, ad ogni epoca della sua vita corrisponde una donna, un corpo, un volto, un ricordo. Cosetta, Michela, quella tutto petto e senza nome, Pia, Baldina, le ragazze napoletane di via Sergente Maggiore, la istitutrice tedesca, senza contare la figlia del pescatore al domicilio coatto, e ’inconquistata Anita che con Ersilia incarna le popolane fiere e fedeli, e la bella Idina, che con Viola incarna le piccole borghesi peccatrici e provocatrici. « Decisiva » é la relazione con Viola, da cui si profonda su Metello quell’« odore di fortunata virilita » che (dice Pratolini) puo capitare « a don Giovanni, come a D’Annunzio, come a un muratore ». Cosi, anche sul destino privato del - nostro eroe splende lo « stellone d'Italia » che, come si sa, é Venere, ma che non ha poi tanto di pagano. Di quanta luce prodigiosa e provvidenziale non ha fregiato la storia _ del nostro paese? Il « miracolo » del primo Risorgimento! 152

Tl « miracolo » del secondo Risorgimento! E cosi ora ne vediamo illuminato anche il movimento operaio. Sotto una bandiera « dai colori vagamente nuziali » si scioglie l’assemblea di Monterivecchi e del famoso sciopero di quarantasei giorni se ne ricorderanno piu intimamente anche Metello ed Ersilia perché ne nasce una bambina. Come negare a questa concezione un « maraviglioso » di di nuovo genere? Esso esercita sul lettore una innegabile Suggestione epico-lirica: cosi qua git’ si gode e si trova aperta la strada del socialismo (senza che quella del Cielo resti preclusa). Perché Metello (dice Pratolini) « aveva si la testa alla politica, tuttavia, come sempre ce lo dovevano tirare le circostanze..., ma anche all’amore ». Nel carcere

fa, si, la sua prima esperienza politica, ma non diventerebbe vero uomo e vero italiano se non si iniziasse anche alla vita sessuale e matrimoniale. Sara il carcere che gli fara scegliere con fulminea attrazione (« esco e la sposo ») la vera donna della sua vita. Ersilia, rispettando nel suo uomo le convinzioni politiche, lo confortera a scioperare e gli sara di sostegno nei momenti difficili, sanfredianina come é€ e figlia di un anarchico, capace di vero amore e di sentimenti autentici. Cosi si completa il ritorno di Metello alle sue « origini » cittadine e popolari, da cui due volte € sul punto di evadere per vanita sessuale (e questo che altro é se non il suo gallismo?), la prima volta con Viola e la seconda con Idina, la donna con « la giarrettiera » che lo provoca a togliersi « una soddisfazione » e a commettere un duplice peccato di fronte alla famiglia e alla societa. Grazie alla provvida interruzione del servizio militare, la maestrina lusSuriosa per voglia di prole, esaudita, si pente e non piu schiava del peccato diventa anzi benefattrice del probabile padre di suo figlio (arriveranno le sue cento lire, quando Metello

é in carcere,

« come

un

regalo delle Fate, d’un

Omobono, d’una Befana anticipata! »), ed ¢ giusto che in suo onore la coppia beneficata chiami Viola la figlia concepita nel memorabile sciopero. Sicché Metello, uscito dal terzo carcere della sua vita, ritrovera nel vincolo matrimo-

niale un’immagine terrena di Sacra Famiglia a cui non pud tentare d’irridere, senza che Ersilia lo ammonisca di « non

_ bestemmiare ». 153

Nella nostra letteratura contemporanea non avevamo nulla di simile. E per dirla in termini cinematografici, cosi spesso richiamati dalla critica a proposito dell’ultimo Pratolini, bisognerebbe pensare all’opera di un Castellani, di un De Sanctis e di un Matarazzo concordemente associati. L’originalita di Metello consiste nell’aver rinfrescato la letteratura d’intrattenimento a fin di bene (piccolo borghese e cattolica nell’ispirazione, ma popolare di diffusione e per

influenza) innestando su quel vecchio tronco il virgulto del nostro « bravo Cipressino », ultima incarnazione di una figura d’eroe popolare che Pratolini aveva perseguito con calore e coerenza (anche se un po’ retoricamente) nel Maciste delle Cronache e poi con arida astrattezza in Faliero, Vantagonista positivo di Un eroe del nostro tempo. Per meglio umanizzare il suo eroe, per impedire che diventasse un tipo intellettualisticamente perfetto e artisticamente impersuasivo, Pratolini non ha esitato a infondergli alcune ca-— ratteristiche di Bob, il « gallo della Checca » delle Ragazze

di San Frediano. Percid ne € venuto fuori un personaggio che puo ben corrispondere al lavoratore medio italiano, un eroe che va definito obiettivamente comico e idilliaco, an-

che se si trova ad essere tra i protagonisti di episodi drammatici e di una storia tutt’altro che idillica, ma che lascia una assai scarsa traccia nella sua coscienza. Sicché quando

confessa alla sua Ersilia che del pit famoso evento della sua vita, lo sciopero, é restata impressa nella sua memoria

la circostanza meno importante, l’incontro con un incognita madre che abbandonava alla ruota degli Innocenti il suo « mimmino », ha ben ragione la moglie a rispondergli con una spiegazione che da una parte postula il maraviglioso. come sugo di tutta la storia, dall’altra serve a ben definire i lineamenti morali del personaggio: « Sono i casi della vita. E tu hai trent’anni e sei di animo buono. Ma c’entra anche la tua vanita, non dubitare. Al momento opportuno sei capace, non di fare del male, no, ma di essere egoista e spensierato, eccome ». L’eroe positivo del libro non é Metello, ma Ersilia. Tra il povero mondo della letteratura di intrattenimento (a cui

essa, per altro, non contraddice) e quello pit! ambizioso del romanzo socialista, rimasto in gran parte intenzionale, Er154

silia rappresenta il punto di equilibrio e d’incontro. Senza possibilita di sviluppo, essa racchiude in sé, gia perfette, tutte le virtu sanfredianine, grazie alle quali « comprende » e risolve d’istinto ogni problema di morale e di politica. « L’eterna forza dei semplici, di affidarsi e nello stesso tempo di non arrendersi al proprio destino. « Male non fare paura non

avere ». La sua fiducia nella vita, infine aveva

sempre trovato un esatto rapporto nella spontaneita, nella chiarezza, diciamo, e nella costanza dei suoi atteggiamenti e dei suoi affetti ». Percid, senza essere pinzochera, sa giu-

dicare benissimo il gallismo del marito e i peccati suoi e della bella Idina, e senza frequentare partiti o camere del lavoro, sa gia il marxismo che il marito vorrebbe studiare sui libri, e gli sa dire perché deve scioperare e ne sa piu del suo Marx, del suo Turati e del suo Del Buono. Pratolini si permette di sorridere su Metello e di guardare con moderante ironia cid che nella sua storia italiana potrebbe apparire come « barricadiero ». Ma Ersilia l’adora, e vuot farcela adorare. Che cos’é l’eroe positivo? Non ho bisogno di spiegare a chi ha letto Hegel, De Sanctis, o Lukacs e sia esperto del linguaggio critico moderno, che cosi si chiama il personaggio nel quale l’autore esprime la propria concezione della vita. Pratolini non ha assorbito in succum et sanguinem il socialismo. La sua concezione della vita é rimasta, sostanzialmente, nonostante la buona volonta di uscirne, il populismo sanfredianino. Possiamo discuterne, possiamo com- ~ batterlo, ma é quel che vive ed opera nella sua mente e nel suo cuore. Se ci fermassimo a considerazioni di critica sociologica e a priori, come quella di Cases, dovremmo per

motivi dottrinari polemizzare proprio col personaggio meglio riuscito nel libro. Riuscito proprio perché nel rappresentarlo Pratolini non aveva difficili problemi di educazione ideale, di sviluppo edi crisi interiori. Che cosa c’importa se per tanti aspetti la poetica di Pratolini rimane ancorata al naturalismo? Il lettore guarda al personaggio, come si muove e come agisce. Ersilia é tutta azione, e in questo é la sua vita artistica. Raramente Pratolini ha bisogno di commentare

questo

personaggio

tutto

suo,

positivo

e ri-

Spetto alla sua concezione della vita e rispetto all’arte. Il 155

rilievo che essa acquista é tanto maggiore, quanto pill numerose sono le donne di Metello, che Puna dalValtra acquistano spiccata verita d’immagine. Se non la incontrassimo tante volte nel romanzo e in tante situazioni diverse e nei momenti pit importanti, il personaggio non sarebbe cosi centrale, cosi coerente e fuso, cosi vero nei suoi sentimenti

e nel suo linguaggio, frutto maturo di un contenuto elaborato, e giunto alla sua forma piu schietta. Per gli stessi motivi per cui é riuscita Ersilia, é riuscita solo a meta la Viola che, come Metello, comportava una problematica ideale. La presenza nel romanzo di un personaggio come Viola si spiega benissimo come effetto della « congiuntura », cioé del gesuitismo ch: dilaga nel costume e anche nell’arte italiana. Pratolini ha voluto affrontare il tema del peccato i cui problemi moraii hanno poco a che vedere con la sua arte e con la sua pev'sonalita di scrittore. Per questo la conversione di Viola non poteva essere da

lui seriamente elaborata, non poteva non ridursi ad un lungo discorso giustificativo che sostituisce una rappresentazione mancata e serve a semplice elemento di intreccio finale e di suggestione conclusiva del maraviglioso popolare. Se Pratolini si fosse impossessato di una concezione socialista della vita, si sarebbe accorto che il peccato non appartiene ai « valori indistruttibili » dell’uomo, ma é solo un residuo delle superstizioni cristiane che non costituiscono il nuovo della realta morale dei nostri tempi, ma il vec-

chto, contro cui la parte cosciente del proletariato e del mondo moderno sa di dover combattere. Viola, poeticamente cosi viva nei suoi caldi amori e nella sua tenera ma-_ ternita, da ultimo non puo non dissolversi nel vuoto maraviglioso della poetica popolare tradizionale, in cui la carita diventa surrogato della solidarieta di classe, cosi come la fiducia e la speranza mal si distinguono dalla capacita di prospettive e dalla consapevolezza. ‘ Un giovane manovale sardo ha fatto una critica giudicata da Pratolini (nel citato discorso agli edili) « acutissima, e tale, se egli avesse ragione, da mettere in discussione, non

Vimpostazione e la struttura del racconto, ma il suo resultato artistico ». I] manovale sardo « riteneva che nel corso normale del romanzo non si sentisse abbastanza il peso del156

‘s

la lotta che le altre categorie di lavoratori dovettero sostenere, e che non poté non essere parallela e solidale, come

del resto qua e la nel libro era accennato, con le battaglie politiche e sindacali combattute dagli edili di allora ». Io credo che questa critica sia giusta, perché coglie i limiti ideologici e il difetto strutturale dell’opera, la mancanza di un punto di vista di classe ben definito e lincapacita di far scaturire i personaggi da una totalita di rappresentazione epica, dove i conflitti non restino marginali ed episodici. Partendo dal punto di vista del medio benpensante che partecipa né primo né ultimo all’odierno movimento delle classi lavoratrici, Pratolini ha messo a servizio di una mo-

desta visione del reale tutte le sue migliori risorse e qualita di artista. Ecco Voriginalita, la novita e i limiti intrinseci di questa sua narrazione popolare. Essa non offre la totalita epica d’un romanzo realista, e non puo dirsi né cristiana né socialista per la sua struttura ideale cosi debole e incoerente. Certo, molti lettori sono stati avvicinati da quest’opera ai temi pit’ moderni della lotta sociale, ed elevati al tempo stesso a un livello artistico non comune fra le opere dintrattenimento.

Ma

senza

sottovalutare

la difficolta, la

novita e anche la parziale felicita di esecuzione dell’episodio dello sciopero, teniamo presente che, nonostante le note sovrabbondanze e i noti sfoggi formali, il reazionario Bac-chelli seppe rappresentarci nel Mulino del Po uno sciopero di braccianti con ben altra potenza realistica. Perché vogliamo ipotecare il futuro di Pratolini (e dei suoi lettori), dicendo che Metello é all’apice della sua carriera di scrittore? Piuttosto, se -vogliamo dare uno sguardo al suo passato e collocare il libro nel quadro della sua produzione sino ad oggi, non ricorriamo a comode esclusioni: ricordiamoci di tutta la sua attivita é di tutta la critica che Pha seguita e valutata. Nell’Eroe del nostro tempo e pit ancora nelle Ragazze di San Frediano Pratolini ha appreso un certo piglio cinico e distaccato di fronte alla sua materia, che non é rimasto senza tracce nel colorire con indifferente.

bravura certe stampe dell’Ottocento e del primo Novecento _ (elegantissima quella dell’Idina in abito lilla che ritorna al crepuscolo dagli amorosi sterpeti di Terzolina; festosa e pit-

a

Seg

toresca quella dell’assemblea di Monterivecchi). Omnia munda mundis. La semplicita di Pratolini scrittore lasciamola (o meglio non lasciamola) credere ai semplici. Palazzeschi é nato prima di lui, e non é il solo decadente che gli abbia insegnato qualcosa. Porre Pratolini fuori del decadentismo € come volerlo porre fuori della storia (e Radiguet? e Ch. L. Philippe?), sia che lo si voglia fare a fin di bene e di disinfezione, sia che lo si voglia fare maliziosamente (come il Montano), per dare un giudizio negativo

sui suoi limiti culturali. Quel che assolutamente non possiamo permetterci € una definizione di comodo del decadentismo, posta la quale, e non trovandone gli elementi in Pratolini, possiamo poi trionfalmente concludere che egli ha rotto con il decadentismo. Se noi piuttosto lo consideriamo, per quel che storicamente ¢, un movimento

non an-

cora esaurito, che dalla crisi della societa borghese determinatasi col capitalismo, attraversa, dopo il 1830, tutta la storia delle letterature moderne, fratello nemico del realismo, e ad esso permanentemente intrecciato, spesso in uno

stesso autore e in una stessa opera, saremo in grado di eliminare ogni residuo moralistico dai nostri giudizi (anche se le nostre polemiche non potranno non nutrirsi di quel « sarcasmo appassionato » che chiunque rivendichi a sé l’orgoglio e la responsabilita di essersi messo alla scuola di Gramsci non espungera mai dalla propria critica militante, riguardi essa 1 compagni di strada o gli avversari). La sintomatica fedelta di Pratolini al lirismo della prosa d’arte (checché ne possa dire il Pullini)

€ un motivo

anti-

realistico che egli non ha ancora abbandonato, come testimoniano I] mio cuore a Ponte Milvio e \o stesso Metello. Che egli « nacque pieno di musica » (come osservO Pancrazi, per citare uno solo dei tanti critici che hanno osser_vato questo che é tra gli elementi discriminanti del decadentismo), basta davvero un po’ d’orecchio per convincersene.

Metello prova che l’autore non solo non é riuscito a sliricarsi, nonostante l’esperienza stilistica coraggiosa di Un eroe del nostro tempo (che resta sempre il suo libro pit lucidamente concepito, la sua prosa pit sobria, pit moderna e pit nazionale per stile e per lingua: in questo senso son d’accordo con Cases); ma anzi si é valso dei trapassi mu158

sicali proprio per incantare il lettore e distrarlo dalle fratture di una incompiuta rappresentazione epica. « E da un certo giorno in avanti, € come al primo canto del gallo... »

(p. 13). « E il giorno in cui a nostra insaputa la nostra vita Si volta, come

si volta

sul palmo

il dorso

della

mano »

(p. 103). « Quando ci vogliamo spiegare certe circostanze, decisive per la nostra vita, ci si risponde che é destino, che é successo non sappiamo come... cosi, un sentimento é€ entrato dentro di noi: é legna verde e d’improvviso brucia ». « Un filo della nostra matassa nazionale si sdipanava » (p. 121; p. 173). Come dire: D’Annunzio e Montale esposti al popolo. Cosi Metello stupisce il fratello di latte Olindo col suo parlare « ornato ». E si potrebbero citare numerosissimi luoghi in cui questa bravura di Pratolini é impareggiabile a épater le prolétaire. Fuor di dubbio non é facile trovare un romanzo popolare scritto tanto bene, con tanta fluidita e limpidezza. Sarebbe ingiusto dire che tutto é maniera e che il gusto del vernacolo e l’atteggiamento popolaresco tradisca sempre una fredda ricercatezza. Se talvolta l’imitazione letteraria resta inferiore all’originale (come quando Pratolini si ispira alle indimenticabili poesie drammatiche di Raffaele Viviani sui muratori), numerose sono le pagine in cui si avverte la

maestria di chi padroneggia le sue pit autentiche qualita. Certo, non si sente quella « forza d’urto » e quel « disperato stridore » che nelle Cronache di poveri amanti offendevano il buon gusto del moderato Pancrazi, ma che sempre ci muovono a farci convinti sostenitori di quel libro ogni volta che torniamo a rileggerlo. Scambiare le consolate e

raddolcite e armonizzate qualita stilistiche di Metello per un processo formale poetico e unitario non sembra possibile, se partiamo dalla struttura dell’opera. E questo il risultato chiarificatore a cui ha portato la discussione, reagendo ad ogni « spaccio » acritico e celebrativo, che in tal caso sarebbe rimasto un troppo squallido segno dei tempi. C’é da augurarsi che il movimento per il realismo presto si lasci alle spalle Metello e, fatto adulto dall’esperienza, apprenda a giudicare con pill serenita e, insieme, con pit fermezza, qualsiasi letteratura che, ingenuamente o no, si limiti a « intrattenere » i lettori nella fideistica speranza, ten-

ac

159

1

da in qualche modo « ad abbellire dio », a creare suggestioni di socialismo cristiano, « la peggior forma e la peggior deformazione del socialismo », come scriveva il « vec-

chio » Lenin a Gorki nel non lontano (ma forse gia troppo

lontano) 1913. 1956

160

9

Simplicio e la « commedia filosofica » dei Massimi sistemi

Non credo sia produttivo continuare a parlare della prosa di Galileo, mettendosi alla ricerca delle sue piv belle pagine. : Cid del resto, a suo tempo,

fu fatto egregiamente,

nel-

Yambito della metodologia crociana. Ed avemmo il primo, notevole approccio critico a una prosa fin allora pit lodata che studiata. Il mio proposito é diverso e pil circoscritto. Ho voluto concentrare l’attenzione sull’opera pit celebre, e non affrontare tutti i vari aspetti, momenti.e sviluppi di questa prosa, con le necessarie distinzioni che son da fare _ tra Galileo legato alle occasioni polemiche e Galileo libero compositore delle sue opere, costruite secondo un’esigenza oggettiva della materia ideale, che si muove nel suo cervello e muove il suo discorso verso una indissolubile unita creativa.

Per i critici puramente letterari non c’é dubbio che il Saggiatore debba riportare la palma fra tutte le opere di Galileo. Per gli storici della scienza non c’é dubbio che la palma sia da attribuire ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno alle due nuove scienze. Ma poi sia i primi che i secondi, contraddicendosi,

finiscono per ammettere

che,

per motivi diversi, l’opera pit rappresentativa é il Dialogo Sopra i due massimi sistemi del mondo, anche se le pagine piu brillanti sono nel Saggiatore e le pagine scientificamente pit valide nella prosa delle Nuove scienze.' Credo che un metodo in qualche modo galileiano, cioé una analisi o (come egli preferiva dire) uno « sminuzzamento » di tutte e tre queste opere porterebbe a una piena e 1 Le citazioni rinviano all’edizione delle Opere di Galilei a cura di Ferdinando Flora (Milano-Napoli 1953). Per le Nuove scienze mi attengo all’edizione di A. Carugo e L. Geymonat (Torino 1958).

161

necessaria dimostrazione, interamente fondata sugli oggetti in questione. Diro rapidamente della prima e dell’ultima, soprattutto per mettere in rilievo i loro addentellati con la seconda, che qui mi propongo di studiare con maggiore ampiezza, perché il Dialogo per Galileo costitui il maggior cimento drammatico di scrittore e di uomo. Il Saggiatore (1623) € tra le opere di Galileo certamente

quella piu legata al gusto del Seicento e fin dal titolo promette un metaforeggiare che nasce appunto dal bisogno di ritorcere con ingegnoso procedimento polemico la Libra astronomica

ac philosophica

di Lotario

Sarsi, cioé il ge-

suita Orazio Grassi che si era cosi anagrammato e travestito da scolaro del Collegio romano, per criticare il Discorso sulle comete (1619) dell’amico e discepolo di Galileo, Ma-

rio Guiducci (discorso ispirato e forse in gran parte scritto dallo stesso maestro). Il matematico gesuita, futuro archi- ' tetto della chiesa di Sant’I[gnazio, era uno degli ingegni pit versatili della Compagnia, e aveva fatto sfoggio dei suoi colori retorici, assai velenosi (come spesso sono i colori). Intanto (preciso Galileo) la cometa che aveva dato occasione alla disputa era apparsa non gia nel segno della Libra ma in quello dello Scorpione, e cosi si sarebbe dovuto intitolare

il libro, anche per il mgdo di-comportarsi dell’autore, che, benché non provocato, aveva morso Galileo. Ma egli cono- — sceva l’antidoto efficace: « InfrangerO dunque e stropiccero listesso scorpione sopra Je ferite, onde il veleno risorbito dal proprio cadavere lasci me libero e sano! » Altra metafora veridica e pertinente, gli contrapponeva Galileo, e V’attingeva al suo schietto gusto borghese e fio-. rentino. Proprio come il banchiere che saggia le monete, « con bilancia esquisita e giusta » voleva ponderare le cose -contenute nella Libra del Sarsi. Ma non solo nella pagina iniziale, dove si trattiene (dice) « nella medesima metafora presa dal Sarsi », Galileo si mette sul terreno dell’avversario. Egli si compiace di dargli lezioni di tutto: di metodo e di moralita scientifica; di pensiero e di stile. Sicché il tema vero € proprio, la teoria delle comete, diventa secondario.

Dal punto di vista della scienza astronomica, Galileo avanza delle ipotesi destinate a combattere le tesi del Grassi, che ‘

162

SSD CT e Sa Ns rc Le Mater aal 0

si fondavano

sulle osservazioni di Ticone, o Tycho Brahe,

Pastronomo danese cosi caro al cuore dei gesuiti progressisti (ogni tempo ha i suoi Teilhard de Chardin). Valentissimo astronomo e molte volte pit vicino al vero dello stesso Galileo, ma troppo ingegnoso ordinatore dell’Universo, egli aveva escogitato un sistema cosmologico intermedio tra il tolemaico e il copernicano, e pretendeva salvare la capra del movimento solare e planetario e insieme i cavoli delle stelle fisse e della terra immobile al centro dell’universo. Il Grassi difendeva una tesi astronomica piu vicina al vero, ma il sistema a cui si richiamava e il suo metodo pseudofilosofico, diedero a Galileo una serie di appigli, sollecitandolo a scrivere la pit lunga delle sue lettere polemiche. Il Saggiatore segue « di punto in punto » lo scritto del gesuita, e lo commenta come un trattato classico e poco meno che il De coelo aristotelico. La situazione era oggettivamente ironica, e scatenava tutti gli umori faceti dell’autore. Nella forma, Popera si presentava come una lettera indirizzata a monsignor Virgilio Cesarini, accademico linceo e maestro di camera del nuovo papa, Urbano vill, e come

Sua Santita, atteggiato a progressista; uno di quelli che avrebbero voluto proteggere Galileo e che gli raccomandavano prudenza, da buoni savi fiorentini, nei confronti della compagnia di Gesu (ma Galileo disgraziatamente era un po’ meno savio di loro, e aveva una matta voglia di attaccare questa mezza cultura). Nella sostanza, il Saggiatore era invece una « lettura di un trattato » come dice l’autore,

Pesposizione di un testo, che dall’inizio alla conclusione é semiseria, e non rinuncia a tutte le piacevolezze che di volta in volta suscita l’avversario, con le sue metafore, con le sue proposizioni logico-retoriche e pseudo-scientifiche, onde infiora e agghinda la vieta struttura del suo procedimento scolastico (quattro « questioni », distinte in « argomenti >). Due filosofie si contrappongono. Quella del Sarsi, « trat-

tabile e benigna filosofia che cosi piacevolmente e con tanta agevolezza si accomoda alle nostre voglie e alle nostre necessita ». E quella di Galileo, rigorosamente commisurata alla « geometrica strettezza » che impone il reale: Ma

Sia

ie

avvertisca bene al caso

.

163

suo, e consideri

che per uno

che voglia persuader cosa, se non falsa, almeno assai dubbiosa, di gran vantaggio é€ il potersi servire d’argomenti probabili, di conghietture,

d’essempi,

di verisimili

ed anco

di sofi-

smi, fortificandosi appresso e ben trincerandosi con testi chiari, con

autorita

d’altri filosofi, di naturalisti,

di rettori e d’i-

storici: ma quel ridursi alla severita di geometriche dimostrazioni € troppo pericoloso cimento per chi non le sa ben maneggiare; imperocché, si come ex parte rei non si da mezo tra il vero e ‘I falso, cosi nelle dimostrazioni necessarie © indubitabilmente si conclude o inescusabilmente si paralogiza, senza lasciarsi campo di poter con limitazioni, con distinzioni, con istorcimenti di parole o con altre girandole sostenersi piu in piede, ma é forza in brevi parole ed al primo assalto restare o Cesare o niente (p. 221).

L’interesse ma anche il limite stilistico del Saggiatore é

‘in questo suo duellante procedimento, in questa disputa di straordinaria sottigliezza, dove pero i discorsi di uno degli | interlocutori son preesistenti, e non liberamente inventati dallo scrittore. E questo che insieme lo stimola e lo vincola, sicché i risultati sia scientifici che letterari son da ricercare in questo o quel brano, pit che nella validita organica del tutto. Il Saggiatore é un ricchissimo vivaio di temi e problemi scientifici. Qui sono le pagine pit famose di Galileo. E non per nulla dalla Crestomazia di Leopardi in poi gli an-

tologisti hanno attinto soprattutto a questo libro, dove la scrittura é pit. ricercata che mai, e lo svario pretestuoso cosi brillantemente (ma non senza accensioni e smorzi, cioé

visibili disuguaglianze) si esercita a spese dell’avversario e dei suoi « diverticoli » immaginosi. Ma lasciando per ora i luoghi dove la contestazione po-_ lemica fa inevitabilmente ritorcere lo stile di Galileo, rileggiamo l’eccezionale favola del suonatore, piaciuta al Leo-

pardi: Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto pit risolutamente voglia discorrerne [...] (p. 199).

Impossibile scambiarla per mera prosa d’arte, se badiamo alla logica interna che l’avvia e la regola, dando al164

:

a

;

Vapologo un significato: la cauta modestia che ogni ricercatore e studioso deve proporsi di fronte ai risultati delle sue esperienze e dei suoi ragionamenti. Il maraviglioso oggettivo della natura che mette in movimento la « musica » di questa prosa é l’opposto della maraviglia artificiosa e soggettiva di cui si compiacerebbe uno scrittore barocco. Qui infatti il ricercatore della causa dei suoni é un uomo « d’ingegno perspicacissimo » e di « curiosita straordinarie », pronto ad osservare il reale analiticamente e a

criti-

care i dati, sottoponendoli al discorso della mente con una assidua coscienza metodica, nell’ambito di una inquietante e sempre vigile problematica. E tale é anche la non meno famosa pagina sulla nuova filosofia della natura, che ha dato lappiglio alle interpretazioni pit controverse non solo sul pensiero ma anche sull’arte di Galileo. In questi ultimi tempi, nel significativo quadro culturale _di nostalgiche riabilitazioni del barocco, ci sono stati infatti dei tentativi per dare a Galileo pit precisa collocazione nel movimento letterario del suo secolo. Si é voluto reagire alla tendenza (certamente inesatta) di presentarlo come un puro cinquecentista superstite, una specie di conservatore anacronistico del gusto classicista e rinascimentale. Ma a questa esigenza credo si debba soddisfare con uno storicismo pili attento. Non bastano le metafore barocche di cui si vale Galileo per farne uno scrittore barocco. C’é un uso della metafora come surrogato di pensiero, che serve a far pompa d’ingegnosita, a suscitare maraviglia e trionfare sul-

Pavversario. E c’é invece una metafora che non é un concettare spiritoso, ma una concessione provvisoria per accettare il terreno dell’avversario, e combatterlo anche su quel terreno, e concludere vittoriosamente, approdando a risultati rivoluzionari. Al nuovo « filosofo geometra » le idee nuove importano molto pit del metaforeggiare di moda. Quale concetto mette in moto l’immagine pit celebre, pit citata e pil’ diversamente interpretata di Galileo? Parmi, oltre a cid, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche — celebre autore, si che la mente nostra, quando non si maritas-

se col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile

165

ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l’/liade e VOrlando Furioso, libri ~

ne’ quali la meno importante cosa é che quello che vi é scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non ista cosi. La filosofia é scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si pud intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali é scritto. Egli € scritto in lingua matematica,

e i caratteri

son

triangoli,

cerchi,

ed

altre

figure

geometriche, senza i quali mezi é impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi é un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto (p. 121).

Per uno scrittore asistematico, le interpretazioni tendenziose sono le piu facili. E sono prevalse quelle che*hanno voluto dare il massimo risalto al platonismo matematizzante, che senza dubbio é presente nel pensiero galileiano, ma non vi presiede e non lo caratterizza. Dice bene il Geymonat che questa famosa metafora va riletta e ripensata nel suo contesto polemico: Galileo vuol contrapporre la matematica alla fantasia, il « fior di logica naturale » della scienza alla sofistica libresca e scolastica. Appunto, il metodo nuovo che aiuta a trovare la verita oggettiva inscritta

nelle leggi che regolano !'Universo. Se qui Galileo metaforeggia, € per liberarsi dal gusto barocco della metafora. Vuole opporsi a un pensare in barocco che egli rifiuta, a cervelli barocchi che egli deride, perché esprimono un pensiero vecchio che si vuol ringiovanire coi belletti e adornare dei « fioretti » : i fioretti a cui ricorre il Sarsi quando riespone le idee scientifiche degli avversari « ma orpellate in maniera e cosi spezzatamente intarsiate tra i vari ornamenti e rabeschi di parole, ovvero riportate in scorcio in qualche luogo ». Molto spesso in questo serrato corpo a corpo con la retorica dell’avversario, Galileo indulge a un inevitabile compiacimento letterario. Ma egli lo sa: « or ecco e dal Sarsi e da me fatto un gran dispendio di parole [...] > (p. 282)... « Io non credeva [...] dover consumar

tante pa-

role in queste leggerezze » (p. 156) seguire il Sarsi nei suoi arrampicamenti, nel suo « attaccarsi, come noi sogliamo dire (scrive) alle funi del cielo » (p. 157). Ecco -un barocco esplicitamente messo tra virgolette. E 166

una immagine popolaresca, adoperata scherzosamente per liberarsi dai gravi sofismi del gesuita, che pretende di « trionfare in duello di logica sopra tutti gli scrittori del mondo » (p. 157). E cid che non hanno capito i Simplici

panbarocchisti della critica letteraria dei nostri tempi. Quando Galileo vuol dimostrare al Sarsi che i suoi conti non tornano sembra volersi attenere, anche nei paragoni a cui ricorre, alle ragioni e al linguaggio concreto di un empirismo avanti lettera che in Toscana aveva avuto una tradizione secolare, dal Boccaccio

a Machiavelli, da Leonardo

a Guicciardini: E qui mi pare che al Sarsi sia accaduto quello che accaderebbe ad un mercante che, nel riveder sopra i suoi libri lo stato suo, leggesse solamente

le facce dell’avere, e che cosi si

persuadesse di star bene ed essere ricco; la quale conclusione sarebbe vera quando all’incontro non vi fussero le facce del are: f...|.(p- 159),

Quando il Sarsi per difendere il suo Aristotile si abbandona ad uno dei suoi soliti « diverticoli » immaginosi -(« Nam si qua in urbe per fora ac vias magnam frumenti vim dispersam negligenter haberi, aut si forte vilissima quaeque capita ac plebeculae sordes opipare semper epulari videas ») Galileo contrappone al latino cincischiato e sofi-Stico del gesuita, un discorso dove la:Jogica realistica € a favore di « chi pondera le cose » nella sua esatta bilancia e liquida ipotesi falsee condanna chi_vi si avventa come « persona molto semplice » 0 « stolta affatto » (pp. 349-50). I pit felici movimenti stilistici del Saggiatore non sono, io direi, nelle pagine polemiche pit elaborate, bensi nelle semplici uscite colloquiali, quando Galileo si dimentica di scrivere una lettera in punta di penna allillustre e ricamato monsignor Cesarini, e si rivolge direttamente all’avversario che egli sente il bisogno di resuscitare dalla sua prosa cartacea e dal suo morto latino, per averlo davanti a sé e dir_ gli piu liberamente il fatto suo: « Ma sento il Sarsi che ri_ sponde e dice [...] » (p. 326) ... « Signor Sarsi, chi volesse trattarla con voi, come si dice mercantilmente, cloé con una

~ bilancia sottilissima e giustissima... » (p. 343) oppure dirgli ‘

eee os

167

sul muso,

senza tante cerimonie accademiche:

« La cosa

non ista cosi, signor Sarsi ». Tuttavia questi momenti colloquiali nel contesto del Saggiatore sono

uno

scatto di inconvenienza

stilistica, anche

se testimoniano quanto fosse vitale in Galileo il bisogno di esprimersi nella forma dialogica. In questa prosa quel che predomina é la necessita di rintuzzare l’esibizionismo dei peripatetici i quali « solo per ostentazione in strepitose contese aspirano ad esser con pomposo applauso popolare giudicati non dei trovatori di cose vere, ma solamente superiori agli altri » (p. 129). La provocazione del gusto barocco é accettata con la vigile fermezza dello schermitore che vede usare dall’avversario uno stile di combattimento

non solo verbalistico, ma

insidioso e subdolo. Epperd ai momenti di allegria polemica non pud non subentrare in Galileo tutta ’amara consapevolezza del tempo in cui vive, quando€é costretto a doversi difendere dalle insinuazioni del Sarsi, che accusa lui e il suo amico Guiducci di essersi lamentati calamita » del secolo:

della « miseria e

Quanto poi all’ipotesi Copernicana, quando per beneficio di noi cattolici da pil’ sovrana sapienza non fussimo stati tolti d’errore ed illuminata la nostra cecita, non credo che tal grazie e beneficio si fusse potuto ottenere dalle ragioni ed esperienze poste da Ticone. Essendo, dunque, sicuramente falsi li due sistemi, e nullo quello di Ticone, non dovrebbe il Sarsi riprendermi se con Seneca desidero la vera costituzion dell’universo. E ben che la domanda sia grande e da me molto bramata, non pero tra ramarichi e lagrime deploro, come scrive il Sarsi, la miseria e calamita di questo secolo, né pur si trova minimo vestigio di tali lamenti in tutta la scrittura del signor

Mario;

ma

il Sarsi, bisognoso

d’adombrare

e dar

appoggio a qualche suo pensiero ch’ei desiderava di spiegare,

lo va da se stesso preparando, e somministrandosi quegli attacchi che da altri non gli sono stati porti. E quando pur io deplorassi questo nostro infortunio, io non veggo quanto acconciamente possa dire il Sarsi, indarno essere sparse le mie -querele, non avendo io poi modo né facolta di tor via tal miseria, perché a me pare che appunto per questo avrei causa di querelarmi, ed all’incontro le querimonie allora non ci avrebbon luogo, quando, io potessi tor via Pinfortunio (p. 122).

168

rds

A

o Qualcosa gli aveva inseégnato anche il Sarsi, che si era mascherato, per fare (diceva lui) progredire la scienza. La maschera nasconde o persone vili che vogliono travestirsi da nobili o nobili che vogliono, cosi sconosciuti, esser trat-

tati liberamente da tutti senza rispetto. Galileo dunque si vale « del privilegio conceduto contro le maschere », in modo che « possa seco trattar liberamente », né gli sia « pesata ogni parola » che per avventura lui possa dire « piu libera che non vorrebbe » (p. 101). Quando leggiamo periodi cosi tormentati e guardinghi, € difficile accettare certi giudizi dislocanti e anacronistici. E si dubita che il Saggiatore sia stato mal paragonato alle

Provinciales da Leonardo Olschki e mal definito « manifesto » di una scuola dal Banfi. Dentro la giusta prospettiva di una storia della cultura europea, questo che il Geymonat ha chiamato « pre-illuminismo » di Galileo opera nell’ambito storico e territoriale dell’arretrata provincia italiana. Ma qui la classe sociale, che altrove é in ascesa ed esprimera un nuovo movimento ideale, decade sempre di piu, in mezzo a un rigurgito di neofeudalesimo e a un consolidamento della teocrazia. La cautela della « dissimulazione onesta » da una inconfondibile impronta alle mortifi‘canti esperienze che a Galileo tocco di fare nell’Italia della Controriforma. E anche questo é impossibile dimenticare, quando rileggiamo il citato inizio della favola dei suoni, che ci richiama al preciso contesto di una situazione. storica. Situazione singolare e obiettivamente comica, questa, nella quale lo scienziato era costretto a dichiarare ipotetiche anche le verita accertate, e non poteva proclamare le conclu‘sioni necessarie a cui la scienza era arrivata: le certezze ‘doveva lasciarle al dogmatismo della cultura ufficiale trionfante! __E tuttavia il successo del Saggiatore, dedicato al nuovo papa Barberini, disposto ad assumere posizioni di amabile

‘scetticismo nei confronti della ricerca scientifica, avevano fatto sperare a Galileo di poter continuare questa discus|sione sui massimi sistemi, aperta da un pezzo in Europa e che purtroppo un editto del 1616 aveva bloccata. E vero che Urbano viii, alle richieste di revoca, si opponeva con un assai barocco argomento, che passo alla storia col suo | Reo

a

i

169

.

nome. Anche se molti fatti sembrano provare che la terra gira intorno al sole, € teoricamente possibile (sosteneva papa Barberini) che Dio abbia ottenuto gli stessi effetti facendo girare il sole intorno alla terra, come dice la Bibbia. La teoria copernicana era un’ipotesi « temeraria » ma non condannabile, tanto pil che « non era da temere che alcuno fosse mai per dimostrarla necessariamente vera ». Non si era ancora giunti all’atmosfera d’intolleranza che la guerra dei Trent’anni avrebbe fomentata e riaccesa. Galileo si poteva illudere di consolidare il successo ottenuto e liberare gli « amici della verita», che pur esistevano nel ghetto intellettuale in cui erano stati segregati dalla cultura europea (e particolarmente libera era quella dei paesi pro- testanti, dove s’erano diffuse le teorie di Copernico). Galileo si limitava a proporre che si discutesse, diciamo cosi, accademicamente, senza per questo arrivare a delle conclusioni precise. Era uno dei sotterfugi fipici a cui si ricorre nei regimi di illiberta per ottenere la discussione? Non direi. Perché tra il Saggiatore e Popera che sara intitolata appunto Dialogo

sopra

i massimi

sistemi,

Galileo

compose

un promemoria in risposta alla lettera che Francesco Ingoli (divenuto poi segretario di Propaganda Fide), gli aveva scritto per riassumere la posizione ufficiale e irrevocabile nei confronti del copernicanesimo. Nel promemoria lo scienziato rinunciava alla sua del resto pericolosa posizione precedente, culminata nella famosa lettera a Maria Cristina. Separava rigorosamente ogni problema teologico da quelli scientifici. Dobbiamo evitare (egli diceva) che un eretico rida di un vero cristiano cattolico, « perch’egli anteponga la riverenza e la fede che si deve agli autori sacri a quante ragioni ed esperienze hanno tutti gli astronomi e filosofi insieme ». Galileo quindi accettava le regole del gioco della cultura controriformista pit tollerante: discutere, non trarre conclusioni, rimettersi alle « scienze superiori » (come

le chiamava per non dire scienze dei superiori, che rilasciano licenza alla disputa). Non sappiamo se questa risposta fu letta in alto loco. Sappiamo solo che stilisticamente era l’opposto del Saggiatore: era un’esposizione pacata di taluni fra i pit. importanti argomenti che saranno oggetto di controversia nel 170

Dialogo, gli argomenti di carattere fisico e meccanico a favore del copernicanesimo. Era una prosa limpida, serrata, argomentata nel modo pili sobrio e senza divagazioni e distrazioni polemiche, che anticipava in qualche modo la maturita stilistica e i temi dell’opera pit vasta. Galileo non pretendeva affatto di proporre un vero « sistema mundi », ma richiamava l’attenzione sulla difficolta di rifiutare grossolanamente e senza serio esame il sistema di Copernico, i cui fondamenti scientifici erano cosi degni di essere presi in considerazione. Galileo non intendeva ingannar nessuno: prima ancora di comporre il suo Dialogo e prima ancora di sottoporlo alla censura, aveva esposto le sue posizioni. E anzi, oltre a offrirsi di sottoporre Popera alla normale censura, accetto che il proemio e la fine venissero inviati a Roma ed opportunamente corretti per la stampa. Egli insomma si comporto come uno scrittore di teatro in regime di censura o (mi scusi dal Paradiso il paragone) come un regista che accetti, non solo la censura, ma anche i benevoli

consigli di qualche illuminato monsignore. Eppure, nonostante queste precauzioni sue verso il mondo ufficiale e dei diffidenti « maestri in divinita », il Dialogo esplose come un’atomica ante litteram. Perché? Un’analisi del Dialogo potra dare una risposta piu adeguata, illustrandone le particolari qualita letterarie. Invece di persuadere la Chiesa a tollerare la discussione,

esso la

sollecito a chiuderla, e i nemici di Galileo ottennero quel che tutti sanno e che parve il loro trionfo. Dico parve, perché fu la pit. grave sconfitta subita dalla Chiesa nella lunga storia della sua politica culturale, che pure non pud vantare in questo campo di essere assuefatta a molti trionfi.. Nonostante labiura, Galileo non tacque. Dopo’ che fu messo in ginocchio, si levd con tutte le superstiti energie del suo genio; e nella tarda vecchiaia visse solo per cancellare Yumiliazione di quel gesto imposto, nell’unico modo che poteva, facendo funzionare quel cervello e quella penna : che il Santo Uffizio sperava di aver fermato. Nell’amara solitudine in cui venne esiliato, com’é noto, si dedicd alla sua terza e pil’ importante opera. Nacque cosi la prosa un po’ compatta e un po’ grigia del suo capolavoro scientifico.

oer

eey

agAl

Il titolo dell’opera fu dato dagli editori di Leida e parve « volgare troppo per non dire plebeo » all’autore. Egli avrebbe voluto intitolarla se non proprio Dialoghi (nome che certamente agli editori doveva sembrare un po’ pericoloso) forse Libri del moto o Trattato dei proietti. Cosi chiama l’opera nelle sue lettere. In realta e anche formalmente, le Nuove scienze per molte pagine erano la conti-

nuazione del Dialogo, perché sviluppavano proprio le argomentazioni fisiche e meccaniche gia accennate e solo in parte svolte li, per respingere a preferenza le obiezioni pit comuni al sistema copernicano. Ma letterariamente lopera si presentava in una forma ibrida: a meta lavoro il latino affatto teorematico di un vero e proprio trattato De motu locali subentra a quella prosa dialogica italiana che era stata la pit alta conquista di Galileo scrittore, e che egli esitava ad abbandonare. Egli intendeva rivolgersi al pubblico scientifico europeo, esporre i risultati a cui era pervenuto il suo pensiero. E questo era anche l’intento della prima parte, nella quale aveva voluto in qualche modo manifestare la continuita della sua battaglia. Per questo ritroviamo all’inizio delle Nuove scienze gli stessi interlocutori dell’opera pit celebre (Salviati, Sagredo, Simplicio), la stessa partizione in quattro giornate (altre due furono aggiunte dopo, e nella vi Simplicio, il personaggio aristotelico che tanto aveva contribuito a fare incriminare Galileo, é sostituito). Ma procedendo nella lettura ve-

diamo subito che la materia di vero e proprio trattato non solo predomina, ma addirittura si identifica con lo stile nudamente euclideo. Il libro, benché d’ispirazione rigorosamente copernicana, non fu condannato. Perché? Perché (6. stato detto dal Timpanaro) i teologi non lo capirono. Eppure non mancarono i volenterosi che gli aprirono gli occhi. Ma forse é da dire che proprio perché il discorso matematico aveva.un’assoluta prevalenza, la condanna sarebbe stata un’inutile propaganda all’opera, anzi avrebbe dovuto. costringere il Sant’Uffizio a ricommutare il domicilio coatto. in carcere, e a sottolineare un’altra sconfitta di fronte a tutto il mondo cattolico e non cattolico, tolemaico e co-

| pernicano. Galileo riprendeva da vecchio il tema di uno dei suoi. 172

primi scritti giovanili, il dialogo latino De motu, confutazione della tesi aristotelica sullimpossibilita del vuoto in natura. Qui uno degli interlocutori, Dominicus, si spassava molto alle canzonature rivolte da Alexander agli aristotelici, esclamando « Non minus iocundum erit haec audire quam problematum solutiones [...] ». Ma nella tragica vecchiaia, a Galileo, col fallimento delle sue illusioni nella tolleranza papale, con il cumulo di tante sventure pubbliche e domestiche, era ormai passato il gusto di ridere. E, in fondo, il

suo antiaristotelismo, si era scaricato di tutta la parte polemica. Se fosse risorto il grande maestro greco (diceva Galileo) avrebbe

riconosciuto

in lui il suo

vero

erede e di-

scepolo, il suo grande continuatore in virti delle sue argomentazioni avverse « ma ben concludenti ». Lui e non gia il vulgo dei peripatetici « che per sostenere ogni suo detto per vero, vanno esplicando dai suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente ». Quello che era accaduto per la poetica e per le famose tre unita, si era ripetuto per le questioni scientifiche. Ma ormai Galileo aveva fatto tutti i conti storicamente possibili con l’aristotelismo e si poteva in qualche modo accomiatare da Simplicio, che nelle Nuove Scienze Ci appare come una larva (un po’ come Don Abbondio dopo la peste). E a larve sono ridotti anche gli altri due interlocutori, il Salviati e il Sagredo, che a un certo

punto ora finiranno per dissolversi del tutto. Perché? Era la struttura stessa dell’opera che ormai non ammetteva pit:la presenza di veri e propri personaggi. Percid se é vero che Simplicio (come_é stato detto, con una certa approssimazione) perde « una notevole parte della sua comicita >, lo stesso Sagredo é molto meno mordace con lui e la ‘piacevolezza di Salviati ¢ solo un residuo dell’arguzia maieutica manifestata nei Massimi sistemi. Simplicio in effetti con-

serva i lineamenti del suo carattere. Anzi, le poche battute che pronuncia nella 1 e nella 11 giornata delle Nuove

Scienze sono importantissime per farci comprendere il personaggio e per poterlo riesaminare meglio nell’ambito delPorganismo artistico in cui nacque all’immortalita: SIMPL. Parmi che voi caminiate alla via di quei vacui disseminati di certo filosofo antico. i

173

SALV. Ma perd voi non soggiungete « il quale negava la Providenza divina », come in certo simil proposito, assai poco a proposito, soggiunse un tale antagonista del nostro Accademico. smmpL. Veddi bene, e non senza stomaco, il livore del mal affetto contraddittore: ma io non solamente per termine di buona creanza non toccherei simili tasti, ma perché so quanto

sono discordi dalla mente

ben temperata

e bene organizzata

di v.s., non solo religiosa e pia, ma cattolica e santa (p. 38).

Simplicio allude a Democrito, ma non per denunciare malignamente quella che senza dubbio é una componente materialistica nella concezione galileiana degli atomi o « indivisibili » (come egli preferiva chiamarli). Simplicio é un uomo onesto, e non fa insinuazioni su Salviati, anzi le qualita che gli riconosce sono espresse con tali accenti, da far

supporre in Galileo un fuggevole commosso abbandono apologetico, e la rivendicazione delle sue pit schiette convinzioni religiose. Ma quel che caratterizza Simplicio non é solo l’onesta morale, bensi l’onesta intellettuale. Dopo - tante discussioni e resistenze, nonostante le sue inveterate abitudini mentali, comincia ad arrendersi a Sagredo, che se

é meno mordace, é pur sempre giovanilmente aggressivo. E Simplicio comincia ad arrendersi su quello che Galileo riteneva la condizione fondamentale per potersi intendere e perché gli studiosi non continuassero a darsi « mazzate da ciechi »: la necessita di riconoscerg che la logica matematica é un insostituibile strumento per la ricerca scientifica. SAGR. Che diremo, Sig. Simplicio? non convien egli confessare, la virtu della geometria esser il pit potente strumento d’ogni altro per acuir l’ingegno e disporlo al perfettamente discorrere e specolare? e che con gran ragione voleva Platone i suoi scolari prima ben fondati nelle matematiche? Io benissimo avevo compreso la faculta della leva, e come crescendo o sciemando la sua lunghezza, cresceva 0 calava il momento della forza e della resistenza; con tutto cid nella determinazione del presente problema m’ingannavo, e non di poco, ma di infinito (p. 150).

Naturalmente la citazione serve non gia per sostenere le 174

posizioni dell’idealismo platonico, ma per convalidare la pedagogica opportunita di esortare alle matematiche gli studiosi, rimettendosi a scuola di Euclide e di Archimede (che: erano stati i veri, decisivi maestri di Galileo).

Simplicio é onesto, ma il coraggio, la alacrita intellettuale non é il suo forte. E qui Galileo gli fa ripetere una delle battute che ricorrono nel Dialogo, una battuta-chiave: « Io non posso non laudare il vostro discorso: ma ho gran paufaxche 4.:.)2.

Anche nel contesto pit. didascalico dei discorsi delle Nuove scienze la maschera comica di Simplicio reca in fronte le sue tipiche rughe deformatrici. E Sagredo con maliziosa finezza sottolinea il suo tic mentale, il suo bisogno di credere ,e di quietarsi in un metodo che automaticamente produca verita ad ogni richiesta. E se questo é la logica matematica, ben venga la logica matematica. SIMPL.

Veramente

comincio

?

a comprendere

che la logica,

benché strumento prestantissimo per regolare il nostro discorsO, non arriva, quanto

al destar la: mente

all’invenzione,

all’a-

cutezza della geometria. SAGR. A me pare che la logica insegni a conoscere

se i discorsi e le dimostrazioni gia fatte e trovate procedano concludentemente; ma che ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, cid veramente non credo io (p. 150).

Quando Simplicio muore dinanzi alla fantasia di Galileo, © piuttosto esce di scena (perché Simplicio é immortale),

nella cosiddetta Giornata vi (prima della aggiunte frammentarie alle quattro giornate

delle Nuove

scienze),

confessa

che il pit duro ostacolo al suo comprendere le questioni scientifiche € stato «in quella poca di geometria » che studio nelle scuole da giovinetto. Sicché alla fine, dopo aver detto per la prima volta senza riserve di esser rimasto « interamente appagato dal discorso e capace nelle dimostrazioni sentite », pronuncia il suo addio. Non parla pit da peripatetico ma da matematico principiante, che balbetta un linguaggio nuovo, senza ancora intenderlo a pieno (»).

175

Sara necessario un altro paziente intervento di Salviati per fargli ben capire il nesso essenziale fra geometria e aritmetica. Ma chi sono dunque Salviati, Sagredo, Simplicio? E che cos’é l’organismo artistico nel quale a me sembra che vivano non come larve ma come persone, e non come puri interlocutori ma come personaggi? . Credo sia opportuno rifarsi al giudizio del primo lettore che abbia avuto il Dialogo sopra i massimi sistemi, Tommaso Campanella. Ognun fa la parte sua mirabilmente; e Simplicio per il trastullo di questa comedia filosofica, ch’insieme mostra la sciocchezza della sua setta, il parlare e l’instabilita, e l’ostinazione e quanto

ci va.

Certo

che

non

havemo

a invidiar

Platone,

Salviati € un gran Socrate, che fa parturire, pit che non parturisce, et Sagredo un libero ingegno, che senza essere adulterato nelle scuole giudica di tutte con molta sagacita. Critico drammatico

d’eccezione, Tommaso

Campanella,

per una commedia filosofica d’eccezione. Il critico, per aver recitato la parte del pazzo nella tragicommedia o nella commedia tragica (come volete) della vita culturale italiana durante la Controriforma, credo che se ne intendesse. Egli stabiliva implicitamente. (ed esplicitamente non era igienico farlo) un nesso preciso tra quest’opera e i suoi pill vicini € immediati antecedenti, i dialoghi di Giordano Bruno. Naturalmente, questo nesso generico era poi da sciogliere (e cid € stato accennato gia da Antonio Banfi), chiarendo la novita fondamentale che costituisce leroe intellettuale negativo incarnato da Simplicio: un carattere complesso e compiuto, qualcosa di assai diverso rispetto ai pedanti del teatro cinquecentesco e degli stessi dialoghi lirico-satirici

di Bruno. Pero quando diciamo commedia e diciamo carattere, siamo solo all’inizio di un discorso critico. Bisogna verificare questo giudizio, accertando se Vipotesi ci abbia messo sulla buona strada. Innanzi tutto, ebbe consapevolezza Galileo di costruire una commedia filosofica? 176

‘) ae

Che si tratti di argomenti di filosofia non c’é dubbio. E di quale filosofia lo accenna egli stesso nella dedica al granduca Ferdinando 11. C’é tanta differenza tra gli uomini, quanta fra gli uomini e gli animali, tale ¢ la rarita di quegli uomini che valgono per mille, abili come sono tra gli inabili. E la diversita, dice Galileo é questa: «io riduco la differenza all’essere o non essere filosofo ». E chi si differenzia pil’ altamente da tutti, volgendosi al gran libro della Natura, applicandosi allo studio della costituzione dell’Universo, cioé quei « naturali apprensibili », cioé tutti quei piccoli veri che ’uomo puod conoscere senza l’aiuto della rivelazione che ci fa conoscere la Verita. « Filosofia naturale », dunque; scienza, diremmo oggi. E per Galileo 1 maggiori ingegni della storia, in simili speculazioni, furono Tolomeo e Copernico. Il conciliatore Ticone € accantonato nella popolosa mediocrita degli eclettici. Dunque é la loro filosofia sulla « mondana costituzione » che interessa lo scrittore. Ed egli vuol farne argomento del suo dialogo 0 (come egli lo chiama nella prefazione al « discreto » lettore) « controversia », termine prudenziale e scolastico che ha Varia d’esser stato suggerito dagli stessi censori. Questa controversia solenne aveva avuto gia in Roma una sorta di prova generale, dove lo stesso autore ricorda di esser comparso « pubblicamente nel teatro del mondo, come testimo-

nio di sincera verita ». Dopo di che era venuto un « salutifero » (come lo chiama, per non poterlo dire pestifero) editto del Sant’Uffizio, che « imponeva opportuno silenzio al?opinione pitagorica della mobilita della terra: un’opinione piuttosto antica ». Galileo voleva far sapere al mondo che in Italia s’era discusso con. piena cognizione di causa: escono qui (voleva dire) « da questo clima non solo i dogmi per la salute dell’anima, ma ancora gli ingegnosi trovati per delizie degli ingegni ». La forma dialogica dell’opera nascondeva dunque come un « ingegnoso trovato », per il bisogno di spiegare non « in forma di rigorosa osservanza delle leggi matematiche » ma anzi per avere ampia opportunita delle « disgressioni », la materia di questa « controversia ». La quale avrebbe richiesto degli « interlocutori », — e i tre interlocutori sarebbero stati presentati col luogo dove essi avrebbero disputato (un po’ lontano da Roma possi177

bilmente, per quanto interlocutoria fosse la disputa...) nella « maravigliosa citta di Venezia» dove a casa di quello « acutissimo ingegno » che fu Giovanni Francesco Sagredo convengono il fiorentino Filippo Salviati, « sublime intelletto », e un filosofo peripatetico « al quale pareva che niuna ostasse maggiormente per lintelligenza del vero, che la fama acquistata nelle interpretazioni aristoteliche ». A lui « per soverchio affetto verso i comenti di Simplicio, é parso decente (aggiunge Galileo) senza esprimerne il nome, lasciarli quello del riverito scrittore ». E i tre personaggi avrebbero fatto discorsi « alla spezzata » ritrovandosi « alcune giornate insieme ». Una prefazione studiatissima, e controllatissima, concor-

‘data con la censura ecclesiastica, non poteva dire altro, senza scoprire quello che doveva onestamente dissimulare. L’autore parla dunque di controversia, ne indica con linguaggio scolastico i « tre capi principali»: 1) gli esperimenti indifferenti-alle due concezioni sistematiche; 2) gli esperimenti che rinforzano l’ipotesi copernicana caso mai dovesse rimaner vittoriosa, e in pit quelle nuove speculazioni che servono « per facilita d’astronomia non per necessita di natura »; 3) ed ultimo capo « una fantasia ingegnosa» sul flusso e riflusso del mare che « potrebbe ricever qualche luce » se spiegato come effetto del movimento tertestre. E una prefazione, e molto meno analitica ed espositiva di quelle dei dialoghi bruniani. Ma lo stile e, soprattutto, i luoghi topici che in essa ricorrono fanno pensare al prologo di una commedia. La struttura dell’opera, la divisione in « giornate », offre gid un riferimento vago (se volete) ma culturalmente inequivocabile alla tradizione della commedia letteraria toscana che col Buonarroti il Giovane aveva ormai acquisito come convenzione il termine di « giornate » per designare gli atti dei suoi elefantiaci lavori teatrali (omaggio al fiorentino Decameron, e inizio di un uso terminologico che poi resto nel teatro pit. barocco del secolo, il teatro spagnolo). Ma direi che dovunque Galileo ostenti l’accettazione del giuoco impostogli, li vien fuori meglio il carattere specifico della commedia filosofica: la commedia del pensiero scientifico nelle condizioni culturali

di illiberta della Controriforma in Italia. 178

Nel corso dell’opera vien fuori esplicita la precisa intenzione artistica di Galileo. Ricordiamoci questa battuta di Salviati nella 11 Giornata: Prima che proceder pili oltre, devo dire al signor Sagredo che in questi nostri discorsi fo da Copernichista, e lo imito quasi sua maschera; ma quello che internamente abbiano in me operato le ragioni che par ch’io produca in suo favore, non voglio che voi lo giudichiate dal mio parlare mentre siamo nel fervor della rappresentazione della favola, ma dopo che avro deposto l’abito, che forse mi troverete diverso da quello che mi vedete in scena (p. 492).

« Favola » é un ovvio latinismo per « rappresentazione scenica ». E ricordiamoci che nella 111 Giornata Salviati cosi risponde a Simplicio, che gli ha parlato di difficolta non sormontate da Aristotile e percid se non d’impossibile almeno « di difficile scioglimento »: «la grandezza e forza dello annodamento rende lo scioglimento pit bello e ammirando; ma io non ve lo prometto per oggi, e vi prego a dispensarmi sino a domani [...] » (p. 743).

Vedremo poi quale sorpresa. ci riservi il finale. Nella 11 Giornata

lo stesso Salviati citando

un inedito

trattato del moto composto dall’« Accademico » (cioé da Galileo), dice di voler rinunciare a una disgressione e « far, come si dice, una commedia in commedia » (p. 525). Ma poi . non rinuncia a questo piacere, che é uno degli artifici co-

mici pit popolari del teatro, invitando Simplicio ad impersonare un noto professore peripatetico, il gesuita Cristoforo Scheiner, che aveva conteso a Galileo la scoperta delle macchie solari: « [:..] e voi, signor Simplicio, facendo la parte sua, rispondetemi alle domande » (p. 610). E del resto Salviati ripete ancora: « Solo a guisa di comico mi immaschero da Copernico in queste rappresentazioni nostre >. Ma qui vorrei fare un’osservazione di metodo che mi sembra fondamentale. Ogni autodefinizione dello scrittore sulla sua opera é da sottoporre a critica, allo stesso modo in cui é da sottoporre a critica cid che Antonio Labriola chiamava « la pit sospetta delle fonti », tutto cid che esprime il circolo delle intenzioni e delle illusioni in cui si aggirano e€ si autodefiniscono i protagonisti degli eventi storici. 179

Non solo dunque é da sottoporre a verifica il giudizio di Campanella, ma la stessa dichiarazione di Galileo che l’aveva autorizzato. Che cosa pud avere di comico una cosi seria controversia di filosofia naturale? Innanzi tutto dovrebbe essere ovvio che il comico in sé non esiste. Tutto pud esser comico e puo non esserlo, dipende da come é situato un determinato contenuto e dal punto di vista da cui l’autore lo guarda. E perché ci sia una commedia non basta che la situazione sia comica, ci vuole un’azione drammatica, un intrigo scenico, dei personaggi. Ora io credo che tutto questo potremo ritrovarlo nell’opera di Galileo. Fin dal prologo egli ci ha detto che le digressioni erano un’esigenza, perché non meno curiose del principale. argomento, e percid gli tornava « molto a proposito » spiegare i suoi concetti in forma di dialogo e non di trattato matematico. Nella Giornata 11 cosi dice lo stesso Salviati: Le digressioni fatte sin qui non sono talmente aliene dalla materia che si tratta, che si possan chiamar totalmente separate da quella; oltreché dependono i ragionamenti da quelle cose che si vanno destando per la fantasia non a un solo, ma a tre, che anco, di pil, discorriamo per nostro gusto, né siamo obligati a quella strettezza che sarebbe uno che ex professo trattasse metodicamente una materia, con intenzione anco di publicarla. Non voglio che il nostro poema si astringa tanto a quella unita, che non ci lasci campo aperto per gli episodii, per l’introduzion de’ quali dovra bastarci ogni piccolo attaccamento, e quasi che noi fussimo radunati a contar favole, quella sia lecito dire a me, che mi fara sovvenire il sentir la vostra (p. 523).

Qui si chiariscono due aspetti del gusto galileiano col richiamo a un grande poema comico che tanto piaceva allo scienziato,

e a quel « contar

favole », che costituisce

la

materia delle dieci giornate nella grande commedia umana di Boccaccio. 4

La fictio, é dunque evidentissima. Salviati dice che tutti e tre discorrono per loro gusto: non sono interlocutori di un dialogo per sostenere posizioni mentali, sono attori che 180

fanno la loro « parte »: salvo a rimettersi tutti in fine a chi ne sa pit di loro perché decida sul movimento o sulla quiete della Terra, quale che sia stato il movimento o la quiete dei cervelli di questi interlocutori. Sono tre « filosofi naturali ». Uno é senz’altro della professione, ma si professa meno dilettante degli altri due che Si « esercitano » a ricercare la verita, salvo a sottoporsi da ultimo, come

dira Salviati, a « una mirabile

e veramente

angelica dottrina » quale é quella che formula Simplicio, alla fine dei loro « ragionamenti quatriduani » (come li chiamera Sagredo). Anzi, il copernichista dichiarato si inchinera al signor Simplicio, scusandosi se col suo troppo ardito e resoluto parlare ha costretto ad « alterarsi » (parola ambigua che vale non solo arrabbiarsi, ma diventare un altro). Non Vha fatto per « sinistro affetto », Vha fatto solo per dargli occasione « di portare in mezzo pensieri alti» onde lui, Salviati, potesse rendersi

« pil scienziato ».

Questo ambiguo inchino finale della scienza creativa al dogmatismo teoricamente impotente dell’ipse dixit, ma nella pratica cosi potente, perché ha in mano le leve del co- mando, ci ricorda l’ambiguo inchino iniziale della poesia al cardinale Ippolito nell’Orlando furioso: E vostri alti pensier cedino un poco, si che tra lor miei versi abbiano loco.

In realta Simplicio non si altera per nulla, e nel Dialogo

i suoi alti pensieri non cedono di un pollice. Sostanzialmente inconvincibile e formalmente invitto resta Simplicio,

come si conviene ad un eroe. La disputa nasce dunque in situazione comica. Lo scienziato autentico per ingegno e per metodo che, dubitando attivamente e non passivamente, é arrivato a persuadersi di nuove verita, non si presenta per quel che ¢, come scienziato, ma di uno che fa la « parte » dello scienziato. Naturalmente Salviati ¢ Vinterlocutore positivo, quello col quale Galileo vuol simpatizzare e identificarsi. Ed egli ha due contraddittori, Sagredo e Simplicio. Sagredo ha il cervello libero, disponibile o « indifferente » (come si diceva

_

nelle scuole), ma poi é tutt’altro che indifferente anzi ap181

passionatissimo.

Simplicio, € pil che un filosofo naturale,

perché si ritiene il filosofo tout court, il filosofo perenne, che per essere seguace di una filosofia immortale, e la migliore possibile, € convinto di essere pit degli altri filosofo per eccellenza e di possedere non solo la verita, ma il metodo per conservarla perennemente. E invece Salviati, colui che ha pit diritto di tutti al titolo di filosofo naturale, accetta di discutere con costui anche se difetta della cultura elementare per la discussione, « una puoca di geometria » euclidea, che é il presupposto di una discussione fisico-matematica. Salviati non solo sollecita i dubbi di Simplicio sulla nuova

scienza, ma lo soccorre,

lo rafforza

mentalmente, per avere un peripatetico migliore, il migliore possibile, un avversario pil difficile di quelli che aveva a disposizione. E lui e Sagredo fanno a gara per renderlo il piu inquieto possibile a meglio difendere la sua teoria del quieto e perfetto filosofare, fondato sulla stabilita delle idee ricevute,

immobili

quanto

la terra

nel suo

sistema

geo-

centrico. La situazione é squisitamente comica, perché é colta nella realta, nel mondo culturale della nostra decadenza, nell’atto

stesso che Galileo ne accettava le convenzioni. E non poteva far diversamente, in omaggio alla prassi della morale corrente, la dissimulazione onesta, a cui si doveva ricorrere

come ultimo rifugio per la liberta non diciamo del filosofare vero e proprio, pericolosissimo, ma della scienza, del filosofare limitato alla natura, mettendo da parte e facendo salve le Verita maiuscole della Fede. Era questa in senso rigoroso, la comicita dellintelligenza, che per affondare le - radici nel momento

storico piu fertile, toccava vertici mai

potuti raggiungere prima da nessun altro scrittore. Sul « comico dell’intelligenza » che il De Sanctis ha studiato in Boccaccio (e vi ha contrapposto quello della volonta in Manzoni) a me é parso altrove di dover fare delle riserve e precisazioni. Il comico dell’intelligenza o, nel nostro caso, della vita intellettuale, della vita e del pensiero degli intellettuali, nella sua pit autentica qualita complessita e tensione drammatica, si manifesta la prima volta con Galileo, lo scienziato che accetta la condizione di fare il « comico », cioé

Pattore della scienza e che, per dover muovere i cervelli 182

impigriti e arrugginiti, deve dire che si tratta solo di un « esercizio » senza conseguenze e lascia che Simplicio definisca i loro ragionamenti « fantasie particolari ». Per dover dissimulare la sua finzione non puo dire che fa lipocrita, ma che « s'immaschera ». Anzi si fa suggerire le parole per il prologo e per l’epilogo dal buon padre domenicano che fa da censore a Firenze e da intermediario con Roma, uno di quei « nemici capital d’ogni disagio >, bene ammantati, quel Nicolo Riccardi che era chiamato « padre Mostro », non si sa se per la sua maravigliosa obesita o per la sua mostruosa facondia, quello di cui Galileo diceva in una lettera: « Il padre Mostro non aderisce né a Tolomeo

né a Copernico,

ma

si quieta in un modo

assai

spedito, di mettere angeli che senza difficolta o intrigo veruno muovano i corpi celesti cosi come vanno, e tanto ci deve bastare ». Una grandiosa e davvero barocca situazione comica che coinvolgeva tutti. Mai arte di commedia aveva mosso

attori in cerca di autorita, perché concedessero

di rappresentarla, e nell’atto stesso d’inchinarsi a loro gli contestava poteri usurpati e senza dire nessuna parola meno che castigata e reverente, le sconsacrava senza appellg, gli toglieva un’autorita usurpata. Sitwazione dunque originalissima, questa del Dialogo di Galileo, per cui Campanella diceva che non aveva niente da invidiare a Platone. Ma in che limiti ci si puo riferire a Platone? Questo riferimento ai dialoghi platonici hanno tutti ripetuto, dall’abate Conti in poi, che fu il primo a dare un’analisi del Dialogo nel Trattato delle fantasie particolari (egli accetta per buona la definizione di Simplicio, e parla della « fantasia inventiva » di Galileo, ch’egli contrapponeva a quella di Bruno e Telesio « caduti », per eccesso, « nelle visioni >»). Io ritengo che il riferimento sia poco pertinente, non solo a Platone, ma al genere letterario in quanto tale. E come € stato contestato validamente il platonismo filosofico di Galileo, cosi penso si possa rifiutare un paragone serio con la condotta letteraria del dialogo. Prendetead esempio I! Sofista, dove alcuni spunti ed alcune somiglianze potrebbero pit sollecitarci a pronunciar

giudizi di affinita. Innanzi tutto qui come in altri pit. famosi 183

dialoghi platonici, il Forestiero e Teeteto, pit che essere dei compiuti personaggi, esprimono posizioni mentali diverse, per accorgimento dialettico dell’autore che da ultimo ce li presenta riconciliati col suo punto di vista. Oggetto del loro dialogo é un interlocutore ideale, che non compare, ma che

é un tipo perfettamente identificato nella vita intellettuale ateniese, cioé il Sofista, uno che ha capacita di trasfigurarsi in comiziante e in filosofo, un prestigiatore che gioca con le parole, e coi concetti, che aberra per presunzione di sapere, che ha una conoscenza apparente su ogni genere d’argomenti, imitatore o piuttosto scimmia dei filosofi, « il sem-

plicione che s’immagina di sapere cid di cui non possiede altro che un’opinione » (sono parole testuali di Platone in questo dialogo), quello che volta e rivolta argomenti per sospetto o per timore di non conoscere cid di cui si spaccia per intenditore. Perché il Forestiero (come qui si chiama colui che poi negli altri dialoghi si chiamera Socrate), Teeteto e il Sofista da loro polemicamente evocato, non diventano personaggi e restano interlocutori? E perché gli inter‘locutori del dialogo galileiano sono personaggi? Perché, sia che esprimano posizioni mentali positive per il pensiero dell’autore o convergenti, come il Socrate e il Teeteto galileiano

(cioé Salviati,. il Forestiero

capitato

a Venezia

e

Pospite, Sagredo) sia che incarnino una posizione mentale negativa come

il Sofista moderno,

il Sofista della filosofia

naturale cioé Simplicio, sono posti in una situazione oggettivamente comica. Ed é in questa situazione che agiscono, cioé manifestano le loro idee, le rappresentano (perché sempre di « azione » filosofica si tratta) manifestando un carattere al quale restano coerenti nelle battute che pronunciano in questa o quella scena (e di scene si tratta, lo vedremo), nel corso delle quattro giornate. Anzi, dallo stesso

confronto reciproco si definiscono meglio Puno con l’altro. Ed é cosi che un personaggio vive, cioé nel comportamento concreto e nel linguaggio, e non in quello che dice di essere, o in quello che lautore dichiara per bocca sua o nel - prologo. _ §’é detto che in Salviati c’é il ricordo del Forestiero e del Socrate platonico. E egli stesso a dire di attenersi alla modestia del « Sapientissimo di Grecia » che con Archimede “184

|

proclama suoi maestri. C’é di pit. In tutto il Dialogo non fa altro che comportarsi come Socrate: da una parte modera gli ardori e le impazienze di Sagredo, chiedendogli « di andar circospetto » (p. 615), dall’altra chiede a Simplicio, e tenta di infondergli, un po’ di coraggio intellettuale (p. 635). Nel ritrarre il Salviati storico, Galileo lo idealizza sensi-

bilmente. Lo vagheggia come un maestro vero e disinteressato si augura che sia un suo scolaro: migliore di se stesso, con i difetti attenuati, e con le virtu potenziate dalle nuove esperienze e della scienza e della vita, nel pieno vigore della mente e coll’equilibrio che si raggiunge al colmo della maturita, quando si é creata una scuola, imparando ogni giorno qualcosa, e recando il proprio contributo nella conquista delle singole, accertate verita. Il vezzo amabilissimo di dialogare perennemente, anche in Salviati come in Galileo, non

nasce da pratica libresca. E un abito mentale acquisito. Quando Simplicio nella 11 Giornata mette avanti gli argomenti del suo breviario, il De coelo, e ne legge solennemente un brano (« sed semper eadem apud eadem loca ipsius et oriuntur et occidunt »), Salviati smonta queste proposizioni come un paralogismo e una conseguenza falsa discorrendo direttamente con Aristotele, come se fosse vivo € presente davanti a lui: « Tu di’, o Aristotile, che la terra posta nel mezzo non puo muoversi in se stessa [...] >.

Salviati ha la stessa fantasia drammatica di Galileo e la sua stessa generosita polemica. Se cita Aristotile, ¢ proprio perché egli ha « arrecato il pit sottile argomento contro alla posizion del Copernico ». Se con tanta generosita si sceglie i punti pit forti dell’avversario, altrettanta pazienza dimostra nel discutere con quelli che, come Simplicio, non

sono « filosofi geometri » cioé fisico-matematici. Reagendo alle impazienze di Sagredo, egli si dice disposto a spendere « pur cinquanta parole in grazia del signor Simplicio ». « Con flemma » é il suo motto. E quando Simplicio crede dessersela sbrigata sulla natura delle comete e crede che sia « spiantato » il fondamento su cui potrebbe costruire i seguaci delle novita filosofiche e conclude trionfante: « che altro pit resta loro per sostenersi in piedi? », — Salviati ribatte calmissimo: « Con flemma, signor Simplicio ». Non 185

si presenta con il sussiego di un maestro, ma come un ricercatore di uno stesso laboratorio. E quel che gli da prestigio e autorita e non formale ufficialita nella professione di maestro (Sagredo stesso é un altro ricercatore e ragionatore suo pari) € appunto la gravita, la moderazione, la circospezione del suo « lento filosofare ». Pit: € serio e cauto,

e meglio scoppia per contrasto il ridicolo delle posizioni e delle argomentazioni di Simplicio. Ma d’altra parte piu prontamente brilla ’umore mordace ed agisce « il velocissimo discorso » di Sagredo. Salviati impersona una chiara posizione, ma é essenziale alla sua finezza di non parlare come parte in causa: pronto ad accogliere ogni ragione, ogni obiezione, e a riconsiderare di nuovo i problemi, circoscrivere oggettivamente i punti controversi, orbitandovi intorno e concludendo il giro del suo rigoroso discorso. Proprio perché ha questa circospetta consapevolezza, ha la massima capacita di comprendere gli altri, e anche quando lo scontro si fa drammatico, la calma della sua superiorita é assoluta. La sola volta che ha uno scatto é quando Simplicio lo contraddice in nome dell’esperienza. E lui non esita a contrapporgli un ragionamento deduttivo, che del resto discende da principi ben saldi: sImPL. Che dunque voi non n’avete fatte cento, non che una prova, e l’affermate cosi francamente per sicura? Io ritorno

nella mia incredulita,

e nella medesima

sicurezza

che l’e-

sperienza sia stata fatta da gli autori principali che se ne servono, e che ella mostri quel che essi affermano. SALV. Io senza esperienza sono sicuro che l’effetto seguira come vi dico, perché cosi é necessario che segua; e pill v’aggiungo che voi stesso ancora sapete che non puo seguire al-trimenti, se ben fingete, o simulate di fingere, di non lo sapere. Ma io son tanto buon cozzon di cervelli, che ve lo faré confessare a viva forza (p. 505).

Salviati é Galileo epurato dalle sue collere polemiche e dai suoi ingegnosi ghiribizzi, aristocraticamente orgoglioso e confortato per avere nuovi (come li chiama) « compagni nelle opinioni sottilissime e delicatissime ». Ma proprio per questo, se € ironicamente librato sull’infinito volgo degli -sciocchi, allorché si volge a Simplicio lo guarda invece con 186

ice benigna, pari all’implacabile pertinacia con cui liquida ad uno ad uno i sofismi o i paralogismi delle sue autorita antiche e moderne. Non che egli abbia troppa fiducia di poterlo convincere: « Jo non ho mai preso, signor Simplicio, a rimuovervi dalla vostra opinione, né meno ardirei di definitivamente sentenziar sopra si gran litigio [...] » (p. 635). Ma proprio quando gli dimostra il massimo della sua comprensione, fa scattare il buffo meccanismo intellettuale del nostro peripatetico: Ora, signor Simplicio (se pero voi siete stato appagato), potete comprender come voi medesimo sapevi veramente che la Terra risplendeva

non

meno

che la Luna,

e che il ricordarvi

solamente alcune cose sapute da per voi, e non insegnate da me, ve n’ha reso certo: perché io non vi ho insegnato che la

Luna si mostra pili risplendente la notte che ’] giorno, ma gia lo sapevi da per voi, come anco sapevi che tanto si mostra chiata una nugoletta quanto la Luna; sapevi parimente che Villuminazion della Terra non si vede di notte, ed in somma

sapevi il tutto, senza saper di saperlo (pp. 447-48).

Questo « saper di sapere » non é la pura e semplice teoria platonica della reminiscenza, ma la consapevolezza me-

todologica del sapere scientifico, fatto nuovo e tutto galileiano, a cui Simplicio reagisce con uno dei suoi movimenti ingenui che caratterizzano l’atmosfera comica tanto diversa dal procedimento dialogico di Platone. SALV. La causa per la quale voi reputate la Terra inetta alla illuminazione, non é altramente cotesta, signor Simplicio. E non sarebbe bella cosa che io penetrassi i vostri discorsi meglio che voi medesimo? SIMPL.

Se io mi discorra

voi meglio di me

bene

lo conosceste;

o male,

ma,

potrebb’esser

che

0 bene o mal ch’io mi

discorra, che voi possiate meglio di me penetrar il mio discorso, questo non credero io mai (p. 445).

Salviati € Galileo che ha messo da parte quelle velleita di conciliazione avanzate incautamente nella famosa lettera a Maria Cristina e ha chiara davanti a sé la via della scienza ben distinta da quella della fede: « [...] Ma di grazia, ri-

veriamo queste [le sacre scritture], e passiamo ai discorsi

naturali ed umani... » :

187

Quando Simplicio lo provoca sul terreno teologico delle cause finali dell’universo, egli dichiara che non ha « nessuna renitenza » al finalismo in via di principio; ma lignoranza dei fini non puo essere elevata a presunzione e a pregiudizio (come dice Sagredo, esplicitando il suo empirismo).

Inutile « distendersi in queste infruttuose esagerazioni >, egli dice senza ombra d’ironia. E invita Sagredo a sospendere il giudizio e rimetterlo a « chi ne sa pit di noi», e a tornare sui « discorsi naturali ed umani ». La Verita maiuscola non interessava Galileo e (come scriveva in certi appunti per una risposta « al padre Campanella »), stimava « piu il trovar un vero, benché di cosa leggiera, che ’1 disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verita nessuna >. Galileo ha imparato a rifiutare tutto cid che possa implicare rapporti tra ’uomo, l’Universo e Dio, e quindi interferenze tra scienza e teologia. Questo ¢é il presupposto fondamentale dello spirito socratico di Salviati. Ed é alla radice di cid che differenzia il dialogo di Galileo e quello di Bruno, tutto compiaciuto di affermare: « non par che qua sia una scienza: ma dove sa di dialogo, dove di comedia, dove: di tragedia, dove di poesia, dove d’oratoria, dove

lauda, dove vitupera, dove dimostra et insegna, dove ha or del fisico, or del matematico, or del morale, or del logico » (Cena, Arg. del dial. v). Il vanto di Bruno e la sua originalita (ma Siche il suo limite come prosatore) fu quello di procedere « meschiando propositi gravi e seriosi, morali e naturali, ignobili e nobili, filosofici e comici » (De la causa, Dial. 1). Testimone e vittima della prima drammatica fase del conflitto religioso tra Rinascimento

e Controriforma, Bruno é

persuaso che la sua filosofia non « solo contiene la verita, ma

ancora

favorisce

la religione » (Cena,

Dial.

Iv). La

scienza € per Bruno « un esquisitissimo camino a far l’animo eroico » (De la causa, Dial. 1). Tra i suoi « eroi » della nuova cultura e i « bestioni » aristotelici non si puod stabilire effettivo dialogo. E nonostante i propositi del ben disputare (Cena, 111, Iv), fra gli entusiasti e i loro corret-

tori, tra i filosofi e gli archididascali non c’é comunicazione. « Senza ridere: lasciatene determinar queste cose a noi »

188

a

esclama con distacco sprezzante Dicsono Arelio, interrompendo gli « intermedii » buffoneschi di Gervasio e Poliinnio che subito si trae da parte: « Prosequatur ergo sua dogmata Theophilus » (De la causa, 11). Per Bruno si direbbe che l’essenziale della « socreita » non sia proprio la maieutica. Eppero viene esaltata al massimo la contrapposizione degli interlocutori positivi e di quelli negativi. Onde la tensione e la mescolanza della sua prosa cosi stilizzata: « mimici comici ed istrionici sileni » da una parte, « seminario delle maniere del stato dell’eroico furore » dall’altra (Heroici furori, Arg. della 11 parte). Nel

suo compiaciutissimo pastiche gli elementi soggettivi delVinvenzione linguistica si esaltano continuamente oltre le cose e oltre le idee, o di 4a dai personaggi. L’autore é tentato dal piacere « eteroclito » di un duplice « divertiglio >»: il cumulo verticale polemico e lo sbocco tangenziale del ragionamento alla forma apodittica e religiosa. Da una parte il vilipendio comico-satirico o la « proposopeia » buffonesco-pedantesco

di Frulla,

Prudenzio,

Burchio,

Gervasio,

Poliinnio, dall’altra la sublimazione lirica, inneggiante e salmodieggiante cui si eleva la « divina conversazione » dei Teofili e dei Filotei, con Smitho

e Fracastorio

e Dicsono

Arelio. Ma il linguaggio delle due opposte specie di interlocutori € improntato da un solo manierismo celebrativo. E se (come accade nel De infinito universo e mondi, Dial. 111) si avvia un inizio di colloquio, subito finisce a verberazioni farsesche. Avversario di comodo, il dottor Burchio oltraggia ed é oltraggiato, finché esce di scena. Avversario di co-

modo Varistotelico che introdotto nel v dialogo, ben presto € costretto a « disperarsene », e nonostante le sue argomentazioni a darsi per vinto, e infine ad incitare Filoteo a perseverare nel suo cammino con parole d’infiammato neofito: Cassa gli estrinseci motori insieme con le margini di questi cieli. Aprine la porta per la quale veggiamo |’indifferenza di questo astro [la terra] da gli altri. Mostra la consistenza che gli altri mondi nell’etere, tal quale é di questo. Fa’ chiaro il moto di tutti provenir dall’anima interiore

[...].

C’é chi puo esser ispirato dall’eroico furore e c’é chi — come il dottor Burchio « né si tosto né mai ha possuto con189

sentire ». E perché? Perché « é un addormentato ingegno ». C’é chi pud fendere i cieli e ergersi all’infinito, e c’é chi é condannato al suo destino di « talpa » come Prudenzio (Cena, V).

Ma il filosofo naturale di Galileo, come ha escluso ogni metafisica dal suo discorso orbitante nell’universo oggettivo, cosi é riuscito a mettere in pratica l’adagio vanamente ricordato e variato da Manfurio: « Contra verbosos verbis contendere noli >. Salviati é cosi forte che non ha bisogno di ricorrere alle violenze polemiche provocate dal disgusto di avversari parabolani e spesso abietti, non solo sul piano intellettuale, ma su quello morale. Nel suo linguaggio pacato e parsimonioso attinge anzi la piena misura della sua maturita, quando raffrena Sagredo dai suoi conati d’irruenza contro Simplicio. Gli basta Vironia: Di grazia, signor Sagredo, non ci affatichiam pit in questi particolari, e massime che voi sapete che il fin nostro non é stato di determinar risolutamente o accettar per vera questa o quella opinione, ma solo di propor per nostro gusto quelle ragioni e risposte che per l’una e per l’altra parte si possono addurre; e il signor Simplicio risponde questo in riscatto de’ suoi Peripatetici: pero las:iamone il giudizio in pendente, e la determinazione in mano di chi ne sa pil di noi (p. 777).

Ma ecco come si comporta di fronte alla contraddizione permanente di Simplicio, che é di panico al sovvertimento del vecchio sapere e di cieca e assurda fede nella sua incrollabilita. L’ironia di Salviati si accompagna ad una elevatezza di tono e di linguaggio degne di quelle sublimi conquiste della scienza che ormai egli sa essere incontrovertibili: Non

vi pigliate gid pensiero del cielo né della Terra, né la loro sovversione, come né anco della filosofia; perché, quanto al cielo, in vano € che voi temiate di quello che voi medesimo reputate inalterabile e impassibile; quanto alla Terra, noi cerchiamo di nobilitarla e perfezionarla, mentre

temiate

procuriamo di farla simile a i corpi celesti e in certo modo 190

metterla quasi in cielo, di dove i vostri filosofi ’hanno bandita. La filosofia medesima non puo se non ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi, col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine. Pigliatevi pil tosto pensiero di alcun filosofi, e vedete di aiutargli e sostenergli, ché quanto alla scienza stessa, ella non pud se non avanzarsi(p: 391).

E da questa altezza che Salviati guarda alle miserie degli avversari del copernicanesimo, e conversando con il signor Sagredo all’inizio della 111 Giornata, fa cader su di loro il peso di un infinito disprezzo, mai stato di tale gravita, sulla vecchia cultura accademica e su certe ridicole opinioni: « Io ne ho sentite produrre di tali che mi vergognerei a ridirle, non dird per non denigrare la fama dei loro autori, i nomi dei quali si possono sempre tacere, ma per non ayvilir tanto ’onore del genere umano ». Salviati sa benissimo che « taluno di costoro, spinto dal furore non sarebbe

anco lontano dal tentar qualsivoglia macchina mere o far tacere l’avversario >. Ecco di che cosa non sarebbe mai capace gliene da subito atto Sagredo, distinguendolo da la cui « pratica » é « non solamente ingioconda, losa ancora » (p. 638).

per suppriSimplicio e certa gente ma perico-

;

Simplicio, come vedete, anche per Sagredo che non resiste a prendersi gioco di lui, é un personaggio intellettualmente negativo ma moralmente degnissimo. E la condizione per la nascita del comico, e cosi fu delineata da Platone del Filebo ma fu sviluppata soprattutto da Aristotile, come é noto, per quel che ci avanza della Poetica e per le citazioni che se ne possono ricavare da altre opere e da altri autori. Il ridicolo. sorge soprattutto dall’imitazione comica di cid che non é né nocivo, né repugnante. All’ingenuita, alla bonta fantastica di uno scrittore comico solo cosi pud delinearsi un personaggio, solo se mette da parte le voglie dell’oltraggio satirico. Il comico non sorge dall’invidia (come voleva Platone), ma (come corresse Aristotile) dalla buona disposizione d’animo (eutrapelia), dalla benevolenza (éu-_ noia). « Niente invettive, ma il comico », aveva ammonito nell’Etica. « Senza le cose comiche non si possono nep-

191

pure apprendere le cose serie », dice Platone nelle Leggi. Ma piu si presentano come comiche, in atto e oggettivamente, e meglio si possono apprendere le cose serie. Percio Vinterlocutore Simplicio non resta mero stimolo dialettico, ma diventa personaggio perfettamente funzionale nella struttura comica del Dialogo.

Innanzi tutto nel corso della discussione egli riesce meno sciocco di quanto non sia e non voglia la sua fama antonomastica. Ma non sa di essere tanto utile alla ricerca della nuova verita e di essere talvolta tanto meno sciocco dei Simplici reali. In questo ¢ la sua comicita. Alla fantasia di ‘Galileo egli si presenta come intellettuale tradizionale tipico di una situazione tipica. Non é stravolto in caricatura, ma idealizzato e perfezionato, si da rispecchiare in ‘bello le sembianze del medio intellettuale conservatore e conformista. Cid che lo caratterizza é la sua posizione di fronte alla scienza e alla cultura matematica che essa richiede. Egli € rimasto al pitagorismo per sentito dire (p. 363), ai numeri come misterioso fondamento dell’Universo. E ignaro di quel che possa valere lo sviluppo e l’applicazione di questa antichissima sapienza italica, quando se ne servano gli scolari di Archimede e non si riduca a volgari « vaghezze » da retori (come gli dice Salviati). Il buon Simplicio pero non vorrebbe arrivare a dissuadere gli altri dallo studio delle matematiche:

« Io non

farei questo

torto

a Platone, ma

direi bene con Aristotele che ei s’'immerse troppo e troppo s’invaghi di quella sua geometria... » Ne fa una questione di moderazione,

di morigeratezza mentale, ignaro dell’im-

portanza che ha il progresso degli studi matematici per il progresso delle altre scienze. E scettico di fronte alle novita _ di quanto vi si legge (benché il cannocchiale si sia venuto ad aggiungere ai libri, per armare gli occhi della gente): « Io Vho trascorso cosi superficialmente, conforme al poco tempo che mi vien lasciato ozioso da studi pit sodi [...] » (p. 428). Non gia che egli annetta ai suoi personali pareri una particolare importanza. « Come pit volte ho detto (confessa a Salviati) io son dei minimi in questa sorte di studi >. Non pretende di essere tra quelli che si sono internati neJla filosofia naturale, ma l’ha « come si dice, salutata a pena dalla soglia » (p. 805). Lo studio e magari anche le osserva192

. a

zioni scientifiche lo sollecitano soprattutto per rinsaldare e rassodare cid che egli ritiene ben sodo e ben saldo. E degli avversari lo convince solo quello che é riconducibile a « dottrina buona soda, e tutta peripatetica » (p. 475). Modesto, ma ostinato, nessuno pit di lui sa stare a difesa delle

sue posizioni mentali come a difesa di una rocca: « Ho come bene una verita si accorda con laltra, e tutte conspirano al rendersi inespugnabili! » (p. 488). E se lui é debole, ci sono gli altri pit bravi di lui, campioni invitti di Aristotile e Tolomeo, con i quali la lotta continuera: « Io non ho che replicare, né del mio proprio, per la debolezza del mio ingegno, né di quel d’altri, per la novita dell’opinione; ma crederei bene, che quando la si spargesse per le scuole, non mancherebbero filosofi che la saprebbero impugnare » (p. 808). Salviati lo provoca, fingendo di supporre in lui chissa quali astuzie recondite, quando tace, e chissa quali argomenti in favore del vecchio sistema mundi. x

SALV. Quanto é pil pronto il signor Simplicio a penetrar le difficulta che favoriscono le opinioni d’Aristotile, che le soluzioni! Ma io ho qualche sospetto che a bello studio e’ voglia anco talvolta tacerle; e nel presente particulare, avendo da per sé potuto veder l’obbiezione, che pure € assai ingegnosa, non posso credere che e’ non abbia ancora avvertita la risposta, ondio voglio tentar di cavargliela (come si dice) di bocca. Pero ditemi, signor Simplicio: credete voi che possa essere ombra dove feriscono i raggi del Sole? SIMPL.

Credo,

anzi

son

sicuro,

che

no,

perché

essendo

egli il massimo luminore, che scaccia con i suoi raggi le tenebre, é impossibile che dove egli arriva resti tenebroso; e poi aviamo la definizione che « tenebrae sunt privatio luminis > (p. 439).

Ed é cosi che vien fuori tutta la sua adamantina, ma fragilissima compattezza lapalissiana: «Io risponderd quel che sapro, sicuro che avré poca briga, perché delle cose che io tengo false non credo di poterne saper nulla, essendoché la scienza é de’ veri, e non de’ falsi » (p. 506). Ha un bel rassicurarlo Salviati che Copernico toglie agli

elementi « questa comune

quiete, e gliela tramuta in un 193

comunissimo moto, lasciandogli la gravita, la leggierezza, i — moti in su, in git, pit tardi, pit veloci, la rarita, la densita, le qualita di caldo, freddo, secco, umido, ed in somma tutte Valtre cose » (628). Simplicio € allarmatissimo da questo

sovversivo movimento del nostro globo, che turba Vidillio del vecchio ordine tolemaico-aristotelico, perfetto con le sue gerarchie tra i nobilissimi corpi celesti inalterabili, e la Terra, infima ed immobile lacuna dell’Universo; SIMPL. ...che gran confusione e intorbidimento sarebbe nel sistema dell’universo e tra le sue parti secondo l’ipotesi del Copernico; imperocché tra corpi celesti immutabili ed incorruttibili, sécondo Aristotile e Ticone ed altri, tra corpi, dico, di tanta nobilta, per confessione di ognuno e dell’istesso Coper-

nico, che afferma quelli esser ordinati e disposti in un’ottima costituzione, e che da quelli rimuove ogni incostanza di virtu, tra corpi, dico, tanto puri, cioé tra Venere e Marte, collocar la sentina di tutte le materie corruttibili, cioé la Terra, lacqua,

Paria e tutti i misti! Ma quanto pil prestante distribuzione e piu alla natura

conveniente,

anzi a Dio

stesso

architetto,

se-

quastrar i puri da. gl’impuri, i mortali da gl’immortali, come insegnano l’altre scuole, che ci insegnano come queste materie impure e caduche son contenute nell’angusto concavo dell’orbe lunare, sopra *1 quale con serie non interrotta s’alzano poi le cose celesti! SALV. E vero che ’] sistema Copernicano mette perturbazione nell’universo d’Aristotile; ma noi trattiamo dell’universo no-

stro, vero e reale. Quando poi la disparita d’essenza tra la Terra e i corpi celesti la vuol quest’autore inferire dalla incorruttibilita di quelli e corruttibilita di questa, in via d’Aristotile, dalla qual disparita e’ concluda il moto dover esser del Sole e delle fisse e ’immobilita della Terra, va vagando nel paralogismo, supponendo quel che é in quistione; perché Aristotile inferisce Vincorruttibilita de’ corpi celesti del moto, del quale si disputa se sia loro o della Terra (pp. 629-30).

La risposta di Salviati non puo rassicurarlo. Questo Universo che sembra illusorio € autorevolissimo, é una certez-

za che viene da secoli di certezze, risponde a un sistema finalistico meraviglioso, assolutamente perfetto, dove la creazione sembra sia stata fatta tutta per l’'uomo. Nel suo fideismo Simplicio non sospetta quanto sia arrogante e temerario questo rifiuto di tutto cid che solo la nostra igno194

ranza vorrebbe proclamare vano, perché non serve per noi o (come dice Sagredo, integrando Salviati)

« che noi non

sappiamo che serva per noi >. Ma mentre i suoi due interlocutori gareggiano ad argomentare una concezione cosmica che vuole adeguare |’Universo all’infinita potenza di Dio piuttosto che rimpicciolirlo alla capacita del pil modesto e meschino « discorso umano », Simplicio é incrollabile difensore dei suoi principi geocentrici e antropocentrict: SIMPL. Tutto questo che voi dite va bene; ma quello sopra di che la parte fa instanza, é l’avere a concedere che una stella fissa abbia ad esser non pure eguale, ma tanto maggiore del Sole, che pure ambedue sono corpi particolari situati dentro alVorbe stellato. E ben parmi che molto a proposito interroghi quest’autore e domandi: « A che fine ed a benefizio di chi sono macchine tanto vaste? prodotte forse per la Terra, cioé per un piccolissimo punto? e perché tanto remote, acciocché appari-

scano tantine e niente assolutamente possano operare in Terra? a che proposito una spropositata immensa voragine tra esse e Saturno? frustratorie sono tutte quelle cose che da ragioni probabili non son sostenute » (p. 734).

Se pero Simplicio fosse sempre immobile in questo suo rupestre arroccamento sul vecchio universo scolastico, il meccanismo mentale delle sue battute sarebbe prevedibile. E artisticamente egli sarebbe ridotto alle forme piu facili del comico, all’automatismo del farsesco, alla rigidezza del buffonesco. Ma la sua immobilita mentale é inquietata senza tregua, in un continuo moto perpetuo, or da Salviati or da Sagredo, che se lo palleggiano-come Bruno e Buffalmacco facevano con Calandrino. Simplicio

¢ come Calandrino,

un «nuovo », un inesperto, un goffo che s’inurba nella grande citta dell’uomo e della scienza. Ma, diversamente da Calandrino, che aveva una sconfinata fiducia nei suoi

_ beffeggiatori, egli € sospettosissimo, nell’atto stesso che pur vorrebbe in qualche modo aggiornarsi sui nuovi problemi € sui nuovi metodi. Salviati vuole rispiegargli cid che Galileo ha gia detto altrove sul modo in cui la luna (e per via dipotesi) la terra riflettono la luce solare e gli dimostra uno dei punti essenziali del nuovo metodo (cioé l’interdi195

pendenza tra il ragionamento e la sensata esperienza) per poter superare le illusioni dei sensi ed approdare alle neces-. sarie dimostrazioni (cioé alle dimostrazioni non condotte secondo la logica astratta ma verificate oggettivamente dei fenomeni naturali). E proprio qui assistiamo alla prima (€ non sara la sola) azione scenica di questa commedia filosofica: SALV.

N

Pigliate ora in cortesia quello specchio che é attac-

cato a quel muro, ed usciamo qua nella corte. Venite, signor Sagredo. Attaccate lo specchio la a quel muro, dove batte il Sole; discostiamoci e ritiriamoci qua all’ombra. Ecco la due

superficie percosse dal Sole, cioé il muro e lo specchio. Ditemi ora qual vi si rappresenta piu chiara: quella del muro o quella dello specchio? voi non rispondete? (p. 429),

Costretto a ragionare non pit scolasticamente, ma secon- " do il metodo sperimentale, come reagisce Simplicio? Si fa persuadere attraverso un gioco semplice piu serrato di argomentazioni, un fitto climax dialettico? No. Cosi si comporterebbe un interlocutore di comodo, non il nostro eroe:

sIMPL.

Io ho paura che qui non entri qualche gioco di ma-

no. Io veggo pure, nel riguardar quello specchio, uscire un grande splendore, che quasi mi toglie la vista, e, quel che pil importa, ve lo veggo sempre da qualsivoglia luogo ch’io lo rimiri, e veggolo andar mutando sito sopra la superficie dello specchio, secondo ch’io mi pongo a rimirarlo in questo © in quel luogo: argomento necessario, che il lume si reflette Vivo assai verso tutte le bande, ed in conseguenza.cosi potente sopra tutta quella parete come sopra il mio occhio. SALV. Or vedete quanto bisogni andar cauto e riservato

nel prestare assenso a quello che il solo discorso ci rappresenta. Non ha dubbio che questo che voi dite ha assai dell’apparente; tuttavia potete vedere come la sensata esperienza mostra in: contrario. sIMPL. Come dunque cammina questo negozio? (p. 433).

« Ho paura che [...] io mi trovo pit inviluppato che mai », dice altrove. Don Ferrante e insieme Don Abbondio

della cultura ricevuta, aude scire non € proprigmente il suo motto. Quando non sa argomentare e non ha’ piu nulla di 196

p

|

logico o di tautologico a cui ricorrere, dubita con tutta la sua forza sulle proposte di Salviati e di Sagredo. I portatori della nuova scienza hanno I’« espressiva molto chiara », ma non lo convincono. Ha si il conforto di non essere il solo a resistere; ma che tormenti, perd, questi dubbi: « [...] io stesso confesso di essere un di quelli che intendono i vostri discorsi, ma non vi si quietano [...] » (p. 424). E il concludere « molto resoluto e ardito » di Salviati lo sgomenta non meno dell’aggressivo e turbinoso discorrere di Sagredo. Aristotile e gli aristotelici gli davano pace e tranquillita. Ma queste nuove considerazioni gli hanno tolto il sonno. Eccolo all’inizio della 11 Giornata: Io vi confesso

che tutta

questa

notte

sono

andato

rumi-

nando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove &, gagliarde considerazioni; con tutto cid mi sento stringer as-

sai di piu dall’autorita di tanti grandi scrittori, ed in particolare [...] Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande esorbitanza (p. 466).

In verita, non poche volte tocca a Simplicio di fare delle obiezioni giuste, ma hanno quaiche grosso inconveniente : sAaGR. -Con licenza del signor Salviati, risponderd io alcuna cosa al signor Simplicio, poiché egli a me si é rivoltato: e dico che nel suo discorso vi é del buono e del cattivo; buono,

perché quasi tutto € vero; cattivo, perché non fa in tutto al proposito nostro [...] (p. 574).

~Per il suo sodo e tolemaico cervello non c’é tanto pericolo che vada fuori dell’orbita. E piuttosto molto difficile metterlo in orbita (scusatemi immagine barocca: il barocco si addice a Simplicio), perché. segua il discorso degli astri, il discorso che é scritto nel libro dei cieli. Il suo cervello ricalca il discorso dei libri, sui quali é tracciata una via gia nota e su cui rassoda la sua cultura: i bellissimi pensieri di un cattedrante di Padova (p. 426), un libretto moderno di conclusioni, pieno di molte novita, le Disquisitiones di pa-

dre Scheiner, o il De tribus stellis novis del Chiaramonti, — cattedrante a Pisa. Tutta gente che si occupo di discutere « sopra gli universali ». Per costoro ha cotanta ammirazioit

197

ne, quanto disprezzo ha per i subalterni della scienza. Quei tecnici, quei « meccanici » che furono cosi preziosi per le sperimentazioni di Galileo, e tanto stimati da lui, egli li qualifica come « inferiori artisti». Ha un bel gridare Sagredo contro la vilta inaudita degli ingegni servili, i quali non avevano capito la rivoluzione sia tecnica che scientifica ormai in corso nel mondo.

Lui, Simplicio, altra « scorta »

non ha se non Aristotile. « Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? » (p. 472). Naturalmente, ogni discussione non puo svilupparsi senZa un certo movimento e scambio di opinioni; vero o fittizio che sia, tattico o illusorio, in una.commedia

filosofica

deve anche esserci lo scambio delle parti. E Simplicio talvolta giunge ad ammettere che quelli di Copernico sono « pensieri molto acuti e ingegnosi ». Ma se le ragioni per la stabilita della terra non sono necessarie, nemmeno si pud dire che sia stata proprio dimostrata la mobilita della Terra (p. 635). E come tra Salviati e Sagredo é continuo lo scambio attivo e stimolante, perché uno ha assunto la parte del Copernichista, l’altro affetta « indifferenza » 0 (come noi diremmo) disponibilita delle opinioni, cosi come Simplicio, benché « risoluto per la parte dell’immobilita » (p. 472) vorrebbe muovere il cervello, e aggiornarsi. ‘Non é vero che sia tutto Aristotile. Informatissimo delle novita, é carico delle verita ricevute dai testi contemporanei

(quelli degni di fiducia, s’intende), che legge come opere classiche e vuole avere sempre sott’occhio. « E (si arrischia di dire ai suoi interlocutori) puOd anco essere che venute non vi siano all’orecchio, perché sono assai moderne >. Forte di questa cultura « moderna» diventa eloquentissimo a contestare i suoi interlocutori. Eccolo divenuto simia di Salviati e della sua grave cautela di scienziato. « Ma altre maggiori difficulta mi si aggirano adesso per la fantasia, dalle quali io assolutamente non mi saprei mai sviluppare [...] » (p. 580). Allora & Salviati che gioca a fingersi sopraffatto e a mettersi sulla difensiva: « Piano un poco: di grazie signor Simplicio, non vogliate avvilupparmi con tante novita in un tratto; io ho poca memoria, e perd mi bisogna andar di passo in passo ». Un po’ per celia, un po’ sul serio, sia Salviati che Sagredo incoraggiano la sua buona 8

volonta di scienza, che peraltro resta tale nel suo cervello velleitario perché inguaribilmente tolemaico. Nella 1 Giornata le considerazioni sulle macchie lunari lo hanno eccitato moltissimo, gli fanno subito formulare il proposito di convertirsi al metodo nuovo e di mettere l’occhio al famoso cannocchiale. Ma appena cominciano a ragionare, le sue osservazioni trascorrono a citazioni bibliche, e paragona la luce del plenilunio con la nuvola di fuoco che guidava il popolo d’Israele nel suo esodo (p. 445). Alla fine, esausto, rinuncia: « In somma io sento in me un’estrema repugnanza

nel potere ammettere questa societa che voi vorreste persuadermi tra la Terra e la Luna, ponendola, come si dice, in ischiera con le stelle [...] » (p. 455). Nello sforzo di adeguarsi agli interlocutori, Simplicio tenta perfino di far dello spirito. Salviati, dopo avergli dimo-

strato perché la « vertigine » della Terra non puo portare conseguenza sulla stabilita degli uomini e dei palazzi, gli chiede se é restato « capace » di quanto egli ha voluto dire. « Resto [egli risponde] e non resto: ma questo poco importa al merito della causa, né un erroruzzo di Tolomeo, com-

messo per inavvertenza,

pud esser bastante a muover

la

Terra, quando ella sia immobile. Ma lasciati gli schezi, venghiamo pure al nervo dell’argomento [...] (p. 551). Il suo massimo sforzo é quando, nella 111 Giornata, Salviati lo fa collocare con lui, a « mettere la Terra in cielo >, ed in moto. Dal rigore geometrico delle sue stesse dimo-

strazioni€ cosi costretto a concludere: SALV. Ora che faremo, signor Simplicio, delle stelle fisse? Vogliamole por disseminate per gl’immensi abissi dell’universo, in diverse lontananze da qualsivoglia determinato punto, 0 pur collocate in una superficie sfericamente distesa intorno a un suo centro, si che ciascheduna di loro sia dal medesimo, centro egualmente distante? sIMpPL. Pit tosto torrei una strada di mezo, e gli assegnerei un orbe descritto intorno a un determinato centro e compreso dentro a due superficie sferiche, cioé una altissima concava e l’altra inferiore convessa, tra le quali costituirei ’innumerabil moltitudine delle stelle, ma pero in diverse altezze; € questa si potrebbe chiamar la sfera dell’universo, continente | dentro di sé gli orbi de i pianeti, gia da noi disegnati (p. 690).

199

La serieta delle battute nulla toglie alla comicita di Simplicio, copernichista di complemento e mascherato da riordinatore dell’Universo. Nei primi scontri, parlava con diffidenza dei giochi di prestigio dei suoi avversari. E, di nuovo, a proposito del famoso esperimento della « ruzzola », non nasconde la sua preoccupazione di trovarsi ad essere altro che beffeggiato, vittima addirittura di qualche sortilegio. SIMPL.

Direi, la prima cosa, di non aver fatta cotale osser-

vazione: secondariamente, direi non la credere; direi poi, nel terzo luogo, che, quando voi me ne accertaste e che demostra-

tivamente me l’insegnaste, voi fuste un gran demonio. SAGR. Di quelli pero di Socrate, non di quei dell’Inferno (p. 518).

Con questo metodo sperimentale gli hanno messo la febbre addosso. E studia eé ristudia, e consulta i suoi testi fe-

delissimi: é nei guai, é pieno di intellettuali affanni. Ma questa sua allarmata inquietudine é del tutto inconcludente, sebbene lo stravolga a tal segno, che é irriconoscibile da quello che era, l’'uomo dal quieto filosofare. Cé un particolare interessantissimo in proposito, che dice con quanta cura Galileo badasse a rappresentare i vari per sonaggi, secondo la logica interna del loro carattere. Nella, 111 Giornata, dopo la stampa del Dialogo, aggiungendo cinque pagine per introdurre due altre obiezioni di Sagredo al movimento annuo della Terra, Galileo non dimentica un movimento comico di Simplicio. Per lo scrittore é inseparabile la serieta degli argomenti scientifici dalla intrinseca | necessita di trattarli scenicamente: Di grazia, signori, permettetemi che io riduca a tranquillita la mia mente, che ora mi ritrovo molto fluttuante per certo particolare pur ora tocco dal signor Salviati, accid che io possa poi, spianate che siano l’onde, pit distintamente ricever le vo-

stre specolazioni: imperO che non ben s’imprimano le spezie nello specchio ondeggiante, come il Poeta latino graziosamente ci espresse dicendo: ..nuper me in littore vidi, cum placidum ventis staret mare (p. 639).

200

‘La citazione virgiliana é uno dei fioretti letterari nel gusto di quei « moderni » cosi cari a Simplicio. Non é scelta a caso, ma proprio per la sua idilliaca immobilita. Si ricordi Vinizio della 111 Giornata, dov’é il naturale scenario di Ve-

nezia a suggerire un grande inizio di commedia. Perfino la tranquilla laguna rende difficile la vita del nostro eroe della terra ferma, con un fenomeno singolarissimo. Devono discorrere sul flusso e deflusso marino, ed ecco che la gondola di Simplicio resta in secco, perché c’é l’acqua bassa. E lui arriva « tutto anelante » per il ritardo, ma consolato di aver potuto fare una osservazione scientifica e riconfermare la sua fiducia in Aristotile, sulla base dell’esperienza di un fatto « assai meraviglioso » : SIMPL.

Bisogna

non

accusar

me,

ma

incolpar

Nettunno,

di questa mia cosi lunga dimora, che nel reflusso di questa mattina ha in maniera ritirate l’acque, che la gondola che mi conduceva, entrata non molto lontano di qui in certo canale dove non sono fondamenta, é restata in secco, e mi é bisognato

tardar li pit d’una grossa ora in aspettare il ritorno del mare. E quivi stando cosi senza potere smontar di barca, che quasi repentinamente arreno, sono andato osservando un particolare che mi é parso assai maraviglioso: ed é che nel calar l’acque, si vedevan fuggir via molto velocemente per diversi rivoletti, sendo gia il fango ii pil parti scoperto; e mentre io attendo a considerar quest’effetto, veggo in un tratto cessar questo moto, e senza intervallo alcuno di tempo cominciar a tornar la medesima acqua in dietro, e di retrogrado farsi il mar diretto, senza restar pure un momento stazionario: effetto, che per tutto il tempo che ho praticato Venezia, non mi é incontrato di vederlo altra volta. saGR. Non vi debbe anco esser.molte volte accaduto il restar cosi in pochissima toé grossa € assai per

secco tra piccolissimi rivoletti, per li quali, per aver declivita, l’abbassamento o alzamento solo di quanuna carta, che faccia la superficie del mare aperto, fare scorrere e ricorrer lacqua per tali rivoletti per

ben lunghi spazii; si come in alcune spiagge marine 1’alzamento del mare di 4 0 6 braccia solamente fa sparger l’acqua per quelle pianure per molte centinaia e migliaia di pertiche. SIMPL.

Questo

intendo

benissimo,

ma

avrei

creduto

che

tra Pultimo termine dell’abbassamento e primo principio delYalzamento pdkinien interceder qualche notabile intervallo di

quiete.

201

SAGR. Questo vi si rappresentera quando voi porrete mente alle mura o a i pali dove queste mutazioni si fanno a perpendicolo;

ma

(pp. 638-39).

non

é che

veramente

vi sia stato

di quiete

Sagredo gli ha dovuto dare una ennesima delusione. Sagredo ¢é il vero antagonista di Simplicio, il suo rovesciamento positivo. Il demone socratico di Salviati procede « circuspetto » (p. 618) per la duplice cautela impostagli dalla scienza e dall’ortodossia. [1 veloce discorso di Sagredo ha il ritmo liberissimo e mobilissimo di un personaggio che cavalchi l’Ippogrifo ariostesco. In lui la « queste », la ricerca di avventure, diventa ricerca di filosofia naturale: la fantasia poetica di Ariosto é diventata fantasia scientifica: « I pensier e i negozi che continuamente mi scorrono per il capo », dice in una lettera il Sagredo storico. Sono lineamenti riconoscibili nella idealizzazione del ritratto galileia- _ no. Sagredo fu nella vita anche un gran donnaiuolo, e cid compie perfettamente la sua personalita di libertino. Ma questi particolari non potevano essere ammessi in una ben costumata commedia filosofica della Controriforma. Morto poco pit che trentenne (e non certo per eccessivo culto della scienza), Galileo volle commemorare accanto a Salviati questo suo carissimo scolaro e amico veneziano « in un pubblico monumento di non morto amore >». E rivolgendosi col ricordo agli anni trascorsi a Venezia, volle proiettare un altro aspetto del proprio carattere, la capacita di mantenere giovane il cuore, |’audace inesauribile impeto del-

Virruenza polemica, la ricchezza degli umori, la forza allegra del discorso mentale, lo scatto tempestivo del dubbio metodico, l’'impazienza di concludere le verita nel giro geometrico della necessaria dimostrazione. Sagredo era stato uno di quegli uomini che é una gioia aver « compagni nelle opinioni sottilissime e delicatissime ». E questo alter ego sempre giovane il settantenne Galilei serbd ancora nel suo animo come poté, anche dopo i giorni drammatici del Sant'Uffizio che gli fecero passare la voglia di ridere: « Il mio cervello inquieto non puo non restare d’andar mulinando [....] » (Scriveva in una lettera del 10 novembre

1634).

Per quanto Simplicio é allergico ad ogni movimento che 202

non sia quello dei cieli di Aristotile e Tolomeo, di tanto Sagredo ammira il movimento in tutto, anche quello dei motteggie delle arguzie. Salviati sente il bisogno di frenarlo: « voi siete troppo arguto e satirico ». E a lui non va sempre a genio questa deliberata e calcolata gravita di Salviati, e ne rifiuta subito, fin dalla 1 Giornata le « diversioni di cerimonie accademiche » (p. 473). E anche altrove, nella i Giornata: « Ma voi signor Salviati, calandovi talvolta

dal trono della maesta peripatetica, avete mai scherzato intorno all’investigazione di questa proporzione dell’accelerazione del moto de’ gravi descendenti? » (p. 524). Stesse a lui, Sagredo moltiplicherebbe all’infinito le digressioni e farebbe includere qui anche le geniali investigazioni sulla meccanica, i cui risultati Galileo riservO’invece ai discorsi delle Nuove scienze. Stesse a lui, il moto perpetuo, il divertire continuo da questione a questione non finirebbe mai. Solo le invenzioni di cui l'uomo € capace possono compensarlo dallo stupore e dalla disperazione e dall’infelicita di non poter adeguare la mente al saper divino « infinite volte infinito » (pp. 461-463). La malinconia di questa consapevolezza lo rende un personaggio nuovo rispetto agli eroi del mondo ariostesco e anche del mondo bruniano. Sagredo ama il vero. Si rende conto che il ben architettato Universo tolemaico possa apparir bello, ma é falso. Tuttavia, non per questo lo vitupera. Trova che il vero dell’Universo copernicano (egli dice) é piu bello dell’Universo tolemaico, se le argomentazioni di Salviati « saranno vere, é forza che sieno ancora

piu belle e infinitamente pit belle, e che quelle sieno brutte, anzi bruttissime, se é vera la proporzion metafisicale che ’1 vero

e 7! bello sono

una

cosa medesima,

come

ancora

il

falso e ’] brutto » (p. 494). Percio pone al Salviati le questioni piu fantastiche, perché egli lo aiuti a ritrovare le oggettive bellezze della natura che nessun poeta barocco sarebbe stato mai capace di immaginare, elevandosi a « qualche Operazione spiritosa » (p. 582). Si vedano, ad esempio, i quesiti che lui propone al Salviati : _Ma questi uccelli, che ad arbitrio loro volano innanzi e ’n ~ dietro e rigiranoin mille modi, e, quel che importa pit, stan-

203

no le ore intere sospesi per aria, questi, dico, mi scompigliano la fantasia, né so intendere come tra tante girandole e’ non ismarriscano

il moto

della

Terra,

0

come

e’ possin

tener

dietro a una tanta velocita, che finalmente supera a parecchi e parecchi doppi il lor volo (p. 528).

Luoghi come questi avranno certo fatto la delizia di Leopardi, la cui ottica poetica sembra talora influenzata dalle scherzanti e fanciullesche osservazioni idilliche messe in bocca a Sagredo da Galileo. Si pensa al frammento: « vedendo meco viaggiar la luna » e agl’« ingannevoli obietti » ch’essa finge allo sguardo incantato del poeta: SAGR. Se io potessi una volta incontrarmi in questo filosofo, che pur mi pare che si elevi assai sopra molti altri seguaci dell’istesse dottrine, vorrei in segno di affetto ricordargli un accidente che assolutamente egli ha ben mille volte veduto, dal quale, con molta conformita di questo che trattiamo, si puO comprendere quanto facilmente possa altri restar ingannato dalla semplice apparenza o vogliamo dire rappresentazione del senso. E l’accidente é il parere, a quelli che di notte camminano per una strada, d’esser seguitati dalla Luna con passo eguale al loro, mentre la veggono venir radendo le gronde de i tetti sopra le quali ella gli apparisce, in quella guisa appunto che farebbe una gatta che, realmente camminando sopra i tegoli, tenesse loro dietro: apparenza che, quando il discorso non s’interponesse, pur troppo manifestamente ingannerebbe la vista (p. 618). A Sagredo, console della Serenissima e uomo di mare, si

conviene il « fantasticamento » che, fra gli altri, gli attribuisce Galileo e che meglio lo caratterizza come il personaggio decisivo per il ritmo intellettuale e scenico di questa commedia filosofica: SAGR. Ora mi sovviene di certo mio fantasticamento, che mi passO un giorno per l’immaginativa mentre navigava nel viaggio di Aleppo, dove andava consolo della nostra nazione;

e forse potrebb’esser di qualche aiuto, per esplicar questo nulla operare del moto comune ed esser come se non fusse per tutti i partecipanti di quello: e voglio, se cosi piace al signor Simplicio, discorrere seco quello che allora fantasticava da me solo. SIMPL. La novita delle cose che sento mi fa curioso, non

che tollerante, di ascoltare:

pero dite pure. 204

4

sacR. Se la punta di una penna da scrivere, che fusse stata in nave per tutta la mia navigazione da Venezia sino in Alessandretta,

il suo

avesse

viaggio,

avuto faculta di lasciar visibil segno di tutto

che

vestigio, che nota, che linea avrebb’ella lasciata? sIMPL. Avrebbe lasciato una Jinea distesa da Venezia sin la, non perfettamente diritta o, per dir meglio, distesa in perfetto arco di cerchio, ma dove pil’ e dove meno flessuosa, secondo che il vassello fusse andato or pit! or meno fluttuando; ma questo inflettersi in alcuni luoghi un braccio o due, a destra 0 a sinistra, in alto 0 a basso, in una

lunghezza di molte

centinaia di miglia piccola alterazione arebbe tero tratto della linea, si che a pena sarebbe e senza error di momento si sarebbe potuto parte d’arco perfetto. SAGR. Si che il vero, vero, verissimo moto di penna sarebbe anco stato un arco di cerchio

di quella punta perfetto, quan-

do

dell’onde,

il moto

del vassello,

tolta

la fluttuazion

arrecato all’instato sensibile, chiamare una

fusse

stato placido e tranquillo. E se io avessi tenuta*continuamente quella medesima penna in mano, e solamente I’avessi talvolta mossa un dito o due in qua o in 1a, qual alterazione arei io arrecata a quel suo principale e lunghissimo tratto? (pp. 532-33).

Questa esperienza non eseguita ma ipotizzata da una fantasia scientificamente esatta é il contributo originale di Sagredo per riaffermare il moto della Terra, ed é una delle pagine centrali della pit bella e della pit ricca fra tutte le giornate, la 11, dove i giochi sperimentali e le dimostrazioni

matematiche si alternano al latino di Aristotile e degli aristotelici, puntualmente ironizzato e confutato. Siamo nel centro vitale del Dialogo. Si tratti di giochi eseguiti, per cesi dire, sulla scena come quello dello specchio (ch’é un esperimento escogitato dal Salviati nella 1 Giornata) o di giochi eseguiti solo in fantasia (come quello della ruzzola, ipotizzato da Sagredo nella 11 Giornata) noi vediamo continuamente confermata loriginalita e la coerenza strutturale di questa commedia filosofica. E cid che « piace grandemente » a Sagredo non dispiace a Salviati, che accenna con trasparentissime allusioni al suo gusto ariostesco (come s’é

gia notato). E il povero Simplicio che finisce per esser travolto dal volante scherzare di Sagredo, ch’egli segue come pud, con My1

a

i“

205

la scipitaggine tutta sua, del suo cervello barocco che « prende gusto [nota Sagredo] di certe arguzie da chiappar, come si dice, il compagno » (p. 535). SIMPL. E cosi, quand’un uomo cammina, fa piu viaggio col capo che co i piedi? SAGR. L’avete da voi stesso e di vostro ingegno penetrata benissimo. Ma non interrompiamo il signor Salviati. SALV. Mi piace di veder che il signor Simplicio si va addestrando, se pero il pensiero é suo, e non I’ha imparato da certo libretto di conclusioni, dove ne sono parecchi altri non men

vaghi e arguti (p. 534).

Al solito, la differenza tra Universo

di Salviati e di Sa-

gredo da una parte, e quello di Simplicio dallaltra é che quello € un Universo

vivo, con le sue

« passioni », come

Galileo chiama (con l’empirico linguaggio della scuola) le proprieta e leggi della Natura. Mentre l’Universo di Simplicio é tutto cartaceo, sicché Sagredo ha buon gioco quando allude sarcasticamente al « mare di cose peregrine » che egli si porta in un suo libretto (p. 604). Quando

Simplicio si scontra con Salviati, tutto cid che

pud sollecitarlo in senso positivo, verso l’eventualita di un suo recupero intellettuale, fa il suo corso. Ma quando si scontra con Sagredo, tutto cid che v’é di negativo nel personaggio ribalta comicamente. Basti questa che é la sua ultima battuta (a non voler contare quella finale, concordata da Galileo con il suo censore fiorenting) : SIMPL. Credo veramente, signor Sagredo, che voi vi ritroviate confuso, e credo di sapere anco la causa della vostra confusione; la quale, per mio avviso, nasce, che delle cose portate da poco in qua dal signor Salviati, parte ne intendete e parte no. E anche vero ch’io mi trovo fuori di confusione, ma non per quella causa che credete, cioé perché io resti capace del tutto, anzi cid mi avviene dal contrario, cioé dal non capir nulla; e la confusione

é nella pluralita delle cose, e non

nel niente. SAGR. Vedete, signor Salviati, come alcune sbrigliatelle che

si son date ne i giorni passati al signor Simplicio, hanno mansueto, e di saltatore cangiato in chinea (p. 812).

206

reso

Caro Simplicio! Sagredo in fondo gli vuol bene. E non solo quel bene che a papa Gregorio diceva Belli di volere, perché gli dava il gusto di poterne dir male. Sagredo si diverte a fare il maestro addosso a lui e se occorre anche a Salviati, perché (oltre al gusto che egli confessa di avere, come ogni buon polemista, « dello scalzare il compagno »), ritiene che solo questo procedimento dialettico e attivo possa essere utile e producente: « par che dilucidi assai le cose >. Le cose: ecco il punto di approdo della scienza e delParte di Galilei. E il suo realismo rifulge nella coerenza strutturale perseguita sino all’epilogo. Ognuno dei tre interlocutori sino all’ultimo si comportera e si esprimera secondo la logica e col linguaggio che si conviene alla « parte » che vi ha recitato da vivente personaggio del suo tempo. Tutti e tre storici e tutti e tre inventati, ideali e reali insieme. Salviati e Sagredo, se avessero potuto leggere questo Dialogo vi si sarebbero riconosciuti, lusingatissimi di essere stati cosi nobilmente e veracemente ritratti. E quanto

al terzo, era riuscito terribilmente

vivo, e non

meno vero degli altri due. Proprio per la potenza di astrazione tipica della fantasia di Galileo, in Simplicio subito ritrovarono le loro sembianze tutti gli intellettuali della vecchia cultura italiana: cattedranti laici e cattedranti ecclesiastici, medici tradizionalisti e teologi della scienza. E non poterono restarne lusingati. Né poteva consolarli la sua ingenuita, la sua purezza, la sua onesta. Le qualita positive di Simplicio erano anzi un avvilente pietra di paragone per tanta parte di questi intellettuali « non solamente ingioconda ma pericola ancora.» (come ben sapeva Galileo). E infatti costoro sarebbero stati implacabili non solo per ragioni di prestigio, ma per ragioni di interesse. A differenza del buon Simplicio, non si contentavano di esercitar l’ingegno, si preoccupavano di esercitare le loro professioni come docenti, come medici oltre che come intellettuali legati pit: organicamente al potere politico o religioso, o politico-religioso. Non volevano convincere Galileo dei loro dogmi o delle loro concilianti pseudo-verita, ma umiliarlo, chiudergli la bocca, mortificare il suo genio inquieto di disturbatore 207

e provocatore. Tale egli doveva apparire agli occhi di una borghesia in disfacimento, che voleva conservar privilegi di corpo all’ombra del clero, non conquistarsi una posizione dirigente (come altrove accadeva negli stati moderni in formazione, dovunque in Europa lilluminismo avrebbe rappresentato Videologia nuova di rottura e di ricostruzione del nuovo ordine sociale politico e culturale). Chi era Simplicio? Uno, nessuno, centomila. E perché furono in troppi a vederci tanta parte di se stessi, ebbero buon gioco ad insinuare che fosse il domenicano Padre Mostro e, meglio ancora (per avere vendetta piena), il papa in persona, A Galileo, trascinato in giudizio, i Santi Inquisitori imputarono, come corpo di delitto « aver posto la prefazione con

carattere

distinto,

e resala

inutile come

alienata dal

corpo dell’opera, et aver posto la medicina del fine in bocca di uno sciocco, et in parte che né anche si trova se non con

difficolta, approvata poi dall’altro interlocutore freddamente, e con accennar solamente e non distinguer il bene, che mostra dire di mala voglia ». In questo processo, giuridicamente ineccepibile (come dimastro un professore dell’Universita Cattolica del Sacro Cuore) i-reverendissimi giudici di Galileo avevano penetrato con tutta la malizia necessaria l’epilogo del Dialogo. Tuttavia nella loro mentalita ingioconda pretendevano cid che Galileo non avrebbe mai potuto concedere a un gusto di cosi miserabile opportunismo controriformista. Per la sua moralita di scienziato e di scrittore una commedia cosi concepita richiedeva quel prologo e altro epilogo non poteva ammettere. Galileo era un po’ meno « savio » di quanto affermi il De Sanctis (la precisazione é del Luporini). Era un po’ meno abile di quanto non lo abbiano ritratto gli studiosi che hanno illustrato e apprezzato la tattica e la strategia della sua battaglia culturale. E prima che il Sant’Uffizio mortificasse la sua allegria, era tanto pit ricco di umori delYeponimo eroe di Brecht. La sua gioconda vocazione comica si era manifestata assai schietta fin dalla giovinezza. E non solo nei suoi noti versi contro la toga e i togati, in particolare ecclesiastici 208

come dir frati o qualche prete grasso, nimici capital d’ogni disagio, che non vanno mai fuor se non a spasso, come diremmo noi, a cercar funghi, e se la piglian cosi passo passo. A questi stanno bene i panni lunghi, e non a un mie par, che bene spesso ho a correr perch’un birro non mi giunghi. [...]

Non é molto noto, e proprio perciO mi sembra ormai importante ricordare che, oltre ad abbozzar le commediole da collegio, a richiesta della figlia suora, Galileo nel 1605 compose

un Dialogo in proposito della stella nova. Frutto

dell’amore per la divulgazione scientifica e della passione per Ruzante, il dialogo era scritto in lingua pavana e destinato ai contadini. Troppo forte era il suo démone comico, perché egli vi sapesse resistere. E cosi, a dispetto di ogni saviezza, termino il Dialogo sopra i due massimi sistemi da artista e da scienziato. I tre personaggi si accomiatano di concerto (come si dice in gergo teatrale). E la commedia filosofica della Controriforma ha il finale che deve avere: uno scioglimento senza conclusione. Tutto é stato interlocutorio. Ma se per Simplicio non é « concludente » ogni scienza che contraddica all’ipse dixit di Aristotile e del papa (« saldissima dottrina ») per Sagredo conferisce « all’esercizio delle menti umane » di cui parla Salviati un valore di prospettiva e di progresso verso nuove ricerche. Lultimo a parlare ¢ appunto Sagredo, che sorvola sulle battute di Salviati e di Simplicio (« E questo potra esser Pultima chiusa de i nostri ragionamenti quatriduani ») senza approvarla né disapprovarla, proteso verso la soluzione dei « problemi lasciati indietro » : [...] e sopra tutto stard con estrema avidita aspettando di sentire gli elementi della nuova scienza del nostro Accademico intorno a i moti locali, naturale

e violento.

Ed in tanto

potremo, secondo il solito, andare a gustare per un’ora nestri freschi nella gondola che ci aspetta (p. 828).

de’

Se in lui fino all’ultimo predomina il libero, dilettoso sentimento del vero e del bello che si pud contemplare nella 209

natura, in Salviati la flemma prudenziale regola il richiesto ossequio all’autorita, conciliato con la difesa della ricerca: Mirabile e veramente angelica dottrina: alla quale molto concordemente risponde quell’altra, pur divina, la quale, mentre ci concede il disputare intorno alla costituzione del mondo,

ci soggiugne (forse accid che lesercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca) che non siamo per ritrovare Yopera fabbricata dalle Sue mani. Vaglia dunque l’esercizio permessoci ed ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandezza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua infinita sapienza (p. 827).

Agli Inquisitori non interessava la sincerita del sentimento religioso che in Galileo coesisteva con lapprovazione della « dottrina » di cui si faceva portavoce Simplicio. Avrebbero voluto una approvazione entusiastica: in realta era pil che fredda, ambigua; e dissimulava una profonda ironia sul conto di tutti gli angelici dottori, e sulle loro per nulla geometriche conclusioni. Ma a chi, se non a Simplicio, si convenivano? Chi, se non Simplicio, avrebbe potuto

ripeterle? Chi, se non il migliore dei peripatetici possibili, illuminato e disposto al dialogo, avrebbe potuto e dovuto fare proprio largomento di Sua Santita? Quanto poi a discorsi avuti, ed in particolare in quest’ultimo alla ragione del flusso e reflusso del mare, io veramente non ne

resto interamente capace; ma per quella qual si sia assai tenue idea che me ne sono formata, confesso, il vostro pensiero pa-

rermi bene piu ingegnoso di quanti altri io me n’abbia sentiti, ma non pero lo stimo verace e concludente: anzi, ritenendo sempre avanti a gli occhi della mente una saldissima dottrina, che gia da persona dottissima ed eminentissima appresi ed alla quale ¢ forza quietarsi, so che ambedue voi, interrogati se Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all’elemento dell’acqua il reciproco movimento, che in esso scorgiamo, in altro modo che co ’] far muovere il vaso contenente, so, dico, che risponderete, avere egli potuto e saputo cid fare in molti modi, ed anco dall’intelletto nostro inescogitabili. Onde

io immediatamente

vi concludo,

che stante

que-

sto, soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare (p. 827).

210

In verita, i Santi Inquisitori non avevano un giudizio di critica letteraria da pronunciare, bensi una medicina da

somministrare a quegli « egri fanciulli » che sono 1 figli della Santa Madre Chiesa, eppero anche all’autore dei Massimi sistemi toccd la sua dose. Ma ormai in bocca a Simplicio diventava sciocca anche la medicina. E Simplicio esisteva ormai, e nessuno poteva « fare che il fatto non fosse fatto » (per dirla con Galileo). Nemmeno il papa, nemmeno Domineddio! Simplicio adoperava i loro autorevoli argomenti e tuttavia era inequivocabilmente sciocco, e faceva ridere. Faceva ridere, eppure parlava con serieta, con il loro stesso linguaggio, e non con quello pedantesco degli archididascali da commedia. Se aveva senso, ai fini dell’isolamento e delle condizioni

di Galileo, identificare i modelli -viventi del clamoroso personaggio, hanno scarso valore le ricerche e le identificazioni degli studiosi positivisti del Dialogo. Non si pud escludere Pipotesi (avanzata dal Marcolongo) che Galileo avesse voluto alludere anche al cattedrante padovano suo amico Cesare Cremonino, che s’era rifiutato di metter l’occhio al can-

nocchiale. Benché il suo materialismo averroista fosse al_ quanto sospetto ed eterodosso,

ie

era pur sempre un dogma-

tico, e c’era anche in lui del Simplicio. Ma a questo aristotelico di sinistra, quanti aristotelici di destra non avrebbero © potuto contendere la candidatura, a cominciare dal padre Grassi, pit. volte dileggiato col Saggiatore come « molto semplice »? Queste identificazioni concludono poco. E servono, se mai, a confermare la tipicita realista del personaggio galileiano. Un grande personaggio comico, degno di essere ricordato accanto a Tartufo e a Don Chisciotte, 0 se vi piacciono accostamenti pili pertinenti, a Don Ferrante e a Candido, a Oblomov e a Don Abbondio. E gia prevedo le aggiunte di coloro che hanno (per dir cosi) la categoria facile: un personaggio eterno, universale,

di tutti i tempi e di tutti i-paesi. Con la prudenza di Salviati, che esigeva un poco di geometria a evitare esorbitanze, permettetemi di chiedervi un poco di storicismo, di storicismo copernicano. Un personaggio poetico riesce « eterno» nella misura in 211

cui é riuscito a diventare organicamente compiuto, nascendo e vivendo in un determinato periodo. Sopravvive perennemente, ed é tanto meglio riconosciuto, nella misura in cui

ricorrono le condizioni storiche le quali gli assicurino la sua vitalita: la vitalita dell’individuo poetico divenuto tipico non gia per i suoi tratti generici o per qualche particolare veristico, che come tale sarebbe riuscito scialbo e sciapo. Nulla vieta che ne possiamo fare un momento ideale nella vita d’ogni tempo e d’ogni paese o diciamo- meglio, per quanto riguarda Simplicio, nei momenti di morte e decadenza di ogni dottrina e di ogni scuola. Dobbiamo essere noi stessi consapevoli che operiamo a nostra volta una tipizzazione critica 0, se volete, un’amplificazione categoriale. Uomini di scienza nel largo senso della parola, uomini di scuola nel senso pili angusto della parola, sappiamo che ognuno di noi, in una fase di acritico e ricevuto senso comune, puod accreditare un comodo sistema di idee e dare parvenza di concezioni filosofiche a superstizioni culturali del passato. Galileo rappresenta cosi bene Simplicio, anche perché nella sua vita aveva vissuto il momento tolemaico e aveva professato per molti anni le idee scientifiche correnti, divulgandole nel latino scolastico. (Ci sono le sue lezioni giovanili, sono state ritrovate). Ma il suo merito é di esser

andato avanti, rifiutando le comode ragion di scuola e ragion di chiesa, ingiustificabili e inammissibili per la scienza; € ponendo come sua norma intellettuale la ragione dell’uomo, la ragion di ragione. Nessuno tra noi per quanto presuma di sé, oserebbe paragonarsi a Galileo, ma tutti possiamo almeno presumere di metterci alla sua scuola. Ebbene permettetemi di dirvi che ho inteso onorarlo insieme con voi, onorando un tanto maestro, come scolaro tra gli scolari. E non ditemi che vi ho parlato troppo di Simplicio, tanto dimenticato in queste celebrazioni centenarie. Ho preferito infatti una lettura dei Massimi: sistemi, perché in definitiva il modo migliore di commemorare uno scrittore é sempre quello di rileggerlo (0 di leggerlo), per intero. Cosa che si puo fare anche negli intervalli che corrono tra un centenario e laltro. Senza la creazione di Simplicio, Galileo resterebbe un geniale scienziato, uno scrittore notevolissimo, ma non sa-

212

rebbe quel particplare tipo di genio che é riuscito ad essere. Leggendo il Dialogo, proprio perché é un classico dove Galileo cosi duramente riusci a trovare la verita e la poesia della verita, non dico ogni uomo di scienza e di scuola, ma

ogni intellettuale puo ritrovarvi tracce del suo passato, o del suo presente o pericoli del suo futuro. Dalla finzione Simplicio torna a vivere nella realta ogni volta che una societa non garantisce la piu ampia liberta della cultura, e la cultura dimezzata finisce per costituire la base intellettuale media per cui si puO ammettere che occorra la licenza dei superiori prima di arrischiare il moto del cervello. Simplicio torna a vivere in ogni paese di Oriente o di Occidente, dove nasce e dove tramonta il sole della verita, e pud essere un

lungo tramonto, se non si realizzi la scuola di Galileo liberata dalla necessita di finger commedie per far circolare le idee. Non cerchiamo Simplicio solo accanto a noi o dov’é pit facile o pil comodo riconoscerlo. Non identifichiamolo soltanto con il deteriore umanesimo cattolico che preferira sempre di quietarsi con un po’ di cattivo latino invece di inquietarsi cén un poco di filosofia moderna. La tendenza al dogmatismo,

alle formule, al « simplici-

smo » del quieto e pseudo pensare non € un pericolo scongiurato per ’umanita, solo per il fatto che siamo diventati tutti galileiani, chi prima e chi dopo qualche secolo. PerciO mi pareva che non fosse giusto dimenticare Simplicio, onorando il genio che ridendone e insegnandoci a riderne fece qualcosa per la scienza, per la letteratura, per aiutare il genere umano, nei suoi tempi e in tutti i tempi, a rimettere « la terra in cielo » (p. 391) e gli uomini in cielo, e non avvilirsi. 1964

213

10

Vincenzo Padula prosatore

Grazie all’invito rivoltomi dal direttore dell’« Almanacco calabrese », prendo a rileggere la mia raccolta e ristampa delle prose del prete liberale Vincenzo Padula, che col titolo Persone in Calabria Corrado De Vita ebbe il merito di pubblicare nel 1950 in una collana di « Milano-Sera ». Non puo sorprendere che il volume fosse stato rifiutato dai poveri redattori di un grande editore italiano. Era un libro che eccedeva i parametri del loro gusto: era soltanto un piccolo classico che proprio meritava di esser riscoperto, se piacque non solo alla critica accademica di sinistra da Luigi Russo a Natalino Sapegno, ma a critici militanti come Giuseppe De Robertis ed Emilio Cecchi. Solo lambiguita profonda di un testo di grande ricchezza pud provocare conseguenze e convergenze singolari: Padula ha avuto infatti il consenso di uno snob cattolico e decadente, come Gianfranco Contini e, nientemeno, del sindacalista Giusep-

pe Di Vittorio, il quale trovo il tempo di scrivermi una lunga lettera autografa (la conservo tra le cose pit care della mia vita). In verita, ristampando le prose giornalistiche apparse nel 1864-65 sul trisettimanale cosentino «Il Bruzio» (cHe don Vincenzo Padula scriveva tutto lui per intero) io pensavo proprio a lettori come Di Vittorio. Un professore puo anche riconoscere uno scrittore, se c’é un altro professore che gli apre gli occhi. Ma c’é maggiore soddisfazione a veder gustare una prosa da un bracciante autodidatta, che la sua universita l’ha fatta in carcere e dall’analfabetismo é arrivato all’autentico saper leggere: quello cioé che si apprende lottando per liberare gli altri e se stessi. « Voi non potete sapere che cos’é per un analfabeta imparare a leggere: é come abbattere il muro che vi rinchiude ». Queste parole gliele ho intese dire a Bologna, a chiusura di un congresso

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per la cultura popolare. Fra tanti intellettuali lillipuziani, faceva l’effetto di un Gulliver venuto li a parlare. E fin che vivo non dimentichero la luce meridionale di quegli occhi, la sua persona. Padula io l’avevo riscoperto quando i quaderni di Gramsci erano sopravvenuti a mettere in movimento la nostra cultura, imprimendo

al marxismo

italiano degli anni della

guerra fredda una svolta decisiva. Mentre la Liberazione si rallentava e andava ristagnando nella Resistenza, il gusto cimiteriale e commemorativo (l’eredita che ci portiamo dal Risorgimento) ci sollecitava tutti a inneggiare da garibaldini in quiescenza. Si scoprivano le tombe, si levavano i morti. Fu cosi che risorse anche don Vincenzo Padula. E le sue pagine sui braccianti, pubblicate da « Rinascita », acquistarono uno spicco e una-contemporaneita del massimo rilievo. Come ogni testo ricco di significati, anche le pagine di Padula sollecitano diversi tipi di lettura: la decodificazione si rinnova con gli anni e non esaurisce la mutevole profondita di quell’oggetto in movimento che é J’arte. A vent’anni di distanza oggi sarei ancora tentato a una lettura polemica e attualizzante. La provocano proprio le pagine pil strettamente legate alla cronaca di allora e di oggi. Come ad esempio quelle su Le prigioni di Cosenza (del 30 marzo 1864). Li Padula affrontava una questione che solo il caso Valpreda ha finalmente avviato a soluzioni degne di un paese civile. Su 897 detenuti, solo 290 condannati! Precisava Padula: Il governo

intende di moralizzare

il paese,

di migliorare

il

costume del prigioniero, ma non é questo il modo di ottenere Luno scopo, e l’altro. L’infelice vede ogni giorno la moglie, la figlia, la sorella venire a visitarlo in Cosenza, e perdervi in quest’occasioné l’onore e la salute; vede sparire a poco a poco la ricchezza

dei suoi cenci domestici, mancare il pane alla prole, i magistrati sordi alle sue suppliche, il suo processo buttato in fondo ad altri mille, ed un tesoro di odio contro gli uomini, di vendetta contro la societa, di disprezzo verso la legge gli si accumula lentamente nel cuore; e quando suona Yora della liberazione, i bisogni cresciuti e la necessita di compensare quattro anni di lacrime anche con un mese di vita piena, libera, gaudente, lo spingoho a crescere il numero dei bri-

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ganti. Avete inteso, signori magistrati. E vero che in parte la colpa é dell’attuale guazzabuglio giudiziario; é¢ vero che non tutti i giudici di mandamento hanno volere e capacita di fornire i pochi processi di loro competenza; € vero che l’esser priva Cosenza di una sezione della Corte di Appello impartisce ai processi l’attributo dell’eternita; ma € vero ancora che tre Giudici istruttori, ed un Regio Procuratore e due Sostituti potrebbero fare di pit’ di quel che fanno. Guardate dunque, miei onorevoli signori, l’interesse della finanza, della giustizia, e della pubblica morale. Pensate che ogni giorno 452 infelici vi gridano: — Sbrigate i nostri processi. E voi sbrigateli, e voi travagliate, e siate pur certi che, sia qualunque la mole d’un processo, chi ha vera capacita e lunga pratica non se ne mette paura. Pur questo non basta, e vi é tale scandalo a cui il dizionario non mi porge veruno epiteto conyeniente. Vi sono in alcune regioni parecchi detenuti che non appartengono a nessuna autorita! Non

al Prefetto, non al

Generale, non al Procuratore Regio: nessuno di costoro ne ha ordinato l’arresto, nessuno di costoro sa che quell’arresto sia stato eseguito. Il fatto ne viene assicurato da tale, a cui abbiamo mille ragioni di aggiustar fede; e noi per onore di questo governo che tanto ci € a cuore denunciamo questo scandalo che oltraggia le fondamenta della Costituzione, perché tutte le autorita civili e militari si informino se sia vero, e lo facciano sparire. Quando noi gitammo le mura esteriori delle prigioni ci venne all’orecchio una canzone. La poesia figlia di Dio é il primo bisogno si nella gioia, e si nel dolore; e noi udendola dal primo all’ultimo verso la ritenemmo a memoria, ed é questa: Jetti [ando] na petra allu mari perfunnu Lu juornu c’allu carciaru trasivi. Carciaru, (amaru iu!) quantu si’ funnu! Sipoltura di muorti, iu ci sto vivu. Vorra

sapiri chi n’é de stu. munnu,

E si amici mia su’ muorti o yivi. O aria, chi subbierni [sei sopra] tuttu u munnu! Libertad bella, cumu ti perdivi! [.. .]

Noi ne piangemmo, ed ora domandiamo alle Autorita, a cui spetta: —- Che fanno cola 144 prigionieri per ragioni di polizia? Debbono andare a domicilio coatto? Vi vadano. Non meritano d’andarci? Si liberino. Sono rei? Si giudichino con le forme ordinarie.. Temete che liberandosi in questo tempo

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possano divenire briganti, ascoltate il nostro povero miserabili 85 docati; e 41 nerlo chiuso per un anno,

o manutengoli? Ed in questo caso consiglio. Date a ciascuno di quei grana che dovreste spendere a tee dite loro: Tu comprati un mulo, e fa il mulattiere; tu zappa e sementa, e coltiva; tu un paio di buoi, e guadagna la vita. Ah! non é da stupire che conoscendosi il bisogno di essere il consigliere dei misfatti non siasi ancora pensato dai legislatori di scemare il primo per diminuire i secondi? Speriamo che i vostri voti saranno soddisfatti. Se non lo saranno,

voi, poveri pidocchi

che avete

un’anima,

non

dispe-

rate percio. Dite alla vostra marcia, ed alle vostre piaghe: — Vendicateci. La miseria é pil’ onnipotente della grandezza: il*pidocchio puo anche mordere. Fortuna vi nego tutto tranne i quadri nosologici. Leggete dunque e scegliete. Avete in vostra balia la peste, il tifo, la petecchia. Fatele uscire, ammorbate la societa che vi calpesta; e cosi solamente i Giudici cesseranno di dormire, i Cancellieri di sbadigliare.

Ma una lettura attualizzante in chiave polemica ci porterebbe un po’ lontano dal carattere e dalle consuetudini di questo almanacco. Eppero sara bene ritornare al discorso critico. Quando Padula affrontd la sua battaglia meridionalistica aveva quarantatré anni. Figlio di un medico, solo attraverso una particolare esperienza personale era riuscito a superare, con la pratica sociale e la cultura, il terrore e lodio antipopolare che in una famiglia piccolo-borghese potevano aver provocato le memorie delle stragi del 1806. Come si Sa, in quegli anni il brigantaggio antigiacobino si era abbandonato

a episodi di inaudita ferocia, aizzato, al solito,

da un’abile demagogia reazionaria che sobillava e deviava contro i borghesi un odio di classe accumulato in secoli di _ oppressione feudale e rimasto a livello istintivo. Da bambino Padula aveva ascoltato con orrore le gesta _ cannibalesche del famigerato « Jaccapitta »; ma a trent’anni aveva visto uccidere dagli agrari il fratello minore Giacomo nella repressione seguita al ’48, quando i seminari calabresi erano divenuti scuola di rivoluzione e lui stesso, insegnando a S. Marco Argentano s’era fatta la nomea di « comunista », cioé di agitatore sociale, che propugnava la divisione delle. terre demaniali a favore dei contadini. Tra il 49 e il 60 era

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riuscito a scampare dalla soffocante vita della provincia, trasferendosi a Napoli. Voleva far dimenticare il suo passato di « attendibile », cioé di sovversivo, e tentare di migliorare la sua condizione di prete e di letterato. Ma i riconoscimenti del suo ingegno potevano venirgli solo dopo il 60, nella misura in cui egli rinuncio al suo radicalismo giovanile e si mosse alla collaborazione con la Destra liberale. In questi anni gli intellettuali piu eminenti del Partito d’Azione erano attratti sempre piu nell’orbita governativa, con Villusione di conservare le loro posizioni ideali. E anche Padula intraprese a Cosenza la pubblicazione di un giornale che aveva obiettivi analoghi a quelli dell’« Italia », il quotidiano napoletano del gruppo di Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini. Ma i problemi particolari della Calabria e la formazione personale del Padula impressero caratteristiche originalissime al suo « Bruzio ». Quella testata archeologica e solenne era felicemente contraddetta da una battaglia contro la reazione borbonica e da una schermaglia illuministica nei confronti della borghesia liberale, perché promuovesse le riforme e migliorasse decisamente le condizioni dei contadini. A contatto coi problemi reali, questo singolare tipo d’intellettuale non poteva non riprendere quelle funzioni che nelle zone depresse cosi spesso assume la parte pili colta e avanzata del clero. Ma in Padula non c’era solo il radicale del ’48, non c’era solo il prete in grado di svolgere una contestazione

nei confronti

della Chiesa

del Sillabo.

Era un

pubblicista d’eccezione, un oratore che gia si era esercitato sul pergamo e aveva al suo attivo una lunga e varia esperienza letteraria soprattutto in verso (poemi di tipo byroniano, idilli erotici). E d’altra parte questa esperienza impulsiva ed estemporanea, romantica nei generi e nei temi, si.fondava su una cultura e una tradizione umanistica risalente al suo noviziato di seminarista. Se aveva certamente letto la Filosofia della Rivoluzione di Giuseppe Ferrari (conservata tra i suoi libri) e probabilmente anche gli scritti di Carlo Pisacane, il suo autore decisivo fu il Tommaseo (che io ho individuato come il modello stilistico predomi-

nante nel primo periodo napoletano). Tutto cid contribui ad acuire la contraddizione di fondo tra un populismo ideo218

logico e letterario e questa aspirazione ad un abito di dignita formale, che sempre suggella la prosa del « Bruzio ». Essa € quanto di meno giornalistico ci sia nella connotazione negativa che comunemente ha il termine, per designare una scrittura affrettata, approssimativa e impersonale. Nelle quattro pagine che costituivano il foglio trisettimanale son da distinguere vari livelli. Come nel giornale giacobino del-

la Pimentel-Fonseca, nel « Bruzio » c’era perfino una rubrica in dialetto. Ovviamente non tutti gli scritti comportavano limpegno ideologico-politico degli articoli di fondo o di spalla, né quello pit propriamente letterario della rubrica che é intitolata « Stato delle persone in Calabria » (e che probabilmente era stata gia preparata a parte, pil riposatamente). Da questa serie ho creduto giusto desumere il titolo del mio volume, perché, al livello piu alto, costituisce il nucleo pit importante e relativamente omogeneo per caratterizzare lo scrittore. Inutile dire che nel giornale cosentino anche il notiziario e la cronaca (soprattutto quella locale) presentano le caratteristiche di un giornalismo di cui si sta perdendo quasi la memoria (oggi la lingua dei migliori quotidiani italiani risente della situazione di un paese in disfacimento, grazie al particolare regime di pseudodemocrazia a cui ci hanno degradato tre decenni di interdipendenza dagli Stati Uniti). Gli articoli che compongono lo « Stato delle persone in Calabria » costituiscono un tutto rimasto incompleto: il giornale cesso le pubblicazioni alla vigilia delle elezioni del *65, quando il Padula comincio a trattare l’annosa e sempre scottante questione dei beni demaniali. Lui lo sapeva bene e lo scrisse a chiare note che in Calabria « le questioni di proprieta finiscono a fucilate ». Questa serie di diciotto articoli appartiene a un tutto organicamente concepito, come mostrano gli inediti articoli e appunti che io ho pubblicati. E ci possiamo benissimo spiegare perché due di essi sembrino stravaganti rispetto al tema sulla societa calabrese:

dopo gli articoli (il 4° e il 5°) riservati ai braccianti si discuteva del problema delle scuole rurali e delle macchine agricole, per ammodernare I’agricoltura. Urgeva alla mente del Padula non la disinteressata descrizione letteraria di questo mondo calabrese, ma il proposito di volerlo liberare

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con un’iniziativa borghese illuminata. Per gli stessi motivi egli, passando a trattare del proletariato urbano, premetteva nell’articolo 16° una descrizione (« Aspetti delle terre e dei villaggi calabresi ») che é una geniale e modernissima « lettura » di questi aggregati di abitazioni che sono i villaggi e i casali dove abitano i « terrazzani ». Coi « campagnoli » e i < marinari » essi costituivano l’oggetto dichiarato della sua indagine. Deliberatamente ne erano esclusi i « galantuomini» e gli impiegati, di cui pure aveva offerto un ritratto argutissimo ma fuori di questa serie. E il Padula stesso che ci informa sui criteri coi quali é condotta questa inchiesta che, sebbene

redatta con lettera-

ria ingegnosita, non trascura il proposito di un rigore scientifico, la cui terminologia occorre tener presente per comprendere il codice sociologico dello scrittore: Lo stato delle persone in Calabria é€ composto di tre ceti, il basso, il medio e quello dei galantuomini. Formano

il basso gli agricoltori possidenti, i fittaiuoli, i coloni, i braccianti, i pastori, 1 guardiani, i garzoni ed i servitori; e noi studieremo Vindole, i bisogni, i vizii e le virtu di ciascuna di queste classi per migliorare lo stato morale della patria nostra.

Alla base di questa descrizione della societa calabrese (che poi si allarghera al « marinaro », ai salariati vari, agli operai delle manifatture e all’artigianato) c’era il proposito d’una conoscenza che voleva fondarsi sui documenti linguistici oggettivi: una storia consolidata nei proverbi e nella poesia popolare, che egli traduce, interpreta e commenta come espressione di una determinata situazione storica e

-reale: L’agricoltore possidente é presso noi chiamato massaro. E massaro chi ha una masseria, e dicesi masseria un campo seminato. Il campo é suo, sue le capre o le pecore, che lo stabbiano, suoi i bovi che lo arano, suo l’asino che ne trasporta i prodotti; e nei tempi dei lavori campestri ha denaro che basta a pagare l’opera dei braccianti, che lo aiutano. — All’aria d’importanza che gli si legge nel viso, all’andar tardo, alle parole rare e misurate, voi conoscete il massaro. Egli deve rispondere a botte come lorologio, guardare poco

in faccia il suo interlocutore, e sputare sentenze. Siffatte sen220

tenze

sono

vecchi

proverbi,

e ci serviranno

a farcelo

cono-

scere. Egli dice: Terra quanto vedi, vigna quanto bevi, e casa quanto stai; e il massaro ama la terra lasciatagli dal padre, e studia

dingrandirla con compre successive; e volendo conservarla intera, accorda moglie ad un sole dei figli, ed alle femmine da la dote in denaro. Trascura la coltura delle vigne e la bellezza e l’'ingrandimento delle case; e se queste in tutti i nostri paesi son piccole, ad un piano, e l’una all’altra addossate, la

ragione non

-dee recarsene

alla miseria degli avi nostri, ma

alla loro condizione di massari. Ora i fabbricati si migliorano;

gli artigiani amano alle finestre; ma le vere internamente, nascondevano sotto

il lusso, vogliono il balcone, vogliono i vetri loro casette cosi belle al di fuori sono pomentre le case dei nostri antichi massari un’umile apparenza una vera dovizia.

Basti solo questo esempio per vedere che cosa sappia cavare Padula dall’analisi di un proverbio. Il] massaro, questo

contadino non contadino € gia borghese, anche se lo nasconde: egli costituisce la prima e pit diffusa meta delYambizione

di ascesa

sociale della societa rurale, ed é il

partito pit ambito dalle donne. Tutto l’articolo é costruito su un materiale verbale documentario che vien dato in> corsivo, a cominciar dal nome comune che ha la « persona » e che nel nostro casoé legato alle cose: il « massaro » si chiama cosi perché egli é quel che ha, il suo essere e tutto il suo comportamento sono condizionati e privilegiati dal suo avere. Lo scrittore introducendo il materiale dialettale procede nella descrizione, traduce i vocaboli e aderisce alla sintassi di cid che riporta. Nel caso del proverbio, costruisce il suo commento, prima chiarendo e amplificando la proposizione del proverbio, e poi esplicitando quel che il proverbio implica o dissimula. L’articolo segue un disegno strutturale assai semplice, sviluppando la traccia del proverbio:

dove abita il massaro, che cosa coltiva, di che

cosa si ciba. Ma poi liberamente e senza schemi, si passa dal cibo al vestito, dal lavoro al riposo e, col riposo a fine settimana, ci vien descritta la sua funzione di patriarca ed ae del borgo in cui vive, soddisfatto del suo prestigio ocale: Il massaro rientra in paese la sera di ogni sabato; la dimane

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esce in piazza, siede nel sacrato della Chiesa, e la tutti i con-

tadini lo circondano; gli usano mille atti di rispetto, gli chiedono consiglio, gli domandano soccorso, lo pigliano ad arbitro delle loro controversie. Egli decide, e le sue sentenze sono inappellabili. U massaru é seggia (sedia) e notaru; ed egli é notaio, é avvocato, é giudice, é quello che gli antichi patriarchi erano nelle antiche trib. Nei piccoli paesi, dove non sono famiglie di galantuomini,

il massaro

é il factotum.

Il parroco,

1 preti,

i monaci lo corteggiano, perché egli da loro a vivere con le sue elemosine, e decide della loro buona opinione.

Il predicatore quaresimale gli fa la prima visita perché sa che predicando egli, se il massaro dorme in Chiesa, tutti dormono, s’egli sputa, tutti sputano, se arriccia il naso in segno di disapprovazione, i contadini che guardano come in una bussola nella punta del naso del massaro, disertano dalla Chiesa.

A conferma di questa invidiabile posizione sono da ultimo citate delle canzoni popolari, tra cui quel confronto fra il massaro e il marinaio, fatto da una donna che invoca da

san Nicola la morte del marito, per poter passare a seconde e piu confortevoli nozze: Santo Nicola Un

miu, fallo annicari;

mi ni curu

ca riestu

cattiva.

E non le duole di rimanervi vedova (cattiva) e prega S. Nicola, che il marito si anneghi; perché passerebbe a seconde nozze

con

un massaro,

conchiudendo

cosi:

Ca a quantu va na scianca di massaru Nun

va na varca cu tricientu rimt.

L’anca d’un massaro vale pit d’una barca con trecento remi; ed in Calabria, non so perché, si attacca all’anca un’idea di nobilta. La donna ingiuriata da altra donna le dice: di me tu avessi un’anca! e nella vita. di Pitagora, che visse in Calabria, troviamo tra l’altro favole che quel filosofo avesse un’anca di oro. Pitagora ha dunque lasciato la sua anca di oro ai nostri massari, ed alle nostre donne oneste, perché le loro an-

che si pregino tanto?

L’estrosa e maliziosa uscita si conclude con un capriccio che é€ di gusto affatto romantico, nonostante la dotta cita-zione di Pitagora. Padula si vuol far leggere, allettando il 222,

PP

lettore con questi riferimenti alla vita sessuale, che non a caso ficorrono in quasi tutti gli articoli della serie e sono spia delle sue ossessioni erotiche. Padula mira a disegnare il « carattere » di questa o quella « classe » del « basso stato » ossia, a parte il massaro, nien-

te altro che i lavoratori calabresi. Dal materiale concreto e linguisticamente autentico egli disegna non questo o quel marinaro (0 bracciante o pastore) ma un’astrazione tipica della sua « persona ». E il genere classico di Teofrasto e La Bruyére ma passato attraverso il romanticismo populista: che del proverbio e dei canti popolari non puo fare a meno, non solo perché li considera documenti, ma perché le citazioni dialettali valgono a dare alla prosa Vinsostituibile verita del colorito locale e sociale. Anzi, quando queste « canzuni » che sono ottave a rima siciliana 0 sequenze di distici a rime alterne, provocano la sua ammirazione estetica, egli non esita (come faceva il Tommaseo) a paragonarle ai classici, e ad esaltarle senza riserve. Si pensi a una delle pagine piu commosse fra quelle dedicate al bracciante che tenta di farsi una casa: Nun

appi sciorta de dormiri a liettu,

Né mancu de mi fari nu pagliaru: Mi ni fici uno ’npedi a nu ruviettu [rovo| Jiétturu [andarono] i genti boni, e m’u sciollaru. Pe lu munnu li via jiri dimierti' Cumu fo [fanno] jiri a mia [me] senza pagliaru!

Il poverino

dunque

che non

ebbe sorte di dormire

in un

letto e di possedere una capanna, se ne avea costruito finalmente una a pie’ d’un rovo, come fa la lucertola, come usa la

capinera di formarsi il suo nido; ma quel terreno era buono, fece gola alla gente buona, cioé al galantuomo, e il galantuomo mando i suoi guardiani armati fino ai denti, che demolirono la capanna! L’infelice non si scord: scelse il terreno piu sfruttato, piu umile, una grillaia, un renacchio insomma; ma anche quel luogo gli fu invidiato. Amaru iu! duvi simminai! A nu rinacchiu ’nmienzu a dua valluni. |

1 Letteralmente: mondo ».

«che

io

li veda

223

andare

raminghi

per

il

Simminai ranu, e ricoglietti guai, Allaria riventaru zampagliuni. Vinni nu riccu pe’ si l'accattari; Pe’ dinari mi detti sicuzzuni. Jivi alla curti pe’ m’esaminari, U Capitanu mi misi ’nprigiuni. Jivi alu liettu pe’ mi riposari,

Cadietti e scamacciavi li picciuni. Jivi allu fuocu pe’ m’ i cucinari, A gatta mi pisciatti li carbuni.

Questa canzone vale quanto-I’/liade di Omero. E la storia lacrimevole del popolo Calabrese, e si prova, — all’udirla cantare dal contadino, quanto tra un verso ed un altro fa pausa con un cruccioso colpo di zappa, —- una compassione profonda. Egli dunque semin6o in un renacchio collocato tra due torrenti; seminO grano e il suo raccolto fu di dolori. Gli zampagliuni sono, ora i grilli di lunghe zampe, ora le mosche cavalline; e il suo

di mosche

frumento

e vold; perché

di portarselo

a casa,

ma

battuto

sull’aia diventO uno

i creditori non gli furono

sopra

sciame

gli diedero tempo sull’aia medesima,

e glielo sequestrarono. Il misero penso di vendere quel renacchio ad un ricco signore; e costui, invece di denaro, gli diede sicuzzuni, parola che risponde a capello al toscano sergozzone, perché pare che in tutti i punti del globo i sergozzoni siano fatti pel contadino. Spogliato e giuntato se ne richiamo col Giudice, e per tutta giustizia il Capitano lo manda in prigione. Quale scoramento non entra allora nel cuore del malarrivato! Nulla gli riesce, nulla crede che gli possa riuscire; trova inciampi per tutto, anche nel letto, ne casca git, e schiaccia (scamaccia) i piccioni, che vi si educano sotto. L’ultima strofe ha una grazie indefinibile, la grazia del riso tra le lacrime, la grazia dell’uomo che da la baia a se stesso ed alla fortuna. Accende

il fuoco, vuole arrostirsi i piccioni; ma un triste

destino veglia ai suoi danni, e il gatto orina sulle braci e gliele spegne. I suoi proverbii sono informati da giustizia profonda: Sugnu fortunatu cumu l’erba d’a via! U disignu d’un povaro u vientu u mina! Tutti i petri s’arruzzolanu alli piedi mia! U vo’ ha da moriri cu la lingua grossa! Egli dunque non € uomo ma _un’erba che cresce sulla via: chi passa la calpesta! Fa mille disegni, ma un soffio di vento glieli disperde, e l’avvenire resta chiuso per lui! Nel cammino della vita chi lo precede e chi lo segue smuovono le pietre, e queste rotolando non feriscono. altro che i piedi suoi! La societa con tutte le classi pit ele-

224

s

vate gravita su di lui, ed egli bue, egli fratello del bue, condannato a continuo lavoro, non pud neppure lagnarsene, ma deve come il bue (vo’) morire per ingrossamento di lingua! Eppure il detto é@ poco. Il nostro bracciante é rimasto senza terreni comunali; che ha da fare per vivere? Locare le sue braccia: e noi, che amammo vero e dell’infelice, restammo

dendole e facendo

sempre la conversazione del pocommossi tutte le volte che stenspallucce ci disse, (come é solito di dire):

« Non abbiamo che queste! » Bastassero almeno a farlo vivere! Ma cio é impossibile. Il suo salario, il dicemmo, é una miseria, ed il lavoro campestre non ¢€ continuo tra noi, ma periodico e due volte all’anno. Stante i meschini termini in che

si trova

l’agricoltura,

si sconosce

il seminatore,

lo sco-

tennatoio, la marra, ed il bidente. S’ignora il mazzuolo per schiacciare le zolle, il cilindro per comprimere le sementi, Yerpice per appianare i solchi, ed i varii istromenti, per innestare ad occhio, a scudo, a scappo. Uniche armi sue sono il digitale, la falce e la forca quando miete, la zappa, la vanga e la scure quando semina. La zappa a piccone (pinnolo), la gruccia per ficcare i magliuoli nel divelto, e la pala per lo sterro sono del proprietario che adopera il bracciante.

Qui proprio sul piano linguistico il tecnicismo nomenclatore dello scrittore si configura come la pit ardua e remota prospettiva di una ipotetica riforma liberale promossa dalla borghesia terriera che il Padula invano auspicava (e sognava) colta e progressista. Padula si esprimeva col linguaggio di un agricoltore toscano o lombardo, con una purezza e

una precisione a cui l’agrario del sud non poteva non riflutarsi con tutta l’energia della sua rozzezza e la cecita della sua ignoranza. Allutopismo politico fa riscontro il linguaggio scelto e rarefatto. La ricchezza e la varieta che muovono lo stile di questa prosa ci sorprendono continuamente, ma non ci impedisco-

no d’altra parte di riconoscere i limiti storici a cui era inevitabilmente sottoposto il Padula, proprio quando tentava qualcosa di diverso dal « carattere » e individuava un personaggio singolo realisticamente rappresentato. Allora le contraddizioni che egli aveva risolto a un livello saggistico tornavano a riproporsi con maggiore evidenza. Si veda l’ar- ticolo dedicato alle impastatrici di liquirizia, che probabilmente é la prima descrizione del mondo operaio meridio225

nale. Viene fuori l’immagine di un rudimentale stabilimento industriale, dove vigeva una rigorosa discriminazione dei sessi, anche se si trattava di operaie e operai congiunti da regolare matrimonio. L’intervista a « una operaia giovinetta da Longobucco » che s’é ammalata nel « concio » della liquirizia si svolge in un dialogo il cui registro stilistico é tutt’altro che colloquiale. Il lessico accurato fino alla ricercatezza e il pluralis maiestatis dell’intervistatore finiscono per irrigidire in un contesto accademizzato una situazione che pur é cosi viva: « Oh! —

le chiedemmo, siete dunque ammalata, buona don-

na?» « Ma nei conci si pud star bene? — ci rispose. — Voi avete visto le mie compagne laggit, e con quel lavoro li non ci restano lombi, non ci restano polsi, si raccattano caldane, febbri, sbalordimenti di testa. Guardate ».. E levando da sotto la coltre le mani le mostro piene di setole (serchie), con la pelle

rotta,

magagnata,

ricoverta

di croste.

Il racconto della « malatella », nonostante qualche particolare melodrammatico e qualche forma impersonale gratuitamente toscana, procede tuttavia sostenuto dall’eloquenza delle cose: Io. poi son maritata, ma come nol fossi; qui le mogli si dividono barbaramente dai mariti, e questi per vederle alla macchia pagano una multa. Si, mio buon signore. Quando il sole é caduto, la manifattura si chiude; e chi si trova fuori resta

fuori sia che piova, sia che nevichi. E quando alla dimani rientra nella fabbrica, paga 85 centesimi di multa. Or mio marito per vedermi, finge, quando il sole @ presso al tramonto, di fare un po’ di corpo, ed esce. La fabbrica si chiude, ei vi

entra alla dimani, e paga la multa. E cosi il nostro meschino guadagno di sei mesi se ne va tra multe, spese di medicine, e di elemosine». « Oh, ma voi cosi povere come potete fare !’elemosina? ». La malatella sorrise, e rispose: «La limosina non si fa da noi, ma dal padrone, e si paga da noi: e nell’anno passato vi ebbe un tremuoto, e il padrone ci fe’ sapere che avendo dovuto soccorrere ai danneggiati del tremuoto, inten-

deva ritenersi tre lire dall’avere di ogni concaro e d’ogni impa-

statrice », A queste parole lasciammo pieni d’indignazione la malatella, e tornammo

al focolare.

226

Altrove la citazione di testi dialettali s’inseriva nel discorso con pili grazia. Qui appare introdotta con una certa forzatura, anche se il canto ch’egli cita é di grande interesse. Offre infatti una testimonianza di un’aurorale coscienza di classe dell’operaio sottoposto alla disciplina dei tempi di lavoro nella rudimentale e peggio che carceraria manifattura del concio. « Cantate qualche cosa, — dicemmo ai concari, — e vi daremo il vino». « Nel carcere si canta, ma non nel concio »,

ne risposero. Ci sedemmo al fuoco, ma i nostri occhi erano su quei poverelli. Dopo un tratto vollero contentarci, e maneggiando mestamente le fravosce intuonarono in quilio la seguente canzone: Povara vita mia, chi campi a fari Mo chi si chiusa dintra a quattru mura?

De mani e piedi mi fici ligari A na nivura [nera] fossa funna [fonda] e scura, Sula a speranza nun mi fa schiattari; E tu, rilogiu, chi mi cunti Turi, Tannu mi criju [allora credo] de mi liberari Quannu mi dici: Sw’ vintiquattr uri.

Un’infinita malinconia governava quel canto. Il concaro si dipingeva legato nelle mani e nei piedi, in fondo ad un abisso tenebroso, con gli occhi rivolti non al Cielo, non a Dio, ma all’orologio che gli conta il tempo. Ci segnammo nella memoria la canzone, e volgemmo l’occhio alle persone che ci stavano

attorno.

Il numero

n’era

cresciuto.

Braccianti,

mu-

lattieri, pastori, e viandanti di tutti i paesi erano convenuti cola a passarvi la notte. Non mai vedemmo cere piv sinistre, non mai udimmo pit scellerati discorsi. Nelle loro conversazioni si metteano in ballo i disegni pid sanguinosi: si raccontavano imprese di briganti, audacie di carcerati; si narravano

i vizii, e le abitudini dei nostri pid ricchi signori, e discutevansi le insidie tese a loro dai briganti per sequestrarli. A noi tardava un secolo di potere uscire da quel conciliabolo di gente famelica, che affrettava coi voti il ritorno della bella stagione per pigliare il mestiero del brigante, o del manutengolo; e quando fu giorno ci rimettemmo in viaggio. Fuori della manifattura alcune donne sfornavano il pane, ed una di quelle allungandosi pitt che potesse sulla punta dei piedi stendeva la mano ad un finestrino cancellato della fabbrica. « Che fate,

227

buona donna?» «Non posso entrare per luscio, e porgo per di qui al mio povero marito un mezzo pane caldo condito con un poco di olio ». E noi spronando il cavallo dicemmo nel nostro cuore: « Proseguite pure, miei bei signori Calabresi, a far cosi inumano governo della povera gente; e poi gridate, ché ne avete ben donde, che vi siano briganti i quali vi sequestrino ».

Si direbbe che, di fronte a una situazione cosi imprevedibile rispetto al tradizionale mondo contadino, Padula si riveli sgomento e impreparato, e prenda le sue distanze di prete e di borghese. C’era materia di una rappresentazione realistica, con mezzi espressivi nuovi e con un linguaggio diretto. La reazione di Padula resta invece moralistica e oratoria, anche se le conclusioni mettono bene a segno la polemica politica. Eppure Padula era ben capace di una narrativa pid sciol: ta e quasi senza impaccio di strutture linguistiche arretrate. Leggiamo alcune cronache del brigantaggio. Le ultime ore di Bellusci e Pinnolo, sono un vero racconto, che riesce a

quadrare la sobrieta di una tradizione umanistica, disciplinata dalla lettura dei classici, in una sintassi snodata e semplice. Qui i periodi si giustappongono col ritmo tipico delle storie popolari, dove i distici si schiudono come su di una

cerniera che lega un endecasillabo all’altro, o per antitesi O per congiunzioni di trapasso e coordinamento: Pinnolo e Bellusci non camminavano, ma correano, ed i preti assistenti si stancavano al loro passo. Si giunse presso la Riforma: i soldati, che doveano tirare alle loro spalle, era-

no schierati. Bellusci guardd la Chiesa della Riforma, e disse al prete: « Padre, vorrei essere fucilato presso alle mura di quella Chiesa ». « Cid non si pud ». « Ma almeno mi facciano prima inginocchiare ». «Cid non dipende da me». « Dunque, raccomandami con Dio». Furono queste lultime parole. Dodici fucili si scaricarono alle spalle di Bellusci e Pinnolo. — Bellusci rest6 morto sul-colpo; Pinnolo caduto si dibatteva ancora, ed ebbe il colpo di grazia —. I forastieri non potettero capire perché il popolo corresse a raccogliere le palle, e credettero che il facesse per idea di guadagno. Non é vero: € ubbia popolare in Calabria che la palla, che ha forato il petto d’un condannato a morte, sia un rimedio infallibile a sospenderla sul ventre per guarire le coliche. ,

228

Ma cio che si ammira in Padula (diverso per questo dal Tommaseo) é la capacita di resistere ad ogni tentazione di maniera: di fronte a cid che é pit: profondamente radicato nella sua memoria personale e ancestrale ritrova il flusso vivo di una sorgente poetica. Se le manifatture silane dei concari ci rivelano i suoi limiti, il lavoro pil antico dei linaiuoli esalta la sua scrittura fino alla prosa d’arte, come

alla ricerca non solo di una giovinezza personale, ma della giovinezza del genere umano, verso i primordi di una civilta remota in cui l’organizzazione di una vita e di un lavoro in comune riusciva a dare alla societa un suo. ritmo pacificato: Come le nevi si dissigillano, come le vette silane si sfagottano dalle nubi e dalle nebbie, e coronate di verzura sembrano sostenere il cielo fatto pit: concavg, pil terso, e rinnovellato dal soffio di aprile, ¢ mestiere cavalcare per l’agro silano, chi voglia vedersi innanzi rimesso lo spettacolo delle sacre

primavere degl’itali antichi, quando ogni citta era organata sul fare d’un apiario, e la nuova gioventt, che ne sciamava, veniva sospinta alla ventura a ritrovare nuovi penati sopra terre rimote. Sono interi paesi che allora si sbarbano dalle valli e dagli sdruccioli delle nostre Alpi, e si trapiantano nelle vaste lande silane; sono uomini e donne, giovani, vecchi e fanciulli, asini, galline e porcelli che si accasano cola, e per sei mesi dell’anno si tolgono alla corruzione cittadina, alle leggi sociali, alle prediche del frate e del prete, all’autorita dei magistrati, alle paure delle guardie di pubblica sicurezza. Sospendendosi alla cintura la chiave di loro case rimaste raccomandate alla vecchia vicina, le donne portano in capo grandi cesti con dentro i polli ed i bambini; altri ragazzi piu adulti vengono a cavalluccio dei padri; gli asini someggiano casse, mantelli, coltri, ed i rustici arnesi; si rivedono Con gioia gli antichi luoghi nelle medesime condizioni, in cui furono lasciati; i pagliai disfatti dall’inverno ma ritti ancora a meta;

le pietre affumicate,che scusarono il treppiede; le pozze a pie’ dei pini dove si veniva per acqua. Fanciulle e giovanetti, che nell’aprile precedente ingannando il vigile occhio dei vecchi, Si giurarono amore sotto il ciglione dei capifossi, presso’ alla sorgente dove s’incontrarono a bere, e dietro ]’ombra dei manelli si diedero il primo bacio, mentre si piegavano a nettare il terreno, sotto il cilestro tappeto che il lino spiegava loro sul

capo, ora vi ritornano col nome di sposi, e si guatano e sotto-

229

ridono alla vista dei luoghi segretarii dei loro amori. Empie l’ore dei primi giorni la cura di rifare i pagliai, frascati e capanne; e le si rizzano a gruppi secondo le famiglie ed i paesi, e l’uno visita l’altro, e l’amicizie ivi nate e poi dal verno interrotte si riannodano, Ed ogni gruppo ha il suo capozanzero, il quale sbracciato, spettorizzato, e con un vecchio cappello tirato bravamente sul viso, assegna i terreni,

risolve i contrasti, concilia gli opposti desiderii. E poiché ogni paese in Calabria ha motti, scede e tradizioni ingiuriose al paese vicino, essi rivivono ancora nella Sila, e gli abitanti dei vari gruppi si danno la baia tra loro, e tu senti canzoni piacevoli, e proverbii mordaci (ditterii), che, mentre si lavora, partono da un colle e trovano nel colle dirimpetto altri proverbi ed altre canzoni, che le affrontano e le rimbeccano a mezzo della via. Cosi la vita primitiva, nomade e selvaggia coi vizi, le virtu, le gioie ed i dolori suoi si rinnovella per sei mesi in Calabria, e noi ricordiamo sospirando i bei tempi di nostra giovinezza, che ne fummo testimoni.

Se Padula fosse stato un letterato puro, si sarebbe abbandonato ai vagheggiamenti del mondo primitivo, Ma aveva gli occhi aperti per comprendere come, in realta, questa coltura del lino dietro il quadro idilliaco celava lo sfruttamento dei linaiuoli, grazie alla mediazione del « capozanzero ». al quale il latifondista assegnava una vasta zona dei suoi possedimenti e con un patto fiduciario e personale coglieva il massimo frutto col minimo rischio, intrattenendo Je masse a un festoso livello primitivo, dove la morale pubblica e l’utilita privata erano salve. Padula sociologo chiarisce cid molto bene all’inizio del suo articolo. Epperd se il poeta si é lasciato distrarre dal paesaggio e dal mito rousseauiano del mondo primitivo, eccolo pronto a scoprire ben altro, ficcando il suo sguardo nelle capanne dei linaiuoli, Vedendoli lavorare e cantare, si era lasciato abbagliare da quella visione e gli era caduta in mente « la certezza che in fondo al nostro popolo Dio abbia nascosto alcune gioie grandi, vere, durevoli, che non aleggiano mai sotto le dorate travi dei ricchi ». Ma poi si riscuote e ci dipinge in tutto il suo squallore la condizione disumana di quei lavoratori, attraverso una carrellata sugli interni delle loro ca-

panne e poi all’esterno su due fanciulli, che simboleggiano 230

il futuro senza futuro di coloro che dovrebbero essere « persone », e restano solo dei buoni selvaggi: Con questo spettacolo innanzi agli occhi noi volemmo un giorno visitare le capanne dei linaiuoli. Erano tutti al lavoro,

e le capanne erano diserte. Non vi trovammo entrammo.

chiudende, ed

Una cuccia di paglia; una sacchetta piena di pane

cosi stantio da parere acciaio; una resta di cipolle; una cassa

con dentro poche tolo di accia; una confitta alla parete scavezzato pasceva

vecchie camicie, un agoraio, ed un gomipadella sospesa ad un chiodo che teneva una figura di S. Ippolito. Fuori, un asino a suo bell’agio; il suo basto era a terra:

sul basto stava cavalcioni un fanciullo, sotto al basto ve n’era

un altro nascosto, che facendo capolino ad un tratto gli dava, quando gli venisse fatto, un pizzicotto. L’aria dei fanciulli era come quella dei selvaggi; non ebbero paura, né si mossero. Mi stavano di fronte le grandi lande della Sila, colli sovrapposti a colli, e nei loro intervalli i bianchi casini dei Signori; a sinistra, a grande lontananza, i linaiuoli, e le loro case di castori; a destra altra turba di gente, quale inteso a falciare il fieno, quale a farne maragnuole, e quale a venderlo ai mulattieri. Dappertutto poi vacche vaganti sotto l’occhio geloso e protettore del negro toro, immobile ed in disparte sotto una fratta di aceri, e pecore e cavalli, e muggire degli uni, e nitrire degli altri, e grida di vaccari, di giumentieri, di mietitori, di linaiuoli; e tra tanto baccano ed immensita di cielo e di terra

io fermava lo sguardo malinconico sui due fanciulli, l’uno sopra, l’altro sotto del basto, senza paure, senza speranze, senza

pensieri!

Questi articoli di Padula furono ripubblicati in volume nel 1878. E Giustino Fortunato li segnald sulla « Rassegna settimanale » di Franchetti e Sonnino, dove collaborava il Verga che ormai avéva gia scritto « Rosso Malpelo », il capolavoro di Vita dei campi. I conservatori illuminati inseguivano ancora l’utopia liberatrice del riformismo, mentre la sinistra trasformista andava al potere, avviando col suo fallimento V’involuzione dell’eta crispina.

« Bisogna che la bellezza resti e la miseria passi », aveva scritto Padula alla fine del secondo articolo sui braccianti. La bellezza dei canti calabresi e della prosa nazional-popolare di Padula é un fatto acquisito. Non é pit soltanto Benedetto Croce a lodare i suoi scritti « stupendi per pen231

siero e per forma ». Perfino al prete Padula non sono man- cati i riconoscimenti indiretti e forse inconsapevoli del Concilio Vaticano 11. Ma la miseria € passata davvero? Dico: la miseria politica, morale, teligiosa e non solo della Calabria? Credere che basti menare la penna per risolvere i problemi é un’illusione a cui il Padula, interrotta la sua esperienza di pubblicista, non si abbandono piu. Fu per questo che tentd di passare a miglior vita, puntando sulla carriera universitaria. Per sua sfortuna (o fortuna) non gli riusci di andare in cattedra. E mori prete, agiato e « impalazzato », ma angosciato dalla sua spinite e dalla paura dell’inferno, a cui per sua fortuna (o sfortuna) aveva continuato a

credere. 1973

232

1

Lo schiaffo di Chaplin

« Che cosa é l’arte? Io vedo una luce, una luce che ri-

verbera sul mondo una ragione di vivere ». Queste parole ha pronunciato Chaplin a Roma, al Centro Sperimentale di Cinematografia, e sono la sua poetica, formulata in termini di estrema semplicita e chiarezza. Ma, si sa, una teo-

ria puo restare intenzione: il massimo del suo valore l’attinge solo se é il riflesso cosciente di un fatto artistico reale, E riuscito Chaplin a darci un organismo poetico dove le ragioni della vita siano incorporate in immagini liberamente necessarie di una realta valida per tutti gli uomini? Valida soprattutto per quegli spettatori del nostro tempo, nei quali le ragioni della vita, l’amore della vita, sembrano vacillare e languire? Vorrei esprimere la mia opinione come quella di uno fra i tanti spettatori sui quali Chaplin ha riverberato le luci del suo film. Non mi sembra dubbio che egli l’abbia concepito partendo dalla convinzione che il contenuto che oggi Si muove drammaticamente nella societa in cui viviamo é la ricerca di questo amore, di queste ragioni della vita. Nausea, disgusto, vocazione pill o meno cosciente al suicidio avvelenano l’aria che respiriamo da anni: il decadentismo (spesso dissimulato dal neorealismo), li ha accumulati nel-

Parte e nella cultura. E la societa non solo é incapace di purificare questa atmosfera, ma al contrario é costruita in modo tale che sembri illusorio, assurdo, volerne respirare

un’altra. Cosi pud accadere perfino che molti di noi, in astratto, siano convinti della possibilita di una vita degna d’esser vissuta: c’é chi Ta ricerca su questa terra, e c’é chi s’attarda a sperarla, beato lui, fuori del mondo. Ma a contraddire le nostre ideologie, le nostre credenze, l’atmosfera

bi

culturale che ci avvelena il sangue accumula in ogni nostra cellula una segreta arrendevolezza, un’aspirazione all’im235

mobilita e alla morte, che talvolta si ha ’impressione venga

perseguita anche attraverso l’attivismo o l’esercizio missionario di una fede. Chaplin ha collocato il suo film in questa atmosfera storica dell’Occidente. Ma Calvero ubriaco che salva Terry € egli stesso un uomo giunto al suo fallimento, forse un suicida inconscio. Il film non é nato da una concezione pedagogica e predicatoria, altrimenti avremmo avuto la contrapposizione del forte e del debole, del sano e del malato,

con

una

savia

« educazione

di sentimenti ». In-

somma, nella migliore delle ipotesi, sarebbe venuto fuori il melodramma

didascalico a lieto fine, col trionfo dell’eroe

positivo: forma d’arte idillica e infantile, che non pud soddisfare nemmeno un pubblico sano ed ingenuo tutto preso dalla costruzione di un mondo nuovo, ed estraneo alla cor-

ruttela che pullula nella nostra societa e la rende cosi drammatica. E nella peggiore delle ipotesi? Avremmo avuto un film del genere di Scarpette rosse, il cui argomento é Simile a questo di Luci della ribalta, ma il cui contenuto é opposto. In Scarpette rosse abbiamo un frigido e impotente superuomo che vuole educare all’arte una giovane ballerina attraverso una disumana ascesi per cui questa, quando ha imparato a danzare, ha disimparato a vivere, incapace di poter realizzare il suo amore. L’arte viene esaltata come il massimo ideale dell’umanita e, coerentemente a questo ideale, il film si svolge non senza stile ed eleganza, ma senza calore, senza necessita poetica, fino al suicidio della ballerina, unico scampo e conclusione di una concezione estetizzante. Per Chaplin la tragedia é stata l’ambizione costante della sua vita di « comico ». Si sa che egli ha lungamente pensato aun suo Amleto. Ora in Luci della ribalta ha voluto tentare una tragedia purificatrice e liberatrice da tutte le angosce, gli avvilimenti, le mortificazioni. Autobiografico in un senso molto pit profondo di quanto non appaia, questo film

poteva essere concepito solo da un artista (si veda la nota biografia di Sadoul) che é stato cento volte sull’orlo della sconfitta e del suicidio, e ne é uscito pill forte, perché solo nelle forze dell’uomo ha trovato il fulcro su cui si pud sollevare il peso morto di ogni superstite vilta. Chaplin (non meno che in altri film) ha lavorato al soggetto e alla sceneg236

giatura con un impegno estremo, che gli viene perfino rimproverato. Non c’interessa (dicono) che questo soggetto possa avere un valore letterario eccezionale. E c’é poi chi nega questo valore, e sostiene che il parlato sarebbe riuscito filosofeggiante, didascalico, oratorio. Ma queste critiche, fondamentalmente giuste per I/ dittatore, ripetute per Luci della ribalta non sanno di partito preso? Sono innegabili, nelVultimo film, i momenti in cui Chaplin ricorre all’ora‘toria, per sottolineare col parlato i motivi morali e razionali che comandano all’uomo di vivere (« Ci sono voluti milioni di anni per evolvere la coscienza umana, ecc. »).! Ma anche nella traduzione italiana (dove € noto che sono andate perdute tante sfumature del dialogo) a me

sembra che uno spettatore non possa restare insensibile a una squisitezza come quella dell’immagine di Terry addormentata e di Calvero che si interrompe con poetica misura: « Colpa mia >. Chaplin ha imparato, a spese delle sue stesse esperienze, che un poeta non deve farci addormentare alla predica sia pur di grandi verita, sia pure di parole che compendiano la storia gloriosa del genere umano. Ma i critici ipersensibili, che in nome dell’arte pura hanno mostrato tanto fastidio per le parole di Calvero, hanno rifiutato di accorgersi che Chaplin non vi ha insistito, anzi le ha circoscritte con un filo di auto-ironia. Appunto per questo loro tono esse acquistano una rara sottile forza di penetrazione, e ci restano indimenticabili nella memoria suggellate nel sorriso col quale vengono profferite. Calvero non le predica a Terry ma ha Varia di ricordarle anche a se stesso:

perché, salvando-

la, egli appunto si accorge di salvare anche se stesso. In questa situazione si colloca il parlato ed é indissolubile dal contesto delle immagini. Eppure questo Calvero che ci appare cosi mestamente sereno perché la verita & ormai tutto -per lui, lo ritroveremo fino in punto di morte molte volte smarrito dinanzi al grande enigma della mente e del cuore. Col permesso dei cercatori crociani di « purezza filmica >»,

egli é ben altro che un professore di materialismo e di evoluzionismo. Personaggio poetico, vive delle sue umanissime 1 Luci della ribalta, Roma, ed. Filmcritica,

237

1953, p. 19.

contraddizioni. Ha la forza di schiaffeggiare Terry per liberarla dalla sua inibizione, e poi cade in ginocchio nell’inutile umilta della preghiera al dio ignoto. Sembrava cosi carico di energia virile, e ritorna un povero omino, fragile nella sua commozione. Ma basta lo sguardo di un altro uomo per fargli ritrovare la sua dignita, per farlo vergognare delle sue del resto umanissime superstizioni. Car de l'amour a la dévotion / il n’est qu’un pas: l'un et l'autre est faiblesse (ha detto Voltaire nella Pucelle). L’umanesimo integrale di questo film non resta un a priori ideologico, é una con-

quista drammatica, diviene costante situazione generatrice di poesia. Se non intendiamo questo, non giungeremo mai a comprendere il film nella sua luminosa unita. Ognuno di noi é forte e debole, il suo cuore batte la vita e la morte in un ritmo solo. Ma in questa contraddizione tra la nostra grandezza e la nostra miseria, non interviene il Dio pascaliano dalla macchina mistica tradizionale. E sempre un altro essere umano che ci solleva e ci salva. Ed é un processo che non puo essere interrotto. La vita del genere umano si arresterebbe, senza la forza della solidarieta, senza il soccorso dell’altro. Ora, questa morale umanistica non é sovrapposta pedantescamente al film. E conquista e vita dei suoi personaggi, attraverso vicende alterne in cui la fiducia e la sfiducia si scambiano il posto in un flusso ininterrotto. Quando Calvero ha fatto raccontare a Terry la sua vita e sembra che stia per tramutarsi in un professore di psicanalisi, pronuncia delle parole che sono la pil triste delle sue confessioni: « E il guaio di tutto il mondo. Tutti disprezziamo noi stessi!... Tutti ci industriamo per vivere, anche i migliori di noi, fa tutto parte della storia di ognuno, scritta sull’acqua ». Come l’ubriaco baudelairiano, si era concesso nell’ebbrezza dell’alcool il lusso di dettare « des lois sublimes », ma quando ascolta Terry con I’attenzione affettuosa di un medico, ecco che confessa a lei quel che del resto gid sapevamo di lui, attraverso i suoi sogni, incubo ritornante dei suoi insuccessi o segrete speranze di amore e di virilita: il medico partecipa della stessa malattia dell’ammalata, forse possono guarire insieme. Ma dove li ha trovati Chaplin gli eroi del suo film? Londra 1914 & un tempo e un luogo mitico, per allontanare 238

nella memoria poetica il reale, per lasciarlo decantare nel passato, nell’inesauribile miniera d’immagini dove il cuore d’emigrante di*quest’artista tutt’altro che cosmopolita, radicatissimo nella cultura del suo paese, ritorna alle sue origini, per inestinguibile nostalgia della sua infanzia di dolore e di miseria (il marciapiede, il caffé, il teatro di terz’ordine, il padre rovinato dall’alcool, Paano in cui il debut-

tante Charlot appare per la prima volta sullo schermo). Eppure chi potrebbe dire che l’Ottobre 1917 non ci sia gia stato nel mondo, che non ci siano state due guerre e la minaccia di una terza, e che in questi cinquant’anni l’ideologia del materialismo non abbia guidato in Europa e in Asia milioni di uomini a vittorie irrevocabili? Questo film non poteva essere storicamente concepito se non negli anni nostri, ma in una societa in cui le vecchie

strutture sem-

brano ancora cosi solide, mentre |’uomo ha paura della vita e deve essere liberato-innanzi tutto da cid che lo paralizza nella prigione del suo sterile individualismo e della sua astratta adolescenza. Singolare individualista, e « non potremmo augurarci di meglio che tutti gli individualisti fossero come Chaplin o, anche se si vuole, come Calvero » ha osservato acutamente V. Gerratana respingendo l’individualismo in generale e la gratuita di questa etichetta per Luci della ribalta (cfr. « ’Unita » del 4 gennaio 1953). Singolare individualista questo Chaplin, che non riesce ad essere pit l’anarchico o il ribelle di tanti anni fa, assiepato dietro la sua invitta trincea, ma che, passato all}attacco in Tempi moderni e in Monsieur Verdoux (pamphlet cinematografico degno di un Voltaire o di un Diderot) respira adesso un’aria di serenita morale perché nel mondo risplende vittoriosa la verita di principi superiori, gia acqui-

siti dove essi informano la vita economica e giuridica, e arma insostituibile di lotta dove la dignita dell’uomo come _ diritto inalienabile di tutti é ancora da conquistare. Vorrei ricordare un caso analogo nella storia della poe-

sia. E stata forse la Francia rivoluzionaria ad esprimere un suo poeta? Ma senza la cultura illuministica, senza la Ri-

voluzione francese, l’Europa non avrebbe avuto un Leopardi e i suoi Canti non sarebbero risonati nella provincia pil’ oscura e pid remota dai centri motori della nuova sto239

ria. Chaplin ha concepito il suo film in un’America decadente e neuropatica, dove il freudismo é divenuto cultura di massa e dove la paura della liberta limita fortemente anche l’espressione artistica. Un artista come Chaplin che per anni e anni ha condotto una battaglia incessante, ma si puo dire da isolato, in una societa che si é avviata in una

sempre pit rapida involuzione reazionaria, non viveva certo nelle condizioni pit favorevoli per giungere alla bellezza senza tradire la verita. La scelta degli argomenti non é cosi libera come credono coloro che esaltano anarchicamente la liberta dell’arte e pretenderebbero che essa non sia storicamente condizionata. Chaplin non poteva non trarre i suoi eroi dal nostro tempo e dalla nostra societa, individuandoli tra la folla squallida di quanti si aggirano nel Limbo della vita, ai margini della gioia e della sofferenza, disperatamente chiusi in una solitudine ignava da cui non riesce a strapparli né una coscienza di classe, né una fede religiosa, né un affetto privato. Ma Chaplin non offre questi esseri (disperati e insieme desiderosi di vita) a spettacolo di pieta e ad esercizio della nostra compassione, tanto pit facile a in-

tervenire se siamo educati ad amare il prossimo degli umili e degli offesi solo quando li vediamo rassegnati al loro dolce « sottomondo ». Da una simile concezione fondata sulla morale cattolica e sulla poetica del controrealismo puo nascere Umberto D., non Le luci della ribalta: dove non solo

Calvero, ma tutti i personaggi sino alle pulci (ammaestrate si, ma non tanto da non esser lasciate alla energica spontaneita dei loro desideri) hanno « individualmente qualcosa di grande », che coincide con la coscienza e l’uso della propria vitalita, della forza.che tutti gli esseri viventi possono adoperare: salvo quando non pretendano di combattere contro se stessi, sterilmente, per assurda paura della vita. _ La grandezzadi questo film, una volta identificato il suo contenuta, si deve pero ancora. misurare dalla sua coerenza poetica e dalla sua organica unita. E anche qui é Chaplin stesso che per bocca di Calvero ci da una indicazione fondamentale. In Luci della ribalta « il significato di ogni cosa non é che un altro modo di esprimere la stessa cosa >. Giustificata mi sembra la cautela metodologica di critici come il Chiarini: 240

Prima di procedere a una pil precisa analisi del film vorrei aggiungere che non é il dialogo o la sua quantita a inficiare l’immagine filmica — visiva e auditiva insieme —, ma la sua natura, per cui puo esserci o meno l’integrazione in un’unica immagine: non si puo sentire senza vedere, visione e parlato sono necessaris per intendere. Vediamo ora, quando e dove Luci della ribalta raggiunge l’espressione filmica. Ché al di fuori dei mezzi espressivi propri di quest’arte si possono avere scene di natura letteraria, anche di notevole livello, per le quali il procedimento di realizzazione cinematografica diviene un fatto esterno e pratico o, nel migliore dei casi, esteriorizzazione spettacolare di un testo poetico.

Ma a queste premesse si pud poi contraddire con una critica di tipo crociano (poesia-non poesia, forma filmicanon forma filmica)? Una volta staccati i frammenti poetici o filmici dalla struttura dell’opera, si riuscira poi a comprenderli o non si rischiera, in definitiva, di falsare anche

i valori puri della « ispirazione filmica »? Vediamo i risultati a cui giunge la critica del Chiarini: In Luci della ribalta c’é una luce che sovrasta le altre ed é il personaggio di Terry, nella sua intuizione cinematografica. La dolcezza

del volto, la grazia dei gesti, quell’armonia

che

diventa musica visiva nella danza fanno di lei un simbolo, un ideale. Non € un personaggio psicologicamente e drammaticamente costruito (non la sua paralisi alle gambe ci interessa, né il suo amore per Calvero in lotta con l’amore per Neville e neppure la sua paura di fronte al debutto: tanto meno il suo passato con la storia della sorella prostituitasi per farle studiare la danza); é la proiezione di un senfimento lirico di Chaplin (Calvero): un sogno innocente come quello di Charlot dei poliziotti trasformati in angeli, ma pitt maturo: il sogno dell’arte che costa lotte, pianti, fatiche e persino violenze (che altro vuol dire la scena bellissima dello schiaffo?), ma alla fine si libra, oltre la passione umana, bianca di luce nella pura armonia, indifferente persino alla morte, che in quel momento

é superata.’

Il Chiarini che riduce Terry a mero simbolo, a « spirito iia del Cinema italiano », marzo 1953, p. 67. 3 Loc. cit., pp. 69-70.

241

della bellezza », crede che lo spettatore abbia potuto cosi facilmente * dimenticare la prima immagine del suo corpo abbandonato al sonno mortale; il suo sorriso quando Calvero con inarrivabile grazia madrigalesca le fa omaggio delle sue imitazioni; o infine quando racconta di aver liberato Neville dalla sua angosciata timidezza, ignorando l’avventore sgarbato? Ma come non s’accorge il Chiarini che questo preteso simbolo dell’arte ci lascerebbe del tutto freddi, se Terry non avesse conquistato a poco a poco la levita e il ritmo purdé della gioia e della vita? Essa e Neville non sono forse l’incarnazione di tanti giovani del nostro tempo,

che pit! che mai odiano la vita e la verita, ignari di averla nelle vene? Il sogno dell’arte che costa lotte, pianti, fatiche e persino violenze é la superficie melodrammatica del film,

che il Chiarini respinge in sede di parlato e accetta poi e legittima e sublima sotto forma di simbolo filmico. Ma in realta il momento lirico finale nasce da una carica drammatica profonda e da essa é indissolubile. Non c’é indifferenza in quella danza perfetta che vibra di commozione: é Terry adulta, che finalmenteé libera dal bozzolo soffocante della sua giovinezza malata del « male di vivere ». Danzava, nel giorno della prova, la sua angosciata danza in nero, oscillante tra i due amori di Neville e di Calvero.

Danzava, la sera della prima, per Vimpulso che le aveva comunicatg una cosciente energia vitale. Danza ora perché tutto il suo corpo sa che la vita é inevitabile come la morte, misura dei nostri limiti, ma anche di tutta la nostra gran-

dezza, una volta conosciuto questo limite. Se valore simbolico assume la sua immagine finale, non é quello dell’arte o soltanto dell’arte, ma del moto vitale, generatore di tutti i

’ valori umani, misura ed espressione dell’universo, quando si individua nella coscienza umana. Anche la morte é maravigliosa se non se ne ha paura, perché nulla finisce, cambia

soltanto, Il lenzuolo che copre il cadavere di Calvero ha nel suo inerte candore la stessa bellezza onde vibra l’eterea veste della giovine danzatrice. * Io non voglio giudicare il testo del parlato dalla versione

italiana. Ma le citazioni esplicite o implicite dal,Cirano di Bergerac o da Gertrude Stein o da Shelley possono bastare per definirlo letterario? Le didascalie non solo si integrano 242

con le immagini a cui fanno riferimento, ma sono sempre in tutta l’opera. E possono rifiutarle solo coloro che non vogliono interpretare in modo obiettivo questo film cosi chiaro, cosi limpido, cosi accessibile (il che non vuol dire

che la sua semplicita, come in tutti i capolavori, non riesca estremamente complessa, quando cominciamo ad analizzarla). Chi si accanisce contro il parlato, ha l’aria di volersene

sbarazzare, perché interviene continuamente a smentire ogni tentativo di interpretazione arbitraria. Se il Chiarini, che pur ha disseminato nel suo saggio eccellenti osservazioni, avesse identificato il contenuto e la situazione poetica del film, non avrebbe, a mio parere,

frainteso anche l’ultimo sketch di Calvero con Buster Keaton, che egli definisce « pantomima della morte ». No, an-

che qui il contrasto drammatico é tra la vita e la morte; fra l’inclinazione alla rinuncia e alla sconfitta, e la volonta

tesa a respingere ogni rassegnazione, a riconquistare cid che sembrava irrimediabilmente perduto. L’ultima pantomima, non meno dell’ultima danza, esprime la fede nei valori dell’uomo, nella volonta, nell’amore, nell’arte.’ Analizzando lo sketch noi vediamo che esso mima senza parole

ancora la situazione fondamentale. Vi ritorna non solo tutto il racconto, ma l’essenza stessa della poesia di Chaplin (di questo film e degli altri suoi capolavori). Il partner di Calvero é-la sconfitta per definizione d’immagine (immagine portata a un’espressione di cosi tetra, e impietrata fermezza), il violinista é il pit grande dei personaggi di Chaplin, comico ed eroico insieme. In nessun altro sketch egli era riuscito a fondere tanti motivi, a riannodarli in un ritmo —

solo. Nella Febbre dell’oro la sequenza di Giacomone e¢’ di Charlot-gallina ci aveva dato una sublime fantasia comica, dove l’elemento di verita era tuttavia reso assurdo e

obliterato in un’arte surreale. Ma qui i motivi comici lasciano continuamente affiorare il fondo della tragedia reale: il ritmo é angoscioso perché sul successo di quello sketch

€ scommessa tutta una vita. E non c’é solo commedia e tragedia in questa pantomima. L’assurdita surreale del violino di ricambio e delle gambe che si allungano sono il simbolo mimico della vitalita e della giovinezza che un uomo in declino disperatamente insegue: per un attimo im243

magini e musica accennano alla felicita di una grande lirica d’amore, che poi si spegne nella desolata amarezza della elegia. Trasportate le intuizioni surrealistiche di Chaplin sotto un cielo cattolico, e avrete il fiabesco di Miracolo a Milano e del Cappotto, con la loro nebbia lacrimosa, destinata a nascondere la macchina del buon Dio tuttofare. Gli spettatori di questo film che hanno in mente schemi preconcetti, e per esempio quelli di un determinato realismo, devono dimenticare i loro schemi e fare i conti con questa verita sempre carica di simbolo che vibra nell’arte dell’'ultimo Chaplin. Altrimenti gli chiederanno quello che non ha voluto essere e formuleranno censure a vuoto. Osserva ad esempio Pietro Ingrao* che « il mondo del music hall & visto con discrezione, con amore, con grande me-stiere, ma non va oltre alla maniera di una stampa dell’epo-

ca » e parla di « cornice un po’ manierata », di « canovaccio non originale e a volte meccanico ». Non gli obietterd un luogo comune dell’estetica, che in arte l’invenzione é nujla. Ma trovo assai strano che, mentre ad artisti che si

dicono realisti meniamo per buone tutte le falsita e perdoniamo tutti i convenzionalismi, rimproveriamo a Chaplin di avere in questo film seguito l’esempio dei poeti d’ogni eta colta, che non hanno timore di battere le vie piu trite e piu comuni, perché hanno la forza non solo di arrivare in cima ma di scoprire via facendo quello che gli altri ritenevano ormai seppellito nella banalita. E forse « una macchietta » del music hall il prodigio senza braccia? O non é una delle pit grandi immagini poetiche dell’amicizia, della solidarieta e dell’energia che non conosce rassegnazione, cioé una immagine in cui ritroviamo sempre i motivi centrali del film? Perfino i due impresari, personaggi abusatis- © simi di questo mondo teatrale, acquistano un non prevedibile riflesso di umanita alla luce del volto di Calvero che,

disoccupato o ridotto a mendicare, ha sempre da donar loro qualcosa che é soltanto suo, lo sguardo dignitoso di chi sa vivere del suo lavoro, e ignora i falsi orgogli cosi come ignora l’abiezione. Gli umiliati sono loro, i poveri impresari. Se qualche speranza vogliono nutrire ancora nel4 Cfr. «.Rinascita », dicembre

1952, p. 692.

244

oa

la vita devono andare alla scuola di Calvero. Potrei moltiplicare gli esempi di figure minori concepite sempre in rigorosa coerenza con i protagonisti: l’affittacamere, che dalla sua flaccida tristezza abitudinaria € portata sia pure per ischerzo ed equivoco sentimentale a una immagine di bonaria allegria senile. O i suonatori ambulanti che intonano con i loro volti e con le loro persone, prima che con la musica, !’elegia notturna dei sogni. Ma resterebbe sempre da considerare l’obiezione fondamentale che si fa alla struttura del film: costruzione meccanica e a colpi di scena sarebbe il rapporto tra la storia di Calvéro e Terry, e la rievocazione del loro passato; tra le vicende

della loro esperienza artistica e la loro vita. Quando si dice che Chaplin in questo film lascia scorgere attraverso allusioni e citazioni la cultura che si é assimilata, secondo al-

cuni cid sarebbe un « limite » perché egli contravviene al canone ormai stabilito che il cineasta deve essere un intrepido analfabeta alla mercé dei direttori spirituali che dovunque ormai gli sono alle spalle. Ma se Chaplin nella sua lunga esperienza non avesse meditato sui classici e sull’arte contemporanea pit valida, non avrebbe potuto neppure concepire con la cultura iniziale della sua carriera d’artista un racconto tragico come Luci della ribalta. La banalita dell’argomento gli serve solo per stabilire un rapporto immediato con il gusto melodrammatico tanto diffuso nel pubblico. Ma quanta forza nel sollevarlo ai momenti di intensa poesia, toccati proprio nelle sequenze in cui era maggiore il pericolo delle cadute! Che ironico distacco (per esempio) é nell’elegante malinconia crepuscolare dell’arlecchinata, dove un poeta di second’ordine si sarebbe smarrito nel sentimentalismo! Secondo il Chiarini « l’inversione del rapporto tra i due protagonisti, quando Terry riacquista Yuso delle gambe » sarebbe un colpo di scena. Ma la reversibilita della fiducia e della stanchezza é un motivo centrale del film. Siffatti « colpi di scena » si rinnovano e si rietono, perché variazione di un medesimo tema lirico, mu-— Sicale, e filmico. Possiamo chiamare « colpo di scena » cid

che rimane esteriorita, non la situazione poetica da cui il ' dramma, tutto il dramma, nasce e si sviluppa. Anche

arbitrario mi sembra il dedurre che da codesta

245

pretesa debolezza di struttura « si giunga a soluzioni convenzionali di ordine formale ». Quale potrebbe mai essere il primo amore nel passato di una donna che ha le sembianze di Terry, se non cid che essa racconta con tale purezza, trasognata e profonda? II nostro gusto é dunque cosi rovinato che non riusciamo pil ad assaporare queste dolcezze leopardiane quasi uniche nella storia del cinema? I sogni di Calvero non sono « mantenuti nell’economia della narrazione »! Ma questa dei sogni di Calvero é la trovata poetica pil grande dell’opera. La sua passione é rappresentata indirettamente e ne conosciamo tutta l’intensita solo in fine, quando é dominata dalla forza e dalla dignita della ragione, alla vigilia dell’addio di Calvero, Chaplin ha voluto rappresentare questa passione con estremo pudore, e non poteva raggiungere pit alta verita e pit straziante misura. Ridicoli sono i sogni di Calvero dove il sottinteso tutto sessuale dei simbolismi onirici é reso crudelmente esplicito dai couplets trivialucci e da miserabili trovate. Cosi mimata con voluta banalita, la storia d’amore di Calvero & raccontata indirettamente, per danze ed immagini. Il dottor Freud, che pur gli ha prestato pit di un soccorso,

é messo in musica e in balletto. Convenzionale la morte fra le quinte! Ma uno dei tratti sublimi di questo film (che a critici un po’ meno timorati ha fatto ricordare Shakespeare) € proprio questa morte niente affatto improvvisa perché figurativamente gia preannunciata. In quelle parole « sono morto gia tante volte » non troviamo pili traccia del cristiano vivere subordinato all’al di la, del vivere « che é un correre alla morte ». A

Terry e a quanti amano la morte Calvero si limita ad obiettare il suo ironico e sublime: « Quanta fretta », La fine dell’individuo é un momento necessario nel ritmo drammatico dell’universo: tocchiamo sempre i nostri limiti, fino a quello supremo. Per questo, Calvero muore tante volte gia nelle immagini, ogni volta che abbiamo sorpreso la sconfitta nel suo volto: morto, quando si toglie il trucco dopo Vinsuccesso

all’« Empire »; morto,

quando il riflettore lo

isola nel teatro alla prova che decide dell’arte e dell’amore di Terry; morto nell’arlecchinata,

quando (I’ha notato be-

nissimo il Chiarini) lo vediamo « allo stipite della porta con 246

quel volto fisso a Terry, che sembra avergli strappato la luce ». Allorché vediamo l’ultima volta questo volto deformato dall’attacco di angina, ma poi placato in una suprema impressione dei sensi, contemplare Terry danzante, ci sovviene delle parole di Calvero sull’amore: orrendo si, ma bello, magnifico.

Quest’uomo

se ne é andato,

ma fino al-

Yultimo aveva delle idee, dei progetti, invitta fede nella vita. Mai nella sua arte era riuscito a celebrare in un modo cosi immediatamente intelligibile la grandezza e la miseria dell’uomo,

come

nel suo sketch finale. Che importa se é

rimasto incastrato in un tamburo e se il cuore gli si fermera? Scompare la sua immagine, ma l’immagine di cid che ha amato, di cid che di pitt puro e di pit alto ha visto sulla terra, che ha danzato sui fastigi di tutte le capitali e perfino sulla cupola di Michelangelo, va oltre la morte, incorruttibile moto di felicita della materia vivente. Si sa che Chaplin, sempre incerto sulla sorte dei suoi film, era particolarmente dubbioso alla vigilia della prima in Italia. E per la verita, se il nostro paese fosse stato ancora dominato dal provincialismo come durante il ventennio fascista; se non ci fosse stata la Liberazione e |’immis-

sione di una cultura nuova a combattere la spocchia e i pregiudizi tradizionali, il successo probabilmente non sarebbe stato cosi pieno. Non pochi erano coloro-che avevano interesse (€ innanzi tutti i clericali) ad ostacolare il successo del film e a continuare secondo lo stile italiano quella « polemica feroce contro l’uomo » attraverso cui (come ha scritto eloquentemente Pietro Ingrao) si é lavorato « a disintegrare l’unita delle coscienze, si é negato fondamento obiettivo al suo sapere, si é diffamata la sua intelligenza ». Ora tra gli episodi di questa battaglia « che non si é arrestata alle armi della fame, della miseria, della serviti, alle guerre, ai pogroms, alle carestie » ed ha agito « attraverso lastuzie delle mistificazioni culturali per spezzare la volon-

ta di lotta e di ribellione », dobbiamo pur registrare i tentativi, anche se falliti, che miravano ad accreditare una in-

terpretazione goffamente parrocchiale di quest’ultimo film di Chaplin. Leggete, per esempio, « Bianco e Nero » (gennaio 1953).

Il direttore, Giuseppe Sala, ha voluto polemizzare con un 247

articolo di Antonello Trombadori (apparso su « Vie Nuove » del 28 dicembre 1952) che ebbe il merito di indicare chiaramente e prima di tutti il significato culturale di Luci della ribalta. 11 Sala avrebbe potuto, se mai, criticare nell’articolo una certa schematicita di impostazione, ma avrebbe “dovuto poi contrapporre una sua analisi del film che riuscis-

se a dimostrar falsa la linea interpretativa di Trombadori. Ma invece il Sala si limita a rovesciare dogmaticamente ¢ meccanicamente la tesi avversa, fondando la propria su qualche episodio defigurato e mal stravolto dal contesto. Donde pud mai dedurre il Sala che Chaplin in questa sua ultima opera appare « rassegnato » e che «ha scoperto la Storia con Ja ragione provvidenziale che la governa »? E che cosa lo autorizza a celebrare « il fascino sconcertante che emana da questo Chaplin precristiano che viene a sostituire lattento intellettualismo delle precedenti esperienze con la pit. abbandonata confessione, e l’insofferenza verso gli uomini con una volonta di donarsi che possiamo ben chiamare carita? ».5 Evidentemente il Sala ha confuso le luci di Chaplin con quelle della sua parrocchia. Se i suoi fossero argomenti, dovremmo

confutarli, ma si tratta solo di involon-

tario saggio di umorismo, tutto a spese di una misteriosa « ragione provvidenziale » che governa il mondo in modo cosi divertente, da farci assistere al-miracolo di un Chaplin precristiano e cattolico al tempo stesso. Né il direttore di « Bianco e Nero » si é voluto accontentare della sua prosa,

ma ha voluto anche aggiungervi, nello stesso numero, quella di Toti Scialoia, della quale mi limiterd solo a citare alcune incredibili righe per sdebitarmi in qualche modo di fronte a tanta « volonta di donarsi » da parte di certi intellettuali: « Or ecco: se un vento rompe, scompone, riduce in bri_ ciole, sovrappone uno all’altro i freddi riflessi, i rigidi incolonnati elenchi di gesti; se un vento spezza quelle impal-

cature — le maglie, le gabbie invisibili — é quello, lo, il precorrimento della lieve venuta di Charlot. sventolio di candide tende annunciatrici aspiriamo polmoni una fragranza di follia e di frittura».® 5 « Bianco e nero », cit., p. 40. 6 « Bianco e nero », cit., p. 44.

248

é quel- . In uno a pieni ~

Qui il lettore mi chiedera se mette conto di prendere in considerazione certi giudizi che esprimono perfettamente la capacita dei mediocri nel rendere al genio omaggio del loro prevedibile rancore e della loro consueta sufficienza. Bisogna chiamarsi René Clair per poter dire, a proposito di Chaplin: « Perché non darsj pit spesso la felicita cosi rara di ammirare senza riserve, senza limiti?... Non proclameremo mai abbastanza alto l’amore che egli ci ispira, la nostra

umilta

dinanzi

alla sua

opera,

e ja nostra

ricono-

scenza >. Io non voglio abbassarmi a raccogliere reazioni come quelle di un Longanesi o di un Giannini, 0 altre analoghe, apparse sulla stampa quotidiana e da considerarsi rigurgito di strapaesaneria. Ma quando leggo le testimonianze’ su Chaplin, raccolte da una rivistina equivocamente sinistreggiante, « Filmcritica », mi viene il sospetto che « le fragranze di follia e di frittura » non siano state il solo prodotto spontaneo di certi cervelli, ma di una cucina organizzata (sia

pure male) allo scopo di denigrare, calunniare, deformare il film di Chaplin. Poeti come Cardarelli e filosofi come Galvano della Volpe hanno guidato la volonterosa schiera di « Filmcritica » nella quale, senza sorpresa, s’incontrano Nicola Ciarletta e Giovanni Calendoli. Che cosa dire delle affermazioni di quest’ultimo, che le edizioni-di « Filmcritica » hanno prescelto come prefatore alla traduzione italiana della sceneggiatura di Limelight? Scrive costui che « la vita é per Chaplin una coabitazione nella quale é impossibile raggiungere un autentico, intimo, persuasivo contatto con gli altri. La vita, quale egli la rappresenta, € un mostruoso fenomeno di asintonia... un’intesa non si stabilisce mai se non nei momenti di euforia nei quali gli individui, senza controlli, commettono la imperdonabile leggerezza di confessare tutto il dolore chiuso nel loro animo da millenni, aprendosi ‘con i propri simili, cioé con i propri avversari >. Per questo, secondo il Calendoli, « lo spettacolo di Chaplin '€ uno spettacolo senza spettacolo. E un atto di solitaria 7 Cfr. i numeri di gennaio eccezione

e febbraio

é da fare per l’eccellente

1953, pp. 16-7).

249

1953. Una

_onorevole

scritto di A. Frateili (gennaio

protesta, un gesto di sfida, un’offesa ».

Non vi pare preziosa la confessione finale? Sfida e offesa al provincialismo di certa cultura é parso questo film di Chaplin. Un immenso schiaffo. Ma su molta gente grava ancora il peso della Controriforma, che da secoli ci educa alla vergogna di sentire, alla paura di pensare liberamente. Non, maraviglia che nemmeno un grande schiaffo poetico (e lo poteva dare solo il « padre della tenerezza nel mondo ») sia bastato a mettere in moto la loro fantasia. Non.

maraviglia che questa gente sia rimasta a contorcersi nei sofismi e nelle menzogne, per non ammettere che finge di cercare Dio, ma é solo in ginocchio alla ricerca di bottoni perduti. 1953

250

2

Cinema

controrealista

Credo che si ricordi ancora quella storiella che raccontavano circa dieci anni fa, d’un veliero carico di agrumi affondato per bombardamento nel porto di Napoli. Ogni sostanza galleggiante, quel giorno, lieta di confondere il suo specifico odore tra l’insolito profumo di qualche bel frutto, danzava sulle acque e cantava: « Oggi siamo tutti aranci ». Per dieci anni, chiunque abbia mostrato anche la pit ambigua e la piu vaga aspirazione all’epiteto di realista lo ha potuto sfoggiare quasi senza obiezioni. Tutti realisti. Oggi la critica comincia ad usare pit. sobriamente questo vocabolo e si comincia a intravvedere che, nell’ambito della

poetica predominante nell’arte contemporanea,

una certa

corrente, pur continuando a valersi dei modi formali con-

quistati dalle opere pil’ avanzate, segue un indirizzo evidentemente reazionario. Ci é parso percid assai utile che un critico cattolico, Gian Luigi Rondi, all’inizio di quest’an-

no si sia proposto' di identificare cid che per lui é il vero « realismo >: Subito dopo la guerra, ai tempi in cui nel cinema italiano cominciava a fiorire quel periodo che, sia pure in modo ancora incerto e confuso, si tendeva gia a definire neorealista, un film abbastanza modesto suscitd, nonostante i suoi limiti, interesse e consensi, Vivere in pace di Luigi Zampa. Non po-' teva certo considerarsi opera di molto impegno, ma alcuni suoi elementi narrativi (dovuti alla fantasia di Suso Cecchi e di

Piero Tellini) sembravano nettamente distinguerlo dai film di quel periodo; identico era l’oggetto cui si rifaceva (la realta di quel particolare periodo), ma diversi erano i temi e il tono che questa realta aveva suggerito: temi agresti, sereni, che “sora la guerra quasi da dietro le quinte, con un tono piu vicino alla commedia che non al dramma. Anche in questa chiave, perd, le istanze umane che avevano concorso a dar

251

vita ai piu seri film di quei giorni non erano dimenticate e, pur’attraverso le maglie della caricatura, potevano reperirsi quegli stessi sentimenti di solidarieta, di carita e di polemica contro i vizi contrari che erano e rimangono tuttora i fondamenti morali del neorealismo. Con la differenza che la realta era intesa da un punto di vista. pil bonario e interpretata in quel clima tra il bucolico e il cordiale che gia, in tempi storici diversi, aveva dato vita, con pit: sostenuto rigore, ma con il distacco quasi della favola, a quel film cosi limpido e conchiuso che € Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti. Su questa linea, ma con quanta maggiore autorita di poeta, Renato Castellani ha dato ieri al cinema italiano Due soldi di speranza, un’opera in cui, sotto l’apparente serenita di una cornice agreste, non era minimamente ignorato nessuno dei fon-

damentali motivi del neorealismo, da quelli estetici a quelli morali. Scomparsa la guerra e superati taluni immediati problemi del dopoguerra, restava sempre attuale — per i poeti della realta — la realta dell’uomo nella sua eterna condizione di nato al dolore a causa del Primo Peccato. A questa condizione, che é di tutti i tempi ma che in questo periodo determinato i poeti esprimono alla luce delle istanze particolari del Cristianesimo contemporaneo (quelle, cioé, pil direttamente connaturate agli impulsi di solidarieta dettati dalla dottrina del Corpus Christi mysticum) si rifaceva Due soldi di speranza come alla sua fonte pit genuina di ispirazione e vi trovava la sua piu perfetta, poetica misura.

Cosi scriveva il Rondi sulla « Fiera letteraria » del 3 gennaio di quest’anno. I riferimenti dottrinali forse appariranno abbastanza pomposi e spettacolari per non far sorgere il dubbio che questo scorcio storico somigli pil a una « processione » che a una storia. Pure il Rondi sembra

essersi-

approssimato al significato dell’opera di Castellani (soggettista E.M. Margadonna), meglio di tanta brava gente che seppe prendere abbagli cosi accecanti.. Due soldi di speranza era un grazioso idillio che non mancava di ispirati momenti poetici, senza dubbio. Ma quale era il valore culturale di questo film dalle immagini incantate e circonfuse di stupori liricheggianti? Non so. in quale misura il Castellani e il soggettista siano stati coscienti di cid che hanno dato al

cinema contemporaneo. Dicono i socialdemocratici che J’italiano é socialista ¢€ 252

ee

non lo sa. Il fatto é che litaliano succhia latte e cattolicesimo e di questa pasta s’impasta e cresce con tutto il cinismo occorrente per trasmetterla intatta e prospera alle successive generazioni. La sorte dei due poveri promessi sposi di Castellani, nonostante l’audacissima innovazione di darci una Lucia con liniziativa femminile, restava affidata a una soluzione provvidenziale. Questo non vuol dire che la problematica religiosa si fosse sviluppata; al contrario era pressoché nulla, mentre

la morale cattolica vi era

scrupolosamente osservata. Insomma i Promessi Sposi ci apparivano rifatti con notevole coerenza di spirito gesuitico e senza la troppo austera pretesa che aveva avuto il Manzoni nell’escludere l’'amore dalla sua cantafavola. Due soldi di speranza non era gesuitico solo per lunzione con cui terminava il film, dopo tante godute bellezze (la chiesa e Vacqua santa che benedice tutte le passate tentazioni prematrimoniali e santifica l’amplesso). Era gesuitico perché moralizzava esteriormente una storia, la quale, proprio nei suoi momenti poetici, appariva giocata su di una finissima sensualita, che trascorreva musicalmente dai personaggi al paesaggio. Era gesuitico perché ci presentava il quadro di una realta tutta consolata e lambita da una luce di idillio,

proprio quando questa realta nella storia che viviamo é caratterizzata da una tensione di cui ogni giorno vediamo i conflitti. Quando Manzoni rappresentava gli « umili » non dimenticava che esistevano i « potenti », pur lasciando alla Provvidenza Vincarico di risolvere i loro contrasti, pur riconducendo sempre all’ovile Renzo, che dal suo istinto po-

polare sarebbe stato sollecitato a farsi giustizia da sé. Castellani, intimamente

indifferente ai manifesti del pci e ai

santi delle sacrestie, guarda con occhio di esteta ugualmente sereno il disoccupato e il venditore ambulante e « deve » trovare una soluzione di superficie, conciliante e ottimisti-

ca: due soldi di idillio, due soldi di politica e due soldi di religione, perché lo spettatore di buon gusto ci trovi il suo godimento estetico, il clericale si conforti e il comunista meschino (nel senso dell’italiano « meschino » di cui parla Gramsci) se ne contenti. Quali sono i termini della linea culturale di questo realismo che almeno nell’opera di Castellani ha trovato il suo

i. ; ae

253

momento pil alto e rappresentativo? Se aspira alla poesia ci da Vidillio moralizzato, ma se degenera nelle forme pit rozze ¢ triviali giunge fino a Don Camillo, dove la realta é talmente deformata, che si fa sparire dalla storia contemporanea una borghesia ancora esistente (anche se nella sua fase di decadenza) e si tira fuori un proletariato fantoccio e un comunista di comodo per riaffermare il pili assurdo sogno reazionario: un clero con insostituibili funzioni dirigenti, anzi con funzioni di salvatore della societa moderna. Che cosa pud promettere all’arte un movimento « realistico» che pretende fondarsi sulla dottrina del « Corpus Christi mysticum » e si contenta di battezzare per verita le idealizzazioni e addirittura le falsificazioni del reale? Ce lo ha detto sul bel principio di quest’anno monsignor Albino Galletto, rendendo note le statistiche 1953 del Centro

cattolico cinematografico.! Che in Italia ci sia il 61 % di film « positivi » secondo la censura cattolica non é sufficiente per i padri spirituali di tanto cinema italiano. Io credo che se noi esaminassimo attentamente quali e quanti sono i film influenzati dal gesuitismo in Italia e nel mondo, ci renderemmo conto della portata massiccia del movimento « realistico » cattolico. Ben pochi sono i film e i generi che sfuggono a questa azione « moralizzatrice » di proporzioni colossali. Allarmati perché di fronte allo sfacelo della « civilta criStiana » e « occidentale » il comunismo si pone come la sola via di riforma integrale della societa, i dirigenti clericali ricorrono ai vecchi metodi della Controriforma,

e li

credono ancor validi nel mondo moderno. I risultati non 1 Cfr. «Il Messaggero» del 15 gennaio e «Il Quotidiano» del 17 gennaio 1954. La conclusione é importante perché il segretario della Pontificia Commissione della cinematografia afferma « che spetta ai cattolici italiani di prendere posizione — sull’esem-

pio dei cattolici di altri paesi — e di intensificare una organica ed ordinata azione per una rivalutazione in senso cristiano del cinema, le cui possibilita di influenza educativa, istruttiva ed artistica sono enormi. Se continuera l’attuale insensibilita morale, le numerose sale cattoliche, gia saldamente unite in una associazione nazionale,

non dovranno esitare ad impostare propri circuiti per la distribuzione di films, mentre potra essere predisposto un piano di produzione dei cattolici su basi nazionali ed internazionali. »

254

possono non esser penosi, se confrontiamo I’arte con la vita.

E la stessa pena che avvertiamo osservando come nei cantoni si moltiplicano gli altarini alla Vergine, mentre i consumi degli stupefacenti si misurano a quintali e a miliardi, e le ragazze-squillo fanno echeggiare i loro nomi accanto ai pil’ insigni rappresentanti del nostro primato morale e civile, infaticabili

assertori

del trinomio

Dio-Patria-e-Fa-

miglia. Se la vita é tanto corrotta (pensano i clericali) le cause e i rimedi non vanno ricercati nella vita ma nell’arte, dunque cominciamo a moralizzare il cinema: ecco la logica del loro « realismo ». Impotenti a sanare le « piaghe » della societa, gli basta che siano consolate nell’idil-

lio. Impotenti a ridurre i comunisti al rango di Peppone, si contentano di realizzare i loro sogni in una farsa. E non esitano a puntare sugli artisti che hanno sparso pit cinismo, pill indifferenza, pit oscenita (anche se hanno dimostrato,

in qualche raro film, a quale altezza possa giungere la loro arte, se si distacca dalle volgarita). E fanno recitare a Toto

una bella preghiera che ci elevi a Dio nel pit! comico spettacolo del mondo, tra una sconcezza e un’altra. E utilizzano

la gentile scemenza di Rascel, perché il suo angelismo sembra fatto apposta per trasmettere un messaggio di bonta. E non esitano a fabbricare pochades a scioglimento onesto, senza dimenticare il « vietato ai minori di 16 anni» per attirare quanti pil’ peccatori sia possibile! Cosi é venuta fuori quella farsetta parrocchiale che si intitola Una di quelle e il buon Fabrizi é riuscito a farsi consigliare il film perfino dall’« Unita >. Prendendo esempio dall’opportunismo di certi cineasti di sinistra i produttori clericali e i loro direttori spirituali, han-

‘no deciso: « Se ci sono state delle cosce sulla via del progresso, mostriamone altre sulla via di Damasco ». L’idillio erotico e scherzoso é alla base di una serie di film comici nei quali (come nota in un acuto articolo Fernaldo Di

Giammatteo), il dosaggio dell’elemento sensuale non arriva mai allo spettatore « attraverso forme di vitalita piena ed aperta e confessata, preferisce le vie di una tortuosa pornografia. La dissimulazione, il sottinteso, la < prudenza » han-

no scacciato la vita: comicita e sesso si reggono sulle traballanti grucce della vita riflessa, del ripensamento morboso,

255

dell’onanismo. Ne consegue una diffusa ipocrisia. L’ipocrisia é la seconda natura del film comico italiano. L’ipocrisia giunge al punto che le « audacie » dell’abbigliamento femminile abbondano soprattutto nelle opere che intendono essere moralmente « edificanti » ».? Molto bene. Ma perché considerare lipocrisia un effetto? E, perché non ricercarla dove va ricercata; non solo nella censura (pretesto di vilta e di servitt' volontaria, d’ac-

cordo), ma nell’autocensura dei soggettisti e dei registi, € innanzi tutto tra i produttori e i loro direttori spirituali e magari nella funzione corruttrice dei loro uffici pubblicitari,

e in certa critica che spesso da questi uffici dipende, anche se sfoggia la pit fiera indipendenza e le pit: elevate concezioni morali e politiche? Sembrerebbe ovvio che la responsabilita di un indirizzo culturale vada ricercata innanzi tutto in coloro che hanno il potere materiale e intellettuale di imprimere tale indirizzo, cioé in una determinata classe dirigente e negli intellettuali che ad essa sono legati nonostante le velleita di distaccarsene. Ma invece il Di Giammatteo se la prende con le vittime di questa produzioné e cioé col pubblico: 4 I film di Toto, di Rascel, di Walter Chiari, di Fabrizi riempiono come possono il vuoto della rassegnazione. Il pubblico italiano si trova, generalmente, in uno stato di passivita che richiede, come indispensabile, la battuta volgare, il lazzo scollacciato, il meschino doppio senso; nessuno é pit. bravo dei nostri comici nell’accontentarlo. Le masse popolari sfogano a volte la propria vitalita fuori della cerchia dello spettacolo,

in brevi o violente manifestazioni sul piano politico, ma fra le ‘due schiere di interessi — l’attivita politica e la condizione di spettatori — non vi é alcun rapporto. V’é anzi, una contraddizione profonda la quale dimostra come sia ancora lontana la maturita che, sola, potrebbe fare del pubblico una forza viva e influente. Si nota un rifiuto sistematico dell’educazione ed una accettazione ad occhi chiusi del « divertimento» in - quanto tale, senza problemi. Le stesse masse popolari pit attive al cinema subiscono, secondo la mentalita propria della 2 Cfr. F. Di Giammatteo, I film comici italiani-in « Rivista del cinema italiano », marzo

1954, p. 61.

256

decadenza borghese. Al cinema sono tutti borghesi, infantili, superficiali. I film comici sono fatti apposta, nascono su questo terreno e cercano di consolidare la situazione attuale. Agiscono, insomma, su un terreno predisposto e lo sfruttano secondo las « morale » del commercio, in una societa che al com.

mercio é propizia.’

Non pretendo che il Di Giammatteo abbia delle masse un concetto un po’ meno dannunziano, un po’ meno anacronistico. Ma, e se cominciassimo innanzi tutto ad avere fi_ ducia nella funzione e nella forza di una critica seria e di quanto puo dirigere e organizzare almeno la parte piu combattiva e pil! sana delle masse? Perché arrivare alla conclusione che i « rapporti di forza tra produttori e pubblico non sembrano destinati a mutare nel prossimo futura », se

la critica comincia a individuare cosi bene cid che caratterizza la degenerazione del cinema italiano contemporaneo, accanto alla fioritura di alcuni autentici capolavori e opere di notevole livello? Mi sembra di grande importanza il fatto che critici come

Aristarco, Di Giammatteo

e ora il Chia-

rini* sentano la necessita di analizzare anche le opere il cui successo é inversamente proporzionale al loro valore artistico, ma che pure debbono essere attentamente studiate, se vogliamo che gli spettatori acquistino una pit elevata coscienza e sappiano reagire convenientemente all’oppio moralistico della maggioranza dei film in circolazione. Matura la convinzione che c’é una lotta culturale ed é urgente affrontarla. E pit acuto sara l’occhio dei critici, pil severo e€ meno opportunistico il loro giudizio, tanto pit rapidamente si formera un orientamento generale del gusto che potra influenzare la stessa produzione. Ma i critici innanzi tutto debbono avere fiducia che le loro posizioni intellettuali avranno valore culturale serio solo.se diventeranno il patrimonio diffuso di quelle masse che hanno una loro vitalita e una loro intelligenza da « sfogare » anche al cinema (per adoperare il termine aristocratico del Di Giammatteo): da « sfogare » anche contro una produzione cosi offensiva 3 Ibid., pp. 62-63. 4 Cfr.

marzo

L’Uva

di Zeusi,

: nel

«Contemporaneo»

1954,

:

257

di Roma,

25

dei valori pit sani del nostro Paese. La morale e lestetica fanno una cosa sola, proprio perché sono altra cosa dal moralismo e dall’estetismo. Prendiamo per esempio un film « medio » che ha mandato in delirio mezza

Italia:

Pane, amore

e fantasia. Il

Rondi dalle premesse succitate e dal « Corpus Christi mysticum » plana gradatamente alle lodi della BersaglieraLollobrigida (« ha ormai una statura d’attrice cui non sembra mancare pit nulla ecc. ecc. ») non senza aver affermato che il film si muove nel clima cordiale e bonario e nella « cornice rurale » che sembrano d’obbligo per il realismo ameno, destinato al successo: L’accostamento, perd, non si esaurisce in questa somiglianza di cornice e di clima, ché, sia pure molto latenti e in una chia-

ve pill vicina alla satira che non possono

ritrovarsi, se non

i motivi

alla commedia,

anche

qui

morali da cui i poeti del

nostro cinema sono spinti all’osservazione della realta, almeno i termini pit lati di questa realta, fame ed amore.

Non

sono

pochi, infatti, i paesini sperduti nelle campagne italiane, in cui ci si nutre solo di pane perché i soli companatici sono fantasia e amore. Qui l’amore é quello che la spavalda bellezza di una giovane contadina suscita nel cuore gia provato di un cordiale maresciallo dei carabinieri ed in quello ancora timido e sprovveduto, di un semplice carabiniere. Ma é un amore che, dopo aver spinto il maresciallé6 ad assumere pose da Don Giovanni, lo induce poi ad accenti cosi paterni da fargli favorire un incontro fra la bella e il suo innamorato cui segue, naturalmente,

la promessa di matrimonio. Il maresciallo, cosi, dovra sacrificarsi? No, c’é amore anche per lui; la levatrice gli ha fatto gli occhi dolci, lui li ha fatti a lei e alla fine, nonostante qualche ostacolo da superare, avranno anche loro di

che star contenti; anziché pane, confetti.

Cosa volete di pit? Sembra chiedervi il pio Rondi, e passa a lodare Vironia cosi «.quieta e pacata » del regista Comencini il quale « ha saputo colorire con la dovuta energia il personaggio ameno del maresciallo sottolineandone la bonomia e il fatuo dongiovannismo, prima, e il risveglio, dopo, di sentimenti pit seri (che coi primi si intrecciano e si alternano in gentilissimi nodi). Il pericolo della caricatura in tutto questo era sempre possibile; invece & stato studiosa258

mente evitato in grazia proprio dell’acuto sentimento di indagine psicologica che guida Comencini non alla scoperta della macchietta, ma del personaggio, nell’osservazione dignitosa della realta ». Forse solo questi brani della recensione di Rondi basterebbero e quasi non ci sarebbe bisogno di citarvi un articolo di Aristarco che ha avuto il merito di rendere esplicito cid che qui é soltanto implicito, cioé come « Pane, amore e fantasia — e il titolo é gia rivelatore di per se stesso —

appartiene appunto a un programma

vel-

leitario di finte «aperture » e di esso costituisce quasi un caso limite, tanto pit pericoloso quanto pill equivoca appare la sua natura, cioé nascosti i suoi lati negativi, la sua

sostanza < reazionaria > ».° Non son d’accordo con Aristarco per il richiamo alla narrativa di Rea. Fin dal titolo il film, caso mai, si richiama

a opere come Vesuvio e pane, che certo é la cosa migliore dell’ultimo

Bernari,

cosi come

Pane,

amore

e fantasia &

Yopera migliore di Comencini, « perfezione di quelle sue produzioni che partono da uno sfruttamento mercantile del realismo inteso come etichetta ». E l’avvicinamento sarebbe tanto pil opportuno se pensiamo alla gratuita del tono popolaresco e delle incoerenze del dialogo semi-dialettale e semi-italiano. Vedo che Aristarco comincia ad affrontare un problema assai serio. Il nostro cinema, per darsi un colorito popolaresco, affetta di parlare tutti i dialetti e quasi sempre fion per esprimere un contenuto popolare né per una profonda necessita poetica. Direi che in Pane, amore e fantasia il regista e il soggettista siano giunti all’auto-ironia inconscia quando il carabiniere veneto dice alla sua morosa abruzzese: « Vorria parlare italiano come parli ti». La grande aspirazione dei maestri.del realismo e del neorealismo italiano da Verga a Pavese é stata quella di esprimersi in una forma nazionale anche valendosi di una sintassi dialettale. Tuttavia ’opportunismo linguistico pit becero di molti intellettuali oggi sembra ignorare questi problemi. Da quando la loro patria é il mondo, hanno deciso di dimenticare l’italiano. Ma si tratta di un aspetto comune a molti lavori e da solo non caratterizza il film in questione. Noi 5 Cfr.

« Cinema nuovo » del 15 febbraio

259

1954.

dobbiamo partire dal suo contenuto e dalla situazione di questo contenuto.

Che cosa accade nel famoso paesino dove c’é poco pane, molto amore e moltissima « fantasia »? I termini della realta sono capovolti schezzosamente:

& questa la molla ben

oleata di una comicita che scatta meccanicamente e sempre allo stesso modo. Se vedete case distrutte voi pensate che si tratti di bombardamento. No, terremoto. E quando credete sia terremoto, no, si tratta di bombardamento. Cid é

comico nella forma pil elementare e superficiale del comico, ma intanto serve benissimo a porre la guerra tra le calamita che il buon Dio ci riserva normalmente, e dinanzi a cui non c’é nulla da fare. Si muore a poco a poco? E che importa? L’importante é di riderci su. Siamo in un centro rurale, ma nessuna di quelle questioni agrarie che in forme varie affliggono oggi la vita italiana affligge Vallegro paesello. La terra é gia tutta dei contadini e questo spiega (come dice il saggio parroco) la miseria generale. Se c’é miseria, ci saranno

allora dei sovversivi? No, unica

sovver-

siva é la Bersagliera, che con la sua bellezza procace insegna la modestia ai carabinieri e compromette l’avvenire della nipote dell’arciprete. L’arciprete pensera a maritare la nipote? No, si preoccupa della salvezza spirituale della Bersagliera, le offre persino il suo orto, perché non vada a rubare i fichi del sindaco. La Bersagliera sposera il maresciallo? No, egli la dara al’casto e timido Stelluti, e sposera la levatrice. E la levatrice é una delle solite levatrici di mala fama? No, essa é gia sulla via della redenzione. Vuol dire che € ormai sfornita di sex appeal? No, e a lodarne le bellezze segrete pensera la serva Caramella, s’intende a fin di — bene, perché gli appetiti del maresciallo siano messi sulla via di un giusto matrimonio. Dunque é Caramella la moralizzatrice? No, é stato S. Antonio a fare il miracolo. E le cinquemila lire che la Bersagliera aveva trovato sul cassettone? No, non era stato S. Antonio a metterle, bensi quel

benefattore del genere umano, il nostro miracoloso maresciallo. Insomma qui il companatico di ogni immagine é la « fantasia », come il volgo chiama l’immaginazione. Grazie ad essa uno puo accontentarsi di mangiare solo pane e accompagnarlo con tutto cid che egli si pud liberamente in260

Sere

ventare. Pit si ha fame, pit fertile sara la « fantasia ». Adesser precisi le locuzioni diffuse tra il popolo (e non gia tra il popolo come lo vedono i cineasti) per esprimere lo stesso fatto suonano

diversamente.

Si dice, per es., che si

mangia « pane e coltello ». Ma la frase sarebbe parsa forse troppo sovversiva in un paese, dove al massimo si minaccia la levatrice, se essa non interviene a raccogliere in tempo gli onesti frutti del matrimonio. Qui non sono i carabinieri a sorvegliare la gente, ma é la gente che sorveglia i carabinieri. Come non divertirsi a questo continuo capovolgimento del reale a cui si son tanto divertiti Margadonna e Comencini? Per una « fantasia » che si riduce a pura immaginazione, tutto é disponibile al divertimento. Tutti diventiamo volgo e tutti ci divertiamo a.questo meccanismo, che funziona perfettamente per svuotare nelle risate a catena e a corona l’animo di ogni spettatore. Altra cosa é il comico quando una fantasia di poeta esprime- « le propre de homme », come diceva Rabelais. E quello il comico, nella sua ricchezza e compiutezza, che giunge al dramma se é necessario, senza bisogno di meccanismo esteriore, di mutilazioni e di falsificazioni. E il comico di Aristofane, di Moliére, di Cervantes, di Belli, di Gogol, di Chaplin. Ma la comicita che predomina e piace in Italia é quella nata in Arcadia con Goldoni: nei secoli fedele alla superficialita e all’ipocrisia. Realismo? No! rispondono Margadonna e

|

Comencini strizzando l’occhio a destra: noi vi abbiamo dato una « dignitosa osservazione del reale ». Controrealismo? No! e strizzano l’occhio a sinistra, facendo intendere che le loro intenzioni erano cariche di audacia. Per questo sono riusciti a un capolavoro di ozio giocoso e di furbesco ammiccamento. Hanno idealizzato fino all’assurdo il parroco di campagna, facendo mostra di prenderlo in giro. Hanno dato ad intendere di far la satira del maresciallo dei carabinieri, mentre gli accendevano le luminarie di S. Antonio. Pane, amore e fantasia fu messo in circolazione durante Veta di Pella, eta saturnia della distensione verbale e for-

male, dell’apertura a destra con le gentilezze a sinistra. Nacque cosi questo mitico, pacifico, divertente strapaesello. Un disarmato profeta della piccola borghesia radicale 261

anni fa si lascid andare a una singolare previsione: « Certo la conservazione inintelligente... profittera dei momenti di calma per rivarare il mito della Fedelissima

(a chi?) e

per suggerirci idea di non privarci dell’ausilio dei nostri simpatici marescialli ». Cosi scriveva Guido Dorso nel giornale « L’azione » di Napoli il 13 novembre 1945 studiando in un articolo I] maresciallo dei RR.CC. e proponendo nientemeno l’abolizione del medesimo.® Perché non sei qui con noi, caro Dorso, a misurare |’enormita del tuo donchisciot-

tismo e imparare a godere I’Italia secondo il metodo della « osservazione dignitosa della realta »? Solo un politico della irrealta, come tu eri, poteva scrivere questo ritratto di cui voglio limitarmi a trascrivere qualche passo pil irrealistico: Se il prefetto costituisce

l’architrave

dello Stato

storico,

il

maresciallo dei RR.cc. ne costituisce quello che gli architetti chiamano la voltina. Tutta l’Italia é divisa in una fitta rete di RR.CC.,

comandati

da un

maresciallo

o da un

brigadiere

a

piedi o a cavallo, poco monta. Ed a questo sottufficiale é affidata la vita e l’onore di tutti i cittadini italiani. Non c’é argomento o pratica, non solo politica o amministrativa, ma

di tutta la vita sociale, che non

vada a finire nelle

' mani di questi sottufficiali, che esercitano uno sconfinato potere e, quel che é peggio, senza possibilita di controllo. Se voi dovete concorrere ad un’asta pubblica, se volete partecipare ad un concorso per un pubblico impiego, oppure aspirate ad entrare in una scuola militare per divenire ufficiale, State sicuri che il buon esito della vostra aspirazione dipendera soltanto dal beneplacito del maresciallo o del brigadiere dei RR.CC., i quali, in mille faccende affaccendati, molto probabilmente affideranno l’incarico di assumere le informazioni che vi riguardano, ad un appuntato loro dipendente, mite, per definizione impromovibile. E questi non sapendo come fare, si rivolgera

al vostro vicino

di casa,

o all’abituale

confidente,

si

che voi sarete facilmente alla mercé dei variabili umori di queste persone. E questo abnorme potere che si attenua soltanto nei centri burocratici e nei confronti di personalita troppo . hote per essere esaltate o diminuite a piacere, si estende nella 6 L’articolo @ ristampato Einaudi, 1949, p. 73 sgg.

nel vol. L’occasione

262

storica, Torino,

|

sua massima espansione nei piccoli comuni e nelle campagne: -specialmente nel Mezzogiorno, ove l’unica cura dei sottuffi“ciali dei carabinieri é quella di essere in buoni rapporti con i sindaci e con i deputati in carica che, con il pieno assenso del prefetto, reggono il mestolo della politica.

Per la verita Dorso si riferiva alla « Benemerita » di altri tempi, quando « la stazione: dei RR.CC. aveva un contenuto istituzionale e la sua funzione di garantire la quiete

pubblica ed assicurare il rispetto della legge penale 4 stento

riusciva a mascherare funzioni politiche o istituzionali pit importanti, che si esaurivano nell’oscuro e silenzioso compito di alterare continuamente i dati fondamentali della lotta politica, per assicurare la permanenza al potere di una classe politica ingloriosa e miserabile, abbarbicata alle colonne di uno Stato moderno nell’aspetto, ma feudale nell'intima sua essenza ». Adesso un maresciallo dei carabinieri non é pit « reale » nel ‘senso politico della parola, é reale grazie all’alta « fantasia » di Margadonna e Comencini i quali ispirati (anche a loro insaputa) dal « Corpus Christi Mysticum » lo hanno tramutato in un subordinato del parroco, in bonario assistente della levatrice e in benefico vicario di §. Antonio. Il maresciallo Cau e quello che mando in galera Rocco Scotellaro hanno un rapporto puramente casuale con la realta. Puramente casuale e immaginario, il maresciallo di Mussomeli.

Puramente

casuale cid

che ha narrato il « Paese » del 1° novembre 1953 e che si finge capitato in Manduria, immaginario paese della provincia di Lecce la mattina del 2 ottobre. Un fatto che io non vi racconterei secondo quel giornale, ma nella versione accertata dal prof. Gaetano Salvemini, se questo scritto non fosse gia troppo lungo. In sostanza il Salvemini ci racconta che un Cosimo Mancuso trentottenne, avendo scarsa « fan-

_

tasia » da mettere in mezzo al pane si provd a rubare un po’ di panni stesi ad asciugare e il giorno dopo il suo arresto trovo la morte in caserma. I Salvemini ci erudisce anche di altri fatti immaginari che riguardano la questura di Campobasso e un maresciallo di Gioiosa Marina (splendido nome per un idillico film realista!) : Il 17 luglio 1953

l’Anziano

263

della Comunita

pentecostale

di Gioiosa Marina (Reggio Calabria) sali a Gioiosa Superiore per celebrare una funzione religiosa del suo culto in una casa privata. Dopo la funzione venne fermato da alcuni carabinieri e, unitamente a quattro membri della Comunita condotto in caserma.

Qui il maresciallo lo minaccié di denuncia all’autorita giudiziaria e di invio al confino. Il 9 agosto successivo mentre nella stessa casa privata di Gioiosa Superiore si teneva il culto della detta Comunita, i carabinieri irruppero e condussero in caserma l’Anziano e i due membri della Comunita. Il maresciallo apostrofé l’Anziano con la frase di « traditore d'Italia » e rivolse al padron di casa gli epiteti di «ladro» e « assassino », con minaccia di « far spendere loro molto dena-

ro per gli avvocati ». Tutto cid in presenza di testi. L’Anziano inoltro denuncia al Procuratore della Repubblica. Ma finora le autorita competenti hanno dormito il sonno del giusto. Forse quell’Anziano puod ringraziare il cielo per non aver ancora fatto la fine di Cosimo Mancuso. Non si manca di rispetto, cioé non si commette un reato di vilipendio alle Forze dello Stato (con I’S maiuscola), se si sospetta che neanche quel maresciallo dei carabinieri si interessa personalmente di culti pentecostali. Se si prese quella gatta da pelare, avendo tanti altri affari sulle braccia e tanto bisogno di riposo, lo fece perché doveva obbedire a ordini superiori. Campobasso, come Gioiosa Superiore, sono nel paese degli Zulii come Manduria. Percid spero che essendo io Zult sard scusato se mi occupo di queste faccenduole in una rivista che si pubblica nel paese delle razze superiori. Amerei che qualche nordico tenesse presente che nel paese dei sudici ci vuole molto coraggio per protestare come fece quel protestante e per domandare che si venga a sapere come un uomo, entrato vivo in una caserma dei carabinieri, ne sia uscito morto. Un carabiniere 6 un’autorita che non si discute. Se non gli obbedite, non _avete

la certezza

di morire

in guardina di morte

ignota, ma

potete essere mandato al confino, perché il confino. fascista é sempre li; sebbene sia stato abolito per i criminali politici (ma chi oserebbe,in regime di Pio xu,.affermare che un protestante non é un criminale comune’). E poi un carabiniere denunciandovi per un qualunque reato cervellotico, vi obbliga a perdere giornate di lavoro per andare al capoluogo per rispondere alla citazione, e poi andare al processo e poi andare in appello: insomma vi puo rovinare a «spendere molto denaro per gli avvocati», come diceva il maresciallo di Gioiosa Superiore. Quello che pit ripugna in casi di questo genere, non é l’ingiustizia: @ la vigliaccheria che

264

si nasconde dietro alla ingiustizia: la vigliaccheria del prete che tira i fili di quel povero maresciallo-marionetta, che avrebbe modo di passare il tempo in imprese meno noiose ».

Guido Dorso € morto e quindi pud essere scusato se non ha visto il film e non si é iniziato al metodo della « osservazione dignitosa della realta ». Ma il prof. Salvemini, che pure é stato in America e sa come li si trattano i negri, perché osa presentare I’Italia come « un paese degli Zulu »? Se avesse visto Pane, amore e fantasia, acquisterebbe qualche soldo di speranza nella democrazia occidentale e nella civilta cristiana. E forse, farebbe a meno di riconoscere con

una prudenza degna di cittadino americano che « qualche deputato di E.S. » (vorra dire proprio Estrema Sinistra?) si occupa delle violazioni della liberta in Italia. Farebbe a meno di ammettere che i-comunisti e i paracomunisti dicono persino la verita. Farebbe a meno di pretendere che certi suoi amici « laici » smettano di chiamarsi tali e si tolgano « la sottana invisibile » che hanno intorno al cervello. Noi ci auguriamo che Pane, amore

e fantasia, dato

il carattere altamente benemerito e educativo della sua comicita, sia proiettato nei seminari e nelle caserme dei carabinieri. Verra il tempo che tutti i marescialli saranno molto, ma molto pitt simpatici di Carotenuto-De Sica e i parroci molto, ma molto pit tolleranti e spregiudicati di Don Emidio-Riento. O dobbiamo proprio perdere la fede nella democrazia

occidentale,

nella civilta cristiana

e nell’arte

« realistica » che cosi « dignitosamente » esprime l’una e Paltra? 1954

7 G. Salvemini, Frammenti ciale » del 5 marzo 1954,

della vita italiana, in « Critica so-

265

1

Parliamo

di Bertoldo

Ogni volta che in Italia la cultura é chiamata a prender partito, ad assumersi le proprie responsabilita civili, tornano di moda i sospetti che aduggiaronc zlintellettuali dalla Controriforma alla Santa Alleanza e al fascismo. Ogni tema puo dar luogo a discorsi pericolosi, che possono compromettere l’imparzialita e l’obiettivita. E allora le penne temperate ¢ le bocche di velluto sono le sole che sappiano ammannire quel che occorre alla bisogna. O si dovrebbe ricorrere a un discorso come quello messo in versi da Gioacchino Belli, fatto di « gia », « € vero », di allusioni al tempo atmosferico, al freddo e al caldo o che so io. Ma poiché io non sono Gioacchino Belli e i nostri tempi sono forse un poco diversi dai suoi, parlerd stasera ! di un libro semplice e innocente che, pur nel suo modesto valore letterario, ha avuto una grande influenza nella cultura del nostro paese. Parlero

di Bertoldo,

il racconto

del famoso

contadino

immortalato da Giulio Cesare Croce. Una figura largamente popolare presso i lettori di ogni classe. Un libro pacioso e sornione, che fu caro a Lorenzo Stecchetti

e ad Antonio

Baldini. Un libro veramente conciliante se é piaciuto a un poeta scandaloso e, per i suoi tempi, rivoluzionario, e a uno scrittore del Novecento

cosi osservante,

e€ cosi Servi-

zievole. Come é accaduto anche per certi capolavori, la materia del Bertoldo non fu inventata da Giulio Cesare Croce. A questo racconto preesisteva infatti un dialogo che risaliva al Medio Evo e che fu volgarizzato col titolo di Salomone 1 Si trattava di una conversazione alla Radio, alla vigilia del 18 aprile 1948. Tutti i temi vennero rifiutati: e nemmeno di Bertoldo mi fu consentito parlare. Si annunciava il regime democratico- cristiano.

269

©

e Marcolfo. Un dialogo che la Chiesa proibi e considerd sowversivo, perché effettivamente il contadino Marcolfo parlando a nome dei servi della gleba faceva fare una magra figura al sapientissimo re della Bibbia. Giulio Cesare Croce perd aggiustd cosi bene le cose che il suo libro soppianto quello pit. vecchio, scritto da qualche ignoto « chierico traditore » che per carita di patria i cronisti del tempo decisero di condannare all’oblio. Anzi, il nuovo libro divenne

pit che permesso, consigliato. E la sapienza bertoldesca si trasmise di generazione*in generazione, come una specie di Bibbia strapaesana, sollazzevole e prudenziale, che gli italiani hanno mostrato di preferire all’altra Bibbia cosi cara ai protestanti. Ma chi era mai questo Croce che dobbiamo sempre ricordare col suo imperial nome di Giulio Cesare per distinguerlo dall’omonimo filosofo liberale? Era un maniscalco di un paesello dell’Emilia, uomo di poche lettere ma di molto talento naturale. Recatosi da giovane a Bologna non tardo a far fortuna come menestrello popolare. Fu un po’ il padre di quel gusto conservatosi ancora nel Barbanera; cosi come il suo capolavoro, il Bertoldo, cui segui il fanta-

sioso Bertoldino, inaugurd la prosa strapaesana che nei periodi oscuri della nostra storia ha oziosamente abbondato: durante il fascismo, come ai tempi della Controriforma, che furono appunto i tempi del Croce Giulio Cesare, vissuto dal 1550 al 1606. Il libro di Bertoldo si presenta come un libro di « grato e dolce intrattenimento », pieno di sottilissime astuzie attraverso cui questo villano di accorto e sagace ingegno fa una carriera formidabile e diventa uomo di corte e regio con-sigliero. Ma (e non é l’ultima sorpresa di questo libro tutto a indovinelli, ghiribizzi e trovate) Bertoldo ha successo perché é anticortigiano per eccellenza e resta sempre coerente al suo stile villano e al suo umore stravagante; e tale si rivela fin dal suo primo apparire presso la corte di Alboino, il re barbaro che ha conquistato I’Italia e che tuttavia benignamente si diletta alle facezie di questo suo suddito cosi fedele e affezionato. In fondo, nonostante le apparenze cosi spavalde, re Alboino gli lascia intatte le illusioni e le pretese egalitarie, e l’ostentazione

della sua naturale

270

intelligenza.

Perché mai? Perché sulle cose che veramente importano Bertoldo ha le opinioni che un re illuminato e amante del quieto vivere é ben felice di sentir manifeste dalla bocca storta e cavallina di un villano. Quanta pieta, quanta commiserazione per questo povero governante coi suoi guai, con gl’intrighi della corte, coi capricci della regina, e le donne del regno che protestano, e chi la yuol cotta e chi la vuol cruda!

Bertoldo

invece,

che non possiede nulla se non un suo ingegno naturale, co- ° me se la cava bene in tutte le difficolta, com’é libero e disinvolto, com’é pit: re del suo re! Alboino vorrebbe associarselo al trono. Ma Bertoldo, furbo, gli risponde che «non possono capire quattro natiche in uno stesso seggio ». « Né amore né signoria vuol compagnia », gli risponde. « Pero governa tu >. L’oracolo manuale di una certa saggezza che pare vada scomparendo dalla faccia della terra e dal cervello dei contadini, ispira sempre le parole gravi di Bertoldo quando non si affida al suo umore. « Non contrastare coll’uomo potente, e sta discosto dall’acqua corrente ». Ecco uno dei tanti proverbi della morale del quieto vivere che poi don Abbondio e tutti gli italiani della decadenza hanno prudentemente adottato ogni volta che le acque si sono non diciamo mosse, ma appena increspate. Come un re accorto potrebbe mai fare a meno di un suddito che rafforza tanto il suo prestigio, e gli conserva cosi bene il potere e il trono? Gli ordina dunque di restare alla sua corte. E il povero Bertoldo, non potendo fare a meno di obbedire, ricusando ogni ricchezza e ogni beneficio, gli fa da primo ministro e rinuncia alla cosa pili diletta della sua vita, ai cibi sani e modesti della sua parca mensa: che suddito modello! Aveva proprio ragione l’autore quando paragonando la sua bruttezza fisica con le sue qualita morali lo definiva « un sacco di grossa tela foderato dentro di seta e d’oro ». Qualita e ricchezze, a scanso di equivoci, tutte squisitamente spirituali.

Mori dunque Bertoldo per amor del suo re: mori con aspri duoli,

per non poter mangiar rape e fagiuoli.

271

Il re gli fece fare un bel monumento con questo epitaftio che era tutta una lezione ammonitrice per quei sudditi i quali, non avendo nemmeno Vingegno di Bertoldo, avrebbero fatto la loro felicita a godersi le rape, i fagiuoli e magari la compagnia di qualche provvido pidocchio, per esercitar la pazienza, ed altre virtt che santificano i poveri. Non

le aveva

dette queste

cose,

Bertoldino,

di « non

impicciarsi con gente di pit da sé », di « mangiare quando se ne ha e di lavorare quando si puo » e « soprattutto di contentarsi.del suo stato e di non bramare di pit? » « Chi vincera il suo appetito, sara un gran capitano ». « Chi pone la sua speranza in terra si discosta dal Cielo ». Per pit di due secoli la saggezza di Bertoldo fu la saggezza popolare italiana. Ma dopo la Rivoluzione francese si senti il bisogno di consolidare il suo primato sapienziale fortemente scgsso. E non per nulla il pit acclamato pubblicista della reazione italiana, il conte Monaldo Leopardi, ricorse allo stile e allo spirito di questa Bibbia del paternalismo per combattere scienza e liberta, cultura e democrazia. Ma il mondo ando avanti lo stesso, e benché Bertoldo

sia stato ristampato durante il fascismo in edizione di gran lusso, non é pit: lo strumento ingenuo di quella che Gramsci avrebbe chiamato egemonia conservatrice. Il nostro piccolo classico dell’umorismo destera tuttora comprensibili nostalgie per il regno del buon Alboino, ma la saggezza di Bertoldo oggi, per la grande maggioranza del popolo italiano, é una patacca fuori corso e senza valore. cen 1948

272

2

Misasi e il ritratto di un brigante

Avete mai giocato, da ragazzi, a briganti e carabinieri? Vorrei avere il gusto avventuroso di Calvino, o il mémore sentimento di Pratolini, per dirvi come, nel povero borgo d’una citta meridionale, quel gioco ci sembrasse il pit: bello del mondo. Le sere d’estate, quando l’ultimo treno aveva scaricato quei venti o trenta viaggiatori, e l’autobus se li era portati in citta, restavamo padroni della piazza e della stazione. Figli di ferrovieri, di osti, di carrettieri, di bottegai, ci radunavamo come una nuvola di moscerini al chiarore del fanale. E se ci ricordavamo

quella sera ci rallegrava minava il capo-brigante, compagni pit in gamba, meta non restava che far

di quel gioco,

come nessun’altra. A sorte si noche aveva il diritto di scegliersi i fra una meta dei ragazzi. All’altra da carabinieri, e rifarsi della mala-

sorte con una caccia accanita. Caverne

e caserme,

imbo-'

scate e retate, sparatorie e interrogatori: credevamo d’inventarci tutte queste cose, ma forse non facevamo che ricordarci e rivivere con ingenuo piacere l’epica popolare dei nostri paesi, dei nostri contadini. E forse sara anche per questi ricordi d’infanzia, ma le storie dei briganti le leggo sempre con ardente curiosita. E non mi ha affatto deluso la vita di Giosafatte Tallarico che Francesco Spezzano ha ristampato nell’Universale Economica, traendola dalle Cronache del brigantaggio di Nicola Misasi. E un bellissimo libretto, che si legge volentieri e che

varra anche a commemorare degnamente uno scrittore popolare oggi quasi dimenticato. Nicola Misasi nacque giusto -cent’anni fa a Cosenza e vi mori nel 1923, dopo aver dedicato tutta la vita a una copiosa produzione narrativa e all’insegnamento nel liceo della sua citta. A dargli una certa rinomanza fu il suo secondo libro di racconti calabresi, In

Magna Sila (1883), che fu pubblicato dall’editore pit .in 273

voga in quel tempo, Angelo Sommaruga: l’editore che aveva « lanciato » D’Annunzio. Questi racconti, d’intonazione

verista, son considerati gli scritti migliori del Misasi. E da un punto di vista formale, letterario, egli non riusci mai-a superarle. In effetti, il merito era soprattutto del grande modello a cui si era ispirato, con l’ottimistica baldanza dei suoi vent’anni: i grandi racconti di Verga. Poi l’inclinazione al truculento, al romanzesco pit. banalmente convenzionale.lo portarono a stereotiparsi, a ripetere situazioni e intrecci di maniera. E decadde nel romanzo d’appendice: inevitabile involuzione di uno scrittore non dotato di un contenuto poetico originale. Intendiamoci: anche per raggiungere fini pil modesti, com’é quello d’intrattenere un pubblico popolare, ci vogliono certe qualita essenziali di narratore, una buona fede e una modestia autentiche. Senza di che, si pud anche giungere al successo, ma allora il merito consiste in una frode intellettuale, pid o meno riuscita a seconda dei complici che questi artisti disonesti riescono a trovare, per consolidare le loro posizioni ufficiali. Quando i complici (tra cui son da mettere i critici) sono poco autorevoli, dopo un po’ di chiasso non resta pit nulla nella storia dei fatti artistici. Resta tutt’al pit nel mondo morale e politico la traccia pitt o meno profonda della cattiva azione commessa; e se questi artisti disonesti hanno preso a loro argomento (senza riuscire a farlo diventare il loro contenuto poetico) la vita del popolo, la cattiva azione resta purtroppo interamente ai danni degl’ingenui truffati. Ma torniamo al Misasi che era un artista onesto. Come ricorda Spezzano nella sua utile prefazione, Misasi prediligeva in modo particolare la sua produzione « brigantesca » € giustamente la considerava « la pit viva, la pit originale, la pit. duratura ». Infatti meno ambizione aveva di romanzar la materia, di variare con intrighi la nuda cronaca,

e

pit riusciva a ritrarre, sia pur con sommaria semplicita, quel mondo di passioni elementari, quella rozza ma potente aspirazione alla giustizia che covava nell’animo di questi « eroi del bosco ». Tale & per esempio la vita di Giosafatte Tallarico, divenuta leggendaria nella tradizione locale, che ricorda di-lui solo « le buone azioni, e gli atti di generosita, 274

di carita, e diciamo pure di cavalleria ». Misasi non nasconde la sua simpatia e si compiace di mettere in evidenza che i cosi detti galantuomini dei paeselli calabresi « se del brigante non menavano la vita randagia, se non rubavano, non sequestravano le persone, non imponevano taglie, i costumi non ne erano meno feroci né gli animi meno proclivi ai fatti di sangue. La giustizia in quei tempi era un nome vano e la legge una parola che aveva significato soltanto pei deboli. Ben é vero che i deboli alla loro volta divenivano forti quando stanchi dei soprusi e delle angarie, si davano alla campagna ». In queste parole c’é l’estrema risonanza della tradizione romantica meridionale. Misasi non é tanto « il primo romanziere Calabrese », quanto l’epigono di una letteratura populista, il cui rappresentante pil significativo fu Vincenzo Padula. Nel dramma di Padula, Antonello capo-brigante, la realta sociale da cui si sprigiona l’anarchia sel-

vaggia del brigante ha un risalto polemico ben pit profondo che nel Misasi. Tuttavia il romanziere aveva un’esperienza letteraria meno rozza (il Corricolo e le altre opere anedottiche di Dumas gli insegnarono molto). E se non puoi trovarci una di quelle pagine d’arte che ti persuadono il cuore e la fantasia, sempre il cronista avvince, come

si

dice, la tua immaginazione. Se volete un grande racconto di briganti che sia opera di poesia dovete leggere Pusckin, La figlia del capitano. Ma Pusckin, oltre ad essere un genio

poetico, che aveva assorbito e criticamente digerito il byronismo (come non avevano potuto fare i poveri romantici provinciali del nostro Mezzogiorno), Pusckin s’era messo a studiare la storia del suo paese e, imbattutosi in un episodio come la rivolta di Pugaciov, ne aveva approfondito tutto il significato di una grande lotta per la liberta. Qualcuno dei letterati calabresi, Biagio Miraglia, pur avendo sfiorato argomenti di straordinario interesse (come l’episodio di Marco Berardi, il cinquecentesco re della Sila), riusci a cavarne solo una novellina di maniera. Il Misasi, quando volle tentare nei suoi romanzi storici una specie di epopea nazionale-popolare, che aveva come inizio il brigantaggio antifrancese del 1806, s’impantand ~

nella superficie dei fatti e credette di salvarsi con le frasche 275

retoriche. Io ho affrontato la lettura dell’Assedio di Amantea: non sono arrivato neppure a meta. Gli altri romanzi non li ho nemmeno cercati. Mi piace tanto conservarmi un buon ricordo dell’autore e del suo Giosafatte Tallarico « dalla barba rossa come una spiga di granone >». 1950

276

3

I racconti del Nieri

Quali interessi sollecitassero il Nieri a mettere insieme una raccoltina di racconti lucchesi, puO desumersi da una prefazione dov’egli si diceva lieto che il suo libretto fosse giunto alla terza edizione (1915) e che molti insegnanti (tra i quali autorevolissimo

il Pascoli) ne avessero

scelto

pagine per le loro antologie « come saggio di toscano vivo e parlato ». Ricordate la novellina di Marzo e il pastore? E tra quelle che una volta lette da ragazzi non si dimenticano piu. Un realistico, sapido colorito riesce a fare di Marzo ‘un personaggio vivo, in gara dispettosa col suo antagonista. Infatti il gusto del Nieri inclinava poco al fiabesco, e le novelle di meraviglie (come lui le chiamava) son rarissime nel suo libro; in gran parte si tratta di storielline tradizionali a illustrazione di proverbi e motti, e aneddoti paesani, che il Nieri chiama « veritelle » perché riferentisi a fatti accaduti, nel suo Ponte a Moriano, in quel di Lucca, dove egli nacque, visse e mori (1850-1923), salvo brevi soggiorni nel capoluogo, dove insegnava lettere classiche. La cosa di cui il Nieri sembrava pit: orgoglioso era che nel suo libretto non ci fosse parola «non forma non frase con costruzione non modo proverbiale né proverbio che non fosse usato dal popolo »; popolo autentico, insisteva, specialmente contadini « che ormai sono tra i pochi rimasti a parlare un briciolo d’italiano che garbi assai ». Infatti i buoni manzoniani, avendo scoperto che il fiorentino s’era venuto sempre pill corrompendo, si rifugiarono in contado dove secondo loro rimaneva ancora « il meglio della buona lingua ». In campagna poi questi ben pensanti avevano il vantaggio di trovare quel che il Pancrazi (nuovo editore dei racconti) chiama « la giusta arguzia, la saggezza e la sopporta-

zione », aggiungendo che per quanto riguarda il Nieri egli 2i7

avrebbe ritrovato la sua « saporita medianita » (o giusto mezzo, come si usava dire una volta con minore eleganza di Pancrazi) in qualsiasi posto del mondo. Sfido, io! Certuni caratterizzano il popolo a loro immagine e somiglianza, perché la « medianita » hanno cucita sulla pelle. Ai tempi del Nieri la coprivano dignitosamente col battilacche (napoletano: sciammeéreca), cioé con l’abito a falde che serviva

al borghese per distinguere i ranghi e mantenere le distanze, anche quando si compiaceva di cogliere fior di lingua in bocca ai villani. Il Nieri infatti,

a scanso di equivoci, dopo

aver difeso il suo diritto a scegliersi « tutti soggetti umili e bassi », ci teneva a chiarire il genere della sua letteratura: Esiste bensi anche una letteratura, dird cosi, proletaria pit che popolare; ma questa suole essere tanto lontana dal vero, e quasi sempre tanto falsa nella forma, perché muove da animo troppo spesso non sereno, ma bellicoso, appassionato e parziale che a me “non pare opera d’arte, o almeno non la tengo in conto di tale.

Ci siamo capiti. E sara forse inutile aggiungere la testimonianza di un suo scolaro, Manara Valgimigli, il quale ce lo ha ritratto con icastica rapidita: « Volto magro, ossuto, duro, con un che di asprigno sotto la fronte e quasi dispettoso. «lo sono un purista in lingua e in politica un tiranno >, diceva di sé. Proprio cosi:

codino e forcaiolo, come

allora si diceva: il tipo del lucchese medio dell’Ottocento ». Ne abbiamo conosciuti di peggiori, nel Novecento; e non potrei dire che l’innocuo Nieri ci riesca proprio antipatico. Che avesse animo retrivo, come quasi tutti i nostri studiosi e amatori di letteratura popolare, ci sorprende poco. Sorprende che la sua aridita, quel suo rassegnato scetticismo,

che s’infoca d’amarezza pessimista, talvolta si sciolga in uno di quei raccontini pietosi che tanto piacevano al Pascoli (sia pure con qualche esagerazione di entusiasmo) e che fan pensare a certi sonetti del Belli, raramente affettuosi e inteneriti in mezzo alla consueta crudezza del suo stile. Allora, il Nieri dimentica la saggezza tradizionale, che miseria e poesia sono sorelle, che miseria e religione vanno benissimo d’accordo, che, si sa, chi il crocino, chi la croce

278

e chi il crocione, e che anzi « chi ha la camicia non pud esser felice ». E allora ti racconta ad esempio, perché Rosina smise di dire il rosario, e vien fuori uno squallido interno dove la miseria é tale, che non si ha pit nemmeno la forza di piangere: Una sera m’era buttata inginocchione la in un canto e avevo principiato un po’ di rosario: eccoti subito que’ ragazzetti tutti d’intorno:

« Che mangiate, mamma?

ma?

un po’ anco a noi».

Datecene

cicassi qualcosa,

poverini!...

Che mangiate, mam-

Si credevano

Mi convenne

smettere

che ciandi dire il

rosario per non vederli patire!

Pit frequenti'delle figure nei racconti di Nieri sono le macchiette, moderno equivalente dei caratteri di Teofrasto da lui tradotti, e le beffe e le facezie che nello spirito popolare continuavano una antica tradizione la quale aveva fruttificato abbondantemente (dal Novellino al Sacchetti in git). Il professore che aveva cominciato la sua carriera con una contraffazione letteraria fatta di parole registrate

nella Crusca e di purissima marca trecentesca, nei racconti sfoggia per suo diletto tutte le voci del vocabolario lucchese

da lui amorevolmente compilato. Di Lucca finiamo cosi per sentire pit spesso la muffa dell’Accademia degli Oscuri, che Varia frizzante della campagna. Ogni tanto il libro ti casca di mano, fra tanto tritume e polvere d’una civilta letteraria rinsecchita: quelle parolette rare, quelle elisioni e aspirazioni, quei troncamenti e diminutivi, che, Dio bonino!

bacano tutte le forme e le consumano a forza di rifinitura dottamente artigiana, un bel momento ti stuccano. Ma tra quella cantilenina, tra quella andaturina di voce, a volte un motto fa balenare la macchia d’una immagine dove rivive tutto il succo e l’umore di « certe cosette buffe che non si scordano tanto a-fretta in un paese ». E segnatamente Vaneddotica anticlericale (sempre cautelata da un sorriso di moderazione) rievoca saporite battute di piccoli pievani arlotti, episodi di pretonzoli e romiti ora beffatori e ora beffati in un’agrodolce commediola. IE questo l’aspetto meno noto dei racconti di Nieri, che pur nella sfera della loro « domesticita » (insomma, pro-

279

vincia di provincia) si meritano pit lettori di quanti finora

non abbiano avuti. Saranno lieti di far la conoscenza almeno con quel don Tognon, che rendendo conto al Padreterno delle anime avute in cura nella sua parrocchia garfagnina, rispose secco, da quel montanaro che era: « Signore, baron fotii me lave’ da’, baron fotii ve li rendo! » O di

quel predicatore, davvero un tipone, che avendo fatto disperatamente piangere il suo ingenuo uditorio con un racconto realistico della Crocifissione, soggiunse per consolarli: « Smettete, via, tranquillizzatevi. Tutte queste cose io le ho dette perché c’incastravano bene, e perché le ho trovate nei libri. Ma sono storie antiche che si leggono nei libri vecchi, ma é tanto tempo che sono accadute, chi lo sa poi se sono neanche vere! » 1950

280

4 Il professor d’ironia Alfredo Panzini

Mentre si va commemorando il Panzini nel decennale della morte, ecco venir fuori quattro Pagine dei quaderni di Gramsci dove si incide il rugoso e insieme infantile volto reazionario di questo professor d’umorismo: « nipotino di padre Bresciani » (v. « Rinascita» aprile 1949). Il giudizio di Gramsci riguarda soprattutto il Panzini biografo di Cavour, ma illumina di passata anche la sua letteratura, la miserrima qualita del suo atteggiamento sentimentale: « Il Panzini insomma piange perché si fa pena.

Piange di sé e della morte e non per gli altri ». E un’osservazione acuta che in nessun critico del Panzini ho ritrovato, nemmeno nel Serra, il quale, nonostante l’affetto per il suo autore, é cosi ricco di giudizi negativi. Quante cose gli riusci a vedere agli inizi della carriera letteraria di Panzini: i limiti e i pericoli della sua maniera, l’intelligenza mediocre, « la letteratura buona ma non squisita », l’osservazione e la rappresentazione « nitida ma non potente », l’arguzia

« spontanea ma un poco scarsa », e persino l’incapacita radicale a trattare di cose storiche. Ma Renato Serra, se era

per cultura e per altezza d’ingegno non provinciale, partecipava degli stessi limiti di classe del Panzini e ne condivi-

deva certo dilettantismo e la morbosa inclinazione crepuscolare, e quel concettd un po’ retorico e formale del classicismo che era il retaggio comune della scuola carducciana. Non aveva il distacco di una moralita nuova, di una nuova

concezione della vita, per rifiutare in partenza questo intenerimento su se stesso che del resto era la fioca vena poetica di Panzini; specie nelle pagine pit antiche dove «lo scudiero dei classici » aveva una certa grazia nativa e le stesse goffaggini erano sincere, non divenute ancora stucchevoli e calcolate piroette. C’erano nel primo Panzini certe situazioni liriche, di una piccola anima di poeta che coscien281

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te dei propri limiti e pavida di spiccare il volo si era rassegnata alla prosa (una prosa, checché

sia stato detto, pil

vicina a quella del Pascoli che non a quella di Carducci; o semmai

ai toni minori carducciani, magari di certe lettere

o di certi passi autobiografici). Una prosa che ogni tanto latineggiava non senza spocchia di ludimagistro, con l’aria di dire:

Non

é@ vero

che ho preso

anch’io

la mia

cotta

per Arrigo Heine e l’ho scoperto con cinquant’anni di ritardo: lasciamogli volentieri gli umori progressisti 1830. Se mai il mio maestro é Orazio. Satyra tota nostra est. Pero si dovrebbe andare adagio a collocarlo senz’altro tra i « classici ». E m’é dispiaciuto tanto, caro Pancrazi, che anche-tu, sempre cosi misurato, ti sia lasciato andare a una

definizione cosi imprudente. Ad apertura di libro, anche negli scritti pit. celebri, eccola questa prosetta grinzosa e imbellettata che ci viene incontro dameggiando e sninfeggiando, con falsi rossori e languori, lusinghevole, vanesia, ora interrogativa, ora sospensiva, pill spesso esclamativa e pettoruta della pil banale sapienza con cento vezzi e sgarbi improvvisi; ma ammirando un paesaggio o facendo I’occhietto, misurando le cose dall’alto in basso o nell’atto di

compatirsi, trova sempre il modo di persuadere il lettore su almeno uno di questi tre punti: 1) Lagrimate con l’autore sui suoi patemi: perd, dite la verita, che stilista! 2) Un pizzico di latino vale pit di tutta l’arte e la scienza moderna messa insieme. Nihil sub sole novum. 3) I filosofi da Socrate a Marx

a Croce farebbero ridere, se non facessero

tanta pena. Solo il buon Dio, anche perché ha creato quellessere appetibile che é la Donna e l’ingegnoso prof. Panzini, solo il buon Dio in fondo é un rispettabile personaggio che un umorista clericale non si azzarda mai di prendere in giro. Nella ricetta di Panzini questi tre ingredienti sono rituali e costituiscono quello che Gramsci chiamava esattamente il « gesuitismo » o il « brescianismo » di Panzini. Lo possiamo riscontrare con una costanza impressionante dalle opere prime a quelle della vecchiaia. Dopo di che é chiarissimo che egli dovesse simpatizzare pit con Monaldo Leopardi che con Cavour (dei quali ha scritto biografie parimenti mediocri e male informate), e che credesse, come é 282

noto, Giovanni Verga una nullita, rispetto al padre Bresciani « potente narratore >». Dal Libro dei Morti alla Lanterna di Diogene ai Giorni

del Sole e del Grano, Vodio per le masse, la paura ela repulsione pid che estetica per gli operai in sciopero e i contadini affamati di terra gli traboccavano dal cuore profondo, benché il nostro povero letterato amasse professarsi « puro » e « apolitico ». E volete conoscere l’ora eletta in cui egli sentiva la sua solitaria vocazione alla poesia? « La domenica, ad ora ben tarda cessano i canti [dei lavoratori] con sollievo delle Muse, ed i grilli riprendono l’impero della notte serena ». Con rara delicatezza s’inteneriva, lui, per i

nobili pini abbattuti, per il falco prigioniero, per il cuoricino del passerotto, per le ostriche e per i grilli; ma gli uomini che lavorano, puah! E infatti nel Dizionario moderno si pigliera la briga di registrare una parola tutt’altro che nuova e moderna, al solo scopo di buffoneggiare in siffatti termini: « calli (o callosita alle mani) costituiscono per il proletariato l’emblema della sua nobilta, il documento del

suo diritto alla Dittatura ». Da questo fiorellino immaginate quale profumo spanda il dizionario panziniano. Il quale seppure tutte le altre opere (ben facile profezia) saranno seppellite nel dimenticatoio, restera un documento di primo ordine per la storia intellettuale delle cosiddette « persone colte » nell’Italia novecentesca. - Le opere di Panzini vanno tramontando a poco a poco. Santippe parve giustamente insopportabile al De Robertis quando si provo a rileggerla, a tanti anni di distanza. J] Bacio di Lesbia oggi ci appare gia come uno dei tanti travestimenti dei quali si compiace la fantasia accidiosa dell’autore, con quel suo gusto, accentuatosi nella vecchiaia, di pomicione timorato, amante del buon costume e della pruriginosa licenza. Forse le Fiabe della Virtu con la loro non dissimulata unzione cattolica rendono appieno, intimamente, ’immagine vera dello scrittore (Emilio Cecchi non si era ingannato). Ma io credo che solo il Dizionario Moderno meriti di restare come un autentico tesoretto nel quale si contiene « tutto quello che sapeva » l’italiano medio nella prima meta del secolo xx. Dal 1905 ha avuto una diecina di edizioni ed é stato uno dei libri pit diffusi fra i nostri ini

283

tellettuali. Andate a consultarlo con una certa metodicita e vi accorgerete che tutti i luoghi comuni dell’antiliberalismo — e dell’antisocialismo sono altrettanto frequenti in ogni pagina come la terminologia oscena, e i neologismi fascisti, di cui Mussolini pare che fosse particolarmente orgoglioso inventore, una volta che si compiacque di citare quest’opera che li aveva registratt con alto scrupolo accademico. Provincialismo

e sciovinismo

culturale,

sensualita

mal —

repressa, pedanteria puristica, timor panico delle idee, dallestetica di Croce alla politica di Lenin, fanno di quest’opera panziniana veramente un classico della cultura reazionaria che con tanto lievito di spiritosaggini ha conformato milioni di cervelli della piccgla borghesia italiana. Da questo punto di vista il Panzini é certo da prendere sul serio. Molto pil sul serio, che non le secrezioni-sentimentali di cui la sua prosa inargentO pagine e pagine: contenta ai comodi — che Dio le fece, chioccioletta davvero esemplare dell’uma- — nesimo strapaesano. : 1949

284

5

Un amicizia difficile di Bigiaretti

Nel suo primo romanzo, Esterina (pubblicato nel 1942),

Bigiaretti, come gli altri « memorialisti » coetanei, dové cominciare a sliricarsi: e fu un tentativo che resto imperfetto. Al giovane narratore, per guarire dal narcisismo non basta tirare un sasso pil o meno grosso nell’acqua ferma dove suole vagheggiarsi: bisogna che cambi acque, e se ne vada in riva a un fiume, dove non ci sia specchio, ma l’attenzione sia rapita e disciolta dal moto, da un ritmo. fecondo. In Esterina la vicenda di un amore sfiorito in un matrimonio infelice era fiaccata da un autobiografismo predominante, che faceva tornare continuamente il racconto alVimmobilita delle confessioni. L’autore vi risultava pit e meno che protagonista. I personaggi stentavano a entrare in rapporto fra loro, e a prender corpo: figure schizzate in un

diario; anche quella del padre, che per la vitalita del temperamento, per il gusto d’avventura e dissipazione, pungeva il tranquillo diarista a un singolare interesse psicologico. Ma proprio 1a dove Bigiaretti non era riuscito a raccontare, si facevano evidenti i temi del suo moralismo, di una sua poetica semplice e sommessa: certi amori che non arrivano mai alla crudelta e alla prepotenza della passione (« sembrava che a noi convenisse, senza che noi lo volessimo, una tenerezza che trovava sostegno nella malinconia ») e soprattutto negli arrendevoli intrecci di questi amori adolescenti con le amicizie: « mi pare che neppure l’amore uguagli la consolazione dell’amicizia. E forse perché nell’amore una parte di me — come avviene a tutti credo — é rimasta estranea: é rimasto sacrificato il vivificante piacere di sen-

tire il giuoco dell’intelligenza oltreché del sentimento: sentire nei colloqui mai interrotti con l’amico pit caro il calore di una confidenza che nessuna donna é stata mai capace di

ispirarmi... lo ho per lunghi anni consacrato all’amicizia le 285

mie ore pill belle; per non perdere un amico ho talvolta mostrato curiosita che in realta non possedevo; mi sono anche lasciato andare verso un modo di vivere che era la condanna delle fantasie pit care ». Un’amicizia difficile (pubblicata da De Luigi nel 1945, ma composta poco dopo Esterina), € sulla linea di questa poetica; ma il progresso che in essa pud notarsi immediatamente non é altro che un commiato da quelle esperienze psicologiche le quali si effondevano li astrattamente, nei desideri di corale affettuosita (con quell’aura di « vita nuova » che cosi spesso trema nelle nostre immagini giovanili, e le fa vibrare molteplici e scolorite, similari e trasognate). Anche in questo racconto Bigiaretti narra in prima persona; ma, nonostante il bagaglio autobiografico che si porta appresso, il suo Paolino si profila con una certa nettezza nella memoria poetica dell’autore, che ha imparato la necessita di certe rinunzie, l’utilita di certi limiti e schemi della narrativa classica (talora ingenuamente evidenti nell’abuso di particelle discorsive, per dar riposo e lentezza al racconto). Gli ha pure molto giovato la scelta di un ambiente che si svolge unitariamente intorno alla « cara mediocrita > . di un ufficio cittadino, dove un giovane provinciale capita assetato di « amicizie », e timoroso di viverci straniero, E cioé il mondo della piccola burocrazia romana che Bigiaretti ha studiato con cosi viva intelligenza sociale (vedi il suo libretto Roma borghese stampato dall’O.E.T.: in parte gia apparso in « Aretusa », fasc. 9). Nei primi tempi, Paolino crede d’imbattersi dappertutto, nel suo paese: é la stessa nostalgia che ha ispirato a Bigiaretti le belle pagine di « Paese di Roma », giustamente lodate dal Trompeo nel suo recente volume La scala del sole. E il paesaggio urbano della periferia fa da sfondo al racconto, visto con l’affetto e la confidenza

che ispira, a un

punto, la poetica e rustica immagine della « gran cupola che ha lo stesso peso e lo stesso colore dei monti lontani >». Ma al suo paese Paolino ha vdlto le spalle: timidamente egli anela a sverginare il suo candore di provinciale; e il corruttore lo ritrova li nel suo ufficio, il signor Negri, « il pit bello, il pit elegante, il pit sicuro » dei suoi colleghi. Negri gli diventa appunto maestro e iniziatore di quei pia286

eG

ceri nei quali sfoga il suo futile romanticismo domenicale gran parte della piccola borghesia cittadina. Pure, questa amicizia di Paolino per Negri é « difficile »: sono moralmente troppo diversi. Imitato con ingenua ammirazione da Paolino, Negri resta inimitabile, chiuso ormai

nell’adulta logica del suo egoismo, delle sue abitudini viziose. E invece Paolino, con tutta la sua docilita, il suo senti-

mentalismo e una vaga debolezza carnale, é fatto di una pasta un po’ molle, se si vuole, ma refrattaria a plasmarsi sul modello che si é scelto. Negri ha una amante, mediocre, e del suo stesso rango: facile tentazione, per Paolino, d’imitare anche il costume erotico dell’amico, fino alla necessaria

vilta di rubargli, sia pure per poco, la bella Lisa. Ma il piacere di possederla é turbato dall’ombra dell’amicizia tradita: Paolino non riuscira mai ad esser soddisfatto di aver vinto in tal modo il suo complesso d’inferiorita nei riguardi di Negri. Tanto pit che la disavventura di un incauto acquisto caccia quest’ultimo in prigione, e Lisa, che nei candidi abbracci di Paolino aveva carezzato una sorta di evasione, sente invece il bisogno di ritornare alla consuetudine

servile con Negri, sempre temuto

e percid stesso amato.

« Codlto » (dice cosi Bigiaretti, con quel suo tono delicato e schivo, che ha il merito d’aver serbato in tutto il raccon-

to), cdlto da Negri, da Lisa, nel punto in cui si liberava dagl’impacci dell’adolescenza, Paolino ormai non pud che separarsi. Invano Lisa gli suggerisce una pill giusta prospettiva di felicita: il matrimonio con la nipote del signor Carli (un collega d’ufficio, del quale Bigiaretti ha scorciato bravamente « gli occhi di topo » da usuraio, misantropo e insieme affettuoso). Anche lei gliera vietata, « anche lei era

di Negri »: lo zio infatti avrebbe voluto dargliela in isposa, indulgendo alle malefatte del collega, che gli era simpatico probabilmente proprio per i capricci libertini, che egli, il vecchio, non osava o non poteva pit! concedersi. Ormai Paolino non puo pit rimanere in citta, perché i luoghi dove la sua vita deve svolgersi sono legati alla presenza di Negri. Non gli resta che andarsene, escluso e ferito: e in un pianto consolatore, le sue « ultime lagrime di ragazzo », ritrova la sua solitudine di uomo, e Poriginaria e non esaurita purezza di sentire. 287

Il patetico scioglimento é lo stesso di « Inverno di malato », dove i rapporti tra Padolescente Girolamo e il cinico commesso viaggiatore presentano qualche affinita di situazione. (Salvo, s’intende, la matura

compiutezza

che fa di

quel racconto il capolavoro di Moravia, presentandoci la tragica sofferenza della soggezione di Girolamo, che riesce a sfuggirvi solo esercitando su una debole ragazza, con perversa € peccaminosa sensualita, la sadica tirannia ch’egli aveva patita.) Anche altri, a proposito di Bigiaretti, ha citato un personaggio di Moravia, debitamente cautelando il riferimento. Non c’é dubbio che la reazione morale di Bigiaretti é pit sicura e nativa, ma pil pigra. Ed é per questo che egli evita le crudezze ed é portato a sfumare con un velo di bonta questa corruttela che con la mano di Negri lo respinge e l’attrae invece col braccio di Lisa (quel braccio che ha ispirato le pagine pit idilliche alla sensualita pudica e vespertina di Bigiaretti). Dicendo questo non intendo identificare senz’altro l’autore col suo personaggio. Ma in sostanza Bigiaretti nel suo racconto mostra di guardare alla vita con l’animo e con l’occhio del suo Paolino. Vorrei augurargli che, dopo avere identificato nel signor Negri un personaggio significativo della societa fascista, egli non sia portato come il suo Paolino a un/’arcadica fuga. Dopo Unamicizia difficile Bigiaretti ha scritto, fra Valtro, Incendi a Paleo (Roma, editrice Cultura Moderna) che é un tentativo tecnicamente notevole, ma elusivo rispetto a quel mondo corruttore-educatore al quale Paolino, guarito dalla « persistente adolescenza » un giorno o l’altro é bene che

torni.

1946

288

6

Un diario dell’ultima guerra

Di fronte alla guerra fascista si puo dire che siano prevalse nell’opinione pubblica due opposte reazioni: quella . di condanna in blocco per gl’inaccettabili motivi ideali che trascinarono I’Italia nel conflitto, e quella di esaltazione, tuttora persistente, sui motivi della propaganda fascista, presentati genericamente come « patriottici » e « combattentistici ». Ad entrambe le reazioni si mescola un appassionamento pil’ che mai inevitabile in un dopoguerra, e specie dopo una guerra perduta. Ora la passione fa velo al giudizio, si sa; ma oltre a cid rischia di far apparire falsa e sofistica quella parte di verita che in esso € racchiusa. Questo velo dev’essere percid rimosso. Quando gli uomini sono posti di fronte a fatti supremi come il rischio della propria vita, o Puccisione di altri uomini, la vita morale subisce traumi di eccezionale violenza;

e al collaudo di situazioni imprevedibili, la personalita si rivela a se stessa, in una luce cruda e lampante. Anche in questa guerra, quanti episodi saranno stati, per la maggior parte dei quali non sarebbe possibile decretar medaglie, e nei quali ’'uomo, null’altro che ’uomo ha saputo rifulgere sulla bestialita dei disagi, delle sofferenze, della strage, da

cui sembrava dovesse esser travolto? Ora é chiaro che proprio coloro che hanno condannato e condannano in blocco la guerra fascista sanno di trovare in fondo al loro cuore il pit religioso rispetto per questi innumerevoli episodi di « virth sconosciuta ». Ma chi pretende di speculare ancora sul sentimento nazionalista non dovrebbe sentire il pudore di risparmiare la sua retorica a tutti quei combattenti che, nell’espiazione comune delle colpe di pochi, serbano orgogliosa memoria di quegli altissimi istanti della propria vita, allorché ognuno parve e fu a se stesso migliore, illuminato

da imperitura dignita? 289

Rispettiamo dunque e cerchiamo di comprendere il dramma segreto di tanti italiani, i quali, pur avvertendo oscuramente che la causa per cui combattevano era ingiusta, ritenevano di dover sospendere il giudizio, di rifugiarsi nella propria coscienza, di restringersi a fare semplicemente e unicamente quello che era, in circostanze chiuse e senza via di scampo, il proprio dovere. Erano le circostanze in cui i fini ideologici o politici della guerra esulavano, e non era certo contro i greci o i francesi, gli anglosassoni o gli slavi che si combatteva. In un torbido entusiasmo morale, per molti la guerra si presentO come una grande occasione di riscatto. E una volta indossata la divisa militare, si ebbe la generosa illusione di ristabilire un ordine diverso da quello del regime, e di poter combattere, nella guerra, contro la corruttela,

Pipocrisia,

il cinismo,

che, viceversa,

dal paese

dilagavano nelle caserme e nei porti fino alle retrovie e al fronte. Cosi il rischio della vita, mentre ad alcuni toglieva ogni freno scatenando i sentimenti pil bassi, per molti invece si accompagnava alla volonta di serbar fede a certi ideali di rettitudine e di slancio morale che sono eternamente veri al di sopra delle nazioni e dei regimi. Questa guerra, nella guerra, di innumerevoli combattenti italiani per la loro dignita di cittadini e uomini, dovunque trovi testimonianze pure, merita di esser conosciuta ed equamente valutata. PerciO anche ai documenti intimi della guerra fascista vorremmo che toccasse in sorte uno storico armato di fine discernimento morale, che sapesse leggere nei cuori intrigati e amari delle nostre generazioni, cosi come nei diari dti caduti dell’altra guerra seppe leggere quell’indimenticabile maestro che fu Adolfo Omodeo. In attesa dello storico, non si fara mai abbastanza per rintuzzare la demagogia nazionalistica, di cui spesso son vittime ignare i combattenti, i reduci, le loro famiglie. Ma forse il modo migliore € quello di richiamare l’attenzione su quegli scritti nei quali vibra il linguaggio vivo del fronte e il ricordo delle pene comuni. Sara questo linguaggio autentico e semplice che ci aiutera ad approfondire i valori -morali della guerra combattuta, aiutando insieme un po’ tutti a sgombrare la retorica fumogena, a collocarci in una sfera pil alta, dove non possono e non devono soprag290

aT4

.

giungere certi equivoci sentimentali

e certe daaett

speculazioni. . Nei giorni scorsi ha attirato lattenzione dei vari quotidiani un documento che vogliamo sperare non resti isolato nella letteratura di questi anni. E il diario di Nuto Revelli (Mai tardi, Cuneo, Panfilo editore, tip. Felici) un ufficiale di carriera (si noti bene) che ha combattuto sul fronte russo, nel Corpo d’Armata Alpino, che ha vissuto cioe una delle campagne piu tremende della guerra fascista, una campagna che forse poteva trovare il combattente meglio fanatizzato dalla propaganda antibolscevica. E un documento che riflette uno stato d’animo tanto pit interessante per i suoi svolgimenti, rispetto alla cronaca dei fatti intercorsi tra il 21 luglio 42 e il 10 marzo °43. Le prime pagine di Mai tardi registrano la partenza degli alpini dalla stazione di Rivoli Torinese:

« Sul ponte di Bassano,

bandiera

nera. E

il lutto degli alpini, che van alla guerra. La meglio gioventu che va sotto terra... » Con questo tetro canto essi si accomiatano dalle stazioni dove i gerarchi distribuiscono 1 rinfreschi a chi parte e cercano di ottenere dal comandante della tradotta una cartolina di ringraziamento per il federale. S'inizia cosi il distacco da un mondo falso e retorico, il viaggio (per i piu, senza ritorno) verso la tragica verita del dolore e della morte. Ed ecco nelle retrovie 1 primi contatti con gli « alleati », quelli che la propaganda ufficiale chiama « i camerati germanici », ma che il gergo ostile dei soldati disprezza con l’appellativo di « kruki ». Rapporti difficili. Ma gli alpini non tardano ad « orientarsi » a reagire cioé alla loro prepotente albagia. Le « grane » non tardano a scoppiare. La scomparsa di due oche dalle cucine dei « kruki » minaccia d’incrinare l’asse Roma-Berlino. Il generale in persona si occupa della faccenda. E in questi e in altri sollazzi semiseri si esercitano gli ineffabili ufficiali superiori della « regia naja », ispirando nei loro subordinati la « naturale sfiducia pei comandi italiani >. Nei vasti appezzamenti di girasole, in un terreno piatto e ondulato, gli alpini s’addestrano al sole d’agosto, goffi e « sfasati » col loro equipaggiamento d’alta montagna, compatibile soltanto per un impiego nel Caucaso. (« Se dovessero impiegarci in terreno pianeggiante, certamente subi291

fe

remmo delle perdite gravissime con risultati negativi. Che lo stato maggiore non abbia capito che gli alpini non sono dei carri armati? ») Ma

Revelli

brontolone,

Revelli

che

s’attrista a leggere i libri dell’altra guerra, come per ritrovare immagini ispirate di una patria vivente, quando sara in linea sul basso Don gareggera con i suoi bravi alpini nel compiere il proprio dovere. E quando il caporale Cattaneo, il pit coraggioso dei suoi esploratori é ferito a morte, sara lui, il tenente Revelli che tentera di salvarlo e benché col braccio squarciato, lo trascinera all’infermeria. Allospedale, dietro le linee, purtroppo si respira altra aria che non quella del fronte. Ricompaiono le immagini gaglioffe e rivoltanti della menzogna morale, che il combattente credeva di aver salutato per sempre nelle stazioni italiane. La visita del generale comandante che porta a Revelli la medaglia d’argento segna il primo scontro tra la amara e umana realta della guerra, e la retorica pupazzesca del fascismo. (« Certe cerimonie a due giorni dalla morte di Cattaneo, proprio non le posso sopportare ».) Tre mesi di cura e convalescenza per la ferita riportata offrono a Revelli un’occasione dolorosa e disgustante per conoscere da vicino la macchina di cartapesta montata dalla propaganda. Tutto é in funzione del « film Luce », ma quello che al cinema non si é visto, camorra, menefreghismo, vigliaccheria, borsa-nera degl’imboscati nella sussistenza, marciume, incapacita, tutta ’organizzazione di una cam- — pagna per cui in linea muoiono i pit valorosi e i pit sfor_ tunati, ce lo racconta per cenni, per urla, per imprecazioni la prosa « convulsa » e illetteraria di Revelli. E non ci sorprendiamo allorché nel crollo generale d’ogni valore, coerente al suo carattere fiero e dignitoso, Revelli sente che deve tornar al fronte, perché solo li, fra la dirittura dei sol-

dati e di alcuni giovani ufficiali, pud ritrovare l’aria buona da respirare, fosse anche per l’ultima volta. Ma tutto cid Revelli racconta con estrema semplicita e rudezza, col piglio brusco del soldato che ritrova, pur nel suo gergo senza pudore, un incantevole pudore quando parla di sé e per sé, € se conosce una retorica é proprio quella di evitare gli abbandoni, di serbare un burbero e virile contegno. Quando non sa frenarsi, quando la sua indignazione esplo22

Ldn’

de in parole di disprezzo e d’insulto per la corruttela italiana e il cinico fanatismo tedesco, li ha proprio bisogno di tutta lindulgenza del lettore, tanta ¢ lingenuita del suo esprimersi, e la pena che gli abbonda nel cuore. La serenita la ritrova nei giorni gravi della sventura, nei feroci giorni di gennaio, quando si comincia a parlare di « ripiegamento », e al suo reparto giunge l’ordine di rimanere in linea per mascherare e proteggere la ritirata. (« Il colpo di naja non é indifferente, ma lo incasso con rassegnazione ».) Tra gli ultimi a ritirarsi, Revelli sara in grado di riferirci la cronaca di tutto lo sfacelo, di tutti i triboli del corpo d’armata degli alpini, che abbandonati dai tedeschi, minacciati di accerchiamento, furono costretti ad aprirsi un varco, a combattere da soli perché costituivano i soli « reparti organici » superstiti in mezzo alla travolgente fiumana

dei dispersi e degli sbandati. A questo punto il ritmo del diario diviene tanto pit febbrile, delirante di passione, quanto pil monotono e ossessivo é il paesaggio, lo sterminato deserto di neve, in mezzo a cui la pista fangosa costellata di cadaveri, guida quei relitti umani da un villaggio all’altro, sui colli rosseggianti di fiamme. C’é una materia epica, la quale non si solleva alla poesia, perché Revelli non € uno scrittore, perché non ha nemmeno tentato di fare dell’arte. Eppure questa crudele materia del suo libro trova un riferimento a un’opera d’arte, a certe sequenze d’immagini che ha svolte Rossellini in « Paisa >. A Sara il canto dell’alpino piemontese: Ciincolonniamo a fianco dell’isba che brucia: davanti a noi il battaglione Balme e qualche reparto di artiglieria. Stiamo fermi per pil di un’ora: tutta la colonna é ferma... Un cappellano, quello del battaglione Balme, parla da solo a voce alta e dice: — Poveri alpini, che fine vi hanno fatto fare, disgraziati; moritete, moriremo tutti... Un alpino piemontese

poco lontano, canta in quel silenzio, solo interrotto dagli scoppi dell’incendio e dalle urla di chi gela: canta una triste canzone

alpina, con voce calda in tanto freddo, con voce

ap-

passionata... cosi come canterebbe sui suoi monti di fronte ad un tramonto.

293

O sara questa novissima parabola: Due alpini del battaglione camminano sorretti da un compagno. Sono ciechi: hanno passato la notte attorno ad un fuoco in un’isba, e si sono affumicati gli occhi, che poi all’aperto non hanno resistito all’abbaglio della neve e alla sferza del vento... Chi sorregge quei poveri alpini non puo essere che un fratello: nessuno rimarrebbe indietro per un com-

pagno.

Y

Sara (nelle pagine forse pit belle del libro, che parlano della forte agonia di Marchi, il comandante del battaglione) Pepisodio della confessione: Uno sbandato mi cammina accanto, guarda la slitta di Marchi e mi chiede se sotto la coperta c’é un ferito grave. Lo guardo appena: ha un viso disfatto, le mani avvolte in stracci, i piedi fasciati. Cammina a stento, curvo: quasi trascinandosi: penso per un istante che voglia chiedermi un posto nella slitta, e non vorrei nemmeno rispondergli...

(Revelli diffida persino quando lo sbandato gli dice d’essere un cappellano: non vorra riposarsi sulla slitta con la scusa di confessare Marchi? Ma poi si ricrede, e sente quasi della riconoscenza per questo povero prete.) Il cappellano ha compreso. S’avvicina alla slitta, si piega per poter parlare meglio e cammina, cammina a lungo, trascinandosi sulla neve in uno sforzo immenso: a tratti sbanda, pare che debba rimanere indietro, poi si fa forza, si riprende. Si alza infine, affranto dalla stanchezza: procede a stento. Mi ringrazia e si perde fra gli altri sbandati.

Ancor oggi (come dubitava Revelli quattro anni fa) I’Italia non conosce certe cose. All’indomani della disfatta i superiori, nell’ordine del giorno raccomandarono di « ricordare e raccontare », e qualcuno che non aveva peli sulla lingua aggiunse che dopo la ritirata non sussistevano dubbi. Non i russi, ma i tedeschi erano i « nostri nemici, piu che

nella guerra ’15-’18 ». Come non ricordare, come non raccontare degli « slittoni dei porci tedeschi » che « passavano’ sui corpi, sulle teste dei caduti, dei bucati dal piombo russo, 294

senza pieta »? Come non ricordare l’ultimo episodio delVangosciosa ritirata, della lotta sostenuta per aprirsi un varco nell’accerchiamento? Quel

mattino

verso

il termine

del

combattimento

durato

piu di tre ore, un branco di kruki maledetti chiese al maggiore Landi perché gli alpini stavano cosi distesi sulla neve senza balzare

avanti,

senza

incalzare

il nemico,

senza

inseguirlo.

Erano morti, righe di alpini morti, caduti a scacchiera, da

pallottole,

straziati

da

colpi

di anticarro

Alles kaputt, rispose il Landi, e quelli rimasero erano

italiani i morti, tanti nemici

di meno

forati

e di artiglieria.

impassibili:

per l’avvenire.

L’avvenire fu la lotta partigiana. E Revelli, il valoroso combattente

del fronte russo, non

si limitd a raccontare

il

suo diario; ma ricordando con tutta la sua persona straziata dalle ferite d’una guerra assurda, quando torno in Italia, non esitO a buttarsi alla macchia,

a combattere la guerra di

montagna, la guerra giusta, la guerra partigiana. Il diario di Revelli ¢ dedicato « agli alpini di Russia, ai partigiani d’Italia », e vuol dire ai reduci di ogni fronte, ai protagonisti della guerra dovunque combattuta, che per odiare il fascismo non é « mai tardi ». 1946

295

7

Da Napoli milionaria! a L’arte della commedia

s

L’attore, il regista, il commediografo sono tre aspetti della personalita di Eduardo De Filippo che da tempo siamo ormai abituati a considerare indissolubili nella loro perfetta

fusione. Ma lo scrittore ha una validita autonoma? le sue opere meritano un’attenzione da parte dei critici, per esser giudicate come testi importanti non solo nella storia del teatro ma in quella della letteratura contemporanea? Ecco il quesito che ci viene proposto dalla pubblicazione di Napoli milionaria! (ed. Einaudi) e dall’annuncio del teatro completo destinato sicuramente a grande popolarita. Una risposta s’é gia incaricato di darla il pubblico di molti paesi d’Europa e d’America, dove certi lavori di De Filippo hanno tenuto il cartello per mesi e mesi. Il che vuol dire per lo meno che l’elemento dialettale é accessorio e che i critici cadrebbero in un grosso equivoco, se non superas- sero di buona: grazia la diffidenza solitamente diffusa per le ~opere non scritte in lingua. E in verita, nelle commedie di Eduardo, ci son tali fatti umani che, se la scena é a Napoli,

per cid che accade ai personaggi, si pud anche prescindere _ dal colore locale. -* De Filippo é stato tra i primi, appena dopo la liberazione, ad assumere la realta immediata a contenuto della sua arte,

- con un coraggio morale e artistico che difettava_alla sua produzione precedente. (Questa era stata essenzialmente il frutto di una grande esperienza teatrale, dalle tradizionali farse dei comici dell’arte sino a Pirandello. E solo in qualche capolavoro, come ad esempio Natale in casa Cupiello, Si potevano sperare e intravvedere i motivi pit ricchi e complessi delle future commedie.) _ Durante la guerra Eduardo aveva rappresentato i suoi vecchi lavori, l’ultimo dei quali, Non ti pago, & del 1940. __E stato il ritorno a Napoli, la dolorosa visione della sua 296

ie

é

itta, resa irriconoscibile dagli orrori dei bombardamenti e lal passaggio di due eserciti stranieri, che ha ispirato a iduardo un nuovo genere di commedia drammatica, degno alvolta d’esser paragonato all’alta amarezza di Moliere. _ Napoli milionaria! @ del ’45. L’azione si svolge fra il se‘ondo anno di guerra e lo sbarco degli anglo-americani, nel‘umile dimora a pianterreno d’un tranviere, il « basso » i Gennaro Jovine. Né il suo salario, né quello del figliolo sastano a sfamare la famiglia. E percid donn’Amalia Jovine ta improvvisato un bar clandestino, dove la gente del vicolo uo bersi una tazza di caffe per tener su il sacco dello stonaco, abituato cosi dalla miseria a prolungare il digiuno. Juesti traffici repugnano profondamente a don Gennaro, the non li approva; ma egli in famiglia ha l’autorita appena yastevole per elevare qualche timida e inascoltata protesta. itordito e fiaccato per i disagi del fronte nella prima guerra nondiale, Gennaro ha !’inerme saggezza di chi molto ha mparato dalle « malepatenze ». E capisce che l’energia con cui la moglie affronta la situazione e accetta i compromessi ‘on la vita, € necessaria per aiutare la barca e, chissa, per ‘itare il peggio all’avvenire dei figli. Nei due popolani c’é mo stesso fondo di moralita all’antica; ma la moglie, piu

fiovane, piu ardita e spregiudicata « riesce sempre a forNarsi una coscienza delle proprie azioni, anche quando non jono del tutto rette ». E il suo modo di reagire alla corrutione: diventera soltanto una borsara nera, avida negli af‘eri e dura di cuore. Ma a che varra l’ostentazione e l’eserizio della sua spregiudicatezza? A dare (contrariamente a quel che lei crede) il cattivo esempio ai suoi figli maggiori quelli della « generazione sbagliata », come li chiama don yennaro). | Essi subiranno il loro tempo e il loro destino: Amedeo inira ladro di gomme, e Maria Rosaria si arrendera a Sion, ingenuamente fiduciosa che il soldato la sposi e la dorti in America, lontano dall’oscura vita del vicolo. L’ul‘ima figlia, Rituccia, sara strappatta alla morte non proprio yer merito della madre: le procurera la medicina un impie© che s’é ridotto anche lui alla borsa nera, dopo essersi gliato di tutto per sfamare i figli e per pagare i debiti contratto con donn’Amalia. 297

Il crollo morale della famiglia Jovine accade quando povero Gennaro, costretto dalla disoccupazione a far |

pure incetta di viveri, € sorpreso dal rastrellamento dei 1

deschi in ritirata e portato al Nord. Ritorna in tempo, qua do Maria Rosaria ha pit’ che mai bisogno di un padre c l’aiuti a rifarsi una vita; quando Amalia sta per cedere a lusinghe di un suo socio in borsa nera; quando Amedeo sul punto d’essere arrestato per ladro, come si meriterebl Ma il brigadiere Ciappa fa del suo meglio per evitare a di Gennaro, dopo tante disgrazie, la vergogna di un figlio galera: con lo stesso spirito di comprensione, per cui eb ritegno di arrestar lui, quando lo trovo che faceva il mor in una buffa messinscena escogitata dalla moglie per evité la perquisizione. (E questi sono i due episodi piu propr mente comici, che Eduardo ha colorito con straordina finezza di gradazione evitando lo scioglimento troppo mi canico e ovvio, che poteva suggerirgli il suo vecchio gu: farsesco.) La corruttela dilagante nel dopoguerra é€ stato argome1 di speculazione letteraria per molti scrittor’; ma per poc come per De Filippo, é divenuta materia d’arte. I] ni realismo di maniera ci ha dato la Napoli a pelle nuda Malaparte, dove non sai se la volutta di prostituzione pit: dell’autore che dei suoi personaggi: la verita dei fi particolari ‘finisce per esser falsata, tant’¢ unilaterale e n notona. E la realta dei sentimenti umani nel loro comple che viene ad essere oltraggiata, sconciata, mutilata. La misura e il pudore di Eduardo sono il segno dé sua ispirazione poetica. E non si tratta di una commedi licto fine: la conclusione, tutt’altro che idillica, é gray amara, come il risveglio da un turpe sogno. Senza rifiut certe dure verita, Eduardo non crede che al mondo re appartengano solo le sconfitte che i bisogni del ventr del sesso talora infliggono all’uomo. Egli crede che le er gie morali possano permettere agli uomini di rigenerar¢ stessi e di ricostruirsi un mondo. migliore. Percio, a sf chio e’a giudizio di una Napoli in disfacimento per efi della guerra e della miseria, oppone un personaggio 1 ‘mamente sano e semplice, un lavoratore, un tranviere. Ma da che cosa nasce il comico, se la materia é «

298

r

lrammatica? Eduardo lo fa nascere non da questa o quella igura 0 scena, ma rovesciando il rapporto dei valori moali: don Gennaro é un napoletano all’antica, anacronisti‘0 in quel suo vicolo dove il mercato clandestino, la prostiuzione e il furto son divenuti norma comune. E uno « sto-

lato », uno stordito, un « fesso » tra gente che va facendo | callo al malcostume. Ma € un « fesso » che capisce piu li tanti altri, che € migliore di tanti altri, e percid puo giulicare, comprendere e fin dove é giusto, perdonare. Se egli osse un temperamento._energico, capace di lottare, sareb-

yero venuti fuori dei contrasti, avremmo

avuto un perso-

laggio tragico. O magari la costruzione massiccia di un’ope‘a aduggiata dal moralismo. Nell’un caso e nell’altro, Pipoesi ci porta fuori dalla poetica di Eduardo. Gennaro Jovine

‘uno dei suoi personaggi che piu amiamo) ha un estremo ienso del limite: in cid é la forza e la finezza della sua inelligenza, ma anche il freno della sua volonta. Egli € tut‘altro che eroico. E la commedia vien fuori dal trionfo naspettato di questo pover’uomo, che in una sola cosa é mergico: nella incapacita di fare il male. Per questo e antora un uomo, mentre i furbi e gli spregiudicati, al suo conronto, si accorgono di aver agito come automi, sotto la ca‘ica d’impulsi sciocchi e disonesti. Essi non sanno pit spiezarsi che cosa sia accaduto. Ma il buon Gennaro lo sa. Lo brendevano in giro, quando, prima dell’Otto Settembre, norostante la paura che aveva dei fascisti, spiegava con la sua onesta chiarezza di idee in che consisteva la guerra che essi avevano scatenata. Ritornato dal Nord, non si stanca di oarlare degli orrori che ha visto e del « povero cristiano che

2ra ebreo » ed aveva persino paura di lui, che lo denunciasse (il racconto della deportazione é-tra le cose pit. poetiche h Eduardo). Ma gli altri pensano a gozzovigliare, per loro a guerra é finita. No (dice don Gennaro)

« a’ guerra nun

2 fernuta! » Questa Napoli milionaria che sguazza nelle am-lire e nei banchetti lo fa trasecolare come un folleggian(€ scherzo, una « pazzia », non gli sembra reale, non lo convince perché non edificata sul lavoro e sull’onesta. Quel che € accaduto al suo paese é come la crisi notturna della sua Rituccia ammalata: dovra pur passare la notte, superare la crisi del dopoguerra. Non sa come, non dice come.

299

Egli sa soltanto che é uscito da questa seconda guerra c la volonta « di non far male ». Oltre questa sua priva moralita altri propositi sociali non sa formulare. E n chiediamogli di pit. E un personaggio (ricordiamocene) c parla a un pubblico piccolo-borghese, il quale alle cor medie di Eduardo sa solo ridere, e non € proprio detto c debba capire cid che applaude. Noi, salutando questo caro scrittore, fiduciosi come sian

nel suo grande ingegno e nella sua ricca umanita, per 0 vorremmo dirgli che meno indulgera ai gusti e alle mo di questo pubblico, e piu liberamente percorrera la stra dell’arte. Lo accompagni il nostro aueunlG d’un lungo

coraggioso cammino.

| 19

Ci sono degli artisti che non esauriscono mai il loro tc mento di ricerca critica sulle ragioni e sulle forme dell’ar La loro ‘attivita teorica accumula pagine e pagine, a vo preziose (quale che sia il valore dei giudizi e dei pensie per meglio definire il loro mondo intenzionale, il loro ¢g sto, la loro poetica. Altri invece non scrivono pagine c tiche e filosofiche, non diari, non saggi, ma si avvalgono ¢ loro mezzo espressivo pil’ consueto per manifestare le le idee sull’arte e sostenere i loro principi ispiratori. Per u scrittore di teatro l’espediente della « commedia in co: media » (luogo comune del genere drammatico) é il mez pit. semplice, pit a portata di mano. Ed é superfluo ricc dare gli esempi classici di Shakespeare e Moliére; o i lav di Goldoni e Pirandello, che pure si sono valsi di prefazic e di libri interi, dove si pud ricostruire la loro poetica te trale. Ma fino ad ora Eduardo si era valso di questa str tura solo a livello farsesco, in Uomo e galantuomo (192°

A siffatte professioni di fede nell’arte drammatica e vendicazioni della sua dignita letteraria o della funzio sociale del comico (difese, attacchi e contrattacchi) non vuol fare un riferimento (cosi possono crederlo solo sfondatori di porte aperte), per dire che Eduardo ¢ L’arte della commedia abbia pensato come a modelli, | VYImpromptu de Versailles 0 al Teatro comico, 0 ai Sei pi sonaggi in cerca d’autore. Se parlando con Eduardo si | 300

*ghia venir,

i?

cenna a questi illustri precedenti, egli non esita a confessare, con modestia, che lo spunto per L’arte della commedia Vha tratto da un atto unico di un tal Marulli, J comici e Vavvocato, che molti decenni fa riusciva ad avere un buon

successo. Anzi non ha esitato a farmela leggere, per voler ricordare che spesso le fonti o (diciamo soltanto) gli stimoli letterari dei suoi lavori si possono ritrovare nel piu banale repertorio a cui facevano ricorso i capocomici del teatro napoletano alcuni decenni or sono. Ho dato uno sguardo curioso a questa povera farsa, che un giorno sara ricordata solo perché Eduardo ha voluto generosamente trarla dall’oblio. L’argomento? Un impresario si rivolge a un suo amico, avvocato Asdrubale, perché torni al teatro e gli scriva una farsa, ma riesce a strappargli la promessa solo scommettendo con lui che quella mattina non uscira di casa senza avere ascoltato prima gli artisti della compagnia. E cosi avverra perché quattro attori si fingono clienti in cerca di un legale. Cosi Asdrubale, vinto, promette di

serivere una farsa che si intitolera appunto I comici e l’avvocato. La trovata che Eduardo prende in prestito diventa tra le sue mani una

situazione

comica

di prim’ordine,

come

hanno riconosciuto anche i critici che alla prima di questo suo recente lavoro hanno formulato qualche perplessita sulla pienezza del risultato poetico di questo originalissimo dramma che « sfiora il capolavoro ». L’originalita di Eduardo sta appunto nell’aver innestato su un luogo comune della letteratura teatrale un suo pamphlet circa Vattuale crisi del teatro. O piuttosto l’attuale « confusione » come preferisce dir lui, immergendosi in un groviglio di problemi che ha lucidamente individuati nelle loro distinZioni e nei loro nessi. Ma il suo merito é anche e soprattutto nell’aver allargato il quadro ad altri aspetti del nostro particolare momento storico, com’era inevitabile e indispensabile, per non rimanere in una visione corporativa di

problemi che certamente avrebbero interessato marginalmente il pubblico. In effetti le rivendicazioni dei lavorawri dello spettacolo (attori, autori, registi) interessano per pit alti motivi culturali Eduardo e l’eroe del suo dramma. peeanse si tratta di fare della retorica sul teatro, sulla 301

sua grandezza e sulla sua decadenza e sulla necessita di ur sua piu ampia destinazione sociale, finiamo per essere tut d’accordo, Ma intanto qual é in effetti nella nostra socie il destino dell’attore pit umile e appassionato, che nas¢ (si pud dire) sul teatro e vivendo

di teatro,

c’é caso

cl

diventi non solo un grande interprete ma anche uno scri tore? Che cosa fa la nostra societa per garantirgli innanz tutto una parita accanto a coloro che esercitano altre pr« fessioni e mestieri, ammessi generalmente come utili e Tr conosciuti per tali anche nei libri della vecchia scuola eli mentare (quando non era ancora assurta a scuola di «r cercatori », come oggi)? In questo lavoro di Eduardo il protagonista (o diciam meglio l’antagonista) Campese € un capo comico di ur piccola compagnia, che in un momento di disperazione costretto a rivolgersi al prefetto della citta di provincia doy lavora,

per risolvere la crisi che affama

lui e i suoi con

pagni d’arte. Tra l’altro egli ricorda di essere rimasto molt contrariato da ragazzo, per non aver visto ricordare ni libro di lettura Vattore,

tra 1 vari artisti e professionisti

Cominciai a chiedermi con la crudelta che caratterizza Vi nocenza dei bambini, quale fosse mai il mestiere o la profe sione di mio nonno, di mia madre, di mio padre. Una sera m

padre mi chiese: « Vuoi fare l’attore, da grande? » Gli rispos «No.» «E perché?» « Perché sennd non mi mettono n sillabario. »

Il guitto di Eduardo non si sente per questo un umiliat o un Offeso, ma solo un escluso. Egli é un personaggio ev dentemente idealizzato, con una consapevolezza estrem: con una dignita e una forza nuova. Se va dal prefetto no é per chiedergli elemosina di sovvenzioni o sussidi: des dera solo che egli intervenga al suo spettacolo, cosi com assiste alla televisione o alla partita di calcio. Sua Ecce lenza De Caro, che pure é stato benigno e paziente a ascoltare Campese, si rifiuta in malo modo. Che cosa pre tende mai questo guitto, che un prefetto accrediti col su intervento la prima di chissa quale scemenza, L’occhio « buco della serratura, scritta da Campese e dal figlio! Pe

un attimo quella visita mattutina fuori programma gli é pa’ 302

tz

a

-.

sa un diversivo,

prima di affrontare

le noie burocratiche

della giornata (cominciata male perché nella notte c’é stato un incidente ferroviario in provincia), prima di mettersi a ricevere gli affannati postulanti che sempre aspettano I’arrivo del nuovo prefetto per risolvere i loro annosi problemi. Sorpreso in veste da camera, in una grigia e fredda mattina, questo burocrate che fa del suo meglio per uniformarsi al nuovo regime, rivela la sua anima di dannunziano crepuscolare. E un democratico per ragioni difficili di car‘riera, ma se avesse dovuto seguire la sua autentica vocazione, sarebbe stato solo un filodrammatico

e sarebbe

an-

che lui diventato un attore e avrebbe dominato volentieri le platee, recitando le opere di D’Annunzio, ultimo grande (a suo dire) prima della decadenza apertasi con la Libera‘Zione e€ gli autori cosiddetti impegnati. Nel lungo dialogo del primo atto egli provoca Campese a parlare dei problemi del teatro, di la dai guai personali che gli sono toccati (un incendio

al baraccone

in cui recitava,

e un soc-

corso dell’altro prefetto, peggiore del male, perché il vecchio teatro comunale messo a sua disposizione non si riempie: i poveri non ci vanno per soggezione e perché i prezzi sono cari, gli agiati perché disdegnano la prosa e quella compagnia, attratti da altri spettacoli). Il capocomico non ha nulla di comico. Comico é il prefetto (e la sua scimmia, il suo segretario), non tanto perché crede (come é suo dovere di ufficio) che il governo presente sia il migliore dei governi possibili, ma perché

‘non sospetta affatto che ci sia contraddizione fra la sua mentalita autoritaria e le esigenze della vita democratica. E un personaggio tipico dei nostri anni. Potremmo mettere ‘al suo posto tranquillamente un magistrato, un professore “universitario 0 un qualsiasi personaggio autorevole o per‘sonaggio di autorita del ventennio che & seguito alla Libe-

razione, un personaggio sicuro del motto (non scritto nella Costituzione, ma dogma di certo costume) che « sedere

‘© potere ». Chi siede pud; pud perfino capire. E non ha bi‘sogno di recarsi agli spettacoli per conoscere la realta attraverso un lavoro teatrale. La realta giunge nel suo ufficio, fino al suo scrittoio. Chi siede pud capirla senza muoversi ‘dal suo posto. « Ma (obbietta Campese), e se venissero303

degli attori travestiti a recitargli dei casi inventati, com farebbe il prefetto a riconoscerli? » In forma bonaria Campese rivendica all’arte la funzion di conoscenza del reale, rivendica alla fantasia questo com pito di mediazione estetica insostituibile, necessario, fonda

mentale per tutta la societa, a cominciare dal personal politico e dalla stessa classe dirigente. L’arte pud metter davanti agli occhi di chiunque sia educato (e chiunque pu educarsi) esteticamente, l’oggettivazione dei problemi pi urgenti e piu angosciosi, che attraverso la tipizzazione ac quistano, pur nella necessaria esagefazione comica 0 trz gica, quella validita universale che risulta appunto dal prc cesso di astrazione poetica, onde i personaggi e i fatti de arte diventano « pit veri del vero ». Nella caotica, fluent esperienza vitale tutto resterebbe « confusione » senza | consapevolezza estetica che isola e coglie nel suo movimer to un aspetto essenziale di una determinata realta storic: morale, sociale. Ma il prefetto che non solo sa di D’Annunzio, ma h letto anche lui Pirandello, la sa lunga e percio non tem la sfida di Campese, e gli dice: « Li mandi pure ques personaggi in cerca di autore, troveranno buona accoglier za ». E Campese replica con una battuta che é da med tare, perché non é solo importante per lo sviluppo dran matico di questo dialogo, ma per tutta la poetica teatra) di Eduardo: No, Eccellenza. Pirandello non c’entra niente: noi non a) biamo trattato il problema dell’« essere e del parere ». Se r deciderO a mandare i miei attori, lo fard allo scopo di stabili se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o n Non saranno personaggi «in cerca di autore », ma attori~

cerca di autorita.

Si & autorevoli nella misura in cui esercitando le pre prie funzioni

siamo

utili alla societa in cui viviamo

e

suo sviluppo democratico. facile essere autoritari, difi cile essere autorevoli. E cid non vale solo per il persona politico, vale per tutta la classe dirigente. Simbolo dell’ar

_..

toritarismo che é il vecchio male della societa italiana alle gica alla democrazia per il suo inveterato e incorreggibi

‘4

4

304

{

“ea Bay Pi

nas

feudalismo,

Pe

é il prefetto. Da decenni i predicatori inutili

della nostra societa da Salvemini

a Dorso, da Einaudi

a

Carlo Levi ci parlano dei personaggi chiave della illiberta del nostro paese. Uno di questi é il prefetto. E il primo-a metterlo in commedia, nella situazione poeticamente giusta che gli compete, é stato Eduardo (anche se probabilmente non si é proposto affatto intenzioni rinnovatrici 0 rimotrici, nei confronti di questo pilastro della struttura napoleonica dello stato borghese). Tutto il secondo atto del suo lavoro trasportando in chiave di tensione drammatica la povera situazione farsesca de I comici e l’avvocato fa sfilare alcuni personaggi nel gabinetto del dottor De Caro, che in ognuno di loro (scambiando certezze o dubbi col suo segretario) teme di vedere un attore travestito-al posto dei soliti postulanti, tanto pit che Campese, invece del foglio di via che il prefetto gli aveva

fatto preparare

per soccorrerlo

con

burocratica

ge-

nerosita, s’era portato con sé la nota di coloro che avevano chiesto udienza per la giornata. Questi personaggi che si succedono davanti allo scrittoio di De Caro, come tanti personaggi di provincia, sono patetici e maniaci, prigionieri dei loro casi umani, rosi dal tarlo di una loro preoccupazione dominante. E per l’ossesSiva tensione dei loro sentimenti rischiano di apparire inverosimili davanti agli occhi del prefetto, anche perché una serie di piccole circostanze acuisce e moltiplica la sua vigile sospettosita. Ed ecco venire un medico, un parroco, una maestrina, un farmacista, che intrecciano col prefetto « dia-

loghi pit veri del vero ». Ma sono attori in cerca di auto-— rita, O uomini in carne ed ossa che hanno anch’essi il pro-

blema di esercitare con dignita il loro mestiere in una societa

_

moderna

e democratica,

senza

« confusioni»

che.

mettano a rischio la particolare dignita inerente alla loro singola professione? Il medico protesta perché, quando i malati muoiono la colpa é sua; quando si salvano il merito € del Cristo che sta in piazza, onusto di gloriosi ex-voto che attestano i suoi miracoli. « Ma che pretenderebbe questo dottor Bassetti? Un’ordinanza che faccia rimuovere questi - Oggetti e trasferirli dal tabernacolo al muro di ingresso del-

la sua abitazione? » Cosi gli risponde beffardamente sua

ee

|

ans

Eccellenza De Caro. Ma il medico si contenterebbe di poter affiggere le lettere di ringraziamento di quanti (a cominciare dal vescovo) si sono avvalsi utilmente della sua opera. Il prefetto glielo concede, convinto di recitare una semiseria risposta a un istrione di Campese, venuto a improvvisargli la parte del medico ateo che reclama la separazione dei poteri della scienza da quelli della fede. Stesso alone di assurdita e incredibilita si forma intorno al padre Salvati (la pit compiuta di queste figure comiche) il quale viene ad esporre il caso singolare che gli é capitato. Una ragazza della sua parrocchia, figlia del proprietario di un’agenzia di trasporti, ¢ stata messa incinta da un uomo ammogliato,

del padre.

che lavora

Rosetta

come

Carbone

camionista

€ stata

presso

cacciata

Vazienda

di casa,

e

lamante licenziato. Si minaccia uno scandalo grosso, benché ci sarebbero tutte le condizioni (se fossimo in un paese civile come altri paesi cattolici, come la Francia o PAu-

stria) per risolvere il caso. Infatti la moglie dell’autista ha un amante e sarebbe ben lieta di lasciare libero il marito. Il povero parroco ha aiutato come poteva la ragazza promettendole di fare accogliere il figlio della colpa in un istituto di beneficenza. Ma i protagonisti dello scandalo vorrebbero da lui limpossibile: il divorzio. Rosetta minaccia di andare a partorire in chiesa. Padre Salvati é sulle spine: che ne sara di questo neonato? Il suo compito é€ di battezzarlo, di pensare all’anima: al corpo ci deve pensare lo Stato. Lo smaliziato prefetto si convince di trovarsi di fronte a un altro attore della compagnia, quando il parroco gli predice che, se lo scandalo avviene, il prefetto dovra dare le dimissioni e lui forse dovra rinunciare all’abito,

e si mettera a fare il fabbro in un penitenziario per forgiare le.catene dei condannati certamente meno pesanti e piu facili a spezzare delle catene tutt’altro che simboliche del matrimonio. « Se questo € un vero sacerdote, voglio essere. impiccato. » La donna che intanto si é furtivamente nascosta sotto il _tavolo del prefetto non é Rosetta (come ci si potrebbe attendere), ma un altro agitatissimo personaggio. E una maestra siciliana venuta a insegnare in provincia, tra le montagne e in mezzo a un costume sociale non meno arretrato 306

della sua regione. E ossessa, perché un suo piccolo alunno, Marco, é morto asfissiato nel gabinetto della scuola dove era chiuso per punizione. E lei vive nell’angoscia di un processo che invece si € gia concluso con la sua assoluzione in istruttoria. Non c’e stato nessun morto, e accusano lei di essere una innocente mitomane. Lei invece vuole smascherare il padre di Marco, li, davanti al prefetto. Questuomo ha avuto un figlio con sua cognata che convive con la sorella sotto lo stesso tetto coniugale. I] bastardo non e stato denunciato allo stato civile, e i tre sono stati d’accordo a tenerlo nascosto per molti anni. La morte di Marco gli ha permesso di far rientrare lo scandalo tanto piu che il cadavere fu gettato in un crepaccio e cosi hanno potuto sostituirlo con un fratello che ha la sua stessa eta ed € regolarmente iscritto all’anagrafe. La maestrina si accusa davanti a tutti per occultazione di cadavere, per delitto colposo (se € sua colpa di avere un gabinetto che non risponde ai requisiti igienici), ma vorrebbe che anche i due genitori delinquenti fossero processati. Un personaggio davvero assurdo che cerca la giustizia a sue spese. E non € altrettanto assurdo il farmacista, esasperato perché non gli vogliono ridare la licenza toltagli? Non era laureato é vero ma poi si é presa la laurea, e se nel frattempo la sua licenza hanno data ad un altro, avrebbe diritto a riaverla per continuare ad esercitare la sua professione. Per protesta egli mette in atto quel che ha minacciato pil yolte: si avvelena con l’arsenico. Ma non sara un pezzo in stile grandguignolesco, recitato dal migliore dei guitti di Campese? Non sara un morto finto? Ad uno ad uno gli altri personaggi in cerca di autorita ritornano in scena (il parroco, perché ha sentito il vagito di un bambino in chiesa e vuol essere aiutato a trovare il bambino irreperibile; il medico, per soccorrere lo sventurato farmacista). E tutti

non esitano a identificare un morto per un morto vero. Tutti, tranne il segretario: che per essere un aspirante prefetto deve avere in sommo grado le virtu della carica a cui aspira. De Caro stesso per un attimo aveva ceduto all’evidenza. Ma quando il medico non pud mostrargli le sue carte di riconoscimento dimenticate in un’altra giacca, quando il sagrestano porta il bambino al suo cospetto, e quando 307

infine ritorna Campese per restituire il foglio che per errore ha portato via; allora non ha pit dubbi. Esige dal capocomico la conferma che si tratta solo di una pagliacciata organizzata da lui, farmacista compreso. Il breve dia-

logo tra Sua Eccellenza e l’attore chiude la commedia in un finale mirabile. La tensione tragica, penetrando in una situazione farsesca, solleva la commedia all’altezza del dram-

ma. Rileggo, e i dubbi dei critici se Eduardo abbia o no sfiorato il capolavoro dileguano o perdono di importanza. Prima di sentenziare cerchiamo di capire la struttura originalissima di questo lavoro. La carica sentimentale di ciascun personaggio é perfettamente calcolata, in bilico tra la tragedia oggettiva e il contesto farsesco: perfettamente -calcolata per una deliberata ambiguita, per un necessario scambio tra la vita e l’arte della commedia che deve equivalerla. E lo scambio accade, non gia per Vinstabilita e la labilita psicologica del personaggio; non gia per le lacerazioni interiori del soggetto, che non riesce a comunicare e non si fa capire; ma per un dramma tutto oggettivo, vissuto in un contesto sociale affatto realistico, quali che siano le

esagerazioni e le assurdita in cui si presenta. Qui abbiamo

la coscienza

matura

di uno

scrittore che,

_ avendo sentito cento volte i critici giornalieri discutere di pirandellismo a proposito (e pit spesso a sproposito) della - sua arte, senza accorgersi che tutto il suo cammino poetico - € un rovesciamento del decadentismo e del soggettivismo pirandelliano,

enuncia

a chiare note la sua poetica teatrale,

e manifesta la perfetta consapevolezza della misura sociale dun teatro realista, e sia pure d’un realismo borghese avanzato, che voglia recuperare i grandi valori della drammaturgia classica: A mio avviso dovrebbe essere pil’ preoccupante un morto -falso che un morto vero. Quando in un dramma teatrale c’é uno che muore per finzione scenica, significa che un morto

vero in qualche parte del mondo

o c’é gia stato o ci sara...

ecco perché le ho detto ’sta mattina: « Venga a teatro, Eccel_lenza, venga a mettere 2 Volterra. La protagonista, 317

durante il viaggio

(ch’é reso angoscioso dalla compagnia di alcuni ergastolani) ripensa per un attimo la sua vita, « gli altri entusiasmi di amore, quando doveva condurre una fatica per falsarsi, e poi mentire, chiusa in una specie d’inerzia vendicativa >. Il libro é nato cosi, da questa « inerzia vendicativa » delVimmaginazione che riduce a una serie di burattini tutti gli uomini con cui l’eroina ha avuto rapporti. Quando il suo romanziere va a convivere con lei, Letizia gli fa trovare un

Pinocchio sulla scrivania, per augurargli che i suoi libri siano conosciuti come la storia del famoso personaggio di Collodi. Ma il romanziere continuera a complicare di donne preziose i suoi libri, con la sua « scrittura minuta e femminile ». Pinocchio ha invece portato fortuna alla Volpini: é Vidoletto della sua quinta elementare, da cui ha imparatc a pupazzare la gente cavando fuori occhi e nasi, crudamente irrigiditi. Si veda per esempio la figurina del romanziere: la beffarda autrice ha inflitto al personaggio (storico, < quanto pare), un magnifico sfregio permanente: « Quale faccia credi di avere? Se la vuoi saper tutta, hai la faccic da austriaco, il labbro da ciuco e le mani da prete ». Dice per burla la Letizia che pur frequentando negli ul: timi tempi tanti intellettua’!, non é riuscita mai a capir ben¢ « la differenza tra amples.o e complesso ». Fatto é che ne gli amplessi ostenta un complesso di superiorita fortissimo A sentir le sue confessioni, non sarebbe stata mai posse duta. Al primo conte si « offri con la stessa rigidita di quan do suor Isidonia le faceva le iniezioni »; all’ultimo, « coi una abnegazione da crocerossina ». E tutti i suoi ampless si risolvono in disgusto, rancore, dispetto, acredine, e « iner

zia vendicativa ». Ma la furberia della sua ricetta letterari € proprio qui: Letizia che, fra i tanti mestieri, ha fatto an/ che un po’ di cinema interpretando superbe parti da ca meriera, tiene il lettore sempre in un teatrino di posa. Ciak si gira. E Voperatrice tien sospesa la tua attenzione. Su punto in cui il gioco scenico pud cominciare a interessar

umanamente e artisticamente, tutto s’interrompe. Un pc| monotona, la trovata, ma sempre eccitante. La Volpini h|

mostrato di sapersi ben valere del consiglio dato alla Let zia da ‘un suo amico del cinema: per riuscire « ci vuc| poco pepe e molto sale ». Col lettore l’autrice si comport} 318

come quando la Letizia, stando a tavola con certi fascisti e nazisti, ne fece una delle sue (mise una statuina di Hitler a capofitto nel sale per cui ando al confino). Ti tuffa e rituffa nella saliera delle sue storiellee delle sue battute, e tu credi di trovarci un po’ di pepe. Arrivi alla fine, e ti ha beffato. Letizia é una traviata collodiana, ma aggiornata al 1950: € quanto la sappia lunga, lo dice la tutt’altro che patetica relazione con Gaetanino, bruscamente interrotta dal vecchio genitore: « Signorina, possiamo andare avanti cosi? Questo mese voi mi siete costata: settanta quintali di fieno, cento ettolitri di latte; dico cento

ettolitri.

Senza

contare

le

mozzarelle. Continuando di questo passo, saro costretto a prendere dei seri provvedimenti, nei riguardi vostri e di mio figlio ». Dopo di che, col paziente aiuto di Letizia, lo Scervellato é rinchiuso in una casa di cura. Tutti gli altri sketches del romanzo son tagliati al punto -giusto, con una ben calcolata freddezza, che rende pit si_curo leffetto caricaturale della veloce e piacevole narrazione. E anche la protagonista non si sottrae al meccanismo dei suoi incontri (o piuttosto scontri) d’amore, dove la sua ferocia (scambiata un po’ a torto per sessuale felinita) si ‘riduce quasi sempre alla furastica sornioneria di una gatta

-Viziata e dispettosa. Sugli altri personaggi la superiorita di Letizia non é una superiorita morale: é l’indifferenza canZonatoria di chi si sente abbastanza arrivata, per potersi _beffare di tutto, anche di se stessa. Solo a un confronto d’amore, a un confronto umano non Tegge, e svela una sua riposta umanita, sia pure allo stato

infantile. E il confronto con sua madre: gio che resista

unico personag-

al gusto’ della deformazione

burattinesca;

unico personaggio, con cui Letizia, almeno una volta, si ~abbandona alla spontaneita della confidenza. La madre é malata; va in bagno a lavarsi, e la figlia per timore che si senta male, vuole assisterla, benché lei non voglia:

% Nuda, m’intimidiva. Sentivo un lieve rossore, non sapevo _ dove posare lo sguardo, insieme ebbi vergogna che se ne avve_ desse: per non mostrarle l’impaccio, parlavo: nello scorgerle una lunga cicatrice, esclamai:

_

«Che

hai fatto? » 319

|

« Quando

nascesti te, mi fecero il taglio cesareo. Per poco

morivamo tutte e due. Forse era meglio. » « Che dici? » Senza badare che era bagnata, la abbracciai.

Perd questi sono momenti rari o quasi unici nel libro. Quando la madre muore, parrebbe giunta l’ora suprema d’impegno, per la protagonista e per chi scrive. Ma nel silenzio della casa, mentre Letizia si affanna ad aggiustare le corone, il fratello le osserva:

« Smetti, non siamo mica a

Cinecitta ». Il ritmo caricaturale finisce per prevalere, e il gioco, a un certo punto, non pud dissimulare una irrimediabile aridita. A difesa della Volpini, c’é solo da parafrasare Varringa dell’avvocato che difende Letizia Bruschi al processo pet tentato espatrio clandestino. La Volpini ha tentato la sué avventura letteraria, ma chi le ha fatto credere che potess¢ andare molto lontano l’ha ingannata. Il buon lettore l’assolve: perché anche in letteratura « le intenzioni, come nor si premiano, non si possono punire >. 195(

320

- eee

.

Sr



eh amyof sicesaa leet di yaar

Sara meno difficile spiegare il titolo di questo nuovo romanzo di Moravia quando avremo fatto la conoscenza del protagonista e delle sue non comuni avventure. Senza esporre le quali ogni discorso rischia di apparire polemico, mentre l’opera, almeno per limportanza dell’assunto, merita una critica serena e approfondita. Figlio di una erotomane e di un pazzo, Marcello passa a Roma i primi anni di una agiata esistenza borghese, abbandonato alle « furiose voglie » delle sue crudelta infantili, in una solitudine senza amore.

L’indifferenza materna

reprime un suo tentativo di confessione, che € un sano impulso a chiarire i primi dubbi della sua vita interiore..E co_ si, avendo accoppato un gatto per puro caso, ma con /’intenzione di colpire un compagno, egli si ritiene predestina_ to a una vita criminale. L’omicidio non tardera. Attratto da Lino, un ex prete che ha fiutato in lui morbidi lan- guori, sul punto di subire i suoi capricci, ubbidisce all’improvvisa volonta di castigo che si fa luce in questo degenerato e gli spara addosso con una rivoltella che lo stesso Lino gli porge. Al secondo tempo ritroviamo Marcello adulto e (per esser rimasto impunito) ossesso dal bisogno di _ normalizzarsi: sposera una « popputa e ventruta » Giulia, _ non perché l’ami, ma perché pensa che, solo diventando un __ irreprensibile padre con prole, cancellera ogni eventuale 4 residuo di inversioni e deviazioni.

Marcello

detesta questa

_altrettanto voluminosa quanto superficiale ragazza « di buona famiglia », che d’altra parte é anch’essa un frutto bacato. E come abbia subito la turpe conquista di un maturo seduttore, con la consueta passivita e successiva violenza di rea-

zione dei personaggi moraviani, lo raccontera allo sposo la rima sera, in vagone letto. Cid non sbigottisce il nostro _ calmo eroe, che trova giusto il prezzo da lui pagato per 321

conquistarsi la normalita sessuale. Qualcosa di molto piu _ caro e piu grave gli ha imposto la sua carriera di funzionario ossequiente con assoluta dedizione agli ordini dei superiori gerarchi ministeriali. Benché tutto gli repugni del regime fascista, egli ha accettato, sempre per la voglia di « conformarsi », una missione segreta a Parigi. Dovra indicare ad alcuni agenti della polizia segreta un professore antifascista, piuttosto innocuo, ma destinato (non si sa be-

ne perché) alla soppressione. Il che avverra nel terzo tempo con molte e macchinose vicende, ma senza gravi perturbamenti di coscienza da parte del.nostro volitivo personaggio. Non per nulla egli aveva fatto la sua brava confessione prematrimoniale nella chiesa di S. Ignazio: imbattendosi in un cosi gaglioffo casuista, che si era alzato dall’inginocchiatoio con la convinzione di essere irrimediabilmente dannato. Unica speranza di salvezza la missione segreta impostagli da una piu alta religione, quella della patria, che avrebbe _ finito per liberarlo dall’ossessione della normalita. Marcello si era persuaso di una rozza e tutta infantile idea dell’espiazione, per cui un delitto di Stato, eseguito collettivamente,

varra a cancellare ogni sua colpa individuale. Il delitto ‘si richiama senza possibilita di frainteso alle circostanze in cui furono uccisi i Rosselli, cugini del Moravia. Ma l’antifascista del romanzo, Edmondo Quadri, é un idiota della pit bell’acqua: vero tipo del cospiratore come amava fitrarli il padre Bresciani. Il Quadri pero interessa lautore soprattutto perché ha una moglie lesbica, la quale si innamora

di Giulia, mentre Marcello é attratto dal suo equi-

voco fascino. L’epilogo ci riporta a Roma alcuni anni dopo, 25 luglio *43, crollo dei gerarchici paradisi familiari. Dopo una passeggiata in citta, la cui atmosfera badogliana lautore vede « obbiettivamente » dal punto di vista di Marcello, i degni coniugi, tra schifati e impauriti, riparano a Villa Borghese dove Giulia propone al riluttante marito di dimenticare tutto, sull’erba. L’accoppiamento é interrotto da una fantomatica apparizione. Sotto le spoglie di guardia notturna, ricompare quel Lino che Marcello credeva di avere ucciso. Dunque aveva fatto tutto quello che aveva fatto per riscat- tarsi da un delitto immaginario? Il sugo di tutta Passurda B22

storia evapora a fumetto dalla bocca della guardia: « Tutti siamo stati innocenti, tutti perdiamo la nostra innocenza: é la normalita ». Ma se il novello Adamo si smarrisce in confuse considerazioni sulle sue colpe, Eva nella sua beata

incoscienza trova le parole per consolarlo. E gliele dira in macchina, fuggendo da Roma in Abruzzo con la figlioletta (una ragazzina che somiglia « sgradevolmente » alla nonna paterna e non promette molto di buono). « Perché colpa tua (obbietta lei a Marcello)? Non é mai colpa di nessuno... tutti hanno nello stesso tempo torto e ragione ». Ma mentre Marcello sogna almeno per la figlia un avvenire migliore, « la sanguinaria pedanteria che fino a ieri aveva informato il suo destino », si compie. E la bella famigliola moraviana muore ammazzata da un aereo, che le mitraglia addosso una furibonda vendetta celeste, senza distinguer troppo fra innocenze pil o meno perdute, o da perdere. La famigliola conformista muore con lo stesso stile con cui é vissuta. E lo stile di Moravia: la grandinante, rabbiosa, accecata irruenza con la quale ha tirato git: questa sua teatrale e romanzesca narrazione. Voleva darci una specie di « trage-

dia italiana », ma mancandogli il grande fiato di Dreiser, e una elementare chiarezza di principi politici e morali, ci ha dato solo un documento

(importantissimo,

in verita, e

raccapricciante) della sua tragedia di scrittore, sulla quale yorremmo poter discorrere con quella altezza di tono che egli stesso ha saputo raggiungere talvolta, anche in questa sua estrema involuzione. Ce un fondo tragico in Moravia, € vero, ma in un senso molto limitato e individuale. Penso alle pagine in cui ritrae Marcello sgomento di fronte all’atroce amplesso dei suoi maniaci genitori, 0 sorprende la madre, « nel suo squallido € itrimediabile abbandono ». Proprio per questo é inesatto paragonarlo ai romanzieri libertini del ’700. La loro lezione ha fruttato caso mai al Sartre dell’Infanzia di un capo. Qui € studiato un argomento affine: un giovane invertito che si inizia al fascismo francese. E un « pamphlet » secondo la misura classica:' dove l’immondezza é€ presa con i guanti della pit rigorosa letteratura: ma é un omosessuale vero, che diventa un vero fascista, responsabile e cosciente della _ prima e della seconda esperienza, a cui giunge attraverso 323

un processo psicologico obbiettivamente studiato in tutti i suoi passaggi. Qui invece sguazziamo in un imbroglio melmoso, e non c’é bisogno di arrivare alla fine per accorgersi che il conformista é mal conformato non solo dal punto di vista morale e politico, ma da quello artistico. Ce ne accorgiamo ad ogni pagina, grazie proprio agli interventi delVautore che da continuamente la carica al meccanismo del suo Marcello e raggiunge cosi effetti ancor pit disturbanti ed extra-estetici. Appena usciamo dall’ambito della sessualita, la tragedia diventa astratta ed impersuasiva, perché intorno al gelido e programmatico eroe, gli altri personaggi, quando non sono degli anormali, affogano in una normalita corpulenta, ottusa, degna per l’autore solo d’irrisione e sarcasmo. Cosi assorto quando si china a lambire piaghe e purulenze incurabili, Moravia diviene triviale e sommario, proprio quando, con lo stomaco in gola, aspireremmo almeno a un po’ d’aria fresca. Ecco lo strano coro di pupazzi che Marcello, prima di morire, vede dall’alto deila sua

automobile : Le facce dei rari contadini che si scorgevano appoggiati alle staccionate, o in mezzo ai campi, la vanga al piede, non

esprimevano che i soliti sentimenti di stolida e pacifica attenzione per le cose normali, consuete, ovvie della vita. Tutta gente che pensava ai raccolti, al sole, alla pioggia, ai prezzi delle derrate o addirittura a nulla.

Corriamo a cento all’ora sulle vie maestre del brescianesimo: verso la catastrofe, non verso una purificazione.

Se Moravia ha reso consapevole Marcello di aver cercato una « normalita purchessia » e di aver trovato una societa che « é una forma vuota dentro la quale tutto era anormale € gratuito », il lettore ha il diritto di chiedergli: dunque, per Vautore non esiste, oltre la norma zoologica della vita

sessuale, qualcosa che si chiama amore? E oltre il falso conformismo che ha trovato Marcello, non esistono dei conformismi autentici, validi sia sul piano morale e religioso,

che su quello politico-sociale? Ma a queste domande lo scrittore non puo rispondere, altrimenti si sarebbe accorto che in un falso conformismo non puod esserci materia e di324

“i i a gnita di tragedia.

A Moravia, studioso di Gramsci,

ci ri-

sparmiamo di ricordare quelle pagine di Letteratura e vita nazionale che trattano appunto del conformismo: cioé di quella socialita la cui forza creativa, razionale, ¢ tanto pit facile da smarrire per le classi che tramontano, quanto é difficile da conquistare per le classi in ascesa. Moravia ha un concetto affatto negativo di quel che ama chiamare la « societa italiana », ma che in effetti si riduce a certi am-

bienti di media e piccola borghesia in putrefazione. Yinclinazione polemica di Moravia,

la sua

Con

« societa » non

puo offrirgli che materia di satira. Concepire pero questa societa come una specie di ipocrita o balorda mascherata che sfili davanti allo scrittore « coraggioso », sol perché questi la flagelli con raffinato sadismo, puo condurre alla pil repugnante gratuita artistica e morale se lo scrittore non ha il coraggio di un punto di vista superiore. I] distacco tagliente, la crudele amarezza restano qualita secondarie, se non scattano da una indignazione intera, coerente,

adulta.

In Moravia il piglio dello scrittore appare spesso avventato

_

piu che aggressivo,

__ __

che glié caro) pit che diretto dalla sicurezza che nasce solo dopo una chiarificante meditazione. Per questo la sua icono-

« forsennato » (per usare un vocabolo

_

clastia non da l’impressione di una coscienza energica, ma di un’anima offesa da lontane ferite: indifferente alla scelta,

_ paurosa della liberta, ignara della fede in qualche valore _ della vita per cui valga la pena di lottare. E appunto per _ questo che egli non sa neppur concepire che possano esi_ Stere personaggi positivi. Si ha Vimpressione, che avendo - provato altre volte una morbosa curiosita a denunciare se-

_ greti e tremendi crolli di valori morali, sia stato poi solle= citato solo da un perverso furore di sfregio, che non trova limite, e abbia finito per rivolgersi addirittura contro la propria arte. E l’esasperato estremismo di una rivolta infantile:

inutile chiedere a Moravia contro quale societa e per quale ocieta combatta. La vocazione di moralista che riveld nei conto che per passare dalla satira individuale a quella di un ambiente, occorre porsi con serieta dinanzi a problemi

325

a

una salda concezione della vita. Oggi Moravia con un machiavellismo assai scoperto vuol mantenersi in bilico fra la pornografia e una moralita che accontenti il Corriere della Sera, tra il fascismo e l’antifascismo superficiale (tipo il suo vecchio libro La mascherata), fra una tematica « religiosa »

e le punte antigesuitiche. Francamente c’é da dubitare se resti ancor valido un giudizio favorevole sugli stessi /ndifferenti, e piu che mai rimpiangiamo quella confessione davvero coraggiosa ed alta sul piano dell’arte che fu /nverno di malato. r La critica € stata unanimemente

severa sul Conformista:

anche i critici — rispettabilissimi — di quei rotocalchi longanesiani che hanno sul conformismo come « male del secolo » le stesse idee approssimative onde questa romanzesca tragedia aborti. Vogliamo dunque concludere che Moravia sia giunto all’epilogo e, come il suo Marcello, viva ormai sotto il fuoco degli aerei americani e di meccanizzate divinita? E troppo presto per dirlo. Noi vogliamo avere ancora fiducia nel suo fortissimo temperamento di scrittore -e nelle possibilita di una sua radicale autocritica. 19541

326

_

11

Un novelliere dell’interregno:

Domenico

Rea

Rea é nato 1’8 settembre 1921 a Nocera Inferiore. Precocissimo, si puod dire che sia nato all’arte narrativa con 1’$ settembre 1943, « al tempo dell’Interregno » al quale si richiamano alcuni suoi scritti e, credo, i migliori. La vocazione gli fu chiarita dai fatti straordinari di allora: quando l'Italia era in pezzi e la disgregazione del Sud, avendo toccato il fondo, comincid a fermentare in una primordiale, subitanea vitalita. Stando cosi le cose, o meglio, movendosi cosi, ci furono dei letteratelli che continuarono a dormire i

sonni carnali della provincia addormentata. Nemmeno le bombe avevano saputo svegliarli. Ci fu chi, esperto a trafficare se stesso, cavO dall’accaduto materia di stupefacenti letterari, facile spaccio nei dopoguerra della « civilta » borghese. Altri invece si accomodo al posto del defunto Ojetti: € non senza patetici e forensi « vi assicuro », « vi garantisco » ecc., ammanni un po’ di cose mai viste: tanto inorpello la miseria

di Napoli,

che nella borsa

nera

dell’arte

contemporanea, da mediocre giornalista che era fu scambiato per un facoltoso scrittore. Inutile fare i nomi. Tra qualche anno nessuno ne parlera piu, e non ci sara pericolo di confondere i loro argomenti ed espedienti a successo _ col modo del quale Rea ha cominciato a raccontarci « no_ velle ». Ché veramente solo in queste sentiamo la virulenza, _ Vallegria del superstite che ha partecipato con intera vigilia del corpo al dramma dei fatti-e, in mezzo alla terrificante casualita della guerra, dai pensieri di morte si riscosse « tutto vivente come in ritardo, come chi di un minuto solo vuol fare un’epoca ». Raccontare fu per Rea il modo di ee _ scoprirsi vivo e di sopravvivere: come quando nelle tenebre e dei ricoveri « col pepe nel cervello » si sorprendeva « in_ tento a circoscrivere la sua reale situazione ». Questo mo_ mento poetico é alla base dell’arte di Rea: uscire dai for“s

327

micai al sole, ritrovare l’ebbrezza degli appetiti elementari: Il sole, a piccoli

salti, si andava

staccando

dal colle, con

tutti i cigli visibili e remiganti per equilibrarsi. Al suo dolce calore, i nostri panni muffiti fumavano la pioggia della cantina © di cui s’erano impregnati; e altrettanto il cervello, riaprendosi alla luce, pareva esalasse gl’incarnati e ossessivi pensieri di la sotto; dove ci si era raffigurato distrutto il mondo; e come scomparsa la nostra persona corporale, ridotta da quell’oscurita. a ombra e fiato. {

Ennesimo fra i discepoli meridionali del Caravaggio, Rea seppe gettare fulminei colpi d’occhio a questa « rinascita del mondo avvenuta cosi popolosamente ». E cos’era il mondo?

I paesoni e i paesi del Sud, scassati dalle bombe,

che lungamente avevano fatto « tremare il creato come una cristalliera ». Tutto sembrava trasecolato ad altre eta, quando raggiungere i paesi era un’impresa incerta. | treni erano tornati quelli del re Ferdinando.

Ma prima che tornassero,

parve di arretrare ancor pit nel tempo: « I carrettieri vissero lultima carretteria, i carrozzieri |’ultima cocchiereria.

Si doveva incollare lo rumore delle strade... Cosa non infrequente volta Pavese), quelli non sapevano

sparatrappo alle finestre per attutire/il La penna se ne cadeva dalla mano >. in questo dopoguerra (l’osservO una che avevano imparato ad esprimersi

pit cosa scrivere, e chi aveva tanto da dire,

non sapeva come cominciare. Sollecitato da una poesia energumena, che brulicava dalla vita reale, cosa poteva. fare un giovane al quale la letteratura poco prima in piedi sembrava anch’essa in frantumi, e per le strade ormai si udiva un ibrido gergo italo-americano; cosa poteva fare un giovane se non affrontare coraggiosamente i classici? Rea si rilesse Boccaccio, il solo meridionale fra i toscani, tornato di

colpo cosi contemporaneo nella peste dell’Interregno, cosi splendidamente vicino al volgare napoletano. Mentre tanta povera gente affrontava la fortuna, l’avventura, e per fame e disperazione « si diede a vivere incredibilmente », Rea si

mise a scrivere incredibilmente. E anche lui, fu la « sguarroneria » che lo salvo. La figlia di Casimiro Clarus, che Francesco Flora (bene-



_ Merito scopritore di Rea) presentd a « Mercurio » nel 45,



328 .

composizione. Fu salutato ‘dai letterati come una novita. era tale ma non proprio per quel tono di composta alria che suggellava melodiosamente il racconto (l’amore un povero maestro elementare per « un’innocenza di don» figlia di un ricco agrario); bensi a causa della figura ( asimiro, che tanto disprezza quel maestrucolo, e geloso ja figlia come d’ogni suo bene, gl’invidia e gl’impedisce | felicita che lui stesso non é€ riuscito a possedere, afito nella grascia e avvelenato dalla convivenza di una e troppo cafona e troppo fedele. Questo racconto, pato da Rea opportunamente in appendice al suo 0 volume, Spaccanapoli, é da considerare come l’addio erto consolato lirismo della vecchia letteratura, quella

ventennio. Nei moti frenetici di Casimiro, spinti fino ad ormentata buffoneria, che contrasta con la dolente me dei due giovani, c’era uno spunto tragico a cui bbe potuto dare sviluppo solo una tragedia pit. vasta. lichiarazione di commovente ingenuita Si legge in i queconto: « Il vero é cid che é sentito, cid che si fa mento ». Per forza di fatti, questa divenne la poesia a, al tempo dell’Interregno: questo fu il suo vero, ) divenne il sentimento delle sue novelle. n sono quelle del Decameron, ci ha avvertito un cri‘ertamente. E chi mai oggi puo sopportare paragoni 1? Allo spreco di parentele pit o meno illustri per cee qualita di Rea,é€ forse ingeneroso contrapporre «fe tenze > che si possono leggere nei suoi

ttosto : come uno di quei poveri maestri d’orulanti, che s’immergono nella loro musica e ne | di questo scriver recitando (ma non si dica De ca Viviani, che fu un mimo popolare e grande) 329

Rea é giunto a consapevolezza critica. Per esempio nel | conto Mazza e panelle, a proposito della trovata dun gazzaccio, che per sfuggire alle sanzioni paterne, salta l'orlo di un pozzo e compie evoluzioni e piroette, per di teressato gusto lazzaronesco, leggiamo una frase rivelatri « il recitato trascendeva il reale ». E Rea ha finito per corgersi del suo rischio supremo di scrittore, di precipi cioé nel vuoto dei capricci letterari. Che oggi sarebbero perflui, dopo le fumisterie e i « delirami» di un Bai

L’altro rischio, evidente in questo suo ultimo libro (G fate luce) & la soluzione favolosa, il Cunto de li cunti, «

protrarre la vicenda e « paroliare » a spese dei fatti, es gare il tutto con un « la gente felice e contenta, ringraz do Dio che non era accaduto

nulla, se ne ando diverti

per i fatti suoi ». Due rischi, che sono gli aspetti di stessa malizia inventiva: una troppo spettacolare Scer fra marito e moglie, o il sogno tra barocco e surreale d Cocchiereria,

dove lo stile « spaccanapolitano » di Rea

,fatto le sue prove supreme. Ma é€ un punto d’arrivo dove si puo trovare la trapy

di una via chiusa. Rea ha imparato che limmaginazi « non sa mai niente, nega qualunque verita »: limmag zione esuberante potrebbe indurlo a negare le stesse ve delle quali ha cominciato ad aver sentimento. Zavat dopo aver scoperto che i « poveri sono matti », i ha sunti e consolati in celesti miracoli a cavallo della sc Rea ha appreso dal « quinto stato » meridionale Part « pazziare », d’inventare mimi e danze tragiche, « per lare il nodo della tristezza e della gioia, che tutte sbocc nella morte » (come ha detto benissimo Flora). Proprio:

questo non saprei chiedergli (come gli ha chiesto Cec di uscire dai suoi racconti. Come avrebbe potuto scri il Morgante Luigi Pulci, questo geniale scopritore del caresco, se non fosse stato il personaggio fondamentale suo poema? Resti nei suoi racconti Rea, ma parteggi © ramente per i suoi eroi straccioni, per il suo « quinto: to », e stia attento a non inciampare nei manti baro: che fanno da « coprimiseria ». Una volta ha tentato di presentare le « formicole rosse » del Sud, « tutte tese ¢ vere », € pronte a « scontrarsi e azzuffarsi con coloro 330

stacolano il loro cammino ». Ma dopo una promettente fazione del regista, la tragedia é fallita fra allusioni mboliche e violenze espressionistiche, i personaggi si sono ezzati in grida e gesti, « impennate e genuflessioni ». Il roblema di Rea consiste nel non eludere, ma nell’affronta»con piena consapevolezza il contrasto fra le « formicole se » e il mondo che, con ironia, egli definisce « giustaite rigoroso, guardato da codici e chiese ». Se in questo vo libro ha fatto progressi di stile, cid si deve ad una quisita consapevolezza del contenuto: Rea ha imparato limmaginazione «non sa mai niente, nega qualunque 4», puo insomma indurlo a negare le stesse verita delle i ha cominciato ad aver sentimento. E non a caso leg10 queste parole nella Breve storia del contrabbando, a delle cronache dell’Interregno. Sono come un proeal novelliere (o al romanzo? non importa) che Rea ha cominciato. E non proprio quando stracolorisce in Estro

SO gelosie rusticane, ma piuttosto quando ci narra di ppuccia o di Mongino, che solo nel carcere hanno tropane e casa » ed é la sola patria che la societa gli ha ynato a comprendere. Quando Rea illumina vivamente osuolo della disgregazione meridionale, riesce ad imhere nella nostra memoria fotogrammi audacissimi. Ec« prostitutella pallida e freddolosa, con le dita sporicotina, che cambiava paese e seguiva < in tradotta » he € comode colonne americane. Se le si dava a non rispondeva. Se le si offriva una cosa, ringraziagli occhi attraversati di fraterna luce. Negli altri ti della sua vita doveva usare gli occhi falsi ». E alna monaca alla vista di Piededifico, il « pezzenteche non potendo piu esercitare la sua professione, iato nella ben provveduta cantina delle nostre soristo, e ha trovato finalmente il sistema per man-

€ la sua famiglia. il piu bel racconto di Rea (per il quale vorremmo

a

331°

~ era il pit’ adatto ad ospitarlo. Qui Rea ha dimostrato saper rimanere nel racconto, contenendosi e rattrappend nella delusione di una povera vecchia, che in un bell’au bus credeva di poter viaggiare e di poter recarsi a Nap ad accompagnare un’altra derelitta, una mutilatina di gu ra:

i soldi non bastano

anche per lei, il fattorino le of

cinquanta lire, per non offendere i signori viaggiatori chi limiteranno a donarle spalle e nuche senza orecchie. signora scende e la bimba prosegue, l’aspettera al cay linea. A Pompei certi « miracoli » non accadono.

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332

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Brancati e la censura

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18 gennaio di quest’anno l’ufficio censura della prea del Consiglio vietava la rappresentazione della comdi Brancati La governante. L’indignazione per il di9 ha ispirato all’autore un pamphlet, che egli ha scritto anto per difendere la moralita del suo lavoro (gli deinfatti solo una pagina), quanto per denunciare i sinallarmanti di una tirannide clericale in formazione. a difesa della Governante sarebbe stata superflua. Se una cosa fuori discussione € proprio la moralita della nedia, che (basta leggerla)é « quella provinciale e trap ale », come dice giustamente Brancati. Protagonista, avoro non é pero la governante francese con la sua perone sessuale e coi suoi rimorsi, che la portano al suioffocata dalle preoccupazioni moralistiche dell’aurima ancora che riesca a vivere come personaggio co. Il protagonista vero é don Leopoldo Platania, vecsici iano trapiantato a Roma, e visto in una situazione

E un tentativo di uscire da quel « gallismo » che Spassosi pretesti ha offerto ai piaceri dell’immagina» diBrancati. fore ha cercato di uscire dai limiti del suo tempera« gelido e beffardo » (cosi una volta ebbe a definirlo to Marchesi). E meritava che la sua commedia fosse al giudizio pit appropriato per un lavoro dramil giudizio del pubblico e dei critici sulla rappresenteatro. Anche per questo motivo, quanti seguono

ori contemporanei nel loro difficile cammino, si _sineeramente dolere dell’ostacolo che si e voluto

temevano i signori della censura? Il successo del —

333

lavoro? Era questo che hanno voluto impedire? O forse ne la Governante cera qualcosa che non si svolgeva entro limiti della morale tradizionale e provinciale, e avrebbe fa to scandalo? Brancati ha osato mettere in caricatura lo scadente catt licesimo di una famiglia borghese italiana, ridotta allip crita e banale principio che per coprire una sensualita pomicioni « un po’ di religione ci vuole ». Al confront una calvinista che si uccide € una concezione troppo seri troppo elevata. Si contenti della censura l’autore: qui ci s rebbe stato gia materia (diciamolo col Belli) « per fotter

addrittura a Sant’Uffizio ». Brancati fa intravedere nei rapporti tra i padroni e servith quanto feudalesimo sopravviva ancor oggi nella vi italiana. E per colmo osa far comparire sulla scena il pe tiere di un barone siciliano manutengolo di briganti. Ar ci fa sapere che questo povero diavolo va in galera al pos del nobiluomo. A sentirlo parlare, per lui la volonta di D coincide con la sua miseria e con tutti i suoi guai: c¢ Vha ridotto quella morale di classe che si ammanta col n me di morale cattolica. E sono cose da dire queste, e teatro, ai tempi di Giuliano, di Pisciotta, di Scelba, di pac Lombardi? Brancati infine si é divertito a ritrarre dal vero (diver mento, riuscitissimo) un celebre scrittore (il Moravia) ne ha fatto, col prestanome di Alessandro Bonivoglia, — frequentatore del salotto Platania, in maldestra ricerca avventure 0, mancando queste, di tranches de vie per i SU racconti. Ora questo scrittore sparge ben dati e ben ritati insulti alla borghesia. Figuratevelo a teatro un pers naggio simile, che tratti la maggioranza dei suoi spettat con un linguaggio diretto, senza perifrasi e senza allusio talché don Leopoldo, alla fine, ammirato e persuaso, dice: « Le sue parole sono sante. Tutte verita... fa bene

buttarci addosso fango. Che cosa ci vuole buttare, fiori? deve coprire di fango, sino ai capelli. Perché siamo px ci... »! Rappresentare questa roba, via, siamo giusti: sar¢ be stato un’enormita. Non potevano rendersene complic prudentissimi censori. E figuratevi con quanta gioia Si | ranno accorti di avere in qualche modo precorso I’Indi 334

i € occupato recentemente delle opere di Alessandro onivoglia e le ha additate al braccio secolare. « Che naso ‘avranno detto tra sé), che naso abbiamo avuto! » E se lo saranno accarezzato con volutta, pregustando una bella carriera € un potere sempre meglio adeguato a tanto fiuto. -Censori siffatti si possono chiamare zelanti, lungimiranti, ma non certo cosi sciocchi come li giudica Brancati nel uo pamphlet. In questo (e in altre cose ancora, subito) non sono d’accordo con lui.

che dird

_ Ho avuto la fortuna di leggere le sue pagine nella prima stesura, quando erano destinate a fare da breve appendice sella commedia: scritte di getto, brillanti, epigrammatiche,

sembravano una serie dei pit mordaci e inventivi disegni di accari. Restano le pagine migliori anche in questa secona redazione pil’ ampia, dove il Brancati ha voluto impearsi a fondo, conscio di dover fare qualcosa per una quelone che va al di la del fatto personale, di dover prendere ee

sizione contro il soffocamento della nostra vita culturale.

iscitata da quella prima lettura si ¢ modificata leggendo il libro. E limpressione é che esso sia stato scritto

sontro una reazione destinata a prevalere. La prosa di rancati, cosi caustica quando satireggia l’odio di Andreota cultura e copre di ridicolo i suoi funzionari, clericoSti di ieri e di oggi, suona invece retorica in quelle elle quali dovrebbe invece concludere a una persuaenergica del lettore. Brancati.si rivolge ai professori Universita italiane, perché intervengano contro la cenPosso mai credere che egli ignori quanti di questi ricali e fascisti, e dunque i meno adatti a raccoglieVappello; i pit adatti a perpetuare nei giovani l’indiffeper la liberta e praticamente l’odio per la cultura? ‘a dunque di un appello, scritto con la certezza che

a raccolto. piuttosto capito che il Brancati si fosse rivolto agli

olitici e agli uomini di cultura pit vicini alla sua

Sc

335

posizione. Ma o egli non li onora nemmeno della fiduci: di un appello retorico, oppure ha compreso che rivolgendo si a loro non avrebbe potuto non criticarli e svelarne levi dente contraddizione tra quel che dicono di essere e que che fanno: religiosi della liberta a parole, aspiranti di fatt a sostituire al governo le destre fasciste e clericali, pe coonestare e consolidare il regime del « galantuomo » Di Gasperi, ivi compresa la censura brescianesca del suo An

dreotti. Avrei capito un appello alle sinistre, a coloro che per primi hanno lanciato l’allarme per la minaccia dell’oscuran tismo in Italia. Non sia mai! (ha Varia di rispondere Bran cati) e si fa il segno della croce. | Come

tanti altri intellettuali italiani, Brancati

é in uni

posizione di aperta sfiducia e perfino di disprezzo per l’Ita lia « possidente » (come egli preferisce dire in logo d « borghese >). In questo pamphlet si esprime in termini d vera e propria condanna contro questa Italia (che non ¢ sa fino a che punto poi sia esatto chiamare ancora « Ita lia »). Ma non gli passa neppure per il capo che la lott di un intellettuale per le sue liberta oggi é indivisibile dall lotta dei lavoratori italiani per le loro liberta, e che nel

misura in cui queste lotte sono condotte unitariamente possibile una democrazia in Italia. Brancati invece ci tien a mettere i punti sugli i, per far capire che se lui é anti borghese e anticlericale di circostanza, perché la reazione lo tira per i capelli, é innanzi tutto anticomunista per prin cipio. In fondo, se la nostra borghesia fosse meno ignoran te, se il cattolicesimo italiano fosse meno

arretrato e pro

vinciale... Io (dice a un certo punto e ad ogni buon fin) Brancati) non ho esitato nel 1942 a inginocchiarmi davan| ti a Pio XII, che dava del « lei » con raro coraggio civil| e faceva dei formidabili discorsi antifascisti... Ora, a Brancati che cita con tanto entusiasmo il D Sanctis e vorrebbe che il suo saggio su padre Bresciar fosse letto in tutte le scuole (ma quali scuole: quelle pre! senti o quelle che ci promette la riforma Gonella?) io. vorre

ricordare un’altra pagina del De Sanctis, quella che con clude le lezioni sulla scuola cattolico-liberale, dove si d| mostra in che cosa e perché siano falliti i liberali in Itali

336

i

e si parla di « uomini con evidenza scettici che si picchiano il petto », e ci ricorda «l’antica piaga italiana che ci ha impresso in fronte il marchio della ipocrisia, la quale si riapre e inciprignisce ». Non s’illuda il Brancati con le sue distinzioni teoriche ¢ le sue cautele pratiche. Oltre Tevere (per un’esperienza che va da Vittorio Alfieri oramai ai giorni nostri) sanno benis~ simo qual conto debbano fare degli astratti atteggiamenti libertari di tanti intellettuali italiani. Oltre Tevere aspettano. C’é sempre un monsignore pronto a mettere nelle dovute forme il discorso di un Antonio Baldini che si rechi a umiliare un po’ di cultura ai piedi di Sua Santita. Dicono che Brancati ambisca d’essere il Gogol della Sicilia: non vorrei che il punto di contatto si restringesse solo — alle involuzioni reazionarie di quel grande. Come ho detto, nella Governante egli m’é apparso coraggioso pit. che in altri suoi scritti, ma i limiti artistici di don Leopoldo ecce-

dono di poco i limiti del pamphlet, i limiti dell’autore in quanto uomo di cultura. Tuttavia se il personaggio della commedia € grottesco e muove al riso, l’autore del pamphliet si dibatte tra contraddizioni

che sono

molto

meno

semplici e che intanto non sono individuali e, anche per questo, riescono altamente significative e drammatiche. Non si tratta solo di Brancati e della sua commedia,

si tratta di

_ Alvaro e di De Filippo, di Levi e di Moravia, di Rossellini e di Zavattini: si tratta di una crisi profonda della cultura _ contemporanea che in Italia assume aspetti di eccezionale _ gravita. Ma credono questi uomini di poter salvare la li_ berta dell’intellettuale al di sopra delle lotte internazionali, delle lotte fra classe e classe, fra partiti e partiti, fra opposti _ schieramenti politici e ideali? S’illudono di poterlo fare alternando la tattica di don Chisciotte a quella di don Abbondio, i ragionamenti di Sancio Pancia a quelli di don sie _ Ferrante? Se € vero che credono nella forza dell’ intelligenza e della cultura, perché poi hanno cosi scarsa fiducia in se stessi e non prendono iniziative serie per affrontare in Ita_

lia, in concreto, i problemi della liberta della cultura, po- |

nendo magari delle condizioni per un’intesa chiara e dignitosa con quelle forze che sole possono ostacolare il trionfo

di una tirannia alla Franco o alla Salazar? 337

Dice il Brancati che la lotta per la liberta e la espressione del pensiero @ una lotta ben distinta da quella che combattono le classi lavoratrici. Ammettiamolo pure. Ma avete cosi poca fiducia nelle vostre idee, nella capacita di lotta e nel vostro stesso prestigio di intellettuali, se pensate di non poter in nessun modo influire sulla direzione e il rinnovamento

culturale dell’ Italia,

dico di quella presente e di quella avvenire? Ma ci credete ancora all’Italia, oppure preferite parlare dell’Europa e del mondo, perché non avete il coraggio di confessare che lo sfacelo dell’Italia « possidente » significa per voi senz’altro lo sfacelo dell’Italia? Da questo stato d’animo possono nascere articoli, pamphlets, proteste, libri, ed &€ bene che ci siano e che si mol-

tiplichino. Ma occorre uscire una buona volta da un atteg- giamento arrendevole e crepuscolare, per cui inconsciamente si desidera che il fascismo o il clericalismo, in una parola la vecchia decadenza italiana prosperi e si consolidi, per poterci declamare su le nostre brave orazioni libertarie. La resistenza al clerico-fascismo anche nel campo della cultura comincia ora, perché ora comincia il clerico-fascismo piu/ pericoloso, quello che ci promettono, in nome della democrazia e della liberta, i poveri parenti di De Gasperi e di Scelba e di Andreotti. 1952

338

13

La verita con le gambe corte

Lessi le prime pagine di Silvio Micheli nell’inverno °42°43. Fu Pavese che mi passo il manoscrittodi Pane duro, per il desiderio di avere una conferma al suo lieto consenso. Era la prima stesura, molto pit. breve, del romanzo

che fu

poi pubblicato nel ’46. Senza grosse ambizioni, aveva in compenso |’immediatezza coraggiosa del « brano di vita », confessato di getto, con la veemenza di una protesta sincera contro la retorica e le menzogne ufliciali. In giro si continuava a parlare, se pur distrattamente ec pil svogliatamente, di neo-realismo a proposito (e magari a sproposito) della giovane narrativa italiana. Quel libretto ci parve promettere molto. E ogni volta che poi ho aperto un nuovo libro di Micheli, sempre mi é ritornato lo stato d’animo di quella fiduciosa scoperta, con una aspettativa anche troppo sproporzionata e percio forse gia predisposta alla delusione. In Tutta la verita (il quarto romanzo

di Micheli), ritro-

viamo il suo contenuto pit: schietto, che lo sollecito al racconto la prima volta, quando alla sua vita di disegnatore tecnico comincio ad alternare la fatica dello scrittore, rubando al sonno le ore della notte. Questa vita stentata, che ci racconto in Pane duro, nei suoi fondamentali sentimenti (anzi, risentimenti) caratterizza agli inizi del nuovo romanzo

Ja figura del protagonista. Pesantie grige nuvole, ore otto al mattino,

quell’inverno.

e pensavo

ad uscire.

lo entravo I] mondo

in ditta,

era fermo,

tutto era fermo e grigio. La gente mi passava vicino, dicevano della miseria. Anche sulla bocca degli operai non si sentiva che della miseria. In me non c’era che angoscia, una smania continua, una nausea che mi mangiava dentro, a

pensare

quanta

gente a questo

tanni, cosi, simili a me.

339

mondo,

poveri cani sui tren-

Il randagio, il réfractaire é stavolta un ingegnere settentrionale reduce dalla Germania. Ritorna a Napoli nella fabbrica dove lavorava prima della deportazione. Una Napoli in macerie, dove egli con la chiusa ostinazione e la scontrosa diffidenza di chi ha troppo sofferto, tenta di riconquistare il suo amore alla vita. Declassato dalla miseria del dopoguerra, non puod non esser respinto dai colleghi e dai superiori, ai quali ogni occasione basta per umiliarlo. Anche Concetta, la sua amante, non sa ormai che farne di

uno come lui che ha dimenticato gli orgogli e le voglie della piccola borghesia, e sembra che provi gusto ad assaporare la sua amarezza

di reietto, di offeso. Gli preferira Pavullo,

un affarista « lumacoso » che se la intende bene con gli americani (un tipo che abbiamo gia visto nella Manon di Clouzot). Un po’ per la salute cattiva, ma soprattutto perché stufo di essere angariato, l’ingegnere lascia la fabbrica, dove solo qualche vecchio operaio gli mostrava affetto e comprensione; e accetta la proposta di disegnare macchine per una officina gestita da una cooperativa di operai. Qui trovera qualcosa di pil che un’occupazione: partecipera agli sforzi e alle lotte di un organismo collettivo, ritrovera le ragioni e le speranze d’un mondo nuovo. La luce di un amore vero (Maria, una giovane operaia) diradera il grigiore di un inverno che era apparso squallido e fosco. Ma il romanzo non finisce nellidillio: Vidillio repugna alla _ fantasia di Micheli. Sia la fabbrica che la cooperativa sono immerse in quell’atmosfera di tensione che oggi ben conosciamo in Italia. Gli operai devono difendere il loro lavoro ' contro glinteressi antinazionali del capitalismo. E la vicenda termina (non direi: si conclude) in uno sciopero sanguinosamente represso, dove cade accanto ad altri operai, la sorella dell’ingegnere. Da questa rapida esposizione il lettore puo rendersi conto dell’interesse vivissimo che offre la materia del romanzo e anche della difficolta dell’assunto. Ma corrisponde alla _ scelta di un argomento cosi nuovo una pari serieta artistica? Ha saputo lo scrittore conquistarsi un linguaggio adeguato? E ha guardato davvero alla vita reale? Micheli ha tentato di collocare in una situazione nuova il suo contenuto autentico: che dunque avrebbe dovuto 340

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esser rielaborato e sostanzialmente trasformato. Ma mi sembra che sia accaduto il contrario,, Le pagine pit valide sono quelle nelle quali egli ripete i vecchi motivi della sua « canzone canina » da cui non gli é facile staccarsi. Il guaio é che intorno al personaggio dell’ingegnere, « il povero cane sui trent’anni », mezza Napoli si trasforma con urtante meccanicita e durezza di stile in una specie di canaio, dove

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0 si sentono digrignar denti, o si vedono supplici sguardi e code fra le gambe. Ci vuol altro che battezzare Aggefatto un operaio, dire un « qua nessuno é fesso » per ambientare un romanzo a Napoli! In questa Napoli di Micheli, vista di sghembo e di straforo (e tirata giX con una certa fretta _deformatrice, pi che con la bravura di chi Vha capita, amata e, per averla osservata a lungo, ormai ce V’ha negli occhi), un po’ tutte le figure, napoletane e settentrionali, per. dirla col gran De Sanctis, « ci stanno a pigione ». Figure piatte e scolorite, che finiscono per replicare un solo gesto, sia che subiscano sia che agiscano la retorica del rincagnato e del malgrazioso. Vedi mascelle e grugni, e di rado labbra che modulino un discorso. Ecco come parla Concetta (una Concettina, pensate, una Concettella!) « E per via del povero Antonino. Russia. Saputo piu niente >... Caro Micheli, non volermene se ti dico tutta la verita che penso; ma a me, per usare l’aspro eloquio del tuo ingegnefe, « prendeva un ridere cane » leggendo certe battute e ceri te periodi. Il linguaggio di questo _romanzo, ibrido di dialettismi non sempre giustificabili, ¢ prefabbricato, contorto €costretto nei pit: assurdi vezzi letterari. Il cosi detto « par-

s ae » € un’impresa mitica da fiaccarsi il collo, quando non

_ si abbia la tempra di un Verga e di un Joyce. Non s’illuda -P Micheli di venirne a capo ricalcando la sintassi barbarica _ di Vittorini o rifacendo il verso a Pavese, grande stilista _ lirico, ma tutt’altro che narratore € tutt’altro che imitabile. Anche la lezione di certi romanzi sovietici che Micheli ha -voluto arieggiare, non mi sembra sia stata digerita. Quando mye _ leggiamo L’Officina sull’Ural, quella forma piana e limpida _ ci dice che la Panova s’é messa a studiare con serieta il . - mondo che ha voluto rappresentare; e perfino certe descri-

341

cialista. Qui c’é uno sfoggio di tecnicismi che spesso rende astrusa la materia: « Chiaro che io avessi preso lo spunto del vecchio sistema B6ttcher in cui un punto m descrive sul piano p un cicloide di forma quadrata eccetera ». Chiaro? Un corno. E pit l’autore ostenta d’esser preciso con queste sue allusioni a chi ¢ del mestiere, pit ti viene il so-

spetto dell’approssimativo, dell’imparaticcio, del fasullo. Figuriamoci poi quando il fasullo é nelle cose, prima che nel linguaggio. Una cooperativa che produca macchine utensili, a Napoli o anche in un qualsiasi luogo dove oggi la cooperazione

sia pit evoluta, chi ’ha mai vista? Altro che

« tutta la verita >»! Se un « povero cane sui trent’anni » puo arrangiarsi e attaccarsi alla vita coi denti e con le unghie, una fabbrica di macchine utensili richiede una complessa organizzazione industriale. Non basta la volonta eroica di un pugno di operai o di un povero diavolo di ingegnere a costruire una fresatrice universale che poi fara furore alla Fiera di Milano e battera la concorrenza di altre macchine estere e nazionali. « Capita il momento che si fa d’ogni erba un fascio e si decide senza starci a pensare tanto, all’italiana »: queste parole dell’ingegnere potrebbero far da epigrafe al romanzo che Micheli in buona fede credera

sia « socialista », ma

che invece

nel contenuto

e

nella forma rivela una faciloneria anarcoide proprio agli antipodi del socialismo. In proposito, il colmo € raggiunto dallirrompere dei parenti di buona volonta (i « senza tuta ») chiamati a raccolta dagli operai, perché « diano una mano >... Pure, Tutta la verita é un libro utile da leggere, perché — gli errori di chi vuole assumere a contenuto dell’arte la vita di oggi sono sempre pit interessanti degli espedienti di ehi tenta di-eluderla attraverso gli schemi di una letteratura in decadenza. Io penso che se sui tentativi d’arte nuova non si discute a fondo, ma si assumono solo atteggiamenti di difesa e di esaltazione, 0 di sballata polemica contro i critici conservatori, oltreché confondere le idee degli uomini semplici, non aiuteremo l’arte nuova a progredire di un passo. Micheli ha affrontato un tema arduo e assai impegnativo e del coraggio gli va dato atto. Ma non bisogna risparmiargli critiche se si pensa, come io penso, che oltre 342

\

anon aver affrontato i problemi formali di espressione, non ha meditato ed approfondito quel che é reale oggi in Italia. Perché ridursi alla cervellotica utopia di una cooperativa di macchine utensili, quando la capacita di produzione e di lotta della classe operaia — capacita tecnica e politica di nuova classe dirigente — a Savona o a Reggio Emilia, a Genova o a Milano offre una materia di cosi potente, attuale verita? Se Micheli e altri giovani narratori si decidessero anche in una nuda cronaca, a far parlare i fatti, di cui oggi € protagonista la classe operaia, questa realta nuova che oggi apprendiamo

solo dai dati, necessariamente

aridi, di arti-

coli politici, potrebbe apparirci flagrante alla fantasia, acquisterebbe un potere di persuasione e di penetrazione assai piu. vasto nelle coscienze di tutti. Perché questo vogliamo dall’arte: non le velleita programmatiche e polemiche, ma la verita che puo correre il mondo, la verita con le gambe lunghe. / 1951

343

,

14

Elogio della pazzia meridionale - Lettera Fiore

a Tommaso

Carissimo Professore, il gusto senile dei ricordi, che si va diffondendo anche tra x i pil giovani, non é proprio il mio gusto. Ma dopo aver ~ letto il vostro libro, Un popolo di formiche, mi son sor_ preso a rievocare il nostro primo incontro, quel lontano .

.

.

.

.

giorno d’inverno del 1933, quando vi recai un quaderno di Giustizia e Liberta, che da Torino vi mandava Leone Ginzburg coi saluti di Salvemini. Non trascorse molto, e gli ami-

_

ci torinesi che rappresentavano la continuita della tradizione gobettiana fra I’Italia e gli esuli, andarono chi in carcere, chi al confino. Anche quel legame s’interruppe. Ma intorno “ a Dorso, intorno a voi soprattutto, si veniva formando

nel

Sud una nuova generazione antifascista, che in quegli anni oscuri della Resistenza ripercorreva le vie gobettiane, si attaccava alle tenaci illusioni di quel donchisciottismo « etico-politico » che fu il nostro orgoglio e, insieme, il nostro grande limite; che comunque testimoniava della nostra di-sperata volonta di aggrapparci a qualcosa per. cui valesse la pena di vivere. A vivere ci aiuto anche il consolatore e metafisico liberalismo crociano. Ma fu solo la capacita individuale di ciascuno di noi a suggerirci di volta in volta il rischio che bisognava correre: il rischio di essere considerati nemici della patria, quando ci opponemmo alla guerra 2 d’Etiopia, la pit miserabile e purtroppo la pit applaudita delle aggressioni fasciste; il rischio di passare per confor-misti, quando andammo a discutere nei littoriali, e scoprimmo nuovi oppositori del regime, e stabilimmo nuovi 2 _ legami; il rischio (una volta’ammazzati dai tedeschi) di esser -celebrati come martiri, per bocca di quella stessa gente :_che ora, con minore o maggiore vilta, ci lancia addosso un ag

344

po’ del suo fango, e crede cosi di ripulirsene agevolmente. Laterza dunque stampa un libro vivo. Ed ecco che qualcuno commenta, senza nemmeno sospettare di farvi torto: — Peccato! Un vero liberale, questo Fiore. Ma perché non si é schierato accanto a noi, per combattere la santa croCiata anticomunista, sotto la guida dell America e del Vaticano? A me pare che sia impossibile sottolineare l’importanza del vostro libro, e lodarlo, senza capire lo spirito di pro-

testa che lo ha ispirato e che vi ha portato a schierarvi con chi si batte per una riforma radicale del nostro Paese, per cio che possa trasformare in uomini le laboriose « formiche > del Sud. Il fascismo, e cid che ne ha raccolto l’eredita e lo continua, vi ha guarito di alcune illusioni. Voi

avete voluto esser coerente allo spirito dei maggiori e minori eretici del liberalismo, Gramsci,

Gobetti, Dorso.

Voi

credete alla funzione liberale di un’alleanza degli operai e dei contadini, funzione risolutiva per i problemi italiani, per costituire una nuova classe dirigente. A base della vostra ‘azione di liberale moderno, di democratico, di socialista si trova questo concetto. Ma provatevi ad ammettere che queste cose le ha insegnate a tutti quell’ometto che si chiamava Lenin? Subito un benedettino vi biascichera addosso il ro‘sario della Liberta eterna, e compiangera la vostra anima Signoreggiata dal Maligno. Tartufi di latifondo! Come ha notato Gabriele Pepe nella prefazione, la ma-

teria del yostro libro corrisponde, pit che al titolo, alla nascita del fascismo in Puglia. Tra la prima di queste vostre lettere pugliesi a Gobetti (15 gennaio 1925) e le ultime due indirizzate (dopo la soppressione della « Rivoluzione LibeTale >») a Giuseppe Gangale, direttore di « Conscientia » (lu_glio-agosto 1926), si possono seguire gli episodi, talora drammiatici, amari, sanguinosi, della liberta che moriva, del

Privilegio che si rafforzava, della giustizia che rimandava a ‘tempi migliori il suo avvento. E questa la materia che ispirO a Jovine Le terre del Sacramento. E la vostra Taranto, coi Suoi vicoli pullulanti di miseria e di malattie, é l’ambiente stesso in cui Carlo Bernari collocd la vicenda dei Tre ope-

Yai (opportunamente

ristampati da Mondadori,

vent’anni

dopo nella loro integrita). Quale narratore prendera |’ab-

345

brivo dalle pit calde pagine di questo vostro libro? A volte la memoria vorrebbe ritenere le parole:

Nessun segno di vita all’intorno, mai: la terra riassorbe 1 contadini che innumerevoli, mattina e sera, percorrono coi lorosmuli, coi loro traini le strade di campagna; poche pecore del color del calcare, 0 appena pit sudicio, qualche magra vacca oO giumenta...

Sono le pagine che ci ricordano lalunno di Pascoli e il critico di Virgilio, e il gusto della generazione di Renato Serra. Ma voi non siete mai stato un malinconico letterato, che si sia indugiato poi a raffinare sensualmente la sua pieta. E il sarcasmo, la collera, (facolta d’indignazione per cul uno scrittore populista non avra mai lo stile quieto dun abate) scoppiano splendidamente, quanto pit volete contenere la vostra prosa nella bonomia di un discorso pacato. Le

frequenti

citazioni,

invece

di rallentare

e raffreddare,

conferiscono piu veemenza alla pagina: un verso di Manzoni, un brano di Giuseppe Maria Galanti; la Bibbia, o Machiavelli : « quello del popolo é pit onesto fine che quel de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso »... In nessun libro vostro come in questo, Vi Si puo riconoscere interamente. Poteva scrivere cosi solo il sindaco che pago i debiti del suo comune dando lezioni private, e lumanista che cosi vigorosamente tradusse la Utopia di Moro e l’erasmiano Elogio della pazzia. A proposito. Mi sembra che proprio nella prima lettera voi parliate di quegli intellettuali che per non « passare per pazzi » sceglievano la via pil comoda e piu antica, fra noi, quella del ben servire. Non

a caso, nelle vostre lettere,

i « Savi » € i « pazzi » sono messi a confronto. Ora capisco perché non ci sono le note storiche, di cui talvolta s’avverte il bisogno. E stato per non turbare il quieto vivere di tanti savi, che spianarono le vie al fascismo. Ma il difetto delle note si converte in un vantaggio per il lettore intelligente. A quei ritratti di savi si possono apporre nuovi nomi, di trent’anni dopo. Sono i beati possidentes, che, cro-

ciani ortodossi, pur senza aver letto Croce, mai commetterebbero il « deplorevole errore di confondere la liberta con la riforma agraria ». Sono i vetusti profeti dello scetticismo 346

e del cattolico quieto vivere, nel cui « tritume psicologico » (dite benissimo)

« in assenza

di una

religiosita operante

e

trasformante, la mancanza di dignita civile, si colora di rassegnazione ». Sono i tecnici « che vanno dicendo e banBic che la politica non deve turbare la visione serena e ettiva » della loro scienza pretesamente pura. Sono le immortali generazioni di trasformisti d’ogni colore che rinwando

le loro

. Si, é vero, quel padre Bresciani che col suo viaggio in Sardegna raccolse l’eredita di un altro stilista gesuita, il barocco padre Bartoli, non mori del tutto sotto i colpi di Francesco De Sanctis (quel famoso saggio critico che il Manzoni conosceva quasi a memoria tanto gli era piaciuto, e ne recitO un brano all’autore venendogli incontro il giorno che lo conobbe).

Malizioso

come

il diavolo

di Dante,

il reverendo padre si ¢ vendicato: « Per un ch’io son, ne faro venir sette »: Ma una definizione critica non acquista il suo pieno valore quando resti nei libri, o venga adoperata solo come

motto polemico, mentre il suo oggetto let-

terario ha ancora una validita culturale riconosciuta ed operante. Gli elzeviri dei nostri rondisti (o brescianeschi o papalini che dir si voglia) hanno educato tutto un gusto, che non si limita solo all’ammirazione dovuta a La luce di Treviso 0 a Rose di Pesto e simili squisitezze di Bacchelli e di altri autori. Il cinema e la radio ormai ne riecheggiano. Siamo di fronte a un brescianesimo di massa. Non c’é sera” che il preziosismo estetizzante non ci vellichi le orecchie, con i suoi capitoli sonori. Non c’é sera che al cinema i settimanali o i cortometraggi non ci ammanniscano i loro prodotti, commentati

or da erette voci littorie, or da calde

nasalita francescane o dannunziane alla Ruggero Ruggeri. Questi capitoli filmati in genere valgono poco pit di quelle cartoline una volta in vendita presso i tabaccai del regno, con paesaggi ben fregiati dai versi di Giovanni Bertacchi. Ma sono enormemente piu diffusi, e hanno pretese di raffinatezza e di poesia. Il fenomeno non é nuovo. Ogni volta che la letteratura

si € svuotata di serieta e di contenuto, la reazione si @ sempre impossessata di queste vuote forme, per dirigere i sentimenti e propagandare quel che meglio convenga alla parte interessata. Il culto dell’arte pura e apolitica, la cosiddetta religione delle lettere riescono a dissimulare perfettamente gli intenti e Vindirizzo ideologico di una certa produzione. Ma il romanziere Bacchelli, che é un pensatore oltre che un letterato, non nasconde i suoi pensamenti, ne

coltiva la coerenza, li sfoggia a corollario della sua arte. 352

Si dichiara un aristocratico: « Mi dicono che ho tempo da perdere. Ci tengo moltissimo. Aristocrazia come non é professione allegra né lucrosa, neanche é indifferente o frettolosa ». Diffida della democrazia perché sarebbe « figlia del protestantesimo » (anche secondo la stampa clericale il protestantesimo avrebbe generato liberalismo, marxismo, -hitlerismo ecc.). E a proposito della stampa, che é certo una conquista della vita moderna, anche se possa servire alla diffusione di non poche sciocchezze,

il Bacchelli scri-

ve: « Dai giornali non mi aspettai mai nulla di buono ». Da quali? Anche da quelli che stampano la sua prosa illustre? Non ce lo dice. Voi allora supporrete che, non - piacendogli i giornali, gli possa forse piacere l’archeologia. Invece egli nel Palatino preferirebbe « i giardinieri dei Farnese agli scavatori degli archeologi, anche a costo di rinunciare a qualche scoperta insigne ». E cid non perché egli faccia una distinzione tra l’archeologia comunemente intesa come arte di coltivare le anticaglie e una scienza del mondo antico. Lo senti protestare (e giustamente) contro i buzzurri, contro Mussolini « e tutti i novissimi edili, vaticani compresi ». Ma vuol forse contrapporre ai crimini perpetrati nelle nostre citta dagli architetti della sottoborghesia italiana, una urbanistica nuova che al giusto culto del passato non sacrifichi il diritto di ogni uomo a una casa igienica? Dovunque ci sia un sospetto di scienza il nostro aristocratico si pone in allarme: « il sottoscritto eretico della scienza di cui é ignofantissimo, é un partitante delle _ casupole e delle catapecchie ». Dove é da notare loriginale _concetto dell’eresia come ignoranza, assai diffuso presso i _ catechisti e molti professori di religione delle scuole medie. _ Ma Poriginalita di Bacchelli rifulge appieno quando viaggia nel Sud e medita aspetti di quella che egli chiama _ « cosiddetta questione meridionale »: aspetti sfuggiti agli _ Studiosi e ai politici. Zone depresse? chiede ironicamente _ Bacchelli a quei-« saccenti progrediti » che hanno inven-

:tato questo termine con « una novissima sufficienza ». Ma

non vi aspettate che voglia fare una critica alla demagogia _ governativa. Bacchelli dice a tutti: che ne sapete voi « di _ tanta e pur nobile indigenza »? In quale altro paese civile y si Lisptrovare un Pasqualino che serva non per i soldi del353

lo stipendio, ma per il piacere di baciar la mano ai padroni? Questo é « tutto il contrario di quel che si potrebbe credere: € amor proprio di servir bene, é fierezza di servire persone che meritano ». Ma se appunto in queste zone depresse il pantagruelico Bacchelli ha consumato i suoi pranzi piu. succulenti! I latifondi, l’assenteismo dei proprietari terrieri? Leggende: « E voglio dirlo, perché in questi tempi di facile e avventata demagogia contro il latifondo ecc. ». E qui una coraggiosa difesa dei « latifondisti della nobilta meridionale » che da Verga a Carlo Levi, dobbiamo ammetterlo, sono stati troppo lungamente calunniati. E sapete quale é stata la causa di tutti i guai del Mezzogiorno? Qui Bacchelli € modesto: di fronte « a tanta e pur nobile indigenza » gli viene « non dirO un pensiero, ma un dubbio » che la causa sia da ricercare « nelle riforme 0 progetti di riforme, politiche, economiche, sociali, fino po-

liziesche » imposte « sempre come imposizioni ». Se la malaria € scomparsa da Pesto, egli s’intenerisce quasi e rimpiange la « favola breve » della bellezza perduta. L’ipotesi (per fortuna rimasta ipotesi) che i favoreggiatori del bandito Giuliano siano confinati alle Tremiti e sciupino Vincanto di quelle isole lo rattrista profondamente. Zone depresse € « una sinistra parola » che gli fa « sentire il ribrezzo del freddo e della paura, non tanto per la loro « depressione > quanto per i concetti di chi vuole e s’adopera a « sdeprimerle » ». I politici, si sa, non

capiscono

nulla. Essi vo-

gliono attuare con industrializzazioni pit o meno forzate, «il proposito fatuo di far dell’Italia un cosiddetto paese moderno ». Ma la questione resta politica e allora per risolverla ci vuole la politica di Bacchelli: « una politica che renda all’Italia meridionale mediterranea, e al Mediterraneo stesso con le sue nazioni, vita, lena, respiro ». E se a

queste scottanti parole gli abitatori dell’umile Italia facessero notare che di aria marina se ne respira gia abbastanza, e su tre mari, e che si tratta di fame, lunga fame arretrata,

Bacchelli non risponde affatto esaltando l’imperialismo di Mussolini o quello pit casalingo di Giolitti. Troppo progressivi Giolitti, Mussolini, De Gasperi!

Il Mezzogiorno si € salvato solo perché « in tante lente © repentine catastrofi, durd inestinguibile un’umile pazien354

za invitta e laboriosa ». Che differenza c’é allora dal volgare illustre e curiale di Bacchelli, ai pensieri del monaco di Santo Nicola, mimato in una mirabile paginetta di Francesco Lanza? Vi ricordate quel monaco che sul punto di crepare d’indigestione a un povero che gli chiedeva un po’ di carita per mangiare, rispose: —- Ma non vedi che per mangiare io sto morendo? Quel monaco parlava con ipocrisia brodaiola, Bacchelli vi getta in faccia il suo cinismo imporporato non di pudore ma di opulenza. E vi sfodera una scomunica del progresso e una esaltazione delle zone depresse nei loro tempi d’oro, quando non c’erano « gli uffici di un povero comune di montagna »:

ma

un convento

rappresentava

« un vivente

focolaio di cultura ». Tanto Bacchelli si compiace di trovar belle donne e buone vivande, altrettanto si dispiace di non trovare fraterie. In una gita sull’Etna, scoprendo un grazioso conyento sorto in seguito a un preteso miracolo del 1669, e ora disabitato dopo il 1860, scrive testualmente:

« Al solito! — brontolai fra me ». Ma non affrettatevi a concludere che la nostalgia di Bacchelli sia per i Borboni. Troppo avanzati, troppo evoluti! E pit: antica l’Italia che piace a Bacchelli. E l’Italia che a Positano si esprimeva nei libri eruditi di don Errico Talamo, che, per avere « l’animo geloso del repubblicano costiero » dovette disappro-

vare i Borboni quando fu costruita la strada panoramica. Per gli stessi motivi Bacchelli in visita a Recanati si professa d’accordo col vecchio servitore di casa Leopardi, sulla necessita di riabilitare « il cuore e l’intelligenza di Monaldo ». L’intelligenza, badate, quella che permetteva a Monaldo di polemizzare brillantemente contro i tempi troppo progressisti di Gregorio XVI e il pericolo che una ferrovia dall’Adriatico al.Tirreno rovinasse i poveri asinai delle Marche. La nostalgia di Bacchelli é per quell’Italia in cui la questione meridionale era risolta dalla peste e da altri doni ‘della Provvidenza. Aurei tempi nei quali i conventi incubavano la cultura, Giambattista Vico pensava al posto di tutti gli analfabeti e la nostra gloriosa civilta mandava per il mondo « arrotini o spazzacamini o perecottari ».

355

Un terzo articolo? Non mi scuso pit. Rendetevi sol- — tanto conto che per parlare del fluviale Bacchelli bisogna pur rispettare le proporzioni. Credo di aver mostrato come la sua Italia sia in sostanza quella della Controriforma, quella che il Progresso ebbe il gran torto di voler seppellire. E Bacchelli ad ogni pagina del suo libro ci ricanta il vecchio ritornello:

c’est la faute

a Voltaire. Uditelo nei suoi momenti piu schietti che sono quelli conviviali: non avra difficolta ad abbandonarsi ad esplicite confidenze autobiografiche. Sentitelo quando con- — trappone i suoi ideali a quelli dell’oste che nel 1905 per celebrare il traforo del Sempione, intitol6 al Progresso la sua trattoria presso Domodossola. Bacchelli si gloria che

la sua generazione sia cresciuta criticando quest’idea « volgarizzata come poche altre furono », Ebbene nel suo aristocratico disprezzo del progresso dobbiamo dire che questa generazione non fece che rimasticare paradossi di Leopardi, di Baudelaire, di Flaubert. Ma capi che cosa c’era al fondo di quell’amara ribellione contro il progresso come lo — intendevano i ben pensanti italiani e francesi? Capi lesigenza che quei grandi ponevano (e la loro poesia ne € testimone) di un progresso che non si fermasse al panciotto degli Homais italiani, francesi o belgi? Abbandonandosi alle sue confidenze Bacchelli ha Pamabilita di, spiegarci anche l’origine privata e personale del suo odio per il progresso, e ci racconta come da bambino vide cadere sotto il piccone demolitore le rosse mura di cotto della sua Bologna. Gli € rimasto il complesso delle mura di Bologna (direbbero gli Homais del freudismo). E perciO ogni volta che vede crollare le immagini della vecchia Italia, si abbandona a incontenibili reazioni infantili. Solo quando vede frati scioperati e conventi silenziosi ri- — torna tranquillo: E quando non li vede, sente il bisogno di inventarseli coi suoi capricci « umoreschi ». Ecco perché ~ se capita in Liguria scordando volentieri le grandi indu-— strie di questa regione, la definisce, « rigorosa e conventuale ». All’anima dell’umoresco! Fu questa rigidezza che perdette i suoi abitanti, cosi come fu il giansenismo che perdette Mazzini. (Speriamo che il ligure dott. Costa, pre-—

sidente della Confindustria, sia stato educato dai gesuiti, 356

altrimenti chissa cosa succedera mai!) Dove allora il nostro Bacchelli si sente sicuro, a suo agio,

purgato dai suoi umori polemici e da quelli amorosi che gli accende ai sensi la bellezza « genialotta » delle donne italiane? Fatevi guidare sulla specola di Solferino 0, come si dice per chi venga dall’Austria, « la spia d’Italia ». Da li egli contempla i campi lavorati dove si riflette « una mente religiosa che ha l’ardire e l’umilta di chiedere le grazie alla Provvidenza e di non pretenderle ». Bacchelli é rapito. Fatevi guidare all’Abbazia di Morimondo: « Moritur mundus: morire al mondo per vivere nell’eterno ». Bacchelli é all’empireo e recita il « Vergine Madre » della preghiera di San Bernardo. Ma il vero paradiso, il bel giar- — dino dov’egli trova una

beatitudine

« non

solo ricreativa,

ma anche consolatrice » é l’orto dei gesuiti a Milano: « La fantasia, all’ombra delle fresche piante, riandava sulle pagine di Daniello Bartoli, disertissimus vir, dietro la sua fertilissima sintassi e facondia, dietro il mirabile periodare talvolta un poco addormentativo... ». Qui sentite l’uomo che ha ritrovato la sua patria spirituale. E tempo dunque di dirgli addio. Addio, Bacchelli. Noi abbiamo troppo educato il senso estetico per distinguere nell’arte vostra cid che restera sepolto in quest’orto e cid che sopravvivera. Nella vostra prosa piu celebre, Rosa di Pesto, anche noi abbiamo raccapricciato « sottilmente ». Quelle pagine godono grazie presso di noi. Ma quando contempliamo da vicino queste bellezze, vi scopriamo i segni dell’antica lue italiana. « Tutta Varte ricade a giuoco vano e a risibile orgoglio, a _ squisita petulanza, se non conosce se stessa, il suo pericolo e il suo limite ». E uno dei pochi pensieri vostri che possiamo fare anche nostri. Non sembra tuttayia che scrivendo cosi ci fosse in voi una qualche intenzione di autocritica. Chiedervela sarebbe indiscreto. E del resto lautocritica € un privilegio mentale che appartiene agli uomini i quali se lo son conquistato, non coltivando gli orti dei = gesuiti, ma lottando per un progresso pit radicale e piu intelligente di quello concepito dagli Homais. _ La vostra generazione é vissuta sul principio: « Periscano gli Homais e siano salve le bellezze secondo i gesuiti, 357

la nobile indigenza del popolo e¢ altrettali necessita della vita e della poesia >. La nostra generazione che voi certo disprezzate, senza comprenderla, crede tuttavia di comprendervi e di potervi rispondere con molto serene parole: « Periscano le vostre bellezze, e vivano gli uomini! »

Addio, Bacchelli. Avete goduto abbastanza per trovare aperte le vie canoniche del cielo. La pace sia con voi, con padre Bartoli e con padre Bresciani. 1952

358

16

Le storie di Alcide Cervi, dei sette figli e della loro madre

E proprio vero che di fronte alle cose belle ci abbandoniamo alla contemplazione disinteressata, é sola e tutta qui la nostra reazione? O non dobbiamo riconoscere che preesiste un altro tipo di reazione, piu. immediata e primordiale? Di fronte alle qualita di una grande pittura, non siamo tutt’occhi e mani, non ci vien voglia di dipingere, di fare anche noi (se potessimo davvero) quello che é stato possibile ad un altro uomo? Questa é l’esigenza mimetica, ingenua e confusa che provoca in noi una danza, un canto, un’azione

scenica,

una

poesia,

un

racconto.

Vorremmo

ripercorrere quel processo espressivo che ha messo in moto la nostra fantasia, ha attraversato il nostro essere, corpo e mente. Dal pianto (e talora dal riso) irrefrenabile che provoca in noi con franchezza elementare, senza ritegno, questo libro di Alcide Cervi, J miei sette figli, a cura di Renato Nicolai (Roma, Ed. Riuniti, 1955) nasce una voglia ‘di raccontare, di rispondere al racconto con un altro racconto, e di continuarlo, come quando si é nella stessa cerchia, e

le storie di ognuno possono appartenere a tutti. « Un passo indietro »: la clausola facile e sempre maravigliosa, che sospende la nostra attenzione e la riporta a ritroso nei fatti, e da la misura del tempo! Vorrei fare anch’io « un passo indietro », come i narratori popolari, e dire come a Regina Coeli, nell’inverno tra il 1943 e il 1944, Archimede Latini intrattenesse i suoi compagni di cella incarcerati dai nazisti. Era un fittavolo della Sabina,

aveva

combattuto l’altra guerra e si trovava per la seconda volta prigioniero dei tedeschi, sospetto di aver nascosto armi in un pagliaio. Era il pit vecchio, ma anche il pit forte della cella, un bell’uomo

sui cinquant’anni, e la sera, in mezzo

agli altri sdraiati sui pagliericci prendeva tanto spazio, che sempre aveva l’aria e stava sul punto di volere scusarsi359

per quella sua gran persona, alla quale erano invece tutti segretamente felici di appoggiarsi, perché era lui il sostegno e il reggitore di tutta la cella. Lui solo sapeva tenere tutti buoni, coi suoi racconti di guerra e di pace, della trincea e della prigionia, della casa e dei raccolti, e tutti avevano imparato il nome dei suoi ufficiali e dei suoi padroni, ~ dei compagni d’armi, della moglie, dei figli, e perfino delle vacche e del somaro, tranne la vera storia per cui era stato messo dentro, perché lui, e tutti gli altri del resto, narrandola ciascuno a modo suo si protestavano innocenti: compreso qualcuno che era stato messo li dalle S.S. piu per ascoltare che per parlare. Nessuno sapeva raccontare come Archimede, né il barbiere di Prati, né limpiegato di Testaccio, né luniversitario republichino, né il professore,

che pure erano meno incolti di lui, e neppure quel manovale abruzzese, piccolo e camuso, che nascondeva la sua calvizie sotto il cappello sempre piantato sulla testa, sempre taciturno e difficile da capire quando borbottava qualcosa: tranne una volta, quando ai « cimenti » scherzosi del barbiere che lo provocava, rispose con una breve strofetta del 1922: « Eja, eja, quante ne vuo’ sapee? Fatte li c... tuoie, ca io me fazze li meie... ». Mai, come cantilenan-

do con chiarezza quei versi, i suoi occhi neri gli erano brillati di forza e malizia: il che valse a stabilire un’intesa tra i quattro antifascisti della cella e soprattutto col professore, il quale, benché (o forse perché) animale scolastico, anche lui poco sapeva comunicare con gli altri. Tuttavia gli volevano bene, anche quelli (forse) che non riuscirono a fargli danno. Ma quando si sprofondava nei suoi libri, le cose cambiavano, lo sopportavano a pena. A poco a poco intorno a lui si faceva un sempre piu profondo silenzio di noia. Ed era questo avverso riguardo, che al professore scopriva un senso improvviso di vuoto e di solitudine. Cosi si decideva a riporre le sue carte, e a prendere in mano l’Orlando innamorato, e a leggere dilettosamente, per lui e per tutti. Ma la voglia di raccontare come Archimede non gli passera piu, finché gli rimane la vita. Credo sia questa voglia di raccontare che abbia ispirato Renato Nicolai, quando si é recato in Emilia e ha raccolto dalla viva voce le storie della famiglia Cervi, interrogando 360

ee

il vecchio padre ed altri superstiti, e mettendo insieme un libro che non avremmo mai avuto senza questo gusto, sia pur riflesso e mediato, di racconto contadino. E giusto che ci sia sul libro il nome del vecchio Cervi? Credo sia giusto,

come quando si dice che l’autore del Milione € Puomo senza lettere Marco Polo e non il letterato Rustichello o i suoi traduttori. Perché in realta quel che si ammira in casi di questo genere é innanzi tutto la capacita di discrezione da parte dell’uomo colto che non sia narratore con una sua decisa personalita (come

é il caso di Nicolai, il quale non

sé affatto lasciato tentare dalla vanita di fare della letteTatura e di travestire i personaggi straordinari che aveva dinanzi alla fantasia e dinanzi agli occhi). Direi che una ‘vera modestia, senza ipocrite umilta populistiche, ha messo Nicolai sulla buona via che ha seguito. Non ha voluto darci un documento di folclore nella sua crudezza, non ha voluto rinunciare a costruire il racconto.

Cosi, senza

forzar

la materia ma solo facendola rotare in modo che chiudesse, come una favola vera, sulla sua moralita intima, ha trovato

imoduli pit opportuni perché il documento divenisse insegnamento.

E

senza

facili

infatuazioni

estetizzanti,

senza

quel formalismo dialettale in cui cadono molti neorealisti

per ‘scarsa serieta del contenuto, Nicolai é riuscito a trovare una sua composizione per disporvi in modo semplice Riese; storie leggendarie. Senza artefarle, senza spalancar gli occhi sul maraviglioso, si ¢ affidato ai modi espressivi e ‘sentimentali di colui che « tra passato e presente » era il

«legame memore e vivo », il padre, « non soltanto geniore, ma

educatore

della famiglia, istillatore di quella ra-

me ideale di vivere che segno cosi drammaticamente la a dei figli ». Cosi Alcide Cervié ritornato ad essere davTO auctor, perche chi ha materialmente scritto il libro apie restituire i fatti alla situazione fondamentale onde le storie avevano il loro movimento. E per questo io penso che abbia fatto bene a ridare il necessario rilievo a altro personaggio, la madre dei fratelli Cervi, colei che ra Habito aveva insegnato al marito l’arte di raccontare ai ome. Piao dal libro) da giovane non sapeva affatto aecontare, era « brusco », e ha imparato solo ora, quando 361

la nonna é morta e lui soltanto ormai poteva e doveva raccontare fole « ai bambini nuovi », ai suoi nipotini, facendo

cosi quello che non aveva saputo fare per i propri figli. E questo é uno dei tanti luoghi del libro in cui il pianto vieta di andare oltre. Certo il lettore prevenuto o, almeno, non disposto a commuoversi

facilniente, osservera che il pianto non basta per

poter trarre delle conclusioni estetiche, e potrebbe ricordarci il detto di Heine sulla cipolla, che anch’essa ha la sua efficacia sugli organi lacrimali. Confesso di essermi avvicinato al libro con una diffidenza metodica, proprio nei riguardi dei miei sentimenti, perché mi figuravo che sarei zStato in grande imbarazzo quando poi avrei dovuto esprimere un giudizio, Opere come queste non possono essere tranquillamente ignorate da chi vuol far professione di critico? Né Alcide Cervi né Renato Nicolai fanno parte del sindacato scrittori. Quale obbligo avrebbe un critico di parlarne? Eppure, dando per scontato che mi lascero sviare da un consenso

di natura extraestetica,

devo dire che ho

letto e riletto il libro e mi é piaciuto sempre di piu. E anzi mi dispiacevano sempre di meno quelle poche pagine a carattere edificante che con aperta ingenuita di scrittore vi ha introdotte Nicolai, perché non poteva fare a meno di dire cose che son certamente vere e giuste. Di questo libro finora noialtri letterati non

ce ne siamo

accorti, distratti

dal rumore delle polemiche, 0 magari occupati a distribuir premi e a scambiarci lodi e cerimonie: tu mi dai una cosa a me, io ti do una cosa a te. E invece il libro dei Cervi rompe i caroselli dell’Arcadia italiana, che, come si sa, ha

le sue colonie dovunque, e non manca chi ne sospetta l’esistenza dove c’illudevamo che meno potesse esser sospettata. « Tu, Alcide Cervi scrivi un libro? », si chiede Vautore. E perché mai? Per la singolarita dei fatti? No, risponde Cervi, che pur ignorando le questioni del tipico, sente che i suoi fatti sono altamente tipici, perché di padri e di madri che hanno perduto i loro figli (uno o sette fa davvero lo stesso) l’Italia della Resistenza é ricca. Storie da raccontare, certamente, perché toccano tutti, dolori grandi che

« offendono la vita» ma che non ci fanno compiangere gli offesi. In un famoso discorso (in parte riprodotto come 362

prefazione al libro) disse Piero Calamandrei: « Onoriamo, ma non compiangiamo il padre di questi figli. Se qualcuno si deve compiangere, compiangiamo i padri dei loro fuci-

latori ». Ma la verita € che i libri come questi possono esser letti, se non dagli stessi fucilatori, dai loro figli, tante

qualita hanno da poterli toccare profondamente e trasformarli. Perché, come ha detto lo stesso Calamandrei, primo

umanissimo rievocatore di questa leggendaria storia del nostro tempo, siamo riportati ai fantasmi del mondo antico, « ai figli di Niobe, ai Sette Maccabei, ai sette fratelli di Andromaca », insomma al mondo dell’arte. E questo tanto pil possiamo dirlo, ora che le storie sono raccolte in un libro. Lo spirito di queste storie é nel valore che (di la dal mito naturalistico della generazione) ha il buon seme che perpetua una pianta di uomo nuovo: « Mi hanno detto sempre cosi nelle commemorazioni: tu sei una quercia [...] la quercia morira, e non sara buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme é lideale nella testa dell’uomo ». E la storia di una famiglia che cresce, ben radicata negli eventi e nella storia d'Italia e del mondo e che acquista consapevolezza intera del suo posto nella societa e dei compiti delle classi nuove,

una famiglia che dall’ideologia cristiana della rassegnazione si distacca, imparando a « rompere la pazienza », a conquistare i valori umanistici del socialismo. Alcune forme di questa storia leggendaria sono antiche, ma il contenuto é tutto moderno, e i protagonisti sono « contadini di scienza ». Quando il letterato legge: « mi hanno mietuto ‘una generazione di maschi e la madre é andata via con loro dopo un anno », pensa al VI dell’/liade e al drago che di-vora i sette uccelli e con loro la madre che li aveva generati. Ma Vepos dei Cervi non ha nulla di primitivo e di remoto,

calato com’é nelle cose dei nostri anni e nel lin-

guaggio moderno. Quando Cervi deve raccontarci come da lettore quotidiano del Vangelo credette di doversi iscrivere al Partito popolare e poi capi che quel partito era contrario _agli interessi del popolo, continua a spiegarsi per figure, ma ‘noi comprendiamo come esse siano trasformate dalla novita del contenuto reale e ideale. Sentite come se la prende

363

con «i dugaroli della Chiesa », cioé i clericali che si comportano come i burocrati dell’Ente Bonifica, pronti alle disonesta e ai favoritismi: « [Voi] fate come il pioppo alto: quando soffia il vento da sinistra, la foglia piega a destra, e non é mai il pioppo che sa dove vuole andare. Lo stesso € la quercia, perché le foglie sono sempre distratte. Il seme cambia per essere sempre lui, come natura vuole, la quercia é come vuole il seme. Io sono cambiato, e tutta la mia

famiglia ¢ cambiata, e una generazione di maschi é€ passata, e un’altra viene su. Ma i Cervi sono sempre gli stessi, e 1 vivi son cambiati in morti perché il seme non andasse a male ». E lo spirito edificante del socialismo che é alla base di queste storie, dove i racconti di pace e di guerra insegnano come s’impara a lottare per strappare alla terra raccolti pit ricchi e per strappare gli uomini alle menzogne dei « dugaroli sciagurati » e dei « cancheri fascisti ». Cosi, dice Cervi, « le religioni si giudicano, se cioé sono un pensiero ; stabile ». Ma se qualcuno fraintendesse il socialismo dei. Cervi per una sorta di nuova religione, tutte le storie del libro son valide a ribadire il principio che qui non si fa nulla senza « armarsi con la testa », senza spirito critico e senza

cultura,

senza

riflessione

e senza

emulazione.

Ve-

dete la storia di Ettore, il pit. piccolo dei fratelli, come impara a falciare sotto la guida del primogenito Gelindo, la cui astuzia didascalica serve a tutti (« cosi anche i gran-

di non mollavano e il putino imparava »). E vedete la storia della madre, Genoveffa, che in mezzo a tutte le sue fa-

tiche trova anche il tempo di leggere per sé e per i figli. Maravigliosa figura di leggenda, che ritroviamo viva in tante nostre cose e in tanti nostri ricordi. Genoveffa tro-_ vava anche il tempo di leggere i Promessi Sposi, la Bibbia,

i Reali di Francia e 1a Divina Commedia. E sapete da chi aveva imparato di pil? Dalla Monaca di Monza, quella signora « che non sa lasciare amore e la vita, e soffre nel monastero ». Non sorridete, né crediate che Genoveffa ri-

ducesse i Promessi Sposi a romanzo d’appendice. Aveva. capito benissimo il dramma della volonta di questo grande personaggio. La storia l’affascinava, perché da giovane era stata anche lei (come lei diceva) « cosi timida e paurosa, i 364

zelante di Dio e di chi poteva pit di me ». Ma la vita e la lotta le fecero comprendere meglio il personaggio manzoniano. Leggetevi la storia del « gridolino della signora » e come

Genoveffa,

costretta a ritirarsi nel solaio quando i

_ padroni venivano nella casa di campagna a villeggiare, una _ sera trovo il modo di non bagnarsi, di fare infradiciare la _ padrona e far riparare il tetto, Genoveffa ¢ uno dei pit poetici personaggi di questo libro, se possiamo chiamare _ personaggi queste figure che hanno solo a sprazzi potenti ~ segni di individualita. Quando leggerete come essa non resistette pili al pietoso silenzio del marito sulla morte dei _ figli, dopo un mese e mezzo che « lei aveva nascosto il suo - cuore » ad Alcide ed Alcide a lei, e poi mori di schianto,

non dubito pit che tutti vi sentirete « piegare dal sentimento ». Una madre come questa é riuscito a rappresentar_ la solo Massimo Gorki. Ma Genoveffa é¢ inconfondibilmen_ te emiliana ed italiana, « cosi attaccata ad Aldo » e cosi vicina a lui, cosi come Aldo é certamente il pit vicino agli _. eroi del socialismo internazionale. Anche il padre che lo ha generato sente reverenza nel parlare di lui, che pit ha _

insegnato a tutti, e pit di tutti aveva imparato, dall’univer-

_ sita del primo carcere donde era uscito adulto con « una _ espressione grintosa e gli occhi illuminati », fino alle ore _ dellultimo carcere, quando ne usci per essere fucilato coi fratelli. Certo in questo libro non ci sono protagonisti, tranne il

padre che lo é obiettivamente per necessita storica di superstite e di narratore (« Parlo anche di me, troppo, e se qualche parola che fu dei miei figli sembra diventata mia, € perché non ricordo chi la disse, ma era come se l’avessero detta tutti e sette e io con loro. Perché anche nella vita era‘dee cosi: otto erano uno e uno era tutti e otto »). Chi

Mgfosse Aldo forse il padre non ha potuto comprendere interamente, perché questa é la sorte e il limite di ogni padre, i soprattutto quando una societa é in crisi: ma Aldoé la figura che da luce e rilievo a tutta la storia, giusto privilegio del figlio che é andato pit avanti e- pil in alto nel-armarsi con la testa ». (E chiaro che qui é spettato a colai di fare da mediatore tra il vecchio Alcide e noi. E questo ci fa capire meglio le disuguaglianze stilistiche del _ 365

libro. Le storie autobiografiche del vecchio ci son date autenticamente nei loro moduli pit arcaici e popolari. E infatti lo spirito del soldato Alcide (che al tempo della crociata imperialistica contro i boxers cinesi, si conquista sette giorni di licenza, mentre le altre sentinelle si meritano sette giorni di prigione), ritorna intatto quando nella nostra guerra di Liberazione, in un’atmosfera d’Apocalisse, crollano le mura del carcere. Lui solo realizza il sogno comune della progettata fuga, e mentre i sette figli non si salvano, lui solo «si scaravolta» oltre il cancello sotto un « cielo arancio » di bombardamenti. Ma non parliamo troppo di Bibbia. E vero, Alcide Cervi aveva predetto la fine della tirannide fascista e parlato di mura che sarebbero crollate, ma € pil umano, pit accessibile e misurabile di un profeta (come lo chiamo Arrigo Benedetti). E solo un contadino di Emilia che a settant’anni riesce a scavalcare un cancello e a ritornare a casa in bicicletta. E un profeta che irraggia dagli occhi una luce ironica e serena, in un dramma cosi intenso. Da un uomo cosi il figlio Aldo € meno lontano di quanto non ci appare qua e la nelle storie. Hanno fatto insieme un lungo cammino, anche se il padre leggeva il Vangelo e il figlio studiava Marx, Labriola e De Sanctis e li faceva leggere ai frequentatori della sua biblioteca. Il racconto della biblioteca di Campegine é il pit prosaico di queste storie, fa stacco sul resto. Ma come rimproverare Nicolai se ha ritenuto che non poteva tacere di questo centro di cultura nuova e operante? Senza sapere della biblioteca, senza conoscere che vi arrivava la rivista di Lui-

gi Einaudi, « Riforma sociale », sarebbe mancato un antecedente per comprendere una delle pit: belle storie del libro, quella del livellamento delle terre, quando i Cervi, cresciuti

per vari matrimoni,

« fanno San Martino » e si trasferi-

scono in un altro fondo, grande e incolto, da redimere e

rendere produttivo per i nuovi bisogni. Qui il modulo della narrazioneé vicino a certe sequenze cinematografiche di epopee sovietiche: dal trasloco al pranzo di festa, coi cappelletti, ’erbazzone e lo gnocco e il vino a volonta fino al brindisi di chiusa, respiriamo quell’atmosfera di serenita favolosa che solo attinge (quando vi riesce) il realismo socialista. 366



Se lo stile del libro risente di questa forma composita, dettata dalla varieta degli eventi che sono il susseguirsi di una esperienza progressiva e rinnovatrice di vita e di cultura, non facciamone carico a Nicolai. Forse un artista pit esperto avrebbe evitato certi sbalzi. Ma ci avrebbe conservato intatta la forma immediata che nei momenti epici e drammatici richiedeva questo contenuto cosi semplice e cosi forte? La buona Genoveffa quando raccontava « andava avanti alle cose » perché (é detto nel libro) aveva pit fantasia di Alcide, « lavorava pili col cuore ». Questo libro, che pure é stato lavorato col cervello, non poteva essere

scritto con la « pigrizia di cuore » da cui nascono libri di molti letterati, e si capisce perché nascano

1 bei morti.

Questo libro dei Cervi come ogni opera veramente popolare ha una mescolanza di antico e di nuovo, non sempre bene amalgamati e tuttavia con un nocciolo unitario innegabile. Proprio perché chi racconta « va avanti alle cose », le parole lo seguono e lui non < s’insalsiccia » a parlare, come accadeva alle povere testimoni di uno dei processi a cui furono sottoposti i Cervi. Liberissima é la sintassi di tipo verghiano e realista, ma che a tratti sembra riecheggiare i cantari romanzeschi: quella sintassi che non dispiacque neppure al conte Boiardo e che faceva muovere il suo canto. Scusate un professore, se ripensa all’Orlando innamorato, quando trova certe locuzioni e certe immagini. Le barbe e gli occhi « frizzanti » degli antifascisti liberati dopo il 25 luglio e la pastasciutta « allo sbrago, finché va » nel pranzo di festeggiamento offerto a tutto il paese, carabi-nieri inclusi, che volevano disperdere |’assembramento e poi si sedettero e brindarono alla liberta. O la storia dell’aviatore americano salvato dal paracadute bianco dove stava « come in un letto matrimoniale, e perdeva sangue da una _

gamba >», e portato a casa Cervi, fasciato con « la tela migliore, quella che filava la madre », e rimesso su con cibi

che in tempo di guerra erano pit preziosi dei conviti delle __ maghe e delle fate, brodo e pollo, brodo e pollo per tirar _ su il « putino » a cui la pelle non piaceva, e il vecchio Alcide si arrabbiava, « perché il pollo era come oro allora», e nessuno della famiglia ne mangiava, e se ne priva_ vano per lui, il putino americano, che tornato alla sua ie

367

America e alle sue scatolette, avra imparato qualcosa pure lui. O la storia dell’ultima impresa dei sette fratelli quando Aldo, sull’argine del Secchia che « sembrava

un mercurio

al lume della luna » é riconosciuto da un fascista che « lo vede chiaro in faccia », e li fa arrestare tutti e sette per Pultima volta. Quell’ispirazione epica che é stato il sogno letterario di un’ombra antica per i poeti della borghesia nazionale, da Foscolo a Carducci, nelle storie dei Cervi la ritroviamo per

la prima volta presente e viva, perché (a dispetto di ogni accostamento libresco) € venuta dalla vita del popolo che si riconquistava la sua cultura, il diritto alla sua indipendenza,

il diritto alla liberta di costruirsi il socialismo. E un libro che é nato dalla vita e dalle lotte di « contadini di scienza » che avevano realizzato gia in piena dittatura fascista, in un

collettivo familiare, i pi moderni e i pit. audaci ideali di societa organizzata. « Questa fu la scoperta folgorosa »: sembra un endecasillabo che pud rimare in un ottava: animosa... amorosa... sanguinosa. Ma é prosa e poesia dei nostri tempi questa scoperta. — Diciamolo con le parole del vecchio Cervi: « se otto contadini di Praticello, di fede cristiana, si erano messi sulla strada che in Russia ha portato al socialismo, € segno che c’é una legge che € matura coi tempi, e tutti hanno il cuore verso quella legge, anche se non lo sanno ». Libri come questi son difficili da giudicare, perché segnano J’inizio di una

nuova

societa.

Storia,

pensiero

e poesia,

il comico

e il drammatico, l’epico e il didascalico sono talmente mescolati da disorientare chiunque sia avvezzo alle forme compiute ed evolute della letteratura pil colta. Vicinissimi e gia lontani, coi loro nomi leggendari questi personaggi: Al' cide, Genoveffa, Gelindo, Antenore, Ovidio, Ettore! E Ferdinando che « aveva passione per le api perché ci vedeva la societa giusta, organizzata nel lavoro, come quella sovietica, diceva ». E Aldo, quello che pit! aveva saputo « armarsi con la testa », quale geniale ingenuita quando per la sua biblioteca « aveva comprato un mappamondo, perché Stalin aveva detto: studiate la situazione internazionale ». A queste parole é piu facile sorridere di superiorita, che — 368

dersi conto del significato immenso che racchiudono. edremo gli anni in cui anche di questo libro si parlera itto il mondo come delle lettere di Gramsci o di quelle Rosenberg? Io credo di si, e con quella convinzione che andare « avanti alle cose » e ci fa trovare le parole quello che sentiamo e pensiamo, vorrei dire che a me di aver letto un grande libro, buon seme di una pianta — ara nuovi frutti. Un centinaio e mezzo di pagine, ma 0 di tanti e cosi poetici fatti, che l’amore del lettore Je crescere e durare nella sua fantasia, ricco e fertile

poloso come quale si pud emporaneo, e Aldo al suo

un campo ben lavorato. Ecco un libro dire con orgoglio: mi é caro perché mi e concludere, parafrasando le parole che pit’ grande amore, alla sua Lucia: se mi

dessero in quale tempo vorrei rinascere e scrivere, sce-

srei

questo tempo e questi libri, questa Italia e questa

1955

mee

gh

te

_

369

Nota bibliografica

Nel quadro di una ristampa e di un nuovo riordinamento di tutti i miei lavori, la presente silloge comprende, oltre un inedito e tre scritti mai raccolti in volume, gran parte dei saggi e schizzi gia ripubblicati in Letteratura militante (Milano 1953 = LM) e in Realismo e controrealismo (Milano 1958 = RC), dopo essere apparsi in periodici o quotidiani (come « L’Unita » e « Paese sera» di Roma = Ue PS). Piu precisamente:

|

1.

Torquato Accetto o la dissimulazione onesta in « Pri-

mato » del 15.5.1943 e in « Il Saggiatore » di Milano I, 1943, pp. 69-70 e poi in LM. Delle opere di Accetto si attende ora una nuova edizione da S.S. Nigro (cfr. la Letteratura italiana diretta da Carlo Muscetta, Bari, Wi seicento, t. 1°, § 11).

:

2. Introduzione all’« Ortis ». E la prefazione alle Ultime lettere di J. Ortis (Torino 1942) ristampata in LM. 3. L’Esopo moderno: recensione apparsa in « Nuova antologia » del 16.2.1942 e ristampata in L.M. 4.

Guido Dorso o Machiavelli in provincia: in « Belfagor», settembre 1947, e in LM. : 5. Leggenda e verita di Carlo Levi: in « Fiera lettera-

ria» del 14.11.1946 e in u del 16.6.1950. 6. Gramsci in carcere: in « Societa » del novembre-dicembre 1947, ristampata in LM. Sviluppi di questo scritto in la Letteratura italiana citata, vol. L’eta pre-

sente. 7. Per una storia di Pavese e dei suoi racconti: in « Societa », dicembre 1952, ristampata in LM. 371

« Metello » e la crisi del neorealismo: in « Societa >, agosto 1955 e giugno 1956, ristampata in RC. * Simplicio e la commedia filosofica dei « Massimi sistemi »: discorso del 1964, pubblicato in « Mimesis » 1, 1968 di Catania-e dedicato agli studenti contestatori. Vincenzo Padula prosatore: in « Almanacco calabrese », 1972-1973.

II.

Lo schiaffo di Chaplin: ristampato in LM.

in « Societa » giugno 1953 e

Cinema controrealista: ristampato in RC.

in « Societa >», aprile 1954 e

Ill.

Parliamo di Bertoldo: nell’u del 1.4.1948 e poi in LM. Sviluppi di questo saggio in la Letteratura italiana, cit. I] seicento, t. 2°, § 127. Misasi e il ritratto di un brigante nell’u del 2.12.1950 e poi in LM. I racconti del Nieri: dell’u del 30.9.1950 e poi in LM. Il professor dironia Alfredo Panzini:

nell’u del 9.6.

1949 e poi in LM. « Unamicizia difficile » di Bigiaretti: in « Aretusa > di Roma, gennaio/febbraio 1946. Un diario dell’ultima guerra: in «La

fiera lettera-

ria » del 24.7.1947 e poi in LM. Del Revelli si vedano ora i due volumi La guerra dei poveri (1962) Torino 1973° e La strada del davai (1965) Torino 1972. Presso lo stesso editore Einaudi (Torino 1971) egli ha curato la raccolta de L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi della IT guerra mondiale. Da « Napoli milionaria! » a « L’arte della commedia »:

il primo pezzo é apparso nell’u del 15.8.1950. I se- 2 condo é rimasto inedito, perché Eduardo, pur tro- — 372

ed burattini della novizia: nell’u del 24.6.1950 e poi in LM. Lo scrittore a cui si allude nel titolo e nel testo - @ Guido Piovene. « Il conformista » di Moravia: nell’u del 13.6.1951 e

poi in LM. ape novelliere dell’interregno: Domenico Rea: nell’u . Brancati e la censura:

in « "Rinascita > IX, 1952, pp.

305-7 e poi in LM. La verita con le gambe corte: tifiutato dall’« Unita »

Elogio della baste meridionale: Lettera a Tommaso iore: nel PS del 3.2.1952 e poi in LM. ardo Bacchelli per mare e per terra: in ps dell’1,

373

Indice

dei nomi

Baudelaire, Charles 63, 65, 83, 85, 88, 89, 356 Bava Beccaris, Fiorenzo 127

Accetto, Torquato 7-14 Alberti, Leon Battista 30 ‘Alfieri, Vittorio 21, 61, 337 _ Alighieri, Dante 21 Alvaro, Corrado 58, 337 Anderson, Sherwood 94, 100, 104 Antonicelli, F. 95, 96 _ Archimede 175, 184, 192 Ariosto, Ludovico 30, 77 Aristarco, G. 257, 259 Aristofane 261

Belli, Giuseppe Gioachino 261, 269, 278; 325-4443 351 Bellonci, Goffredo 7, 10, 11, 125-13 Benedetti, Arrigo 366 Berchet, Giovanni 21 Bernardino da Siena 29

Bertola de’ Giorgi, Aurelio 30 Bigiaretti, Libero 285-288

Aristotele 167, 179, 185, ~ 191, 192, 193, 194, 197, we201, 205,:209 Aurelio, Marco 83 __ Azeglio, Massimo d’ 60

Blasetti, Alessandro

252

Bo, Carlo 111, 116

167, Giovanni 179 Bocelli, A. 112, 144, 151, S12 Boiardo, Matteo Maria 367 Bonaparte, Napoleone 26 Boccaccio,

Bacchelli, Riccardo 109, 157, 349-358 _ Bakunin, Michail Aleksandrovic 116 Baldi, Bernardino 30 Baldini, Antonio 269, 337, 351 Balzac, Honoré de 115 _ Banfi, Antonio 176 Barilli, Bruno 330 Bartoli, Daniello 352, 357, a5. |

Brahe,

Tycho

163,

168,

177, 194 Brecht, Berthold 208 Bresciani, Antonio 281, 322. 3362352, 3a8

Brocchi, Virgilio 74

_

Bruno, Giordano 176, 183, 188, 347 Buonarroti, Michelangelo (il Giovane) 178

cy

‘Barzini, Luigi 84 375

Contini, Gianfranco 214

Cafiero, Carlo 115 Cain, James M. 80

Cajumi, Arrigo 95

Cremonino, Cesare 211 Croce, Benedetto 7, 10, 11,

Calendoli, Giovanni 249” Calvino, Italo 151, 152, 273 Campanella, Tommaso 14, 176, 179, 183, 188 Cantu, Cesare 117, 135

13,14, 62, 66;: 74g ee 102, 113, 115, TIS 22a 282, 284,317 Croce, Giulio Cesare 269Ze

Caravaggio 328, 329 Dallamano, Piero 112, 113 D’Annunzio, Gabriele 94, 98, 152, 159; 2747-3038 304 De Feo, Sandro 82, 84 De Filippo, Eduardo 296311,°329) 347 Della Volpe, Galvano 249 De Lollis, Cesare 96 Del Tuppo, Francesco 27, 29, 30 j Democrito 174 ; De Robertis, Giuseppe 91, 113, 139, 214, 283 De Sanctis, Francesco 17, - 18, 23, 40, 50, 77, 94, 145, 147, 148, 154, 155, 182, 208, 218, 336, 341, 352 De Sica, Vittorio 265 Diderot, Denis 65, 239 Di Giacomo, Salvatore 111 Di Giammatteo, Fernaldo 255, 256, 257 Dorso, Guido 32-51, 262,

Cardarelli, Vincenzo 249 Carducci, Giosué 282, 368

Carugo, A. 161 Casati, G. 40 Cases,- C. 155, .158 Castellani, C. 154 Cattaneo, Carlo 23, 35 Catullo, Caio Valerio 101 Cecchi, Emilio 82, 94, 113, 140, 144, 145, 151, 214,

283, 312, 330 Cecchi, Suso 251, 315 Cechov, Anton 110 Cervantes Saavedra, Miguel de 261 -

h

Cervi, Alcide 359-369 Cesarini, Virgilio 163, 167 Cesarotti, Melchiorre 19 Chamfort, Nicolas-Sébastien Roch 26

Chaplin, Charlie 235-250, 261 Chiaramonti, G.B. 197 Chiarini, L. 240, 241, 242, 243; 245, 246, 257 Ciarletta, Nicola 249

265, 305, 344, 345, 347

Clair, Renée 249 Clouzot, Henri Georges 340

Dreiser, Theodore 323 Dumas, Alexandre 275

- Collodi, Carlo 117, 318 Comencini, Luigi 259, 261, 263

Einaudi, Luigi 366 Eliot, Thomas Stearns 101 376

:

Goethe,

Johann

Wolfgang

144

Goéngora y Argote, Louis de 13

Gorkij, Maksim 110, 122, 125, 129, 133, 160, 365 Gracian y Morales, Baltasar 26 6

arari, Giuseppe 218 bach, Ludwig 141 ommaso 344-348 la, Agnolo Giovan-

0 Gustave 356 erdinando 161 Tancesco 328, 330 Franco 116, : i 128, 141, 142, 145 0, Giustino aA o3.

20)

_ Ugo 15-24, 368 1 es Leopoldo 231

Gramsci,

Antonio

42,

49,

68-79, 119, 158, 253, 2172, 282, 325, 345,352, 369 Grassi, Orazio 162, 163, 165, 166, 167, 168, 169, Ohi

Guicciardini, Francesco 26, 167 Guiducci, Mario 162, 168

Hawthorne, Nathaniel 97 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 143 Heine, Arrigo 282 Hobbes, Thomas

19

Ingrao, Pietro 244, 247 Invernizio, Carolina 115

Jouffroy, Th. 22 Jovine, Francesco 109, 312-

“SiG Joyce, James Augustine 94, 341 Jung, Carl Gustav 66

Kipling, 94 Kropotkin, vic 166

Joseph

Rudyard

Pjotr Alekseje-

Labriola, Antonio 51, 114, ES I,So SR

La

Bruyére, 223

Jean

Lajolo, Davide 82 La Motte, Antoine

de

Margadonna, 261, 263 Marulli 301

100,

Houdar

Marx,

Lanza, Francesco 355 La Rochefoucauld, Francois (duca di) 26 Lassalle, Ferdinand 126 Lawrence, David Herbert

Matarazzo,

60, 93 Lenin, Vladimir [lije 123, 130, 145, 160, 284, 345

115, 127,

252,

137,

G. 154

Mazzini, Giuseppe 50, 147, 356

21, 23,

Melville,

57,

Herman

93,

97, 105 Menandro 15 Mercantini, Luigi 350

Leonardo 30, 167 Leopardi, Giacomo 21, 83, 94, 102, 147, 164, 239, 355;°396 Monaldo 272, Leopardi, 282, 355

Micheli,

Silvio 339-343

Mila, Massimo 82, 95, 105, 106 Miraglia, Biagio 275 Misasi, Nicola 273-276 Missiroli, M. 317 Moliére 261, 297, 300 Montaigne, Michel Eyquem de 19,22

Ephraim

Levi, Carlo 52-67, 95, 305, 337, 354 Lévi-Bruhl, Lucien 94

Longanesi, Leo 249 Lukacs, Gyorgy 117, 148 Luporini, C. 208

M.

155, 282 Massinger Philip 101 Masters, Edgar Lee 97

26

Lessing, Gottlieb 26, 28, 29, 30

Karl

E.

Montale, Eugenio 159 Montano, Rocco 142, 158

Monti, Augusto 93, 95

141,

Monti, Vincenzo Moravia, Alberto 321-326, 334, Moro, Tommaso Mosea, Gaetano

Maccari, Mino 335 Machiavelli, Niccolo 19, 27, 34, 39, 167, 346

20, 349 129, 288, 337 346 35

Nieri, Idefonso 277-280 Nietzsche, Friedrich 93, 116

Maistre, Joseph de 61, 65 ‘Malaparte, Curzio 298 Manzoni, Alessandro 109, 133, 134, 138, 147, 148, 253, 346, 352 Marchesi, Concetto 333

Olschki, Leonardo 169 Omero 25, 224 Omodeo, Adolfo 290° Orazio, Quinto Flacco 272 Oriani, Alfredo 35

Marcolongo, Roberto 211 378

Padovani, V. 38 Padula, Vincenzo 214-232, 275 Palazzeschi, Aldo 158 _ Pampaloni, G. 114, 117, 129, 151

_ Pancrazi, Pietro 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 158, 159, ear 512, 313 Panzini, Alfredo 281-284 -

Pareto, Vilfredo 35 _ Parronchi, Alessandro 115 Pascoli, Giovanni 282 Passeroni, Gian Carlo 26 - Pavese, Cesare 80-106, 259,

.

328, 339, 341 Pepe, Gabriele 345 Petrarca, Francesco 21 Petrini, D. 96 Philippe, Charles-Louis

158 _ Picasso, Pablo 94 mepicciony 1. 111, 112, 114 - Pintor, Giaime 99, 106 - Pirandello, Luigi 296, 300, ‘ 304 iPisacane, Carlo 51, 218 _ Pitigrilli (pseud. di Segre D.) me 135 :Pitagora 222

_Planude, Massimo 27 hee 176, 183, 191, 192 _ Platone, Felice 73 ‘Poliziano, Angelo 29, 77

d-Polledro, A. 96

a Polo, Marco 361 i“Pratesi, ~ 140

Mario

EPratolini: Vasco e

ae

Proudhon, Pierre - Joseph 137 Proust, Marcel 115 Pulci, Luigi 29, 330 Pullini, G. 158 Purificato, Domenico 132 Pusckain® A.$:73:-275.

Rabelais, Francois 261 Radiguet, Raymond 158 Rea, Domenico 259, 327332 Revelli, Nuto 289-295 Riccardi, Nicold 183 Roberti, Giovanni Battista 26 Rondi, Gian Luigi 251, 252, 258 Rossellini, Roberto 337 Rousseau, Jean-Jacques 16, 19, 26 Russo, Luigi 34, 144, 214, St Rusticello da Pisa 361 Ruzante 209

Sacchetti, Franco

Salinari, Carlo 110, 111, £15. 14251432 158 Salvemini, Gaetano 53, 263, 265, 305, 344

Sannazzaro, Jacopo 11 Sapegno, Natalino 214, 312 Sarpi, Paolo 14 Sartre, Jean-Paul

133,

134,

107-160,

279

Sala, Giuseppe 247, 248

80, 323

Scalvini, Giovita 17 io. Scheiner, Cristoforo 197 Schiller, Friedrich 123 eMbey

Scialoia, Toti 248 Scotellaro, Rocco 263

Seghers, Anna

141

Seneca, Lucio Anneo 168 Serra, Renato 281

Settembrini,

26,

Tommaseo, Niccold 26, 27, 30, 98, 134, 138): 218; 223, 229 Torti, Francesco 147 Trilussa 31 Trombadori, Antonello 248

Luigi 218

Shakespeare,

William

Trombatore,

Trompeo,

93,

246, 300 Shelley, Percy Bysshe 242 Socrate 25, 176, 200 Soderini, Pier 45-46 Soldati, Mario 60 Solmi, Sergio 96 Sonnino, Sydney 131, 231 Spaventa, Silvio 74 Spezzano,

Francesco

Valgimigli, Manara 278 Valla, Lorenzo

30

Venturi, Lionello 94

Verdi, Giuseppe 21 Verga, Giovanni 21, 58, 101, 140, 231, 259, 274, 283, 341, 354 Vernon, Lee 133

273,

274 Stecchetti, Lorenzo 269 Stein, Gertrude 100, 242 Stendhal 54 Swift, Jonathan 325 Tacito, Publio Cornelio 22

G. 144

P.P. 286

Verri, Alessandro I ¢ Vico, Giambattista 25, 26, 27; 93,355 Vigorelli, Giancarlo 110, 112, °115,3ids : Virgilio, Publio Marone 52, 101 Vittorini, Elio 58, 94, 102, 341 Viviani, Raffaele 159, 329 Volpini, Flora 317-320 — Voltaire, Frangois-Marie-A-

16,

Tasso, Torquato 9, 11, 77 Teilhard de Chardin, Pierre 163 Telesio, Bernardino 183 Tellini, Piero 251 Teofrasto 223, 279 Thibaudet, Albert 105

rouet 26, 239

Whitman, Walt 94, 96, 97

Tilgher, Adriano 335 Togliatti, Palmiro 50 Tolomeo, Claudio 177, 183, 193. Tolstoi, Lev Nikolajevic 116

Young, Edward

19

Zampa, Luigi 251 Zavattini, Cesare 337

380

Torquato Accetto o la dissimulazione onesta Introduzione all’« Ortis » | L’Esopo moderno Guido Dorso o Machiavelli in provincia

_5 Leggenda e verita di Carlo Levi 6 Gramsci in carcere z ra‘7 Per una storia di Pavese e dei suoi racconti

107 f :} ‘Vincenzo Padula prosatore

161 214

Lo schiaffo di Chaplin Cinema controrealista

235 251

; Parliamo di Bertoldo

269

¢

‘assimi sistemi

Misasi e il ritratto di un brigante

iario dell’ultima guerra Vapoli milionaria! a L’arte della commedia ltimo libro di Jovine

VA art. 281 285 | 289 296 342 317

10 Jl conformista di Moravia

11 12 13 14

Un novelliere dell’interregno: Domenico Rea Brancati e la censura La verita con le gambe corte Elogio della pazzia meridionale - Lettera a Tommaso Fiore 15 Riccardo Bacchelli per mare e per terra 16 Le storie di Alcide Cervi, dei sette figli e della loro madre

Nota bibliografica Indice dei nomi

324 Jat 333 339 344 349

359 37k 375

_Finito di stampare il 2 settembre 1976

dalla Aldo Garzanti Editore s.p.a., Milano

7;

Collezione I Garzanti - Argomenti Periodico quindicinale

7 settembre 1976

Direttore responsabile Livio Garzanti Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Milano n. 49 del 3-2-1976

3 5282 00059 3635

Spedizione in abbonamento postale Tariffa ridotta editoriale Autorizzazione n. 62341 del 29-8-1946 Direzione provinciale P.T. Milano

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iin sis cvseo roa OU wuill lismo di Muscetta — dan mA! eee eae wen l'autore (passato attraverso Croce prima di approdare al marxismo) al repertorio dei nomi e degli argomenti, cosi profondamente radicati nella realta italiana, e piu specialmente in quella del Mezzogiorno — sembra corrispondere a una stagione ancora vicina nel tempo. Il passato prossimo appare spesso il passato pil: lontano:tra tutti, perche corrisponde a cid che da poco abbiamo lasciato alle spalle. Distanza che maschera talvolta sostanziali continuita. | temi del realismo e dell’umanesimo, cosi vivi e concreti nell’opera di Muscetta (che € stato al centro di tante polemiche, soprattutto per il ritorno al De Sanctis) non sono forse quelli che ancora ieri nutrivano tutta intera la Sinistra italiana, e in particolare il suo maggior partito? Non é forse su di essi che si @ stabilita un’egemonia culturale ancor oggi assai salda? Ma Realismo neorealismo, controrealismo va letto anche per altre ragioni. Nei saggi e negli interventi di Muscetta (su Pratolini e su Gramsci, su Dorso e su Galilei, su Carlo Levi e su Chaplin...) scopriamo un critico di grande e probo talento, attento a radicare le esigenze realistiche della nostra epoca nello spessore di una tradizione nazionale, sempre aderente ai testi, mai ossequiosO a convenienze o complicita; un critico « animoso », come lo defini Emilio Cecchi, per il mordente della sua struttura e del suo giudizio (ma anche per la sua allergia al compromesso conciliare, per il suo «Sarcasmo appassionato » di gramsciano, per il suo populismo di maoista antidogmatico) @ Carlo Muscetta é nato ad Avellino nel 1912, insegna alla facolta di lettere dell’Universita di Roma. Tra le sue opere ricordiamo: Letteratura militante

del 1953, Cultura e poesia di G-G. Belli del 1960, . Boccaccio del 1972, Leopardi del del 1976. 1976.

L. 3800(.)

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