Il neorealismo italiano

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Il neorealismo italiano

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PREFAZIONE

Caro Brunello

benissimo. Bisognava fare un libro sul neorealismo e tu eri più qualificato di tanti altri. Eccoti — in sintesi — quello che penso sull’argomento da te trattato. Il neorealismo è soprattutto l’arte della « constata­ zione » (cioè di un avvicinarsi con amore a una realtà obbiettiva vista qual’è, senza filtri di pregiudizi e di schemi). E’ quindi un prendere contatto diretto con l’uo­ mo. Il neorealismo ha soprattutto valore come denuncia dei bisogni morali, spirituali, materiali, dell’uomo. E’ un mezzo per sollecitare le coscienze e per mostrare i pro­ blemi. E’ importante soprattutto oggi in un mondo af­ fannato alla ricerca di soluzioni, e dove tutto è possibile. La cultura popolare, che doveva avere una funzione precisa nella società moderna proprio per aiutare gli uo­ mini alla soluzione dei problemi che li opprimono, è di­ ventata unicamente un fatto industriale. Gli scopi cultu­ rali sono stati dimenticati e si è arrivati all’assurdo che la cultura occidentale è composta di fatto di due culture: la cultura tradizionale, che chiameremo « alta cultura », e la cultura popolare, che è diventata un prodotto cor9

rente e manifat turata. Questa cultura popolare, che ha creato e si è servita dei nuovi mezzi di espressione, come la radio, i rotocalchi, i romanzi polizieschi, i romanzi d'av­ ventura e di fantascienza, la .televisione, e il . cinema, è torse più esatto chiamarla « cultura di massa » e ciò per­ chè il suo carattere distintivo è unicamente quello di un articolo destinato al consumo della massa, come il « chewingum », e che sfrutta, piuttosto che soddisfare, i bisogni culturali delle masse. Il « kitsch » (parola tedesca che significa appunto « cultura di massa ») è fabbricato da tecnici a servizio di uomini d'affari : il suo pubblico è formato da consumatori passivi che, ormai nutriti quo­ tidianamente di kitsch, difficilmente riescono a percepire altri gusti. Ti ricordi quando assaggiasti la prima bottiglia di coca-cola? Ti piaceva? No. Ora è normale per ognuno di noi chiedere una bottiglia di coca-cola. Il kitsch, che è arte predigerita e che evita qualun­ que sforzo allo spettatore, che la inghiotte con facilità, a questa immediatezza di consumo aggiunge la facilità di produzione (dovuta alla standardizzazione) e si capisce perchè si sia sviluppato con tanta rapidità. Però alla fine della guerra i nostri produttori di kitsch ebbero una battuta d'arresto. Contemplavamo le rovine dalle quali sbucavamo co­ perti di polvere. Uscì dai nostri cuori un bisogno pro­ fondo e sincero di riconoscerci e di individuarci. Dalla no­ stra posizione morale, che ci imponeva di capire l'assurda tragedia alla quale eravamo sopravvissuti, nasceva il neo­ realismo. Era un avvicinarsi all'uomo con uno spirito assoluto di amore e di solidarietà e da questo incontro umano è scaturita una così profonda emozione che noi non vo­

id

gliamo più abbandonare questa posizione, il suo nucleo. Anche ora che (essendosi riorganizzati i produttori di kitsch) il neorealismo è assediato, e isolato. Per fortuna questa impemutrizione di kitsch ha incominciato a creare l'indigestione. I segni della crisi sono evidenti. E siccome spero che questa crisi si verifichi, il neorea­ lismo sarà ancora una forza vivissima. E* la fiducia asso­ luta che noi abbiamo nell'uomo quella che ci impone di seguitare nella nostra strada. Gli uomini intossicati e obnubilati dal kitsch po­ tranno provvisoriamente non capirci, ma quando questa intossicazione li disgusterà, troveranno ancora qualcosa a cui appoggiarsi. Ti abbraccio.

Roberto Rossellini Roma, 19 dicembre 1955.

II

PARTE PRIMA

LE FORME TIPICHE DEL REALISMO CINEMATOGRAFICO E I LORO RAPPORTI

Cap. 1 IL REALISMO ITALIANO

M realismo italiano, impropriamente definito « neo­ realismo » (secondo un’etichetta formulata dalla critica meno avveduta, col proposito, forse, di avvalorare la tesi di una rinascita, in un nuovo clima morale, del realismo letterario e populista francese del periodo fra le due guer­ re) nasce al momento della resa dei conti di tutta la cul­ tura europea; quando, cioè l’arte con temporanea era costretta a un bilancio delle proprie capacità costruttive e, attraverso la guerra, giungeva allo smarrimento totale, al silenzio, ai tentativi di un rinnovato grido espressio­ nistico, o alla ricerca di una nuova serietà, di un nuovo senso tragico, eppure positivo e costruttivo, della condizio­ ne umana; un senso tragico che anche nella contempla­ zione del dolore più fondo, non giunge mai alla dispera­ zione. E’ proprio questa assenza di disperazione che co­ stituisce il substrato spirituale e morale del secondo do­ poguerra, nelle sue voci più vive. In questo clima, i cui elementi fondamentali sono una nuova capacità morale e una ferma necessità di de­ nuncia (scaturita e confortata dal possesso di sentimenti fondamentali) il nuovo realismo cinematografico italiano 15

rappresenta la più pura forma di conquista di una mora­ lità e la sua totale traduzione in termini d’arte. Nato da una sincera esperienza di vita, il cinema ita­ liano infatti si è formato nell’ambito di un sentimento etico e di una posizione critica che, nella loro ampiezza, hanno dato luogo a una particolare « visione » del mon­ do, della storia, della condizione umana e dei suoi le­ gami essenziali, visione che, sola, può autorizzare il rag­ gruppamento di determinati films attorno alla denomina­ zione generale di < scuola » o « tendenza » o, anche, di « stile » (mentre è del tutto indifferente se, oggi o in fu­ turo, questa particolare visione del mondo, si manifesti o possa manifestarsi in modo cronachistico, o con il ri­ corso alla favola, con attori presi dalla vita o con profes­ sionisti, in ambienti o in climi e geografìe diversissimi). E’ a un senso di « totalità » e di « interiorità » che bisogna rifarsi per sbarazzare il campo dai molteplici equivoci nati attorno al nuovo cinema italiano. La sua è una nuova poesia morale, è anzi l’unica poesia morale in­ tesa da tutte le voci più autentiche del dopoguerra (si ri­ corderanno le infinite polemiche europee per un’arte « engagée») quella che solo nel cinema ha potuto prendere corpo e sangue e sottrarsi agli schemi didascalici e sfug­ gire ai filosofemi per diventare poesia incarnata. Il pericolo del nuovo realismo italiano è stato ed è nel credere alla contingenza o alla transitorietà del nuovo metodo critico e del nuovo stile chiarito e raggiunto nei suoi films, o nel ravvisarne i mezzi di elevazione in pochi temi chiusi fra « guerra » e « dopoguerra », mentre invece questo cinema è l’espressione concreta e « classicamente » tragica della condizione umana nelle sue più attuali proiezioni e prospettive storiche, nel suo travaglio con­ 16

temporaneo. I registi del nuovo realismo hanno sentito che il loro mondo poetico era un’infinita possibilità di forma e non una « formula » che prescrivesse metodi; molti di essi, pe­ rò, non hanno compreso che il nuovo realismo, se non le­ gava alla lettera dei suoi metodi, condizionava tuttavia ogni loro successo al vero esaurimento delle implicazioni contenute nella sua idea: bisognava, cioè, rimanere fe­ deli al momento « critico > del realismo, anche se si era liberi di elevarlo a qualunque atteggiamento di poesia (favola, finzione assoluta, apologo, balletto) (1). Invece molti registi italiani, mostrando una notevole pigrizia nel cercare nuove « forme » al realismo, si sono poi quasi sempre astenuti dall’approfondire e dal modulare vera­ mente le infinite possibilità di questa « moralità » latente e di questa segreta forza che aveva sempre operato in essi, e si mostrava insoffribile tiranna, e vendicatrice dei loro tradimenti. Nonostante il momentaneo stagnare delle energie creative, dopo uno sforzo di elevazione e di chia­ rezza che l’arte contemporanea in tutte le sue forme non aveva saputo compiere, o graduale spegnersi dei fermenti che il cinema, arte collettiva come produzione e come ispirazione, sente come potenti stimoli per la sua stessa vita, il nuovo realismo italiano ha, comunque, aperto una strada allo spirito con temporaneo, e i suoi uomini, i suoi poeti, sono sempre vivi accanto alla di loro più viva, o sa­ crificata, idea, e possono sempre rimettersi in cammino; i loro migliori films sono già nel cammino dello spirito contemporaneo. (1) Naturalmente tutti questi atteggiamenti non potranno es­ sere tentati dal neorealismo con troppa disinvoltura.

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In molte delle sue opere l’arte con temporanea — per esempio in un Eliot, in un Joyce — pone e sente dei pro­ blemi che la filosofia contemporanea non è mai, neppur vagamente, riuscita a sentire, o a risolvere. Su una scala felice, la medesima cosa può dirsi per il nuovo realismo cinematografico, che reca in sè, potenzialmente, una vi­ sione del mondo, una morale, un’etica nuova, e com­ pie nel suo movimento una critica di alcune delle idee più avanzate e profonde del nostro tempo, senza dar luogo ad alcuna misura, ma, anzi, indicando in mo­ do radicale a tutta la cultura da che parte, in che modo, il discorso nuovo dell'arte può ricominciare. Sarà evidente, fra qualche tempo, quello che il cinema italiano realistico ha voluto significare per tutta l’arte, e in che senso, in che estensione, ha potuto rompere gli schemi del verismo francese, così debole e insufficiente co­ me visione dello spirito e come organismo poetico e mora­ le, così viziato di letterario crepuscolarismo. Sarà chiaro come ha superato i modi del realismo americano e quelli del realismo dialettico russo. Ciò che può esser detto a proposito del nuovo reali­ smo italiano è che — in questo trovando un paragone e un’analogia solo nel realismo russo — sorge su un’or­ ganica visione del mondo, su una morale implicita, su un particolare giudizio della realtà, su un’integrale < posi­ zione » dello spirito (1)^11 realismo italiano non è soltanto un fatto artistico: nonostante la sua sgombra tensione fno­ ti) Sìa ben chiaro, che affermando questo alludiamo non tanto alle realizzazioni del primo neorealismo quanto alle dirette sue posizioni e possibilità di oggi e al suo < pensiero » implicito, che in questo libro si vuole chiarire.

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ri da ogni preconcetto ideologico e la sua nuda concre­ tezza di esperienze vissute e di cose tutte rappresentate è della solitudine, non i suoi « elegiaci ». Da ciò la visione della condizione umana nella sua strut­ tura complessa, più nella risultanza organica della vita degli individui che nel loro patetico e individuale riso­ nare ad ogni scontro o ad ogni mancato incontro. Anticipato — solo sul piano emotivo — in un film come « Sperduti nel buio » di Nino Martoglio, del vec­ chio cinema italiano muto, dove è impostato, con pro­ fonda serietà e concretezza, e con quella « fisicità > che solo un italiano poteva dare a un tema etico, il nuovo realismo italiano si profila come primo intenso annuncio solo con « Ossessione » di Luchino Visconti. Questo film, 21

in un acuto bisogno di dire la verità, prende l’istituto fa­ migliare come primo tema d’analisi e di critica, e di tra­ gedia, in un atteggiamento profondamente rivoluzionario e morale. Nel mezzo della dominazione fascista, che signi­ ficava un’« artificiale facilitazione dei rapporti umani », una vernice di coerenza e lucentezza sul caos di spaven­ tosi disordini, pose il primo segno di opposizione e il primo accento di una critica veramente profonda. Com­ piuto in un’epoca ancora vuota di forze veramente rivolu­ zionarie, e mentre le voci di crisi erano ancora coperte, questo film non potè essere altro che un annuncio, ma lo fu nel senso profondo in cui impostò una visione di rap­ porti umani sbagliati, che si macerano nell’infamia e fi­ niscono col consumarsi e perdersi. Questo film non riu­ sciva a vedere la sintesi del mondo sociale che conteneva e giustificava la possibilità di questi rapporti e da questa limitatezza del contenuto e dell’impostazione derivava il carattere particolare della forma di questo film : lento, ec­ cessivamente analitico, piena di un senso ancora abbastan­ za naturalistico di certe situazioni umane. Ma già si vede­ va chiaro il peso di critica amara e concreta che c’è in ogni film di Visconti. I suoi films non si chiudono mai in una negazione totale o in un generico appello alla so­ lidarietà e all’amore. In « Ossessione » la figura dello < Spagnolo», dell’amico disinteressato, sembra aprire a Gino lo spiraglio d’un mondo nuovo, di semplice fra­ ternità, di chiarezza morale, e indicare, nella critica a una serie di rapporti umani sbagliati, la possibilità di una trasfigurazione e di un rinnovamento. In « La terra tre­ ma», nella storia intensamente tragica dei rapporti etici, visti nell’angolo riassuntivo dell’ingiustizia economica e della servitù dell’uomo all’uomo, si manifesta il finale ri­

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scatto del protagonista, che si pone concretamente il fine di non subire l’ingiustizia (1). In « Bellissima », la vicenda della madre che, per la ambizione di vedere la sua bambina diventare attrice di un film, è tentata dal meccanismo del mondo cinemato­ grafico, così spesso devastatore d’ogni dignità, si compie nella crisi della posizione della madre, nel suo riscatto e, nel suo formidabile ritorno nel cuore della dignità uma­ na, nella rinuncia a ogni miraggio che, con facili pretesti, finisca col degradare la persona umana. 11 film si chiude con una profonda esaltazione della famiglia, vista nel fuoco d’una nuova eticità, e d’una seria, struggente, poe­ sia della vita (2). Accanto al profondo rintocco del primo film di Vi­ sconti, di quell’ « Ossessione » che subì ogni genere di ta­ gli a opera della censura fascista e fece una difficile vita in una contrastata circolazione, nessun film, all'infuori del successivo, definitivamente chiaro, completo e rinno­ vatore « Roma città aperta » di Rossellini, può essere vi­ sto nel varco del nuovo realismo. L’opera dei documen­ taristi poteva tutt’al più servire come esame di un meto­ do, che doveva trovare i suoi veri nuclei per liberarsi e giustificarsi : così « Uomini sul fondo » di De Robertis (1) La spinta etica concreta e l'innesto profondo nella realtà economica e politica fanno del cinema italiano una posizione affat­ to nuova nell’esangue letteratura esistenzialista contemporanea e una rappresentazione rivoluzionarmente calibrata di quella che è la « condizione umana >.

(2) Il neorealismo contiene una posizione di amore della vita, un’esaltazione delle forze elementari ma non primitive, una difesa dell’uomo, che sorpassano anche la sua polemica sociale per stillare una nuova concezione della vita, una nuova poesia dell’uomo.

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non è altro che l’emozionante « rèportage » di un’avven­ tura militare, denso di un generico richiamo alla poesia del sacrificio mentre i films di Blasetti sono troppo vicini alla consuetudine epica per poter investire, o anche sem­ plicemente annunciare, la complessa posizione morale e narrativa implicita nella poesia del nuovo realismo. E’ solo con l’opera di Rossellini che il nuovo reali­ smo italiano entrò, decisamente, in una fase di rottura dei vecchi schemi morali e stilistici e di tutte le convenzioni conoscitive e narattive, e, nella carica di una sensibilità ribelle, capace di estreme liberazioni dell’essenziale, in una visione profondamente sofferta e incapace di incrosta­ zioni razionalistiche, cristallizza in sè le forze rivolu­ zionarie del momento, si pone con più istintivo rigo­ re il compito di vedere chiaro nel mondo c in tutti i suoi rapporti, col salutare sospetto d’ogni convenzionalità, d’ogni artificiale incapsulamento del reale, e d’ogni narratività soggestivistica che potesse far velo al profondo com­ pito del soggetto di fronte al mondo della storia, che deve essere vista e narrata anzitutto come partecipazione e sco­ perta, nell’affermazione del punto di vista veramente universale della persona, e del suo momento morale, sopra rillusoria consistenza del punto di vista dell’individuo, inteso a porre e proporre soltanto sè stesso, senza mai po­ ter uscire da sè stesso per attingere un cerchio più vasto di conoscenza e di visione. La scoperta di una « obbietti­ vità » del nuovo realismo, che per primo Rossellini ha compiuto e sostenuto al di fuori d’ogni insistenza polemi­ ca, ma anzi nel vivo d’una purezza, d’una cordialità, o di una scarna misura che, soprattutto in « Paisà », trovano la più perfetta realizzazione; questa scoperta obbiettiva, che è

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stata fraintesa come scoperta puramente documentaria, come rinuncia all’interpretazione personale e come ri­ nuncia alla trasfigurazione stilistica, è, in realtà, sopra­ tutto la scoperta del momento conoscitivo della « per­ sona » (1). Col suo aspetto universale, e i suoi legami col mondo degli altri, la sua capacità di investigazione completa del mondo e dei suoi rapporti, senza deviazio­ ni nei termini minori d’una « storia psicologica » e inte­ riore che rompesse la visione del mondo in cui la « per­ sona » si sentiva inserita e impegnata in un dramma fondamentale. Il nuovo realismo italiano è la scoperta di una nuova organicità del poeta e del mondo che lo circonda. Perciò vi ha tanta importanza quel mondo degli « altri > : quel­ l’aspetto di verità totale del reale, che solo una « perso­ na > che si senta all’altezza di tutti i legami della realtà può veramente riconoscere e riconsegnare in un termine poetico. Alla base della creazione artistica prima del nuovo realismo italiano c’era la persona individualizza­ ta, tesa a rivivere nella specie dell’intimismo romantico i propri rapporti col mondo, o a proiettarli in un gene­ rico bisogno d’evasione. Alla base della creazione cinematografica del nuovo realismo italiano c’è la persona universale, che ritrova uno per uno i legami con l’organismo sociale del mondo, anche se deve denunciarne, nel fuoco d’una ri-

(1) Ma non intendiamo il vecchio concetto personalistico di Mounier. Pensiamo alla « persona > come organismo sociale e rela­ zionale e centro di consapevole storicità. Certo la guerra ha con­ tribuito a far pesare sull’uomo il senso delle sue relazioni con gli altri.

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trovata capacità di visione, le manchevolezze e l’inerzia. Perciò nel nuovo realismo l’autore parla degli » altri », cioè parla di sè stesso in quanto impegnato in una co­ mune tensione storica con gli altri, e a tema della pro­ pria opera prende, nella sua misura tragica, la sfera della coesistenza. Col « metodo » della comunicazione e della comu­ nità il nuovo realismo arriva così alla visione della so­ litudine e della non-comunicazione, che è il risultato del­ la sua visione, di nuovo superato da un richiamo verso un mondo di rapporti veramenti umani. La realtà a cui si rivolge il nuovo realismo è la real­ tà storica strutturale dell’esistenza umana, della quale ci si vuol fare una definitiva coscienza, è una realtà con­ creta, che ha un infinito peso obbiettivo, che non può esser risolta in una lamentazione interiore o in una pura trasfigurazione individualistica, è una realtà non « ester­ na », non naturalistica o veristica, o ambientale, ma è profondamente « interiore » cioè è riconosciuta in un profondo impegno interiore della « persona », che vede, ben al di dentro delle atmosfere, degli ambienti, o degli aspetti « fotografatoli », in sè non significanti nè passi­ bili di una penetrazione, i termini pregnanti del dramma etico e la struttura totale della condizione umana ricono­ sciuta nel fuoco dei suoi attuali rapporti. Perciò il nuovo realismo del cinema italiano, specialmente nell’opera risolutiva di Rossellini, si consuma co­ me scoperta al tempo stesso folgorante e umile degli « al­ tri », e le cose, le persone, entrano nel quadro artistico con la freschezza, l’importanza, il peso di autentiche sco­ perte, si fanno termini di un’inesauribile fecondità poeti­ 26

ca, di continui suggerimenti: gli « altri » sono visti dal poeta nella nettezza del momento etico, cioè senza colo­ riture di rapporti o storie minori, senza deviazioni dal necessario e grave rapporto etico per inseguire coloriture psicologiche. Come sempre, questa che è anche una gran­ de esigenza morale, è una grande rivoluzione stilistica, che spezza la convenzione romantica dei rapporti tra uomo e uomo e propone nuovi freschissimi modi di narrazione. Da ciò il significato di quella « lastra di ghiaccio » at­ traverso la quale Rossellini ha detto di aver visto gli uomini, nell’estinzione d’ogni altro minore angolo di vi­ sione. Gli uomini che si aggirano fra le rovine di Berlino in « Germania anno zero » o i contadini massacrati dai tedeschi davanti alla fattoria vegliata dal pianto del bam­ bino, son visti come termini d’una storia umana distrut­ ta, d’una coerenza con gli altri uomini che manca, d’un amore che non ha saldato i suoi termini: sono, dunque, nude strutture, che possono essere scoperte solo con que­ sta « scientifica » esattezza, quasi misurazioni straziate ep­ pure esatte; misurazioni dunque, nelle quali si addensa, senza deviare il corso lucido dell’analisi, una sofferenza che si nega qualsiasi evasione, una conseguenza che non sia quella dell’azione etica. Per ottenere questo risultato era necessaria davvero quella « lastra di ghiaccio », che è quasi il presupposto della visione realistica, ed esprime la più profonda visio­ ne interiore. Anche l’inquadratura dei films del nuovo realismo non è la presentazione delle cose dal punto di vista di un umore o di un effetto deformatore, e la fotografia, con la < profondità di campo », con la rinuncia alla pro­ spettiva e alla convenzionale distribuzione dei punti di 27

visione in primi, secondi e ultimi piani, e con la di­ struzione del concetto arbitrario di « sfondo », tende a effettuare questa totale comprensione deH’immagine degli altri, nel loro spazio totale, spazio nel quale es­ si vivono, nel quale hanno tutti i rapporti, senza che noi si possa vederlo come semplice cornice del no­ stro sguardo. Le inquadrature si fanno mobili, la mac­ china si muove, acquista un concreto potere di se­ guire e di modulare questa comprensione nella vera continuità delle immagini esistenti. Le sequenze dei films italiani acquistano, così, un nuovo respiro: < si va dietro al personaggio », si consacra, cioè, il « mo­ mento della persona », cercando un nuovo collegamen­ to fra gli' uomini non nell’incastro astratto di rapide immagini, sul filo di conflitti puramente ideali, ma nella massima pronuncia individuale e nella reale esplicazione di ogni personale «momento». E* im­ plicita, così, nel nuovo realismo italiano una visione della storia che si differenzia profondamente da quella del cinema russo. Nel cinema russo, col battito d’un montaggio rapido, l’uomo non era mostrato in ciò che aveva di personale, o nel fluire d’una sua particolare storia e tensione, ma diventava il termine d’espressione d’un’idea generale, d’una visione che dispiegava al massimo la forza della totalità senza considerarlo, nel­ l’insieme, più che una unità. Questa unità trovava un trionfale dispiegamento nel risultato finale, ma la co­ struzione narrativa rinunciava a costruire il suo insie­ me dall’approfondirsi d’ogni singolo accento; da ciò il ritmo così potente dei maggiori films russi, ottenuto con la massima semplificazione d’ogni singola unità e dei « tempi particolari ». A questa visione scientifica e dia­ 28

lettica della storia si oppone la visione personalistica e concreta del cinema italiano, che ha caratteri certo pro­ fondi, anche se più difficile soluzione. In questa visione della storia, come Tempo, visio­ ne che si trasferisce nel modo stesso della narrazio­ ne e della valutazione dell’eroe, e della sua pronuncia complessiva, non c’è nessuna idea totale che leghi gli uomini separando protagonisti da antagonisti nella rapidità e nel battito di idee universali in marcia, ma c’è il difficile reperimento del fluire esistenziale della persona, e la capacità, da parte del narratore, di restituirle tutto il peso e tutta la libertà. Questa ri­ consacrazione dell’ « altro », è una vittoria dell’impegno del narratore e, ristabilendo il senso del « dialogo », recupera lo spazio della tragedia vera. La visione sto­ rica del nuovo realismo italiano è una visione persona­ listica (1). Largamente tesa ai problemi concreti e alla denuncia dell’ingiustizia materiale: la storia e il ritmo generale, il senso, insomma, della storia, son dati dalla coerenza trovata, o da trovare, tra le persone restituite alla loro integrità di pronuncia, e alla continuità del loro accento temporale. Da ciò l’ascetismo ritmico del cinema italiano, che si fonda sull’approfondimento del « tempo persona­ le », e del suo fluire esistenziale.

Il nuovo realismo italiano è un cinema di corag(1) Di nuovo avvertiamo che il particolare « personalismo » della narrazione cinematografica italiana non dev’essere confuso con l’ipocrisia spiritualistica del vecchio Personalismo europeo e delle sue astratte e romantiche difese.

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giosa crisi, e di profondo richiamo, di un accenno e di una speranza di ricostruzione: tanto nella sua costru­ zione formale, come nella sua base ideologica, e nella sua tematica, è una scoperta della possibilità di rap­ porti integrali e della possibilità d’una « storia > fatta di un rapporto fra il « tempo continuo » della « per­ sona » e cioè il tempo autentico, senza arbitrarie sem­ plificazioni, e il tempo storico, obbiettivo, ma si ferma, a specchio dell’effettiva situazione di oggi, alla consta­ tazione di un’inerzia etica, di una solitudine non più fatale ma contingente e colpevole delle persone, e po­ ne il tema della povertà e dell’ingiustizia economica co­ me crisma e suggello del generale disordine etico. Di­ sordine etico che il cinema italiano ha il merito di avere indicato in tutti gli atteggiamenti della vita contem­ poranea, in tutti gli istituti, soffrendolo e riesprimendolo nella sua stessa struttura formale, nella sua stessa capa­ cità di narrazione.

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Cap. II

IL REALISMO RUSSO (1)

Poche volte, nella storia dell’arte, un’espressione na­ sce, come col cinema russo, nel profondo di un’epoca, nello slancio, nel respiro di un popolo intero, d’un mon­ do che voleva rinnovarsi, e viveva in pura sincerità la sua epopea. C’è, nel sorgere e nell’affermarsi del cinema russo della rivoluzione, il soffio, la pienezza, la purezza, che trovano riscontro nella storia solo nei grandi moti collettivi verso l’arte, come quello di intere città che, si può dire, collaboravano al nascere delle cattedrali, e facevano di esse, della loro statura architettonica, il proprio poema epico, e l’organismo nel quale veramente viveva tutta la città e non soltanto nei giorni e nell’occa­ sione delle funzioni religiose. Un analogo senso di libe(l) Accludiamo al nostro studio sul pensiero e le forme della civiltà neorealista anche questo studio sul realismo dialettico russo perchè ci pare utile il raffronto e il rapporto approfondito con una tendenza realistica della quale il neorealismo costituisce una di­ retta trasformazione e un profondo superamento ma che nel mo­ vimento in cui ancor oggi si va articolando pud fornire utilissimi esempi e aperte suggestioni per quella « maturazione del reali­ smo » che questo libro va auspicando.

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razione, nella forma artistica, ha il sorgere del cinema russo, e un’analoga virtù trasfiguratrice del « tema » e del « contenuto » che presiedevano al sincero sforzo ar­ tistico. Opere in certo senso collettivo, le cattedrali del Medio-evo, create da artisti perfettamente coscienti del­ l’ideale da esprimere, e ad esso vincolati anche dalla scrupolosa ortodossia verso il « contenuto », e opera egualmente collettiva, e « a tesi », e legata all’ortodossia del contenuto, la produzione filmica russa degli anni in­ torno alla rivoluzione: prova, se mai ce ne fosse bisogno, che le grandi opere d’arte non devono necessariamente nascere nella solitudine e nella creazione « inconscia » di artisti ai quali la realtà esteriore è un « pretesto » e la moralità è un impaccio. Il cinema sovietico è, di certo, la prima realtà fil­ mica, la prima « scuola », nella quale tutti i mezzi del cinema arrivano alla sintesi più potente e trovano una completa profondità espressiva, una vibrante compattezza. Nell’opera e nella teoria, i russi mettono per la prima volta il cinema nella posizione d’una grande, umana e vitalissima arte. I mezzi espressivi che Griffith aveva in parte illumi­ nato e sostenuto prima dei russi, quello spettacolo di masse, quel montaggio, quel soffio epico, trovano una trasfigurazione, un decisivo superamento. Le masse di Griffith, e la sua particolare « voracità » ritmica, fanno la figura di antenati di cartone dinnanzi a questi films che improvvisamente riempiono il mondo con la po­ tenza d’un linguaggio vergine. Così il « paesaggio » ci­ nematografico, quel modo nuovo di soffrire e compren­ dere e inquadrare la natura, che era nato in Europa col nuovo mezzo artistico, quel « paesaggio » che aveva trovato

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nei films svedesi la sua prima elaborazione poetica e il suo primo ritmo epico, e un’importanza di personaggio, diventa nei films russi addirittura un protagonista d’ec­ cezione, senza il tocco mitologico pieno di delicatezza e di forza con la quale i registi svedesi avevano trasfigu­ rato e quasi personificato gli alberi, i torrenti, le mon­ tagne della loro patria. Qui la natura diventa invece dramma della materia che circonda profondamente la vita, i bisogni, i sentimenti dell’uomo: quel che conta, nei films sovietici, è che l’ideologia materialistica, che sta alla loro base, e l’importanza che-essa dà alla materia e alla natura come spinta e concomitanza di certi atteg­ giamenti umani, diventa potente scossa e voce di poesia: è come se per la prima volta il cinema, più di ogni al­ tra forma d’arte, potesse sentire e trasmettere il gioco enorme di energie che vivono nella materia, nella na­ tura, nei fiumi, nel mare, nella terra, nella primavera. Prova ulteriore, questa, del fatto che un’impostazio­ ne, un accertamento razionale, una base morale, una giu­ stificazione ampia, profondamente connessa a tante ve­ rità della « prosa », è utile alla poesia e la nutre dall’in­ timo. Proprio il cinema russo può servire da esempio e da prova a tutti coloro che, insoddisfatti di una contem­ poranea estetica che intenda l’arte come solitaria e in­ conscia evasione dal reale, sterilizzata di ogni impalca­ tura e di ogni rapporto con la vita, tendono a cercarne una più vera, che non lasci fuori le esigenze profonda­ mente moderne, nè comprenda solo a metà opere che sfuggono ai suoi criterii. La natura che diventa « eroe » nel cinema sovietico è solo uno degli elementi di quell’enorme capacità drammatica, sul puro piano di una visione cinematogra­ 83

fica libera da riferimenti teatrali o letterarii, che a un certo punto della sua storia investe il cinema e si risolve in una forma di pienezza, di grande omogeneità e coeren­ za, piena di quella « sublimità dell'elementare » che spesso l’arte ha toccato proprio per riuscire ad essere grande arte. E’ nella nuova capacità drammatica, nella nuova lo­ gica che stringe il « racconto » e potenzia formidabili energie, che si scopre la prima prova dell’originalità del cinema russo. Una capacità drammatica che si nutre a profonde impostazioni ideologiche, a una nuova visione del mondo che serra i tempi del racconto e sfrena la po­ tenza del montaggio; che permette quei conflitti e quelle dialettiche, quelle modulazioni e quelle risoluzioni, quel­ la completezza di forze narrative insomma, che l’arte ha conosciuto solo quando una visione artistica era alimen­ tata a certe impostazioni ideali e razionali. La poesia drammatica del montaggio russo sarebbe stata impensabile senza la visione del mondo che c’è nel­ l’ideologia della dialettica materialista (1). Così come la forza di quei conflitti, di quegli svolgimenti, di quella ritrovata certezza di cause e di protagonisti, dipende an­ che, in registi dotati di eccezionale capacità poetica, dal­ l’acre e sincera forza polemica, dalla critica del reale, che viveva in essi attraverso un’esperienza di idee e di vita quale, di certo, nessun regista ha avuto. (1) Questo punto di vista è stato più volte sostenuto in Italia da Chiarini e da Barbaro e viene solo a volte negato da piccoli esteti crociani di azione cattolica. Tali piccoli esteti dimenticano la pienezza etica e poetica e la virtù di primordiali < formazioni » e di esperienze strutturatrici c orientataci che hanno le teorie filo­ sofiche quando non siano semplici « nozioni » che galleggiano nella esistenza privata degli autori.

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Risulta in tutto il cinema russo l’altezza umana e culturale, il peso dell’esperienza, la spiritualità e la forza di pensiero, che erano nei suoi registi, quasi tutti venuti da studii scientifici, da attività che avevano molti con­ tatti col pensiero puro, e, al tempo stesso, con la vita pra­ tica. Questa loro esperienza dà risalto ai valori di co­ struzione, di metodo, alla minuzia dei dettagli, alla pro­ fonda razionalità — pur nel più acceso lirismo — del rac­ conto filmico, a tutta la tessitura di idee e di pensieri che questo racconto sa suscitare, e che è scopo e orgoglio de­ gli stessi registi saper suscitare. Loro maggiore ambi­ zione era infatti un « risveglio » del pensiero, una nuova « nutrizione > ideale e razionale dell’uomo, alimentato e destato, al tempo stesso, anche in certe sopite forze e idee inconscie. Prova ulteriore del fatto, che il cinema russo può essere il caso e l’esempio utile a una filosofìa dell’arte, che sappia indicare nell’arte non già un’astratta e fantastica facoltà di cenni puri, ma il mezzo stesso più ricco con cui l’uomo spirituale viene destato, nutrito, immesso in cerchi sempre più alti di vita, alimentato in una sete di cono­ scenza, di azione, di rapporto morale. E’ proprio questa capacità di mescolare impulsi razio­ nali a segreti richiami inconsci che, nella sua forza poe­ tica, muove a grande originalità il cinema russo (1). Della sua potenza intellettuale e < logica » dà conto ogni film russo, che è sempre anche frutto di pensiero ed è una me­ ditazione sulla realtà, e al tempo stesso una forma d’azio­ ne. Dei suoi richiami all’inconscio, basti ricordare come esempio, quello dei leoni di pietra, che, quando i cannoni (1) Impulsi razionali e richiami inconsci che invece difettano, per ora, nel racconto realistico italiano.

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dell’incrociatore Potemkin sparano contro la città, bal­ zano in piedi nella forma che li rinserra: esempio, non certo isolato, d’un richiamo alle immagini inconscie del­ l’uomo, a tutto quel complesso di idee e di forze psichi­ che che sono chiuse nell’uomo nell’immagine del leo­ ne, significanti la forza autoritaria, paterna, l’ordine, la minaccia. Così l’idea, che la città cannoneggiata dai rivoluzionarii, era vista col tremore represso, e la segreta e tradizionale, se pure ora infranta, devozione degli infe­ riori, veniva comunicata, nel capolavoro di Eisenstein, at­ traverso un profondo e radicato richiamo all’inconscio, trovando in ciò un più alto mezzo di persuasione e di penetrazione nel cuore umano.

Quello che altre volte si è affermato, che il cinema, nato in Francia, ha affermato per la prima volta la pro­ pria coscienza e la propria vitalità solo con la scuola rus­ sa, che si esprime in capolavori perfetti come in profon­ de opere teoriche e in rigorose definizioni sistematiche, è cosa talmente vera che ci contenteremo qui di ripeterla e di sottoscriverla. In Russia il cinema si presenta nella luce di un’e­ sperienza totale, si carica di un impegno, di una « gra­ vità » e al tempo stesso di una scioltezza; di una « ritua­ lità » e, insieme, d’una bruciante attualità, quale non ave­ va conosciuto nei suoi mercantili inizi e nei suoi in­ certi sviluppi tra richiami della poesia e pressioni del­ l’industria. Quello che era sempre stato il limite e il vincolo del cinema, l’organizzazione industriale, la forte esigenza economica e tecnica della produzione, trova in Russia una soluzione profonda, una seria determinazio­ ne, così che nella maggiore coesione e coerenza di sforzi

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e di mezzi produttivi il cinema russo potè compiere a fondo la propria battaglia. Influenze vere e proprie il cinema sovietico non ne conobbe, se non quella, che riteniamo più spirituale, che tecnica, di certo cinema nordico, del suo vigoroso soffio epico (che era modulato in un nuovo collegamento col senso del paesaggio) e della sua semplicità, del suo reali­ smo, della sua recitazione fortemente interiore, avvinta a una misura di autenticità. Un’influenza più diretta nel senso dello stile (se pu­ re, nei risultati susseguenti, limitata a un vaghissimo timbro) è quella di certo cinema americano, di una sua primitività e awenturosità del ritmo, come di certo largo soffio epico di un Graffith. Ma il soffio epico dei drammi storici alla Griffith diventa qui severb ritmo della tragedia c del riscatto della storia, delle sue reali forze spiegate. Le « masse » di Griffith diventano la « folla », questo enorme, terribile, unitario e modulato personaggio — che il cine­ ma russo ha scoperto e elaborato e portato in un altissi­ mo canto, con un soffio d’epopea che non doveva essere più fatta visibile nel cinema (1). La recitazione, tesa alla scoperta della verità reali­ stica, può dispiegarsi, senza retorica, a un’altezza espres­ siva estrema, quale non doveva più vedersi nella mi­ sura d’una recitazione realistica. Ciò che caratterizza più audacemente i films russi è l’enorme spiegamento espressivo dato a una recitazione che rimaneva nella base (I) La folla nei films italiani è sempre invece una « folla-coro», una «folla-cornice», impegnata in un rapporto dialettico perloppiù negativo, con l’eroe o con gli eroi. E’ una folla di comparse, espressione non della « società » ma della < coesistenza ».

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e nella misura realistiche. Sono Indicativi di questa re* citazione i « primi piani » dei migliori films sovietici : dove il « primo piano » non è mai un angolo d’intimità col quale si penetra naturalmente nei riposti pensieri del per­ sonaggio, ma, appunto, è la fase culminante di un pro­ cesso che afferra i personaggi all’acme di un moto tra­ gico che li attraversa dall’esterno: come i « primi piani » della folla che scende le gradinate della famosa ..scala nel1*« Incrociatore Potemkin » sotto la grandine di pallot­ tole dei soldati della guardia. Recitazione parossistica, aperta fino al grido, tesa al­ l’enorme accento dei « primi piani » (forse i più tragici ed espressivi di tutta la storia del cinema), e attinta, in mo­ do rivoluzionario, al più inedito e sconvolgente reperto­ rio della vita reale e dei personaggi presi dalla strada. Essi riempiono al massimo l’inquadratura: dopo i visi che compaiono nel films svedesi, col loro eterno messag­ gio della verità dei sentimenti elementari, i visi dei « pia­ ni » russi sono come i visi stessi dei personaggi e degli eroi della Storia nel suo cammino (1).

Recitazione profondamente nuova, quella dei films (1) Potremmo dire, con immediato raffronto, che i visi del film italiano sono i visi del tempo, della cronaca esistenziale con­ creta, della < durata > rivelatrice delle più quotidiane modulazioni. E’ importante fin d’ora stabilire che la straordinaria presa reali­ stica del film italiano nasce sopratutto da un modo nuovo, vera­ mente moderno, di sentire, nel ritmo dell’opera, il tempo dell’Esisterza. La forte spinta alla rappresentazione sociale di problemi contemporanei nasce però da una potente affermazione di fede terrena, immanentistica, che nessuno dovrebbe poter tradire senza tradire implicitamente il neorealismo. Tempo e immanentismo sono qui allacciati.

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sovietici, libera da influenze teatrali come dalla remis­ sione a certe troppo semplicistiche misure, La scuola russa ci mostra come una recitazione realistica possa en­ trare a potenziare i limiti del « campo » cinematografico, rispettandone i requisiti fondamentali, senza rinuncia­ re a una tensione espressiva, a una grandiosità d’impian­ to, quali non dovevano esser più viste nel cinema. Del resto, è il ritmo stesso generale dei films sovieti­ ci, è lo stesso ingranaggio complessivo, che permette una economia di racconto tale da rendere accettabili e « di­ screti » quei « primi piani » carichi di esplosiva forza e di netta tensione. I registi russi diedero anzitutto una grande lezione ritmica; nelle loro opere, le singole inquadrature sono viste in un calcolo quasi matematico che permette di ta­ gliare il reale in minuti frammenti e di accostarli insie­ me in legami di pure idee e di emozioni sostanzialmente astratte. Perciò l’esasperata recitazione, e il violento scoc­ care dei « primi piani », sono regolati e frantumati da una logica così cristallina, da poter senza fatica costruire un ordine di superiore discrezione espressiva. Quello che colpisce nei film sovietici è, ripetia­ molo, la loro grandiosa configurazione ritmica, unita a una potenza plastica che blocca il materiale nel quadro in prospettive piene di estreme precisioni. Questo ritmo dei films sovietici, unico nella storia del cinema, costituisce uno dei segreti più affascinanti di ogni creazione poetica; ci fu chi, col metronomo, cercò di misurare esattamente il prodigioso battito ritmico di un film quale l’« Incrociatore Potemkin », cercando di scoprirne, divulgarne, e riadattarne la formula. Questo potere dinamico deriva — come abbiamo 39

rilevato — dal particolare modo in cui in questi films è vissuta ed elaborata l’esperienza di un’ideologia che, scoprendo e riconoscendo in perspicua, plasticissima nettezza, gli elementi del reale, visti senza ambiguità o sfumature, nella loro chiarezza di « cose » o di per­ sonaggi reali, crudelmente visibili e comprensibili in mil­ le concrete reazioni, li poteva avviare e movimentare in vicende e impostazioni drammatiche di conflitti che era anche il pensiero a riconoscere, e una particolare « scienza della storia » a penetrare e seguire nel loro sviluppo. Sta aperta nei films sovietici, e costituisce la presenza fondamentale e la più grande scaturigine del ritmo, una visione scientifica delle vite umane e del loro coinvol­ gersi, quale è. appunto nel materialismo dialettico (1). Per­ ciò il cinema russo buttò decisamente da parte l'abitudi­ ne degli « intrecci » e delle storie psicologiche proprie al cinema americano o a quello europeo e ignorò addirit­ tura un certo modo di narrare (questo atteggiamento poetico così legato a una visione metafisica del reale), che non puntasse sull’esplicito legame di ragioni univer­ sali. Questa particolare visione narrativa, ritmica, del montaggio, giunge in Eisenstein all’assolutezza del « mon­ taggio a posteriori », cioè dell’ordine imposto, dal punto di vista di una visione metafisica e di un ragionare astratto (se pure, certo, profondamente poetico) ai varii frammenti del reale colti in un momento del loro dive(1) Si può dire, analogamente, che dietro il film svedese c*è il nucleo rapsodico della < saga » c la narrazione della Lagerlof, e dietro il cinema francese c’è la letteratura naturalistica e deca­ dentistica. Dietro al realismo americano c’è il forte e semplificato ritmicismo (spesso patologico) di quella vita e di quelle condizioni storiche e sociali.

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Hire. Questa di Eisenstein è un’epica assoluta, che pre­ scinde dai nuclei psicologici reperibili nei personaggi, per attingerli in forme esemplari, nell’arco di narrazioni che si aprivano in un orizzonte superiore dell’uomo, sul moto di forze universali. A questa impostazione del racconto si oppone l’este­ tica del montaggio « a priori » di Pudovchin, che, al con­ trario di Eisenstein, pur nell’identica passione epica e nella visione metafisica, parte dalla verità soprattutto psicologica dei singoli personaggi (e ne crea di im­ mortali: « La Madre >) e scopre in essi, con maggior rea­ lismo, e maggiore umiltà rispetto alle private storie de­ gli uomini, l’ordine che Eisenstein ritroverà, a forza di accostamenti astratti, in un grande poema metafisico (den­ so di metafore) della storia e delle vicende umane. Eisenstein e Pudovchin sono legati nella loro opera a questa unitaria visione metafisica del reale e della sto­ ria; il loro « montaggio » è veramente un ritagliare il reale e intuire i destini umani in un totale superamento delle loro particolari cariche di discorso o dei loro ritmi particolari, per reperire un superiore ordine e una supe­ riore verità in cui tali ordini si ritrovino immessi in circolazioni più ampie e universali, ma nell’ottundimento e nel silenzio dei loro « momenti > più gelosi e più inti­ mi. Da ciò anche la straordinaria potenza del ritmo, che è appunto il movimento impresso, nel fuoco di idee astratte, di vicende generali, a « pezzi » e « parti » che non valgono in scanditi più delicati e in più segrete potenze. Il paragone col neorealismo italiano è inevitabile in uno studio sul cinema russo perchè il neorealismo ita­ liano contiene una potenziale visione della storia, una 41

interna filosofia della vita. E’, cioè, un cinema profonda­ mente filosofico, proprio come il cinema russo contiene una filosofia della storia. Solo il cinema russo e quello italiano, in tutta la vicenda della < settima arte », pos­ sono essere visti « dentro » una visione del mondo, co­ sì sorgiva, precisa, profondamente sofferta, largamente impostata. Queste due « visioni del mondo » possono essere con­ frontate e messe una accanto all'altra: rispetto al cinema russo, che non considéra il momento della persona, e il suo battito, se pure segue tutta le più profonde traietto­ rie umane, il cinema italiano si costruisce sul « tempo con­ tinuo », non sulla storia dialettica. Nel cinema russo è presente e dispiegata la Storia, nel suo processo unitario, astratto, teso e grandiose configurazioni; è presente la sto­ ria e un personaggio attivo e unitario, la < follasi». Nel cinema italiano è presente 1’esistenza della per­ sona, nei suoi momenti più umili e dispersi, nel suo tem­ po continuo, nel suo ritmo di coesistenza. Da ciò la straordinaria umiltà, l’ascetismo ritmico del cinema italiano, spesso confinante con la vera povertà, (di nuovo, un rischio di decadentismo), da ciò il suo pog­ giare su lenti e naturali nuclei, la sua profonda verità umana, la sua nudità, la sua concretezza. La storia del cinema sovietico incomincia con gli anni della Rivoluzione e ha la sua prima espressione nei documentari d’attualità. Girati in ambienti e sulla prospettiva di avvenimenti di nuovo e straordinario peso e carattere, questi documen­ tari erano costituiti dal materiale che operatori pieni di 42

entusiasmo andavano a girare nel vivo della lotta rivolu­ zionaria per essere poi ricostruito, in un montaggio al tempo stesso libero e aderente, da uomini come Protazanov, Perestiani, Kuleshof. L’entusiasmo, il senso di partecipazione e di adesione personale, dei singoli operatori, permettevano la ripresa degli avvenimenti da punti di vista e in immagini, di sin­ golare efficacia e potenza; già nella scelta del punto di vi­ sta e del momento adatto, e nella capacità di cogliere in sintesi gli avenimenti e di posare l’occhio su dettagli ve­ ramente importanti, si vedeva l’efficacia di un certo at­ teggiamento spirituale negli operatori che giravano le sce­ ne. Il procedimento di montaggio a cui veniva sottopo­ sto questo materiale (spesso inserito interamente nei mi­ gliori films sovietici) doveva necessariamente essere indi­ pendente dall’ordine e dalla sensibilità di chi aveva gira­ ta la scena: si stimola qui la virtù tipicamente russa e, diciamolo pure, marxista, del montaggio « puro », e certi procedimenti vengono per la prima volta, proprio per questi documentarii di attualità, elaborati e studiati. In questi processi di montaggio i singoli pezzi veni-' vano scelti e montati in una ricostruzione astratta e ideale dell’avvenimento; erano già le premesse di quella < visio­ ne astratta » che doveva felicemente regnare nella poe­ sia del montaggio russo. Fu, a parte ogni approfondimento delle idee del mon­ taggio, una straordinaria esperienza di stile che il cinema russo fece, e proprio nel vivo di un acceso giornalismo ci­ nematografico. Il cinema russo compiva così la stessa esperienza dei primitivi : la ripresa realistica di semplici av­ venimenti, e scopriva il proprio mondo espressivo, e le

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altezze del ritmo, riscoprendo quasi il cinema e rifacen­ done i primi passi. A poco a poco l’esperienza acquistata dai registi dei documentari d’attualità, quell’entrare a contatto con la realtà, si nutrì e diresse verso il film a soggetto in una naturale ricerca di soggetti che avessero a contenuto la realtà e temi profondamente attuali (1). I registi avevano imparato nei documentari a su­ bordinare le immagini e il materiale girato alla necessità della diffusione delle idee socialiste e al reperimento di un « dramma ideale » e astratto, da svolgere per mezzo delle immagini. Erano già nate, non solo ideologicamente ma anche come pratica di stile, le forze che dovevano dare nascita alla scuola russa. Uomini come Pudovchin, Eisenstein, Kosintzev, Trauberg, si consacrarono all’arte cinematografica cer­ cando, in uno strenuo approfondimento, modi stilistici nuovi che potessero veramente adeguarsi alla realtà che urgeva davanti agli occhi e negli animi, e al nuovo biso­ gno narrativo. Il cinema sovietico fu agli inizi, e prima di « sfonda­ re » nel difficile campo del film a soggetto, il cinema più formalista del mondo: pure ricerche di laboratorio, ne­ cessarie ricerche tecniche, vuoti sperimentalismi, com­ piuti tutti col coraggio di chi sa anche sbagliare per ri­ tentare vie nuove e di trovare nuovi mezzi d’espressione, si accumularono nei teatri di posa, e proprio a opera di (1) Tanto il cinema russo come il cinema realistico italiano nascono dal documentarismo, dal giornalismo cinematografico, nella tensione di avvenimenti eccezionali.

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quelli che dovevano diventare i maestri del realismo so­ vietico (1). Riprova ulteriore del fatto, che spesso la grande arte procede dalle ricerche più formalistiche, e il tecnicismo puro prepara la poesia.

Il cinema sovietico si afferma negli anni intorno al 1920. S. M. Eisenstein è il primo vero scopritore del nu­ cleo espressivo del cinema sovietico. Nel suo film « Scio­ pero » (1924) il dramma visivo delle masse è, se pure in termini ancora schematici, raggiunto. Ma è solo con lo « Incrociatore Potemkin » che il mondo morale e poetico del cinema russo viene risolto in una potente espressione; questo film è il poema epico della rivoluzione russa, forse la più pura espressione di tutte le esigenze espressive che in quell’epoca erano venute maturando. L’« Incrociatore Potemkin » si avvicina, per origi­ nalità, semplicità classica, severità di stile, e potenza drammatica, ai grandi capolavori di tutta l’arte. Forse è isolato nell’arte contemporanea, non soltanto nel cine­ ma, per quel suo aver trovato un tono tragico e ottimi­ stico, una potenza di svolgimenti drammatici estremamente chiari, nella certezza dei rapporti tra protagoni­ sti e antagonisti. Gli ideali che pervadono questo film sono i principali (1) Non diremmo, purtroppo, che, a parte le attuali ricerche di Zavattini, spesso molto stimolanti, i registi italiani, sempre pronti alle nùtrie conformistiche, diano segni di una interessante vitalità sperimentale.

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moventi che determinano la forma (1). La stessa struttura del film, la sua capacità ritmica, la chiarezza estrema dei dettagli, derivano dalla forma dell’impostazione iniziale. Prova questa, ulteriore, del fatto che certe visioni morali, certi « contenuti », certe soluzioni di critica del reale, possono alimentare e guidare la forma molto più di quello che i formalisti puri possono immaginare. Le « masse » che si muovono nel film di Eisenstein mostrano nello stile con chiarezza il senso nuovo che i registi sovietici danno all’attore individuale e il posto che gli lasciano nell’economia del montaggio. Un’estre­ ma felice astrattezza regna nella costruzione della storia: i singoli attori sono considerati come la piccola parte di una grande unità, vengono spogliati d’ogni tratto parti­ colare, d’ogni possibile caratterizzazione individuale di storia psicologica. Essi sono legati all’insieme della storia da una visione che conferisce al particolare solo il valo­ re che viene dai risultati dell’insieme: da ciò la grande potenza ritmica, che tratta gli uomini come semplici unità da sollevare in un generale movimento, nella dura astrazione da ogni loro « momento » particolare. Gli uomini, insomma, contano nel film di Eisen­ stein solo per quel che hanno di generale, solo in quanto (1) Questo possibile rapporto tra ideologia e forma, tra un mondo morale profondamente innestato nell'esperienza e quasi avviato a darle logicità di articolazione, ritmo, presa, è spesso accen­ nato embrionalmente negli acuti studii critici di Luigi Chiarini e non può essere gettato va con troppa disinvoltura dagli odierni spadaccini e guasconi dell'estetica, spesso travisatori delle più pro­ fonde implicazioni dell'estetica idealistica.

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partecipano a un’azione collettiva, secondo un conflitto di idee universali che non lascia al singolo possibilità di dare un accento variato e personale all’azione che si svolge. Metafisicità e felice astrattezza sarebbero quindi alla base dell’epica « assoluta » di Eisenstein se essa, nel suo rigore che esclude gli accenti « caratteristici » per secondare solo gli aspetti « tipici » e universali, e i mo­ vimenti collettivi, non rispondesse a una storica situa­ zione di tensione collettiva e di azione rivoluzionaria, nella quale a protagoniste del dramma si aprivano pro­ prio le masse, le forze più universali, le quali possedevano gli uomini così profondamente da risolverli tutti nella azione, come « tipi », partecipi a una storia che, per il momento, sospendeva ogni possibilità di pronuncie parti­ colari più variate e di « versamenti » psicologici. E’ nella rinuncia a questa forza dialettica, è nella sospensione del montaggio assoluto, che si stabilirà in­ fatti, più tardi, in Russia il « realismo socialista », che « rallenta » sul singolo uomo. Il nuovo clima postrivolu­ zionario detta una forma nuova.

Ma già Pudovchin aveva, a differenza di Eisenstein, puntato su una nuova forma e idea del montaggio, su una costruzione tragica, densa di riferimenti morali. Ave­ va inventato (« La Madre » - 1926) una nuova epica, meno astratta di quella di Eisenstein. Pudovchin punta sull’eroe, come Eisenstein aveva puntato sulla « massa » : nel prisma psicologico d’una sola persona Pudovchin mostra l’immagine di tutti e ve­ de nella sua azione l’azione di tutti.

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Cosi è in fondo Pudovchin che crea il vero realismo russo, perchè Pudovchin si accosta alla realtà, al suo sen­ so fisico, alla sua carica psicologica, seguendone i ritmi e i « tempi » particolari, pur nell’arco d’un disegno ge­ nerale, mentre Eisenstein è più vicino a un’idea di poe­ ma metafisico, in cui la realtà viene legata in un incastro nuovo, dove le singole immagini vengono usate come le parole d’un poema e sono tolte alla loro durata reale. Come Eisenstein, volutamente prescindendo dal pos­ sibile approfondimento dei singoli protagonisti, per mo­ strarli nell’accensione totale dell’azione che trasfigura e accresce tutti, aveva creato un film di « masse », Pudov­ chin costruisce un film sull’« eroe » e completa quindi in certo senso l’opera di Eisenstein, gettando intanto le basi per un più moderno senso di realismo. Pudovchin esprime, comunque, nel suo grande film la stessa verità di Eisenstein. La massa che in Eisenstein si muoveva nell’azione viene scoperta nella singola unità, che riflette in sè il moto e il sentimento di tutti. La < Ma­ dre » rivoluzionaria del film di Pudovchin vive nel suo grande tragitto psicologico il sentimento e la passione di tutti, esprime nella concretezza della sua persona e nella verità del suo momento psicologico, e della sua straordi­ naria pienezza di recitazione, quello stesso movimento epico che abbiamo visto vissuto dalla « massa » del film di Eisenstein. Così è attraverso l’opera di Pudovchin che il cinema russo compie un’esperienza fondamentale per dimostrare di saper reggere sulla concretezza del singolo personaggio, non livellato nel generale movimento. Ma certo, relegato nel « tipico », come, con un « ritorno » evi­ dentemente verso il realismo socialista, si vorrebbe fare

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per il personaggio attuale del neorealismo (1). La « Madre » di Pudovchin è forse il più grande personaggio « attivo » di tutta la storia del cinema: c’è solo un altro personaggio del cinema che può superarne la pienezza, ed è un personaggio passivo, reattivo e complesso: Chariot. L’azione dei film russi non implica quasi affatto < comparse » nel senso tradizionale della parola. Tutti gli attori hanno un posto organicamente vivo e importan­ te nel dramma e l’azione solleva a un dato punto tutti e tutti fa partecipi dell’importanza e dell’intenso tono dell’azione (2). Il segreto della straordinaria sincerità e verità del­ la recitazione realistica dell’attore russo è nella forma e nella coerenza delle occasioni offerte all’attore non già per trarre ispirazione da sè stesso, manifestando i pro­ pri intimi segreti o i propri sentimenti, ma nell’ordine di occasioni e di racconti che, immettendolo a reali e profondi contatti con le forze della vita e con i suoi decisivi rapporti, possono portarlo a veramente superar­ si e conoscersi (3).

I

(1) Non c’è dubbio che la lezione del «tipico», come vuole essere messa in pratica in Italia, costituisce la rinuncia, nel neorea­ lismo, alla ricerca di quella soluzione che il cinema russo aveva raggiunto col « tipico ». L’odierno, da più parti tentato, « pastiche » tra neorealismo e realismo socialista costituisce a parer nostro una rinunzia e un’involuzione del neorealismo perchè tradisce con ste­ rili ripensamenti e inerti trasferimenti la sua vera essenza.

(2) Invece il neorealismo è spesso ancor troppo un cinema di comparse. (3) Questo punto si presta a più di una meditazione per l’ap­ profondimento del neorealismo.

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Gli sviluppi del cinema sovietico dal 1930 al 1940, segnano, col progressivo avvento del « realismo sociali­ sta », il crescente affermarsi dell’attore nel quadro gene­ rale dell’opera filmica. L'attore sale decisamente in pri­ mo piano e il suo nome appare più importante di quello dello stesso soggettista e sceneggiatore (1). Il cinema sovietico, proseguendo, attraverso un film come < Ciapaiev », che di questa ascesa è il massimo esempio e la più viva traccia, quella sua edificazione dell’« eroe », dell’uomo al tempo stesso singolare e uni­ versale, che è il cardine del nuovo realismo socialista, scopre e consolida sempre più l’importanza straordinaria dell’attore nella trasfigurazione e nella comprensione della vita attraverso il cinema. Come il cinema sovietico aveva nella sua prima fase scoperto, in senso ideologico e in senso poetico, la « mas­ sa » e la < folla », nella sua fase realista scopre l’« eroe », il grande protagonista, e al mito del montaggio come conoscenza poetica.del reale sostituisce, in un felice ri­ torno di concretezza, il mito dell’attore, della recitazione creativa: l’attore diventa sempre più partecipe alla crea­ zione del film. Al montaggio astratto si sostituisce il con­ creto apporto ritmico dell’attore: i films, se così si può dire, salgono dal basso, come prima « scendevano dal­ l’alto ». Si chiede all’attore di avere una profonda cono(1) Non c’è dubbio che tra il periodo recente del < realismo socialista > e il neorealismo c’è in comune più d’una tangente. E’ stato il realismo socialista per lo meno ad affermare per primo la poetica del film che « nasce dal basso », sull’attore, nella sco­ perta della sua umanità. Certo la « biografìa civile » del film socia­ lista ha per altri versi molta distanza dal < diario esistenziale » del film neorealista e dalla sua purissima analitica coesistenziale.

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scenza, della vita e una larga cultura per poter incarnare, con un apporto personale, la figura dell’uomo nuovo che gli si fa interpretare. Nasce, così, il film-biografìa, il film, cioè, che segue passo passo il formarsi di un cat attere, nelle vaste impli­ cazioni di una vita singolare con la vita collettiva. Il ci­ nema russo si apre così a un nuovo soffio epico, a una vasta dimensione di epopea: spesso in grandi trilogie, (come « La giovinezza di Massimo. 11 ritorno di Massi­ mo. Quartiere di Viborg » — 1935-1939 dei registi Kosintzev e Trauberg), è la vita stessa dell’individuo, (che pur essendo un uomo « qualsiasi », viene sentito e mostrato sul piano della pienezza eroica), che « entra » nel piano di una vasta consacrazione narrativa. Sono ora i rapporti fra i varii tipi di uomini, con­ cepiti sempre sul filo dell’atteggiamento politico, che entrano come tema della creazione. Ma assai prima di questa « epica del quotidiano », il cinema russo aveva mostrato l’altezza universale del più semplice tema della vita: tutto un aspetto del cinema russo, forse il più poetico, di generalizzazio­ ne e di esaltazione delle forze e delle forme elementari della vita, tutto un sereno e profondo movimento delle più generali idee umane (il lavoro, la natura, l’amore per le bestie, i ritmi stagionali, i rapporti familiari, la ma­ dre, il padre, l’amore, l’avventura) si è svolto con grande compiutezza poetica (1). (1) Manca invece, per ora, nel cinema neorealista un paesag­ gio veramente profondo, filosofico e un’idea nuova della natura, l.o scenario neorealista è troppo spesso lo scenario urbano, che si presta molto alla « commedia morale > costruita dai maggiori films italiani nel quadro urbano della coesistenza.

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CAPITOLO TERZO IL REALISMO INGLESE (1)

La punta più alta raggiunta dal realismo inglese è senza alcun dubbio nel documentario. Con un processo, nella sua intensità unico per la storia del cinema, il docu­ mentario inglese, oltre a raggiungere i più solidi risultati artistici, una chiara omogeneità di stile, e una misura di realismo nuova nel quadro del cinema internazinale, ope­ ra in profondità ispirando e muovendo a definita origina­ lità una scuola cinematografica inglese, quale si è afferma­ ta negli anni intorno all’ultima guerra. Il vero fondatore di un’originale poesia cinematografica inglese è John Gri­ erson. La sua opera di teorico e di documentarista sco­ pre le basi sulle quali un temperamento inglese poteva finalmente appoggiarsi per affermare la propria origina­ lità. Grierson è il vero inventore del realismo inglese: una strada stilistica così ben delimitata, così discreta, sobria, frutto di un raro equilibrio fra intelligenza, raffinatezza (1) Anche il realismo inglese, specialmente per la parte crea­ tiva e teorica costituita da documentarismo di Grierson, può stabi­ lire un utile raffronto col neorealismo italiano.

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d'avanguardia, e « senso pratico », che non ha mai potu to imporsi nelle profondità e nella folgorazione di un mondo poetico esclusivistico, ma ha lasciato modo al ci­ nema inglese di svilupparsi e articolarsi in varii stili, in varie tendenze, in varie correnti, dopo questa spinta fondamentale. E’ nel campo del documentario che troviamo in In­ ghilterra accertato e risolto un nucleo poetico e dramma­ tico di alta efficacia. Sugli sviluppi del film inglese a sog­ getto del secondo dopoguerra si innesta poi il fiorire d’un senso narrativo e d’una capacità d’analisi psicologica che, attraverso una grande dignità formale, non raggiungono però la profondità poetica toccata dal film documenta­ rio, nè l’unità di un mondo morale e di interessi stilisti­ ci veramente legati a una scoperta fondamentale. 11 realismo inglese, quale si è venuto delineando at­ traverso l’opera sopratutto di Grierson, di Rotha, di Whright, è un realismo naturalistico e « tecnico », di so­ bria intonazione intellettuale, di grande e strenua pre­ cisione analitica, di ragionevole speranza pratica, di can­ dido ottimismo. E* provvisto dell’apertura lirica profon­ damente inglese, verso un mondo sentito nell’importanza dei suoi fattori pratici, nella luce, nel dramma e nella grazia delle sue energie costruttive.. E’ pieno del discreto idealismo inglese, sempre tinto di senso pratico, della sua generica esaltazione della nobilità umana del lavoro, del suo gentile e sincero e caustico interesse sociale e socio­ logico, contenuto da un’ansia e da un impegno di moder­ nità e di prudente solidarietà umana. La scoperta del realismo inglese nel documentario è essenzialmente la scoperta del mondo del lavoro, della sua fatica, del suo dramma, della sua incomparabile efficacia 53

umana, del suo peso socialmente attivo, vittorioso e fon­ damentale (1). Del lavoro tenta e ottiene un preciso rendiconto liri­ co, una somma dei suoi umani e materiali risultati. Ana­ lizza la posizione dell’individuo nella società e di questo passo arriva a una concezione filosofica dell’individuo im­ merso nel Tutto, come appare nel capolavoro di Basii Whright, « Song of Ceylan ».

Grierson approfondisce il senso lirico del montaggio russo (riferendosi in modo speciale ma non esclusivo alle teorie di Dziga-Vertov) ma del montaggio russo elude la potente istanza dialettica limitandosi al proposito di ri­ costruire, con risultati più sottili e al tempo stesso più semplici, le varie fasi di un’azione, attinta per lo più nel mondo del lavoro, nella sua pura risultanza emotiva ma nella simultanea e ordinata esposizione delle sue fasi tec­ niche (esempio: la lotta dei pesscatori col mare durante la pesca delle aringhe). Il realismo inglese del documentario scopre e fa suoi quelli che resteranno i suoi grandi luoghi poetici ed emo­ tivi: il mare del Nord e i battelli da pesca, i treni, gli uf­ fici, le campagne più serene che drammatiche. Riesce a risolvere in coscienza poetica la coscienza sociale della coordinazione dei lavori. I servizi delle grandi città, il la­ voro notturno o diurno, la compenetrazione delle vite at­ traverso il lavoro; il dramma, la tensione e la poesia del(1) Non ha qualcosa da dire questo filone del realismo inglese alle larghe tangenti del realismo italiano? Una poesia e una filo­ sofia del lavoro umano mancano, per ora, nel neorealismo, nono­ stante la sua prospettiva umanistica.

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la vita sociale, tutto questo entra nel mondo del realismo inglese, che punta sull’uomo con fervida semplificazione in quanto lo vede depositario di un lavoro e integrato a lucidi, attraenti, schemi tecnici e strumenti moderni. Perciò il realismo inglese del documentario è essen­ zialmente ritmico (1). E si sfrena e subito seriamente si disciplina in una concreta energia del montaggio. E’ que­ sta capacità ritmica, questo urto con le « cose » ispirato dal mondo saturo di tecnica a cui si rivolge, cioè il mondo del lavoro, che apre al realismo inglese il panorama di ricerche estetiche di singolare raffinatezza e di sobrio, e non letterario, avanguardismo. Il realismo inglese, pur volgendo il suo interesse prin­ cipale all’istanza sociologica, si muove energicamente in ricerche di stile e di tecnica cinematografica, che sono as­ sorbite subito in una seria e pura meditazione estetica. La particolare avanguardia inglese nasce così nel concreto cerchio dei più vivi interessi del linguaggio e nel peso di vigorosi contenuti umani. Il particolare romanticismo dell’anima inglese, che fa vivere battelli, treni e uffici dentro una particolare forza di « aura » poetica concede il massimo di precisione nel « nominare » le cose, gli oggetti e i loro ritmi e nel riscat­ tare il documento entro una particolare vibrazione spiri­ tuale. Forse non sarebbe mai nato il documentario e il rea(1) Giunti a questo punto possiamo suggerire che il neoreali­ smo italiano è stato piuttosto un cinema « melodico ». I>a disin­ tegrazione del vecchio montaggio ha portato alla distruzione d’ogni ritmo sinfonico per un’emersione anzitutto melodica.

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lismo inglese senza il mare del Nord e senza le sue luci (che poi furono ritrovate nelle stazioni, negli uffici, in certe strade), come non sarebbe mai nato l’Impressionismo senza le luci della foresta di Fontainbleau. Il Romanticismo è stato il più grande mezzo di costi* tuzione di un realismo inglese e del suo riscatto. E* per la particolare < aura » in cui sono avvolte le cose in In­ ghilterra che Eliot può « nominarle », nella sua poesia, senza mai cadere nella « tranche de vie ». Il limite del realismo inglese, che non sarà mai clas­ sico, è il Romanticismo (1). Anche il documentario inglese, nonostante la sua grande carica oggettiva, e la sua folta precisione tecnica, è, sostanzialmente un momento romantico. Ciò che distin­ gue il romanticismo d’un Grierson da quello d’un Fla­ herty, col quale nasce in polemica (e della cui polemica si nutre) è il fatto che il romanticismo di Grierson si spie­ ga su oggetti moderni e vicini mentre quello di Flaherty si accende su orizzonti eterni e lontani. (1) E’ sotto certi aspetti e per altri motivi, anche il limite del neorealismo italiano, che invece si muove in un'esigenza classica e spesso in una classica soluzione.

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PARTE SECONDA

CONOSCENZA DELL’UOMO

CAPITOLO QUARTO CONOSCENZA DELL’UOMO

Parrà un’affermazione stravagante, dopo secoli di arte umanistica, dopo il Romanticismo, che ha colto i più sot­ tili transiti del cuore umano e ha liberato in modulazio­ ni senza schemi, senza pudore di canoni, la pienezza colo­ rita degli « stati d’animo », ma ci troviamo daccapo, ar­ tisti e uomini che viviamo in questo secolo, a dover sco­ prire l’uomo. « • •

Ci siamo accorti che a mettere in moto la nostra co­ noscenza degli altri, e anche di noi stessi, erano depositi secolari di miti, di preconcetti, di idee cristallizzate. In un universo che ha accresciuti i suoi contatti, in un momento storico che vede gli eventi di un popolo.porsi in rapporto, magari con esiti disastrosi, con gli eventi di popoli lon­ tanissimi e quando, nel seno di uno stesso popolo si af­ facciano all’orizzonte politico classi che prima erano co­ nosciute dentro le caselle del « colore locale », ci accorgia­ mo che questi contatti, questi rapporti possibili, sono qua­ si annullati dalla presenza in noi di vecchi schemi, di

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barriere ideali preconcette, di infinite pigrizie. Se di fron­ te alla nostra vita stessa indulgiamo, spesso, in una tre­ menda pigrizia, se siamo sconosciuti a noi stessi o ci cono­ sciamo in astratte pretese, in schemi, senza metterci a con­ tatto con le vere dimensioni della nostra vita, senza ac­ cettarci e volerci nella nostra reale entità, possiamo cre­ dere che gli altri ci restano sconosciuti per una identica pigrizia, perchè li conosciamo nell’orma di vecchi miti, perchè ci sentiamo già uniti a loro per la forza di catego­ rie mentali che, invece, macinano a vuoto, di vecchi nomi, di vecchi « ordini generali » che non ordinano più nulla. Non comprendiamo gli altri nè noi stessi, cioè non comprendiamo la vita (le vite) nelle dimensioni reali. Gli uomini vivono in esilio dietro il pettegolo chiacchiericcio degli altri uomini. Non abbiamo mai afferrato, della vita nostra e della vita degli altri, il valore del « continuo »; ci siamo sempre conosciuti, infatti, in eventi distaccati, o solenni, nell’apparire isolato e miracoloso di certi eventi. Della vita degli altri, della vita di certi popoli, per esempio, abbiamo conosciuto — con un procedimento analogo — solo gli eventi privilegiati, la parte avuta da certe classi. Abbiamo ignorato la vita nella sua tessitura organica, non abbiamo conosciuto i popoli ma gli « eroi », non ci siamo messi in contatto, quindi, con le forze pro­ fonde della vita, con le sue integrali relazioni. Una scar­ sa comprensione della vita, un’ignoranza del moto delle forme della vita nel loro organico rapporto, un’indiffe­ renza per il reale senso delle relazioni organiche e dei loro processi non può oggi non essere fatale per l'artista. Negli altri uomini (ma anche nella natura — è im­ plicita una possibilità di « paesaggio neorealista ») il poe­ ta neorealista — (conformemente alle più avanzate esi­

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genze filosofiche di oggi), non vede più un altro termine antitetico sul quale può esercitarsi in continue posizioni di sè stesso, perso in una illimitata libertà creatrice e au­ torizzato a compiere ogni « prelevamento », ma vede la presenza di forme e di processi della realtà che l’intelli­ genza deve scoprire nel loro ordine reale. Vede una relazio­ ne di processi nei quali le diversità sono alla fine infini­ tamente meno importanti di quelle che cono le coinciden­ ze comuni col nostro processo. Non vede più gli altri, dunque, nel pigro atteggiamento della scarsa curiosità idealistica ma nell’immenso amore della curiosità og­ gettiva. E’ sempre più necessario, penetrare la vita nella sua profondità. La vita profonda è la vita continua, la vita nelle relazioni organiche delle sue forme, — la vita nei suoi processi —. Ci sfuggono ancora troppe sue dimensioni, non co­ nosciamo i popoli nelle loro realtà veramente profonde e oggettive. Sarebbe amaro domandarsi che cosa, in pieno secolo ventesimo, conosciamo dell’Italia, e che « contem­ poraneità » abbiamo coi contadini delle Puglie. Così non possiamo mai convivere, non sappiamo mai aprire il pas­ so a storicità armoniose. In un tempo come il nostro, di relazioni umane aperte su una scala mondiale, quando la sorte dell’Italia non è più impermeabile alla sorte della Cina, e viceversa, quando nasce il bisogno di un organismo di popoli, con­ tinueremo a non realizzare la condizione stessa di questo organismo che è la conoscenza del « continuo », delle re­ lazioni organiche, delle strutture profonde, che è un an­ dare oltre l’arretrato atteggiamento del « diverso », del­ l’antitetico? 61

Diciamolo francamente: in secoli di sforzo, le no­ stre più orgogliose creazioni artistiche hanno» fatto ancóra poco per la conoscenza delVuomo. Questo non è senza in­ fluenza sul nostro vivere di oggi, sul nostro sentirci vivi, perchè siamo in un mondo che non conosciamo veramen­ te, stretti da altri popoli di cui possediamo nozioni inuma­ ne e confuse, coi quali non possiamo avere rapporti veri, che contrapponiamo a noi violentemente, partendo, per conoscerli, dalle nostre impressioni più esterne, ferman­ doci alle diversità più astratte, all’osceno tic deìYesotismo. Questo, in fondo, accade anche nei nostri rapporti con la natura, coi paesaggi, con le cose. Non abbiamo intelligen­ za di processi, non abbiamo penetrazione nelle storie e nelle società in cui anche la natura consiste e si trasfor­ ma. In fondo, il neorealismo, è un nuovo atteggiamento anche con la natura e con le cose, è un bisogno di soli­ darietà e di amore che vuole andare al di là della stra­ nezza e del colore frammentario, vuole scoprire anche nella natura e nelle sue forme il paziente edificarsi di sto­ rie non isolate dalle nostre, non casuali, non limitate o vanificate nell’apparire delle sembianze. La natura, il paesaggio, come può coglierlo il poeta neorealista, è ciò che di meno decorativo esista. C’è un’a­ ria di famiglia tra le forze dell’uomo e le forze della na­ tura; è come se anche la natura, come se i popoli, e tutto ciò che esiste, avesse mostrato sotto il suo volto impassi­ bile e istantaneo le linee affettuose e secolari di tutte le sue implicite storie. Oggi ancora, invce, ci muoviamo fra uomini e fra al­ beri o animali che non conosciamo veramente e coi quali è urgente trovare veri rapporti. Tutto il vuoto che sen­ tiamo, l’insufficienza delle nostre formule, è la nostra crisi 62

attuale, e il poeta neorealista sa da che parte muoversi per uscirne. Potremmo anche sentirci fratelli del pittore astrattista se il pittore astrattista mostrasse veramente di saper far sgelare la parvenza instantanea e ideale delle co­ se per immetterci nei lineamenti più complessi della loro storia più vera, se sapesse restituire l’immagine delle co­ se all’evidenza dei loro processi, e se sapesse mostrare con totale e amorosa evidenza che la storia di un albero, che l’organismo di eventi in cui consiste un albero (molto più complesso di quello che la sua struttura sinteticamente vi­ sta lascia prevedere) è, nei processi della realtà, qualcosa che può trovare una coincidenza con la stessa storia no­ stra. In questo nostro mondo attuale crediamo di essere assediati da geografie già fatte ed insufficienti, da nomi che conculcano la realtà invece di esprimerla. Siamo soffocati dalla grande sagra del superficiale che suirimmenso lavoro degli uomini per produrre la propria vita, per produrre il regno delle forme umane, le storie dell’uomo, ha calato e distribuito nomi di diversità e di frammentarietà avulse da ogni storia, e le ha scam­ biate per l’essenza. Siamo infiacchiti e svirilizzati dalla scarsezza d’amore verso ciò che è profondo, comune, e nascosto: siamo so­ praffatti dall’esotismo, che è l’atteggiamento contro il qua­ le il neorealismo più resiste: concepire gli uomini in modo astratto e astorico, chiusi in una distanza che non ha 'ritmi in comune col ritmo nostro e che, quindi, propo­ ne solleticanti diversità che offrono sterili evasioni. L* esotismo è un espressione dell’odio e una variante

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della guerra proprio per quel suo essere « non conoscen­ za ». Odiamo tutto ciò che non possiamo capire e che sen­ tiamo staccato da noi, senza processi comuni, senza comu­ ni scoperte. Noi odiamo ciò che può seppellirci nel suo sguardo o che possiamo distruggere in una nostra « defi­ nizione », come un dato estraneo su cui si possono fare prelevamenti. Siamo sempre più ricchi di odio e di istantaneità in­ intelligente nei nostri rapporti con gli altri. Una delle for­ me della nostra inintelligenza, come rifiuto all’analisi, distruzione della società, e ignoranza astorica, è il mon­ taggio (o meglio, un certo montaggio). °gg> si tratta di diffidare del ritmo ma, s’intende, di puntare vigorosamente verso la scoperta di un nuovo rit­ mo. Oggi il ritmo può essere l’accumulazione di fatti su­ perflui e provvisorii fra gli uomini, può essere un’inin­ telligente astrazione dalle forze vere della vita. Se noi ri­ conosciamo l’importanza di un’epica che accomuni gli uo­ mini in un montaggio che alacremente li individui come protagonisti di una fase storica rivoluzionaria, crediamo che tutto questo lasci scoperta l’esigenza di un’epica meno « d’emergenza » e di un montaggio nuovo. Oggi, a proposito di qualsiasi storia che volessimo narrare di qualsiasi uomo, tendiamo a mettere in moto forze che non si chiariscono, a promuovere ritmi che non hanno nulla a che fare col ritmo organico di quell’uomo e con le sue relazioni implicite. Non viene alla luce, nel montaggio di oggi, la storia organica dell’uomo, nè si aprono le possibilità della sua storia futura, ma fatti sen­ za nesso e astratti, stupidamente eccezionali e senza rap* porto con altri fatti, chiusi in una velocità che passa 64

e si consuma come un fuoco d’artificio o come la giran­ dola d’una cometa con troppa coda. « * *

Non si tratta, per mezzo di un’opposizione al mon­ taggio astratto e veloce, di santificare la durata lunga, im­ ponendo, per esempio, il « primo piano » di un conta­ dino in una lunghezza che lo scandisca a fondo nella no­ stra attenzione. Questa polemica della «durata», questa resistenza al ritmo astratto, questo negarsi all’incompren­ sione inintelligente del ritmo veloce non può, e non pote­ va non essere, anche nelle più recise affermazioni di Zavattini, che una specie di purificazione preliminare per la ricerca di una nuova comprensione e cioè di un nuovo montaggio, una « cura » nella lentezza per ovviare ai disa­ stri della morbosa ritmicità. * « «

L’ansia per una comune storia da trovare e da co­ struire è ansia di conoscenza della realtà nelle sue rela­ zioni obbiettive, è ansia di scoperta degli organismi uma­ ni e naturali nel loro reale e concreto muoversi, nel loro storico venire da un’istanza, nel loro muoversi ritmico da un’origine. L’obbiettività, intesa come ricerca e scoperta delle relazioni organiche della natura e dell’esistenza, e della vera situazione esistenziale e storica di ogni uomo, è la grande parola del neorealismo. 65

Dà le ’vertigini il vasto territorio dello spirito che è nelle possibilità del neorealismo. Quello che resta da fare è tanto grande che può costituire la smania, la passione di più generazioni. Si tratta del fatto che si ha in corpo e nel cuore, quello che il neorealismo può costruire per l’uomo; il nuovo mondo dell’uomo, la fede nella condizione umana, il nuovo abbraccio dell’uomo fra le cose e gli altri uomini, i nuovi rapporti. Non si tratta più di celebrare un tragico smarrimen­ to: il cinema, che è nel cuore del neorealismo, è l’arte di un nuovo stare dell’uomo sulla terra, con gli altri uomini e con le altre cose. Ci attende al varco il mondo nuovo e un’altra va­ lutazione e sistemazione di tutte le cose che hanno peso e valore in questa vita. Un uomo, una donna, un paese, una casa, un ope­ raio, un cane, un’automobile; tutti questi nomi esigono un ripensamento, una sistemazione in una nuova poesia, che illumini a fondo quello che può essere, legando for­ te in modo nuovo queste cose, la « condizione umana ». La donna — per esempio non può più essere ciò che è stata finora; la chiamiamo forte nella Storia, pro­ tagonista anche lei, più tenera e forte, più umana, cara, e alta. Mettiamo in giro una nuova idea della donna, ma è un’idea che ci nasce in cuore dalle curve della storia d’og­ gi, non l’abbiamo inventata noi. Non possiamo più fare sinceramente niente — non più girare un metro di pelli­ cola — che non sia nello slancio delle idee che vogliono farsi strada, nel varco di questa nuova vita che vuole af­ facciarsi, e venire in luce uomini che si sentono in modo 66

nuovo uomini, donne che non credevano di essere tanto donne, e paesi e città, vite e vite che hanno scoperto un modo nuovo di essere « la vita ». C'è dovunque giustizia da compiere perchè dovunque è tradita la vita e gli uomini umiliano la loro statura. Il neorealismo è innamorato di questa terra e dei suoi triti e cari elementi, vuole mettere ordine sulla terra, vuole creare fino in fondo le aperture di un nuovo vivere sulla terra. Non è, il neorealismo — nel suo nucleo più profondo (ben vivo fin dagli inizi), un rendiconto della cronaca e un verismo fotografico, ma è un modo nuovo di concepire la storia dell’uomo su questa terra e la possi­ bilità di un nuovo peso dell’idea umana, di uno sposa­ lizio della terra e del tempo. Tutte le denuncie, le critiche, sono implicite al ci­ nema neorealista, esse sono anzi ancora da gridare forte, ma non si dimentichi che il nucleo del cinema neoreali­ sta è un nucleo lirico altissimo, vibrante anche nelle più accorate e acri « storie » polemiche, e questo liri­ smo è l’idea umana costruttiva che è sempre stata den­ tro il neorealismo: è l’annuncio, il tremore, il richia­ mo, di un’alta idea dell’uomo, che stava sopra anche al desolato andirivieni del ladro di biciclette e avvampava per noi nella nostra fede, nella speranza. Si è sempre detto che il neorealismo è realismo sociale e bisogna aggiungere chiaramente che è questa lirica di una nuova società (che è poi di una nuova struttura stessa della vita) il contrassegno profondo del neorealismo, è in questo amore e dolore per l’uomo. E non è un sogno o una visione di qualcuno di noi, non è un privato miraggio che è pago di dare beatitudine nella visione d’arte; è un sentire un nuovo mondo che na-

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see e questo che cade, è un impegnarsi a rendere eguale al sogno d’arte la città degli uomini, è un sentire nell’arte la possibile forma nuova della storia umana e un volerla tradurre subito nell’azione etica, nella passione di vita, nel lavoro.

Oggi Kartista sente al centro stesso del suo udito, del suo sguardo e del suo cuore, il mondo che si tra­ sforma e non può distrarsene. Non è mai stato meno so­ lo, non ha mai sentito tanto alto il suo compito e circon­ dato dalle forze concrete. Non può lasciare alla politica il formarsi di una nuova società perchè meno che mai egli può credere che questa nuova società sia un compito che la politica basti a scoprire e a costruire. E’ in gioco il nome e il senso de­ gli amori e delle amicizie, dei lavori e delle nascite, delle morti e delle unioni. Muta vita la Cina, si rialzano tante fronti e a sera accanto al fuoco si parla in modo nuovo, si è altrettanto e più uomini che in Grecia o a Roma nei versi classici e questa vita che sentiamo mutare come idea, come fatto, come ritmo, questa nuova società, questa ami­ cizia e lealtà e laboriosità e fede dell’uomo con sè stesso e con gli altri, non è un esemplare unico che riguardi solo questa o quella città; vita è dovunque si siedono e cam­ minano e lavorano uomini e questa vita nuova si ha vo­ glia di vederla alzarsi nei paesi di Lucania o in Bolivia, e si manderebbero staffette. Ma si ha un furente amore per l’uomo e un tremore per ogni più piccolo « lui » e si vorrebbe che ogni uomo fosse salvato e assunto e amato, ma per quello che è , col suo ritmo e il suo cuore, col suo tempo e il suo accento, che fosse proprio lui vivo e teso 68

nella nostra Storia, lui accanto a noi senza cadere a ca­ pofitto nel paradiso delle superidee che lo rappresentano senza che lui possa viverle, ma lui col suo passo d’uomo, uno due tre e quattro, e poi i superamenti, le transvalu­ tazioni, gli arricchimenti e le aperture che si vogliono, ma nel tempo e nella vita sua, sempre dovunque col suo passo d’uomo, uno due tre e quattro.

* • • La sconfinata tematica possibile del neorealismo è quella stessa di una condizione umana che ha bisogno di parole nuove per tutti i suoi elementi — perchè tutti i suoi elementi sono coperti da nomi che non bastano più. Non possono non commuoverci perfino gli accenti accesi alti da Rossellini, che in « Stromboli » si metteva in moto per i monti ad inquadrare Iddio, perchè nonostante le sue frettolose liquidazioni ideologiche o gli impossibili assunti narrativi, Rossellini aveva capito per primo anco­ ra una volta che il neorealismo rimetteva allo scoperto una condizione capace di pronunciare parole in tutto l’arco della potenza umana, bravamente a fondo e con la cara voce grossa; non si trattava solo di guerra e dopo­ guerra ma della tematica della vita umana sulla terra, la vita che si copre di nomi e forze nuove come questa a primavera del suo verde.

*•* Ciò di cui oggi ha bisogno il neorealismo è di ma­ turare la sua visione delle cose e di sfuggire sempre più al pericolo della semplice atmosfera realistica o della presa 69

bozzettistica sulla realtà. Poiché, come abbiamo detto, il neorealismo è una forma di poesia che corrisponde a una nuova idea e passione dell’uomo e a un nuovo codice del­ la vita sulla terra, è urgente che il neorealismo punti for­ te verso la chiarificazione di questo suo mondo e consolidi le sue forme narrative ed esprima la sua ricchezza morale mostrando la sua profondità d’arte proprio in questa sua capacità di approfondire l’idea umana e la sua affabulazione sociale. E’ sempre più chiaro che il cinema neorealista ha anzitutto da fare i conti con sè stesso e coi grossi equivo­ ci che reca in cuore accanto alle promesse. Il neorea­ lismo deve allora, anzitutto, separare nettamente dal suo cammino avvenire quella parte deteriore che ha potuto far nascere accostamenti con certo teatro o letteratura verista e naturalista dell’ottocento o anche con certo neorealismo letterario del Novecento che, ove si eccet­ tuino le più alte risonanze liriche di scrittori come Vit­ torini o Pavese (che si collegano a quella particolare li­ ricità umanistica che è sempre l’accenno segreto della dia­ lettica costruttiva neorealistica) è lontano dalla profon­ da forza sul Tempo e sulla Storia di cui è ricco il film neorealista. Il neorealismo cade in cenere quando presso i suoi autori meno provveduti non sa affrontare quello che è il suo compito naturale; essere una vicenda dello spirito umano teso a ordinarsi in modo nuovo e piegato ad af­ frontare i suoi più serii problemi. Il neorealismo oggi, poiché parla dell’uomo sulla terra e della sua vita, dei suoi rapporti, e si misura col giusto e l’ingiusto, col vero e col falso, non può non af70

fron tare dei problemi spiritualmente enormi. Il neorealismo è arrivato a un punto decisivo di crisi. E’ arrivato al trapasso — non garantito — tra « Resisten­ za » e « Rivoluzione », perchè è arrivato al punto in cui tutti i problemi vengono a galla ed esigono di precisarsi, di risolversi, di essere almeno elaborati a fondo. Impegnandosi a parlare di solitudine e di comunica­ zione, di « presenza degli altri » , di amore o di egoismo, di fede nella vita, di costruzione, di democrazia, di rap­ porti etici, il neorealismo si trova a dover essere trattato a fondo da uomini che posseggano una ricchezza morale e intellettuale che sia all’altezza dei temi trattati e un’espe­ rienza umana sincera e complessa. Forse l’aspetto positivo di questa crisi odierna del neorealismo è che essa non lascia alcuna possibilità nel senso di una soluzione puramente fantastica o di una pura testimonianza umana sull’impossibilità di risolvere quei problemi, veramente serii. I nostri registi, cioè, non si sono mai potuti concedere troppe scappatoie nel senso di una intuizione < da artisti » che coprisse il loro scarso cor­ redo mentale nel senso di una filosofia della vita. Andati dietro le loro veramente nuove e rivoluzionarie scoperte, i registi possono oggi crollare di fronte all’altezza e alla densità delle posizioni spirituali da assumere e dei pro­ blemi da risolvere. Crisi grossa, ma onesta, e nessun trucco nè evasione. La tensione intorno al neorealismo è tale che l’insufficien­ te approfondimento dei problemi trattati, l’inadeguatezza morale di fronte al « mondo nuovo » che sta nascendo, può scoprire fino alle fibre, in un denudamento partico­ larmente aspro, la disarmata pochezza dei registi arenati sui problemi « massimi» .

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Quando mondi nuovi vogliono emergere e nuove so­ cietà, integrali visioni dell’uomo, meno che mai possono esistere i bozzetti, le « atmosfere», i varii ismi dell’acca­ demia realistica. C’è oggi bisogno di un’integrale visione della realtà possibile in questo momento storico, della vi­ sione del mondo implicita nel rinnovamento della socie­ tà, perchè altrimenti il neorealismo, che è nato come ap­ pello di forme nuove, si spegnerà.

Poiché dunque il neorealismo è quello che si può « grosso modo » definire un cinema filosofico o almeno potenzialmente filosofico, è urgente liberarlo dai suoi equivoci e dalle sue debolezze, da quelle che, con un ter­ mine di Leonardo Sinisgalli, definiremo le « teste molli ». Esploso, quasi senza saperlo, nel mezzo del più teso problematismo d’una cultura e parso subito alacre di sti­ moli, di novità, di manovra costruttrice, il neorealismo o sarà un mondo organico dello spirito o non sarà. Bisogna riconoscere che il personaggio neorealista (che elabora una solitudine che diremo filosofica per distinguerla dallà solitudine < letteraria » del verismo francese) si mette in moto in tangenti spirituali che la più alta cultura euro­ pea ha sofferto e trattato in un registro spirituale di estrema ampiezza. E' più interessante il raccordo tra il personaggio neorealista (in giro per le sue città « arni­ che-nemiche » e chiuso nella sofferenza del suo rapporto con gli < altri »), e il personaggio della poesia di T. S. Eliot nella « unreal city », del raccordo sciocco e vano tra il neorealismo e il teatro dialettale o verista ottocentesco: mondi lontani — da quello che è il vero neorealismo — come terra e luna.

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Rivendichiamo al cinema neorealista il dialogo eu­ ropeo della cultura letteraria e filosofica più avanzata. E’ proprio per questo suo essersi sprofondato nel ter­ reno culturalmente più rischioso che l’autore neorealista oggi può soffrire, da ogni lato, di enormi complessi di in­ feriorità che si traducono in pretese altrettanto enormi. ’ Bisogna ricordare che Eliot aveva scontato le sue pe­ regrinazioni poetiche nella « unreal city » scrivendo < Idea d’una società cristiana » e bisogna anche ricordare che Eliot non è una « testa molle » e questi « mondi » non possono essere pensati dalle « teste molli ». Possiamo dichiarare la fine della prima esperienza neo­ realistica e possiamo vedere aperta la fase che per noi coinciderà con l’arte piena vera e propria — l’arte cioè, che esprime una nuova figura e forma dell’uomo e della vita, dei suoi rapporti, della sua moralità. — Aggiungia­ mo subito che questa fase è d’una complessità enorme e ha posto davanti a sè problemi di un’ampiezza sconosciu­ ta, che sono poi quelli della stessa cultura europea più seria. Andrà avanti il cinema? Cadranno le « teste molli »? Cadrà la figura tradizio­ nale del cineasta italiano, generoso e incolto, intuitivo e geniale, cuore d’oro e cervello di rame?

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CAPITOLO QUINTO IL NUOVO ROMANZO

C’è oggi un bisogno di forme nuove, del nuovo ro­ manzo. I raccordi narrativi che si cercano, la posizione del narratore verso i propri personaggi, il ritmo e lo sti­ le stesso della narrazione, sono tutti punti fortemente in discussione. Si teme di rientrare, per troppo amore di so­ lidità, in ossature tradizionali e pesanti, si teme che la passione e il puntiglio per il raccordo, per la rigorosa con­ catenazione, per le soluzioni nette, per i trapassi decisi, finiscano col riproporre vecchi schemi che lascino fuori le analisi più pregnanti e le soluzioni più urgenti. Ci si deve accorgere ormai che un certo modo di rac­ contare implica una visione della vita, cioè la fede nella possibilità di trovare il significato e l’importanza della vi­ ta, di una vita, in certi eventi piuttosto che in certi altri, in certi incontri, in certe aperture, in certe analisi. Nar­ rare significa sempre porre in gioco un destino e chia­ rirlo come tale, mostrare un certo flusso delle forpie nel tempo e nella storia, e legare dei raccordi fondamen­ tali, porre in luce le forze della vita in un personaggio e nei suoi possibili svolgimenti. C’è stato e c’è tuttora nel neorealismo un modulo narrativo di estrema importanza

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che, spiccato a pieno profilo per la prima volta nel mon­ taggio continuo e interno, per esempio esemplificato nei lunghi carrelli d’accompagnamento di Rossellini, o nelle sue inquadrature fisse, vere sagre del « tempo continuo » (il negro accoccolato sulle macerie, in « Paisà », che canta e « si confessa ») si è poi prolungato nella meditazione amara e sottile di Zavattini. E’ il modulo narrativo che può essere sintetizzato co­ si: un uomo, per un incidente che gli capita, perchè per esempio perde un oggetto, è « portato » da questo og­ getto a incontrare la società, sia essa una città, un paese o, comunque, una collettività. Gli « altri » si profilano in questo modo nell’incesso della scoperta continua. 11 perso­ naggio, per un « incidente », sente in sè rompersi l’abi­ tuale trama del possibile incontro con gli altri e scopre in modo totalmente nuovo e inatteso il suo vero « incastro » con gli altri, le relazioni organiche con gli altri che nelle « storie » abituali non venivano mai in luce. Il tipico personaggio della narrativa tradizionale chiariva il proprio destino sempre al riparo da questa « scoperta degli altri ». I nessi con la società, e il ritmo della convivenza più umile e sottile, non salivano all’orizzonte del personaggio perchè la società funzionava in una compattezza senz’ombra e, l’uomo era sempre un < io assoluto » che non aveva biso­ gno di riconoscere gli altri implicati nel suo orizzonte co­ me partecipi o costitutori del suo stesso destino. Oggi, in­ vece, come si è detto, il destino del personaggio e il suo stesso significato, l’evento e la serie d’eventi, cioè, che sembrano « degni di narrazione », appaiono legati al de­ stino degli altri. La freschissima scoperta del neorealismo è in questa dimensione: la scoperta della prospettiva sociale. 75

11 personaggio si misura tutto nell’esame, doloroso a volte, di tutto ciò che nella propria vita è dipendente da­ gli altri, o con essi in relazione. Era questa la prospettiva più certa della scoperta neo­ realistica; « fulminare » Fuorno nell’intuizione del suo paesaggio sociale così come la luce e l’atmosfera e l’albe­ ro, nel paesaggio impressionista, si ramificano in una sot­ tigliezza analitica estrema, nella scoperta in certo senso realistica (cadute le luci ideali del quadro classico) delle aeree e segrete implicazioni dei toni. Questa nuova sottigliezza del racconto neorealista è una squisita e freschissima conquista della forma, che scardina la rozza vuotezza della narrativa non realista e la sua assenza di vere modulazioni e di profondi raccordi. Oggi c’è, nel cinema neorealista, una gran voglia di mandare i personaggi a incontrare i propri simili quasi nel ritmo d’una analitica passeggiata o d’un caro pelle­ grinaggio. Si sogna un grandissimo e dolcissimo « giro d’Italia » della macchina da presa segnato ad ogni tappa dall'uragano d’applausi delle scoperte fatte. Insieme a questo il neorealismo ha molto coltivato il modulo narrativo che vogliamo definire delle < vite pa­ rallele >. Viene seguita la vicenda di più personaggi, ciascuno nei propri episodi e nelle proprie storie particolari e, tut­ te, nel loro fare capo a un’unità più generale: le storie dei bagnanti di una domenica d’agosto, le storie dei po­ veri amanti in un quartiere fiorentino. A questo modu­ lo narrativo, è difficile che rimanga chiarezza, nerbo e perspicuità, e non sfumi in una genericità atmosferica o in un brusco trascegliere di fiore in fiore. Ognuno porrà dietro a questi « moduli » i titoli di 76

films e di autori che sono riconoscibili. Ricordiamo solo ancora che è proprio « Roma città aperta » ad aprire, con la sua « storia dei rifugiati », la possibilità dei films a « vite parallele » e che « Paisà » è la storia d’una na­ zione in un dato momento storico (tutti e due i films sono il poema epico, in due grandi episodi, della Re­ sistenza italiana), mentre le storie e i racconti bloccati sull’« eroe » o sul « protagonista assoluto » sono storie del rompersi, nel protagonista, della certezza e della di­ gnità del proprio autosufficiente isolamento e del proprio tradizionale « incastro con gli altri » ; il personaggio è let­ teralmente frantumato in mezzo agli altri e « gira la cit­ tà » (« Ladri di biciclette », < Umberto D »). Ecco allora che il « tempo continuo » del personaggio, la « nuova du­ rata » del racconto, non è un rallentamento romantico nella modulazione intimistica del pensiero umano o dei suoi metri individuali, ma è una comprensione micro­ scopica e sottile della rete di incontri, di interdipendenze tra gli eventi, che fa capo ad ogni uomo. Così come il montaggio russo è dialettico e sintetico il montaggio ita­ liano è analitico, relazionistico, e organicistico. Ma non è soltanto per costruire una simile epica relazionistica, per restituire l’uomo al suo paesaggio storico, che il racconto neorealista « rallenta » e si frange nel « tempo continuo ». E’ anche perchè 1’esistenza, nel suo ritmo quotidia­ no, entri nel montaggio con la sua fedeltà numerata ed umile. Qui bisogna fare il nome di Zavattini come del più felice costruttore del nuovo « tempo cinematografico » che coincide con la durata esistente e, per noi, con l’amore e la riscoperta della vita e della nuda concretezza umana. Questo « tempo » non è rimasto un conato teorico, si è anzitutto affermato come superbo ritmo di poesia. 77

f La classica sequenza del risveglio della servetta in ■« Umberto D » è un cosmo poetico costruito sull’infimità apparentemente irridemibile del « tempo ».

E’ dunque in una duplice direzione che si svolge il racconto italiano: rallentamento estremo sul « tempo esistente » da una parte, (il personaggio col suo stillicidio, anche angoscioso, di minuti) e « tempo di incontri » dal­ l’altra parte; scoperta cioè dei raccordi infiniti con gli « altri ». Durata dunque come coincisione con le impli­ cazioni del tempo umano e del tempo delle relazioni. Due direzioni che a noi sembrano concomitanti e co­ stituiscono, infatti, due modi della costruzione d’una nuo­ va coscienza; coscienza esistenziale e storica; coscienza d’una vicenda che dev’essere tutta creduta e pagata di per­ sona e che è preziosa e concreta attimo per attimo, e co­ scienza di una durata che affluisce da altre durate, che è legata e dipendente, da altre durate: Tempo e Storia, Storia come Tempo e Tempo come Storia.

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Non credo sia giusto caricare il primo neorealismo degli attributi, che per noi sarebbero quasi una colpa, di una freschezza, di una libera felicità di intuizioni, di una immediata unitarietà dovuta all’atmosfera d’allora, che era appunto la facile unità della Resistenza, che cementa­ va in modo provvisorio idee, spinte, uomini, partiti che poi dovevano passare fieramente al duello e alla separa­ zione. Dette cosi le cose, si fa passare il primo neorealismo come un’agape sciocca della provvisoria fratellanza uni­ versale e come una comunicazione degli interessi realisti­ ci presenti in ognuno solo in quanto a tutti potevano in­ teressare gli americani in arrivo, i tedeschi in partenza, la lotta contro il fascismo spicciolo, i pittoreschi sciuscià e le macerie infinite. Chi oggi afferma questa dimentica che il neorealismo è stato qualcosa di molto più profondo che la sagra della provvisoria unità, e ha messo in moto le scoperte formali e le idee spirituali che in questo libro abbiamo tentato di delineare, idee formali e spinte spirituali che alludono a una « nuova filosofia > come necessaria maturazione e che sono costituite da un legame dialettico di varie cul­ ture, da un giro di problemi che vertono essenzialmente su un umanesimo dell’esistenza e della relazione, su una nuova etica, su una nuova narrazione. Il miglior modo per saggiare i possibili sviluppi del neorealismo e per coglierne il nucleo, al di fuori delle pretese scolastiche di chi vuole accaparrarsi la sua ghiot­ ta tavola progressiva, è questo di andare a fondo nel sag­ giare il profilo spirituale del neorealismo — i suoi nuclei, i suoi modi, e la sua importanza di ascendenze spirituali, il suo reale e possibile « pensiero ». 79

E’ importante, allora, salvarne il centro profondo, al dì là delle sue deformazioni a opera delle « culture » oggi imperanti. Il momento attuale del neorealismo, che è « film en­ tro cultura », si presta naturalmente al massacro del neorealismo da parte delle culture muscolosamente codi­ ficate. Ma il nucleo del neorealismo, il suo atteggiamento aperto e rivoluzionario, così come abbiamo cercato di chiarificarlo, può quasi da solo far giustizia degli abusi, degli equivoci e delle deviazioni interessate. Non c’è dubbio che quando oggi si dice che è ur­ gente passare dal « neorealismo » al « realismo » si accen­ na giustamente al fatto che la spinta umanistica e etica oltreché formale e narrativa del primo cinema italiano del dopoguerra deve affrontare, in pieno, il problema stes­ so della costituzione spirituale e concreta di questo « nuo­ vo umanesimo ». Poiché è chiaro che dalla piccola e sacra soglia della Resistenza l’uomo è passato nella pianura in­ finita di una nuova casa umana e il cinema neorealista, con funzione di rottura, con apertura di bruciante avan­ guardia, si deve impegnare su un terreno che è poi quello stesso più vivo di oggi; la vita nuova della società umana su questa terra, i nomi nuovi e i valori e le idee di tutto ciò che è vita e uomo e elementi dell’uomo su questa terra. Fase, dunque, di approfondimento, costrut­ tiva. Fase decisiva. « E misi me per l’alto mare aperto » dovrà dire d’ora in poi il regista neorealista. Ma vogliamo sostenere che questa necessità di affron­ tare l’aperto mare della cultura spirituale e il fat­ to che intorno a questa nuova definizione della vita sulla terra si battano con ferocia senza pari tutte le forze

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e le idee di oggi, non autorizza a diib che il neorealismo è finito o si spezzetta in tante forme antitetiche, in­ conciliabili, e, in sostanza, equivalenti. E’ proprio ora invece che il nucleo nuovo e certo del neorealismo deve farsi strada, che la sua forma, deve af­ fermarsi e il suo pensiero chiarirsi. Teniamo presente la possibile deformazione a cui può andare incontro il neorealismo nella sua trasforma­ zione in < realismo ». Diciamo subito infatti che intorno alle idee di una nuova vita etica sulla terra si battono anche le idee più trite, più astratte, più putride di oggi, ed è tempo di aprire, dal cinema al pensiero a tutta l’arte, le vie d’una soluzione veramente moderna all’abusato culto e amore e problematismo dell’uomo e della società.

Il « tempo continuo », il « film di conoscenza », que­ ste ed altre formule poetiche, che racchiudono i profon­ di atteggiamenti che abbiamo indicato, in quanto espri­ mono un nuovo atteggiamento dell’uomo, una nuova fi­ gura umana, e sono brani, quasi, dell’esperienza neces­ saria alla costituzione dell’« uomo nuovo », sono tante porte aperte alla rivoluzione umanistica. E questa ri­ voluzione umanistica, questa nuova figura possibile del­ l’uomo, deve arricchirsi di infiniti altri brani d’espe­ rienza. L’uomo nuovo ha certamente da esprimere un atteg­ giamento verso la natura, verso gli animali, verso la mor­ te, verso la propria psiche, che merita un’espressione arti­ stica. Non c’è dubbio che i fermenti della‘ società, della cultura, dell’uomo di oggi si svolgano in un’ampiezza enorme di registri, e si pone contro l’evoluzione delle 81

forme storiche chi restringe la « poetica del realismo » a pochi conflitti e a poche salienze significative. Sono infi­ nite le scoperte da compiere e sarebbe veramente un de­ litto se il cinema realista non volesse affacciarsi all’oriz­ zonte dell’arte nuova con tutto il possibile movimento delle scoperte necessarie. Ma oggi vogliamo puntare forte verso un cinema che non si accontenti di enucleare — quasi in tanti « studii » separati e ben delimitati, (i quali, comunque, hanno pie­ na legittimità) — i possibili quadri di un’esperienza « progressiva » — ma dia a fondo il quadro di un’umani­ tà nuova nell’esatta distribuzione delle sue forze e fedi e nella sua organica visione del mondo. Abbiamo cioè, oggi, bisogno estremo di un cinema del « tempo » risolto in « storia » e dell’« individuo » di­ venuto < personaggio » e in moto lungo una reale chia­ rezza di processi. E’ questo il punto veramente decisivo di oggi ed è il terreno dei massimi equivoci. Si domanda un cinema di « personaggi », di « eroi », un « nuovo montaggio », un « nuovo romanzo » (e si accampa giustamente il bi­ sogno di una chiarezza, di una visione organica e costrut­ tiva) ma si è certi di cercare veramente a fondo questo « nuovo montaggio », questo « nuovo romanzo »? Non si ha troppa fretta di concludere la sincera ricer­ ca e la disintegrazione ritmica del primo neorealismo? Non si propone una facile razionalità a quella soffer­ ta e promettente irrazionalità? Alla feconda « sregola­ tezza » non si ripropone la pastoia d’una « regola » trop­ po presto trovata? Non c’è oggi, per l’inquieto navigatore neorealista, il pericolo d’una retorica e libidine dell’ap­ prodo? \ 82

E’ però sul terreno dei problemi estremi che oggi rischia di naufragare il neorealismo, perchè, volendo o no. è sfociato nelle domande fondamentali sull’uomo, sulla vita e sulla storia, e dev’essere fatto da artisti che sappiano dare le risposte adeguate. E ci sono, a questo punto, nel cinema italiano, gli uomini e le menti adatte, ci sono le filosofie pronte, e le forme e le esperienze necessarie? Certo qui c’è da dire che il momento è estremamen­ te leso e ci si batte su un terreno divenuto molto vasto e si chiarisce a fondo quello che è stato il cinema neo­ realista; una profondissima e compromettentissima sonda gettata nei maggiori problemi della cultura contempo­ ranea. Tutte le scoperte parziali del neorealismo (mac­ china da presa per le strade, cronaca, attori presi dal vero ecc.) debbono ormai essere ricomprese nell’inter­ no della nuova visione spirituale e poetica di cui erano espressione ed esplorazione. Posto che sia in chiaro che il neorealismo oggi non può non misurarsi con la « visione organica » e deve a suo modo trovare la propria < tavola filosofica pro­ gressiva », come non spostare l’attenzione sulle attuali possibili posizioni filosofiche e sulle posizioni umane che più o meno fedelmente ne derivano? Non diremo certo che, oggi, il possesso d’una « si­ stemazione filosofica » veramente nuova e positiva basti a garantire il risultato artistico nè che l’appoggiarsi a vecchie metafisiche possa portare aprioristicamente al­ la squalifica d’arte: si tratta del fatto infinitamente di­ verso, che oggi sui problemi fondamentali della vita certi registi non sanno rispondere se non con frettolosa insufficienza, nè sanno fare della loro opera la confes­

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sione umana di questa impotenza, mentre altri sanno rispondere anche troppo sicuramente e ripropongono vecchi scatti dialettici che, proprio come suono umano e circolazione poetica, sono monete fuori uso. Parliamo dunque non del possesso di filosofìe giu­ ste o sbagliate ma di posizioni umane e poetiche che non sono di ricerca, che si corrompono in vecchi ritmi, che tacciono senza sentire la tragicità del proprio silen­ zio o parlano senza sentire la meccanicità del proprio discorso. Di fronte a ciò, è quasi preferibile la sagra delle « scoperte parziali », e si desidera che l’artista si lanci nella ricerca sincera, nell’esplorazione, e non si arrenda, a visioni precostituite.

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La più grande necessità di oggi è l’epica, il roman­ zo. Ritorna, in una cultura, la passione e la possibilità del romanzo quando non si ha più uno spazio vuoto da­ vanti a sè, quando le vicende umane e sociali possono suscitare passione e ispirazione (e coagularsi in « per­ sonaggi » capaci di destare amore e chiarezza nell’auto­ re stesso), in quanto si sviluppano come forze in cam­ mino, scoprono un ritmo, una logica, delle relazioni che sia possibile seguire e raggiungere. Se di una nuova figura della storia umana andia­ mo in cerca, se il cinema neorealista è nato come passio­ ne di ricerca di una trama organica per l’uomo terre­ stre, è probabile che oggi sia urgente per noi far matu­ rare e contenere in una grande « umiltà » narrativa la bruciante passione lirica che fa invocare l’armonia della storia umana piuttosto che chiarirne le possibilità. Il ritorno al romanzo oggi è il segno che lo spazio non è deserto attorno a noi, che l’uomo si sente impli­ cato agli altri uomini e può amare e cercare la vita nelle sue forze attive, nelle sue relazioni, nel suo dinamismo, nel suo « racconto ». Ma questo nuovo romanzo, questa nuova fede nella chiarezza della vita, nelle sue direzioni, nei suoi pro­ tagonisti, può alimentarsi a vecchie metafisiche, a vec­ chi miti di « storie ideali eterne », o ad astrazioni dia­ lettiche? Crediamo che il nuovo romanzo implichi una posizione nuova verso la vita e verso le forze e i ritmi che ci implicano, pensiamo che non possano alimenta­ re questa nuova posizione (preparata e stimolata fin dalla prima esperienza neorealista) nè le vecchie metafi­ siche trascendentiste o il grande smercio attuale dei neo­ tomismi — nè l’egualmente vecchia metafisica marxista, 85

questo residuo dell’ottocento. Pensiamo che il neorealismo e il problema dell’uma­ nesimo nuovo implichino il tramonto dell’umanesimo ottocentesco. Pensiamo che la crisi del romanzo nel nostro se­ colo sia la crisi di una certa visione della Storia e che solo una nuova idea della Storia possa far nascere il nuo­ vo romanzo. Forse il nostro grande desiderio di romanzo, che è il desiderio di collegare tutte le trame, di cogliere il particolare nell’insieme, di profondere i nostri attuali tesori nella ricerca di un’inflessibile coerenza, di un qua­ dro universale, è in anticipo sulle nostre reali scoperte, forse può tendere ad annullare le brucianti possibilità della lirica, le sonde che gettiamo verso quei nuovi nu­ clei di spiegazione della vita, della storia e delle relazio­ ni, che poi permetteranno la quiete della narrazione, l’alta e marina pace del travaglio narrativo. Siamo ben certi però che Vantiromanzo contempora­ neo, il « romanzo sul romanzo», questa posizione di cri­ tica, di crisi, insomma, sia passata non invano, e che so­ prattutto quella grande ribellione all’epica tradizionale, (ribellione costituita dal cinema neorealista), possa servi­ re veramente alla creazione di un « nuovo romanzo » ci­ nematografico. Certo abbiamo motivo e bisogno di disten­ derci nel canto della narrazione. E pensiamo che meno che in ogni altro momento storico, il romanzo abbia con­ fini netti col « poema epico ». Pensiamo anzi che il nuo­ vo romanzo tenderà a recuperare in assoluta purezza le sue vere origini, che sono nel poema epico, e porterà a co­ gliere, ben al di sotto di un ordine o copiosità di fatti o di avventure eccezionali, il paziente e interiore costruir­ 86

si della storia umana, delle sue ragioni, delle sue forme segrete, che non coincidono con le forme esteriori degli avvenimenti. Il nuovo romanzo, che dovrebbe irrompere nell’assetante afa lirica di oggi come un corso maturatore, paziente di moti infiniti, dovrà essere soprattutto un carico di « interiorità », nel senso di uno scoprire sotto i più piccoli e umili fatti il disegno dei ritmi interiori a più complessi movimenti storici e tenderà proprio a scoprire sotto la più inesorabile e monotona « quotidianità » e nella apparente dispersione dei più lievi incidenti della vita, l’ordine universale che può coglierli e placarli, il « racconto » che può rasserenarli. Alludendo alla profon­ da etimologia della parola « religione », che è in « reli­ gio », (rilegare, connettere), diremo che il nuovo romanzo non può non essere supremamente religioso.

Oggi trovare il nuovo « epos » per gli uomini, la distensione in un moto narrativo veramente universale, non può essere una soluzione che lascii irrisolti tutti i problemi di fondo. Ma nelle forze che ci portano avanti verso la « nar­ razione », nello stesso bruciore delle scoperte liriche che, più che mai, ci sembrano destinate a riversarsi come nu­ clei di una chiarificazione narrativa, c’è il seme e il modo di questo nuovo « epos », di questo tessuto che dovrà con la testardaggine degli infiniti amori venire a innamorar­ ci e a preoccuparci dei più piccoli nostri fatti e movimenti e silenzi e rapporti per trovare anche in essi — essendo così capace di « fondare » anche la nostra vita quotidia­ na — il legame di un movimento universale. 87

Abbiamo bisogno di epica, di romanzo, perchè ab­ biamo bisogno di < maestà », di « potenza », è di questa particolare maestà dell'epica che abbiamo bisogno: la solennità dei nessi trovati, non la mitizzazione dei det­ tagli disinnestati e soprannaturalmente aionati. E la potenza che oggi occorre all’uomo non è quella delle sue pure affermazioni o di conclamate libertà eroi­ cistiche, ma la potenza narrativa, che è nel piano trovato e costruito. Quel bisogno profondo d’amore che è nei cuori di oggi, può senza tradimento essere placato solo dall'epi­ ca. E’ nelle profondità fedeli, laboriose e quete del ro­ manzo e nella sua « durata » che la vita acquista forza, arco, afflato e l’amore, come invocazione di unità, si spen­ de e si consegna tutto nel lavoro della logica e dell’epos, nella fatica delle fioriture, delle modulazioni, delle ca­ denze, delle soluzioni. Abbiamo bisogno di romanzo perchè abbiamo biso­ gno di vastità e di monotonia, di minuzia, di frastagliatu­ ra, di univocità. La vastità oggi ci prende alla gola più ancora del bisogno d’amore perchè non possiamo più vi­ vere senza scorgere nello spazio e nel tempo le presenze che ci comprendono, i movimenti che ci valicano e una spiegazione infinita. Ma anche la monotonia ci è necessaria, la quiete, e la « durata » fedele. Vogliamo distruggere nel nuovo ro­ manzo il respiro capriccioso, irregolare e corto degli an­ geli che ci minano il cuore, capricciosi trastulli dell’im­ maginazione e della velleità. Vogliamo consegnare nei nostri ritmi l’inesorabile quiete che porge e toglie la Storia.

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Abbiamo bisogno di romanzo perchè abbiamo biso­ gno di ritrovare l'unità per ogni frammento del reale ma nel nuovo romanzo vogliamo tanto amare i frammenti da sentirli carichi di consegnabili segreti. Vogliamo, così, distruggere la fretta dell’epica e del montaggio, e costruire, nella narrazione, la più serena e paziente calma mai scandita in un < tempo » di arte.

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PARTE TERZA

IL NEOREALISMO E L’ESTETICA

CAPITOLO VI

NEOREALISMO E PROBLEMI DI ESTETICA

L’arte coglie la necessità organica di nuove forme e non rispecchia la realtà nè a frammenti nè a interi. L’arte coglie la novità possibile del corso storico e nelle sue forme c’è non già il movimento delle contraddi­ zioni reali, la loro critica o scoperta, nè il movimento dialettico esemplificato, incorporato, ma la forma possi­ bile e non ancora nota in questa evoluzione, una norma per la società stessa, un organismo di immagini o di suoni che sia offerta e fondazione delle « forze nasco­ ste >, presentazione d’un nuovo mondo dell’uomo, del­ la sua costruzione possibile. Non c’è solo il movimento dialettico della realtà po­ litico-economica; c’è il movimento possibile di tutta l’u­ manità a un dato punto della storia, ci sono cioè i fer­ menti, le esigenze, dell’umanità a un dato momento della storia, e ci sono anche i più complessi suggerimenti della natura e dell’arte in un fitto intreccio di relazioni con i fermenti politici ed economici. C’è insomma, volta per volta, periodo storico per periodo storico, l’esigenza di nuovi ordini, di nuovi rapporti, di nuove armonie, di una nuova produzione delle forme storiche.

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L’arte scopre, offre e inventa volta per volta una nuo­ va società storica e naturale. Anche una nuova società tra l’uomo e la natura è il dono dell’arte. Il complesso suggerimento, l’esigenza di fórme nuove, l’annunciarsi di nuovi « organismi » e « sistemi » non può essere esempli­ ficato solo nello schema della dialettica. Non è già solo con l'inserimento nel processo dialettico della realtà vista e seguita nelle sue contraddizioni che l’artista offre la forma alla storia, ma è sentendo anche più di quello die è in fermento evidente nella storia, è soprattutto nell'of­ ferta di nuovi mondi formali e di nuovi atteggiamenti, i quali, di per sè, e senza alcun rispecchiamento rea­ listico di conflitti già esistenti e determinati, son norma e soluzione dei conflitti di un’epoca, scoperta etica, orga­ nismo rivoluzionario (1). L’artista offre all’uomo — o meglio fa da tramite — il mondo di forme nelle quali l’uomo può divenire nuo­ vo a sè stesso e agli altri uomini —. Non si può sapere in anticipo qual’è l’arte rivolu­ zionaria e progressiva; essa, comunque, lo sarà nella for­

ma.

Chiedere all’arte di incorporarsi nei processi del rea­ le e esemplificare il « tipico » dei conflitti signifca di­ menticare che l’arte non è costretta ad alcun parallelismo (1) Non solo per un’esatta definizione di «realismo», non solo cioè per distruggerne le definizioni dogmatiche, ma per seguirlo nel suo terreno più arroventato, nel suo dono più vivo, ci è neces­ sario condurre un esame nel cerchio di una nuova estetica filosofica. La nuova arte « progressiva » pensiamo debba essere difesa non solo dalle formulazioni della vecchia estetica postottocentesca ma anche da quelle inesatte e incomplete dell’estetica sedicente < pro­ gressista ».

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di sviluppo coi conflitti stessi nè ad alcuna precisa indi­ cazione o identificazione. Una composizione musicale può, nell’organismo stes­ so e nei rapporti estetici e — come possibilità — etici, che pone fra i suoni, essere norma per i conflitti del tempo storico, complesso annuncio di nuove moralità, carica etica, esplosione di una nuova coscienza. Cosi pure un film. Pochi metri girati in un muto ritmo tra un contadino e la sua terra possono contenere, nella forma, e dunque nel risultato, più socialità, più eticità, di un film di tre­ mila metri nel quale sia esemplificato al massimo il con­ flitto dialettico della realtà italiana. Naturalmente la difficile « leggibilità » etica e poli­ tica delle opere rivoluzionarie nella « forma > fa sì che siano spesso più immediatamente utilizzabili le opere in cui la forma rivoluzionaria sia esplicitata al massimo e contenga precisi raffronti o anche indicazioni con una realtà politica e sociale in movimento. Se gli uomini sa­ pessero sempre impegnarsi secondo l’eticità delle forme l’opera d’arte sarebbe più « propagandistica » e costrut­ tiva di qualsiasi specificazione contenutistica. Una sonata per pianoforte, senza sottotitoli, senza programma illustrativo, senza « avvertenza dell’autore » può essere , a seconda della sua forma estetica, che è una carica etica e anche una possibile disposizione politica, molto più rivoluzionaria e dinamica, trasformatrice, pro­ gressista, di un’opera che, in usuali forme narrative, inse­ risca con estrema chiarezza i conflitti della società in un dato momento storico. Non si capisce perchè l’artista non voglia veramente impegnarsi a fondo, e cioè consumare per intero, in un'a­

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zione politica la sua adesione combattiva ai precisi con­ flitti della società nel tempo storico e consumare poi, nell'operazione artistica, la profonda operazione che gli compete — operazione che, se consumata a fondo negli impegni della forma ( che è un appello alle forme del­ l'uomo e ai suoi organismi, è una critica costruttiva che va ben in profondo e non ha bisogno di bersagli precisi o di schemi indicativi) avrà tanto maggiore importanza storica e possibile concretezza di « fondazioni » etiche, pratiche, politiche. Si direbbe oggi che l’artista voglia rifarsi nell’arte della pochezza del proprio impegno nella politica attiva. Dovrebbe impegnarsi a fondo nella politica e a fondo nel­ l’arte, comprendendo che l’arte ha « relazioni » con la politica e col tempo, e il suo lavoro da fare. Sarebbe veramente una negazione dell’arte, e delle realtà che scopre e offre, condannarla a un’ascoltazione'li­ mitata « apriori » (cioè non nei limiti che l’artista si po­ ne davanti alla determinazione del suo stesso problema) e costringerla a segnare il passo sull’evoluzione della lotta politica o a non scoprire per proprio conto strut­ ture e forme fortemente critiche, rivoluzionarie, e « dia­ lèttiche ». Arte «sociale», dunque, è l’arte, che scopre nuovi rapporti, nuove società, fra gli eventi, gli uomini, le co­ se e li scopre perchè sono necessarii, senza che nessuno sappia prima il perchè. Quante musiche abbiamo udito o quanti films ab­ biamo visto, nei quali, suoni o immagini, stretti in de­ boli, ingiuste, tradizionali società, promettevano fiacca­ mente nuove società per la politica e per il tempo. Quan­ te folli e sciocche « democrazie di immagini » presume­

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vano di poter criticare utilmente (cioè evoluzionisticamen­ te, dialetticamente) le democrazie della politica e della storia in atto. Quanti uomini di sana politica potrebbe­ ro scoprirsi, al lume della critica vera, fascisti di suoni e di immagini!

Ciò che conta, per l’arte, è costruire e liberare annun­ ciare e scoprire, nella sua stessa forma, nell’atteggiamento che è alla sua base, il nuovo mondo per il tem­ po. L’arte offre sempre le nuove realtà, l’arte fa nascere, promuove. Fa sorgere il futuro, fa esplodere il movi­ mento. Bisogna dire con estrema chiarezza che la grande operazione dell’arte consiste in un più ampio e diffuso « produrre » formale, in uno svelamento, o in una co­ struzione di ciò che « deve essere » dalla realtà, in un’in­ tuizione e in una produzione delle forme rese veramente necessarie e urgenti, (ma non prefabbricate) dal movi­ mento organico delle relazioni degli eventi, un movimen­ to che non può certo esaurirsi nella lotta dialettica della società e nella sua precisazione politica. Ciò non significa che l’arte nel suo annunciare e costruire, nella forma, il movimento unificatore degli eventi non possa incontrarsi anche coi movimenti dell’a­ zione pratica o politica per incorporarli, ma l’importan­ te è che tutto ciò lo ottenga nella forma e che non si esaurisca in quei contenuti. La grande funzione dell’arte consiste nel promuovuere i nuovi organismi umani resi necessari dall’interre­ lazione universale degli eventi e dalla possibilità di for­ me sempre più ricche e chiare per l’uomo.

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L’arte quindi non rispecchia mai la realtà nè traduce o illustra i suoi movimenti, piuttosto compie, scopre, forma, annuncia, unifica la realtà, organizza nuovi rap­ porti, spezza vecchi sistemi. L’arte « fa giustizia », nel sen­ so di liberare, di organizzare, di dare voce. Il neorealismo cinematografico italiano, lungi dal­ l’essere un rispecchiamento della realtà, rappresenta lo sforzo di cogliere in modo nuovo i rapporti dell’uomo con se stesso, col ritmo quotidiano e continuo della pro­ pria vita, il rapporto fra il tempo eja Storia, fra la mo­ rale e l’etica. II neorealismo cinematografico è l’annuncio, la ri­ cerca aperta, di una nuova armonia dell’uomo con gli altri uomini e con la natura. E’ il cinema dell’Esistenza e delle relazioni, del tempo e dell’etica, del ritmo parti­ colare e della ricerca di un « montaggio » non astratto. E’ una ribellione del particolare e dell’indifferenziato contro i falsi schemi del generale e della differenziazione « eroica ». E’ un cinema che partecipa e annuncia nuove rela­ zioni organiche, nuove narrazioni e « storicità » fra gli uomini. Il nucleo del neorealismo è un atteggiamento rivolu­ zionario dell’uomo di fronte al proprio « tempo », è una revisione dei principi organizzativi e narrativi nei quali la sua vita prendeva forma, è l’irrompere di modi nuovi della forma, di nuove possibilità perchè l’uomo si faccia reale.

Il neorealismo non è ancorato o condizionato alla scoperta della sola realtà italiana; il neorealismo è un

nuovo atteggiamento della cultura mondiale, è una nuova idea dell’uomo. Non è in rotta o in opposizione con tutta la cultura e con tutta l’arte contemporanea, non partecipa a una polemica tra un realismo sociale e tutta un’arte deca­ dente, formalistica, individualistica. La sua opposizione allo sciocco formalismo, ai « telefoni bianchi » è ovvia, come sempre quando la vera arte irrompe. La rappresenta­ zione, la critica della realtà con temporanea, non sareb­ bero state gran che, non avrebbero dato i frutti che hanno dato se non avessero preso le mosse da una nuova idea della società e della « sociabilità >, da un bisogno etico, sentito anzitutto come bisogno organico di forme e di rap­ porti nuovi, bisogno che implica tutte le condanne, le denuncie, le polemiche, ma profondamente partendo da un nuovo organico spunto, reale anzitutto nella forma, e non separato da tutto il travaglio contemporaneo che a proposito di una critica idea dell’uomo si era già con­ sumato in fondazioni varie e in scoperte preparatorie. L’arte con temporanea, come crisi e, in parte, cri­ tica, non è da rigettare in blocco; in essa sono da sco­ prire gli elementi di trasformazione verso quel « mondo nuovo » cui oggi si tende, che è l’umanesimo sociali­ sta, di cui il neorealismo è, oggi, la prima linea di bat­ taglia.

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Non è assolutamente vero che Parte debba accom­ pagnare la trasformazione d’una società fino a incor­ porarsi al suo processo; vero è che l’arte coglie nei pro­ cessi universali della realtà il bisogno d’una trasforma­ zione, e coglie e scopre nuove forme, e annunci infini­ ti, costruendo legami e « sistemi » formali nuovi, dei quali l’uomo ha bisogno per sentirsi comunicante e reale, progressivo e organizzato, e questo lavoro l’arte compie nei suoi organismi senza dover necessariamente ricorrere al « tipico », quasi che il generale e comune bisogno di un’epoca, la sua forma urgente e possibile, fossero già chiariti nella « tipicità » di certe sue situa­ zioni e nei suoi conflitti stessi, individuati a un certo grado di denominazione realistica. Come, cioè, se le con­ traddizioni e i conflitti di un’epoca dovessero essere ne­ cessariamente già contenuti nello schieramento politico o il profondo movimento organico delle necessità reali e delle possibilità formali fosse tutto già distribuito e partecipato, enucleato — senza errori od omissioni — nei caratteri tipici dell’esistenza di gruppi umani in ciò che hanno di comune (un contadino — tutti i contadi­ ni) e il poeta non potesse cogliere e anticipare, i movi­ menti organici possibili, in zone meno precisate, meno chiarite, meno dogmaticamente identificabili. Come se, soprattutto, non potesse sviluppare quelle tendenze, quei bisogni dei processi, anzitutto nei nuovi processi della forma, senza che la « tipologia » formale del < coro » corrisponda necessariamente a una maggiore « organici­ tà » o « socialità » e senza che un film dove non compaia­ no le classi nella loro lotta (che pure è un argomento che fortemente può prendere l’artista in quanto è pro­ fondo nella ricerca organica del suo tempo) sia neces100

sanamente « inrealista » o « reazionario » o altro. Anzi, tenendoci fermi al punto di vista secondo il quale l’arte è il processo organico stesso nel suo farsi reale, scoprir­ si, e mutare profondamente e organicamente tutti gli uo­ mini nella critica che è implicita nella sua forma stessa e nella sua novità formale, si può dire che soltanto ri­ voluzionaria e artistica è l’opera dove un tale movimento si compie, e nella forma, così che molto spesso i cosiddetti realisti lasciano vergine e sterile la realtà, bloccano il suo sviluppo, si rifugiano in schemi astratti. I progres­ sisti della politica sono, troppo spesso, « fascisti delFarte ».

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CAPITOLO VII « REALISMO » E « TIPICITÀ’ >

Poiché la realtà non è un dato fisso ma è un insie­ me di relazioni che cercano sbocco, e affermazione orga­ nica, arte realistica è quella che penetra e coadiuva, co­ glie e produce e anticipa e forma questo processo; asse­ conda il movimento della realtà organica, fonda la co­ scienza del movimento progressivo dell’umanità. Ma an­ che a chi, marxista, crede che il movimento della realtà da assecondare sia solo nella dialettica economica (co­ me cioè se il bisogno di nuovi organismi per l’uomo, di un modo storico più pieno di produrre la propria forma e di inserirsi nel mondo non implicasse anche la forma economica, lungi dal prendere le mosse solo da essa) anche dunque a chi crede che il « senso » della storia da accompagnare con l’arte sia la dialettica economica non pare basti la forza per affermare che l’arte accompa­ gni il « senso » dello sviluppo storico quanto più ne col­ ga il « tipico » (nel senso di un carattere « decisivo »). Questa interpretazione del « tipico » lucacsiano co­ me « carattere o caratteri decisivi della realtà storico­ umana della umanità associata nel suo difficile anta­ gonistico moto progressivo » è in un acuto e onestissi­ 102

mo saggio di Cesare Luporini (« Per una nozione di rea­ lismo » su « Il contemporaneo » anno I, n. 4). Ma non ci può soddisfare. Questa teoria infatti finisce con d’ammettere, an­ che se non lo riconosce, che il carattere decisivo della realtà, nel suo moto progressivo è già presente nella real­ tà, e l’arte deve ripeterlo, fiancheggiarlo, coadiuvarlo. Questa teoria, dunque, può far pensare che il carat­ tere decisivo, dinamico, trasformatore e inveratore, del moto storico, sia proprio sempre nella precisa configu­ razione economica e politica della lotta di classe e non possa essere invece, questa lotta di classe, uno degli elementi del moto storico, non già il suo « senso cen­ trale ». Non accenneremo ora a quello che secondo noi può essere, dal punto di vista d’una filosofia veramente mo­ derna, inteso come moto della storia, suo «senso», e sulla funzione dell’arte come penetrazione di questo sen­ so e fondazione della coscienza storica progressiva. Ci limiteremo a criticare certe formulazioni nel loro stesso terreno. E cominceremo così: Il « senso » dello sviluppo storico, la sua « tipicità » il suo carattere decisivo, dinamico, non può essere deci­ sivo già come contenuto, come presenza storica altrimen­ ti la forma dell’arte sarebbe la pura ripetizione di un carattere decisivo già accertato su un altro piano e il ca­ rattere « decisivo » nello sviluppo storico apparirebbe fuori dell’arte. E’ invece molto più marxiano pensare che la « tipi­ cità » e « decisività » di un tratto, di un cardine del pro­ cesso storico, non sia determinato « a priori ». Che anche l’arte entri nella possibile determinazio103

ne di questo « carattere decisivo ». E’ un insieme, cioè di relazioni, ove rientra a buon diritto anche l’arte, ciò che può dar luogo alla « deci­ sività » dei caratteri d’un processo storico. L’artista, cioè, non deve rispecchiare necessariamen­ te la lotta di classe per incorporarsi nel drammatico far­ si della storia. E’ puramente gratuito affermare che nella lotta di classe sia il carattere e il tratto decisivo d’uno sviluppo storico — mentre invece ne è un semplice mez­ zo — ed è egualmente gratuito affermare che Parte per aderire a questa drammatica trasformazione debba an­ zitutto rispecchiarne una certa sua apparizione pratica e una certa sagomazione politica. L’arte entra nel drammatico trasformarsi del reale come una realtà essa stessa, che è in relazione agli altri processi. Il processo storica non si esemplifica in paradigmi o « tratti decisivi » o « tipicità » e l’arte nor^ coglie l’es­ senziale di un’epoca ma fonda la stessa possibilità di un’epoca nel mondo delle forme, che non sono una sin­ tesi del moto delle forme storiche esistenti nè una ripe­ tizione del loro ritmo, ma una formazione più profonda, una fondazione che investe armonie con la storia, e con la natura, con le relazioni universali degli eventi, con quel­ le lotte e opposizioni di forme, nelle quali la lotta poli­ tica ed economica è solo uno degli aspetti. L’arte in ogni epoca fonda le forme dell’uomo, nel senso che fonda una nuova epoca storica mutando i rap­ porti dell’uomo con la realtà, con la natura, con la sto­ ria. Per esempio (e viene ricordato proprio nel bell’ar­ ticolo del Luporini): « la conquista della realtà spa­

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ziale nelle sue proporzioni evidenti, Venucleazione degli elementi essenziali determinanti di tali proporzioni, fu il problema più importante del 400... Si trattava sem­ plicemente di un problema tecnico? Niente affatto. Si trattava di ben altro, del rapporto uomo-realtà (natu­ rale) e in rapporto ad esso il 400 produsse la figura (e l'ideale) dell'artista scienziato. (Cesare Luporini - art. citato). Ora è chiaro che all’arte spetta proprio questa tra­ sformazione dcll’uomo, dei suoi rapporti organici, in re­ lazione a quelle evoluzioni organiche che sono anche la lotta economica e, in genere, tutti gli sforzi costruttivi e organici dell’uomo, ma in una relazione che non dia ad essi una parte di suggerimento primario o di spinta deci­ siva. L’arte dunque tende a distruggere i vecchi sistemi organici dell’uomo, a riformare i suoi ritmi, i suoi rap­ porti, la sua trama con le cose e con gli eventi.

E’ questa l’opera sempre dell’arte ed è la nozione esatta di « realismo ». E’ questa nozione che illumina l’esatto significato del realismo cinematografico italiano. Non si trattò, e non si è mai trattato, di andare dietro all’apparizione fedele delle cose e non si trattò basilarmente di un’invo­ cazione di giustizia o di un generico invito all’amore, di un naturale cristianesimo o di un naturale socialismo. Si trattò e si tratta ancora di un nuovo rapporto dell’uo­ mo con la realtà storico-naturale, di nuove relazioni umane, di nuove forme organiche e narrative, etiche ed estetiche, attraverso le quali un uomo nuovo vuole affac105

darsi e formarsi con la propria realtà, con nuove dispo­ sizioni organiche.

Crediamo che, come gli individui, le nazioni venga­ no volta a volta, — per una serie di relazioni che in esse si formano, per esperienze che si accumulano — investite della « missione », cioè della vocazione naturale relazionisticamente determinata, di promuovere una « nuova cultura ». Non è naturalmente a caso che le nazioni hanno quella che si può dire la propria « ora storica ». Credia­ mo fermamente che l’Italia abbia, oggi, una simile « vo­ cazione » naturale, che, come tutte le vocazioni, può essere tradita o conculcata. Chi va a rintracciare le origini del neorealismo italiano in una forma di realismo già esistente o vera­ mente chiara nel cinema italiano di prima della guerra, e procura di cogliere rapporti e raffronti con correnti let­ terarie quali il verismo o il naturalismo, dimostra di non comprendere storicamente il neorealismo, proprio men­ tre sembra più teso a una comprensione, appunto, storica. Probabilmente l’esatta collocazione del neorealismo era possibile solo a chi ne sapesse cogliere la forte « carica filosòfica» , la profondità dell’atteggiamento spirituale, che rivoluziona l’uomo con temporaneo. Come mai infatti il neorealismo sarebbe diventato, con una forza esplosiva e una « internazionalizzazione » che trova raffronti solo coi più importanti movimenti dell’arte con temporanea, uno dei momenti di crisi e di evoluzione più acuta della coscienza con temporanea, ricco di influenze e di revisioni per tutte le forme d’arte, se non avesse avuto già in sè

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un’apertura problematica di eccezionale ampiezza e at­ tualità, quale mai altre correnti italiane di realismo e le letterature veriste e naturaliste hanno avuto? L’apertura del neorealismo nella coscienza contem­ poranea c’è stata e ci sarà anche se per avventura il neo­ realismo tralignasse o si estinguesse come forma cine­ matografica. La zona di problemi che ha toccato e le nuove ela­ borazioni formali sono entrate nel patrimonio della co­ scienza con temporanea e vi hanno deposto semi di ecce­ zionale vitalità. Del neorealismo, che è stato un’integrale messa in discussione dell’uomo, non si può parlare in termini pura­ mente cinematografici, in miopi allacciamenti culturali. Il neorealismo è nel terreno vivo dell’arte con tempo­ ranea e nel centro dei suoi problemi molto più di quan­ to un’altra corrente cinematografica abbia mai fatto. Se infatti l’espressionismo e il surrealismo nel cine­ ma — come l’avanguardia francese — sono stati piutto­ sto un fenomeno di ricezione e di passività, e non hanno prodotto una vera messa in discussione, tutto ciò che può essere trovato nelle forme o nelle tematiche del neorea­ lismo, non è una pura ricezione o un ripensamento; è una elaborazione critica.

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CAPITOLO Vili NEOREALISMO E «NUOVA CULTURA»

La « nuova cultura » di cui si può parlare a pro­ posito del neorealismo non è un termine astratto proiet­ tato neH’avvenire, magari con una coloritura di speran­ za. E’, anzi, stata la parabola stessa del neorealismo che, deludendo chi credeva di averlo sistemato teoricamente ha mostrato che il neorealismo sfuggiva di mano a chi non voleva, o non poteva, riconoscerne i problemi di fondo: cioè, indubbiamente, un nuovo concetto di realtà, un nuovo concetto di uomo, di arte, di conoscenza della realtà. Per poco che lo sguardo del critico o del teorico del neorealismo fosse acuto, si avvedeva dell’inadeguatezza di certi schemi e si imbatteva in una massa problematica, in una trasformazione, dolorosa a volte e inconcludente, di « concetti primi », che lo consigliavano di non prendere alla leggera questo argomento. Da ogni parte ci si accorgeva che il neorealismo chiedeva la propria chiarificazione addirittura come chiarificazióne di una visione della vita, come rivoluzione etica. Se, d’altra parte , l’approfondimento razionale del 108

neorealismo era sentito come l’unica possibile evoluzio­ ne e chiarificazione, e quindi una certa analisi « intel­ lettuale » del neorealismo era richiesta, ci si accorgeva sempre più che non era lecito l’abuso culturale su questo movimento, cioè l’invenzione critica oscura, il reperimento di « ascendenze » culturali complicate e astratte, quasi a cercare al neorealismo patenti di nobiltà delle quali, ve­ ramente, non ha bisogno. Il neorealismo infatti — se, con la sua vastità pro­ blematica, rivela la sua esigenza di trasformazione dei « concetti primi » — non poteva, proprio perciò, soppor­ tare sterili complicazioni teoriche, o oziose e artificiose divagazioni culturali. Movimento netto e strenuo, ha il suo compito chiaro, profondo, e non può assolverlo se indugia a contemplare certe sue pretese somiglianze con la tragedia greca o col romanzo picaresco. Non diciamo che la collocazione sto­ rica del neorealismo sia inutile, diciamo che non deve te­ nere il posto di una profonda collocazione « contempo­ ranea » e, soprattutto, non deve sconfinare nell’abuso e nell’invenzione critica, spesso disonesta e interessata. A proposito del neorealismo, l’impresa più rischiosa sarebbe quella di tentare una delle avventure intellettua­ listiche che — come per Chariot — hanno corroso e ador­ nato spesso inutilmente i più importanti eventi artistici del nostro tempo. Nè si tratta, per il neorealismo, di ricevere squil­ lanti e smaglianti investiture verbali, come quelle che i pittori cubisti ricevettero a suo tempo da un poeta co­ me Apollinaire. Non c’è bisogno, a scaldare i cuori, di altra poesia sul neorealismo, ma di approfondimento strenuo, serio, strettamente razionale, delle prospettive

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■e dei problemi che ha trattato. Queste prospettive e questi problemi hanno risuo­ nato — tranne rari casi — più fiocamente nel neoreali­ smo letterario italiano, che ha assai poco da spartire con quello che si è levato, originalmente, nel cinema. Nella letteratura, a troppo stretto contatto con certo preteso accademico e purismo della parola lirica ci si perse — per sfuggire a un certo « tempo » troppo confessionale e diaristico (dimenticando la profonda importanza uma­ na e esistenziale della lirica per esempio di un Ungaretti e di un Montale) nel « tempo » del più dimesso incontro con la cronaca, con lo scandirsi crudo di certe « durate » dei fatti che erano raggiunte come un’evasione cieca dalrinterno all’esterno, e non servivano a ricostruire la com­ plessa immagine della realtà. Troppo carica di paure auto­ critiche, troppo serrata da complessi di colpa, la lettera­ tura neorealista sfuggì al morso del più profondo impe­ gno realistico temendo forse la retorica delle grandi pro­ spettive e evitò i « personaggi » temendo di trovarsi di fronte agli « eroi ». Non si può riscontrare nella letteratura la complessa scoperta umana e filosofica che ha costituito il cinema neorealista.

Non è presunzione il parlare a proposito del cinema neorealista di una rivoluzione etica e estetica, di idee nuove che non possono essere collocate nelle vecchie ca­ selle filosofiche. Soltanto gli sciocchi possono ignorare la spinta etica e le scoperte del cinema neorealista — implicite nella sua forma filmica — e non bisogna fer­ marsi a certi generici appelli umanitaristici di talune

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formulazioni teoriche o ad alcuni aspetti di evangeli­ smo a buon mercato che appesantiscono sequenze neo­ realistiche. Queste scorie hanno fatto dire a taluni che il neorealismo scambia un tiepido comunitarismo per una socialità, ma films come «Paisà», «Umberto D », «La terra trema», bastano a mostrare l’inquietudine etica c le scoperte vere del neorealismo. C’è un aspetto della socialità umana, un aspetto coesistenziale, « continuo » (cioè quotidiano, anche pri­ vato) che a un certo punto il neorealismo (soprattutto nell’opera, spesso incompresa di Zavattini-De Sica) ha centrato con indiscutibile esattezza, e questa è una zona che, mai separata da quella « pubblica », si può dire una vera acquisizione del cinema neorealista. Un film come « Il ritorno di Vassili Bortnikov » di Pudovkin — col suo recupero della zona esistenziale della socialità — sembra fatto apposta per dar ragione al neorealismo italiano. E’ certo che queste sue sonde etiche non possono andar disgiunte da un totale esame del processo etico della società umana in questo momento storico, e può darsi che questa necessaria vastità di prospettive sia sta­ ta talvolta dimenticata nel fervore di scoperte partico­ lari, ma è certo che quella prospettiva coesistenziale, « con­ tinua », è un esempio — fra i tanti — della singolare, feconda esplorazione etica del neorealismo. Ma è quello che esamineremo più a fondo in uno studio particolare.

Ascendenze teoriche del cinema neorealistico se ne possono trovare innumerevoli, e proprio nello stesso cam­ po italiano.

Ili

Ma certi fermenti morali, gobettiani, o la suggestione del « dialogo » di Calogero, o, prima ancora, la « aper­ tura » e il comunitarismo di Capitini, fino a certe pero­ razioni dell'Esistenzialismo positivo, arrivando fino alla « relazione » di Paci, fino all*« amore » di Spirito, di­ stano poi dai fermi risultati del cinema neorealista, e così pure le tematiche che, nel neorealismo, potrebbero affascinare un Sartre, un Marcel, perfino un Heidegger. Tutto ciò che, sul tema dell'alienazione, dell’alterità, della solitudine, della comunicazione, della comu­ nità, dice, nelle sue poetiche forme, il neorealismo, non può non richiamare quelle lontane pagine e non far ten­ dere l’orecchio a chi, nel campo del cinema, abbia con esse dimestichezza, ma come negare che il cinema neorea­ lista fa reperire, nelle sue forme, molto di nuovo, di più? E non è possibile ignorare la fortissima, importante in­ fluenza che la cultura marxista — nello stato in cui era allora — (un po’ ermeticamente) — contrabbandata e propagandata in Italia, ha esercitato su quei fondi etici, morali, talvolta moralistici, su quei vaghi spiritualismi astratti. Si può dire che il più importante correttivo e il più utile zavorramento realistico affidato al nascente cinema italiano sia stato il merito della cultura marxista: ad essa spetta di aver così criticamente snellito, acuminato, quel mondo liberal-esistenzialista che pure ribolle nel suo fondo, o il generoso se pur generico anelito cristiano. Ma, detto questo, e riconosciute le profonde e in­ trecciate relazioni culturali del neorealismo, che sono poi quelle della cultura’italiana di oggi, avremmo senz'altro negato il neorealismo se lo definissimo il semplice terreno d’incontro di varie direzioni culturali, senza una sua suf119

fidente forma, che critichi, inveri, e soprattutto sollevi ciò che contiene. Molti degli attuali « eclettici » della esegesi neoreali­ sta quando parlano della confusione ideologica del do­ poguerra, che ha dato modo di far convivere nel neoreali­ smo tendenze e idee così varie, sono, puramente e sem­ plicemente, dei negatori del neorealismo. Diciamo infatti: o c’è stato, e c’è, il cinema neoreali­ sta, e allora quelle varie ascendenze e tendenze son viste da un nuovo punto di vista, e convergono verso una nuo­ va cultura, o ci sono state solo quelle tendenze, in un luogo d’incontro provvisorio — genericamente detto «neorealismo», che meglio sarebbe chiamare, allora, « atmosfera del dopoguerra ».

E chi invece si affanna a chiudere il neorealismo in una sola ascendenza isolata (cristiana, o marxista pura), come può difendersi dall’esame dei fatti, e non accor­ gersi dei risultati distruttivi ai quali arriva? Chi tende a simili ferocie culturali non riesce, alla fine, che a stringere poco o nulla in mano, qualche nome e anche ingiustamente. Dimostra — alla fine — di non avere nulla a che fare col neorealismo stesso, che chia­ merà « realismo socialista » da una parte; dall’altra, in­ vece, dimostrando una incomprensione anche più radi­ cale, si affannerà a negare semplicemente il neorealismo, adducendo come pretesto la sua incompletezza realistica, visto che esclude la trascendenza!

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L’esame franco e spassionato dei maggiori films neo­ realisti ci conferma, invece, la nostra tesi principale: ag­ ganciato evolutivamente a una vasta problematica contem­ poranea (in un doloroso movimento di superamento del­ l’idealismo, nei suoi accesi e annessi dialoghi tra esi­ stenzialismo e marxismo) il neorealismo esiste di per sè, come forma feconda e nuova, ben distaccata e distan­ ziata dal realismo socialista come dall’edificazione agio­ grafica e trascendentistica, e da ogni altra forma di rea­ lismo già esistente nella letteratura e nel cinema.

Sarebbe assurdo, in una ricostruzione delle origi­ ni storiche del neorealismo, non rintracciare le sue com­ plesse motivazioni culturali e sociali e non scoprire i ricchi fermenti culturali e politici che presiedevano alla istanza progressiva anche prima della guerra fascista; d'altra parte è inesatto far scaturire il neorealismo da un lento approfondimento di motivi e germi già vivi nella parte progressista della società italiana dell’anteguerra. Una simile tesi, evoluzionistica e conseguenziaria, paci­ fica e, in fondo, ineluttabile, col retrodatare l’origine neorealistica, sembra voler misconoscere quella generale e profonda « apertura > che si costituì in Italia nel periodo della Resistenza; « apertura » che ha dato luo­ go a scoperte originali e formulazioni rivoluzionarie, le quali, pur potendo certamente essere collegate in un ampio discorso culturale e sociale a certe esperienze del­ l’anteguerra, a quella commovente e vaga di Pavese, a quella altissima di Gramsci, non ne sono il logico, fatale

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e necessario sbocco. Cioè: il neorealismo tocca latitudini più vaste di quei complessi annunci, investe un momento e movimento assai più complesso e, se non può venir colto appieno che in una così generale storia della cultura e della società italiana, deve peraltro estendere ancor più il suo raggio di derivazione. Così è opportuno considerare il momento particola­ re della Resistenza, e il suo spirito spesso travisato, per comprendere il tono profondo del neorealismo, e il terreno su cui ha potuto germinare la sua scoperta. La Resistenza, che, del resto, è il più alto momento spirituale della storia, non solo italiana, ma europea del nostro secolo, meriterebbe davvero un’analisi profonda, che qui può essere solo accennata. E si vedrebbe che la Re­ sistenza non è stata soltanto la sagra di una provvisoria unità, nell’entusiasmo livellatore di varie idee impegnate in una lotta comune, ma, insieme a ciò, anche un fatto nuovo, semplice, di per sè valido, ricco di « depositi » spirituali ben caratterizzati. Una storia della Resistenza nei nuovi rapporti con la cultura è, oggi, da tentare. Una simile storia troverebbe esempi anche altrove; per esempio è ancora da definire la complessa legatura di relazioni che corrono tra la Resistenza francese e la cultura parigina del dopoguerra, fino alle note così inquiete e vive di un Sartre. E la profonda differenza che corre fra la Resistenza italiana e la Resistenza francese potrebbe anche orientare felicemente sul carattere che, col neorealismo cinemato­ grafico, incomincia a scolpirsi nell’aria italiana. Se è vero che la Resistenza italiana è stata preva­ lentemente caratterizzata dal venire all’azione di sempre più vaste masse popolari, non si può risolvere tutto il

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suo carattere in questo impetuoso soffio risorgimentale, nè rifiutarsi di analizzare la nuovissima esperienza nella quale tale movimento fu subito immerso, e il carattere ideologicamente complesso che vi portarono quegli in­ tellettuali italiani, di varia provenienza culturale, che compirono in essa sino in fondo una vicenda spirituale e intellettuale che doveva lasciare le sue traccie.

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CAPITOLO IX

NEOREALISMO E «GIUDIZIO DELLA REALTA*»

Non ci può essere neorealismo se non c’è giudizio della realtà, ma va notato che questo giudizio della real­ tà, naturale al neorealismo, esprime la scoperta, senza pregiudizi, del moto vivo del reale, del senso dei suoi processi, di quel nuovo, complesso movimento che si for­ ma e di cui ogni evento è pregno (1). Il giudizio neorealistico della realtà è, dunque, non un giudizio « sulla realtà » ma, veramente, un giudizio « della realtà », cioè non una prospettiva ritagliata a pro­ posito della realtà, ma il senso dinamico della prospet­ tiva reale, nelle complesse relazioni in cui tale prospet­ tiva sta con le altre. Il grande amore del neorealismo per le prospettive storicistiche, che si configura poi sempre nei suoi stessi atteggiamenti ritmici, esprime questo inserirsi dell’opera neorealista nei sensi e nei movimenti della realtà. Giudizio come assecondamento dinamico, dunque, (1) L’implicanza di neorealismo e giudizio realistico è stata so­ stenuta acutamente da Luigi Chiarini con una funzione di notevole importanza nella critica italiana.

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giudizio come partecipazione al processo di formazione di una cultura, legato al formarsi di una nuova società, giudi­ zio che implica svolgimenti nuovi alle forme e agli eventi, e si pone come impegno storicistico ed evoluzionistico. Ma questo « giudizio » della realtà presente nel puro neorealismo non è una tesi o un punto di vista eterno sul mondo umano; piuttosto, è la presa di coscienza e di possesso di un certo complesso « senso » del reale, di certe forze e sviluppi presenti nelle forme storiche e ne­ gli eventi sociali. Non si tratta, quindi, per il neorealismo di eleggere ciò che è più reale, separandolo da ciò che è meno reale, ottenendo questo per un sapere preconcetto che dia chiaramente la distinzione tra realtà e irrealtà, ma si tratta di cogliere sul cammino stesso formativo della nuova società, nel suo complesso gioco interno, la scala di valori della realtà. E’ un giudizio, quindi (quello dell’opera neoreali­ stica,) che non parte da un sapere metafisico, che non si saprebbe come sostenere, o da una norma ideale assoluta, ma, prospettiva della realtà, suo « senso », formatosi nel­ la realtà stessa, questo giudizioo si impone all’artista come norma dinamica dello stesso sviluppo reale, non isolabile in un archetipo unitario intuibile nel processo stesso. Il giudizio neorealistico della realtà è il risultato di una felice rinuncia; la rinuncia agli accostamenti pre­ giudiziali alla realtà, la felice spogliazione da tratti me­ tafìsici che si vorrebbero reperire nel fondo della realtà, come « ritmi portanti », sterilmente preconcetti e imma­ ginari. Così, l’avvicinamento del neorealista alla realtà è, anzitutto, una rinuncia al giudizio preconcetto, al giudizio teleologico e metafisico; è — quasi come nel con­ 118

cetto heideggeriano di « verità > — un « lasciar essere Tessente per quelTessente che egli è». Ma cos’è Tessen­ te? Qual’è la realtà pregnante da scoprire, e di cui il giu­ dizio neorealistico significa un momento dinamico? L’essente non è un tratto isolato: partecipa al mo­ vimento storico di cui reca in sè relazioni formative. La realtà pregnante, il processo da assecondare e scoprire, è, dunque, ciò che suscita il « giudizio » neo­ realistico.

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CAPITOLO X

IL PROBLEMA DEL < TIPICO > ARTISTICO

Il collegamento tra un contenuto positivo rivolu­ zionario (vita, società, storia) e la forma che lo riflette viene, nella teoria marxista più accreditata — nel Lucàcs sopratutto — richiesto come indicazione di « tipi­ cità » nella forma; cioè, il contenuto rivoluzionario, de­ ve essere riconoscibile nella forma, rintracciabile intel­ lettualmente nella forma. La teoria marxista, l’Estetica (appena nascente) del­ lo storicismo materialista, nega che una qualsiasi « intui­ zione sensibile » del movimento storico rivoluzionario possa consegnarsi nella forma, se questa forma non svela chiaramente (e, appunto, traverso la sua intellettuale riconoscibilità nel « tipico ») il suo collegamento col contenuto rivoluzionario. Secondo lo storicismo materialista la forma, pur coi suoi caratteri sensibili, deve recare collegamenti di­ stintamente razionali col contenuto rivoluzionario. Solo così la forma metterà in moto tutto Tuomo, recando in sè, « discriminatamente », caratteri sensibili e chiari tratti razionali. Solo traverso il « tipico », per lo storicismo mate-

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rialista, la forma dà voce a tutto l’uomo (senza disperde­ re i collegamenti razionali e sensibili in un puro intui­ zionismo sensibile, in cui il carattere razionale si debba rintracciare solo come generica , quelle figure attonite, fruste, dimesse, fino alla « nota alta >, stupendamente riuscita, dell’apparizione dei quat­ tro uomini in nero che portano il ferito. In immagini come queste — chiuse in bianchi e neri di estremo rigore tragico — qui più che altrove la composizione visiva è perfetta — si afferma la straordi­ naria forza rosselliniana, come poco dopo, nell’immagine della damigiana d’acqua che, tirata dalla corda, si muove da sola nelle strade deserte (in quel vuoto che ripetendosi in fitti contrappunti fornisce ormai la musica dolorosa del­ la città) il realismo acquista subito una risonanza lirica estrema, pur rifuggendo da ogni simbologia intellettua-

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listica. Poco dopo, sarà ancora nella fucilazione del « cec­ chino » fascista (la macchina è puntata contro terra sull'uomo che scalcia all’impazzata finché esplodono le fucilate) che si impone un altro saggio della forza recisa, estrema della visione rosselliniana. Egli arriva sempre a vedere le cose come spoglian­ dole d’ogni mediazione o attenuazione, scoprendo certi angoli di visione che, in certo senso, non erano mai affiorati nel cinema. Bisogna riconoscere nella visione rosselliniana di < Paisà » l’insorgere d’una visione che Fuorno non aveva ancora osato. L’obbiettivo rosselliniano non ha falsi pudori ma nemmeno indugia nell’orrido o nel macabro, che sareb­ bero stati nuove mediazioni e, in fondo, attenuazioni. « Paisà » compie il miracolo di sagomare in netti, dure­ voli termini artistici, apparizioni di verità che ci impe­ gnano fortemente nel mondo, dentro le cose, senza con­ cederci metafore o veli illusori, stimolando in noi come il sorgere d’una nuova partecipazione, di uno stupore anche orrificato, ma serio e queto. Traverso films come « Paisà > sentiamo tendersi in noi un richiamo a forze che non eravamo abituati a riconoscere, che non sapevamo di possedere. Sono le forze di una partecipazione alle lotte e ai dolori del mondo, un virile insorgere di dimensioni della verità che non conoscevamo, che non sapevamo vedere in modo tanto netto. Si reagisce violentemente, in un’ondata purificatrice, a queste scoperte, ci si accorge che non sapevamo ancora guardare nel mondo in modo tanto franco. Ci si accor­ ilo

ge di entrare — traverso films come « Paisà » — in pos­ sesso di una « visione » che non avevamo mai avuto, e che corrisponde al fondarsi in noi d’una nuova umanità.

E’ una prova della fusione, non rapsodica ma puris­ sima di misura narrativa, di « Paisà », fra l’altro anche l’aprirsi, nel sonoro, dello stupendo coro di campane del­ l’episodio del convento, dopo le voci tragiche che si chiu­ dono su Firenze. La coerenza con la quale questo episo­ dio, tutto apparentemente di pace, si insinua tra i due « fortissimi » dell’episodio di Firenze e di quello di Comacchio — che sono le massime riuscite tragiche di Ros­ sellini — non è soltanto nella necessità di un’alternanza di « piano » e di « forte ». Secondo noi la presenza dell’episodio nel Convento in Romagna riesce a mostrare che la pace, appena ricom­ posta negli animi e in certe terre (l’onda della guerra ritirandosi di là dalla « Linea gotica ») può essere su­ bito interrotta dal ricomparire d’una più strana guerra negli animi. L’episodio del Convento di Romagna — che ci sem­ bra non essere mai stato compreso veramente in un rap­ porto critico collaudato dal testo, è uno dei più « dialet­ tici », dei più critici di «Paisà». Alla «tesi» di quei cappellani militari, un cattolico, un protestante, un israelità, che — carichi ancora del patimento di guerra — chiedono ospitalità al convento, si oppone l’« antitesi » di quel gruppo di frati per i quali la notizia della presenza dei due « infedeli » scatena un’irrequieta, stranissima, dol­ cissima guerra (e il ritmo rosselliniano, in quelle corse per i corridoi, in quella notizia portata, con velocità da terzini, di scala in scala, raggiunge un’eleganza, un « di151

vertimento »). Ma fin dall’inizio, la visione rosselliniana sgombra il sacro luogo d’ogni retorica e reperisce verità realistiche abbastanza nette e talora pungenti. Si noti comunque la serenità estrema di tale « visione », che fin dall’inizio ac­ cumula notazioni che diremmo positive su altre negative. Quel coro di campane, con un senso di vallate e di pascoli intorno, sembra promettere un’abbondanza divi­ na di pace, ed ecco le stupende inquadrature dei frati inginocchiati a ringraziare per gli scampati pericoli, con tutte quelle galline intorno, poi quelle evoluzioni nei corridoi, quei riti quasi, quel ricomporsi lento di un bal­ letto di secoli. Rossellini non teme di farci vedere questo senso un po’ irreale, da balletto, non ha la minima ombra di falsa devozione, dice, come sempre, le cose come stan­ no, e nel viso del padre superiore che scrive al Vescovo, tenendo la lingua fra i denti come uno scolaretto, nella espressione un po’ melensa e gretta (ben servita dalla voce, qui involontariamente umoristica del suo doppia­ tore Ninchi) affiora senza reticenza il giudizio che l’auto­ re ha dato. Naturalmente c’è anche una notevole bonarietà in queste scoperte; c’è, ripetiamolo, un dire tutte le cose come stanno, al posto loro, ma la tipologia di Rossellini qui parla per lui : sono visi « umani, troppo umani » ; Rossellini ne scopre senza timore mentale, quel senso di scuoletta, di piccolo « clan » primitivo. Si capisce, in questo convento, così come l’ha visto Rossellini — che nelle campagne italiane fare il frate è una soluzione come un’altra e — senza portare a mistificazioni, non impegna minimamente forze più interiori. 152

Questi « contadini-frati » sono insomma visti molto realisticamente, e tutte quelle reazioni psicologiche, (fi­ nemente seguite), all’arrivo dei cappellani americani (di­ sagio. curiosità, imbarazzo, timidezza) e quegli inchini ripetuti, quelle formule, accentuano l’aria di scoperta rea­ listica che c’è nell’episodio. Scoperta che — senza pre­ tese iconoclaste — è pur densa di una tenera ironia — e ci conferma che Rossellini ha voluto soprattutto vedere in quei frati i lati veri, quelli umani. Accenti bellissimi sono nelle notazioni sulla curio­ sità dei frati (il frate giovane, col viso da luna piena, che ha per un attimo la tentazione di provarsi uno degli elmetti dei cappellani) o sulla loro tirchieria, o sulla loro povertà. Molto belle certe battute, come tutte quelle del frate cuciniere ( con quell’insistere dialettale su certe parole come « broccoletti, mentuccia, patatine ») e poi — quando, correndo, un frate porta in cucina i barattoli offerti dai cappellani, c notevole tutta la sequenza della cucina — con quel « primo piano » del frate che guarda il latte con un’espressione di golosità candida, e quel conchiudere sulla battuta del cuciniere, sul suo gesto popolaresco: «Sorbole!». Si può dire che la sequenza più bella nel convento è quella della cucina — di sapore realistico — e sempre umoristica — con quell insistere, ripetiamolo, su battute che hanno una freschezza incantevole. Ma appena si dif­ fonde la notizia della presenza degli « infedeli » (abbia­ mo già citato le stupende sequenze delle corse nei corri­ doi, e quei frati che si inginocchiano a pregare dovunque si trovano) l’episodio prende le dimensioni originalmente parodistiche che covavano, e il realismo della presentazio­ ne del convento giunge a scoprire in quei frati un fondo 153

magico-superstizioso pieno di candore, ma anche di gra­ vità, di colpa. Il significato profondo dell'episodio è — dopo quel coro di gonfie campane, dopo tutte le indicazioni di mi­ tezza, di predestinata pace nel convento, fra quei frati, dopo quel ritorno di quiete — nel riformarsi ingiusto di profonde distanze fra gli uomini, in una specie di nuo­ va fermentante guerra — sorniona e inerme ma non perciò meno pericolosa. Da tutto l’episodio — per com’è condotto — e anche per la vigorosa recitazione, convin­ centissima, dell’attore Tubbs — che impersona il cap­ pellano cattolico — appare che tutta la bonaria ironia realistica iniziale sfocia nella scoperta di questa occulta e ottusa — magico-superstiziosa — insofferenza religio­ sa dei frati. Il sincero sentimento e nucleo poetico dell’episodio — che Rossellini sa far vibrare con commozione — è in un anelito verso una pace senza divisioni fra gli uo­ mini, piena di rispetto, di comprensione. Ripetiamolo — tutto l’episodio è soprattutto centrato — con una funzione umanissima — sulla figura del cappellano cat­ tolico che — nel suo parlare di amicizia di rispetto — è quella cui sono affidate le vibrazioni più vere, mentre il resto — dell’episodio — è solo la descrizione della « pic­ cola guerra » intestina, e quasi clandestina, che è scop­ piata nel convento. Il senso dell’episodio, di un richiamo a un’amici­ zia, a una fratellanza, si consegna per un attimo in pie­ na luce, quando il cappellano cattolico e quello prote­ stante cantano insieme sul vecchio organo, e bisogna notare l’estremo pudore di quella commozione subito riassorbita.

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Dopo le coraggiose e oneste parole del cappellano cat­ tolico (il cui concetto è : « sono amici, non li giudico ».) quel crocchio di frati sofisticanti è mostrato senza più bo­ narietà come un cerchio di farisei, e la preghiera, sulle pa­ role: « la mia anima è triste fino alla morte », viene da Rossellini — (con un effetto identico a quello poi ripreso in « Germania anno zero », quando la voce di Hitler dal disco si diffonde per i corridoi della Cancelleria,) porta­ ta, con un intelligente uso del sonoro (anche se un po’ didascalico) — sui corridoi vuoti. L’effetto di queste parole di Cristo, portate, in certo senso, così, « contro » il convento, rivela chiaramente le intenzioni dell’autore, o almento il risultato da lui raggiunto. Così, alla fine, il discorso del cappellano che loda la pietà e la mitezza dei buoni frati, i quali digiunano per invocare da Dio la luce su quelle anime smarrite, non riesce a riportare l’equilibrio dell’episodio dalla lo­ ro parte e suona come una commossa commiserazione, nè annulla le scoperte realistiche che sono state fatte, nè dissipa — pur nella riconquistata mitezza — quel senso di ottusi pericoli e incomprensioni — in un’atmo­ sfera magico-primitiva, fortemente dialettizzata dalla pre­ senza dei tre cappellani — che l’episodio indica tra gli uomini, e con un bersaglio concreto.

Tutto l’episodio delle paludi di Comacchio è un grande « epos » della morte e della solitudine, realizza­ to con un’originalità narrativa ricca di significato. Non è senza motivo che le prime immagini dell’episodio siano quelle del partigiano morto che scende la corren­ te mentre la folla dagli argini segue e sta a guardare. E* impossibile descrivere o significare degnamente 155

la forza di questa immagine estremamente tragica; quel « campo lungo » tutto occupato dalla corrente che rotola ampiamente e quel corpo portato via, sotto il cartello da beccherìa : « partigiano ». Ma subito, senza insistere neH’immagine, che — co­ me al solito — è spiccata in un angolo di visione estre­ mamente semplice e crudo, che non permette alcun abu­ so interiore o un’orlatura retorica, il racconto passa sul barcaiolo che, nostante il pericolo della fucilata, va a prendere il corpo del compagno e lo libera dal cartello. Anche qui (in un passaggio narrativo che per esem­ pio in un film americano, o in certi films italiani, avrem­ mo visto inabissarsi nella retorica) la commozione mag­ giore è data da quella lenta barca che pellegrina tra le canne, e da quel barcaiolo col passamontagna: c’è una pietà estrema, un amore totale, in quei lenti movimenti ostinati fra la desolazione del paesaggio di canne, quasi dissolto nella nebbia e nel cielo basso. Tutta l’apertura dell’episodio è tenuta da questa cerimonia di pietà, espressa nel più pudico dei modi, e in quella solitudine enorme, torpida (forse la più so­ lenne nebbia del cinema, che ci riscatta dai molto let­ terari fumi di « Quais de brumes ») si noti l’accento che prende il momento della tumulazione, con quegli ingle­ si che parlano in « primo piano », quasi indifferenti, mentre la tumulazione avviene in «campo lungo». Anche qui Rossellini non fa della polemica, ma sfugge alla falsificazione d’un compunto circolo, inglesi compresi, magari con discorsi funebri. Bisogna notare la maggior forza data da questo « campo lungo », dal silenzio in cui avviene la tumula­ zione, con gli inglesi chiappieranti in p.p. che sono, in.

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certo senso, asincroni. Rossellini ha qui come altrove, veramente espressa il suo realismo nel riferire queste sfasature, queste la­ cune, queste distanze delle vite. E' per questo che la sua opera ha tanta importanza in un paese come l’Italia dove — per influenze classicistiche — predomina la « legatu­ ra > ipocrita e umanistica. Le inquadrature, assai spesso realizzate con la mac­ china bassa o addirittura a terra, sembrano sovvertire una regola tradizionale del cinema (in realtà una re­ gola assurda) in quanto non « eroicizzano » i personaggi ma anzi li distaccano in un incastro con l’ambiente, col cielo, con le canne, che è uno dei risultati poetici di questo « epos » senza eroi. 1 discorsi semplici, i visi dei contadini-partigiani, che fanno la guerra come se compissero un lavoro agri­ colo, sono un altro dei risultati poetici dell’episodio. Questa è la sua tonalità più pura. Bisogna, ora che sia­ mo alla conclusione del film, riconoscere la profonda nitidezza con la quale Rossellini ha espresso la poesia del popolo italiano, nei suoi elementi più sinceri, in una serie di volti e di gesti indimenticabili.

Una buona metà dell’episodio è girata di notte (il film si apre e si chiude nel buio più fitto, e sui corpi dei giustiziati, Carmela Sazio nel primo episodio, e i par­ tigiani nell’ultimo) e si può dire che Rossellini abbia vera­ mente creato un « tono » notturno — antiromantico e tanto più terribile. Quelle voci di partigiani che si chia­ mano nel buio (e se ne ricorderà Visconti per i richia­ mi notturni dei pescatori in « La terra trema » ) e soprat­

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tutto il buio impenetrabile, la notte totale, una vera « notte dell'anima » attorno al pianto del bambino sui cadaveri della famiglia massacrata dai tedeschi. Ma la novità altissima dell’episodio è nel ritmo del racconto, cioè nell’abolizione dei nessi tradizionali tra i fatti. Rossellini approfondisce qui inconsapevolmente una nuova idea della storia, che sfugge a ogni « provvi­ denziali tà » e ad ogni ritmo logico. Egli mostra che i fat­ ti accadono e si susseguono senz’ordine, senza nessuna norma metafisica che vi stia dietro. Per esempio l’improv­ viso « arrivo » narrativo dell’immagine dei contadini mas­ sacrati sembra strapparci ogni nostra illusione di pre­ vedere, di capire, di spiegare. Agisce così pure, in genere, il salfo tra le varie « trame ». E’ in questo rompersi di cer­ ti nessi modulativi la forza e modernità del realismo rosselliniano, che è forse più nel racconto che nelle sin­ gole immagini. Viene tolta allo spettatore (che rimane spesso, veramente, « senza fiato ») una certa abitudine di graduare e disporre i fatti. Rossellini scopre una « lo­ gica delle cose ». Riferisce tutti i bruschi salti, le sor­ prese, le lacune, le assurdità dello svolgersi dei fatti e del loro intrecciarsi.

Questo accade soprattutto nel finale — che è forse il finale più « moderno » dell’arte italiana contempora­ nea nelle sue forme musicali, poetiche o narrative. E’ un finale senza cadenza, quasi sospeso, di una originalità terribile. Dura una stessa inquadratura, con la macchina pun­ tata verso il basso, sul filo dell’acqua e si ripetono, egua­ li, monotoni, i tonfi dei corpi dei partigiani gettati, con le mani legate, nell’acqua.

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Nient’altro; solo questa terribile « durata », questa fonda ripetizione, questa inclinazione in basso della mac­ china, davvero inusitata per un « finale », e il rinchiu­ dersi dell’acqua sull’ultimo corpo. Poi, come all’inizio del film, la rozza epigrafe della voce dello « speaker », che qui riferisce quasi frettolo­ samente le « notizie » della cronaca storica, e annuncia la liberazione dell’Italia. In questo terribile finale, su questa specie di suggello negativo, le parole sembrano immerse in una voluta « asincronia » col resto del film.

FINE

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Conoscenza del­

IV - Conoscenza dell'uomo . V - Il nuovo romanzo

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Parte terza: Il neorealismo e Veste­ tica. Cap. Cap. Cap.

Cap. Cap Cap.

Cap.

Cap.

VI - Neorealismo e problemi d’estetica....................................... » VII - Realismo e « tipicità ». . » Vili - Neorealismo e « nuova cul­ tura >........................... » IX - Neorealismo e < giudizio del­ la realtà >....» X - Il problema del < tipico artistico > » XI • « Ideale » realistico 0 « scuo­ la » realistica? ...» XII - I risultati poetici del neo­ realismo .... » XIII - Il capolavoro del neoreali­ smo: < Paisà ». Analisi . . »

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