L’architettura del realismo critico

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Sagittari Laterza 142

© 2004, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2004

Vittorio Gregotti

L’architettura del realismo critico

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2004 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7309-9 ISBN 88-420-7309-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Il reale non è nulla in senso assoluto; esso ha l’essenzialità di qualcosa che per principio è soltanto intenzionale. Edmund Husserl Idee per una fenomenologia pura (1913)

Un mondo è una totalità di senso [...] un posto che rende possibile esserci. Un mondo è, almeno potenzialmente, qualcosa di simile ad un’opera d’arte, è il luogo comune di un insieme di luoghi, di presenze e di disposizioni per dei possibili aver luogo. Jean-Luc Nancy La creazione del mondo, o, La mondializzazione (2002)

Scrivere è mettere ordine. Ingeborg Bachmann In cerca di frasi vere (1989)

Premessa

L’espressione «realismo critico» è stata, in questo ultimo secolo, più volte evocata. Basta ricordare il manifesto dei sei filosofi americani Saggi sul realismo critico, del 1920; le discussioni sul realismo «scientifico» (Feyerabend) o «metafisico» (Popper), o sul «realismo critico borghese» di molti testi di ispirazione marxista. Ma, soprattutto, è al centro di un celebre saggio di György Lukács, Il significato attuale del realismo critico, del 1957. Il senso che nel mio testo attribuisco a questa espressione mi sembra essere assai più frammentario, e certamente meno polemico nei confronti della prima avanguardia, rispetto alla ossessione della totalità e di un progetto della storia che è componente essenziale della grandezza di Lukács e che oggi trova difficoltà a instaurarsi. Il problema che sarebbe qui importante porsi – ed è ciò che cercherò di fare – è quale sia la condizione del realismo critico nella società non più borghese (nel senso weberiano del termine) e non socialista, quale è quella dei nostri anni, naturalmente utilizzando questi termini con una latitudine che può essere ampiamente discussa. Più di recente, nel 1984, il dibattito sul realismo è ben riassunto, da un diverso punto di vista, nell’antologia Livelli di realtà, curata da Massimo Piattelli Palmarini, che già nel tito-

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Premessa

lo vuole mettere in evidenza come le diverse filosofie della scienza guardino alla nozione di realtà, stabilendo mappe giustapposte, nello stesso tempo guide e interpretazioni consciamente parziali. Il «nominalismo» di Nelson Goodman si confronta qui con il «realismo critico» di Hilary Putnam. Particolarmente importante per me è poi, in quel volume, il testo di Italo Calvino, la cui «traduzione architettonica» è contenuta nel capitolo Io scrivo che Omero racconta del mio libro del 1994, Le scarpe di Van Gogh. Un ringraziamento speciale devo ad Edoardo Sanguineti e a Cesare Segre per aver pazientemente letto, corretto e discusso questo testo; a Daniele Del Giudice e a Guido Morpurgo un grazie per i loro consigli.

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La parola «realismo»

Tra soggettività e oggettività La parola «realismo» è oggi guardata nel mondo delle arti con un certo sospetto. Nell’ultimo secolo, essa si è caricata, per un verso, di un significato conservatore, antimoderno, antisperimentale, persino di una sorta di ingenuità, di una semplificazione nei confronti della complessità del reale e della incertezza delle sue prospettive, così come sempre più si manifestano. Per un altro verso, la parola «realismo» sembra esortare a una praticità utilitaristica, a un adattamento empirico e persino cinico alle condizioni di produzione, di consumo e di potere che caratterizzano la nostra società – che si vuole globale nonostante l’allargamento delle differenze delle condizioni di accesso al benessere –. Il «realismo» ha inoltre dato luogo nel XX secolo a malintesi e confusioni, a strumentalizzazioni ideologiche ma anche ad appassionanti dibattiti sul senso delle sue possibili interpretazioni, dibattiti che testimoniano la complessità ma anche la vivacità dei suoi significati. È ben noto che la discussione su che cosa sia la realtà e quale relazione essa abbia con la conoscenza oggettiva e soggettiva è questione che coincide con la storia stessa delle discipline filosofiche, così come è noto che le opinioni su tale questione sono molto diversificate. Anche per gli uomini di

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scienza ci sono molte, diverse mappe della realtà prodotte dalle condizioni storiche delle società e dalle stesse concezioni scientifiche a esse connesse. Che dire poi dello straordinario sviluppo della conoscenza e della soluzione dei nodi della realtà che la virtuosa collaborazione con il pensiero matematico ci ha consentito negli ultimi tre secoli? Alcuni affermano che vita e società umana costituiscono una totalità oggettiva rappresentabile nelle sue strutture o nei suoi eventi, altri ritengono che sia solo possibile rappresentarne frammenti parziali e provvisori. Resta ancora aperto il problema centrale di come noi percepiamo la realtà, se esista una contrapposizione rigida tra coscienza e oggetto, in che modo ragionevole ed etico si costituisca in noi un’immagine del mondo1. Per altri ancora, la realtà è tanto complessa e mutevole che di fatto ciascuno la parzializza (e persino la falsifica), più o meno consciamente, attraverso gli strumenti della scienza, della magia, del lavoro, della convenienza e dell’informazione e della stessa ideologia, per poterla in qualche modo rendere operabile. Vi è anche chi pensa che la realtà sia inconoscibile, o, ancor più, «l’inconoscibile», al di là del linguaggio che nomina le cose, e che su di essa si possano solo fare congetture o tacere, e vi è chi individua in qualche forma strutturale (la lotta fra le classi, l’economia, la conquista del paradiso o quant’altro) la dinamica che muove la realtà storica e a essa fa riferimento per rivelarsi e agire: vi è persino chi pensa che siano semplicemente i mezzi e le loro mutazioni a definire il nostro rapporto con la realtà. Nell’ultimo ventennio si è anche diffusa l’espressione intrinsecamente contraddittoria di «realtà 1 Su questi temi, come è ben noto, la psicologia cognitiva ha, negli ultimi trent’anni, prodotto risultati importantissimi per ciò che riguarda i processi mentali di percezione ed elaborazione del presente dinamico.

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virtuale», per alcuni semplice strumento di rappresentazione2, per altri autentica alternativa. Così si potrebbe dire «après la réalité» o, per usare un vocabolo assai di moda, «realtà postrealista»3. Infine vi è chi contrappone realtà e finzione, il che sembra significare che comunque la seconda presupponga l’esistenza della prima e anzi sia un modo di conoscerla; e questa è questione della massima importanza per le cose dell’arte e per il loro posto, in quanto finzioni, nel mondo della realtà, o, al contrario, in quanto uniche realtà in un mondo di finzioni. Forse è vero che sono molte le realtà che compongono un fatto, comprese le finzioni che lo riguardano, e che compito dell’arte è quello di attraversarne il massimo numero. 2 La parola «rappresentazione» verrà utilizzata molte volte in questo scritto, nei suoi molteplici significati tecnici e simbolici compresi i riferimenti alla coppia imitazione-invenzione. Anche se si tratta non di riproduzione della realtà naturale ma di rappresentazione di idee o di convinzioni, di sogni o di progetti, essa si presenta come un tramite essenziale nei confronti dei diversi livelli di realtà con i quali entriamo in contatto modificandone il senso. Rappresentazione letteraria o visiva, del sé (come soggetto e come segno) o del mondo e della società, descrizione conoscitiva, misura della bellezza del creato o rappresentazione del dubbio, cartografia, geometria e disegno, essa è, per la relazione tra architettura e realtà, mezzo critico per eccellenza e materiale essenziale. Intorno ai suoi strumenti come alle sue intenzionalità si sviluppa una parte importante della storia della disciplina architettonica. Si veda a questo proposito, nello specifico dell’architettura, il volume di Eve Blau ed Edward Kaufman, L’architecture et son image, CCA, Montreal 1989; il n. 9 di «Rassegna» del 1979; il capitolo dedicato a Piranesi in La sfera e il labirinto di Manfredo Tafuri, Einaudi, Torino 1980, e la raccolta di saggi di James Ackerman, Origins, Imitation, Conventions, Mit Press, Cambridge (Mass.) 2002, in cui vengono trattati in particolare i temi dell’imitazione e dello sviluppo storico delle convenzioni nel campo del disegno architettonico in quanto modi di essere della rappresentazione disciplinare. 3 Recentemente, e non a caso, la parola «post» ha goduto di un eccezionale successo. Grazie a un piccolo prefisso sembra di essere avanti alla propria epoca, anche se non si sa più dove; ma non basta l’opposizione all’epoca precedente per definirsi; in questo modo noi abbiamo solo abbandonato ogni concezione della storia, o meglio non possiamo più distinguere le epoche dalle mode.

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Così, senza identificare realismo e oggettività né entrare nella contrapposizione tra «vera realtà» e «mera apparenza», si può dire che, nel nostro fare, possiamo considerarci tutti, anche se in modi diversi, connessi a una condizione antropologica, culturale e sociale (il discorso sulla natura della connessione è ovviamente tutt’altro) che interpretiamo, anche senza dover necessariamente ridurre la realtà a interpretazione, o a cui ci opponiamo sia come stato che come dover essere. Tutto questo si connette con la coscienza della provvisorietà della nostra relazione non solo con la condizione storica della nostra percezione ma con l’idea stessa di realtà che nel tempo, con le opere, con l’immaginazione e con il linguaggio, ci costruiamo; in un confronto complicato con la nostra soggettività che di essa fa parte nelle forme interrogative della relazione tra verità e desiderio. In qualche modo, cioè, ci dobbiamo dichiarare tutti realisti, ingenui o ermeneutici, a caccia della conoscenza della realtà esistente o di quella possibile, critici, entusiasti o disperati a causa del suo stato. Certamente una cosa è, in quanto artisti, pensare alla realtà come esperienza della vita sociale quotidiana o come sua radicale alternativa; un’altra pensare alla realtà come struttura delle cose, origine della vita, alla realtà delle fedi o alla realtà come conoscenza delle ragioni della costruzione continua dell’universo in moto; o porre al centro del proprio lavoro di artisti la solitudine, i processi di costituzione dell’io e la discussione intorno alla sua interna frammentazione; o, ancora, pensare alla realtà come l’insieme di tutte queste possibilità. È ovvio dire che non tutto ciò che è materiale è reale, anche se la materialità e le azioni che vogliono trasformarla occupano un posto rilevante nel nostro modo di occuparci di essa in quanto artisti; sentimenti, pensieri, memorie e vo-

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lontà sono componenti inseparabili dal mondo con cui siamo in relazione. Convenzioni e infrazioni, ragioni e desideri prevalgono volta a volta gli uni sugli altri senza però che uno dei due termini si azzeri completamente. Si tratta di realtà che si proiettano anche su tempi diversissimi e si dispongono su piani simbolici molto distanti tra loro. Anche il mondo sconosciuto dell’immaginazione che si sottrae al tempo trova alimentazione nella realtà del quotidiano come in quella dei miti e delle fedi. Tutto ciò significa che vi sono modi diversi di pensare la realtà che devono convivere e confrontarsi, e che, per far questo, devono, senza alcuna rinuncia all’etica della propria convinzione, ammettere di non essere ciascuno il detentore assoluto della verità senza tuttavia dover rinunciare alla idea della sua ricerca né, tanto meno, divenire scettici o totalmente relativisti. Ma se la tolleranza e il pluralismo sono necessari alla convivenza e la differenza è una componente essenziale della società e del suo divenire, la costituzione della differenza implica contraddittoriamente, nelle opere dell’arte, almeno al momento della loro costituzione, una convinzione profonda, segnata da momentanea intolleranza, anche se l’opera compiuta diviene poi costitutiva di altre differenze attraverso il confronto. Questo non concilia né unifica, ma piuttosto suscita interrogativi intorno alla possibilità stessa di «catturare la realtà», o una parte di essa, con i mezzi delle idee delle scienze o di quelle delle arti4. 4 «L’idea, nella sua prima accezione – scriveva Lionel Trilling nel 1955 (La letteratura e le idee, trad. it., Einaudi, Torino 1962) polemizzando sia con il New Criticism che con il realismo –, significava esattamente forma [...] anche se, nella nostra cultura, essa tende a deformarsi in ideologia.» Per Trilling non sono quindi le idee, ma è il linguaggio astratto che esorcizza le emozioni che dalla realtà ci provengono, mentre esse sono la prima fonte della forma della realtà stessa, che noi cerchiamo di costruirci.

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La realtà sembra, per le pratiche delle arti, un materiale nello stesso tempo non ricusabile e non totalmente affermabile: essa è solo diagonalmente attraversabile, e per far questo dobbiamo poterci provvisoriamente separare da essa e formarcene un’immagine per mezzo dei nostri strumenti specifici. Ma se la scienza ha il compito di indagare le cose per come sono, l’arte ha quello di pensare alle cose come potrebbero (o dovrebbero) essere. Non è detto, cioè, per quanto ci compete come attori nel campo delle arti, che i nostri prodotti debbano o possano essere la rappresentazione verosimigliante5 della realtà o il suo rispecchiamento (ambedue concetti assai complicati), almeno secondo i canoni scientifici del naturalismo, o quelli del verismo italiano o del romanzo bor5 È evidente che, per l’architettura (al di là di qualche caso estremo), il problema della verosimiglianza è ampiamente connesso alla storia e alla memoria oltre che a quell’insieme di cose in mezzo alle quali siamo vissuti e abbiamo familiarità esemplare o domestica, che si rappresentano anche in funzioni e tipi edilizi riconoscibili. È rispetto a questo che si misura la distanza rappresentata dal dissimile, presente o futuro, mentre il «nuovo» è piuttosto riferibile al campo più ristretto della disciplina e delle sue innovazioni tecniche e morfologiche. Si tratta di due livelli di realtà solo parzialmente sovrapponibili ma che agiscono ambedue sulla costituzione architettonica. A proposito della verosimiglianza, Jorge Silvetti ha scritto nel 1980 un breve testo, dal titolo On Realism in Architecture, che ne dà un’interpretazione assai interessante. La verosimiglianza è per la retorica di Aristotele una proprietà dei linguaggi che produce un «effetto di realtà»: possibile o meno. Il linguaggio dell’architettura è stato per alcuni secoli un effetto di realtà fondato sull’autorità della storia e sull’imitazione della natura. Ma oggi i segni, con la conoscenza scientifica, non dipendono più da un referente esterno ma dalle loro leggi interne; sono modelli di una realtà plausibile. L’architettura moderna inventa così, secondo Silvetti, una nuova verosimiglianza autoreferenziale: anche nei confronti del naturale. Si pone però nello stesso tempo anche una nuova, problematica relazione con il sociale e con la rappresentazione tragica del suo passaggio dai principi ideali alla realtà empirica: una forma nuova cioè di verosimiglianza. Un’interessante interpretazione della verosimiglianza si trova anche in Tzvetan Todorov, Le vraisemblable, in «Communication», 1968, 11, pp. 11-15.

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ghese francese del XIX secolo, ai quali si fa normalmente riferimento quando si parla di realismo. Il Decamerone o la scultura di ritratto romana possono essere definiti entrambi realisti, seppure in maniera divesa, con una profonda radice nelle dinamiche della società, così come, sia pure in modi lontanissimi, l’iperrealismo iconofilo americano degli anni sessanta. Persino il dadaismo dichiara di voler simbolizzare un «rapporto primitivo» con la realtà circostante. Erik Satie definisce il suo Parade un «ballet réaliste». Né meno reale è per il soggetto l’interrogazione dell’inconscio quale fonte dell’immaginazione artistica, e ancor più se esso assume il carattere di angoscia collettiva come quella, per esempio, che caratterizzò la società romana tra il III e il V secolo dopo Cristo o quella dei nostri anni: anche se quest’ultima si è dotata degli opportuni meccanismi di rimozione. Neppure l’arte fantastica o visionaria può esimersi dal misurare la distanza dalla realtà quotidiana, che è precisamente ciò che la connota, anche se definire fantastica o immaginifica l’arte è in qualche modo tautologico. L’immaginazione è la facoltà di rappresentarsi anche cose non date alla sensazione; prima cioè che tale rappresentazione si realizzi in fatto dell’arte. Questa, nel nostro libro, è intesa sempre come forma del progetto, cioè come «forma che si forma», e il suo esito è la presentazione della nuova cosa. Quali siano i confini della realtà o quali gli spostamenti o il discoprimento di nuovi rapporti possibili con le cose, in che modo essa possa venir fatta apparire alla sensazione e al pensiero per mezzo del fare, tutto questo è compito essenziale di ogni arte definibile come realistica dal punto di vista molto ampio dal quale indaghiamo. Un’alternativa radicale alla realtà empirica, una riflessione tutta interna agli strumenti

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espressivi che utilizziamo e alla loro tradizione, e anche proprio ciò che non è in alcun modo presente, sono però anch’essi materiali essenziali delle pratiche artistiche che possiamo definire attinenti alla realtà. Rappresentazione è per noi non riproduzione, ma attività intenzionale del soggetto che si volge al reale e si confronta con esso. In qualche modo, cioè, l’arte non è mai rappresentazione, ma presentazione della cosa prodotta, e ciò che avviene, «l’avvenire», in qualche modo eccede la rappresentazione. Un mondo tutto avvenire, senza memoria, è però anch’esso chiuso a ogni possibilità di rappresentazione. Inoltre le diverse organizzazioni dei linguaggi individuali e il loro confronto con la lingua collettiva hanno certamente, in tempi brevi o lunghi, un’azione strutturale sulla dinamica della realtà. Anzi possiamo subito dire che ciò che ci interessa, dal punto di vista delle pratiche delle arti, sono proprio i diversi linguaggi che muovono dalle differenze di sguardo sulla realtà, o il differente modo di utilizzarla o di distanziarsi da essa e di attraversare tale distanza con le opere. Su questo tema vi è una certa convergenza nelle arti contemporanee da circa un secolo, proprio per quanto riguarda il rifiuto della rappresentazione verista (ammesso che questa sia mai esistita), nella coscienza di poter cogliere di essa solo indiretti, alternativi frammenti quali materiali della nuova realtà costituita dall’opera; compresi i frammenti di ogni possibile universale, di ogni possibile istante emozionale della stessa pluralità della percezione, anzi dell’inseparabilità tra percezione e pensiero, tra pensare e fare; verso il «figurale» in opposizione al «figurativo», per utilizzare la distinzione di Deleuze a proposito della pittura. Questa discussione muove soprattutto intorno all’interrogativo, centrale per il pensiero e il fare artistico della moder-

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nità, su che cosa sia l’arte e quale sia il suo ruolo nella società e se essa sia dotata di qualche intima necessità: discussione che è divenuta materiale preminente delle attività dell’arte dell’ultimo secolo. Questo ha anche reso la sua natura man mano sempre più incerta: sino alla sua s-definizione (come scriveva Harold Rosemberg negli anni sessanta), cioè sino alla sostituzione dell’opera con l’evento e più direttamente con la figura dell’artista, che è invece un prodotto dell’arte. Questa ultima fase può essere interpretata come un fenomeno coerente con la realtà della condizione sociale oggi dominante dell’ideologia del mercato, capace di ricomprarsi qualsiasi atto di messa in discussione o di ribellione (persino la denuncia dell’«alienazione elettrodomestica» degli artisti dell’antiarte), anche se questa interpretazione non esaurisce certo la questione. La nozione di «mercato», come qui viene usata, non è naturalmente il luogo neutro e paritario del libero scambio ma, piuttosto, una nozione filtrante i vari livelli sociali del potere, così come si sono obiettivamente configurati con l’ideologia del capitalismo globalistico6. 6 In un lungo colloquio con Edoardo Sanguineti, a proposito del tema del globalismo del mercato, egli ha avanzato un’interpretazione di questo fenomeno come il realizzarsi della tesi marxiana del controllo mondiale dei mercati e quindi come compimento del capitalismo. È evidente che tale «compimento» non si presenta né spazialmente né temporalmente come un blocco unitario ma offre sfrangiamenti e contraddizioni che consentono alle pratiche delle arti una possibilità di spostamento critico. Uno sviluppo critico di questa tesi è contenuto in La creazione del mondo di Jean-Luc Nancy (trad. it., Einaudi, Torino 2003), ove, a partire dalla constatazione che la mondializzazione realizza per la prima volta la coincidenza del mondo con se stesso, si osserva la sua attuale difficoltà nell’individuare «la sua autentica forma che non solo è creazione del valore ma il valore in quanto creazione [...] in quanto umanità incorporata nelle opere del lavoro umano». Se la mondializzazione è il diventare mondo del mondo in quanto totalità di senso, «un posto che rende possibile esserci», la globalizzazione sembra il processo opposto a tutto questo. Ma non è necessario per questo attraversare fatalmen-

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Se concentriamo l’attenzione sugli ultimi trent’anni del XX secolo, si può dire che l’evocazione del termine «realismo» si fa piuttosto scarsa, e questo proprio negli anni in cui si affievolisce l’opposizione critica arte-realtà, o meglio aumentano i te il compimento globale della sua perdita di senso. «Creare il mondo – scrive ancora Nancy – significa allora: subito, senza aspettare, riaprire ogni lotta possibile per un mondo, o per ciò che dovrà formare il contrario di una globale ingiustizia imposta dall’equivalenza generale.» Tuttavia una parte importante dell’architettura dei nostri anni si muove nello sforzo di rappresentare (più o meno consciamente) nel modo più coerente lo stato di presa del potere della globalizzazione. E ciò può essere fatto ovviamente con diversi livelli di qualità, con diversi sistemi di collimazione, descrivendone gli aspetti immaginifici (come Gehry), esaltandone i principi di omogeneità dei comportamenti e di delocalizzazione globale (Koolhas), sottolineando il ruolo fondamentale delle tecniche in quanto valori (Piano), concentrando la propria attenzione sugli spazi di mercato come cemento sociale, ponendo l’accento su flessibilità e provvisorietà, sottolineando i valori di marketing delle bizzarrie (Libeskind), o ancora in altri modi. Il caso della fortuna internazionale dell’ingegner Santiago Calatrava è, per esempio, particolarmente interessante. Esso, a mio avviso, poggia su tre elementi. Anzitutto la sua figuratività, così precisamente radicata nell’informalismo plastico degli anni cinquanta (dalle sculture astratte di quegli anni ai mobili disegnati da Carlo Mollino), è quindi una figuratività ben stabilizzata e riconoscibile nel sistema delle commemorazioni revivalistiche che percorrono il gusto dei nostri anni: un simpatico e ben noto mondo figurativo che è lontano anche da ogni cultura digitale ma che è in qualche modo allegorico dell’idea di complessità. Si tratta cioè, in secondo luogo, dell’idea di liberare, per mezzo del tocco artistico, la struttura da ogni sua semplificazione volgare e realistica. Perché fare una cosa semplice quando la si può fare ingegnosamente complicata visto che l’artisticità sta nel mistero delle sue ragioni? In terzo luogo, l’eccezionalità, la bizzarria (giustificata dal calcolo) divengono elemento essenziale per la costruzione di un landmark, indispensabile a ogni operazione di marketing. Ciò che questo testo ha invece l’ambizione di delineare (o almeno di intravedere) senza impossibili nostalgie ma anche senza oblii intorno alla concretezza della storia e senza identificarla con il passato, è la possibilità di un’architettura che si ponga il problema di pensare non al di fuori ma al di là della globalizzazione. Per fare questo è, io credo, non solo necessario muovere da una critica alle attuali forme di rappresentazioni e alla loro legittimità ma anche ritenere possibile, senza passare esclusivamente attraverso il pensiero utopico, un’interpretazione alternativa agli attuali termini dell’incarico sociale, che guardi più a lungo alla durata architettonica. Architetti come Alvaro Siza o Tadao Ando dimostrano che è possibile restituire creativamente le cose a se stesse.

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gradi di organicità di basso livello dell’arte rispetto al funzionamento complessivo della società. L’infrazione linguistica, cioè, che era divenuta, durante la prima avanguardia, arma critica, anarchia essenziale nei confronti del proprio ruolo e, attraverso di esso, della realtà così come essa empiricamente si presenta, perduta la sua connessione con ogni tensione conoscitiva e trasformativa, sembra sia diventata uno strumento con scarsa efficacia anche artistica. Si può dire cioè che non si parla più di arte e realismo perché tutta (o quasi tutta) l’arte si è incollata alla realtà nel senso più tradizionale e zdanovista del termine (ed è invece la realtà, o meglio lo stesso principio di realtà, a essere divenuto più complesso e inintelligibile), anche attraverso l’uso di un linguaggio comunicativo di massa nuovo e popolare nello stesso tempo, e per mezzo della violazione delle regole fatta sistema di costruzione della novità incessante e inoffensiva. La contrazione tecnologica e la convenzionalità del linguaggio (e del pensiero) che la caratterizza ne permette l’alta diffusione quantitativa e la facile riconoscibilità collettiva, vero cemento sociale dello scambio, fondamento comune di un giudizio (o pregiudizio) anche estetico il cui apparente rinnovamento continuo e transitorio permette la totale stabilità dei valori, rappresentazione dell’unico valore collettivamente riconosciuto, quello del mercato, di cui lo stesso progresso tecnico è al servizio. Le colpe, se così si possono definire, stanno però anche dalla parte degli artisti (piuttosto che solo da parte della organizzazione sociale) e della loro tendenza alla totale rinuncia al distacco critico (o a trasformare la critica in caricatura) per una forma di naturale, entusiastica adesione alla opinione della maggioranza, anche quando questa sembra essere, dagli atti degli artisti, più offesa.

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È importante ricordare che il termine «realismo» definisce comunemente, per quanto riguarda la storia della letteratura e della pittura, un periodo ben circoscritto che si fa iniziare di solito con Courbet (e Champfleury, il cui celebre saggio sul realismo è però del 1857) intorno al 1848, in una data, cioè, politicamente assai significativa. Esso è carattere di una parte importante dell’arte della seconda metà del XIX secolo, che si prolunga nella prima metà del XX. Realismo è definizione convenzionale, ma da molti considerata specifica, delle condizioni dell’artista nell’età borghese, dei suoi contrasti sociali e del naturalismo che la caratterizza, nonché della fiducia delle scienze positive di poter rivelare in modo definitivo la realtà del mondo fisico. La scelta dei soggetti e non solo dei contenuti (in pittura ma anche in architettura, per quanto riguarda i tipi edilizi) è quindi un aspetto non meno significativo del modo di restituirli formalmente7. È ben noto che l’architettura della seconda metà del XIX secolo, contemporanea al fenomeno del realismo in pittura e letteratura, è quella che si definisce stilisticamente «eclettica»; lo storicismo cioè voleva connettere stili, tipi edilizi e loro rappresentazione. In qualche modo è la coscienza storicistica (il passaggio dall’«âge classique» all’«âge de l’histoire» descritto da Foucault) a diventare il motore essenziale del realismo architettonico, l’esigenza cioè di stringere una razionale e semantica connessione tra forme espressive e condizioni funzionali della contemporaneità8. È questa attitudine quindi che 7 Oltre al libro generale di René Dumesnil, L’époque réaliste et naturaliste (J. Tallandier, Paris 1945), sulla pittura europea del XIX secolo, il libro di Linda Nochlin del 1971 (Il realismo nella pittura europea del XIX secolo, trad. it., Einaudi, Torino 1989) resta uno dei testi più completi e intelligenti, con un’ampia bibliografia, anche se poco convincente per quanto riguarda l’architettura. 8 Naturalmente non è possibile qui aprire una discussione sulle ragioni e

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ingloba il precedente ventennio neogotico, le ideologie morrissiane, i vari neobarocchi, neoclassici, neorinascimenti, ma anche gli esperimenti di Paxton o le nuove tipologie industriali tese a stabilire una stretta corrispondenza fra tecniche, materiali, procedimenti ed espressioni stilistiche di rappresentazione sociale come forme di realismo, in quanto risposte ai problemi e alle esigenze del tempo; sino a rifiutare gli stili storici per mezzo del simbolismo naturalistico dell’orgoglio industriale dell’ultimo decennio del secolo. Questa attitudine è sospinta anche dalla tensione generale del realismo della seconda metà del XIX secolo verso l’«onestà» e la «verità» (sia pure con tutte le ambiguità di questi termini), verso l’osservazione della realtà popolare, forse anche verso la messa in evidenza del contrasto tra il populismo rivoluzionario, sconfitto dopo il ’48, la restaurazione e il progresso positivista9. Certamente è possibile riconoscere nella realtà popolare (e contadina in particolar modo) una delle radici epiche importanti delle diverse forme di realismo che attraverseranno gli effetti sull’architettura dell’età della storia, e sulla relativizzazione dell’idea di bellezza avviata da Perrault nel 1680. Decisiva è poi, da questo punto di vista, a metà del XIX secolo, l’influenza dello sviluppo delle scienze positive e in particolare del funzionalismo organico di Georges Cuvier, per esempio su Viollet-le-Duc e su Gottfried Semper. 9 Ovviamente questa schematica sintesi non fa giustizia della ricchezza dei motivi offerti dall’eclettismo, formula in cui si riassumono in modo eccessivamente stilistico una serie molto complessa di riflessioni teoriche oltre che di opere di cui il XIX secolo è stato protagonista. Positivismo e ideali religiosi, convinzioni politiche e ragionamenti sui fondamenti della disciplina, idee intorno all’importanza dell’espressione della soggettività e limiti intorno all’importanza sociale della nostra arte, scoperte archeologiche e storiche, responsabilità civili, opinioni intorno ai valori assoluti o relativi della classicità si sono sovrapposti e succeduti e divaricati anche all’interno delle singole personalità. Ciò che mi sembra resti vero è che si è trattato di un secolo in cui le diverse opinioni intorno all’idea di realtà hanno prepotentemente (e più che in altri secoli) agito sulla costituzione dell’architettura.

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poi l’ultimo trentennio del XIX secolo e il primo del XX nelle diverse forme delle «architetture nazionali» e, poi, nella ricerca di un’architettura pura, archetipica, collettivamente fondata sulla terra comune. «Sfuggire ai legami della convenzione per attingere al mondo magico della pura verosimiglianza», scrive Courbet. E più avanti: «L’arte storica è per sua natura contemporanea: ogni età deve avere artisti che la esprimono spontaneamente». Di qui anche il mito dell’artista incolto, istintivo, indipendente, cioè, dagli schemi accademici e capace di percepire la realtà direttamente. Quando la storia diventa scienza (il libro di Foustel de Coulanges La cité antique è del 1864) finisce la pittura storica come esaltazione dei valori permanenti dell’antichità. La mentalità scientifica positiva (la scienza come verità oggettiva) sospinge anch’essa verso i fatti. L’attenzione della pittura si volge verso una nuova gamma di soggetti, compresa la questione sociale. È anche necessario tenere conto che, per quanto riguarda la pittura, la sfida alla riproduzione del reale (sostenuta per quattro secoli dall’alleanza con le scienze, le ricerche sulla geometria e sulla prospettiva, con l’aiuto di vari sistemi tecnici come specchi, lenti o camere ottiche) subisce progressivamente la concorrenza della fotografia10. D’altra parte anche la narrazione letteraria subirà nel XX secolo un processo di concorrenza da parte di quella filmica. Qualcosa di analogo avviene forse in 10 Certamente l’interpretazione delle possibilità creative della fotografia (l’obiettivo come specchio della realtà complessa di Dziga Vertov) è stata utilizzata in pieno dalle avanguardie per le quali è uno strumento per produrre nuove realtà. Né va sottovalutata l’esperienza cinematografica nello stesso senso e, per l’architettura, come occasione di costruzione di spazi sperimentali globali (L’Inhumaine di Marcel L’Herbier è del 1923) o quella della riproduzione fotografica dell’architettura (le cui origini risalgono, come è noto, ai lavori di Talbot del 1839).

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architettura con la scientificizzazione delle tecniche strutturali e l’espansione dell’uso dei semilavorati industriali e dei materiali metallici e l’aspirazione alla leggerezza e alla trasparenza, alla luce, come sfida alla gravità ma anche come economia di mezzi materiali, compensata talvolta dalla ricchezza dell’ornamento, talaltra dallo slittamento verso le arti visive. Da Apollinaire ad Adorno Se si esce da questo preciso contesto storico le questioni si complicano. È ben noto infatti che vi sono molti rischi di arbitrarietà nell’estendere la nozione di realismo nelle arti al di là della sua, pur convenzionale, definizione storica consolidata. È importante, cioè, non fare del realismo né uno stile né una categoria dello spirito, nello stesso modo in cui talvolta vengono utilizzate nozioni come «barocco» o «gotico». Tuttavia bisogna constatare che, all’inizio del XX secolo, tutta l’avanguardia artistica critica le posizioni realiste in quanto verismo imitativo, così come, un secolo più tardi, «antirealista» si dichiara sia chi vuole rappresentare gli aspetti volatili e omogenei caratteristici della società mediatica e cantarne le lodi, sia chi ne esalta il destino tecnologico, sia chi vuole rappresentare la rivolta estetica, sia, al contrario, chi pensa di dover soprattutto dar forma alle esigenze del profitto come valore, sia, infine, chi è preoccupato solo della relazione tra il proprio (realissimo) mondo interiore e le condizioni che lo circondano o muove da quel centro per sfuggire a esse e risalire a una condizione primigenia. La discussione sul realismo nelle arti attraversa così anche oggi, in modi diretti o indiretti, la questione del rapporto tra etica, religione e comportamenti, tra ideologia e linguaggio o tra politica e arte e, all’interno di questa, tra forme diverse di

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impegno e disimpegno, di autonomia contro eteronomia, e implica infine l’interpretazione stessa, in continua modificazione, della idea di modernità e della misura del suo valore in relazione al passato e al futuro: quello concreto possibile e quello di fuga dal presente. Vi è infine un’altra posizione che attraversa paradossalmente – sia pure in modi diversi – l’intera stagione moderna: quella che potremmo definire di continuità nella trasformazione. Tutta l’architettura dei paesi scandinavi presenta, per esempio, forme di tranquilla transizione, di adesione ideologica al mutare delle condizioni, senza rotture con il mestiere, il luogo, ma anche senza storicismi, o con la loro riduzione a forme tanto essenziali da poter essere ritenute astoriche. Il realismo come pratica artistica – dobbiamo subito dire – è invece, secondo noi, comunque forma conscia (o inconscia) di giudizio critico sul presente, sulle condizioni e contraddizioni su cui si fonda, sulle sue prospettive o sulle sue alternative possibili, o anche solo sulle speranze sognate: realismo è, o dovrebbe essere oggi, soprattutto opporsi al tramonto del senso delle cose. Di fronte a una definizione tanto generale, la parola «realismo» rischia di perdere però ogni capacità di mettere in evidenza e differenziare un proprio campo di azione. Per restituirgli tale capacità è necessario tornare a ricorrere al significato che esso ha assunto attraverso il contributo delle opere di fronte ai diversi momenti della storia recente, e in particolare per rapporto alla variabilità del soggetto di fronte alla ricerca della verità in quanto unica verità possibile, promessa dal pensiero della modernità. Il problema diviene allora quello di interrogarsi, per mezzo degli strumenti specifici del nostro fare e nel concreto delle opere, su quali siano oggi le con-

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cezioni della realtà che ci attraversano, con quale di esse ci sentiamo in sintonia o in alternativa e, soprattutto, in quale modo di essere (architettonico nel nostro caso) ci mettiamo in relazione critica con esse. Un esempio di tutto questo può essere costituito dal dibattito sulle arti visive nel primo ventennio del XX secolo e, in particolare, dalla cosiddetta crisi del 1919. Si può sostenere che il modernismo radicale (simbolizzato con il celebre quadro di Malevicˇ del 1915 Quadrato nero su fondo bianco), che ha condotto a termine le possibilità analitiche e costruttive che sono le mitologie della modernità, avesse anche un contenuto fortemente millenarista ed escatologico: cioè estremo. Ma l’estremismo ha solo un tempo: poi vi sono revisioni e ritorni e si può sostenere quindi che in questo consistesse la crisi del 1919. Durante tale crisi si instaurarono, contemporaneamente, nuove avanguardie e nuovi appelli all’ordine classico, aprendo un periodo di acuto (e apparente) contrasto tra avanguardia e realismo in quanto «ritorno all’ordine»; tra pluralità e unità del punto di vista, tra sperimentazione infinita e riaffermazione di storia e tradizione come fonte principale delle arti figurative. Addirittura nel 1918 Ozenfant e Le Corbusier avevano pubblicato un opuscolo dal titolo Après le Cubisme in cui auspicavano l’ordine di un’arte nuova adatta alla scienza e alla civiltà industriale. Peraltro non mancheranno a Le Corbusier, negli anni trenta, in alcune ville, i richiami al costruire locale e contadino. Tutti, però, concordano sul fatto che «il quadro è un essere in sé», per usare l’espressione di André Lothe, e cioè che il primo oggetto di discussione sono le arti stesse, la loro condizione di esistenza, la specificità dei mezzi di ciascuna di esse, prima ancora della loro azione sulla dinamica sociale.

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Il 1918 è anche l’anno della crisi del Proletkult (promosso da Aleksandr A. Bogdanov nel 1906), il momento in cui si insinua l’imitazione della cultura borghese (come era avvenuto con quella aristocratica dopo il 1789) come mezzo simbolico per legittimare il potere conquistato dal proletariato. I sostenitori del «ritorno all’ordine» consideravano nel 1919 il futurismo come una esperienza del passato prebellico ormai conclusa. Mentre il Bauhaus veniva fondato sull’idea della funzionalità rispetto al mondo della realtà produttiva e tecnologica come possibilità di liberazione collettiva, mettendo in relazione uso e contemplazione degli oggetti, il Vhutemas pensava di porre le basi per il linguaggio architettonico della società socialista, pur con tutto il dibattito interno fra costruttivismo come realismo tecnologico e formalismo linguistico come unica possibilità di riscoprire la realtà autentica violando quella convenzionale. Nell’Unione Sovietica tra il 1917 e il 1930 la produzione di opere e di proposte, in oscillazione tra ricerca delle radici popolari contadine e nuovi linguaggi, attraversa quasi tutti i protagonisti dell’architettura. Né è possibile dimenticare il piano quinquennale del 1923 del Comune di Vienna per fondare l’austromarxismo nella «Vienna rossa». In Messico, invece, negli stessi anni si pensava ai murales come arte realista in quanto popolare per la sua capacità di comunicazione collettiva. E certo non mancano negli Stati Uniti le correnti che si richiamano alla cultura agraria e alla radice «naturale» del costruire. La posizione della Sachlichkeit, che aveva tra i suoi scopi quello di oggettivare l’ostilità dei rapporti umani nel mondo capitalista, era diventata materia della celebre discussione tra Bloch e Lukács con due giudizi del tutto opposti11. 11

È interessante rileggere a distanza di quarant’anni quanto scrive

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Nel 1917 Apollinaire usava il termine sur-réalisme a proposito di Satie, surrealismo che, nel manifesto del 1924, si definisce come il proposito di esprimere il funzionamento reale György Lukács sull’architettura (Estetica, trad. it., Einaudi, Torino 1970, pp. 1179-1230). La questione di ciò che egli definisce per l’architettura «l’incarico sociale» e la sua «universalizzazione» sembra avere per Lukács un peso assolutamente determinante per la definizione dell’architettura quale pratica artistica. La nozione di «incarico sociale» fa parte di una tradizione antica nelle teorie dell’architettura, dall’«utilitas» vitruviana sino all’«architettura civile» di Francesco Milizia. A partire dalle sue posizioni teoriche Lukács però esclude la possibilità di esistenza di un’architettura «negativa» e persino critica che individui (o almeno tenti di farlo) un’alternativa all’incarico sociale della classe dominante. L’incarico sociale può divenire «astratto» (e questo per Lukács avviene già con il Movimento Moderno) o decadere ma non può fuoriuscire dal compito di costituire uno spazio concreto e specifico per l’uomo. Resta allora solo il compito della sua coerente e «piacevole» rappresentazione, cioè limitato a ottenere «effetti artistici secondari». Ciò sembra invece a noi il ritratto dell’architettura di successo dei nostri anni e su questa strada essa ha coerentemente abbandonato ogni tensione non solo verso l’individuazione di un «incarico sociale» alternativo ma ogni aspirazione a vivere la dialettica di scopo e finalità. Tuttavia noi invece pensiamo che, come ci ha insegnato l’avanguardia, esista un possibile ruolo di indicazione autonomo (assumendo la definizione del rapporto tra autonomia ed eteronomia così come è detto da Adorno nella citazione a p. 29 di questo testo) dell’architettura anche oppositivo all’«incarico sociale dominante». Anche per Lukács il problema estetico centrale dell’architettura resta comunque la creazione di uno spazio qualitativo, «uno spazio pieno esterno ed interno», come egli scrive. Questo evita di considerare «un’architettura che accede all’estetica come scultura o come mera cornice» o come pura rappresentazione comunicativa. Ciò che definisce lo spazio è in ogni modo il suo «recinto», e il ruolo conformativo che esso ha nella definizione di quello spazio è innegabilmente essenziale, è forma della relazione tra le parti del recinto: cioè del costruito. La nozione di «spazio» formulata da August Schmarsow intorno al 1894 nell’ambito della scuola di Vienna (oppositiva alle tesi semperiane sulla tettonica, formulate intorno al 1852), è stata alla base di molti testi, compreso il celeberrimo libro di Siegfried Giedion, Spazio, tempo ed architettura: lo sviluppo di una nuova tradizione (trad. it., Hoepli, Milano 2000). Alla fine degli anni cinquanta del XX secolo prende corpo la nozione di luogo (soprattutto sospinta dalle nuove letture di Heidegger) che muove intorno all’idea di uno spazio non uniforme, ma orientato dalle differenze delle densità e dei detriti che ne caratterizzano le diverse direzioni.

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del pensiero. Karel Teige definisce il surrealismo come «realismo dialettico», poiché esso prende in considerazione anche la vita psicologica del soggetto come realtà. In polemica con il I Congresso degli scrittori sovietici a Mosca nel 1934, con l’«amministrazione burocratica della letteratura» e con il «realismo descrittivo», come membro del gruppo Devetsil egli sostiene che il surrealismo (o l’irrealismo, come più tardi lo definirà) «ricade nell’ambito della teoria del realismo socialista», anche nell’architettura, a cui Teige dedica un polemico articolo nel 1936. Picasso attraversava già nel 1919, dopo il cubismo, il proprio periodo di ritorno alla figurazione, mentre Duchamp iniziava la propria opera di critica radicale alla relazione arte-realtà riproponendo la tesi platonica che l’arte è mimesi delle idee, e rappresentazione di concetti (anche se di certo, dando scacco all’estetica, ha aperto paradossalmente la strada all’estetizzazione generalizzata). Il lavoro sulla realtà metafisica e la memoria di de Chirico (che si era incrociato con il realismo magico dei gruppi di Monaco) era già al suo compimento. Resta, tuttavia, anche dopo il 1930, il problema della sostanziale divaricazione del significato (e dell’uso) politico dell’avanguardia e del ritorno all’ordine. Per quanto riguarda l’architettura, per alcuni il funzionalismo era la rappresentazione della razionalità tecnico-produttiva come struttura del mondo moderno (e come razionalizzazione dello stesso progetto), per altri lo stesso funzionalismo doveva rendere la tecnica strumento al servizio della giustizia e della liberazione sociale, per altri ancora il funzionalismo è un appello al ritorno alla naturalità del costruire (una specie di ur-Architektur), all’indipendenza dagli stili o anche (molti anni dopo) un appello per un’architettura popolare, spontanea, un’architettura senza architetti. Si guarda comunque al mondo modernizzato della razionalità produt-

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tiva: sia esso quello rappresentato dalla rivoluzione sovietica sia quello del «nuovo mondo» americano. E si guarda a essi in modo sostanzialmente realistico, riservando all’utopia uno spazio non solo sperimentale ben connesso con le diverse idee di rinnovamento della società. Una diversa questione aprono ovviamente le rappresentazioni stilisticamente realiste dopo il 1930. Alcuni attribuiscono a esse un valore di rappresentazione di tutti i totalitarismi, sovrapponendo un giudizio politico piuttosto sommario là dove invece molte distinzioni devono essere fatte. Nel caso del realismo socialista bisogna tenere conto sia della necessità di individuare un linguaggio comunicativo popolare (complicato dalle istanze regionaliste) sia delle accuse di formalismo utopistico o tecnicistico mosse a carico delle avanguardie, nonché delle discussioni critiche all’interno di queste. In tale contesto anche lo slogan antiartistico di Hannes Meyer, «costruire è solo organizzazione», finisce per essere considerato un principio elitario ed egli stesso, dopo il 1933, vi rinuncia. Naturalmente è importante tener conto che sia l’architettura stalinista (che contiene molte diverse componenti, dal classicismo al nazionalismo popolare, i cui migliori prodotti, come i grattacieli di Mosca, sono costruiti solo all’inizio degli anni cinquanta), sia l’architettura nazional-socialista in Germania sia quella della retorica imperiale italiana, affondano le radici in una tradizione incerta ma oscillante tra classicismo e Heimat-Stil, vasta e solidamente connessa alla borghesia conservatrice e al potere burocratico, che a essa guarda favorevolmente anche in molti paesi democratico-capitalisti. Dal punto di vista quantitativo, durante tutti gli anni trenta le realizzazioni delle avanguardie architettoniche costituiscono una minoranza piuttosto piccola, se si fa eccezione per pochi paesi come l’Olanda.

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L’esperienza sovietica (e anche quella italiana) fu tuttavia per molti anni (almeno sino al 1937) aperta a uno sperimentalismo alla ricerca di un’architettura socialista (tema centrale del realismo in Unione Sovietica) e, in Italia, a una duplice interpretazione modernista e tradizionalista come espressione delle diverse anime dell’ideologia del fascismo. Tra le due è anche riconoscibile una produzione intermedia dotata spesso di una solida professionalità e connessa (almeno in centro Europa e in Italia) a una deriva tardo-espressionista, novecentista, di «avanguardia moderata». In Francia tra il 1919 e il 1939 (accanto alla versione stilistica della modernità promossa dall’Art Déco) è la proprietà individuale a trionfare con il realismo di basso profilo delle periferie pavillionaires nonostante l’operaismo del Front Populaire e le posizioni in arte, per esempio, di Fernand Léger (e degli stessi razionalisti francesi in architettura) con il suo Réalisme Nouveau, in cui è protagonista l’oggetto meccanico. Ma non bisogna dimenticare che è solo nel 1935 (al congresso di Parigi organizzato dalla rivista «Das Wort») che, secondo Cesare Cases, appare per la prima volta la teorizzazione del realismo socialista nel campo delle arti. Durante quel congresso si fecero sforzi per distinguere il realismo socialista da quello del XIX secolo, attribuendo a quest’ultimo soprattutto lo scopo e il valore di testimonianza critica, mentre nel primo si affaccia l’idea, anche fortemente pedagogica, di ciò che avrebbe potuto essere una visione della realtà in un diverso assetto sociale. Il realismo socialista dunque non dovrebbe ritrarre la realtà empirica ma l’utopia. Tra il 1945 e il 1955, poi, il neorealismo italiano in architettura (e nel cinema) – entrambi espressioni del principio della via nazionale al socialismo (la questione della letteratura e della pittura è assai più complicata) – si proponeva di

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confrontare necessità dell’abitare e condizione produttiva edilizia come era di fatto, senza salti in avanti, e con la speranza di poter coinvolgere i principi del movimento razionalista in un riavvicinamento alla cultura delle classi povere e rappresentarne la realtà delle speranze e delle rivendicazioni. Non sono qui da sottovalutare alcune connessioni con il ruralismo fascista né il celebre libro di Giuseppe Pagano, L’architettura rurale in Italia. Infine vi è, negli anni cinquanta, l’aspirazione a costruire un linguaggio comune, capace di costituire un ambiente urbano, narrativo e persino epico di una condizione civile e solidale. Questa tendenza aveva anche assunto una doppia via: da un lato, una descrizione meno distante dalle condizioni sociologiche e culturali delle classi popolari urbane e rurali; dall’altro, la difesa dell’idea di comunità e dell’identità della cultura contadina: e prima di tutto l’invito nei confronti delle pratiche dell’arte a farsi carico diretto del contesto politico quale contenuto essenziale delle opere, cioè, alla fine, del soggetto in quanto contenuto quale unico valore dell’opera12. In architettura le teorie delle preesistenze ambientali (con le loro radici nelle esperienze di alcuni razionalisti alla fine degli anni trenta), del contestualismo nelle diverse versioni stilistico-folcloristica (e persino dialettale) o, al contrario, del regionalismo critico, le discussioni intorno al valore del genius loci, e in generale la relazione spesso ambigua con le nozioni di tradizione e di storia, e a partire dagli anni sessanta la ripresa della discussione intorno alla dialettica ideologia-linguaggio, sono, in modi diversi, connesse a questo dibattito intorno a 12 Per quanto riguarda il tema del neorealismo e delle sue radici è importante ricordare la seconda parte del testo di Manfredo Tafuri, Architettura e realismo, in Vittorio Magnago Lampugnani (a cura di), L’avventura delle idee, Electa, Milano 1985.

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quella che ho definito l’«aspirazione alla realtà»13, che ha attraversato il ventennio degli anni cinquanta e sessanta dell’architettura italiana, anche se molte distinzioni andrebbero fatte. È necessario ricordare che queste posizioni sono state, all’inizio degli anni ottanta, respinte ai margini della discussione per molte ragioni (alcune delle quali intrinsecamente politiche), ma soprattutto a causa dell’insorgere delle ideologie del neocapitalismo postmodernista e per l’enorme dilatazione delle comunicazioni di massa, fenomeni ambedue connessi all’imporsi delle tecniche informatiche e della rappresentazione virtuale, che hanno scosso profondamente anche il mondo della visualità. Nel 1981 è stata dedicata al Centre Georges Pompidou, come molti ricordano, una grande esposizione dal titolo Réalismes – giustamente al plurale, compresi quindi persino i «nouveaux réalismes» degli anni cinquanta –. Ma i realismi del XX (e della fine del XIX) secolo sono veramente quel «demeurer fidel à l’observation de la réalité» o non sono semplicemente un circolo vizioso che evita l’ostacolo più importante: comprendere cosa sia, storicamente, la struttura che muove la realtà? E, nell’insieme, è veramente possibile considerare il realismo del XX secolo una «reazione alle avanguardie», con tutti i significati che le parole ‘azione’ e ‘reazione’ possono rivestire? Devo dire invece che, per la mia generazione, la rivisitazione dell’avanguardia operata all’inizio degli anni sessanta è stata un modo per tornare a parlare di realismo secondo un’ottica assai diversa da quella del ritorno all’ordine. Ripensando sperimentalmente l’avanguardia, si riscopriva che l’indipendenza dei linguaggi dall’ideologia in quanto fal13

New Directions in Italian Architecture, Braziller, New York 1969.

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sa coscienza, e nello stesso tempo la presenza di una dialettica dei valori, erano uno strumento indispensabile, specifico e necessario, per mettere in atto una concezione dell’arte come costituzione di distanza critica dalla realtà: critica nel doppio significato, di messa in opera di un pensiero critico attraverso gli strumenti specifici delle nostre discipline, e critica perché tale distanza permetteva di guardare alla complessità del reale secondo un’ottica che non la perdeva di vista ma che non si confondeva con essa; unica via, quindi, per pensare a un possibile concreto, anche attraverso l’impossibile dell’opera. Riflettere sulle pratiche artistiche come contenuto preminente dell’arte non significa prescindere dalla realtà ma agire (anche politicamente) attraverso il mezzo proprio delle pratiche dell’arte. Anche se l’eversione artistica non coincide più con quella politica, come non riconoscere nell’agire dell’arte del XX secolo una dimensione anarchica, un impeto di ridiscussione radicale del reale che è l’opera a proporre e a rimettere nello stesso tempo in equilibrio per mezzo dell’esistenza della cosa stessa dell’arte? Ciò che si deve constatare è piuttosto che la diffusione dell’infrazione corrisponde oggi a una certa immunità dei suoi effetti, a una perdita di densità, a uno spostamento dall’effetto di estraniazione verso una semplice curiosità per l’artificio adottato, senza alcun effetto su ciò che Hegel definiva il sacro dell’arte, e Marx la struttura della realtà. La questione del «realismo» nel XX secolo non è certo riducibile solo alle diverse interpretazioni marxiane, ma furono queste ad avere più peso nel dibattito sulle arti. È probabile che, per esempio, nella critica alla distinzione tra fatti e valori, il realismo «pragmatico» o «naturale», sospinto dalle idee intorno alla possibilità di discussione oggettiva a propo-

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sito delle questioni attinenti alle scienze umane, e in particolare il portato della sociologia in quanto analisi delle condizioni, abbia avuto, soprattutto a partire dagli anni sessanta, un’influenza importante sulle arti e sull’architettura. Così come lo ebbero, da un diverso punto di vista, lo strutturalismo antistoricista e la linguistica. Questi diversi sguardi sulle pratiche dell’arte hanno fatto della nostra generazione di architetti una «generazione dell’incertezza» (come una volta qualcuno ebbe a definirla), nel senso – interpreto io – della presa di coscienza della complessità e delle contraddizioni del reale, della storicità della sua percezione e della necessità che le nostre risposte intorno al possibile fossero fondate sul dialogo con le condizioni in quanto presa di distanza da esse anziché identificazione e rappresentazione del loro stato. Anche per questo alcuni di noi hanno sostenuto il principio della pratica artistica dell’architettura come modificazione, cioè come atto di presa di coscienza di una condizione e del progetto come dialogo con essa, principio che è stato in questi ultimi trent’anni l’autentico nuovo contro la novità incessante in quanto rappresentazione dell’ideologia dominante: cioè l’unica posizione autenticamente realista. La parola ‘realismo’ rimanda inevitabilmente, per il XX secolo, nel campo specifico delle arti figurative e dell’architettura, agli studi di Frederick Antal e a quelli di Arnold Hauser sulla sociologia dell’arte, all’influenza della teoria marxiana della sovrastruttura con tutte le sue diverse interpretazioni, dalla tesi del rispecchiamento a quelle hegeliane del «contenuto come aspetto decisivo dell’arte come di ogni opera umana» e della sua crisi, così come per esempio la descrive Edgard Wind quando, riprendendo lo stesso Hegel, parla del fenomeno romantico dell’autonomia dell’arte, del piacere del

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«puro fenomeno interessante» ma marginale, che forse non perde la sua qualità d’arte ma piuttosto il suo legame diretto con la nostra esistenza. Naturalmente si può obiettare che le attribuzioni di senso e di valore a un’opera e ai suoi contenuti variano nel tempo; mentre l’opera, cioè, si costituisce a partire anche da contenuti storicamente definiti, essa li struttura secondo una legge interna al costruirsi dell’opera stessa capace nel tempo di porsi come fonte di nuove riflessioni e contenuti. Contro le tesi del rispecchiamento ma anche contro ogni autonomia, Adorno scriveva nel 1965 a proposito dell’architettura: Non tutta la ragione è dalla parte dell’architettura, né tutto il torto da quella degli uomini, i quali subiscono comunque il torto di venir mantenuti sia a livello conscio che inconscio in uno stato di minorità, e perciò di non avere la possibilità di identificarsi con il loro stesso interesse. Proprio perché l’architettura, oltre che autonoma, è anche, effettivamente, legata a uno scopo, non può semplicemente negare gli uomini come sono; anche se, in quanto autonoma, deve farlo.14

Il dibattito sulla letteratura del realismo è però certamente, in quegli anni, di una complessità e importanza anche per l’architettura. Qui non posso, né è mio compito, riassumerle, ma non è possibile ignorarle. Farò un solo esempio. 14 Conferenza al Deutscher Werkbund, Berlino 1965, in Th. Adorno, Parva Aesthetica: saggi 1958-1967, trad. it., Feltrinelli, Milano 1979, p. 121. In generale il pensiero francofortese, con tutte le sue interne differenze, ha una influenza importante sulla concezione dell’arte come forma di resistenza alla realtà reificata, e più tardi, con Marcuse, come forma della liberazione, cioè di costruzione di una nuova utopia come unica realtà possibile. All’opposto, come è noto, si colloca il pensiero di Benjamin sulla caduta dell’aura e sulla politicizzazione dell’arte attraverso la riproducibilità tecnica.

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«Il variare degli stili rappresenta – scriveva Erich Auerbach negli anni quaranta – il variare nel tempo della nozione stessa di realtà»: il sottotitolo del suo celebre libro Mimesis è La realtà rappresentata piuttosto che la rappresentazione della realtà. Egli definisce il realismo (per il quale altri secoli hanno altre unità di misura come la natura, la religione, la verosimiglianza ecc.) come «volontà di osservare teoreticamente la vita terrena»; e non a caso le pagine più intense di questo straordinario libro si riferiscono a tempi del tutto diversi e assai più antichi di quelli che coincidono con la storia moderna del realismo. Il termine «teoreticamente» significa la presenza, nel soggetto che scrive, di un atto interpretativo di ciò che si ritengono gli elementi essenziali della realtà, compresi quelli che non sono in alcun modo presenti nella quotidianità contemporanea, compresi i modi di essere sperati o le memorie o i destini della realtà. Con questo si afferma l’eteronomia anche di ogni critica stilistica (riconosciuta dallo stesso Leo Spitzer), che non può prescindere dall’esperienza storica dell’interprete e che passa necessariamente attraverso l’analisi della sostanza letteraria del testo. Naturalmente il nostro punto di vista è quello di chi cerca di riflettere nel campo della pratica artistica dell’architettura, non in quello della filologia romanza o della critica letteraria da cui muove Auerbach, e la natura intrinseca del lavoro letterario ha profonde diversità strutturali rispetto ai processi di costituzione dell’architettura, anche se in ambedue la materia proposta dalla realtà (intesa nel senso più ampio) e il giudizio su di essa non sono ricusabili15. 15 La distinzione tra narrazione e descrizione sembra, nel campo letterario, tradizionalmente ben definita, anche se si possono mettere in evidenza molte varianti strutturali nel loro uso. Quando si tratta della pratica artisti-

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Produzione e proiezione Ma se l’architettura del realismo critico non può essere, per la natura intrinseca dei suoi mezzi espressivi, solo rispecchiamento, sia pure interpretativo, di un reale con tutte le caratteristiche di una riconoscibilità collettiva, ma, piuttosto, un modo di rivelarne/riconoscerne le contraddizioni per aprire ca dell’architettura la questione diventa cruciale a causa proprio della sovrapposizione tra le due procedure e della traslazione simbolica (anzi doppiamente simbolica) che caratterizza il passaggio dall’una all’altra. La descrizione-narrazione (per ora teniamole sovrapposte) è infatti per l’architettura traslazione simbolica di tre diversi momenti: il processo progettuale di costituzione costruzione e il modo in cui il soggetto li vive e li pone in relazione, la posizione della cosa realizzata nell’ambito disciplinare come storia e come attualità e le attività umane contenute con il loro significato collettivo e il loro uso. Il riversamento della spazialità tipica delle arti visive nella temporalità della descrizione (si veda Cesare Segre, La pelle di San Bartolomeo: Discorso e tempo dell’arte, Einaudi, Torino 2003) è certamente possibile anche se non totale, mentre quello della narrazione se può essere simulato segmentando la temporalità in scene successive (o anche sovrapposte), questo è arduo farlo con le opere di architettura poiché non credo sia possibile utilmente pensare alla sequenza percettiva dell’opera architettonica come narrazione. Quello cioè che vorrei affermare è che la cosa architettonica è sempre pura descrizione: compresa la descrizione (più o meno simbolica) del modo in cui essa si pone in relazione con i tre fatti con cui ho prima schematicamente riassunto il suo processo di costituzione. Con questo non si vuole negare l’importanza del processo narrativo che ha condotto sino a quella descrizione ma affermare che essa si è fatta, nel suo presentarsi come architettura, totalmente descrizione anzi, come qualcuno direbbe, «descrizione omerica». Ambiguità, incertezza, plurisignificazioni non vengono eliminate ma chiuse dentro a una descrizione che le fissa in quanto forme anche se è costitutiva delle interpretazioni successive di chi, poi, osserva e utilizza. Al contrario di quanto avviene in letteratura (dove secondo alcuni la narrazione è fatta di sequenze necessarie, che si chiudono, mentre la descrizione è infinita, senza sequenze univoche), in architettura la descrizione delle cose è, in quanto forma, necessaria, finita e sincronica, anche se è il risultato di una complessa narrazione di vicende ed è all’origine di tutte le interpretazioni narrative che si sviluppano nel tempo. Ciò che più si avvicina in letteratura a questa identità di descrizione-narrazione sono forse le procedure del «metaromanzo» dell’«école du regard», dove sono le stesse parole a divenire cose.

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in esso le crepe che permettono di intravedere al di là di esso, come è possibile indicare i contorni delle sue forme? O esso è invece solo un’indicazione esortativa, morale, critica, teoretica ma che si ferma al di qua della costruzione dell’opera, su cui non può dire nulla né di metodologico né di figurale? E forse proprio questo limite è la sua forza indicativa aperta alle capacità di costruire ipotesi? Oppure è possibile definire il realismo critico in architettura, per così dire, in negativo, descrivendo criticamente nei processi e nelle forme il realismo che si pensa invece organica rappresentazione dei comportamenti e degli assetti della società attuale, il realismo che ne cerca l’alleanza e il consenso e che, nei nostri anni, sembra possedere, al di là delle quote oscillanti di povertà, un vastissimo corpo sociale intermedio (quello che qualcuno ha definito moltitudine caratterizzata da scomposizioni senza opposizioni) dotato di un’ampia omogeneità di opinioni, nonostante l’aspirazione a un apparente soggettivismo, e proprio di fronte a un io profondamente frammentato? Tutto questo in architettura sembra produrre, nei nostri anni, una falsa conciliazione tra l’espressione come affermazione del soggetto e la rappresentazione di valori condivisi. Si può dire cioè che l’espressione personale tatticamente presente, entro i limiti del consenso delle maggioranze, sia proprio ciò che assicura il successo delle opere, fornendone allo stesso tempo la novità limitata che funziona come conferma dell’opinione già consolidata. Il fare architettonico è, nello stesso tempo, produzione e proiezione, cioè progetto in quanto esplicitazione di un doppio intento: gettarsi al di là dell’esistente, a una distanza capace di stabilire differenze, e cioè costruzione di uno sguardo rischioso proprio quando il progetto vuole assumere i caratteri della ideale normalità, per mettere in discussione l’aspet-

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to empirico che essa man mano storicamente assume, mentre, in quanto produzione, lo stesso progetto di architettura sembra nello stesso tempo voler prendere tutte le possibili misure per prevedere le conseguenze del passo che compie. Che relazione, però, è possibile tra il progetto come gettarsi al di là del conosciuto e la nozione di realismo critico? Forse si tratta di gettarsi non tanto al di là, quanto, piuttosto, dentro, al fondo delle cose, sì da rivelarne lo sconosciuto, il precario equilibrio, le tensioni e le ricchezze nascoste, le emozioni che sono proprie del nuovo necessario, che è precisamente ciò che trasforma l’invenzione in realtà attraverso il suo assedio. Non si tratta tanto di praticare l’effusione quanto la sagacia del soggetto che è capace di attraversare le possibilità; o meglio l’effusione deve divenire anch’essa mezzo di investigazione di un’esistenza esterna, scelta non occasionalmente, secondo una strategia che è tutt’uno con lo stesso costruire, inteso qui in modo generalissimo come pratica di ogni arte. Naturalmente ogni prodotto delle arti cerca il proprio luogo di consistenza anzitutto dentro il campo di azione della propria disciplina che esso stesso di volta in volta perimetra, in relazione più o meno conscia con una geografia di posizioni circostanti, anche lontane nel tempo ma soprattutto presenti. Ogni opera cerca cioè di spostare (e di fatto sposta) anzitutto la realtà del suo specifico campo, e solo attraverso di esso muove la realtà sociale, la modifica, mettendola a confronto con la nuova cosa dentro una condizione e un flusso di forze più generali che sul suo campo specifico agiscono. La realtà dell’arte, e nel nostro caso dell’architettura, definisce cioè anzitutto un campo proprio di azione, che è connesso, ovviamente, come ho insistito a dire sinora, con la realtà del mondo e dei soggetti, ma agisce su di essi ed è agito da questi in modo indiretto, diagonale, verificabile solo attraverso l’opera.

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Un importante ostacolo a questo processo è che, nonostante le avventure scientifiche e tecniche e i loro straordinari successi, nonostante le lodi tessute alla flessibilità, transitorietà e velocità delle trasformazioni e dei colpi di scena, si deve riconoscere che viviamo in un mondo bloccato, solidificato dalle sue stesse contraddizioni, in cui è molto difficile intravedere orizzonti almeno ulteriori se non alternativi: cioè intravedere i destini delle arti, o almeno la loro collocazione necessaria. È anzitutto la perdita di importanza, nella scala dei valori collettivi, del posto occupato un tempo dalle opere dell’arte (ruolo oggi acquisito parzialmente da quelle della scienza e della tecnica), che ha reso marginale oggetto di consumo le opere d’arte stesse; ma è anche la loro diffusione nella forma della estetizzazione generale delle cose e degli atti, e infine «la perdita delle energie collettive», che indebolisce oggi il contributo degli artisti (e in generale degli intellettuali) alla messa in discussione del mondo irrigidito anche nei tipi di violazione convenzionale operate dagli individui. Noi ricordiamo (e forse mitizziamo) la produzione culturale della Repubblica di Weimar non solo attraverso le grandi personalità, ma anche facendo riferimenti al Novembergruppe o all’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte, al Bauhaus o alla Biblioteca Warburg, a «Der Sturm», la rivista di Herwart Walden, o ai movimenti di avanguardia organizzati. Oggi non solo si è enormemente indebolita la costituzione di gruppi e movimenti di opinione tra artisti, ma gli stessi intellettuali (e persino le forze politiche) sembrano incapaci di proporre luoghi di discussione e produzione di alternative confluenti. Per non parlare, nel campo specifico dell’architettura, delle istituzioni, delle riviste o delle università, nelle quali un pluralismo volgare, assolutorio e giustificante, purché collocato sul piano inclinato delle mode, si è generalizzato. Ciò che oggi si può rimproverare alla condizione

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culturale del dibattito architettonico non è l’assenza di posizioni diverse – che esistono in modo artisticamente e teoricamente variato –, ma l’emergere di una sola di queste posizioni: quella che man mano ottiene (o sembra ottenere) il consenso dell’opinione della moltitudine prevista dalle indagini di mercato. Ciò che sembra garantire la consistenza (purché momentanea) delle idee sono solo le comunicazioni di massa, con la novità e, insieme, la coazione a ripetere tipica di ogni diffusione pubblicitaria: che essa si svolga a partire dai grandi centri di potere o che avvenga attraverso la rete (straordinario mezzo strumentale potenzialmente aperto), non sembra per ora presentare differenze rilevanti da questo punto di vista. Al contrario, sembra che la merce immateriale scambiata dalla rete accetti che il linguaggio standardizzato e combinatorio si costituisca come il nuovo principale e universale elemento di omogeneizzazione produttiva oltre che di cemento sociale: la comunicazione, cioè, è la nuova fabbrica, il luogo dove è necessario il sapere ma non la conoscenza dei suoi fini. Il problema di molti artisti (e architetti) diviene allora quello di sottrarsi al vento della provvisorietà, di resistere alle mode, di pensare nuovamente la lunga durata che attraversi la cronaca e si faccia luogo di riferimento16. 16 La moda di scrivere dell’importanza sociologica ed estetica delle mode è tanto dilagante che sembrerebbe non aver bisogno di alcuna agiografia. Ovviamente la discussione sulla loro influenza sulla vita sociale ha radici lontane da Simmel ad Adorno, da Roland Barthes a Flügel sino a Bernard Rudowsky e persino Leopardi. «Perché la moda interpone tra l’oggetto e il suo utente un tale lusso di parole: senza contare le immagini? Non è l’oggetto, è il nome che fa desiderare», scrive Barthes nell’Introduzione al Sistema della moda, Einaudi, Torino 1970). Tuttavia la moda si sente sottovalutata e persino vilipesa da chi sostiene la differenza rispetto alle pratiche dell’arte. Nel numero 73 di «Rassegna» del 1998 dal titolo Ri-vestimenti è stata di recente ridiscussa ampiamente la questione.

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Il realismo critico in architettura conduce una battaglia particolarmente difficile proprio contro l’ideologia della transitorietà, la pretesa di esprimere l’esigenza di flessibilità con la complicazione plastica delle forme, ben sapendo che niente è più rigido di una figura complicata, e niente è più illusorio che cercare di rappresentare la complessità del mondo, deduttivamente, con la complessità delle geometrie. Forse si potrebbe avanzare un cauto parallelo (al di là delle enormi differenze) tra questa condizione di produzione dell’architettura e il tardo rococò, dove l’abbondanza della decorazione coincideva con le procedure della costituzione dello spazio architettonico e della sua frammentazione inventiva: mettendo da parte la relazione con la natura, che in quel caso presiedeva l’idea stessa di formatività. Bisognerebbe sapere poi se il cemento sociale della conversazione da salotto avesse, a quel tempo, lo stesso carattere fortemente convenzionale e la stessa importanza di modello di cultura che rivelano oggi le regole delle comunicazioni di massa in quanto produttrici di estetica. Il realismo critico si dispone invece contro una concezione estetico-comunicativa dell’architettura. Esso non muove contro l’immaginazione ma contro la sua ideologizzazione, cioè contro l’immagine in quanto rappresentazione dello spettacolo del mercato, contro il suo tentativo di riduzione dell’architettura a immagine, a evento teatralizzante, a novità incessante, all’imitazione dei mezzi multimediali, cioè, ancora una volta, alla totale dipendenza dagli strumenti divenuti fini. Porre in campo una riflessione intorno a questi fenomeni è un compito centrale di ogni realismo critico, rimettendo certo in gioco i nostri stessi modi di operare, ma utilizzando proprio le differenze e non le omologazioni.

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L’assenza (o la negazione) di cultura critica permette di funzionare efficacemente in condizioni di forte eterodirezione e di accettazione quindi della ragione esclusivamente funzionale ai sistemi di potere che hanno invaso ogni soggetto. Un atteggiamento di realismo critico è però oggi certamente del tutto minoritario. E probabilmente ci sono, per le cause che prima ho cercato di descrivere, buone ragioni perché lo sia. Al contrario, sembra molto diffuso l’atteggiamento di rispecchiamento organico, nel doppio significato descritto all’inizio, cioè in quanto praticismo empirico e in quanto tentativo di rappresentare, con tutto l’assenso possibile, la condizione postsociale in cui ci muoviamo nei suoi caratteri: tecnologie, scienze e mercato come ideologie, globalità e flessibilità come strumenti del profitto, successo e potere come obiettivi, prevalenza della gestione sugli scopi e ossessione (positiva o totalmente negativa) del futuro come modo di sfuggire alle contraddizioni e alle paure del presente. Tutto sembra, per gli architetti, concentrato sulla società intesa non come materiale dell’opera ma come destinazione e ancor più come clientela, proprio perché esiste anche una forte identificazione tra pubblico e clientela: scontentare il pubblico è il primo danno che si può arrecare al cliente. Che cosa sia realismo nelle pratiche artistiche dell’architettura e come lo si distingua da altre attitudini o volontà d’arte è quindi, come abbiamo visto, questione tutt’altro che facile da definire. Un’attitudine criticamente realista trova difficoltà nel cercare rispondenze concrete nella forma architettonica almeno tanto quanto nel ridurre il realismo a rispondenza meccanica alle condizioni tecniche di produzione. Il confronto che, per la sua stessa natura ontologica, la grande architettura continuamente propone con i propri fon-

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damenti, con la sua stessa essenza costitutiva, il considerare, cioè, stili, metodi costruttivi, necessità e tensioni espressive quali articolazioni di uno stesso principio, di uno stesso ergon poietikòn, dal quale si misurano le distanze diversamente articolate ogni volta dalle condizioni, non è però un ostacolo allo sguardo che si pretende realista. L’immaginazione non è solo la costituzione di ciò che non esiste ancora, ma la modificazione profonda dei significati e delle organizzazioni di ciò che conosciamo e delle possibilità di trasformazione e persino di ribaltamento del noto, che è comunque – nella interpretazione della sua realtà storica e nel confronto con lo stato della nostra soggettività – il nostro piano di riferimento, anche oppositivo. La dialettica tra condizioni, fondamenti e ipotesi che caratterizza tutta la tradizione, e soprattutto quella moderna, dell’architettura europea, offre alla nostra disciplina il terreno per la costituzione continua di nuovi orizzonti di senso per mezzo delle proprie forme specifiche. Si tratta di riconoscere le divaricazioni che sussistono tra intenzionalità simboliche e valore simbolico effettivamente riconosciuto, ma sovente proprio lo slittamento tra i due può costituire un contenuto importante dell’opera17. Anche se fino a qui si è sottolineata l’importanza dell’atteggiamento critico nella costituzione dell’orizzonte di senso, 17 Diverso discorso sarebbe necessario fare sull’allegoria la cui tecnica di significazione indiretta sembra (se non ricade nell’estetismo) destinata, nella modernità, ad alludere al dimenticato, al nascosto, al perduto, anche senza necessariamente passare attraverso l’inconciliabilità tra forma e contenuto. Renato Solmi, nell’introduzione a Walter Benjamin, Angelus novus, Einaudi, Torino 1981, scriveva, a proposito dell’allegoria, della «originaria presenza di una verità nella lingua, una scrittura che in certo modo precede la lingua che si tratta, per mezzo dell’arte, di far venire di nuovo alla luce», come sostanza stessa della realtà. Questo è per l’architettura l’allegoria del suo stesso fondamento, ciò che è possibile riconoscere in quanto tale e in nessun modo decostruibile, come l’atto di costruire poeticamente.

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non si può dimenticare infatti il peso dell’attitudine intrinsecamente materiale e positiva dell’azione architettonica. Positiva (o, se si vuole, in qualche modo anche collaborazionista, in quanto la presenza della necessità pratica e dell’attore che la rappresenta è per noi particolarmente cogente) non solo perché, come opera, essa è, al pari di ogni altra pratica artistica, costruzione, cioè costituzione di ordine, per quanto complesso e difficile da riconoscere, ma perché la natura del suo processo di messa in opera è plurima, soggetta alle leggi fisiche, alla gravità, alla legge delle connessioni tra le parti, a quella dell’abitabilità, a quella del montaggio di elementi diversi non come rottura linguistica ma per la costituzione finale di un’unità nuovamente organica. Da questo punto di vista il realismo (critico) architettonico è anche organicità rispetto ai materiali e ai loro modi di produzione e discussione sul loro modo di impiego. Peraltro non si può certo attribuire senso realista all’architettura solo perché essa affronta (e talvolta risolve) problemi di uso, di costruzione tecnica, di economia, di gestione, anche se questi sono materiali non solo ineliminabili ma preziosi della progettazione architettonica. È noto che molti oggetti presenti nei nostri musei sono stati fatti per ragioni del tutto pratiche (o magiche), per decorare case o per onorare personaggi pubblici o divinità, comunque con scopi d’uso pratici e simbolici ben configurati, che sono proposti al momento della concezione, come materiali essenziali della costruzione dell’opera, ma capaci oggi di essere soggetti a interpretazione altra. L’architettura, inoltre, è il prodotto di una collaborazione plurima in cui molte diverse personalità contribuiscono alla sua costituzione, soggetta, cioè, al principio di realtà come relativa oggettività nella discussione esplicita delle sue scelte,

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nel suo lungo processo di passaggio indiretto dal progetto alla costruzione. In questo modo essa dialoga continuamente con i propri limiti generali e specifici, ne utilizza i confini per superarli o rispettarli, sempre guardando positivamente alla loro esistenza come punti di riferimento. Certo, la nozione di realismo applicata all’architettura non si costituisce in ragione del fatto che essa è sempre connessa, come si è detto, a uno scopo pratico costruttivo e funzionale, ma piuttosto a partire dalle forme con cui tale scopo diventa finalità, ossia dal modo in cui l’autore pensa la realtà in moto e dialoga con essa criticandola e rappresentandola nelle sue contraddizioni come nelle sue possibili alternative, e dal modo in cui il nuovo è capace di rendere attuali anche i nostri più antichi sentimenti. Qualsiasi giudizio non deve opporsi a tale dialogo evocativo e alle soluzioni che da esso derivano (compreso il materiale offerto dal giudizio stesso), ma proporre la sua presenza e quella dei conflitti che esso rende palesi e, nello stesso tempo, per mezzo dell’opera, offrire a essi un ordine. Poiché è mia convinzione che carattere strutturale della nostra disciplina in quanto pratica artistica sia di lavorare con le condizioni empiriche quale materiale ineliminabile del progetto, io attribuisco alla discussione sulla gerarchia, sulla natura e sui significati di queste condizioni una grande importanza nella costituzione dell’architettura. Condizioni empiriche e realtà, ho detto prima, non sono la stessa cosa: cerco qui di attribuire alla parola ‘realtà’ un significato più profondo, riferito alle strutture che penso reggano – sia pure provvisoriamente – le condizioni empiriche e dunque riferito da un lato, ancora una volta, penso a un realismo non naturalistico, ma capace di un giudizio su tali condizioni e sulle loro prospettive, dall’altro, a una riflessione che connetta la loro stratificazione storica a fondamenti e permanenze, senza at-

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tribuire a queste ultime il valore di realtà immutabili ma, al contrario, trascendentali, cioè che non intendono alcuna negazione del mondo reale, ma fanno di esso il terreno necessario alla costruzione di ogni nuovo presente. L’architettura, nel suo farsi come nel suo giudizio, non può prescindere da questo processo; e non lo può in una doppia maniera: perché essa lavora con la condizione in quanto materiale da ricostruire e perché non rappresenta la realtà ma si aggiunge a essa, ne modifica l’assetto senza alcuna possibilità di verosimiglianza imitativa che è terreno di altre pratiche artistiche. Questo rende l’architettura resistente alla narrazione, all’umorismo, all’espressione diretta del sentimento, elementi essenziali a un realismo mimetico che sono, per la pratica artistica dell’architettura, materiali presenti al suo processo di costituzione ma da incenerire per utilizzarli. Le sue narrazioni, quando esistono e non si sono completamente trasformate in materiale della progettazione, prediligono comunque le forme paratattiche piuttosto che quelle descrittive. Si può parlare di linguaggio dell’architettura solo in senso metaforico («Se le parole, si dice, sono pietre – scrive Tomás Maldonado – non è vero che le pietre siano parole»), anche se la discussione sulla sua configurazione formale è integralmente connessa alla sua costituzione. Le arti figurative, anche se in senso metaforico, posseggono un linguaggio spaziale, mentre il linguaggio verbale, come già scriveva Lessing nel Laocoonte, è lineare e si sviluppa nel tempo. Tuttavia, sebbene nessuna delle arti plastiche sembra ascrivibile all’ambito della semiotica (Benveniste), questo non elimina il problema della interpretazione critica dell’opera figurativa per mezzo degli strumenti letterari, né il riversamento in essa dei materiali provenienti dagli elementi linguistici, retorici, allegorici e simbolici, con tutta la loro importanza a

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livello della costruzione dell’opera stessa come della sua lettura18. Questo, con tutte le specificità che riguardano l’architettura e le complicazioni-confusioni che derivano sia dal convogliamento, per mezzo della lingua, della realtà circostante come materiale, sia dalla interpretazione della realtà come empiria economico-funzionale; dalla confusione, cioè, tra verità come finalità e verità come efficacia (un aspetto della difficoltà di una netta distinzione tra mezzi e fini), sia da quella di una pura imitazione simbolica dei valori riconosciuti in quanto immaginario collettivo. È ben evidente invece che proprio solo quella piccola parte delle opere che la pratica artistica è in grado di proporre in modo non solo produttivo costituisce il contributo essenziale della sua pratica artistica. L’architettura deve in conclusione proporsi, io credo, alla realtà con ragionata misura e stabilire una distanza critica dalle condizioni empiriche, comprese quella della sua stessa tradizione e delle regole del suo farsi, che vanno interrogate, violate, anche per mezzo dell’invenzione necessaria del linguaggio, senza che il loro orizzonte ontologico scompaia: e anche questa è una speciale interpretazione del realismo. L’alternativa è alla fine, ancora una volta, di porsi in un rapporto organico con la realtà empirica del presente e con i suoi valori o, al contrario, fare del proprio lavoro architettonico una critica positiva a tale realtà. Naturalmente non è 18 La relazione tra pratica artistica e interpretazione è evidentemente assai più complessa di questa mia semplificazione. La vicinanza si fa evidente quando si parla di poesia, dove interpretazione e creazione utilizzano ambedue lo stesso mezzo, il linguaggio, per realizzarsi. Nel caso delle arti visuali la questione della relazione tra segni e significati è più complessa e indiretta e soprattutto essa è profondamente mutata, come tutti sanno, con la modernità e la sua guerra alla declamazione. Vi è un interessante capitolo del libro di Hans Georg Gadamer, L’attualità del bello (un’antologia di scritti sull’arte che qui cito nella traduzione francese del 1992) che riguarda proprio questi problemi.

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compito dell’arte giudicare (il giudizio, inevitabile, è però uno dei materiali da costruzione importanti), bensì proporre alternative e possibilità. Il problema è cioè, ancora una volta, di porre (per mezzo dell’opera) una distanza critica con la realtà che ci consenta di tenerne conto come materiale essenziale, di dialogare con essa, ma, nello stesso tempo, permetta la costituzione (o almeno l’indagine) di un’alternativa possibile per mezzo degli strumenti specifici della nostra pratica artistica: a partire dall’inevitabile positività del fare. Il modo attraverso cui riempiamo, per mezzo della qualità dell’architettura, quella distanza critica è un atto che muove la realtà verso una diversa condizione, perché «un’architettura degna dell’uomo – ha scritto ancora Adorno nella stessa conferenza che prima ho citato – ha degli uomini e della società un’opinione migliore (o almeno, io dico, diversa) di quella che corrisponde al loro stato reale». Il problema di un’architettura realista resta cioè, ancora una volta, quello della proposta come misura di una distanza critica che ci unisce alla realtà e ci separa nello stesso tempo da essa, non quello della sua rappresentazione o del suo rispecchiamento. Un ruolo che cerca solo di testimoniare la presenza delle alternative possibili anche senza pretendere, per mezzo di esse, di trasformare direttamente i sistemi sociali, ma senza cedere alle opinioni delle maggioranze rumorose e alla loro necessità di rappresentazione. Questo credo descriva abbastanza chiaramente anche le grandi differenze di punto di vista sulla realtà che presiedono alle scelte dell’architettura dei nostri anni. Se si mette da parte la diffusa (quantitativamente) opinione che l’architettura sia solo una forma di efficiente servizio al cliente nel contesto dei diversi specialismi tecnici e organizzativi che presiedono alla costruzione, le attuali posizioni possono essere schematicamente divise in tre tronconi.

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Da un lato, coloro che vogliono rappresentare in modo analogico i valori dell’immaginario della maggioranza rumorosa: novità incessante, immaterialità, alte tecnologie, ricchezza, successo, lusso e quant’altro; coloro, cioè, che in modo più o meno conscio costruiscono gli apparati apologetici delle ideologie dominanti del mercato e della gestione. Da un altro lato, coloro che guardano il fenomeno con l’occhio critico che cerca di indagare vantaggi e svantaggi della condizione in cui ci muoviamo, di pensare il presente come luogo di misura fra tradizioni e futuro, che immaginano alternative realistiche senza fughe utopiche e senza accettazioni frettolose. Tra le due, chi cerca l’assoluta indipendenza del soggetto. Tutto questo dà luogo a tipi di figurazioni architettoniche molto diverse: naturalmente con una vasta area di soluzioni intermedie. Da un lato, la tecnica costruttiva come pura opportunità, sconnessa da ogni organicità con le figure che sottolineano la loro indifferenza rispetto a essa e vogliono accedere a una descrizione simbolica delle opportunità senza obbligo di scelte di valore. O, al contrario, il tentativo di avvicinare simbolicamente le tecnologie della costruzione a quelle più avanzate (aerospaziali, dei nuovi materiali ecc.) e fare di questo avanzamento la finalità della stessa figurazione architettonica. Entrambe le attitudini trovano importante supporto nella rappresentazione delle superfici tridimensionali per mezzo del calcolatore e nella possibilità di rappresentare piani complessi, simbolo illusorio di una fantasia più libera. Sulla sponda opposta, i «realisti» sembrano voler lavorare anch’essi sul piano delle opportunità con l’ascolto delle volontà collettive (senza forse tenere sufficientemente conto dell’omogeneità delle opinioni e dei comportamenti derivanti dai convincimenti proposti dalle comunicazioni di massa),

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correndo alcuni rischi di verismo regionalistico o di soggettivismo ideologico e, comunque, incontrando progressive distanze poste dall’opinione collettiva intrasparente rispetto ai propri autentici interessi. Più in profondità, alcuni architetti si propongono di affrontare il tema dell’incertezza in quanto realtà del mondo contemporaneo. Tema sicuramente centrale della nostra condizione esistenziale, la cui rappresentazione in termini di architettura presenta però alcuni seri ostacoli. Il primo è che si possa rispondere all’incertezza con l’apertura infinita, con l’indeterminatezza, in qualche modo paradossalmente un’architettura dell’attesa dell’architettura stessa. Un secondo ostacolo è costituito dalla struttura non direttamente narrativa dell’architettura e quindi dalla difficoltà di descrivere simbolicamente l’incertezza stessa. Al contrario, l’architettura del realismo critico sembrerebbe piuttosto avere il compito di fissare proprio i traguardi, i punti fissi materialmente costruiti su cui la stessa incertezza può misurarsi. Credere di poter oggi trovare la verità nell’espressione soggettiva autonoma quando è la condizione della produzione nel mondo contemporaneo a sospingere verso la soggettività come diversità compensativa, significa solo produrre novità senza necessità: salvo quella del mercato stesso. Resta in ogni caso necessario insistere nel mettere in discussione l’idea che il realismo in architettura sia, come ho scritto prima, soprattutto solo forma di rispondenza a uno scopo pratico: tecnico, costruttivo, distributivo. Anzitutto perché una funzionalità radicale indipendente da ogni contesto è del tutto irraggiungibile. Inoltre perché scopi e strumenti sono materiali ineliminabili del fare e dotati di significato storico e infine perché, per mezzo di essi, l’architettura è costretta a mi-

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surarsi con le condizioni del lavoro umano e con le idee correnti del costruire per abitare. Tuttavia, come qui ho più volte sottolineato, scopo e finalità sono due cose diverse. Anche se non vi può essere per l’architettura finalità senza scopo, non si può considerare realista un’architettura totalmente dipendente da quest’ultimo19. Un’architettura «utilitaristica» è quanto di meno realista si possa immaginare, se per realista si intenda un’architettura che utilizzi criticamente il materiale offerto dall’insieme delle condizioni quale elemento costitutivo delle finalità dell’opera. Proprio la distanza dallo scopo che la finalità istituisce è ciò che permette all’architettura di non avvicinarsi troppo alla risposta empirica tanto da rimanerci affondati né allontanarsi troppo da essa tanto da fare della finalità un modo di eludere i problemi del presente e delle sue possibilità alternative.

19 Naturalmente è importante non nascondersi che definire cosa sia finalità per le arti è una questione piuttosto complicata. Vorrei riprendere qui una riflessione che ho già fatto in altri scritti. Le finalità dell’architettura (naturalmente nella convinzione che le sue opere non si esauriscono con la loro percezione estetica) non sembrano comunque essere definibili in modo convincente attraverso i concetti di espressione, comunicazione, rappresentazione simbolica o per mezzo di quelli di novità e unicità e tanto meno attraverso l’idea di bellezza o di sublime, anche se tutti questi concetti sono implicati in diversi gradi dall’idea di finalità. Nel caso dell’architettura la finalità ha poi anche specialissime connessioni con l’idea di uso come materiale essenziale per la costituzione della finalità stessa. Questa a ogni modo si presenta, al di là dei suoi stessi contenuti intenzionali, solo nella forma dell’opera compiuta, che certamente necessita di un’intenzionalità originaria ma si libera di questa una volta che l’opera è terminata: o meglio è in grado di produrre nel tempo diversi effetti di correlazione interpretativa. Da questo punto di vista si può dire che le finalità dell’opera sono infinite (o, per qualcuno, che l’arte è senza finalità) ma che esse muovono da un nucleo rigido totalmente determinato. Per ora mi accontenterei di dire che, per le opere dell’arte, la finalità è ciò che esse rappresentano nell’ordine offerto dall’opera, come interrogazioni intorno alla verità del presente. Di mìmesis quindi si tratta nel significato più antico del termine, dove ordine e rappresentazione sono nell’opera totalmente coincidenti.

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Realismo e contesto

Differenze indifferenti L’idea di realismo sembra comporti, nelle pratiche delle arti, l’obbligo di un riferimento a situazioni geograficamente e storicamente ben determinate. In qualche modo esso sembra cioè, quasi naturalmente, implicare un contesto specifico. Uso qui la parola ‘contesto’ perché cerca di indicare qualcosa di più complesso e maggiormente dotato di profondità storica della nozione di luogo, o di sito in quanto ambito spaziale determinato. Vi è certo un contenuto anche temporale nell’idea di luogo (dar luogo, a tempo e luogo, aver luogo, in primo luogo...), e comunque si tratta di un sostantivo che rimanda anche alla storia e alle mitologie di uno spazio determinato; tuttavia la nozione di contesto mi sembra meno volta all’indietro, più connessa alle contraddizioni e alle possibilità della condizione del presente. Essa implica inoltre un’idea di spazio non omogeneo, dotato di densità differenziate di depositi e detriti con cui è necessario entrare in relazione. Quando le opere appaiono separate dal contesto in cui si vanno attuando, tale separazione può essere attribuibile a diversi motivi anche al di là della semplice indifferenza o della voluta ostilità: il carattere critico, oppositivo, di novità che distanzia le opere dall’abitudine consolidata; la loro connessio-

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ne con una condizione umana universale che si vuole senza tempo o ipermoderna; il riferimento imitativo a contesti diversi che si ritengono modelli da imitare; l’immagine di un valore globale da imporre in quanto meta finale della storia, come, nel passato, quelli della religione o della gerarchia sociale o, nei nostri anni, i valori della tecnologia e del mercato, sino a pensare al «mercato stesso» come a uno specifico, amplissimo contesto storico. In questo caso il parametro di valore dell’arte (e dell’architettura) è solo il successo, nella forma dell’adesione all’opinione dominante. Come è noto, la discussione sul contestualismo, nella sua oscillazione tra regionalismo critico e architettura nazionalpopolare, tra rispetto della geografia e delle relazioni percettive istituite, tra conservazione e dibattito sull’imitazione, tra globale e locale, come si usa dire, ha occupato ormai mezzo secolo di dibattito sull’architettura. Resta comunque una questione ingombrante: ragionevolmente utilizzata, polemicamente negata o stilisticamente invocata. Peraltro i caratteri «nazionali», (si tratta di una definizione molto approssimativa), sono in qualche modo anche oggi riconoscibili per chi vi è interessato. Alle architetture portoghesi, francesi, nordamericane, inglesi, svizzere o olandesi, noi possiamo però almeno attribuire alcuni tratti e metodi distinti, apparentemente transitori ma in realtà persistenti, anche se sovente negati dagli stessi protagonisti. Al di sopra di questi caratteri vi è poi l’arcipelago dell’identità dell’architettura europea per rapporto ad altri grandi cicli geografici e storici che la contemporaneità non ha cancellato. Imperativo, però, in un discorso sul contestualismo, sarebbe sgombrare il campo da alcune incertezze assai diffuse nei discorsi degli architetti, che riguardano in particolare le nozioni di tradizione e specificità. Tali incertezze sono ac-

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centuate a questo proposito dall’uso sovente indebito e semplificatorio della riflessione filosofica, dall’abitudine, cioè, a stabilire un corto circuito eccessivamente semplificato tra le idee di quest’ultima e le questioni dell’architettura. Vi sono molte giustificazioni per questo atteggiamento, prima di tutto un’autentica ansia di stabilire relazioni e fondamenti per una disciplina – come l’architettura – che sembra averli smarriti. Ma vi è anche un diffuso giustificazionismo che cerca di nobilitare soluzioni architettoniche di scarso valore, insieme a un’ansia per il recupero dell’ultima novità interpretativa ai fini di una amplificazione comunicativa, che a sua volta ne rende sovente del tutto inattendibile il trasferimento teorico. Forse è necessario fare lo sforzo, anche nel caso del realismo critico, per la ricostituzione di un livello di riflessione che riguardi la disciplina architettonica un po’ più a partire dalle sue questioni interne di una pratica artistica che lavora, come si è detto prima, con le condizioni empiriche in quanto materiale ineliminabile del proprio agire. Questo implica una concezione del progetto quale dialogo con tali condizioni empiriche ed è compito della riflessione critica scegliere quali condizioni si ritengano strutturali. Esse si rivelano ai nostri strumenti disciplinari anzitutto come forma dello stato delle cose, dei sistemi geografici e sociali, dei loro principi insediativi e come ragioni che alla trasformazione di quelle forme presiedono. Anche se il dialogo progettuale con il contesto è prima di tutto riconoscimento dell’esistenza dell’altro, non per questo è legittimazione automatica delle sue ragioni: esso non ha nulla a che vedere con l’assimilazione e la conciliazione né, ovviamente, la costruzione del progetto può essere dedotta dalle condizioni contestuali. Al contrario, il progetto si presenta, da questo punto di vista, come costituzione della distanza critica che ci separa dal contesto e, proprio per questo, nella pre-

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sa in considerazione di esso. Il modo di essere architettonico di tale distanza è la qualità del progetto di architettura. Tale qualità è quindi la forma del nuovo contesto. Poiché abbiamo parlato di progetto come dialogo, nozioni come quelle di posizione e relazione, di scala e di misura e gli specifici aspetti di disegno che ne derivano, assumono valori particolarmente rilevanti, mentre la verità limitata e specifica del caso concreto fornisce qui il terreno di fondazione del progetto. Ma se il terreno di fondazione è essenziale, esso non è tutto il progetto di architettura. Una grande quantità di materiali, ancorché orientati dalla verità della condizione specifica, pervengono al progetto da diverse distanze, da altri livelli contestuali. Attraverso lo spessore selettivo della nostra soggettività storica, noi scegliamo tra essi, anche se sulla scelta agiscono pregiudizi che nessun esercizio ci permette di neutralizzare completamente e che, in qualche modo, il progetto utilizza, sui quali muovono creativamente le astuzie del desiderio e le ragioni del cambiamento. Anche queste ultime devono essere oggetto di critica, ma rappresentano in ogni modo il punto di partenza di quel cambiamento. La natura della possibilità di modificazione del sito non è quindi tutta estraibile dal confronto critico fra le leggi insediative del contesto né solo dalle ragioni della modificazione. L’interrogativo essenziale è allora quale connessione necessaria, orientante, leghi la trasformabilità del sito e il giudizio sulle altre condizioni generali, primo fra tutti quello sullo stato stesso della nostra disciplina e della sua necessità. Una seconda questione, peraltro strettamente connessa con quest’ultima riflessione, riguarda il compito di distinguere e separare, che è proprio di ogni pratica delle arti. Un compito a cui ci si deve richiamare proprio quando si fa abusivamente riferimento al valore di pacificazione tra idee del tutto

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contraddittorie che ha assunto la parola «contesto» nell’attuale disincanto del pluralismo volgare. Il nodo dell’interpretazione volgare del pluralismo è qui essenziale. Il pluralismo malinteso trasforma in falsa certezza la scelta puramente espansiva del soggetto e dei suoi comportamenti. Più che costruire libertà, consente vacanze generalizzate; non elimina l’ideologia, la trasforma solo in ideologismo del senso comune, o nel suo ribaltamento artificioso. Tutto ciò affonda anche le radici nel proprio contrario, nell’ideologia della differenza forzosa, della diversità come lotta per la conquista del mercato, in qualche modo simmetrica alla cementante mediocrità del garantismo di massa. Il pluralismo così inteso trasforma anche la fatica dell’infrazione nella pura conferma di sé, nella esorcizzazione dell’ostacolo rappresentato dallo sforzo di distinzione. Essere tutti diversi, cioè diversamente tutti nello stesso modo inefficienti sul piano della costituzione del valore, sembra il risultato più diretto di questo procedimento. Credo sarebbe quindi necessario, per parlare di contesto, esaminare (distinguere e con-testare) le diverse pratiche che vanno sotto l’etichetta del contestualismo. L’esame di una condizione deve avere come punto di partenza l’impugnazione della condizione stessa e insieme il riconoscimento di ciò che di strettamente intrecciato e connesso essa comporti: anzitutto proprio il riconoscimento dell’esistenza dell’altro e la necessità di dialogo che nasce dalla differenza. Differenza di luoghi e di condizioni che nessun globalismo è riuscito ancora a rendere omogenei e che, al contrario, la nostra facilità di spostamento e di informazione potrebbe mettere a confronto efficace. Peraltro lavorare come architetti in luoghi diversi dal proprio appartiene a una antica tradizione europea di questo mestiere. È ovvio ricordare i numerosi architetti della Grecia

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antica che operarono a Roma e in tutto il Mediterraneo o i concorsi internazionali che presiedettero alcune delle grandi costruzioni di cattedrali gotiche, le influenze di paesi orientali sull’architettura portoghese o cinesi su quella inglese del XVIII secolo o, al contrario, l’indifferenza contestuale della colonizzazione spagnola e gesuita in Sudamerica. E poi Sebastiano Serlio e Bernini in Francia, Van Vittel in Italia, Jean de Rouen a Coimbra, il palladianesimo in Inghilterra, Quarenghi o i Rastrelli a San Pietroburgo ecc. L’internazionalismo in quanto dialogo tra differenze è sempre stato un carattere importante della cultura architettonica, anche se i risultati nelle opere di quel dialogo vengono poi diversamente interpretati; il neoclassicismo come modernizzazione (o come conservazione subito dopo) tra il XVIII e il XIX secolo, la diffusione cistercense nell’Europa del XII e XIII secolo come colonizzazione religiosa, il neoromanico in Italia e Germania alla fine del XIX secolo come architettura nazionale o l’internazionalismo europeista delle avanguardie come liberazione collettiva: tutte prese di posizioni ideali, punti di vista generali nei quali l’attività dell’architettura reagisce in modo differenziato rispetto alle condizioni, suscitando nuove proposte progettuali. I grandi cicli culturali come la civiltà greco-romana o quella europeo-cristiana erano connessi da un tessuto di convinzioni comuni che permettevano la costituzione delle articolazioni e delle misurabili differenze interne, ma non escludevano il misurarsi con grandi cicli di civiltà diverse. «È la tradizione classica – scrive Carlo Ginzburg – che ha inventato il primitivismo così come le Demoiselles d’Avignon mettono in scena lo scontro tra culture figurative eterogenee» – dal punto di vista di quella stessa tradizione, aggiungo io.

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Naturalmente la diversità è stata (ed è) nello stesso tempo una grande ricchezza dell’umanità, ma anche la fonte di conflitti tragici e di incomprensioni. Nelle attività degli architetti di oggi tutto questo sembra impraticabile, volontariamente messo da parte, o ridotto a echi folcloristici, che consentono di colorare superficialmente le nostre uniformità, certo anche a causa di una cultura globale che si pretende unica guida e parametro di progresso e che comunque provoca un intreccio di subordinazioni ma anche di resistenze cieche, di strappi laceranti e di ritiri imprevisti. Così, sovente, al colonialismo economico-culturale dei nostri anni molti paesi in via di sviluppo (o forse sulla via di nuove povertà) reagiscono con un’ingenua, e spesso violenta, versione modernizzata di quella che pensano essere la loro tradizione, oppure, al contrario, con una adesione acritica ai modelli offerti dal globalismo architettonico della tecnologia estetizzante. Resta comunque evidente il processo di progressiva omogeneizzazione delle forme architettoniche sotto il segno dell’immagine del prodotto ancor prima che della tecnica. Ciò tuttavia, anziché contribuire alla costituzione di un linguaggio comune, pretende una insignificante variazione soggettiva della soluzione architettonica sino a giungere alla monotonia della forzosa disuguaglianza delle forme. Tutto questo sembra trovare il consenso entusiasta, o almeno una solerte e interessata adesione, di una parte rilevante della cultura architettonica alla ricerca di un proprio spazio di sopravvivenza. Ma qual è, peraltro, il senso della diversificazione in quanto fondazione di nuove identità nel mondo globale del personalismo di massa? Con quale senso della necessità il realismo critico può mettere in evidenza limiti, possibilità e contraddizioni di una travolgente unificazione di gusti, desideri,

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preferenze, comportamenti e di un simmetrico desiderio di distinzione soggettiva, che per affermarsi nega proprio ogni specificità di condizione o fa di essa una degradata forma di difesa della tradizione o apre, con atto di beneficenza, all’arte postcoloniale? Differenza e ripetizione sono elementi costitutivi di ogni identità, anche se è sempre più arduo parlare di identità quando la realtà si dissolve nell’immagine o rappresenta in essa solo la superficie brutale delle proprie uniformità. Si tratta comunque di contraddizioni che si possono eliminare spegnendo il televisore e realizzando così ogni sorta di rimozione o, al contrario, di persecuzione fantasmatica. Informazione indifferenziata e sostituibilità sembrano muovere contro ogni costituzione di identità diverse perché comunicanti1. 1 Forse si potrebbe cominciare col discutere la differenza in relazione con l’identità e la somiglianza con l’idea di ripetizione. Gilles Deleuze scrive: «Il primato dell’identità, in qualunque modo esso sia concepito, definisce il mondo della rappresentazione», e quindi, potremmo aggiungere, della concezione stessa delle pratiche dell’arte e dentro di esse dell’architettura. «Ma il mondo moderno – prosegue – nasce dal fallimento della rappresentazione come dalla perdita dell’identità. Tutte le identità non sono che simulate, prodotte come da un effetto ottico, da un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione» (Differenza e ripetizione, trad. it., Il Mulino, Bologna 1972). Nel campo specifico dell’architettura la storia ci insegna che più precisa è l’identità collettiva, più forte è il significato delle misurate differenze all’interno di essa. Anzi, è la ripetizione di regole comunemente vissute che misura il significato della differenza, la quale prende senso dalla loro esistenza. Quando, come nei nostri anni, la differenza pretende di rappresentare l’identità, essa si identifica con la ripetizione somigliante, ripete l’infrazione (ripete cioè l’imperativo a differenziarsi in ogni modo, a prescindere dai fini) costituendosi come rumore anziché distinguendosi come voce. Questo è il risultato di una molteplice convergenza: da un lato la messa in evidenza del nuovo come valore di merce anziché come necessità critica, dall’altro la cultura di massa che promuove dialetticamente la necessità della distinzione del soggetto come unicità, o meglio, unicità riconosciuta come uscita dall’anonimato; infine, nell’accezione volgare del pluralismo, la li-

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Niente, credo, come la periferia esterna della città moderna è la rappresentazione concreta di questa condizione. Il Cairo, Shanghai, e poi Città del Messico, San Paolo, Johannesburg, Bombay, città di 16, 12, 20 milioni di abitanti, le cui grandi differenze di clima, tradizione, geografia, cultura, religione, politica sono divorate, unificate, trasformate in un enorme ammasso di prodotti tecnici, dalle merci più piccole a quelle più grandi chiamate edilizia, che rincorrono bisogni e guadagni in una nube di polvere del fare e demolire senza fine dentro la quale annegano i luoghi e le architetture che ne costruivano un tempo l’identità. Eppure noi seguitiamo, e con ragione, a nominarle come entità distinte. Là dove sembra essersi dissolta ogni regola insediativa architettonica (l’allineamento stradale, il recinto o la ben più difficile relazione misurata tra i volumi liberi) fa la sua apparizione la nuova regola dell’isolamento, della difesa da ogni intrusione e dell’esibizione dell’inutile diversità, o sorge improvviso un vasto frammento del regno della quantità e della ripetizione meccanica, ricordandoci che si è costruito di più negli ultimi cinquant’anni che nei duemila precedenti. Anche la periferia caotica e aggressiva della città africana, in cui squilibrio e povertà assoluta paiono difendere una condizione estrema della differenza e della mutazione, sembra, nelle nostre prospettive, essere in attesa di un miglioramento che vuole coincidere con una forma di normalizzazione ribertà vissuta sovente contro l’altro, anche se essa non ci dice molto sulla scelta e sui suoi criteri e obiettivi. L’identità del soggetto sembra realizzarsi contro quella della collettività, anche se essa sembra docile alle sue regole di comportamento più omogenee, compresa quella della stessa distinzione competitiva. L’ideologia della deregolazione è conseguenza anche di queste attitudini, così come lo sfuggire al controllo è assimilato a un atto di (redditizia) indipendenza.

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spetto alle regole di una globalizzazione i cui esiti architettonici e urbani sono quelli disastrosi prima descritti. Vi è chi si appella alla necessità di nuovi apparati cognitivi che permettano di leggere nell’apparente caos delle ipercittà le scelte indipendenti ma sempre razionali che le costruiscono. Tuttavia, non si tratta solo di reciproca indifferenza e spesso contraddittorietà nella logica dei comportamenti, ma del diverso tipo di razionalità che le guida rispetto a quella necessaria perché essi possano convergere nella costruzione di un’identità urbana. Anche la città antica è ovviamente la somma di razionalità autonome, ma esse rispondono a un’ottica e a una serie di regole civili comuni (la prossimità, la gerarchia delle parti, la sequenza degli spazi aperti definiti, la regola dell’allineamento stradale ecc.) in grado di convergere su un’idea di città come prossimità misurata di fondarla su un sistema insediativo le cui tracce (come ci ha insegnato Marcel Poëte) permangono nel tempo. L’inquietudine del cittadino nascerebbe dalla crisi degli apparati concettuali, quali città e campagna, centro e periferia, luoghi sacri e profani, che non sono più in grado di spiegarci l’esperienza metropolitana. Forse la presa di coscienza delle ragioni dell’inquietudine, del disamore, il disagio della irriconoscibilità delle fonti di decisioni (e nel medesimo tempo il desiderio di partecipare ai vantaggi delle loro geometrie decisionali) nascono anche da questo; oltre che, io dico, dalla mancanza di orizzonti alternativi, o meglio dalla convinzione che non ci sarebbero né ragioni né valori per costruire un progetto alternativo. L’individualismo atomistico ha perso la possibilità di prendere senso in quanto membro di micro o macrocomunità, ma non vi sono segni di una nuova vita associativa: per ora neanche nelle associazioni di minoranza nonostante l’idea di libertà attiva che sovente le sostiene.

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Le grandi difficoltà che presenta l’attraversamento dai principi di insediamento alle regole attuali dello sviluppo, dall’uso delle tecniche alla morfologia delle cose che l’architettura è in grado di produrre, costituisce – io credo – una sezione altamente significativa delle interpretazioni possibili della nozione stessa della realtà contemporanea in quanto fondata sul valore della sostituibilità che deriva dalla differenziazione infinita. Né si può dire che siano solo l’analogia e la dipendenza dai processi economici o la mimesi dell’ideologia della tecnica a sospingere verso l’omogeneità: la «personalizzazione di massa» di cui prima si è scritto è agente altrettanto vigoroso quanto la velocità del cambiamento di superficie, o meglio del cambiamento che si muove tanto più vorticosamente quanto più si riducono i margini di ogni possibile aggiramento della condizione, cioè del discoprimento o dell’invenzione di una sua realtà diversa. Questo non significa che non siano avvenuti negli ultimi trent’anni cambiamenti strutturali profondi e preziosi capaci di straordinari sviluppi, ma essi sono riguardati, un po’ troppo frettolosamente, come tutti agenti «nella linea del progresso», linea la cui direzione sembra volersi sottoporre a una definizione univoca. Ciò che è importante è invece costruire, di fronte alle occasioni offerte dal progresso tecnico e dal miglioramento del reddito, dei servizi e delle informazioni, i relativi principi di utilizzazione sociale ed etica in quanto materiali per le pratiche della differenza significativa o per la rappresentazione delle ragioni della crisi della differenza significativa e cioè, nella condizione di oggi, della crisi stessa della nozione di differenza. Non mancano anche coloro che individuano in tale condizione l’affermarsi di uno spazio di nuove possibilità. Questo non deve essere escluso in alcun modo.

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La città della frammentazione infinita La scoperta della esistenza e vitalità della cosiddetta città diffusa come fenomeno europeo economicamente, socialmente e morfologicamente rilevante (anche se il diverso modello nordamericano ne ha deformato sovente i giudizi) data ormai da più di un quarto di secolo. Come ogni scoperta, essa ha suscitato entusiasmi e deprecazioni eccessive che ne hanno sinora impedito non tanto un giudizio equilibrato quanto un «che fare» istituzionale e conformativo. Ciò che mi sembra è che, per ora, tali possibilità si presentino in forma di pura accumulazione, senza produrre un livello adeguato di criteri di scelta, o almeno di gerarchie che muovano da qualche principio di organizzazione non tanto dei valori quanto delle cose stesse e della loro economia sociale. Tutto questo sembra liberare la stessa pratica artistica dell’architettura dalla responsabilità della produzione di senso perché ogni direzione di rappresentazione diventa legittima e indifferente. Robert Klein e poi Manfredo Tafuri hanno scritto con meditata profondità sul tema della rappresentazione e della «crisi (o compimento) del referente», a partire dalla cultura rinascimentale come cultura critica dell’antichità, per giungere alla rottura costituita dal celebre dibattito settecentesco «tra antichi e moderni» intorno alla relativizzazione dell’idea di bellezza e di perfezione sino a quelle oppositive proposte dalle avanguardie2. Ma nella attuale condizione di compimento 2 La «crisi del referente», anche se autorevolmente si è fatta risalire al Rinascimento in quanto origine della modernità, ha assunto nell’ultimo secolo forme estreme nello stesso tempo di liberazione oppositiva e di assenza, di azione nel vuoto, che in parte potrebbero motivare l’attuale condizione di fluttuante uniformità delle opinioni. La crisi dello Stato-nazione e della Chiesa, quella delle ideologie, il ricorso a regole etiche volta a volta riferite a motivazioni tattiche, l’opinione, strutturalmente costruita sul continuo su-

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della crisi di ogni referente, sino alla sua identificazione con il mercato stesso, non vi è più possibilità di rappresentazione e nemmeno di operazioni di descrizione, bensì una totale coincidenza di forme espressive e dati di fatto: forse una condizione completamente nuova della stessa pratica dell’arte, se è ancora possibile definirla come tale. In ogni modo non vi è dubbio che oggi siamo di fronte anche a una rottura del tutto speciale della capacità di rappresentazione da parte dello spazio costruito, o quanto meno a un suo indebolimento; o almeno tale capacità si presenta come modo di essere generalissimo e ossessivamente ripetitivo degli elementi di riferimento del mondo contemporaneo: tecnica, mercato, produzione, immaterialità ecc. Dire, cioè, che l’architettura europea dei secoli medioevali fosse in ogni modo rappresentazione dei valori della religione apparirebbe a qualsiasi storico un modo troppo generico di giudicare, un modo comunque incapace di descrivere le relazioni tra punti di vista più specifici sulla questione e spazio architettonico costruito e di giudicare quindi sull’interesse qualitativo delle opere. Resta il fatto che l’architettura della colonizzazione cistercense nell’Europa del XII e XIII secolo poneva questioni e dava risposte che erano chiaramente rappresentate, con tutte le varianti dei casi, nell’idea di insediamento, nell’organizzazione distributiva degli edifici, nella costruzione e nella morfologia dell’architettura in modo leggibile: forse nell’unico modo mondanamente leggibile in quel tempo. permercato delle convinzioni delle tecniche e delle scienze, gli strumenti di potere delle comunicazioni di massa, sono tutti motivi importanti per la dissoluzione del referente (o per la sua risoluzione fondamentalista) e ovviamente per il tipo della sua rappresentazione nelle arti come conseguenza. Nonostante l’abbondantissima letteratura su questa questione, non ho trovato (certo per mia mancanza) un testo definitivo recente sui suoi meccanismi di azione sulle arti contemporanee.

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Se Microsoft oggi invade il mercato della Nigeria, in che modo è in grado di rappresentare architettonicamente la sua colonizzazione? E soprattutto: è interessata a farlo? È l’architettura ancora strumento adatto alla specificità di quella rappresentazione? E soprattutto: rappresentazione e corporate image, pubblica o privata che sia, sono la stessa cosa? Io penso di no. La frammentazione non riguarda più solo le differenze delle azioni dentro e fuori il soggetto e il loro senso, ma la stessa possibilità della connessione come valore e come promessa. Soprattutto sembra che, in generale, il modo di percepire lo spazio e il costruito, e quindi le attese intorno alla immaginazione del suo valore, passi attraverso forme di percezione assai diverse e fortemente concorrenti rispetto a quelle prodotte dall’architettura. Senza voler affermare che tutto il reale è divenuto virtuale, come qualcuno vorrebbe, è certo che l’immagine dinamica, in tutte le sue diverse forme, tende a sostituirsi – con i propri possibili rimandi mnemonici, con la continuità topologica delle superfici e le sue rotture improvvise, con i propri salti dimensionali, con le proprie tecniche di ripetizione ossessiva e di esagerazione caricaturale, con i suoi spostamenti ambientali attraverso lo slittamento estetico del montaggio di materiali eterogenei – alla significatività antica dello spazio architettonico, statico per natura, anche quando vuole rappresentare la dinamicità. A ben poco valgono gli inseguimenti anche della migliore architettura che, intenti a imitare tale carattere multimediale, cercano di restituirne il senso della provvisorietà dinamica, caratteri che sono del tutto impropri rispetto alla specificità dei mezzi architettonici o almeno del loro baricentro. L’improprietà potrebbe anche essere considerata un elemento dinamico importante (peraltro essa è stata ampiamen-

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te praticata dalle avanguardie nel primo ventennio del XX secolo), purché la distanza del baricentro disciplinare sia continuamente misurata. Riappare qui, mi rendo conto, la questione del fondamento (o se si vuole dell’essenza) dell’architettura, di quell’ergon poietikòn che ho più volte richiamato e la cui consistenza è oggi messa continuamente in discussione. Anche da questo punto di vista è necessario interrogarsi più a fondo intorno al perché del progressivo espandersi di una percezione non architettonica dello spazio su cui prevalgono i mezzi delle comunicazioni visuali di massa (o le interconnessioni puramente funzionali). I paesaggi dei «non luoghi», i deserti del transito, descritti da Melvin Webber, Marc Augé e da Richard Sennett, nonché, in generale, i processi di occupazione pulsante e senza interazione sociale dello spazio, quelli della crisi dello spazio aperto come spazio pubblico e della sua privatizzazione, sono gli elementi urbani più visibili di questi processi. Tutto questo, quindi, potrebbe essere letto in quanto accesso non volontario alla totale arbitrarietà dei segni (la Junk Architecture degli anni sessanta, l’architettura informe di cui parla Rem Koolhas o il warped space descritto da Tony Widler), che è il carattere dominante dell’architettura dei nostri anni, una sorta di deposito significativo del disordine che si pretende di per sé creativo e dell’indifferenza, in quanto prodotto della totale arbitrarietà etica e civile del postsociale in cui siamo immersi, che a sua volta è totalmente dipendente dall’abbandono autodistruttivo dei soggetti prodotto dall’ideologia globale del mercato, ai cui vantaggi, beninteso, non è ancora stata trovata alternativa efficace. Resta il fatto che la questione della rottura delle regole in assenza di necessità ideali, se non quella dell’interpretazione

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ossessiva della libertà in quanto mancanza di impedimenti anziché in quanto progetto, azzera oggi ogni capacità trasformativa dell’infrazione. È difficile però sostenere che la volontà di forma (e quindi di ordine, poiché ogni forma è tale) espressa dal realismo critico in architettura sia la rappresentazione della «volontà delle maggioranze»: essa non può che essere architettura delle minoranze. Nella sua organicità rispetto a valori del mercato e delle sue amplificazioni persuasive, la maggioranza rumorosa è del tutto scettica nei confronti di una modernità alternativa ed è invece favorevole a ogni forma di destrutturazione dell’intervento, in quanto vede in essa la possibilità di esprimersi e allietare senza trasformare o senza porre interrogativi intorno ad alternative riconoscibili. Tutto questo accentua inoltre una tensione verso la deterritorializzazione, logica conseguenza, peraltro, dell’ideologia del mercato globale, che indebolisce ragioni e legittimità di ogni specificità nella pianificazione locale come ogni necessità di connessione dell’architettura con la stabile geografia del proprio terreno di fondazione. Da un lato comportamenti, valori, informazioni tendono a far riferimento a modelli omogenei di natura planetaria, dall’altro le forme di capitalismo flessibile tendono a trovare ragioni di investimento che sono esclusivamente funzionali alle convenienze economiche offerte dalla combinazione tra territorio specifico e mercato globale. Le ragioni delle mutazioni appartengono sempre meno allo sviluppo dei caratteri propri di un territorio e in misura sempre crescente alle esigenze sopranazionali e quindi deterritorializzanti. I tempi di mutazione hanno come modello i tempi brevi o di medio termine dell’economia, mentre la costruzione della città e del territorio trova le proprie ra-

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gioni nella permanenza e la propria identità si costituisce nella lunga durata3. Rispetto ai processi di deterritorializzazione storici delle grandi migrazioni o delle colonizzazioni, le integrazioni sono affidate qui direttamente alla volontà della società stessa di strapparsi via dalle proprie tradizioni, oppure, al contrario, di reagire allo sradicamento con una volontà di conservazione4. Questo insieme di difficoltà si rappresenta con chiarezza nelle aree di periferia esterna delle città europee, dove la successione delle discontinuità di densità, di frammenti di principi insediativi, di resti abbandonati, è riconnessa solo dalla logica dei nastri stradali, dai percorsi irriconoscibili e destrutturanti. Naturalmente le cause complesse di questo fenomeno sono state infinite volte analizzate negli ultimi vent’anni: dal costo dei terreni all’ossessione del privato, dalla ideologia della deregolazione alla sommatoria discontinua dei diversi programmi di sviluppo comunali, con tutte le loro controindicazioni e contraddizioni in termini di costi e di ingombri delle infrastrutture, di consumo del territorio e di perdita di ogni 3 Si veda, a questo proposito, Metafore di eternità, nel mio Diciassette lettere sull’architettura, Laterza, Roma-Bari 2000. 4 Il tema della conservazione (progressivamente prima monumentale, poi ambientale e infine di paesaggio) e del suo ruolo meriterebbe una trattazione specifica anche a causa del dibattito teorico che la sostiene da due secoli. Da un lato la coscienza storica diffusa sospinge verso un più ampio assenso nei suoi confronti (sia pure con la tentazione di un’interpretazione positivista della storia che sospinge a considerare non mutabile ciò che esiste solo perché esiste, e forse per timore del peggio); dall’altro la tendenza a considerare il bene culturale come bene economico-turistico proietta il valore dell’ambiente storico su un piano disneyano. Infine vi è la tesi (falsa) dell’incompatibilità dell’architettura storica e di quella moderna. Diversamente, poiché l’architettura del realismo critico promuove il progetto come dialogo, esso dovrebbe trovare nell’ambiente monumentale un contesto privilegiato. Infine sarebbe necessario discutere dell’esistenza della «natura naturalis» come bene estetico.

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identità dei luoghi, dalle nuove povertà ai problemi posti dalle immigrazioni-trasmigrazioni, dai naufraghi della globalizzazione agli emarginati. Certo, sono profondamente mutati i caratteri che funzionano da elementi ordinatori delle decisioni individuali; forse essi non risiedono più nella terra e nella storia ma, nonostante l’ideologia della deregolazione, le «mani invisibili» sono ancora più ferree di un tempo. La discontinuità è diventata il modo di appropriazione dello spazio-merce e della attuazione di comportamenti e norme la cui rigidità è paradossalmente costituita dalla flessibilità del comportamento individuale. L’entusiasmo per l’energia, la flessibilità, la vitalità dello sviluppo, è divenuto entusiasmo per gli esiti morfologici, che si sono prodotti, di fatto, a partire dalla incapacità della cultura architettonica di proporre alternative credibili di disegno riordinante. Se la città moderna è fondata dai rapporti di produzione, materiale o immateriale, capitalistica o meno, lo spazio metropolitano sembra piuttosto fare riferimento all’ideologia globalistica del mercato (non ha niente a che vedere con l’antica città-mercato) e questo fonda certamente una grave forma di instabilità spaziale che fa riferimento a una molteplicità di sistemi microsociali che la stessa dialettica politica fatica a riconoscere e riordinare. La postsocietà in cui viviamo – quella del nichilismo pacificato, il quale vuole imporre le proprie ragioni, e della minaccia delle reazioni a esso individuato come male assoluto – si è fatta nello stesso tempo più complessa e più omogenea, la sua articolazione si accompagna con una frammentazione impadronitasi dello stesso individuo allargandone le differenze interne senza che queste siano vissute come contraddizioni positive:

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questo ritratto, parziale ma importante, mostra la difficoltà di individuare non solo un incarico sociale credibile per l’architettura, ma persino un suo luogo soggettivamente necessario. Si tratta di un’affermazione certamente schematica, ma che perimetra in qualche modo anche le difficoltà di un nuovo realismo critico e del possibile luogo delle arti dentro di esso, in quanto l’assetto sociale sembra sospingere solo verso un realismo empirico reattivo e ritrattistico. Il problema è forse anche quello di dissolvere il relativismo soggettivista che lo sostiene e muovere verso una riduzione della realtà all’essenziale storico, cioè verso una sorta di utopia della realtà (per riprendere una definizione rogersiana) e verso una nuova povertà come risorsa etica e come compito esemplare delle arti. Vi è anche chi sostiene che l’autentica risorsa metropolitana siano i vuoti urbani, in quanto spazi disponibili al conflitto, spazi illegali del disordine e dell’attraversamento, capaci di proporre anche una nuova estetica. Ma si tratta di una risorsa tipica di chi non è in grado di proporre modelli alternativi e annuncia per questo la fine del progetto, il trionfo del segno sulla forma, anzi la fine dell’architettura come forma. Un sociologismo nichilista alla fine altamente «realistico», cioè di accettazione del ruolo puramente ritrattistico delle condizioni senza possibilità altre, senza alcuna connessione con le ragioni che hanno costruito il terreno su cui camminiamo. Certo, quelle ragioni ci dicono poco intorno alla direzione del nostro cammino di oggi, ma senza di esse è impossibile camminare. Non si tratta di piangere sul passato perduto né di sperare ciecamente nell’avvenire, bensì di contribuire a trasformare lo sguardo sul presente evitandone le pure apologie. Il compito dell’architettura non è quello di indagare e rappresentare le tendenze in atto, ma quello, dopo averle conosciute ed esaminate, di proporre alternative adatte.

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Una descrizione, dotata di capacità di sospensione del giudizio, è un passo importantissimo per essere poi in grado di assumere il carico del confronto con la realtà; tuttavia, inventare nuove parole per definire fenomeni nuovi e incerti non significa risolvere i problemi che questi pongono. Il rischio è che la fascinazione prodotta dall’inafferrabilità della complicata realtà dei nostri anni si traduca in una sorta di ammirazione anche estetica per ciò che essa è di fatto, con la soppressione della necessità del giudizio critico e quindi del cambiamento. E ciò fa crescere la diffidenza nei confronti del progetto che comporta sempre un cambiamento e la costituzione di un ordine nella forma. Alle sconvolgenti novità proposte alla struttura urbana dall’industrializzazione la tradizione della modernità ha saputo rispondere con proposte pratiche, utopiche e organizzative. Risposte limitate, criticabili, insufficienti fin che si vuole ma espressioni della volontà progettuale di reagire positivamente ai nuovi problemi che venivano posti. Queste risposte oggi mancano quasi completamente e ancor più manca l’interesse verso la loro costituzione: sembra che i nuovi assetti siano in sé comunque positivi e fonte di ispirazione progettuale. Da questa catena di questioni dovrebbe anche risultare chiara la difficoltà di dissociare, dal punto di vista del realismo critico, il disegno del corpo architettonico da quello del contesto urbano e territoriale. Questo naturalmente si scontra con il processo di deterritorializzazione sopra descritto, ma anche con il tempo lungo della costruzione del paesaggio e della città (e quindi con il complesso della sua storia e delle sue memorie come valore e come materiale) e con la difficoltà di essere fedeli a un principio per quel «tempo lungo» necessario alla sua realizzazione specie oggi, in tempi di trionfo dell’ideologia della deregolazione. Infine vi sono le tensioni diffuse verso la

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presunta autonomia dell’oggetto architettonico che sembra meglio soddisfare le tensioni verso «l’espressione» come unica possibile via per l’architettura in quanto pratica d’arte. Questo sospinge una concezione del disegno urbano intesa quale collezione di oggetti sparsi indipendenti, una sorta di ribaltamento in cui la mancanza di risoluzione del problema insediativo si trasforma in norma estetica capace di proiettarsi su contesti impropri con esiti disastrosi. Ma il territorio, come la città, è sempre il risultato di lunghe forme di storicizzazione, con la costruzione volontaria di un ambiente o con l’assegnazione di una parte di esso all’integrità di natura e con la conoscenza globale della sua geografia; particolarmente in Europa, dove ogni nuova architettura è confronto con un costruito, agrario o edilizio, confronto con la fittezza della rete urbana, per cui la stessa deterritorializzazione è comunque uno strapparsi via da una condizione fondativa, un muoversi contro, anche nella prospettiva di una sua radicale trasformazione, che è però impossibile senza di essa5. Per fortuna l’architettura è antica almeno di quattromila anni e quindi è in grado di guardare all’accelerazione e alla provvisorietà con sufficiente distacco, poiché mutamenti rapidi e insediamenti interamente progettati non sono certo una novità nella storia della città e nella colonizzazione dei territori. Comprendere a fondo lucidamente, senza rifiuti a priori, il mutamento che attraversa l’architettura e la città e il territorio, quella europea, quella asiatica e soprattutto quella del Terzo Mondo in attesa, e lo scacco in cui si mette conti-

5 Senza dubbio la fitta rete urbana di vere e proprie città, grandi e piccolissime, che caratterizza il territorio europeo potrebbe costituire un’alternativa di articolazione all’espansione indifferenziata delle periferie esterne che tende a inglobarle senza considerare il loro valore differenziale.

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nuamente la nostra disciplina, non significa accettarne le attuali condizioni politico-economiche di costituzione, ma risalire a esse e criticarne i fondamenti con atti di resistenza concreti ed esemplari, con la pazienza che ci proviene dall’idea di modificazione critica come autentico nuovo: essa deve guardare proprio al passato come al suolo su cui si fonda, per misurare e dare forma al distacco da esso che muove verso la comprensione profonda della lunga traiettoria del presente assai prima che del futuro. Se è vero che noi non siamo in un regime di estetiche normative, è anche vero che il disegno di queste parti nuove di città deve comunque possedere anche una tensione verso un orizzonte di lungo periodo, un’ipotesi di trasformazione generale di senso dell’insediamento. Tutto ciò non può essere oggi che tentativo di scavo intorno ai fondamenti dell’architettura attraverso il confronto con la realtà del presente, confronto tanto ampio da permettere che vi scorra sopra tutta la nostra nervosa diacronia, ma anche sufficientemente poroso verso di essa da evitare di trasformarsi in nuovi fondamentalismi o in astratta difesa di valori del passato. Principi di insediamento A quali regole dovrebbe sottostare il disegno delle rinnovate o nuove parti della città (le parti, cioè, dove si dovrebbe costruire in mezzo al costruito, utilizzandone le risorse e risparmiando il bene finito della campagna), per ottenere un successo di miglioramento qualitativo e radicarsi realisticamente nella identità strutturale del caso specifico senza fare di questo un’autarchica chiusura alla indispensabile cultura dell’internazionalismo critico?

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Se appartenenza dialettica a una strategia di piano complessiva, compatibilità economica, capacità di ascolto e attitudine al dialogo di largo respiro sono le condizioni, a quali regole specifiche del disegno esse corrispondono? Si tratta, rispondiamo noi, di regole semplici. Prima di tutto il nuovo disegno deve misurare il contesto storico e geografico nei suoi aspetti strutturali e non in quelli stilistici, e insieme le prospettive di trasformazione che la condizione specifica e quella globale propongono. Sarà proprio la scoperta di tali aspetti strutturali a rivelare l’ignoto, che sovente è il modo di essere del permanente, a instaurare il dialogo che, per essere, deve stabilirsi tra identità riconoscibili ma aperte. Perseguire la specificità dei caratteri di un contesto ricostruendo il surrealismo urbano che è risultato della lunga stratificazione storica è oggi una forma di falsificazione che ha dimostrato di non portare ad alcun esito positivo; proprio per questo è importante che la relazione tra le parti sia soggetto preminente della progettazione per la costruzione dell’urbano della città futura – che essa sia ricostruzione critica della città diffusa o di quella consolidata, costituzione di principi riconoscibili o riabilitazione della dialettica tra città e campagna –. È necessario, cioè, porre grande attenzione non solo ai singoli oggetti architettonici, ma alla relazione tra loro, alle sequenze, alle scale, alle gerarchie fra le parti. Il terrore dell’uniformità in quanto anonimato ha fatto sì che molti considerino l’unità un disvalore e la pluralità dei contributi un valore. Ma un’articolata unità è stata per secoli la regola fondamentale della costituzione di un disegno urbano significativo, volontà di progetto e risultato di una cultura organica in cui la variazione inventiva aumentava il valore della regola collettiva.

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Sono però convinto che, nelle attuali condizioni di dispersione e di smarrimento della cultura architettonica, l’unica garanzia di articolazione e di flessibilità d’uso del disegno urbano (ammesso che questa espressione abbia un futuro progettuale) sia una forte unità nella concezione del disegno delle parti. Solo attraverso di essa è possibile, nelle nostre condizioni storiche, misurare le differenze morfologiche, controllare le loro dialettiche interne, fare ipotesi di variazioni non distruttive del valore urbano dell’insieme. Haydn scriveva che per ottenere un’opera musicale occorrevano tre elementi: una grande tradizione, una piccola frase e un’intelligente capacità di variazione. La semplicità, l’ordine, l’organicità e la precisione sono le qualità necessarie a questo scopo. Contrariamente all’opinione comune, quanto più preciso, semplice, organico, adatto e ordinato sarà il risultato, tanto più esso sarà disponibile nel tempo all’interpretazione, all’uso sociale differenziato e persino alle sue future modificazioni fisiche. Ho più volte affermato che il percorso per giungere alla semplicità è particolarmente complesso. Come la periferia esterna e interna di oggi ci insegna, vi è più da temere da una eccessiva confusione competitiva tra i linguaggi dei diversi oggetti architettonici che dalla disciplinata leggibilità e gerarchia tra le parti in funzione della costruzione di un insieme che possegga un’identità attrattiva e capace di durare. Tante cose capricciosamente diverse, si sa, producono il rumore indistinto dell’uniformità: articolazione ed eccezioni necessarie si fondano invece (è ovvio dirlo, ma assai meno praticarlo) sulla chiarezza della regola insediativa rispetto alla quale si misurano le stesse differenze interpretative dei processi di formatività. La regola insediativa è il contrario dell’uniformità: è ciò che permette al ritmo, alle sequenze, alle varietà di istituirsi,

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è ciò che rende visibile l’identità del sito. Tale regola insediativa deve proiettarsi anche nella scelta di alcuni elementi compositivi comuni: la planivolumetria, gli allineamenti, gli spazi fra le case e il loro dialogo, il disegno del suolo, le misure, il disegno dei coronamenti e dei portici, la scelta dei materiali entro oscillazioni tra loro compatibili e discrete e, in generale, una strategia in cui il valore delle relazioni tra gli elementi edilizi sia un fatto importante per lo stesso disegno dell’edificio. Non si deve disprezzare tanto l’elemento della prevedibilità; esso fa parte strutturalmente della percezione estetica, lo utilizza la composizione musicale come la sequenza architettonica o la rima nella poesia. La stessa eccezione è dialetticamente visibile a partire dalla prevedibilità. Anche l’interamente imprevedibile è tale per rapporto a un contesto culturale e fisico leggibile, a un linguaggio comune di cui si rovescia per segmenti il senso. Resta il fatto che affrontare «lo stato delle cose» (per citare Wim Wenders) è operazione indispensabile, ma richiede, da parte dell’architetto, una capacità di sospensione del giudizio sempre più ardua sia nel vincere i propri pregiudizi sia nel penetrare a fondo nelle ragioni che presiedono a quello stato e la dinamica altamente differenziata del cambiamento. Bisogna aggiungere, però, che l’ideologia dell’instabilità permanente è una evidente copertura di una condizione strutturale altamente stabile nella volatilità dei comportamenti e dei valori e nell’accettazione dell’assenza di un orizzonte di cambiamento strutturale. Ogni instabilità è oggi sempre più instabilità ben condizionata. Proprio le culture ai margini della globalizzazione, di fronte alla quale noi cominciamo a organizzare una riflessione critica, devono essere oggetto di un’attenzione particolare, spe-

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cie per quanto riguarda i fenomeni strutturalmente differenti di urbanizzazione ai quali, in questi casi, è particolarmente connesso un diverso modo di pensare l’architettura. Naturalmente queste presentano stati molto differenziati di profondità di tradizioni e di ampiezza culturale, nonché condizioni politico-economiche molto diversamente capaci di strutturare i processi di trasformazione. È invece particolarmente evidente che a condizioni politiche, economiche e culturali differenziate corrisponda, nei nostri anni, una produzione fortemente unificata, ancor prima che negli strumenti tecnici, negli esiti morfologici oltre che urbani. Questo significa che le capacità degli architetti e le attese dei clienti sono fortemente omologate e convergenti, anche nelle eccezioni estetiche, che le forze che costruiscono l’immagine dell’ambiente fisico sono in grande maggioranza altre rispetto a quelle dell’architettura, come prima si è cercato di dimostrare, che la diffusione mediatica dei modelli di figure è rapida e omogenea e in nessun modo sottoposta a riflessione critica rispetto alla differenza delle condizioni e delle prospettive. Tutto questo muove fatalmente verso una cancellazione anticipata (rispetto alla eventuale sostituzione positiva) di tutte le tradizioni: dalle abilità del fare alle abitudini dell’abitare sino alla negazione delle radici antropologiche e storiche dell’insediamento. Proprio per questo il realismo critico in architettura dovrebbe anzitutto eleggere la lentezza, la sobrietà, la discrezione, il sistema per approssimazioni successive come caratteri irrinunciabili della costruzione del progetto, i soli che permettano l’aggiramento del reale convenzionale per rivelarne le nature altre e i meccanismi di costituzione. Oggi, invece, almeno in Europa, avviene che al rallentamento e alla complessificazione dei processi decisionali economici fa riscontro

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uno schiacciamento dei tempi di progetto6. Il fenomeno è significativo dello scarso valore attribuito alle ragioni e ai processi di costituzione delle forme dotate di senso, fatto coincidente, peraltro, con la presa a prestito e la velocità di consumo delle forme stesse. Dimenticare rapidamente è l’imperativo, per far posto all’incessante inessenziale e per cancellare ogni atto che pretenda di accedere alla durata, alla testimonianza o alla possibilità altra di essere. Ma il campo delle pratiche dell’arte è invece proprio quello della metafora dell’eternità, delle cose come potrebbero o dovrebbero essere; è questo il loro modo di accedere alla 6 Ciò che è cambiato è l’intero sistema della produzione edilizia dentro il quale gli scopi della progettazione architettonica sono sovente diventati un dettaglio trascurabile, nella complessità dei diversi specialisti; delle tipologie specifiche, dei layout, delle manutenzioni, sorvegliati dai cost controllers, dai continui spostamenti degli umori dei mercati, delle mode, dalla prevalenza del peso economico degli impianti e dei loro sistemi di controllo. Il tempo dedicato al progetto poi si riduce ferocemente, divorato dal tempo delle decisioni. Nel frattempo le norme di garanzia (spesso finte) si complicano sempre più. Proprietario e utilizzatore, inoltre, sovente non coincidono più e spesso confliggono negli interessi e negli scopi. Le istituzioni sono le prime a fare speculazione edilizia e l’urbanistica è diventata arte della contrattazione. Certamente la dimensione degli studi professionali, ma soprattutto la loro articolazione, sta diventando più grande e questo è forse positivo. Purché, naturalmente, un grande studio non si trasformi in una pura macchina produttiva, senza le finalità proprie di una pratica artistica come quella dell’architettura, una pura «società di servizio», come viene sciaguratamente definito il lavoro dell’architetto nella Comunità europea. E questo avviene fatalmente quando si superano alcune dimensioni. Ma l’aspetto strutturale è costituito soprattutto dalla crisi della nozione stessa di professione; i meccanismi di produzione del bene edilizio si sono profondamente trasformati. È finito il tempo del triangolo professionistacliente-costruttore. Che si sia ampliata, al di là del condominio, la scala dell’intervento potrebbe essere un elemento favorevole alla costruzione del disegno della città se questo non fosse accompagnato da una ideologia della deregolazione, da una debolezza organizzativa delle istituzioni e da un complicato rimando di interessi finanziari degli immobiliaristi che sovente mettono in secondo piano le logiche stesse della costruzione.

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realtà, guardando a essa dalla distanza critica che l’opera è in grado di costruire, aggiungendosi nello stesso tempo come nuova cosa al mondo delle cose reali. Il progetto – qualcuno ha scritto – ha un ruolo conoscitivo per la disciplina dell’architettura prima ancora che nei confronti della realtà empirica. Il processo progettuale ha certamente la funzione essenziale dell’indagine, della scoperta delle dissimmetrie del problema, delle sue irregolarità, incongruità e contraddizioni. Ma il confronto con il disordine, trasferito nell’organizzazione che l’opera si dà, si deve trasformare in materiale costruttivo di un ordine-forma. Il ruolo conoscitivo cessa con la costituzione dell’opera, che si pone, nuova realtà, come spostamento dell’esistente. Poi, a partire dall’opera, si mette in atto un nuovo sistema di conoscenze in quanto interpretazioni della cosa costruita, sistema che giudica, utilizza, riutilizza, ricolloca, talvolta distrugge, diviene rovina e infine immagina ricostruzioni. L’architetto non ha bisogno per questo di riscoprirsi «artista»: lo è, almeno, fino a quando non si pretende solo artista visuale, che è nobilissima ma diversa carriera, anche se certo non mancano nella storia le prove di positive mescolanze. Tuttavia, quando la realtà che viene offerta è esaltata solo per i suoi caratteri di trasversalità e di disordine, si pone il problema di come affrontare il processo di costituzione dell’organizzazione morfologica, della costruzione dell’ordine, per quanto esso possa metaforicamente alludere al disordine come sua origine, anche al fine di non ridurre tale costruzione alla pretesa indicibilità del singolo assoluto. «Oltre l’individuo non si può andare – scrive Massimo Ilardi7 – e la liber7 Massimo Ilardi, Negli spazi vuoti della metropoli: distruzione, disordine, tradimento dell’ultimo uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

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tà per essere tale non può che navigare nel vuoto e non produrre che il nulla», affermando con questo l’estraneità del soggetto a qualsiasi luogo, cittadinanza, posizione, progetto: un soggetto i cui comportamenti sembrano quindi indipendenti da ogni etica, in funzione della propria libertà estrema concepita come pura, improduttiva assenza di limiti. Ciò che un’architettura del realismo critico deve affrontare in questa condizione è quindi la messa in discussione (da parte dell’atteggiamento «realistico» degli individualisti estremisti) della nozione di critica, e ben più da lontano di ragione critica, e non di quella del realismo volgare. Esso è già presente nel disfacimento della città diffusa che cerca di ribaltare la propria ideologia sull’intero territorio, sulla stessa città consolidata e sulla sua rappresentazione, dissolvendola in microunità incomunicabili. Sul numero di febbraio del 2003 dell’autorevole rivista inglese «Architectural Review» è stato pubblicato un interessante testo di Charles Jencks, il critico che una ventina di anni or sono fu il papa del postmodernismo stilistico e che propone ora il suo nuovo paradigma dell’architettura, un paradigma che vuole essere la sintesi di molti umori e di molti contributi provenienti da diverse discipline verso la cultura digitale. L’architettura più interessante degli anni recenti esprime, secondo Jencks, il nostro spostamento da una visione meccanicistica dell’universo a una sua autorganizzazione a tutti i livelli: dall’atomo alla galassia. Tutto ciò sfida, secondo lui, i vecchi linguaggi del classicismo e del modernismo con l’idea che anche un nuovo ordine (o disordine?) urbano sia possibile, un ordine più vicino ai sempre variabili patterns della natura. Tutto questo dovrebbe definire un nuovo corso dell’architettura che egli chiama eco tech o organi-tech (il copyright è diventato il segreto anche del successo critico), una mesco-

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lanza tra la tradizione naturalistica americana e la mimesi tecnologica di tradizione inglese, che muove oggi verso un linguaggio che l’autore del saggio definisce come blob grammar. L’insistenza è tutta sull’imitazione della complessità e mutevolezza delle nuove cosmologie, o meglio della nuova cosmologia della natura. Egli attribuisce inoltre alla geometria frattale (oltre che, come al solito, al computer) un’importanza essenziale nelle attuali forme architettoniche: un antidoto alla ripetizione, anche se sappiamo bene che molte forme tutte diverse producono il rumore indistinto dell’uniformità. Jencks scrive di city landmark (che sostituisce, secondo lui, con sbrigativa disinvoltura, la nozione di monumento), di sculptural experiments (anzi, dell’architettura come branch della scultura surrealista), di geometrie complesse ed enigmatiche e soprattutto di architettura del continuo sorpasso competitivo tra le diverse proposte, sottolineando specialmente il valore del museo nella cultura globale (argomento che noi affronteremo nel prossimo capitolo). La sua opinione è che il minimalismo sia l’espressione dell’assenza di ideali, di neutralità, mentre la organi-tech sia messa in evidenza della «cultura competitiva», che chiederebbe «un’espressione in eccesso rispetto agli scopi della costruzione», con significati polivalenti e soprattutto «non specifici di alcuna ideologia»: è necessario anzitutto non sopprimere il simbolismo soggettivo – egli afferma – con la scusa delle richieste sociali. Non esiste oggi un sistema di valori condiviso, sostiene, quindi è necessaria un’apertura pluralistica degli esperimenti formali e simbolici: simbolici, io dico, probabilmente solo dell’esperimento stesso e del suo valore di mercato, unico autentico valore condiviso. L’intelligenza di Jencks riesce a mettere molto chiaramente in evidenza le intenzioni delle architetture di maggiore suc-

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cesso di questi anni e nello stesso tempo le ragioni di tale successo. All’inizio e alla fine del suo testo vi è un breve accenno politicamente «progressista», significativo del tentativo di difendersi a priori dalla possibilità che le sue posizioni siano attaccate in quanto espressione dell’aggressività imperialista dell’ideologia del mercato che è invece precisamente ciò che rappresenta l’architettura che egli descrive. Il programma è quindi eliminare ogni ideologia e con essa ogni tensione ideale e civile per sostituirla con un’unica ideologia: quella della competizione, del progresso in quanto esclusivamente progresso scientifico-tecnico, messo in scena simbolicamente dalla capacità titanica del soggetto, proprio nel momento storico in cui il soggetto tende a presentarsi come «star» o a spegnersi nell’omogeneità dei comportamenti fissati dalle comunicazioni di massa. Si tratta di costruire un mondo come vociare di eccezioni volte alla sopraffazione reciproca che si agitano dentro margini ben definiti, senza alcuna possibilità (né volontà) di operare criticamente nella realtà. Ciò che viene soppresso è ogni possibilità di relazione con la storia, le tradizioni, le memorie e le speranze civili, ogni coscienza della presenza dell’altro, e quindi del progetto come modificazione e come dialogo che guarda all’esistente per muoversi da esso a ragionevoli distanze. Nessun progetto rivoluzionario, sia pure utopico, ma nemmeno alcuna rivolta: al contrario, si tratta della ricerca del massimo consenso e dello spostamento di ogni enigma fuori dal mondo dei contrasti reali come degli interrogativi teorici. Città e territori sono, come sappiamo, sempre più densi di nodi irrisolti: di certo non saranno risolutivi per il loro scioglimento gli architetti, ma che tali nodi siano almeno presenti alla coscienza dei grandi «architetti artisti» forse potrebbe

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contribuire a rendere la stessa cultura architettonica più densa e capace di rinnovamento profondo, piuttosto che volta a concentrare i propri sforzi sulle questioni autosimboliche. Naturalmente si possono guardare i recenti prodotti dell’architettura non solo dal punto di vista delle modificazioni alle grammatiche linguistiche del moderno, ma cercando di leggerne invece gli scostamenti e le invenzioni estetico-tecniche come elementi primi di nuove grammatiche. Certo, i mutamenti offerti dalle nuove complessità delle scienze e delle cosmologie, delle geometrie e delle biologie che hanno concentrato su di sé l’attenzione del mondo, hanno conseguenze, sia pure del tutto metaforiche, sul visibile delle forme architettoniche. Forse si tratta, almeno per ora, di trasgressioni superficiali facilitate dagli strumenti digitali, una specie di nuova mescolanza tra organicità biologica, tecnologia e fantascienza, comunque strettamente connesse a una visione tecnica del progresso senza ombre dove l’esoterismo simbolico (peraltro saldamente guidato dalle comunicazioni di massa) sembra voler sottolineare la propria entusiastica adesione al puro mercato dello spettacolo, alla fantasia come regressione: senza contrasti. Titolo di un convegno tenuto a Berlino nel 1973, e di cui Julius Posener fu animatore, era proprio «Il pathos del funzionalismo»: esso sembra rivelare una contraddizione profondamente radicata nella nozione stessa di funzionalismo (funzionalismo dell’essenza della tecnica come liberazione) così come era interpretata negli anni venti del Novecento. Pathos è parola che indica la capacità di suscitare un’intensa emozione: una grandezza tragica nell’antica radice greca. Vi è alla radice del Movimento Moderno in architettura un nodo tragico che non può essere in alcun modo evitato e che lo

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caratterizza non meno che il concetto di funzionalità, non meno della sua fede nella capacità della tecnica produttiva di superare le ingiustizie. Il suo centro, cioè, non è tanto rappresentato dal razionalismo tecnicistico quanto dalla tecno-scienza come rappresentazione della dura oggettività dell’agire umano nella costrizione del bisogno quanto nell’espansione del potere; il dibattito sulla metropoli ne è un esempio centrale. Ciò che la Neue Sachlichkeit, con tutte le sue complicate e ambigue relazioni sia con l’avanguardia razionalista sia con la tradizione della protesta espressionista, esprimeva ecumenicamente, e che anche oggi il realismo critico non può evitare, pur con tutto l’ottimismo delle ragioni del fare, è precisamente la doppiezza di questa attrazione-repulsione verso il pathos della modernità. Nessun luogo dell’Europa come la Germania di Weimar mise in scena con tanta tragica evidenza, nella teoria e nelle pratiche dell’arte, la contraddizione centrale della modernità nella sua relazione inevitabile quanto patologica con la realtà. Probabilmente è questa patologia che le comunicazioni di massa hanno dissolto generalizzandola nel fiume delle informazioni quotidiane e nella successione dei divismi: dei personaggi come delle notizie. In questo contesto la cultura e la pratica dell’arte sono forme marginali di antiquariato protette soprattutto per ragioni turistico-economiche, e tenute lontane non tanto da ogni pessimismo quanto dalla possibilità di organizzarsi contro lo stato fatale delle cose. Forse questo contesto rende impossibili anche nel campo dell’architettura le ragionevoli differenze, la sobrietà, la discrezione, gli spostamenti dialettici, le modificazioni necessarie: o almeno esse sembrano inudibili.

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Arti visive e design Ho iniziato questo testo affermando che la parola «realismo» è guardata con sospetto nel mondo delle arti. Qui vorrei riflettere sulle ragioni per cui anche la nozione di «critica» è fatta oggetto di un analogo, per quanto diversamente articolato, sospetto. «Critica» è utilizzata qui nel doppio senso di attributo generale della riflessione nella tradizione del pensiero filosofico occidentale, in quanto cioè critica della ragione, delle sue possibilità e dei suoi limiti e, almeno nel caso delle arti, come attività di giudizio e di scelta sia di chi guarda alle opere dell’arte sia di chi agisce in quanto artista: vale a dire critica anche in quanto poetica e teoria dell’arte. Quali siano poi le relazioni tra pratica dell’arte, critica ed estetica, da cui la critica dovrebbe derivare la propria autorità teorica, e quali caratteri siano specifici di un fare dell’arte che si confronti con esse, questo è un problema aperto, come è noto, a diverse interpretazioni. Io penso che l’arte come forma di conoscenza della realtà e come nuova realtà, anzi come verità (o, meglio, come ricerca della verità), si attui per mezzo di un fare connesso a uno stato di intima necessità da cui il fare stesso prende le mosse

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e, insieme, si distanzia nel formarsi dell’opera. Il processo del formarsi non è quindi separabile dalla intenzionalità delle riflessioni critiche e l’esperienza di tale processo, il suo esercizio, è essenziale, a nostro avviso, come materiale del giudizio estetico. Inoltre bisogna riconoscere che la critica delle arti visive si è sempre più alleata all’idea di nuovo come valore (sovente con qualche confusione con l’idea di progresso), piuttosto che, per esempio, a quella di rovesciamento modificativo. La critica d’arte, in quanto professione, è poi soggetta agli sconfinamenti della storia, della sociologia e della riflessione teoretica, deve fare i conti con le mode come con le carriere accademiche e con il dilatarsi del suo campo di applicazione nel mondo dell’estetica diffusa; si muove quindi in un’area incerta e frastagliata. Essa poi si trasforma, talvolta, in servilissima collaborazione quando per critica si intenda sia l’attività di intermediazione mediatica indispensabile oggi per sostenere (anche economicamente) qualsiasi attività che si pretende «creativa», da parte della categoria dei critici specialisti (distinta da quella degli storici), sia quella che si muove come forma di autogiustificazione della propria attività. Vi è poi chi, contro le pretese freddezze dell’atteggiamento critico, rivendica il diritto all’intuizione senza la prova dell’opera, al sogno, anche se forse la ragione critica è essa stessa un sogno irraggiungibile ma che, proprio per questo, deve essere perseguito con tutta la tensione concreta possibile. A ciò si sovrappone l’idea dell’arte come espressione puramente autonoma del soggetto, atto di costituzione del suo rapporto senza storia con la natura e le cose per mezzo dei sentimenti: un materiale, questo, importante nella pratica

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delle arti ma non certo esclusivo nella costituzione della forma, dove i processi intelligibili giocano un ruolo decisivo, attraverso l’organizzazione dei materiali apparentemente intuitivi (che sono sempre complesse formazioni interattive di storia del soggetto e di realtà) in una forma significante. Immaginazione e precisione critica non si escludono affatto, ma si sostengono a vicenda nel processo di costituzione dell’opera. «Non mi importa di mentire ma odio l’inesattezza» scriveva Samuel Butler cercando ancora una volta di descrivere la connessione necessaria, ma non per questo deduttiva, tra idee intuite o collettivamente sollecitate e opere compiute. Nel passato gli esempi di rappresentazione parenetica o descrittiva di ampie idee collettive erano sovente affidati ai grandi cicli di scultura e pittura all’interno di un’architettura e, anche se la grandezza della loro arte non dipendeva solo dall’incarico sociale, vi era comunque organicamente connessa. Certo, il contenuto mitico e simbolico, e persino quello pedagogico, cessano gradualmente di fornire utilmente materiali alle arti, ma questo non esclude né la riflessione teorica che sta alle spalle della loro costituzione né tanto meno i contenuti emotivi che ne costituiscono materiale essenziale. Il carattere dello spazio costruito è stato per molti secoli quasi sempre sospinto dai bisogni di rappresentazione (conscia o inconscia) dell’immaginazione della comunità o delle sue istituzioni. Da almeno due secoli questo è entrato in crisi: si pone cioè il problema del disaccordo tra le opinioni della maggioranza e quelle proposte dalle opere. L’opera parla in nome proprio di ciò che non è in alcun modo presente o è presente per parti frammentarie e comunque in una minoranza nella società, parla delle ragioni della sua assenza, della sua speranza e della sua necessità.

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L’attitudine critica è ben lontana, però, da ogni rapporto deduttivo tra idee e cose, o meglio tra la forma e la sua intelligibilità costitutiva (così come è stata ben descritta da Robert Klein a proposito dall’architettura del Cinquecento); non pretende, cioè, di estrarre la forma dal mondo delle idee, ma ha piena coscienza della loro esistenza e del loro divenire in quanto materiali del fare. La «bellezza» (un termine che almeno dall’inizio del XVIII secolo in poi tutti utilizziamo con esitazione e che in genere sostituiamo con il vocabolo «qualità», certamente altrettanto vago) non è solo la rappresentazione di ciò che regola o imita le idee universali, ma neanche la riduzione della forma a fascino simpatetico o alla pura effusione soggettiva degli affetti che ne deriva: chiaro dovrebbe essere in questo caso almeno il danno di un relativismo estetico generalizzato. I «gusti» invece non solo si discutono e si costruiscono, ma devono l’essenziale dei loro andamenti e della loro diffusione alla conoscenza e alla scelta dei problemi che le opere pongono specificamente e nelle loro differenze. La qualità dell’architettura, io credo, è inoltre figlia della ragione critica non solo perché è connessa più strettamente a uno scopo, perché è fondata sulla geometria e sulla fisica del costruire e funzionale a un uso nel suo farsi, ma anche perché essa mette in atto, per mezzo del sensibile, una ridiscussione della realtà aggiungendosi a essa come nuova cosa, occupando stabilmente uno spazio, costituendo l’ambiente fisico come campo delle azioni umane. Essa è per noi assai più il risultato della tensione tra forze che si contrastano piuttosto che dell’idea di armonia o di sublime, a meno che con queste non si intenda la risoluzione di fatto dei conflitti nella forma stabile della cosa progettata o costruita. I mezzi con cui questa discussione viene attuata sono naturalmente quelli specifici di ogni arte con tutte le loro trasformazioni storiche e le incertez-

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ze che questa definizione comporta. Ma, come scriveva Ernst Gombrich, «fortunatamente è un errore pensare che quanto non si può definire non si possa neppure trattare; se così fosse, non potremmo parlare né della vita, né dell’arte». Naturalmente il progetto di un’opera di architettura segue un percorso del tutto speciale rispetto ad altre pratiche d’arte, non prescinde come si è detto né dallo scopo né dall’uso, anche se le sue finalità non si esauriscono in essi; l’architettura possiede una materialità, è caratterizzata da una ampia complessità costitutiva che non coincide mai con l’immagine comunicativa, ma è all’origine di ogni sua interpretazione; ha un proprio centro nel processo di edificazione modificativa dello stato delle cose, nel confronto dialogico con il contesto, nel suo appoggiarsi sulla terra in un luogo e in un tempo specifico (anche se è precisamente questo che nei nostri anni si pone in discussione). A essa è precluso ogni atteggiamento radicalmente negativo, essendo comunque compromessa con la positività del costruire. Ma è forse diverso, anche se meno palese, per le altre pratiche dell’arte anche se ad altre sono aperte più direttamente le vie della narrazione descrittiva, dell’ironia o della caricatura? La condizione della pratica artistica dell’architettura sembra presentare, da questo punto di vista, qualche vantaggio. Gli scopi possono perderla nel professionalismo o nel servilismo clientelare, ma la radicano alle regole del costruire per abitare e, attraverso di esse, a contesti di realtà che possono condurre a una critica concreta delle ragioni e delle possibilità della produzione significativa. Bisogna dire che, se si guarda invece all’attuale condizione delle arti visuali, la questione è resa ancora più difficile proprio da un eccesso di libertà come vuoto di motivazioni, se si fa eccezione per quelle (certo importantissime) della tat-

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tica di collocazione dell’artista nel campo della propria professione. Nemmeno l’estensione del termine (da arti figurative ad arti visive) riesce a descrivere le incertezze del loro attuale campo di azione. Assai più che nell’architettura, che al contrario rischia continuamente restringimenti specialistici o professionalistici, le arti visuali sembrano vagare alla ricerca di un ruolo, fuori dal proprio campo d’azione. Prosegue cioè lo spostamento delle arti visive fuori da se stesse. Non è tanto la rottura delle regole che diventa oggetto della ricerca dello scandalo (l’unico scandalo possibile sarebbe la loro ricostituzione) quanto il problema del superamento programmatico dei confini. Per andare dove? Per sottrarsi alle responsabilità, io dico, che la ragione critica imporrebbe. Si tratta probabilmente di una forma di continua ricollocazione delle attività che un tempo la concernevano verso nuovi fini. Essa cioè riguarda non tanto lo stato delle cose dell’arte quanto il loro senso. Qualcuno si domanda con angoscia (che nella pratica artistica visuale di oggi si rovescia sovente in perversione) quale sia diventato il luogo proprio delle arti visive, ma molti sembrano invece accettare, con la letizia ampliata dalla copertura dei mezzi di comunicazione di massa, la loro nuova condizione di pubblicitari delle ciniche incertezze del mondo «avanzato»; anche quelli che pensano di trovare giustificazione etica del proprio agire nella metafora della denuncia per mezzo dell’immagine: una denuncia accettabile da tutti perché estetica, compensativa e inoffensiva. Non che questo implichi una mancanza di qualità di fattura o di impegno: sopravvivono anche differenze di modi. Ciò che manca però è il punto di applicazione, il senso della necessità di ciò che si fa, anche se è ben fatto, o la trovata, l’idea, è ben collocata.

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Peraltro del processo di marginalizzazione dell’arte (rispetto alla centralità di scienza e tecnica) o, meglio, del suo progressivo processo di slittamento (come si è detto), si discute fin dai primi decenni del XIX secolo, e tutto questo, è ben noto, si trasforma in materiale significativo sino agli anni venti (qualcuno dice fino agli anni sessanta) del XX secolo. Poi resta solo lo spostamento in un’area sempre più diffusa e più incerta. E poiché ogni cosa ormai necessita di un tocco estetico, il lavoro certo non manca. Il risultato, si potrebbe osservare, nella sua ideologica volontaria assenza di punto di vista critico, nel suo volgare pluralismo, non è né carne né pesce: cioè non ci si può nutrire con i suoi materiali, ma si possono però trarre conferme di quel progressivo spostamento «fuori di sé». Tutta l’arte (questa volta sia quella visiva che quella architettonica) sembra voler diventare «design» nel senso peggiore che questo termine, un tempo nobile, ha oggi assunto. Cioè design in quanto processo di intermediazione formale nello scambio di immagini delle merci contro merci – e, come si vede, non è un ruolo da poco –. In questo senso è proprio il «design» che ovunque trionfa: dalla moda alle apparenze degli oggetti, alla forma della città in quanto accostamento ostile di architetture-oggetto, dalla pubblicità alle ex arti visive. Da questo punto di vista la linea di confine (connessione e disgiunzione) tra architettura e arti visive è costituita proprio dal «design», luogo di sconfinamento perverso delle due tradizioni disciplinari. È interessante notare, per esempio, come il tema del museo segni, in modo evidente, la linea di sconfinamento; non per nulla alcuni dei più celebrati edifici degli ultimi anni sono musei che si sforzano di presentarsi come grandi oggetti artistici in concorrenza-concomitanza con

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le pratiche attuali delle arti. Si tratta di un esempio che merita una digressione importante. Musei e spettacolo I musei fanno ormai parte in modo organico delle strutture di servizio per l’impiego del tempo libero come le multisale, i theme parks, le discoteche, i villaggi turistici, e gli shopping malls dei centri commerciali organizzati. Se la fede ha costruito cattedrali al di là di ogni logica economica, se il socialismo ha costruito i club operai, l’ideologia del mercato costruisce luoghi per lo spettacolo del consumo al di là di ogni logica della necessità. Possiamo magari avere molto rincrescimento ma certo nessuna sorpresa, quindi, se i musei hanno perduto ogni carattere auratico: e le opere il loro carattere simbolico. Niente più «musei delle scale» ma musei come pilastri delle meraviglie offerte dai servizi per lo sviluppo del tempo libero. Non che le antiche funzioni di cura, selezione critica, conservazione, restauro si siano dissolte, ma certo esse, nonostante i notevoli progressi, sono state collocate in secondo piano. Giusto appare quindi parlare di «musei dell’iperconsumo» e della dilatazione delle loro funzioni sociali, ma a questo è necessario aggiungere che il fenomeno della musealizzazione si è molto espanso: non solo musei delle arti, delle scienze, del lavoro, della cultura materiale, archeologici ecc., ma anche (secondo il modello del collezionismo come altro aspetto dell’uso del tempo cosiddetto libero) musei del fiammifero, del formaggio, delle bambole e dell’ombrello. Forse un tentativo di fermare la nostra memoria prima che diventi solo un vocabolo che designa solo una funzione del computer. Poi, per estensione, i monumenti museo, le città museo e il territorio museo con le relative combinazioni. Si va in una

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città museo a visitare un museo che, con slittamento tipologico, è collocato in luogo improprio da cui poi deriva una parte importante del suo fascino: appare secondario se si tratti di un palazzo antico o di un’ex centrale tecnologica. Nello stesso tempo ogni città di provincia sogna di costruire il proprio esoterico museo per incentivare il proprio turismo culturale con il suo vasto museum shop beninteso, e magari con le connessioni gastronomiche offerte dal territorio. La prevalente funzione è sempre più quella del consumo e del turismo come sua forma specifica. Non sorprenderebbe quindi se i musei diventassero dei dipartimenti degli shopping center: si dice che per entrare nel nuovo Guggenheim Museum di Las Vegas si passi attraverso la hall-sala da gioco di un grande albergo. Dobbiamo concludere che si sta avverando la previsione di Andy Warhol che negli anni sessanta scriveva: «Tutti i musei diventeranno grandi magazzini e tutti i grandi magazzini diventeranno musei», come sembra concludere anche la recente mostra viennese dal titolo I shop therefore I am? Tutto questo ha ovviamente contribuito in modo positivo ad allargare enormemente il numero dei frequentatori dei musei, anche se forse ha distorto o almeno deviato la comprensione dei valori dei materiali esposti e delle informazioni scambiate. Il museo e in particolare i musei di arti visive, e ancora più in particolare quelli di arte visiva contemporanea, hanno dovuto certamente affrontare il problema della amplissima diffusione della nozione stessa di arti visive, le incertezze nella definizione del loro campo specifico, le discussioni critiche sul tema dell’arte diffusa e della riproducibilità che si prolungano da più di un secolo, le relazioni con i temi della comunicazione e in generale la costitutiva instabilità dell’espe-

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rienza estetica contemporanea. Inoltre gli artisti sono via via divenuti più importanti dell’opera, poi si sono trasformati in «creativi», nuova classe economica emergente, e a tutto questo si è prepotentemente accostato un nuovo modo di essere del museo nell’età dell’ideologia assoluta del mercato. Il museo oggi legittima la cultura delle arti visuali e gli artisti lavorano per i musei e questi utilizzano questo meccanismo di produzione per il proprio autosviluppo istituzionale. Ma le sue architetture sono al servizio delle arti? o si servono di esse per mettere in primo piano i caratteri plasticovisivi dell’edificio in allineamento anzitutto con la sua funzione turistica? Queste questioni, ormai ovvie, pongono con evidenza agli architetti un triplice problema: un’analisi delle condizioni delle arti visive come contenuto contiguo al proprio fare, un’interrogazione sulla sostanza stessa dell’architettura e una riflessione sulla relazione tra le due diverse pratiche artistiche. È necessario quindi riguardare come qualcosa di specialmente significativo ciò che si produce in quanto architetti quando il soggetto del lavoro sia il museo e in particolare il museo delle arti contemporanee, un soggetto appunto che coinvolge in modo esemplare lo stato stesso dell’architettura dei nostri anni. «Collisione tra il potere eversivo dell’arte e la sua riduzione alla logica della comunicazione controllata» come ha scritto Franco Purini? Io sarei stato più severo constatando che la seconda ha avuto ragione della prima, riducendo a zero il carattere critico, cioè eversivo delle attività delle arti visive. Se la storia stessa dell’architettura, anche quella delle avanguardie del XX secolo, è colma di sconfinamenti fra le arti dai risultati importanti, la posizione di volontaria fuga dal campo disciplinare ha assunto nei nostri anni un ruolo diver-

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so, a metà tra il tentativo di evasione nello spettacolo della visualità (e quindi un modo, per gli architetti, di riaffermare il proprio potere decisionale messo in questione dall’assedio delle tecniche e dai mutamenti dei processi di costituzione dell’edilizia come bene economico) e, da un altro lato, la constatazione che sovente, proprio ai confini tra discipline, avvengono alcuni degli eventi trasformativi importanti, anche se i processi di contaminazione sono spesso mutuati da quelli delle discipline scientifiche. Questo moltiplica l’offerta dei materiali che devono essere presi in considerazione dal progetto, da campi del sapere a loro volta in rapida trasformazione, così che i criteri di selezione e di gerarchia faticano ad appellarsi a una ragione critica che ha perduto il proprio centro disciplinare ma non ne ha acquisito uno esterno sufficientemente stabile, né necessario né obiettivo (se si prescinde dalle questioni della rendita finanziaria), né la moltiplicazione degli elementi disponibili consente una scelta puramente intuitiva, che si somma alla competizione come valore di sopravvivenza. A tutto questo si deve aggiungere poi, per tornare al nostro tema centrale, che probabilmente l’espressione «ragione critica» ha un connotato illuminista che il ritratto della società attuale sembra voler respingere, in apparenza perché è considerato uno strumento inefficace a descrivere la complessità ambigua e contraddittoria della sua condizione (dato anche che essa ha attraversato non senza conseguenze le contraddizioni della nozione stessa di progresso), in sostanza perché ogni richiamo a principi e prospettive, pur accompagnato dalla coscienza della loro provvisorietà, è ciò che la singolarità dei soggetti oggi più respinge come costrittivo della propria idea di libertà. Al contrario io penso che la libertà, se intesa come progetto, cioè come capacità di scelta, si costi-

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tuisca proprio dentro e contro i limiti delle condizioni concrete, e non solo nell’assenza di impedimenti. Certo la ragione critica ha subìto in tutto il XX secolo il confronto con la messa in luce della strategia dei desideri e delle censure inconsce che ha reso più complicata la lettura delle reazioni soggettive e collettive e ha frantumato la relazione fra queste e all’interno di ciascuna di esse. La ragione critica ha poi dovuto affrontare il confronto con il vertiginoso aumento delle informazioni e delle immagini, con la loro eterogenea provenienza, e quindi con l’impero di una comunicazione globale senza gerarchia; anzi con il costante dubbio della costituzione artificiale e pubblicitaria delle gerarchie. Ogni notizia grande o piccola è disponibile sullo stesso piano alla cinetica dello zapping che ha sostituito le ragioni dei nessi offerti dalla storia. In un testo del 1989 dal titolo Eurotaoïsmus?, Peter Sloterdijk scriveva: «Ciò che è caratteristico del processo progressivo è di cominciare con delle iniziative etiche per continuare in un automatismo critico [...]. Il fatto ovvio è che la cinetica è divenuta l’etica della modernità», individuando nella pura mobilità-mobilitazione l’essenza del nostro tempo. Siamo su un tapis roulant che ci conduce verso l’imprevedibile – egli continua –, il nostro movimento non conta affatto per rapporto alla totalità della massa in movimento e i passi che ciascuno può fare sulla porzione di scala mobile che gli è riservata scompaiono nella totalità mobile quasi senza lasciare traccia. Il concetto desueto di realtà – prosegue poi – si restringe alla funzione residuale del non ancora messo in movimento! [...] Una teoria oggi può essere critica solo se essa rompe con la complicità cinetica.1

1 Peter Sloterdijk, Eurotaoïsmus: zur Kritik der politischen Kinetik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1989.

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È cioè ancora la ragione critica che può consentire di aggirare gli ostacoli della ragione comune e della sua ideologia, permettendo la ricostituzione di criteri di scelta tra i quali devono trovare posto le ragioni stesse della cultura architettonica? La questione centrale mi sembra sia se, a partire dai limiti dell’ontologia stessa dell’architettura, cioè dalla sua strutturale positività, sia possibile la configurazione di un realismo critico in architettura. È evidente che non vi è coincidenza e neanche separazione tra architettura e i processi tecnologici della sua costruzione; la prima mimesi l’arte architettonica la opera proprio nei confronti di tali processi di cui evoca l’essenza vissuta come visibilità. E questa riflessione si estende a tutti gli aspetti delle finalità pratiche dell’architettura. Esiste tuttavia un altro livello di confronto tra la forma architettonica e le condizioni universali, anche se storiche, in cui la forma architettonica si sviluppa, compresa quella delle condizioni della disciplina stessa. Mentre il primo livello è per sua natura escluso dalla negatività, il secondo si costituisce sempre (più o meno consciamente) come giudizio critico sullo stato delle cose in quanto materiale del progetto. Il problema è di sapere quale connessione esiste tra i due livelli e in che modo è, a mio parere, il primo ad assumersi la responsabilità di dar voce anche al secondo: è cioè il modo stesso con cui si attua l’essenza visibile del costruire a costituire la sua forma, è «nel modo» che si insinua il giudizio generale sulla condizione e sulle sue possibilità di trasformazione. Ma che cosa significa allora, nel concreto della nostra disciplina, l’espressione «progettazione critica»? È applicazione della ragione ai processi di organizzazione tecnica e spaziale, di traduzione delle esigenze nella realizzazione delle cose, o vi è qualcosa d’altro da ascoltare? Certamente non si dà

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progetto senza processo di costruzione riflessiva nei confronti della sua stessa costituzione e per rapporto alla sua ineludibile finalità pratica, ma l’aspetto critico consiste proprio nel modo di far fronte a tale finalità o, ancor più, nello scarto che la riflessione critica produce rispetto a essa per mezzo del progetto. Nuova cosa tra le cose Ma cosa autorizza e guida tale scarto nel tempo della falsificazione dell’incarico sociale? Probabilmente niente e nello stesso tempo una moltitudine di cose: indizi, previsioni, condizioni e predizioni in cui si sono inceneriti speranze e antagonismi, strategie rispetto alle memorie, errori travestiti da esperienze, la propria storia e il confronto con la storia della disciplina, i suoi fondamenti e, insieme, la loro messa in discussione continua per mezzo del presente, i suoi margini e il loro spostamento: soprattutto le speranze e i desideri. Cioè il magma della realtà che è la materia necessaria all’uso della ragione critica nell’arte, che è gioco di aggiramento degli ostacoli, scoperta dell’altro, capovolgimento delle premesse che permette di collocarsi improvvisamente al centro della realtà del dover essere, a lato delle opinioni delle maggioranze interne ed esterne, alla scoperta delle regole costitutive dell’opera e al servizio delle sue misure e dei suoi provvidenziali limiti. Critica significa anche disponibilità al ricominciamento, alla ricollocazione di tutti gli elementi in ragione dell’introduzione di un nuovo piccolo spostamento, critica significa soprattutto instaurazione di relazioni, cioè misura di distanze, non tanto costituzione di differenze (la differenza è in sé

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valore del tutto secondario da perseguire) quanto tentativo di ricavare preziosi materiali dal riconoscimento delle differenze per la costituzione dell’adatto. È ovvio riconoscere che il materiale con cui lavora un’architettura è un nodo di fatti storici, tecniche disponibili e volontà di profitto, ma anche condizioni economiche e strategie disciplinari, disposizioni culturali, convinzioni ideologiche e decisioni politiche; meno ovvio è riconoscere il percorso di trasformazione di questi materiali in architettura per mezzo del progetto che si coagula come una costellazione organizzata di eventi, marginati, sovente incompleti, capaci talvolta di profondità anche a partire dalle tracce abbandonate della loro stessa vicenda costruttiva. È attraversando questo spesso strato, scegliendo e abbandonando, perdendo e vincendo che il progetto si costituisce, alleato e oppositore nello stesso tempo delle altre forze che lo hanno prodotto in quanto evento necessario. Si rovescia qui, in qualche modo, il rapporto con la realtà che diviene materiale indispensabile alla costruzione dell’opera, che a sua volta modifica, con la sua presenza critica, l’esistente: in qualche modo è negandolo, dopo averne preso coscienza, che l’opera si costituisce. Ed è alla fine proprio il diritto alla distanza critica costruita dall’opera che ne autorizza la necessità e la presenza. Che l’uso e la percezione nel tempo ne propongano poi interpretazioni comunicative di significati e narrazioni diversi, nulla toglie a quelle necessità che hanno organizzato, nella forma convergente e stabile dell’opera, gli eventi sparsi e contraddittori: di essi comunque il progetto porta i segni e deve essere in grado di rendere ragione. In certo modo l’estremo contesto dell’opera è l’opera stessa.

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Ciò che resta da spiegare è che le opere dell’architettura attuano la loro critica alle condizioni della realtà precisamente attraverso il loro essere nuova cosa tra le cose, per mezzo, cioè, del loro apparire e del loro permanere. I modi del loro processo di costituzione hanno però certamente un rilievo decisivo sul loro esito in quanto divenire autentiche cose reali in mezzo al mondo e nel loro affermare «l’esperienza della inseparabilità tra sensazione e pensiero, tra senso ed intelligenza», come scriveva Maurice Merleau-Ponty nel suo celebre saggio su Cézanne2. Per realizzare questo progetto occorre un grande esercizio e una sapienza tecnica in grado di sostenerne tutte le fasi e, nello stesso tempo, capace di «dimenticarsene», insieme con tutte le esperienze del soggetto, nella attuazione dell’opera. Ma è proprio la consistenza dell’idea di opera che viene oggi progressivamente contestata riducendola a evento, ponendo arbitrariamente il processo di interpretazione (che è invece posteriore alla sua costituzione) quale fatto preminente nella sua costruzione. A questo l’architettura offre nello stesso tempo una particolare disponibilità, a causa del lungo e pubblico processo di costruzione, e una particolare resistenza per la sua natura tettonica e per il suo carattere di rappresentazione antidescrittiva e indiretta che ho già ricordato. L’architettura, cioè, non è un’«istantanea» della realtà storica in movimento ma uno degli elementi della sua costituzione, un punto fisso per misurarne, oltre che per provocarne, le trasformazioni. La sua appartenenza alla realtà, che si attua nel suo essere cosa duratura, in mezzo alle altre cose della geografia del mondo, propone una assunzione di responsabilità nel pro2 Maurice Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne (1945), trad. it. in Id., Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962.

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cesso di modificazione che essa attua e in generale nella costruzione dell’ambiente fisico, cioè una coscienza del peso del proprio intervento rispetto alle altre cose e, connesso a questo, un riconoscimento della esistenza dell’altro da sé come costitutivo dell’oggetto architettonico: oltre che un diritto al proprio posizionamento all’interno del campo specifico dell’architettura. Dunque la messa in valore del sistema delle relazioni, non solo nella percezione della nuova cosa ma anche nello spostamento che essa induce nella costituzione della cosa stessa, fa direttamente riferimento alla costruzione del paesaggio antropo-geografico e all’idea che il paesaggio è, almeno in Europa, il modo di essere fisico della storia, e l’architettura è parte della sua geologia3. Geografia e paesaggio volontario Si aprono qui una serie di questioni vitali per la costituzione di un’architettura del realismo critico. Anzitutto è necessario escludere ogni concezione del paesaggio come sfondo, come «spazio geografico neutrale» (una definizione assai discussa tra gli stessi geografi), cioè come un esistente dato nel quale l’architettura si posiziona. Paesaggio e natura sono due cose diverse. L’uomo ha non solo modificato il paesaggio ma lo ha ricostruito come cartografia, descrizione e rappresentazione, persino come natura ideale nel giardino, con la coltivazione e come campo di esperimenti estetici e scientifici. Scriveva nel 1991 Franco Farinelli sul n. 575/76 di «Casabella»: «Proprio in forza della sua connaturata e calcolata ambiguità il 3 Su questa definizione (e di conseguenza sulla relazione geografia-paesaggio-territorio) è aperta tra i geografi un’ampia discussione riassunta con chiarezza nel 3° paragrafo del secondo capitolo del libro di Giuseppe Dematteis, Progetto implicito, Franco Angeli, Milano 1995.

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paesaggio resta l’unica immagine del mondo in grado di restituirci qualcosa della strutturale capacità del reale: dunque il più umano e fedele anche se il meno scientifico dei concetti». La varietà dei quadri che il paesaggio antropo-geografico europeo propone è una combinazione infinita di pezzi sottilmente e continuamente diversi in delicato equilibrio, aperti alla modificazione appropriata, ma anche al confronto con i tempi lunghi della sua geologia, della sua tettonica, come delle sue tracce insediative. A questo si oppone il fenomeno della espansione edilizia quantitativa e della occupazione indifferenziata dei suoli, verso la prevalenza assoluta della diffusione del costruito, che considera l’insieme del territorio «residuo inutilizzato», fondo infinitamente disponibile alla crescita come valore assoluto. Bisogna subito ricordare che il costruito ripetitivo non è certo specifico della contemporaneità; molte città europee sono costituite principalmente da materiali edilizi ripetitivi la cui diffusione ha avuto un ruolo importantissimo anche qualitativamente nel disegno del consolidamento urbano. Perché essi non giocano lo stesso ruolo nella città contemporanea? In parte perché si tratta dell’estensione della ripetizione e dell’eccesso di densità quantitativa, ma soprattutto per due ragioni importanti: la prima riguarda la mancanza di regole chiare e culturalmente condivise di disegno urbano, la seconda è la scarsità culturale dell’imprenditore-architetto che, messe da parte le ambizioni espressive, è in grado di riprendere modelli consolidati di una current architecture che si presenta con civile modestia, rendendo possibile la costituzione di un paesaggio urbano dalla misurata e variata omogeneità. Tale «variata omogeneità» (che sovente noi consideriamo pittoresca) è poi l’impronta sovrapposta di infiniti piccoli cam-

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biamenti, di proprietà, di funzioni, di volontà espressive, di ricostruzioni che hanno però saputo, nei casi migliori, convergere verso un principio insediativo collettivamente condiviso, fondendo in una storia, almeno ai nostri occhi, persino gli strappi, le invasioni e i salti di scala. Oggi la tensione verso «l’architettura competitiva» è diventata troppo forte per permettere una decente mediocrità e, da un altro lato, l’enorme produttività, componente essenziale della competitività, è anche altamente dissipatrice del senso, della condivisione delle regole e del grado di civiltà che esprimono. Esiste, è vero, la risorsa costituita dagli esclusi, dai marginali sempre più numerosi e dal loro modo di organizzare fisicamente, in maniera autonoma, il paesaggio della propria sopravvivenza. Questa sembra muoversi però fra i due estremi dei dispositivi fortemente provvisori e dell’imitazione dei valori delle classi dominanti. Il paesaggio, tuttavia, nella sua oscillazione tra oggetto di percezione, modello iconografico e scienza della natura, non è fortunatamente un materiale direttamente interpretabile, traducibile o commentabile (niente di giardinesco esiste nella sua relazione con l’architettura o con il giardino in quanto alternativa di natura magicamente narrata o proseguimento e completamento dell’impianto architettonico), ma è altro rispetto all’architettura, che non si dissolve in esso ma là trova il confronto necessario alla sua stessa costituzione, all’uscita di ogni realismo dalla propria affrettata diacronia per misurarsi con un tempo storico lungo e profondo, con l’idea di durata per mezzo della continua metamorfosi dentro ai limiti della persistenza delle propensioni insediative. Non credo che l’architettura debba divenire paesaggio ma, al contrario, è con la dialettica nei confronti dell’architettura

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che un paesaggio si costruisce per quanto esso viene riguardato non solo nel suo aspetto pittoresco ma in quello della sua costituzione strutturale. Quindi è necessario rivelarne continuamente, per mezzo dell’architettura, il fondamento insediativo, la topografia storica, mettersi in relazione con la sua stratigrafia, con i processi di trasformazione della sua memoria e con le sue ragioni, con le opportunità e compatibilità che esso offre di fronte a nuove condizioni e necessità: tutto questo attraverso tracce e indizi dal significato storico e morfologico polivalente, che appartiene a più linguaggi. Non si tratta solo di materiali metaforici ma di concrete condizioni materiali, misure, sequenze differenziate, confini, distanze, pendenze, aree: compresi gli orizzonti lontani, e gli schermi che li misurano. La linea di contatto con il suolo e la sua natura di piano di fondazione, così come il profilo dell’edificio che misura il cielo, sono elementi stabili, costanti di relazione. Quando i secoli hanno cambiato il piano di appoggio al suolo, è l’edificio che indica il luogo della condizione originale, che segna lo stato della storia che lo ha costruito. È una strategia che coinvolge, dal punto di vista progettuale, anche gli spazi aperti e i progetti di suolo delle città consolidate ma, non meno, quelli delle ipercittà con i suoi vasti spazi specializzati. Qui emergono tutti i problemi di confronto e di compatibilità tra nuovo e spazi storici del costruito e dell’agricolo. Siamo ben consci che la campagna ha, in Europa, un destino sia sociale che produttivo molto critico, ma la storicità della sua costituzione almeno come paesaggio va attentamente considerata come una ricchezza da spendere con grande delicatezza. Resta il fatto che la relazione tra permanenza e mutamento (tra Hestia ed Hermes avrebbero detto i Gre-

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ci) suggerisce la costituzione di livelli diversi di trasformabilità. Inoltre, la permanenza non è eterna ma muta con tempi molto lunghi e il mutamento più o meno celere ha su di essa influenze che dipendono anche dalle fasi del ciclo lungo. Ma la loro conversazione dialettica è sempre presente. Naturalmente non voglio con questo rischiare di incrementare l’idea di un’architettura che si sottrae alla storia con tutto il suo indispensabile contenuto, per mezzo della ricerca del solo confronto con il tempo lungo della geografia. Un’architettura completamente priva di contenuto storico, coincidente con la durata geografica, gestita solo con i mezzi linguistici e tecnici e attraverso il solo confronto con la funzione, è del tutto impossibile: a meno di considerare come contenuto la sua volontaria, ideologica assenza. La celebre discussione sulla pittura olandese del XVII secolo (che Hegel considerava paradigma della pittura pura) come pittura a cui importa solo ciò che l’occhio vede, opposta alla pittura narrativa (specialmente italiana), è in qualche modo sostenuta dall’idea di scienza come contenuto permanente della pittura di pura descrizione: geografia, paesaggio e natura qui sembrano coincidere senza eludere il loro processo di costruzione ma rappresentandolo come stato. Il contenuto è qui come sospeso, ed è questo che la distingue dalla pittura del realismo ottocentesco, oltre che la totale mancanza di esibizione pittorica4. 4 Nelson Goodman in I linguaggi dell’arte (trad. it., Net, Milano 2003) riprende, applicandola al problema della città metropolitana, questa idea della rappresentazione descrittiva come strumento di comprensione e ripensamento, cioè alla fine come capace di progettazione interpretativa. A questo proposito sarebbe interessante indagare (a partire dagli studi di Svetlana Alpers) la tradizione, oltre che della pittura di paesaggio, di quella della natura morta. Al di là degli elementi simbolici comunque presenti, è questa che propone più chiaramente, senza alternative narrative, la questione della composizione come essenza del dipinto. Il silenzio narrativo apparen-

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Ma sia narrazione che descrizione del mondo esterno, come ho già scritto prima, non sono caratteri e scopi primari, specifici del lavoro architettonico, il cui paziente andirivieni alla ricerca di un’organizzazione dotata di senso di materiali molto eterogenei giunge, quando può positivamente, a una provvisoria stabilità, se l’ossimoro mi è consentito, nella forma dell’opera. Quanto deve tale «provvisoria stabilità» al complicato meccanismo che mette in relazione progetto, condizioni e speranze presenti, e quanto al confronto tra la propria posizione e il contesto della tradizione? Resta di fatto che la presa di coscienza del proprio posizionamento rispetto allo stato dell’architettura, in quanto ultimo foglio di una lunga tradizione, è il primo atto di realismo critico di ogni architetto; anche se talvolta, voltando la pagina del libro della storia, si ha con troppa facilità l’illusione del totale ricominciamento. Se si colloca nel giusto luogo questa pretesa e si assume la coscienza della continuità come modificazione, concentrando naturalmente i propri sforzi sulla modificazione e sul suo passo appropriato, la questione della tradizione disciplinare si propone in modo inevitabile5. E qui diventa centrale il problema di come agire con la ragione critica sulla nostra specifica tradizione disciplinare, anche se sappiamo bene che la nozione di disciplina è soggetta a continue corrosioni, ampliamenti e costrizioni nei suoi confini; sappiamo anzi, come si è già detto, che tali confini rapprete, specifico della pittura del XX secolo (il silenzio è però anch’esso un modo di parlare), è stato un luogo di avvicinamento tra pittura e architettura nello scorso secolo. 5 E su questo punto vi è una resistenza accanita da parte delle due ultime generazioni, una specie di condizione di «diseredati volontari». A parte le nevrosi e i conti in banca – qualcuno ha scritto – non si vuole ereditare più niente.

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sentano, con il loro sguardo verso la condizione di altre discipline (la stessa dimensione geografica era scarsamente presente sino a quarant’anni fa nei discorsi sull’architettura), la linea più sensibile al cambiamento e quindi alla relazione con la dinamica del reale e alla interrogazione sull’identità stessa della disciplina e sui suoi sviluppi. Sappiamo anche che la nozione di disciplina, oltre che come campo del sapere, è connessa con le idee di regola, di ordine e con la loro continua violazione e, attraverso di esse, al senso di parole oggi criticatissime come essenza e fondamento di un campo dell’agire: noi diciamo almeno come riconoscimento dell’esistenza di un suo punto interno6. È a partire da esso che ci si confronta con lo spirito del tempo. Ammesso che le tesi interpretative delle opere dell’arte che si esplicano nello Zeitgeist abbiano, nel contesto attuale, una qualche validità; niente vieta però di misurare il valore delle opere per ciò che esse mettono in evidenza in quanto attitudine a opporsi allo spirito del tempo piuttosto che a rappresentarne i caratteri. Per molti, come già ho sottolineato, il mondo immateriale dell’informazione e della virtualità, che si esprime sul piano economico-finanziario, su quello tecnico-scientifico e su quello della gestione del potere, sembra costituire l’autentico spirito del tempo (con tutte le potenzialità e i danni che questo può provocare e con tutte le difficili intermediazioni con ciò che esiste) da rappresentare in modo simbolico ma anche concretamente architettonico con nuove morfologie.

6 È necessario sottolineare anche l’importanza delle dinamiche sociali interne al «campo» delle produzioni culturali (letterarie, artistiche e scientifiche), così come le intende per esempio Pierre Bourdieu e, soprattutto, la messa in competizione dei capitali simbolici e dei posizionamenti reciproci che ne derivano; senza con questo escludere il materiale proveniente dalle relazioni con la realtà esterna.

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Calligrafie e realtà virtuali Fortunatamente, non si sono in tal modo unite insieme, per il momento, tutte le condizioni necessarie per eliminare l’architettura, ma ci si lavora da più parti; non solo da quella della razionalizzazione immobiliare, della complessità delle tecniche specialistiche, della modellazione delle soluzioni, dell’intervento degli specialisti intermedi, ma anche da parte degli architetti che si ritirano volentieri dentro l’ambito della pura estetizzazione dei dati di fatto. E questo obiettivo è denso di contraddizioni che, per ora, si sono sviluppate con ampi e incerti compromessi tra i diversi linguaggi espressivi, che sembrano corrispondere, più che a una libertà di articolazione, alla vacillante, da questo punto di vista, idea di realtà del nostro tempo. Sarebbe interessante condurre un’analisi, anche schematica, sulle calligrafie architettoniche più utilizzate da chi, nei nostri anni, ha il migliore successo mediatico, da chi cioè si presenta come coerente rappresentante dello spirito del tempo. Si potrebbe forse individuare, così, come deve essere composto il prodotto architettonico di successo per essere gradito, facilmente diffuso e digeribile. Si scoprirebbe probabilmente che tale calligrafia, nonostante l’ampia quantità di varianti, è riducibile a pochi elementi essenziali: anche i tardi rappresentanti della scuola hitech inglese si stanno allineando a essa, come è nella logica della trasformazione della bottega professionale in società di servizio. Anzitutto il linguaggio deve essere anticostruttivo; anche ricorrendo alle più sofisticate tecnologie, deve presentarsi in modo da far perdere le tracce dell’edificazione, deve offrirsi come una sfida all’incostruibilità.

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In secondo luogo, esso deve presentare qualche segno di una geometria dell’inabitabilità (angoli acuti, spazi mistilinei, labirinti ecc.) e, insieme, dell’accumulazione casuale e spezzata di antiforme. La pianta dell’edificio, anziché generatrice, è il risultato: anzi è ciò che risulta. L’edificio come composizione plastica viene prima. Questo tipo di architettura è proprio quella che reintroduce descrittività sociale organica e narrazione nel processo di costituzione, anzi fa di esse il fine, ne costituisce l’angolo di adesione senza alternative alle condizioni maggioritarie, ne esalta sino alla caricatura i caratteri. In terzo luogo, deve essere mantenuta una costante ambiguità tra vero e falso, tra decorazione e ornato, tra necessario e superfluo; deve essere continuamente riaffermato il processo di separazione tra senso e strumentalità: oppure è lo strumento a diventare senso. Se si tratta di insiemi urbani, ciò che, secondo questi insegnamenti, deve essere assolutamente evitata è l’unità architettonica dell’insieme seguendo la sciocca opinione che la qualità sia proporzionale alla varietà dei contributi architettonici. Ciò può talvolta verificarsi nella stratificazione storica, ma è contrario all’intera tradizione del disegno urbano. La frammentazione linguistica è in ogni modo perseguita quale simbolo della flessibilità. Essenziale è, infine, la volontaria estraneità al luogo, un’indifferenza morfologica che va molto al di là della equivalenza dettata dalla tecnologia, suggerisce modelli lontani, futuri, di misure contrastanti, al fine di assicurare costantemente l’eco della novità del prodotto. Strumento indispensabile per il successo è poi l’adozione del linguaggio multimediale delle comunicazioni di massa: videoclip pubblicitari, fumetti, rendering virtuali ecc., una rappresentazione grafica architetto-

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nicamente incomprensibile o, all’opposto, scenograficamente verista e gradevolmente simile alle rappresentazioni dei prodotti di consumo. Infine è necessaria una efficiente diffusione televisiva e l’aspirazione a diventare popolari almeno come i cantanti o i calciatori. La resa all’immagine deve essere dominante, la pretesa di durare ridotta a zero; ciò che conta è la riproduzione, è con essa che si devono fare i conti, è essa che determina il successo o il silenzio, che (arbitrariamente) equivale all’insuccesso. Questo tipo di architettura deve infine essere plasticamente complessa e, nelle rappresentazioni grafiche, portare il segno dell’attraversamento dello strumento digitale, capace di cancellare ogni traccia di manualità e della indispensabile fatica delle approssimazioni successive. Tale approssimazione si è trasferita nel senso dell’incompletezza del manufatto, dell’interruzione casuale che simboleggia, in modo chiaramente deduttivo, la flessibilità: un trasferimento indebito della teoria dell’«opera aperta» enunciata quarant’anni or sono per il lavoro letterario. L’opera aspira a diventare allestimento, evento, virtualità, oggetto di consumo, processo di estetizzazione; persino della marginalità. Ho accennato all’inizio di questo libro a un’espressione contraddittoria come quella di «realtà virtuale». Essa è certamente qualcosa di diverso dalle rappresentazioni ideali o fantastiche che hanno punteggiato in modo importante, quali suggestioni, e a volte quali vere e proprie teorie disegnate, l’intera storia dell’architettura. Naturalmente credo che nessuno discuta l’utilità strumentale, anche sul piano della rappresentazione, dei mezzi informatici, ma sarebbe interessante discutere della loro tendenza verso una autonoma produzione di immagini, addirittura di una «cybercultura». Esse dovrebbero essere «desunte dal mez-

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zo utilizzato» («l’architettura, il mondo, tutto è divenuto parte della totalizzazione della tecnica»)7 e offrire all’architettura una dimensione in cui apparire fluida e virtuale, instabilità contro stabilità, addirittura «multiforme interattività». L’interattività è attività assai utile a raccogliere e selezionare i materiali progettuali e, naturalmente, anche a favorire la percezione delle opere, ma guai a dare retta nella progettazione alle opinioni, del tutto indotte dalle comunicazioni di massa, dei fruitori; si rischia di trasformarsi da progettisti in media, in operatori delle ricerche di mercato, in architetti della constatazione, anziché offrire idee alla discussione collettiva. Anche se si possono sollevare dubbi sui limiti di immagini che sono desunte dal mezzo utilizzato (noi non pensiamo affatto che la tecnologia debba divenire mezzo conformativo del pensiero: il mezzo non è il messaggio ma uno strumento, sia pure dotato di un senso storico specifico), non dubitiamo che uno strumento tanto flessibile come il mezzo informatico sia in grado di stimolare immagini e che un concetto come quello di «simulazione» possa costituirsi come connessione figurativa; ma offrire all’architettura la possibilità «di essere fluida e virtuale» è come offrire all’acqua la possibilità di essere asciutta. Inoltre l’immagine non è il progetto ma il risultato della sua elaborazione costruttiva. Si può certamente modificare la concezione dello spazio architettonico (anche inglobando metaforicamente le nuove misure del tempo e della sua accelerazione), ma non credo che obiettivo unico sia quello di esprimere lo spazio architettonico dell’era informatica. Anche se importantissima, la dimensione informatica credo si debba confrontare con molte 7 In Livio Sacchi e Maurizio Unali (a cura di), Architettura e cultura digitale, Skira, Milano 2003, pp. 219, 241.

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altre questioni offerte dalle contraddizioni del mondo contemporaneo. Inoltre, parlare di architettura dell’era digitale o direttamente di architettura digitale del XXI secolo mi sembra una dilatazione eccessiva e impropria. Certamente l’invenzione della stampa o la rivoluzione copernicana ebbero una grandissima influenza sulla cultura dei rispettivi tempi, ma nessuno si sognerebbe di definire il Rinascimento come «architettura gutemberghiana», né il barocco «architettura galileiana»; ridurre il Movimento Moderno a rappresentazione della catena di montaggio sarebbe assai riduttivo. Dematerializzazione, amplificazione e progressiva liquefazione sembrano essere gli scopi di questo drappello di neoavanguardisti diffusi. Ma noi non siamo così ansiosi di ampliare i confini dell’architettura: il suo campo di azione è già molto ampio e complicato, non pensiamo che il caso sia «ordine sublime e perfetto», vogliamo costruire forme materiali finite e dotate di senso8. L’utilissima pratica della rappresentazione virtuale, quando si pretenda «realtà virtuale» conduce con sé (almeno per il momento) una certa quantità di equivoci rilevanti. Anzitutto essa si propone come tendenza puramente visuale che oscilla tra l’assoluto verismo e la deformabilità di un mezzo dai fini del tutto sperimentali e influenzati da linguaggi molto contraddittori, e comunque anticostruttivi, lontanissimi da ogni ontologia dell’architettura; almeno per chi a questa creda. La pratica della realtà virtuale coinvolge in ogni modo 8 Interessante invece, da questo punto di vista, la classificazione che Franco Purini fa a proposito dell’architettura digitale, distinguendo il carattere di servizio strumentale sofisticato, dalle vocazioni figurative del sistema elettronico verso il costruire continuo (scocche, superfici autoportanti, negazione della tettonica ecc.) e, infine, il suo farsi immaterialità informativa che rinuncia a ogni figurazione.

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l’allontanamento dell’architettura dall’arte del costruire per volgersi verso l’arte della costituzione della pura immagine, staccando definitivamente forma e materia; ma non vi sono alternative per l’architettura al vincolo della fisicità. Si possono certo immaginare comunità senza contiguità come propone la società della rete, ma esse saranno (e già lo sono) reti sovrapposte ai modelli insediativi esistenti che difficilmente potranno venire cancellati9. Anche se la loro modificazione potrà essere lacerante, lo sarà certo assai più per ragioni di immagine che per necessità funzionali. Ciò che è evidente è che il mondo informatico ha un’influenza enorme sulle strutture del lavoro e della vita quotidiana e pone quindi nuove e diverse classi di domande all’architettura, come arte di costruzione dell’ambiente fisico, domande in parte funzionali e in parte morfologiche: ma oggi con molta incoerenza tra le due. La carriera dell’architetto presenta a questo punto due opportunità: l’organizzazione vasta ed efficiente in società di servizio o la «postura da artista», sul modello dei grandi couturiers della moda, con tutte le combinazioni tra le due vie. La connessione è offerta dall’interpretazione attuale del concetto di «design» sempre più lontano tanto dal significato rinascimentale di disegno in quanto progetto, quanto dai principi del moderno. Tutto ciò, bisogna però riconoscere, fa organicamente parte di quella concezione diffusa del realismo come rappresentazione delle ideologie dell’anomia e della dissociazione: ciò che è precisamente l’opposto di ogni realismo critico. 9 Anche la costruzione dell’ambiente urbano e dello stesso paesaggio antropizzato viene sovente coinvolta dalla pretesa di un ricominciamento radicale e tecnologico-figurale o che sostituisce l’utopia in una sorta di ricostruzione postatomica percorsa dal silenzio rumoroso della comunicazione immateriale.

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Di qui è interessante e persino paradossale osservare come il realismo critico finisca oggi per proporre come altamente oppositive e persino ribelli, rispetto all’opinione della maggioranza, nozioni come misura, coerenza, ragionevolezza ed economia espressiva; appare paradossale cioè che l’unica autentica violazione delle convinzioni diffuse sia la costruzione delle regole: non solo quindi un richiamo alla resistenza o alla ricostruzione, ma un vero appello alla loro costituzione, in funzione non solo di una architettura civile ma della stessa sopravvivenza dell’architettura in quanto pratica artistica. In queste pagine ho continuamente parlato di critica come opposizione a un sistema di valori individuato (in modo del tutto parziale, lo ammetto) nell’attuale ideologia del mercato della costrizione indiretta e della libertà passiva. Sappiamo bene, anche senza ricorrere all’Immanuel Kant della Idea di una storia universale, che è il conflitto e l’antagonismo delle attitudini che costituisce fonte di articolazione dei possibili sensi della parola «progresso», che tale antagonismo deve mantenere e alimentare una diversità anche radicale di punti di vista e che questo deve ovviamente avvenire nel rispetto del diritto non solo come equità ma come ampliamento delle possibilità di tutti. I compiti dell’architettura non possono prescindere da questi problemi, anche se certo non hanno il compito di risolverli. Negli anni del grande successo del postmodernismo storico-stilistico scrivevo Io credo che l’ossessione della storia di questi anni sia in certo modo la risposta alla perdita dell’integrità dell’architettura. Poiché l’integrità dell’architettura necessita di rapporti reali, alla caduta dei rapporti reali col mondo dei bisogni, della produzione, della

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crescita urbana, della significazione collettiva, della stessa tradizione del mestiere disciplinare, corrisponde la proiezione di questi rapporti reali sul piano fantasmatico dell’ipotesi storica. Immagino facilmente il sorriso di molti. Cosa significa «realtà» nella società di oggi? È possibile una sua conoscenza e giudizio globale? È evidente che no: i contraddittori segnali che ci provengono dalle stratificazioni complesse del corpo sociale non ce lo consentono. Eppure esiste una confusa e disordinata marcia delle cose a cui ogni intellettuale non può sottrarsi, a cui deve rispondere, per interpretazioni sia pure parziali, dialettiche, evocando spesso proprio ciò che non esiste. Invece tra realtà e costruzione dell’architettura si è aperto un grande vuoto disponibile.10

La risposta? Non c’è risposta se non quella di tornare a soffrire le incertezze della realtà, mantenendo «una totale mancanza di illusioni nei confronti della propria epoca e ciò nonostante pronunciandosi senza riserve per essa». Tornare a soffrire la realtà è una questione certamente teorica e ideale assai complessa quando si voglia connotare la realtà, al di là dell’empirico tangibile, come volontà e progetto, come «utopia concreta», «principio di speranza», per usare le belle espressioni di Ernst Bloch oggi tanto fuori moda da apparire ingenue o interessate. Ma è anche uno sforzo positivo, un problema di scelta di strumenti e di metodi. È una convinzione ormai solidificata da un trentennio che l’architettura non possa essere uno strumento per la trasformazione dei rapporti sociali; ma io dico che è l’architettura ad avere bisogno, per prodursi, del materiale rappresentato dai rapporti sociali. Essa non può sopravvivere semplicemente rispecchiando i propri problemi, utilizzando in modo antropofago la 10

L’ossessione della storia, in «Casabella», n. 478, 1982.

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propria tradizione, anche se solo dentro quella tradizione l’architettura può trovare gli strumenti disciplinari per essere. Scrivere sulla realtà è alla fine un modo per rivendicarne l’esistenza e il senso, per quanto straziante essa sia. La modernità con i suoi ideali di far corrispondere realtà, giustizia, opportunità, qualcuno sostiene, non è finita: è scomparsa dietro l’analisi infinita che l’ha dissolta in elementi che non appartengono più all’ordine della percezione e della rappresentazione ma solo a quello dell’infinita combinazione. Il soggetto, immesso non nella realtà ma nella «rete», è un elemento di tale catena infinita. Si passa dalla virtualità alla realtà combinatoria. Ognuno diventa clone o metastasi di un’altra cosa. Il nulla si presenta non solo come possibile ma come probabile in quest’ottica. Una visione tutt’altro che assurda ma non fatale, a cui si deve cercare di opporre alternative, forse con ragionevoli progetti, forse con altrettanta radicalità. Il realismo critico di cui qui si è scritto si presenta così, alla fine, come una specie di griglia ideale di collimazione collocata sulle due facce dello stesso foglio del progetto. Da un lato vi sono i materiali disponibili nelle condizioni date che il progetto deve scegliere e organizzare, ma che solo il giudizio intorno a cosa sia struttura della realtà è in grado di selezionare in funzione della costruzione dell’opera. Dall’altro si tratta di sottoporre lo stato dell’architettura e dei suoi mezzi al confronto con lo scarto che l’opera propone, uno scarto talvolta difficile da misurare, ma che rende necessario lo spostamento modificante del suo stesso percorso di costituzione. Quale sia il tipo di relazione tra le due facce è impossibile fissarlo, ma è proprio questo che trasforma ogni opera dell’arte in un enigma necessario.

4.

Cinque casi

In questo capitolo sono descritte le ragioni di cinque diversi progetti che il nostro studio ha proposto o realizzato, secondo le diverse fortune, nell’ultimo decennio. Nel 1998 ho scritto un libro dal titolo Racconti di architettura (Skira, Milano) di cui queste ultime cinque relazioni di progetto rappresentano un’ideale continuazione. Ognuna di esse presenta un proprio sguardo critico sulla realtà o, meglio, cerca di illuminarne un aspetto: la ricerca dei fondamenti insediativi per l’ampliamento della città; il nostro rapporto con l’avanguardia come essenza della cultura europea del XX secolo; lo spazio di lavoro e la sua organizzazione; il problema della narrazione paratattica della città antica; il disegno del suolo e la questione dell’allegoria dello spazio aperto, come costruire in contesti culturali distanti tra colonialismo, folclore e risonanze. Questi progetti non vogliono rappresentare certo le prove di cosa sia per me il «realismo critico» che ho cercato di descrivere nei primi tre capitoli dal punto di vista di chi agisce. Quella nozione è andata però comunque maturando attraverso queste stesse opere ed esse in qualche modo, certo parziale, sono le tracce del suo percorso. La causa prima di ogni mio scritto sono le incertezze teo-

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riche (per usare un vocabolo un po’ presuntuoso) che è necessario attraversare in ogni nostro lavoro, e comunque la testimonianza del nostro desiderio di non separare parole e cose, pratica e tentativo di riordino delle idee e delle ragioni delle forme: anche se siamo ben consci della possibilità di diverse interpretazioni dei loro significati – e forse tale pluralità interpretativa è segno della loro eventuale ricchezza poetica, come la cultura europea ci ha insegnato. Anche per queste ragioni è bene mettere in campo la possibilità di comparare idee e opere. Per grandi o piccole che siano, esse hanno attraversato la prova di tutte le difficoltà dell’organizzazione progettuale e talvolta quella complicata e sovente perdente, ma nello stesso tempo meravigliosa, del cantiere e del distacco dall’opera finita: di cui non restano, al nostro sguardo, che le manchevolezze. Si potrebbe subito obiettare, con fondata serietà, che le cose dell’architettura non dovrebbero essere spiegate con le parole: più esse sono compiute, più si spiegano da sole, o meglio esse semplicemente «sono», e come tali si offrono all’uso e alla spiegazione interpretativa degli altri per gli anni a venire; anni tanto più lunghi quanto più è consistente e precisa l’identità del baricentro di quell’architettura. Ciò che però è forse utile testimoniare è la storia interna del progetto e delle sue intenzioni, annotare le vicende esterne che ne hanno influenzato e deviato l’evoluzione, anche se ciò che conta è alla fine solo l’opera: costruita o disegnata che sia. Perché dunque ci sembra necessario spiegare i progetti con le parole? Si tratta di una sfiducia da parte nostra negli strumenti espressivi della disciplina a comunicare sentimenti, memorie e cambiamenti che meglio sembrano adattarsi alla forma letteraria? Oppure si tratta dell’incapacità della no-

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stra disciplina di presentarsi oggi come continua rispetto alle speranze migliori dei tratti discontinui della nostra società, e quindi del bisogno di giustificare la nostra differenza e spesso indifferenza, la singolarità delle nostre preoccupazioni? Sfiducia o incapacità, tutto ciò sembra essere in ogni modo il segno di un’azione che si dispiega su livelli incongruenti e quindi della necessità di spiegazione e traduzione promossa dall’autore, anche se talvolta è solo giustificativa dell’opera. L’autore, peraltro, dimostra spesso di non essere il migliore interprete del proprio lavoro. Nel nostro caso la spiegazione letteraria vuole sempre accompagnare il progetto e le sue ragioni piuttosto che l’opera compiuta, dove il commento si trasformerebbe in critica d’arte, e ciò spetterebbe di diritto a qualcuno diverso dall’autore architetto. Talvolta certamente, specie quando l’opera si è realizzata in modo incompleto o insoddisfacente, oppure quando essa ha subìto deformazioni o sovrapposizioni – ciò che peraltro nella storia dell’architettura è quasi sempre avvenuto –, la lettura delle relazioni di progetto può illuminare sulle motivazioni, se non vere, almeno più complete dell’autore. Motivazioni anche in quanto descrizione dei fatti e delle condizioni, perché è proprio questa descrizione ad avere in ogni modo ragione, a parlare in modo autentico, anche attraverso le interpretazioni che la società ne dà, per inadeguata e soggetta a cambiamenti di ingiustificati umori che essa sia. Sovente, per essere subito, l’alternativa è, da parte dell’architetto, quella di correre dietro al cambiamento o rinchiudersi dentro una coerenza che promuove, insieme a una coazione a ripetere, un distacco dalle condizioni in via di mutazione; ciò talvolta anche in funzione della costituzione di un

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nucleo di inattualità che è però strutturale per la persistenza dell’idea stessa di architettura. Trovarsi collocati, contro ogni nostra volontà, nella storia e fuori dalla contemporaneità dipende in parte dalla robustezza dei risultati del proprio lavoro, oltre che dal mutare delle condizioni dei gusti e dei problemi emergenti e dall’obiettivo passare del tempo. Dipende oggi, soprattutto, dall’ansia sempre più accelerata con la quale questo passare viene misurato segnando quindi il crescere del bisogno incessante di essere sempre nel presente, anzi nel futuro assoluto, cioè dentro i modi che vengono giudicati via via essenziali a questo fine; non importa se poi essi si vanificano rapidamente, anche se, proprio per questa ragione, apparentemente lo definiscono. Quando Giovanni Bellini morì, nel 1516, era capo di quella che fu probabilmente la più grande bottega di pittura del Quattrocento in Italia. Giorgione era già morto da sei anni e Tiziano stava già lavorando da più di un anno alla grande pala dell’Assunzione di Maria Vergine alla chiesa dei Frari. Giovanni Bellini era dunque un pittore superato. Ma chi non abbia della storia dell’arte una concezione legata a un’idea banale di progresso (anche se l’idea di progresso in arte è assai più complessa della sua sbrigativa negazione), dovrà giudicare Giovanni Bellini per le sue opere e per i significati che da esse continuamente ci pervengono ma, soprattutto, per il suo contributo all’idea stessa di pittura. L’accumulo delle esperienze e degli errori di un architetto, quando essi raggiungano, come nel mio caso, mezzo secolo, mettono sovente scritti come questo sull’ambiguo piano dei bilanci. Dico «ambiguo» perché si spera di riuscire a vivere ancora abbastanza a lungo per fare esperienze nuove

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e diverse, capaci di dare senso più preciso alle proprie cose e sentimenti, e non si vuole in alcun modo ammettere di muoverci a fatica in mezzo al liquido sempre più denso delle nostre esperienze passate. Nello stesso tempo, tutto ciò che è stato costituisce anche il terreno sul quale ci muoviamo, sul quale possiamo lavorare, in modo più calmo e indipendente. Se poi quei cinquant’anni di esperienze coincidono con anni come questi, senza capacità né di costruzione paziente né di errori gloriosi, i bilanci sono ancora più complicati e comunque deludenti. Spesso, poi, noi architetti siamo anche tanto vanitosi da pensare che le nostre difficoltà personali e di gruppo (addirittura la nostra autobiografia) siano significativamente simboliche delle difficoltà collettive, o almeno di quelle collettive degli intellettuali. Perché intellettuali, o meglio intellettuali tecnici, prima ancora che professionisti o artisti, io credo che alcuni architetti italiani, abusivamente ma positivamente si considerino, anche se la categoria degli intellettuali ha tanto sfumato i propri confini, tanto ampliato i suoi servizi da rendere molto incerte le proprie funzioni e la propria identità. Fare queste affermazioni significa in qualche modo dare un giudizio sullo statuto sociale del lavoro dell’architetto oggi, non solo in Italia, e sul peso che esso ha esercitato anche sulle trasformazioni del progetto e dei suoi metodi. Ciò che è cambiato è l’intero sistema dentro il quale gli scopi della progettazione architettonica sono sovente diventati un dettaglio trascurabile nella complessità del processo di produzione del bene edilizio. Ciò che si è potenziato è il suo valore pubblicitario e questo stimola la sua singolarità assai più che la sua necessità in quanto valore.

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La descrizione del progetto assume allora almeno il valore di documento delle condizioni in cui il progetto si è prodotto: condizioni culturali e di gusto naturalmente che misurano le proprie distanze da altri progetti degli stessi anni, ma anche condizioni pratiche, economiche e istituzionali, storie di clienti intelligenti od ottusi, storie di desideri abusivi di rappresentazione pubblica o di assenza di ogni referente, proiezione di simboli personali scambiati per speranze collettive, vicende complesse di collaborazione e di possibilità tecniche, compromessi e inganni laddove le vere intenzioni dell’architetto si sono, come quasi sempre capita, nascoste dietro vesti funzionali o decorative. Devo subito aggiungere che, per quanto moltissime vicende del mondo siano cambiate in questi ultimi cinquant’anni, a mio avviso esse non sembrano identificabili come fondamenti di un nuovo corso dell’architettura; ma ciò che importa forse è comunque essere sensibili proprio ai piccoli cambiamenti e misurarli continuamente con l’essenza della disciplina architettonica. Vi sono naturalmente posizioni che sostengono il contrario, e cioè che nell’ultimo quarto del XX secolo sono avanzate condizioni sociali, di globalizzazione e di strumentazioni tecniche ma anche di nuovi conflitti che hanno mutato la base stessa dell’idea di modernità. Se si volessero trarre le conclusioni affrettate ed estreme da questi segni, essi potrebbero essere interpretati apocalitticamente come segni della fine della disciplina architettonica, almeno per come essa è stata concepita nei passati tremila anni e più. Non credo tuttavia che una tale conclusione debba essere considerata del tutto improbabile: i segni di cui parlo potrebbero far prevedere un ruolo futuro molto diverso dell’ar-

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chitettura in quanto pratica artistica, o forse addirittura un suo passaggio a un’attività superflua come nel Settecento divenne, per esempio, il lavoro di cesellatore di armature. In primo luogo, proprio nella nostra epoca tecnologica l’architettura ha cessato di essere un miracolo tecnico, come lo erano ad esempio le cattedrali gotiche. I suoi modi di essere tecnici sono in qualche modo simbolo, e sovente caricatura, della tecnica come valore collettivo piuttosto che come pratica. La prospettiva della mimesi tecnologica (che ha come controfaccia quella della trasformazione dell’architettura in pura decorazione) si presenta inoltre come prospettiva di omogeneizzazione dei modelli in quanto prodotti e quindi come tensione verso il manufatto indipendente da siti e condizioni. L’architettura sta poi autocensurando il suo carattere di stabilità, di momento di lunga durata, e insieme a questo si è spezzato il filo che la connetteva alla memoria e alle speranze collettive: il proprio referente è divenuto una collettività postsociale senza speranze e ideali tutta concentrata sulla singolarità omogenea dei propri desideri contingenti ma, nello stesso tempo, tanto imperativa nei giudizi e nei comportamenti da far temere quella «tirannide della maggioranza» considerata da Tocqueville la più grande minaccia della democrazia. Se la capacità di rappresentazione dell’architettura non è andata perduta, certo ha, per così dire, spostato la propria sede. Essa è divenuta da un lato proiezione simbolica soggettiva, dall’altro si è mossa, contraddittoriamente rispetto ai propri principi, verso la rappresentazione della transitorietà dell’instabilità, della perdita voluta della grande memoria. E per aderire a questa condizione l’architettura dovrebbe cambiare radicalmente la propria natura, trasformarsi in attività altra,

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entrare definitivamente nel mondo della mediatizzazione – che è, obiettivamente, il mondo della perdita dei propri fondamenti. Gli uomini avranno, certo, sempre bisogno di case dove abitare, di servizi, di luoghi coperti dove radunarsi, anche se, nella prospettiva di un limite più forte dell’espansione, si tratterà sempre più sovente, almeno in Europa, di riutilizzare meglio quello che esiste. Ma la morfologia del nostro bisogno ambientale sembra sciogliersi in eventi, suoni, proiezioni, decorazione temporanea, mutamenti di scena continui o trasformarsi in un’operazione di comunicazione diffusa e travestirsi quindi in caricatura dell’atto artistico, oltre a occupare un livello sempre più secondario nella scala dei valori sociali. Voglio terminare sottolineando anche la natura di lavoro del progetto d’architettura, lavoro composito, di regia di molti contributi, prodotto di una collaborazione complessa di molte forze differenziate. In una parola, voglio sottolineare da un lato il carattere fortemente collettivo del progetto, dall’altro la sua intima connessione, di critica e di confronto, con le condizioni sociali e tecniche oltre che politiche e ideali di una collettività. I risultati si allineano negli anni e si presentano talvolta a posteriori come elementi di uno sviluppo coerente di convinzioni e principi ma soprattutto, almeno per me, di interessi e di passioni: sono queste ultime che alla fine giustificano il cambiamento. Ma scrivere delle proprie architetture è soprattutto riscrivere le proprie architetture, verificare, cioè, se il già fatto costituisca un terreno di qualche solidità per ciò che si sta elaborando, stabilire anche dove il terreno è meno solido e an-

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che dove esso debba essere abbandonato per esplorarne un altro. Tutto questo ha un senso per chi fra noi seguita a pensare l’architettura, contrariamente anche a ogni tentazione apocalittica, come l’espressione più alta e significativa di una collettività e delle sue frammentarie aspirazioni migliori.

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La nuova sede della Duma a Mosca. Assonometria generale.

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UNA NUOVA SEDE PER LA DUMA DI MOSCA CONCORSO INTERNAZIONALE 2002

Il terzo capitolo del libro La sfera e il labirinto di Manfredo Tafuri (Einaudi, Torino 1980), interamente dedicato all’anno 1922 e all’influenza delle diverse posizioni dell’avanguardia sovietica a Berlino nel momento del loro incontro con i vari movimenti europei di quegli anni, restituisce in modo assai vivo sia la complessità della discussione sia la forza sorprendente dell’apparire improvviso, quale protagonista, della cultura figurativa russa in Europa, cultura che sino a quel momento aveva contato assai poco. A distanza di ottant’anni sembra di poter osservare come l’insieme, peraltro assai contraddittorio nei principi, dei diversi gruppi e movimenti d’avanguardia sovietica abbiano dato luogo alla costituzione di una tradizione ben riconoscibile, forse una delle poche originali e riconoscibili delle arti figurative e dell’architettura russa degli ultimi cinquecento anni. In modo apparentemente, ma solo apparentemente contraddittorio, l’Unione Sovietica, ridiventata Russia, ha respinto la tradizione dell’avanguardia per ridare fiato a un po’ di vecchio accademismo, alle nostalgie della Russia contadina religiosa e zarista ma, soprattutto, per dedicarsi all’imitazione provinciale dei peggiori esempi dell’architettura «occidentale» e del suo formalismo postmodernista o tecnologico. Mosca è, in questo senso, il simbolo di tali atteggiamenti nella furibonda e brigantesca volontà di modernizzazione convenzionale della sua immagine. Bisogna però anche riandare al complicato percorso della cultura architettonica degli ultimi settant’anni (in parte ricordati nel primo capitolo di questo libro), per comprendere meglio ciò che oggi avviene.

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Bisogna ricordarsi che, sino alla svolta del 1937, le relazioni con l’architettura razionalista occidentale erano presenti nel dibattito interno, anche se nel 1933 l’ultimo grande concorso internazionale, quello del Palazzo dei Soviet, si concluse con la vittoria del gruppo accademico di Iofan, nonostante la partecipazione al concorso dei migliori architetti europei del moderno e l’importanza dei progetti di quel concorso nella storia del Movimento Moderno. Settant’anni, quindi, sono passati da quel concorso sino al momento in cui nel 2002 viene bandito per la prima volta un nuovo concorso internazionale, questa volta per la sede della Duma di Mosca. Ma l’eco del concorso di Mosca è, questa volta, modestissimo: in fondo la Russia del 2000 è un paese capitalistico come molti altri, solo un po’ più arretrato e confuso, e gli esiti (come la composizione della giuria) ne fanno un qualunque concorso professionale per un qualunque palazzo d’uffici. Ciò che sembra sfuggire cioè a quasi tutti è l’occasione storica di riaprire una discussione non solo sull’eredità dell’avanguardia sovietica ma sulla radicalità (a volte addirittura feroce) del dibattito delle idee di quegli anni, sulla relazione tra quell’eredità e il futuro politico e civile di un intero paese: un dibattito importante per la cultura non solo architettonica della Russia di oggi. Al di là degli esiti, questa volta il dibattito non c’è stato. Nessuno si preoccupa più del rapporto critico tra idee e cose: è sufficiente che l’architettura sia l’alleata allegra dell’ideologia globale dominante. Naturalmente bisogna considerare che l’istituzionalizzazione e burocratizzazione dei concorsi (nonché la progressiva concezione del lavoro professionale in quanto società di servizio) hanno completamente declassato il valore del concorso internazionale quale confron-

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to di idee e quale sezione significativa della condizione di un dibattito culturale. Anche se la storia dell’architettura moderna è fatta in gran parte dai progetti che nei concorsi sono stati sconfitti (da quello del Chicago Tribune a quello della Società delle Nazioni, dal Teatro di Karkov al concorso per il Palazzo dei Soviet), nulla questo toglieva alla significatività del dibattito esemplificato dal concorso stesso, in quanto punto di riferimento di una storia della disciplina. Nei nostri anni non è più così, e ciò si conferma anche nell’occasione eccezionale del concorso per la Duma di Mosca. A questo si deve poi aggiungere il rifiuto a priori di ogni riferimento positivo alla passata società sovietica e all’appassionante, creativa storia delle sue contraddizioni culturali. La posizione dell’area scelta per il concorso è anche, a suo modo, significativa: si affaccia sul fiume e, sul lato opposto, confina con un vasto spazio la cui futura ristrutturazione prevede, oltre a una grande fiera, un fitto sistema di edifici commerciali e finanziari di grande altezza: 200, 400 metri. Questo pone il problema, data la grande concentrazione di superficie prevista per gli edifici amministrativi della Duma o del governo di Mosca, di spostare l’immagine del futuro complesso pubblico fuori dalla competizione in altezza e fuori dall’assimilazione alla serie dei futuri grattacieli di uffici retrostanti. Il grattacielo è peraltro solo uno dei modi, e oggi il più ovvio, di risolvere il problema della grande concentrazione terziaria, e soprattutto non è possibile ridurre alla sfida in altezza il significato di un edificio pubblico rappresentativo. Questo principio di differenziazione tipologica è inoltre favorito dalla natura del programma stesso. Il doppio sistema connesso ma indipendente Duma-governo, la presenza dello

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zoccolo di basamento che contiene gli elementi più rappresentativi, la sua relazione con la grande piastra di uso pubblico come spazio multifunzionale e come grande piazza sopraelevata, è nello stesso tempo programma e impegno simbolico di rappresentazione pubblica che esige un’immagine distinta da quella commerciale e finanziaria. Il sistema in pianta a forma di doppia L rovesciata da noi proposto provvede alla costituzione di uno spazio interno aperto e attraversabile, nel quale il dialogo tra le fronti interne è sottolineato dall’uso di un curtain-wall trasparente e dalla presenza, all’esterno, di una superficie in marmo nero la cui compattezza è sottolineata dalle misurate eccezioni al ritmo delle aperture. L’uso architettonico delle grandi scritte in cirillico integrate alle fronti, i colori scelti, il rosso e il nero, gli elementi di connessione diagonali e la dialettica tra la solidità dei volumi e le eccezioni sono tutti elementi che vogliono indicare una linea di continuità tra il progetto di liberazione proposto dalle avanguardie e un futuro possibile della società moscovita, oggi in condizioni di squilibrio particolarmente evidenti, e ancor più la necessità di fissare una linea di sviluppo della sua identità culturale nel campo dell’architettura. Lo sforzo, inascoltato, del nostro progetto per la Duma di Mosca è stato quello di mettere in campo una discussione su queste contraddizioni. E questa, bisogna ammetterlo, è stata da parte nostra una grande ingenuità, poiché un problema di tale natura non si pone più nella mente di una giuria volta a giudicare debolmente il senso di una soluzione e intensamente il suo grado di estetizzazione, in modo del tutto indipendente dal significato del progetto sia dal punto di vista della disciplina che da quello della sua intenzionalità civile.

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Ed è interessante notare che, anche in questo caso, quanto più il giudizio si fonda su questioni di gusto, tanto più esso si allontana dai problemi di senso proposti dall’immagine stessa, sottolineando così in modo stabile il divorzio tra forma e significato che caratterizza i nostri anni, e ancor più quel distacco volto direttamente contro la forma architettonica dal regno dell’eventualità o da quello simmetrico dell’efficientismo.

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Planimetria generale del nuovo insediamento nel contesto del centro urbano della città di Cesena.

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4. Cinque casi CESENA

Dedalus alter si definiva Mattia Nuti, il nome che, nonostante le contrastanti opinioni critiche, emerge nella storia dell’architettura di Cesena dalla seconda metà del XV secolo. Una figura, cioè, che riprende un’antica definizione medioevale dell’architetto come nuovo Dedalo, capace di coordinare molti contributi diversi, il ritratto di un lavoro che agisce le proprie capacità organizzando secondo un senso i materiali offerti dalla condizione per mezzo dell’invenzione ragionevole senza sottovalutarne il peso e senza venir meno al proprio punto di vista. La nostra collaborazione con il Comune di Cesena è iniziata nel 1989 con la stesura di un piano particolareggiato (approvato nel 1992) per l’area industriale di 220.000 mq, abbandonata da dieci anni ma localizzata lungo il fiume Savio, in posizione strategica per lo sviluppo urbano e direttamente connessa con il centro storico attraverso la doppia curva della via dei Mulini. Due elementi hanno caratterizzato l’intero sviluppo dell’area: coerenza con il piano approvato quattro anni prima e previsione di un insediamento multifunzionale (con la presenza di abitazioni, uffici, centri commerciali, servizi e sedi universitarie) come estensione del centro urbano consolidato; in una parola, l’intenzione di costruire la parte di città come un insieme coerente sul piano del disegno architettonico e urbano. Tutto questo si muoveva con un’unità di intenti con l’amministrazione comunale, la migliore e più intelligente collaborazione da noi avuta in quarant’anni di lavoro con un’amministrazione pubblica. A questo bisogna aggiungere una condizione positiva di

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paesaggio e la presenza di un centro urbano dotato di una forte identità e di una gloriosa tradizione architettonica durata ben cinque secoli, anche se attaccato in più punti dall’antidisegno della sua stessa periferia. L’area dell’ex zuccherificio è localizzata a nord-ovest del centro storico, ed è suddivisa in 16 unità d’intervento per un totale di 82.000 mq di superficie costruita. A nord è delimitata dal percorso della ferrovia, a ovest dal fiume Savio, mentre a sud si estende fino a connettersi con la prima fascia di espansione urbana, oltre il centro storico. La nuova parte della città è organizzata attorno a un asse posto a quota intermedia tra i due diversi livelli del fiume e del rilevato del piano retrostante della città. Nella parte superiore gli edifici di abitazioni, formati da tre isolati a forma di H contrapposti ortogonalmente, costruiscono una sequenza di spazi pubblici. Il primo di questi, a quota ribassata costituisce il collegamento tra la galleria del centro commerciale (la cui copertura è abitabile su due livelli) e il parcheggio pubblico, ortogonalmente connesso allo spazio centrale della seconda sequenza di piazze, che a sua volta caratterizza la forma costruita verso il fiume. Questa seconda sequenza inizia con una piazza semicircolare attorno alla conservata ciminiera della vecchia fabbrica, segnale della storia del sito, sale alla seconda piazza centrale, che a sua volta permette di accedere allo spazio aperto attorno al quale si organizza l’edificio della facoltà di architettura. La piazza centrale si apre da un lato verso il fiume, dall’altro è connessa con la terza piazza ribassata dalla fascia superiore della quale si accede alla galleria del centro commerciale. L’insediamento termina verso nord (dove il lungofiume si connette con la tangenziale sottopassando la ferrovia) con il

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complesso della facoltà di ingegneria e con un parco che separa dalla ferrovia. Una sequenza di piccoli edifici di abitazione, collocati sulla curva della strada e legati tra loro da un unico basamento, attraversando la via Emilia, prosegue lungo la via dei Mulini e connette il nuovo insediamento con la città storica. Un ponte carrabile e una passerella pedonale in legno lamellare attraversano il fiume Savio e collegano poi la nuova parte con le sistemazioni sportive della sponda opposta del fiume. Come molte delle architetture che abbiamo progettato e costruito in questi ultimi venticinque anni, anche questa addizione alla città di Cesena fonda la propria identità e unità sull’individuazione di un principio insediativo che è, in questo caso, generato dalla concatenazione complessa degli spazi pubblici aperti. Nella costruzione dell’architettura il riconoscimento del principio insediativo coincide con la sua costituzione di fronte al caso e al problema specifico, cioè al suo essere capace di proporre un’identità a partire da esso. Intendo con quest’affermazione sottolineare come l’architettura sia sempre l’organizzazione dotata di significato dei materiali provenienti dal problema e dal sito specifico (che restano confitti in essa anche quando l’uso e il sito siano totalmente mutati) e dalla verità dell’essenza stessa dell’idea della costruzione poetica, un’essenza che si coglie solo riplasmandola a confronto con il mondo della vita e con le sue relazioni, nella condizione storica specifica. I materiali che provengono da un sito e da un problema specifico devono quindi essere soggetti a critica proprio a partire dalla verità attuale di quell’essenza. Il risultato ha quindi a che vedere con la costituzione di quella distanza cri-

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tica piuttosto che da una naturale continuità. La qualità della nostra architettura è quindi la qualità della descrizione di quella distanza per mezzo della modificazione della condizione data. È tale relazione necessaria che fa giustizia degli equivoci, delle false identità folcloristiche, dei regionalismi opposti agli internazionalismi conservatori dei mercati, delle tecnologie e dei comportamenti di massa; che fa giustizia delle opposizioni tra identità etniche e multietnicità, tra espressioni poeticistiche e architettura come pura produzione. Far giustizia non significa qui «risolvere» ma conferire senso architettonico a tali contraddizioni, mettendo a confronto lo stato di crisi della condizione stessa dell’esperienza in cui oggi si agisce, con i fondamenti dell’architettura, o meglio con le vesti continuamente nuove in cui essi appaiono. Insediarsi significa prendere stabile dimora in un territorio, ma anche prender possesso di un luogo, costituirlo e reinventarlo con la propria presenza dialogante. Proprio perché esiste oggi uno stato di povertà delle esperienze e quindi delle differenze (sembra paradossale affermarlo in questo mondo che si pretende della comunicazione globale, ma è proprio essa a frapporsi sovente tra noi e l’esperienza), il modo di fare architettura secondo un «principio insediativo» è modo di proporre l’esperienza in quanto veste qui e ora della verità del fondamento: ed è questo che assegna volta a volta alla risoluzione architettonica un valore generale. La nozione di principio insediativo ha poi a che fare con l’idea concreta dell’origine dell’architettura; dare un nome a un luogo, riconoscerlo, trasformarlo in cosa, posando una pietra sul terreno, fondando ed erigendo.

4. Cinque casi

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Il principio insediativo, dunque, ha a che fare con la geologia del terreno e con la sua geografia come modo di essere fisico della storia: anche in questo specifico caso di Cesena.

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Headquarter Pirelli, Milano. Sezione trasversale dell’edificio nel disegno di concorso del 1986.

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4. Cinque casi HEADQUARTER PIRELLI MILANO 1986-2003

Il progetto per la trasformazione delle aree degli stabilimenti Pirelli nel nord-est di Milano risale al biennio 1985-86 e sarà probabilmente terminato, a distanza di vent’anni, nel 2006. In questi vent’anni si sono consolidate alcune mutazioni strutturali nel campo del lavoro, della sua natura e organizzazione, in quello delle trasformazioni territoriali e urbane e delle loro concezioni e, più da vicino rispetto al nostro lavoro, nelle vocazioni, metodi e concezioni della nostra stessa disciplina. Per quanto riguarda le trasformazioni urbane e territoriali, l’occasione di ristrutturazione che avrebbero potuto offrire i progetti per le aree dismesse è sovente stata vanificata da una assenza volontaria di strategia territoriale, a sua volta connessa all’ideologia della deregolazione e alle spinte, in larga parte dell’Europa, tese a favorire la formazione di una città dispersa (assai più che diffusa), priva di gerarchie e deprivata del senso stesso della prossimità, oltre che distruttiva dell’indebolito spazio agricolo. Nel caso specifico delle aree della Bicocca, la sua elezione a polo dell’area nord-est di Milano è stata tutta dettata dalla volontà interna di utilizzare al meglio la scelta di una voluta e forte mescolanza funzionale e sociale nonché la presenza volontaria di servizi rari in grado di promuovere nuove e continue interrelazioni tra l’area specifica e il resto del territorio. La sostanziale mancanza di convergenza sul tema della città costruita che caratterizza il nostro tempo obbliga a uno sforzo sproporzionato di unità progettuale dal piano di attuazione sino alle architetture, al fine di mettere in atto una parte significativa di città dotata di chiarezza, semplicità, or-

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ganicità e ordine, capace di offrire le proprie strutture all’immaginazione sociale senza passare attraverso la caricatura della finta stratificazione e della varietà artificiale, affrontando la difficile condizione del tempo breve della sua fabbricazione e l’idea di una forte unità intenzionale quale eredità storica della tradizione del grande disegno urbano. Per quanto riguarda la concezione dell’edificio specifico della sede centrale delle attività del gruppo Pirelli (poi trasformata in sede della sua società immobiliare che fu a capo delle trasformazioni stesse dell’area), esso fu immaginato, già nel progetto del 1986, come l’allegoria stessa della mutazione dei contenuti di lavoro e del passaggio dell’area da recinto di produzione a parte di città, come un edificio che ingloba senza distruggerla, facendone il cuore delle sue attività collettive e pubbliche, il simbolo della passata condizione produttiva: la torre di raffreddamento del precedente impianto industriale. Sono almeno una settantina di anni che si scrive e si discute sui processi di terzializzazione del lavoro e, con diverse tesi, sui vantaggi della liberazione dalla fatica del lavoro ripetitivo offerti dalle forme dell’automazione, così come sui problemi posti nello stesso tempo dalla progressiva trasformazione della natura del lavoro che la stessa automazione implica; anche se per questo non deve essere svalutata l’importanza centrale della costruzione dei beni materiali. Tale processo di trasformazione peraltro include ogni tipo di lavoro, con tutti i rischi di esclusione che questo comporta. Le ipotesi sono molte e contraddittorie: lavorare meno e lavorare tutti, tassare i benefici dell’automazione a favore di lavori nel campo della solidarietà, procedere verso lavori sempre più diffusamente creativi o, semplicemente, come sostiene il gruppo tedesco Krisis, distruggere la nozione stessa di lavoro.

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Anche se personalmente credo si debba piuttosto tentare di trasformare il lavoro in una parte integrante e non separata della nostra vita, non vi è dubbio che nell’ultimo secolo la questione del lavoro nelle sue nuove forme abbia occupato un posto fondamentale anche nel rinnovamento delle città, del territorio e delle architetture, proponendo sovente contraddizioni irrisolte. Se per esempio il tema del rapporto casa-lavoro ha posto problemi al trasporto urbano, altrettanti ne porrebbe la loro coincidenza, promessa dai sistemi informatici di comunicazione a distanza, a causa della perdita ulteriore di ogni concerto comunitario di interessi e di proposte. Nei paesi cosiddetti avanzati l’aumento di importanza quantitativa e mediatica dei servizi ha comunque posto nuovi temi alla tipologia stessa del luogo di lavoro, temi che vanno molto al di là delle diverse concezioni efficientiste di layout, che mettono a confronto livelli ed esigenze diverse e interagenti all’interno del mondo stesso delle organizzazioni di servizio. Nel nostro caso specifico l’edificio dell’Headquarter Pirelli cerca anche di rappresentare questo stato di mutazioni, proponendo un’alternativa all’organizzazione spaziale tradizionale dalle grandi concentrazioni terziarie. Appoggiato su una costruzione di due piani fuori terra (un basamento che contiene i parcheggi pertinenziali e il portico d’ingresso principale), l’insieme si presenta all’esterno come un cubo di 50 m di lato, composto di tre ali destinate a uffici e da una fronte vetrata verso il giardino della quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi. Il volume cubico racchiude la torre di raffreddamento, creando un grande vuoto a tutta altezza, la hall centrale, che si configura come corte interna di di-

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stribuzione e collegamento tra spazi dalle differenti funzioni caratteristiche. Una nuova struttura, progettata all’interno della torre di raffreddamento e ideata per seguirne la superficie parabolica con una serie di aste rettilinee in acciaio, sostiene quattro nuovi impalcati interni, posizionati nei punti di snodo della nuova struttura portante, destinati a ospitare funzioni particolari come sale riunioni, centri di accoglienza e centri di calcolo, collegati, alle ali del nuovo edificio, attraverso passerelle aeree. A piano terra, alla quota della corte interna di distribuzione e accessibile direttamente da essa, il volume della torre di raffreddamento contiene una sala conferenze da circa 350 posti. La copertura dell’edificio della hall è in vetrocemento secondo un reticolo regolare di 3 m x 3 m. Tutto il nuovo edificato è rivestito in lastre di grès porcellanato colore grigio scuro, mentre i serramenti, a nastro continuo, sono in alluminio colore naturale così come i brise-soleil previsti lungo le fronti est e sud e come gli elementi di giunto orizzontale tra le lastre. Al piano interrato, che si sviluppa sotto il basamento e sotto le ali del nuovo edificio in modo da non interferire con le fondazioni del camino, trovano spazio, oltre a una quota di parcheggi pertinenziali, i locali tecnici e i servizi di ingresso e accoglienza. Naturalmente l’insieme volumetrico dell’edificio, con la sua cripticità e la sua apertura, gioca un ruolo essenziale nel sistema urbano complessivo dell’area Bicocca, situato all’angolo del passaggio verso l’esistente parco di Bresso e come nuova presenza nell’area del recinto che contiene le principali sedi di direzione del gruppo. Si può dire di tutto questo che si tratta di una descrizione critica di una condizione generale di trasformazione per mezzo di un’opera che risponde in ogni modo a scopi precisi e ne

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prende al tempo stesso le distanze? E, dall’interno della nostra pratica artistica, di un inglobamento dei monumenti della propria tradizione sino a una forma di surrealismo urbano? Naturalmente alle spalle di tutto questo sta anche, ne sono ben conscio, la tradizione del montaggio come strumento compositivo promossa dall’avanguardia anche come negazione della sintesi autonoma in quanto principio di configurazione. L’inserimento nell’opera di materiali non elaborati dalla soggettività dell’artista nega forse l’idea stessa di organicità. Non è più l’armonia a costruirsi come totalità ma la relazione (e la contraddittorietà) degli elementi che la compongono. Dunque siamo dentro l’ipotesi «politica» di una parte rilevante della tradizione oppositiva delle avanguardie ma, nello stesso tempo, guardiamo storicamente a essa. Se questa architettura non sarà dimenticata o distrutta, essa certamente verrà guardata con interpretazioni diverse da quelle che qui ho cercato di spiegare. Tuttavia, anche se le intenzionalità originali saranno dimenticate, esse resteranno confitte nell’opera; ne sono parte costitutiva, come le materie, le tecniche e le forme con cui essa è stata costruita.

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Fotografia aerea del territorio di Shanghai. In basso, la nuova città di Pujiang.

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4. Cinque casi PUJIANG (SHANGHAI) 2000

Perché fare una città «italiana» in Cina, o meglio presso Shanghai? Anche considerando la richiesta delle autorità cinesi estensibile all’idea più generale di «città europea», la domanda sembra del tutto assurda; di essa va cercata una ragione profonda, certamente dialettica rispetto ai principi che hanno guidato lo sviluppo di Shanghai negli ultimi trent’anni, ma anche volta ad aprire (o meglio riaprire) comunicazioni con la cultura europea alternativa rispetto ai riferimenti fino a ieri dominanti. La città europea è ad ogni modo città costruita, consolidata, fondata su una dialettica stretta tra monumenti e tessuti edilizi, dotata di una forte prossimità tra le cose da cui prendono senso gli spazi collettivi, strade, piazze, slarghi, portici, in cui agisce una forte permanenza storica delle tracce, su cui si stratificano eventi architettonici che formano scarti, eccezioni, sequenze rispetto a regole insediative fortemente identificate. L’alta mescolanza di funzioni e di tipi edilizi differenziati è anche il simbolo di una società integrata nei ruoli e nei poteri come nelle differenze e nelle ingiustizie. La presenza degli elementi naturali o diviene supporto geografico che guida l’insediamento o si propone (alla decorazione del palazzo o alla disponibilità del parco pubblico) in modo parsimonioso e funzionale. Antica città cinese e antica città europea hanno però in comune, a partire da un preciso momento della loro storia, i principi insediativi del recinto e della struttura a griglia ortogonale orientata, oltre che dal sole e dalle stelle, dalla pre-

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senza, in quanto eccezione, dello spazio monumentale religioso, culturale e civile. Naturalmente nella città europea moderna, sorta ben prima delle automobili, le infrastrutture monumentalizzate sono solo quelle delle fortificazioni dei ponti o degli acquedotti, e questo pone il problema, in un modello di città postautomobilistica, della risoluzione in estensione dello spazio dedicato al trasporto, e della forte preminenza del trasporto pubblico. Questi criteri generalissimi si sono a ogni modo dimostrati, nei secoli, atti a costituire differenze e articolazioni significative nelle città d’Europa, pur mantenendo una riconoscibilità complessiva capace di informare e di essere informata dalle specifiche soluzioni architettoniche. Il problema è per noi non tanto quello di restituire tali caratteri quanto di immaginare a quale risultato si possa pervenire mettendo a confronto tale tradizione con la geografia e le culture cinesi, ma anche con la debolezza della loro tradizione architettonica non monumentale e con le aspettative di una società in forte movimento di trasformazione. Sono questi gli elementi principali che costituiscono parametri e margini di manovra del nostro progetto, del modo con il quale possiamo applicare le misure urbane, di come possiamo confrontare le diverse idee di sviluppo e fare ipotesi di modi di impiego diversi dell’organismo urbano. Un primo aspetto è quello della funzione del nostro insediamento nel contesto territoriale di Shanghai. Troppo vicina (15 km) al centro della città per costituirsi come new town, Pujiang è andata assumendo un diverso ruolo nello sviluppo territoriale negli ultimi tre anni. Difficilmente definibile nei termini della pianificazione occidentale, Pujiang è divenuta man mano un nocciolo intorno al quale

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sta organizzandosi lo sviluppo a sud della città di Shanghai, lungo il fiume Huang-Pu. Oltre ai circa 100.000 abitanti di Pujiang, al di là della infrastruttura di connessione con il centro di Shanghai, vi è poi in atto l’aggiunta (di cui non ci è dato occuparci) di un ampio sviluppo di industrie leggere e di infrastrutture di servizio tecnico della stessa Pujiang, mentre dalla parte opposta, al di là del fiume, resta il grande insediamento di industria pesante le cui relazioni con la nuova Pujiang restano per ora sospese. Sulla stessa direttrice nordsud, lungo il fiume sono oggi poi previsti due nuovi insediamenti: a sud, dopo una vasta area a parco, il villaggio Shimao di circa 10.000 abitanti che si affaccia sullo snodo del fiume al di là del quale si prevede un importante insediamento universitario. Verso nord, sempre staccato (per ora) dal bordo di Pujiang, è probabile un nuovo insediamento di 25.000 abitanti riconcentrati qui per far posto agli spazi per l’Expo 2010, la quale è collocata sempre lungo il fiume immediatamente a nord. Tutte decisioni prese in rapida successione durante l’elaborazione del nostro progetto. Si forma così un sistema insediativo in cui il ruolo di Pujiang assume un nuovo significato di cui però, per ora, le istituzioni non hanno preso, ci sembra, piena coscienza o quanto meno le cui conseguenze sono tutte da discutere. Un secondo aspetto sono le tecniche di controllo sviluppate sull’insediamento dai vari livelli di organismi pubblici di pianificazione, le cui funzioni, tempi e reciproche competenze presentano alcune distorsioni, che a loro volta devono scontrarsi con gli interessi della società immobiliare di gestione della costruzione. La rapidità di decisione e quella operativa sono del tutto speciali: la città sarà interamente costruita in 10 anni.

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La nostra richiesta di fornire i disegni per le linee guida delle sistemazioni a terra, e poi con i piani di dettaglio, per l’intero progetto di suolo, ha reso evidenti alcune prime contraddizioni, abitudini e regole che presiedono la sezione trasversale delle strade, la presenza del verde, delle ciclopiste, delle fermate del trasporto pubblico, le densità e l’azzonamento. Le regole di azzonamento del costruito a bassa densità (con molto spazio dedicato a verde e strade) si scontrano con il principio di prossimità caratteristico della città europea e devono quindi essere soggette a una lunga discussione di adattamento. Rimane incerto quali siano le flessibilità future del piano di dettaglio e in che modo verranno regolate le relative varianti. Certamente bisogna constatare nelle istituzioni cinesi un interesse (e una volontà di investimento economico) molto alto per gli spazi pubblici e le sistemazioni a verde. La terza questione è costituita dai meccanismi di realizzazione. L’ente pubblico (governatorato di Shanghai, distretto di Minang e municipalità di Pujiang) mantiene la proprietà del suolo che viene ceduta in concessione: l’ente provvede alla costruzione delle infrastrutture principali, mentre le operazioni di costruzione sono affidate per grandissimi lotti a società private (o miste) di immobiliaristi-costruttori. Questi ultimi, in collaborazione con gli enti pubblici, costruiscono le infrastrutture secondarie, regolano le acque dei canali (un problema particolarmente delicato è quello della depurazione delle acque e dello smaltimento di quelle piovane), provvedono allo spostamento degli abitanti e degli edifici sparsi esistenti. Non sono per ora state prese in considerazione questioni di meccanizzazione dei trasporti merci, di forniture di people-mover, mentre sono previsti collettori per le strutture

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impiantistiche, per lo smaltimento dei rifiuti e per il teleriscaldamento. Una serie di punti interrogativi importanti, per ora con risposte ancora approssimative, riguardano la vita sociale concreta, della famiglia, del lavoro, dei sistemi associativi intermedi, in bilico tra tradizioni dimenticate ma ancora vissute e futuro in rapido avvicinamento. Non si tratta solo di sviluppo economico e di consumi ma di un nuovo assetto di tutte le relazioni e del modo di vivere la propria identità nazionale di grande potenza. Incerti restano quindi anche la pianificazione dei servizi per qualità e natura e quali siano in particolare i servizi di aggregazione sociale (al di là di quelli scolastici, di shopping e burocratici). Forse è possibile dare valore architettonico ad altri luoghi di incontro come i centri sportivi, i mercati temporanei o le stazioni di servizio per le auto (come suggerisce Frank Lloyd Wright per Broadacre City). Sarebbe anche necessario chiedersi quale sia la volontà di regolazione del trasporto privato (non esiste per esempio la cultura degli spazi di standard per parcheggi pubblici) e permane il problema della quantità delle biciclette, mezzo, probabilmente, da non abbandonare. In questo stesso contesto la divisione per vaste aree di densità omogenea, con relativamente poche varianti funzionali (tutti i principali servizi sono collettivi e sono concentrati nella fascia centrale) e con uno scarso numero di varietà sul sistema insediativo a griglia regolare (che noi abbiamo pensato come allegoria dell’origine geometrica comune alla città cinese ed europea), è un elemento di difficoltà per la costituzione di un’urbanità spaziale sufficientemente differenziata: le articolazioni sono costituite dalla presenza dei canali e dall’inserimento negli incroci della scacchiera di ele-

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menti che si costituiscono come misuratori delle prospettive delle strade (in qualche caso larghe 60, 80 metri), altrimenti infinite o limitate solo dalla vegetazione. Un’altra difficoltà è costituita dalla vasta porzione a nord dedicata principalmente a ville isolate. Qui si tratta, per ottenere il paesaggio urbano della prossimità e dello scambio, di trasformare in tessuto dotato di una qualche compattezza l’insediamento, antiurbano e tipico del suburbio o delle garden-city e delle case isolate, probabilmente riutilizzando il tradizionale concetto di recinto (hutong) dell’abitazione cinese. Bisogna anche tener conto che i movimenti di terra sono in queste aree particolarmente costosi e instabili al fine di formare colline significative e, a ogni modo, del tutto paesisticamente estranee. Forse un modello da riguardare criticamente può essere quello che introduce limitati elementi di variazione morfologica all’interno di una struttura a maglia ortogonale simmetrica o la costituzione di strade comunali con vasti vuoti retrostanti tipici dei borghi esterni delle nostre città. Un problema specifico, ma noi pensiamo positivamente risolvibile nel momento in cui sia venuto a maturazione un programma sufficientemente chiaro, è quello del disegno della fascia centrale dei servizi, e soprattutto del suo indispensabile e naturale proseguimento sino al fiume Huang-Pu. Peraltro l’urbanizzazione di tutta l’area che, per una profondità di ben 1100 metri, corre lungo il fiume (essenziale elemento di riferimento geografico dell’insieme), è per ora sospesa sino a quando si sarà provveduto a un sistema di depurazione del fiume. Un tempo che permetterà di giocare il destino di questa fascia, noi pensiamo, come riserva per un futuro (e

4. Cinque casi

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forse diverso) indirizzo di sviluppo dell’intero insediamento di Pujiang. Ultima, ma non certo per importanza, questione, resta il carattere architettonico delle diverse soluzioni. In bilico, come sempre avviene, tra un’interpretazione folcloristica e una strutturale della tradizione, tra stile internazionale omologato e rincorsa delle mode figurative, tra rappresentazione della flessibilità e rappresentazione della stabilità e della durata, il compito di costruire un’immagine di Pujiang si presenta particolarmente difficile, proprio di fronte a strutture istituzionali che stanno affrontando il tema di una società più complessa e articolata. Non possiamo certo dimenticare i danni (forse irreparabili) che un’affrettata imitazione della peggiore e più provinciale cultura modernistica ha provocato nella fascia più urbanizzata della Cina durante gli ultimi venticinque anni. Lasciare da parte ogni cinesità e italianità di stile non significa però dimenticare in quale incrocio e confronto storico e culturale stiamo operando. Incrocio storico di cui sarà necessario mettere a disposizione senza perdite le diverse identità. Il contributo a questa discussione di altri architetti (se da noi scelti) sarà essenziale, ma non possiamo rinunciare allo sforzo di un confronto con i contenuti dinamici della situazione. Bisogna certamente cercare di costruire risonanze che permettano di mettere in scena lo stato attuale e le migliori speranze future di due culture diverse e le loro possibilità di scambio, piuttosto che cedere alla tentazione di trasferire semplicemente le nostre attuali esperienze e convinzioni, che sono oggi in discussione e trasformazione nel nostro stesso mondo.

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Aix-en-Provence: il complesso teatrale visto dalla via che conduce al centro storico.

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4. Cinque casi AIX-EN-PROVENCE 2003

La storia del nostro rapporto con Aix-en-Provence è quella di un lungo amore talvolta anche deluso. La prima volta che ho visitato Aix-en-Provence è stato in occasione del congresso dei Comités Internationaux de l’Architecture Moderne del 1953. Fu una visita emozionante per la combinazione tra la presenza dei grandi architetti della modernità e quella della città antica con la sua bellissima addizione seicentesca al di là del celeberrimo «cours Mirabeau». Poi, nel 1989, abbiamo partecipato (e perduto) al concorso per l’area di ampliamento del centro storico (chiamato Sextius-Mirabeau), concorso vinto dal gruppo di Oriol Bohigas. Il nostro progetto era fondato sul raddoppio del celebre «cours» al di là della rotonda intitolata a De Gaulle, come asse del nuovo insediamento. Alcuni anni più tardi, nel 1997, siamo stati invitati a progettare e costruire, nell’ambito del progetto Bohigas, un isolato di case popolari che sono state condotte a termine nel 2000. Nello stesso anno 1997 abbiamo anche proposto una sistemazione per il «cours Mirabeau». Nel 2003 siamo stati scelti come vincitori tra i cinque partecipanti al concorso per il nuovo teatro lirico e di concerti della città divenuta famosa per il suo festival di musica e teatro. Qui la nostra attenzione si è concentrata sulle condizioni offerte dalla nuova sistemazione di questa parte della città. Si tratta di un vasto spazio caratterizzato da una forte differenza di quota, conseguenza della copertura della ferrovia che passa a lato, dall’ampia sistemazione a verde inclinato sul lato opposto, dalla rotonda automobilistica (ingresso importante alla città) e dalla presenza di nuovi edifici fra loro assai distanti.

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Un grande vuoto, quindi, con un carattere di paesaggio vasto e artificializzato, non risolvibile a nostro avviso con la presenza di un ulteriore elemento architettonico isolato. La nostra risposta architettonica si è così collocata all’incrocio tra una strategia per il disegno del grande spazio pubblico aperto e le occasioni esterne e interne che esso può offrire a un’attività musicale e teatrale tra le più importanti d’Europa, con una tradizione di più di mezzo secolo. La proposta progettuale consiste proprio nel trasformare il complesso del teatro e dei suoi servizi in una vasta sistemazione del terreno, con una percorribilità totale delle coperture dei volumi sovrapposti che permette la costituzione di una serie di luoghi pubblici urbani a diversi livelli, anche teatralmente abitabili e diversificati. L’insieme dei volumi utilizza la differenza di quota tra il piano della rotonda di accesso dall’esterno della città, quello della copertura ferroviaria e quello del punto di convergenza del viale pedonale che conduce verso la place De Gaulle e il cours Mirabeau e, più da lontano, guarda alla figura del Mont St Victoire – celebre soggetto cézanniano, di cui le masse del nuovo teatro diventano una sorta di metafora urbana. Questo principio è sottolineato dall’unità del materiale di rivestimento in pietra, dal suo trattamento superficiale a forte spacco con diversi orientamenti dei rivestimenti, evidente allegoria degli strati geologici di una grande massa, coronata dagli alberi sulla terrazza più alta che ne sottolineano l’abitabilità. La torsione dei volumi curvi cerca il raccordo con la complessità dell’impianto viario e, nello stesso tempo, sottolinea l’eccezionalità dell’attrezzatura pubblica e della sua connessione con la città.

4. Cinque casi

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Sull’asse percettivo e ideale che ricongiunge il luogo con la città storica è orientato il volume del teatro, asse sottolineato dalla giacitura orientata verso il centro antico delle due rampe dialetticamente rettilinee che permettono di muovere tra i piani dell’insieme volumetrico, a sua volta raccordato all’atrio del teatro dalla piazza circolare di ingresso dal centro storico. Posto a riparo dal vento e protetto dal rumore grazie alla possibilità di chiusura, con grandi porte metalliche, degli accessi, dotato di un vano attrezzabile a palcoscenico e connettibile con l’interno dell’atrio del teatro, questo spazio di 700 mq si propone come un secondo teatro all’aperto, che è anche possibile coprire in modo temporaneo con un sistema di tende in teflon. Ma noi pensiamo che tutto l’insieme delle coperture-terrazze formi un possibile sistema di luoghi teatrali e musicali praticabili per eventi speciali, nella direzione di una possibile interpretazione dello spettacolo contemporaneo. L’atrio del teatro è costituito da episodi spaziali diversamente caratterizzati e collocati a un livello intermedio tra platea e gallerie della sala. Come quasi sempre ormai capita nei nostri anni, una sala deve poter offrire un ambiente adeguato, non solo sul piano acustico ma anche su quello dell’immagine, a una vasta e diversificata estensione di eventi teatrali e musicali, da quelli contemporanei alle musiche antiche, dagli spettacoli lirici e sinfonici per grande orchestra alla musica del XVIII secolo. Questo obiettivo presenta una particolare difficoltà nei confronti anche di diverse tradizioni: dallo spazio del teatro a palchi della tradizione italiana a quello tedesco o alle soluzioni miste francesi dell’inizio del XX secolo, sino ai proble-

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mi posti dallo spazio totale della musica elettronica e dello spettacolo contemporaneo. Senso di appartenenza e capacità di accoglienza della comunità degli spettatori devono mescolarsi. Così crediamo sia importante l’unità del materiale ligneo interno che abbiamo proposto, l’abitabilità delle pareti come, con una serie di strette gallerie, la curvatura continua dello spazio interno; nel rispetto della buona visibilità e della concentrazione nell’ascolto. Una particolare attenzione è stata rivolta al complesso sistema dei servizi di scena e di funzionamento del teatro, che nella loro distribuzione hanno costituito l’ossatura della forte massa unitaria dell’insieme. A fondamento della nostra proposta resta la tensione verso l’idea di spazio aperto abitabile capace di dare, per mezzo dell’edificio, un senso nuovo all’insieme di questo paesaggio artificiale, vero centro della nuova espansione di Aix-en-Provence.

Indici

Indice dei nomi

Ackerman, James, 5n. Adorno, Theodor W., 21n, 29 e n, 35n, 43. Alpers, Svetlana, 101n. Ando, Tadao, 12n. Antal, Frederick, 28. Apollinaire, Guillaume, 21. Aristotele, 8n. Auerbach, Erich, 30. Augé, Marc, 61. Barthes, Roland, 35n. Bellini, Giovanni, 116. Benjamin, Walter, 29n, 38n. Benveniste, Émile, 41. Bernini, Gian Lorenzo, 52. Blau, Eve, 5n. Bloch, Ernst, 20, 111. Bogdanov, Aleksandr A., 20. Bohigas, Oriol, 149. Bourdieu, Pierre, 103n. Butler, Samuel, 83. Calatrava, Santiago, 12n. Calvino, Italo, VIII. Cases, Cesare, 24. Cézanne, Paul, 96. Champfleury, pseud. di Jules François Husson, 14. Courbet, Gustave, 14, 16. Cuvier, Georges, 15n.

de Chirico, Giorgio, 22. De Gaulle, Charles, 149. Deleuze, Gilles, 10, 54n. Del Giudice, Daniele, VIII. Dematteis, Giuseppe, 97n. De Rouen, Jean, 52. Duchamp, Marcel, 22. Dumesnil, René, 14n. Farinelli, Franco, 97. Feyerabend, Paul Karl, VII. Flügel, John-Carl, 35n. Foucault, Michel, 14. Foustel de Coulanges, Numa Denis, 16. Gadamer, Hans Georg, 42n. Gehry, Frank O., 12n. Giedion, Siegfried, 21n. Ginzburg, Carlo, 52. Giorgione, 116. Gombrich, Ernst, 85. Goodman, Nelson, VIII, 101n. Hauser, Arnold, 28. Haydn, Franz Joseph, 70. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 27-28, 101. Heidegger, Martin, 21n. Ilardi, Massimo, 74 e n. Iofan, Boris M., 124.

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Indice dei nomi

Jencks, Charles, 75-76.

Putnam, Hilary, VIII.

Kant, Immanuel, 110. Kaufman, Edward, 5n. Klein, Robert, 58, 84. Koolhas, Rem, 12n, 61.

Quarenghi, Giacomo, 52.

Le Corbusier, pseud. di CharlesEdouard Jeanneret, 19. Léger, Fernand, 24. Leopardi, Giacomo, 35n. Lessing, Gotthold Ephraim, 41. L’Herbier, Marcel, 16n. Libeskind, Daniel, 12n. Lothe, André, 19. Lukács, György, VII, 20, 21n. Magnago Lampugnani, Vittorio, 25n. Maldonado, Tomás, 41. Malevicˇ, Hazimir, 19. Marcuse, Herbert, 29n. Marx, Karl, 27. Merleau-Ponty, Maurice, 96 e n. Meyer, Hannes, 23. Milizia, Francesco, 21n. Mollino, Carlo, 12n. Morpurgo, Guido, VIII. Nancy, Jean-Luc, 11n, 12n. Nochlin, Linda, 14n. Nuti, Mattia, 129.

Rastrelli, Bartolomeo, 52. Rosemberg, Harold, 11. Rudowsky, Bernard, 35n. Sacchi, Livio, 107n. Sanguineti, Edoardo, VIII, 11n. Satie, Erik, 9, 21. Schmarsow, August, 21n. Segre, Cesare, VIII, 31n. Semper, Gottfried, 15n. Sennett, Richard, 61. Serlio, Sebastiano, 52. Silvetti, Jorge, 8n. Simmel, Georg, 35n. Siza, Alvaro, 12n. Sloterdijk, Peter, 92 e n. Solmi, Renato, 38n. Spitzer, Leo, 30. Tafuri, Manfredo, 5n, 25n, 58, 123. Talbot, William Henry Fox, 16n. Teige, Karel, 22. Tiziano Vecellio, 116. Tocqueville, Alexis de, 119. Todorov, Tzvetan, 8n. Trilling, Lionel, 7n. Unali, Maurizio, 107n.

Ozenfant, Amédée, 19. Pagano, Giuseppe, 25. Paxton, Joseph, 15. Perrault, Claude, 15n. Piano, Renzo, 12n. Piattelli Palmarini, Massimo, VII. Picasso, Pablo, 22. Piranesi, Giovanni Battista, 5n. Poëte, Marcel, 56. Popper, Karl, VII. Posener, Julius, 78. Purini, Franco, 90, 108n.

Van Vittel, Gasper, 52. Vertov, Dziga, 16n. Viollet-le-Duc, Eugène-Emmanuel, 15n. Walden, Herwart, 34. Warhol, Andy, 89. Webber, Melvin, 61. Wenders, Wim, 71. Widler, Tony, 61. Wind, Edgard, 28. Wright, Frank Lloyd, 145.

Indice del volume

Premessa 1. La parola «realismo»

VII

3

Tra soggettività e oggettività, p. 3 - Da Apollinaire ad Adorno, p. 17 - Produzione e proiezione, p. 31

2. Realismo e contesto

47

Differenze indifferenti, p. 47 - La città della frammentazione infinita, p. 58 - Principi di insediamento, p. 68

3. Architettura e critica

81

Arti visive e design, p. 81 - Musei e spettacolo, p. 88 - Nuova cosa tra le cose, p. 94 - Geografia e paesaggio volontario, p. 97 - Calligrafie e realtà virtuali, p. 104

4. Cinque casi

113

Una nuova sede per la Duma di Mosca. Concorso internazionale 2002, p. 123 - Cesena, p. 129 - Headquarter Pirelli. Milano 19862003, p. 135 - Pujiang (Shanghai). 2000, p. 141 - Aix-en-Provence. 2003, p. 149

Indice dei nomi

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