Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana 8833914682, 9788833914688

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Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana
 8833914682, 9788833914688

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Paolo Virna

Quando il verbo si fa carne Linguaggio e natura umana Postfazione di Daniele Gambarara

Bollati Boringhieri

Prima edizione maggio

2003

© 2003 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele Il, 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino ISBN 88-339-r468-2 Schema grafico della copertina di Pietro Palladino e Giulio Palmieri Stampato su carta Palatina delle Cartiere Miliani Fabriano

Indice

Introduzione

9

Parte prima r5

1.

L'azione di enunciare

Il parlante come artista esecutore r. La sinfonia di Saussure, 15 2. Attività senza opera, 16 3. Virtuosismo verbale, 17 4. Cucinare e parlare, 19 5. Il linguaggio come fenomeno transizionale, 21 6. Senza copione, 24 7. Excursus sul teatro. La scena e le virgolette, 26 8. Animale linguistico, animale politico, 31

33

2.

Il performativo assoluto r. Ciò che si dice e il fatto che si parla, 33 2. Comunicare che si sta comunicando, 36 3. Che cos'è un performativo assoluto, 38 4. La struttura formale dell'enunciato «lo parlo», 40 5. Per voce sola, 42 6. Ritualità del linguaggio, linguisticità del rito, 45 7. Rievocare l'antropogenesi, 46 8. Linguaggio egocentrico, 49 9. Principio di individuazione, 51 10. L'errore di Vygotskij, 55 1r. La parola religiosa, 58 12. Le lingue del culto, 63 13. Della preghiera, 68 14. In limine, 72

75

3. Ripetizione dell'antropogenesi r. De Martino: il farsi e il disfarsi dell'autocoscienza, 75 sure: l'origine come condizione permanente, 77 ciclo, 82 4. Apocalissi culturali, 84

Parte seconda 9r

2. Saus3. La freccia e il

Per la critica dell'interiorità

4. Sensismo di secondo grado. Progetto di fisiognomica r. Sensazioni conclusive, 91 2. Enunciazione e contatto diretto, 94 3. Padronanza di una tecnica, 95 4. Percepire la proprietà di un concetto, 98 5. Il fisiologico come simbolo del logico, 101 6. Ri-

INDICE

6

conoscere un viso, comprendere un enunciato, ro2 7. La fisionomia delle parole, ro5 8. «Parla, affinché io possa vederti», ro6 9. L' «evidenza imponderabile» e il riscatto della fisiognomica, ro9 nz

5. Elogio della reificazione 1. Risarcimento per danni, 1 II 2. Un antidoto all'alienazione e al feticismo, 112 3. Pubblicità della mente, u6 4. Parole transindividuali, 122 5. Le disavventure dell'«lo penso», 125 6. L'autocoscienza come atto linguistico pçrformativo, 130 7. Confutazione dell'idealismo, 136

Parte terza z43

Da sempre e proprio ora

6. Storia naturale 1. Le virtù dell'ossimoro, 143 2. La disputa tra Foucault e Chomsky sulla «natura umana», I47 3. Invariante biologico e orizzonte religioso, I55 4. Facoltà del linguaggio, I58 5. Irruzione della metastoria nella prassi sociale: stato di eccezione o routine, I67 6. Materialismo & rivelazione. Per una semiotica dei fenomeni storiconaturali, I 74

z85

7. Moltitudine e principio di individuazione 1. L'Uno e i Molti, I85 2. Preindividuale, I88 3. Soggetto anfibio, I9I 4. Marx, Vygotskij, Simondon: il concetto di «individuo sociale», I93 5. Il collettivo della moltitudine, I96

z99

Appendice Wittgenstein e la questione dell'ateismo Metafisica blasfema, I99 2. Il sublime come forma logica del 3. Le Ricerche o dell'ascetismo conseguente, 205 4. Per una critica atea di Wittgenstein, 209 1.

Tractatus, 201

2z3

Postfazione. Per una critica della facoltà di linguaggio, di Daniele Gambarara 1. Prassi e poiesi: una precisazione incidentale, 2I3 2. Facoltà come sistema in Chomsky, 2I4 3. Facoltà distinta da sistema in Saussure, 2 I 6 4. Tra facoltà e sistemi: il posto della prassi, 2 I 7 5. Il linguaggio non è comunicazione, 2I9 6. Il linguaggio è riconoscimento, 222 7. Il linguaggio si fa carico della comunicazione, 224 8. L'origine del riconoscimento, 225 9. Facoltà e sistemi all'origine, 227 IO. Quale facoltà, allora, per questo linguaggio?, 230 II. La prassi in atto: il mondo linguisticizzato, 232 I2. Conclusione: la posta in gioco per la filosofia del linguaggio, 233

2 35

Bibliografia

243

Indice analitico

Quando il verbo si fa carne

A Eleonora, che ha letto per prima.

Introduzione

Il libro contiene riflessioni filosofiche sulla facoltà di linguaggio, cioè sulla natura umana. Benché ogni capitolo abbia un punto di avvio a sé stante, si tratta di riflessioni sistematiche, da leggere nell'ordine in cui sono presentate. Non vi è quasi argomento che non sia premessa o conseguenza di altri argomenti. Saltabeccare tra i capitoli significa votarsi al fraintendimento . . Il libro traccia cerchi concentrici di ampiezza via via maggiore attorno al proprio oggetto. La prima parte (capp. r-3) è dedicata al microcosmo dell'enunciazione. Prendere la parola: questo evento così familiare e dimesso costituisce nondimeno la base sperimentale più attendibile per affrontare alcuni problemi capitali della filosofia. L'analisi delle diverse componenti di un proferimento verbale consente di trarre qualche conclusione non scontata circa i caratteri distintivi della prassi umana, il rapporto tra potenza e atto, la formazione dell' autocoscienza, il principio di individuazione, l'origine dell'istanza religiosa. In breve: l'azione di enunciare riepiloga ogni volta da capo, in proporzioni lillipuziane, certe tappe salienti dell'antropogenesi. La seconda parte del libro (capp. 4-5) si occupa, evangelicamente, della «incarnazione del verbo». La discussione verte sulla realtà sensibile, esteriore, appariscente delle nostre parole. Ciò spiega il tentativo di ridefinire e riabilitare due nozioni che, prese nell'accezione corrente, godono di pessima fama: la fisiognomica e la reificazione. Questi capitoli vorrebbero mettere in luce l'indole costitutivamente pubblica della mente linguistica.

IO

INTRODUZIONE

La terza parte (capp. 6-7) allarga a dismisura l'angolo visuale. Viene esaminato, qui, il rapporto tra requisiti biologici invarianti e mutevoli esperienze storiche. Le precedenti considerazioni sulla struttura dell'enunciazione e la pubblicità della mente trovano infine il proprio corrispettivo macroscopico nel concetto (esso pure innovato rispetto al significato consueto) di storia naturale. Di tale concetto possono giovarsi a piene mani la descrizione delle forme di vita contemporanee e l'abbozzo di categorie politiche all'altezza di un modo di produzione che ha il suo baricentro nella facoltà di linguagg10. In molti capitoli è menzionato di sfuggita il problema logico-linguistico dell'ateismo. Logico-linguistico, si badi: non certo psicologico o morale. L'Appendice dà corpo a questi cenni sparsi, soffermandosi criticamente sulla critica religiosa che Wittgenstein rivolse alle pretese della filosofia tradizionale.

Vorrei indicare nel modo più ingenuo l'idea che ricorre come un

re/rain in ogni capitolo del libro. Per complicare le cose, c'è sempre tempo. Vi sono senza dubbio delle condizioni molto generali che rendono possibile la nostra esperienza di animali umani: facoltà di linguaggio, autocoscienza, storicità ecc. In gergo kantiano, si potrebbe parlare di presupposti trascendentali; in gergo heideggeriano, di fondamenti ontologici; in gergo evoluzionista, di prerogative specie-specifiche. Ora, è convinzione diffusa che queste condizioni basilari, da cui dipendono i fatti e gli stati di cose che scandiscono la nostra vita, non si presentano mai a loro volta come fatti o stati di cose. Esse darebbero luogo a ogni sorta di fenomeni contingenti, senza disporre però di una propria evidenza fenomenica. Ebbene, il libro si oppone con forza a una simile convinzione. È mia intenzione mostrare che le condizioni di possibilità dell'esperienza sono, esse pure, oggetto di esperienza immediata; che i presupposti trascendentali si appalesano, in quanto tali, in certi triti fenomeni empirici; che i fondamenti ontologici prendono umilmente posto nel mondo delle apparenze. Il libro passa in rassegna le diverse occasioni in cui lo sfondo viene in primo piano, acconciandosi al ruolo di fatto tra i fatti. Se si vuole: le occasioni in cui

INTRODUZIONE

II

la natura umana conosce una completa rivelazione. Emendato da ogni civetteria teologica, il termine significa soltanto: piena visibilità empirica di ciò che si credeva a torto inaccessibile alla percezione diretta. I titoli dei capitoli designano le categorie che meglio consentono di pensare questa «rivelazione» tutt'affatto materialistica: performativo assoluto, ripetizione dell'antropogenesi, sensismo di secondo grado, reificazione, storia naturale. Sarebbe futile anticipare stenograficamente le singole tesi che il libro propone. Un compendio preliminare è, insieme, troppo e troppo poco. Ha la strabiliante capacità di rendere oscuro ciò che di per sé non dà adito a dubbi. Basti preavvertire che queste tesi rischiano di irritare tanto i patiti dell'ermeneutica, quanto i cultori delle scienze cognitive. I primi rinfacceranno loro uno sfrenato naturalismo; i secondi, la tendenza a prendere sul serio molte questioni squisitamente metafisiche. Mi piacerebbe poter dire che entrambe le critiche sono fondate. Infatti, se cumulate, a me sembrano involontari elogi. Chi voglia occuparsi per davvero dell' «animale che ha linguaggio», deve considerare del tutto naturali anche le antinomie della ragion pura.

Ho avuto il privilegio di discutere a lungo dei temi affrontati nel libro con Daniele Gambarara. La sua Postfazione è un documento del seminario permanente che si è svolto nelle aule, sui treni, via e-mail: bilancio e rilancio a un tempo, com'è nel costume di questo filosofo prodigo e avventuroso. Devo molto al dialogo con Stefano Catucci, Felice Cimatti, Massimo De Carolis, Augusto Illuminati, Marco Mazzeo. Alcune parti del testo risentono, in una misura che non riesco a stabilire con precisione, di una propizia rilettura di Senso e paradosso (1986) di Emilio Garroni. È stata una buona cosa, per me e per il libro, l'essermi imbattuto di recente nei saggi filosofico-linguistici di Franco Lo Piparo. Hanno letto e commentato la prima stesura di uno o più capitoli Francesca Borrelli, Francesco Ferretti, Sara Fortuna, Giovanni Garroni, Michael Hardt, Ivan Maffezzini, Christian Marazzi, Sandro Mezzadra, Francesco Napolitano, Mario Piccinini, Franco Piperno, Francesco Raparelli, Tommaso Russo, Livia Scheller, Alberto Toscano, Benedetto Vecchi. A tutti loro va la mia ricono-

12

INTRODUZIONE

scenza. Ringrazio Paolo Leonardi per le critiche corrosive che ha rivolto al capitolo 2, Il performativo assoluto. Queste riflessioni sulla facoltà di linguaggio e la natura umana hanno nel proprio orizzonte il primo movimento politico che mette esplicitamente a tema le prerogative fondamentali della nostra specie. Parlo degli uomini e delle donne che riempirono le strade di Genova nel luglio, del 2001, riscattando l'idea di «sfera pubblica» dalle atroci caricature cui è cosl spesso soggetta.

Parte prima L'azione di enunciare

Il nostro oggetto è l'atto stesso di produrre un enunciato, non il testo dell'enunciato. Emile Benveniste Prima ancora di significare una qualsiasi cosa, ogni emissione di linguaggio segnala che quakuno parla. Questo è decisivo, e non rilevato dai linguisti. La voce dice da sola un bel po' di cose, prima di agire come latrice di messaggi particolari. Paul Valéry Parla, affinché io possa vederti.

Georg C. Lichtenberg

I.

Il parlante come artista esecutore

1•

La sinfonia di Saussure

Proprio all'inizio del Corso di linguistica generale, Saussure propone quasi di sfuggita un'analogia carica di implicazioni: «La lingua può paragonarsi a una sinfonia la cui realtà è indipendente dal modo in cui la si esegue» (Saussure 1922, p. 28). La similitudine, formulata con intenti didattici (tant'è che poco più avanti se ne trova una affatto diversa: la lingua come dizionario), mira unicamente a sottolineare l'autonomia del sistema-langue rispetto alle variazioni accidentali di cui sono costellati i concreti proferimenti. Tuttavia, a prenderla sul serio, cioè alla lettera, essa offre il destro per stabilire un nesso non fatuo tra linguistica strutturale e filosofia della prassi, tra il Corso e l'Etica a Nicomaco di Aristotele. Ciò che più conta è il lato in ombra del paragone saussuriano. Eccolo: se la lingua somiglia a uno spartito musicale, l'esperienza del parlante è equiparabile a buon diritto a quella di un artista esecutore. Chiunque dia luogo a un discorso ricalcherebbe, dunque, il peculiare modo di agire del pianista, del ballerino, dell'attore. Prendere la parola significherebbe far sfoggio delle qualità che, se portate al loro culmine, designiamo di solito con il termine «virtuosismo». È davvero cosl? Prima ancora di saggiare (e semmai di radicalizzare) questa ipotesi, conviene mettere in chiaro quale sia la posta in gioco.

CAPITOLO PRIMO

2.

Attività senza opera

Che cosa contraddistingue lo sforzo di quanti si esibiscono su un palcoscenico? Due aspetti, soprattutto. Si tratta, in primo luogo, di azioni prive di uno scopo estrinseco. Esse non mettono capo a un prodotto durevole, avendo piuttosto per unico esito il loro stesso svolgimento. Non costruiscono nuovi oggetti, ma danno vita a un evento contingente e irripetibile («fu allora che Sarah Bernhardt impresse una sfumatura ironica al monologo finale», «a Montréal, Glenn Gould smorzò all'improvviso l'andante con brio»). Altermine del concerto o della rappresentazione teatrale, non resta nulla. Quella del pianista e dell'attore è un'attività senza opera. O, se si preferisce, un'attività il cui fine coincide per intero con l'esecuzione medesima. In secondo luogo, a chi suona o recita è indispensabile la presenza altrui: la labile performance esiste solo se vista o ascoltata, dunque solo al cospetto di un «pubblico». Le due caratteristiche sono intimamente correlate: il virtuoso ha bisogno di spettatori appunto perché non lascia dietro di sé un oggetto che se ne vada in giro per il mondo a esecuzione conclusa. L'attività senza opera implica sempre, per motivi strutturali, l'esposizione dell'agente allo sguardò, e talvolta alle reazioni severe, del prossimo suo. La prestazione dell'artista esecutore si inscrive con naturalezza nella costellazione concettuale del libro VI dell'Etica a Nicomaco. Aristotele contrappone, qui, la produzione di cose per l'innanzi insussistenti all'azione propriamente detta; o anche, ma è lo stesso, il lavoro alla politica. La produzione (poiesis), guidata da una tecnica, ha il suo scopo fuori di sé, giacché culmina in un manufatto indipendente. «Usare la tecnica è considerare com'è possibile far venire all'esistenza una di quelle cose che possono sia essere che non essere» (Eth. Nic., u4oa u-13). L'azione etico-politica (praxis), sorretta dalla capacità di deliberare su quanto occorre per «vivere bene in senso totale» (eu zen olos), trova invece in se stessa il proprio compimento, rassomigliando in tutto alla performance del musicista o del danzatore. L'avvedutezza pratica (phronesis) non sarà una scienza né una tecnica: una scienza perché ciò che è oggetto d'azione può essere altrimenti da quello che

IL PARLANTE COME ARTISTA ESECUTORE

17

è; una tecnica perché il genere dell'azione è diverso da quello della produzione. Infatti il fine della produzione è diverso dalla produzione stessa, mentre non potrebbe esserlo quello dell'azione: giacché la stessa prassi buona (eupraxia) è un fine (ibid., 114ob 1-4).

Il modo di operare del ballerino o del violoncellista non ha nulla di bizzarro o di marginale. Al contrario, è l'icastica ricapitolazione dei requisiti che definiscono, in generale, la prassi tipicamente umana. Contingenza, labilità, assenza di un fine esteriore, inseparabilità del «prodotto» dalle azioni che lo realizzano, immancabile istituzione di una sfera pubblica: tutto ciò qualifica la condotta etica e politica (e, prima ancora, il gioco). È stata Hannah Arendt, spregiudicata aristotelica del xx secolo, a sottolineare questa parentela: «le arti che non realizzano alcuna "opera" hanno grande affinità con la politica. Gli artisti che le praticano - danzatori, attori, musicisti e simili - hanno bisogno di un pubblico al quale mostrare il loro virtuosismo, come gli uomini che agiscono politicamente hanno bisogno di altri alla cui presenza comparire» (Arendt 1961, p. 206). 3. Virtuosismo verbale

Torniamo alla similitudine di Saussure. Se la lingua è una sinfonia, il parlante condivide le prerogative dell'artista esecutore. Contingente e irripetibile qual è, ogni atto di parole si risolve in una prestazione virtuosistica: non dà luogo a un oggetto a sé stante e, proprio per questo, implica la presenza altrui. Ciò significa che l'attività linguistica, considerata nel suo complesso, non è produzione (poiesis), né cognizione (episteme), ma azione (praxis). Il linguaggio verbale umano non ha alcuna opera da realizzare perché non è uno strumento che possa venire impiegato in vista di qualcos'altro. Scrive Emile Benveniste: In realtà, il paragone del linguaggio con uno strumento - e perché il paragone sia appena intelligibile si deve trattare di uno strumento materiale - deve riempirci di diffidenza, come ogni affermazione semplicistica nei confronti del linguaggio. Parlare di strumento vuol dire contrapporre l'uomo alla natura. La zappa, la freccia, la ruota non si trovano-in natura, sono degli artefatti. Il linguaggio è nella natura dell'uomo, che non l'ha fabbricato. Siamo sempre inclini a immaginare un periodo originario in cui un uomo completo

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CAPITOLO PRIMO

scoprirebbe un suo simile, al_trettanto completo, e tra loro, poco alla volta, si elaborerebbe il linguaggio. E una pura fantasia. Non possiamo mai cogliere l'uomo separato dal linguaggio e non lo vediamo mai nell'atto di inventarlo (Benveniste 1958a, pp. 3rn sg.).

Chi parla, compie un'azione fine a se stessa, nel medesimo senso in cui può dirsi fine a se stesso il vedere o il respirare. Parlare e vedere e respirare sono azioni che manifestano il modo di essere di un determinato organismo biologico, concorrendo al suo «vivere bene in senso totale». Parliamo, ma non perché abbiamo constatato che l'uso del linguaggio sia vantaggioso; cosl come viviamo, ma no~ perché riteniamo utile la vita. E innegabile, tuttavia, che ci serviamo del linguaggio per conseguire una miriade di scopi particolari: intimidire, sedurre, commuovere, ingannare, misurare un perimetro, scatenare un bombardamento aereo, organizzare uno sciopero e cosl via. Sono innumerevoli, pertanto, i casi in cui il linguaggio sembra un utensile di cui profittare per ottenere risultati non linguistici. Si potrebbe osservare, però, che gli scopi di volta in volta attinti mediante la parola non sono neanche concepibili, in quanto tali, se non sulla base della parola: sicché, si tratta pur sempre di scopi del linguaggio. Parafrasando Wittgenstein: «so a che cosa tendo prima di averlo raggiunto» proprio e soltanto perché «ho imparato a parlare» (Wittgenstein 1953, § 441). O anche, lapidariamente: «Nel linguaggio, aspettazione e adempimento si toccano» (ibid., § 445). Ma non è questo il punto cruciale. Ammettiamo pure, per un momento, che molti nostri enunciati siano pronunciati a fini extralinguistici. Resta il fatto, esso sl dirimente, che non si può rendere ragione dell'attività locutoria, delle sue leggi peculiari, muovendo dall'uno o dall'altro di questi fini estrinseci, e neanche dalla loro . somma completa. Crederlo, sarebbe come pretendere di spiegare il funzionamento di un gioco a partire dai diversi effetti che esso può avere sui giocatori (divertirli, annoiarli, indurli all'amicizia o fomentarne la rivalità). Una pretesa del genere è del tutto legittima, invece, là dove non sia in questione una praxis virtuosistica, ma la poiesis volta a fabbricare un prodotto autonomo: è la casa da costruire, ossia il risultato finale, a determinare fin nel dettaglio indole e procedure dell'attività edilizia. La prassi verbale non dipende da scopi extralinguistici, cosl come la performance memorabile del pianista non dipende dalla eventuale

IL PARLANTE COME ARTISTA ESECUTORE

19

brama di ricchezza di quest'ultimo. La controprova è che la perspicuità o giustezza (nel senso in cui si dice «giusta» la piroetta di un ballerino o l'intonazione di un cantante) delle nostre frasi non è misurabile in base alle loro conseguenze. Wittgenstein: Se voglio dare una determinata forma al pezzo di legno, allora il colpo giusto sarà quello che produce questa forma. Però non dico che è giusto il ragionamento che ha conseguenze desiderate (Pragmatismo) .. Inoltre dico che un certo calcolo è falso anche se le azioni, che sono scaturite dal suo risultato, hanno condotto al fine desiderato (Wittgenstein 1969, p. 148).

Merita attenzione l'accenno polemico al «pragmatismo». Sarebbe un errore credere che Wittgenstein critichi i pragmatisti per aver trascurato il valore cognitivo dei nostri enunciati. Niente di simile. Per paradossale che possa sembrare, il limite di costoro sta piuttosto nel misconoscere il carattere di praxis del discorso umano; nel misconoscere, dunque, il suo essere fine e norma di sé medesimo. Giudicando perspicui gli enunciati che conseguono un certo scopo extralinguistico, il pragmatismo assimila rovinosamente l'attività del parlante alla poiesis. 4. Cucinare e parlare

La distinzione tra agire (prattein) e produrre (poiein), che campeggia nel libro VI dell'Etica a Nicomaco, è ripresa quasi alla lettera nella Grammatica filosofica di Wittgenstein. Solo che, qui, l'agire fa tutt'uno con il linguaggio. In una lunga sequenza di brani concatenati, Wittgenstein mostra lo scarto logico che separa le regole incorporate nella prassi linguistica dalle regole preposte alla fabbricazione di un manufatto. Le prime sono arbitrarie, mentre le altre no, essendo dettate dalle specifiche proprietà dell'oggetto cui tende di volta in volta lo sforzo produttivo. Perché non chiamo arbitrarie le regole del cucinare, e perché sono tentato di chiamare arbitrarie le regole della grammatica? Perché penso che il concetto di «cucinare» sia definito dallo scopo del cucinare, mentre non penso che il concetto «linguaggio» sia definito dallo scopo del linguaggio. Chi, cucinando, si conforma a regole diverse da quelle giuste, cucina male; ma chi gioca a scacchi secondo regole diverse dalle regole degli scacchi, gioca un altro gioco; e chi si conforma a regole grammaticali diverse da quelle solite, non per questo dice alcunché di falso, ma dice qualcos'altro (Wittgenstein 1969, pp. 147 sg.).

20

CAPITOLO PRIMO

Poiché non è definito dall'uno o dall'altro scopo occasionale, il linguaggio stipula da sé i criteri cui si attiene. «Le regole della grammatica si possono chiamare "arbitrarie", se con ciò si vuol dire che lo scopo della grammatica è soltanto quello del linguaggio» (Wittgenstein 1953, § 497). L'unità di misura non è disgiungibile da ciò che deve essere misurato; anzi, istituisce il fenomeno al quale si applica. Detto altrimenti: la regola non si limita ad amministrare il rapporto tra significati e realtà, ma presiede alla stessa formazione di ciascun significato. «Non è possibile nessuna discussione se per la parola "non" vadano bene (cioè siano conformi al suo significato) queste o altre regole; infatti senza queste regole la parola non ha ancora nessun significato, se cambiamo le regole ha un significato diverso (o non ne ha nessuno): e allora possia'mo benissimo anche cambiare la parola» (Wittgenstein 1969, p. 147). Oltre a tracciare un evidente discrimine tra linguaggio e produzione, l'arbitrarietà delle regole fuga anche l'illusione cognitivista, secondo la quale l'eloquio umano avrebbe il compito di comunicare pensieri già pensati. Per un verso, come dimostra l'esempio del «non», vi sono molti pensieri resi possibili soltanto dal linguaggio. Per l'altro, ma sempre in virtù della medesima arbitrarietà, vi sono molti enunciati che non hanno alcun valore epistemico: quale pensiero esprime «mannaggia», o «aiutatemi», o «Dio mio»? Ripetiamolo: né poiesis, ma neanche episteme, il discorso umano è, in primo luogo, praxis. «Arbitrario» significa «naturale»: i due termini si implicano a vicenda, e talvolta sfiorano la sinonimia. Se fosse un artefatto, cioè uno strumento, il linguaggio sarebbe sottoposto a regole invarianti, desunte dal modo migliore di metterlo a frutto. Ma «il linguaggio è nella natura dell'uomo, che non l'ha fabbricato». La prassi verbale è un tratto caratteristico della nostra specie. A differenza della comunicazione animale, in cui ogni singolo segnale corrisponde univocamente a una particolare evenienza ambientale (pericolo determinato, possibilità di procacciarsi il cibo ecc.), il discorso umano è scomponibile in «elementi di articolazione privi di significato[ ... ] la cui combinazione selettiva e distintiva dà luogo alle unità significanti» (Benveniste 1952, p. 76). Si tratta pertanto di un'attività biologica non vincolata alle configurazioni dell'ambiente. Di un'attività fine a se stessa, il cui risultato combacia senza residui con l'e-

IL PARLANTE COME ARTISTA ESECUTORE

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secuzione. E un'attività fine a se stessa non può che essere autoregolata. L'arbitrarietà delle regole linguistiche è, quindi, naturale e perfino necessaria. «Nel linguaggio, l'unico correlato di una necessità naturale è una regola arbitraria. È l'unica cosa che, da questa necessità, si possa travasare in una proposizione» (Wittgenstein 1969, p. 147). Wittgenstein ipotizza che la vita e il linguaggio siano due concetti coestensivi: «Un segno è pur sempre Il per un essere vivente, dunque questa dev'essere una cosa essenziale al segno». Già, come si definisce un essere «vivente»? Sembra che qui io sia pronto a definire l'essere vivente ricorrendo alla capacità di utilizzare un linguaggio segnico. E in effetti il concetto di essere vivente ha una indeterminatezza del tutto simile a quella del concetto «linguaggio» (ibid., pp. 154 sg.).

Vita e linguaggio sono accomunati dalla niedesima indeterminatezza perché, privi come sono di qualsivoglia scopo estrinseco, hanno entrambi regole arbitrarie. Ora, proprio questa indeterminatezza dischiude lo spazio dell'azione, di quell'azione il cui oggetto consiste, per l'appunto, in «ciò che può essere altrimenti da quello che è» (Aristotele, Eth. Nic., 114ob 1-2). Le nostre enunciazioni delineano una sorta di virtuosismo naturalistico. Se è così, sembra opportuno radicalizzare la similitudine iniziale. È la prassi linguistica il modello di ogni ulteriore attività senza opera, la matrice di ogni particolare performance virtuosistica. L'artista esecutore non fa che riprendere, in forme altamente specializzate, l'esperienza del semplice locutore. 5. Il linguaggio come fenomeno transizionale

Gli stereotipi storiografici, al pari di certi sospetti, sono ingiusti, ma colgono nel segno. Ossia rivelano qualcosa di importante. Si dice: la recensione con cui Chomsky confutò le tesi esposte da Skinner in Verbal Behavior ha inaugurato una nuova stagione nella filosofia della mente. Si dice: se il comportamentismo aveva considerato il linguaggio come un attrezzo pubblico, del quale il singolo individuo si appropria grazie all'influenza condizionante dell'ambiente sociale, Chomsky e le scienze cognitive hanno ristabilito il

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CAPITOLO PRIMO

suo carattere di dotazione biologica già sempre condivisa da ogni membro della specie. Si dice: dal linguaggio-strumento, il cui funzionamento sarebbe radicalmente esteriore, si è passati infine al linguaggio-organo, indipendente dal contesto storico, ubicato per intero in interiore hominis. Fin qui lo stereotipo storiografico. Poco importa, ora, discuterne la fondatezza, o tentare di complicarne la trama. La disputa tra Skinner e Chomsky, proprio là dove è tramandata con il tipico schematismo di una parabola, risulta assai istruttiva: essa mostra, infatti, tutta la difficoltà a intendere il linguaggio come organo biologico della prassi pubblica. Pressoché inevitabile sembra l'oscillazione tra socialità pragmatista (si pensi al «pragmatismo» deteriore contro cui polemizza Wittgenstein) e mentalismo spoliticizzato; o anche, in gergo antico, tra poiesis e episteme. Per arrestare l'oscillazione e mitigare la difficoltà, occorre rimescolare le carte e iniziare una nuova partita. La prassi linguistica elude l'alternativa tra «interno» ed «esterno», imperscrutabile rappresentazione mentale e solida realtà oggettiva. Essa configura piuttosto quella preliminare zona intermedia, da cui scaturiscono poi entrambe le polarità. In principio- (sotto un profilo logico, si badi), è il Verbo in quanto Azione. L'attività locutoria si colloca sul confine tra io e non-io: rende possibile la distinzione dei due ambiti, ma, di per sé, non appartiene mai del tutto all'uno o all'altro. Basti pensare alla voce: emessa nell'ambiente come parte del corpo, torna poi al corpo come parte dell'ambiente. L'azione verbale è, insieme, appariscente e intima; esposta agli occhi degli altri e però inseparabile dalla persona contingente di colui che la compie. La prassi linguistica si radica nello iato tra mente e mondo, uno iato che non si lascia colmare da una condotta prefissata, ma deve essere padroneggiato con esecuzioni virtuosistiche e regole arbitrarie. Anziché di iato, lo psicoanalista inglese Donald W. Winnicott1 preferisce parlare di uno «spazio potenziale» in cui predomina ancora l'anfibietà, ossia la commistione tra soggettivo e oggettivo (Winnicott 1971, pp. 197 sgg.). Ebbene, l'animale umano è un essere che agisce proprio perché, non essendo incastrato 1 Devo a un suggerimento epistolare di Francesco Napolitano l'idea di accostare il linguaggio ai «fenomeni transizionali» studiati da Winnicott.

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in una sfera vitale predeterminata, dimora per lo più in quest'area indefinita. Lo spazio potenziale tra mente e mondo, autentica terra di nessuno (e di tutti), è uno spazio costitutivamente pubblico. Salvo aggiungere che siffatta pubblicità originaria non ha alcuna affinità con uno stato di cose esteriore, né, per altro verso, si oppone a una recondita realtà interiore: essa costituisce, semmai, il comune presupposto dei due termini antipodici. Solo quando la terra di nessuno è colonizzata dal linguaggio, emerge un netto discrimine tra io e non-io, «dentro» e «fuori», cognizione e comportamento. L'azione verbale condivide molte delle caratteristiche che Winnicott attribuisce ai cosiddetti fenomeni transizionali. Sono chiamate cosl le esperienze situate a mezza strada tra i meandri della psiche (desideri, impulsi, intenzioni ecc.) e l'ambito delle cose e dei fatti accertati intersoggettivamente. Dopo la nascita del bambino questa sostanza intermedia che unisce, e contemporaneamente separa, viene rappresentata da oggetti e fenomeni dei quali si può dire che, mentre fanno parte del bambino, fanno anche parte dell'ambiente. Solo gradualmente pretenderemo, dall'individuo che si.sviluppa, una distinzione piena e consapevole tra realtà esterna e realtà psichica interna; rimangono, in verità, i resti della sostanza intermedia nella vita culturale degli adulti, ed è ciò che distingue gli esseri umani dagli animali (arte, religione, filosofia) (Winnicott 1988, p. 179).

Tra i fenomeni transizionali censiti da Winnicott spicca in alto rilievo l'attività ludica. Proprio come la prassi linguistica e il virtuosismo dell'artista esecutore, il gioco è pubblico ma non esteriore (dato che non dà luogo a un'opera indipendente, «ripudiabile come non-io» [Winnicott 1971, p. 89]).; personale ma non interiore (dato che non presuppone rappresentazioni mentali, ma, anzi, le provoca come suo riverbero o effetto collaterale). Secondo Winnicott, mentre la realtà esterna e la dotazione istintuale hanno una indubbia fissità, il gioco è contrassegnato invece da un alto grado di variabilità e contingenza. Si potrebbe dire: esso illustra bene quella indeterminatezza che, a giudizio di Wittgenstein, affetta a un tempo la vita e il linguaggio. Infine, ma non ultimo per importanza: a proposito dei fenomeni transizionali, decade l'alternativa canonica tra innato e acquisito, vigendo invece un modello paradossale: «Il bambino crea un fenomeno, ma questo fenomeno non sarebbe stato

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creato se non fosse stato già là» (ibid., p. 138); qualcosa che esisteva per suo conto, viene però reinventato ex novo. Ciò vale per il gioco, ma anche, in tutta evidenza, per l'attività locutoria. Il linguaggio, in quanto organo biologico della prassi pubblica, è il più ragguardevole e diffuso fenomeno transizionale.

6. Senza copione Il pianista suona un valzer di Chopin, l'attore recita le celebri battute del Giulio Cesare di Shakespeare, il ballerino si attiene a una coreografia che non lascia granché al caso. Gli artisti esecutori si giovano, insomma, di uno spartito ben definito. Non danno vita ad alcun oggetto indipendente, ma ne presuppongono pur sempre uno (il valzer, il dramma ecc.). Diversamente stanno le cose per il parlante. Egli non ha un copione determinato su cui far conto. A guardar bene, il paragone saussuriano è calzante solo nella sua parte implicita: il locutore come musico; non in quella apertamente formulata: la lingua come sinfonia. Mentre una sinfonia è un prodotto articolato in ogni dettaglio, insomma un atto compiuto tempo addietro (da Beethoven, mettiamo), la lingua cui si rifà la prestazione virtuosistica del parlante consiste piuttosto in una semplice potenzialità, senza battute prefissate né parti dotate di autonoma consistenza, trattandosi piuttosto, come Saussure stesso ha insegnato, di «un plesso di differenze eternamente negative», ogni frammento del quale è definito soltanto dalla sua «non-coincidenza con il resto» (Saussure 1922, p. 143). Colui che discorre, non solo non crea un'opera che sia distinguibile dall'esecuzione, ma neanche può ancorare la propria prassi a un'opera pregressa, da far rivivere mediante l'esecuzione. L'assenza di un prodotto a sé stante si dà a vedere tanto alla fine che al principio della performance-enunciazione. Duplice è, dunque, il virtuosismo del parlante: oltre a non lasciare tracce dietro di sé, non dispone neppure di una traccia preliminare cui conformarsi. Anche per questo il parlante costituisce il caso più radicale e paradigmatico di artista esecutore. La prassi linguistica, due volte senza opera, ha per unico spartito l'amorfa potenza di parlare, il puro e semplice poter-dire, la voce significante. Se la bravura del mattatore sta nel trascorrere nel modo più

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congruo e incisivo dall'atto-copione all'atto-recitazione, la sagacia del parlante si evince dal modo in cui articola ogni volta da capo la relazione tra potenza e atto. Proprio tale relazione, del resto, contraddistingue ciò che abbiamo chiamato il «virtuosismo naturalistico». Quest'ultimo consiste, infatti, nel modulare con esecuzioni fini a se stesse l'indeterminatezza potenziale della vita-linguaggio. Il fatto che lo spartito cui ricorre sia una mera potenza (dynamis), anziché un copione dettagliato e univoco, allontana l'attività del parlante da quella degli altri artisti esecutori, ma la rende ancora più prossima alla nozione aristotelica di prassi. Discussa nel libro VI dell'Etica a Nicomaco, la secca biforcazione tra prassi etico-politica e lavoro trova però il suo fondamento in due diverse modalità del rapporto potenza/atto, esaminate nel libro IX della Metafisica. Aristotele distingue gli atti che si limitano a esibire la potenza loro corrispondente, e sempre vi fanno ritorno in un processo circolare, dagli atti che se ne distaccano secondo una progressione unidirezionale, destinata a esaurirsi unavolta conseguito l'uno o l'altro scopo estrinseco. In alcuni casi il fine ultimo è l'esercizio stesso della facoltà (per esempio, il fine della vista è la visione, e non vien prodotta alcuna opera diversa dalla vista); invece, in altri casi vien prodotto qualcosa (per esempio, dall'arte del costruire deriva, oltre che l'azione del costruire, la casa) [... ]. In quei casi in cui non ha luogo qualche altro prodotto oltre all'attività, l'attività è negli agenti medesimi: per esempio, la visione è in colui che vede, il pensiero è nel pensante, la vita è nell'anima (Met., IX, ro5oa 23, ro5ob).

Gli atti che eseguono sempre di nuovo la potenza-spartito sono azioni; quelli che prendono congedo dalla potenza-preme~sa, attingendo un fine diverso dall'esercizio della facoltà, sono piuttosto kineseis, semplici movimenti. Il locutore, che ha per repertorio soltanto la naturale potenza di parlare, non si discosta mai da quest'ultima. La mette in scena, la fa risuonare, la saggia, senza però procedere alla volta di qualcos'altro. Per questo il locutore non compie movimenti, ma azioni, Il paradossale «copione» del parlante è la potenza di dire, ossia ciò da cui dipende l'esistenza di qualsiasi copione particolare. Occorre precisare, tuttavia, che la potenza-spartito si suddivide in due specie distinte: la lingua storico-naturale e la facoltà di lin-

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guaggio. L'atto di parole, ossia la prestazione virtuosistica, esegue sia l'una sia l'altra, all'unisono: ma si tratta nondimeno di forme diverse di dynamis. La lingua, segnata da vicissitudini sociali e culturali, è un illimitato repertorio di atti linguistici potenziali: si pensi, per esempio, all'insieme di frasi d'amore componibili a partire dal peculiare sistema fonetico, lessicale, grammaticale dell'italiano o del turco. La facoltà di linguaggio, dotazione biologica comune all'intera specie, non equivale in alcun modo, invece, a una classe (seppure indefinita ed espansiva) di enunciati eventuali, ma fa tutt'uno con la generica capacità di enunciare. Mentre la lingua anticipa da presso, nella forma e nel contenuto, gli atti concreti che il parlante può compiere, la facoltà è informe e contenutisticamente vuota: essa sì pura potenza indeterminata, sempre eterogenea rispetto a ciascun atto precisabile. L'esecuzione dello spartito-lingua si rapprende nel contenuto semantico dei nostri enunciati, nel loro messaggio comunicativo, in breve in ciò che si dice. Viceversa, lo spartito-facoltà si dà a vedere nella stessa azione di proferire alcunché rompendo il silenzio, insomma nel/atto che si parla (cfr. infra, cap. 2). I due spartiti di quell'artista esecutore che è l'animale linguistico sono sempre concomitanti e indisgiungibili. Tuttavia, all'interno del discorso effettivo, è l'uno o l'altro a godere di maggiore visibilità. Lo spartitolingua è senza dubbio preminente ogni volta che l'attenzione va al messaggio comunicativo dell'enunciato. Vi sono però occasioni in cui ciò che si dice non ha alcuna importanza, mentre decisivo risulta il fatto stesso di parlare, di mostrarsi allo sguardo altrui come sorgente di enunciazioni. Ecco, quando si comunica che si sta comunicando (ossia quando conta soltanto l'azione di enunciare, non il testo determinato dell'enunciato), allora diventa letteralmente vero che «il fine ultimo è l'esercizio stesso della facoltà». 7. Excursus sul teatro. La scena e le virgolette

L'arte esecutoria più vicina alla comune esperienza del parlante è, senza alcun dubbio, il teatro. Nella fatica del guitto convivono giustapposti, e talvolta indiscernibili, il particolare virtuosismo richiesto dalla recitazione sul palcoscenico e il virtuosismo universale

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che innerva da un capo all'altro la prassi linguistica dell'Homo

sapiens. L'attore riproduce, in un ambito ben perimetrato e servendosi di tecniche specialistiche, ciò che ogni locutore, ossia ogni uomo d'azione, già sempre fa: rendersi visibile ai propri simili. Chi recita, agisce parlando. Ma chi agisce parlando, recita? È, questa, una domanda meno frivola di quanto possa sembrare di primo acchito. Anziché limitarsi a considerare la prestazione dell'attore alla luce degli usi linguistici ordinari, occorre procedere anche in senso inverso, ipotizzando che la messa in scena di un dramma contribuisca a chiarire alcuni aggrovigliati problemi della filosofia del linguaggio. Merita attenzione, insomma, la teatralità insita in qualsiasi discorso, per sciatto o maldestro che sia. Oltre che arte empiricamente determinata, il teatro costituisce, forse, una forma a priori che struttura e qualifica l'intera attività verbale. Un fatto molto concreto e molto circoscritto, qual è per l'appunto la recitazione professionale, esibisce nel modo più immediato certe condizioni di possibilità dell'esperienza linguistica in genere: di esse, anzi, è il vivido diagramma. Tra le numerose nozioni specificamente teatrali che possono ambire al ruolo di concetti-guida per una riflessione sul linguaggio in quanto prassi, ne estrapolo, qui, solo due: a) l'esistenza di una scena, ossia di un'area delimitata che assicura piena visibilità alle vicende rappresentate; b) le virgolette entro le quali è racchiuso tutto ciò che si dice nel corso dello spettacolo. Sia la scena che le virgolette sono prerogative ineliminabili delle azioni umane, non semplici espedienti per imitarle dinanzi a un pubblico pagante. a) Quali che siano i suoi gesti (un bacio o una pugnalata proditoria) e i suoi discorsi (monologhi sconsolati o briose seduzioni), l'attore usufruisce di uno spazio in cui gli uni e gli altri risultano sempre palesi. Questo spazio è la scena. In essa non vi è posto per la riservatezza delle rappresentazioni mentali. Tutto ciò che vi accade è manifesto, avvolto da pubblica luce. Il palco e le quinte sono il presupposto trascendentale di ogni dramma o commedia, la condizione che ne consente lo svolgimento. La scena conferisce alle azioni il rango di fenomeni, giacché le fa apparire. Offre dunque una soluzione, umile ma efficace, al problema cruciale della fenomenologia di Husserl: distinguere il particolare ente visibile dalla visibilità come tale, il contenuto di un fenomeno dal phainesthai

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rivelatore che lo rende tale. Lo spazio in cui si svolge la rappresentazione non coincide con la somma dei fatti e dei discorsi che ospita, essendo bensì il requisito che garantisce loro la svelatezza. Le battute pronunciate dall'attore attirano gli sguardi, ma è la scena a istituire l'appariscenza di tutto quel che di volta in volta appare. Nella comune prassi linguistica, a far le veci del palco teatrale è l'enunciazione. A patto di intendere il termine nella specifica accezione suggerita da Benveniste: «il nostro oggetto è l'atto stesso di produrre un enunciato e non il testo dell'enunciato» (Benveniste 1970, p. 97). La scena di cui si giovano tutti coloro che agiscono verbalmente consiste nella semplice presa di parola. La visibilità del locutore dipende dalla «conversione del linguaggio in discorso» (ibid., p. 98), non dai contenuti e dalle modalità di quest'ultimo. A dischiudere lo spazio dell'apparenza, in seno al quale ogni evento guadagna lo status di fenomeno, è il transito dal puro poter-dire («prima dell'enunciazione non vi è che la possibilità della lingua» [ibid., p. 99]) all'emissione di una voce significante. L'azione di enunciare, ossia il passaggio dalla potenza all'atto, è attestata, all'interno dello stesso enunciato in atto, da alcuni vocaboli strategici: i deittici «io», «questo», «qui», «ora». Secondo Benveniste (1956, pp. 302-04), tali parolette si riferiscono unicamente alla «situazione di discorso» che proprio esse hanno creato. «lo» è colui che sta parlando, qualunque cosa dica; se si vuole, è l'attore distinto dal personaggio. «Qui» e «ora» indicano il luogo e il momento dell'enunciazione, lo spazio e il tempo della messa in scena. «Questo» fa segno a tutto ciò che attornia il locutore sotto le luci della ribalta. L'enunciazione «introduce colui che parla nella propria parole» (Benveniste 1970, p. 99); lo introduce, cioè, nella parte che si accinge a recitare. In Vita activa, Hannah Arendt mette in risalto due tratti caratteristici della praxis umana: cominciare qualcosa di nuovo, non prescritto da alcuna catena causale; rivelare sé agli altri uomini. L'incipit contingente e inatteso, simile a una «seconda nascita», costituisce l'azione in senso stretto; l'autoesibizione rivelatrice si radica, invece, nel discorso con cui l'agente rende conto di quel che fa (Arendt 1958, pp. 127-32). A ben vedere, però, entrambi gli aspetti individuati da Arendt sono già presenti nella sola espe-

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rienza linguistica. Purché si distingua, con Benveniste, l'azione di enunciare dal testo dell'enunciato (o, come proposto poc'anzi, la «scena» dal «dramma»). Chi prende la parola dà avvio, ogni volta da capo, a un evento unico e irripetibile. Utilizzando il lessico concettuale di Arendt, si potrebbe dire: l'atto di rompere il silenzio è l'inizio della rivelazione. Il mero proferimento, di per sé privo di contenuti, procura però la massima visibilità a tutto ciò che il locutore dirà o farà: ai suoi racconti gremiti di sfumature, ma anche ai suoi gesti muti. b) Quando l'attore confessa un segreto increscioso, o insulta l'amante fedifraga, o descrive un uragano, le sue parole somigliano a citazioni. Non le usa realmente, quelle parole, ma si limita a menzionarle. Se declamate sulla scena, le battute di un dialogo sono sempre tra virgolette. Si badi: lo sarebbero anche se non fossero tratte da un'opera letteraria, ma costituissero il frutto della più sfrenata improvvisazione. È la scena come tale a privare le frasi pronunciate della loro abituale funzionalità. Le virgolette esprimono il rapporto tra spazio dell'apparenza (palco e quinte) e ciò che in esso appare (dramma), condizione trascendentale della rappresentazione ed eventi rappresentati, enunciazione e testo dell'enunciato, azione di prendere la parola e particolare messaggio comunicativo. È evidente, però, che questo rapporto travalica l'ambito angusto della recita teatrale, riguardando piuttosto la prassi verbale nel suo complesso. Non è un caso se Gottlob Frege ricorre più volte al teatro per chiarire lo statuto degli enunciati che, pur essendo dotati di un senso (Sinn) intersoggettivo, difettano tuttavia di una denotazione (Bedeutung) accertabile. Un esempio solo: «Sarebbe desiderabile disporre di una espressione speciale per indicare i segni che debbono avere solo un senso. Se, per esempio, convenissimo di chiamarli "figure", allora le parole dell'attore sulla scena sarebbero figure, anzi l'attore stesso sarebbe una figura» (Frege 1892, p. 384; cfr. anche Id. 1918, pp. 50 sgg.). Là dove manchi la «ricerca della verità», ossia un preminente interesse per la corrispondenza biunivoca tra parole e cose, le nostre locuzioni sono «figure» teatrali, Sinn senza Bedeutung, testi racchiusi tra virgolette. Non troppo diverso è il giudizio di Husserl sulle «espressioni senza segnale», cioè sugli enunciati sprovvisti di valore informativo: quando li si

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proferisce, «non si fa altro che rappresentare se stessi come persone che parlano e comunicano» (Husserl 1900-01, p. 303). Ma rappresentare se stessi come persone che parlano, non significa forse mettersi in scena, recitando le proprie frasi quasi fossero le battute di un copione? Non implica forse, questa teatrale autoesibizione, il passaggio dall'uso effettivo di un certo enunciato alla mera menzione di esso? Per capire se l'impiego delle virgolette sia una eccezione, come sembrano ritenere Frege e Husserl, o una caratteristica basilare del discorso umano, conviene ragionare all'incontrario, chiedendosi cioè in quali casi si possa espungere senza inconvenienti l'imbarazzante segno grafico. I nostri enunciati cessano di essere «figure» teatrali a due condizioni, solidali tra loro. La prima sta nel dare esclusivo rilievo alla funzione cognitiva del linguaggio, velando provvisoriamente la sua autentica natura di prassi. La seconda consiste nel separare ciò che si dice (contenuto semantico) dal fatto che qualcuno ha preso la parola (enunciazione), ovvero nel postulare l'autonomia del «dramma» rispetto a qualsivoglia «scena». Allora, certo, delle virgolette non resta più traccia. Ma queste due condizioni sono, esse sl, eccezionali e artificiose. Il linguaggio verbale è innanzitutto azione, praxis, solo in modo parziale e derivato cognizione, episteme. Per altro verso, il testo di un enunciato rimanda sempre all'atto di produrlo, cosl come la rappresentazione presuppone sempre un palco e delle quinte. Anomala, o quanto meno transitoria e reversibile, è l'assenza delle virgolette. L'attività linguistica non è definita dagli scopi estrinseci che di volta in volta le accade di perseguire: neanche, sia chiaro, dallo scopo di accrescere la conoscenza scientifica. Omettere le virgolette non è cosa diversa dal privilegiare per un momento l'uno o l'altro fine occasionale dei nostri discorsi. Mantenerle, riconoscendo anzi il loro carattere originario, significa invece restare fedeli al funzionamento effettivo del linguaggio. Le virgolette segnalano, infatti, la naturale arbitrarietà delle regole linguistiche, nonché la conseguente inseparabilità di mezzo e fine, esecuzione e risultato, uso e menzione. Non stravagante, ma costitutiva e inestirpabile è la teatralità della prassi verbale umana. Considerati di per sé, dunque come qualcosa che attiene al «vivere bene in senso totale», gli enunciati che proferiamo sono sempre «figure» (nel-

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l'accezione di Frege), Sinn ancora svincolato da una Bedeutung. E gli agenti-locutori, qualsiasi cosa dicano, non mancano mai di «rappresentare se stessi come persone che parlano e comunicano».

8. Animale linguistico, animale politico Ricapitoliamo. La petformance del ballerino o del violinista è una attività senza opera, manca di uno scopo esterno, implica necessariamente la presenza altrui. Queste caratteristiche salienti si attagliano anche al discorso verbale e alla prassi etico-politica. Di più: il linguaggio e la cura degli affari comuni costituiscono addirittura la matrice, o il prototipo universale, dell'attività senza opera. Il virtuosismo tecnico del musico e del danzatore si limita a illustrare, peraltro in modo lacunoso e posticcio, il basilare virtuosismo naturalistico di cui dà sempre prova l'animale umano alle prese con lo «spazio potenziale» tra mente e mondo. All'artista esecutore va riconosciuto, tuttavia, un merito grande. Poiché evoca in un colpo solo tanto l'abilità del parlante, quanto l'avvedutezza (phronesis) di chi agisce nella sfera pubblica, la sua prestazione offre un prezioso anello di congiunzione tra le due celebri definizioni aristoteliche del1' Homo sapiens: «animale che ha linguaggio» e «animale politico». Queste formule non suscitano problemi di sorta finché ci si balocca con l'idea che la seconda sia subordinata, o tutt'al più complementare, alla prima. Risultano assai meno innocue, però, se si percepisce la loro piena sinonimia, ovvero la tautologia cui esse danno luogo qualora le si enunci l'una dopo l'altra. Gli autori che hanno concepito il linguaggio come produzione (poiesis) o cognizione (episteme), strumento sociale o interiore patrimonio della mente, ammettono senza patemi d'animo che I' animale linguistico può essere anche, talvolta, un animale politico. Ma non sospettano neppure per un momento, costoro, che le due definizioni sono coestensive, indiscernibili, logicamente equivalenti. Anziché discettare pigramente sugli usi politici della parola, occorre mettere a fuoco l'intrinseca politicità del linguaggio. Quest'ultima diventa manifesta non appena si ravvisi la robusta parentela che unisce il parlante all'artista esecutore; o meglio, non appena si riconosca che il discorso articolato è innanzitutto una praxis virtuosistica il cui «fine ultimo è I' esercizio stesso della facoltà».

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La politica non è una forma di vita tra le altre, correlata a uno specifico gioco linguistico, come credono certi wittgensteiniani troppo morigerati. Essa non mette radici in una regione circoscritta dell'attività verbale, ma fa corpo con lo stesso avere linguaggio. Una e medesima è la configurazione biologica che consente di parlare e spinge ad agire politicamente. L'indole politica dell'eloquio umano rappresenta, semmai, il presupposto unitario su cui poggiano sia le diverse forme di vita sia i molteplici giochi linguistici (tra i quali spiccano per importanza, certo, i giochi linguistici cognitivi e quelli produttivi). Studiare il linguaggio come organo biologico della prassi pubblica non è un compito marginale, cui attendere nell'ora di ricreazione dopo che il lavoro duro è ormai terminato, bensl il fulcro di ogni indagine sulla natura umana. Uno studio siffatto riguarda le fondamenta, non l'arredamento. Per intendersi: si colloca allo stesso livello della ricerca di Chomsky sulla grammatica universale, o della riflessione di Saussure sulla bifaccialità del , segno. Non ha invece nulla a che vedere, questo studio, con la militanza anarchica di Chomsky (ammirevole, ma scissa dalla sua teoria linguistica), né, tanto meno, con le vaghezze stucchevoli di cui va fiera la sociologia della comunicazione. L'animale che ha linguaggio è di per sé, senza bisogno di aggiungere altro, un animale politico. Tutto il resto conta, come no, ma viene dopo. Per dirla con un famoso generale francese: l'intendance suivra.

2.

Il performativo assoluto

l .

Ciò che si dice e il fatto che si parla

In ogni enunciato coesistono due aspetti fondamentali, simbiotici e però ben distinti: a) ciò che si dice, il contenuto semantico espresso dall'enunciato grazie a certi suoi peculiari caratteri fonetici, lessicali, sintattici; b) il fatto che si parla, l'aver preso la parola rompendo il silenzio, l'atto di enunciare in quanto tale, l'esposizione del locutore agli occhi degli altri. Risulta particolarmente appropriata, qui, l'immagine saussuriana di un unico foglio di carta, dotato di due facce inseparabili, ciascuna delle quali implica l'altra e ne è implicata. Ma in che cosa consistono, di preciso, il recto e il verso del foglio? Ciò-che-si-dice comprende in sé l'intero rapporto ti:a langue e parole, tra le opportunità espressive offerte dal sistema di una lingua storico-naturale e la loro realizzazione selettiva in un concreto proferimento. Il fatto-che-si-parla rimanda invece al terzo polo della nostra esperienza linguistica, enucleato di sfuggita da Saussure: la faculté de langage, ovvero la generica potenza di enunciare, indipendente da ogni lingua determinata. È noto che Saussure, dopo averla menzionata proprio all'inizio del Cours, espunge lafaculté dal suo progetto scientifico, giudicandola un inestricabile coacervo di elementi fisiologici e biologici (Saussure 1922, pp. 19 sg.). In tal modo, però, egli rinuncia a considerare da vicino ciò che nell'eloquio umano è propriamente dynamis, potenza. Questo lato soltanto potenziale - e, insieme, biologico - è il linguaggio distinto dalle lingue storico-naturali. Mentre la langue appartiene pur sempre all'am-

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CAPITOLO SECONDO

bito dell'attualità, giacché si risolve in un insieme indefinito di atti eventuali (eventuali perché non ancora eseguiti, ma pur sempre atti per forma e contenuto), lafaculté è vuoto poter-dire, mai equiparabile a una serie di esecuzioni ipotetiche. Il fatto-che-si-parla non· può essere assimilato né all'atto comunicativo realmente in corso (atto di parole), né alla sua prefigurazione virtuale in seno al sistema-langue: esso attesta piuttosto, all'interno di un singolo enunciato, che si ha facoltà di enunciare, che vi è potenza di dire. La presa di parola, inseparabile da un dictum particolare, esibisce la pura e semplice dicibilità, scevra di ogni contenuto circostanziato. Facoltà da una parte, lingua e parola dall'altra: ecco i due lati inscindibili dell'unico fogli~. Non è difficile riconoscere che molte coppie filosofiche, cruciali o almeno magniloquenti, hanno il proprio umile fondamento materiale nelle due facce dell'enunciato: empirico ciò-che-si-dice (anche se disquisisce di demoni digrignanti, il testo di un enunciato è, comunque, in sé, un oggetto confitto nello spazio e nel tempo), trascendentale il fatto-che-si-parla (condizione di possibilità di ogni testo determinato); ontico il primo (prodotto particolare della nostra competenza linguistica), ontologico il secondo (giacché comprova l'esistenza stessa di tale competenza). Ciascuno dei due aspetti adombra, inoltre, una diversa relazione tra linguaggio e mondo. Ciò-che-si-dice rappresenta o istituisce stati di cose del mondo: «la stella del mattino è, in realtà, il pianeta Venere», «ti amo», «quel sasso è cosl spigoloso da far male agli occhi» ecc. Il fatto-chesi-parla mostra, invece, l'inserzione del linguaggio medesimo nel mondo, inteso stavolta quale contesto o sfondo di tutti gli stati di cose e di tutte le enunciazioni. Profittando di una celebre distinzione di Wittgenstein, si potrebbe dire: il contenuto semantico dà ragguagli su come è il mondo; l'azione di enunciare indica piuttosto, nel momento in cui vi si inscrive, che il mondo è (cfr. Wittgenstein 1922, prop. 6.44). r. r. Il duplice carattere dell'enunciato implica, però, anche un'altra biforcazione concettuale: meno roboante di quelle cui si è appena accennato, ma forse non del tutto trascurabile. Mentre ciòche-si-dice dispiega l'attitudine cognitivo-comunicativa del linguaggio umano, il fatto-che-si-parla ne manifesta il carattere rituale. Non si allude, qui, a una ritualità accidentale, che prorompa in

IL PERFORMATIVO ASSOLUTO

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certe specifiche occasioni per poi svaporare alla svelta, ma all'indole rituale di ogni nostro discorso. Non è in questione soltanto la parola del rito, ma la ritualità insita in qualsiasi (presa di) parola. Il recto e il verso del foglio possono essere raffigurati anche nel modo seguente: cognitivo/rituale. Come non vi è un testo determinato (ciò-che-si-dice) separabile dall'atto di produrlo (il fattoche-si-parla), cosl non vi è alcuna prestazione cognitiva e comunicativa che sia esente da una tonalità rituale. Non si tratta certo di applicare al linguaggio l'una o l'altra nozione consolidata di rito, ma, all'inverso, di cogliere la radice stessa del rito nel fatto-che-si-parla. Tutti i singoli atti rituali (compreso il contratto truffaldino o la scommessa alle corse dei cavalli) sono effettivamente tali proprio e soltanto perché si prende la parola. Si obietterà che molto spesso la ritualità dipende soprattutto da ciò-che-si-dice, dunque da precisi contenuti enunciativi. È senz'altro vero: ma è facile constatare che, in questi casi, ciò-chesi-dice ha sempre per oggetto il fatto-che-si-parla, che i particolari contenuti enunciativi si limitano a elaborare cognitivamente l'atto stesso di enunciare, o traggono da esso valori simbolici e conseguenze operative di ogni sorta. Gli enunciati strettamente rituali articolano nei modi più vari, con il proprio testo, il «fatto» che si sta producendo un testo. Questo «fatto» sta a fondamento della ritualità in genere, di quella ritualità che avviluppa anche gli enunciati rigorosamente non rituali, per esempio quelli scientifici. Il fatto-che-si-parla fonda, e a un tempo esibisce, il carattere rituale dei nostri discorsi. Ma, se cosl è, che cosa dobbiamo intendere per rito? Quale ne è la definizione perspicua? Come sappiamo, il fatto-che-si-parla rimanda alla faculté de langage gremita di elementi fisiologici e biologici, ovvero attesta il generico poter-dire in un singolo dictum semanticamente determinato. Si potrebbe ipotizzare, quindi, che il rito celebri sempre di nuovo la distinzione tra faculté e langue, linguaggio e lingua. E poiché il linguaggio distinto dalle lingue storico-naturali esiste soltanto come dynamis biologica, si potrebbe anche dire che il rito mette in luce, all'interno di un atto linguistico ben definito, lo scarto tra potenza e atto. Rituale, alla fin fine, è l'esperienza empirica del trascendentale, l'evocazione discorsiva della disposizione biologica sottostante a ogni discorso umano. Fin qui la trama obiettiva del rito, o almeno alcuni dei

CAPITOLO SECONDO

fili che concorrono a imbastirla. È evidente, però, che bisogna tenere in massimo conto quel che accade al soggetto officiante: il rito, infatti, è una prassi, non una indagine concettuale. La produzione di un enunciato (non il suo testo) consente al locutore di manifestarsi, lo rende letteralmente visibile. «Parla, affinché io possa vederti», ha scritto una volta Lichtenberg (1778, p. l 19). Con la semplice emissione della voce articolata - o anche, ma è lo stesso, collocandosi sulla soglia tra linguaggio e lingua - il parlante diventa un fenomeno, qualcosa cui compete il phainesthai, l'apparire (cfr. supra, cap. l). Si espone cioè agli occhi degli altri. E proprio in tale esposizione consiste l'inconfondibile opera del rito.

2.

Comunicare che si sta comunicando

IUato prominente del foglio-enunciato, quello cui subito corre la nostra attenzione, è costituito di solito da ciò che si dice. Il/atto che si parla resta invece per lo più inavvertito. Benché sia presente in ogni eloquio, o forse proprio per questo, esso non ha un autonomo rilievo. Il fatto-che-si-parla è il presupposto misconosciuto, o lo sfondo inappariscente, di ciò-che-si-dice; la presa di parola è al servizio del messaggio comunicativo. Vi sono tuttavia giochi linguistici in cui il consueto rapporto tra sfondo e primo piano si capovolge; giochi linguistici, dunque, in cui quel che più conta è il fatto-che-si-parla, mentre ciò-che-si-dice sbiadisce, riducendosi a mero espediente o tramite ancillare. Si vorrebbe vagliare, qui, questo capovolgimento tra recto e verso, in base al quale il contenuto semantico figura talvolta come un semplice segnale della presa di parola e l'enunciato significa in primo luogo che si sta producendo un enunciato. Detto altrimenti: interessano, qui, i concreti proferimenti in cui la relazione langue-parole si limita a indicare lafaculté de langage. Lungi dal costituire una bizzarria marginale, essi offrono il destro per affrontare questioni logiche, ma anche etiche, di assoluta rilevanza. Molteplici sono le tecniche per far dimenticare, o mettere tra parentesi, il contenuto semantico dell'enunciato, dando proprio cosl il massimo risalto al fatto stesso di enunciare. La ripetizione meccanica della stessa frase (si pensi all'ecolalia che pervade ogni

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conversazione ordinaria, non solo alle sue manifestazioni infantili o patologiche) appanna - ma sarebbe meglio dire, in gergo non casualmente rituale: sacrifica - il messaggio comunicativo, lasciando campo libero ali' evento costituito dalla presa di parola. Ciò vale anche per le formule stereotipate come «buongiorno» o «How are you?». Si pensi, in generale, alla cosiddetta comunicazione fàtica: in essa, gli interlocutori nulla dicono, se non che stanno parlando («Pronto, pronto», «Sì, ci sono»); e nulla fanno, gli interlocutori, se non rendersi visibili, esporsi agli occhi degli altri. Scrive Bronislaw Malinowski, in un saggio dedicato alle comunità primitive, che ben si attaglia, però, anche alla chiacchiera informatica delle metropoli contemporanee: «Nella comunicazione fàtica, le parole vengono forse essenzialmente impiegate per trasmettere una significazione, la significazione che è simbolicamente quella loro propria? Certamente no. Esse adempiono una funzione sociale e questo è il loro scopo principale» (Malinowski rs)23, p. 355). Le opinioni talora espresse sfoggiano apertamente la propria infondatezza e volatilità; anziché testi dotati di peso specifico, sono pretesti il cui solo scopo è attirare l'attenzione sull'atto di proferire eseguito da un certo parlante. La funzione fàtica interdice un reale scambio di informazioni, interrompe o differisce la propagazione di messaggi definiti, atrofizza l'uso descrittivo del linguaggio. L'enunciato si riferisce soltanto al fatto che qualcuno lo ha prodotto. Non rispecchia stati di cose del mondo, ma configura esso stesso un evento: un evento sui generis, però, dato che consiste unicamente nell'inserzione del ù ' discorso nel mondo. Scrive ancora Malinowski: «E evidente che la situazione esteriore non entra direttamente nella tecnica della parole. Ma cosa si può intendere come situazione quando alcune persone chiacchierano tra loro senza uno scopo preciso?[ ... ] L'intera situazione consiste in avvenimenti linguistici» (ibid.). La presa di parola ritorna su se stessa, appagata dal proprio compimento, senza millantare un oggetto peculiare né una peculiare finalità. L'esposizione agli occhi degli altri richiede, come condizione ottimale, la rarefazione dei messaggi. Non si tratta però di un vuoto assoluto: l'assenza di un dictum circostanziato e rilevante permette di comunicare quella generica comunicabilità su cui fa conto ogni dictum.

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2. r. La funzione fàtica mette implicitamente in risalto il fattoche-si-parla, a discapito di ciò-che-si-dice. Ora chiediamoci: è possibile rendere del tutto esplicito ciò che la funzione fàtica (al pari di altre forme discorsive su cui ci soffermeremo più avanti) compie di soppiatto? In altri termini: è possibile estrapolare il fatto-chesi-parla, ossia un aspetto fondamentale di qualsiasi enunciato, esprimendolo con un enunciato a sé stante? Ovviamente sl. Basta dire: «lo parlo».

3. Che cos'è un performativo assoluto

John L. Austin chiama performativi enunciati quali «Prendo questa donna per mia legittima sposa», «Battezzo Luca questo bimbo», «Giuro che verrò a Roma», «Scommetto mille lire che l'Inter vincerà lo scudetto». Chi li proferisce, non descrive un'azione (un matrimonio, un battesimo, un giuramento, una scommessa), ma la esegue. Non parla di ciò che fa, ma fa qualcosa parlando. Anche «lo parlo» realizza un'azione mediante le parole. Null'altro segnala, infatti, se non l'atto di enunciare che esso stesso sta compiendo. Ci troviamo dunque dinanzi a un genuino enunciato performativo. Sennonché, nel caso specifico di «lo parlo», l'azione realizzata·soltanto con le parole consiste unicamente ... nel parlare. Ci troviamo dinanzi a un performativo, ma, bisogna aggiungere, a un performativo anomalo, di cui balza agli occhi la radicalità. I suoi confratelli più domestici, per esempio «Ti perdono» o «Ti ordino di andartene», danno luogo a un fatto nel momento stesso in cui sono pronunciati, ma, osserva Austin, il fatto cui danno luogo «non viene normalmente descritto come, o soltanto come, dire qualcosa» (Austin 1962, p. 9). Dire qualcosa è l'immancabile presupposto, o il mezzo necessario, del perdonare, dell'ordinare, del contrarre matrimonio, del tenere a battesimo, ma non è il contenuto definitorio di tali azioni. Per quanto riguarda «lo parlo», invece, ciò che si fa pronunciando queste due parole non può essere descritto altrimenti che come puro e semplice dire qualcosa. Mentre «Ti perdono» o «Ti ordino di andartene» sono eventi prodotti tramite il linguaggio, «lo parlo» dà luogo esclusivamente all'evento del linguaggio. 3.r. L'enunciato «lo parlo» è il performativo assoluto. Perché assoluto?

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Anzitutto perché, proferendolo, si realizza proprio e soltanto l'azione - il prendere la parola, per l'appunto - che costituisce il presupposto celato di tutti i consueti enunciati performativi, ciò che permette loro di realizzare l'una o l'altra azione particolare. · Poi perché, dicendo «lo parlo», si esprime performativamente, dunque senza ricorrere ad asserzioni metalinguistiche, quell'atto di produrre un testo in cui consiste una delle due facce di ogni enunciato. «lo parlo» è un'azione vuota e indeterminata, come vuoto e indeterminato è il fatto-che-si-parla allorché sia scisso da ciò-chesi-dice. «lo parlo» è l'enunciato performativo che mette in luce la performatività dell'enunciare in generale. In terzo luogo, perché «lo parlo» è l'unico performativo la cui validità non dipende da specifiche condizioni extralinguistiche. Colui che ordina o battesima deve godere preventivamente di certe prerogative istituzionali: deve essere, per esempio, un generale o un prete. Non cosl colui che esegue l'azione di prendere la parola. Ma di questo, dopo (§ 6). Infine, perché soltanto «lo parlo» è integralmente autoreferenziale. Il performativo ordinario menziona l'azione compiuta mediante il suo stesso proferimento, ma non fa cenno a quest'ultimo. L'angolo cieco del movimento autoriflessivo è, qui, il fatto-che-siparla. «Prendo questa donna per mia legittima sposa» rinvia alla realtà prodotta col dire o nel dire, non alla realtà del dire. «lo parlo» si riferisce invece alla propria enunciazione come all'evento saliente che esso produce per il solo fatto di essere enunciato. Non si limita a compiere un'azione parlando, ma menziona il parlare come l'azione effettivamente compiuta. 3.2. «lo parlo» è il performativo assoluto. Bisogna ammettere, però, che le sue occorrenze effettive sono assai rare. Vi è, in esso, qualcosa di stravagante e inusuale. Almeno a prima vista, un enunciato siffatto sembra convenire solo a chi versa in una situazione eccezionale. A che cosa può servirci, dunque, un caso-limite? Perché trattenersi su un'anomalia? Il punto è che il performativo assoluto, e soltanto esso, dà conto in modo perspicuo delle innumerevoli forme discorsive in cui ciò-che-si-dice recede sullo sfondo, lasciando l'intero proscenio al fatto-che-si-parla. Per tenersi all'esempio già trattato: la struttura e la funzione della comunicazione fàtica risultano pienamente intelligibili solo alla luce di «lo parlo».

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Il performativo assoluto è l'autentica forma logica di tutti i giochi linguistici in cui il testo dell'enunciato rimandi perentoriamente' all'atto di enunciare. Muovendo da «lo parlo» si può quindi riconoscere a colpo sicuro la performatività implicita di questi giochi· linguistici, essi sì pervasivi e quanto mai rilevanti. Al di là della comunicazione fatica (richiamata prima a titolo introduttivo e orientativo), il performativo assoluto contrassegna in lungo e in largo almeno due ambiti cruciali, su cui ci si dilungherà in seguito: il linguaggio egocentrico infantile(§§ 8-ro), decisiva tappa ontogenetica dell'animale umano, e la parola religiosa(§§ u-13). Più in generale, il performativo assoluto è all'opera ogni qual volta emerge in piena vista il carattere rituale del nostro linguaggio. Prima di mostrare da vicino il concreto campo di applicazione di «Io parlo», occorre però precisarne con più cura lo statuto(§§ 4-7).

4. La struttura formale dell'enunciato «lo parlo»

Due glosse marginali a quanto appena detto. La prima verte sulla nozione di «atto locutorio» in Austin. La seconda utilizza l'analisi dei cosiddetti «verbi delocutivi» proposta da Emile Benveniste. Entrambe mirano unicamente a illustrare meglio, variando l'angolo prospettico, la natura dell'enunciato «lo parlo» (e dei suoi molteplici equivalenti impliciti). 4. I. Nel performativo assoluto viene in primo piano, e svolge un ruolo dirimente, il più dimesso e trascurato tra gli atti linguistici censiti da Austin: l' «atto locutorio». Esso coincide in tutto e per tutto con l'elementare azione di costruire un enunciato: «emettere certi suoni, pronunciare certe parole in U:na certa costruzione, e pronunciarle con un certo "significato"» (Austin 1962, p. 71). Merito indubbio di Austin è di aver considerato anche la semplice emissione di una voce significante un vero e proprio aito, anzi l'atto che non può mai mancare quando si fa qualcosa parlando. Tutt~via, l'imprescindibile azione di produrre un enunciato è menzionata da Austin al solo scopo di mettere in rilievo, per contrasto, la struttura ben altrimenti complessa degli atti linguistici che egli giudica davvero importanti: «Il nostro interesse per l'atto locutorio, naturalmente, è soprattutto volto a rendere abbastanza chiaro

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cosa esso sia, al fine di distinguerlo dagli altri atti dei quali ci occuperemo in modo preminente» (ibid.). L'«atto locutorio» figura, insomma, come un genere talmente vasto e ovvio da risultare corrivo; degne di interesse sembrano piuttosto alcune specie sfuggenti e paradossali, in primo luogo i performativi. La situazione muta radicalmente, però, allorché si dica «lo parlo». Questo enunciato, infatti, è senza dubbio un performativo, ma, si badi, un performativo che esegue esclusivamente un «atto locutorio» (e vi si riferisce mentre lo esegue). Si potrebbe anche dire: il performativo assoluto è l'atto locutorio che rende conto della sua stessa produzione. Il genere (emissione di una voce significante) diviene, qui, l'oggetto o l'obiettivo finale della specie (performativo). L'umile base di ogni azione linguistica esce dalla penombra in cui di solito è confinata, presentandosi come l'esito ultimo di un particolare, e sofisticato, atto compiuto con le parole. La premessa generalissima prende le sembianze di una conclusione acuminata. Il presupposto si tramuta in terminus ad quem. 4.2. Con un neologismo da lui stesso coniato, Emile Benveniste (r958c) chiama «delocutivi» (cioè: ricavati da una locuzione) i verbi che non derivano dal contenuto semantico di un sintagma nominale, ma dal suo reale proferimento. Anziché riprendere il significato del nome corrispondente, essi desigrnino l'atto di dirlo: rimandano dunque a una sonora enunciazione. Esempio: il verbo «salutare» non è tratto dal sostantivo latino:«salus», ma esprime l'azione consistente nel pronunciare la locuzione «salus! ». La sua veridica parafrasi è quindi «dire: "salute!"». Allo stesso modo, osserva Benveniste, «negare» equivale a «dire: "nec" »; il verbo francese «tutoyer» sta per «dire: "tu"» (ibid., p . .3.3.3). E cosl via. I verbi delocutivi palesano con esemplare nitore, già nella loro struttura formale, uno spostamento di peso tra ciò-che-si-dice e il fatto-che-si-parla: la relativa irrilevanza del testo va di pari passo con il primato conferito all'atto di enunciare. Scrive Benveniste: «li delocutivo si definisce non per il contenuto intenzionale, ma per la relazione formale tra una locuzione e un verbo che denota l'enunciato di tale locuzione. Il significat9 della locuzione ha poca importanza» (ibid., p . .340). Questo spostamento di peso accomuna i delocutivi ai verbi che innervano i consueti enunciati performativi: «giurare», «ordinare», «battezzare» ecc. Essi pure sono «ver-

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bi che denotano attività di discorso». Essi pure, quindi, si riferiscono all'effettivo proferimento di una locuzione. Ciò non implica, ovviamente, che tutti i delocutivi espletino una funzione performativa (qualcuno sl, tuttavia: per esempio «salutare», da cui l'enunciato «ti saluto» con cui si esegue un'azione parlandone). Quel che davvero importa è che i verbi performativi condividono con i delocutivi la costante logica «dire: ... ». «Giurare» significa «dire: "lo giuro"», battezzare «dire: "ti battezzo"» ecc., proprio come «negare» significa «dire: "nec" », « tutoyer» «dire: "tu"» ecc. Su questo sfondo si stagliano i caratteri distintivi del performativo assoluto. Esso porta alle estreme conseguenze il rovesciamento gerarchico tra ciò-che-si-dice e il fatto-che-si-parla. Soltanto il secondo aspetto sopravvive: con «lo parlo» si dice unicamente che si è presa la parola, il testo si limita a dichiarare che un atto enunciativo è in corso. I delocutivi e i performativi ordinari attribuiscono ancora un ruolo, sia pure indiretto e ridimensionato, al contenuto semantico: esso sussiste come variabile logica («salus! », «lo giuro» ecc.), destinata a completare la costante «dire: ... ». Il performativo assoluto, invece, adotta a mo' di variabile nient'altro che ... la stessa costante logica. «lo parlo» denota solo quella generica azione di enunciare che fa da premessa a ogni ulteriore «attività di discorso». Il puro «dire», sottratto a specificazioni quali «giurare», «salutare», «negare» ecc., ricompare anche alla destra dei due punti: costante e variabile a un tempo, per l'appunto. Proprio questa costipazione, del resto, è il segno evidente dell'incondizionata autoriflessività di «lo parlo». , Se il performativo assoluto potesse dar luogo a un verbo delocutivo, il significato di quest'ultimo sarebbe «dire: dico».

5. Per voce sola

Il performativo assoluto ha il suo fulcro nell'emissione di un suono articolato. Valorizza i tratti/isiologici della parola umana. Fa della voce una determinazione concettuale, del respiro un apice della logica. A ben vedere, nessuno degli abituali enunciati performativi può essere pensato in silenzio, o borbottato stenograficamente nel dia-

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logo dell'anima con se stessa. Per risultare efficaci, frasi come «Prendo questa donna per mia legittima sposa», «Scommetto un milione che l'Inter andrà in serie B», «Ti saluto», esigono una vocalizzazione completa e adeguata. Il proferimento ad alta voce è una condizione necessaria di ogni enunciato che miri a realizzare da sé solo una certa azione. Se «giurare» significa «dire: "lo giuro"», chi compie un giuramento deve produrre unflatus vocis: soltanto quest'ultimo, infatti, adombra la prima parte del significato di «giurare», ossia il «dire: ... ». Il performativo assoluto radicalizza oltre misura la faccenda. Nella comunicazione fàtica (nonché, come vedremo di qui a poco, nel linguaggio egocentrico infantile e nella parola religiosa), l'esibizione del fatto-che-si-parla è l'autentico scopo dell'enunciato. Ora, là dove sia svincolato da ciò-che-si-dice e valorizzato in quanto tale, il fatto-che-si-parla si rapprende unicamente, ma per intero, nell'emissione materiale di suoni articolati. Sicché, per il performativo assoluto la vocalizzazione non è solo una condizione necessaria (come per «giurare», «salutare», «scommettere» ecc.), ma anche il risultato eminente dell'azione intrapresa. Ciò che «lo parlo» e i suoi equivalenti impliciti realmente fanno coincide appieno con il flatus vocis. L'aspetto più rudemente fisiologico della presa di parola costituisce, qui, l'acme della significazione linguistica, la posta in palio della prassi comunicativa. La prestazione fonologica è il punto di arrivo della sapienza sintattica. Se è vero che il performativo assoluto dà conto dell'evento del linguaggio, della sua inserzione nel mondo, bisogna però precisare che, nel far ciò, esso mette capo all'occlusione e alla distensione del respiro. L'evento del linguaggio si compendia nel lavorio dell'epiglottide; la sua inserzione nel mondo balena in un peculiare movimento di aria. Se è vero che solo «lo parlo» è compiutamente autoreferenziale, bisogna però precisare che il suo autoriferimento non è lacunoso proprio perché risale fino alla radice biologica della parola. Il fatto-che-si-parla manifesta la faculté de langage, l'indeterminata potenza di dire, il linguaggio distinto dalle lingue storico-naturali. Sappiamo però che lafaculté è un'entità ibrida, costellata di elementi fisiologici e biologici. Per questo, in seno a un enunciato ben definito, la generica faculté è attestata soltanto dalla realtà ugualmente ibrida della voce significante. Si badi: è attestata dalla

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voce capace di significare, non dallo specifico significato cui essa dà luogo. La mera produzione di suoni articolati rispecchia il carattere a un tempo potenziale e fisiologico della facoltà di linguaggio. A proposito del rango eccezionale cui assurge la vocalizzazione nel performativo assoluto, sembra pertinente una osservazione incidentale di Wittgenstein: «qui il fisiologico è il simbolo del logico» (1953, p. 275; dr. infra, cap. 4, § 5). La scansione del respiro, le contrazioni del diaframma, l'urto della lingua contro i denti (il fisiologico, per l'appunto) rappresentano ogni volta da capo la potenza di parlare (il logico). 5. l. Ogni rito è legato a filo doppio al proferimento sonoro. L' emissione vocale non è un suggestivo corollario delle più varie cerimonie (giuramento, scommessa, perdono ecc.), ma il loro fondamento ultimo. Rituale è la voce in quanto simbolo della facoltà di linguaggio. Il rito illustra - in entrambi i sensi del vocabolo: mostrare e onorare - il nesso tra fisiologia e logica. La cerimonia della voce, ossia la presa di parola, rende visibile il locutore come portatore della potenza di dire. Strategico, anche se inelegante, è il termine «portatore». Frege ha chiarito a più riprese che il pensiero oggettivo, a differenza delle rappresentazioni psicologiche individuali, è indipendente da qualsivoglia «portatore»: tre più due continua a far cinque, anche se nessuno ci crede o lo dice (Frege 1918). Viceversa, l'enunciato «ho paura dei serpenti» è vero solo in riferimento al soggetto empirico che nutre la fobia in questione. Ebbene, la faculté de langage scompiglia la drastica alternativa fregeana. Pur non avendo alcunché da spartire con una rappresentazione psicologica, essa ha nondimeno bisogno di un sostrato individuale, ossia di un «portatore». In effetti, diversamente da ciò che è in atto, la potenza non usufruisce mai di un' esistenza autonoma; il fatto-che-si-parla mai può essere separato da un corpo vivente. Più universale della langue, la facoltà di linguaggio fa però tutt'uno con l'organismo del singolo locutore. La voce è rituale perché, simboleggiando la potenza di parlare, assicura la piena esposizione allo sguardo altrui del particolare corpo vivente cui questa potenza inerisce. Centrato com'è sull'emissione di suoni, il rito amministra a un tempo la fugace incarnazione della facoltà di dire, ossia del linguaggio al di qua delle lingue, e l'epifania di quel1' ente biologico che è il locutore.

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6. Ritualità del linguaggio, linguisticità del rito Austin afferma che i performativi, mai imputabili di falsità, possono però risultare infelici. L'enunciato «Prendo questa donna per mia legittima sposa» è votato all'infelicità, cioè al fallimento, se viene proferito in circostanze inappropriate: per esempio da un bigamo, o per celia, o in assenza della promessa sposa. Si tratti di un abuso (caso del bigamo) o di un colpo a vuoto (la formula matrimoniale recitata mentre l'amato bene fugge via con un altro uomo), certo è che l'azione da realizzare mediante le parole resta semplicemente ineseguita. Secondo Austin, gli enunciati performativi condividono il pericolo dell'infelicità con tutti gli atti «che hanno il carattere del rituale e del cerimoniale» (Austin 1962, p. 19). Un sortilegio voodoo, con tanto di spilloni conficcati nell'effigie del nemico, è nullo se compiuto da un ironico cultore di Diderot davanti agli studenti, come esempio di mentalità primitiva. L'infelicità riguarda l'intera classe delle azioni rituali, non importa se linguistiche o non linguistiche. I performativi sono afflitti, però, anche da un malanno affatto diverso: la vacuità. Vacuo, cioè inefficace, è l'enunciato «Giuro che domani verrò a Roma», qualora sia inserito in una poesia o proferito a mo' di citazione. Questo secondo difetto, dice Austin, alligna virtualmente in ogni enunciato, non importa se performativo o descrittivo. «l nostri performativi ereditano anche certi altri tipi di malattie che colpiscono tutti gli enunciati [... ]. Intendo, per esempio, questo: un enunciato performativo sarà in un modo particolare vacuo o nullo se pronunciato da un attore su un palcoscenico» (ibid., p. 2 l). In sintesi: in quanto appartengono alla classe degli atti rituali, i performativi rischiano l'in~elicità; in quanto appartengono alla classe degli enunciati, possono precipitare nella vacuità. Due pecche ben distinte, radicate in ambiti parzialmente eterogenei. È facile constatare che il performativo assoluto elude entrambi i pericoli. Non offre appigli all'infelicità. Se dico «lo parlo» (o un suo equivalente implicito), l'azione di parlare risulta sempre ecomunque realizzata. Non hanno alcun peso, qui, le circostanze e i ruoli sociali. Colui che compie questo atto linguistico, non solo ne

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ha la facoltà, ma agisce proprio allo scopo di esibirla. È esclusa per principio la possibilità di commettere un abuso o di incorrere in un colpo a vuoto. Inoltre, poiché esprime unicamente il fatto-che-siparla, il performativo assoluto è esente anche dal rischio della vacuità. Quando pronuncia la battuta «lo parlo», l'attore impe-, gnato a recitare un dramma sulla scena esegue realmente l'atto di enunciare: in modo non meno completo ed efficace di chi, refrattario a finzioni teatrali, pronunci l'identica frase in un certo frangente emotivo della vita quotidiana (dr. supra, cap. r, § 7b). 6. r. Perché mai i proferimenti verbali in cui è dato esclusivo risalto all'atto stesso di proferire sono immuni sia dalle debolezze che possono inficiare tutti i riti (compresi i performativi ordinari in quanto riti), sia dall'inefficacia che può minare tutti gli enunciati (compresi i performativi ordinari in quanto enunciati)? Per un ottimo motivo: perché il fatto-che-si-parla, ostentato come tale dal performativo assoluto, è, insieme, la condizione di possibilità di qualsiasi enunciato e la condizione di possibilità di qualsiasi rito. La presa di parola, immancabile base di ogni atto linguistico, non è lambita dagli inconvenienti cui va soggetto il testo di volta in volta elaborato. La medesima presa di parola, scaturigine della tipica ritualità dell'animale umano, non può mai essere, di per sé, un rito fittizio; non conosce circostanze inappropriate, giacché proprio essa è la «circostanza» ineludibile di ogni peculiare cerimonia. I performativi ordinari discussi da Austin cumulano i rischi dei riti e quelli degli enunciati perché, essendo in parte vincolati a ciò-chesi-dice, istituiscono un rito mediante uno specifico enunciato, o eseguono un enunciato che ha anche un particolare valore rituale. Il performativo assoluto, invece, sfugge a tali rischi perché si limita a celebrare quel rito fondativo che l'enunciare stesso, come tale, è. Il performativo assoluto dà a vedere, a un tempo, la ritualità del linguaggio e la linguisticità del rito. 7. Rievocare l'antropogenesi

Una volta escluse l'infelicità e la vacuità, resta da chiedersi, tuttavia, quale sia l'eventuale «difetto» del performativo assoluto. Una risposta verosimile è, forse, la seguente: mai nullo o inefficace, esso può risultare nondimeno ridondante, pleonastico, superfluo.

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È ovvio che non sempre sentiamo la necessità di privilegiare il fatto-che-si-parla in quanto tale; che solo raramente siamo disposti a mortificare ciò-che-si-dice, riducendolo a mero segnale dell'atto di enunciare. La comunicazione fàtica («Pronto, pronto», «Sl, ci sono»), in cui il locutore proclama soltanto di aver preso la parola, sembra talvolta stucchevole e opprimente. Allo stesso modo gli enunciati della mistica (corrispettivo sublime del triviale «Pronto, pronto»), poiché si limitano a mostrare l'evento del linguaggio, suscitano in certi momenti la medesima ripugnanza che di solito riserviamo a una tautologia mille volte ripetuta. La tradizione metafisica esemplifica a perfezione il carattere ridondante e pleonastico del performativo assoluto «lo parlo»: solo che questa ridondanza, lungi dall'essere tenuta per un pericolo, è sfoggiata addirittura come la massima virtù. Basti pensare a Hegel. Nella Fenomenologia dello spirito si assiste all'ininterrotto sacrificio di ciò-che-si-dice: se dapprima accampa i diritti che spettano alla multiforme realtà concreta, esso rivela poi (ecco il «lavoro del negativo») la sua nullità, e rattrappisce e svapora, fino a rifluire nell'unica verità inconfutabile, il fatto-che-si-parla. Dal primo capitolo, dedicato ai deittici «questo» e «io» (Hegel 1807, pp. 168-85), alle ultime pagine sulla comunità linguistica dei credenti (ibid., pp. 1020-33), l'atto di enunciare è contrapposto sempre di nuovo al testo contingente e inessenziale degli enunciati. Il performativo assoluto può essere ridondante e superfluo (o peggio, onnivoro). Questo è il suo tipico malanno. Una simile affermazione impone però di indicare, sia pure a grandi linee, in quali occasioni della nostra vita esso è invece opportuno, o persino necessario e salvifico. Quando siamo spinti a dare il più grande rilievo al fatto per nulla eccezionale di prendere la parola? Perché di tanto in tanto ci sentiamo obbligati a rendere testimonianza circa la nostra stessa facoltà di parlare? Quale azione rituale si compie con quell' «lo parlo», çhe della ritualità in genere è fondamento e matrice? Più semplicemente: a che cosa serve il performativo assoluto? 7. r. L'esibizione del fatto-che-si-parla è pertinente, anzi indifferibile, ogni volta che l'esperienza vissuta è costretta a ripercorrerein compendio le tappe salienti dell'ominazione. Dunque, ogni volta che un pericolo, una incertezza, uno sperdimento possono essere smussati solo a patto di rievocare, all'interno di forme

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di vita propriamente umane, niente di meno che i travagli dell' antropogenesi. Il ricorso al performativo assoluto assolve una funzione apotropaica, cioè protettiva, perché consente questa rievocazione. «lo parlo» provvede a riaffermare ritualmente, in una concreta congiuntura storica o biografica, i caratteri differenziali dell'Homo sapiens. L'antropogenesi diventa cosl sincronica alle più varie, e· semmai corrive, vicende empiriche. Mettendo in rilievo l'atto di enunciare, ossia il puro poter-dire, si attraversa di nuovo la soglia che la specie valicò in ilio tempore (e il singolo nella propria infanzia). Prendiamo il caso dell'autocoscienza. Vi sono evenienze in cui l'