Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua [5 ed.] 8842068470, 9788842068471

Franco Lo Piparo traccia un'analisi delle concezioni attribuite ad Aristotele di simbolo, segno, oralità e scrittur

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Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua [5 ed.]
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© 2003, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2003 Quarta edizione 2007

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Franco Lo Piparo

Aristotele e il linguaggio Cosa fa di una lingua una lingua

Editori Laterza

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2007 Global Print srl - via degli Abeti, 17/1 20064 Gorgonzola (MI) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6847-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

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zhteî dæ a¬eì tò au¬toû eçkastov súmbolon. Ciascuno va sempre alla ricerca del simbolo di se stesso. Platone Simposio, 191d

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Premessa

Le riflessioni qui contenute hanno un luogo e una data di nascita: Mistretta, marzo del 1984. L’occasione fu un Colloquio internazionale dedicato ad Antonino Pagliaro su un tema caro allo studioso siciliano, la storia delle teorie linguistiche, che a quell’epoca non vantava i molti cultori di adesso. Nel mio intervento, che aveva come titolo La parola tra simbolo e segno in Aristotele, esposi i miei primi dubbi sulla correttezza della interpretazione in chiave convenzionalista della linguistica aristotelica e della formula katà sunqäkhn. Fui autorevolmente criticato da Eugenio Coseriu. Quelle critiche non mi convinsero ma mi fecero ancora meglio capire che non era possibile ribaltare una lettura che da quasi due millenni circolava tra gli studiosi come una ovvietà, senza un radicale ripensamento di tutto l’impianto filosofico della riflessione aristotelica sul linguaggio. Nei quasi vent’anni trascorsi da allora mi sono occupato anche di altro. Ma quel problema, storiografico e teorico, non ha mai abbandonato la mia mente. I lettori giudicheranno i risultati di questo, innaturalmente lungo, concepimento. Sono numerose le occasioni pubbliche (corsi universitari, seminari per dottorandi, conferenze, convegni) in cui le interpretazioni che andavo elaborando sono state sottoposte all’attenzione di specialisti, giovani studiosi e studenti. Di tutte amo particolarmente ricordare il ciclo di lezioni, nel marzo del 2000, tenuto su invito di Sylvain Auroux e Francine Mazière nell’ambito del «Séminaire d’Histoire et d’Épistémologie des Sciences du Langage» dell’Università di Paris 7 e dell’École Normale Supérieure de Fontanay-SaintCloud. I debiti che il testo ha contratto nel corso degli anni sono così tanti che mi è impossibile elencarli senza rischiare di fare torto a qualcuno. Ma alcuni debiti, non solo scientifici (la ricerca non si alimenVII

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ta solo di idee), sono per me troppo coinvolgenti per poterli tacere. Anzitutto Tullio De Mauro. E poi i giovani studiosi che, prima da studenti e dottorandi poi da colleghi, hanno condiviso un buon tratto di questa piccola avventura: Patrizia Laspia, Francesca Piazza, Marco Carapezza, Pietro Perconti. I sodali da più antica data: Antonino Pennisi, Sebastiano Vecchio. E, ancora, gli amici e colleghi che in vario modo hanno dialetticamente partecipato, a volte a loro insaputa, alla formazione di questo libro: Federico Albano Leoni, Donatella Di Cesare, Daniele Gambarara, Stefano Gensini, Raffaele Simone, Jürgen Trabant, Silvana Ferreri, Lia Formigari. La stampa del libro coincide con l’inizio del settimo decennio di Tullio De Mauro, maestro e amico impareggiabile a cominciare dal lontano autunno del 1969. Tullio, a cui le riflessioni qui contenute sono dedicate, mi perdonerà se dico il mio sentire con le parole di Eraclito: a™rmoníh a¬fanæv fanerñv krésswn perché tò a¬ntíxoun sumféron kaí e¬k tøn diaferóntwn kallísthn a™rmonían. Bagheria, giugno 2002

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Aristotele e il linguaggio

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AVVERTENZA Le tesi sostenute in questo libro si reggono anche su traduzioni non canoniche di alcuni passi aristotelici. Le traduzioni non mie e/o da me non condivise sono citate col nome del traduttore, l’editore e l’anno di pubblicazione. Segnalo, inoltre, che i titoli citati in forma abbreviata sono riportati per esteso nei Riferimenti bibliografici.

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Capitolo primo

L’animale linguistico

1. Parlare è il respirare dell’anima Gli uomini non usano il linguaggio, vivono il linguaggio. Il linguaggio non è strumento ma attività specie-specifica di organi naturali. Strumenti sono il martello con cui pianto un chiodo, la penna con cui sto scrivendo, l’automobile con cui mi reco al luogo di lavoro. Martello, penna, automobile in quanto strumenti hanno una caratteristica comune: sono distinti e staccabili da colui che li usa. L’utente se ne serve per raggiungere l’obiettivo (il quadro da appendere, la lettera da scrivere, il luogo in cui recarsi) e, esaurito il compito, interrompe il proprio commercio con l’utensile e lo ripone da qualche parte. Lo strumento rimane lì inerte fino a quando lo stesso utente o altri utenti non vadano a riprenderlo. È un oggetto che un soggetto usa e da cui, in linea di principio, può in qualsiasi momento prendere le distanze. L’inizio e la fine del commercio dell’utente con lo strumento passano attraverso una scelta volontaria di un soggetto. La strumentalità presuppone un soggetto che volontariamente pianifica un oggetto in funzione di un obiettivo. Non esiste una ideale cassetta degli attrezzi espressivi e/o comunicativi da dove ad libitum un utente possa estrarre lo strumento linguaggio e riporvelo una volta eseguito il compito prefissato. L’uomo non sceglie il linguaggio. A partire dal momento in cui comincia a parlare non è più libero di fare a meno del linguaggio o di prenderne le distanze. Il tacere non è un mettere da parte il linguaggio, un riporlo per così dire nella cassetta degli attrezzi. Il silenzio è una scelta interna al linguaggio: tace solo chi, potendo parlare, sceglie il silenzio come modo di parlare. Tacciono solo gli animali che parlano, non essendo il silenzio una possibilità inscritta nell’orizzonte opera3

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tivo degli animali non dotati naturalmente di linguaggio1. Il linguaggio non è pertanto un oggetto che un soggetto utilizza parlandolo. Il parlante non è soggetto parlante sul modello del soggetto utente che manipola strumenti a lui esteriori. Il parlante è soggetto parlante così come è soggetto respirante, soggetto vedente, soggetto udente, soggetto camminante. Respirare/non-respirare, vedere/nonvedere, udire/non-udire, camminare/non-camminare, parlare/nonparlare non sono attività eseguite da un soggetto ad esse esterno. Non esistendo una cassetta degli attrezzi da cui un soggetto estrae lo strumento linguaggio, non ha alcun senso scientifico porsi il problema dei rapporti tra un soggetto parlante e il linguaggio. Un organismo vivente è soggetto parlante in quanto parla o può parlare o dovrebbe parlare; il linguaggio a sua volta esiste in quanto organismi viventi parlano o possono, in linea di principio, parlare. I soggetti parlanti presuppongono il linguaggio, il linguaggio si regge su soggetti parlanti. Affermazioni come l’uomo è martello, l’uomo è penna, l’uomo è automobile risultano insensate. La frase l’uomo è linguaggio è stata ripetuta numerose volte nella storia e continua a nascondere sensi ancora da scoprire. Il paradosso con cui Wilhelm von Humboldt (1820: §13) ha formulato la circolarità di linguaggio e umanità mantiene intatta la sua forza esplicativa: «L’uomo è tale solo attraverso il linguaggio, ma per inventare il linguaggio egli doveva già essere uomo». Il linguaggio non è strumento ma attività vitale specie-specifica dell’animale uomo. Attività vitale come lo sono, ad esempio, il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, la pulsazione sinaptica del cervello. Prendere le distanze dal linguaggio (rimetterlo nella cassetta degli attrezzi e passare ad altra occupazione) è impresa impossibile quanto l’allontanarsi dal cervello, dal cuore o dai polmoni e continuare a vivere. I pitagorici sostenevano che «il principio attivo [a¬rcä] dell’anima si diffonde dal cuore fino al cervello» e aggiungevano che «i logoi {ossia i discorsi e le parole} sono i respiri dell’anima»2. Il parlare come il respirare dell’anima. È un’affermazione forse ardita ma rende molto bene la non-strumentalità del lin1 «Il non-parlare è nell’uomo adulto normale un tacere, cioè o un aver-cessatodi-parlare o un non-parlare-ancora» (Coseriu 1971: 3-4). 2 toùv dè lógouv yucñv a¬némouv ei®nai (Diogene Laerzio, VP, VIII, 30). Il testo così continua: «Anima e discorsi sono invisibili perché invisibile è anche l’aria».

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guaggio e il suo avere a che fare con l’attività minimale che definisce il vivere: la respirazione3. Come non è possibile vivere senza respirare, così non è nemmeno possibile un’anima umana senza il parlare. Il respirare del corpo e il respirare-parlare dell’anima sono fittamente intrecciati. Intrecciati ma non unificati data l’evidenza che non basta avere polmoni per parlare. A livello di descrizione fenomenologica il respirare appare effettivamente come l’attività biologica primaria su cui si innesta il parlare e il parlare appare come una rimodellizzazione specie-specifica del ritmo respiratorio4. Il linguaggio come respiro dell’anima è molto più di un’ardita immagine poetica e ha una adeguatezza descrittiva maggiore di altre affermazioni, altrettanto sintetiche e metaforiche, come, ad esempio, il linguaggio è strumento di comunicazione, il linguaggio è sistema di segni, il linguaggio è rappresentazione del pensiero. La filosofia linguistica di Aristotele ci guiderà nell’esplorazione degli innumerevoli risvolti scientifici della metafora pitagorica. Se il parlare è il respirare dell’anima umana, il linguaggio è attività pervasiva: è silenziosamente presente anche là dove nessuna parola risuona così come, negli animali sanguigni, la continua alimentazione di ossigeno mediante inspirazione-espirazione dell’aria è presenza necessaria al funzionamento di ogni organo del corpo. È la tesi forte e originale di Aristotele. Il parlare non è tanto attività biocognitiva unica e specie-specifica che si aggiunge ad altre attività che l’uomo ha in comune con altri viventi quanto, piuttosto, attività che, a partire dal momento in cui sorge, riorganizza e rende specifiche tutte le attività cognitive umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere in comune con gli animali non umani: percezione, immaginazione [fantasía], memoria, desiderio, socialità. Nel vivente umano ogni agire è, direttamente o indirettamente, intriso di linguisticità. «La specie-specificità dell’anima umana è attività in relazione al linguaggio e comunque non senza linguaggio» 3 Aristotele: «L’entrata dell’aria si chiama inspirazione, l’uscita espirazione. Questo fenomeno è generato sempre e in modo continuo, almeno finché l’animale vive e muove continuativamente questa parte {i polmoni}. Per tale motivo il vivere consiste nell’inspirare e nell’espirare» (De Resp. 480b 9-12). Nei viventi forniti di polmoni «la finalità del vivere e non vivere consiste nel respirare» (480b 19-20). 4 I dati ontogenetici e filogenetici che provano tale tesi sono diventati col passare degli anni sempre più numerosi. Citiamo qui i lavori pionieristici di Lenneberg (1967) e Lieberman (1975, 1991, 1998).

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(EN 1098a 7-8)5 – è l’idea-guida che dà un senso unitario e coerente alle numerose pagine linguistiche rilevabili nel Corpus aristotelico. Volendo usare una terminologia più moderna, il linguaggio è la Lebensform specie-specifica umana che rende uniche e specie-specifiche anche le altre attività umane6. Vanno lette in questa accezione forte le celebri affermazioni aristoteliche sull’uomo come unico animale linguistico, ossia come unico vivente che per sua congenita costituzione naturale parla: «la natura non fa niente senza scopo e l’uomo è l’unico animale a possedere il linguaggio» (Pol. 1253a 9-10); «gli uomini sono gli unici animali a usare il linguaggio e la voce è la materia del linguaggio» (DGA 786b 19-21). 2. La felicità, il desiderio, il linguaggio Prendiamo il caso del benessere specie-specifico umano che Aristotele chiama eudaimonia e che anche noi, seguendo la tradizione, traduciamo con ‘felicità’. La felicità, nelle analisi aristoteliche, non è uno stato ma un modo di vivere e agire che appartiene esclusivamente all’anima umana: «non diciamo felice né il bue né il cavallo né alcun altro animale perché nessuno di essi potrebbe condividere una tale attività» (EN 1099b 32-1100a 1). La tesi di Aristotele è che l’uomo è l’unico animale a potere aspirare a un vivere felice perché è l’unico animale dotato di linguaggio. La felicità è connessa con la linguisticità. Seguiamone l’argomentazione. 5 e¬stìn e¢rgon a¬nqråpou yucñv e¬nérgeia katà lógon h£ mæ a¢neu lógou. Le traduzioni, rendendo logos con ‘regola’ o ‘ragione’, oscurano la rilevanza filosoficolinguistica del passo. Su di esso e sulla sua traduzione torneremo nel prossimo paragrafo. Per il momento riportiamo alcune traduzioni di riferimento. Gauthier-Jolif (1970): «la tâche de l’homme, c’est une activité de l’âme conforme à la règle ou au moins non dépouvue de règle». Un calco ne è quella di Zanatta: «opera propria dell’uomo è un’attività dell’anima conforme alla regola o non sprovvista di regola» (Rizzoli, 1986). H. Rackham: «the function of man is the active exercise of the soul’s faculties in conformity with rational principle, or at all events not in dissociation from rational principle» (Harvard University Press, 1934). Sono simili le traduzioni di Plebe: «propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione» (Laterza, 1973) e Natali: «l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione» (Laterza, 1999). 6 Bisogna aspettare le ricerche psicolinguistiche di Vygotskij e della sua scuola su quanto perfino la percezione venga trasformata dal linguaggio per corroborare con contenuto sperimentale la tesi aristotelica: Vygotskij (1934) e Vygotskij, Lurija (1984).

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L’essere felice [eu¬daimoneîn] non è un generico vivere e agire ma, «come i più e le persone distinte concordano, consiste nel vivere bene [tò eu® zñn] e nell’agire bene [tò eu® práttein]» (EN 1095a 1820). ‘Il bene’ o ‘ciò che è bene’ [ta¬gaqón] sono termini tecnici che stanno ad indicare lo scopo specifico di un’attività. Se il fine del cucinare è il nutrimento, allora il nutrimento è ‘il bene’ che con l’attività del cucinare ci si propone di raggiungere; se il fine della ginnastica è lo stare in salute, allora il godere buona salute è ‘il bene’ dell’attività ginnica; la fabbricazione di flauti è il bene-fine dell’artigiano di flauti mentre la fabbricazione di sandali è il bene-fine del calzolaio. Il ‘fine’ inscritto nella grammatica di un agire e ‘ciò che è bene’ rispetto a quell’agire coincidono: «in ogni azione e scelta il bene è il fine dal momento che è in vista di esso che tutti compiono le rimanenti azioni» (1097a 20-21). Per analogia, «vivere e agire bene» per l’uomo vuol dire vivere in maniera conforme alle proprie caratteristiche naturali e perseguire, al meglio, il fine in funzione del quale quelle caratteristiche esistono. Per dare un contenuto alla felicità, definita come quel «vivere e agire bene» che appartiene solo all’uomo, bisogna allora preliminarmente chiedersi se esiste «una funzione specie-specifica dell’uomo [tò e¢rgon toû a¬nqråpou]7» (1097b 24-25). Impostato così il problema, l’Ethica Nicomachea fa seguire una serie di osservazioni mai valorizzate, forse anche a causa di inadeguate traduzioni, dagli studiosi della linguistica aristotelica. Forse ci sono funzioni e azioni [e¢rga tinà kaì práxeiv] proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo? L’uomo è forse nato senza alcuna specifica funzione naturale [a¬rgòn péfuken]? Oppure come c’è, manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determi7 Sono consapevole che la traduzione di e¢rgon con ‘caratteristica o funzione specie-specifica’ possa dare l’impressione di una forzatura. Le pagine che seguono spiegheranno perché questa traduzione restituisce al testo aristotelico il suo senso più genuino. L’uso del termine e¢rgon nel significato di ‘funzione specifica’ non è comunque raro in Aristotele. Si veda, ad esempio, questo passo della Rhetorica: «Definiamo la retorica come la capacità di scoprire rispetto a ciascun argomento ciò che può persuadere. Questa funzione specifica [e¢rgon] non appartiene a nessun’altra arte».

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nata funzione [e¢rgon ti] oltre a tutte queste? Quale dunque potrebbe mai esser questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è specie-specifico [tò i¢dion] dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Rimane la vita intesa come quel determinato e specifico agire proprio che ha linguaggio: sia nel senso che si lascia persuadere col linguaggio sia nel senso che ha linguaggio e ragiona8. (…) La specie-specificità [e¢rgon] dell’anima umana è attività in relazione al linguaggio e comunque non senza linguaggio. (…) Poniamo come funzione specie-specifica [e¢rgon] dell’uomo una determinata vita, ossia l’attività dell’anima e le azioni che si compiono col concorso del linguaggio [metà lógou] (1097b 28-1098a 14).

‘Anima’ è anch’esso un termine tecnico e sta ad indicare l’insieme dei compiti che un corpo è capace di svolgere: «l’anima è l’attività primaria, orientata a un fine [e¬nteléceia h™ pråth], di un corpo naturale capace di vivere» (DA 412a 27-28). «Attività primaria orientata a un fine» vuol dire attività che ha la causa in se stessa ossia – formulazione equivalente – attività il cui finalismo e funzionamento non sono derivabili da realtà ad essa esterne. Citiamo un passo particolarmente chiaro e esplicativo del De Anima: 8 leípetai dæ praktikä tiv toû lógon e¢contov· toútou dè tò mèn w™v e¬pipeiqèv lógwı, tò d∫ w™v e¢con kaì dianooúmenon. Non seguiamo qui, come in tutto il brano citato, le traduzioni canoniche. Ne riportiamo alcune. H. Rackham: «There remains therefore what may be called the practical life of the rational part of man. This part has two divisions, one rational as obedient to principle, the other as possessing principle and exercising intelligence» (trad. cit.). Plebe: «Resta dunque una vita attiva propria di un essere razionale. E di essa si distingue ancora una parte obbediente alla ragione, un’altra che la possiede e ragiona» (trad. cit.). Mazzarelli: «Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa)» (Rusconi, 1993). Natali: «Allora rimane solo un certo tipo di vita attiva, propria della parte razionale. Di quest’ultima, una parte è razionale perché obbedisce alla ragione, un’altra è razionale perché la possiede e la riflette» (trad. cit.). Gauthier-Jolif: «Reste donc une vie que l’on pourrait appeler “active”, vie de la partie qui a une règle. Celle-ci d’ailleurs se divise en deux parties: l’une qui obéit à la règle, l’autre qui l’a, c’est-à-dire qui la pense» (trad. cit.). Zanatta: «Resta pertanto una certa vita attiva della parte dell’anima che possiede la regola. Di questa una parte è come obbediente alla regola, l’altra come possedente la regola e pensante» (trad. cit.).

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Se l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista: questa è la sostanza dell’occhio rispetto alla sua definizione. L’occhio è la materia della vista: quando la vista viene meno non c’è più l’occhio tranne che per omonimia come nel caso dell’occhio di pietra o disegnato. (…) L’anima è attività orientata a un fine [e¬nteléceia] come lo sono la vista e la potenzialità dell’organo-strumento [h™ dúnamiv toû o¬rgánou]: il corpo è ciò che è capace di fare [tò dè søma tò dunámei o¢n]. Come l’occhio è pupilla e vista così l’animale è anima e corpo (412b 18-413a 3).

Un corpo vivente ha un’anima e l’anima è l’insieme dei fini che il corpo, per il modo in cui è organizzato, è capace di perseguire: «se l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista»9. I fini di cui i corpi viventi sono capaci si trovano elencati in vari luoghi dell’opera aristotelica. Sono capacità [dunámeiv] il nutrirsi [qreptikón], il sentire [ai¬sqhtikón], il desiderare [o¬rektikón], il muoversi nello spazio [kinhtikòn katà tópon], il ragionare [dianohtikón]. Nelle piante si trova solo la capacità di nutrirsi, negli altri anche la sensibilità10. Se c’è la capacità di sentire c’è anche la capacità di desiderare perché forme del desiderio [o¢rexiv] sono per l’appunto l’appetizione [e¬piqumía], l’impulso vitale [qumóv], la volontà [boúlhsiv]. Tutti gli animali hanno almeno un senso, il tatto; chi ha sensibilità ha anche piacere e dolore e ciò che è piacevole e ciò che è doloroso; chi ha quest’ultimi ha anche appetizione [e¬piqumía] perché essa è il desiderio del piacevole (DA 414a 29-b 6).

Degli animali l’uomo è l’unico la cui anima sia capace di svolgere ragionamento verbale [logismòv kaì diánoia]: DA 415a 9. «Se qualcuno è uomo allora lì deve esserci anche il ragionamento verbale come principio e come azione [logismòn e¬neînai w™v a¬rcän, kaì prâxin]» (EE 1219b 29-1220a 1). Il criterio della ‘presenza/assenza del linguaggio’ suggerisce di dividere in due grandi classi le funzioni dell’anima dei corpi viventi: «dell’anima una parte è senza linguaggio 9 Per i risvolti, nella riflessione aristotelica sul linguaggio, di questa idea della relazione di anima e corpo rimandiamo a Lo Piparo (1999) e, qui, al cap. V, § 4 e all’intero capitolo VI. 10 Appartengono al genere dei viventi tanto le piante che gli animali. L’animalità sorge là dove esiste sensibilità al piacere e al dolore: «animalità e sensazione si formano contemporaneamente» (Cat. 8a 7-8). Ma si veda anche DA, 413 b sgg. e passim.

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[tò mèn a¢logon], un’altra ha invece il linguaggio [tò dè lógon e¢con]» (EN 1102a 28). Il loro rapporto può essere pensato secondo due modelli differenti: 1) «sono separabili come lo sono le parti del corpo e di un qualsiasi oggetto divisibile in parti»; oppure 2) «sono due nella definizione ma inseparabili in natura così come accade alle parti convessa e concava della circonferenza» (1102a 27-31)11. Il primo modello rende molto bene la separatezza e l’estraneità reciproca della dimensione linguistica e della capacità, propria di ogni organismo vivente, di assorbire sostanze dall’ambiente circostante per alimentarsi, crescere e, in genere, vivere. «Della parte non linguistica un aspetto sembra che sia comune anche al mondo vegetale: mi riferisco alla causa del nutrirsi e del crescere. Questa è una capacità dell’anima che si riscontra in tutti che si nutrono, sia negli embrioni che negli organismi giunti a maturazione (…). È evidente che questa è virtù comune e non specificamente umana» (1102a 32-b 4). La relazione tra le parti concava e convessa della circonferenza («due nella definizione ma inseparabili in natura») è invece il modello del modo in cui gli universi del desiderio e del linguaggio nell’animale umano si articolano tra loro. La dimostrazione aristotelica ha una sua complessità che è utile seguire. In una pagina della Rhetorica i desideri umani vengono raggruppati in due grandi categorie: i desideri che nascono al di fuori del controllo linguistico e i desideri provocati e/o governati direttamente dal linguaggio. Dei desideri alcuni sono a-linguistici, altri si formano col concorso del linguaggio [tøn dè e¬piqumiøn ai™ mèn a¢logoí ei¬sin ai™ dè metà lógou]. Chiamo a-linguistici i desideri che non desiderano a partire da un atto riflessivo [mæ e¬k toû u™polambánein]. Sono quelli che sono detti naturali come quelli che hanno origine mediante il corpo: ad esempio, il desiderio di nutrimento, la sete e la fame, ciascun tipo di desiderio corrispondente a ciascun tipo di nutrimento, i desideri relativi al gusto, all’amore e, in generale, al tatto, i desideri relativi all’odorato, all’udito, alla vista. Nascono invece col concorso del linguaggio i desideri che desiderano a partire dal persuadere [metà lógou dè oçsa e¬k toû peisqñnai e¬piqumoûsin]: 11 L’immagine, molto efficace, della parte concava e convessa di una linea curva viene usata anche in EE 1219b 34 per spiegare lo stesso concetto.

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molte cose infatti noi desideriamo vederle o possederle o perché ne abbiamo sentito parlare o perché ce ne hanno persuaso (1370a 18-27).

I due tipi di desiderio sono facilmente esemplificabili con la differenza che c’è tra il desiderare del cibo perché spinti dalla fame e il desiderare un determinato tipo di cibo perché qualcuno ce ne ha parlato e/o ci ha persuaso delle sue virtù benefiche: il primo desiderio nasce al di fuori del linguaggio ed è riscontrabile anche negli animali non linguistici, il secondo, essendo il risultato di un racconto e/o di una persuasione, può sorgere solo col concorso del linguaggio. La ragione è che ciò di cui siamo persuasi è una opinione [dóxa] ed essa si forma solo là dove c’è capacità di ragionamento verbale. All’opinione segue la persuasione [pístiv] (non è possibile, infatti, che chi ha una opinione non sia persuaso di ciò di cui ha opinione): in nessuno degli animali non umani [qhría]12 sussiste la persuasione mentre in molti sussiste la capacità di formare rappresentazioni mentali [fantasía]. Ad ogni opinione si accompagna la persuasione, alla persuasione si accompagna il lasciarsi persuadere, alla persuasione si accompagna il linguaggio: la capacità di formare rappresentazioni mentali si trova in alcuni animali non umani, il linguaggio invece no (DA 428a 20-24).

Le analisi aristoteliche non si fermano a questo livello. Nell’universo umano nemmeno quei desideri che non sono direttamente generati col concorso di strategie verbali rimangono estranei al potere del linguaggio: nascono o possono nascere come desideri a-linguistici (la sete, la fame, l’impulso sessuale, la paura, ad esempio) ma non sfuggono al filtro delle strategie discorsive. I meccanismi della presenza pervasiva del linguaggio nell’universo dei desideri umani sono spiegati in molte pagine delle tre Etiche. Lo schema generale del modo in cui desideri sorti al di fuori del linguaggio vengono linguisticizzati è descritto in questa pagina dell’Ethica Nicomachea: La non linguisticità [tò a¢logon] dell’anima umana è duplice. La dimensione vegetativa [tò futikón] non partecipa affatto del linguaggio [lógou], la dimensione appetitiva e, in generale, desiderativa [tò d∫ e¬piqumetikòn kaì oçlwv o¬rektikón] vi partecipa in qualche modo in quanto è in ascolto [katäkoon] e gli ubbidisce: come quando noi diciamo di tenere in conto il discorso [e¢cein lógon] di nostro padre e degli amici e non come quando diciamo di seguire delle dimostrazioni matematiche. Che la parte non linguistica si lasci convincere in qualche modo dal linguaggio [oçti dè peíqetaí pwv u™pò lógou tò a¢logon] lo testimoniano l’ammonimento, ogni tipo di rimprovero, l’incoraggiamento. Se poi fosse necessario dire che anche la dimensione ha linguaggio [lógon e¢cein], allora ‘avere linguaggio’ dovrebbe essere inteso in due sensi: in senso proprio e in se stesso [tò mèn kuríwv kaì e¬n au™tøı] oppure come se si fosse in ascolto del padre [tò d∫ wçsper toû patròv a¬koustikón ti] (1102b 29-1103a 3)13.

Diversamente dagli appetiti degli animali non umani, l’universo umano del desiderio appare impregnato di argomentazioni verbali: la parte desiderativa della nostra anima tiene conto, facendosene o non facendosene persuadere, dei discorsi propri e/o altrui14. Un desiderio, anche se si forma al di fuori della linguisticità, nell’uomo può sempre diventare oggetto di persuasione discorsiva: «Ho sete ma non bevo perché così mi ha prescritto il medico»; «Questa bevanda non mi piace ma la bevo perché il medico mi ha detto che mi fa guarire»; «Questo modo di agire nuoce alla mia salute (oppure: è vietato dalle leggi della città) ma lo adotto perché mi procura piacere (oppure: mi rende ricco)». Linguisticità e attività desiderativa sono per l’appunto come le parti concava e convessa della circonferenza: differenti e inseparabili o, con le parole di Aristotele, «due nella definizione ma inseparabili in natura». La presenza pervasiva del linguaggio è ciò che distingue la passionalità umana da quella degli altri animali. Nel regno animale umano anche il comportamento pulsionale è, ad esempio, un agire che non cade del tutto al di fuori dell’universo linguistico. Così viene descritto nell’Ethica Nicomachea: 13 Il frammento del Protrepticus a cui gli studiosi collegano questa parte dell’Ethica Nicomachea conferma la lettura eto-linguistica che ne stiamo facendo: «la parte dell’anima che possiede la capacità del linguaggio e del ragionamento (yucñv dè tò lógon e¢con kaì diánoian) è quella che dà ordini e divieti, dice (fhsí) quello che si deve o non si deve fare» (Prot., Frammento 6). 14 Figura centrale del governo verbale dell’universo dei desideri è quel particolare sillogismo chiamato da Aristotele entimema. Sulla nozione teorica di entimema e sulla sua storia rimandiamo alle acute analisi di Piazza (2000).

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Sembra che l’impulsività ascolti qualcosa del discorso ma lo fraintenda [e¢oike gàr o™ qumòv a¬koúein mén ti toû lógou, parakoúein dé], come i servitori frettolosi i quali corrono via prima di avere ascoltato tutto ciò che viene detto loro e poi sbagliano ad eseguire l’ordine (…). Allo stesso modo la pulsione, a causa del suo calore e della sua fretta naturale, ascolta e non ascolta ciò che le viene ordinato [a¬koúsav mén, ou¬k e¬pítagma d∫ a¬koúsav] e si precipita alla vendetta. Il linguaggio [lógov] o la rappresentazione mentale [fantasía] mostrano che un oltraggio o un’offesa sono stati commessi ma è come se , avendo argomentato [sullogisámenov] che è necessario combattere l’offesa, subito si infuria. (…) Di conseguenza la pulsione segue in qualche modo il discorso [lógov] (1149a 25-b 1).

Col medesimo schema sono descritti i modi di agire del continente/incontinente e dell’assennato/dissennato. È continente [e¬gkratäv] e assennato o saggio [såfrwn, frónimov] chi sa governare passioni e desideri con strategie discorsive adeguate, è incontinente o intemperante [a¬kratäv, a¬kólastov] e dissennato [a¢frwn] colui le cui capacità di governo su passioni e desideri sono deboli o nulle. Sembra che ci sia un’altra componente dell’anima che, pur essendo alinguistica, partecipa tuttavia in qualche modo del linguaggio [e¢oike dè kaì a¢llh tiv fúsiv tñv yucñv a¢logov ei®nai, metécousa méntoi phı lógou]. Dell’uomo continente e incontinente [toû e¬gkratoûv kaì a¬kratoûv] noi infatti lodiamo il discorso e perciò la parte dell’anima che è capace di linguaggio [tòn lógon kaì tñv yucñv tò lógon e¢con e¬painoûmen] giacché è essa che li esorta correttamente ad azioni migliori (1102b 13-15). L’uomo assennato [såfrwn] si comporta secondo quanto il discorso corretto [w™v o™ o¬rqòv lógov] (1119a 20). Come il fanciullo deve vivere secondo le prescrizioni del pedagogo, così la componente desiderativa deve anche conformarsi al discorso [tò e¬piqumhtikòn katà tòn lógon]. Per questo l’uomo assennato [såfrwn] deve rendere la sua capacità di desiderio conforme al discorso [sumfwneîn tøı lógwı]. Lo scopo di entrambi è il bello, e l’uomo assennato desidera ciò che si deve e come e quando si deve: così come prescrive il discorso (o™ lógov) (1119b 13-18). Chi sa contenersi [e¬gkratäv] e chi sa tenere fede al ragionamento discorsivo [e¬mmenetikòv tøı logismøı] sono la stessa persona così come sono la stessa persona l’incontinente [a¬kratäv] e chi si lascia allontanare 13

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dal ragionamento discorsivo [e¬kstatikòv toû logismoû]. L’incontinente compie per passione [dià páqov] azioni che sa ignobili; il continente, sapendo che i suoi desideri sono ignobili, non li segue in forza del discorso [dià tòn lógon] (1145b 10-14).

3. La scelta ponderata del discorso corretto I comportamenti umani sono eticamente valutabili perché sorgono e operano nella zona d’influenza del governo retorico dei desideri e delle passioni. L’uomo è responsabile delle proprie azioni perché è un animale linguistico. Il nesso inscindibile di linguisticità e responsabilità viene illustrato mediante la nozione di proaíresiv che qui traduciamo con «scelta» o «scelta ponderata»15. «Ci adiriamo o proviamo paura senza alcuna scelta, ma le virtù sono determinati tipi di scelte e comunque non sono senza scelta» (EN 1106a 2-4). L’agire virtuoso non è un effetto automatico della natura umana ma il risultato di una valutazione e di una scelta argomentata. Che cosa vuol dire scegliere? Lo ‘scegliere qualcosa’, secondo Aristotele, va tenuto distinto dal ‘desiderare e/o volere qualcosa’. Tutte le scelte sono atti volontari ma non tutte le azioni volontarie vengono necessariamente scelte. I desideri degli animali non umani e degli infanti, ad esempio, non sono assimilabili a scelte ma indubbiamente sono atti volontari dal momento che il desiderare e il voler soddisfare il proprio desiderio non sono qualità separabili. Non è giusto dire che non sono volontarie le azioni compiute per pulsione o desiderio [dià qumòn h£ e¬piqumían] perché allora anzitutto nessuno degli altri animali agirebbe volontariamente e non lo potrebbero nemmeno i bambini. (…) È certo assurdo dire che siano involontarie le azioni di cui si deve avere desiderio (…). La scelta è chiaramente un atto volontario ma non si identifica con esso, perché l’azione volontaria ha un’estensione maggiore: anche i bambini e gli altri animali condividono l’atto volontario ma non la scelta (EN 1111a 24-b 9).

Volontà-desiderio e scelta nell’uomo differiscono per un tratto importante: la volontà e il desiderio possono indirizzarsi anche ver15 Rendono, tra gli altri, proaíresiv con «scelta» Aubenque (1963: 119 sgg.) e Nussbaum (1978).

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so obiettivi impossibili e irrealizzabili, l’oggetto della scelta riguarda invece cose possibili e che dipende da noi fare o non fare. Volontà e scelta non sono la stessa cosa. Si vogliono infatti talune cose che sono impossibili, pur sapendo che sono tali (ad esempio regnare su tutti gli uomini e essere immortali) ma nessuno le sceglie salvo che ignori che sono impossibili; né in generale si sceglie ciò che, pur essendo possibile, si ritiene non dipenda da noi fare o non fare. Pertanto è evidente che è necessario che sia oggetto di scelta ciò la cui esistenza dipende da noi (EE 1225b 32-37). È chiaro che il volere e lo scegliere non sono la stessa cosa. La scelta sembra invece essere ciò che suggerisce la parola stessa: ad esempio, noi scegliamo una cosa anziché un’altra, il meglio anziché il peggio. Quando, dovendo scegliere, preferiamo una cosa per un’altra, in questo caso sembrerà appropriato il termine ‘scegliere’ (MM 1189a 11-16).

La scelta è quel particolare tipo di desiderio e di volontà che, in seguito ad una valutazione argomentata di ciò che è possibile fare per raggiungere un determinato fine, desidera una cosa piuttosto che un’altra. Diversamente dal semplice volere e desiderare, la scelta è «desiderio deliberato mediante ragionamento [h™ proaíresiv o¢rexív tiv bouleutikä metà dianoíav]» oppure – definizione equivalente – «desiderio deliberato di cose che dipendono da noi [o¢rexiv tøn e¬f∫ au™tøı bouleutikä]». Se la scelta è un desiderio deliberato mediante ragionamento, l’azione volontaria non è sempre il risultato della scelta ponderata [ou¬k e¢stin tò e™koúsion proairetón]. Noi compiamo infatti molte azioni volontarie prima di aver riflettuto e deliberato: ad esempio, ci sediamo, ci alziamo e facciamo molte altre cose di questo genere senza averci ragionato sopra [a¢neu dè toû dianohqñnai] mentre per scelta ponderata è sempre accompagnato dal ragionamento [metà dianoíav]. Pertanto l’agire volontario non è sempre risultato dello scegliere [ou¬k a¢ra tò e™koúsion proairetón], ciò che viene scelto è invece un atto volontario [a¬llà tò proaieretòn e™koúsion] dal momento che ciò che abbiamo scelto di fare lo abbiamo deciso e voluto fare (MM 1189a 32-b 3). La scelta ponderata [proaíresiv] è scelta [aiçresiv] non in senso generico ma di una cosa piuttosto che di un’altra. Ciò non è possibile senza un’indagine e una decisione. Perciò la scelta ponderata deriva da un’opinione che è il risultato di una decisione. (…) Se dunque nessuno può sce15

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gliere qualcosa senza aver prima esaminato e deliberato che cos’è peggio e che cos’è meglio, e se si possono volere soltanto quelle cose possibili la cui esistenza o non esistenza dipende da noi e che sono utili allo scopo, è chiaro che la scelta ponderata è desiderio deliberato di cose che dipendono da noi. Tutti vogliamo le cose che abbiamo scelto ma non tutto quello che vogliamo l’abbiamo scelto in maniera ponderata. Chiamo desiderio deliberato quello il cui principio e causa è una deliberazione e che si desidera in seguito all’azione del deliberare [légw dè bouleutikän, h©v a¬rcæ kaì ai¬tía boúleusív e¬sti, kaì o¬régetai dià tò bouleúsasqai] (EE 1226b 7-20). Poiché ciò che viene scelto ponderatamente appartiene all’universo delle cose che dipendono da noi e viene desiderato in seguito a una deliberazione, anche la scelta deliberata sarà un desiderio deliberato di cose che dipendono da noi: dall’avere deliberato mediante un giudizio deriva che desideriamo in conformità alla deliberazione [o¢ntov dè toû proairetoû bouleutoû o¬rektoû tøn e¬f∫ h™mîn, kaì h™ proaíresiv a£n ei¢h bouleutikæ o¢rexiv tøn e¬f∫ h™mîn· e¬k toû bouleúsasqai gàr krínantev o¬regómeqa katà tæn boúleusin] (EN 1113a 9-12).

Per queste sue caratteristiche la scelta ponderata, ovvero il desiderare in maniera argomentata una cosa piuttosto che un’altra, è un agire che può essere praticato solo dagli animali dotati di linguaggio. Il desiderio [o¢rexiv] è insito anche negli altri animali, la scelta ponderata no. La scelta ponderata si forma col linguaggio e il linguaggio non si trova in nessuno degli altri animali [h™ gàr proaíresiv metà lógou, lógov dè e¬n ou¬denì tøn a¢llwn zåıwn e¬stín]. Il desiderio non potrebbe quindi essere una scelta (MM 1189a 2-5).

E ancora: La volontà, la pulsione, l’appetizione sono tutte quante forme del desiderio [boúlhsiv dè kaì qumòv kaì e¬piqumía pànta o¢rexiv]; alla scelta concorrono invece sia il ragionamento che il desiderio [h™ dè proaíresiv koinòn dianoíav kaì o¬réxewv] (DMA 700b 22-23).

Quindi: «La scelta non è comune agli non linguistici [tøn a¬lógwn], il desiderio e la pulsione [e¬piqumía dè kaì qumóv] invece sì» (EN 1111b 12)16. 16

Lo stesso concetto viene ripetuto nell’Ethica Eudemia con la differenza che

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Essendo vizi e virtù modi di agire legati alla capacità di scegliere, il comportamento etico ha un ineliminabile fondamento nella naturale linguisticità dell’uomo. L’uomo è eticamente responsabile delle proprie azioni perché è un animale linguistico17 e, quindi, «solo per metafora diciamo che gli animali non umani sono saggi [såfrona] o intemperanti [a¬kólasta] (…) dal momento che in essi non si riscontra né la scelta ponderata né il ragionamento verbale [logismóv]» (EN 1149b 32-35). Il linguaggio è la condizione necessaria dell’eticità per due ordini di ragioni: 1) vizi e virtù sono tipi di scelta e lo scegliere richiede «indagine e deliberazione», attività queste ultime che per Aristotele non possono svolgersi senza linguaggio; 2) la scelta etica è guidata dalla ricerca dell’o¬rqòv lógov, il discorso che enuncia la norma corretta che seleziona in ciascuna circostanza il comportamento virtuoso. Del primo punto ci siamo già occupati. Soffermiamoci sul secondo. Del «discorso che enuncia la norma corretta» vengono date due definizioni convergenti. A) Enuncia la norma corretta il discorso-ragionamento che individua in ciascuna circostanza il comportamento intermedio che eviti i due punti estremi dell’eccesso e del difetto: «bisogna scegliere il punto centrale [tò méson] e non l’eccesso e nemmeno il difetto; il punto centrale è come il discorso-ragionamento corretto dice [w™v o™ lógov o™ o¬rqòv légei]» (EN 1138b 18-20). B) La norma corretta è quella che il discorso dell’uomo saggio enuncerebbe: «la virtù è l’attitudine a scegliere [eçxiv proairetikä] quella medietà [mesóthv] in relazione a noi che viene determinata mediante il ricorso a un discorso-ragionamento [lógwı] e precisamente a quel discorso con cui l’uomo saggio [o™ frónimov] la determinerebbe» (1106b 36-1107a 2). agli animali non linguistici [tà a¢loga] si fa riferimento con termine più generico ma equivalente di «bestie» o «animali non umani» [qhría]: «La pulsione [qumóv] e l’appetizione [e¬piqumía] si trovano anche negli animali non umani, la scelta ponderata [proaíresiv] no» (EE 1225b 26-27). 17 Secondo Aubenque, nelle opere etiche «ce qui ne s’y trouve pas, c’est une doctrine de la liberté et de la responsabilité. Ce qui s’y trouve, c’est une nouvelle contribution à une ontologie et à une anthropologie de l’action» (1963: 125-26). A nostro parere Aristotele sta qui delineando una teoria dell’agire linguistico. Non è un caso che il teorico novecentesco degli atti linguistici, John L. Austin, sia stato un attento lettore delle Etiche aristoteliche e si sia particolarmente soffermato sulla nozione di eudaimonia: Austin (1937-38). Sulla presenza di Aristotele nella filosofia analitica rimandiamo a Berti (1992: 112-85).

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‘Punto centrale [tò méson]’ e ‘medietà [mesóthv]’ sono termini tecnici della matematica greca e l’Ethica Nicomachea fa ad essa esplicito riferimento. Nei comportamenti umani, così come nelle figure geometriche – osserva Aristotele – l’identificazione del punto centrale richiede ragionamento e calcolo dell’esperto: «è compito difficile essere virtuosi, infatti trovare il punto centrale [tò méson] in ogni cosa è compito difficile così come trovare il centro [tò méson] del cerchio non è alla portata di tutti ma solo di chi sa» (1109a 24-26). In provvisoria conclusione. La confluenza, armonica e/o conflittuale, di desideri e argomentazioni verbali distingue l’agire dell’uomo da quello degli altri animali. L’eticità sorge là dove l’universo dei desideri viene a mescolarsi con l’universo delle parole. Anche se per motivi espositivi le due dimensioni (a-linguistica e linguistica) dell’anima umana sono a volte esaminate separatamente e in riferimento alle caratteristiche che le rendono differenti, la teoria aristotelica non è né dualistica né intellettualistica. Dualistica e intellettualistica fu invece, secondo Aristotele, la teoria di Socrate: «Socrate riteneva che le virtù fossero ragionamenti verbali [lógoi] (pensava infatti che tutte le virtù fossero scienze), noi invece pensiamo che si formino insieme col ragionamento verbale [h™meîv dè metà lógou]» (EN 1144b 28-30). Un comportamento che si forma anche col concorso del linguaggio non è lo stesso di un comportamento determinato dal ragionamento verbale. L’immagine delle parti concava e convessa della linea curva («due nella definizione ma inseparabili in natura») rende bene la co-presenza e la co-relazione di linguisticità e a-linguisticità nella teoria aristotelica. Le due superfici, concava e convessa, generate dalla linea curva, pur essendo tra loro eterogenee, sono strettamente connesse da una relazione necessaria di co-variazione reciproca essendo l’ampiezza dell’una inversamente proporzionale all’ampiezza dell’altra. Ciò che conta è la linea curva che, oltre ad essere contemporaneamente concava e convessa, determina ed è determinata dalle rispettive ampiezze delle due superfici. Volendo usare l’immagine geometrica come modello analogico, l’agire umano è la mobile linea curva dove desiderio e ragionamento – il concavo e il convesso dell’anima umana –, pur mantenendo la loro diversità definitoria, sono indistinguibili trasformandosi il desiderio in desiderio che ragiona e la mente in mente che desidera. Sono questi i termini con cui Aristotele definisce la scelta, ossia ciò che rende specie-spe18

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cifico il comportamento umano: «La scelta è o mente che desidera o desiderio che ragiona e tale principio attivo è l’uomo [h£ o¬rektikòv noûv h™ proaíresiv h£ o¢rexiv dianohtikä, kaì h™ toiaúth a¬rcæ a¢nqrwpov]» (EN 1139b 4-5). Osservazione a margine. Tra i motivi per cui i passi da noi citati sono rimasti finora estranei all’attenzione degli studiosi di filosofia del linguaggio il principale è la traduzione di logos con «ragione» o «regola» e, di conseguenza, zøıa a¢loga con «animali irrazionali». «Ragione» e «regola» suggeriscono l’idea di un contenitore o schema, univoco e statico, di principi razionali. Nel testo aristotelico logos indica piuttosto la capacità, che si esercita col linguaggio, di cercare soluzioni ragionevoli a problemi sia pratici che teorici. E, proprio perché è una capacità e non una lista di principi, il logos, ovvero il ragionamento verbale, può sbagliarsi. Un passaggio del De Anima non dà adito a dubbi: «La sensazione dei specifici è sempre vera [h™ mèn gàr ai¢sqhsiv tøn i¬díwn a¬eì a¬lhqäv] e si ritrova in tutti gli animali. Il ragionare [dianoeîsqai] è invece possibile che sia falso e non si ritrova in nessuno degli animali in cui non ci sia anche il logos [ovvero, la capacità di usare il linguaggio]» (427b 11-14). La ragione, intesa come lista di principi razionali o come univoca regola normativa, dovrebbe invece per definizione essere sempre nel vero. 4. L’epi-sentire, le immagini, il ricordare «Desiderio linguisticizzato [e¬piqumía metà lógou]», «desiderio che ragiona [o¢rexiv dianohtikä]», «mente che desidera [o¬rektikòv noûv]» sono formulazioni equivalenti che individuano e descrivono la specie-specificità della sensitività e del desiderio umani: sensazioni e desideri capaci di argomentare sui fini da raggiungere e sui modi in cui raggiungerli. Della grammatica di un desiderio e di una sensorialità così fatti vengono individuati gli elementi di continuità e discontinuità rispetto a quella che governa desideri e sensazioni degli animali non linguistici. Piacevole/Doloroso vs Utile/Nocivo (Giusto/Ingiusto). Nella finalità interna dell’apparato desiderativo umano la coppia piacevole/doloroso (ciascun animale ha una predisposizione naturale a perseguire il piacere e fuggire il dolore) viene integrata e inglobata dalle coppie uti19

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le/nocivo, giusto/ingiusto, bene/male, vero/falso: la natura degli animali non umani giunge fino ad «avere la sensazione del dolore e del piacere e segnalarsela reciprocamente; il linguaggio ha, invece, come fine l’esprimere ciò che è utile e ciò che è nocivo e di conseguenza ciò che è giusto e ciò che è ingiusto» (Pol. 1253a 12-15). Esempi: «Ho fame ma non mangio perché debbo subire un’operazione chirurgica»; «Vorrei vendicarmi ma non lo faccio perché non è giusto provocare altri delitti (oppure: perché Dio mi dice che è bene che io perdoni)»; «Questa azione è dolorosa ma utile e/o giusta»; «Questo cibo è piacevole ma dannoso»; «Il fumo delle sigarette mi rilassa ma non fumo perché temo di ammalarmi di cancro»; eccetera. L’epi-sensorialità. Una sensorialità che prende le distanze da se stessa per autovalutarsi e autogovernarsi non è assimilabile a nessuno schema, per quanto complesso, del tipo stimolo/risposta. Aristotele nota che negli animali, negli uomini in particolare, la sensazione non è solo sensazione del sensibile corrispondente (la vista vede i colori, l’udito sente i suoni, ecc.) ma è contemporaneamente sensazione-chepercepisce-se-stessa-che-percepisce-l’oggetto: «esiste anche una comune capacità che si accompagna a tutte le sensazioni con la quale si percepisce il fatto che si veda e si senta» (DSV 455a 15-17); «chi vede percepisce di vedere, chi ode percepisce di udire, chi cammina percepisce di camminare e similmente per le altre attività c’è un percepire del fatto che siamo in attività e perciò noi percepiamo di percepire e pensiamo di pensare» (EN 1170a 29-32). Il De Anima si chiede se, per spiegare il fenomeno del «percepire il percepire», bisogna postulare organi di senso differenti da quelli che percepiscono gli oggetti oppure percezione dell’oggetto e percezione della percezione dell’oggetto vanno considerati aspetti co-presenti di un unitario fenomeno complesso. La seconda soluzione è quella ritenuta più soddisfacente. Dal momento che noi percepiamo di vedere e di udire, è necessario che il percepire di vedere si svolga o con la vista o con un altro senso. Ma lo stesso senso percepirà sia la vista che il colore che è oggetto della vista. Pertanto o vi saranno due sensi che percepiscono il medesimo oggetto18 oppure la sensazione sarà sensazione di se stes18

I due differenti sensi che verrebbero a percepire lo stesso oggetto sarebbero:

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sa. Inoltre, se il senso che percepisce la vista fosse differente dalla vista o si innesca un processo all’infinito o la sensazione sarà sensazione di se stessa: allora tanto vale attribuire questa capacità al primo (425b 12-17).

Nel De Somno et Vigilia, la capacità di percepire la percezione viene attribuita, più che al singolo senso, «alla parte che è comune a tutti gli organi di senso»: non è certo con la vista che uno vede di vedere né è col gusto o con la vista o con entrambi che uno discrimina [krínei] o può discriminare i sapori dolci come differenti dai colori bianchi; ciò viene fatto con una determinata parte che è comune a tutti gli organi di senso (455a 17-21).

Alcuni studiosi hanno visto tra le due soluzioni una contraddizione19. A noi sembra teoricamente prevalente il fatto che per Aristotele il sentire-qualcosa è, sempre e comunque, anche sentire-di-sentire-qualcosa. Antoine Culioli (1968: 108) ha chiamato attività epilinguistica la spontanea e inconscia riflessione metalinguistica che accompagna ogni atto verbale20. Proponiamo di chiamare epi-percepire il percepire-di-percepire-qualcosa e epi-cognitività il meta-sapere implicito e irriflesso presente in ogni forma di sapere operativo. Una qualche forma di epi-cognitività le opere zoologiche (che per certi aspetti sono veri e propri trattati di zoocognitivismo) la attribuiscono anche alla sensorialità degli animali non umani: la percezione in tutto il mondo animale è anche epi-percezione e il desiderio è epi-cognitivo. Ovvero: percezione e desiderio suppongono una implicita e continua attività auto-riflessiva non separabile dal loro normale funzionamento. Nell’uomo l’epi-sensorialità ha i tratti specifici della sensorialità linguisticizzata o linguisticizzabile tanto che la sua configurazione strutturale nel De Anima e nell’Ethica Nicomachea viene descritta come simile a quella di un enunciato affermativo o negativo: 1) il senso che percepisce direttamente l’oggetto; 2) il senso che, in quanto percepisce il senso-che-percepisce-l’oggetto, percepisce indirettamente anche l’oggetto. 19 Per maggiori informazioni su questo aspetto si veda Everson (1997: 141-57). 20 «Le langage est une activité qui suppose, elle-même, une perpétuelle activité épilinguistique (définie comme ‘activité métalinguistique non consciente’)». Si veda anche Auroux (1994: 15 sgg.).

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il sentire è simile al semplice dire e pensare [tò mèn ou®n ai¬sqánesqai oçmoion tøı fánai mónon kaì noeîn]. Quando persegue ciò che è piacevole e fugge ciò che è doloroso è come se dicesse sì o no [oi©on katafâsa h£ a¬pofâsa]: il provare piacere o dolore equivale infatti ad agire tramite la sensorialità in riferimeno al bene e al male in quanto tali (DA 431a 8-12). Quello che nel ragionamento sono il dire sì e il dire no, nel desiderio sono il perseguire e il fuggire [e¢sti d∫ oçper e¬n dianoíaı katáfasiv kaì a¬pófasiv, toût∫ e¬n o¬réxei díwxiv kaì fugä]. Pertanto, poiché la virtù etica è una condizione determinata per scelta [eçxiv proairetikä] e la scelta è desiderio sorretto da deliberazione [h™ dè proaíresiv o¢rexiv bouleutikä], bisogna che il discorso sia vero [tón te lógon a¬lhqñ] e il desiderio sia corretto se la scelta è buona, e che ciò che dice e persegue siano la stessa cosa [kaì tà au¬tà tòn mèn fánai tæn dè diåkein] (EN 1139a 21-26).

L’immagine mentale e l’immagine iconica. L’epi-sentire è la matrice della trasformazione della sensazione in rappresentazione o immagine mentale. Vediamo. Abbiamo già visto che nella teoria zoocognitiva aristotelica desiderio e sensorialità sono fenomeni indistinguibili: «se l’animale è dotato di sensibilità è anche animale che desidera (…); dove c’è sensazione c’è anche piacere e dolore e dove c’è piacere e dolore c’è anche appetizione [e¬piqumía] dal momento che il desiderio [o¢rexiv] è desiderio del piacevole» (DA 414b 1-6). La sensazione del piacere non può però esaurire la spiegazione del modo in cui il desiderio si genera e agisce. Perché ci sia un desiderio è necessario che l’animale che desidera sia capace di rappresentarsi la meta che desidera raggiungere e dalla quale si immagina che il suo desiderio venga appagato. «Il desiderio [e¬piqumía] mi dice [légei]: ‘debbo bere’; la percezione oppure la phantasia o il pensiero [noûv] mi dicono [ei®pon]: ‘questa è una bevanda’; allora subito si beve» (DMA 701a 32-33). La grammatica naturale del desiderio comporta la trasformazione della sensazione in rappresentazione o immagine mentale: «un animale non può desiderare senza rappresentazione mentale [a¢neu fantasíav]» (DA 433b 28-29). Ciò pone in una linea continua la sensazione e l’immagine mentale: «gli oggetti rappresentati mentalmente [tà fantásmata] sono come quelli percepiti [ai¬sqämata], salvo il fatto che sono senza materia» (DA 432a 9-10). 22

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‘Rappresentazione’ e ‘immagine mentale’ traducono il greco fantasía. Il significato etimologico della parola è così spiegato nel De Anima: «la phantasia è come se fosse un movimento generato dal funzionamento [kat∫ e¬nérgeian] della sensazione. E poiché la vista è il senso per eccellenza, la phantasia ha tratto il suo nome dalla luce [fáov] poiché senza luce non è possibile vedere. E per il fatto che le phantasiai persistono e sono simili alle sensazioni, gli animali compiono molte azioni rispetto alle phantasiai» (DA 429a 1-6). Anche se ha origine nella sensazione, la rappresentazione mentale si differenzia dalla sensazione21 per due caratteristiche che si riveleranno importanti per una corretta valutazione della linguistica aristotelica. A. La phantasia è un distanziamento dal mondo circostante: mentre sensazione e epi-sensazione sono vincolate a qualcosa che è presente, la rappresentazione mentale si riferisce a qualcosa che è assente e che si desidera (o si teme) che accada. Con la phantasia i confini del mondo vengono estesi oltre il mondo percepito. B. Diversamente dalla sensazione, la phantasia dipende da un volontario atto intenzionale: «questo nostro modo di essere [páqov] dipende da noi, quando lo vogliamo: è infatti possibile raffigurarsi qualcosa davanti agli occhi, come fanno coloro che dispongono le cose in luoghi della memoria facendosene delle immagini [ei¬dwlopoioûntev]» (427b, 17-20). La capacità di produrre intenzionali immagini mentali del mondo Aristotele la attribuisce a tutti gli animali salvo pochissime eccezioni: «ce l’hanno, ad esempio, la formica e l’ape ma non il verme» (428a 10-11). La phantasia è una delle condizioni necessarie perché i suoni, che gli animali dotati di polmoni producono rimodellando l’attività respiratoria, diventino voci significative di qualcosa. Una voce significativa – si legge nel De Anima – non è come un qualsiasi involontario colpo di tosse ma è un comportamento fonico provocato intenzionalmente per significare non una sensazione o un oggetto ma una rappresentazione mentale: «Non ogni suono [yófov] prodotto da un animale è voce [fwnä]; si può infatti produrre un

21 «La phantasia è cosa diversa dalla sensazione e dal ragionamento [diánoia], anche se essa non sorge senza sensazione e senza essa non c’è credenza [u™pólhyiv]» (DA 427b 14-16).

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suono con la lingua o tossendo. è invece necessario che il percuziente22 sia animato e abbia anche una rappresentazione mentale [kaì metà fantasíav tinóv]» (420b 29-32)23. Nella zoosemiotica aristotelica le voci intenzionali degli animali non significano, perciò, cose o oggetti ma rappresentazioni mentali. Un determinato tipo di phantasia si trova in tutti gli animali che respirano e viene chiamata phantasia sensibile [ai¬sqhtikä], ossia rappresentazione mentale dipendente dalla sensazione. Essa è un richiamare una sensazione momentaneamente assente: «Poiché il provar piacere è una modalità del sentire e la phantasia è una sensazione debole [ai¢sqhsiv tiv a¬sqenäv], al ricordare e allo sperare si accompagna sempre la phantasia di ciò che si ricorda e di ciò che si spera» (Rhet. 1370a 27-30). Diversamente dagli altri animali l’uomo, oltre alle rappresentazioni mentali che riproducono sensazioni assenti, è dotato della capacità di produrre un particolare tipo di immagine mentale che solo col e nel linguaggio è possibile che esista. Essa viene chiamata phantasia linguistica o deliberativa: «Ogni phantasia è o linguistica [logistikä] o sensibile [ai¬sqhtikä]; solo quest’ultima condividono gli animali diversi dall’uomo» (DA 433b 29-30). In cosa consista la differenza viene spiegato poche righe dopo: La phantasia sensibile (…) esiste anche negli altri animali, la phantasia deliberativa esiste negli animali logico-linguistici [h™ dè bouleutikæ e¬n toîv logistikoîv]. Fare questo o quello è opera di un ragionamento discorsivo [logismoû e¢rgon] e perciò è necessario usare un’unica unità di misura dal momento che si persegue il meglio: così è possibile fare di più rappresentazioni mentali [fantásmata] un’unica rappresentazione mentale. E la ragione per cui sembrano non avere opinione è che non hanno che deriva dalla connessione discorsiva [e¬k sullogismoû]. Perciò il desiderio non include la capacità deliberativa (434a 5-12). 22 Il percuziente [tò túpton] è colui che agisce in modo che nel movimento espiratorio l’aria, anziché fuoriuscire liberamente dalla bocca o dal naso, venga deviata in modo da percuotere in qualche luogo il canale che va dai polmoni alla cavità boccale o nasale. La deviazione-percussione produce la voce. 23 Per un resoconto più analitico rimandiamo a Lo Piparo (1988), Laspia (1997).

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La tesi che qui viene sostenuta è molto forte. Il linguaggio non segnala solo rappresentazioni mentali che comunque esisterebbero senza il linguaggio, ma genera anche specie-specifiche rappresentazioni mentali del mondo. Connettere in maniera unitaria e coerente differenti immagini mentali del mondo in vista di una deliberazione è inseparabile dall’attività del dire [légein] e del concatenare in maniera coesa e non casuale enunciati [sullogízesqai]. Una proposizione semplicissima come Oggi non piove oppure un insieme coeso di proposizioni come Se la guerra è causa dei mali presenti, con la pace bisogna porvi rimedio24 o come Tu che sei un comunista difendi la proprietà privata e io che sono un liberale non dovrei farlo?, non mettono in parole rappresentazioni mentali ma generano specifiche rappresentazioni mentali. Quale mai potrebbe essere, ad esempio, la rappresentazione mentale del ‘non-piovere’ (Oggi non piove) in assenza del linguaggio? Una buona parafrasi esplicativa della nozione aristotelica di rappresentazione o immagine25 linguistica si trova nel frammento, tanto noto quanto mal interpretato, di un testo di filosofia stoica riportato da Sesto Empirico: «essi [gli stoici] sostengono che (…) è linguistica l’immagine mentale per la quale è possibile mostrare col linguaggio ciò di cui essa è immagine» (Ad. Log. II, 70)26. È indubbiamente una definizione circolare ma rende efficacemente sia il pensiero di Aristotele sia la irriducibile specificità delle immagini linguistiche del mondo. Ancora una volta la linguisticità come tratto specie-specifico che rende unico l’animale umano («la phantasia c’è in alcune bestie, il linguaggio invece no» – DA 428a 23-24), nella filosofia aristotelica la ritroviamo non come marca aggiuntiva ad attività non linguistiche ma come attività naturale che con la sua presenza riplasma e riorganizza le attività bio-cognitive non linguistiche che l’uomo condivide con altri animali. Rhet. 1397a 11. Stiamo usando qui «rappresentazione» e «immagine mentale» come sinonimi. 26 fasí (...) logikæn dè ei®nai fantasían kaq∫ hÇn tò fantasqèn e¢sti lógwı parastñsai. Come esempio di traduzione canonica di questo passo citiamo quella di Antonio Russo: «è razionale quella rappresentazione in conformità con la quale è possibile stabilire razionalmente l’oggetto rappresentato» (Contro i logici, Laterza, Roma-Bari 1975). 24 25

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La presenza del syllogizesthai, ossia del connettere in maniera sensata e unitaria enunciati differenti, Aristotele la ritrova anche nella produzione mimetica di immagini non verbali [ei¬kónai] del mondo (pittura, scultura, imitazioni mediante gesti) che, secondo un famoso passo della Poetica, è insieme col linguaggio uno degli istinti naturali che distingue l’uomo dagli altri animali. L’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini (l’uomo differisce dagli altri animali perché è il più imitativo e produce le prime conoscenze mediante l’imitazione) e tutti traggono diletto dalle imitazioni. Prova ne è ciò che accade davanti alle opere: noi traiamo piacere a guardare le immagini [ei¬kónav] particolarmente accurate di quelle stesse cose (ad esempio le forme degli animali più spregevoli e dei cadaveri) che a vederle direttamente ci procurano dolore (1448b 5-9).

Ciò accade perché dalle immagini si apprende sempre qualcosa del mondo e «l’imparare è piacevole non solo per i filosofi ma anche e ugualmente per gli altri uomini, soltanto che questi ne partecipano per breve tempo». Ma perché una immagine non verbale del mondo è fonte di apprendimento? Perché qualcosa è immagine di qualcosa d’altro in quanto è accompagnata dal giudizio verbale Questo è (non è) quello: «guardando le immagini [tàv ei¬kónav o™røntev] gli uomini provano piacere perché capita che, esaminandole, si impari e si discuta [sullogízesqai] su ciò che è ciascuna cosa, ad esempio che Questo è quello [ou®tov e¬keînov]» (1448b 15-18). Anche la mimesi non verbale del mondo, che gli animali non umani o non posseggono o posseggono in forma molto debole, nelle analisi aristoteliche si trova intrecciata con quell’altra attività, il parlare, che rende unica la cognitività e l’affettività dell’animale uomo. La memoria. Raffigurarsi mentalmente oggetti o sensazioni non più presenti e ricordare fatti e eventi accaduti nel passato sono attività così simili da rendere difficile pensare l’una senza l’altra: «è evidente che la memoria [mnämh] è propria di quella parte dell’anima a cui appartiene anche la phantasia: è, infatti, oggetto di ricordo 1) di per se stesso [kaq∫au™tá], tutto ciò di cui esiste rappresentazione mentale e 2) indirettamente [katà sumbebhkóv], anche ciò che non è senza rappresentazione mentale» (DMR 450a 22-25). Dal momento che la capacità di farsi immagini mentali del mondo appartiene a quasi tutto il mondo animale («ce l’hanno, ad esem26

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pio, la formica e l’ape ma non il verme» – DA 428a 10-11), anche il ricordare nella sua forma più semplice non può distinguere l’uomo dagli altri animali: «gli animali diversi vivono con immagini mentali e ricordi» (Met. 980b 25-26); «la memoria non è separabile dalla temporalità27 e pertanto tutti gli animali che hanno la percezione del tempo [oçsa crónou ai¬sqánetai] ricordano e lo fanno con lo stesso con cui percepiscono (DMR 449b 22-30). Esiste, però, un ricordare che non è un semplice affiorare nella mente di rappresentazioni di fatti già accaduti ma è una «ricerca della rappresentazione mentale [zäthsiv fantásmatov]» (DMR 453a 15-16). Questo tipo di memoria appartiene solo all’uomo e per essa Aristotele usa i termini a¬námnhsiv e a¬namimnäskesqai che noi rendiamo – con una certa libertà – rispettivamente con «memoria che cerca» e «cercare nei ricordi» o, più sinteticamente, «memoria anamnestica». Il semplice ricordare [mnhmoneúein] differisce dal cercare nei ricordi [a¬namimnäskesqai] (…). Molti animali sono dotati della capacità del ricordare ma nessuno degli animali conosciuti, ad eccezione dell’uomo, è dotato della capacità di cercare nei ricordi. Il motivo è che il cercare nei ricordi è come un ragionamento verbale [oi©on sullogismóv tiv]: chi ricerca nei propri ricordi ragiona linguisticamente [sullogízetai o™ a¬namimnhskómenov] su ciò che ha precedentemente visto, sentito o sperimentato, e ciò è per l’appunto una specie di ricerca [oi©on zäthsiv tiv]. Questo procedere accade solo agli che per natura sono dotati della capacità di deliberare: e il deliberare è, infatti, un determinato tipo di ragionamento verbale [tò bouleúesqai sullogismòv tív e¬stin] (453a 6-14).

La memoria anamnestica è un esercizio attivo e pianificato del ricordare: «Spesso ricordare [a¬namnhsqñnai] risulta impossibile ma cercando se ne diventa capaci e si trova » (452a 7-8). Il De Memoria et Reminiscentia fornisce un esempio illuminante di come la mente umana costruisce, fondandosi sulla semantica delle parole, catene associative per portare alla memoria fatti dimenticati:

27 Letteralmente: «ogni memoria è insieme col tempo [metà crónou pâsa mnämh]».

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bisogna avere un punto di partenza: è per questo che a volte sembra che si abbia ricordo anamnestico a partire da luoghi [a¬pò tópwn]. Il motivo è che si passa rapidamente da un punto all’altro: ad esempio, dal latte al bianco, dal bianco all’aria, da questa all’umido e a partire da qui ci si ricorda dell’autunno, che era la stagione che si cercava (451b 12-16).

La memoria, come la sensazione e la capacità di generare immagini mentali del mondo, è un’altra delle attività bio-cognitive riorganizzate e rese specifiche dalla presenza del linguaggio. 5. Il co-sentire, la città, la felicità, il linguaggio Gli animali non umani non hanno in comune con gli uomini solo l’epi-sensorialità e la capacità di raffigurarsi mentalmente e/o ricordare sensazioni passate e oggetti non presenti nel mondo circostante. Anch’essi, come gli uomini, sono capaci di comunicarsi gli uni con gli altri le rispettive sensazioni di piacere e di dolore: «gli animali non umani non solo hanno la sensazione del dolore e del piacere ma se la segnalano reciprocamente» (Pol. 1253a 12-14). La comunicazione di sensazioni non viene presentata come una banale e meccanica trasmissione di informazioni da un organismo (o macchina) X a un differente organismo (o macchina) Y. Una sensorialità comunicata è una sensorialità condivisa o, con il termine suggestivo usato da Aristotele, un sunaisqánesqai, un «co-sentire»: il segnalare sensazioni, in ciascuna specie animale, è causa ed effetto di una condivisa capacità di co-sentire le sensazioni altrui. Il co-sentire è il fondamento biologico delle società animali: «se vivere vuol dire sentire e conoscere, il co-vivere equivale a co-sentire e co-conoscere [tò suzñn tò sunaisqánesqai kaì tò suggnwrízein]» (EE 1244b 24-26). Essendo biologicamente legata alla co-sensitività, la socialità o covivere [suzñn] è un tratto che appartiene a quasi tutto il mondo animale. Una pagina dell’Historia Animalium ne fornisce una tipologia: Esistono le seguenti differenze nei modi di vita e di agire degli animali. Alcuni di essi vivono in gruppo [a¬gelaîa], altri sono solitari [monadiká] (possono essere terrestri o volatili o acquatici), altri ancora possono vivere in entrambi i modi. Degli animali che vivono in gruppo, al28

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cuni sono cittadini [politiká]28, altri vivono per sé [sporadiká]. Vivono in gruppo, per esempio, fra i volatili il genere dei colombi, le gru, i cigni (nessun rapace invece vive in gruppo); fra gli acquatici, molti generi di pesci, come quelli che chiamano ‘migratori’, i tonni, i pelamidi, gli scombri. L’uomo può vivere nell’uno e nell’altro modo. Sono cittadini [politiká] gli animali che si adoperano per un determinato fine comune, cosa che non tutti gli animali che vivono in gruppo fanno. Sono di questo tipo l’uomo, l’ape, la vespa, la formica, la gru. Fra questi, alcuni si sottomettono a un capo, altri non hanno capi: la gru e le api sono soggette a un capo, le formiche e moltissimi altri animali vivono senza capi (487b 32-488a 13).

Alcuni animali, oltre a vivere in gruppo, mostrano una forma di organizzazione sociale tanto complessa da indurre Aristotele ad usare per essi il termine impegnativo di zøıa politiká «animali cittadini o politici»: sono animali cittadini, oltre l’uomo, «l’ape, la vespa, la formica, la gru». Che cosa differenzia il co-vivere cittadino degli uomini l’Ethica Nicomachea lo individua ancora una volta nel linguaggio: «Il co-sentire [sunaisqánesqai] si forma nel co-vivere e nel partecipare-comunicarsi discorsi e ragionamenti [e¬n tøı suzñn kaì koinwneîn lógwn kaì dianoíav]: questo infatti sembra che sia per gli uomini il co-vivere e non, come per il gregge, il pascolare nello stesso luogo» (1170b 10-14). La pagina, molto nota, del primo libro della Politica riassume il processo di pensiero fin qui ricostruito: È chiaro il motivo per cui l’uomo è animale cittadino [politikón] più di ogni ape o di un qualsiasi animale che fa vita di gruppo (pantòv a¬gelaíou zåıou). Perché la natura non fa niente senza scopo e l’uomo è l’unico animale a possedere il linguaggio [lógov]. La voce [fwnä)] è segno [shmeîon] di dolore e di piacere e questo è il moti28 Vegetti traduce politiká con «animali collettivisti» e sporadiká con «animali individualisti» (Lanza-Vegetti 1971: 134). Non ci sembrano termini appropriati al contenuto del testo. Qui Aristotele sta abbozzando una sorta di tipologia dei livelli di complessità del co-vivere degli animali. Al livello più basso stanno gli animali che si limitano a vivere in gruppo [a¬gelaîa]; a quello più in alto gli animali politiká che sono in grado di coordinare il loro co-vivere in funzione di un fine da raggiungere. «Collettivismo» e «individualismo» sono invece termini moderni che potrebbero semmai servire a distinguere due modi diversi del co-vivere degli animali linguistici e cittadini.

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vo per cui si riscontra negli altri animali (la loro natura infatti giunge fino a questo punto: avere la sensazione [ai¢sqhsiv] del dolore e del piacere e segnalarsela reciprocamente [shmaínein a¬lläloiv]). Il linguaggio [lógov] invece ha come fine l’esprimere ciò che è utile e ciò che è nocivo e di conseguenza ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Ciò accade perché, rispetto agli altri animali, è caratteristica specifica dell’uomo avere, egli solo, la capacità di sentire il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, e altre ancora: la comunanza-comunicazione reciproca [koinwnía] di queste qualità forma la famiglia e la città. (…). Chi non è capace di entrare in comunanza-comunicazione o chi a causa della sua autosufficienza non ha bisogno di nulla, costui non è parte della città e perciò è o animale non umano o dio. In tutti gli uomini si trova la tendenza naturale [fúsei h™ o™rmä] a questo tipo di comunanza-comunicazione (1253a 7-30).

A parte la suggestiva indicazione dell’«ape, vespa, formica, gru» come animali cittadini e politici (ma sulla loro specifica politicità nelle opere aristoteliche non troviamo molto), l’animale in massimo grado cittadino («più di ogni ape o di un qualsiasi animale che fa vita di gruppo») è l’uomo. Ne è prova il fatto che il suo co-vivere non è regolato solo dalla coppia piacevole/doloroso ma anche da quelle più complesse e comprensive utile/nocivo, giusto/ingiusto, bene/male, vero/falso. Tra il passo citato della Politica e le numerose pagine delle Etiche e del De Anima in cui vengono esaminate le implicazioni cognitive e comportamentali della naturale linguisticità dell’animale umano esiste una completa sintonia. Le Etiche e il De Anima spiegano perché le coppie di valori «giusto/ingiusto», «bene/male», ecc. possono essere praticate solo da animali che, avendo una epi-sensorialità e una phantasia linguisticizzate, sono anche in grado di scegliere in maniera argomentata. La Politica esprime lo stesso concetto in maniera più astratta sostenendo che solo «il linguaggio ha come fine l’esprimere ciò che è utile e ciò che è nocivo e di conseguenza ciò che è giusto e ciò che è ingiusto» e, nello spirito della filosofia aristotelica, bisogna aggiungere: «ciò che è vero e ciò che è falso». Le Etiche dimostrano che la felicità o eudaimonia appartiene solo agli animali linguistici perché solo essi possono scegliere tra utile/nocivo, giusto/ingiusto, bene/male, vero/falso. La Politica spiega che le medesime coppie di valori sono inseparabili da quella particolare città che solo gli animali linguistici secernono. 30

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Città e felicità vengono così a congiungersi tramite il comune fondamento linguistico. La Politica integra le Etiche: la ricerca della felicità è un tratto specifico dell’uomo perché solo l’uomo è animale contemporaneamente linguistico e cittadino. Precisiamo meglio i nessi forti che tengono legati la tendenza naturale al vivere felice, il parlare e il co-vivere cittadino. La finalità naturale della città degli animali linguistici non è il vivere ma il «vivere bene»: «Il fine della città è il vivere bene» (Pol. 1280b 39). Il «vivere bene» – abbiamo già visto – è la definizione di quel benessere specie-specifico chiamato eudaimonia e che anche qui si è deciso di tradurre con ‘felicità’: «l’essere felice consiste nel vivere bene e nell’agire bene» (EN 1095a 18-20). La felicità è quindi il fine della città. ‘Fine’ nell’accezione circolare della filosofia aristotelica: la città è l’habitat naturale dell’animale che persegue la felicità e, per converso, solo l’animale che ha nel proprio corredo naturale la città può perseguire la felicità. Tanto la città che la felicità sono a loro volta circolarmente connessi con la naturale linguisticità dell’animale umano. Felicità, città e linguaggio vengono a configurarsi come i vertici di una sorta di triangolo antropocognitivo. Come accade nei triangoli geometrici, anche qui ciascuno dei tre vertici può esistere se e solo se ci sono gli altri due: basta sopprimerne uno per far collassare l’intero triangolo. FELICITÀ

LINGUAGGIO

CITTÀ

Ci siamo finora soffermati sui fili ontologici che legano la felicità al linguaggio e la città al linguaggio. Resta da capire il lato del triangolo che connette felicità e città. Riprendiamo l’analisi aristotelica del rapporto che lega l’agire col fine. Ogni azione viene compiuta in funzione di un fine (l’agire del calzolaio ha, ad esempio, come scopo la fabbricazione della scarpa) e ciascun fine è vissuto in funzione di un altro fine (la scarpa serve a 31

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ben camminare; il ben camminare serve al benessere del corpo; il benessere del corpo serve a…; all’infinito). Se ci si fermasse a questo livello di analisi saremmo costretti a costatare «un processo che non ha mai fine [ei¬v a¢peiron] e di conseguenza il desiderio sarebbe vuoto e vano» (EN 1094a 20-21). Per fuoriuscire dal paradosso di un insieme di movimenti finalistici senza fine bisogna, secondo Aristotele, identificare un fine che, essendo interno a ciascuna attività finalistica, la governa e la regola. Questo fine viene chiamato «bene supremo [tò a¢riston]» (1094a 22) o «fine compiuto [téleion]» (1097a, 25-28) e coincide con la «felicità». Cercare in ciascun fine particolare il riferimento a un «bene supremo» o «fine compiuto» equivale a identificare un fine che, non essendo a sua volta strumento per altri fini, possa servire da loro naturale principio regolatore. Un siffatto naturale principio regolatore nella terminologia aristotelica si chiama «motore immobile». Il bene supremo o felicità o ‘vivere bene’ è il motore immobile che dà senso e ordine alla molteplice attività finalistica umana: «noi scegliamo ogni cosa per qualcos’altro salvo la felicità: essa è infatti il fine » (1176b 30-32). È oggetto di scelta il modo per perseguire il vivere felice ma non il vivere felice. Quest’ultimo è il comune fine senza ulteriori finalità (è questo il senso di fine compiuto) di scelte che possono, in linea di principio, essere non solo diverse ma anche tra loro contraddittorie. Perché la città è il solo luogo naturale in cui possa essere perseguito il bene supremo o fine compiuto chiamato «felicità» e definito come «vivere e agire bene»? Aristotele, riprendendo quasi alla lettera le analisi della Repubblica di Platone, individua la genesi naturale della città nella non autosufficienza di ciascun individuo: il contadino ha bisogno dell’artigiano se vuole avere buoni strumenti per la lavorazione dei campi, l’artigiano ha bisogno dei prodotti della terra per alimentarsi, contadino e artigiano hanno bisogno dell’opera del medico, il medico ha bisogno dei prodotti del lavoro del contadino e dell’artigiano, contadino, artigiano e medico hanno bisogno dell’architetto per costruire le case in cui vivere, e così via di seguito. In altre parole, nessun animale umano da solo può vivere bene. Ciascun singolo esemplare della specie umana, essendo per natura non sufficiente a se stesso, per vivere bene ha bisogno dell’attività di altri esemplari della specie. Una comunità regolata di individui umani che svolgono lavori, dissimili e complementari, si chiama città. La città 32

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è, da questo punto di vista, un insieme di regole-leggi finalizzate alla felicità complessiva (ossia al vivere bene) dei suoi componenti. A sua volta, la legge della città, definita nell’Ethica Nicomachea come «discorso che deriva da un certo tipo di saggezza e dall’intelligenza [lógov a¬pó tinov fronäsewv kaì noû]» (1180a 21), nelle sue caratteristiche più generali altro non è che il governo della coppia piacevole/doloroso mediante le coppie utile/nocivo, giusto/ingiusto, bene/male, vero/falso. Valori questi ultimi impossibili senza il linguaggio. I vertici del triangolo sono saldamente legati l’uno all’altro. Dovrebbe essere chiaro perché la finalità naturale della città non è il vivere ma «il vivere bene» e l’uomo che persegue la felicità non può essere un animale solitario: «l’uomo è un animale che ha la città come suo habitat naturale e il suo vivere naturale è un co-vivere [politikòn gàr a¢nqrwpov kaì suzñn pefukóv]. (…) L’uomo felice ha perciò bisogno di amici» (EN 1169b 18-23). Riassumendo e concludendo. La felicità è l’orizzonte individuale dell’uomo cittadino, la città è l’insopprimibile dimensione pubblica dell’animale umano che per natura aspira al vivere felice, il linguaggio è il fondamento bio-cognitivo senza cui né la felicità né la città potrebbero esistere. I motivi per cui nell’Ethica Nicomachea si dice che la condizione di felicità, ossia «il vivere e l’agire bene», non può essere condivisa «dal bue, dal cavallo e da nessun altro animale » ma appartiene solo agli animali linguistici sono gli stessi che nella Politica pongono un nesso inscindibile (ontologico, nella terminologia filosofica) tra città e linguaggio. Città, felicità e linguaggio riassumono la specie-specificità dell’uomo: animale per natura e cittadino e linguistico e con la vocazione innata alla felicità, ovvero al vivere bene.

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Capitolo secondo

I paradossi dell’architettura lineare

Nel Corpus aristotelico esiste un famoso passo di enorme rilevanza teorica in cui il filosofo di Stagira esprime in termini generali il modo in cui si rapportano tra loro la vocalità, la scrivibilità, i cosiddetti concetti e le cosiddette cose. Il suo argomento è la collocazione del linguaggio nel Mondo o, in termini meno metafisici e più epistemologici, rispetto all’universo dei pensieri e dei fatti. Il passo è stato da sempre fonte di problemi filologici e teorici. Si tratta delle righe 16a 3-8 del De Interpretatione che qui riportiamo insieme ad alcune tra le più importanti traduzioni. ºEsti mèn ou®n tà e¬n tñı fwnñı tøn e¬n tñı yucñı paqhmátwn súmbola, kaì tà grafómena tøn e¬n tñı fwnñı. kaì wçsper ou¬dè grámmata pâsi tà au¬tá, ou¬dè fwnaì ai™ au¬taí· w©n méntoi taûta shmeîa pråtwv, tau¬tà pâsi paqämata tñv yucñv, kaì w©n taûta o™moiåmata prágmata h¢dh tau¬tá. BOEZIO: Sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. Et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Quorum autem haec primorum notae, eaedem omnibus passiones animae et quorum hae similitudines, res etiam eaedem. GUGLIELMO DI MOERBEKA: Sunt quidem igitur quae in voce, earum quae in anima passionum symbola, et quae scribuntur, eorum quae in voce. Et sicut neque litterae omnibus eaedem, sic neque voces eaedem. Quorum tamen haec signa primum, eaedem omnibus passiones animae, et quarum hae similitudines res iam eaedem. STEINTHAL (1890-91, I: 185-86): Die Sprache ist Zeichen für die Erregungen der Seele, und das Geschriebene für jene; und wie die Buchstaben nicht überall dieselben sind, so auch nicht die Laute. Die Erregungen der Seele dagegen, von denen leztere zunächst Zeichen sind, sind die34

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selben überall, und die Dinge, von denen jenen (die Seeleneindrücke) Abbilder sind, sind ebenfalls dieselben. TRICOT (Vrin, Parigi 1946): Les sons émis par la voix sont les symboles des états de l’âme, et les mots écrits les symboles des mots émis par la voix. Et de même que l’écriture n’est pas la même chez tous les hommes, les mots parlés ne sont pas non plus les mêmes, bien que les états de l’âme dont ces expressions sont les signes immédiates soient identiques chez tous, comme sont identiques aussi les choses dont ces états sont les images. SCARPAT (1950: 69-70): Le forme linguistiche espresse dalla voce umana sono simboli delle affezioni dell’anima, i segni scritti delle variazioni della voce. E come le lettere non sono per tutti gli uomini uguali, così nemmeno i suoni sono gli stessi, ma le modificazioni [dell’anima] che vengono da questi suoni per prime significate, sono uguali per tutti, e anche le cose, di cui le modificazioni sono immagini, sono le stesse. COLLI (Einaudi, Torino 1955; Laterza, Roma-Bari 1973): Ordunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti. PAGLIARO (1961: 315-16): Le connotazioni che sono nella voce, sono simboli delle connotazioni che sono nell’anima e quelle nella scrittura sono simboli di quelle che sono nelle voci. E come le lettere non sono le stesse per tutti, così nemmeno le voci sono le stesse per tutti. Epperò, come quelle connotazioni nell’anima, delle cui primarie si hanno questi segni, sono le stesse per tutti, così le cose delle quali queste connotazioni sono i riflessi (o™moiåmata), sono le stesse per tutti. ACKRILL (Clarendon Press, Oxford 1963): Now spoken sounds are symbols of affections in the soul, and written marks symbols of spoken sounds. And just as written are not the same for all men, neither are spoken sounds. But what these are in the first place signs of – affections of the soul – are the same for all; and what these affections are likenesses of – actual things – are the same. DE MAURO (1965: 38): Le [cose che sono, che si verificano] nella voce sono simboli delle affezioni nell’anima, e gli scritti [sono simboli] delle [cose che sono] nella voce; e come i segni grafici non sono gli stessi per tutti, neppure le [singole forme] foniche [sono] le stesse; questi di que35

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ste [ultime] tuttavia sono fondamentalmente segni, le stesse per tutti sono le affezioni dell’anima, e le cose, di cui queste [affezioni sono] immagini similari, altresì sono le stesse [per tutti]. BELARDI (1975: 88; 1981): Le espressioni orali [semantiche] sono simboli delle affezioni dell’anima, e le rispettive forme scritte sono simboli delle orali. Come le lettere non sono eguali per tutti gli uomini, così non lo sono i suoni; invece, le affezioni dell’anima, delle quali in primo luogo1 tali espressioni orali (e le rispettive scritte) sono segni, sono le medesime per tutta l’umanità, così come sono i medesimi gli oggetti dei quali tali affezioni costituiscono copie. BARATIN-DESBORDES (1981: 96): La parole est un ensemble d’éléments symbolisant les états de l’âme, et l’écriture un ensemble d’éléments symbolisant la parole. Et, de même que les hommes n’ont pas tous le même système d’écriture, ils ne parlent pas tous de la même façon. Toutefois, ce que la parole signifie immédiatement, ce sont des états de l’âme qui, eux, sont identiques pour tous les hommes, et ce que ces états de l’âme représentent, ce sont les choses, non moins identiques pour tout le monde. ARENS (1984: 21): These spoken forms [nome, verbo, negazione, affermazione, proposizione assertoria, enunciato] are symbols of mental impressions, and the written forms are symbols of the spoken forms. And just as the letters are not the same everywhere so are not the vocal forms; but what all these forms (sc. the written and spoken ones) are originally of, the mental impressions, they are the same everywhere (or: in all people), and what the latter are likenesses of, the things, they are also the same. ZANATTA (Rizzoli, Milano 1992): Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste cose sono segni, come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui queste sono immagini sono le cose, già identiche. ZADRO (Loffredo, Napoli 1999): Diciamo pertanto che ciò che si dà nella voce è costituito di simboli delle affezioni che si danno nell’anima, e le notazioni scritte sono simboli di ciò che si dà nella voce. E come le lettere scritte non sono le medesime per tutti, così neppu1 L’espressione «in primo luogo», assente in Belardi (1975), è aggiunta in Belardi (1981).

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re le voci pronunciate sono le medesime per tutti; ciò tuttavia di cui queste sono in primo luogo segni, sono per tutti le medesime affezioni dell’anima e ciò di cui queste sono immagini sono cose che sono già esse stesse le medesime.

È uno dei passi più citati e commentati dell’intero Corpus aristotelico. La sua lettura-interpretazione si trova alla base della riflessione teorica sul linguaggio dai primi anni della cristianità fino ai giorni nostri. Concetti e problemi con cui teorizziamo il linguaggio e il suo rapporto con ciò che appare come altro dal linguaggio (il pensiero o senso, il mondo delle cose e/o delle esperienze) hanno qui una delle loro principali matrici. I primi commenti, a noi interamente pervenuti, sono di Ammonio (V-VI sec.) e Boezio (480-525), due filosofi imbevuti di cultura neoplatonica e stoico-cristiana2. Entrambi hanno tracciato la strada lungo la quale i commentatori successivi si sono incamminati apportando solo superficiali e marginali rettifiche. Direzione e articolazione di questo maestoso viale ermeneutico si lasciano con poca fatica individuare dalla lettura di una qualsiasi delle traduzioni qui riportate. Cosa sembra dire o, almeno, cosa si è letto in questo passo a partire da Ammonio e Boezio? Una parafrasi potrebbe essere la seguente. Esiste un mondo delle cose e degli oggetti [tà prágmata] di cui copie o immagini [o™moiåmata], più o meno speculari, si riflettono nell’anima impressionandola e modificandola [tà paqämata tñv yucñv]. Il linguaggio verbale orale [tà e¬n tñı fwnñı, fwnaí] ha la funzione di segnalare [súmbola, shmeîa] all’esterno dell’anima le modifiche che l’anima patisce [tà e¬n tñı yucñı paqämata] quando viene impressionata dagli oggetti ad essa esterni [tà prágmata]. La scrittura [tà grafómena, grámmata], a sua volta, mediante uno spe2 Il commento greco di Ammonio e i due in latino di Boezio vedremo che in molti degli argomenti che qui discuteremo concordano. Courcelle (1948) e Isaac (1953) ipotizzano una dipendenza di Boezio da Ammonio: il filosofo latino è stato ad Alessandria e durante questo viaggio potrebbe essere venuto a conoscenza del commento di Ammonio. Prove contro la filiazione Ammonio-Boezio sono fornite da Shiel (1958). Tarán (1978: VII-VIII) ritiene che tanto Ammonio che Boezio dipendano da precedenti commenti a noi non pervenuti, da quello di Porfirio in particolare. Entrambe le ipotesi riconoscono la presenza della filosofia neoplatonica nelle letture ammoniana e boeziana del De Interpretatione.

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INVARIABILE = NATURA

VARIABILE = CULTURA

livello 4

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tà grafómena (tà grámmata) SCRITTURA

livello 3

tà e¬n tñı fwnñı (fwnaí) ORALITÀ

livello 2

tà e¬n tñı yucñı pajämata AFFEZIONI DELL’ANIMA CONCETTI

livello 1

súmbola / shmeîa SIMBOLI / SEGNI

súmbola / shmeîa SIMBOLI / SEGNI

o™moiåmata IMMAGINI

tà prágmata COSE, OGGETTI

cifico sistema di segnalazione [súmbola, shmeîa] trasporta le espressioni verbali orali dalla fonicità alla graficità. I quattro livelli (cose, immagini mentali delle cose, oralità, scrittura) formano un sistema di dipendenze gerarchiche, lineari e a senso unico. Si veda il grafico riportato a pagina seguente. I livelli più profondi esistono o possono in linea di principio esistere anche in assenza dei livelli più superficiali ma non vale il contrario. L’architettura che tiene insieme l’edificio teorico è simile a quella delle costruzioni edili a più piani: l’esistenza del piano n+1 dipende dalla preliminare costruzione del piano n; il piano n è invece funzionalmente autonomo dal piano n+1 e dai piani successivi a n+1. Ossia: l’esistenza delle cose è indipendente dalle immagini che esse imprimono nell’anima, le impressioni dell’anima non dipendono dalle voci che le segnalano, le espressioni verbali orali non traggono alcuna consistenza cognitiva dal fatto che vengano scritte. Il sistema, se viene letto dal livello più superficiale a quello più profondo (dall’alto verso il basso nel grafico), esibisce invece una serie di dipendenze necessarie, anch’esse lineari e a senso unico: il livello della scrittura, ad esempio, trae tutta la sua consistenza ontologica e co38

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gnitiva non solo dalle voci che trascrive ma anche dalle immagini che le cose imprimono nell’anima e, in ultima analisi, dalle cose stesse. I piani o livelli sono collegati da una doppia relazione lineare e unidirezionale che chiamiamo rispettivamente relazione ontologica e relazione semiotica o ermeneutica. La prima relazione (freccia a sinistra del grafico) procede dal piano fondante n al piano fondato n+1; la seconda relazione (freccia a destra) dal piano fondato n al piano fondante n-1. In termini semiotici: il piano n+1 è il significante del piano n; il piano n è il significato del piano n+1. L’intero sistema è inoltre solcato da una profonda cesura per così dire ontologica: i due livelli più profondi (cose, immagini delle cose nell’anima) sono universali e invariabili: «sono uguali per tutti»; i due livelli più superficiali (voci e lettere oppure – a seconda delle interpretazioni – espressioni orali e scritte) variano nel tempo e nello spazio: «non sono uguali per tutti». Dal momento che le convenzioni sono per definizione anch’esse mutabili nel tempo e nello spazio, nel passo viene solitamente letta anche la formulazione di un altro principio teorico: voci e lettere sono convenzionali strumenti segnici o simbolici inessenziali alla formazione dei sensi [paqämata e¬n tñı yucñı] e delle cose corrispondenti [prágmata]3. Se questa lettura del passo fosse corretta, la teoria aristotelica del linguaggio sarebbe autocontraddittoria. Chi la sostiene dovrebbe assumersi l’onere di spiegare il modo in cui l’architettura lineare a doppia relazione unidirezionale che abbiamo descritto possa essere messa d’accordo con una serie di posizioni teoriche note agli studiosi di Aristotele e che qui enumeriamo. 3 Coerentemente con questa lettura De Mauro (1965: 38-47; passim) ha visto nelle righe 16a 3-8 la prima autorevole formulazione del paradigma teorico secondo cui le lingue sarebbero delle nomenclature, ossia un insieme di etichette attaccate a concetti e/o a cose preesistenti. La presunta architettura lineare del passo viene mantenuta anche nelle interpretazioni e rappresentazioni in termini di triangolo semiotico (Manetti 1987: 107; Auroux 1996: 79; Eco 1997: 352). La lettura a tre vertici ha anche il difetto di rimuovere dal testo aristotelico il momento della scrittura [tà grafómena, tà grámmata] che, invece, – lo vedremo nel corso della ricerca – svolge un ruolo centrale quanto i prágmata, i paqämata e¬n tñı yucñı e le fwnaí. Una considerazione più sfumata e prudente sulla difficile collocazione di Aristotele nella storia delle teorie linguistiche in Simone (1992: 38-39).

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1. Aristotele più volte sostiene che le parole hanno la capacità di «significare anche fatti che non sono [shmaínein kaì tà mæ o¢nta]» (An. Post. 92b 29-30). Un esempio viene fornito qualche riga dopo il passo che stiamo discutendo: la parola ‘ircocervo [tragélafov]’ significa indubbiamente qualcosa [shmaínei ti] ma non è né vera né falsa (DI 16a 16-18). Una delle parti centrali del De Interpretatione è tra l’altro dedicata all’esame del significato degli enunciati che si riferiscono a eventi futuri, ossia a eventi che, non essendo ancora accaduti, potrebbero accadere o non accadere. Fatti non ancora realizzati e solo possibili come fanno ad imprimere nell’anima quelle modificazioni che voci, orali e scritte, avrebbero il compito di segnalare? Non è allora un caso che la relazione non lineare, non univoca, non necessaria tra le significazioni verbali e l’universo dei cosiddetti fatti reali di cui i discorsi parlano si trovi formulata con molta chiarezza proprio nel De Interpretatione: «è possibile enunciare [a¬pofaínesqai] come non esistente [w™v mæ tò u™párcon] ciò che esiste [tò u™párcon] e come esistente ciò che non esiste, così come è possibile enunciare come non esistente ciò che non esiste e come esistente ciò che esiste» (17a 26-29). 2. Nell’opera aristotelica si trova la prima, e per molti versi definitiva, teoria della metafora intesa non solo e non tanto come figura poetica eccezionale ma come normale e quotidiano procedimento verbale («tutti gli uomini discutono con metafore» – Rhet. 1404b 34) usato per ampliare la conoscenza del mondo: «quando la vecchiaia è detta ‘filo di paglia’ si produce apprendimento e conoscenza mediante il ricorso a un genere dal momento che entrambi sono sfioriti» (1410b 14-15). La metafora come fisiologica procedura verbale conoscitiva dove e come collocarla nella presunta architettura lineare dell’attacco del De Interpretatione? 3. Aristotele sostiene in più luoghi che, in ogni ricerca, è impossibile indagare su ciò che è [tà o¢nta] prescindendo dalle parole e dai discorsi con cui gli uomini ne hanno parlato o ne parlano: «è, in linea generale, impresa impossibile indagare sugli elementi di ciò che è senza distinguere i molteplici modi in cui si dice che è» (Met. 992b 1819). Agli animali linguistici l’universo non verbale appare per lo più 4 Su questo argomento pagine importanti in Owen (1961, 1965), Wieland (1970), Berti (1989).

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come universo detto o, in linea di principio, dicibile: i fainómena sono indistinguibili dai legómena4. Ciò spiega perché l’intero Opus aristotelico (e non solo le pagine che hanno il linguaggio come argomento esplicito di riflessione) è sensibilissimo agli intrecci, non lineari ma complessi, che legano le parole tra loro e le parole ai fatti. L’esame critico dei ragionamenti sofistici è utile alla filosofia – si legge nei Sophistici Elenchi – perché fa capire meglio «in quanti modi qualcosa possa essere detto-pensato [légetai] e quanto simili e quanto differenti siano tra loro fatti [prágmata] e parole [o¬nómata]» (175a 5-9). È questa grande sensibilità linguistico-cognitiva che spinge Aristotele a riflettere, oltre che sulla metafora, anche sulle relazioni di omonimia, sinonimia5 e paronimia e a redigere nel libro D della Metafisica il primo lessico della lingua scientifica greca in cui annota i molteplici sensi e riferimenti dei termini esaminati. Come conciliare il fitto e intricato intreccio non lineare di espressioni verbali [tà legómena, o¬nómata, r™ämata, léxeiv] e fatti [tà fainómena, prágmata, tà o¢nta] con la bimillenaria lettura linearista del passo 16a 3-8? Con molta onestà intellettuale Ackrill (1963: 113), dopo aver fatta propria la tradizionale lettura linearista del passo, ne nota una «grave debolezza» teorica e riconosce che «per fortuna la nozione che le espressioni verbali sono simboli di affezioni nell’anima e queste sono somiglianti a cose non ha una determinante influenza sul resto del De Interpretatione». È effettivamente molto difficile trovare coerenza teorica tra i tre punti elencati e la teoria del linguaggio come insieme di relazioni univoche e lineari tra segni (o simboli) e concetti a loro volta immagini di cose. Delle due l’una: 1) le righe 16a 3-8 non sono di Aristotele e a chi sostenesse la tesi spetterebbe l’onere della prova, ma – a parte Andronico di Rodi che riteneva non autentica l’intera opera – nessun filologo si è mai messo su questa strada6; 2) bisogna avere la pazienza e l’umiltà di leggere il passo con sensibilità e occhi nuovi. Noi abbiamo deciso di praticare la seconda alternativa.

5 Per una interpretazione e traduzione non cosalistiche delle definizioni di omonimia e sinonimia fornite dalle Categoriae (1a 1-11) rimandiamo a Lo Piparo (2000: 60-61). 6 Informazioni essenziali sulla discussione della congettura di Andronico in Sainati (1968: 200-2).

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Capitolo terzo

Una nozione non simbolica di simbolo

1. Le operazioni dell’anima e le articolazioni della voce Delle righe 16a 3-8 ciascuna parola è un concentrato ad alta densità di problemi filologici e teorici. Non si esagera se si dice che tutta la linguistica aristotelica potrebbe essere esposta in sede di commento a queste righe. Per afferrarne il senso è però necessario fare interagire il passo con l’intero Corpus e non soltanto con le parti che trattano esplicitamente di linguaggio. Iniziamo col leggere la prima frase proponendo, per lavorare meglio sul testo, una brutta e goffa traduzione letterale: Le cose che sono nella voce [tà e¬n tñı fwnñı] sono simboli [súmbola] delle affezioni che sono nell’anima [tøn e¬n tñı yucñı paqhmátwn] e le cose scritte [tà grafómena] delle cose che sono nella voce [tøn e¬n tñı fwnñı].

Le cose che sono nella voce. La questione sta nell’identificare ciò che è sottinteso nel neutro plurale tá, ossia cosa sono «le cose che stanno nella voce». Le interpretazioni tradizionalmente date sono di due tipi. a) Tá va riferito a nomi, verbi e proposizioni oppure (leggera variante) a tutte le forme verbali significative ossia a tutte le emissioni foniche genericamente qualificabili come «parole». È la lettura di Ammonio (Am-DI: 22,22 sgg.) e Boezio (B-DI 2: 29 sgg.)1 seguita, fra

1 Da Boezio apprendiamo che questa fu anche l’interpretazione di Porfirio, il quale – secondo la testimonianza del commentatore latino – faceva notare che Aristotele aveva detto che simboli delle «affezioni dell’anima» sunt ergo ea quae sunt

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altri, da Tommaso d’Aquino (Tom-DI: I, II, 13-14), Steinthal (189091, I: 185) che traduce tà e¬n tñı fwnñı con die Sprache, Pagliaro (1956: 141-42), Arens (1984: 25-26), Belardi (1975: 79-88), Eco (1984: 23), Montanari (1988: 36-37). b) Tá va riferito ai «singoli suoni emessi dalla voce»: è la interpretazione sottesa da traduzioni come quelle di Tricot, Colli, Ackrill2, Aubenque (1962: 106-7). Chi sostiene la prima interpretazione obietta ai sostenitori della seconda che le singole unità foniche per Aristotele sono asemantiche e pertanto non possono essere simboli di affezioni dell’anima3. Entrambe le schiere di interpreti e traduttori presuppongono che súmbolon sia un termine, in qualche modo e con qualche accorgimento, riconducibile a ciò che noi moderni intendiamo con ‘simbolo’ o ‘segno’: qualcosa che sta per qualche altra cosa (aliquid stat pro aliquo) o per somiglianza o per convenzione o per implicazione. Per dipanare la matassa proponiamo di procedere a zig-zag e di partire dall’ipotesi che sia impossibile capire cosa siano le «cose che sono nella voce» se si prescinde dalla soluzione di due preliminari questioni: 1) l’identificazione della effettiva natura delle «affezioni che sono nell’anima», ossia di ciò di cui «le cose che stanno nella voce» sono simboli; 2) l’identificazione di una eventuale specifica nozione aristotelica di simbolo non riconducibile, direttamente o indirettamente, a nessuna delle tante nozioni moderne di simbolo e/o segno. Nella nostra brutta traduzione di servizio, «le cose che stanno nella voce» sono simboli delle affezioni dell’anima. ‘Affezione’ traduce in prima approssimazione páqhma. È su questo termine che bisogna esercitare la prima analisi. Nel lessico teorico di Aristotele páqhma e il suo equivalente páqov4 non hanno né un significato specificamente antropologico né in voce e non sunt igitur voces (B-DI 2: 29-30). La medesima formulazione in Tommaso d’Aquino (Tom-DI II: 14). 2 Di questi autori si vedano le traduzioni riportate qui a pagina 35. 3 È l’obiezione mossa, ad esempio, da Belardi (1975: 81): «Poiché i singoli suoni del linguaggio sono a giudizio di Aristotele asemantici (...), è evidente, se non si vuole ammettere contraddizione, che unità o elementi asemantici non possono essere symbola o semeia di alcunché». 4 Sull’equivalenza di páqhma e páqov si veda Trendelenburg (1846: 99 sgg.), Bonitz (1849: 268-69; 1867; 1870: 554). Citiamo per tutti Bonitz secondo cui nella

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genericamente biologico. Essi sono collegati con la nozione di trasformazione [a¬lloíwsiv]. Metaphysica D ne elenca le due principali accezioni: «Con páqov si intende 1) la qualità rispetto alla quale qualcosa può trasformarsi [a¬lloioûsqai]: ad esempio, il bianco e il nero, il dolce e l’amaro, la pesantezza e la leggerezza e tutte le altre qualità di questo tipo; 2) l’attuazione di queste alterazioni [e¬nérgeiai kaì a¬lloiåseiv], vale a dire le alterazioni che si trovano già in atto5» (1022b 15-19). I páqh indicano o i movimenti di trasformazione reciproca delle qualità di un medesimo genere («la trasformazione è il movimento rispetto alla qualità»: Phys. 225b 26) o l’insieme delle differenze specifiche in cui un genere può trasformarsi o articolarsi. In entrambi i casi il termine non indica una qualità perennemente immobile ma un’attività o il risultato mutabile di un’attività ricadente interamente dentro i confini di un genere naturale: il bianco e il nero, ad esempio, trasformandosi l’uno nell’altro sono páqh del genere ‘colore’. È con questo significato che l’espressione páqh tñv ou¬síav «trasformazioni-articolazioni fenomeniche della sostanza» ricorre frequentemente nella Metaphysica. Riporto altri esempi. Met. 1004b 10-11: «il dispari e il pari, la commensurabilità e l’uguaglianza, l’eccesso e il difetto sono páqh {modi di essere o trasformazioni} propri del numero in quanto numero». Met. 985 b 29-32: «i Pitagorici (…) ritenevano che la giustizia fosse un páqov {modo di essere} dei numeri6 così come l’anima o la mente o il tempo opportuno (…) e scrutavano i páqh {le caratteristiche} e i rapporti degli accordi musicali nei numeri». Met. 1021a 8-9: le relazioni quantitative e qualitative che i numeri intrattengono tra loro «si dicono anche páqh {modi di essere} del numero». Met. 1090a 21-22: «I Pitagorici costatarono che molti páqh {articolazioni o relazioni strutturali} dei numeri sono presenti nei corpi sensibili». filosofia di Aristotele appare evidente che «inter páqhma et páqov non esse certum significationis discrimen, sed eadem fere vi et sensus varietate utrumque nomen, saepius alterum, alterum rarius usurpari» (1870: 554). 5 Per quest’ultima proposizione, difficile da rendere letteralmente, seguiamo la traduzione di Reale (1993). 6 Ossia: la giustizia è rappresentabile mediante (oppure: è equivalente a) una relazione aritmetica.

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Rhet. 1355b 29-30: «la geometria è lo studio dei páqh {modi di essere o trasformazioni} che riguardano le grandezze». Poet. 1460b 12: «la glossa, la metafora e molti altri páqh {modi di essere o trasformazioni} della léxis»7. DC 298a 27-b 1: «Delle cose che diciamo naturali alcune sono sostanze altre sono operazioni e modi di essere [e¢rga kaì páqh] delle sostanze. (…) Chiamo modi di essere e operazioni [páqh kaì e¢rga] sia i movimenti [kinäseiv] di ciascuna di esse e di altre sostanze di cui le prime sono causa per la loro propria capacità, sia le trasformazioni e i cambiamenti delle une nelle altre». Meteor. 340b 16-17: «caldo, freddo, secco, umido sono páqh {trasformazioni} della materia sublunare». Meteor. 358b 20-21: «(molti liquidi sono) páqh {trasformazioni specifiche} dell’acqua causati da una certa mescolanza». De Gen. et Corrup. 320b 16-17: «la materia (…) non può esistere senza un páqov {un suo specifico modo di essere} e senza una forma». Met. 1071a 1-2: «senza le sostanze non sarebbero concepibili né i loro páqh {trasformazioni} né i movimenti». Phys. 251b 27-28: «il tempo è un páqov {un modo di essere} del movimento»8.

Nelle prime pagine del primo capitolo del libro A del De Anima Aristotele discute se un’anima possa esistere separata dal suo corpo e spiega che «tutti i modi di essere o trasformazioni dell’anima [tà tñv yucñv páqh9] esistono insieme col corpo (...) perché insieme ad essi anche il corpo subisce qualcosa» (403a 16-9). In questo contesto enumera alcuni di questi páqh. Essi sono: il pensare [tò noeîn], il coraggio, la dolcezza, la paura, la pietà, l’audacia, la gioia, l’amore, l’odio (403a 8-18). Il De Memoria et Reminiscentia vi aggiunge anche la capacità di richiamare alla memoria ciò che è assente (449a 5-6). Possiamo cominciare a porre i primi paletti per l’interpretazione del passo. L’identificazione della natura dei paqämata e¬n tñı yucñı di cui «le cose che sono nella voce» sono simboli deve tenere conto di tre considerazioni. Sulla nozione aristotelica di léxis vedi Lo Piparo (1999). Lo stesso concetto in Met. 1071b, 10. 9 Jannoni (Les Belles Lettres, 1966) adotta la variante paqämata. 7 8

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a) L’occorrenza páqhma in 16a 3-8 va letta in modo che sia coerente col campo semantico sopra delineato. b) L’espressione paqämata e¬n tñı yucñı ricorre nella Repubblica (511d) di Platone nell’indubbio significato di «modalità cognitive dell’anima umana». A partire dalla modalità più elevata e più aderente alla verità il testo platonico individua quattro paqämata e¬n tñı yucñı: la nóhsiv (capacità di intuizione immediata del vero), la diánoia (capacità di ragionamento sequenziale), la pístiv (credenza in ciò che i sensi mostrano), la ei¬kasía (capacità di produrre rappresentazioni). c) La frase che stiamo esaminando si incontra nella parte programmatica di un trattato il cui argomento è lo studio di alcuni operatori logico-cognitivi specie-specifici dell’anima umana come il vero e il falso, il possibile e il necessario, il particolare e il generale, l’affermazione e la negazione. I primi quattro capitoli del De Interpretatione (che storici delle teorie linguistiche, filosofi del linguaggio e semiotici tendono a isolare dal resto trasformandoli in un piccolo trattato autonomo) svolgono, nell’economia del libro, la funzione di delineare l’orizzonte linguistico-cognitivo entro cui l’indagine logica andrà svolta. La prima frase dell’opera, per l’appunto, elenca le nozioni di base che preliminarmente bisogna chiarire: «Come prima cosa bisogna stabilire che cosa sia il nome e che cosa sia il verbo, poi che cosa sia la proposizione negativa, la proposizione affermativa, la proposizione dichiarativa, il discorso» (16a 1-2). La seconda e la terza frase, che corrispondono alle righe 16a 3-8 che stiamo analizzando, enunciano l’intelaiatura generale entro cui le nozioni di vero/falso, possibile/necessario, affermazione/negazione, ecc. trovano la loro naturale collocazione: «Le cose che sono nella voce sono simboli delle…». Le tre considerazioni ci fanno rigettare l’interpretazione, formulata per la prima volta da Ammonio (Am-DI: 17, 20 sgg.; 22, 19), secondo cui i paqämata e¬n tñı yucñı altro non sarebbero che i singoli concetti (noämata) impressi nell’anima dalle cosiddette cose10: il concetto o immagine mentale di ‘cavallo’ corrispondente al cavallo reale, 10 Non si discosta da questa interpretazione Coseriu per il quale páqhma e¬n tñı yucñı (1975: 76) è da intendersi come «Erfahrung» e «Inhalt des Bewußtsein». La stessa tesi in Di Cesare (1981: 22).

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il concetto o immagine mentale di ‘Socrate’ corrispondente al Socrate in carne ed ossa, ecc. I paqämata e¬n tñı yucñı vanno, invece, interpretati nel senso in cui Aristotele parla dei páqh dei numeri, dei colori, delle figure geometriche, della léxis, della materia sublunare, del tempo, ecc., ossia come l’insieme delle articolazioni o modalità in cui una sostanza o un genere naturale può trasformarsi e/o manifestarsi. Le «affezioni dell’anima» allora altro non sono che le operazioni logico-cognitive specie-specifiche dell’anima umana studiate dettagliatamente nel corso del De Interpretatione. La lettura che qui proponiamo ha anche il vantaggio di essere compatibile col passo platonico citato. La proposta trarrà ulteriori sostegni dal prosieguo dell’analisi. La prima proposizione di 16a 3-8 potrebbe momentaneamente essere tradotta in questo modo: «le cose che sono nella voce sono simboli delle operazioni logico-cognitive specie-specifiche dell’anima umana». Come riempire la casella vuota indicata dalla formula di servizio le cose che sono nella voce? Anche la voce verbale, come ogni altro genere e/o sostrato naturale, ha per Aristotele i suoi páqh o trasformazionidifferenziazioni specie-specifiche: «la voce è genere e materia, le differenze (diaforaí) formano, a partire da essa, le sue qualità specifiche (ei¢dh) e i suoi stoicheia» (Met. 1038a 6-8). I modi specifici in cui la voce linguistica si articola, Aristotele, seguendo la tradizione terminologica delle scuole grammaticali dell’epoca, li chiama grammata e stoicheia. E questi – lo mostreremo nel prossimo capitolo – nella filosofia aristotelica distinguono la fono-semanticità specie-specifica dell’uomo dalla inarticolata fonicità espressiva degli animali non linguistici. Un passo dei Problemata ci fornisce la chiave risolutiva della questione filologica e teorica che stiamo affrontando: Il linguaggio umano [lógov] non è significare mediante la voce ma mediante le sue trasformazioni-differenziazioni qualitative [toîv páqesin au¬tñv], e non per segnalare dolore e gioia. Le voci-lettere sono trasformazioni-differenziazioni qualitative della voce [tà dè grámmata páqh e¬stì tñv fwnñv]. Gli infanti11 e gli animali non umani si esprimono [dhloûsin] allo stesso modo: infatti nemmeno gli infanti pronunciano le voci-lettere [grámmata] (895a, 11-14). 11 Traduco oi™ paîdev e tà paidía con il termine lucreziano e vichiano di «infanti» perché, meglio del generico «fanciulli» o «bambini», rende l’argomentazione linguistica del testo.

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I grammata-stoicheia appartengono solo agli animali dotati di linguaggio (non li posseggono né gli infanti, che ancora non parlano, né altri animali) e sono qui definiti páqh tñv fwnñv. L’espressione tà e¬n tñı fwnñı dell’enunciazione teorica iniziale del De Interpretatione perciò non può che leggersi tà e¬n tñı fwnñı: le cose che sono nella voce sono le trasformazioni-differenziazioni o articolazioni (grámmata, stoiceîa)12 proprie della voce verbale umana. Della prima enunciazione teorica di 16a 3-8 proponiamo, a questo livello di analisi, la seguente lettura: «le articolazioni specie-specifiche della voce umana [fwnaí, grámmata, stoiceîa] sono simboli delle operazioni logico-cognitive, anch’esse specie-specifiche, dell’anima umana». Il fuoco dell’attenzione va adesso spostato su quel particolare tipo di relazione che le due articolazioni [paqämata] intrattengono tra loro e che Aristotele indica col termine ‘simbolo’. Finché non sarà individuato lo specifico significato aristotelico di questo termine-chiave, l’attacco iniziale del De Interpretatione continuerà a suggerire indicazioni teoriche tutto sommato ovvie e banali. 2. Il mentalese neoplatonico Sulla interpretazione della seconda frase del De Interpretatione ha agito, fin dai primi secoli della cristianità, la distinzione neoplatonica e stoica tra il linguaggio interiore [lógov e¬ndiáqetov], identificato illegittimamente con tà e¬n tñı yucñı paqämata del passo aristotelico, e il linguaggio esteriore [lógov proforikóv], identificato, altrettanto illegittimamente, con tà e¬n tñı fwnñı13. La funzione del secondo sarebbe di comunicare all’esterno, mediante segni o simboli percepibili da altri corpi, il linguaggio silenzioso e del tutto immateriale che si svolge dentro l’anima. Plotino va ancora oltre e ripropone la relazione simbolica e/o segnica tra i due linguaggi in termini di imitazione e iconicità: o™ e¬n fwnñı lógov mímhma toû e¬n yucñı «il linguaggio vocale (= posto nella voce) è imitazione del linguaggio mentale (= posto nell’anima)» (En. I, 2,3); lógov o™ e¬n proforâı lógou toû e¬n yucñı «Il Per le nozioni di gramma e stoicheion vedi i prossimi due capitoli. La distinzione stoica dei due linguaggi è riportata da Sesto Empirico, Ad. Log. II, 275-276. 12 13

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linguaggio che si mostra all’esterno è immagine del linguaggio che risiede nell’anima» (V, 1,3)14. Le frasi plotiniane hanno l’apparenza di calchi di quella di Aristotele ma ne sono insidiosi travisamenti: le articolazioni della voce [tà e¬n tñı fwnñı] sono diventate linguaggio vocale, le articolazioni logico-cognitive [tà e¬n tñı yucñı paqämata] si sono trasformate in silenzioso linguaggio mentale, la relazione simbolica tra le due articolazioni – che nella prospettiva aristotelica concorrono, insieme, a formare il linguaggio – è reinterpretata da Plotino come imitazione o rappresentazione speculare di un linguaggio da parte di un altro linguaggio. Data la formazione neoplatonica dei primi commentatori dell’opera aristotelica non può escludersi che le espressioni plotiniane abbiano funzionato da filtro interpretativo dell’attacco iniziale del De Interpretatione. Lo schema plotiniano traspare chiarissimamente nel commento del neoplatonico Ammonio. I nomi, i verbi e il discorso – spiega il commentatore di Alessandria – nel trattato sono esaminati da tre differenti punti di vista: «nell’anima – in riferimento a semplici concetti e al linguaggio cosiddetto interiore [katà tà a™plâ noämata kaì tòn e¬ndiáqeton kaloúmenon lógon] –, e poi in quanto sono pronunciati e in quanto sono scritti» (Am-DI 22: 13-15). La traduzione di Steinthal («Il linguaggio è segno delle impressioni dell’anima…»)15 è uno dei prodotti finali della lettura neoplatonica e mentalese del passo aristotelico. A tale interpretazione si oppone una evidenza testuale: nei testi aristotelici nome, verbo e discorso vengono sempre definiti in termini di voci significative [fwnaì shmantikaí] e mai in esclusivo riferimento ad autonome caratteristiche mentali. Cito da De Interpretatione e Poetica: È nome la voce significativa composta {Poet.: sunqetä; DI: katà sunqäkhn}16, senza determinazione temporale, e di cui nessuna parte da sola è significativa (Poet. 1457a 10-12; DI 16a 19-21). 14 Nei brani di Plotino si sente anche l’eco di alcuni passaggi di Platone come, ad esempio, questo: «La falsità che si riscontra nei discorsi [e¬n toîv lógoiv] è una imitazione [mímhma] di un certo modo di essere dell’anima [toû e¬n tñı yucñı paqämatov], una sua immagine posteriore [uçsteron ei¢dolon], e non la falsità nella sua assolutezza» (Rep. 382 b-c). 15 Si veda la traduzione riportata alle pp. 34 sg. 16 Sulla questione del rapporto tra le due differenti qualificazioni (sunqetä e katà sunqäkhn) della voce linguistica rimando ai prossimi due capitoli.

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È verbo la voce significativa composta {Poet.: sunqetä; DI: katà sunqäkhn}, con determinazione temporale, e di cui nessuna parte da sola significa (Poet. 1457a 14-15; DI 16b 6-7). Il discorso è voce significativa composta {Poet.: sunqetä; DI: katà sunqäkhn}, di cui alcune parti per se stesse a loro volta significano qualcosa (Poet. 1457a 23-24; DI 16b 26-27).

La vocalità svolge in queste definizioni un ruolo centrale: essa è configurata come una caratteristica non aggiuntiva o ridondante ma costitutiva della natura del nome, verbo e discorso. Qualcosa – sta sostenendo qui Aristotele – è nome, verbo o discorso se e soltanto se è anche voce. Alla linguistica aristotelica risulta pertanto estranea l’idea di nomi, verbi e discorsi solo e soltanto mentali: in un linguaggio puramente mentale, e quindi senza alcuna realizzazione materiale, come interpretare tra l’altro il rapporto tra parti e tutto su cui insistono le definizioni aristoteliche?17 È quindi incompatibile con la filosofia di Aristotele la versione esplicitamente spiritualistica e dualistica (cartesiana ante litteram) dei due linguaggi, interno e esterno, che Ammonio espone in sede di commento alle Categoriae: Se le anime fossero nell’aldilà, separate da questo corpo, ciascuna di esse conoscerebbe tutte le cose in maniera appropriata e senza alcun bisogno d’altro. Ma poiché sono discese nel mondo della generazione, si sono legate al corpo e sono contaminate dalle sue tenebre, hanno di conseguenza la vista debole e non sono capaci di conoscere le cose come sono nella loro natura. È questo il motivo per cui hanno bisogno di comunicare le une con le altre e per l’appunto il servizio che la voce presta a loro è di trasportare i pensieri (noämata) dall’una all’altra (AmCat. 15, 4-9).

Chi fa risalire ad Aristotele18 la distinzione, stoica e neoplatonica , dei due linguaggi cita un passaggio del capitolo 10 del primo libro degli Analytica Posteriora che qui riportiamo. 19

17 Della originalità delle definizioni aristoteliche ci siamo occupati da vari punti di vista in Lo Piparo (1988; 1989-90; 1999). 18 Vedi Pohlenz (1939; 1959, I: 61), Melazzo (1975: 202-4), Chiesa (1992: 23). 19 Per molti interpreti la distinzione fu, tra i primi, teorizzata da Platone. Sulla ipotetica origine platonica dei due linguaggi preferiamo in questa sede non pronunciarci.

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Ciò che per sua natura [di∫ au¬tó] è necessario che sia ed è anche necessario ritenere che sia, non è né ipotesi [u™póqesiv] né postulato (ai¢thma)20. Infatti la dimostrazione e il ragionamento sillogistico non sono rivolti al discorso quale si mostra esteriormente [pròv tòn e¢xw lógon] ma a quello che si svolge nell’anima [pròv tòn e¬n tñı yucñı] dal momento che è sempre possibile opporsi al discorso come si svolge esteriormente [pròv tòn e¢xw lógon] ma non sempre a quello che si svolge internamente [pròv tòn e¢sw lógon] (Apost. 76b 23-27).

Cosa si sta qui sostenendo? Non bisogna trascurare il contesto problematico entro cui il riferimento a e¢xw e e¢sw lógov occorre. Nelle pagine precedenti era stata difesa la tesi che nelle argomentazioni scientifiche esistono principi e assiomi che non hanno bisogno di essere dimostrati perché, in quanto autoevidenti, sorreggono un qualsiasi ragionamento sensato. Uno di essi è il seguente assioma, comune a tutti i procedimenti scientifici: «quando da oggetti uguali vengono sottratti oggetti uguali, gli oggetti rimanenti risultano uguali» (Apost. 76b 20-21). Ma perché principi e assiomi siffatti non sono immediatamente accettati da tutti e non è impresa facile scoprirli e enunciarli? La risposta si trova nel capitolo 6 del De Interpretatione dove viene enunciata una delle caratteristiche che rende specifica e unica la cognitività verbale: «dal momento che è possibile enunciare [a¬pofaínesqai] come non esistente [w™v mæ tò u™párcon] ciò che esiste [tò u™párcon] e come esistente ciò che non esiste, così come è possibile enunciare come non esistente ciò che non esiste e come esistente ciò che esiste, (…) è pure possibile sia negare tutto ciò che qualcuno ha affermato sia affermare tutto ciò che qualcuno ha negato» (17a 2631). Il ragionamento sofistico, la possibilità dell’errore e dell’inganno ma anche il ragionamento corretto e la scoperta di come stanno effettivamente le cose poggiano su questo potere che solo il linguaggio sembra avere. La distinzione tra e¢xw e e¢sw lógov poggia – spiegano Ross (1949: 540) e Mignucci (1975: 204-7) – su tale retroterra filosofico. La dimostrazione e il ragionamento sillogistico, avendo come scopo la comprensione di come stanno effettivamente le cose, debbono preoc20 Ross (1949: 538) così parafrasa e commenta: «There are things which must be thought to be so».

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cuparsi – è il senso dell’osservazione di Aristotele – non tanto dell’ e¢xw lógov (chiunque può negare e affermare a parole una qualsiasi proposizione indipendentemente dal suo valore di verità e dalla sua coerenza logica con altre proposizioni accettate) ma dell’e¢sw lógov, ossia dell’argomentazione rigorosamente concatenata in modo che sia interiormente convincente. Nel passo degli Analytica non è pertanto in discussione un linguaggio tutto mentale rappresentato esteriormente, per motivi comunicativi (le menti-anime sono separate le une dalle altre da corpi opachi), da un linguaggio fonico e/o scritto. Aristotele sta distinguendo tra un ragionamento superficiale e condotto «per il piacere di parlare» (Met. 1009a 20-22) [e¢xw lógov] e un ragionamento rigoroso e logicamente stringente e, per questo, convincente [e¢sw lógov]. Entrambi i tipi di ragionamento sono il risultato dell’esercizio del linguaggio (lógov) ripetutamente definito come «voce significativa», ossia generato dalla co-presenza simultanea di un tipo particolare di voce e di un tipo particolare di operatività cognitiva21. 3. La novità del simbolo linguistico Se il linguaggio è voce significativa, ossia inseparabilmente e contemporaneamente articolazione vocale e attività cognitiva, è la natura della congiunzione «e» con cui vocalità e cognitività sono tenute insieme che bisogna esaminare. A quella congiunzione Aristotele fa riferimento col termine ‘simbolo’. Su come bisogna intendere, in questo particolare contesto teorico, la nozione di simbolo le interpretazioni più diffuse sono due. 1. ‘Simbolo’ è una variante terminologica di ‘segno’: entrambi i termini indicano la medesima nozione di «qualcosa che rimanda a qualche altra cosa». I primi a sostenere la identità concettuale di simbolo e segno furono Ammonio22 e Boezio. Tra i moderni ricordiamo Bo21 Pagliaro (1956: 124) è tra i pochi storici delle teorie linguistiche ad avere notato, in una veloce ma penetrante nota, che il passo degli Analytica Posteriora non può essere addotto come ‘prova’ della presenza in Aristotele della distinzione stoica dei due linguaggi. 22 «(…) il simbolo e il segno: il filosofo chiama in entrambi i modi la medesima nozione» (Am-DI 20: 6-7).

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nitz (1870)23, Steinthal (1890-91, I: 185 sgg.), Aubenque (1962: 107)24, Belardi (1975: 206)25, Modrak (2001: 20)26. Boezio e Steinthal, traducendo le righe 16a 3-8, ricorrono addirittura a un medesimo termine per rendere rispettivamente in latino e in tedesco súmbola e shmeîa: il primo traduce entrambi i termini con notae, il secondo con Zeichen27. 2. ‘Simbolo’ e ‘segno’ esprimono entrambi la nozione del «rimandare di qualcosa a qualcosa d’altro» (aliquid stat pro aliquo) con la differenza che il segno è un rinvio naturale e non intenzionale, il simbolo è invece un rinvio convenzionale e/o intenzionale. È la lettura più diffusa e di cui esistono diverse varianti. Dei suoi sostenitori ricordiamo Waitz (1844: 325)28, Kretzmann (1974: 7-8), Pépin (1985), Coseriu (1975: 74), Auroux (1996: 80), Eco (1997: 352). A entrambe le interpretazioni sfugge l’originale spazio semantico che il ‘simbolo’ ha nella filosofia aristotelica. Per mettere ordine nella questione non è inutile riflettere su alcuni dati di statistica testuale. Nell’intero Corpus aristotelico shmeîon e i suoi derivati occorrono 631 volte. In confronto súmbolon è un termine raro: occorre solo 34 volte. Se si amplia il campo lessicale in modo da aggiungervi le 15 occorrenze di sumbólaion, le 4 di sumbolä e le 2 di sumbolikøv si giunge al numero, pur sempre esiguo, di 55 occorrenze. Al dato quantitativo, già di per se stesso rilevante, si affianca una differente distribuzione qualitativa dei due termini. Shmeîon è usato da Aristotele in quasi tutte le sue opere e comunque, con la sola eccezione delle Categoriae, non manca in nessuna opera teoricamente rilevante. Súmbolon rimane inutilizzato in molte opere fondamentali come Metaphysica, Physica, Poetica, De Anima, Historia Animalium. Tra le opere dell’Organon è assente nelle Categoriae, negli Analytica Priora 23 Nell’Index aristotelicus il súmbolon di 16a 2 sgg. viene registrato come sinonimo di shmeîon. 24 In 16a 3-8, «les rapports de signification exprimés par les termes, à vrai dire obscurs, de symbole, súmbolon, et, accessoirement, de shmeîon». 25 «Simbolo e segno sono sinonimi». 26 «Súmbolon and shmeîon, two terms for sign or token, have well-established senses as signs by convention, agreement, or social practice». 27 Si vedano le traduzioni riportate alle pp. 34 sg. 28 «Il súmbolon è un shmeîon soggettivo».

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e Posteriora, nei Topica, occorre tre volte nel De Interpretatione, una sola volta nei Sophistici Elenchi. La squilibrata distribuzione quantitativa e qualitativa dei due termini è già un piccolo indizio esterno della loro non sinonimia. Súmbolon sembra debba avere un valore molto circoscritto e specialistico se in opere come la Metaphysica, la Poetica, il De Anima o i Topica Aristotele non incontra mai un contesto o problema teorico in cui gli possa essere utile ricorrervi. Lo stesso squilibrio quantitativo e qualitativo si riscontra nell’opera di Platone: shmeîon vi compare 49 volte contro le 5 di súmbolon, le 24 di sumbólaion, le 2 di dussúmbolov, l’hapax di sumbolä. Il dato testuale decisamente più importante è però un altro. La prima attestazione di ‘simbolo’ per indicare l’espressione verbale la troviamo in una citazione di Democrito fatta da Diodoro: , a partire da una voce priva di significato e confusa, a poco a poco articolarono le espressioni e, ponendo l’uno nei confronti dell’altro simboli [pròv a¬llälouv tiqéntav súmbola] per ciascuna cosa, resero noto a se stessi ciò che pensavano su ciascuna cosa (Diels/Kranz, FV, II: 135).

Nonostante questa attestazione democritea – non ci è dato sapere quanto isolata e eccezionale – resta il fatto che Platone, di poco posteriore a Democrito, non usa mai il termine súmbolon in riferimento al linguaggio. I termini a cui ricorre per spiegare la relazione tra quelle che dopo Saussure siamo soliti chiamare le due facce del segno linguistico sono shmeîon (segno), dälwma (manifestazione, rappresentazione), mímhma (imitazione), ei¬kån (immagine), ei¢dwlon (immagine riflessa)29 ma mai súmbolon. L’assenza diventa ancora più significativa se si pensa al ruolo non secondario che il súmbolon svolge in alcuni aspetti della riflessione platonica. Aristotele è il primo a fare un uso metalinguistico del ‘simbolo’: usa il termine nella medesima accezione in cui circola nella riflessione non linguistica di Platone e, per la prima volta e senza cambiarne il significato fondamentale, lo trasforma in concetto teorico con cui esplorare la natura del linguaggio. 29 Definizione di linguaggio in Teet. 208c: «qualcosa come una immagine del pensiero riflessa nella voce [dianoíav e¬n fwnñı wçsper ei¢dwlon]».

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È sull’accezione platonico-aristotelica della nozione di ‘simbolo’ che bisogna adesso soffermarsi. 4. L’attrazione erotico-chimica dei simboli Belardi ha, tra i primi, opportunamente ricordato agli studiosi di linguistica aristotelica l’etimologia di súmbolon tra l’altro già registrata nell’ottocentesco Liddell-Scott: simboli sono nella antica lingua greca le due parti simmetriche di una tavoletta che due contraenti si scambiano come segno di riconoscimento del patto contratto. «Per quanto il confronto possa sembrare banale, di fatto i due symbola di una tessera greca corrispondono alla nozione moderna di scontrino e matrice, o di figlia e madre in un bollettario o in un blocchetto di biglietti» (Belardi 1975: 82-83). È un buon punto di partenza ma non ancora sufficiente a individuare lo specifico significato che il termine ha nella scienza platonica e aristotelica. Le due parti di una tessera-tavoletta sono pezzi senza anima di un oggetto anch’esso senza anima: stanno insieme e si corrispondono perché qualcuno arbitrariamente, e dall’esterno, li scompone e ricompone. Tanto Platone che Aristotele chiamano invece ‘simboli’ realtà non inerti, e tra loro complementari, che per vitale impulso interno tendono a formare spontaneamente una totalità anch’essa non inerte. È come se i simboli platonici e aristotelici avessero un’anima (o codice genetico) che li spinge a muoversi l’uno verso l’altro, esattamente secondo quanto suggerisce il verbo da cui il termine deriva: sum-bállein «scagliar(si), lanciar(si) l’uno verso l’altro». Esaminiamo gli usi non linguistici che Platone e Aristotele fanno del ‘simbolo’ cominciando con due testi platonici: Simposio 191d; Repubblica 371b. Essi ci indicheranno una strada inedita e imprevista. Simposio. L’argomento è l’origine e la natura dell’Eros, cioè dell’attrazione fisica e psichica tra due esseri umani. Uno dei personaggi del dialogo, Aristofane, racconta che in origine gli esseri umani avevano una forma sferica, quattro gambe, quattro braccia, due facce, due sessi. Ciò dava loro tanta forza e tanta tracotanza da spingerli a dare la scalata al cielo. Gli dèi ne ebbero paura e Zeus, per diminuirne la forza, diede ad Apollo l’incarico di spaccare gli uomini in due metà speculari. È racchiusa in questo evento mitico l’origine 55

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dell’attrazione sessuale: ciascun essere umano, essendo il risultato di una divisione, mantiene la nostalgia e il desiderio di ricongiungersi con la propria metà complementare per formare l’unità originaria da cui deriva. Le due metà che provengono da esseri originari che possedevano due differenti sessi, maschile e femminile, sono mosse da un Eros eterosessuale, le altre sono dominate da spinte omosessuali. Leggiamo le parole che Platone usa per spiegare l’attrazione sessuale: «Ciascuno di noi, in quanto è stato tagliato come si fa con le sogliole, è il simbolo {la metà complementare} dell’uomo [a¬nqråpou súmbolon], da uno essendo diventato due [e¬x e™nòv dúo]: pertanto ciascuno va sempre alla ricerca del simbolo {la metà complementare} di se stesso [zhteî dæ a¬eì tò au¬toû eçkastov súmbolon]»30 (191d). Repubblica. I personaggi del dialogo stanno discutendo l’origine e la natura della città, del mercato e della moneta. «La città – osserva Socrate – sorge perché ciascun individuo non è sufficiente a se stesso ma manca di molte cose» (369b). Legata alla non autosufficienza del singolo individuo è la differenziazione naturale degli uomini: «nessuno nasce del tutto simile all’altro ma, differendo la natura di ognuno da quella dell’altro, ciascuno assolve ad un compito diverso dall’altro» (370a-b). È questa la fonte naturale della diversificazione dei bisogni e dei lavori: l’agricoltore ha bisogno dell’artigiano per avere gli aratri, entrambi hanno bisogno dell’architetto per la costruzione della casa, l’architetto ha bisogno dei prodotti dell’agricoltore e dell’artigiano, tutti hanno bisogno dell’opera del medico, il medico ha bisogno dei prodotti del lavoro dell’agricoltore e d’altro ancora, e così continuando. Il mercato [a¬gorá] è il luogo in cui prodotti e servizi vengono scambiati. La moneta [nómisma] è «il simbolo che rende possibile lo scambio». Riportiamo le battute in cui compare il termine che ci tiene occupati: – All’interno della città come avverrà lo scambio delle cose che ciascuno produce, tenuto conto che questo è il motivo per cui abbiamo creato una comunità e fondato una città? 30 Le traduzioni che normalmente se ne danno oscurano la rilevanza teorica che il passo ha ai fini della ricostruzione della storia della terminologia semiotica e linguistica.

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– È chiaro che ciò avverrà vendendo e comprando. – Di conseguenza si formeranno per noi il mercato e la moneta, simbolo finalizzato allo scambio [’Agorà dæ h™mîn kaì nómisma súmbolon tñv a¬llagñv eçneka genäsetai e¬k toútou] (371b).

Le due occorrenze del Simposio e della Repubblica hanno alcuni tratti in comune. In entrambi i casi viene descritto un reciproco movimento attrattivo di realtà non autosufficienti che, in virtù della loro differenziazione e complementarità, tendono a formare insieme delle unità: maschio e femmina si attraggono perché sono l’uno simbolo dell’altro, nella moneta-simbolo merci differenti diventano scambiabili e l’una trova la propria complementarità simbolica nell’altra. Mediante la moneta-simbolo le merci in qualche modo si attraggono (si cercano l’un l’altra) e, come gli amanti del Simposio, da due tendono a diventare una. Sia nel caso dell’attrazione erotica che nel caso dello scambio di merci, i simboli non sono pezzetti inerti di materia (le due metà di una tavoletta di legno) che, dall’esterno e in seguito a una convenzione, ricevono un valore di reciproco richiamo. Sono piuttosto realtà dotate di una congenita predisposizione naturale a comporre totalità unitarie con altre realtà ad esse complementari. Il termine ‘simbolo’ Aristotele lo usa nella medesima accezione biologica di Platone. Anche per lui, ad esempio, la differenza e l’attrazione tra i sessi possono essere spiegate ricorrendo al concetto di simbolo: « sostiene che nel maschio e nella femmina c’è come un simbolo e che la totalità non proviene da nessuno dei due » (DGA 722b 10-12). Nella filosofia aristotelica il termine subisce tre importanti ampliamenti: 1) è inserito nell’apparato esplicativo della scienza della natura; 2) fa sistema con le nozioni teoriche di contrarietà [e¬nantíwsiv] e somiglianza [o™moíwsiv]31; 3) è usato per la prima volta come nozione teorica metalinguistica. Esaminiamo il ruolo svolto dai simboli nella scienza aristotelica della natura. I quattro corpi semplici o stoicheia (fuoco, aria, acqua, terra) che formano i costituenti di tutti i corpi naturali – sostiene Aristotele – sono a loro volta il risultato instabile di due coppie di fat31

Per la nozione di somiglianza si veda qui il cap. VII.

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SECCO

UMIDO

CALDO

FREDDO

tori dinamici tra loro contrari: a) CALDO ↔ FREDDO; b) UMIDO ↔ SECCO. Il fuoco è formato da CALDO e SECCO, l’aria da CALDO e UMIDO, l’acqua da FREDDO e UMIDO, la terra da FREDDO e SECCO. Ciascun fattore non è una qualità statica e inerte ma qualcosa come un punto dinamico che tende a trasformarsi nel suo contrario. Il gioco di composizione e trasformazione dei quattro fattori è sinteticamente rappresentabile in quella che possiamo chiamare la tavola chimica fondamentale della natura secondo Aristotele:

FUOCO ARIA ACQUA TERRA

Nella teoria aristotelica i fattori tra loro contrari di ciascuna coppia si comportano da simboli: il CALDO è simbolo che tende al FREDDO e il FREDDO è simbolo che tende al CALDO, l’UMIDO è simbolo che tende al SECCO e il SECCO è simbolo che tende all’UMIDO. Ciascuno dei quattro stoicheia fondamentali è formato da uno dei due simboli di ciascuna coppia di contrari: ad esempio, «l’aria è costituita dai simboli dell’UMIDITÀ e del CALORE» (Meteor. 360a 26-27). La generazione degli stoicheia l’uno dall’altro è resa possibile dalla spinta simbolica che anima ciascuno dei fattori che concorrono a formare uno stoicheion: il fuoco (CALDO e SECCO) diventa aria (CALDO e UMIDO) se il SECCO si trasforma nel suo opposto simbolico UMIDO, dall’aria (CALDO e UMIDO) si genera acqua (FREDDO e UMIDO) se il CALDO si trasforma nel suo opposto simbolico FREDDO, e così di seguito. La genesi del nuovo corpo semplice o stoicheion è tanto più veloce quanto minori sono le trasformazioni simboliche necessarie per ottenerlo: la genesi dell’acqua (FREDDO e UMIDO) a partire dal fuoco (CALDO e SECCO) richiede due trasformazioni simboliche (SECCO → UMIDO; CALDO → FREDDO) e pertanto è più lenta della genesi 58

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dell’aria (CALDO e UMIDO) a partire dal fuoco (CALDO e SECCO), richiedendo quest’ultima l’unica trasformazione simbolica SECCO → UMIDO. Il chimismo simbolico che abbiamo qui descritto è analizzato nel De Generatione et Corruptione: I corpi che hanno simboli gli uni rispetto agli altri [e¢cei súmbola pròv a¢llhla] si trasformano rapidamente, quelli che non ce l’hanno si trasformano lentamente dal momento che è più facile trasformare una cosa piuttosto che molte: ad esempio, dal fuoco si può generare l’aria mediante la trasformazione di una delle qualità (giacché il fuoco era CALDO e SECCO, mentre l’aria sarà CALDA e UMIDA, e quindi basta che il SECCO sia sconfitto dall’UMIDO e si avrà l’aria), e dall’aria si genera, a sua volta, l’acqua, qualora il FREDDO prevalga sul CALDO (infatti l’aria era CALDA e UMIDA mentre l’acqua sarà FREDDA e UMIDA, e quindi basta la sola trasformazione del CALDO e si avrà l’acqua). Allo stesso modo dall’acqua si avrà la terra e dalla terra il fuoco dal momento che entrambi gli elementi posseggono {fattori} che sono simboli gli uni rispetto agli altri [e¢cei gàr a¢mfw pròv a¢mfw súmbola]: l’acqua, infatti, è UMIDA e FREDDA mentre la terra è SECCA e FREDDA e perciò basterà la sconfitta dell’UMIDO e si avrà la terra, e, d’altra parte, poiché il fuoco è SECCO e CALDO mentre la terra è SECCA e FREDDA, basterà la distruzione del FREDDO e da terra si avrà fuoco. Da ciò risulta chiaro che per i corpi semplici la generazione sarà in forma ciclica e questo modo di trasformazione è più facile perché nei corpi che si trovano in successione {rispetto alla generazione} ineriscono simboli [súmbola e¬nupárcein toîv e¬fexñv] (331a 23-b 4).

È la loro naturale costituzione simbolica che spiega la trasformazione circolare degli stoicheia gli uni negli altri: «l’acqua è potenzialmente aria, l’aria è potenzialmente acqua» (Phys. 213a 3-4). Ciascuno dei quattro simboli a partire dai quali la natura è generata non è, perciò, materia inerte o convenzionale marca qualitativa ma attività o forza autogena tendente o a trasformarsi nel suo contrario simbolico (è il caso della generazione circolare degli stoicheia) o, come vedremo, a comporsi col suo rispettivo contrario simbolico. I simboli sono comunque considerati forze della natura e, in quanto tali, attività orientate. È questo il motivo per cui nella matrice li abbiamo raffigurati con frecce orientate piuttosto che con le tradizionali marche della presenza (+) e dell’assenza (–).

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5. Simboli co-generi e circolari Una pagina di Ethica Eudemia consente di precisare meglio il concetto: Il contrario [tò e¬nantíon] è amico del contrario in quanto gli è utile; infatti il simile [tò oçmoion] non è utile a se stesso. Questo è il motivo per cui il padrone ha bisogno del servo e il servo del padrone, la donna e l’uomo hanno bisogno l’uno dell’altro. Il contrario è piacevole e desiderabile in quanto è utile e l’utilità non è il fine ma rispetto al fine. Infatti quando si ottiene ciò che si desidera e si è raggiunto il fine, non si desidera più [o¬régetai] il contrario, come il caldo desidera il freddo e il secco l’umido. In un certo senso anche l’amicizia del contrario appartiene alla sfera del bene. si desiderano l’un l’altro in funzione di un punto di equilibrio: in quanto simboli si desiderano l’un l’altro per generare in tal modo a partire da entrambi un unitario punto di equilibrio [o¬régetai gàr a¬llälwn dià tò méson· w™v súmbola gàr o¬régetai a¬llälwn dià tò ouçtw gínesqai e¬x a¬mfoîn eÇn méson]. Inoltre, solo indirettamente [katà sumbebhkóv] il contrario desidera il contrario, per se stesso il contrario invece desidera il punto di equilibrio. Infatti i contrari non desiderano se stessi ma il punto di equilibrio. Perciò, se sono troppo freddi, si dirigono verso il punto di equilibrio riscaldandosi, e, se troppo caldi, raffreddandosi; un processo simile accade negli altri casi. Altrimenti si trovano sempre nel desiderio e mai nei punti di equilibrio (1239b 23-37).

I simboli non sono tra loro simili ma contrari32. Formano coppie di contrari (maschio/femmina; umido/secco; servo/padrone) che esistono l’uno in funzione dell’altro alla ricerca di punti di equilibrio instabili. La relazione di contrarietà [e¬nantíwsiv] ha due caratteristiche, entrambe importanti per la comprensione del simbolo linguistico secondo Aristotele. A. I contrari appartengono al medesimo genere naturale: «La contrarietà sussiste solo fra cose che appartengono al medesimo genere» (Met. 1058a 27-28). I contrari sono simili in quanto cogeneri, ma diversi in quanto di specie differenti. È questa condizione di somiglianza/dissomiglianza che li rende complementari e capaci di agire l’uno sull’altro. 32 Sulla differenza tra relazioni simboliche e relazioni di similarità torneremo nel cap. VII di questo lavoro.

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Le cose che non sono contrarie [e¬nantía] o non derivano da contrari non possono modificare l’una la natura dell’altra. Poiché il patire e l’agire non sono proprietà naturali di qualsiasi cosa presa a caso ma solo di quelle cose che o sono contrarie o hanno contrarietà, è necessario che ciò che agisce e ciò che patisce siano simili e identici rispetto al genere, dissimili e contrari rispetto alla specie: un corpo subisce per natura l’azione di un altro corpo, un sapore l’azione di un sapore, un colore l’azione di un colore, in generale una cosa appartenente a un genere subisce l’azione di qualche altra cosa del medesimo genere. La causa è che tutti i contrari sono nello stesso genere e i contrari agiscono gli uni sugli altri e subiscono gli uni dagli altri. È pertanto necessario che ciò che agisce e ciò che patisce siano in un certo senso identici [tau¬tá] e in un altro differenti e dissimili [eçtera kaì a¬nómoia a¬lläloiv]. Dal momento che ciò che patisce e ciò che agisce sono identici e simili per genere e dissimili per specie e i contrari hanno queste proprietà, è chiaro che sono reciprocamente attivi e passivi i contrari e gli intermedi [tà e¬nantía kaì tà metaxú]: risiedono in essi infatti i processi di distruzione e generazione (DGC 323b 28 - 324a 9).

B. I contrari non stanno in una relazione lineare del tipo prima/dopo o causa/effetto e pertanto nessuno di essi è punto di partenza o causa dell’altro. «Tutti i contrari esistono rispetto a un sostrato e nessuno di essi ha un’esistenza separata (cwristón)» (Met. 1087b 1-2). Ad esempio, «l’umido non esiste senza il secco e nemmeno il secco senza l’umido» (Meteor. 359b 27-32). Quindi «nessuno dei contrari è in senso assoluto principio attivo [a¬rcä] di tutte le cose ma il principio è altro» (Met. 1087b 3-4). «Nelle trasformazioni reciproche, infatti, è impossibile che un determinato elemento sia il loro principio attivo» (DGC 332b 6-7). I contrari generano processi circolari che a loro volta si autogenerano. Tutte le cose che si trasformano le une nelle altre rispetto ai loro modi di essere e alle loro virtualità [katà tà páqh kaì tàv dunámeiv], come ad esempio i corpi semplici, imitano il movimento circolare: quando dall’acqua si genera l’aria, dall’aria il fuoco e a sua volta dal fuoco l’acqua, noi diciamo che la generazione è avvenuta in maniera circolare per il suo incurvarsi su se stessa (DGC 337a 2-6).

Se ridenominiamo le due coppie di contrari [CALDO/FREDDO] e [UMIDO/SECCO] rispettivamente in [+ CALDO/– CALDO] e [+ UMIDO – UMIDO] il processo ciclico dei quattro elementi naturali è rappresentabile in questo modo: 61

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ARIA + caldo + umido

FUOCO

ACQUA

+ caldo – umido

– caldo + umido

TERRA – caldo – umido

Aria, acqua, terra, fuoco formano un ciclo autocatalitico chiuso proprio di quelli che per Aristotele sono i processi generativi naturali e che la fisica contemporanea chiama processi on bootstrap, ossia che si reggono su se stessi così come farebbe chi fosse capace di sollevarsi e tenersi in equilibrio tirando le stringhe dei propri stivali33. 6. Dal simbolo al contratto Proviamo a enumerare le caratteristiche del simbolo così come è usato nei testi platonici e aristotelici, che abbiamo finora esaminato, rispetto sia alla nozione di segno (aliquid stat pro aliquo) sia all’uso comune del termine ‘simbolo’ nelle lingue moderne. L’enumerazione è intenzionalmente ridondante. 1. I simboli sono sempre due. Nessuna delle due realtà in relazione simbolica è simbolizzante (significante) o simbolizzata (significata). 2. I due simboli sono parti dinamiche di una totalità. La relazione simbolica è una relazione di complementarità. 3. I due simboli non solo non sono l’uno isomorfo all’altro ma sono l’uno il contrario dell’altro: maschio e femmina, umido e secco, 33 Per la differenza naturale/artificiale rimandiamo al prossimo capitolo. Sulla possibile applicazione linguistica della nozione di bootstrapping rimando a Lo Piparo (1991).

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freddo e caldo, servo e padrone sono l’uno il simbolo dell’altro. I simboli sono elementi di coppie di contrari. 4. Nessuno dei due simboli viene prima dell’altro: né in senso cronologico-empirico né in senso logico. La relazione simbolica non è assimilabile a nessun tipo di relazione causale o fondativa. 5. Nessuno dei due simboli è in una posizione privilegiata rispetto all’altro. Ciascuno di essi ha un valore in quanto dà e riceve valore dall’altro: «l’umido non esiste senza il secco e nemmeno il secco senza l’umido» (Meteor. 359b 27-32). 6. Anche se hanno o possono avere esistenza separata, i due simboli sono posseduti da una attrazione reciproca: sumbállousin «si dirigono l’uno verso l’altro». Come due amanti, si desiderano in funzione di un punto di equilibrio. La terminologia con cui nell’Ethica Eudemia viene descritta l’attrazione-desiderio dei contrari simbolici è la stessa con cui nel De Anima e altrove viene descritto il motore minimale dell’animalità: o¢rexiv, o¬régomai «desiderio di (desiderare) qualcosa che è altro e diverso da sé». 7. I due simboli esistono in funzione del desiderio-attrazione che li spinge a costituire realtà unitarie e/o punti di equilibrio. 8. Il simbolo non è materia inerte o opera già compiuta (e¢rgon) ma movimento (kínhsiv) e attività (e¬nérgeia). Esso è graficamente rappresentabile con una freccia orientata. Gli usi non naturalistici della nozione di simbolo sono coerenti col campo semantico che abbiamo delineato. La Politica, ad esempio, chiama politeia la migliore delle organizzazioni statali, la definisce «un compromesso [míxiv] di oligarchia e democrazia» (1293b 3334) e così ne spiega la genesi: Diciamo in che modo sorge, oltre la democrazia e l’oligarchia, la cosiddetta politeia e in che modo bisogna costituirla (…). Insieme sarà chiaro come vanno definite la democrazia e l’oligarchia: va infatti assunta la loro distinzione e poi, a partire da esse, comporle l’una dall’altra assumendo ciascuna di esse come simbolo (1294a 30-35).

Il senso del passo è chiaro: democrazia e oligarchia, comportandosi come simboli, trovano un punto di equilibrio nella politeia34. 34 Nelle traduzioni di solito il termine ‘simbolo’ scompare. Si prenda, ad esempio, la traduzione della Loeb Classical Library di H. Rackham (1932): «At the sa-

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Nel lessico aristotelico súmbolon ha anche il significato di «contratto». Il simbolo, inteso come realtà complementare e contraria di un altro simbolo co-genere, e il simbolo-contratto appartengono alla medesima famiglia semantica. Cosa è un contratto? È il punto di equilibrio volutamente perseguito da due entità (individui, famiglie, città) tra loro contrarie ma anche complementari. Stipulando un contratto, per l’appunto, i contraenti si comportano come simboli: l’uno va verso l’altro alla ricerca di una realtà terza di equilibrio; ciascuno dà e riceve qualcosa. Dei contraenti un contratto vale quello che nell’Ethica Eudemia si dice del comportamento dei contrari: « si desiderano l’un l’altro in funzione di un punto di equilibrio: in quanto simboli si desiderano l’un l’altro per generare in tal modo a partire da entrambi un unitario punto di equilibrio» (EE 1239b). Per un normale processo metonimico simbolo, in questo caso, non denota le parti contrarie e complementari ma il risultato finale raggiunto dalle parti: simboli non sono i contraenti ma i contratti stipulati dai contraenti. Se andiamo a rileggere i passi in cui compare il simbolo-contratto si può costatare che spesso la traduzione di súmbolon con «relazione di complementarità», anziché con «contratto» o «patto», rende più chiaro il testo. Uno degli argomenti della Politica è l’identificazione dei criteri che consentono di stabilire quando un insieme di individui forma una città. Gli uomini – viene spiegato – non si raccolgono in un’unica città «in funzione di una alleanza militare per evitare reciproche ingiustizie, né a causa degli scambi e per gli affari reciproci. Se così fosse, i Tirreni e i Cartaginesi e tutti coloro rispetto ai quali esistono simboli reciproci [pántev oi©v e¢sti súmbola pròv a¬llälouv = che si trovano in un rapporto di complementarità commerciale] sarebbero cittadini di un’unica città: tra loro infatti esistono con-venzioni [sunqñkai]35 sui me time the defining characteristics of democracy and oligarchy will also be clear; for we must grasp the distinction between these and then make a combination out of them, taking, so to say, a contribution from each». Dello stesso tipo è la traduzione laterziana di Laurenti (1973): «Insieme risulterà chiaro anche come si definiscono la democrazia e l’oligarchia, perché si deve fissare la distinzione tra queste due forme e poi metterle insieme, prendendo per così dire un contributo da ciascuna delle due». 35 La complessità polisemica del termine sunqäkh sarà oggetto di analisi nei prossimi due capitoli.

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prodotti di importazione, simboli-contratti [súmbola] per non arrecarsi ingiustizia, trattati scritti di alleanza» (1280a 37-39). Lo stesso significato ha il termine in questo passo della Rhetorica (1360a 11-15): «Quanto ai mezzi di sussistenza, occorre conoscere quanta e quale spesa è sufficiente alla città, i prodotti del luogo e quelli da importare, i popoli verso cui bisogna esportare e quelli da cui bisogna importare in modo che sorgano tra loro con-venzioni e relazioni di complementarità [sunqñkai kaì sumbolaí]»36. La traduzione, in questi contesti, di súmbolon con «contratto» o «patto» ha portato gli interpreti a enfatizzare esclusivamente l’aspetto della non necessità naturale e della variabilità intenzionale insito nella stipula di un contratto: aspetto indubbiamente reale ma coesistente col fatto che il contratto presuppone due contraenti che hanno bisogno l’uno dell’altro e si comportano pertanto come entità tra loro complementari. Ciò non è stato senza conseguenze nella lettura dei primi capitoli del De Interpretatione. 7. Le tre dimensioni della lingua Torniamo alla prima parte della seconda frase del De Interpretatione da cui siamo partiti [e¢sti mèn ou®n tà e¬n tñı fwnñı tøn e¬n tñı yucñı paqhmátwn súmbola] e mettiamo a frutto le informazioni che abbiamo acquisito. Alcune conseguenze si impongono. Articolazioni della voce e operazioni mentali sono due tipi di paqämata che: a) appartengono al medesimo genere naturale; b) non sono in una relazione di similarità ma di contrarietà-complementarità; c) in quanto contrari-complementari hanno la capacità di agire gli uni sugli altri; d) sono cooriginari, nel senso che nessuno di essi è il principio attivo (a¬rcä) dell’altro; 36 I due brani sono citati da Belardi (1975: 200) a sostegno della lettura convenzionalista del termine súmbolon. Indubbiamente, nei due casi citati il termine súmbolon può essere tradotto con «contratto», «accordo» o «patto»: purché non si perda di vista che qui «contratto» è una particolare forma di reciprocità e complementarità. Altrimenti diventa oscuro il nesso semantico che lega queste due occorrenze con le altre, qui esaminate, che è impossibile rendere con «contratto».

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e) si generano reciprocamente e, pertanto, non sono retti da una relazione di linearità ma di circolarità; f) in forza della loro contrarietà e complementarità tendono a formare punti, unitari e instabili, di equilibrio. Il passo enuncia la prima delle condizioni minime e necessarie perché qualcosa possa essere chiamato lingua (lógov) e la individua nella relazione circolare e instabile tra due differenti tipi di paqämata: le articolazioni della voce e l’insieme delle operazioni cognitive (affermazione/negazione; particolare/universale; possibile/necessario; vero/falso) che solo l’uomo è in grado di compiere. La nozione di ‘simbolo’ indica l’appartenenza dei due paqämata al medesimo genere ma anche la loro diversità e inseparabilità: le operazioni logico-cognitive dell’anima umana sono inseparabili dalle articolazioni specie-specifiche della voce, le articolazioni della voce sono a loro volta inseparabili dalle operazioni specie-specifiche dell’anima umana. Inseparabili non perché simili ma perché opposte e complementari come lo sono maschio e femmina, umido e secco, freddo e caldo, schiavo e padrone. Delle righe 16a 3-4 proponiamo la seguente traduzione: Le articolazioni della voce umana e le operazioni logico-cognitive dell’anima umana sono tra loro differenti e complementari così come lo sono le articolazioni scritte e quelle della voce.

La spiegazione della relazione simbolica che lega articolazioni scritte e vocali è argomento del prossimo capitolo. Soffermiamoci, per il momento, sulla prima delle due relazioni, naturali e necessarie, da cui ha origine il linguaggio. Essa è rappresentabile graficamente mediante una doppia freccia: LINGUAGGIO (SIMBOLI LINGUISTICI)

Articolazioni vocali tà e¬n tñı fwnñı

súmbola

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Operazioni logico-cognitive tà e¬n tñı yucñı pajämata

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L’argomento del passo non è il rapporto tra due tipi di linguaggio (interiore ed esteriore) ma l’individuazione della relazione minimale che fonda il linguaggio verbale. Simbolo è il termine teorico che indica la genesi, contemporanea e complementare, dell’articolazione vocale (di cui solo gli animali umani sono capaci) e dell’insieme delle operazioni logico-cognitive che, anch’esse, appartengono solo all’animale umano. Articolazioni vocali e operazioni logico-cognitive (entrambe specie-specifiche) sono due delle tre dimensioni che definiscono il linguaggio: dimensioni nello stesso senso in cui lunghezza, larghezza e profondità definiscono la geometria euclidea di un corpo37. Tralasciamo per il momento la dimensione della scrittura e prendiamo l’esempio dell’argomentazione logica e/o retorica. L’articolazione vocale [tà e¬n tñı fwnñı] dei quantificatori «Tutti» e «Nessuno» è forse inessenziale alla genesi delle relazioni logiche che distinguono e connettono enunciati come «Tutti gli uomini sono giusti» e «Nessun uomo è ingiusto»? La risposta di Aristotele è che «le articolazioni vocali si accompagnano a quelle mentali [tà e¬n tñı fwnñı a¬kolouqeî toîv e¬n tñı dianoíaı]» (23a 32-33). Se una sola delle due dimensioni viene soppressa, immediatamente collassa il ragionamento verbale, così come una figura (triangolo, rettangolo, ecc.) non sarebbe più una figura se una delle due dimensioni (lunghezza, larghezza) che la definiscono venisse a mancare. Il De Interpretatione si chiude ricongiungendosi alle battute iniziali del trattato: «affermazioni e negazioni che si mostrano nella voce sono simboli di quelle cognitive dell’anima [ai™ e¬n tñı fwnñı katafáseiv kaì a¬pofáseiv súmbola tøn e¬n tñı yucñı]» (24b 1-2). Ossia: affermazioni/negazioni vocali e affermazioni/negazioni mentali sono dimensioni complementari e inseparabili di un unico logos. La necessaria co-presenza delle due dimensioni del simbolo linguistico consente di capire perché Aristotele spiega, mediante il ri37 Ai termini «faccia» (Saussure) e «piano» (Hjelmslev) preferiamo il termine «dimensione» perché le dimensioni sono parti definitorie, differenti e non separabili, degli oggetti geometrici: una figura piana ha 2 dimensioni, un solido ne ha 3, altri oggetti geometrici sono definiti da 3+n dimensioni e, in ciascun caso, la soppressione di una dimensione comporta la trasformazione della natura dell’oggetto geometrico corrispondente.

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corso alla natura simbolica delle parole, la presunta minore intelligenza di chi nasce sordo rispetto a chi nasce cieco. Leggiamo il passo: L’udito concorre [sumbálletai] in massima parte all’intelligenza anche se in maniera derivata [katà sumbebhkóv]38. Il linguaggio è infatti causa di apprendimento in quanto è udito e pertanto non per se stesso ma per via indiretta e mediata dal momento che è composto di parole e ciascuna parola è un simbolo. È questo il motivo per cui, tra coloro che sono dalla nascita privi dell’uno o dell’altro senso, i ciechi sono più intelligenti dei sordomuti (DSS 437a 11-17).

I nati sordi sono meno intelligenti dei nati ciechi perché nelle parole, che sono simboli, è necessariamente co-presente l’articolazione fonica, dimensione questa a cui il nato sordo non può accedere39. Qui, come in altri luoghi, simboli non sono le due parti complementari che compongono la parola ma le parole in quanto punti di equilibrio instabili che le parti complementari insieme generano. Le parole sono chiamate simboli per lo stesso procedimento metonimico che fa chiamare simbolo il contratto stipulato da contraenti-simboli. 8. Il campo dinamico delle parole-simboli Le parole-simboli, così come i contratti-simboli, non sono corrispondenze statiche di piani preesistenti ma risultati, mai definitivi, di campi di forze contrarie e interdipendenti. Un passo dei Sophistici Elenchi, molto citato dagli studiosi, spiega perché la natura simbolica delle parole – naturalmente nella particolarissima accezione aristotelica del ‘simbolo’ – è la causa della non-lineare dinamicità della semantica delle espressioni verbali e dei ragionamenti errati. Il passo è molto acuto e merita di essere commentato parola per parola. Dal momento che non è possibile discutere portando nella discussione i fatti di cui parliamo ma al posto dei fatti ci serviamo Una parafrasi potrebbe essere: udito e intelligenza sono complementari. Interpretando il «simbolo» aristotelico come token («gettone», «contrassegno»), a Whitaker (1996: 19) sfugge il nesso forte tra simbolicità e articolazione fonica e, pertanto, criticando Lo Piparo (1988), ritiene che il passo del De Sensu stia sostenendo banalmente che «the speech (…) is informative not because it is audible, but because it consists of words». 38 39

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delle parole in quanto simboli [toîv o¬nómasin a¬ntì tøn pragmátwn cråmeqa w™v sumbóloiv]40, noi riteniamo che ciò che accade alle parole accada anche ai fatti [e¬pì tøn pragmátwn], come nel caso dei sassolini quando si fanno calcoli. Le due situazioni non sono però simili: le parole e la molteplicità dei discorsi sono realtà discrete [tà mèn gàr o¬nómata pepérantai kaì tò tøn lógwn plñqov], i fatti sono invece numericamente non definiti [tà dè prágmata tòn a¬riqmòn a¢peirá e¬stin]. È dunque inevitabile che il nome e il discorso ad esso corrispondente significhino in maniera molteplice un’unità [a¬nagkaîon ou®n pleíw tòn au¬tòn lógon kaì tou¢noma tò eÇn shmaínein]. Come, dunque, nell’esempio ricordato, coloro che sono inesperti nel maneggiare i sassolini vengono ingannati da coloro che invece lo sanno fare, allo stesso modo, rispetto ai discorsi, coloro che sono inesperti del potere insito nelle parole [oi™ tøn o¬nomátwn tñv dunámewv a¢peiroi] incorrono in ragionamenti errati sia quando discutono con se stessi sia quando ascoltano gli altri (165a 6-17).

La traduzione che qui proponiamo si discosta, in parti cruciali, da quelle tradizionali. Alla fine del percorso di questa nostra indagine saremo in grado di darne la spiegazione analitica41. Per il momento registriamo che il potere semantico [dúnamiv] alle parole proviene dall’essere le parole simboli (vale a dire: contemporaneamente e inseparabilmente ‘articolazioni della voce’e ‘operazioni logicocognitive’) e che questo potere è tale che, se non viene adeguatamente governato, produce falsi sillogismi e false confutazioni. Le regole delle fluttuazioni semantiche dei simboli-parole sono accuratamente studiate nella Poetica, nella Rhetorica e nell’intero Organon. 9. Problemi da affrontare La lettura che stiamo proponendo della nozione aristotelica di simbolo pone molti più problemi, filologici e teorici, di quanti non ne risolva. Ne do l’elenco. 1. Perché Aristotele sostiene che le voci significative degli animali non umani non sono simboli? Forse che le voci degli animali non 40 Purtroppo molte traduzioni orientano il lettore a interpretare le parole come simboli delle cose o oggetti corrispondenti. 41 Si veda qui il paragrafo 6 del cap. VII.

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umani non sono anch’esse correlate a specie-specifiche operazioni dell’anima [paqämata tñv yucñv]? Nel De Interpretatione non si sostiene che i simboli verbali (nomi, verbi e discorsi) differiscono dai segnali sonori degli animali non umani per la loro natura convenzionale [katà sunqäkhn]? 2. Perché mai anche le articolazioni scritte sono simboli – nel senso bio-naturalistico da noi spiegato – delle articolazioni della voce [tà grafómena tøn e¬n tñı fwnñı]? La scrittura non è forse uno strumento convenzionale? 3. Se i due tipi di simboli che si attraggono appartengono al medesimo genere naturale, perché gli uni [tà e¬n tñı yucñı paqämata] sono uguali per tutti, gli altri [grámmata, fwnaí] non lo sono? 4. Qual è il rapporto tra i simboli bio-naturali che generano circolarmente il linguaggio e i segni di cui si parla nella riga immediatamente successiva a quelle finora da noi analizzate («voci e lettere sono segni delle operazioni dell’anima»)? 5. Cosa vuol dire che tra i fatti [prágmata] e le operazioni logico-cognitive dell’anima [paqämata tñv yucñv] c’è un rapporto di somiglianza [o™moiåmata]? In che cosa le relazioni di somiglianza si distinguono dalle relazioni simboliche e da quelle segniche? Ciascuno di questi problemi richiede una trattazione specifica. I problemi 1-3 hanno una soluzione comune e, per trovarla, affronteremo adesso la questione della convenzionalità/naturalità tenendo sempre d’occhio le righe 16a 3-8.

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Capitolo quarto

Scrivibilità, naturalità, artificialità

1. Aristotele convenzionalista? L’attribuzione ad Aristotele della tesi convenzionalista è quasi esclusivamente fondata sui primi quattro capitoli del De Interpretatione e sulla espressione katà sunqäkhn che vi ricorre tre volte. Nonostante l’autorità di Aristotele, nella lingua scientifica greca l’espressione non avrà fortuna e nei dibattiti post-aristotelici di linguistica teorica alla nozione di convenzionalità ci si riferirà, salvo rarissime eccezioni, col termine qései (letteralmente ‘per posizione’). Ammonio nel commento al De Interpretatione dirà esplicitamente che «katà sunqäkhn e qései hanno lo stesso significato» (Am-DI 30: 31-32). L’interpretazione di Ammonio è recepita dalla più antica traduzione latina del De Interpretatione a noi pervenuta e che fungerà da modello esemplare delle successive traduzioni-interpretazioni: quella di Boezio. Questi, non preoccupandosi nemmeno di trovare un calco letterale di katà sunqäkhn e probabilmente sotto l’influenza o del commento di Ammonio o di precedenti commentatori neoplatonici, renderà la formula aristotelica con secundum placitum. Traduzione che, forse anche per la sua estrema chiarezza teorica, si impose con tanta forza da fare dimenticare il testo di partenza. Filiazioni e precisazioni della traduzione boeziana sono le formule latine ex instituto (Argiropulo, 1496; Giovan Battista Rosario, 1545 e 1559; Rubo Hannone, 1564; Giulio Pace, 1584), ex consensu hominum (Guglielmo Hildeno, 1585-1586; Giovanni Teofilo Buhlo, 1792)1, ex convento (Theodor Waitz, 1844:332). Le traduzioni nelle lingue moderne sono tutte nel solco delle interpretazioni di Ammo1

Le informazioni le traggo dallo spoglio di Aristoteles Latinus (DI).

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nio e Boezio: katà sunqäkhn è reso o con ‘convenzionale’ o con termini teoricamente vicini come ‘istituzionale’2, ‘arbitrario’3 o ‘storicamente motivato’ (Coseriu 1975: 80). Eccezioni a questa lunga e ininterrotta tradizione traduttoria sono il secundum confictionem di Guglielmo di Moerbeka (1268), l’ex composito con cui traducono Laurenziano Fiorentino (1500) e Bartolomeo Silvano (1543)4, la tesi, più enunciata che dimostrata, di J. Engels (1962: 368; 1963: passim) secondo cui «sunqäkh nel Perì ¿Ermhneíav sarebbe sinonimo di súnqesiv, e katà sunqäkhn avrebbe il senso di per compositionem». Nessuna di queste traduzioni è stata mai presa in attenta considerazione dagli studiosi della linguistica aristotelica. Perfino Tommaso d’Aquino, che probabilmente commissionò a Moerbeka la traduzione del Commentarius di Ammonio per utilizzarlo nella preparazione del proprio commento5, non si accorse della ingegnosa resa latina escogitata dal confratello domenicano che, ricorrendo al derivato di confingere (‘inventare’ e ‘fingere’ ma anche ‘comporre’ e ‘disporre’), riusciva a trovare un approssimativo calco latino del polisemico katà sunqäkhn. Ma l’Aquinate non conosceva la lingua greca e ciò forse gli ha impedito di apprezzare il suggerimento teorico contenuto nell’espressione secundum confictionem di Moerbeka6. La lettura convenzionalista della linguistica aristotelica è più antica dei Commenti di Ammonio e Boezio. L’Aristotele convenzionalista è citato come banale luogo comune di riferimento, già nella prima metà del terzo secolo, nel Contra Celsum di Origene: bisogna indagare – si chiede l’intellettuale cristiano – «se le parole sono, come crede Aristotele, per convenzione [qései] oppure, come ritengono gli 2 La prima interpretazione del boeziano secundum placitum in termini di ‘istituzionalità’ si deve a Tommaso d’Aquino: «Secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium» (Tom-DI: I, IV, 41). 3 Tra gli altri Pagliaro (1956: 115); Ax (1978: 269). 4 Informazioni tratte da Aristoteles Latinus (DI). 5 Sulla dipendenza del Commento di Tommaso d’Aquino dalla traduzione latina del Commento di Ammonio fatta da Guglielmo di Moerbeka cfr. Verbeke (1961). 6 L’affermazione, già citata, di Ammonio secondo cui «katà sunqäkhn e qései hanno lo stesso significato» il Moerbeka la traduce, però, in questo modo: «‘secundum confictionem’, idem significans ei quod positione» (Am.: 59).

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stoici, per natura [fúsei]» (I, 24). Meno di due secoli dopo, Proclo commentando il Cratilo appiattirà la linguistica aristotelica sul convenzionalismo di Democrito e dell’Ermogene platonico: «Democrito e Aristotele erano della stessa opinione di Ermogene» (6: 26-27); «secondo Aristotele le parole sono per convenzione [qései] e simboli delle cose e degli atti di pensiero [súmbola tøn pragmátwn kaì tøn nohmátwn]» (18: 27-29). Cristianesimo e neoplatonismo sembrano essere il contesto filosofico entro cui nasce la tesi storiografica dell’Aristotele campione del convenzionalismo linguistico: Origene è Padre della Chiesa; Ammonio fu allievo del neoplatonico Proclo; Boezio, filosofo cristiano, fu un frequentatore di testi neoplatonici e probabilmente seguì ad Alessandria le lezioni di Ammonio su Aristotele. 2. Gli usi non convenzionalisti di sunqäkh Ma qual è il significato letterale dell’espressione greca katà sunqäkhn? Il termine sun-qäkh deriva dal verbo sun-tíqhmi e, come quest’ultimo, ha due accezioni tra loro intrecciate. a) «Porre o stabilire, insieme ad altri individui, qualcosa in funzione di un fine». Rende la medesima idea del latino con-ventio ‘convenzione’, ‘patto’, ‘accordo’. b) «Mettere insieme, connettere alcune cose per creare con questa azione qualcosa di nuovo». Corrisponde al latino com-positio ‘com-posizione’, ‘combinazione’, ‘sintesi’. Lingue come il latino o l’italiano, lessicalizzando in maniera differente i due campi semantici, costringono i rispettivi parlanti a scegliere volta per volta o l’uno o l’altro significato7. In sun-qäkh, invece, le due accezioni mantengono una forte capacità di richiamarsi a vicenda. Parlanti e scriventi dell’antica Grecia potevano, se volevano, enfatizzare una accezione piuttosto che l’altra ma la lingua nella quale pensavano consentiva loro di usare i termini sun-qäkh e 7 La formula secundum confictionem di Moerbeka è una parziale approssimazione al doppio significato dell’espressione greca. Si tratta di una approssimazione e non di una traduzione del tutto corrispondente all’originale perché l’accezione ‘inventare’ di confingere non coincide con l’accezione ‘con-venire’ o ‘accordarsi’ di suntíqhmi.

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sun-tíqhmi in modo da non essere obbligati a distinguerle. Ciò spiega perché, anche nei casi meno ambigui di occorrenza della prima accezione, la nozione moderna di convenzionalità non rende mai perfettamente il senso che la parola ha nei testi di Platone e Aristotele. Questa polisemia regolata risulterà più chiara quando metteremo a fuoco le pagine aristoteliche sull’origine katà sunqäkhn della moneta. In questa sezione del lavoro ci proponiamo di mostrare che la seconda accezione, che chiamiamo «sintattica» o «composizionale», è quella che meglio rende conto dell’impianto generale della teoria linguistica aristotelica. Due aspetti, tra loro collegati, della storia degli usi metalinguistici del termine sunqäkh meritano attenzione. 1. Nonostante l’autorità di Aristotele, l’espressione katà sunqäkhn per ‘convenzionale’ nella terminologia metalinguistica greca ebbe poca fortuna. La nozione di convenzionalità linguistica circolò associata piuttosto alla formula meno polisemica qései, letteralmente «per posizione»: dato un significato, il significante corrispondente non è vincolato dal significato da esprimere ma è liberamente «posto» (qései) dai suoi utenti. La sua prima attestazione storica si trova nell’Epistula ad Herodotum di Epicuro: Le parole in origine non sono sorte qései [= perché qualcuno le ha arbitrariamente poste], ma le stesse nature [fúseiv] degli uomini, subendo specifiche affezioni e concependo specifiche rappresentazioni a seconda delle singole stirpi, emettevano in maniera specifica l’aria dietro l’impulso di ciascuna di quelle affezioni e rappresentazioni, così che talvolta influiva anche la differenza delle stirpi dovuta ai luoghi abitati. Successivamente, di comune accordo da ciascun gruppo etnico furono stabilite [teqñnai] espressioni particolari per rendere le indicazioni reciproche meno vaghe e polisemiche e spiegarsi in modo più conciso8.

2. Di contro, nelle discussioni teoriche sul linguaggio il termine sunqäkh continuò a mantenere, fino ad epoca cristiana, l’accezione composizionale e sintattica. Diamo alcuni esempi. 8

In Diogene Laerzio (VP X, 75-76).

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Ermogene, retore del secondo secolo d.C., nel trattato Sulle forme stilistiche del discorso [perì i¬deøn lógou] discute la sintassi dei suoni linguistici ai fini della formazione dei discorsi usando il termine sunqäkh nel significato di ‘com-posizione’ e quindi come sinonimo di súnqesiv. Riporto alcuni passi del trattato: Una determinata composizione [súnqesiv] delle parti del discorso piuttosto che un’altra fa in modo che ci sia un ritmo piuttosto che un altro (Herm. 218: 23-26) Chi parla di ritmo e di composizione [perì r™uqmoû ... kaì sunqäkhv] necessariamente deve occuparsi delle sillabe e degli stoicheia: il ritmo infatti si forma a partire da questi e dalla pausa. (…) Il tipo di ritmo dipende dalla composizione [sunqäkh] e dalla pausa, non essendo altro che composizione e pausa (ivi, 219: 18-25). Il ritmo è la composizione in riferimento ai piedi [h™ sunqäkh h™ katà pódav] e non un altro tipo di composizione (ivi, 234: 2-4). La composizione fonica [sunqäkh] aspra ha contiguità di vocali ed è formata da piedi tra loro dissimili e irregolari. Da essa non è possibile in nessun modo né ottenere un suono poetico [tinà h®con métrou], né avere un determinato piacere rispetto alla composizione [sunqäkh] medesima e nemmeno un’apparenza di euritmia; è piuttosto senza ritmo e spiacevole a sentirsi dal momento che irrita l’orecchio. Ciò è causato piuttosto dalla qualità della pausa (…) perché un tipo di pausa insieme a un tipo di composizione [sunqäkh] perfeziona il ritmo (ivi, 259: 19 - 260: 3). La composizione fonica [sunqäkh] propria dello stile vivace ha raramente o nient’affatto contiguità di vocali (ivi, 319: 16-17). La composizione fonica [sunqäkh] piacevole, che è quella manifestamente bella, avvicina molto il discorso al metro poetico: bisogna infatti procurare, rispetto alla composizione fonica [katà tæn sunqäkhn], un dolce piacere ai sensi (ivi, 369: 6-9). Lo stile di Antifonte è «accurato nella struttura sintattica [katá tæn sunqäkhn]» (ivi, 401: 19-20)9. 9 Nella traduzione inglese del trattato (Hermogene’s On Types of Style, translated by C.W. Wooten, The University of North Caroline Press, Chapell Hill and London 1987), sunqäkh è reso con the word order. Sulle teorie retoriche di Ermogene cfr. Patillon (1988).

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Filopono (VI secolo), allievo e continuatore di Ammonio, nel commento al De Anima definisce la nozione aristotelica di voce articolata [diálektov] come «la composizione [sunqäkh] delle espressioni verbali» (DaC, 377: 3) o «la composizione [sunqäkh] dell’espressione verbale ottenuta con la lingua [dià tñv glåtthv]» (376: 5). In uno degli scolii vaticani all’Ars Grammatica di Dionisio Trace si può leggere questa notevole annotazione teorica: «La sintassi precede il significato perché la chiarezza del significare si ottiene mediante la sintassi e la composizione [sunqäkh] delle espressioni verbali» (Dionisio Trace, S-TG 114: 10-12)10. Queste annotazioni storiche da sole potrebbero comunque rimanere ininfluenti sulla riconsiderazione del convenzionalismo linguistico aristotelico. Nelle pagine seguenti faremo un’analisi minuta dei contesti testuali in cui nel De Interpretatione compaiono le tre occorrenze linguistiche dell’espressione katà sunqäkhn e vedremo quanto poco il concetto di convenzionalità riesca a rendere conto degli argomenti teorici con cui Aristotele spiega la significatività katà sunqäkhn della voce linguistica. In epoca moderna, ad avere suggerito una lettura sintatticista dell’espressione katà sunqäkhn sono stati due articoli di J. Engels (1962, 1963). I rilievi sollevati furono criticati da Coseriu (1975: 7779) e non furono mai più presi in seria considerazione dagli studiosi di Aristotele. L’insuccesso della proposta di Engels probabilmente fu anche un derivato della sua sterilità teorica: non fuoriuscì dall’ambito strettamente filologico; non fu occasione di una rilettura in chiave neo-naturalistica di tutta la teoria linguistica aristotelica; veniva calata, in maniera incoerente, dentro il paradigma storiografico canonico dell’Aristotele teorico del non-naturalismo linguistico. Engels, infatti, pur non condividendo l’interpretazione corrente secondo la quale katà sunqäkhn equivale a una convenzione o un patto, fa propria la tesi secondo cui la formula è sempre usata da Aristotele in opposizione a ‘naturale’: «la seule fonction évidente de katà sunqäkhn, les trois fois que le terme se présente, est d’impliquer l’idée de ‘ne pas être par nature’» (1963: 96).

10 h™ dè súntaxiv protétaktai tñv shmasíav, e¬peidæ dià tñv suntáxewv kaì tñv sunqäkhv tøn léxewn tíktetai h™ tñv shmasíav safäneia.

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Nelle pagine che seguono ci proponiamo di mostrare che dietro una diversa traduzione delle tre occorrenze di katà sunqäkhn si nasconde un modo nuovo di leggere la filosofia del linguaggio di Aristotele. 3. Il significato verbale come risultato finale di un processo generativo Le prime due occorrenze di katà sunqäkhn compaiono nelle prime dieci righe del secondo capitolo del De Interpretatione (16a 19-29) e sono entrambe riferite alla definizione della nozione di nome-parola11. Leggiamo l’intero brano dividendolo per comodità di analisi in due parti. Iniziamo con le righe 16a 19-26: Il nome è certamente voce che significa katà sunqäkhn {per convenzione?} e senza determinazione temporale, nessuna parte della quale significa se separata dal resto. Nel nome kállippov, infatti, la parte -ippov {cavallo} non significa per se stessa nulla, diversamente da quanto accade nella frase kalòv içppov {bel cavallo}. Nei nomi semplici ciò non si verifica come nei nomi composti. Nei primi, infatti, la parte non significa in alcun modo, nei secondi tende [boúletai] alla significazione ma, separata dal resto, non significa nulla come accade nel nome e¬paktrokélhv {nave da corsa} alla parte -kelhv {veloce}.

Se katà sunqäkhn viene tradotto sic et simpliciter con ‘convenzionale’ è giocoforza riconoscere una incongruenza tra l’enunciazione della tesi («la parola è voce che significa convenzionalmente») e gli argomenti con cui la tesi viene puntellata. I concetti che Aristotele collega col termine teorico katà sunqäkhn sono due ed entrambi non hanno una relazione diretta e immediata con la convenzionalità. Li enumeriamo qui di seguito. A. Le parole sono totalità foniche composte e articolate in quanto sono formate da parti. In termini più correttamente aristotelici: le 11 La caratteristica katà sunqäkhn non appartiene all’ambito grammaticale ma a quello della semantica generale: anche se non compare mai esplicitamente in riferimento al verbo, non distingue i nomi dai verbi ma definisce ogni parola semanticamente piena. «I verbi detti per se stessi sono nomi e significano qualcosa» (DI 16b 19-20). Pertanto, dato il tema del nostro saggio, tradurremo o¢noma tanto con ‘parola’ che con ‘nome’.

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parole, essendo composte di parti, sono il risultato di un processo generativo di composizione fonica. B. Nessuna delle parti che concorrono a formare il nome-parola ha significato autonomo. La voce diventa parola solo alla fine di un processo di composizione fonica chiamato katà sunqäkhn: la parola è «voce che significa katà sunqäkhn». Ossia: il significato verbale appartiene alla sintesi del composto fonico e non alle sue parti costituenti. Ciò è immediatamente chiaro per i nomi semplici: nessuna delle parti che formano la sequenza fonica della parola cavallo racchiude il significato di ‘cavallo’. Sui nomi composti la tesi assume il massimo di forza teorica: il significato globale del nome composto da altri nomi non è una composizione automatica dei significati dei nomi che lo costituiscono. Nel testo vengono forniti due esempi: il nome proprio kállippov non è semanticamente equivalente alla frase nominale kalòv içppov ‘bel cavallo’12; la parola kélhv ‘veloce’, anche se di per se stessa significativa, nel momento in cui entra a far parte della parola composta e¬paktrokélhv (un particolare tipo di nave da corsa il cui nome è formato da e¢paktron ‘nave’ + kélhv ‘veloce’) «non significa nulla», ossia perde la propria autonomia semantica. Per descrivere il particolare statuto delle parti potenzialmente significative dei nomi composti Aristotele ricorre a una metafora presa dal mondo animale e già usata più volte da Platone nel Cratilo13: esse vogliono [boúletai]14 significare ma di fatto, nel momento in cui diventano parte di un composto, perdono la loro autonomia semantica15. 12 I commentatori discutono se il nome kállippov è un esempio di nome semplice o complesso. Su questo argomento si dilunga molto Montanari (1988: 96126). Convincenti le argomentazioni di Belardi (1985: 99-120). 13 Cito soltanto due casi. «Non capisco cosa il nome Teti voglia [tí boúletai]» (Crat. 402c). In 421b il presunto significato etimologico della parola yeûdov ‘falso’, non chiaramente espresso dalla sua forma fonica moderna, è equiparato alla sua volontà: yeûdov deriverebbe da kaq-eúdousi ‘coloro che dormono’ e «lo psei che vi è stato aggiunto nasconde la volontà {= il significato nascosto} del nome [tæn boúlhsin toû o¬nómatov]». 14 Qui reso con «tendono». 15 Non è da escludere che qui Aristotele stia implicitamente criticando la semantica etimologica, esposta nelle parti centrali del Cratilo, secondo la quale il significato di una parola è derivabile dai significati degli elementi che la costituiscono: Dífilov, ad esempio, deriverebbe da Díi ‘del dio’ e fílov ‘amico’ (399a-b) così come Ermogene significherebbe «appartenente alla stirpe di Ermes».

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L’espressione katà sunqäkhn nel testo viene correlata a due fenomeni che nella linguistica aristotelica sono concettualmente inseparabili: i processi generativi fono-articolatori delle voci che sono parole; i processi generativi della significatività delle voci-parole. Il testo aristotelico potrebbe essere così parafrasato: A. Solo le voci scomponibili in parti, e perciò articolate, significano katà sunqäkhn: è questa la caratteristica che le trasforma da generiche voci significative in parole. B. La significatività katà sunqäkhn delle voci-parole non è derivabile dalle loro parti costituenti, nemmeno nel caso in cui le parti costituenti sono esse stesse voci-parole. Il significato verbale è risultato finale e non dato iniziale: è il fine ultimo del processo generativo articolatorio e non è identificabile con nessuna delle parti articolate singolarmente prese. 4. La struttura di 16a 26-29 Il passo che abbiamo finora discusso è seguito da tre righe in cui Aristotele tira le somme dagli argomenti che ha esposto e deriva da essi un corollario: solo le voci linguistiche degli uomini e non quelle, significative ma non-linguistiche, degli altri animali sono katà sunqäkhn e, in quanto tali, sono qualificabili come ‘simboli’ e ‘nomi-parole’. Leggiamo attentamente la frase: tò dè katà sunqäkhn, oçti fúsei tøn o¬nomátwn ou¬dén e¬stin, a¬ll∫ oçtan génhtai súmbolon· e¬peì dhloûsí gé ti kaì oi™ a¬grámmatoi yófoi, oi©on qhríwn, w©n ou¬dén e¬stin o¢noma. è katà sunqäkhn: nessuno dei nomi è per natura ma quando diventa simbolo dal momento che anche i suoni che non sono lettere [oi™ a¬grámmatoi yófoi], come ad esempio quelli degli animali non umani [qhría], mostrano qualcosa ma di essi nessuna è nome (DI 16a 26-29).

Il passo è stato sempre letto come se fosse attraversato in maniera semplicistica dalla opposizione tra katà sunqäkhn e fúsei. Ma, se si fa attenzione alla costruzione sintattico-testuale dell’intera frase, si può costatare che l’argomentazione si snoda in tre momenti: I. Enunciazione del concetto da spiegare: «Il nome è katà sunqäkhn». 79

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II. Spiegazione: «perché [oçti] nessuno dei nomi è per natura ma quando diventa [génhtai] simbolo». III. Precisazione della spiegazione con un controesempio: «dal momento che [e¬peí] anche i suoni che non sono lettere [oi™ a¬grámmatoi yófoi], come ad esempio quelli degli animali non umani, mostrano qualcosa ma di essi nessuna [ou¬dén] 16 è nome». Nel testo il katà sunqäkhn non è spiegato in contrapposizione semplicistica a fúsei ma sono gli enunciati II e III a funzionare da explicantes del concetto di katà sunqäkhn. Ciò vuol dire che nella lettura del passo abbiamo l’obbligo di farci guidare da due criteri: a) ciascuno dei concetti contenuti nell’explicans deve fare sistema coerente con gli altri; b) la spiegazione di ciò che Aristotele vuole dire con l’espressione katà sunqäkhn va cercata non in contrapposizione al termine fúsei «per natura», isolatamente considerato, ma nell’intero sistema teorico contenuto negli enunciati II e III. 5. Alla ricerca di un soggetto grammaticale Prima di entrare nel merito dell’analisi teorica del passo è indispensabile dare risposta a un quesito filologico-testuale: qual è il soggetto del verbo génhtai «diventa» nella proposizione «quando diventa simbolo [oçtan génhtai súmbolon]» del membro II della frase? Tre sono le soluzioni prospettate. 1. Il soggetto è o¢noma. È la soluzione adottata, tra gli altri, da Scarpat17, Tricot18, Ackrill19, Sainati20, Zanatta21, Zadro22 in sede

Sulla traduzione di ou¬dén vedi l’Appendice alla fine di questo capitolo. «Non ci sono nomi per natura, ma sono nomi quando diventano simboli» (1950: 75). 18 «Rien n’est par nature un nom, mais seulement quand il devient symbole» (Vrin, Parigi 1946). 19 «No name is a name naturally but only when it has become a symbol» (Clarendon Press, Oxford 1963). 20 «Il nome non è mai tale per natura, ma si fa nome quando diventa simbolo» (1968: 209). 21 «Nessuno dei nomi è per natura, ma quando diventi simbolo» (Rizzoli, Milano 1992). 22 «Nessuno dei nomi è tale per natura, ma allorquando venga ad essere simbolo» (Loffredo, Napoli 1999). 16 17

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di traduzione, da Belardi23 e Whitaker24 in sede di commento. Il testo in questo caso sarebbe banalmente tautologico e scientificamente inconcludente. Se lo scopo di Aristotele è di spiegare il concetto di nome mediante quello di simbolo non può dire, senza cadere nella più trita banalità, che «qualcosa che è già un nome è qualificabile come nome quando diventa simbolo». Ciò che si pone all’inizio del processo di trasformazione (il soggetto grammaticale di «diventa») deve essere, per motivi elementari di logica definitoria e argomentativa, differente dal «nome», ossia da ciò in cui questo qualcosa si trasforma mediante l’aggiunta del tratto katà sunqäkhn. 2. Il soggetto è súmbolon. In questo caso génhtai andrebbe inteso nell’accezione di ‘esserci’, ‘aver luogo’. La traduzione allora dovrebbe essere: «nessun nome è per natura ma solo quando c’è un simbolo». È la proposta di Montanari (1988: 142): «Aristotele intenderebbe dunque dire che i nomi sono per convenzione, non essendo di natura, ma qualora vi sia un corrispettivo». Tre ordini di considerazioni ci fanno respingere tale lettura. a) L’esserci del simbolo si troverebbe collocato al di fuori da processi generativi e sarebbe, per così dire, sospeso nel vuoto. ‘Simbolo’ verrebbe ad assumere lo statuto di una astratta nozione meta-teorica che indicherebbe l’idea generale di corrispondenza indipendentemente dalla natura e dalla qualità dei processi trasformativi che hanno come prodotto finale inseparabilmente e i piani che si corrispondono e la corrispondenza medesima. E questo – l’abbiamo mostrato nelle pagine dedicate alla nozione di simbolo – non è il caso della linguistica aristotelica. b) In Aristotele, filosofo molto attento ai processi generativi nascosti nelle cose esistenti, il verbo gígnomai ha quasi sempre il valore di ‘divenire’ e viene usato per indicare i processi di trasformazione o generazione di qualcosa in qualcosa d’altro. È pertanto buona 23 «È chiaro che il soggetto grammaticale di génhtai è o¢noma (…). Spesso, invece, gli interpreti ritengono che il soggetto sia un ‘suono della voce’ o simili, attribuendo così ad Aristotele un interesse per il lato acustico-articolatorio del simbolo che di fatto egli in questa sede non ha» (1975: 89). 24 «Aristotle says that no word is by nature: it is only a word when it becomes a token (súmbolon)» (1996: 45).

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norma adottare, ove possibile e soprattutto in contesti filosoficamente rilevanti, l’accezione generativa del verbo. c) La ingegnosa lettura di Montanari, infine, disperde e nasconde il profondo isomorfismo concettuale tra la rilevante osservazione teorica contenuta nel passo che stiamo esaminando e la teoria generativa della natura propria di Aristotele. Ma ciò sarà argomento delle prossime analisi. 3. Il soggetto è fwnä ‘voce’. È la soluzione adottata da Cooke25 e Colli26 in sede di traduzione, da Coseriu (1975: 74-75)27 e Arens in sede di commento (1984: 39)28. È la proposta filologicamente e teoricamente più convincente. Noi la facciamo nostra con una integrazione: il soggetto è fwnæ shmantikä ‘voce significativa’. Ne diamo qui le ragioni testuali. Diversamente da Arens non riteniamo che il testo sia not corrected e che abbia pertanto bisogno di restauri e integrazioni. Il testo è scritto secondo il normale stile, essenziale e privo di ridondanze, del suo autore. Appena tre righe prima Aristotele aveva definito il nome ricorrendo a tre qualificazioni: «il nome è (1) voce, (2) significativa, (3) katà sunqäkhn». L’ordine, a nostro avviso non casuale, di presentazione è tale che ciascuna qualificazione restringe e specializza il campo di applicazione della precedente. Se volessimo riformulare con la ridondanza di noi moderni l’espressione stringata di Aristotele, diremmo: il nome è (1) voce, (2) non qualsiasi voce ma voce significativa e, ancora, (3) non qualsiasi voce significativa ma voce significativa katà sunqäkhn. Il procedimento definitorio aristotelico è rappresentabile graficamente nello schema seguente:

25 «No sound is by nature a noun: it becomes one, becoming a symbol» (The Loeb Classical Library, 1938). 26 «Nessun nome è tale per natura. Si ha un nome, piuttosto, quando un suono della voce diventa simbolo» (Einaudi, Torino 1955; Laterza, Roma-Bari 1973). 27 La traduzione proposta non è però coerente con la lettura interpretativa: «kein Name fúsei ist, sondern erst, wenn er zu einem Symbol wird» (1975: 74). 28 Anche Arens traduce in maniera difforme dal modo in cui interpreta il testo: «‘Conventional’ is said because no word is by nature, but only when it becomes a symbol» (1984: 22).

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voce significativa NOME-PAROLA SIMBOLO

katà sunjäkhn

È questa definizione il precedente testuale del passo che stiamo discutendo. Il passo inizia con un lapidario tò dè katà sunqäkhn che è parafrasabile con «adesso vi do la spiegazione di ciò che ho voluto dire quando ho definito il nome come quella particolare voce che, oltre ad essere significativa, è anche katà sunqäkhn». È pertanto chiaro che, quando Aristotele spiega il katà sunqäkhn dicendo che questa caratteristica si ottiene «quando diventa simbolo», l’incognita X non può che essere la voce significativa e solo ad essa la caratteristica delimitante katà sunqäkhn può essere attribuita. 6. Gli squilli di tromba sono parole? Leggiamo adesso la prima delle due frasi esplicative del termine katà sunqäkhn. Essa è composta da due proposizioni in opposizione concettuale coordinate dall’avversativo «ma»: «nessuno dei nomi è per natura ma quando diventa [génhtai] simbolo». L’opposizione è immediatamente chiara per l’idea di natura e del suo opposto che la semiotica linguistica ha ereditato da Bacone e Galilei: la natura è l’universo della identità e della ripetitività; il suo opposto, ossia la cultura e/o convenzionalità, è l’universo della variabilità e della innovazione. Già nei primi secoli del primo millennio cristiano Ammonio e Boezio leggevano queste pagine ricorrendo allo stesso paradigma. «Aristotele – commenta Ammonio (Am-DI 19: 4-6) – distingue le cose che sono per natura da quelle che sono poste [qései] usando questa regola: le cose che sono uguali per tutti sono per natura; le cose che non sono uguali per tutti non sono per natura ma poste». Boezio ripete quasi alla lettera: 83

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è da dire che le cose e i concetti, dal momento che sono gli stessi per tutti, hanno una configurazione naturale, le voci e le lettere, invece, dal momento che variano a seconda delle diverse convenzioni degli uomini, non sono per natura ma perché posti . dicendum est res et intellectus, quoniam apud omnes idem sunt, esse naturaliter constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis hominum positionibus permutantur, non esse naturaliter, sed positione (B-DI 2, 23: 1-5).

Questa lettura, accreditata da una quasi bimillenaria tradizione, non può non farsi carico di alcune questioni filologiche e teoriche. A. Nella filosofia aristotelica la distinzione tra naturalità e artificialità individua due diversi tipi di processi generativi: processi autopoietici che hanno il motore della generazione [a¬rcæ kinäsewv] al proprio interno; processi generativi eteropoietici messi in movimento per impulso esterno. I primi sono naturali [fúsei], i secondi artificiali [técnhı]. «Ogni cosa è generata o artificialmente o naturalmente (…). La tecnica è principio generativo esterno alla cosa generata; la natura, invece, è principio generativo interno alla cosa generata [h™ mèn ou®n técnh a¬rcæ e¬n a¢llwı, h™ dè fúsiv a¬rcæ e¬n au¬tøı]» (Met. 1070a 6-8). Aristotele ne parla in molti luoghi. Assumiamo come testo di riferimento il secondo libro della Physica. «Ciascuna delle cose naturali – leggiamo – ha dentro se stessa il principio del movimento e della stasi: alcune rispetto al luogo, altre rispetto all’accrescimento e alla diminuzione, altre rispetto alla trasformazione» (192b 13-15). Le cose invece che derivano la loro esistenza da una tecnica [a¬pò técnhv], ad esse esterna, «non hanno alcuna tendenza congenita al mutamento» (ivi, 18-19). Anch’esse sono il risultato di un’attività generativa (il letto, ad esempio, è la trasformazione del legno), ma «nessuna delle cose costruite [tøn poiouménwn] ha in se stessa il principio del suo farsi: alcune l’hanno altrove e fuori di se stesse, come la casa e tutto ciò che è costruito manualmente, altre in loro stesse ma non per loro intrinseca costituzione come, per l’appunto, le cose che accidentalmente potrebbero diventare cause di se stesse29» (ivi, 28-32)30. 29 Quest’ultimo è il caso del medico che cura se stesso: un uomo malato, se accidentalmente è anche medico, può essere la causa della propria guarigione. 30 La distinzione tra processi autopoietici e eteropoietici è ripresa nel cognitivismo biologico di Maturana e Varela (1980).

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B. L’attribuire convenzionalmente un significato a un segnale fisico rientra indubbiamente nell’universo dei processi generativi artificiali [técnhı] o eteropoietici. Prendiamo come esempio i differenti squilli di tromba che in seguito ad un preliminare accordo segnalano le differenti azioni da compiere durante la battaglia. Se adottiamo i criteri della filosofia aristotelica, abbiamo qui la caratteristica fondamentale di una semantica generativa artificiale [técnhı]: i significati vengono forniti dall’esterno agli squilli di tromba così come la forma della statua viene attribuita dall’esterno al blocco di marmo o la forma della casa ai relativi materiali con cui la casa viene costruita. Nel marmo che diventa statua, nelle pietre e nel legno che diventano casa, nello squillo di tromba che diventa significativo il donatore di forma e di senso è altro da ciò a cui viene dato forma e senso: materia e forma hanno punti di partenza differenti e l’opera finale è il risultato di un’azione tecnica esercitata dall’esterno sulla materia. «Nelle cose artificiali siamo noi a lavorare la materia in funzione dell’opera che dobbiamo compiere, nelle cose naturali la materia è immanente al processo generativo» (Phys. 194b 7-8). Se si colloca la semanticità dei nomi e dei discorsi nell’universo della artificialità così come la intende Aristotele non si può allora sfuggire al compito, teoricamente rilevante, di individuare il motore [a¬rcæ kinäsewv] non linguistico che, rimanendo esterno alla voce, la trasforma in nome e/o discorso significativo convenzionale. La soluzione convenzionalista che si è soliti attribuire ad Aristotele è nota: il principio attivo donatore di senso altro non è che il soggetto parlante. Ma il parlante è parlante in quanto parla e, pertanto, già dotato di parola e di linguaggio. Qui invece è in discussione l’individuazione dell’ipotetico motore non linguistico che conferisca significatività linguistica convenzionale a una materia (la voce) che di per se stessa ne dovrebbe essere priva. In termini rigorosamente aristotelici, il ricorso al parlante comporta invece l’ammissione che il motore generativo del linguaggio è il linguaggio stesso o, se si vuole, qualcuno che già parla e che, per l’appunto, in quanto parla, è in grado di stabilire, mediante il parlare, convenzioni, siano esse verbali o non verbali. Si verrebbe ad abbandonare in tal modo l’universo della técnh per rientrare in quello della fúsiv. Se spostiamo l’attenzione dal linguaggio agli squilli di tromba, una domanda si impone: uno squillo di tromba significativo Aristotele l’avrebbe chiamato nome-parola o simbolo? Ricordiamoci le 85

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precedenti analisi della nozione di simbolo e chiediamoci: nella linguistica aristotelica uno squillo di tromba è una parola-simbolo? La domanda può sembrare eccessiva. Però, se nel passo che stiamo discutendo fosse in questione la semplice non-naturalità o convenzionalità, la risposta non potrebbe che essere positiva: uno squillo di tromba in quanto convenzionalmente significativo sarebbe per Aristotele una parola e un simbolo. Corollario obbligato: una successione significativa di squilli di tromba sarebbe un logos, ossia un discorso. Ma né Aristotele né alcuno dei suoi commentatori è disposto a riconoscere, salvo che per metafora, parola e logos negli squilli di tromba o nelle luci del semaforo. Se nelle righe del De Interpretatione che stiamo discutendo fosse in questione la semplice convenzionalità, perché mai Aristotele ricorre all’espressione, piuttosto rara e polisemica, katà sunqäkhn anziché a quella indubbiamente più chiara e più studiata katà técnhn? Si tratta della insondabile bizzarria terminologica di un genio? Le due espressioni, se riferite al linguaggio, hanno lo stesso significato? O forse Aristotele voleva metterci in guardia dal confondere parole e discorsi sia con squilli di tromba e luci del semaforo sia con le voci naturali degli animali a-linguistici? E se il katà sunqäkhn esprimesse la incommensurabile e incolmabile distanza tra il significare verbale e l’universo semantico non-verbale che va dai segnali artificialmente prodotti dall’uomo alle segnalazioni naturali degli animali privi di logos? 7. L’habitat naturale dell’uomo: la città e il linguaggio Torniamo a leggere la frase in discussione: «Il nome è katà sunqäkhn: nessuno dei nomi, infatti, è per natura ma quando diventa [génhtai] simbolo». Una parola-nome non solo è «voce significativa katà sunqäkhn» ma è anche simbolo. Nel testo, simbolo verbale e katà sunqäkhn sono nozioni strettamente imparentate. La nostra lettura delle righe 16a 3-5 («Le articolazioni della voce umana e le operazioni logico-cognitive dell’anima umana sono tra loro differenti e complementari [súmbola] così come lo sono le articolazioni scritte e quelle della voce») trova qui un ulteriore sostegno: se ‘simbolo’ indicasse una generica relazione, intenzionale e/o convenzionale, tra qualcosa che si86

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gnifica e qualcosa d’altro che è significato, perché mai le intenzionali e significative voci naturali degli animali31 e gli altrettanto intenzionali e significativi, anche se convenzionali, squilli di tromba durante una battaglia non dovrebbero anch’essi essere simboli-parole? E Aristotele nega che siano simboli tanto le voci degli animali quanto gli squilli di tromba. La parola-simbolo – sostiene Aristotele – è una particolare voce significativa che risulta da uno specifico processo generativo [génhtai] indicato dall’espressione katà sunqäkhn e che ancora bisogna precisare. Per Boezio l’affermazione che «il nome è tale solo quando diviene segno-simbolo (nota)32» è chiaro indizio che Aristotele pensasse al concetto di convenzionalità. «Se i nomi significassero per natura – commenta Boezio – mai Aristotele avrebbe detto che ‘ diventa segno-simbolo (fit nota)’: in questo caso, infatti, non diventerebbe ma sarebbe segno (tum enim non fieret nota, sed esset)» (BDI 2, 59-60). Tommaso d’Aquino lo segue alla lettera: «ciò che per natura significa non diviene segno ma è per natura segno [id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum]» (TomDI 1, IV, 46). È l’interpretazione ricorrente del passo giocata sull’opposizione tra ciò che è e ciò che diviene: nel primo caso avremmo fatti naturali, invariabili e necessari, nel secondo fatti non-naturali, variabili e intenzionali o convenzionali. Questa lettura può reggere alla condizione che vengano praticate due rimozioni, tra loro complementari. Prima rimozione. Uno dei pilastri portanti della filosofia di Aristotele è che tutti i fenomeni naturali non sono ma divengono, ossia sono risultati di processi generativi. Il complessivo sistema teorico della filosofia aristotelica non autorizza pertanto a integrare e chiosare in modo non problematico il génhtai dell’affermazione sulla «voce significativa che diventa simbolo» con «voce significativa che 31 L’universo semantico degli animali da Aristotele è descritto come il risultato di correlazioni intenzionali tra voci e rappresentazioni mentali [fantasíai]: vedi Lo Piparo (1988) e la prima parte di questo libro. Non possiamo seguire perciò Coseriu (1975: 78) quando attribuisce allo Stagirita l’idea che le voci degli animali non umani «sind deshalb keine Namen, weil sie fúsei und keine súmbola (d. h. nicht intentionell) sind» (corsivo mio). 32 Ricordiamo che Boezio traduce con nota tanto súmbolon che shmeîon: cfr. supra, p. 34.

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convenzionalmente o artificialmente diventa simbolo»: per l’idea che lo Stagirita ha della opposizione di naturalità e artificialità la voce significativa potrebbe, in linea di principio, diventare simbolo-segno (intenzionale e/o convenzionale) anche mediante un processo generativo naturale. Seconda rimozione. Nelle pagine, già da noi citate, del secondo capitolo del primo libro della Politica, Aristotele sostiene con una certa enfasi che l’uomo è l’unico vivente che per sua congenita predisposizione naturale è qualificabile come animale linguistico. Rileggiamo di nuovo il passo alla luce del problema che stiamo affrontando: La natura non fa niente senza scopo e l’uomo è l’unico animale a possedere il linguaggio [lógov]. La voce [fwnä)] è segno [shmeîon] di dolore e di piacere e questo è il motivo per cui si riscontra negli altri animali (la loro natura infatti giunge fino a questo punto: avere la sensazione [ai¢sqhsiv] del dolore e del piacere e segnalarsela reciprocamente [shmaínein a¬lläloiv]). Il linguaggio [lógov] invece ha come fine l’esprimere ciò che è utile e ciò che è nocivo e di conseguenza ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Ciò accade perché, rispetto agli altri animali, è caratteristica specifica dell’uomo avere, egli solo, la capacità di sentire il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, e altre ancora: la comunanza-comunicazione reciproca [koinwnía] di queste qualità forma la famiglia e la città. (…). Chi non è capace di entrare in comunanza-comunicazione o chi a causa della sua autosufficienza non ha bisogno di nulla, costui non è parte della città e perciò è o animale non umano o dio. In tutti gli uomini si trova la tendenza naturale [fúsei h™ o™rmä] a questo tipo di comunanza-comunicazione (1253a 9-30).

Qui la linea divisoria non è tra natura e non-natura ma tra due differenti tipi di naturalità espressiva: quella degli animali non umani e quella degli animali umani. Alla prima è sufficiente la semplice voce inarticolata; la seconda deve possedere una complessità, anch’essa naturale, tale da consentire la elaborazione ed espressione «del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto» e, bisogna aristotelicamente aggiungere, del vero e del falso. Solo su questa base linguistica possono sorgere la famiglia e la città: «l’uomo è per natura animale cittadino [o™ a¢nqrwpov fúsei politikòn zøıon: ‘animale il cui habitat naturale è la città’] e chi, per costituzione naturale e non per un accidente, è senza città [a¢poliv] è o inferiore o superiore 88

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all’uomo» (Pol. 1253a 2-4; EN 1097b 11). Non hanno bisogno naturale della città e dei suoi valori (giusto/ingiusto, bene/male, vero/falso) né gli animali non umani né dio. «La natura non fa niente invano» e, perciò, non è un caso che sia gli uni che l’altro siano sprovvisti di linguaggio articolato [lógov]. Il passo della Politica potrebbe essere riformulato anche in questo modo: parole-simboli e discorso l’uomo li possiede per predisposizione naturale (naturale nell’accezione autopoietica della filosofia aristotelica) e non per intervento artificiale o convenzionale del tipo «conveniamo che lo squillo di tromba significhi questo» oppure «conveniamo che questo tipo di squillo (oppure: questa emissione di voce) sia un nome e quest’altro/a un verbo». La lettura sinottica della Politica e del De Interpretatione suggerisce una ipotesi: se il linguaggio appartiene per natura all’uomo («La natura non fa niente senza scopo e l’uomo è l’unico animale a possedere il linguaggio») e se katà sunqäkhn è la caratteristica specifica che differenzia le voci significative verbali dalle voci significative degli animali non linguistici, allora katà sunqäkhn non può che essere la caratteristica naturale definitoria dell’espressività verbale. Il linguaggio o logos è per natura katà sunqäkhn. Come allora intendere la enunciazione «il nome è katà sunqäkhn: nessuno dei nomi, infatti, è per natura ma quando diventa [génhtai] simbolo»? Proponiamo la seguente parafrasi interpretativa: la voce significativa, nella sola ed esclusiva qualità di voce significativa, non è per questo (ossia: per la sua intrinseca qualità naturale di voce significativa) nome-parola; la voce significativa è qualificabile invece [a¬llá] come nome-parola solo quando diventa simbolo e katà sunqäkhn. Detto diversamente: non ogni voce significativa è per sua intrinseca natura e necessariamente parola-simbolo; ogni parola-simbolo è invece necessariamente voce significativa. Il passo diventa coerente con l’intero sistema della filosofia aristotelica e suggerisce due diversi tipi di divenire: 1) processi generativi naturali, propri degli apparati espressivi degli animali a-linguistici, che hanno come prodotto finale voci significative semplici; 2) processi generativi complessi, anch’essi naturali, che hanno invece come risultato simboli verbali ossia voci significative katà sunqäkhn. Simboli verbali o voci significative katà sunqäkhn sono i nomi, i verbi e i discorsi. 89

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8. Convenzionalità, articolazione, scrivibilità Dopo aver enunciato la tesi che «la voce significativa è parola quando diventa simbolo», il testo continua: «infatti [e¬peí] anche i suoni che non sono lettere [oi™ a¬grámmatoi yófoi] come quelli degli animali non umani mostrano qualcosa ma di essi nessuna è qualificabile come parola». Va trovata qui, nelle pieghe del controesempio delle voci degli animali non umani che, pur essendo significative [dhloûsí gé ti], non sono parole-simboli, la chiave con cui aprire la porta che ci faccia entrare dentro il nucleo teorico nascosto che tiene insieme le nozioni di simbolo, parola e katà sunqäkhn. La lettera del testo è chiara: gli animali a-linguistici non posseggono parole-simboli perché i suoni (o voci) che emettono sono suoni che non sono voci-lettere [oi™ a¬grámmatoi yófoi]33. Perché mai il concetto di katà sunqäkhn (convenzionalità?) è coniugato con la presenza di voci-lettere e con la nozione di simbolo? Coniugato così fortemente da far dire ad Aristotele che l’universo semantico degli animali non è qualificabile come simbolico e katà sunqäkhn in quanto è sprovvisto di voci-lettere. La traduzione di katà sunqäkhn con ‘convenzionale’ trascura il peculiare significato che il termine ‘simbolo’ ha nelle filosofie di Platone e Aristotele e impedisce di cogliere il senso autentico dell’enunciazione teorica. Ackrill (1963: 117), non mettendo in discussione la traduzione canonica, notò con coerenza che Aristotele, non solo non dimostra ciò che afferma (la convenzionalità come «condizione necessaria» perché la voce significativa sia nome), ma «indebolisce la forza della sua osservazione col menzionare i rumori inarticolati, cioè tali da non essere suoni chiaramente distinguibili in modo da poter essere rappresentati nella scrittura. Si potrebbe infatti obiettare che ciò che impedisce a tali rumori di essere considerati come nomi non è il fatto di essere segni

33 La presenza/assenza di voci-lettere è uno dei criteri con cui nel De Partibus Animalium e nella Historia Animalium viene edificata una complessa tipologia dell’espressività di tutti gli animali, uomo compreso: «Alcuni animali emettono suoni, altri sono senza voce, altri ancora emettono voci: di questi, alcuni hanno voce articolata [diálektov], altri sono senza voci-lettere [a¬grámmata]» (HA 488a 31-33). Cfr. Ax (1978, 1986), Zirin (1980), Lo Piparo (1988; 1989-90), Laspia (1996a, 1996b, 1997, 1999), Melazzo (2000).

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naturali piuttosto che convenzionali ma, per l’appunto, il fatto di essere inarticolati»34. A distanza di un millennio e mezzo la pagina di commento che Ammonio dedica alla spiegazione del nesso tra presenza/assenza di katà sunqäkhn e presenza/assenza di voci-lettere rimane tra le più penetranti e acute. La riportiamo interamente consentendoci nella traduzione piccole e innocue libertà. Suddividiamo in breve la voce utilizzando due coppie di caratteristiche: (A) la voce significativa e la voce senza significato; (B) la voce trasferibile in scrittura alfabetica [e¬ggrámmatov] e la voce che non può esserlo [a¬grámmatov]. La voce trasferibile in scrittura alfabetica viene chiamata articolata [e¢narqrov], l’altra invece inarticolata [a¢narqrov]. Questa denominazione nasce dal fatto che le sillabe, che formano la voce articolata [diálektov], separandosi nel loro funzionamento [kat∫ e¬nérgeian] l’una dall’altra, somigliano agli arti di un animale i quali per l’appunto sono capaci di separarsi l’uno dall’altro, così come gli stoicheia , una cui determinata connessione [h™ poià súllhyiv] produce le sillabe, somigliano agli stoicheia della natura la cui mescolanza forma ciascuno degli arti. La combinazione forma quattro tipi di unione e a una di queste appartengono il nome, il verbo e il discorso formato da essi: 1. la voce significativa e scrivibile con lettere come ad esempio la voce ‘uomo’; 2. la voce significativa e non scrivibile con lettere come ad esempio il latrato del cane; 3. la voce senza significato e scrivibile con lettere come ad esempio la voce ‘blituri’; 4. la voce senza significato e non scrivibile con lettere come ad esempio il fischio prodotto casualmente e non per significare qualcosa o per imitare la voce di un animale alinguistico (in questo caso sarebbe significativo) ma disordinatamente e senza scopo. 34 Kretzmann (1974: 17) controargomenta all’osservazione di Ackrill sostenendo che per Aristotele gli a¬grámmatoi yófoi degli animali non sono nomi perché «non sono segni convenzionali e non sono segni convenzionali ‘perché per l’appunto non sono articolati’». Una interpretazione simile era stata già sostenuta da Ammonio: si veda qui di seguito il testo. Ma – si potrebbe obiettare – se la convenzionalità è una conseguenza dell’articolazione, come spiegare la semantica convenzionale di segnali non articolati come, ad esempio, le luci del semaforo o gli

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Il nome è voce significativa e scrivibile con lettere [tò o¢noma shmantikä te kaì e¬ggrámmatóv e¬sti fwnä]. Pertanto: in quanto voce significativa si distingue dalle voci senza significato, siano esse scrivibili {tipo 3} o non scrivibili {tipo 4} con lettere; in quanto voce scrivibile con lettere si distingue dalle voci significative non scrivibili con lettere {tipo 2}, come sono quelle emesse naturalmente. Quest’ultima caratteristica {la trasferibilità in scrittura alfabetica} Aristotele la chiamò a buon diritto katà sunqäkhn, dal momento che l’accordo [sunqäkh] sulle voci è opera esclusiva degli uomini, non avendo nessuno di coloro che stanno sopra o sotto di loro un bisogno naturale dell’accordo [sunqäkh]: dell’accordarsi gli uni con gli altri i primi non ne hanno bisogno, i secondi non possono. L’accordo [sunqäkh] è pertanto opera esclusiva degli esseri umani i quali, poiché non potevano tenere a mente tutte le voci, inventarono, gli uni indipendentemente dagli altri [eçkastoi], le lettere [grámmata] con le quali trascrissero le loro voci. In tal modo dalla significazione convenzionale [katà sunqäkhn] della proprietà delle cose (intorno a cui i filosofi discutono) deriva la scrivibilità in lettere [tò e¬ggrámmaton] e viceversa: la funzione delle lettere infatti altro non è che di essere i simboli [súmbola] delle voci umane che abbiamo dimostrato essere convenzionali [katà sunqäkhn]. È questo il motivo per cui Aristotele più in là chiamerà «suoni che non sono lettere [a¬grámmatoi yófoi]» le voci degli animali a-linguistici [tøn a¬lógwn zåıwn]35 (Am-DI 31: 3-32).

Ammonio sostiene qui tesi che con difficoltà si armonizzano con le numerose pagine di commento dedicate alla spiegazione della centralità della nozione di convenzionalità e della identità di qései (per posizione convenzionale) e katà sunqäkhn. Gli argomenti usati suonano come un’involontaria e paradossale rettifica delle versioni semplicistiche della lettura convenzionalista dei capitoli linguistici del De Interpretatione. Alcuni di essi meritano di essere messi in evidenza. squilli di tromba in una battaglia? Interpretando così il testo non si passa da una contraddizione all’altra? 35 Guglielmo di Moerbeka traduceva tàv fwnàv tøn a¬lógwn zåıwn voces irrationalium animalium. I traduttori moderni lo seguono: «the voices of the unreasoning animals» (Arens 1984: 86); «les cris des animaux déporvus de raison» (Ildefonse-Lallot 1992: 37); «the vocal sounds of irrational animals» (Blank 1996: 41). Queste traduzioni disperdono la complessità e profondità delle riflessioni sulla espressività e cognitività degli animali non umani che si trovano non solo nella filosofia di Aristotele ma anche nelle opere degli stoici e dei neoplatonici.

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SCRIVIBILITÀ ALFABETICA

1. Nomi, verbi, discorsi 2. Voci di animali, infanti, sordomuti 3. Voci come ‘blituri’ 4. Fischi involontari

SEMANTICITÀ

a) La definizione aristotelica del ‘nome-parola’ come «voce significativa katà sunqäkhn» viene riformulata in voce significativa scrivibile in lettere [e¬ggrámmatov]: «a buon diritto Aristotele chiama katà sunqäkhn il concetto di ‘trasferibilità in scrittura alfabetica’». b) L’acuta tipologia delle voci che viene esposta non si fonda sulla nozione di convenzionalità [qései] e utilizza invece le nozioni di «presenza/assenza di significato» e di «presenza/assenza di scrittura alfabetica». La tipologia ammoniana è sinteticamente riportata nello schema che segue36:

+ + – –

+ – + –

c) Mediante un ragionamento al limite del sofisma Ammonio fa coincidere la convenzionalità semantica – indicata con la polisemica formula katà sunqäkhn – dei linguaggi verbali con l’invenzione della scrittura alfabetica: «dalla significazione katà sunqäkhn {convenzionale?} della proprietà delle cose (…) deriva la scrivibilità in lettere [tò e¬ggrámmaton] e viceversa». d) La scrittura alfabetica è presentata come l’immagine analogica e fedele dell’articolazione: «la voce trasferibile in scrittura alfabetica [e¬ggrámmatov] viene chiamata articolata [e¢narqrov], l’altra [a¬grámmatov] invece inarticolata [a¢narqrov]». È questa una identificazione che, più o meno chiaramente, ha continuato a far sentire la sua presenza ancora nella fonologia scientifica del XX secolo e che solo da poco viene messa in discussione.

36 La classificazione delle voci proposta da Ammonio segue criteri propri della tipologia della linguistica stoica: vedi Diogene Laerzio (VP VII: 57) e SVF III, pp. 212-15.

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Abbiamo acquisito un dato importante. Per rendere coerente il testo aristotelico il nostro commentatore neoplatonico deve ampliare, o almeno complicare, il campo semantico dell’espressione katà sunqäkhn. In questa pagina di commento le accezioni sono tre: 1) convenzionalmente posto [qései]; 2) trasferibile in scrittura alfabetica [e¬ggrámmaton]; 3) articolato [e¢narqron]. Ammonio si sforza di mostrare la loro sostanziale identità concettuale ma ciò crea qualche problema. Esaminiamo tre esempi. Primo esempio. La parola senza significato ‘blituri’ è articolata in quanto scrivibile in scrittura alfabetica: katà sunqäkhn = e¬ggrámmaton = e¢narqron. È per questo convenzionale (katà sunqäkhn = qései)? Secondo esempio. Fischi e colpi di tosse prodotti con una intenzione comunicativa sono indubbiamente voci che significano per convenzione: katà sunqäkhn = qései. Sono per questo anche articolati o trasferibili in scrittura alfabetica (katà sunqäkhn = e¢narqron = e¬ggrámmaton)? Terzo esempio. È simile al secondo. Gli squilli di tromba durante una battaglia hanno il significato convenuto tra i soldati: katà sunqäkhn = qései. Sono per questo suoni articolati nel senso di analizzabili mediante lettere (katà sunqäkhn = e¢narqron = e¬ggrámmaton)? Quest’ultimo è un esempio frequentemente usato da Ammonio per spiegare l’identità delle nozioni di simbolo (inteso come segno convenzionale e/o intenzionale) e katà sunqäkhn. 9. Sul ruolo metafisico-cognitivo della scrittura alfabetica nell’antica Grecia Ammonio ripete un luogo comune della linguistica stoica37 e che sarà recepito dalla maggior parte degli scolii all’Ars Grammatica di Dionisio Trace38: «articolazione [e¢narqron]» è una variante nominale di «analizzabile (e rappresentabile) mediante le lettere dell’al37 «La lexis è voce scrivibile in lettere [fwnæ e¬ggrámmatov]»; «la lexis è solo articolata [léxiv dè tò e¢narqron mónon]» (in Diogene Laerzio, VP VII: 56-57). 38 «Esistono due tipi di voce: la voce articolata [e¢narqrov] ossia scrivibile con lettere [e¬ggrámmatov] – è quella che proviene dalla mente umana –; la voce inarticolata [a¢narqrov] e che, quindi, non può essere scritta [mæ dunaménh grafñnai] – è quella propria degli animali a-linguistici» (Dionisio Trace, S-TG 130: 8-10).

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fabeto [e¬ggrámmaton]». Ciò è connesso – è questo l’apporto originale del commento ammoniano – con la nozione aristotelica di katà sunqäkhn. Perché mai scrivibilità alfabetica, articolazione e katà sunqäkhn (solo convenzionalità?) si trovano così strettamente imparentate? Quali sono le ragioni, forti e deboli, di tale parentela? Per rispondere alla domanda bisogna seguire il suggerimento di Ammonio e soffermarsi sulla nozione greca di scrittura alfabetica. Nella Grecia classica gramma ha un significato più ampio e intricato del termine ‘lettera dell’alfabeto’. Gramma è contemporaneamente il carattere grafico che lo scrivente usa per rappresentare una voce elementare e la voce elementare che il carattere grafico rappresenta. È il nome del rappresentante grafico e del rappresentato fonico: per fare un esempio, il gramma A è il suono a ma anche la lettera a (alfa) con cui viene graficamente rappresentato il suono a. Nei testi della Grecia classica non sempre è possibile distinguere i due significati del termine e a volte, come nel caso di Platone e Aristotele, non è nemmeno teoricamente proficuo distinguerli. Alcuni esempi. Prometeo, nella tragedia omonima di Eschilo, racconta di aver trasmesso all’umanità, insieme ad altre arti, anche le grammátwn sunqéseiv «le composizioni-combinazioni delle lettere» (Pr. 460). Siamo proprio sicuri che Eschilo stia facendo riferimento solo e soltanto alla invenzione dello strumento con cui rappresentare visivamente le voci verbali? L’invenzione delle lettere non è lo stesso dell’invenzione del modo in cui combinare [sunqéseiv] tra loro le lettere. Prometeo ha inventato il modo in cui rappresentare graficamente le voci elementari oppure ciò in funzione di cui la scrittura alfabetica nasce, ossia la differenziazione-articolazione della voce? Non è da escludere che per Eschilo tra le due invenzioni non ci fosse una sostanziale differenza. Il dubbio è rafforzato dal fatto che la versione platonica del mito racconta che «grazie alla sapienza tecnica» elargita da Prometeo all’umanità, «l’uomo articolò subito dopo la voce e le parole [fwnæn kaì o¬nómata dihrqråsato]» (Prot. 322a). Conseguenza del dono di Prometeo fu lo strumento della scrittura alfabetica o l’articolazione fonica e verbale che i grammata consentono di rappresentare? La non facile distinzione tra scrittura alfabetica e articolazione fonica si ritrova nella doppia narrazione platonica del mito di Theuth. Nel Fedro (274c sgg.) il semidio egiziano inventa i grammata come strumento tecnico, aggiuntivo al linguaggio orale, con lo scopo di raf95

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forzare o – secondo il punto di vista opposto – indebolire la memoria dell’umanità. Nel Filebo il semidio non inventa la scrittura ma ciò che lo strumento grafico trascrive, ossia le articolazioni fonologiche: Un dio o uomo divino si rese conto che la voce è indeterminata [fwnæn a¢peiron] – una tradizione egiziana narra che fu Theuth – e per primo comprese che in tale indeterminatezza le vocali non sono una ma molte ed inoltre vi sono un numero determinato di altri che, pur non avendo voce, partecipano di una qualche sonorità [fqóggou dè metécontá tinov]; distinse un terzo tipo di grammata che adesso noi chiamiamo non-voci [a¢fwna]. Poi distinse uno per uno i grammata che sono non-suoni e non-voci [a¢fqogga kaì a¢fwna], le vocali e mediani [mésa]. Infine determinò il loro numero e diede a ciascuno di essi e a tutti il nome di stoicheion. Costatando che nessuno di noi potrebbe impararne uno per se stesso a prescindere dagli altri e considerando che questo legame è unico e li rende tutti in qualche modo un’unità, applicò ad essi una sola arte e la chiamò «arte grammaticale» [grammatikæ técnh «arte delle voci-grammata»] (18b-d).

Il lavoro cognitivo di Theuth è qui descritto come un modo per determinare e ordinare la indeterminatezza e infinità [a¢peiron] della voce. I grammata, nel racconto, sono strumenti di trascrizione o operatori di divisione e articolazione di una voce originariamente indivisa e inarticolata? Ci sembra scientificamente più proficuo non sciogliere l’ambiguità e interrogarci sui motivi della indistinzione tra lettera e voce elementare. È probabile infatti che grammata e stoicheia per Platone nascessero contemporaneamente scritti e parlati. La loro doppia natura, visiva e uditiva, emerge anche dall’analisi platonica degli stadi iniziali dell’educazione del bambino: «Nel processo di apprendimento – fa notare Socrate a Teeteto – non hai fatto altro che esercitarti sia con la vista che con l’udito a distinguere gli stoicheia ciascuno per se stesso in modo che la loro posizione, detti o scritti che fossero, non ti confondesse» (Teet. 206a). Secondo Diels (1899: 33, 39) l’indistinzione nasce da una confusione concettuale. Ma tanto Platone quanto Aristotele, quando ne avevano il bisogno teorico, erano in grado di distinguere chiaramente il linguaggio scritto da quello parlato. Nelle Categoriae, ad esempio, Aristotele classifica il linguaggio tra le quantità perché è formato da sillabe brevi e lunghe e aggiunge la precisazione che «naturalmente sta riferendosi al linguaggio orale [tòn metà fwnñv lógon gignóme96

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non]» (4b, 34-35). Nei Sophistici Elenchi – esempio ancora più interessante – nota che le due parole o¢rov ‘monte’ e oçrov ‘confine’ distinguono i loro rispettivi significati solo per la loro differente prosodia: «se vengono scritte con gli stessi stoicheia e allo stesso modo, in quanto forme scritte sono la stessa parola (…); ma se vengono pronunciate [tà dè fqeggómena], non sono la stessa parola» (SE 177b 3-7). L’indistinzione non ci sembra adeguatamente spiegabile nemmeno con «quella reale rispondenza fra il sistema fonologico e l’alfabeto che i Greci riuscirono a realizzare in modo mirabile» (Pagliaro 1956: 143-44). Ciò indubbiamente ha favorito il mantenimento dell’indistinzione ma non poté esserne la ragione forte. Nessun alfabeto, nemmeno quello greco, può contenere nella propria rappresentazione tutte le caratteristiche pertinenti che rendono altamente specifica la voce verbale. E i filosofi dell’antica Grecia ne erano consapevoli. La ragione dell’indistinzione potrebbe essere di natura squisitamente teorica. La scrittura alfabetica per la riflessione filosofica greca funzionò come specchio o laboratorio in cui cogliere e studiare la specificità fonico-semantica del linguaggio. I grammata furono percepiti non solo o non tanto come strumenti tecnici che consentissero la registrazione grafica dei discorsi ma come il luogo in cui si pensava che si trovasse racchiuso uno dei segreti della specificità del linguaggio verbale. Il ragionamento era – come capita spesso – semplice e acuto: se solo le voci verbali sono alfabeticamente scrivibili, allora la scrittura alfabetica è ciò che cattura quell’insieme di caratteristiche che solo le voci verbali posseggono. La scrittura di conseguenza non è una tecnica che si aggiunge dall’esterno al linguaggio, è piuttosto la caratteristica interna e costitutiva del linguaggio. La voce è linguaggio verbale solo e soltanto in quanto è voce significativa scrivibile in scrittura alfabetica39. A partire da questa felice e non casuale indistinzione rivelano il loro pregnante senso teorico la definizione platonica del linguaggio come «voce scrivibile in lettere [logov· fwnæ e¬ggrámmatov]» (Def.) e l’insistenza aristotelica sulla distinzione radicale tra le voci che so39 Zirin (1974: 23-24), pur sostenendo correttamente che da Aristotele «grámma veniva usato in riferimento alle unità minime di suono linguistico», non coglie il particolarissimo ruolo metafisico-cognitivo che la scrittura alfabetica svolge nelle filosofie di Platone e Aristotele quando asserisce: «I do not think that it [il termine a¬grámmatov] means ‘unwritable’».

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no parole o simboli in quanto si possono in linea di principio scrivere e le voci o i suoni, propri degli animali alinguistici, che non hanno lo statuto di parole o simboli in quanto non rappresentabili con lettere [a¬grámmatoi yófoi]. 10. La scrivibilità come terza dimensione della lingua Si trova in questo ordine di idee la chiave che apre la porta del senso nascosto della proposizione con cui si conclude la seconda frase del De Interpretatione: tà grafómena tøn e¬n tñı fwnñı. Il fatto che le articolazioni scritte siano simboli delle articolazioni vocali è uno dei tratti definitori fondamentali del linguaggio umano. Il riferimento alla scrittura non va letto in chiave socio-comunicativa (l’uomo o un semidio ha inventato la tecnica della scrittura per ampliare il raggio della sfera comunicativa) ma in chiave bio-metafisica: il logos è logos se e soltanto se è anche alfabeticamente scrivibile. La prova che gli animali non umani [qhría] non posseggono il logos è che i loro segnali comunicativi, vocali o di altro tipo, non essendo rappresentabili in scrittura alfabetica, non hanno il loro complemento simbolico nei grammata. Il passo del De Interpretatione che stiamo discutendo non è l’unico in cui la scrivibilità alfabetica viene usata come criterio definitorio per distinguere la voce significativa articolata – la sola che per lo Stagirita possa essere chiamata «linguaggio» – dalla voce significativa non articolata. «Degli animali che emettono voci [tà fwnäenta] – si sostiene nell’Historia Animalium –, alcuni hanno voce articolata [diálektov], altri sono senza voci-lettere [a¬grámmata]» (HA 488a 32-33)40. L’asserzione «articolazioni della scrittura alfabetica e articolazioni della voce sono in relazione simbolica [tà grafómena tøn e¬n tñı fwnñı]» è pertanto una spiegazione e un ampliamento dell’asserzione che la precede: «articolazioni della voce e operazioni logico-cognitive dell’anima umana sono in relazione simbolica [e¢sti mèn ou®n tà e¬n tñı fwnñı tøn e¬n tñı yucñı paqhmátwn súmbola]». Le due relazioni simboliche («articolazioni scritte ↔ articolazioni vocali»; «articolazioni vocali ↔ ope40 Il termine con cui Aristotele e, in genere, la filosofia greca si riferiscono alla voce articolata è diálektov: vedi Ax (1978, 1986), Lo Piparo (1988, 1996), Laspia (1996b, 1997).

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razioni logico-cognitive») stanno necessariamente insieme. La rappresentazione grafica di p. 66 va perciò così integrata:

Articolazioni scritte Articolazioni vocali súmbola súmbola tà grafómena tà e¬n tñı fwnñı

Operazioni logico-cognitive tà e¬n tñı yucñı pajämata

operazioni logico-cognitive

sc riv

ib

ili

tà a

lfa

be t

ica

articolazioni vocali

Scrivibilità, articolazioni specie-specifiche della voce umana, operazioni logico-cognitive, anch’esse specie-specifiche, dell’anima umana sono le tre dimensioni cooriginarie41 che, insieme, generano il logos. Le dimensioni del linguaggio verbale in questa prospettiva non sono due ma tre. Esse non sono connesse da relazioni lineari del tipo prima/dopo, causa/effetto o significante/significato ma definiscono, insieme e nella loro diversità-complementarità, lo spazio tridimensionale entro cui il logos può sorgere così come lunghezza, larghezza e profondità mostrano le coordinate dello spazio entro cui un solido può essere generato o una corda può annodarsi. Per una adeguata rappresentazione grafica dello spazio concettuale entro cui il logos aristotelico viene pensato, bisognerebbe perciò ricorrere, piuttosto che a figure bidimensionali (triangoli, quadrati o cerchi), a oggetti geometrici con un numero di dimensioni superiore a due. Ad esempio, un cubo o una sfera. Per il momento ci affidiamo all’ausilio grafico del cubo:

41 Insistiamo sul fatto che la nozione di dimensione non va confusa né con quella di faccia o piano (Saussure, Hjelmslev) né con quella di vertice di un poligono (Ogden-Richards).

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Secondo la Physica, un corpo è qualsiasi ente descrivibile mediante le tre dimensioni dello spazio: «Lo spazio ha tre dimensioni [diastämata] (lunghezza, larghezza e profondità) e ogni corpo è definito [o™rízetai] rispetto ad esse» (Phys. 209a 4-6)42. Euclide definirà allo stesso modo il solido: «È solido ciò che ha lunghezza, larghezza e profondità» (El. XI, Def. 1). In analogia a queste definizioni, il passo del De Interpretatione si potrebbe parafrasare dicendo che è linguaggio quel particolare corpo che può essere descritto rispetto a tre coordinate (o dimensioni): articolazioni foniche [tà e¬n tñı fwnñı], articolazioni logico-cognitive [tà e¬n tñı yucñı paqämata], rappresentabilità in scrittura alfabetica [tà grafómena, grámmata]. Riproponiamo la nostra traduzione di 16a 3-4: Le articolazioni della voce umana e le operazioni logico-cognitive dell’anima umana sono tra loro differenti e complementari così come lo sono le articolazioni scritte e quelle della voce. 11. Parlare = scrivere? Il parlare è allora una sorta di scrittura interiore? Dal fatto che la voce linguistica è, per sua costituzione naturale, rappresentabile mediante lettere deriva che la scrittura alfabetica esaurisce le caratteristiche specifiche del parlare? C’è qualcosa del parlare che la scrittura alfabetica fa intravedere ma non può rappresentare? Il significato di katà sunqäkhn si gioca anche su queste domande. Le ragioni che portavano Ammonio a correlare strettamente la articolazione-scrivibilità con la convenzionalità (chiamata per l’occasione katà sunqäkhn e non qései) vanno prese nella giusta considerazione: « Aristotele la chiamò a buon diritto katà sunqäkhn (…); dalla significazione katà sunqäkhn {convenzionale?} della proprietà delle cose (…) deriva la 42 «La definizione di corpo è: ‘ciò che ha tre dimensioni [diastáseiv]’» (T 142b 24-25). Le dimensioni possibili sono tre: «Ciò che è divisibile secondo tre dimensioni è divisibile secondo tutte le dimensioni» (DC 268a 24-25). Altrove (DPA 669b 19-21; DIA 704b 19-22; Phys. 206a 6), ciascuna dimensione viene reduplicata in due e pertanto il loro numero massimo da tre diventa sei: alto e basso (= lunghezza), destra e sinistra (= larghezza), avanti e dietro (= profondità).

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scrivibilità in lettere [tò e¬ggrámmaton] e viceversa» (Am-DI 31: cit.). L’attività dello scrivere presenta effettivamente una caratteristica che la rende particolarmente adatta a una lettura convenzionalista dell’articolazione. Le lettere, nella loro fenomenologia superficiale, appaiono come strumenti che il soggetto scrivente usa standone in qualche modo fuori e imponendo ad esse le proprie regole e un determinato ordine formale. Stanno, per così dire, in un’ideale cassetta degli attrezzi espressivi in attesa inerte che un soggetto utente vada a prenderle per combinarle secundum placitum. Per usare la terminologia aristotelica: le lettere vengono assemblate mediante un processo generativo artificiale [técnhı] o eteropoietico in quanto il loro motore (il soggetto scrivente) sta fuori di esse. Nell’atto materiale dello scrivere materia e forma provengono (o sembrano provenire) da luoghi ontologici differenti. Detto diversamente: una sequenza di lettere esiste in quanto un soggetto formante pone e dispone in quel dato ordine una materia preesistente (le lettere) in se stessa inerte. Il parlante combina e dispone voci elementari (fonemi) esattamente come lo scrivente combina e dispone lettere [grámmata]? Nella risposta a questa domanda sta l’originalità di Aristotele. Per il filosofo di Stagira il gramma scritto è solo un’immagine approssimativa del gramma parlato e la scrittura alfabetica non esaurisce le caratteristiche specifiche dell’articolazione fono-semantica del linguaggio. Le voci elementari del linguaggio parlato non sono veri e propri grammata ma grammata-stoicheia. Il prossimo capitolo sarà dedicato a questo argomento.

APPENDICE AL PARAGRAFO 4 Richiamiamo il testo greco: dhloûsí gé ti kaì oi™ a¬grámmatoi yófoi, oi©on qhríwn, w©n ou¬dén e¬stin o¢noma. Molte traduzioni moderne rendono ou¬dén con «nessun suono» trascurando che, essendo yófov, ‘suono’, di genere maschile, non può pertanto essere associato al neutro ou¬dén. Diamo qualche esempio. 101

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COLLI: «qualcosa viene altresì rivelato dai suoni inarticolati – ad esempio delle bestie – nessuno dei quali costituisce un nome». COOKE: «Inarticolate noises mean something – for instance, those made by brute beasts. But no noises of that kind are nouns». TRICOT: «même lorsque des sons inarticulés, comme ceux des bêtes, signifient quelque chose, aucun d’entre eux ne constitue cependant un nom». ACKRILL: «Even inarticulate noises (of beasts, for instance) do indeed reveal something, yet none of them is a name». ZANATTA: «manifestano certo qualcosa anche i suoni inarticolati, per esempio delle bestie, nessuno dei quali è un nome». Ammonio aveva tempestivamente notato la difficoltà e per ovviarvi proponeva due soluzioni: o ou¬dén era stato scritto per errore al posto del nominativo maschile ou¬deív oppure bisogna leggere ou¬dén fqégma «nessuna emissione fonica» (Am-DI 41: 5 sgg.). Ineccepibili sono le grandi traduzioni di riferimento in latino: quelle di Boezio («designant et inlitterati soni, ut ferarum, quorum nihil est nomen») e Guglielmo di Moerbeka («significant aliquid et illitterati soni, puta bestiarum, quorum nullum est nomen»). Arens (1984: 40) tra i moderni è il primo a notare la discrepanza tra le traduzioni moderne e il testo come ci è stato tramandato e, pur traducendo quasi alla lettera («nothing in them is a word»), stranamente e paradossalmente giudica scorretto il testo: «ou¬dén is grammatically incorrect: it ought to be ou¬deív». Montanari (1988: 138) ritiene che il testo non abbia bisogno né di correzioni né di aggiunte e propone questa interpretazione: «è probabile che l’uso del neutro sia generalizzante, ad indicare che non solo tali yófoi, ma anche eventuali loro combinazioni non possono essere ‘nome’». A noi sembra che si possano percorrere due strade. O si sottintende mérov «parte» dopo ou¬dén, in analogia con De Interpretatione 16a 20 (mhdèn mérov), 16b 6 (mérov ou¬dén) e con Poetica 1457a 11 (mérov ou¬dén) e 1457a 15 (ou¬dèn mérov). In questo caso il testo dice che «nessuna parte dei suoni prodotti dagli animali è qualificabile come nome». Oppure molto più semplicemente si lascia il testo così com’è. È la soluzione, stilisticamente meno elegante, adottata da Boezio e Guglielmo di Moerbeka: «dei suoni prodotti dagli animali niente è qualificabile come nome». Entrambi i corni dell’alternativa ci restituiscono un testo grammaticalmente corretto e dal significato chiaro. Noi abbiamo percorso la prima strada. 102

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Capitolo quinto

La natura come variabilità regolata

1. Significato verbale e auto-articolazione vocale Nel lessico filosofico greco gramma ha come quasi-sinonimo il termine stoicheion, reso in modo non felice in latino con elementum. Sull’origine e sulla storia del termine si è scritto e si continua a scrivere molto1. In questa sede sono sufficienti tre informazoni. 1) Stoicheion appartiene alla stessa famiglia lessicale di cui fanno parte stoîcov «fila, serie, schiera» e stoiceîn «camminare in fila, andare dietro qualcuno, convenire». 2) Diels (1899: 60 sgg.) ha fatto notare che da un verso delle Ecclesiazusae di Aristofane si deduce che nel greco colloquiale del V-IV secolo stoicheia erano anche le successive ombre di diversa lunghezza proiettate dall’asticella dell’orologio solare2. 3) Gli studiosi concordano nell’osservare che il termine mantiene in tutti gli usi l’accezione generale di «parte di un insieme ordinato». È questo significato fondamentale, secondo Dionisio Trace, che spiega perché la lettera dell’alfabeto fu chiamata anche stoicheion: «I grammata sono chiamati anche stoicheia perché hanno un determinato ordine [stoîcov] e una determinata posizione [táxiv]» (TG 6: 5)3. 1 A partire almeno da Diels (1899). Ricordiamo qui Lagercrantz (1911), Vollgraff (1949), Koller (1955), Pagliaro (1956), Burkert (1959), Lumpe (1962), Belardi (1972: 21-140; 1985: 21-97), Schwabe (1981). 2 La frase di Aristofane è: «quando lo stoicheion sarà lungo dieci piedi [oçtan h®ı dekápoun tò stoiceîon] dovrai solo preoccuparti di andare ben profumato a pranzo» (Eccl. 651-52). 3 È probabile che con «ordine e posizione» Dionisio si riferisse sia alla posizione che ciascun gramma occupa nell’ordine di presentazione scolastica dell’alfabeto (a, b, g, …) sia alla disposizione dei grammata nella sequenza lineare della parola (Lallot 1998: 98).

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Gli usi scientifici che Aristotele fa del termine si discostano da questa generica accezione di base per un aspetto importante: gli stoicheia non sono le parti, statiche e inerti, di un sistema (ad esempio: elementi della poltrona sono schienale, braccioli e i numerosi componenti che in essa è possibile individuare, così come elementi della parola scritta PANE sono le singole lettere P, A, N, E) ma principi attivi (a¬rcaí) e concause (ai¬tíai) di processi generativi autogeni. Sono, tra gli altri, stoicheia sia le cellule primitive (aria, acqua, terra, fuoco) i cui ordinati processi autopoietici generano – l’abbiamo già visto – l’intero universo, sia i principi primi che in ogni scienza agiscono come cause immanenti in ogni dimostrazione4. Lo stoicheion non è, genericamente, parte di un sistema ma cellula motrice [a¬rcæ kinäsewv] di un processo generativo autopoietico e, in quanto tale, naturale. Sono stoicheia così intesi anche i grammata della dialektos, ossia le voci minime o indivisibili che formano il tessuto articolatorio vocale di parole e discorsi. La definizione di stoicheion linguistico viene data all’inizio del capitolo XX della Poetica: Stoicheion è voce indivisibile [fwnæ a¬diaíretov], non però qualsiasi voce indivisibile ma quella da cui per sua intrinseca natura viene generata voce composta [e¬x h©v péfuke sunqetæ gínesqai fwnä]: infatti anche quelle degli animali non umani [qhría] sono voci indivisibili, nessuna di esse io però la chiamo stoicheion (1456b 22-24).

Qui, come nel passo della Politica (1253a 9-30) già citato, l’opposizione non è tra natura e non-natura ma tra due differenti nature foniche: 1) una esaurisce il proprio processo generativo con la produzione di voci indivisibili e non articolabili: è la voce degli animali non umani; 2) l’altra genera una molteplicità tipologicamente differenziata di voci indivisibili (stoicheia o grammata) che innescano a loro volta un ulteriore processo generativo, anch’esso autopoietico e naturale, il cui prodotto finale è la voce articolata significativa [fwnæ sunqetæ shmantikä] chiamata nel De Interpretatione «simbolo». Le voci indivisibili che sono grammata-stoicheia, proprie del linguaggio umano, hanno un motore generativo in più rispetto alle voci indivisibili 4 «Le dimostrazioni che sono prime e che fanno sentire la loro presenza efficace [e¬nupárcousai] in molte altre dimostrazioni, vengono chiamate stoicheia delle dimostrazioni» (Met. 1014a 37-b 2).

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degli animali privi di linguaggio: posseggono la tendenza naturale a coarticolarsi con altre voci indivisibili generando voce composta o articolata. «Stoicheia e principi attivi della voce [fwnñv stoiceîa kaì a¬rcaí] riteniamo che siano quelli da cui in modo originario le voci si com-pongono [súgkeintai], e non la voce nella sua generalità [a¬ll∫ ou¬ tò koinòn h™ fwnä]» (Met. 998a 23-25). Lo stoicheion linguistico per Aristotele non è elemento atomico alla maniera della lettera dell’alfabeto ma principio attivo [a¬rcä]; non è membro di un insieme genericamente ordinato ma principio di auto-articolazione; non è – per usare una terminologia del Goethe naturalista – parte di una Gestalt ma co-agente di una Bildung. Ciò spiega perché il potere che ha lo stoicheion di generare voce articolata possa essere paragonato nella Metaphysica al potere che ha il padre di generare il figlio: Il principio attivo [a¬rcä] di un individuo è un individuo. L’uomo in generale è principio dell’uomo in generale, ma nessun uomo esiste in siffatto modo; principio di Achille è, invece, Peleo, e di te è tuo padre; e questo concreto B è principio attivo di questo concreto BA, mentre B in universale è principio attivo di BA solo in universale (1071a 20-24).

Riportiamoci al passo del De Interpretatione in cui si dà la spiegazione della nozione di katà sunqäkhn: Il nome è katà sunqäkhn: nessuno dei nomi è per natura ma quando diventa simbolo, dal momento che anche i suoni che non sono lettere [oi™ a¬grámmatoi yófoi], come quelli degli animali non umani, esprimono qualcosa ma di essi nessuna è nome.

Il senso complessivo dovrebbe adesso essere più chiaro. Le voci indivisibili e indifferenziate [oi™ a¬grámmatoi yófoi] degli animali alinguistici – argomenta Aristotele –, pur essendo significative [dhloûsí gé ti], non sono in grado di trasformarsi in nomi o simboli. Perché questa trasformazione possa avvenire («la voce significativa diventa simbolo») è necessario che la voce si differenzi in grammatastoicheia. Una voce è pertanto nome o simbolo se e solo se, oltre ad essere significativa, è anche articolata in grammata-stoicheia. Fin qui il De Interpretatione. Ma – integra e precisa il capitolo XX della Poetica – la trasformazione dei grammata-stoicheia in voce articolata è at105

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tività autogena e, perciò, naturale: «è stoicheion non qualsiasi voce indivisibile ma quella da cui per sua intrinseca natura viene generata voce composta». L’affermazione nessuno dei nomi è per natura ma… non può che essere interpretata come «nessun nome è per sua natura voce semplice ossia indifferenziata e non articolata». Solo a questa condizione può con coerenza connettersi con la spiegazione da cui è immediatamente seguita e con la nozione aristotelica dello stoicheion linguistico: non c’è un processo generativo che trasforma fúsei una qualsiasi voce in nome-simbolo ma solo la voce differenziata in grammata-stoicheia può fúsei diventare [génhtai] parola-simbolo. Detto diversamente: il sostrato naturale della parola-simbolo non è la voce semplice e indistinta ma la voce differenziata in grammata-stoicheia. Questi ultimi, a loro volta, non sono elementi inerti che ricevono un ordine da un soggetto ad essi esterno ma e¬nérgeia, ossia attività orientata verso un fine. Come intendere allora l’espressione katà sunqäkhn? Se indicasse sic et simpliciter l’attribuzione convenzionale di un senso a un significante fonico, la linguistica aristotelica perderebbe molte delle sue ricchezze concettuali e il testo risulterebbe oscuro e contraddittorio. La lettura sinottica del De Interpretatione, della Politica e della Poetica ci fornisce ancora una volta un’unica chiave di interpretazione: la nozione di katà sunqäkhn non può che riferirsi al processo generativo naturale mediante il quale senso verbale e voce articolata (e quindi scrivibile) insieme generano simboli verbali ossia nomi, verbi e discorsi. La variabilità dei simboli verbali (che la nozione di convenzionalità cerca di spiegare) si va configurando come uno degli effetti del processo generativo naturale della fono-semantica articolata del logos. È la tesi a cui Ammonio probabilmente faceva riferimento. 2. L’equivoco dello strumento naturale L’esame dell’ultima delle tre occorrenze di katà sunqäkhn arricchirà ulteriormente la nozione: e¢sti dè lógov açpav mèn shmantikóv, ou¬c w™v o¢rganon dé, a¬ll∫ wçsper ei¢rhtai katà sunqäkhn (DI 16b 33-17a 2).

Proponiamo una traduzione il più possibile letterale: 106

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Ogni discorso è significativo: non però alla maniera di un organo-strumento ma, come già è stato detto, katà sunqäkhn.

A questa brevissima frase Ammonio dedica due fitte pagine di commento che, nonostante la teoria linguistica attribuita ad Aristotele ne dipenda, raramente vengono citate. Crediamo perciò di fare cosa utile al lettore riportandole interamente. L’evento testuale che esse documentano è tra l’altro troppo importante per impoverirlo con una parafrasi. Aristotele in questo passo confuta un sillogismo che sembra dimostrare che il discorso [lógov] non è convenzionale [qései] ma naturale [fúsei]. Quale è il sillogismo? Eccolo. Il discorso è lo strumento [o¢rganon] della facoltà fonatoria, naturale, che è in noi; grazie al fatto che è strumento noi significhiamo l’uno all’altro ciò che vogliamo. Tutti gli strumenti delle facoltà naturali sono essi stessi naturali: gli occhi, essendo in noi strumenti naturali della facoltà della vista, sono opera della natura e non della tecnica, altrettanto vale per gli orecchi rispetto all’udito e così via. Conclusione: il discorso è naturale, niente ricevendo dalla nostra inventiva intellettuale [e¬pínoia]. Delle due premesse assunte nel sillogismo Aristotele accetta la premessa maggiore – quella che dice che ogni strumento di facoltà naturale è naturale –, ma rifiuta la premessa minore – quella che dice che il discorso [lógov] è lo strumento della capacità di fonazione che si trova in noi. È da stabilire adesso: 1) quale è lo strumento della facoltà fonatoria dal momento che, essendo essa naturale, ha bisogno di uno strumento come tutte le altre facoltà naturali; 2) cosa è il discorso dal momento che, essendosi sostenuto che non è strumento, non è naturale [fúsei] ma posto convenzionalmente [qései]. Gli strumenti della facoltà fonatoria sono il polmone e l’arteria chiamata trachea. Questi sono gli strumenti della voce semplice [a™pløv fwnä], quelli della voce articolata [diálektov] sono la lingua, il palato e gli altri strumenti detti fonatori o articolatori [fwnhtikà h£ dialektikà o¢rgana]5. Il discorso sarebbe allora il prodotto generato mediante il mo5 Arens (1984: 119) traduce, a nostro parere non cogliendo il senso del testo, diálektov con speech e dialektikà o¢rgana con linguistic organs. La traduzione francese di Ildefonse e Lallot (1992: 71) è simile: il primo termine è reso con langage, il secondo con organes linguistiques. La più recente traduzione di Blank (1996: 70) non si discosta dalle precedenti: language traduce diálektov, linguistic organs traduce dialektikà o¢rgana.

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vimento di tali strumenti. Ma questo non è un motivo necessario perché sia naturale. Nulla impedisce infatti che i prodotti delle facoltà naturali siano convenzionali [qései], come ad esempio accade nella danza. La danza, infatti, pur essendo un prodotto della nostra facoltà naturale di muoverci nello spazio, è convenzionale [qései]: il danzatore muovendo le mani in un modo o in un altro è in grado di significare Achille e mediante figure del corpo esprime e rappresenta suoi modi di essere. Come il muoversi nello spazio è naturale ma il danzare è per posizione e convenzione [qései kaì katà sunqäkhn], il legno è naturale ma la porta esiste in quanto qualcuno la pone [qései], così anche il produrre voce è naturale ma è, invece, per convenzione e non naturale [katà sunqäkhn kaì ou¬ fúsei] il significare mediante nomi, verbi o discorsi (composti que-

sti ultimi da nomi e verbi): nomi, verbi e discorsi ricevono per l’appunto la loro esistenza materiale dalla voce ritmicamente amorfa [e¬x uçlhv tñv a¬rruqmístou fwnñv] ma sono formati dal nostro intelletto [ei¬dopoiouménwn dè u™pò tñv h™metérav dianoíav]. Sembra che la facoltà fonatoria che è lo strumento di facoltà psichiche come quelle conoscitive e appetitive l’uomo ce l’abbia per natura in modo simile agli animali a-linguistici [tà a¢loga zøıa]; invece l’uso, ai fini della significazione, di nomi, verbi e discorsi (questi ultimi composti da nomi e verbi), che non sono naturali ma risultati di una posizione convenzionale [qései], l’uomo ce l’ha in maniera esclusiva rispetto agli animali a-linguistici. È questo il motivo per cui egli è il solo degli esseri mortali ad avere un’anima semovente e la facoltà di produrre tecnicamente [tecnikøv e¬nergeîn] tanto da manifestare la sua capacità tecnica anche nella stessa produzione della voce. Prova di ciò sono i discorsi in versi e in prosa composti in funzione della bellezza. Che il discorso e le sue parti, ossia nome e verbo, siano convenzionali [katà sunqäkhn] è provato da molti fatti. Ma poiché noi sosteniamo che essi coincidono con lo strumento di significazione [o¢rganon shmasíav] dei concetti o delle cose, dobbiamo dire adesso cosa è che si serve di esso in quanto strumento. È chiaro che si tratta dell’anima intellettiva [dianohtikæ yucä] dal momento che appartiene solo ad essa la capacità [e¢rgon] di usare il discorso. Se poi, dal momento che esiste la regola secondo la quale ogni strumento di facoltà naturale è esso stesso naturale, ci si mostri meravigliati per il fatto che il discorso possa essere convenzionale [katà sunqäkhn] pur essendo strumento di una facoltà naturale, risponderemo che questa nostra facoltà discorsiva e tecnica [logikæ kaì tecnikæ dúnamiv] è sopra-naturale [u™perfuäv] avendo essa una sostanza separata da tutto il corpo. Che ciò sia sostenuto dallo stesso Aristotele è dimostrato dalle cose dette alla fine del secondo libro della Physica sugli animali a-linguistici: questi, essendo senza intelletto [dianoíav e¬sterhména], 108

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non operano secondo tecnica [katà técnhn] ma secondo natura mentre in noi la tecnica deriva da una abilità collocata al di sopra della natura; noi diciamo che, nel regno animale, non per tecnica ma per una particolare disposizione naturale la rondine costruisce il nido e il ragno la tela. Cosa dobbiamo dire delle dimostrazioni nel De Anima sulla mente [noûv] separata dal corpo? Non ci si deve meravigliare che , che opera mediante facoltà naturali, pur servendosi di strumenti che sono necessariamente naturali, produca anche strumenti artificiali per esercitare la propria attività. Così per proteggere il proprio corpo e difendersi dai nemici si serve degli strumenti naturali connessi alla sua capacità di muoversi nello spazio, ossia le mani e i piedi, ma usa anche strumenti artificiali come la spada e la lancia; altrettanto fa nell’agricoltura, nella costruzione delle case, nelle altre attività pratiche e costruttive. Allo stesso modo l’anima per significare si serve, oltre che degli strumenti naturali della fonazione e della facoltà linguistica [tñv lektikñv dúnamiv] – il polmone, la lingua, il palato, i denti e le labbra – anche del discorso e delle sue parti; questi ultimi li costituisce come strumenti artificiali e convenzionali [tecnikøv kaì katà sunqäkhn] del significare e li genera lavorando sulla materia naturale [fusikæ uçlh] che è la voce, così come la spada si ottiene lavorando sul ferro e il timone lavorando sul legno (Am-DI 62: 21-64: 25).

Le pagine citate sono un esempio di come i pregiudizi filosofici di un commentatore autorevole possano stravolgere e oscurare un testo, tutto sommato limpido, tanto da impedirne per un millennio e mezzo la banale ma fondamentale lettura letterale. Ammonio espone tesi e argomenti che con tutta la buona volontà esegetica è impossibile riscontrare nella frase che commenta. Il commento esordisce individuando dietro le parole di Aristotele la confutazione immaginaria di un sillogismo altrettanto immaginario. Sillogismo immaginario: «Tutti gli strumenti di facoltà naturali sono naturali. Il discorso-linguaggio [lógov] è lo strumento della facoltà naturale del parlare. Quindi: il discorso-linguaggio è uno strumento naturale». Confutazione immaginaria: Aristotele dice che il discorso non è strumento, quindi per Aristotele il discorso non può essere uno strumento naturale ma artificiale o convenzionale. La lettera e lo spirito della frase vengono così capovolti. Aristotele dice, senza ombra di equivoco, che «ogni discorso non significa come se fosse strumento», Ammonio si preoccupa invece di dimostrare che è uno strumento dell’anima intellettiva e come tale va considerato uno strumento artificiale e non naturale. Il testo aristotelico 109

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viene così trasformato in un luogo autorevole che deve confermare filosofie dualistiche di ispirazione non aristotelica. La effettiva posta in gioco delle pagine ammoniane non sembra essere tanto la ricerca di ciò che Aristotele pensasse sul linguaggio ma la salvaguardia del dualismo di anima e corpo, mente e strumento, forma e materia. Nel commento ammoniano ritroviamo argomenti ed esempi simili a quelli che saranno utilizzati nella semiotica e linguistica del ventesimo secolo. La capacità naturale di produrre voci – sostiene Ammonio commentando Aristotele – fornisce la inerte materia che l’anima intellettiva dall’esterno usa ai fini comunicativi fornendole una forma variabile. La voce verrebbe linguisticamente formata mediante un intervento artificiale simile a quello operato dal costruttore di spade a partire dal ferro o dal costruttore di porte e timoni a partire dal legno. Hjelmslev (1961: 56-57) userà le immagini di «una stessa manciata di sabbia che può prendere forme diverse» e della «nuvola di Amleto che cambia aspetto da un momento all’altro». «Come la stessa sabbia si può mettere in stampi diversi, come la stessa nuvola può assumere forme sempre nuove, così la stessa materia può essere formata o strutturata diversamente in lingue diverse». La convenzionalità e/o arbitrarietà del prodotto finale sono inscritte nel corrispondente processo generativo: come la forma della spada non si trova nella materia ferrosa ma viene arbitrariamente imposta [qései] ad essa dall’artigiano o la forma che la sabbia può assumere non è inscritta nella sabbia medesima ma dipende dalla configurazione che ad essa un soggetto esterno fornisce, così anche nomi, verbi e discorsi sono costruzioni e forme mentali che dall’esterno e artificialmente vengono depositati o realizzati nella materia naturalmente informe della voce. Per un millennio e mezzo la frase di Aristotele è vissuta in simbiosi con la esegesi ammoniana. Il commento di Boezio è la prima di una lunghissima serie di varianti, più o meno originali, delle pagine di Ammonio: Aristotele, quando dice «ogni discorso è significativo non come strumento», è come se dicesse: ogni discorso è significativo, non però in modo naturale (non tamen naturaliter). Usando la parola ‘strumento’ è come se dicesse per natura (instrumentum enim hoc demonstrat, tamquam si diceret naturaliter): chi nega, infatti, che il discorso sia strumento nega che significhi per natura ma ad placitum. Gli strumenti delle cose naturali sono infatti naturali. (…) La voce è naturale ma il significare mediante la voce non è naturale. La voce da sola non è infatti né nome né verbo ma 110

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lo è la voce con l’aggiunta di una significazione. E come il muoversi è naturale ma il danzare è già una specie di artificio e convenzione (cuiusdam artificii et positionis), il bronzo esiste naturalmente ma la statua esiste per convenzione o tecnica (positione aut arte), così anche la possibilità di significare e la voce sono naturali ma la significazione mediante la voce è un fatto convenzionale e non naturale (positionis est, non naturae) (Boezio, B-DI 2, 93: 11-94: 28).

Tommaso d’Aquino commenta allo stesso modo: «Il discorso (oratio) e le sue parti non sono fatti naturali ma effetti artificiali. Per questo il discorso significa ad placitum, ossia secondo la consuetudine istituzionalizzata della ragione e della volontà umana (secundum institutionem humanae rationis et voluntatis) (…), così come ogni cosa artificiale è causata dalla volontà e dalla ragione umana» (Tom-DI I, 1. VI, 81). I commenti dei moderni non si discostano da questa linea interpretativa e in molte autorevoli traduzioni, per rendere ancora più chiara la supposta opposizione tra naturalità e convenzionalità, il termine o¢rganon viene direttamente reso con «strumento naturale». STEINTHAL (1890-91, I: 187): Es hat zwar jede Rede Bedeutung, aber nicht als (natürliches) Werkzeug, sondern, wie gesagt, nach Übereinkunft. COOKE (The Loeb Classical Library, 1938): Every sentence has meaning, though not as an instrument of nature but, as we observed, by convention. TRICOT (Vrin, Parigi 1946): Tout discours a une signification non pas toutefois comme un instrument naturel, mais, ainsi que nous l’avons dit, par convention. SCARPAT (1950: 83): Ogni frase è significativa, non come mezzo naturale di comunicazione ma, come si è già detto, per convenzione. COLLI (Einaudi, Torino 1955; Laterza, Roma-Bari 1973): Ogni discorso è poi significativo, non già alla maniera di uno strumento naturale, bensì, secondo quanto si è detto, per convenzione. ARENS (1984: 23): Every sentence is significant, not organically, but, as I said, conventionally6. 6 A queste traduzioni va aggiunta quella di Zadro che interpreta, altrettanto arbitrariamente, o¢rganon come «strumento immediato»: «Ciascun discorso ha si-

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Il macroscopico punto debole di questa lettura è che la qualificazione di ‘naturale’ attribuita allo ‘strumento’ non compare in nessuno dei codici a noi pervenuti ma viene dedotta per opposizione a katà sunqäkhn aprioristicamente interpretato come sinonimo del termine post-aristotelico qései e pertanto nel significato di ‘convenzionalmente posto’. Il testo non autorizza a rendere o¢rganon con ‘strumento naturale’. Nella lingua greca e nel lessico scientifico di Platone e Aristotele, o¢rganon, se non è accompagnato da altra qualificazione, è solo e soltanto ‘strumento’ che può essere, a seconda dei casi, tanto naturale quanto artificiale7. 3. Il significato verbale non è strumento ma fine Ritorniamo al testo aristotelico tenendoci ancorati alla sua lettera: «Ogni discorso è significativo: non però alla maniera di un organostrumento ma, come già è stato detto, katà sunqäkhn». In esso alcune cose sono affermate chiaramente, altre richiedono un lavoro interpretativo. Le cose dette con estrema chiarezza sono due: a) la significatività dei discorsi non è di tipo strumentale; b) la formula katà sunqäkhn denomina un concetto che è in opposizione alla strumentalità: «non alla maniera di uno strumento ma katà sunqäkhn». A partire da queste due assunzioni tradurre katà sunqäkhn con convenzionale è arduo. Perché mai il contrario della strumentalità dovrebbe essere la convenzionalità? Cosa c’è, infatti, di più strumentale di una convenzione? Le convenzioni non sono forse strumenti su cui ci si accorda in funzione di determinati fini? Non a caso, la tesi che le parole funzionano come strumenti Platone, nel Cratilo, la fa enunciare a Socrate per rendere ancora più esplicite le assunzioni teoriche del convenzionalismo di Ermogene: gnificato, ma non come strumento immediato del significare, bensì, come si è detto, per convenzione» (Loffredo, Napoli 1999). 7 Facciamo un solo esempio. In Meteorologica (381a 10 sgg.) Aristotele sostiene la sostanziale identità dei processi naturali e artificiali di cottura in questi termini: «non c’è alcuna differenza tanto se la cottura viene fatta con strumenti artificiali o naturali [e¬n o¬rgánoiv tecnikoîv h£ fusikoîv]». Belardi (1990: 80), nonostante faccia una lettura in chiave convenzionalista dei primi quattro capitoli del De Interpretatione, nota l’illegittimità di «aggiungere a ‘strumento’ la qualifica di ‘naturale’».

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Socr. Che cos’è ciò con cui si deve perforare? Ermog. Il trapano. Socr. E ciò con cui tessere? Ermog. La spola. Socr. E ciò con cui nominare? Ermog. Il nome. Socr. (...) Anche il nome è dunque uno strumento [o¢rganon]. Ermog. Certamente. (...) Socr. (...) Quando nominiamo con quello strumento che è il nome [o¬rgánwı o¢nti tøı o¬nómati o¬nomázontev], che cosa mai facciamo? Ermog. Non so che dire. Socr. Forse che non insegniamo qualcosa gli uni agli altri e non distinguiamo le cose così come sono? Ermog. Certamente. Socr. Il nome è pertanto uno strumento che serve a istruire e a differenziare ciò che esiste così come la spola tessuto (388a-c).

I due strumenti (la spola e il trapano) che nel Dialogo platonico vengono usati come termini di confronto per i nomi-strumenti non appartengono al mondo della natura ma sono costruzioni tecniche. Entrambi sono opere [e¢rga] costruite da un artefice: della spola il costruttore è il falegname, del trapano il fabbro (388c-d). Sul modello della spola e del trapano Socrate pone a Ermogene la domanda cruciale: chi fabbrica quei particolari strumenti che sono i nomi? Se il tessitore quando tesse utilizza l’artefatto costruito dal falegname e il foratore quando fora ricorre all’artefatto costruito dal fabbro, «dell’opera di chi si servirà colui che insegna quando usa il nome?» (388d). La risposta è nota: l’artefice del nome-strumento è quel particolare demiurgo chiamato onomaturgo e nomoteta. I nomi pertanto non sono organi-strumenti che la natura genera da sé ma artefatti, ossia strumenti costruiti da un artigiano-demiurgo. Se, come la maggior parte degli interpreti sostiene, il riferimento polemico di Aristotele è il passo del Cratilo che abbiamo riportato, allora la conclusione dovrebbe essere opposta a quella tradizionale: Aristotele, negando la strumentalità della significatività del discorso e delle sue parti (nome e verbo), vuole ribadirne la naturalità. Il ricorso alle pagine del Cratilo a conforto e sostegno della tesi che l’w™v o¢rganon aristotelico vada inteso come strumento naturale ci sembra 113

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pertanto operazione controproducente, anche se praticata da autorevolissimi studiosi8. Il sospetto che la convenzionalità non spieghi adeguatamente il concetto aristotelico è ulteriormente rafforzato da un riferimento che si trova nel testo: «Ogni discorso è significativo non alla maniera di un organo-strumento ma, come è già stato detto, katà sunqäkhn». Se katà sunqäkhn significa sic et simpliciter ‘per convenzione’ rimane oscuro il luogo a cui rimanda il come è già stato detto. Nelle righe precedenti Aristotele non aveva affatto trattato la questione della convenzionalità semantica dei discorsi ma piuttosto il differente ruolo giocato dalle parti che compongono una parola e/o un discorso ai fini della formazione del loro significato globale. Leggiamo tutto il capitolo fino alla frase conclusiva in cui compare l’espressione katà sunqäkhn: Il discorso è voce significativa di cui alcune parti, anche se separate dal resto, sono pure significative: significative come {generica} enunciazione [fásiv] e non come proposizione affermativa [katáfasiv]. Dico, ad esempio, che ‘uomo’ significa qualcosa ma non che è o che non è: sarà proposizione affermativa o negativa se qualche altra cosa viene aggiunta. Non è invece significativa una sola sillaba della parola ‘uomo’; nemmeno nella parola mûv ‘topo’ l’uv significa ma è in questo caso soltanto voce. Nelle parole doppie significa ma non per se stessa, come già è stato detto. Ogni discorso è dunque significativo: non però alla maniera di uno strumento ma, come già è stato detto, katà sunqäkhn (DI 16b 26-33).

Trovare un nesso esplicativo tra la presunta convenzionalità della semanticità di ogni discorso e le osservazioni teoriche che nel testo precedono una affermazione così impegnativa è impresa non fa8 Il passo continua ad essere fonte di imbarazzi. Per Arens (1984: 57), ad esempio, «l’opposizione tra w™v o¢rganon e katà sunqäkhn non è molto appropriata» e, mentre il termine o¢rganon nel passo del Cratilo «è ben adatto», nel testo aristotelico «è alquanto inadeguato». Secondo Montanari (1988: 311) con ou¬c w™v o¢rganon Aristotele «intende realmente opporsi in polemica alla dottrina platonica del Cratilo dell’o¢noma come o¢rganon, e segnatamente come didaskalikón ... o¢rganon kaì diakritikòn tñv ou¬síav (388b), proprio in quanto, in tale dottrina, un siffatto ‘strumento’ non può che essere ‘naturale’, e non già perché o¢rganon valga di per sé ‘strumento naturale’». In senso anti-platonico legge l’occorrenza aristotelica di «strumento» anche Belardi (1990: 81-82).

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cile. L’ostacolo esegetico viene tradizionalmente aggirato mediante la manovra interpretativa di collegamento del come già è stato detto con le definizioni date nei due capitoli precedenti di nome e verbo, anch’esse lette in chiave convenzionalista. Boezio fornì la chiave di lettura: «Che i discorsi (orationes) sono secundum placitum lo prova il fatto che le sue parti, ossia i verbi e i nomi, sono secundum placitum. Se infatti ogni composto assume la propria natura dalle parti da cui è composto, la voce che è messa insieme da voci costituite convenzionalmente (positione) è anch’essa formata secundum placitum e per convenzione. È chiaro perciò che il discorso è secundum placitum» (B-DI 2, 92: 25-31)9. La convenzionalità del significare dei discorsi sarebbe pertanto un prodotto derivato della convenzionalità delle sue parti significative. Ma, abbiamo già visto, la interpretazione delle due precedenti occorrenze di katà sunqäkhn nel senso di ‘convenzionale’ è tutt’altro che scontata10. La lettera del testo aristotelico orienta verso una direzione differente e tra l’altro chiaramente formulata: «Ogni discorso è significativo: non però alla maniera di un organo-strumento ma, come già è stato detto, katà sunqäkhn». L’espressione katà sunqäkhn indica qualcosa che non è strumento o comunque assimilabile alla strumentalità. L’avversativa ma suggerisce che questo qualcosa debba trovarsi in una relazione di opposizione alla strumentalità. L’opposto di strumento, nella filosofia aristotelica, è ciò rispetto a cui lo strumento esiste, ossia il fine dello strumento: «ogni organo-strumento esiste in 9 La medesima lettura nel primo Commento: «Aristoteles autem dicit non secundum naturam esse orationem, sed secundum placitum. (…) Cuius enim rei partes ad placitum sunt, ipsa quoque est ad placitum» (B-DI 1, 70: 9-18). 10 Elio Montanari (1988) inizia il commento al passo che abbiamo discusso con una osservazione preliminare correttissima: «L’interpretazione forse più diffusa, e senz’altro più affrettata, si risolve (...) in una petizione di principio, intendendo – senza alcuna giustificazione – o¢rganon come ‘strumento naturale’, dopo di che, ovviamente, non potrebbe certo essere katà sunqäkhn. È dunque evidente che, se o¢rganon valesse come ‘strumento naturale’ – il che per altro non si dà – l’argomentazione sarebbe incredibilmente inconcludente» (p. 306). Nonostante questo avvio, la lettura di Montanari non si discosta sostanzialmente dalle interpretazioni tradizionali: «Si può concordare, con la pressoché unanime vulgata dei commentatori, che la convenzionalità del discorso dipende direttamente dalla convenzionalità delle sue parti, e che quindi, in un certo senso, si tratta di una convenzionalità secondaria rispetto a quella primaria del nome e del verbo» (p. 315).

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funzione di un fine» (DPA 645b 14). Nel passo che stiamo esaminando, non è quindi in discussione la convenzionalità o la naturalità dei significati verbali ma la loro non strumentalità. Se questa lettura è esatta, nella prospettiva teorica di Aristotele dovremmo poter individuare qualcosa che è o¢rganon e qualcosa che è lo scopo dell’organo-strumento. L’espressione «significare katà sunqäkhn» indica per l’appunto il fine dell’o¢rganon linguistico. Proponiamo di leggere l’enunciato teorico del De Interpretatione in questo modo: «Il significare di ogni discorso non è strumento ma fine; katà sunqäkhn è la finalità specifica della semanticità verbale». Altra parafrasi equivalente: «La significatività katà sunqäkhn dei discorsi non è un organo-strumento, naturale o artificiale, ma lo scopo dell’organo-strumento». Bisogna allora chiarire: 1) la natura del fine (o dei fini) che l’organo-strumento linguistico persegue; 2) la natura dell’organo-strumento linguistico; 3) la relazione che strumento e fine intrattengono tra loro. 4. Il significare verbale come anima specie-specifica dell’uomo Proviamo adesso a mettere a fuoco la natura del fine (o dei fini) che Aristotele chiama significare katà sunqäkhn. I fini per Aristotele posseggono due caratteristiche: 1) ciascun fine è sempre congiunto con una qualche forma di attività [e¬nérgeia]; 2) ogni fine richiede propri strumenti specifici. L’analisi di entrambe le caratteristiche è indispensabile per capire la originalità della filosofia linguistica aristotelica. Soffermiamoci sul primo punto. Il fine è anzitutto attività o azione di organi-strumenti. Poiché ogni organo-strumento esiste in funzione di un fine, ciascuna parte del corpo esiste anch’essa in funzione di un fine e il fine è un determinato agire, è chiaro che il corpo nel suo complesso [tò súnolon søma] sussiste in funzione di un agire composito [práxeåv tinov eçneka polumeroûv]. In effetti non è il segare ad esistere in funzione della sega, ma è la sega ad esistere in funzione del segare: il segare è un determinato uso . Così il corpo esiste in un certo modo in funzione dell’anima e ciascuna sua parte in funzione delle opere che per natura deve svolgere (DPA 645b 14-20). 116

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L’attività finalistica specifica di un corpo, naturale o artificiale, è chiamata da Aristotele l’anima di quel corpo. Il concetto viene spiegato con esempi suggestivi: «se l’occhio fosse un animale, la vista sarebbe la sua anima (…); l’occhio è la materia della vista e quando la vista viene meno non c’è più l’occhio salvo che per omonimia, come nel caso dell’occhio di pietra o disegnato» (DA 412b 18-22)11. La medesima considerazione va estesa agli strumenti artificiali: se la scure fosse un corpo naturale, l’attività del tagliare sarebbe la sua anima (412b 10-15). «Il tagliare e la visione (…) sono attività protese a un fine [e¬nteléceia]; l’anima è come la vista e la capacità dello strumento [h™ dúnamiv toû o¬rgánou]» (412b 27-413a 1). Ogni strumento naturale (e, per analogia, ogni strumento artificiale) è definito dalla sua anima-attività: «il corpo è un insieme di capacità specifiche [tò dè søma tò dunámei o¢n]» (413a 2) e, «se si dovesse dire ciò che accomuna ogni tipo di anima, diremmo: attività primaria di un corpo naturale dotato di organi-strumenti» (412b 4-6). E ancora: «l’anima è ciò che definisce in maniera specifica [tò tí h®n ei®nai kaì o™ lógov] un corpo naturale che ha in se stesso il principio del movimento e della stasi» (412b 15-17). E, pertanto, «tutti i corpi naturali sono strumenti [o¢rgana] dell’anima» (415b 18-19). Torniamo al De Interpretatione. La significatività di ogni discorso – abbiamo visto – non è strumentale ma è una finalità specifica che nel testo viene denominata katà sunqäkhn. Siamo adesso in grado di raggiungere un’altra tappa in questo viaggio esplorativo della filosofia linguistica aristotelica: il significare katà sunqäkhn è l’attività specie-specifica di organi naturali che solo gli animali linguistici posseggono. Così come «se l’occhio fosse un animale, la vista sarebbe la sua anima», altrettanto potrebbe dirsi del linguaggio: se il linguaggio fosse un essere vivente, il significare katà sunqäkhn sarebbe la sua anima-attività. Chiariremo più in là quali sono gli organi naturali la cui specifica attività ha come fine il significare katà sunqäkhn e quale relazione questi organi intrattengono con l’attività che svolgono. Sappiamo già che questa attività verbale specie-specifica non può appartenere né ad organi-strumenti che non siano vocali né alla gene11 Di questo aspetto della filosofia aristotelica ci siamo già occupati (cfr. cap. I, paragrafo 2), ma ci è utile ripeterci. Rimandiamo anche a Lo Piparo (1999).

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rica vocalità. Condizione necessaria perché l’attività finalistica katà sunqäkhn possa svolgersi è la presenza di un corpo vivente capace di generare quelle particolari voci chiamate stoicheia-grammata o dialektos. L’analisi filosofica dei fini consente di sciogliere altri nodi della linguistica aristotelica. ‘Fini’, secondo Aristotele, ce ne sono di due tipi: (a) opere compiute [e¢rga]: dell’arte della costruzione il fine ultimo è un’opera finita, ad esempio la casa; (b) attività [e¬nérgeiai] a cui non corrispondono prodotti finiti: scopo dell’occhio è il vedere e il vedere non è un prodotto finito ma solo e soltanto attività dello strumento ‘occhio’. Nel primo caso è possibile isolare il risultato finale dagli strumenti e dagli agenti che l’hanno generato. Nel secondo caso lo scopo dello strumento si esaurisce nella sua attività: scopo dello strumento è il suo uso così come il vedere (risultato finale) altro non è che l’uso dello strumento ‘occhio’. Tra i fini si presenta una differenza: alcuni sono attività [e¬nérgeiai], altri invece, oltre che attività, sono anche opere compiute [e¢rga] (EN 1094a 3-5). In alcuni casi, il fine si identifica con l’uso [crñsiv]: ad esempio, fine della vista è la visione e, oltre ad essa, nessun’altra opera è generata dalla vista. In altri casi, invece, qualcosa di determinato [tí] viene generato: ad esempio, dall’arte della costruzione deriva, oltre l’attività del costruire, la casa (...). Nei casi in cui ciò che è generato è qualcosa di diverso dall’uso, l’attività si ritrova interamente in ciò che è stato fatto: ad esempio, la costruzione nel costruito, la tessitura nel tessuto, così via e, in genere, il movimento nella cosa mossa. Nei casi, invece, in cui l’opera non è qualcosa di diverso dall’attività, l’attività rimane in coloro che la compiono: ad esempio, la visione in chi sta vedendo, l’osservazione teorica in chi sta teorizzando, la vita nell’anima e pertanto anche nell’anima si trova la felicità la quale è un determinato modo di vivere (Met. 1050a 23-b 2).

In entrambi i tipi di fine, l’attività [e¬nérgeia] svolge un ruolo fondamentale: uno scopo, anche quando si sedimenta in un’opera autonoma e separabile dal lavoro e dagli strumenti che l’hanno realizzata, è pur sempre il risultato di una attività. I fini o sono essi stessi attività (ossia, usi di organi-strumenti) o sono autonomi prodotti finali di attività. I due tipi di attività distinguono l’agire [prâxiv] dal produrre [poíhsiv]: 118

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Dal momento che alcune cose vengono prodotte e altre vengono agite, non sono la stessa cosa il produrre e l’agire [tò poihtikòn kaì praktikón]. Nelle cose prodotte c’è un altro fine oltre quello della produzione: ad esempio, l’architettura, che è la produzione della casa, ha come fine non solo la produzione ma anche la casa, lo stesso vale per la carpenteria e per le altre produzioni. Nelle cose agite invece non c’è altro fine al di fuori dell’azione medesima: ad esempio, il suonare la cetra non ha un ulteriore fine, anzi il suo fine è il suonare la cetra [au¬tò toûto télov] ossia è attività e agire [h™ e¬nérgeia kaì h™ prâxiv]. La saggezza ha a che fare con l’agire e con le cose agite [perì mèn ou®n tæn prâxin kaì tà praktà frónhsiv], la tecnica con la produzione e le cose prodotte [perì dè tæn poíhsin kaì tà poihtà h™ técnh]: infatti il produrre tecnicamente si ritrova più nelle produzioni che nelle azioni [e¬n gàr toîv poihtoîv mâllon h£ e¬n toîv praktoîv e¬sti tò tecnázein] (MM 1197a 4-13). Il fine del produrre è differente dal produrre stesso. Non è invece così per l’agire: il ben agire è infatti esso stesso un fine (EN 1140b 6-7).

Come collocare il linguaggio in questo complesso sistema teorico? L’attività verbale è per Aristotele sia un agire [prâxiv] che un produrre [poíhsiv]. La congenita attività finalistica katà sunqäkhn è ciò che rende possibile tanto le azioni che le produzioni linguistiche. Il linguaggio è anzitutto un agire specie-specifico di uno specifico corpo vivente. I suoi fini coincidono con specifici modi di praticare l’attività del parlare così come le particolari musiche generate con la cetra coincidono coi particolari modi del suonare la cetra. Gli animali linguistici si interrogano sul mondo, persuadono altri animali linguistici, difendono o confutano argomenti, fanno promesse e stipulano contratti e né l’indagine teoretica né la persuasione né la difesa o la confutazione di argomenti né le promesse né i contratti esistono al di fuori delle attività verbali che le generano. Parlare è un agire generatore di comportamenti specie-specifici così come il suonare uno strumento musicale è un agire generatore di specifiche melodie musicali. In entrambi i casi siamo in presenza di azioni i cui fini primari altro non sono che le azioni medesime12. Volendo usare la suggestiva terminologia aristotelica, l’agire linguistico è l’anima o fina12 Riteniamo che si trovi qui una delle principali fonti della teoria austiniana dei performativi, ossia di quelle azioni che si possono compiere solo mediante particolari speech acts. Rimandiamo alla nota 17 del cap. I e a Berti (1992).

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lità specie-specifica del corpo vivente umano così come il vedere è l’anima dell’occhio e i suoni melodiosi della cetra sono l’anima della cetra. Un passaggio dell’Etica Nicomachea – già da noi citato – in cui Aristotele si chiede se è possibile individuare «una funzione specie-specifica dell’uomo [tò e¢rgon toû a¬nqråpou]» (1097b 24-25) si può leggere all’interno di questo orizzonte problematico: Forse ci sono funzioni e azioni [e¢rga tinà kaì práxeiv] proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo? L’uomo è forse nato senza alcuna specifica funzione naturale [a¬rgòn péfuken]? Oppure come c’è, manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione [ti e¢rgon] oltre a tutte queste? Quale dunque potrebbe mai esser questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è specie-specifico [tò i¢dion] dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Rimane la vita intesa come quel determinato e specifico agire proprio che ha linguaggio: sia nel senso che si lascia persuadere col linguaggio sia nel senso che ha linguaggio e ragiona. (…) La specie-specificità [e¢rgon] dell’anima umana è attività in relazione al linguaggio e comunque non senza linguaggio. (…) Poniamo come funzione specie-specifica [e¢rgon] dell’uomo una determinata vita, ossia l’attività dell’anima e le azioni che si compiono col concorso del linguaggio [metà lógou] (1097b 28-1098a 14).

La specificità naturale del vivere umano è l’agire linguistico. La finalistica attività katà sunqäkhn è il tratto in cui Aristotele nei primi quattro capitoli del De Interpretatione individua lo specifico funzionamento di quel particolare agire specie-specifico che chiamiamo ‘parlare’. 5. L’artificialità naturale dell’attività verbale Il linguaggio non è solo azione naturale. Il parlare, diversamente da altre attività altrettanto naturali e specie-specifiche come ad esempio l’azione del volare per gli uccelli, è un agire naturale che ha la predisposizione, anch’essa naturale, a diventare agente e materia di trasformazioni tecniche. Ciò accade in due modi. 120

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A. L’efficacia dell’agire linguistico può migliorare mediante adeguati interventi tecnici derivanti da una riflessione metalinguistica sulle proprie procedure di funzionamento. La trasformazione continua della naturalità dell’agire linguistico in agire linguistico tecnicamente guidato è spiegata nella prima pagina della Rhetorica. Tutti gli uomini, in quanto animali per natura linguistici e cittadini, praticano spontaneamente e in maniera irriflessa – spiega Aristotele – la retorica e la dialettica. «Tutti infatti entro certi limiti hanno cura di esaminare e sostenere un discorso, parlare in propria difesa [a¬pologeîsqai] o contro qualcuno [kathgoreîn]. Molti lo fanno a caso, altri seguendo una pratica dettata dal proprio temperamento. (…) Su queste cose si può produrre una metodologia [o™dopoieîn]: è possibile infatti esaminare la ragione per cui hanno successo sia coloro che si appoggiano sulla pratica sia coloro che procedono casualmente. Tutti concorderanno che per l’appunto è questa la funzione della tecnica [técnhv e¢rgon]» (Rhet. 1354a 3-11]. L’agire linguistico da attività retorico-dialettica naturale e spontanea si trasforma in attività guidata da una tecnica. La trasformazione è continua e priva di punti di rottura. Altri casi di continuità dei processi generativi naturali e artificiali vengono esaminati in un passo del libro Z della Metaphysica dove ci si chiede perché «alcune cose si generino sia per tecnica sia spontaneamente, come per esempio la salute, altre, invece, solo per tecnica, come per esempio la casa» (1034a 9-10). La spiegazione è trovata nel fatto che «molte cose hanno la capacità di muoversi da sé, ma non in una determinata maniera: per esempio, non sono capaci di danzare» (1034a 14-16). La danza è, per l’appunto, la trasformazione tecnica dell’attività naturale del camminare. B. Il linguaggio non è solo attività-azione [prâxiv], spontanea o metalinguisticamente regolata. È anche attività-produzione [poíhsiv]: col ricorso a particolari tecniche verbali (ad esempio, la scrittura) vengono generate opere autonome [poiämata] separabili dall’agente che le ha prodotte così come la casa è separabile da chi l’ha costruita. Le opere producibili tecnicamente col linguaggio sono quelle che a vario titolo sono chiamate ‘opere letterarie’. Esse vengono generate mediante la tecnica dell’imitazione: «epica, produzione di tragedie, la commedia, la maggior parte dell’auletica e della citaristica» sono «tecniche» che «producono l’imitazione [poioûn121

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tai tæn mímhsin] col ritmo, il linguaggio [lógov], la musica, utilizzandoli o separatamente o congiuntamente» (Poet. 1447a 13-22). L’agire naturale del parlare ha quindi la capacità naturale di trasformarsi in poiesis, ossia in produzione tecnica di opere verbali che hanno un’esistenza autonoma da chi le ha prodotte. La trasformazione, anche in questo caso, è continua e senza rotture. I processi generativi imitativi sono infatti, per Aristotele, produzioni artificiali che continuano e perfezionano processi generativi naturali: «due in generale sembrano essere le cause, ed entrambe naturali, che dettero origine alla poiesis. L’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini (l’uomo differisce dagli altri animali perché è il più imitativo e produce le prime conoscenze mediante l’imitazione), tutti traggono diletto dalle imitazioni» (1448b 4-9). Il parlare è attività autopoietica con la tendenza naturale a trasformarsi in attività generatrice di opere eteropoietiche: «per natura è in noi la tendenza all’imitazione, alla musica e al ritmo» (1448b 20-22). Il linguaggio è il luogo in cui la natura, tramite gli animali linguistici, si auto-trasforma in tecnica. In esso la naturale attività autopoietica diventa senza soluzioni di continuità fonte autogena di produzione eteropoietica. Col linguaggio, naturalità e artificialità più che due universi separati esibiscono due modi di essere di un universo profondamente unitario. Il linguaggio-tecnica usa come naturale tecnica poietica ciò che ogni tecnica poietica si propone come fine: «la tecnica imita la natura» (Phys. 194a 21-22)13; «non è la natura a imitare la tecnica, ma è la tecnica che imita la natura ed esiste per aiutarla e colmarne le deficienze» (Prot. 11). Ancora più analiticamente: Se la casa fosse generata per natura, essa sarebbe generata allo stesso modo in cui viene generata adesso dalla tecnica; e se le cose naturali fossero generate non solo naturalmente ma anche artificialmente, sarebbero generate allo stesso modo in cui lo sono per natura. (…) In generale, la tecnica porta a compimento [e¬piteleî] ciò che la natura non è capace di realizzare, mentre altre cose le imita (Phys. 199a 12-16).

La tecnica, nella prospettiva aristotelica, è essa stessa natura. L’artificialità è continuazione e trasformazione della naturalità. In 13 «La tecnica imita la natura, dal momento che la digestione nel corpo è simile [o™moía] alla cottura» (Meteor. 381b 6-7).

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questo universo, contemporaneamente unitario e differenziato, il linguaggio svolge un ruolo altamente specifico: è il luogo in cui la natura, auto-trasformandosi in tecnica logico-retorica e poietica, può esaminarsi, interrogarsi, completarsi, autoriprodursi. L’attività verbale è per natura generatrice di tecnica. La complessa varietà dell’attività linguistica può essere schematicamente rappresentata nel grafico che qui proponiamo: LINGUAGGIO (lógov)

AGIRE TECNICAMENTE REGOLATO

(r™htorikä, dialektikä) → DISCORSI REGOLATI técnh1

ATTIVITÀ

(e¬nérgeia = katà sunjäkhn) → AGIRE (prâxiv) técnh2 PRODUZIONE

(poíhsiv) → OPERE LETTERARIE (poiämata)

Il parlare è un’attività naturale che può essere regolamentata e perfezionata da tecniche specifiche (dialettica, retorica) o riplasmata mediante tecniche, altrettanto specifiche (ad esempio, la scrittura), per produrre opere letterarie che abbiano uno status finale autonomo dai loro produttori. 6. Variabilità e chiusura naturale dell’infinito universo verbale Il risultato che abbiamo finora ottenuto può essere così formulato: «linguaggio» è il termine astratto per indicare quel particolare agire e quel particolare produrre che solo con le parole sono possibili. Lo statuto teorico delle azioni [práxeiv] e delle produzioni [poiäseiv] – abbiamo visto – non viene definito a partire dalle nozioni, tra l’altro chiaramente formulate nella filosofia aristotelica, di naturalità e artificialità. L’agire e il produrre posseggono, invece, una comune caratteristica che li rende particolarmente adatti alla spiegazione di alcune specificità dell’attività verbale: «ciò che può essere diversamente 123

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da come è, è oggetto tanto della produzione quanto dell’azione» (EN 1140a 1-2). È il caso di soffermarsi su questa enunciazione teorica. Azione e produzione sono attività generatrici di eventi che non accadono necessariamente ma potrebbero accadere o non accadere. Il loro campo di applicazione è l’universo contingente degli eventi futuri: «negli eventi che non sono sempre in atto sussiste la possibilità e l’impossibilità e per essi si danno entrambe le eventualità: l’essere e il non essere così come l’essere generato o il non essere generato» (DI 19a 9-11). Nel paradigma aristotelico, naturalità e variabilità non sono caratteristiche incompatibili. Un passo di Magna Moralia ci conduce sul confine di riflessioni ardite e per noi estremamente attuali: Non bisogna intendere come se non potesse mai mutare dal momento che anche le cose che sono per natura soggiacciono al mutamento [metalambánousi metabolñv]. Ad esempio, se tutti ci esercitassimo a lanciare con la mano sinistra, diventeremmo ambidestri; ma quella mano sarà pur sempre per natura la mano sinistra e la mano destra non sarà per natura meno superiore della sinistra anche se facciamo con la sinistra tutto ciò che facciamo con la destra. Pertanto, non è che, se le cose mutano, non sono per questo per natura (1194b 31-38).

La naturalità, nell’agire e nel produrre, definisce un bacino di invarianza entro il quale una molteplicità di eventi, differenti e singolari ma isomorfi, possono accadere. Attività naturale specie-specifica dell’uccello, ad esempio, è l’azione del volare ma non lo è il volare in una direzione o in un’altra, in un dato istante anziché in un altro, a una data velocità (entro certi limiti) anziché a un’altra, a una determinata altezza anziché a un’altra, eccetera. L’agire e il produrre con le parole esibiscono la medesima caratteristica. Nessun animale linguistico crea la propria capacità di parlare così come nessun animale crea la propria capacità di vedere, sentire, camminare o volare. Ma se l’agire e/o il produrre linguistici, in quanto attività specie-specifiche, sono naturali o autopoietici, il concreto agire/produrre linguistico è contingente e variabile: esso ha come oggetto «ciò che può essere diversamente da come è». Parafrasando il passo dell’Ethica Nicomachea si potrebbe dire: non solo le opere letterarie, ma anche le più modeste azioni verbali, potrebbero essere o non essere, essendo realizzazioni, singolari e contingenti, di naturali capacità dell’animale linguistico che le ha generate. 124

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Il linguaggio, come un qualsiasi altro genere naturale, è un insieme, chiuso e regolare, di una molteplicità di variabili singolari e contingenti. Le nozioni teoriche di katà sunqäkhn e súmbolon tracciano i confini che chiudono lo spazio infinitamente variabile del genere naturale «linguaggio». Ovvero: mostrano ciò che è linguaggio e ciò che non è linguaggio così come la regola «n/2 senza resto» decide quale dell’insieme infinito dei numeri naturali appartiene o non appartiene al sottoinsieme, altrettanto infinito, dei numeri pari. Guardato dall’alto di questo approccio, buona parte del dibattito post-aristotelico su naturalità o convenzionalità del linguaggio diventa grigio e perde ogni interesse. 7. La moneta, il linguaggio e la matematica La pagina dell’Ethica Nicomachea in cui viene spiegata l’origine e la natura katà sunqäkhn della moneta viene unanimemente citata come prova incontrovertibile e decisiva della giustezza della lettura convenzionalista dei primi quattro capitoli del De Interpretatione14. Si tratta di una pagina teoricamente molto ricca e una sua traduzione, letterale e sganciata da pregiudizi interpretativi, consentirà di arricchire il contenuto della nozione che stiamo inseguendo. Di tutta l’argomentazione gli storici delle teorie linguistiche di norma citano il seguente passaggio: «Come mezzo di scambio dei bisogni sorse katà sunqäkhn {per convenzione? per accordo?} la moneta. Il motivo per cui si chiama nómisma è questo: non è per natura [fúsei] ma in relazione a una regola [nómwı] e dipende da noi scambiarla o non usarla» (1133a 28-31). Il passo è l’anello di una complessa catena argomentativa che merita di essere seguita per intero. Le comunità fondate sugli scambi sono rese coese da questo tipo di giustizia: la reciprocità secondo proporzione e non secondo uguaglianza [kat∫ a¬nalogían kaì mæ kat∫ i¬sóthta]. La città infatti consiste nello scambio di ciò che è proporzionale [tøı a¬ntipoieîn gàr a¬nálogon 14 Citiamo per tutti Whitaker (1996: 10-11): «Money, like words, came into being by convention (EN 1133a 29); it is not by nature, but by convention, and ‘it is within our power to change it or render it useless’ (1133a 31). The idea is that if the use of something can be changed merely by human decision, then its use cannot have been determined by the nature of things».

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summénei h™ póliv]. (…) Una comunità [koinwnía] non sorge da due medici ma da un medico e un contadino e, in generale, da individui differenti e non uguali. E però è necessario che essi siano resi uguali. È questo il motivo per cui tutti tra cui c’è scambio [a¬llagä] debbono essere in qualche modo confrontabili [sumblhtá]. A tal fine sorse la moneta che è in un certo modo un intermediario [méson]: misura [metreî] infatti ogni , di conseguenza anche l’eccesso e il difetto, ad esempio quante scarpe sono uguali a una casa o a un alimento. È necessario pertanto che il rapporto che intercorre tra un architetto e un calzolaio intercorra anche tra un determinato numero di scarpe e una casa o un alimento. Se questo non avverrà, non ci sarà né scambio né comunità. E ciò non avverrà se non saranno in qualche modo uguali. È pertanto necessario che tutti vengano misurati mediante un qualcosa di unitario, come abbiamo detto prima. Questa unità è in verità il bisogno [h™ creía] che collega [sunécei] ogni cosa: se infatti mancassero di nulla e non avessero bisogni simili, o non ci sarebbe scambio o questo sarebbe differente. Come mezzo di scambio dei bisogni sorse katà sunqäkhn la moneta. Il motivo per cui si chiama nómisma è questo: non è per natura [fúsei] ma in relazione a una regola [nómwı] e dipende da noi scambiarla o non usarla [e¬f∫ h™mîn metabaleîn kaì poiñsai a¢crhston]. Vi sarà dunque reciprocità quando si sarà raggiunto un livello di uguaglianza tale che il rapporto tra il contadino e il calzolaio sarà uguale a quello che intercorre tra l’opera del calzolaio e quella del contadino. (…) Sia A un contadino, C un alimento, B un calzolaio, D l’opera di costui eguagliata : se non fosse possibile realizzare la reciprocità in questo modo, non potrebbe esistere una comunità [koinwnía]. (…) La moneta, pertanto, come misura rende uguali e commensurabili [súmmetra]: non sarebbe possibile la comunità senza lo scambio, lo scambio senza uguaglianza, l’uguaglianza senza una commensurabilità [summetría]. In verità sarebbe impossibile rendere commensurabili [súmmetra] cose tra loro così differenti, ma ciò è possibile in maniera sufficiente in rapporto al bisogno. Dovrà perciò esserci una determinata unità e questa consegue dalle premesse enunciate [e¬x u™poqésewv]15. È questo il motivo per cui si chiama moneta [nómisma]: è essa 15 Molti traduttori, interpretando in modo non corretto il testo, rendono e¬x u™poqésewv con «convenzione» o «accordo». Cito per tutti Gauthier-Jolif («Il nous faut donc une certaine unité, et cette unité ne peut être établie que par convention») e Rackam («There must therefore be some one standard, and this accepted by agreement»). Traducono allo stesso modo Plebe, Zanatta, Mazzarelli. Non ci convince nemmeno la resa di Natali (Laterza, Roma-Bari 1999) con «per ipotesi». In realtà,

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che rende tutti tra loro commensurabili [toûto gàr pánta poieî súmmetra] e, di fatto, ogni è misurato [metreîtai] con la moneta. Siano A una casa, B dieci mine, C un letto. A è la metà di B se la casa ha un valore uguale a cinque mine. Poniamo che il letto C sia una decima parte di B. È chiaro quanti letti sono uguali alla casa: cinque. È altrettanto chiaro che prima della moneta lo scambio fosse di questo tipo: non fa infatti differenza scambiare una casa con cinque letti o con il valore di cinque letti. (EN 1132b 31-1133b 28).

È una pagina teoricamente molto raffinata e in cui traspaiono le profonde conoscenze matematiche del suo autore. Essa fornisce utili suggerimenti al linguista teorico che fosse interessato a un esame dei profondi isomorfismi di funzionamento della moneta e del linguaggio: naturalmente alla condizione di non impoverire e stravolgere il testo con la nozione della genesi per convenzione della moneta. Proviamo a esplicitare i fuochi intorno a cui ruota l’argomentazione aristotelica. L’argomento che funge da punto di partenza del ragionamento è uguale a quello usato da Platone nella Repubblica per spiegare la genesi naturale della città e della moneta-simbolo. Nessun essere umano è, per sua costituzione naturale, autosufficiente e ciascuno ha bisogno per «vivere bene» di scambiare i prodotti del proprio lavoro coi prodotti del lavoro altrui: il calzolaio ha bisogno dell’architetto per costruire la casa, l’architetto ha bisogno delle scarpe prodotte dal calzolaio, e così via. Perché lo scambio possa avvenire in modo passabilmente equilibrato è necessario che i prodotti, tra loro qualitativamente differenti, siano resi commensurabili. «Commensurabilità» è nozione usata nell’accezione tecnica della matematica dell’epoca e che Euclide trascrive nella prima Definizione del libro decimo degli Elementa: «Si dicono grandezze commensurabili [súmmetra] quelle che sono misurate dalla medesima unità di misura, incommensurabili invece quelle di cui non è possibile che venga fornita una comune unità di misura [koinòn métron]». La moneta, nella trattazione aristotelica, svolge il ruolo di unità di misura che rende commensurabili beni che altrimenti sarebbero ine¬x u™poqésewv è la formula che Aristotele usa per indicare una particolare relazione necessaria che chiama per l’appunto a¬nágkh e¬x u™poqésewv, che noi traduciamo con «necessità condizionata» e di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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commensurabili: dei prodotti del lavoro «la comune unità di misura è la moneta [koinòn métron tò nómisma] e, di conseguenza, ogni viene rapportato ad essa e viene misurato con essa [toútwı metreîtai]» (EN 1164a 1-3). La terminologia usata non lascia adito a dubbi: la teoria aristotelica della moneta nasce all’interno delle ricerche matematiche sullo status, ontologico e epistemico, delle unità di misura e sulle procedure da seguire per trovarle. Che cosa è un métron, ossia una unità di misura? Lo studio delle unità di misura è uno dei capitoli filosoficamente più affascinanti della matematica greca e merita una trattazione a parte16. In questa sede ce ne occupiamo per quel poco che possa essere utile ai fini della chiarificazione del problema filologico-teorico che stiamo esaminando. Ne metteremo a fuoco solo tre aspetti. Primo aspetto. Una unità di misura perché possa essere tale deve appartenere allo stesso genere naturale delle cose che misura. È un aspetto ben chiarito da Aristotele: L’unità di misura è sempre co-genere [a¬eì suggenèv tò métron]: delle grandezze l’unità di misura è una grandezza, e in particolare: l’unità di misura della lunghezza è una lunghezza, della larghezza una larghezza, delle voci linguistiche una voce linguistica, dei pesi un peso, delle unità un’unità [monádwn monáv] (Met. 1053a 24-28).

Dato un qualsiasi oggetto, se vogliamo misurarne la lunghezza bisogna ricorrere a oggetti lunghi, se vogliamo invece misurarne il peso bisogna usare oggetti pesanti: le lunghezze sono misurate da lunghezze, i pesi da pesi. E i beni da scambiare? Dal momento che i beni vengono prodotti e scambiati per soddisfare bisogni, le misure in questo caso si riferiscono all’universo delle coppie «bisogno/beneche-lo-soddisfa». In linea di principio, quindi, un qualsiasi «beneche-soddisfa-un-bisogno» è misura di equivalenza degli altri «beniche-soddisfano-bisogni» con cui avviene lo scambio. Un bene, nel momento in cui viene usato non per soddisfare il bisogno di chi lo possiede ma per essere scambiato con un altro bene, diventa «unità di misura», ossia potenziale moneta. 16 Per una prima trattazione e per alcuni dei risvolti linguistici del problema rimandiamo a Lo Piparo (2000).

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Di ogni bene sono possibili due usi. Entrambi si rapportano al bene ma non in maniera simile; l’uno appartiene in maniera propria [oi¬keía] al bene, l’altro non gli appartiene in maniera propria. Ad esempio, la scarpa: può essere usata come calzatura oppure come bene di scambio. Entrambi sono usi della scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in cambio di denaro o di cibo usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio, perché il fine della scarpa non è lo scambio [ou¬ gàr a¬llagñv eçneken gégone]. Ogni bene può, infatti, essere oggetto di scambio: ciò trae origine anzitutto dal fatto naturale [e¬k toû katà fúsin] che gli uomini hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno (Pol. 1257a 6-17).

Là dove c’è scambio di beni, lì c’è anche il naturale meccanismo generatore di quella particolare unità di misura chiamata «moneta». La moneta, per così dire, esiste prima della sua formale istituzione: «non fa infatti differenza scambiare una casa con cinque letti o con il valore di cinque letti» (EN 1133b 27-28). La moneta quindi non sorge perché qualcuno l’ha posta in essere [qései] o in seguito ad un accordo esplicito [sunqäkh]. Essa è un prodotto, naturale e necessario, della naturale non autosufficienza dei singoli individui umani. Dove c’è quella differenziazione regolata che si chiama «città», lì ci sono anche, necessariamente, il linguaggio e la moneta: «non sarebbe possibile la comunità senza lo scambio, lo scambio senza uguaglianza, l’uguaglianza senza una commensurabilità». Si sbagliano pertanto coloro che ritengono che «la moneta sia una cosa da nulla [lñrov] interamente dettata dalla legge [pantápasi nómov] e con nessun fondamento naturale [fúsei d∫ ou¬qén] che, cambiati gli utenti, non ha più alcun valore e non è più utile alle necessità della vita e un uomo ricco di denaro può spesso mancare del cibo necessario» (Pol. 1257b 10-14). La moneta, anche se come istituzione ha un suo percorso storico fatto di patti e scelte collettivamente convenute, rimane pur sempre saldamente ancorata nella naturalità del processo misuratore dei beni scambiati. Ad esempio, in una pagina della Politica si nota che nel momento in cui i confini dello scambio si ampliarono tanto da dovere ricorrere all’importazione e esportazione di prodotti, necessariamente [e¬x a¬nágkhv] si ricorse all’uso della moneta {si legga: «moneta come istituzione formale»}. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle necessità naturali e quindi per effettuare lo 129

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scambio ci si accordò [sunéqento] di dare e prendere qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile da usarsi nei bisogni della vita, come il ferro, l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu impresso come segno della quantità (1257a 31-41).

Le sue vicende storiche non scalfiscono il fatto che la moneta rimane pur sempre «il principio naturale e il confine dello scambio [tò gàr nómisma stoiceîon kaì pérav tñv a¬llagñv e¬stin]» (1257b 23). Secondo aspetto. Nella matematica greca, così come nelle scienze moderne, le unità di misura sono contemporaneamente relative (variano con la grandezza relativa degli oggetti da misurare) e assolute e oggettive (non sono scelte arbitrarie e/o convenzioni). Proverò a spiegare il concetto mediante semplici esempi geometrici e evitando ogni tecnicismo. La Def. 3 del libro decimo degli Elementa di Euclide17 contiene questa asserzione: «Rispetto a una retta proposta, esiste una quantità infinita di rette commensurabili e incommensurabili con essa». Nel corso del libro si forniscono diverse dimostrazioni. Se si riportano alla mente le definizioni di commensurabilità e incommensurabilità sopra riportate, l’asserzione della Def. 3 sostiene che, dato un qualsiasi segmento di retta a, esiste o non esiste una unità di misura u che lo misuri a seconda che a venga misurato insieme al segmento b o insieme al segmento g. Ricordiamo due nozioni elementari. 1) Una grandezza misura un’altra grandezza (formulazione equivalente: una grandezza è unità di misura, in greco metron, di un’altra grandezza) quando è contenuta un numero finito di volte nella grandezza da misurare. 2) Le grandezze a e b, oppure a e g, sono commensurabili se è possibile trovare un metro u che misuri tanto a che b, oppure tanto a che g. Si segua l’esempio sul grafico alla pagina seguente. Sia a il segmento di retta dato. Si tracci il quadrato che abbia a come lato. Sia p il perimetro e d la diagonale del quadrato. Oppure si tracci il cerchio che abbia a come diametro. Sia c la circonferenza del cerchio. 17 Ricordiamo che Euclide, di poco posteriore a Aristotele, raccoglie e sistematizza negli Elementa molte delle conoscenze matematiche dell’epoca.

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a è commensurabile con p = 4a a è incommensurabile con d e con c

Chiunque abbia fatto studi elementari di geometria sa che esiste un segmento unitario che sia in grado di misurare in maniera definita a e p (lato e perimetro del quadrato sono commensurabili) mentre non è possibile trovare un segmento qualsiasi che funga da unità di misura di a e d (lato e diagonale del quadrato sono incommensurabili) oppure di a e c (diametro e circonferenza sono incommensurabili). Quindi, la misurabilità di a non è una caratteristica intrinseca e isolata di a ma dipende dagli altri segmenti insieme ai quali a viene misurato. L’esempio dovrebbe mostrare a sufficienza che la commensurabilità non dipende dall’esistenza di metri-campioni depositati da qualche parte e convenzionalmente assunti [qései] come norme di misurazione. Conclusione: le unità di misura, nella matematica greca e nel pensiero filosofico aristotelico così come nella scienza moderna, sono contemporaneamente relative, assolute e oggettive. L’attribuzione ad Aristotele dell’idea dell’origine, convenzionale o per arbitraria posizione, della moneta-misura comporta, quindi, un travisamento del suo sistema filosofico. Per apprezzare la pagina dell’Ethica Nicomachea sulla moneta, da cui abbiamo preso le mosse, bisogna introdurre ancora un altro concetto matematico. Terzo aspetto. Eudosso, matematico contemporaneo di Platone, mise a punto uno strumento teorico estremamente potente che consente di mostrare come, in molti casi, grandezze variabili e/o appartenenti a generi differenti mantengono una invarianza di rapporto al di sotto della variabilità superficiale. È il cosiddetto «rapporto proporzionale [a¬nálogon]»: a determinate condizioni il rapporto a/b è 131

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uguale al rapporto c/d (nella formulazione scolastica: a:b=c:d – «a sta a b come c sta a d»). Aristotele padroneggia molto bene l’apparato matematico eudossiano e, nell’Ethica Nicomachea, poche pagine prima dell’analisi della natura della moneta, annota: «Il rapporto proporzionale non è solo una proprietà del numero composto di unità discrete ma del numero in generale [ou¬ mónon e¬stì monadikoû a¬riqmoû i¢dion, a¬ll∫ oçlwv a¬riqmoû]: la proporzione è un’uguaglianza di rapporti [h™ gàr a¬nalogía i¬sóthv e¬stì lógwn] e richiede almeno quattro termini» (EN 1131a 29-31). La moneta è un esempio di metron che misura non valori assoluti ma rapporti tra grandezze tra loro variabili. A far sorgere la moneta-metro e darle il relativo valore è il complesso sistema formato: 1) dai bisogni di individui non autosufficienti e tra loro diversi; 2) dai beni, tra loro differenti, disponibili per soddisfare i bisogni. L’equilibrio, variabile e instabile, del sistema è retto – secondo Aristotele – dalla regola delle equivalenze dei rapporti proporzionali studiata da Eudosso. «Sia A un contadino, C un alimento, B un calzolaio, D l’opera di costui eguagliata » (1133b 4-5). Il sistema di equivalenze generato dalla proporzione A/C = B/D è la moneta. Il valore della moneta è, quindi, variabile ma non arbitrario e/o convenzionale. Dopo questa lunga digressione, torniamo al passo dell’Ethica Nicomachea unanimemente citato a conferma del convenzionalismo linguistico da attribuire ad Aristotele: «Come mezzo di scambio dei bisogni sorse katà sunqäkhn la moneta. Il motivo per cui si chiama nómisma è questo: non è per natura [fúsei] ma in relazione alla regola [nómwı] e dipende da noi scambiarla o non usarla» (1133a 28-31). Se la riflessione teorica contenuta nel brano citato poggia sul retroterra matematico che abbiamo sommariamente descritto, katà sunqäkhn non può essere tradotto con «convenzione» o «accordo» o, peggio, con «arbitrariamente posto». L’asserzione «come mezzo di scambio dei bisogni nacque katà sunqäkhn la moneta» va invece interpretata nel senso che la moneta è il risultato della regolata e autogena composizione dei bisogni e dei prodotti che li soddisfano. La composizione regolata [katà sunqäkhn] altro non è che la legge del rapporto proporzionale: la moneta misura e garantisce che «il rap132

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porto tra il contadino e il calzolaio sarà uguale a quello che intercorre tra l’opera del calzolaio e quella del contadino». Esattamente il contrario della convenzionalità. Naturalmente il valore della moneta, essendo una variabile vincolata del sistema, cambia se cambiano i valori delle altre variabili (bisogni da soddisfare, quantità di prodotti che soddisfano i bisogni) tra loro correlate. Dovremmo adesso essere in grado di capire il senso dell’affermazione successiva: «il motivo per cui si chiama nómisma è questo: non è per natura (fúsei) ma in relazione alla regola (nómwı) e dipende da noi scambiarla o non usarla». Per resistere alla tentazione di una lettura in chiave convenzionalista dell’espressione nómwı «per norma istituzionalmente posta», è sufficiente non trascurare che il testo, appena poche righe dopo, dà anche quest’altra etimologia del termine «moneta»: «È questo il motivo per cui si chiama moneta [nómisma]: è essa che rende tutti tra loro commensurabili [toûto gàr pánta poieî súmmetra] e, di fatto, ogni è misurato [metreîtai] con la moneta». A nostro parere l’asserzione «Il valore della moneta non è per natura» va interpretata in questo modo: il valore della moneta non è una costante indipendente, fornita dalla natura del materiale con cui la moneta è fatta; è, invece, una variabile legata alle altre variabili dalla regola delle uguaglianze dei rapporti proporzionali. C’è una profonda somiglianza tra il katà sunqäkhn che definisce la moneta e il katà sunqäkhn che definisce il nome. Le voci generate dagli animali – si sostiene nel De Interpretatione – non sono per natura nomi-simboli ma lo diventano alla fine di un processo generativo, altrettanto naturale, chiamato katà sunqäkhn. Anche il valore della moneta non è per natura ma diviene: non è punto di partenza ma risultato di un processo di composizione (naturale nella sua matrice) – chiamato katà sunqäkhn – di una pluralità di «bisogni e relativi beni che li soddisfino». In entrambi i casi, la nozione di katà sunqäkhn è usata per descrivere sistemi il cui funzionamento si regge sulla variabilità infinita e imprevedibile delle sue possibili realizzazioni e su una grammatica generativa naturale capace di spiegare e governare la variabilità. La qualifica katà sunqäkhn spiega contemporaneamente la infinita variabilità degli esiti del sistema e la univocità naturale dei meccanismi che generano le possibili varianti.

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Capitolo sesto

I segni zoo-fisiognomici del linguaggio

1. I sillogismi segnici Rileggiamo ancora una volta le righe 16a 3-8 del De Interpretatione, tralasciando per il momento l’ultima enunciazione teorica: Le articolazioni della voce umana e le operazioni logico-cognitive dell’anima umana sono tra loro differenti e complementari [súmbola] così come lo sono le articolazioni scritte e quelle della voce. Come i grammata non sono i medesimi per tutti , non lo sono nemmeno le voci. E invece [méntoi] sono le medesime per tutti le operazioni logico-cognitive dell’anima [tau¬tà pâsi paqämata tñv yucñv] di cui voci e grammata [taûta] sono prioritariamente segni [shmeîa pråtwv]1.

La spiegazione per cui, a così breve distanza, le «articolazioni della voce» ossia le «voci-grammata» vengono dette prima «simboli» e, subito dopo, «segni» delle «operazioni logico-cognitive dell’anima umana [paqämata tñv yucñv]» ha fatto discutere, e continua a far discutere, molto gli studiosi, a cominciare da Ammonio e Boezio2. Naturalmente il dibattito è viziato dal non aver identificato la particolare accezione non simbolica che il termine «simbolo» ha nella filosofia aristotelica. La lettura che qui sosterremo è che simbolo e segno sono concetti imparentati che svolgono nel testo ruoli argomentativi differenti. La chiave esplicativa si trova nell’ultimo capitolo del secondo libro degli Analytica Priora e nel quantificatore universale «i medesimi per tutti ». 1 Delle due varianti (pråtwn e pråtwv) seguiamo la seconda. I motivi della scelta saranno chiariti dall’analisi che faremo del passo. 2 Vedi supra, pp. 52-53.

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Alcuni dei sillogismi chiamati entimemi3 – spiega il capitolo conclusivo degli Analytica Priora – si svolgono a partire da premesse che sono segni: «il segno intende essere una premessa dimostrativa, sia essa necessaria o fondata su un’opinione condivisa [e¢ndoxov]» (Apr. 70a 6-7). Le premesse di un sillogismo sono proposizioni affermative o negative: «la premessa è una proposizione [lógov] che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcosa» (Apr. 24a 16-17); «la premessa del sillogismo è, in senso generale, enunciazione affermativa o negativa [katáfasiv h£ a¬pófasiv] di qualcosa rispetto a qualcosa d’altro» (Apr. 24a 28-29). Il segno è pertanto una proposizione4. Detto più chiaramente: se qualcosa è segno allora è rappresentabile mediante una proposizione che svolga il ruolo di premessa in un sillogismo. È un’informazione importante per la questione che stiamo affrontando: il segno, oltre che caratteristica del mondo reale, è un tipo di conoscenza del mondo. È una nozione che, in termini moderni, potremmo chiamare logico-epistemologica: qualcosa è un segno quando se ne può parlare in un certo modo. La definizione che Aristotele dà delle relazioni segniche ha uno stile così sintetico e così legato alla sintassi della lingua greca che la sua traduzione risulta sempre un po’ oscura. Colli così traduce: «In effetti, nel caso in cui, se un qualcosa esiste, l’oggetto in questione esista, oppure in cui, se un qualcosa si è verificato, l’oggetto in questione si sia verificato, o prima o dopo, questo qualcosa è il segno dell’essersi verificato, o dell’esistere, dell’oggetto in questione» (70a 7-9)5. Proponiamo, più che una traduzione letterale, una parafrasi: Definizione di «B è segno di A»: dati due qualsiasi fatti A e B, se, quando accade A, accade anche B (o prima o dopo o contemporaneamente a A), allora B è segno di A.

Sulla nozione aristotelica di entimema rimandiamo a Piazza (2000). L’idea di Roland Barthes (1964) che i segni non linguistici debbano considerarsi interni al linguaggio verbale ha in Aristotele un autorevole sostenitore. 5 Riportiamo il testo greco: ou© gàr o¢ntov e¢stin h£ ou© genoménou próteron h£ uçsteron gégone tò prâgma, toûto shmeîón e¬sti toû gegonénai h£ ei®nai. Mignucci così traduce: «Ciò, essendo il quale, una cosa è, oppure, essendosi verificato il quale, antecedentemente o conseguentemente ad esso una cosa si è verificata, è segno dell’essersi verificato o dell’essere di quella cosa» (Loffredo, Napoli 1969). 3 4

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A partire da una definizione così generale e onnicomprensiva è facile trasformare qualsiasi fatto in segno di qualche altro fatto. Ad esempio, se, dopo che un gatto nero mi ha tagliato la strada, una tegola mi cade in testa, la definizione sopra riportata di segno mi autorizza a descrivere i due eventi mediante la relazione segnica così esprimibile: Quel gatto nero è segno della tegola che mi sarebbe caduta in testa. Il segno, in questo caso, è la proposizione Un gatto nero mi ha tagliato la strada. Per seguire bene le argomentazioni dell’ultimo capitolo degli Analytica Priora bisogna avere chiaro che nel testo il termine «segno» denota sia la relazione tra i due fatti B e A («B è segno di A») sia la proposizione B che funge da antecedente nella relazione «B è segno di A». Chiameremo «relazione-segno» la prima accezione, «proposizione-segno» la seconda. Solo se riferita alla proposizione-segno l’asserzione che «la verità si trova in tutti i segni» (70a 37-38)6 diventa comprensibile. Il segno B, essendo rappresentato dalla proposizione che descrive il fatto a partire da cui la relazione segnica «B è segno di A» viene formulata, non può infatti non essere assunto come realmente esistente: nell’esempio nostro, il gatto nero mi ha realmente tagliato la strada. In questa prospettiva ciò che distingue una proposizione-segno da un’altra non è il suo isolato valore di verità (nelle relazioni segniche tutti gli antecedenti sono assunti come proposizioni descrittivamente vere) ma il tipo di relazione segnica e conoscenza generale che ciascuna proposizione-segno presuppone e/o è in grado di sviluppare. La relazione-segno presupposta e/o sviluppata a partire dalla proposizione-segno è rappresentabile mediante un sillogismo. Il testo ne analizza tre esempi. 1. Primo esempio di relazione segnica: «Maria ha latte nelle mammelle» è segno che «Maria è puerpera». La relazione è sorretta da un sillogismo di prima figura che ha come una delle due premesse la proposizione-segno Maria ha latte nelle mammelle. 6 Diversi traduttori, al fine di rendere teoricamente accettabile il passo, forzano la lettera e lo spirito dell’asserzione aristotelica (a¬lhqèv mèn ou®n e¬n açpasin u™párxei toîv shmeíoiv): «Un elemento (?) di verità si ritroverà in tutti i segni» (Colli); «Le vrai pourra (?) se rencontrer dans toutes sortes de signes» (Tricot); «La verità può (?) essere presente in tutti i segni» (Mignucci).

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A = puerpera B = latte nelle mammelle C = Maria – Tutti i B sono A = Tutte le donne che hanno latte nelle mammelle sono puerpere – CèB = Maria ha latte nelle mammelle ∴ CèA = Maria è puerpera La conoscenza espressa in una relazione segnica di questo tipo è generale e inconfutabile [a¢lutov]. 2. Secondo esempio di relazione segnica: «Maria è pallida» è segno che «Maria è puerpera». La relazione è sorretta da un sillogismo non valido di seconda figura che ha come una delle due premesse la proposizione-segno Maria è pallida. A = pallida B = puerpera C = Maria – Tutti i B sono A = Tutte le puerpere sono pallide – CèA = Maria è pallida ∴ CèB = Maria è puerpera La conoscenza espressa in una relazione segnica di questo tipo è facilmente confutabile. Anche se è vero che Maria è pallida e puerpera e, anche se fosse vero che tutte le puerpere sono pallide, non vale l’inverso: non tutte le donne pallide sono puerpere e quindi è facile fornire controesempi di donne pallide che non sono puerpere. 3. Terzo esempio di relazione segnica: «Pittaco è sapiente» è segno che «Pittaco è onesto». La relazione è sorretta da un sillogismo non valido di terza figura che ha come una delle due premesse la proposizione-segno Pittaco è sapiente. A = onesto B = sapiente C = Pittaco 137

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– CèB = Pittaco è sapiente – CèA = Pittaco è onesto ∴ Tutti i B sono A = Tutti i sapienti sono onesti Anche se è vero che Pittaco, oltre ad essere sapiente, è anche onesto, il sillogismo produce una conoscenza generale facilmente confutabile: non è vero che per tutti gli uomini vale la regola che la sapienza è segno di onestà e quindi è facile apportare controesempi di uomini sapienti e non onesti. A rigore, più che sul sillogismo, la relazione segnica dell’ultimo esempio poggia sulla generalizzazione indebita di un fatto particolare. Non a caso, la Rhetorica adotta un punto di vista ancora più esplicito e reputa i segni di questo tipo incapaci di funzionare da leva di un ragionamento sillogistico: Vi è un tipo di segno che è una relazione dal particolare al generale, ad esempio se uno dice che segno che i sapienti sono giusti è il fatto che Socrate è sapiente e giusto. Questo è indubbiamente un segno ma è confutabile [lutón] anche se quella particolare asserzione è vera: è, infatti, asillogistico [a¬sullógiston] (1357b 10-14)7.

Le tre relazioni segniche sono esemplificazioni della definizione di segno sopra riportata e tutte possono essere fattualmente vere: è vero che Maria ha latte nelle mammelle, è pallida ed ha da poco partorito così come è vero che Pittaco è saggio e onesto. Di esse, però, solo la prima (la comparsa di latte nelle mammelle di Maria è segno del suo puerperio) è anello argomentativo di un sillogismo che va oltre il contingente e singolare fatto empirico enunciato. Perché ciò accada è necessario che la premessa maggiore soddisfi due condizioni. 1. Deve essere vincolata da quantificatori universali: i predicati devono riferirsi a tutti i membri delle classi corrispondenti. Il vincolo del quantificatore universale lo troviamo nelle premesse del primo e secondo esempio (Tutte le puerpere, Tutte le donne che hanno latte nelle mammelle, Tutte le donne pallide), non c’è in nessuna delle due premesse del terzo esempio (Pittaco è sapiente, Pittaco è onesto). 7 Per dare il giusto valore a queste considerazioni non bisogna trascurare che nei testi aristotelici i termini «sillogismo» e «sillogizzare [sullogízesqai]» oscillano tra l’accezione tecnica del ragionare in maniera logicamente controllata e l’accezione generica del semplice ragionare mediante le espressioni verbali. Vedi Piazza (2000: 90-92).

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2. I due predicati vincolati dal quantificatore universale debbono essere tali che il predicato indicato dal termine medio, B, deve avere una estensione minore o uguale al predicato indicato dal termine maggiore, A. In formula: B≤A. Quando i due predicati hanno uguale estensione (B=A), allora sono convertibili: Tutti i B sono A e Tutti gli A sono B. La condizione B≤A è soddisfatta nel primo esempio: l’estensione del predicato «avere latte nelle mammelle» non è maggiore del predicato «puerpera». Non è soddisfatta nel secondo esempio: «donna pallida» ha un’estensione maggiore di «puerpera». «Se, infatti, la puerpera è pallida e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia puerpera» (Apr. 70a 36-37). Se le due condizioni sono soddisfatte, le proposizioni-segni, oltre ad essere fattualmente vere, sono anche parte di un sapere generale scientificamente fondato. L’assenza di una delle due condizioni produce ragionamenti non rigorosi. Nei Sophistici Elenchi se ne danno diversi esempi: dal fatto che il miele è di colore giallo non è deducibile che la bile, anch’essa di colore giallo, sia un tipo di miele; dal fatto che la terra dopo la pioggia è umida non deriva che, se la terra è umida, allora è piovuto; se gli adulteri di solito vagabondano di notte, non è necessariamente vero che tutti coloro che vagabondano di notte sono adulteri; se chi ha la febbre è caldo, non tutti coloro che sono caldi hanno la febbre (SE 167b 5-20). L’errore consiste nel «ritenere che la relazione di conseguenza sia convertibile: dal fatto che, se si verifica X, si verifica necessariamente Y, si ritiene che, se Y si verifica, necessariamente si verifica anche X» (SE 167b 1-3). Dal fatto che, se piove, allora necessariamente la terra si bagna, non consegue che tutte le volte che la terra è bagnata allora è piovuto. Oppure: dal fatto che le donne che hanno partorito sono pallide non consegue che tutte le donne pallide hanno partorito. Le proposizioni-segni che consentono di sviluppare conoscenze generali e inconfutabili fondate su ragionamenti corretti sono in alcuni contesti chiamate tekmeria8: «è tekmerion il segno che, oltre ad essere vero, è anche inconfutabile [a¢luton]» (Rhet. 1357b 16-17). 8 Tekmerion viene tradotto in vario modo: «indizio sicuro» (Colli), «indizio» (Mignucci), «preuve» (M. Meyer), «prova» (Plebe), «segno necessario» (Eco).

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2. Il sillogismo zoo-fisiognomico Dopo aver spiegato le condizioni minime perché un sillogismo fondato su segni produca corretta conoscenza generale, l’ultimo capitolo degli Analytica Priora cambia apparentemente argomento e si occupa delle condizioni che debbono essere soddisfatte perché possa esserci una fisiognomica scientificamente valida. Il conoscere fisiognomico [fusiognwmoneîn] consiste nell’individuare, a partire da caratteristiche riscontrabili nel corpo di un animale, i modi di essere [paqämata] specifici della sua anima. «È possibile avere una conoscenza fisiognomica se si ammette che i modi di essere propri della natura [fusikà paqämata] 9 ne trasformano [metabállein] contemporaneamente il corpo e l’anima» (70b 6-9). Le articolazioni dell’anima e del corpo debbono corrispondersi. In questa operazione di correlazione di corpo e anima, i modi di essere [paqämata] del corpo svolgono il ruolo di segni dei modi di essere [paqämata] dell’anima. A partire da questo presupposto generale, un’indagine fisiognomica scientificamente valida deve soddisfare almeno due condizioni. Prima condizione. La corrispondenza tra le due articolazioni deve essere biunivoca: ad ogni specifico modo di essere dell’anima deve corrispondere uno specifico tipo di segno e viceversa. Se si ammette questa condizione e si ammette anche che vi è un solo segno di un solo [eÇn e™nòv shmeîon] e noi siamo in grado di cogliere lo specifico modo di essere e lo specifico segno di ciascuna specie [tò i¢dion e™kástou génouv páqov kaì shmeîon], allora siamo in grado di avere una conoscenza fisiognomica. In effetti, se ad una intera specie appartiene in maniera specifica un modo di essere [páqov] (ad esempio, ai leoni appartiene il coraggio), è necessario che di ciò ci sia un determinato segno: abbiamo supposto, infatti, che trasformino in maniera correlativa i rispettivi modi di essere [sumpáscein a¬lläloiv] (70b 11-15).

Seconda condizione. Il modo di essere dell’anima così individuato deve appartenere non ad alcuni ma a tutti gli individui della me9 Invitiamo il lettore a prestare la giusta attenzione alla comparsa qui di paqämata, termine centrale nelle righe 16a 3-8 del De Interpretatione.

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desima specie. Esso può appartenere anche ad alcuni membri di altre specie animali. La condizione forte che Aristotele pone è che tipo di segno e modo di essere dell’anima appartengano a tutti i membri di una specie. Nella nostra terminologia: la correlazione deve essere specie-specifica. Nell’esempio aristotelico: se il segno del coraggio del leone è il possesso di grandi estremità, allora «esso può appartenere anche ad altre specie ma non a tutti gli individui appartenenti a tali specie. Il fatto che il segno è specifico [i¢dion] vuol dire che il modo di essere [páqov] è specifico dell’intera specie e non che è specifico di quella sola specie10 (…). Il modo di essere indicato si riscontrerà anche in un’altra specie e così anche l’uomo o qualche altro particolare animale saranno coraggiosi: questi di conseguenza avranno il segno corrispondente perché un unico segno si riferisce a un unico » (70b 16-22). Se vengono soddisfatte tutte e due le condizioni, una conoscenza fisiognomica è possibile. «Se le cose stanno in questo modo e se noi saremo in grado di raccogliere segni cosiffatti a proposito di quegli animali che hanno un solo e determinato modo di essere specifico – ogni modo di essere ha il proprio segno dal momento che necessariamente non può che averne uno –, allora noi potremo avere una conoscenza fisiognomica» (70b 22-26). Le due condizioni che una conoscenza fisiognomica deve soddisfare corrispondono alle due condizioni che solo il sillogismo segnico di prima figura può soddisfare. La prima condizione (biunivocità di segni del corpo e modi di essere dell’anima) corrisponde alla convertibilità dei predicati della premessa maggiore del sillogismo: A è B ma anche B è A. La seconda condizione (modi di essere dell’anima e corrispondenti segni del corpo debbono appartenere a tutti i membri di una specie animale) corrisponde al quantificatore universale («tutti gli x») che vincola la premessa maggiore del sillogismo segnico di prima figura. La convertibilità non è invece prescritta per la premessa minore: se C è B non è necessario che B sia C. Le conoscenze fisiognomiche sono pertanto rappresentabili mediante sillogismi segnici di prima figura la cui premessa maggiore abbia i termini (medio e estremo maggiore) convertibili e vincolati 10

Non seguiamo la correzione di Ross (1949: 502) che espunge páqov dal testo.

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dal quantificatore universale. Seguiamo l’esempio di Aristotele. La proposizione-segno di partenza è Il leone ha grandi estremità. La relazione segnica è: «Il leone ha grandi estremità» è segno che «il leone è coraggioso». Vediamo come la relazione possa sviluppare un sillogismo di prima figura. A = essere coraggioso B = avere grandi estremità C = essere leone. Il sillogismo segnico di prima figura è il seguente: – Tutti i B sono A Tutti gli animali che hanno grandi estremità sono coraggiosi – Tutti i C sono B Tutti i leoni hanno grandi estremità ∴ Tutti i C sono A Tutti i leoni sono coraggiosi Le condizioni che rendono valida la conoscenza fisiognomica sono quelle stesse che rendono valido il sillogismo segnico di prima figura: 1) i predicati sono vincolati da quantificatori universali; 2) la premessa maggiore è convertibile: per Aristotele, «tutti gli animali che hanno grandi estremità sono coraggiosi» e «tutti gli animali coraggiosi hanno grandi estremità»11; 3) la convertibilità non è richiesta per la premessa minore: «tutti i leoni hanno grandi estremità» ma «non tutti gli animali che hanno grandi estremità sono leoni»12. Riportiamo il passo degli Analytica Priora che abbiamo qui commentato: 11 Per l’argomentazione teorica che stiamo seguendo non è tanto importante stabilire se effettivamente, in questo caso, la convertibilità esiste quanto il fatto che Aristotele riteneva che esistesse. 12 Ross (1949: 501), seguito da Mignucci (1975: 725), dà una lettura, non sorretta dal testo, della fisiognomica aristotelica: «[per Aristotele] tò fusiognwmoneîn è l’inferenza di caratteristiche mentali negli uomini a partire dalla presenza in essi di caratteristiche fisiche che in qualche altro tipo o in altri tipi di animali vanno costantemente insieme con quelle caratteristiche mentali». Sia Ross che Mignucci sono indotti a questa interpretazione dall’accostamento delle pagine di Aristotele con il trattato pseudo-aristotelico sulla Fisiognomica. Ma l’ultimo capitolo degli Analytica Priora, diversamente dal trattato pseudo-aristotelico, non è interessato alla individuazione delle somiglianze tra caratteristiche fisiognomiche umane e quelle di altri animali bensì al problema delle condizioni logiche che consentono di individuare i tratti specie-specifici di ciascun tipo di animale.

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È possibile avere conoscenza fisiognomica nella prima figura se il medio è convertibile con l’estremo maggiore e ha un’estensione maggiore a quella del terzo termine e non si converte con esso. Poniamo che A sia uguale a «coraggio», B a «grandi estremità», C a «leone». B, allora, è proprio di tutto C ma anche di altri. Al contrario, A è proprio di tutto B e di nient’altro e si converte con B: se così non fosse, non ci sarebbe un unico segno di un unico (70b 32-38).

3. Il sillogismo zoo-fisiognomico che mostra l’architettura naturale del linguaggio Rileggiamo l’enunciazione teorica del De Interpretatione da cui siamo partiti: «sono le medesime per tutti le operazioni logico-cognitive dell’anima di cui voci e grammata sono prioritariamente segni». Essa altro non è che l’enunciazione di una relazione segnica fisiognomica del tipo di quelle esaminate negli Analytica Priora. Potrebbe essere così riformulata: Le voci-grammata sono prioritariamente [pråtwv] segni degli specifici modi di essere dell’anima degli animali umani, ad esempio delle operazioni logico-cognitive studiate nel «De Interpretatione». Essa contiene un sapere fisiognomico rappresentabile mediante un sillogismo segnico di prima figura. Vediamo: A = animale capace delle operazioni logico-cognitive studiate nel De Interpretatione B = animali che hanno voci-grammata C = animali umani. Il sillogismo fisiognomico che regge la relazione segnica è il seguente: – Tutti i B sono A Tutti gli animali che hanno voci-grammata sono capaci delle operazioni logico-cognitive [tà paqämata e¬n tñı yucñı] studiate nel De Interpretatione. – Tutti i C sono B Tutti gli animali umani hanno voci-grammata. ∴ Tutti i C sono A Tutti gli animali umani sono capaci delle operazioni logico-cognitive studiate nel De Interpretatione. 143

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Le due condizioni del sillogismo fisiognomico valido sono soddisfatte. 1) Tutti e tre i predicati sono vincolati da quantificatori universali: tutti gli animali capaci delle operazioni ecc., tutti gli animali che hanno voci-grammata, tutti gli animali umani. 2) La premessa maggiore è convertibile: «Tutti gli animali che hanno voci-grammata sono capaci delle operazioni logico-cognitive studiate nel De Interpretatione» e, viceversa, «Tutti gli animali capaci delle operazioni logico-cognitive studiate nel De Interpretatione hanno voci-grammata». La convertibilità logica dei due predicati corrisponde alla struttura circolare e alla natura reciprocamente complementare che i ‘simboli’ nell’accezione aristotelica posseggono. Detto ancora più esplicitamente, il passo del De Interpretatione sta sostenendo che esiste una correlazione necessaria e reciproca tra la capacità di pensare in termini di vero/falso, necessario/possibile, affermare/negare, tutti/nessuno/alcuni (operatori logico-linguistici studiati nell’opera che esordisce con l’asserzione che stiamo analizzando) e la capacità di produrre voce articolata. Un passo dei Topica, se adeguatamente tradotto, fornisce la prova testuale della presenza del sillogismo fisiognomico nelle righe 16a 6-7 del De Interpretatione: È proprietà specifica [i¢dion] di un oggetto [prágmatov] quella che, pur non mostrandone l’essenza [tò tí h®n ei®nai], appartiene solo ad esso ed è convertibile con l’oggetto [a¬ntikathgoreîtai toû prágmatov]. Ad esempio, è proprietà specifica dell’uomo il fatto che sia capace di articolare voci-lettere [tò grammatikñv dektikóv]: se infatti qualcuno è un uomo, allora è anche capace di articolare voci-lettere; e se qualcuno è capace di articolare voci-lettere, allora è un uomo13. In effetti nessuno chiama «proprietà specifica» ciò che appartiene ad altro oggetto: non si dice, ad esempio, che il dormire sia proprio dell’uomo, neppure nel caso che per un certo tempo possa appartenere unicamente ad esso. (...) È chiaro pertanto che nessuna delle proprietà che possano appartenere ad altri oggetti è convertibile : se un [ti] dorme, non è infatti necessario che sia un uomo (102a 18-30).

13 Traduzione di Colli: «è proprio dell’uomo l’essere suscettibile di apprendere la grammatica: se infatti un oggetto è un uomo, esso è suscettibile di apprendere la grammatica, e se è suscettibile di apprendere la grammatica, è un uomo». La traduzione di Colli non è un’eccezione.

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Se la nostra analisi è corretta, la proposizione delle righe 16a 6-7 dovrebbe così essere intesa: Sono le stesse per tutti gli uomini le operazioni logico-cognitive [tau¬tà pâsi paqämata tñv yucñv] di cui unità vocali [fwnaí] e grafiche [grámmata] sono i naturali segni fisiognomici [shmeîa pråtwv]. 4. La necessità condizionata dei corpi Le ricerche del De Anima, De Partibus Animalium, Historia Animalium sui sistemi bio-cognitivi delle varie specie animali, quella umana compresa, sono condotte all’interno dello schema logico-fisiognomico tratteggiato nell’ultimo capitolo degli Analytica Priora. L’ideaguida è che le modalità specie-specifiche dell’anima di ciascun animale non sono separabili da una adeguata morfologia somatica: «sembra che tutti i modi di essere dell’anima [tà tñv yucñv páqh] stiano insieme con un corpo » (DA 403a 16-17). A questa regola non sfugge nemmeno il pensiero umano [tò noeîn]: «se il pensare è un tipo di rappresentazione [fantasía tiv] e, comunque, non sussiste senza una rappresentazione, allora anche il pensare non è possibile senza un corpo » (403a 8-10). Considerazioni logico-epistemologiche (a quali condizioni e con quali schemi logici possiamo conoscere i processi generativi naturali) e più tradizionali problematiche relative al rapporto anima/corpo concorrono a formare il retroterra teorico entro cui viene condotta l’indagine logica del De Interpretatione. Riprendiamo la teoria aristotelica (già anticipata in varie parti di questo saggio) del corpo e dell’anima. Cos’è un corpo per Aristotele? Possiamo prendere come punto di avvio la definizione del De Anima 413a 2: tò dè søma tò dunámei o¢n. Letteralmente: «il corpo è ciò che è in potenza» oppure «il corpo è ciò che è capace di fare». La traduzione, non letterale ma fedele allo spirito della filosofia aristotelica, che proponiamo è: il corpo è un insieme di capacità specifiche. Le attività che un corpo è capace di svolgere formano per Aristotele l’anima di quel corpo. «Una definizione comune a ogni genere di anima è: primaria attività protesa verso un fine di un corpo naturale dotato di organi [e¬nteléceia h™ pråth såmatov fusikoû o¬rganikoû]» (412b 4-6). «L’anima è la primaria attività protesa verso un fine [e¬nteléceia] di un corpo naturale ca145

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pace di vivere: il corpo in tal caso è dotato di organi [o¬rganikón]. Anche le parti [tà mérh] delle piante sono organi ma estremamente semplici» (412a 27-b 1). Gli esempi che accompagnano la definizione consentono di capire meglio il concetto. Se l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista: questa è la sostanza dell’occhio rispetto alla sua definizione. L’occhio è la materia della vista: quando essa viene meno non c’è più l’occhio tranne che per omonimia come nel caso dell’occhio di pietra o disegnato. (…) L’anima è attività orientata a un fine [e¬nteléceia] come la vista e la capacità dell’organo-strumento [h™ dúnamiv toû o¬rgánou]: il corpo è ciò che è capace di fare [tò dè søma tò dunámei o¢n]. Come l’occhio è pupilla e vista così l’animale è anima e corpo (DA 412b 18-413a 3).

L’apparato esplicativo «ANIMA (= insieme, finito o infinito ma chiuso, delle azioni possibili) // CORPO (= insieme degli organi materiali che rendono eseguibili le azioni possibili)» è estendibile anche alla definizione dei corpi non naturali: «se l’ascia fosse un corpo naturale, la sua sostanza sarebbe ciò per cui l’ascia esiste [= l’attività del fendere] e ciò sarebbe per l’appunto la sua anima; se poi venisse separata da questa anima-attività sarebbe ascia solo per omonimia» (412b 11-15). Anima, attività e sostanza coincidono: «La sostanza è attività finalistica [e¬nteléceia] ed è attività di questo determinato corpo» (412a 21-22). L’anima-attività di un corpo è anche il fine rispetto a cui il corpo esiste come corpo: Poiché ogni organo-strumento esiste in funzione di un fine, ciascuna parte del corpo esiste anch’essa in funzione di un fine e il fine è un determinato agire, è chiaro che il corpo nel suo complesso [tò súnolon søma] sussiste in funzione di un agire composito [práxeåv tinov eçneka polumeroûv]. In effetti non è il segare ad esistere in funzione della sega, ma è la sega ad esistere in funzione del segare: il segare è un determinato uso . Così il corpo esiste in un certo modo in funzione dell’anima e ciascuna sua parte in funzione delle opere che per natura deve svolgere (DPA 645b 14-20).

Tra anima-attività-fine e corpo esiste una relazione di adeguatezza necessaria che Aristotele chiama «necessità condizionata [a¬nágkh 146

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e¬x u™poqésewv] »14. È la legge generale che regola tutti i processi generativi, naturali e artificiali, ed è così formulata: «se questo deve essere il fine, necessariamente queste altre cose dovranno realizzarsi [ei¬ e¬keîno e¢stai tò ou© eçneka, taûta a¬nágkh e¬stìn e¢cein]» (642a 33-34). Anche in questo caso gli esempi sono illuminanti: «se bisogna rompere qualcosa con l’ascia, allora essa deve necessariamente essere dura e, se è dura, deve essere o di bronzo o di ferro. Similmente, se il corpo è uno strumento (ossia, ciascuna sua parte e la loro totalità è in funzione di un fine) è necessario, se almeno dovrà essere quel determinato strumento, che sia fatto in quel modo e formato da quelle parti» (642a 9-13). Le attività o anime non sono identificabili coi corpi ma non sono nemmeno isolabili dai corpi con cui quelle attività possono essere svolte: È corretta l’opinione di quanti ritengono che l’anima non esista senza il corpo né sia un corpo. In realtà non si identifica col corpo ma è qualcosa che appartiene al corpo [såmatov dé ti]. Essa esiste in un corpo, ed anzi in un corpo di una determinata specie e non come credevano i nostri predecessori che la facevano entrare nel corpo senza determinare la natura e la qualità di esso, benché non si verifichi mai che una cosa qualunque accolga una cosa qualunque. Ed è ragionevole che così avvenga giacché l’attività di ciascuna cosa si realizza per sua natura in ciò in cui sussiste questa possibilità e nella materia appropriata [e¬n tñı oi¬keíaı uçlhı] (DA 414a 20-27).

C’è una parentela tra la necessità condizionata e il sillogismo fisiognomico o segnico di prima figura. Entrambi vengono usati per spiegare il tipo di necessità che lega una determinata configurazione del corpo e determinate capacità con cui una specie vivente ha commercio col mondo. «Chiamo ‘necessità condizionata’ : se esiste un animale che ha una propria natura specifica, allora necessariamente debbono sussistere in esso alcune e, se sussistono queste, ne debbono sussistere anche altre» (DSV 455b 26-28). Si tratta di un principio esplicativo molto potente usato – vedremo – anche per indagare la natura del linguaggio. 5. Asimmetria circolare delle necessità naturali Degli aspetti logici della «necessità condizionata da un fine da raggiungere» Aristotele si occupa sia negli Analytici e nella Physica sia nelle opere biologiche. Il nucleo argomentativo è così formulabile: Dati due eventi, X e Y, successivi l’uno all’altro (ossia tali che X accade prima di Y e Y accade dopo X), la relazione che lega X a Y è debole e non necessaria, quella che lega Y a X è forte e necessaria. In parole più semplici: se accade X, Y potrebbe anche non accadere; se invece accade Y, X non può non essere accaduto. Riportiamo la formulazione che del principio danno gli Analytica Posteriora: Nel caso in cui non ci sia simultaneità della causa e dell’effetto, è forse possibile, come in apparenza sembra, che in un tempo continuo un evento possa essere causa di altri eventi? Cioè che un evento già accaduto sia causa dell’accadere di un altro evento pure accaduto, un evento che accadrà sia causa di un altro evento che dovrà pure accadere, un evento che è già accaduto sia causa di un evento che sta per accadere? In verità però, il sillogismo è svolto a partire dall’evento posteriore (sebbene principio [a¬rcä] di tali eventi siano eventi più remoti). Lo stesso vale per gli eventi che stanno per accadere. non può svolgersi a partire dall’evento che accade prima e concludere che, dal momento che questo evento è accaduto, allora anche questo evento successivo è pure accaduto. Lo stesso vale per gli eventi futuri (95a 24-31).

La catena argomentativa del sillogismo – sta spiegando Aristotele – deve svolgersi a partire dagli esiti finali dei processi e non dalle loro condizioni iniziali: sono i risultati che decidono quali eventi sono stati cause necessarie alla loro realizzazione mentre gli eventi che accadono o sono già accaduti non ci informano con certezza di quali altri eventi successivi saranno necessariamente cause. La spiega148

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zione sillogistica non procede dalle cause agli effetti ma dai fini realizzati o da realizzare (causa finale) alle procedure (causa efficiente) e alle materie (causa materiale) che consentono di attuare quei fini. L’apparato esplicativo è rappresentabile in questo modo: necessità

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