Linguaggio e natura umana 8815067183, 9788815067180

Alla fine degli anni '50 l'approccio linguistico comportamentista venne sfidato da Chomsky, che dimostrò come

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Linguaggio e natura umana
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Ray Jackendoff Linguaggio e natura umana

il Mulino Collezione di Testi e di Studi

Ray Jackendoff

Linguaggio e natura umana Apparentemente, l’acquisizione di una lingua è un processo del tutto naturale, come ci mostrano i bambini, ma una volta che lo si analizzi più da vicino esso presenta una serie di problemi e implicazioni sulla natura della mente assai complessi. L’autore, seguendo la tradizione della teoria ge ne rativa chomskiana, ipotizza che il linguaggio sia im m agazzinato nel cervello sotto forma di strutture inconsce, una sorta di «gram m atica mentale» che va a interagire con l’ambiente esterno. Tale ipotesi comporta sia una dimensione naturale sia una dimensione culturale nell’acquisizione di una lingua. E le altre abilità deil’uomo? Secondo Jackendoff esse hanno un funzionamento analogo a quello del linguaggio: anche per la visione, l’ascolto musicale o la capacità di avere relazioni con altre persone sì può pensare a una specializzazione di base innata che interagisce con la cultura di appartenenza. Ciò che l’autore propone in queste pagine è dunque un ampliamento, quanto mai ricco di implicazioni, della linguistica ad altri ambiti: alla psicologia del linguaggio, alla filosofia della mente, alla scienza cognitiva. Rav Jackendoff insegna Linguistica nella Brandeis University.Tra le sue opere il Mulino ha pubblicato in edizione italiana «Semantica e cognizione» (1989) e «Coscienza e mente computazionale» (1990).

per Amy e Seth

Ray Jackendoff

Linguaggio e natura umana

Società editrice il Mulino

Indice

Prefazione

p.

7

PARTE PRIMA: GLI ARGOMENTI FONDAMENTALI I.

L a questione natura/cultura

II.

L ’argomento a favore della grammatica mentale

III.

L ’argomento a favore della conoscenza in-

13 19 35

PARTE SECONDAI l ’organizzazione DELLA GRAMMATICA IV.

Un quadro d ’insieme

59

V.

L a struttura fonologica

77

VI.

L a struttura sintattica

VII.

L a lingua dei segni americana

93 117

PARTE terza: prove a favore di un fondamento bio­ logico DEL LINGUAGGIO V ili.

Com e i bambini imparano il linguaggio

139

IX.

L ’acquisizione del linguaggio in circostan­ ze insolite (1)

155

X.

L ’acquisizione del linguaggio in circostan­ ze insolite (2)

X I.

Linguaggio e cervello

PARTE quarta: CAPACITÀ MENTALI DIVERSE DAL LIN­ GUAGGIO X II.

L ’argomento a favore della costruzione dell’esperienza

X III.

L a musica e la percezione visiva

X IV .

Il linguaggio come finestra sul pensiero

XV .

L a struttura sociale

Bibliografia

Prefazione

Nella prim a metà del nostro secolo, secondo la concezio­ ne predominante, specialmente tra gli psicologi americani, la mente è stata considerata soltanto come un prodotto del­ l’ambiente. Secondo quest’idea «com portam entista», i bam ­ bini vengono al m ondo senza sapere praticamente nulla e, guidati da premi e punizioni provenienti dall’ambiente, im­ parano quelle com plesse associazioni che determinano le strutture (patterns ) 1 del loro comportamento una volta rag­ giunta l’età adulta. Inoltre, sostenevano i comportamentisti, un’impostazione veramente scientifica deve eliminare ogni discorso misticheggiante sulle «m enti» e i «pensieri»; l’oggettività in senso stretto impone di limitarsi alla descrizione del comportamento. Una sfida a questa concezione venne lanciata alla fine degli anni ’50, quando Noam Chomsky, allora giovane lin­ guista del M assachusetts Institute o f Technology (MIT), pubblicò prim a Le strutture della sintassi, poi, di h a poco, un’aspra critica al manifesto comportamentista di Burrhus F. Skinner: Il comportamento verbale. Chomsky dimostrava che il comportamento linguistico dell’uomo si può spiegare sol­ tanto in termini di principi complessi, operanti nella mente del parlante - principi che non possono essere acquisiti con i semplici meccanismi di associazione postulati dai com porta­ mentisti. N el far questo, Chomsky aderiva espressam ente a una tradizione di pensiero «razionalista» risalente a Cartesio; una tradizione che, in effetti, si era mantenuta viva all’in-

1 II termine «pattern» verrà reso prevalentemente con «struttura», an­ che se in alcuni contesti verranno preferiti i termini «schema» o «configu­ razione» IN.d.T).

tem o della psicologia europea anche durante il periodo comportamentista in America. L ’opera di Chomsky fu una delle prime tappe di quella che poi prese il nome di «rivoluzione cognitiva». Accanto al­ la psicologia cognitiva e aU’intelligenza artificiale, la lingui­ stica generativa chomskiana impresse nuovo vigore allo stu­ dio della mente, un vigore tuttora presente nella scienza cognitiva e nelle neuroscienze. Oggi, la mente (o la «mente/cervello», come spesso si dice) viene generalmente vista come un complesso meccanismo di elaborazione del­ l’informazione, una specie di computer biologico, costituito da numerose parti specializzate in particolari compiti - un bel passo avanti rispetto alla semplicistica concezione del comportamentismo! Anzi, è diventato possibile (oltre che di moda) fare ricerca su quelli che erano frutti proibiti, come le immagini mentali e la coscienza. H o scritto questo libro perché, malgrado l’influenza che la linguistica generativa ha avuto sullo studio della mente e del cervello, le sue idee guida non sono ancora diventate di dominio comune. Avendo passato un quarto di secolo im­ merso nella ricerca che si fonda su queste idee e quasi altret­ tanto a trasmetterle agli studenti universitari, mi è sembrato che valesse la pena tentare di comunicare la mia passione e quella dei miei colleghi a un pubblico più vasto. Forse si tratta soltanto della presunzione egocentrica di uno speciali­ sta, ma il fatto è che amo questa materia e sono arrivato a pensare che dovrebbe far parte del bagaglio intellettuale di ogni persona istruita. I fondamenti concettuali della lingui­ stica sono tanto entusiasmanti quanto i fondamenti dell’evo­ luzione, della genetica, della cosmologia, della teoria del caos e dell’elettrodinamica quantistica - e forse lo sono an­ che di più, in vista di quel che ci dicono sulle parti più na­ scoste di noi stessi. Nella stesura di quest’opera ho drasticamente condensa­ to la_ massa di intricate questioni che sono divenute il pane quotidiano del linguista, senza rinunciare al tentativo di co­ municare il «sapore» delle ricerche recenti. Nel selezionare il materiale, mi sono reso conto (con piacere) che buona par­ te delle indagini in corso conferma e amplifica in m odo stu­ pefacente molte delle ipotesi e delle analisi ormai classiche, di venti, venticinque anni fa. In vista di ciò, piuttosto che de­

scrivere le cose in ordine storico, ho trovato più interessante dare un quadro generale di come le cose stanno a l giorno d'oggi , sfruttando l’intreccio di risultati nuovi e meno nuovi. L o scopo che mi prefiggo è quello di offrire al lettore la possibilità di entrare in contatto con le idee della linguistica m oderna, senza dover entrare in particolari dettagli tecnici. Spero che questo lavoro possa essere apprezzato dalle perso­ ne interessate e dagli studiosi che operano in cam pi affini, ma spero pure che possa servire come lettura com plem enta­ re per i corsi universitari di linguistica, scienza cognitiva, p si­ cologia del linguaggio e filosofia della mente. Ringrazio i colleghi che mi hanno aiutato in questo progetto: Ben Bahan, Ursula Bellugi, Derek Bickerton, Daniel Btiring, Noam Chomsky, Leda Cosmides, Susan Curtiss, Dan Dennett, Alan Fiske, Susan Goldin-Meadow, Roberta Golinkoff, Myrna Gopnik, Morris Halle, Katharina Hartmann, Gregory Hickok, Judy Kegl, Marcel Kingsbourne, Steve Kramer, Fred Lerdahl, Joan Maling, Elissa Newport, John Tooby, Denise Umans, Moira Yip, e infine Edgar Zurif. Tutti sono stati prodighi di informazioni e hanno di­ scusso con me numerose questioni relative alle rispettive aree di specializzazione, colmando lacune nelle mie conoscenze, correg­ gendo con decisione certe mie formulazioni inappropriate e in molti casi offrendo consigli che mi sono stati d’aiuto per quanto ri­ guarda l’articolazione complessiva dell’opera. Altrettanto impor­ tanti sono stati i commenti e i suggerimenti che ho ricevuto da non specialisti: Steve Umans, David Aaron, George Yip, mio padre Nathaniel, mio fratello Sim e specialmente mia moglie Elise, il cui costante incoraggiamento ha mantenuto viva in me l’idea che il li­ bro fosse necessario. Dovrei anche ringraziare i miei studenti alla Brandéis University, che nel corso degli anni mi hanno non solo aiutato a scorgere che cosa funziona e cosa no, ma, col loro entu­ siasmo per le idee qui esposte, mi hanno anche spinto a scrivere il libro. Quali che siano le riserve che tutte queste persone possano nutrire sul risultato finale, per parte mia non ho alcuna esitazione a riconoscere l’importanza del ruolo che hanno avuto in questa im-

Parte prima

Gli argomenti fondamentali

Capitolo primo

La questione natura/cultura

Perché siamo come siam o? Siamo nati così o siam o il prodotto del nostro ambiente? N on potrem mo anche essere il risultato di una qualche mescolanza di entrambi i fattori? Sono questi gli interrogativi di base di qualunque ricerca sul­ la natura umana, interrogativi che possono essere interpreta­ ti in vario modo. Il più delle volte, mi sem bra, la gente tende a pensare a «com e siamo fatti» in termini di differenze individuali: la «natu ra» di un singolo viene vista come una questione di metabolism o o d ’intelligenza, se non di personalità. Che cosa fa essere una persona grassa e un’altra magra, una socievole o un’altra timida, una portata per la matematica e un’altra per l’arte? Avrebbero potuto essere diverse da come sono se fossero cresciute in maniera diversa? Quali sono le cose che possiam o cambiare di noi stessi e quali siamo destinati a te­ nerci? U n’altra frequente interpretazione di «com e siamo fatti» viene espressa in termini di differenze tra gruppi. L e persone potrebbero differenziarsi per l’intelligenza, il com portamen­ to sociale o le qualità morali, in base alla razza, al genere (se maschi o femmine) o alla cultura? E , se differenze simili esi­ stono, sono prodotte dall’ereditarietà o dall’ambiente? Fin troppo spesso, le supposte differenze ereditarie tra gruppi sono state usate per giustificare repressioni e poi «avvalora­ te» con prove pseudoscientifiche. Per il momento, vorrei li­ mitarmi a osservare che semmai tali differenze dovessero esi­ stere, non fornirebbero un fondamento, né scientifico né morale, per alcuna repressione. L e principali questioni concernenti la natura umana che intendo esaminare in questo libro si pongono al livello della specie: che cosa fa sì che gli esseri umani siano così come

sono? In che cosa siamo diversi dagli animali? Com e mai sia­ mo simili ad altri animali e siamo diversi dai com puter? Al fine di determinare che cosa ci fa essere così come sia­ mo, occorre innanzitutto che prestiamo attenzione a come realmente siamo fatti. Se vogliamo valutare quanto compete alla natura e quanto alla cultura - e quanto di noi stessi sia­ mo capaci di modificare - è opportuno farsi un’idea migliore di ciò che si può ascrivere alla combinazione di natura e cul­ tura. In quest’opera intendo utilizzare il linguaggio umano come spia proprio per arrivare a capire «com e siamo fatti». Ci sono due ragioni per la scelta del linguaggio come no­ stro punto di riferimento. In primo luogo, il possesso del lin­ guaggio è sempre stato considerato come una delle maggiori differenze tra noi e le altre specie animali; perciò, è impor­ tante evidenziare con esattezza che cos’è che noi abbiamo e loro no. (Vedremo nel prossimo capitolo in che modo il lin­ guaggio differisca da altri tipi di comunicazione tra gli ani­ mali.) In secondo luogo, e questa è p er m e la ragione più im­ portante, la moderna indagine sul linguaggio ha rivelato che la complessità della mente va ben oltre ciò che si poteva sol­ tanto immaginare trent’anni fa: una complessità che risulta da prove (e ha implicazioni) concernenti aree così disparate come la neuroscienza, lo sviluppo infantile, la filosofia e la critica letteraria. D i conseguenza, un’attenta comprensione del linguaggio offre l’opportunità di integrare concezioni biologiche e umanistiche su «com e siamo fatti». Come potremmo riuscire nell’intento di mostrare che il linguaggio ha a che fare con questioni concernenti la natura umana? Un modo consiste nel chiederci: «C om ’è influenzata l’esperienza umana dal fatto che possiamo parlare e capire una lingua?». Immediatamente si presentano alla nostra at­ tenzione un certo numero di risposte. È del tutto palese che possiam o accedere alla storia grazie al linguaggio: i nostri avi ci hanno tramandato, attraverso documenti scritti o median­ te la tradizione orale, testimonianze di quel che è successo prima della nostra nascita. Oltre che alla storia, ci troviamo di fronte anche a un progressivo accumularsi, nella cultura, di tecnologie, visioni del mondo e riti, per non menzionare sistemi legali, messaggi propagandistici, pettegolezzi e scher­ zi. Si potrebbe trasmettere ben poco di tutto ciò senza il lin­ guaggio.

U n’altra funzione del linguaggio consiste nel rendere possibile la coordinazione delle azioni di grandi m asse di persone. L ’allarme lanciato da un uccello può far sì che un intero storm o si levi subito in volo. M a le persone possono comunicare le informazioni più varie, com e «Q uan do do il segnale, tutti voi tirate le corde, voi le lasciate andare e gli al­ tri ragazzi laggiù spingono a tutta forza». Senza il linguaggio, è difficile immaginare questo tipo di azione guidata e coordi­ nata, necessaria al fine, per esem pio, di costruire grandi edi­ fici, che sono un segno distintivo delle civiltà avanzate. T ra i vantaggi che l’aver a disposizione il linguaggio ci conferisce, quello che forse viene più spesso menzionato consiste nel fatto che ci mette in grado di pensare. Per quan­ to in quest’idea ci sia una buona parte di verità - non vi è dubbio che il linguaggio sia di enorme aiuto ad affinare certi tipi di pensieri - , dovremm o essere un p o ’ più cauti nell’accoglierla in tutto e per tutto. D a un lato, è probabile che non vorremmo negare la capacità di pensare ad almeno alcuni animali. D ’altro lato, non tutto il pensiero «um ano» richiede il linguaggio. Ci vollero dei pensieri perché Beethoven e Pi­ casso producessero i loro capolavori? (Direi di sì.) Ci volle il linguaggio? (Direi di no.) Qualunque sia la relazione precisa fra linguaggio e pen­ siero, resta innegabile che l’esistenza umana è profondam en­ te influenzata dall’abilità di parlare e capire il linguaggio. In questo libro, però, vorrei sollevare un quesito diverso circa il rapporto che lega il linguaggio alla natura umana: «Q uali caratteristiche deve avere la natura umana perché si possa dar conto del fatto che tutti quanti siamo in grado di parlare e capire una lingua?». Vorrei, cioè, discutere non tanto le conseguenze del fatto di avere un linguaggio, quanto i prerequisiti per l’esistenza del linguaggio stesso: che cosa è necessario per esser in grado di parlare? Si tratta di un quesito cui è diffìcile fornire una risposta plausibile. O meglio, le risposte che vengono in mente per prime risultano tutt’altro che convincenti. Per esempio, una possibile risposta consiste nel dire: possediam o il linguaggio perché abbiamo un cervello più grande degli (altri) animali. M a bisogna specificare meglio: dopotutto, ci sono altri ani­ mali con grandi cervelli (elefanti e balene hanno cervelli più grandi dei nostri, e inoltre il cervello di certi delfini è più

grande del nostro in proporzione alla m assa del corpo). M a essi non hanno il linguaggio - o se ce l’hanno, non somiglia per nulla a quello umano. È naturale pensare che un cervello grande ci renda più intelligenti, e che l’apprendimento del linguaggio ne sia una conseguenza. M a sotto quali aspetti un cervello grande ci rende più intelligenti? Com e vedremo, non è così ovvio sta­ bilire in che m odo l’intelligenza, di per sé, renda possibile il linguaggio. In effetti, c’è una difficoltà di fondo nella spiegazione che si appella semplicemente alle dimensioni cerebrali. Per il momento la si può formulare così: non sempre si può ricava­ re ima nuova funzione da un meccanismo limitandosi ad ag­ giungere altri pezzi dello stesso tipo. Per fare un esempio b a­ nale: non potete riuscire a far volare la vostra auto aggiun­ gendo più cilindri al motore o più marce alla trasmissione, e neanche aumentando il numero delle ruote o allargando i fi­ nestrini. L a sua attuale funzione di trasportarvi comodamen­ te sulle strade può essere migliorata in vari modi, ma quella ferraglia non ne vuol proprio sapere di staccarsi dal suolo. Per farla volare occorrerebbe qualche tipo d ’innovazione strutturale, come l’aggiunta di ali o di un rotore da elicotte­ ro. Un tema di fondo in questo libro è che la stessa cosa vale anche per il cervello e il linguaggio: espandere il cervello di una scimmia fino a fargli raggiungere le dimensioni del no­ stro non la metterebbe ancora in grado di parlare. Oltre alle dimensioni, ci deve essere qualche differenza nel modo in cui il nostro cervello è organizzato. Per il momento, la cosa principale è renderci pienamente conto di quanto difficile sia il problema che abbiamo di fronte. Il fatto che noi possiamo parlare (a differenza dei gat­ ti) sembra così ovvio che non merita neppure ricordarlo; ma il semplice fatto che sia ovvio non vuol dire che sia facile da spiegare. Consideriamo, per esempio, un altro ben noto fe­ nomeno, che a prima vista sembra altrettanto ovvio: il fatto che i metalli diventano rossi quando li riscaldate a sufficien­ za. Perché succede questo? Le cose potrebbero anche anda­ re diversamente: i metalli potrebbero benissimo diventare verdi o non cambiare affatto colore. È un fenomeno sempli­ ce, facilmente osservabile, ma la spiegazione non è semplice per nulla. Sappiamo che per spiegare questo fenomeno oc­

corrono niente m eno che la teoria della radiazione elettromagnetica e la m eccanica quantistica: due delle scoperte in­ tellettualmente più sconvolgenti del nostro secolo. L a stessa cosa, vorrei suggerire, si verifica con l’abilità umana nell’adoperare il linguaggio. I parametri basilari che stanno a fondam ento di una teo­ ria della capacità linguistica furono individuati da Noam Chom sky tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60. C hom ­ sky può esser considerato a buon diritto il creatore della m o­ derna teoria linguistica (e al m omento in cui scrivo continua a fare ricerche pionieristiche). Questi parametri possono es­ sere presentati com e i due «argom enti fondam entali». Per darvi una prim a idea della direzione in cui ci muoveremo, consentitemi di formularli in forma sintetica: L ’argomento a favore della grammatica mentale. La varietà espressiva dell’uso linguistico implica che il cervello di chi impiega il linguaggio contenga principi grammaticali inconsci. L ’argomento a favore della conoscenza innata. II modo in cui i bambini imparano a parlare implica che il cer­ vello umano abbia una specializzazione, geneticamente determina­ ta, che è finalizzata al linguaggio. Questi due argomenti portano alla conclusione che l’abi­ lità di parlare e di capire una lingua umana (come, per esem ­ pio, l’italiano) è una com plessa miscela di natura e cultura. Inoltre, il contributo della natura com porta qualcosa di più che un cervello voluminoso: è un adattam ento specificam en­ te umano, finalizzato all’apprendimento e all’uso del lin­ guaggio. I prossim i due capitoli riguarderanno questi due argo­ menti fondamentali, mentre la seconda e la terza parte saran­ no dedicate a spiegare, precisare ed elaborare ulteriormente tali argomenti. La parte quarta inserirà gli argomenti fondamentali in un contesto più ampio. L ’interrogativo che qui vie­ ne sollevato è il seguente: «S e il cervello um ano contiene principi grammaticali inconsci e ha una specializzazione, ge­ neticamente determinata, che è finalizzata al linguaggio, quali implicazioni ne derivano per altri aspetti del comportamento e dell’esperienza um ana?». Vedrem o che il linguaggio è un

microcosmo rivelatore della mente nel suo com plesso - e ve­ dremo pure che caratteristiche analoghe emergono in attività fra loro tanto diverse come vedere, pensare, ascoltare musica e partecipare a eventi sociali. Nel corso del nostro itinerario, introdurremo un terzo argomento fondamentale, le cui con­ seguenze sono forse ancor più radicali di quelle dei primi due argomenti: L ’argomento a favore della costruzione dell’esperienza. La nostra esperienza del mondo è costruita attivamente dai principi inconsci che operano nel cervello. L ’intento di impostare questa trattazione imperniandola sugli argomenti fondamentali deriva dal fatto che, fra tutti i punti di partenza che conosco per avviare un’indagine sul linguaggio, tali argomenti motivano una serie di ricerche scientifiche che si spingono alla maggiore «profondità» p os­ sibile. D a un lato, come vedremo, questi argomenti ci co­ stringono a integrare le più diverse questioni, relative a una vastissima cerchia di temi e problemi. D all’altro, essi ci con­ sentono la massima penetrazione in questioni concernenti la natura umana in generale. Insomma: gli argomenti fondamentali ci mettono in grado di inquadrare 3 linguaggio al­ l’interno di un sistema integrato.

Capitolo secondo

L ’argomento a favore della grammatica mentale

1. La situazione comunicativa Iniziamo da una rappresentazione alquanto semplificata della situazione comunicativa (ovvero, di quel che succede quando una persona dice qualcosa a un’altra persona).

In questa rappresentazione (fig. 2.1), una certa configu­ razione di luce riflessa raggiunge gli occhi della persona a si­ nistra, che supponiamo si chiami Enrico. Com e risultato del­ l’attività che si verifica nel suo sistema nervoso, Enrico arriva a vedere l’albero che si trova nel m ondo esterno. Nel dise­ gno, per indicare l’albero rappresentato, abbiamo usato un albero in una nuvoletta (un «fum etto») all’interno della testa

di Enrico. Ovviamente, sappiam o che non ci sono nuvole o alberi nelle teste delle persone, e alla fine (vedi cap. 13) ci chiederemo che cosa succede davvero, ma per ora non ap ­ profondiremo la questione. Una volta che Enrico ha percepito un albero, può venir­ gli in mente che la parola «albero» descriva ciò che ha visto - cioè, la parola «albero» viene evocata dalla sua memoria. (Se invece E nrico parlasse in francese, piuttosto che in italia­ no, è chiaro che sarebbe la parola «arbre» a essere evocata.) Nel disegno questo fatto viene indicato dalla parola «alb ero» in u n’altra nuvoletta, nella testa di Enrico. D i nuovo, sappia­ mo bene che nella testa non ci sono nuvolette, ma per ora accontentiamoci di questo (ci torneremo nel cap. 4). Supponiam o che Enrico decida di dire qualcosa circa l’albero alla persona a destra nella figura, che chiameremo Sandro. Allora il sistema nervoso di Enrico farà sì che i suoi polm oni espellano aria, le corde vocali si distendano e la lin­ gua, le mandibole e le labbra compiano tutta una serie di evoluzioni. Come risultato di ciò, Enrico produce delle onde sonore che attraversano l’aria, colpendo gli orecchi di San­ dro, i suoi occhi, i mobili e quel che altro c’è. Tuttavia, a differenza degli occhi e dei mobili, gli orecchi di Sandro reagiscono a queste onde sonore attivando il suo sistema nervoso, di modo che egli giunge a percepire che Enrico ha pronunciato la parola «albero». Supponendo che anche Sandro parli italiano, è verosimile che il suo sistema nervoso produrrà un’immagine visiva di un albero - Sandro è in grado di farsi un’idea di ciò che Enrico vede, anche se, probabilmente, senza molti particolari. Questa pur esigua analisi di cose ovvie ha già messo in luce una notevole complessità. Ci sono molte componenti in questo semplice atto comunicativo e ciascuna di esse na­ sconde veri e propri enigmi. (Per esempio, che cosa c’è real­ mente nei cervelli di Enrico e Sandro, al posto delle nuvolet­ te? Quali precise evoluzioni compiono la lingua, le m andibo­ le e le labbra di Enrico? Cosa succede nell’orecchio di San­ dro?) E con ciò non abbiamo ancora colto a pieno la diffi­ coltà del problema. Supponiamo che Enrico voglia dire qualcosa di un po’ più interessante circa quel che vede, invece di limitarsi alla parola «albero». Ecco alcune cose che potrebbe dire (mette­

rò numeri e lettere davanti agli enunciati che fungono da esempi, in m odo da poterli richiamare in seguito): (1) b. c. d. e. f.

a. C ’è un uccello sull’albero. Ieri c’era un uccello sull’albero. Ci sono uccelli su quell’albero? Potrebbe esserci un uccello sull’albero. Agli uccelli piace quell’albero. Quell'albero somiglia a un uccello.

Questa volta, non è così facile fare un disegno con una nuvoletta che illustri ciò che Enrico ha in mente. Quali diffe­ renze possiam o tracciare nei rispettivi disegni per distingue­ re gli enunciati (la-d)? (Se cominciamo a inserire punti inter­ rogativi e a scrivere in un’immagine, è come truccare le car­ te: non è più un disegno e basta!) Quanto all’enunciato (le ), come facciam o a far vedere che agli uccelli piace l’albero, e non invece, banalmente, che ci svolazzano attorno in m assa? Se non altro, in tutti i casi considerati finora, l’immagine contiene sia un uccello sia un albero, quali che siano le altre cose che trascura. Ma cosa dire dell’enunciato ( l f) ? Quel che sem bra venir in mente è qualcosa come un albero a for­ ma di uccello. M a un’immagine del genere ha soltanto un oggetto che corrisponde a entrambe le parole - un’altra complicazione ancora. Questi esempi illustrano parte della varietà espressiva del linguaggio: il numero di cose diverse che possiam o dire com ­ binando le parole in modi diversi. Inoltre - e per più di un motivo - questa varietà espressiva non può essere veicolata da immagini, su di un foglio di carta o nella testa. Vale a di­ re, parti significative dei m essaggi linguisticamente espressi sono di carattere astratto, non sensoriale. Qui ci troviamo di fronte a un’importante differenza tra il linguaggio umano e una qualunque delle forme di com u­ nicazione animale. In realtà, molte specie animali si scam bia­ no reciprocamente informazioni. M a in nessuna delle specie animali che conosciamo - uccelli, api, balene, primati non­ umani, ecc. - è dato trovare un inventario di elementi simili a parole che si possano combinare e ricombinare in sempre nuovi m odi per esprimere nuovi m essaggi. Non ci sono elementi che indicano punti nel tempo («ieri»), desiderio di

essere informati («C i sono...?»), o possibilità («potrebbe»). Può darsi che certi animali dispongano di un modo per indi­ care i loro desideri o sentimenti, ma non possono esprimere quelli di un altro, come invece nell’enunciato «A gli uccelli piace quell’albero». N é i sistemi di comunicazione animale possono esplicitare somiglianze fra oggetti diversi, come nel­ l’enunciato «Q uell’albero somiglia a un uccello». Insom ma, benché spesso si parli genericamente della co­ municazione animale come di una specie di linguaggio, in realtà il m odo in cui comunicano gli animali presenta diffe­ renze profonde rispetto al modo in cui comunicano gli uomi­ ni. Per fissare bene questa distinzione adotterò il criterio di usare la parola «linguaggio» per indicare specificamente il «linguaggio um ano» (esemplificato da lingue quali lo spagno­ lo, il cinese, il navajo, ecc.) e userò il termine più generico di «com unicazione» per ogni mezzo tramite cui si veicolano in­ formazioni, comprendendovi sia il linguaggio sia i sistemi adoperati dagli animali. (Nel cap. 10 farò riferimento ad alcuni tentativi di insegnare un linguaggio umano alle scimmie.) 2. L ’argomento a favore della grammatica mentale: la varietà espressiva dell’uso linguistico implica che il cervello di chi impiega il linguaggio contenga principi grammaticali in­ consci La varietà espressiva del linguaggio fa da trampolino per il primo degli argomenti fondamentali. Qualsiasi essere umano normale è in grado di capire e di creare un numero indefinito di enunciati nella sua lingua madre. A parte emissioni verbali stereotipate come «C iao, come stai?» e «Per favore, puoi p as­ sarmi il sale?», la maggior parte degli enunciati che pronun­ ciamo nel corso della giornata sono enunciati che, nella loro interezza, non abbiamo mai sentito o pronunciato prima. La stessa cosa vale per la maggior parte degli enunciati che udia­ mo. Per esempio, dubito che prima d ’ora abbiate mai sentito o pronunciato uno degli enunciati che avete letto sulla pagina precedente. E ppure non incontrate alcuna difficoltà a capirli. Riflettiamo su che cosa può essere ciò che avviene nella vostra testa e che rende possibile tale comprensione. Nel p a­ ragrafo precedente abbiamo dato per scontato che Enrico e

Sandro siano in grado, all’occorrenza, di estrarre la parola «a lbero» dalla loro memoria. Si potrebbe dire lo stesso per interi enunciati? No. Il numero di enunciati che siamo capaci di usare è semplicemente troppo grande per immagazzinarli uno per uno. Proviamo a elencarli in qualche m odo stupido, tanto per darne un campione. Considerate la serie degli enunciati seguenti, tutti perfettamente comprensibili: (2)

Emilia ha mangiato due noccioline. Emilia ha mangiato tre noccioline. Emilia ha mangiato quattro noccioline. Emilia ha mangiato tremilionicinquecentonove noccioline.

Ci sono tanti enunciati in questa serie quanti numeri in­ teri positivi si possano nominare. Il più grande numero inte­ ro menzionato nel mio dizionario W ebster è il vigintillion (IO'’1 nell’uso francese e americano; IO120 in quello inglese e tedesco). D isponendo di tutti i numeri fino a questo, possia­ mo creare più enunciati nella serie (2) di quante particelle elementari ci siano nell’universo. M a consideriamo un altro m odo per costruire innumere­ voli enunciati. In una lingua come l ’italiano ci sono almeno alcune decine di migliaia di parole. Per essere economi, sup ­ poniamo di conoscerne diecimila (IO4). Costruiamo ora tutti gli enunciati che possiam o, mettendo nomi diversi al posto di x e y in «U n x non è un y». Eccone alcuni: (3)

Un numero non è un teschio. Un numero non è un piccione. Un numero non è un convento. Un teschio non è un numero. Un teschio non è un piccione. Un teschio non è un convento. Un convento non è un asilo. Un oboe non è un polpo.

Tutti gli enunciati elencati saranno assurdi quanto vole­ te, ma sono pur sempre enunciati dell’italiano. In complesso, avremo qualcosa come IO'1x IO1, cioè IO8 enunciati. A desso prendiam o delle coppie di tali enunciati e componiamole mediante «poich é», nel m odo che segue: Poiché un numero nion è un teschio, uii teschio non è unpiccione. Poiché un numero inon è un teschio, un teschio nc)n è un convento. Poiché un numero rlon è un teschio, im teschio non è u n a Poiché un numero r,on è un asilo, un teschio non è un con­

1èUn

Poidié un oboe noi

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numero non ,su n te-

E così di seguito, generando IO8 x IO8= IO16 enunciati as­ solutamente ridicoli. D ato che il numero complessivo dei neuroni nel cervello umano è dell’ordine di dieci miliardi (IO10), se si divide il numero degli enunciati per quello dei neuroni, si ottiene IO6, ovvero un milione di enunciati per neurone. Perciò sarebbe per noi impossibile immagazzinare tutti gli enunciati dell’italiano nel cervello, nell’improbabile eventualità che dovessim o impiegarli o capirli tutti quanti. Eppure avete or ora compreso una particolare lista di questi enunciati. E liste del genere non sono che una minuscola frazione degli enunciati che siete in grado di capire. Quali liste includono, per esempio, gli enunciati di questo capoin breve, è assolutamente impossibile che memorizziamo tutti gli enunciati che ci capita di sentire o che vogliamo im­ piegare - per non dire di quelli, così inverosimili, inclusi in (2), (3) e (4). D ’altra parte, siamo evidentemente preparati a riconoscerli: è come se sapessimo quali siano le possibilità che ci sono offerte dalla lingua. Il m odo in cui il cervello sembra conseguire questa varie­ tà espressiva consiste nell’immagazzinare non enunciati inte­ ri, bensì parole - con i loro significati - e certe configurazioni

o schemi (patterns ), in cui si possono disporre le parole. Per esem pio, è soltanto mediante l’uso di tali schemi che p ossia­ mo ragionevolmente immagazzinare insiemi di enunciati co­ me quelli esemplificati da (2), (3) e (4): lo schema degli enunciati in (2) è «Em ilia ha m angiato N noccioline»; quello per gli enunciati in (3) è «U n x non è un y»; e quello per gli enunciati in (4) è «Poiché un x non è u n y , uno z non è un w». Sulla scorta di tali schemi, più un elenco di parole da potervi inserire, possiam o specificare un gran numero di possibilità, a un costo minimo in termini di risorse di m em o­ ria. Inoltre, un sistema del genere è preparato alle novità: può riconoscere o creare, su due piedi, esempi conform i a un dato schema, a prescindere dal fatto che tali esempi siano già stati incontrati oppure no. Ma l’uso di questi schemi prefissati non basta ancora. Considerate l’elenco di enunciati in (5). (5)

a. Pietro pensa che Betty è davvero un genio. b. Maria sospetta che Pietro pensi che Betty è davvero un c. Carlo ha detto che Maria sospetta che Pietro pensi che Betty è davvero un genio. d. Giovanni crede che Carlo abbia detto che Maria sospetti che Pietro pensi che Betty è davvero un genio.

Q uesta serie d ’enunciati può esser continuata ad libitum - vale a dire, è davvero infinita. (Per esser più precisi, non c’è un enunciato che sia l’ultimo della serie, perché ne p os­ siamo sem pre costruire, per aggiunzione, un altro più lun­ go.) N e risulta che non possiam o specificare un unico sche­ ma per questa lista, come invece era possibile fare per le liste di enunciati esemplificate in (2)-(4). Adesso, ciascun enun­ ciato in (5) deve scaturire da un diverso schema e gli schemi in questione sono di lunghezza sem pre crescente. I primi tre di questi schemi sono mostrati in (6); l’espressione «verbo3s» sta per una qualunque delle parole «p en sa», «sosp etta», «sa », ecc. (alla terza persona singolare). 6 (6)

x verbo-3s che y è uno z. w verbo-3s che x verbo-3s che y è uno z. t verbo-3s che w verbo-3s che x Verbo-3s che y è uno z.

Possiam o immagazzinare tutti questi schemi nella nostra testa? Ancora una volta la risposta è «no», dato che per quanti ne mettiamo dentro, ce n’è sempre un altro più lun­ go. D ’altra parte, è chiaro che alla base c’è uno schema più elementare degli altri: dato un enunciato dichiarativo, p os­ siamo formare un altro enunciato dichiarativo anteponendo a esso « x verbo-3s che». Per esempio, possiamo applicare questo schema a uno qualunque degli enunciati in (2)-(4), ottenendo nuove classi di enunciati. Vediamone alcuni (ove uso il corsivo per marcare l’enunciato da cui s ’inizia): «P ie­ tro sa che Emilia ha mangiato due noccioline.» , «Eugenio si rende conto che un oboe non è un polpo», «Sim one sospetta che, poiché un teschio non è un convento, un asilo non è un anello», e così via. Possiamo riassumere questo schema nello schema espresso da (7). (7)

x verbo-3s che e. (Ove e sta per un qualsiasi enunciato dichiara-

Tornando alla successione di enunciati in (5), possiamo applicare (7) all’enunciato «Betty è davvero un genio», otte­ nendo «Pietro pensa che Betty è davvero un genio», cioè l’e­ nunciato (5a). E poi arriva il bello: possiamo inserire questo nuovo enunciato al posto di e nella formula (7), ottenendo «M aria sospetta che Pietro pensi che Betty è davvero un ge­ nio», cioè l’enunciato (5b); possiamo poi usare questo stesso enunciato come e in (7), il che ci dà «C arlo ha detto che M a­ ria sospetta che Pietro pensi che Betty è davvero un genio», e così via finché vogliamo. Ovverosia, si ottengono enunciati sempre più lunghi applicando sempre di nuovo la formula (7) ai risultati della sua stessa applicazione, in quel che si chiama un procedimento ricorsivo. Ciò che rende (7) diverso dagli schemi precedenti è che esso contiene in se stesso un altro schema: invece di limitarci a riempire con parole i posti vuoti (x, y, z, ...) di uno schema, vi inseriamo un altro schema, che nel caso in esame è un enunciato dichiarativo completo. Questo è un tipico esempio di ciò che incontriamo quan­ do s’indaga la varietà espressiva del linguaggio. Le successio­ ni in (8) e (9) ci mostrano due schemi aventi ancora altri schemi al loro interno; come in (5), possiamo procedere ap­ plicandoli ricorsivamente finché non ci stanchiamo.

(8)

a. Il padre di Umberto è un linguista. b. Il fratello maggiore del padre di Umberto è un linguista. c. Il miglior amico del fratello maggiore del padre di Um­ berto è un linguista. d. Il capoufficio del miglior amico del fratello maggiore del padre di Umberto è un linguista.

(9)

a. Questa è la casa che Jack costruì. b. Questo è il frigorifero che sta nella casa che Jack costruì. c. Questo è il formaggio che cadde dal frigorifero che sta nella casa che Jack costruì. d. Questa è la muffa che crebbe sul formaggio che cadde dal frigorifero che sta nella casa che Jack costruì.

In breve, al fine di poter essere in grado di parlare e ca­ pire enunciati sem pre nuovi, dobbiam o memorizzare non soltanto le parole della lingua che usiamo, ma anche le p ossi­ bili configurazioni di enunciati della nostra lingua. Q ueste, a loro volta, descrivono, oltre che configurazioni di parole, an­ che configurazioni di configurazioni. I linguisti si riferiscono a queste configurazioni come a regole linguistiche memoriz­ zate e indicano l’insieme com pleto delle regole com e la grammatica mentale della lingua data o, più semplicemente, la sua grammatica. La prova che abbiamo dato della varietà espressiva dell’i­ taliano, unitamente alle configurazioni ricorsive, può essere riproposta per una qualunque altra lingua parlata dall’uomo. Passando da una lingua a un’altra, le configurazioni partico­ lari che la grammatica mentale può assum ere sono soggette a cambiamenti, m a si possono sem pre trovare configurazioni con lo stesso tipo di com plessità ricorsiva. Sotto questo pro ­ filo, non c’è alcuna differenza tra le lingue delle società occi­ dentali contemporanee, quelle delle superstiti culture «p ri­ mitive» e quelle del lontano passato, ricostruibili grazie a fonti scritte. (U n’importante eccezione emerge con le lingue «pidgin», delle quali tratteremo nel cap. 10.)

3. Chiarimenti sulla nozione di grammatica mentale L a nozione di grammatica mentale immagazzinata nel cervello di un parlante è la principale acquisizione teorica della linguistica moderna. È importante, quindi, chiarirla nel m odo m igliore possibile, prima di procedere oltre. Così, vor­ rei impegnarmi in un breve dialogo con un immaginario scettico che ponga alcune fra le più comuni domande e obie«Perché dovrei credere che la mia testa contiene una gram matica? Tutto quel che faccio è capire gli enunciati in quanto hanno senso». D i rim ando, chiedo allo scettico: perché alcune com bina­ zioni di parole «hanno senso» e altre no? Ad esempio, se scambiamo due parole adiacenti negli enunciati (2)-(5), per form are sequenze di parole come in (10), ci rendiamo conto che gli enunciati risultanti non «hanno senso». (10)

Emilia ha due mangiato noccioline. Un numero non un è teschio. Pietro crede Betty che è un genio. «M a perché non hanno senso?» «B e’, questi sono enunciati che non ho mai sentito pri-

«Fai attenzione, però: neanche gli enunciati in (2)-(5) erano fra quelli che avevi sentito in precedenza, eppure, “hanno senso” (per quanto siano strampalati)». « E qual è la differenza?» «L a differenza è che mentre gli enunciati in (2)-(5) sono esempi di configurazioni note della lingua italiana, le strin­ ghe di parole in (10) non lo sono». Cioè, l’«avere senso» coinvolge, fra l’altro, il rispetto di certe strutture note; quindi, la grammatica mentale svolge pur un suo ruolo, in ultima analisi. Con questo non intendo suggerire che il rispetto delle strutture grammaticali - nel caso in esame, quelle dell’italia­ no - sia l’unico fattore coinvolto nell’«avere senso». Moltis­ simi enunciati si conformano alle strutture grammaticali del­ l’italiano e ciononostante non «hanno senso».

(11)

Incolori idee verdi dormono furiosamente. Pietro è trascorso tre volte questo mese. Sto imparando a memoria lo spartito della sonata che un giorno spero di comporre. Il raccolto si mostrò intelligente e fu d’accordo con te.

Senza dubbio, questi enunciati (tratti da scritti di C hom ­ sky) sono privi di senso. E ppu re sono grammaticalmente «ben form ati», come possiam o vedere sostituendovi una o due parole «sensate»: (12)

Grosse lucertole verdi dormono profondamente. Pietro è passato tre volte questo mese. Sto imparando a memoria lo spartito della sonata che un giorno spero di eseguire. Il vigile si mostrò intelligente e fu d’accordo con te.

Bisogna notare, invece, che, se scambiamo parole adia­ centi negli enunciati di (11) in m odo tale da renderli non «ben formati», il risultato è notevolmente peggiore: «In colo­ ri idee dorm ono verdi furiosam ente», «Pietro è tre trascorso volte questo m ese», ecc. In questo caso non si tratta tanto del fatto che gli enunciati posseggano significati strani: è che non si capisce affatto che significato abbiano. C osì, la gram ­ matica mentale sem bra entrare in gioco perfino in enunciati come (11), che pure non hanno senso. In effetti, siamo in grado di riconoscere le strutture tipi­ che dell’italiano anche se non tutte le parole sono vere paro­ le italiane: T ’amo, o pio gove e nife un crostimento di visture e di loce al cor m’infastri... Questi versi esemplificano ovviamente la stessa struttura dei versi seguenti, che contengono tutte parole vere, tratti dalla celebre poesia del Carducci:

T ’amo, o pio bove e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi... Ciò m ostra che le strutture stesse hanno una loro vita in­ dipendente, in varia misura, dalle parole che le esemplifica­ no. Infatti, se cominciate a scambiare a caso le parole nella versione modificata della poesia del Carducci, ancora una volta la struttura complessiva viene meno. «M a perché vuoi proprio parlare di una grammatica che avrei immagazzinata nella testa? Perché non potrebbe darsi semplicemente che io disponga di un complesso di abitudini che seguo nel parlare e nel capire l’italiano?» L a mia domanda-replica è: «Che cos’è un’abitudine, in ultima istanza?». È qualcosa di memorizzato che guida il comportamento in occasioni appropriate. Se il com porta­ mento «abituale» varia da un’occasione all’altra, così come succede nel caso del linguaggio, quel che è memorizzato fini­ sce per essere uno schema. Perché? Per la semplice ragione che il cervello non può contenere tutti i singoli esempi - e anche se potesse, non ci sarebbe motivo di indicare una si­ mile collezione arbitraria di comportamenti come un’«abitudine» unitaria. Non appena ci rendiamo conto che le abitudini stesse non possono esser altro che configurazioni memorizzate, non dovremmo aver difficoltà a riconoscere che anche le «abitudini» inerenti al parlare l’italiano comportano la memo­ rizzazione delle configurazioni proprie di questa lingua. In altri termini: asserire che la nostra conoscenza dell’italiano si riduce a una sorta di abitudine non elimina la necessità di possedere, nella nostra testa, una qualche grammatica. «Che cosa dire, allora, di persone che parlano in modo sgrammaticato e dicono cose come “Ragazze così, no, cioè noi non se n’è imbroccate più nessuna” ? Forse queste perso­ ne non avrebbero grammatiche nella loro testa?» Questo problema mette in luce un’importante differenza fra l’uso ordinario del termine «grammatica» e la «gram m a­ tica mentale» come costrutto teorico dei linguisti. Nell’uso ordinario, «gram m atica» si riferisce a un insieme di regole insegnate a scuola che ci dicono come bisogna parlare per

conformarsi alle norme della buona società (per intenderci, la classe media istruita). L a «b uona gram m atica» ha da ecce­ pire sull’uso di «noi non se n’è», su «im broccare» invece di «con oscere» e sull’uso di negazioni ripetute; un m odo «c or­ retto» di riformulare l’enunciato precedente potrebbe esse­ re: «N on abbiam o più avuto m odo di stabilire una “relazio­ ne” con alcuna ragazza del genere», oppure «N o n si è più presentata l’o pportunità di...». Nel senso «scolastico» di grammatica, perciò, parlare in m odo sgram maticato è una violazione di una norma sociale, quasi come sputare in p u b ­ blico. Il concetto di «gram m atica m entale» fornisce una diver­ sa prospettiva sull’intera questione. L a grammatica mentale che abbiam o nella testa è ciò che ci consente di combinare parole in enunciati. C osì, essa deve specificare, oltre a quali configurazioni siano socialmente ammissibili e quali no, tut­ te quante le strutture del linguaggio. Il che com prende alcu­ ne configurazioni che sono ben più fondamentali di quelle che ci sono state insegnate a scuola; per esempio, la regola che il soggetto precede il verbo, o che l’articolo precede il nome («la ragazza», invece di «ragazza la»); ma comprende anche strutture che sono molto più com plesse di quelle inse­ gnateci a scuola, come avremo m odo di vedere nei prossim i capitoli. Che cosa possiam o dire, allora, delle persone che non parlano un «italiano corretto»? Basta un attimo di riflessione per accorgersi che anche i loro discorsi hanno una forma coerente. Neppure chi dice «Ragazze così, no, cioè noi non se n’è imbroccate più nessuna» arriva a produrre m ostruosi­ tà come «p iù se imbroccate n’è non noi ragazze» o «nessuna più imbroccate n’è se non ragazze noi»; le loro parole hanno invece un ordine ben determinato. E , in m odo ancor più sot­ tile, un parlante del genere non sostituirà il termine «con o ­ sciute» (ritenuto corretto) al posto di «im broccate», dicendo «D i strade giuste, da quando siamo arrivati in città, non ne hai conosciute nessuna». Cioè, esistono principi che gover­ nano anche l’uso dell’italiano «scorretto», nonostante esso violi i canoni della grammatica scolastica. Questo significa che neppure a parlanti simili manca una grammatica mentale; essi hanno semplicemente una gram ­ matica mentale che è leggermente diversa da quelle di chi

parla un italiano «corretto». Mettendo da parte la questione dell’approvazione sociale, la situazione è esattamente ana­ loga alla differenza tra il lombardo e il siciliano (o tra l’in­ glese parlato in G ran Bretagna e quello parlato in America). I parlanti di questi diversi «dialetti» hanno grammatiche mentali leggermente diverse, cosicché le configurazioni che essi producono non coincidono affatto. Di conseguenza, l’u­ no suona alquanto «esotico» (e perfino improprio) per chi usa l’altro. In breve, anche se il mio immaginario critico volesse de­ plorare il linguaggio di certe persone dal punto di vista della grammatica scolastica, sarebbe arduo negare che anche que­ ste persone hanno in sé ima grammatica mentale che gover­ na le forme dei loro discorsi. «Q uan do parlo, il discorso vien fuori e basta: non sto lì a consultare nessuna “grammatica nella testa” . Se faccio caso a quel che ho in testa, può anche darsi che trovi qualche resi­ duo di grammatica scolasdca, ma tu stai cercando di dirmi che la grammatica mentale va intesa in maniera diversa. E al­ lora che c o se ?» Dare una risposta a questo interrogativo è quanto di più problematico ci sia. Le cose stanno come segue: abbiamo già visto che una spiegazione della capacità linguistica esige che le strutture del linguaggio siano, in qualche modo, immagaz­ zinate nella nostra memoria. O ra ci troviamo di fronte al fat­ to, a quanto pare in conflitto col dato precedente, che la no­ stra memoria non ci manifesta alcuna struttura. Quindi, bi­ sogna rivedere qualche assunto. Possiamo abbandonare l’idea di una grammatica menta­ le? No: ho provato a convincervi che in pratica anche ogni altro modo di concepire la varietà espressiva del linguaggio finisce per equivalere alla stessa cosa. Proviamo dunque a se­ guire una via alternativa, esplorando la possibilità che le re­ gole del linguaggio non siano né consce né rilevabili con l’in­ trospezione. Che cosa potrebbe significare un’ipotesi simile? In que­ st’epoca postfreudiana, siamo senz’altro abituati a parlare di comportamenti guidati da fattori inconsci (o subconsci): «Bruno aveva scarsa fiducia in se stesso perché inconscia­ mente si identificava con suo padre». La premessa dell’anali­ si freudiana, così come di gran parte delle psicoterapie sue-

cessive, è che certe credenze inconsce possano diventare consce mediante opportune procedure terapeutiche e, di­ ventando consce, possano cessare di esercitare il loro danno­ so influsso sul m odo di vivere i rapporti umani e sul com ­ portamento. L ’idea freudiana che ci siano parti della mente inaccessi­ bili alla coscienza rappresenta una sfida per l’identificazione tradizionale, cartesiana, di mente e coscienza: quanto avviene nelle nostre menti è molto più di quanto riusciamo a cogliere consapevolmente. Questo ci disturba non solo perché va contro l’intuizione («Io so quello che p en so !»), ma anche perché suggerisce che non abbiam o del tutto sotto controllo il nostro comportamento. Anzi, l’inconscio freudiano è ricco di motivazioni oscure e sgradevoli. (Forse a causa del suo ambiente sociale, Freud insisteva sui risvolti sessuali di code­ ste motivazioni; la teoria psicodinam ica m oderna riconosce molte altre tematiche.) In un certo senso, il carattere inconscio della grammatica mentale è ancor più radicale, rispetto alla nozione freudiana di «inconscio»; la grammatica mentale è inaccessibile alla co­ scienza in ogni caso, si tratti di situazioni terapeutiche o no. D ’altra parte, una grammatica mentale inconscia che guidi il nostro com portamento ci risulta di gran lunga meno m inac­ ciosa del com plesso di E dip o o dell’istinto di morte. A diffe­ renza di questi costrutti freudiani, la grammatica mentale non ha effetti perniciosi. Al contrario, non potrem mo parla­ re senza di essa, salvo con espressioni stereotipiche fissate. È la grammatica mentale che rende possibile la varietà espres­ siva del linguaggio. «Vorresti dire che una grammatica mentale è presente nella mia mente ma che se la cerco non la troverò mai? Non stai correndo un p o ’ tropp o?» M a riflettiamo; ci sono moltissime altre cose che avven­ gono nel nostro cervello e delle quali non siam o consci. B a­ sta considerare il passaggio da un’intenzione, com e «Penso che adesso muoverò le dita», all’invio di impulsi ai muscoli, finché le dita effettivamente si muovono. C om ’è che ci riu­ sciamo? D al punto vista introspettivo, l’esperienza è del tut­ to immediata: decidiamo di muovere le dita, e le dita si m uo­ vono, a meno che non si abbia qualche impedimento o si soffra di una paralisi. Tuttavia, il vero m odo in cui la mente

riesce in questo com pito resta impenetrabile alla nostra con­ sapevolezza. D i fatto, se non ci mettiamo a studiare l’anato­ mia, non siamo neanche capaci di dire quali muscoli abbia­ mo attivato per far muovere le dita. La stessa cosa avviene - ecco l’idea che propongo - con l’uso della grammatica mentale. Se la grammatica mentale non può essere studiata m e­ diante introspezione, allora dobbiam o trovare qualche altro m odo, meno diretto, di indagarla. Riprenderò questo proble­ m a nella seconda parte, mostrando come le indagini sulla grammatica mentale costituiscono una scienza sperimentale; e allora descriverò una parte del complesso di strutture m es­ se in luce dalla ricerca linguistica. Per il momento, mi limito a sottolineare che, se esistono anche altri processi mentali che non sono accessibili alla coscienza, non dovrebbe costar­ ci troppo ammettere che esistono parti della capacità lingui­ stica altrettanto inconsce. Questa è dunque la nostra prima conclusione circa la na­ tura umana, sulla base della natura del linguaggio. Per dar conto della capacità di parlare e di capire nuovi enunciati, dobbiamo attribuire alla mente del parlante una grammatica mentale che specifichi le possibili configurazioni degli enun­ ciati. Ma per dar conto del fatto che non abbiamo alcun ac­ cesso diretto a questa grammatica mentale, dobbiam o am­ mettere la possibilità che cene parti essenziali, altamente strutturate, delle nostre capacità siano totalmente inconsce.

L ’argomento a favore della conoscenza innata

1. Le caratteristiche dell’acquisizione del linguaggio Ci volgiamo ora a una serie di considerazioni preliminari, al fine di motivare E secondo argomento fondamentale. Sulla scorta dell’analisi condotta nel capitolo precedente, ipotizze­ remo di possedere una grammatica mentale. Ma, se questa grammatica si trova nella nostra testa, si pone subito un p ro ­ blema: «C om e ha fatto la grammatica mentale ad arrivarci?». Prima di tutto un’osservazione: tutti i bam bini normali finiscono con l’essere in grado di parlare la lingua della co­ munità in cui crescono, di qualunque lingua si tratti. (Se più lingue vengono regolarmente parlate, i bam bini di norma ar­ rivano a parlarle tutte - ma per ora limitiamoci al caso di un monolingue.) Inoltre, la lingua che un bam bino arriva a p ar­ lare non ha niente a che fare col luogo di origine dei genito­ ri: un bam bino di genitori americani che cresce in Israele, al­ l’interno di una comunità che parla ebraico, diventerà un parlante la cui lingua m adre sarà l’ebraico; un neonato viet­ namita adottato in O landa diventerà un parlante che avrà l’olandese come madrelingua. Insomma, è alquanto ovvio che i bambini apprendono il linguaggio dagli altri parlanti con cui vivono. Com e fa un bam bino a riuscire in quest’impresa? Molte persone danno per scontato che la risposta sia: «G lielo inse­ gnano i genitori». A dire il vero, i genitori s ’impegnano spes­ so a insegnare parole ai loro piccoli: «C h e cos’è questo, Chicca? È un C A N A R IN O ! Prova a dire “canarino” , C hic­ ca». M a l’apprendimento del linguaggio non può essere esclusivamente il risultato di parole che vengono insegnate. A titolo di esem pio, ci sono molte parole che è difficile imm a­ ginare come possano essere insegnate dai genitori, in prim o

luogo quelle che non corrispondono a cose che si possono indicare col dito: «V edi “con” , C hicca?», «Q uesto è Q U A L ­ SIA SI, Chicca». Pensiamo poi al caso dei figli di immigrati: per esempio, bambini americani che vanno in Israele. Capita spesso che gli adulti non si sentano a loro agio con la lingua del nuovo paese: continuano a parlare con un certo accento, si espri­ mono con esitazione, ammettono di non riuscire a seguire interamente il telegiornale e così via. Invece, i loro bambini diventano parlanti «nativi» della nuova lingua e si esprimono in essa con piena fluidità. È chiaro che i bambini hanno im­ parato qualcosa che i loro genitori non sanno. Quindi, i ge­ nitori non avrebbero potuto insegnarlo. N é la conoscenza manifestata dai bambini è il risultato dell’insegnamento sco ­ lastico - anzi, all’interno di società non alfabetizzate, non può esserlo in alcun modo. Più spesso, i bambini si limitano a «far emergere» il linguaggio stando con altri bambini. (Questo richiama anche un altro fenomeno, cioè le difficoltà che gli adulti incontrano spesso nell’apprendere una nuova lingua - e che sono notevolmente maggiori di quelle incon­ trate dai bambini. Tornerò sulla questione nel cap. 9.) Benché i bambini spesso imparino parole come risultato dell’insegnamento dei genitori, è meno chiaro se imparino strutture grammaticali in questo stesso modo. Chiunque ab ­ bia tentato di correggere la grammatica di un bambino di due anni saprà che non è possibile. Il dialogo seguente, re­ gistrato dal linguista David McNeill ne è una ben nota illu­ strazione: Bambino: Nobody don’t like me. Mamma: N o, say «nobody likes me». Bambino: Nobody don’t like me. (Seguono otto ripetizioni di queste stesse frasi.) Mamma: No, now listen carefully; say «nobody likes me». Bambino: Oh! Nobody don’t likes me. [B.: Nessuno non mi vogliono bene. M.: No, si dice «nessuno mi vuole bene». B.: Nessuno non mi vogliono bene. M.: No, ora fai at­ tenzione: dì «nessuno mi vuole bene». B.: Ah, sì! Nessuno non mi vuole bene.]

(Ovviamente, possiam o essere certi che, alla fine, questo bam bino sarà arrivato a esprimersi nel m odo giusto. M a può essere successo in un mom ento in cui la m adre non faceva neppure attenzione.) N on vi è dubbio che certe strutture grammaticali sono di fatto insegnate a scuola come parte della grammatica: in in­ glese, per esem pio, la regola che una preposizione sia qual­ cosa con cui non si deve mai concludere un enunciato, e in italiano la regola secondo cui si deve usare il congiuntivo e non l’indicativo in un enunciato subordinato che esprima dubbio, possibilità, ecc. («C redo che Betty venga più tardi» vs «C redo che Betty viene più tardi»). N ell’italiano parlato, però, può darsi che la regola che prescrive l’uso del congiun­ tivo viene violata - com e in questo stesso enunciato! Analo­ gamente, chi parla inglese viola spesso la regola suddetta, e sono secoli che questo succede. (Nella versione originale, in inglese, di questo stesso libro, anch’io l’ho violata diverse volte.) L ’idea che una preposizione non debba com parire al­ la fine di un enunciato inglese sem bra sia sorta nel Settecen­ to, allorché le «autorità preposte all’uso dell’inglese» cerca­ rono per la prima volta ai fissare il m odo «corretto» di p ar­ lare, sulla base dei m odelli costituiti dalle lingue classiche: il latino e il greco. Ora, è vero che il latino e il greco non perm ettono di avere enunciati che terminano con preposizioni; e in questo sono simili alla m aggior p arte delle lingue europee m oderne (per esempio, il francese, l’italiano, lo spagnolo e, con qual­ che restrizione, il tedesco; invece, lo svedese è più simile al­ l’inglese). Se traduciam o «W ho did she arrive with» parola per parola in una di queste lingue - in francese: «Q u i est-elle arrivée avec»; in italiano: «C h i è lei arrivata c on ?» - il risul­ tato è tanto barbaro quanto «E nrico ha mangiato noccioline un sacco di». Per analogia con tali lingue, le «autorità» stabilirono che neppure gli enunciati dell’inglese dovevano terminare con preposizioni. D a allora, a generazioni di ragazzi è stata incul­ cata questa regola, con scarsi risultati, eccetto nel loro m odo di scrivere forbito: e frasi che terminano con una preposizio­ ne sono ancora molto frequenti nell’uso corrente dell’inglese. Un insegnamento così tassativo della gram matica - che, com’è chiaro, non ha m olto successo - contrasta nettamente

con aspetti della struttura enunciativa che nessuno ha mai pensato d’insegnare. Per esempio, consideriamo i quattro enunciati seguenti: (1)

a. b. c. d.

A Moira sembrava che Gianna si volesse bene. A Moira sembrava che Gianna le volesse bene. Gianna chiedeva a Moira che si volesse bene. Gianna chiedeva a Moira che le volesse bene.

Senza bisogno di rifletterci consapevolmente, voi avrete automaticamente inferito che ciascuno di questi enunciati presenta una diversa situazione in cui x vuole bene a y. In (la ), Gianna vuole bene a se stessa; in (lb ), G ianna vuole bene a Moira; in (le), Moira dovrebbe voler bene a se stessa; in (ld ), Moira dovrebbe voler bene a Gianna. Com e facciamo a capire tutto questo dagli enunciati (la )-(ld )? Ovviamente, dipende in qualche modo dalla diffe­ renza tra pronomi come «le» e pronomi riflessivi come «si», oltre che dalla differenza tra i verbi «sem brare» e «chiede­ re». M a in quale modo? Qualunque ne sia la ragione, sono certo che a nessuno è mai stato insegnato alcunché su questa opposizione dai suoi genitori o dagli insegnanti che ha avuto a scuola (o da chiunque altro). Eppure, quest’aspetto della struttura grammaticale è profondamente radicato, molto più di quanto sia rispettata la proibizione di terminare enunciati inglesi con una preposizione o la proibizione di usare l’indi­ cativo, invece del congiuntivo, in certi enunciati subordinati. Non posso resistere alla tentazione di portare un altro esempio perché è davvero interessante. In inglese c’è un’alte­ razione, detta «infisso espletivo» che molti parlanti adopera­ no con certe parole quando sono esasperati, e che si può for­ se rendere in italiano con qualcosa come (2): (2)

Quante volte devo dirtelo? Non sto parlando di gastronomia! C’entra nella tua stupida testa che parlo di gastro-d/o.'-enterologia?

Anche se siete troppo ben educati per usare un’espres­ sione come questa, sono sicuro che la sapete riconoscere. Ora, la cosa interessante è che abbiamo delle intuizioni molto chiare su come usare tali infissi. In inglese, il loro uso risulta

(3)

uni-goddam-versity manu-fuckin-facturer

(4)

Jacken-bloody-doff ele-goddam-phant

Per giunta, siamo anche m olto sensibili a dove va collo­ cato l’infisso, nelle parole che consentono di usarlo. Se si prova a spostarlo in posizioni diverse entro le parole di (3) («un-goddam-iversity», «m anifac-fuckin-turer» ecc.) qualun­ que parlante di m adre lingua inglese può accorgersi che sol­ tanto le versioni date in (3) risultano pienamente accettabili. Sono pressoché certo che a nessuno che parli l’inglese sia mai stato insegnato il principio (o lo schema) che dice dove può esser inserito un infisso espletivo all’interno di una p a ­ rola. E ppure adoperiam o con facilità questo principio tanto da applicarlo in m odo intuitivo a nuovi casi. Al contempo, il principio non appare così ovvio all’introspezione conscia. (Nel caso vi poneste il problema, l ’infisso suona bene soltanto quando precede immediatamente la sillaba sulla quale cade l’accento principale della parola - «university», «m ani/àrturer». Poiché «/ac&endoff» ed «d e p lian t» hanno l’accento principale sulla prim a sillaba, non c’è posto per l’infisso. M a questo vale soltanto in prim a battuta; ci sono ulteriori dettagli, di maggiore com plessità, nei quali non ci possiam o addentrare.) È chiaro, dunque, che buona parte di ciò che sappiam o sulle forme grammaticali dell’italiano non ci è stato insegna­ to. Ma questo conduce a un altro problem a ancora, circa il modo in cui i bam bini acquisiscono il linguaggio. Il capitolo 2 non ha mostrato soltanto che possediam o una grammatica 1

1 «Goddam», «fuckin» e «bloody» possono essere tradotti, rispettiva­ mente, con «dannato», «fottuto» e «maledetto». Fermo restando che l’uso di infissi espletivi in italiano è molto più limitato che in inglese, essendo probabilmente confinato a situazioni in cui si commettono errori ripetuti di dizione o di dattilografia, l’opposizione fra (3) e (4) potrebbe corrispon­ dere, in italiano, a quella tra «inter-dio!-mezzo» e «ana-dio!-tra» (N.d.T.).

mentale: ha anche mostrato che la maggior parte di questa grammatica non è accessibile all’introspezione conscia. Sic­ come gli aduki non sono consapevoli dei principi della grammatica mentale (e gli esempi appena forniti ce ne danno ulteriore conferma), certamente essi non possono spiegare tali principi ai bambini - ammesso che questi potessero capi­ re spiegazioni del genere! D i fatto, tutto quel che un adulto può fare è fornire al bambino esemplificazioni delle strutture grammaticali, sotto forma di enunciati o mediante correzioni degli enunciati proferiti dal bambino. Potete notare, per esempio, che nel dialogo su riportato, la madre non dice: « “Nessuno” e “non” sono entrambe parole negative; non devi usare due negazio­ ni in una stessa frase». La madre si limita a fornire al bam bi­ no una form a corretta. Ciò significa che il bambino deve rap­ presentarsi mentalmente le strutture del linguaggio - cioè, il bambino deve costruire la propria grammatica mentale. Ma in che m odo? Probabilmente, i bambini sono tanto poco consci delle strutture grammaticali di una lingua quanto lo sono gli adul­ ti. Per esempio, non ha molto senso supporre che un bam bi­ no affronti enunciati come «A Moira sembrava che Gianna si volesse bene» mettendosi a pensare qualcosa come: «Mm... mi chiedo per chi potrebbe stare quel “si” . Be’, “si” è riflessivo, perciò è forse questo l’aspetto che è rilevante...». Comunque sia, i bambini finiscono per imparare anche p a­ role come «nom e», «verbo» e perfino «pronome riflessivo», ma di solito non prima dei dieci anni (circa), quindi molto tempo dopo aver acquistato padronanza delle distinzioni grammaticali cui queste parole rimandano. Ci sono fenomeni ancora più semplici che attestano la disparità fra la padronanza che i bambini hanno del linguag­ gio e la loro coscienza di tale padronanza. Per esempio, a partire dall’età di tre o quattro anni, ai bambini si può inse­ gnare a contare le sillabe di una parola, ma essi fanno certa­ mente uso delle sillabe ben prima. Analogamente, imparare a leggere dipende in parte dall’essere consci di successioni di suoni del parlato, al fine di pronunciare le parole scritte. Per molti bambini, questo è difficile all’età di sei anni e anche più tardi; ecco perché certe trasmissioni, come Sesame Street della televisione americana, vi dedicano tanto tempo. D ’altra

parte, a questa età i bam bini non potrebbero distinguere e capire migliaia di parole - e perfino essere capaci di ricono­ scere le rime - se non avessero una notevole sensibilità volta a discriminare i suoni del parlato e ad organizzarli in se­ quenze. (Nel cap. 5 vedremo come quest’abilità si viene strutturando.) D i conseguenza, è evidente che ci troviamo di fronte allo stesso problema, tanto per i bam bini quanto per gli adulti: il loro apprendimento è retto da principi inconsci, cioè principi che sono inaccessibili all’introspezione conscia. Semmai, siamo portati a sospettare che l’abilità introspettiva dei bambini sia meno sviluppata di quella degli adulti. M a qual è il ruolo che tutto questo finisce per assegnare all’apprendimento del linguaggio? Sulla base di ciò che sente dire intorno a sé, e nella (quasi totale) assenza di insegnamen­ ti e di consapevolezza per quel che riguarda quanto viene ap ­ preso, il bam bino riesce a padroneggiare le strutture gram ­ maticali del linguaggio - vale a dire, riesce a elaborare una grammatica mentale. Questo non è il m odo in cui siamo stati abituati a pensare l’apprendimento del linguaggio. D i solito 10 concepiamo in termini che ricordano l’ora di italiano a scuola: una situazione altamente standardizzata in cui l ’inse­ gnante e l’allievo prestano consapevolmente molta attenzione a regole, regole e poi ancora regole. L ’apprendimento del lin­ guaggio da parte del bam bino non somiglia affatto a questo. 11 bam bino impara semplicemente parlando e ascoltando. N e risulta la possibilità di trarre un’altra conclusione ri­ guardo alla natura umana: siamo in grado di acquisire incon­ sciamente strutture inconsce, con un addestramento scarso o perfino nullo. Forse non dovremmo neppure chiamare « a p ­ prendim ento» un processo del genere, ma in mancanza di una parola migliore, non preoccupiam oci della terminologia. In m odo significativo, potrem mo paragonare l’apprendi­ mento inconscio del linguaggio al processo che consiste nell’imparare a fare un salto, cosa che richiede complessi sche­ mi di coordinazione muscolare. N on è possibile descrivere a un bam bino come si fa un salto; la cosa migliore è mostrarlo. E anche quando il ragazzo comincia a capire come si salta, è impossibile farglielo spiegare. Piuttosto, il processo di co­ struire schemi mentali ha luogo fuori del cam po della co­ scienza; la maggior parte dell’apprendimento è vissuta come pura «intuizione».

2.

L ’argomento a favore della conoscenza innata: il modo in cui i bambini imparano a parlare implica che il cervello umano abbia una specializzazione, geneticamente determi­ nata, che è finalizzata a l linguaggio

Passiam o ora a esaminare ciò che rende ancor più straor­ dinaria l’acquisizione del linguaggio da parte del bambino. Migliaia di linguisti in tutto il mondo hanno cercato per de­ cenni di individuare i principi che stanno «dietro» alle strut­ ture grammaticali delle diverse lingue, quegli stessi principi grammaticali che i bambini acquisiscono inconsciamente. M a ogni linguista vi potrà dire che una spiegazione completa della grammatica mentale, relativa a una qualunque lingua, è ancora di là da venire. In altre parole, dopo anni e anni di coscienziosa dedizione e pur disponendo di informazioni sempre maggiori, un’intera comunità di specialisti di prim’ordine non è stata capace di ricostruire l’impresa che ogni bambino normale di circa dieci anni è riuscito a compiere, in modo inconscio e senza aiuti. Questo contrasto è cosi stupe­ facente e ha così vaste implicazioni che merita un nome spe­ cifico. Mi piace indicarlo come il «paradosso dell’acquisizio­ ne del linguaggio». Che cosa ne dobbiam o concludere? Come fanno i lingui­ sti a essere così palesemente incapaci a paragone dei bambini, di quegli stessi bambini che un tempo anch’essi sono stati? Sfortunatamente, un atteggiamento molto diffuso è quello di credere che in realtà i linguisti hanno semplicemente imboc­ cato strade sbagliate e che le complicazioni con cui essi sono alle prese non esistono affatto: «H linguaggio deve essere sem ­ plice: tanto semplice che p ossa riuscirci anche un bam bino». M a se il linguaggio è così semplice, perché nessun altro (eventualmente, libero dai paraocchi metodologici dei lin­ guisti) è riuscito a venirne a capo? A questo proposito, vale la pena ricordare una delle prime previsioni della rivoluzio­ ne basata sul computer: nel giro di cinque anni (più o meno) avremmo avuto dei calcolatori in grado di parlarci e di com ­ mente grandi e veloci*2. Tuttavia, al momento in cui scrivo 2 Per la precisione, il primo libro di Chomsky, Le strutture della sintas­ si, apparve nel 1957. Per suo esplicito riconoscimento, l'opera era stata fi-

(quarant’anni dopo), la com prensione del linguaggio, parlato e scritto, da parte dei com puter più avanzati è ancora allo stato rudimentale; eppure si continua a sentir dire che ima soluzione com pleta arriverà nel giro di soli cinque anni! Evi­ dentemente, le persone che lavorano ai com puter non sono poi tanto più brave dei linguisti nel capire com ’è strutturato il linguaggio, anche se sono senz’altro più ottimiste. Un m odo più romantico di vedere il paradosso potrebbe essere il seguente: «Q uel che hanno i bambini è che sono così stupendamente aperti e ingenui nei confronti del m ondo che li circonda! Fateci caso: i bam bini possono appropriarsi del linguaggio senza starci a pensare, mentre noi poveri ad ula sia­ mo invischiati nelle nostre preoccupazioni personali». Ora, anche se in quest’osservazione c’è un briciolo di verità, non può trattarsi che di una ipersemplificazione. Perché mai siamo capaci di pensare con maggior chiarezza dei bambini riguardo a cose così semplici come compilare la dichiarazione dei red­ diti o m uoversi nel traffico per andare dal dentista, e non ri­ guardo alla struttura del linguaggio? Alle nostre «p reoccupa­ zioni personali» va pure riconosciuta una certa complessità, dopotutto. D unque il paradosso resta: c’è qualcosa di speciale nell’apprendimento del linguaggio, qualcosa che non è dispo­ nibile agli adulti, e rimane ancora da spiegare quali meccani­ smi perm ettano ai bam bini di metter m ano alla loro impresa. Dire che è qualcosa di stupendo e di inconscio non spiega che cos’è: è solo un altro m odo di riformulare il problema. D o b ­ biam o ancora sapere com ’è che la cosa funziona. Ci sono tre passi da compiere per venire a capo del p a­ radosso. I primi due sono stati già delineati. In prim o luogo, come si è m ostrato nel capitolo 2, ciò cui il bam bino per­ viene è una grammatica mentale che è completamente inac­ cessibile alla coscienza; è per questo che i linguisti adulti non possono afferrare i principi della grammatica mentale limitandosi a un’indagine introspettiva. In secondo luogo, come si è visto nel paragrafo precedente, anche una parte nanziata dalle forze armate degli Stati Uniti, che all’epoca stavano promuo­ vendo la ricerca sull’analisi del linguaggio mediante computer. Vi chiedere­ te la ragione di questo interesse da parte delle forze armate. Tra l’altro un «elaboratore vocale», cioè un computer in grado di scrìvere sotto dettatu­ ra, sarebbe stato davvero comodo per le intercettazioni telefoniche.

consistente del processo d’apprendimento linguistico è in­ conscia, quindi i linguisti non possono né osservarla direttamente né ottenere informazioni al riguardo facendo dom an­ de ai bambini. M a per uscire dal paradosso, bisogna fare un terzo passo. Ricordate: non è possibile che i bambini «assorbano» sem pli­ cemente la grammatica mentale dal loro ambiente. Ai bam bi­ ni è fornita dall’esterno la possibilità di sentir proferire frasi; ma devono scoprire da sé (e inconsciamente) le strutture che permettono loro sia di capire queste frasi sia di costruire nuove frasi cui gli altri possano rispondere. Che questo pro­ cesso di scoperta proceda in modo inconscio nel bambino e in m odo conscio nel linguista, sono sempre gli stessi proble­ mi che vanno risolti. Ovvero: procedere inconsciamente non dà ancora al bambino alcun vantaggio sul linguista. D i fronte a questa difficoltà, la soluzione trovata è pres­ soché unica, e consiste nel supporre che i bambini abbiano una «partenza avvantaggiata» rispetto al linguista-, le strategie inconsce dei bambini, finalizzate all’apprendimento del lin­ guaggio, includono alcune indicazioni fondamentali su come una grammatica mentale debba essere costruita. Queste indi­ cazioni rendono ai bambini relativamente facile trovare dei principi che si adattino ai dati empirici (riguardanti la lingua che sentono parlare nel loro ambiente) - relativamente faci­ le: ci vogliono pur sempre otto-dieci anni! A differenza dei bambini, i linguisti non dispongono di tali indicazioni in for­ ma di dati presenti alla loro coscienza; perciò il problema di­ venta molto pili arduo. Per servirci di una metafora un p o ’ rozza, potremmo dire che i linguisti si trovano nella posizio­ ne di chi cerca un ago in un pagliaio, mentre i bambini han­ no un potente magnete che attrae l’ago fuori dal pagliaio. Ricorrendo a un’analogia di carattere biologico, potrem­ mo forse dire che l’acquisizione del linguaggio è qualcosa di simile alla riproduzione. Ognuno arriva a capire come si fa a procreare - sembra così facile! Sono stati necessari secoli di ricerche per comprendere gli effettivi meccanismi della riproduzione; e neanche adesso c’è una spiegazione esaurien­ te. Questo vuol forse dire che i biologi sono degli incapaci? Ovviamente, no. Non ci aspettiamo che abbiano un accesso conscio ai meccanismi biologici della riproduzione. Tuttavia, dato che il linguaggio si trova nella nostra mente , siamo in

qualche m odo inclini a pensare che dovremmo riuscire a ca­ pirlo con facilità. Vorrei ancora una volta ribadire che alcu­ ne parti della mente sono non meno remote dalla coscienza di quanto lo siano i nostri cromosomi. In forma più tecnica, ciò che intendo asserire è che, da bambini, tutti noi affrontiam o l’apprendimento linguistico muniti di un bagaglio di conoscenze innate che sono appun­ to finalizzate al linguaggio. Servendosi di queste conoscenze, i bambini possono rintracciare strutture nel flusso di parole che giunge loro dall’ambiente e possono usare queste strut­ ture come una grammatica mentale. Poiché tale conoscenza innata dev’essere sufficiente a costruire una grammatica mentale per una qualsiasi delle lingue parlate nel m ondo, i linguisti la chiamano «G ram m atica Universale» (G U ). D ’accordo, m a che differenza c ’è tra questa soluzione e quella «rom antica»? L a differenza è che non ci si abbandona più al mistero dell’abilità dei bambini. Anzi, si arriva a porre tre questioni importanti per la ricerca. 1. Che cos’è che i bambini sanno (inconsciamente) sul linguaggio prima ancora che l’apprendimento linguistico ini­ zi? Cioè, che cos’è la G ram m atica Universale? 2. Com e fanno i bam bini a usare la Gramm atica Univer­ sale per costruire una grammatica mentale? 3. In che m odo i bambini pervengono alla G ramm atica Universale? Lascerò da parte le questioni 1 e 2 per affrontarle in ca­ pitoli successivi, allorché avremo un’idea migliore di che co­ s’è una grammatica mentale. Per ora, vorrei concentrarmi sulla questione 3: il problem a di come faccia a esistere qual­ cosa come una «conoscenza innata», ovverosia una cono­ scenza che non è appresa. Innanzitutto, occorre soffermarci su un paio di temi ab ­ bastanza semplici. Per prima cosa, dobbiam o tener ben pre­ sente che la Gram m atica Universale è, sotto ogni profilo, tan­ to inconscia e inaccessibile all’introspezione quanto la gram ­ matica finale che il bam bino acquisisce e che noi adulti ado­ periamo. Perciò, bisogna ammettere che è un p o ’ strano usa­ re il termine «con oscen za»5. M a anche il termine «innato» 5 II filosofo Gilbert Ryle ha stabilito una distinzione tra «sapere che» (per esempio, sapere che la moglie del presidente Grant è seppellita nella

viene qui impiegato con una certa libertà, in quanto non com porta che si debbano ammettere conoscenze presenti già alla nascita. Com e i denti, i capelli o la capacita di cammina­ re, potrebbe darsi che la Grammatica Universale si sviluppi in un periodo alquanto posteriore alla nascita; quel che con­ ta è che il suo sviluppo resti vincolato a una «tabella di m ar­ cia» specificata biologicamente. In effetti, i bambini comin­ ciano solitamente a impadronirsi di certi schemi grammati­ cali alTincirca dopo aver compiuto due anni (anche se, come si vedrà nel cap. 8, esistono bambini più precoci). Qualunque sia il termine che decidiamo di usare, il pun­ to è che la Grammatica Universale non è appresa. Essa con­ siste piuttosto nel meccanismo che rende l’apprendimento possibile. Il nostro terzo quesito si riduce quindi al seguente:

sposizione. Entrano in gioco due componenti: la determina­ zione della struttura cerebrale da parte di informazioni gene­ tiche e la determinazione dei processi mentali da parte della struttura cerebrale. Tratteremo, per quanto succintamente, queste due componenti una alla volta. Iniziamo dalla prima componente: fino a non molto tem­ po fa, il modo in cui gli organismi di una stessa specie si ri­ producono era ancora avvolto nel mistero - c om e che gli es­ seri umani danno vita ad altri esseri umani e i suini ad altri suini, ma non il contrario? Una delle maggiori conquiste del-

la scienza di questo secolo è stata la com prensione dei m ec­ canismi che determinano l’eredità della struttura fìsica degli organismi: il materiale genetico, codificato nel D N A delle cellule e trasm esso da una generazione all’altra, determina la struttura e il funzionamento del corpo. Per quanto l’identità precisa dei vari passi attraverso i quali il materiale genetico guida lo sviluppo corporeo sia ancora ignota sotto molti aspetti, per la prim a volta siam o in grado di descrivere le basi fìsiche della riproduzione, i caratteri ereditari, le mutazioni e infine l’evoluzione. Fra le parti del corpo che sono determinate dal D N A , c’è ovviamente il cervello. L a sua struttura anatomica è note­ volmente com plessa: almeno quanto è com plesso il mignolo, per fare un esempio. Pertanto, anche se c’è una certa plasti­ cità nell’organizzazione fisica del cervello, abbiam o buone ragioni per ritenere che aspetti sostanziali dell’organizzazio­ ne cerebrale siano di carattere genetico. Com e Chomsky ha ripetuto spesso, non impariamo ad avere braccia, invece che ali. Perché dovremmo allora supporre che i nostri cervelli acquistino la loro struttura basilare attraverso l’apprendi­ mento piuttosto che per via geneticamente ereditaria? Passiam o alla seconda componente: il m odo in cui p ar­ liamo è in parte vincolato dal m odo in cui è fatto il nostro cervello - è difficile che qualcuno lo metta in dubbio. A d esempio, anche voi confidate in quest’assunzione quando as­ serite che l’uom o è pii! intelligente degli animali perché ha un cervello più grande del loro. Ebbene, si potrebbe anche riformulare l’idea che la conoscenza innata va intesa come Gramm atica Universale, dicendo che i bambini posseggono un certo «m odo di pensare» che li mette in grado, seppure inconsciamente, di costruire una grammatica mentale, sulla base di opportuni input ambientali. Allora, l’ipotesi è che questo «m odo di pen sare» sia una conseguenza dell’organiz­ zazione fisica di qualche regione del cervello - che a sua vol­ ta è determinata dalla sua struttura genetica. Insom ma, il meccanismo per acquisire conoscenze innate non è altro che la trasmissione genetica, attraverso la mediazione della struttura cerebrale. Q uest’ipotesi, che vorrei chiamare l’«ipotesi genetica», ci permette di affrontare un’am pia serie di problemi. E ssa affer­ ma, infatti, che l’abilità di apprendere una lingua è radicata

nella nostra biologia, è un carattere genetico della nostra specie, proprio come l’avere un pollice che si può opporre alle altre dita, o un bacino adatto alla stazione eretta. Ciò si­ gnifica che possiam o far leva su antecedenti biologici per tentare di spiegare il linguaggio. Pensiam o, per esempio, alle tante sorprendenti specializ­ zazioni strutturali che ci è dato incontrare nel mondo anima­ le: la proboscide dell’elefante, il sonar del pipistrello, gli o s­ sicini del nostro orecchio medio. Sulla scorta di tutti questi antecedenti biologici, non sembra più così stravagante sup­ porre che possa esistere una specializzazione strutturale nel cervello, finalizzata al linguaggio (e al suo apprendimento). Consideriamo, poi, il fatto che «la conoscenza innata del linguaggio» non sembra essere presente fin dalla nascita, ma inizia a manifestarsi intorno ai due anni. Secondo l’ipotesi genetica, questa conoscenza è determinata dalla struttura ce­ rebrale; perciò è presente soltanto quando sono presenti le strutture del cervello che le fanno da supporto. Ora, lo svi­ luppo della struttura fisica del corpo, inclusa la struttura neurale del cervello, non è in alcun modo completa fin dalla nascita. Tra l’altro, nel cervello del neonato le guaine di mie­ lina che servono a isolare elettricamente un neurone dall’al­ tro non hanno ancora raggiunto il loro pieno sviluppo; e, co­ me già osservato, la crescita fisica di varie parti del corpo ha una scansione temporale che possiamo prevedere con buona approssimazione: si pensi alla sequenza con cui si passa dai denti del bambino a quelli dell’adulto, ai cambiamenti che il corpo subisce nella pubertà, per non parlare dei ben più ra­ dicali cambiamenti che si riscontrano in altre specie, come quando un girino si trasforma in una rana. Non c’è ragione perché non possa essere di tipo analogo anche lo sviluppo delle particolari strutture cerebrali che fanno da supporto al­ la conoscenza innata relativa al linguaggio. In altri termini, 10 sviluppo graduale della conoscenza innata, nel corso di parecchi anni di vita, è in linea con altri fenomeni evolutivi. Questo non vuol dire che dovremmo metterci a cercare 11 «gene del linguaggio». Le connessioni tra le sequenze del D N A nei cromosomi e la struttura corporea sono notevol­ mente indirette. I biologi stanno appena cominciando a ca­ pire come i geni riescano a guidare la differenziazione di un embrione in testa, tronco e coda, che è la più elementare

delle strutture corporee. Q uando si p assa alla sofisticata dif­ ferenziazione del cervello (e lo stesso vale per il cuore, l’o ­ recchio o il polso), siamo all’oscuro di molte cose. In aggiun­ ta a questo, non sappiam o quasi nulla su com e la struttura cerebrale governi la natura del pensiero. D unque, entrambe le componenti dell’ipotesi genetica lasciano ancora aperte parecchie questioni. Nondim eno, l’ipotesi genetica sem bra un modo plausibile - forse l ’unico - per poter attribuire una conoscenza innata al bam bino. N on sarebbe lecito affermare che è ormai un’ipotesi provata , ma tutti i pezzi che vanno a comporla ci appaiono ragionevoli. Cerchiamo ora di sintetizzare quanto detto, ricollegando il nostro argomento alle questioni iniziali. 1. Siamo arrivati all’ipotesi genetica quale possibile solu­ zione di un problema: come possa esistere qualcosa di simile a una conoscenza innata. 2. Perché siamo ricorsi a una conoscenza innata? N e ab ­ biamo avuto bisogno per risolvere il paradosso dell’acquisi­ zione del linguaggio: com ’è che tutti i bambini sono incon­ sciamente capaci di «ricavare» da soli una grammatica, m en­ tre i linguisti, come comunità, non riescono a capire bene come funzioni la grammatica mentale? In sostanza, il p ara­ dosso ci mostra quanto sia difficile l’impresa che i bambini portano a termine. La conoscenza innata di alcuni aspetti del linguaggio potrebbe dare ai bam bini una partenza avvantag­ giata, per quanto riguarda l’apprendimento della lingua p ar­ lata nel loro ambiente. 3. Perché sorge il paradosso dell’acquisizione del lin­ guaggio? L a ragione, come abbiam o mostrato, è questa: non è seguendo insegnamenti impartiti dall’esterno che i bambini imparano una lingua. Piuttosto, essi devono avere inconscia­ mente a disposizione una grammatica mentale che fornisca loro le strutture per formare enunciati. 4. Com e facciam o a sapere che i bambini devono dispor­ re di una grammatica mentale inconscia? Perché questo è ciò cui devono pervenire da adulti, se vogliamo spiegare la loro capacità di parlare e com prendere una serie illimitata di enunciati che non hanno mai sentito prima.

3.

Dubbi circa la conoscenza innata

Per vari determinata no forti) di proposta da " rr

morivi, l’ipotesi di una Gramm atica Universale geneticamente ha provocato reazioni (più o me­ stupore, incredulità, rifiuto, sin da quando fu Chomsky. Vorrei prendere in esame alcune del' ' ' icora una volta di un

« L ’acquisizione del linguaggio da parte del bam bino di­ pende in modo palese dall’esposizione alla lingua parlata nel suo ambiente. Perché, allora, dovremmo credere che sia ge­ nericamente determinata?» L a risposta è che le nostre capacità linguistiche sono una complessa combinazione di natura e cultura. A questo riguar­ do, può esserci d ’aiuto un paragone che interessa da vicino la biologia: la nostra struttura ossea è ovviamente determinata per via generica, ma non si può sviluppare in modo corretto senza nutrimento ed esercizio. In questo caso è chiaro che l’interazione con l’ambiente è complementare alla dotazione generica: sono necessarie entrambe. Perché non dovrebbe va­ lere lo stesso per la struttura cerebrale che fa da supporto al linguaggio? (Qui, il «nutrimento» include una quantità e una varietà sufficienti di informazioni in ingresso, e l’«esercizio» include l’opportunità di poter conversare con qualcuno.) « L ’idea di componenti genetiche dell’apprendimento non mi preoccupa, fin tanto che nessuna di esse è specificamente linguistica, cioè consiste soltanto in strategie generali d’apprendimento, come meccanismi stimolo-risposta o prin­ cipi d’associazione e d’analogia. Perché insisti che c’è invece una componente genetica dell’apprendimento che ha a che fare specificamente col linguaggio?» Il problema è che, da sé solo, il ricorso a strategie gene­ rali d’apprendimento non può risolvere il paradosso dell’ac­ quisizione del linguaggio. Gli adulti, inclusi i linguisti, hanno accesso a numerose strategie di carattere generale, ma non riescono a rappresentarsi l’organizzazione della grammatica mentale. Dobbiamo supporre che i bambini sappiano qual­ cosa di più, qualcosa di specifico sul linguaggio. Questo però non vuol dire che l’acquisizione linguistica non faccia uso di strategie generali d ’apprendimento. H fatto è che non si può ridurre tutto a strategie del genere.

«M a una struttura cerebrale finalizzata alla G ram m atica Universale come avrebbe fatto, originariamente, a venire co­ dificata nei geni?» L ’unica risposta possibile ci è offerta dall’evoluzione. Sfortunatamente, non esiste alcuna testimonianza dell’evolu­ zione del linguaggio: non possiam o fare scavi per trovare vo­ cali o verbi fossili; e i primi documenti scritti manifestano già quella piena varietà espressiva e quella com plessità gram ­ maticale che sono proprie delle lingue m oderne. C osì, la via lungo la quale si è evoluto il linguaggio resta alquanto m iste­ riosa. È facile rendersi conto di com e il possesso del linguag­ gio avrebbe conferito un vantaggio selettivo nel corso dell’e­ voluzione, ma è presum ibile che il linguaggio non abbia fatto la sua com parsa già completo in tutto e per tutto. Q uali sono i passi che ha attraversato? N on c’è un solo anello mancante; ce ne sono molti. D ’altra parte, l ’evoluzione ci offre una prospettiva inte­ ressante sul paradosso dell’acquisizione del linguaggio, per­ ché ci dice che l’acquisizione linguistica non richiede sem pli­ cemente quella decina d ’anni che un bam bino impiega. Quella decina d’anni ha dietro di sé qualcosa come due m i­ lioni di anni, cioè il tempo che l’evoluzione ha impiegato perché si sviluppasse nel cervello la Gram m atica Universale, della quale i bambini sono dotati - un p o ’ più tem po di quanto i linguisti avranno mai! « E se l’ipotesi genetica non fosse altro che un’“ipotesi fi­ ne a se stessa” , una m ossa disperata per sbarazzarsi di tutta quest’ingombrante com plessità?» Ricordatelo: siamo tra l’incudine e il martello. D a un la­ to, la varietà espressiva del linguaggio richiede una com ­ plessa grammatica mentale che i linguisti non riescono an­ cora a capire. D all’altro, i bam bini riescono ad acquisire questa grammatica. Dunque, in certo senso, l ’ipotesi geneti­ ca è la m ossa della disperazione. Com e ho detto sopra, è l’unica risposta che si è stati in grado di escogitare; i princi­ pali disaccordi fra le differenti scuole di pensiero si manife­ stano proprio riguardo a che cosa sia innato e in quale m i­ sura lo sia. Tuttavia, non credo che l’ipotesi genetica sia un tentativo per sbarazzarsi della complessità. Si potrebbe immaginare un’analoga critica della teoria della gravitazione: « L a teoria

postula una forza occulta, invisibile; non fa che riformulare i fatti concernenti l’interazione tra corpi senza spiegarli». In realtà, l’ipotesi genetica svolge in linguistica lo stesso ruolo che l’ipotesi della gravità svolge in fisica: è un costrutto che, come vedremo, serve a unificare un ampio spettro di fatti ben differenziati, inerenti alla struttura del linguaggio, agli universali linguistici e all’acquisizione del linguaggio. Com e la teoria della gravitazione, anche l’ipotesi genetica presuppone una spiegazione più profonda, cui si deve infine pervenire. M a tenete presente che sono passati più di tre se­ coli da quando Newton postulò la forza gravitazionale, ep­ pure non abbiamo ancora una teoria veramente soddisfacen­ te di come la gravità operi. Alla luce di questo, sono portato a consigliare un po’ di pazienza.

4.

Conclusioni

Mettendo insieme tutte le considerazioni svolte nei p ara­ grafi precedenti, la nostra proposta di ricorrere a una gram ­ matica mentale assume la seguente forma riassuntiva: Grammatica mentale = Parte innata (GU) +Parte appresa. Tentando di spiegare la grammatica mentale dell’italiano (o del cinese o di qualunque altra lingua), i linguisti cercano sempre di trovare la spiegazione più semplice che sia coeren­ te con la complessità dei fatti linguistici. Allo stesso tempo, invece di ribadire che tutto il linguaggio è appreso (o che è tutto quanto innato), si ammette che sia una questione em pi­ rica quella di determinare come la grammatica mentale si ri­ partisca fra componenti innate e apprese. Qui entrano in gioco tre criteri fondamentali. 1. Se, sotto qualche profilo, la lingua in esame è diversa da altre lingue, il bambino dev’essere capace di acquisire questa differenza, perciò essa va attribuita alla parte del lin­ guaggio che viene appresa. 2. Se certi aspetti di tutte le lingue che abbiamo esamina­ to sono simili, è probabile che questi aspetti rientrino nella parte innata. Certo, esiste sempre la possibilità che la som i­

glianza sia puram ente accidentale. In pratica, lo si p uò accer­ tare esaminando altre lingue ancora, preferibilm ente lingue che non abbiano relazione alcuna con le precedenti. 3. Supponiam o che vi sia qualche aspetto del linguaggio che i bambini non riescono a ricavare sulla base dei dati (ri­ guardanti i discorsi che sentono nel loro ambiente). Allora quest’aspetto non può essere appreso; deve quindi rientrare nella parte innata del linguaggio. Di questi criteri, l’ultimo è stato denominato il «criterio della povertà dello stim olo». Il suo impiego esige una certa cautela; e infatti è in corso una vivace discussione su che ti­ po di evidenze empiriche siano sfruttabili da parte dei bam ­ bini. Abbiam o già avuto m odo di riferirci a questa discus­ sione trattando delle caratteristiche dell’apprendimento lin­ guistico; nei capitoli successivi, ne esamineremo ulteriori aspetti. Possiam o fare un p asso ancora e scom porre la parte in­ nata del linguaggio nel m odo che segue: Parte innata del linguaggio = Ciò che è dovuto a una capacità spe­ cificamente finalizzata al linguaggio + Ciò che è dovuto alle caratteristiche generali della mente. Di nuovo, invece d ’insistere che il linguaggio si fonda in­ teramente su principi di carattere generale o interamente su principi specificamente linguistici, lasciamo che sia la ricerca a decidere come si realizzi la divisione del lavoro. Dal canto mio, propendo ad accogliere la posizione di chi nutre sospetti nei confronti di una specifica capacità lin­ guistica: dovremmo cercare di minimizzare il prim o fattore. Dopo tutto, una capacità orientata specificamente al linguag­ gio richiede un salto evolutivo nel corso del tempo, dato che ci siamo pur differenziati dagli altri primati; e vorremmo p o ­ ter pensare che il salto non è stato poi così straordinario. Questo, però, non vuol ancora dire che possiam o fare a m e­ no di riconoscere il salto: qualcosa deve dar conto del p ara­ dosso dell’acquisizione del linguaggio. A conclusione di questo capitolo, torniamo alla nostra domanda iniziale: come dev’essere la natura um ana perché

sia possibile impiegare il linguaggio? Sulla base dell’argo­ mento a favore della conoscenza innata sono emerse due nuove risposte, che hanno a che fare con la natura dell’ap ­ prendimento. L a prima è che l’apprendimento del linguaggio non è semplicemente un passivo «assorbim ento» di informazioni dall’ambiente. Piuttosto, chi impara una lingua elabora atti­ vamente dei principi inconsci che consentono di dare un senso all’informazione che proviene dall’ambiente. Questi principi rendono possibile non solo la riproduzione (a p ap ­ pagallo) dell’input, ma anche l’uso del linguaggio in modi in­ novativi. Ciò che si,apprende deriva tanto dall’interno di chi apprende quanto dall’ambiente esterno. L a seconda risposta è che certi aspetti della nostra cono­ scenza del linguaggio devono essere derivati geneticamente e non soltanto mediante l’apprendimento. Abbiamo dedicato ampio spazio a elaborare quest’idea e ne abbiamo concluso che l’abilità linguistica del bambino viene da una com bina­ zione di influenze ambientali (il che è ovvio) e di ereditarietà (il che è molto meno ovvio). Il fatto che l’apprendimento lin­ guistico sia supportato da una componente genetica è ciò che rende possibile, a qualsiasi bambino normale, il compito dell’acquisizione linguistica, per quanto la conoscenza che infine ne risulta sia molto più complessa. L ’apprendimento del linguaggio non è altro che un’ecce­ zione curiosa nella storia dell’apprendimento umano, o esi­ stono anche altri tipi d’apprendimento che gli somigliano? Se esistono, ne conseguono importanti implicazioni per il modo d ’impostare l’educazione: si dovrebbe concepire chi apprende come un agente attivo, non come un recipiente da riempire di fatti. Il processo educativo dovrebbe porre l’ac­ cento sull’impegno e la creatività di chi apprende, perché in ultima istanza è chi apprende che deve elaborare conoscenze con la propria mente. Analogamente, possiamo chiederci se altri tipi di apprendimento siano supportati, cosi come il lin­ guaggio, da qualche sorta di dotazione innata e specializzata. Se è così che funziona il linguaggio, che cosa possiamo dire a proposito delle altre capacità che abbiamo? Torneremo sulla questione nella parte quarta, dopo aver precisato in modo più chiaro la nostra concezione del linguaggio. Nel frattem­

po, l’interrogativo ora sollevato dovrebbe restare sullo sfon­ do, perché, dopotutto, è questo il problem a che rende lo studio del linguaggio una tappa essenziale p er capire noi

Parte seconda.

L ’organizzazione della grammatica mentale

Capitolo quarto

Un quadro d’insieme

1.

Il linguaggio come mezzo di conversione fra pensieri e suoni

Ritorniamo all’atto comunicativo basilare, com e l’abbia­ mo schematizzato nel capitolo 2: una persona che dice qual­ cosa a un’altra. Per cominciare, lo sem plificherò ulterior-

Nel cervello di Enrico, qualcosa che potrem m o chiamare «pensiero» porta a movimenti del suo apparato vocale (pol­ moni, corde vocali, lingua, m andibole e labbra). Questi m o­ vimenti creano un’onda sonora che viene trasm essa nell’aria. A sua volta, l ’onda sonora, colpendo l’orecchio di Sandro, fa sì che nel cervello di Sandro venga a esserci lo stesso «p en ­ siero» (o un pensiero simile).

Senza dubbio, il cervello non muove l’apparato vocale per magia: sfrutta piuttosto le consuete vie per produrre l’at­ tività motoria, passando cioè per l’attivazione neurale dei muscoli. Detto altrimenti: il cervello di Enrico dà luogo a certe configurazioni strutturate di scariche neurali che gui­ dano i muscoli dell’apparato vocale, mentre l’attivazione di quest’ultimo produce e trasmette le configurazioni acustiche che udiamo come linguaggio. Analogamente, non è per magia che i rumori che rag­ giungono l’orecchio di Sandro danno luogo a pensieri nel suo cervello. È invece l’orecchio interno che trasforma le on­ de acustiche in configurazioni di scariche neurali, le quali vengono quindi trasmesse al cervello. Prendiamo ora in esame le configurazioni di scariche neurali che attivano l’apparato vocale e quelle che raggiun­ gono il cervello a partire dall’orecchio. N é l’una né l’altra di queste configurazioni può di per sé coincidere col pensiero trasmesso dall’evento vocale. Qualora ciò non fosse (fin troppo) ovvio, ecco almeno tre ragioni per le quali il pensie­ ro non può coincidere con tali configurazioni. 1. La forma del pensiero dev’essere neutrale rispetto alla forma parlata o udita del linguaggio - dobbiamo poter espri­ mere a voce il pensiero non meno che udirlo -, perciò p o s­ siamo ritenere che la forma del pensiero non coincida con una configurazione di scariche neurali, relativa in m odo spe ­ cifico al fatto che la lingua sia parlata o ascoltata. 2. Si può «avere un pensiero» senza decidere di espri­ merlo, pertanto non è detto che il pensiero attivi direttamen­ te l’apparato vocale. Analogamente, si può «avere un pensie­ ro» senza averlo sentito pronunciare da alcuno, sicché il pensiero non può essere guidato direttamente da neuroni coinvolti nella percezione uditiva. 3. D pensiero dev’essere indipendente (almeno in gran parte) dalla lingua in cui lo si esprime. Le configurazioni di scarica dei neuroni motori che producono sequenze sonore come Le chien est mori, Der Hund ist tot, The dog is dead. Il cane è morto sono alquanto dissimili; e siccome questi suoni sono diversi, tali sono pure le configurazioni di scarica dei neuroni uditivi che sono provocate dai diversi suoni. E p p u ­ re, tutte veicolano (pressoché) lo stesso pensiero per chi par­ li francese, tedesco, inglese o italiano. Affinché sia possibile

tradurre da una lingua all’altra, bisogna che ci sia una qual­ che costante nel pensiero espresso: una costante che manca nelle configurazioni motorie o uditive. In breve, dobbiam o identificare il pensiero con una configurazione di scariche neurali, distinta tanto da configurazioni m otorie quanto da configurazioni uditive. (A ogni m odo, cosa può significare l’affermazione che un pensiero è una configurazione di scari­ che neurali? Se trovate problem atica quest’idea, restate lo stesso con me fino al cap. 14, perché a quel punto affronte­ remo la questione un p o ’ più in profondità.) Questa conclusione ci porta a inserire un ulteriore tassel­ lo nel nostro quadro d ’insieme: il cervello deve aver un m o­ do per convertire le configurazioni di scariche neurali che costituiscono il pensiero nelle configurazioni di scarica che guidano l’apparato vocale, così com e un m odo per converti­ re le configurazioni di scarica prodotte dall’orecchio interno in quelle che costituiscono il pensiero. L a figura 4.2 riassu­ me l’analisi che abbiam o fin qui condotto. (Le teste di Enri­ co e Sandro, nella fig. 4.1, sono graziose m a anche scom ode da disegnare, quindi schematizzerò: la linea continua indica il confine tra il corpo della persona e il m ondo esterno; la li­ nea tratteggiata indica il confine tra il cervello e il resto del Per quanto riguarda il posto che spetta al linguaggio, stiamo finalmente arrivando al dunque: il linguaggio è il mezzo che il cervello ha a disposizione per tradurre pensieri in schemi motori o uditivi, e viceversa - e questa traduzione avviene in conformità a principi. Ovvero: nella figura 4.2, possiamo collocare il linguaggio al posto delle frecce entro i

0)

¡Pensiero(

-------------------- ;

►d£>Ss?

I........... j Cervello di Harry

Cervello di Sam

cerchietti. (È chiaro che la fig. 4.2 è incompleta, perché ogni persona è in grado di eseguire la traduzione in entram bi i versi. Aggiusteremo le cose tra un attimo.) Il processo che va dal pensiero alle istruzioni motorie è la produzione del lin­ guaggio-, quello che va dalle configurazioni uditive al pensie­ ro è la percezione del linguaggio. Possiamo dire che le diverse lingue sono modi diversi di convenire il pensiero in schemi motori, così come schemi uditivi in pensiero. Una delle idee fondamentali della teoria linguistica è che queste traduzioni, o conversioni, non sono eseguite dal cer­ vello in un sol colpo. Piuttosto, nella conversione sono es­ senzialmente coinvolti due passi intermedi: la struttura fono­ logica (o struttura sonora) e la struttura sintattica (o struttura di sintagma). Facendo uno zoom ravvicinato sui cervelli di Enrico e Sandro nella figura 4.2, la configurazione generale che ne risulta somiglia alla figura 4.3: le frecce racchiuse nel cerchietto della figura 4.2 sono state scomposte per indivi­ duare questi passi intermedi di conversione.

Il cervello di Sandro (la percezione del discorso) ! antiche 1 |

fonologica

sintattica ~ *

LINGUAGGIO

Fate attenzione a come la figura sia composta da parti se­ parate. Possiamo combinarle e raffigurare U cervello di una persona che sia capace di produrre e percepire il linguaggio: è sufficiente che permettiamo ad alcune delle conversioni di operare in entrambi i sensi, come nella figura 4.4.

| ■ £ * ■ « N a ¿ S E S S i ^ ^ sintattica P— --- Istruzioni ___________ _____________ , !

m° '° " e___________ LINGU AGGI_____________

Come dobbiam o interpretare la figura 4.4? Per farvene un’idea, pensate a quel che succede quando fate «p artire» una cassetta ( videotape ) sul videoregistratore (VCR). L a cas­ setta contiene informazioni registrate in form a di configura­ zioni magnetiche sull’o ssido della cassetta; la sua organizza­ zione è essenzialmente lineare e spaziale. Q uando si schiac­ cia il tasto «Play» del videoregistratore, questa organizzazio­ ne viene tradotta in una configurazione tem porale di impulsi elettrici che esso invia all’apparecchio televisivo. A sua volta, il televisore traduce questa configurazione d ’impulsi in una configurazione di punti sullo schermo, punti che sono dispo­ sti in un reticolo bidim ensionale e si m odificano nel tempo. Videotape

VCR

impulsi

Televisore (spaziale a 2D

Ognuno di tali formati informazionali - la cassetta, gli impulsi elettrici, i punti sullo scherm o - ha la sua intrinseca organizzazione; e, per trasform are l’uno nell’altro questi tipi d’informazione, è necessario uno strum ento specializzato. La figura 4.5 m ostra un altro form ato informazionale che è rilevante per il sistem a in esame. I program m i televisivi ri­ chiedono la trasmissione di un segnale sotto form a di onde

elettromagnetiche: la sua struttura spaziale è, dunque, tridi­ mensionale e possiede anche un’organizzazione temporale. L ’antenna è uno strumento che converte questo segnale in uno dei formati su menzionati, cioè, quello degli impulsi elettrici che arrivano al televisore. I videodischi corrispondo­ no a un ulteriore formato in cui si può veicolare l’informa­ zione e richiedono un altro strumento, specializzato nella conversione delle configurazioni proprie dei videodischi in segnali di input per il televisore. Infine, bisognerebbe ricordare che esistono formati di­ versi per le videocassette - per esempio il formato V H S e il Betamax. Ciascuno di essi ha bisogno di un meccanismo al­ quanto diverso per trasformare una cassetta in impulsi ap­ propriatamente codificati per il televisore. (Si potrebbe pen­ sare che si tratta di diversi «linguaggi» o «dialetti» per le vi­ deocassette.) Analogamente è possibile che le configurazioni formate da punti sullo schermo siano organizzate in modo diverso a seconda che abbiamo una televisione in bianco e nero o a colori, o a seconda che abbiamo un video normale o uno ad alta definizione. Tornando ora alla figura 4.4, possiamo fare un discorso analogo, purché si tenga presente che qui tutti i formati informazionali consistono in configurazioni di scariche neurali. Ancora una volta, ciascun formato ha le sue proprie carat­ teristiche e occorrono meccanismi specializzati - si tratta ora di parti del cervello - per convertire l’informazione da un formato all’altro; e per ciascuna coppia di formati c’è biso­ gno di un differente strumento di conversione. Convertire, per esempio, configurazioni uditive in una struttura fonolo­ gica è un processo totalmente diverso dal convertire la strut­ tura fonologica in schemi motori, anche se i due processi condividono la struttura fonologica come formato informazionale comune. E procedure ancora diverse sono richieste se le strutture fonologiche e sintattiche sono quelle del viet­ namita o dello hopi, invece che quelle dell’italiano. Si potrebbe aggiungere un ulteriore componente alla fi­ gura 4.4: il collegamento col linguaggio scritto. L a scrittura alfabetica è sostanzialmente una codifica della struttura fo­ nologica - impariamo a scomporre i suoni che ricorrono nel­ le parole - benché, com’è noto, la codifica non sia perfetta: la ortografia inglese è nota per le sue idiosincrasie. Perché

mediante quello uditivo: e questo processo è la lettura. Cioè, la lettura può esser concepita come una ulteriore ramifica­ zione, all’interno della figura 4.4, analoga al ruolo dell’anten­ na nella figura 4.5 '. È opportuno richiamare l’attenzione su una significativa distinzione psicologica tra il sistema di lettura/scrittura e il " [uisire padronanza nel compi:, di norma, una lunga fase di ____________ r _____ , ______ utti conseguono quest’abilità; viceversa ogni persona normale impara a parlare in m odo fluente. Questo fatto ci consente di richiamare un’importan­ te osservazione fatta nel capitolo 3, allorché abbiam o detto iggio parlato non viene insegnato in m odo esplintate il com pito abbastanza faticoso di insegnare a leggere con il com pito, che non richiede sforzo alcuno, consistente nel far sì che i bam bini imparino a parlare. Il contrasto mette in evidenza la notevole specificità dell’ap ­ prendimento di una lingua parlata. Le questioni più rilevanti della m oderna teoria linguistica concernono l’organizzazione della struttura fonologica e sin­ tattica, ovvero i tipi di codici mentali che funzionano da sta­ zioni intermedie fra il pensiero e i codici uditivi e motori. Non c’è da stupirsi che queste strutture siano m olto più complesse di quelle impiegate nel sistem a videoregistratoreTV, illustrato con la figura 4.5. Per quanto sinteticamente, i prossimi due capitoli daranno un’idea delle proprietà che contraddistinguono tali strutture. 2. Funzionalismo e la struttura fonologica e qui tuno dire qualcosa sul m odo il

accingiamo a studiare queste strutture, anche se non sappia­ mo molto su come esse vengano físicamente realizzate nel cer­ vello sotto forma di configurazioni di scarica di neuroni. Que­ sta impostazione generale dell’indagine sulle capacità mentali prende il nome di funzionalismo e rappresenta una strategia che funge da guida in gran parte della psicologia cognitiva e dell’intelligenza artificiale, non meno che in linguistica. Per iniziare a vedere in che cosa consiste il funzionalismo, torniamo all’esempio della videocassetta. Allo scopo di regi­ strare immagini televisive, un nastro deve avere un codice che esprima certe distinzioni; e questo codice dev’essere memoriz­ zato in termini di configurazioni magnetiche (fondamental­ mente unidimensionali) presenti sul nastro. Ci possiam o dun­ que chiedere in che modo è organizzato questo codice, per poter fare quel che fa. In quanto si tratta di configurazioni, non conta molto se codifichiamo su un nastro magnetico o su qualcos’altro che abbia un’organizzazione unidimensionale si­ mile, per esempio una serie di schede perforate o un codice a barre che possa essere letto da un lettore ottico: quel che im­ porta è la struttura (pattern). Analogamente, possiam o studia­ re la strutturazione dei suoni linguistici - il loro ordine, le dif­ ferenze e le somiglianze reciproche, nonché il loro contributo alla comprensibilità di quanto si dice - in relativa indipenden­ za dal mezzo neurale in cui i suoni sono fisicamente codificati. Dal punto di vista di una teoria funzionalista, che cosa si­ gnifica dire che nelle nostre grammatiche mentali si trova un certo principio, come parte della dotazione che sfruttiamo per capire e creare sempre nuove frasi dell’italiano? Prendia­ mo uno dei più semplici principi dell’italiano, quello secon­ do cui il soggetto di una frase precede (di norma) il verbo. Se questo principio è in qualche modo nella nostra testa, al­ lora anche i termini «frase», «soggetto» e «verbo» devono essere nella nostra testa. Ora, che cosa significa dire che co­ nosciamo e usiamo inconsciamente questi termini? Ebbene, per prima cosa, non significa che li conosciamo in italiano'. F a parte della natura della situazione comunicati­ va che noi, in quanto teorici, dobbiamo esprimere questi principi in italiano, in giapponese o, se ci piacciono le cose ricercate, in termini di qualche formalismo matematico. Questo è il solo modo che abbiamo di formulare teorie su qualcosa. M a se stiamo sviluppando una teoria fisica e ci ca­

pita di usare il simbolo e per «elettrone», non è che poi ci aspettiamo davvero di trovare elettroni con su attaccate tante piccole e. Analogamente, non ci aspettiam o di andar a guar­ dare nel cervello e trovarci l ’enunciato «A Emilia piace zio Vania», registrato in m emoria con un piccolo segno su «p ia­ ce», che stia a indicare «verbo». In effetti, non ci aspettiamo nemmeno di andare a guardare nel cervello e trovarci la p a­ rola «piace». Supponiam o che le nostre conoscenze siano contenute in qualche curiosa specie di registro all’interno del cervello. L ’informazione presente nel registro non è immagazzinata in forma leggibile da noi osservatori esterni. Perché dovrebbe esserlo? L ’informazione non è lì per il beneficio di osserva­ tori esterni, ma per essere usata dal resto del cervello. Pertanto, quando esprimiamo una regola della grammati­ ca mentale, facciamo qualcosa del genere seguente: usiamo un termine come «v erbo » per distinguere una certa classe di parole da ogni altra. Quel che intendo dire è che, qualunque sia la maniera in cui il cervello registra di norma le parole, il cervello possiede un m odo per distinguere certe specifiche parole dal resto. A doperiam o un termine come «enunciato» (o «frase») per distinguere una particolare classe di succes­ sioni di parole da ogni altra classe; l’idea è che il cervello fac­ cia la stessa distinzione. Adoperiam o termini come «sogget­ to» e «oggetto» per isolare successioni di parole che costitui­ scono parti specifiche dell’enunciato; di nuovo, l’idea è che il cervello sia in grado di isolare le stesse parti. Infine, l’intera clausola secondo cui «il soggetto di un enunciato precede il verbo» stabilisce una relazione fra varie parti dell’enunciato; l’idea è che il cervello stabilisca la stessa relazione, qualun­ que sia poi il m odo in cui esso identifica e registra le parti messe in relazione. Non possiam o decidere se quest’idea è giusta andando a guardare nel cervello, perché non sappiam o come dovrem­ mo fare. Nondim eno, se l’idea è giusta, ne derivano alcune conseguenze su come il cervello tratta certe sequenze di p a­ role - e possiam o verificare queste conseguenze eseguendo esperimenti. Ma che cos’è un esperim ento linguistico? Com e in altre scienze, la strategia consiste nello studiare i fenomeni che non si possono osservare collegandoli a cose che invece sono

osservabili. Se vogliam o misurare la m assa di un elettrone o quella del sole, non possiamo certo pesarli su una bilancia. D obbiam o servirci di qualche tipo di mezzi indiretti per arri­ vare a ciò che cerchiamo: occorre pensare a qualcosa che sia­ mo effettivamente in grado di misurare, qualcosa che sia con­ nesso a quanto in realtà vogliamo sapere e che fornisca risul­ tati affidabili. Lo stesso vale per i principi mentali che stan­ no «dietro» al linguaggio. La sola differenza è che gli esperi­ menti linguistici hanno a che fare con l’interno della nostra testa invece che con oggetti esterni. F ra i tipi d’esperimento che si possono fare sul linguag­ gio, ce n’è uno molto semplice, affidabile e facile da esegui­ re: basta presentare a dei parlanti «nativi» di una lingua un enunciato o un sintagma, chiedendo loro di giudicare se esso sia grammaticale (o no) nella loro lingua e se possa avere un qualche significato ben definito. In effetti, sono già stati ri­ cordati numerosi esperimenti del genere nei capitoli prece­ denti. H o presentato diverse liste di parole, come ad esem­ pio «Pietro crede che Betty sia un genio» o «Em ilia nove ha mangiato noccioline», e ho discusso la possibilità che fossero (o no) enunciati dell’italiano. Se le cose sono andate bene, non avete incontrato difficoltà a condividere i miei giudizi. E questo è tutto. L ’idea è che, malgrado non possiam o osser­ vare la grammatica mentale dell’italiano, possiamo però o s­ servare i giudizi di grammaticalità e di significato che vengo­ no formulati servendosi di tale grammatica. Quest’esperimento è così semplice che forse non l’avrete neppure considerato un «esperim ento»; ma non è così diver­ so da altri esperimenti che studiano quel che avviene nella testa - per esempio, fenomeni visivi ben noti, come l’illusio­ ne di Muller-Lyer, ¡’anatra-coniglio, il cubo di Necker e va­ rie «figure impossibili». Nell’illusione di Muller-Lyer, m o­ strata nella figura 4.6, il tratto orizzontale di sinistra sembra più corto di quello di destra. Ma se li misuriamo con un ri­ ghello, risultano essere della stessa lunghezza.

L'illusione di Muller-Lyer: i due segmenti i

La figura 4.7 ci m ostra l ’anatra-coniglio, che p uò sem ­ brare ora un’anatra ora un coniglio, e, a seconda di come la guardate, può passare alternativamente dall’una all’altra in­ terpretazione.

La figura 4.8 m ostra il cubo di Necker, che appare alter­ nativamente come lo schema di un cubo visto da destra e dall’alto, o come quello di un cubo visto da sinistra e dal

La figura 4.9 ci presenta tre «figure impossibili»; sono disegni al tratto che non si possono interpretare come dise­ gni di oggetti reali. Questi esperimenti sono così semplici e affidabili che tutto quanto abbiamo da fare è presentarli, chiedendo a chi li osserva che cosa veda. Inoltre, è chiaro che i nostri giudizi su queste figure non hanno niente a che fare con ciò che ci è stato «insegnato»; i giudizi in merito non richiedono alcun pensiero conscio; eppure, è molto difficile dire esplicitamen­ te perché le figure ci appaiano proprio così. Questi giudizi visivi, cioè, hanno esattamente le stesse caratteristiche dei precedenti giudizi sugli enunciati. Sto, dunque, suggerendo che i due tipi di giudizi hanno uno status simile, se conside­ rati come evidenze sperimentali.

4.8 è l’enunciato ambiguo 0 una vecchia che legge una p Nella seconda interpretazione, c’è una legge cl me relative a una certa questione; e allora T’eni

Tutti gli

a principi inconsci. Affermiamo questi giudizi ma non siamo capaci di dire esattamente perché.) In linea di principio, potremmo metterci a controllare questi esperimenti interrogando un gran numero di persone in circostanze prefissate, e così via. Ma in pratica il metodo è

r is s ili

così sicuro che, in prima (e ottima) approssim azione, i lin­ guisti tendono a fidarsi dei loro giudizi e di quelli dei loro colleghi. In tal modo, bastano un paio d ’ore per mettere a punto e realizzare decine di esperim enti davvero a basso co­ sto, come quelli che abbiam o menzionato. D ’altra parte, ci sono casi nei quali gli esperim enti non possono essere così semplici. Il caso più ovvio si presenta al­ lorché si sta facendo ricerche su una lingua diversa dalla p ro ­ pria. Bisogna allora trovare un informatore, un parlante nati­ vo (del turco, del kwakiutl, ecc.) e chiederne lÌ giudizio. In una situazione del genere, è m olto più difficile predisporre enunciati per il controllo e fare ipotesi su come procedere ul­ teriormente; la procedura è più com plicata, ma la si può ugualmente portare a termine. (La cosa funziona a doppio sen­ so. Una volta, viaggiando in treno da Kyoto a Tokio, ho p as­ sato tutto il tempo a fare da informatore a un linguista giap ­ ponese che mi chiedeva giudizi su centinaia di frasi inglesi.) Un’altra situazione problematica si determina quando i giudizi su alcune frasi chiave non sono così cristallini e affi­ dabili. Per esempio, una certa linea di ricerca che si è svilup­ pata recentemente sulle cosiddette «dipendenze a lungo rag­ gio» (si veda il cap. 6) fa riferimento a giudizi su frasi come quelle in (2): (2)

a. What did he wonder whether to fix? b. These are thè only vegetables which I don’t know where to find out how to plant.

[a. Che cosa si è chiesto se fosse da aggiustare? b. Questo è l’unico tipo di ortaggio che non so dove trovare come si semina.] Per quel che mi riguarda, le frasi inglesi in (2) sono m ol­ to strane. Comunque, suonano meglio delle frasi appena un po’ diverse contenute in (3), che trovo orribili: (3)

a. What did Betty meet a man who can fìx? b. These are thè only vegetables which I don’t know anyone who planted last year.

[a. Che cosa Betty ha incontrato un uomo che sapesse aggiustare? b. Questo è l’unico tipo di ortaggio che non conosco nessuno che ha piantato l’anno scorso.]

In casi simili, il ricercatore tenta di procedere in base alla sua sensibilità linguistica, provando anche con ulteriori va­ rianti e consultando più persone prima di dare un giudizio su ciò che la grammatica mentale ci sta dicendo sulle frasi in questione. Certamente, possiamo usare altri tipi di esperimenti al fi­ ne di esplorare le proprietà della grammatica mentale, ivi in­ cluse simulazioni al computer, varie procedure di misura dei tempi di reazione (prese in prestito dalla psicologia speri­ mentale), e perfino misurazioni delle onde cerebrali durante l’elaborazione del linguaggio. (Gli studiosi che fanno esperi­ menti del genere sono indicati come «psicolinguisti».) Q ue­ ste ulteriori procedure forniscono spesso prove determinan­ ti. Il loro svantaggio sta in una certa inefficienza: ci vuole una gran quantità di tempo per allestire un esperim ento del genere. Viceversa, quando {’esperimento consiste nel dare giudizi di grammaticalità, non c’è niente di più semplice che trovare qualche altra frase e sottoporla al giudizio dei par­ lanti. (A meno che, ovviamente, non stiate lavorando sull’inuit e dobbiate tornarvene alla Baia di H udson per incontra­ re il vostro informatore!) Per questo, i giudizi di grammati­ calità restano la tecnica sperimentale di più largo uso nella linguistica contemporanea. Com’è chiaro, dobbiamo anche mettere in conto la p os­ sibilità di raccogliere e giudicare frasi da ora fino al giorno del giudizio, senza che si sia fatto un passo avanti per capi­ re la grammatica mentale. La stessa cosa, però, si può dire per qualunque scienza sperimentale: vale la pena di fare certi esperimenti soltanto se ci aiutano a capire quel che succede. Cercando di tirare le fila, possiamo dire che l’impostazio­ ne funzionalista della ricerca sulla grammatica mentale con­ siste nel fare ipotesi, controllabili sperimentalmente, circa l’organizzazione cerebrale delle informazioni e delle cono­ scenze, senza per il momento preoccuparsi troppo di come il cervello codifichi fisicamente queste informazioni. Alcuni ricercatori sono andati oltre e hanno proposto che la ricerca funzionalista vada nettamente separata da qua­ lunque considerazione su come il cervello effettivamente funziona: dovremmo interessarci all’intelligenza in astratto, ai possibili modi di organizzare l’informazione che si posso­

no trovare realizzati altrettanto bene nei calcolatori o nei marziani. D a questo punto di vista, il m odo in cui il cervello umano codifica il linguaggio è essenzialmente irrilevante. Non intendo approdare a una forma così estrema di fun­ zionalismo. Sono interessato a com e operiam o noi. Se un giorno qualcuno riuscirà a dim ostrare che i circuiti neurali del cervello sono capaci di codificare certi tipi di strutture e non altre, sarò più che convinto che ciò pone dei limiti alle ipotesi da me avanzate riguardo ai principi del linguaggio. Il problema è tutt’altro che semplice; abbiam o bisogno di tutti gli ausili di cui ci possiam o servire. Vorrei, d ’altronde, spera­ re che una migliore comprensione dell’organizzazione fun­ zionale del linguaggio possa influenzare la ricerca su come il cervello codifica l’informazione: com unque il cervello fun­ zioni, è con quest! tipi di strutture che deve essere in grado di codificare l’informazione. 3. L ’ipotesi della modularità L ’organizzazione del linguaggio, così com ’è schematizza­ ta nella figura 4.4, permette già di mettere a fuoco un’im por­ tante ipotesi della scienza cognitiva e delle neuroscienze: la differenziazione delle aree cerebrali. Torniamo a considerare il sistema videoregistratore-TV. Tradurre da un formato all’altro richiede un meccanismo specializzato. Abbiam o bisogno di un videoregistratore per tradurre una videocassetta in impulsi elettrici; non possiam o usare i circuiti di un televisore o quelli di una stampante. E non può neanche trattarsi di un qualsiasi sistema di videore­ gistrazione: dev’essere uno in grado di leggere il tipo parti­ colare di videocassetta che possediam o; in m odo analogo, se la produzione e la percezione del linguaggio richiedono un vasto complesso di codici specializzati, il cervello deve con­ tenere un complesso di meccanismi specializzati per poter realizzare tali codici e le relative traduzioni dall’uno all’altro. Quest’ipotesi è stata denominata ipotesi della m odularità : è l’idea che il cervello sia suddiviso in molte unità separate, dette appunto «m oduli», ciascuna dotata di una specifica ca­ pacità nel trattare un tipo particolare d ’informazione. M a ciò che fa funzionare il cervello così come funziona non è

semplicemente il m odo in cui i m oduli sono interconnessi l’uno con l’altro; la natura dei circuiti interni a ciascun m o­ dulo è assolutamente cruciale, in quanto è proprio la specifi­ ca strutturazione interna ciò che rende un m odulo atto a fungere da «processore» fonologico, a identificare configura­ zioni visive, a muovere le dita, o altro ancora. Occorre prestare attenzione al collegamento fra l’ipotesi della modularità e l’ipotesi genetica introdotta nel capitolo 3 (cioè, l’idea che gran parte della struttura del linguaggio sia trasmessa geneticamente, grazie al carattere ereditario della struttura cerebrale). Q uanto più il cervello è costituito da parti specializzate, tanto più improbabile è che la loro spe­ cializzazione si sviluppi mediante una qualche forma d ’ap ­ prendimento, specie se si tratta di un apprendimento basato su semplici meccanismi stim olo-risposta. Il cervello viene così a somigliare notevolmente al resto del corpo, essendo munito di una complessa struttura fisica, finemente specia­ lizzata. Per ribadire quanto sostenuto da Chomsky (vedi il pre­ cedente cap. 3); a nessuno di noi passa per la testa che, se ci sforzassimo abbastanza nel tentativo di volare, potrem mo imparare ad avere ali invece che braccia. Possiam o irrobusti­ re le nostre braccia e imparare a usarle in compiti complessi: ad esempio, per eseguire certi esercizi di ginnastica o suona­ re il violoncello; ma non riusciremo a imparare ad alterare la struttura fondamentale delle braccia. Analogamente, sulla scorta dell’ipotesi della modularità, non dovremmo credere che i nostri cervelli possano sviluppare parti specializzate in­ teramente nuove, in risposta a compiti nuovi e inusuali. P o s­ siamo rafforzare e raffinare l’uso delle parti che ci sono che so, imparando la matematica, gli scacchi o le leggi sull’e­ dilizia - , ma l’organizzazione funzionale di base non può es­ sere modificata. (Certo, è possibile che cambi con l’evoluzio­ ne. Così come gli uccelli hanno sviluppato una specializza­ zione strutturale degli arti anteriori per volare, gli esseri umani hanno sviluppato una specializzazione strutturale del cervello per apprendere il linguaggio.) Questo modo di intendere l’apprendimento è ancor più radicale della concezione presentata nel capitolo 3. La perce­ zione e la produzione del linguaggio esigono meccanismi specializzati per elaborare informazioni in formati diversi e

per tradurle da un formato dall’altro. Stiam o dicendo che, nell’apprendere una lingua, i bam bini non costruiscono dal nulla questi meccanismi specializzati. Piuttosto, non fanno altro che «sintonizzare», rafforzare o aggiustare certi m ecca­ nismi che sono già presenti grazie alla struttura biologica. (Un parlante bilingue può essere concepito com e una perso­ na che ha l’abilità di «cam biare canale» all’interno dello stes­ so meccanismo specializzato.) Secondo questa prospettiva, la nostra soluzione del paradosso dell’acquisizione del linguag­ gio diventa perfettam ente naturale. Possiam o fare un con­ fronto tra il problema di mettere a punto il nostro televisore e il problema d ’inventario (o quello di capire come fa a fun­ zionare): il primo problema è simile al com pito che un bam ­ bino si trova di fronte nell’apprendere il linguaggio; il secon­ do è più simile al compito del linguista. Nessuna meraviglia che ci siano differenze notevoli tra i due casi. Nella parte quarta torneremo di nuovo sull’ipotesi della modularità prendendo in esam e capacità diverse dal linguag­ gio. Adesso, il nostro com pito è quello di rendere ragione di due cose: 1) la complessità e la specializzazione dei codici impiegati nella produzione e nella com prensione del discor­ so, 2) il rispettivo contributo dato a questi codici da parte della Grammatica Universale (la struttura precostruita) e dell’apprendimento (la sintonizzazione). Così facendo, avre­ mo un’idea complessiva della misura in cui il cervello è spe­ cializzato in funzione del linguaggio; inoltre, disporrem o di un metro di giudizio con cui poter valutare quanto sia plau­ sibile l’ipotesi della modularità in relazione ad altri domini della natura umana.

Capitolo quinto

La struttura fonologica

1.

Introduzione

Iniziamo ora a prendere in esame alcuni degli elementi che vanno a com porre l’effettiva organizzazione interna del linguaggio. Questo capitolo riguarda la struttura fonologica, una delle due tappe intermedie di conversione fra pensiero e suono. Il prossimo capitolo affronterà l’altra tappa: la strut­ tura sintattica. La struttura del pensiero (o, com e talvolta si dice, del «significato») è più controversa e la lascerò da par­ te fino al capitolo 14. 2.

La struttura fonologica non è uno schema uditivo né uno schema motorio

Una delle nostre intuizioni basilari è che il linguaggio si articola in parole e che le parole si possono dividere con pre­ cisione, prima in sillabe e poi in singoli suoni linguistici. L a struttura fonologica del linguaggio è una codifica di tali suc­ cessioni di suoni. È stato dim ostrato che queste successioni costituiscono un’astrazione notevole rispetto a ciò che si rea­ lizza nel discorso dal punto di vista strettamente fisico. Il flusso di suoni che sentiamo com e un «discorso» non m ostra alcuna divisione netta. Per comprenderne la ragione, è utile considerare in che m odo il discorso viene prodotto. Ci può essere d ’aiuto un’analogia: pensiamo a com e fun­ ziona una tromba. Il suonatore preme le labbra e fa passare a forza un flusso d ’aria attraverso di esse, producendo una sorta di soffio. Quando la tromba è m essa a contatto con le labbra che vibrano, entra in vibrazione anche la colonna d’aria nella tromba. Il m odo in cui la colonna d ’aria vibra

dipende dalla vibrazione delle labbra, che interagiscono con le frequenze di risonanza del «tu b o»; la qualità tonale che udiamo dipenderà da quali armoniche naturali del tubo sono prodotte e dalle reciproche proporzioni. Se variam o la ten­ sione delle labbra, Pintonazione dell’intero sistem a cambia; se mettiamo la sordina nel padiglione della tromba, cam bia­ mo la miscela di frequenze risonanti del tubo e così cambia anche la qualità tonale. Immaginiamo ora una tromba il cui tubo sia fatto di gomma invece che di ottone, cosicché la si possa allungare e piegare in vari modi. Inoltre, immaginiamo che un secondo tubo si diparta in qualche punto intermedio e che l’aria si possa dirigere attraverso l’uno o l’altro tubo. Probabilmente, questa sorta di corno non avrà le chiare risonanze di una trómba regolare, ma sarà in grado di produrre una varietà molto maggiore di sfumature di «colore», perché le sue fre­ quenze risonanti possono prestarsi a notevoli alterazioni. Adesso, supponiamo di spingere questa tromba giù nella gola del suonatore. Invece delle labbra, sono ora le corde vo­ cali nella laringe che mettono in vibrazione la canna. Il tubo è costituito dalla gola e dalle sue diramazioni nelle cavità orale e nasale. Si può «scollegare» la cavità nasale sollevando il velo (o palato molle) che funziona come una valvola. La cavità orale può essere ristretta e perfino occlusa, chiudendo le labbra o sollevando parti diverse della lingua. Il suono prodotto dipenderà dalla vibrazione delle corde vocali ac­ coppiate con le complicatissime risonanze di questo canale. Come i muscoli dell’apparato vocale cambiano la forma del canale, così cambiano le risonanze, e queste differenze ven­ gono percepite come suoni linguistici diversi. Durante la fonazione, i movimenti dell’apparato vocale sono continui e fluidi. Per esempio, provate a dire la parola uau prestando attenzione a quel che fa la bocca. Otterrete il suono di ima u (oppure a»), con le labbra prom ise, per poi passare improvvisamente a un suono a, a bocca aperta e lab­ b ra ben separate, e infine ritornare subito dopo a a. Provate a dirlo così: uu-a-uu, scandendo la transizione da un suono all’altro. Potete sentire voi stessi quanto sarebbe innaturale. Nella normale pronuncia della parola, labbra e bocca si aprono delicatamente, in pratica senza fissarsi su una a chiusa e una a aperta.

STRUTTURAFONOLOGICA

79

Come risultato della transizione continua fra le posizioni dell’apparato vocale, il segnale acustico che ne è prodotto mostra anche una transizione continua da un suono al suc­ cessivo, senza confini bruschi. Di conseguenza, il segnale che l’ascoltatore percepisce come una serie di suoni linguisti­ ci nettamente distinti è in realtà ben diverso. L ’onda sonora subisce un cambiamento continuo, come risultato del cam ­ biamento continuo nella forma assunta dall’apparato vocale. Ma allora, a che cosa effettivamente corrispondono i di­ stinti suoni linguistici? È emerso che corrispondono ab b a­ stanza bene alle configurazioni iniziale e finale dei movimen­ ti dell’apparato vocale - per esem pio, nella parola uau, ab ­ biamo la sequenza tem porale costituita da: protrusione delle labbra, apertura della bocca, protrusione delle labbra. Ciononostante, al fine di strutturare il flusso linguistico, è necessario che il cervello codifichi la sequenza di suoni lin­ guistici (e le loro combinazioni) in parole e frasi. C i si riferi­ sce a questa codifica dei suoni linguistici col termine «strut­ tura fonologica». Stiamo, dunque, rendendoci conto che la struttura fonologica è un tipo di organizzazione mentale di­ stinto sia dalle istruzioni relative all’apparato vocale sia dalle configurazioni uditive (vedi fig. 5.2). Così, quando si parla, si ha in mente una struttura fonolo­ gica (oltre che un pensiero). La struttura fonologica determina

una specifica sequenza di configurazioni dell’apparato vocale; e il cervello deve convertire questa sequenza in istruzioni che dicano ai muscoli dell’apparato vocale come muoversi. Q uan­ do si ascolta qualcuno che parla, il cervello deve convertire rinformazione continua e disturbata dal rumore, che viene dal nervo uditivo, in una simile sequenza di posizioni dell’ap ­ parato vocale - ricostruendo, in pratica, le configurazioni del­ l’apparato vocale del parlante, ovvero percependo la struttura fonologica che il parlante ha in mente. 3.

Realtà psicologica e realtà fisica della struttura fonologica

Può darsi che a questo punto il lettore attento si trovi un po’ a disagio. All’inizio del capitolo ho osservato che, intuiti­ vamente, le emissioni verbali ci appaiono suddivise in p aro­ le, le parole ci appaiono suddivise in sillabe e queste in sin­ goli suoni linguistici. Tuttavia, abbiamo dedicato le pagine precedenti a mostrare che il segnale acustico che ci proviene dall’esterno non rivela affatto divisioni così nette - i suoni effettivi del linguaggio parlato subiscono variazioni continue, di modo che l’uno sfumi gradualmente nel successivo. Per render ancora più chiaro tutto ciò, soffermiamoci sulla divisione in parole. Certo, quando scriviamo, lasciamo degli spazi tra una parola e l’altra, e questo rispecchia la no­ stra percezione: quasi mai abbiamo problemi a sentire dove finisce una parola e dove comincia quella successiva. Ma fate attenzione a come pronunciate le coppie di frasi seguenti:1 (1)

a. Non penso affatto che siano inversi, b. Non penso affatto che siano in versi.

(2)

a. Hai già visto un pollo così? b. Hai già visto un bollo così?

(3)

a. Ce l’ho in posta b. Ce lo imposta'.

Alla velocità di una normale conversazione, queste frasi possono essere pronunciate in m odo tale che siano acusticamente indistinguibili. Esse, però, richiedono che le pause fra le parole siano collocate in punti diversi della successione di suoni. Più in generale, quando-parlate-non-lasciate-che-siawertano-vuoti-tra-una-parola-e-l’altra; piuttosto, nonfatealtrochelegarefraloroleparolesenzainterruzioni. In altri termi­ ni, i confini di parola, anche se non c ’è dubbio che fanno parte della struttura fonologica, non sono presenti nelle istruzioni motorie e nelle informazioni uditive. Qualora questi esempi tratti dall’italiano non vi convin­ cano, provate a ripensare all’ultima volta che vi è capitato di sentir parlare una lingua a voi sconosciuta. Sapreste dire d o ­ ve finiva una parola e cominciava quella do p o? C ’erano, sì, delle pause qua e là, ma per lo più avevate probabilm ente l’impressione di una gran furia messa nel parlare. Q uesto fa capire che bisogna conoscere la lingua se vogliamo essere in grado di percepire i confini di parola. Stiamo sfiorando una questione profonda. A bbiam o sco ­ perto che le parole che udiamo e pronunciamo consciam en­ te non sono in alcun senso «là fuori nel m ondo». N on p os­ siamo affatto individuarle con misurazioni fisiche delle onde acustiche. Invece, il m odo in cui sperimentiam o il flusso ver­ bale sembra aver più a che fare con le configurazioni della struttura fonologica che risiedono nella nostra mente: confi­ gurazioni in base alle quali i suoni linguistici e, in particola­ re, le parole sono demarcate nettamente. Per il momento, non insisterò su questa osservazione; ma 1 1 L’esempio (3) dell’autore è: a. We needed a cantor. b. We need a decanter (rispettivamente, «Avevamo bisogno di un cantore», «Abbiamo bi­ sogno di una caraffa»). L’autore commentava a tal proposito: «Quest’e­ sempio è tratto dalla vita reale. Durante la cerimonia nuziale del mio amico Michael Benne», il rabbino aveva qualche problema nel versare il vino; al­ lora Michael fece un gioco di parole: “We have a rabbi, but we...”» (Abbia­ mo un rabbino, ma... ) (NJ.T.).

•o2 8
deve essere già stato messo da parte: ed è proprio ciò la struttura fonologica. Vale a dire, l’identificazione di una parola dipende non dalle sue caratteristiche sonore, bensì dalle sue caratteristiche fonologiche. Perciò, il dia­ gramma funzionale, relativo al flusso d ’informazione che si ha nel linguaggio, va rielaborato come indica la figura 6.1.

S

2.

La struttura sintattica è distìnta dal significato

La grammatica tradizionale definisce un nome come «espressione indicante persona, luogo o cosa» e un verbo co­ me indicante «un’azione o uno stato di cose». In base a queste definizioni, le unità della struttura sintattica sono, in effetti, elementi relativi al significato (o relativi al pensiero). E molte persone, tra le quali eminenti psicologi e informatici, pensano che l’analisi sintattica non sia altro che una descrizione strin­ gata del significato: se caratterizziamo adeguatamente il signi­ ficato, non resta altro da dire circa la struttura sintattica. Sarebbe davvero com odo se non ci fosse bisogno di am ­ mettere un livello di analisi sintattica intermedio fra la strut­ tura fonologica e il significato (ovvero, se l’analisi del cervel­ lo fosse estremamente semplice). M a i fatti che conosciamo a proposito del linguaggio non consentono di cavarsela così

facilmente. L a struttura sintattica è più vicina al significato di quanto lo sia il suono - è un p o ’ come l’ultima fermata tra i suoni e i significati - e dunque riflette da vicino certi aspet­ ti del significato. Tuttavia, vorrei mostrarvi com e ci siano al­ tre proprietà della struttura sintattica che non hanno molto a che vedere col significato. Si tratta di proprietà che riguarda­ no l’organizzazione degli elementi di significato in un ordine lineare (di modo che sia possibile pronunciarli) e al contem­ po fissano le relazioni fra questi elementi (di m odo che l’a­ scoltatore possa reidentificarli). Innanzitutto, chiediamoci se ciascuna parte del discorso denoti davvero una certa specie di significato in modo siste­ matico. In (4) sono elencate alcune delle corrispondenze più comuni fra entità semantiche e parti del discorso. (4)

Oggetto = Nome (cane, grattacielo, oceano, molecola). Azione=Verbo (soffiare, entrare, consentire, interpretare). Proprietà = Aggettivo (caldo, geloso, calmo, etereo). Luogo = Preposizione o sintagma preposizionale (in casa, sul soffitto, tra Roma e Milano).

Ora, è pur vero che qualsiasi parola indicante un oggetto è un nome, ma è anche vero che non ogni nome indica un oggetto. «Terrem oto» indica semmai un’azione, così come «concerto»; invece, «grigiore» e «taglia» indicano proprietà; e, in modo palese, «p o sto» o «ubicazione» si riferiscono a luoghi. In effetti, per quasi ogni tipo di entità che possiamo immaginare, esistono nomi che indicano quel tipo di entità. Così, non si può dare una definizione del concetto gramma­ ticale di «nom e» in termini del tipo di entità che un nome denoterebbe. Analogamente, possiamo usare le preposizioni per nomi­ nare non solo luoghi ma anche tempi («in mattinata», «tra lunedì e martedì») e proprietà («fuori di senno», «in senso positivo»). Neanche le preposizioni, dunque, corrispondono a un tipo prefissato di entità. Questi esempi illustrano il fatto che un tipo particolare di entità non necessariamente corrisponde a una data parte del discorso. Si possono denotare azioni tanto coi verbi quanto coi nomi, e si possono denotare proprietà mediante aggettivi, nomi o preposizioni. Anzi, una stessa proprietà

può esprimersi con un aggettivo o un avverbio, a seconda che modifichi un nome oppure un verbo: (5)

a. Un violento terremoto, un concerto meraviglioso. b. La terra vibrò violentemente, l’orchestra suonò meravi­ gliosamente.

Ne concludiamo che le parti del discorso, cioè le unità basilari della struttura sintattica, non sono definibili in ter­ mini di significato. Ma c’è anche un’altra ragione per cui la struttura sintatti­ ca non è ricostruibile a partire dal significato. Nel capitolo 4 abbiamo notato che il significato (o il pensiero) è indipen­ dente dalla lingua usata; altrimenti, non avrebbe senso parla­ re di traduzione da una lingua a un’altra, com e se la tradu­ zione esprimesse lo stesso significato1. N e consegue, quindi, che le differenze fra l’espressione originale e una sua tradu­ zione non riguardano il significato, che originale e traduzio­ ne condividono. Certo, le lingue non condividono la fonologia che accom pa­ gna l’espressione di uno stesso pensiero. Ecco p erché dobbia­ mo consultare come pazzi il nostro dizionario quando imparia­ mo una lingua straniera: quale strano suono significherà in por­ toghese la stessa cosa che «om brello» in italiano? M a oltre a imparare la fonologia, dobbiamo imparare in che ordine mette­ re le parole: e questa è una proprietà sintattica delle lingue. In inglese, per esempio, l’aggettivo precede di norma il nome cui è apposto, mentre in francese gli aggettivi (con al­ cune eccezioni) seguono di norma i nomi cui sono apposti in funzione qualificativa. (6)

Le chat «o/r=The black cat.

[D gatto nero.]' Normalmente, i verbi italiani seguono il soggetto e pre­ cedono l’oggetto, ma in giapponese i verbi seguono sempre il soggetto e l’oggetto. 1 Lo stesso significato o quasi, a ogni buon conto. Nel cap. 14 vedremo alcunecircostanze nelle quali una traduzione davvero esatta non è possibile.

(7)

Bill-ga hon-o utta = Bill il libro ha venduto.

In inglese, si può formulare una dom anda ponendo un «verbo ausiliare» («d o », «w ill», «b e », ecc.) davanti al sogget­ to, mentre in tedesco le frasi interrogative possono presenta­ re il verbo principale davanti al soggetto. (8)

Liebt Wozzeck Marie? = Does Wozzeck love Marie?

[Wozzeck ama Maria?] Q ueste configurazioni dell’ordine verbale dipendono dalla conoscenza delle parti del discorso e quindi hanno a che fare con la struttura sintattica. D ’altra parte, poiché tali configurazioni cambiano da lingua a lingua, non possono di­ pendere dal significato. Così, possiam o ulteriormente ren­ derci conto che la struttura sintattica possiede proprietà che sono indipendenti dal significato.3 3. Alcune strutture sintattiche Se le parti del discorso non hanno a che fare col signifi­ cato, con cosa hanno davvero a che fare? Orm ai dovrebbe essere chiaro che la classificazione delle parole in parti del discorso determina il loro ruolo all’interno delle configura­ zioni in cui sono collocate. Soffermiamoci un attimo su alcune configurazioni sintat­ tiche dell’inglese e dell'italiano. Via via che le esamineremo, sarà importante tenere presente che queste configurazioni fanno parte della grammatica mentale - in qualche modo, esse sono immagazzinate nel nostro cervello e al contempo sono qualcosa che abbiamo dovuto apprendere. Come abbiamo visto nel capitolo 5, un nome può presen­ tarsi con una desinenza plurale: «cani», «banane», «terrem o­ ti». Un verbo, d’altronde, può presentarsi con una desinenza indicante un tempo passato: «aiutò», «credette», «procrasti­ nava». Si noti che la nostra abilità nell’uso di queste desinen­ ze è una conoscenza sintattica e non dipende dai significati delle parole. Per quanto concerne il significato, potrebbe an­ che avere un senso che i nomi indicanti azioni si presentasse-

ro con forme al passato. Tuttavia, non ci sono sostantivi co­ me «festata» o «esam ito » indicanti una festa o un esam e av­ venuti in passato. Analogamente, attenendoci al significato, avrebbe senso poter apporre una desinenza plurale a un ver­ bo per indicare che una certa azione viene eseguita più volte. Ma in inglese non si può dire «A ndrea will dances», per in­ dicare che Andrea ballerà parecchie volte (la desinenza «-s» in «Andrea dances», ovviamente, non indica il plurale m a la terza persona singolare del presente2) né in italiano si può dire: «Andrea balleranno» per indicare che Andrea ballerà più volte. In altri termini, la disponibilità di desinenze per il passato e per il plurale è correlata con la distinzione sintatti­ ca fra verbi e nomi, non con la distinzione di significato tra oggetti e azioni: sono soltanto le forme verbali che possono presentarsi al passato, e le desinenze plurali dei verbi indica­ no soltanto la pluralità del loro soggetto, non dell’azione espressa. Passiamo a un altro esem pio: in inglese, un verbo è pre­ ceduto dal suo soggetto ed è seguito dal suo (complemento) oggetto - se è un verbo transitivo. Sia il soggetto che l ’ogget­ to sono sintagmi nominali. Com e abbiam o appena visto, il verbo può anche essere modificato da un avverbio. Infatti, incontriamo enunciati come (9). (9)

The enemy

rapidly

destroyed

a city.

Sintagma nominale

Avverbio

Verbo

Sintagma nominale

[Il nemico rapidamente distrusse una città.] Si dà il caso che ci sia un nome, come «distruzione», che descrive la stessa azione del verbo «distruggere». M a se vo­ gliamo esprimere qualcosa di simile a (9) usando questo no­ me, il sintagma risultante viene a essere alquanto diverso: non «il nemico rapidamente distruzione una città» («thè enemy rapidly destruction a city»), che suona assurdo, bensì (10). 2 Sarebbe come dire, in italiano, «La porta sarà richiuse», per indicare che la porta sarà richiusa più volte, mentre in «Richiuse la porta» la desi­ nenza «-se» indica la terza persona singolare del passato remoto (N.t/.T.).

(10)

| The enemy]s

rabici

sìntajgma possessivo aggettivo nominale «soggetto»

destruction

1

nome

of

a city

I

.

1

preposizione sintagma nominale «oggetto»

[Del nemico la rapida distruzione di una città.] Queste differenze non possono aver nulla a che fare col significato, perché i significati di (9) e (10) sono corrispon­ denti. Esse hanno piuttosto a che fare con le configurazioni sintattiche nelle quali nomi e verbi si inseriscono. Soffermiamoci adesso su come le sottoconfigurazioni si possono combinare in configurazioni piti ampie. È ormai d’uso comune servirsi di diagrammi «a d albero» per rappre­ sentare il m odo in cui un enunciato o un sintagma sono composti di configurazioni e sottoconfigurazioni, come nel caso seguente: (11)

E (enunciato)

SN (sintagma nominale)

Art (articolo)

SV (sintagma verbale)

N (nome)

V (verbo)

pappagallo

vide

SN

Art

un

N

topolino

Q uesta notazione «ad albero» è simile ai vecchi diagram­ mi che servivano a scomporre una frase nelle sue parti; ma ne differisce in quanto ciascuna parte viene ora etichettata come appartenente a un particolare tipo sintattico, come N, SV o Art. Il diagramma (11) ci informa che la frase «il pap­ pagallo vide un topolino» si compone di due parti principali:

un sintagma nominale (il soggetto) e un sintagma verbale (il predicato). Il sintagma nominale è formato da due parti: l ’ar­ ticolo «il» e il nome «p ap p agallo». Anche il sintagm a verbale è formato da due parti: U verbo «v id e » e il sintagm a nom ina­ le «un topolino», che a sua volta si scom pone in du e parti: l’articolo «u n » e il nom e «topolino». Quanto all’ordine verbale, molte differenze tra le lingue parlate nel m ondo diventano trasparenti quando le si analiz­ za in termini di strutture ad albero. Per esempio, in francese l’ordine relativo tra nome e aggettivo differisce dall’inglese in quanto l’etichetta A sotto SN è fatta slittare dall’altra p ar­ te del nome N.

Art

A

N

AN \A

Art

L ’ordine secondo cui si dispongono in giapponese il ver­ bo e il complemento oggetto è il risultato dell’inversione tra il nodo V e il nodo SN che dipendono dal nodo SV. (13)

Inglese (Ha venduto il libro] SV

V

I

sold

A

Giapponese [Libro ha venduto] SV

SN

(D ’altro canto, la differenza tra le interrogative tedesche e inglesi è più complicata e non cercherò di darne una spie­ gazione in questa sede.) L ’uso di diagrammi ad albero ci consente anche di de­ scrivere in m odo efficace molti casi di ambiguità. Un esem­ pio tipico è riportato in (14). (14)

Il vecchio uomo su una sedia con una gamba rotta. SN

Art

N

'

l

,

--

I A\

I

m ia i

II sintagma che la (14) ci presenta è am biguo: chi è che ha la gamba rotta? Il vecchio uom o o la sedia? Q ueste due possibilità si manifestano nei due alberi (14a) e (14b). L a dif­ ferenza cruciale sta nella posizione in cui il sintagm a p repo­ sizionale cerchiato, «con una gam ba rotta», si inserisce nel sintagma nominale com plessivo. Se è agganciato al sintagma nominale che occupa il nodo più alto dell’albero, allora m o­ difica «uom o»; se invece è agganciato a quello più basso, modifica «sedia». L ’espressione complessiva è am bigua per­ ché entrambe le strutture danno luogo alla stessa successio­ ne di parole. In altri termini, la differenza di significato si manifesta nella struttura sintattica, non nella struttura fono­ logica. L ’esatta determinazione di quali am biguità linguistiche debbano spiegarsi in questo m odo è un tema di continue di­ scussioni all’interno della teoria del linguaggio. Per esem pio, l’enunciato (15a) può essere interpretato tanto nel senso di (15b) quanto in quello di (15c). (15)

a. Molte delle persone qui presenti hanno letto due libri. b. Ci sono due libri (diciamo, Via col vento e Paura di vola­ re) che molte delle persone qui presenti hanno letto. c. Molte delle persone qui presenti hanno letto due libri, anche se non necessariamente gli stessi due.

L ’interrogativo che ci poniam o è se l’enunciato (15a), così come il sintagma in (14), abbia strutture sintattiche differenti in corrispondenza con differenti interpretazioni, oppure se abbia un’unica struttura sintattica che può interpretarsi in en­ trambi i modi. Qui non mi è possibile entrare nel merito delle difficoltà che questo problema presenta; basti considerare che un verdetto univoco non è stato ancora raggiunto dopo circa trent’anni di indagini. Le ricerche svolte hanno fornito molte indicazioni riguardo ai fenomeni che una soluzione corretta dovrà spiegare e riguardo a quali potenziali soluzioni non potranno funzionare. Ciononostante, fra i teorici sussiste tuttora un sostanziale disaccordo su quale sia davvero la solu­ zione. (Ecco un esem pio notevole del paradosso dell’acquisi­ zione del linguaggio: quando i bambini cercano d ’imparare il linguaggio, probabilmente non devono far lavorare il cervello riguardo ai problema in esame, neppure inconsciamente!)

4.

Ricorsività e movimento sintattico

È opportuno dire ancora qualcosa sulle strutture ad al­ bero. Quando, nel capitolo 2, abbiamo per la prima volta esa­ minato certe configurazioni sintattiche, abbiam o parlato del­ la proprietà di ricorsività, ovverosia quella possibilità tipica delle frasi la quale fa sì che una frase ricorra entro altre frasi ad infinitum, come in «Enrico disse che Emilia pensava che Sandro prevedesse che Manuela avrebbe creduto che Betty è un genio». Le strutture ad albero costituiscono un ottimo strumento per dar conto di questo tipo di configurazioni. Per esempio, avrete già notato che gli alberi in (14) hanno un SN entro un altro SN , e in effetti (14b) itera ulteriormen­ te questo tipo di configurazione sintattica. Anche questa configurazione può essere iterata senza un limite, dando luo­ go a sintagmi involuti ma pur sempre comprensibili come «la copertina di un libro sulla madre dell’uom o sulla sedia con una gamba rotta». Una parte di questo sintagma è rap­ presentata nell’albero che segue.

madre P

/\

In modo simile, lo schema « x verbo-3s che e » entra in strutture ad albero come la seguente: (17) E SN

SV

i rV \

N

I

I

Enrico disse

ES (enunciato subordinato) che

E

/ \V I I Emilia pensava N

N

N

I

\

V

ES

I

/\

Sandro preve- che desse

ES

Possiamo dunque renderci conto, in m odo più chiaro che nel capitolo 2, come si possano costruire enunciati sem ­ pre più lunghi e complessi a partire da un insieme di confi­ gurazioni relativamente semplici. In realtà, le configurazioni sintattiche basilari del linguaggio possono essere general­ mente concepite come sottoalberi con un unico sottolivello immediato: (18)

a.

E SN

b. SV

SV V

c. SN

SN Art A N SP

d.

SP P

e. SP

SV V

f. ES

ES che

E

M ettendo insieme queste unità, così com e si fa coi pezzi del Lego, è possibile costruire alberi di grande complessità. Anzi, possiam o caratterizzare le configurazioni sintattiche di lingue diverse specificando un diverso insieme di sottoalberi base - come, per esempio, è mostrato in (12) e (13). Q uest’impostazione ci consente anche di spiegare perché in una lingua data non ogni combinazione è possibile. In in­ glése e in italiano, per esempio, non esistono sottoalberi co­ me (19a). D a ciò consegue che un nome non può avere un «complemento oggetto» come nel sintagma non-grammati­ cale (19b). Al contrario, l’analogo che corrisponde più da vi­ cino al sintagma verbale «distruggere la città» consiste nell’usare un sintagma preposizionale, come in (19c). (19)

a. Non grammaticale in italiano e in inglese: b.

SN

Art

I

N

SN

I

thè destruction la distruzione

K

thè city la città

SN

Art

N

thè destruction P SN la distruzione of A r T ''" '^ di città

Come al solito, questa organizzazione della gram matica mentale viene verificata per mezzo di un’am pia sperimenta­ zione concernente le intuizioni che i parlanti hanno sugli enunciati grammaticali, lungo le linee illustrate nel capitolo 4. Inoltre, si afferma che questo m odo di descrivere le configu­ razioni riproduce il m odo in cui il cervello le organizza, an­ che se non abbiamo idea di come i neuroni realizzino una ta­ le organizzazione. Gli esperimenti rivelano anche l’esistenza di casi in cui sottoalberi come (18) non sono sufficienti a caratterizzare la nostra conoscenza sintattica. G li esempi tratti dall’inglese e riportati in (20) sono «interrogative wh-», cioè frasi interro­ gative che iniziano con parole wh- come «w ho» (chi), «w hat» (cosa), «where» (dove) e «w hich» (quale). (20)

a. What did Beth eat for breakfast? b. Whom did Harry think that Nancy met at the store? c. Which book does your mother say that the teachers think that the children will read over the summer?

[a. Cosa ha mangiato Beth a colazione? b. Harry chi pensa che Nancy ha incontrato nel negozio? c. Quale libro tua madre dice che gli insegnanti pensano che i ragazzi leggeranno nel corso del­ l’estate?] In (20a), «w hat» è inteso come complemento oggetto («oggetto diretto») del verbo «e at» (mangiare), anche se si trova all’inizio della frase invece che dopo il verbo. Ce ne possiamo accorgere perché una risposta pertinente potrebbe essere «Beth ate octopus for breakfast» (Beth ha mangiato polpo a colazione), ove il sintagma nominale che risponde a «what?» (cosa?) è nella sua consueta posizione dopo il verbo. Per spiegare la relazione «intesa» che «w hat» ha col ver­ bo, i linguisti hanno proposto l’ipotesi secondo cui nella grammatica mentale esisterebbe uno stadio d ’analisi in cui «what» è realmente l’oggetto diretto del verbo - «Beth did eat what for breakfast» (Beth mangiò [interrogativo] cosa a colazione). Dopodiché, «w hat» in un certo senso «si sposta» all’inizio della frase. Per facilitare la comprensione di questa ipotesi, tenete presente che ci sono due specie di situazioni

in cui la parola wh- è effettivamente usata come oggetto di­ retto invece di essere messa all’inizio di frase. Una di queste situazioni si presenta in contesti di incredulità (le cosiddette «interrogative-eco») : (21)

Holy cow! Beth ate what for breakfast?! O ctopus??! !

[Per la miseria! Beth ha mangiato cosa a colazione?! U n polpo??] L ’altra si ha in situazioni come quelle degli spettacoli a quiz: (22)

Mr Van Doren, for $64,000: on thè morning of July 4, 1776, General Washington ate what for breakfast?

[Signor van Doren, per 64.000 dollari: la mattina del 4 luglio 1776, il generale Washington mangiò cosa a colazione?] In aggiunta a questi fatti, le consuete interrogative wh- in alcune lingue non collocano la parola wh- all’inizio, ma la la­ sciano al suo posto, proprio come le parole wh- in (21) e (22) . La (23) è un esempio tratto dal coreano, in cui, come in giapponese, il verbo segue l’oggetto diretto; noterete che il sintagma «which college» si trova proprio nel mezzo della frase. (23)

Ne-nun Chelsoo-ka enu tayhak-ey kat-ta ko sayngkha-m? You Chelsoo which college went that think?

[Tu Chelsoo quale college andò che pensi? A quale college pensi che andò Chelsoo? *] L ’idea è, dunque, che le interrogative-eco, le domande dei quiz e le interrogative del coreano ci rivelano la posizio­ ne base o «soggiacente» delle parole wh-, a partire dalla qua­ le esse poi si spostano all’inizio delle interrogative inglesi. Questa è una delle idee fondazionali che stanno dietro alla teoria chomskiana della grammatica trasformazionale-, una J Sono grato a Soowon Kim per avermi fornito questo esempio. Perché fosse più chiaro, ho omesso i suffissi dalla traduzione. Volendo essere pre­ cisi: «nun» è un indicatore di tema; «-ka» è la marca del nominativo,

acente» o «struttura frase ha nella mente una «struttura jperfìciale, e profonda» che differisce dalla sur vari principi della gram matica mer tale possono trasform are la frase spostandone certe parti, c< me nel caso delle parole wh-, È stata questa innovazione, pii . di ogni altra, a far sì che l’impostazione data da Chomsky all’analisi della struttura sintattica potesse descrivere una v asta gamm a di fenomeni linguistici, che le teorie precedenti in ombra4. In base alla teoria attuale, allo ché si ha un movimento delle parole wh -, queste lasciano u pronome non pronunciato, nella !os!zione d a c u i ri sono ìe di onde ceascoltano fra____ i) le tracce L a traccia dello spostamento è individuata proprio nel punt o della frase ove la teo:, e inoltre la tracria linguistica aveva predetto che si t: ipriata alla parola eia risulta avere un’interpretazione wh- che è stata spostata. o che le p

5.

Vincoli sulle dipendenze a lungo raggio

È un dato di fatto che le parole wh- possono subire un «movimento» all’inizio di una frase, a partire da molte p osi­ zioni diverse. In «W hom did Harry think Nancy met at thè store» (Chi è che Henry pensa che Nancy ha incontrato nel

negozio?), «w hom » è inteso come oggetto diretto dell’enun­ ciato subordinato «N ancy met a at the sto re» (Nancy ha incontrato a nel negozio), ove la traccia lasciata dal movi­ mento della parola wh- è appunto indicata da « a ». Nella frase ancora più lunga (20c), «which b o ok » (quale libro) su­ bisce un movimento all’esterno dall’enunciato doppiamente subordinato «the children will read a over the sum mer» (i ragazzi leggeranno a nel corso dell’estate). In realtà, p os­ siamo costruire frasi nelle quali una parola wh- è intesa co­ me appartenente a una subordinata il cui livello d ’incasso è tanto «p rofon d o» quanto vogliamo. Per esem pio, la (24) è indubbiamente una frase strana, ma è pur sem pre com ­ prensibile. (24)

Whom did Sam say Harold thought the teacher had told us that Fred would get Susie to kiss a last Tuesday?

[Chi ha detto Sam che Harold pensava che l’insegnante ci aveva detto che Fred avrebbe fatto sì che Susie baciasse a martedì scor­ so?] Poiché può coinvolgere parecchi incassi, la relazione tra una parola wh- e la sua posizione «originaria», o «intesa», non può essere espressa in termini di sottoalberi con un solo livello, come quelli in (18). Per questa ragione, la relazione in esame viene detta dipendenza a lungo raggio. In modo abbastanza strano, però, una parola wh- non può spostarsi da una posizione totalmente arbitraria per for­ mare un’interrogativa. La grammatica mentale è molto preci­ sa su questo punto. Per avere un’idea di quel che voglio di­ re, fate attenzione al fatto che le interrogative da quiz conte­ nute in (25) sono del tutto comprensibili. (25)

a. For $64,000, Mr Shmoo: General Washington ate kippers and uihat for breakfast? b. For a chance to go on thè bonus round, Ms. Glurk: thè Empire State Building was completed in thè year that what actress married a future Prime Minister?

[a. Per 64.000 dollari, Signor Shmoo: il generale Washington man­ giò aringhe e cosa a colazione? b. Per poter accedere al turno del

bonus, signorina Glurk: l’Empire State Building fu terminato nel­ l’anno in cui quale attrice sposò un futuro primo ministro?] Ma se proviamo a porre gli stessi quesiti servendoci di fantasiose interrogative wh-, finiamo con l ’essere totalmente incomprensibili. (26) a. What did General Washington eat kippers and A for break­ fast? (ugh!) b. What actress was the Empire State Building completed in the year that a married a future Prime Minister? (Tri­ ple ugh!)] [a. Cosa mangiò il generale Washington aringhe e a a colazione (Ahi!) b. Quale attrice l’Empire State Building fu terminato nel­ l’anno in cui a sposò un futuro primo ministro? (Ahi, ahi, ahi! )] Non è che queste dom ande siano troppo lunghe o trop­ po difficili da capire: infatti, sono più brevi della (24) che è una frase plausibilmente com prensibile. Per di più, la diffi­ coltà di queste dom ande sem bra dovuta alla loro struttura sintattica e non al loro significato. Sappiam o bene che cosa dovrebbero significare le dom ande in (26), cioè, la stessa cosa di quelle in (25). Il punto è che non possiam o formularle in questa maniera. In altre parole, questi esem pi sem brano mettere in luce alcune «im perfezioni» nella gram madca mentale, ovvero situazioni nelle quali essa non ci consente di esprimere i nostri pensieri tanto liberamente quanto sarebbe nelle possibilità di un sistem a di portata veramente generale. H problema non riguarda soltanto le interrogative wh-. La (27) illustra due altri tipi di dipendenza a lungo raggio in inglese. (27) a. The Critique of Pure Reason is hard to begin to read a ! b. Sophisticated though Susan thinks Bill is a , she’ll still marry Clide. [a. La Critica della Ragion Pura è difficile da cominciare a leggere a ! b. Per quanto raffinato Susan pensa che Bill sia A , lei sposerà ugualmente Clide.] Nell’esempio (27a), il tema (topic) dell’enunciato, «thè Critique o f Pure Reason» com pare all’inizio invece che nella

sua normale posizione com e argomento del verbo «to re a d »56. P er quanto riguarda la costruzione esemplificata in (27b), «sophisticated» compare prima di «though», invece che nella sua posizione normale dopo «is». Com e già le in­ terrogative toh-, anche queste costruzioni sono interpretate come se implicassero uno spostamento dalla posizione indi­ cata con a all’inizio della frase. Tuttavia, le configurazioni iniziali (indicate con a ) dalle quali può originarsi lo spostamento sono vincolate, proprio come nel caso delle interrogative toh-. L a (28) fornisce esem­ pi analoghi alle interrogative wh- inaccettabili, che abbiamo presentato in (26). (28)

a. That kind of cracker, I would never make my kids eat clieese and a for breakfast! (Ugh!) b. Sophisticate though Susan is aware of thè fact that Bill is a , she’Il stili marry Clyde. (Gack!)

[a. Quel tipo di cracker, ai miei ragazzi non farei mai mangiare for­ maggio e a a colazione (Ahi!), b. Per quanto raffinato Susan sia consapevole del fatto che Bill è a , lei sposerà ugualmente Clyde'’. (Cosa?)] Dopotutto, è anche possibile capire che cosa queste frasi intendono dire: «A i miei ragazzi non farei mai mangiare for­ maggio e quel tipo di cracker per colazione»; «P er quanto Susan sia consapevole del fatto che Bill è (molto) raffina­ to, ...». H punto è semplicemente che non possiam o esprime­ re questi significati usando costruzioni di dipendenza a lun­ go raggio. Contesti del genere furono messi in evidenza per la pri­ ma volta verso la metà degli anni ’60 (da Chomsky e, con molti più dettagli, da John Robert Ross). D a allora, si è arri­ 5 Nell’edizione originale, al posto di (27a) l’autore forniva l'esempio seguente: «That kind of movie, I would never be caught dead sending my kids to a » (Quel genere di film, neanche morto [ci] manderei i miei ragaz­ zi); e proseguiva osservando: «Può darsi che questa costruzione non faccia parte delTinglese “corretto”, ma tutti i parlanti inglese dicono cose del ge­ nere in conversazioni ordinarie» (N.d.T.). 6 Un esempio più pertinente in italiano potrebbe essere: «Per quanti li­ bri Gianni ha sentito voci che Maria abbia letto a , non ha l’impressione che sia particolarmente colta» (N.d.T.).

vati a capire che (con minime variazioni) restrizioni simili si manifestano in tutti i casi di dipendenza a lungo raggio, in tutte le lingue finora esaminate. Perché mai dovrebbe essere così? Ecco che rispunta il nostro scettico immaginario: «Be’, il punto è semplicemente che da ragazzi non abbia­ mo mai sentito frasi come la (26) e la (28). Se le avessimo sentite, avremmo imparato a dar loro un senso». Stiamo attenti, però: è probabile che non abbiam o senti­ to neanche frasi come la (24), eppure siamo in grado di ca­ pirle senza tante difficoltà. Il problema posto da frasi come la (26) e la (28) è il seguente: quali sono esattam ente gli schemi presenti nella nostra grammatica mentale che rendo­ no comprensibili tutti questi esempi, eccetto (26) e (28)? Facciamo un passo in più e chiediamoci: come sono stati ac­ quisiti gli schemi sintattici per una gamma tanto vasta di casi senza che ci capitasse di includere fra tali schemi quelli per (26) e (28)? E poi, perché le restrizioni su questi schemi si applicano universalmente (stando a quanto ne sappiam o)? Queste domande dovrebbero ricordarci le analisi con­ dotte nei capitoli 2 e 3: siamo tornati di nuovo al m ondo de­ gli argomenti fondamentali. Sfortunatamente, anche il più piccolo abbozzo di risposta a tali dom ande ci porterebbe ben al di là di quanto ci siamo prefissi in questo libro. Ci li­ miteremo ad osservare che si tratta di dom ande le quali han­ no occupato un posto centrale nelle ricerche sulla sintassi, portate avanti negli ultimi trent’anni; tanto che possono es­ sere considerate un esempio paradigm atico del paradosso dell’acquisizione del linguaggio. 6.

La Grammatica Universale e la struttura sintattica

Quello che vi ho presentato è soltanto una piccolissim a parte dei fenomeni sintattici che s ’incontrano in inglese e in migliaia di altre lingue parlate nel m ondo. Eppure, la descri­ zione di questi fenomeni è diventata abbastanza com plicata e forse è già troppo ostica da seguire. Se è così, abbiamo un’ul­ teriore riprova del paradosso dell’acquisizione del linguaggio: ci rammenta il carattere inconscio del nostro controllo sulle configurazioni che mi sono avventurato a discutere.

Inoltre, se si tratta di qualcosa di tanto com plesso, siamo indotti a ricorrere all’argomento in favore della conoscenza innata. E allora ci chiediamo: quali aspetti di queste configu­ razioni fanno parte del bagaglio iniziale del bam bino? Cioè, in cosa consiste la G ramm atica Universale, per quanto con­ cerne la struttura sintattica? Nel corso di questo capitolo, mi sono sforzato di mo­ strare che la struttura sintattica è, in buona misura, indipen­ dente tanto dal suono quanto dal significato. Le strutture sintattiche degli enunciati che proferiamo o sentiamo pro­ ferire non si ritrovano in alcun m odo nella realtà fisica della voce o nel m ondo di oggetti ed eventi dei quali parliamo. E sse fanno semplicemente parte dell’organizzazione interna della mente, non sono che uno dei passi che compiamo al­ l’interno delle computazioni che portano a correlare suoni e significati. Riflettiamo su quanto la situazione sia difficile per chi apprende il linguaggio. Nella fase prelinguistica, i bambini possono osservare oggetti ed eventi del mondo circostante, possono udire suoni linguistici e presumibilmente possono anche formare associazioni tra suoni linguistici e oggetti («U na macchina, Betty! La vedi la macchina?»). Ma non pos­ sono osservare nomi e verbi tra le cose del m ondo - nomi e verbi sono soltanto classificazioni interne, correlate con for­ me sintattiche, le quali a loro volta dipendono da altre classi­ ficazioni interne. Allora, come fa il bambino a configurare il sistema sintattico, se non lo può osservare? L e concezioni teoriche attuali concordano, quanto me­ no, nel ritenere che i bambini non debbano mettersi a con­ getturare l’esistenza di cose come nomi e verbi da inserire nelle strutture gerarchiche ad albero. La G ramm atica Uni­ versale fornisce al bambino un consistente scheletro di strutture sintattiche che permettono al processo di acqui­ sizione di prendere avvio. Come già nel caso della G ram ­ matica Universale per la struttura fenologica, anche nel caso della sintassi conviene pensare a un repertorio di presup­ posti universali (circa le possibili unità e loro mutue rela­ zioni, a disposizione di tutte le lingue umane) con in più una specie di menu (come il menu di un programma per computer) che aiuta chi apprende a orientarsi fra le varie opzioni.

Nell’elenco che segue sono riportati, in m odo abbastanza informale, alcuni aspetti della G U che sono rilevanti per i fe­ nomeni esaminati in questo capitolo. 1. La G U mette il bam bino in grado di sapere che la va­ rietà espressiva della lingua è resa possibile dalla com bina­ tone di sottoalberi locali in com plessi più ampi. Il bam bino non deve congetturare che le parole non sono meramente messe in fila una dietro l’altra. 2. La G U postula che la lingua contenga una classe di no­ mi, che le etichette verbali per gli oggetti fisici (tra le altre co­ se) rientrino in questa classe e che un nome e i suoi modificatori costituiscano un’unità sintattica detta sintagma nominale. La GU lascia, però, indeterminato quale sia la posizione dei modificatori: un aggettivo si troverà prima del nome, come in inglese, o dopo, come in francese? Il bam bino deve stabilirlo per conto suo, ma è già molto più economico che doversi co­ struire il concetto di sintagma nominale partendo da zero. 3. La G U postula che esista una classe di verbi, e che un verbo possa combinarsi con un sintagma nominale per for­ mare un sintagma (o predicato) verbale. L a G U lascia inde­ terminato se il verbo preceda tale sintagma nominale (come in inglese) o lo segua (come in giapponese). 4. La G U postula che vi sia un insieme di parole wh- usa­ te per fare domande, lasciando indeterminato se devono re­ stare al loro posto (come in coreano e in certe costruzioni dell’inglese), o se possono essere spostate all’inizio (normali interrogative dell’inglese) o direttamente davanti al verbo (ungherese). 5. La G U postula che le forme sintattiche di una lingua possano presentare dipendenze a lungo raggio di vario tipo, so tte a vincoli innati. iù in generale, nell’avanzare ipotesi circa la Gramm atica Universale, la strategia del linguista consiste nel tentativo di limitare ciò che un bam bino deve elaborare a quanto è osser­ vabile nell’ambiente fisico e linguistico. Previa conoscenza delle parole, un bambino può determinare il loro ordine nel­ le frasi. Ma le strutture ad albero e le categorie in esse p re­ senti (SN, SV, ecc.) non si possono osservare: devono prove­ nire dall’interno della mente, in m odo, per così dire, «intuiti­ vo» o «dettato dall’istinto». Potremmo anche dire che la Grammatica Universale è l’organizzazione di questo istinto.

Capitolo settimo

La lingua dei segni americana

1. I fatti fondamentali che riguardano la lingua dei segni ameConcluderò la seconda parte con un succinto esame della lingua dei segni americana (A SL, American Sign Language), che costituisce il linguaggio della comunità dei sordi negli Stati Uniti e in gran parte del Canada. H o fatto questa scelta in ragione sì dell’interesse intrinseco dei linguaggi che impie­ gano i gesti come segni, ma soprattutto per la luce che essi gettano sul linguaggio in generale. Inoltre, la ricerca sull’A SL occupa una posizione di prim o piano nella discussione sulle basi biologiche del linguaggio che svolgeremo nella terza par­ te, perciò è quanto mai opportuno che il lettore abbia fam i­ liarità con alcuni fatti che riguardano questa lingua dei segni. La cosa più importante che intendo mettere in risalto è che l’ASL è una lingua. Senza dubbio, l’A SL sembra com ­ pletamente diverso da lingue come l’italiano, il russo o il giapponese. La sua modalità di trasmissione non si serve del­ l’apparato vocale e della conseguente produzione di segnali acustici che sono percepibili dall’orecchio di chi ascolta. I gesti del parlante producono segnali che sono, invece, perce­ piti dal sistema visivo dell’interlocutore. C’è chi ha visto qualcosa di innaturale e m agico in que­ sto tipo di comunicazione. A dispetto di ciò, tenterò di m o­ strare che le differenze rispetto alla lingua parlata sono al­ quanto superficiali. È un p o ’ come m odificare un sistema vi­ deoregistratore-televisore, passando da una videocassetta a un videodisco - il sistema periferico è differente, ma le ope­ razioni interne sono esattamente le stesse. Beninteso, l’A SL non è proprio la stessa cosa dell’italia­ no o dell’inglese. In particolare, l’A SL non è in alcun m odo

una ricodifìca di una lingua parlata, utilizzando segni trac­ ciati con le mani. Esistono codifiche del genere ma possiamo distinguerle nettamente dall’A SL. Una di queste è la dattilo­ logia (fingerspelling), in cui ciascuna lettera dell’alfabeto ha un corrispondente segno manuale, di m odo che le parole dell’inglese (dell’italiano, ecc.) si possano com pitare lettera per lettera con la mano. Questo mezzo viene anche impiega­ to per indicare nomi propri e termini tecnici della lingua parlata, per i quali non c’è una prestabilita traduzione in A SL - un p o ’ come successe qualche anno fa con parole quali «glasn ost» e «perestroika», che venivano prestate alla nostra lingua. U n’altra codifica dell’inglese mediante segni è quella che si chiama M anual English (inglese manuale) o, in una sua variante, Signing Exact English (puro inglese in segni), che riproduce pari pari in segni gestuali l’ordine delle paro­ le dell’inglese, aggiungendo alle parole perfino suffissi ge­ stuali per esprimere le desinenze del plurale e del passato. Il M anual English fu concepito da alcuni educatori come ausilio nell’insegnamento dell’inglese ai bambini sordi. Tal­ volta lo si usa in traduzioni simultanee dalla forma parlata a quella gestuale. Tuttavia, come ora vedremo, una traduzio­ ne parola per parola dell’inglese, completa di prefissi e suf­ fissi, è del tutto diversa dall’A SL, che ha invece una sua propria organizzazione grammaticale. I «parlanti» che han­ no l’A SL come lingua madre trovano astruso e innaturale il Manual English, ed il suo uso non è favorito dalla comunità dei so rd i1. Con i propri mezzi, l’A SL manifesta pienamente tutta la varietà espressiva delle lingue parlate. E non è affatto una pantomima, come quella cui un parlante inglese e un parlan­ te mohawk potrebbero eventualmente dar vita per poter co­ 1 Per avere un’idea di come il Manual English possa apparire a un par­ lante ASL, immaginate un «puro tedesco in parole», in cui ìe parole inglesi sono usate nell’ordine tipico del tedesco e con i suffissi tipici del tedesco per indicare il genere e il caso. In questa lingua, «The man didn’t give thè hook to thè woman» (L’uomo non ha dato il libro alla donna) sarebbe reso da qualcosa come «The-maschile-nominativo man has the-femminile-dativo woman the-neutro-accusativo book not given», in corrispondenza alla frase tedesca «Der Mann hat der Frau das Buch nicht gegeben». Alquanto scomodo, no?

municare l’uno con l’altro. Si tratta di una lingua, che ha un suo lessico standardizzato e una sua gram matica pienamente articolata (cioè, una gram matica mentale), proprio com e le lingue parlate. Inoltre, è un veicolo adeguato per fare dell’u ­ morismo, esprimere ragionamenti, com porre poesie, com m e­ die e lavori scientifici (anche di linguistica). Così come le lingue vocali-uditive, ci sono molte lingue dei segni distinte fra loro, che sono «p arlate» nel m ondo. La lingua dei segni giapponese e quella britannica, p er esem pio, hanno caratteristiche autonome e non vengono com prese da un parlante dell’A SL. (Q uando una persona che parla l’A SL e un’altra che parla la lingua dei segni giapponese, o quella britannica, vogliono comunicare, anch'esse devono ricorrere a una pantomima!) È interessante notare che, per almeno due secoli, una lin­ gua dei segni diversa dall’A SL è stata parlata sull’isola di Martha’s Vineyard, di fronte alla costa del M assachusetts. Sull’isola c’era un’alta incidenza di sordità congenita, che si è protratta fino agli inizi del Novecento a causa dell’isola­ mento della popolazione. Ma, a differenza di ciò che nella maggior parte dei casi si è verificato altrove, i sordi di M ar­ tha’s Vineyard non erano affatto emarginati sul piano socia­ le. Al contrario, si ammetteva senza problemi che anche gli udenti potevano giungere a un uso fluente dei segni gestuali. Senza nessuna delle usuali barriere linguistiche, i sordi erano membri a pieno titolo della comunità ed erano perfettamen­ te integrati in essa. Tornando all’A SL , il suo «pedigree» risale almeno alla metà del Settecento. In Francia, l’abate Charles Michel de l’Epée, di nome Charles Michel, si era proposto di educare i sordi e aveva scoperto che i sordi di Parigi avevano una pro­ pria lingua dei segni, che usavano per comunicare fra loro. Adottandola quale base per l ’istruzione, l’abate sviluppò m e­ todi per insegnare ai sordi a leggere e scrivere in francese. I suoi allievi stupirono ed entusiasmarono gli intellettuali eu­ ropei: l’abate de l ’E pée aveva mostrato che i sordi non erano né mentalmente ritardati né incapaci di ragionare, come si era diffusamente creduto. L a scuola fondata da de l’E pée nel 1755 addestrò insegnanti che diffusero i suoi metodi d ’inse­ gnamento, così come l’uso della lingua dei segni francese, nelle scuole per sordi di gran parte dell’Europa.

N el 1817, la prim a scuola americana per sordi fu aperta a Hartford, nel Connecticut. L a lingua adottata per l’insegna­ mento era la lingua dei segni francese introdotta da Laurent Clerc, un sordo che si era diplomato alla scuola dell’abate de l’Epée. Questa scuola fu ben presto seguita, in tutto il paese, da altri collegi stabili; e nel 1864 si ebbe la fondazione del National D eaf Mute College (istituto nazionale per sordo­ muti), che poi è diventato l’odierna Gallaudet University. In queste scuole si ritrovarono studenti che parlavano numero­ se lingue dei segni (inclusa quella dell’isola di M artha’s Vineyard); e vari aspetti delle loro lingue furono amalgamati con la lingua dei segni francese per dar luogo, infine, all’A SL. (Q uesti tipi di incroci non si realizzano in base a un progetto preliminare: sono piuttosto il frutto naturale di uno stretto contatto fra lingue. L ’inglese di Chaucer prese forma da un consimile incrocio dell’inglese antico col francese nor­ manno, nei secoli che seguirono alla conquista normanna.) Nel 1880, l’assetto della comunità che usava la lingua dei segni (e di quella dei sordi) subì un duro colpo, che avrebbe avuto effetti di lunga durata, allorché il Congresso intem a­ zionale sull’educazione dei sordi votò a stragrande maggio­ ranza contro l’uso dei segni e a favore dell’istruzione orale non prima di aver negato ai sordi il diritto di votare! La filo­ sofia che si celava dietro a questa risoluzione era che soltan­ to mediante l’uso della lingua parlata i sordi avrebbero potu­ to integrarsi nella società. In realtà, l’effetto che ciò produsse fu il degrado dell’istruzione indirizzata ai sordi. (Immaginate di voler imparare qualcosa da un televisore privo di audio. O ccorre tener presente che la lettura delle labbra dà accesso soltanto a ciò che fanno le labbra e forse la punta della lin­ gua, non alle caratteristiche della sonorità, della nasalità o al movimento della massa della lingua. Perciò, tanto per fare un esempio, i suoni p, b e m sembrano identici, così come t, d e n . Non è una cosa tanto facile, neanche per chi usa fluen­ temente una lingua parlata.) Nonostante la soppressione ufficiale dell’A SL nelle scuo­ le per sordi, il linguaggio veniva usato nei dormitori e così si tramandava alle nuove generazioni. Le scuole hanno svolto, in effetti, un ruolo centrale nell’uso dell’A SL: la maggior parte degli studenti sordi vengono da famiglie con genitori udenti, di m odo che il loro primo contatto con la comunità

dei sordi e con la lingua dei segni (e quindi con un linguaggio minimamente comprensibile) si ha quando vanno a scu o la2. È ampiamente riconosciuto che l’attuale rinascita di con­ siderazione per l’A SL è cominciata nel 1960, con la p ubbli­ cazione di un libro di William Stokoe: Sign Language Struc­ ture: An Outline o f the Visual Communication System o f the American D eaf Stokoe mostrava che i gesti dell’A SL presentano un organizzazione sistem atica del i tura fonologica delle lingue parlate. A ] la sua opera è stata ripresa da un gran sia sordi sia udenti, e oggi c’è una viva calori che studiano l’A SL e altre lingue Tra l’alt 3, questa ri one pubblica dell’A SL o ito a far sì che la comun ropria cultu el proprio linguaggio e di etto e degli stessi diritti policonoscimento dello stess ci accordati ad altre min fare per migliorare l’immagine nolti hanno dei sordi e del loro linguaggio. L ’insegnao orale è tuttora il m etodo scelto nella maggior parte

2. Elementi dell'organizzazione grammaticale nell’A SL Stokoe inaugurò l’analisi linguistica dell’A SL , scoprendo che i segni si possono scom porre in una combinazione di fattori: la configurazione assunta dalla mano, il suo orienta­ mento, la posizione delle mani nello spazio e il loro movi­ mento. Com e i tratti distintivi della struttura fonologica, tutti questi fattori sono di per sé privi di significato. Per dare un’idea di come tali tratti operino, consideria­ mo alcuni esempi di segni che differiscono per un solo fatto­ re alla volta. L a figura 7.1 m ostra i segni p er «dolcium e», «m ela» e «gelosa». E ssi coincidono quanto a posizione, mo­ vimento e orientamento, differendo soltanto nella configura­ zione assunta dalla mano.

Fk:. 7.1. Segni che differiscono solo nella configurazione della mano. Fonie: U. BeUugi. The Salk Institute for Biological Studies. La Jolla. Calif. L a figura 7.2 mostra i segni per «cinese» e «cipolla», che presentano configurazione della mano e movimento rotato­ rio identici, rispettivamente, a «dolcium e» e «m ela», ma in posizione diversa. L a figura 7.3 mostra i segni per «nom e», «corto » e «u o ­ vo». Sono ottenuti tutti quanti mediante la stessa configura­ zione, posizione e orientamento delle mani. I primi due sono eseguiti con diversi movimenti della mano destra; l’ultimo col movimento di entrambe le mani. Per inciso: queste illustrazioni ci danno un’idea della mi­ sura in cui i segni dell’A SL sono iconici - vale a dire, quanto essi raffigurino le cose alle quali si riferiscono. In certi casi,

Cinese

Cipolla

Ftc. 12. Segni che differiscono da quelli della Figura 7.1 soltanto per la posizione. Fonte: U. Bellugi, The Salk Institute for Biological Studies, La Jolla, Calif.

Fig. 7.3. Segni che differiscono soltanto per il movimento delle mani. Fonte: U. Bellugi, The Salk Institute for Biological Studies, La Jolla, Calif.

se ci viene detto che cosa un certo segno significa, possiamo capire perché sia stato scelto: il taglio degli occhi nel caso di «cinese», il loro stropicciamento in «cipolla», la rottura nel caso di «uovo». Resta il fatto che sarebbe difficile indovinare che cosa significhino questi segni se non lo sapessim o già. Inoltre, perché ci sono quei movimenti rotatori della mano in «cinese» e «cipolla»? E che senso possono mai avere i segni per «nom e» e «corto»? Questi esempi m ostrano che, sebbene in certi casi i segni raffigurino parzialmente ciò cui si riferiscono, la forma dei segni non è quasi mai determinata completamente da ciò che significano. Così, nell’A SL il lessico deve essere imparato proprio come quello di una lingua parlata - anche se, rispet­ to a questa, ha talvolta un potere mnemonico maggiore. L ’analisi dei segni fatta da Stokoe mette in evidenza che esistono tratti distintivi dell’articolazione delle mani che so­ no analoghi ai tratti distintivi dell’articolazione della voce. Ricerche successive hanno individuato una struttura ritmica nel gesto, simile a quella che si trova nella lingua parlata. L ’unità basilare del ritmo nella lingua parlata è la sillaba approssimativamente, una vocale più le eventuali consonanti che le stanno accanto. L a corrispondente unità ritmica nel segno consiste in un movimento più le eventuali posizioni assunte che lo precedono e lo seguono. Com e chi parla lin­ gue quali l’italiano o l’inglese tende a rallentare verso la fine di una frase, così fanno pure i parlanti della lingua dei segni. Com e i primi tendono a pronunciare con m aggiore intensità sonora una parola enfatizzata, così i secondi tendono a ren­ dere con un gesto più ampio un segno enfatizzato. Vediamo, dunque, che nell’A SL si conservano aspetti significativi della struttura fonologica, mentre si adattano le parti che hanno a che fare con l’articolazione motoria, sì da sfruttare le specifi­ che possibilità offerte dal canale di comunicazione visivomanuale. Passando alla struttura sintattica, l’A SL, così come le lin­ gue parlate, suddivide i segni in parti del discorso e connette le parti del discorso con i loro modificatori, formando costi­ tuenti e sintagmi più estesi. Inoltre, questa lingua dei segni manifesta dipendenze a lungo raggio, come quelle che abbia­ m o incontrato con le interrogative wh-, Si dà il caso, però, che l’A S L formi interrogative wh- mettendo la parola wh- al­

la fine della frase invece che all’inizio - per esem pio, ab b ia­ mo l’equivalente di «Bill buy yesterday w hat?» (Bill ha com ­ prato ieri che cosa?) invece di «W hat did Bill buy yester­ day?» (Che cosa ha com prato ieri Bill?). Adesso vorrei prendere in esame alcuni esempi che illu­ strano la presenza, nell’A SL, di fenomeni sintattici molto di­ verei da quelli che si hanno in inglese. Cercherò di mostrare che, quasi per ogni aspetto, tali fenomeni trovano analoga manifestazione in altre lingue parlate e sono riconoscibili, pertanto, come varianti che si trovano a nostra disposizione nel menu della Gramm atica Universale. I segni per «io » e «tu » sono, rispettivamente, gesti deitti­ ci (di puntamento), rispettivamente diretti verso il parlante e l’interlocutore. Fin qui, tutto ciò sem bra iconico. M a un’in­ dagine più attenta rivela la presenza di una struttura addizio­ nale nei pronomi. In primo luogo, cam biare la configurazio­ ne della mano da un indice puntato a un palmo aperto tra­ sforma i pronomi nei possessivi «m io» e «tu o», mentre fare un movimento ad arco trasforma i pronomi nei plurali «n o i» e «tutti voi». Così, i gesti apparentemente iconici fanno p ar­ te, in realtà, di un sistema grammaticale. (L ’inglese, com ’è noto, non possiede forme distinte per la seconda persona singolare e plurale: si usa «y ou » in am bedue i casi; m a molte lingue parlate nel mondo tracciano questa distinzione: per esempio, l’italiano e l’ebraico.) Passiamo ora a considerare i pronom i di terza persona. Una strategia grammaticale che è stata evidenziata nell’A SL è quella di indicare il nome o la descrizione di ciascun indi­ viduo in una posizione diversa dello «spazio segnico» di fronte al parlante. Nel caso il parlante intenda riferirsi a un individuo menzionato in precedenza (in ciò sta la funzione di un pronome di terza persona, com e «e gli» o «lei»), basta indicare verso la posizione dell’individuo nello spazio segnico. Come succede coi pronomi di prima e seconda persona, questo tipo di riferimento può adattarsi al possessivo o al plurale, modificando, rispettivamente, la configurazione del­ la mano o il suo movimento. N e risulta che vengono a esser­ ci tanti pronomi di terza persona quante posizioni diverse si possono distinguere nello spazio segnico. Di fatto, questo è un meccanismo grammaticale che non si ritrova nelle lingue parlate. In «G iovanni disse a Umberto

Fonte: U. Bellugi, The Salk Institute for Biologici Studies. La Jolla, Calif.

che lui piaceva a Daniela», chi si suppone che sia il ragazzo che piace a Daniela? Non possiamo dirlo con certezza. Ma nell’A SL, il gesto deittico che corrisponde a «lui» permette­ rebbe di determinare la risposta senza alcuna ambiguità. T ra gli aspetti dell’A SL che sono stati più intensamente studiati troviamo le forme verbali. I verbi di lingue come l’inglese presentano soltanto un piccolo numero di forme differenti: l’infinito («to write»/«scrivere»), i tempi presente

Guardare

o

è

Guardare a lungo

,

Guardare ripetutamente

Guardare abitualmente ita a esprimere durata e riVontr. U. Bcllugi, The Salk Institute for Biological Studies, La Jolla, Calif.

FK76*1 ). I verbi nell’A SL, al contrario, possono avere o di forme distinte, le quali incorporano ine sarebbero espresse r 1. Nel segno d __________________________________ e del movimento può essere alterata, in modo che cominci dalla posizione che nel­ lo spazio segnico è occupata dal u sog soggetto e termini a occupata daU’og " ° possibile omette i segni per «chi chiedi».

2. Il movimento associato al verbo p uò presentare fles­ sioni che rivelano se l’azione ha luogo in un punto del tem po o si protrae per un lungo periodo di tempo, se è continua, ri­ petuta o abituale. L a figura 7.5 illustra alcune di queste va­ rianti (le frecce «im pilate» l’una sull’altra indicano un movi­ mento ripetuto). 3. Il movimento associato al verbo può indicare com e l ’a­ zione si distribuisca, nel corso del tempo, fra un gruppo di individui. La figura 7.6 presenta alcune possibilità. Questa strategia, che consiste nell’incorporare nel verbo ogni tipo di informazioni m odificatrici, può apparire alquan­ to stravagante dal punto di vista dell’italiano e della m aggior parte delle altre lingue europee. M a si tratta pur sem pre di un’opzione legittima che rientra nel menu della G ram m atica Universale: esistono molte lingue, dette agglutinanti , che p re­ sentano possibilità analoghe. Vediam o alcuni esempi (con re­ lativa analisi e traduzione) tratti da lingue del genere Ungherese: beadogattathattuk be-ad-o-gat-tat-hat-t-uk in-dare-loro-distributivo-causa-può-passato-noi

[Potremmo farli consegnare da qualcuno un po’ alla volta.] Onandaga: tashako^ashv:5 t-a-shako-^ahs-v:-? causa-passato-egli a lei-cestino-dare-passato

[Egli ha passato un cestino a lei.] KfOakw'ala: ai k’alxlk’ axsu^omxat’ ida q’isina a-i k’olxlk’ ax-su5-3m-xat-ida q’isina

J L’esempio tratto dall’ungherese mi è stato cortesemente fornito da Piroska Csuri. L’esempio relativo all’onandaga, una lingua parlata in pros­ simità dei Grandi Laghi, è riportato a p. 76 di M. Baker, Incorporation, Chicago, 111., University of Chicago Press, 1988, nel contesto di una cita­ zione da H. Woodbury, Notiti Incorporation in Onandaga, una tesi di dot­ torato discussa a Yale nel 1975. L’esempio tratto dal Kwakw ala, una lin­ gua diffusa in British Columbia, si trova a p. 92 di S. Anderson, A-Morphotts Morphology, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.

Ausiliare-essi mangiano crudo-passivo-realmente-anche-il ribes [Anche il ribes crudo viene mangiato.] In ognuno di questi esem pi, una singola parola incorpo­ ra il verbo dell’enunciato più il soggetto e/o l’oggetto, più vari altri indicatori che si potrebbero esprimere nella nostra lingua con altri verbi, con ausiliari o con avverbi. Com bina­ zioni simili sono paragonabili a quelle dell’A SL, sotto il du­ plice profilo della complessità e del contenuto. In queste lingue, tutte le informazioni aggiuntive si pre­ sentano come prefissi e suffissi del verbo. Nell’A SL, invece, tali informazioni sono inserite nel verbo, espresse cambian­ do il movimento delle mani. Di fatto, ci sono lingue parlate che usano una strategia analoga a questa. G li esempi più ni­ tidi sono forniti dalle lingue semitiche, come l’arabo e l’e­ braico, ove forme differenti del verbo conservano l’ordine delle consonanti ma cambiano le vocali e la lunghezza delle consonanti. Quello che segue è un piccolo campione del grande numero di forme che in arabo può assumere il verbo «scrivere», le cui consonanti basilari sono k-t-b. (1)

a. b. c. d.

kataba [egli scrisse]. kaataba [egli tenne una corrispondenza], kutib [fu scritto]. kattaba [egli fece scrivere].

Così, anche il modo in cui si realizza la modificazione del verbo in A SL riproduce un’opzione che è attestata dalla fo­ nologia delle lingue parlate. L ’ultimo aspetto dell’A SL su cui intendo soffermarmi ri­ guarda il fatto che non tutto viene espresso con le mani. An­ che l’espressione facciale ha un posto di primaria importan­ za nella struttura sintattica. Per esempio, i tre seguenti enun­ ciati dell’italiano sono tradotti nell’A SL con la stessa succes­ sione di segni gestuali della mano: (2)

a. La donna lasciò il suo libro. b. La donna lasciò il suo libro? c. La donna non lasciò il suo libro.

La differenza è segnalata dal viso. L ’affermazione diretta (2a) è accompagnata da un’espressione neutra. L ’interrogati­ va (2b) è segnalata da un sollevamento delle sopracciglia, oc­ chi dilatati e, di solito, si accom pagna a un lieve inchino del­ la testa o di tutto il corpo. L ’enunciato negativo (2c) è segna­ lato da uno scotimento laterale della testa e, di solito, si ac­ compagna a un avvicinamento delle sopracciglia. Questi ge­ sti fanno impiego dei muscoli facciali in un m odo che si dif­ ferenzia dalle usuali espressioni del viso; sta qui la ragione per cui può sembrare che i parlanti dell’A SL facciano delle smorfie quando parlano. Al pari dei tratti del sistema pronominale, nell’A SL i ge­ sti facciali funzionano in m odo combinatorio. Così, per fare una domanda negativa («L a donna non ha lasciato il libro?»), il parlante utilizza simultaneamente tutti e due i ge­ sti su indicati: contrarre le sopracciglia e sollevarle, spalanca­ re gli occhi e chinare la testa in avanti, mentre la si scuote la­ teralmente. Per quanto possa sem brare strano che si possano form a­ re interrogative e negazioni senza modificare l’ordine delle parole, vorrei ricordare che sia l’italiano («L a donna ha la­ sciato il suo libro?»), sia l’inglese possono indicare una do ­ manda con la sola intonazione («T he woman left her book?»). In questi casi, come nell’A SL, l’interrogazione vie­ ne veicolata da un canale distinto dalle parole, ma in simul­ tanea. Invece, la negazione non può esprimersi in italiano e in inglese con la semplice intonazione, anche se può esserlo un’espressione di incredulità sarcastica: «O h, sì, certo, hai davvero vinto la lotteria... e io sono la regina d ’Inghilterra». Perciò, queste strategie dell’A SL hanno anche nelle lingue parlate un loro corrispettivo (sebbene sia privo, probabil­ mente, di identiche possibilità combinatorie). 3. Di nuovo gli argomenti fondam entali Sulla scorta di queste pur minime informazioni sulla lin­ gua dei segni, non è difficile riformulare gli argomenti fon­ damentali in rapporto all’A SL. L ’argomento a favore della grammatica mentale diventa: che cosa sanno i parlanti A SL che li m ette in grado di parlare

e di capire un numero indefinito di enunciati? E ssi non p os­ sono semplicemente memorizzare un segno do p o Tauro, perché anche un singolo verbo può presentarsi in un nume­ ro altissimo di varianti (ci siamo limitati a elencarne soltanto alcune). I parlanti devono invece avere in testa una gramma­ tica mentale - un vocabolario base di segni, più un insieme di schemi per combinarli in successione e in simultanea. L a differenza di modalità contribuisce a rendere ancor più evidente la com plessità di tali schemi. Infatti, non appe­ na ci rendiamo conto che l’A SL è qualcosa di più di una mi­ mica, dare per scontata l’abilità che i parlanti dell’A SL mani­ festano è ancora più difficile che dare per scontata la padro­ nanza di una lingua parlata, se non altro perché si tratta di una com plessità che possiamo letteralmente vedere. L ’argomento a favore della conoscenza innata diventa al­ lora: come fanno i parlanti dell’A SL ad acquisire questi schemi? I fatti concernenti l’apprendimento deU’A SL de­ pongono contro Tipotesi che tali schemi possano essere inse­ gnati. Ci sono tre dati da tenere presenti: 1. la maggior parte delle persone che parlano l’A SL han­ no genitori udenti che, prima dell’educazione dei loro figli, non erano neppure a conoscenza che esistesse un linguaggio come l’A SL; 2. l’A SL si è diffuso principalmente nei collegi per sordi; 3. fino a poco tempo fa, l’impiego dell’A SL in queste scuole è stato scoraggiato e perfino punito con sanzioni a li­ vello ufficiale. D i conseguenza, le persone hanno dovuto im­ parare l’A SL non attraverso l’istruzione ma assimilandolo dai compagni. È una situazione sostanzialmente analoga a quella dei bambini immigrati, salvo per il fatto che comporta l’apprendimento di una prima , invece che di una seconda lingua: in generale, non c’è una lingua che un bam bino sor­ do possa usare coi genitori udenti'1. J Senza dubbio, la comunicazione tra bambini sordi e i loro genitori si instaura ricorrendo a gesti imitativi, usando il linguaggio corporeo e sfrut­ tando altre vie ancora; ma, come è stato sottolineato nel cap. 2, una comu­ nicazione del genere non costituisce un vero e proprio linguaggio, in quan­ to manca della varietà espressiva e della struttura grammaticale proprie delle lingue parlate e dell’ASL. Si veda il cap. 10 per una discussione su quale grado di complessità tale comunicazione può raggiungere.

Nondimeno, come nel caso della lingua parlata, gli stu­ diosi di linguistica sono da tem po impegnati a scoprire l’or­ ganizzazione delle strutture relative all’A SL , al fine di far emergere le unità basilari su cui esso poggia. Il fatto che ci sia voluto fino al 1960 per cominciare a mettere in evidenza queste unità è di per sé significativo. (Senz’altro, per un lun­ go periodo, il loro riconoscimento è stato ostacolato dall’i­ deologia dominante, secondo cui nell’A SL non c'era nessuna struttura da cercare. M a già il fatto che si potesse prestar fe­ de a un’ideologia simile porta acqua al mio mulino.) Ancora una volta, dunque, ci ritroviamo alle prese col p a­ radosso dell’acquisizione del linguaggio: i bambini acquisi­ scono una grammatica mentale inconscia dell’A SL , m a i lin­ guisti non sanno ancora descriverla. E, come in precedenza, ne concludiamo che i bam bini sono muniti di ipotesi incon­ sce a proposito-di ciò che dovrebbe costituire la grammatica mentale. Queste ipotesi non possono essere peculiari all’ASL, dato che i bambini sordi imparano qualunque lingua dei segni con cui vengano a trovarsi in contatto. D eve esserci, pertanto, un qualche tipo di Gram m atica Universale per le lingue dei segni, proprio come nel caso delle lingue parlate. Fermiamoci un attimo. D obbiam o ricordare che, come tale, la Grammatica Universale non viene appresa: deve esse­ re trasmessa geneticamente; e l’informazione genetica non può essere che un prodotto dell’evoluzione. Sem brerebbe bizzarro che l’evoluzione ci avesse dotato di una G ram m ati­ ca Universale per le lingue dei segni, cui far appello solo nel caso ci capitasse di essere sordi! Fortunatam ente, come ab ­ biamo visto, a nostra disposizione c’è una risposta migliore: sotto quasi ogni aspetto, la G U soggiacente ai linguaggi ge­ stuali è esattamente la stessa G U delle lingue parlate. I bam ­ bini sordi che entrano in contatto con l’A SL non devono far ricorso a una base completamente diversa di conoscenze in­ nate. Si aspettano di trovare nei segni, la stessa organizzazio­ ne che si sarebbero aspettati nel caso di una lingua parlata, qualora l’avessero potuta udire. Un identico meccanismo specializzato è all’opera in am bedue i casi. I bam bini vengo­ no al mondo già preparati ad apprendere il linguaggio , in qualunque modalità si presenti. Il principale adattamento che richiedono le lingue dei se­ gni consiste nel sostituire i tratti distintivi dell’articolazione

vocale mediante tratti distintivi dell’articolazione manuale e facciale. Un effetto interessante di questo adattam ento è l’u­ so molto più accentuato della simultaneità rispetto alla di­ sposizione sequenziale, come abbiamo verificato a proposito dei fenomeni grammaticali discussi nel paragrafo preceden­ te. Comunque, il confronto con le lingue parlate mette in lu­ ce che l’A SL sfrutta soltanto le possibilità (relative alla strut­ turazione di elementi simultanei) che si trovano già nella G U delle lingue parlate, anche se poi l’A SL ne estende l’impiego in misura ben più ampia. Questo particolare m odo di utiliz­ zare le risorse della simultaneità è reso possibile dal fatto che le mani e il viso hanno un numero m aggiore di gradi di liber­ tà rispetto all’apparato vocale - mani e viso possono fare più cose allo stesso tempo. M a i principi astratti che organizzano questi gradi di libertà sono ricavati dallo stesso menu. Tornando ora al nostro tema di fondo: che cosa ci dice l’A SL sul linguaggio e sulla natura umana? Nei capitoli pre­ cedenti, eravamo arrivati a concepire il linguaggio come una com plessa relazione tra pensiero ed espressione vocale, con due livelli di codifica: la struttura fonologica e quella sintatti­ ca. Adesso dobbiam o generalizzare questa caratterizzazione, per includervi modalità sensomotorie diverse dall’espressio­ ne vocale. L a figura 7.7 ingloba questa revisione in un prece­ dente diagramma, relativo all’organizzazione complessiva del linguaggio. L ’A SL contribuisce, dunque, a mettere in evidenza il ca­ rattere astratto della struttura linguistica - ovvero, la sua in­ dipendenza dalla modalità sensomotoria. Nell’uso del lin­ guaggio, facciamo molto di più che associare semplicemente suoni (o segni) e significati. Gran parte della ricchezza del linguaggio deriva diminterno della mente, cioè dal m odo in cui la nostra grammatica mentale crea, inconsciamente, un sistema che dà significato a certe configurazioni, accessibili ai sensi. M a ora possiamo anche vedere che buona p an e del sistema è neutrale rispetto alla specifica modalità di tali con­ figurazioni: l’apprendimento ha luogo sulla base di un’orga­ nizzazione innata del cervello, fatta apposta per accordarsi con le configurazioni di tipo linguistico che l’ambiente ci propone, siano esse uditive o visive. Quanto alla natura umana, dovremmo continuare ad avere ben presente un interrogativo: se l’organizzazione e

isi tif eUI sii

Struttura fonologica

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LINGUAGGIO

l’acquisizione del linguaggio sono così com plesse, ricche di struttura, astratte, flessibili e inconsce, che cosa possiam o di­ re riguardo a tutte le altre cose che facciam o? Terrem o in serbo quest’interrogativo per la quarta parte. M a prim a ab ­ biamo qualche altra faccenda da sbrigare, a proposito del linguaggio.

Parte ie n a

Prove a favore di un fondamento biologico del linguaggio

Capitolo ottavo

Come i bambini imparano il linguaggio

1.

Introduzione

Nella seconda parte abbiamo elaborato principalmente l’argomento in favore della grammatica mentale, interessan­ doci ai principi che governano l’uso del linguaggio da parte dei parlanti adulti - principi che sono all’opera «nella loro testa». Tuttavia, abbiamo costantemente avuto presente l’ar­ gomento a favore della conoscenza innata, e così ci siamo sforzati di separare gli aspetti della grammatica mentale che devono essere appresi da quelli che sono forniti in anticipo a chi impara il linguaggio. Le prove alle quali abbiamo fatto appello nella seconda parte poggiavano, in m odo duplice, sulla struttura della grammatica mentale. Per un verso, partendo dalla gamma di possibilità relative ai tratti grammaticali, così come si trova­ no esemplificati nelle lingue parlate nel m ondo, ci siamo fatti un’idea del menu che la G ramm atica Universale ci offre. Per un altro verso, il fatto che la struttura grammaticale sia così astratta rispetto al linguaggio parlato (e dei segni) ci ha fatto capire che l’acquisizione del linguaggio deve com portare molto più di una semplice memorizzazione e rielaborazione degli input che si sono uditi. Buona parte dell’organizzazio­ ne strutturale deve provenire dall’interno del cervello. Adesso ci inoltreremo nell’esame di prove più dirette, che avvalorino l’argomento a favore della conoscenza innata. Per prima cosa, rivolgeremo la nostra attenzione al processo di apprendimento del linguaggio in bam bini normali (sarà il tema di questo capitolo) e poi (capp. 9 e 10) esamineremo un’ampia serie di casi meno consueti. Ci interesseremo an­ che di vari tipi di deficit linguistici, dovuti a lesione cerebra­ le (cap. 11). Gli scopi di un simile percorso sono due: 1)

determinare quali aspetti del linguaggio siano appresi e quali innati; 2) scom porre l’abilità linguistica nelle componenti specificamente linguistiche e in quelle che si possono spiega­ re per mezzo di aspetti più generali dell’intelligenza. D ’altro canto, la ragione ultima di tutto ciò consiste nel fissare ima base, a partire dalla quale si possa arrivare a con­ cepire la natura umana. Se il linguaggio è costituito da que­ sta complicata miscela di elementi appresi e innati, alcuni di dominio specifico e altri di dominio generale, e se nell’ap­ prendimento del linguaggio gli effetti della cultura sono strettamente guidati dalla natura, allora abbiam o motivo di ricercare un’analoga organizzazione strutturale anche in al­ tre capacità umane. 2.

Stadi basilari nell’acquisizione del linguaggio

Iniziamo con 1’awicinarci all’apprendimento linguistico in termini dei più semplici fenomeni che possiam o osservare: ciò che i neonati e i bambini piccoli pronunciano. Com ’è chiaro, le prime vocalizzazioni consistono nei gridi che ac­ compagnano il pianto e che, come ogni genitore vi potrà di­ re, sono di molti tipi. Benché queste vocalizzazioni - com’è ovvio - comunichino qualcosa, non si tratta in alcun modo di linguaggio. H tipo d ’informazione che veicolano le acco­ muna piuttosto al tono di voce: veicolano essenzialmente uno stato emotivo. Talvolta, nei primi mesi, i neonati sviluppano una sorta di vocalizzazione (cooing) che consiste in certi suoni guttura­ li come «gu u» o «gm p » e in gridolini. Le vocalizzazioni pro­ grediscono gradualmente e, intorno ai sei mesi, danno luogo allo stadio della lallazione o «balbettio» (babbling), in cui il neonato produce una vasta gamma di suoni privi di significa­ to, che spesso formano catene di sillabe. È un dato frequente che i bambini, in questa fase dello sviluppo, producano an­ che suoni che sono assenti dalla lingua parlata nel loro am ­ biente. Per quanto riguarda il balbettio, si è concordi nel ritene­ re che si tratta fondamentalmente di uno stadio in cui il neo­ nato sta esercitando il suo apparato vocale, senza alcuna par­ ticolare intenzione linguistica. Sono stati osservati perfino

neonati sordi che balbettano; d ’altra parte, non tutti i neona­ ti lo fanno (la mia prim ogenita non lo faceva, con mio gran­ de disappunto). Eppure, ci sono già indizi di un com porta­ mento protolinguistico. Il neonato spesso balbetta in rispo­ sta a chi gli parla; il che suggerisce come stia arrivando all’i­ dea che in una conversazione ci si alterna a parlare. E dopo un paio di mesi di balbettamenti, le successioni di suoni co­ minciano a essere pronunciate con i profili di intonazione caratteristici del parlato, sicché ci sem bra quasi che il bam bi­ no stia dicendo qualcosa. Via via che questo stadio progredisce, l’output fonetico del neonato giunge gradualm ente a «sintonizzarsi» con la lingua parlata nel suo ambiente - e a questo punto i bambini sordi tendono a restare in silenzio. Ruth W eir e Jean Aitchison hanno documentato che alcuni risultati sperimentali di­ mostrano effettivamente questa sintonizzazione. Registrazio­ ni di balbettamenti di un neonato americano, di uno russo e di uno arabo sono state fatte sentire ad alcune madri. L e m a­ dri americane sono state spesso in grado di identificare il neonato americano, le madri russe il neonato russo e quelle arabe il neonato arabo. M a nessuna di loro è stata capace di riconoscere gli altri neonati. Dunque, anche se i neonati non dicevano niente che avesse un significato, stavano evidente­ mente producendo suoni che avevano qualcosa in comune con la lingua che sentivano parlare intorno a loro. (Per inciso, i bambini sordi esposti al linguaggio dei se­ gni iniziano a «balbettare» con le loro mani, in un m odo che somiglia da vicino ai balbettamenti vocali, facendo ten­ tativi che interessano la configurazione e il movimento delle Tra i dieci e i venti mesi, può succedere che i neonati (e in questo le femmine tendono a essere più precoci dei maschi) inizino a parlare davvero, sebbene in forma di emis­ sioni verbali costituite da singole parole. In quello che co­ stituisce il loro lessico si trovano nomi com e «m am m a» e «Cinzia», parole per cose come cucchiai e automobili, ter­ mini indicali come «qu ello», parole per azioni come «m an­ giare» e «spingere», proprietà come «caldo », direzioni come «su» e «giù», saluti come «c iao » e naturalmente «n o ». Non ne fanno parte termini funzionali come «u n », « è » o « a », e non ci sono desinenze come quelle per il plurale e il passato.

H lessico infantile può arrivare a cinquanta, settantacinque o -•«fin o cento parole in un arco di tem po di circa sei mesi. PeI -Poi otremmo elencare le parole che i nostri bam bini sanno e ogni nuova parola è una pietra miliare: «E h i, oggi Chicco ha detto “palla” !». M algrado le limitazioni di questo stadio mo­ noverbale, una quantità sorprendente di informazioni viene comunicata in tal modo. Qualche m ese dopo aver raggiunto questo grado di svi­ luppo linguistico, forse a due anni di età o poco prima, i bambini cominciano a formare enunciati di due parole come «M amm a calza», «Bevi b rodo », «N o n mangiare». Sebbene si rimanga qui molto distanti dalla grammatica degli adulti, vi è però una tendenza all’uso sistematico dell’ordine delle paro­ le, in una versione supersemplificata dell’uso dell’ordine nel linguaggio degli adulti. A d esem pio, un bam bino che abbia raggiunto questo stadio non dirà «M am m a tira palla» - sa­ rebbe una frase troppo lunga. M a potremo benissim o imbat­ terci nelle versioni più brevi «M am m a tira» e «T ira palla»; gli ordinamenti inversi, «tira m am ma» e «palla tira», sono invece meno probabili. Circa nello stesso periodo, tutt’a un tratto il lessico de­ colla. I genitori non riescono più a tener conto delle parole che il bam bino conosce. L a stima è che un bam bino di cin­ que anni conosce in media qualcosa come diecimila parole. Questo significa che tra i due e i cinque anni il bambino ha acquisito in media dieci nuove parole al giorno (tre anni so­ no circa mille giorni), vale a dire quasi una parola ogni ora in cui il bam bino è sveglio! Poiché per padroneggiare l’uso di una parola può occorrere un certo periodo di tempo, que­ sto vuole anche dire che probabilmente il bambino è alle prese con decine di parole allo stesso tempo. D opo qualche altro mese di emissioni verbali costituite da coppie di parole, iniziamo a vedere una crescita stabile della complessità grammaticale, parallela alla crescita del les­ sico. H bambino comincia poco a poco a costruire frasi più lunghe e più complesse, e a questo punto iniziano a com pa­ rire termini funzionali e desinenze. All’età di cinque anni, il bam bino parla con un’ottima approssimazione rispetto alla grammatica dell’adulto, benché ci siano numerose sottigliez­ ze che vanno consolidate e complicazioni che vanno aggiun­ te fin verso i dieci anni di età. (L’apprendimento lessicale

continua per tutto il corso della vita, per quanto a un ritmo meno frenetico.) È doveroso aggiungere che quella descritta è la situazio­ ne standard: in realtà, c’è un am pio margine di variazione, in cui rientrano casi di bambini