Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana 8833914682

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Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana
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Bollati Boringhieri Saggi Il libro contiene riflessioni sulla facoltà di linguaggio,

cioè sulla natura umana. Prendere la parola: questo evento così familiare costituisce nondimeno la base sperimentale più attendibile per affrontare molti problemi capitali della filosofia, dal rapporto tra potenza e atto alla formazione dell'autocoscienza. Partendo dal microcosmo dell'enunciazione, Virno allarga via via l'angolo visuale sulla ricerca: dopo aver messo in luce il carattere costituitivamente

pubblico (meglio ancora, politico) della

mente linguistica, esamina il nesso tra requisiti biologici invarianti e mutevoli esperienze storiche. Il punto di arrivo è un originale concetto di . L'autore intende

dimostrare che le condizioni di possibilità della nostra esperienza (presupposti trascendentali in gergo kantiano, prerogative specie-specifiche in gergo evoluzionista) non restano sullo sfondo, ma sono esse pure oggetto di esperienza immediata: a tal scopo passa in rassegna le occasioni in cui la natura umana conosce una completa

rivelazione, ovvero consegue una piena visibilità empirica. sia definito dallo scopo del linguaggio. Chi, cucinando, si conforma a regole diverse da quelle giuste, cucina male; ma chi gioca a scacchi secondo regole diverse dalle regole degli scacchi, gioca un altro gioco; e chi si conforma a regole grammaticali diverse da quelle solite, non per questo dice alcunché di falso, ma dice qualcos'altro (Wittgenstein 1969, pp. 1 47 sg.).

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CAPITOLO PRIMO

Poiché non è definito dall'uno o dall'altro scopo occasionale, il linguaggio stipula da sé i criteri cui si attiene. « Le regole della grammatica si possono chiamare "arbitrarie" , se con ciò si vuol dire che lo scopo della grammatica è soltanto quello del linguaggio » (Wittgenstein 1 95 3 , § 497) . L'unità di misura non è disgiungibile da ciò che deve essere misurato; anzi, istituisce il fenomeno al quale si applica. Detto altrimenti: la regola non si limita ad amministrare il rapporto tra significati e realtà, ma presiede alla stessa forma­ zione di ciascun significat o. « Non è possibile nessuna discussione se per la parola "non" vadano bene (cioè siano conformi al suo significato) queste o altre regole; infatti senza queste regole la parola non ha ancora nessun significato, se cambiamo le regole ha un significato diverso (o non ne ha nessuno) : e allora possiamo benissimo anche cambiare la parola » (Wittgenstein 1 969, p. 1 47 ) . Oltre a tracciare u n evidente discrimine tra linguaggio e produ­ zione, l'arbitrarietà delle regole fuga anche l'illusione cognitivista, secondo la quale l'eloquio umano avrebbe il compito di comunicare pensieri già pensati. Per un verso, come dimostra l'esempio del « non», vi sono molti pensieri resi possibili soltanto dal linguaggio. Per l'altro, ma sempre in virtù della medesima arbitrarietà, vi sono molti enunciati che non hanno alcun valore epistemico: quale pen­ siero esprime « mannaggia » , o « aiutatemi», o « Dio mio»? Ripetia­ molo: né poiesis, ma neanche episteme, il discorso umano è, in primo luogo, praxis. « Arbitrario » significa « naturale »: i due termini si implicano a vicenda, e talvolta sfiorano la sinonimia. Se fosse un artefatto, cioè uno strumento, il linguaggio sarebbe sottoposto a regole invarianti, desunte dal modo migliore di metterlo a frutto. Ma «il linguaggio è nella natura dell'uomo, che non l'ha fabbricato » . La prassi ver­ bale è un tratto caratteristico della nostra specie. A differenza della comunicazione animale, in cui ogni singolo segnale corrisponde univocamente a una particolare evenienza ambientale (pericolo de­ terminato, possibilità di procacciarsi il cibo ecc.), il discorso umano è scomponibile in «elementi di articolazione privi di significato [ . . . ] la cui combinazione selettiva e distintiva dà luogo alle unità signi­ ficanti » (Benveniste 1 95 2 , p . 76) . Si tratta pertanto di un'attività biologica non vincolata alle configurazioni dell'ambiente. Di un'at­ tività fine a se stessa, il cui risultato combacia senza residui con l'e-

IL

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secuzione. E un'attività fine a se stessa non può che essere autore­ golata. L'arbitrarietà delle regole linguistiche è, quindi, naturale e perfino necessaria. « Nel linguaggio, l'unico correlato di una neces­ sità naturale è una regola arbitraria. È l'unica cosa che, da questa necessità, si possa travasare in una proposizione » (Wittgenstein 1 969, p. 1 47 ) . Wittgenstein ipotizza che l a vita e il linguaggio siano due con­ cetti coestensivi: >, ossia un preminente interesse per la corrispondenza biu­ nivoca tra parole e cose, le nostre locuzioni sono « figure » teatrali, Sinn senza Bedeutung, testi racchiusi tra virgolette. Non troppo diverso è il giudizio di Husserl sulle « espressioni senza segnale », cioè sugli enunciati sprovvisti di valore informativo: quando li si

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CAPITOLO PRIMO

proferisce, « non si fa altro che rappresentare se stessi come per­ sone che parlano e comunicano » (Husserl 1 90o-o r , p. 3 0 3 ) . Ma rappresentare se stessi come persone che parlano, non significa forse mettersi in scena, recitando le proprie frasi quasi fossero le battute di un copione? Non implica forse, questa teatrale autoesi­ bizione, il passaggio dall'uso effettivo di un certo enunciato alla mera menzione di esso? Per capire se l'impiego delle virgolette sia una eccezione, come sembrano ritenere Frege e Husserl, o una caratteristica basilare del discorso umano, conviene ragionare all'incontrario, chiedendosi cioè in quali casi si possa espungere senza inconvenienti l'imba­ razzante segno grafico. I nostri enunciati cessano di essere « figure » teatrali a due condizioni, solidali tra loro. La prima sta nel dare esclusivo rilievo alla funzione cognitiva del linguaggio, velando provvisoriamente la sua autentica natura di prassi. La seconda con­ siste nel separare ciò che si dice (contenuto semantico) dal fatto che qualcuno ha preso la parola (enunciazione), ovvero nel postulare l'autonomia del « dramma » rispetto a qualsivoglia « scena ». Allora, certo, delle virgolette non resta più traccia. Ma queste due condi­ zioni sono, esse sl, eccezionali e artificiose. Il linguaggio verbale è innanzitutto azione, praxis, solo in modo parziale e derivato cogni­ zione, episteme. Per altro verso, il testo di un enunciato rimanda sempre all'atto di produrlo, cosl come la rappresentazione presup­ pone sempre un palco e delle quinte. Anomala, o quanto meno tran­

sitoria e reversibile, è l'assenza delle virgolette. L'attività linguistica non è definita dagli scopi estrinseci che di volta in volta le accade di perseguire: neanche, sia chiaro, dallo scopo di accrescere la conoscenza scientifica. Omettere le virgo­ lette non è cosa diversa dal privilegiare per un momento l'uno o l'altro fine occasionale dei nostri discorsi. Mantenerle, ricono­ scendo anzi il loro carattere originario, significa invece restare fedeli al funzionamento effettivo del linguaggio. Le virgolette segnalano, infatti, la naturale arbitrarietà delle regole linguistiche, nonché la conseguente inseparabilità di mezzo e fine, esecuzione e risultato, uso e menzione. Non stravagante, ma costitutiva e ine­ stirpabile è la teatralità della prassi verbale umana. Considerati di per sé, dunque come qualcosa che attiene al « vivere bene in senso totale », gli enunciati che proferiamo sono sempre «figure » (nel-

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l'accezione di Frege) , Sinn ancora svincolato da una Bedeutung. E gli agenti-locutori, qualsiasi cosa dicano, non mancano mai di «rap­ presentare se stessi come persone che parlano e comunicano ». 8 . Animale linguistico, animale politico Ricapitoliamo. La performance del ballerino o del violinista è una attività senza opera, manca di uno scopo esterno, implica necessa­ riamente la presenza altrui. Queste caratteristiche salienti si atta­ gliano anche al discorso verbale e alla prassi etico-politica. Di più: il linguaggio e la cura degli affari comuni costituiscono addirittura la matrice, o il prototipo universale, dell'attività senza opera. Il vir­ tuosismo tecnico del musica e del danzatore si limita a illu strare, peraltro in modo lacunoso e posticcio, il basilare virtuosismo natu­ ralistico di cui dà sempre prova l'animale umano alle prese con lo « spazio potenziale » tra mente e mondo. All 'artista esecutore va riconosciuto, tuttavia, un merito grande. Poiché evoca in un colpo solo tanto l'abilità del parlante, quanto l'avvedutezza (phronesis) di chi agisce nella sfera pubblica, la sua prestazione offre un prezioso anello di congiunzione tra le due celebri definizioni aristoteliche del­ l'Homo sapiens: «animale che ha linguaggio» e «animale politico » . Queste formule non suscitano problemi di sorta finché ci si balocca con l'idea che la seconda sia subordinata, o tutt'al più com­ plementare, alla prima. Risultano assai meno innocue, però, se si percepisce la loro piena sinonimia, ovvero la tautologia cui esse danno luogo qualora le si enunci l'una dopo l'altra. Gli autori che hanno concepito il linguaggio come produzione (poiesis) o cogni­ zione (episteme) , strumento sociale o interiore patrimonio della mente, ammettono senza patemi d'animo che l'animale linguistico può essere anche, talvolta, un animale politico. Ma non sospettano neppure per un momento, costoro, che le due definizioni sono coe­ stensive, indiscernibili, logicamente equivalenti. Anziché discettare pigramente sugli usi politici della parola, occorre mettere a fuoco l'intrinseca politicità del linguaggio. Quest'ultima diventa manife­ sta non appena si ravvisi la robusta parentela che unisce il parlante all'artista esecutore; o meglio, non appena si riconosca che il di­ scorso articolato è innanzitutto una praxis virtuosistica il cui « fine ultimo è l'esercizio stesso della facoltà ».

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CAPITOLO PRIMO

La politica non è una forma di vita tra le altre, correlata a uno specifico gioco linguistico, come credono certi wittgensteiniani troppo morigerati. Essa non mette radici in una regione circoscrit­ ta dell'attività verbale, ma fa corpo con lo stesso avere linguaggio. Una e medesima è la configurazione biologica che consente di par­ lare e spinge ad agire politicamente. L'indole politica dell'eloquio umano rappresenta, semmai, il presupposto unitario su cui pog­ giano sia le diverse forme di vita sia i molteplici giochi linguistici (tra i quali spiccano per importanza, certo, i giochi linguistici co­ gnitivi e quelli produttivi) . Studiare il linguaggio come organo bio­ logico della prassi pubblica non è un compito marginale, cui attende­ re nell'ora di ricreazione dopo che il lavoro duro è ormai terminato, bensl il fulcro di ogni indagine sulla natura umana. Uno studio sif­ fatto riguarda le fondamenta, non l'arredamento. Per intendersi: si colloca allo stesso livello della ricerca di Chomsky sulla grammati­ ca universale, o della riflessione di Saussure sulla bifaccialità del segno. Non ha invece nulla a che vedere, questo studio, con la mili­ tanza anarchica di Chomsky (ammirevole, ma scissa dalla sua teo­ ria linguistica), né, tanto meno, con le vaghezze stucchevoli di cui va fiera la sociologia della comunicazione. L'animale che ha lin­ guaggio è di per sé, senza bisogno di aggiungere altro, un animale politico. Tutto il resto conta, come no, ma viene dopo. Per dirla con un famoso generale francese: l'intendance suivra.

2.

Il performativo assoluto

1.

Ciò che si dice e ilfatto che si parla

I n ogni enunciato coesistono due aspetti fondamentali, simbio­ tici e però ben distinti: a) ciò che si dice, il contenuto semantico espresso dali'enunciato grazie a certi suoi peculiari caratteri fone­ tici, lessicali, sintattici; b) ilfatto che si parla, l'aver preso la parola rompendo il silenzio, l'atto di enunciare in quanto tale, l'esposi­ zione del locutore agli occhi degli altri. Risulta particolarmente appropriata, qui, l'immagine saussuriana di un unico foglio di carta, dotato di due facce inseparabili, cia­ scuna delle quali implica l'altra e ne è implicata. Ma in che cosa consistono, di preciso, il recto e il verso del foglio? Ciò-che-si-dice comprende in sé l'intero rapporto tra langue e parole, tra le oppor­ tunità espressive offerte dal sistema di una lingua storico-naturale e la loro realizzazione selettiva in un concreto proferimento. Il fatto-che-si-parla rimanda invece al terzo polo della nostra espe­ rienza linguistica, enucleato di sfuggita da Saussure: la faculté de langage, ovvero la generica potenza di enunciare, indipendente da ogni lingua determinata. È noto che Saussure, dopo averla men­ zionata proprio all'inizio del Cours, espunge la faculté dal suo pro­ getto scientifico, giudicandola un inestricabile coacervo di ele­ menti fisiologici e biologici (Saussure 1 9 2 2 , pp. 1 9 sg.). In tal modo, però, egli rinuncia a considerare da vicino ciò che nell'elo­ quio umano è propriamente dynamis, potenza. Questo lato soltanto potenziale - e, insieme, biologico - è il linguaggio distinto dalle lin­ gue storico-naturali. Mentre la langue appartiene pur sempre all' am-

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CAPITOLO SECONDO

bito dell'attualità, giacché si risolve in un insieme indefinito di atti eventuali (eventuali perché non ancora eseguiti, ma pur sempre atti per forma e contenuto) , la faculté è vuoto poter-dire, mai equipa­ rabile a una serie di esecuzioni ipotetiche. Il fatto-che-si-parla non può essere assimilato né all'atto comunicativo realmente in corso (atto di parole), né alla sua prefigurazione virtuale in seno al si­ stema-langue: esso attesta piuttosto, all'interno di un singolo enun­ ciato, che si ha facoltà di enunciare, che vi è potenza di dire. La pre­ sa di parola, inseparabile da un dictum particolare, esibisce la pura e semplice dicibilità, scevra di ogni contenuto circostanziato. Fa­ coltà da una parte, lingua e parola dall'altra: ecco i due lati inscin­ dibili dell'unico foglio. Non è difficile riconoscere che molte coppie filosofiche, cruciali o almeno magniloquenti, hanno il proprio umile fondamento mate­ riale nelle due facce dell'enunciato: empirico ciò-che-si-dice (anche se disquisisce di demoni digrignanti, il testo di un enunciato è comunque, in sé, un oggetto confitto nello spazio e nel tempo) , tra­ scendentale il fatto-che-si-parla (condizione di possibilità di ogni testo determinato) ; antico il primo (prodotto particolare della nostra competenza linguistica) , antologico il secondo (giacché com­ prova l'esistenza stessa di tale competenza) . Ciascuno dei due aspetti adombra, inoltre, una diversa relazione tra linguaggio e mon­ do. Ciò-che-si-dice rappresenta o istituisce stati di cose del mondo: «la stella del mattino è, in realtà, il pianeta Venere », « ti amo », « quel sasso è cosl spigoloso da far male agli occhi» ecc. Il fatto-che­ si-parla mostra, invece, l'inserzione del linguaggio medesimo nel mondo, inteso stavolta quale contesto o sfondo di tutti gli stati di cose e di tutte le enunciazioni. Profittando di una celebre distin­ zione di Wittgenstein, si potrebbe dire: il contenuto semantico dà ragguagli su come è il mondo; l'azione di enunciare indica piutto­ sto, nel momento in cui vi si inscrive, che il mondo è (cfr. Witt­ genstein 1922, prop. 6 - 44) . r . r . Il duplice carattere dell'enunciato implica, però, anche un'altra biforcazione concettuale: meno roboante di quelle cui si è appena accennato, ma forse non del tutto trascurabile. Mentre ciò­ che-si-dice dispiega l'attitudine cognitivo-comunicativa del lin­ guaggio umano, il fatto-che-si-parla ne manifesta il carattere ritua­ le. Non si allude, qui, a una ritualità accidentale, che prorompa in

IL PERFORMATIVO ASSOLUTO

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certe specifiche occasioni per poi svaporare alla svelta, ma all'in­ dole rituale di ogni nostro discorso. Non è in questione soltanto la parola del rito, ma la ritualità insita in qualsiasi (presa di) parola. Il recto e il verso del foglio possono essere raffigurati anche nel modo seguente: cognitivo/rituale. Come non vi è un testo de­ terminato (ciò-che-si-dice) separabile dall'atto di produrlo (il fatto­ che-si-parla), cosl non vi è alcuna prestazione cognitiva e comuni­ cativa che sia esente da una tonalità rituale. Non si tratta certo di applicare al linguaggio l'una o l'altra nozione consolidata di rito, ma, all'inverso, di cogliere la radice stessa del rito nel fatto-che-si-parla. Tutti i singoli atti rituali (com­ preso il contratto truffaldino o la scommessa alle corse dei cavalli) sono effettivamente tali proprio e soltanto perché si prende la parola. Si obietterà che molto spesso la ritualità dipende soprat­ tutto da ciò-che-si-dice, dunque da precisi contenuti enunciativi. È senz'altro vero: ma è facile constatare che, in questi casi, ciò-che­ si-dice ha sempre per oggetto il fatto-che-si-parla, che i particolari contenuti enunciativi si limitano a elaborare cognitivamente l'atto stesso di enunciare, o traggono da esso valori simbolici e conse­ guenze operative di ogni sorta. Gli enunciati strettamente rituali articolano nei modi più vari, con il proprio testo, il «fatto» che si sta producendo un testo. Questo « fatto» sta a fondamento della ritualità in genere, di quella ritualità che avviluppa anche gli enun­ ciati rigorosamente non rituali, per esempio quelli scientifici. Il fatto-che-si-parla fonda, e a un tempo esibisce, il carattere rituale dei nostri discorsi. Ma, se cosl è, che cosa dobbiamo inten­ dere per rito? Quale ne è la definizione perspicua? Come sappiamo, il fatto-che-si-parla rimanda alla faculté de langage gremita di ele­ menti fisiologici e biologici, ovvero attesta il generico poter-dire in un singolo dictum semanticamente determinato. Si potrebbe ipo­ tizzare, quindi, che il rito celebri sempre di nuovo la distinzione tra faculté e langue, linguaggio e lingua. E poiché il linguaggio distinto dalle lingue storico-naturali esiste soltanto come dynamis biologica, si potrebbe anche dire che il rito mette in luce, all'interno di un atto linguistico ben definito, lo scarto tra potenza e atto. Rituale, alla fin fine, è l'esperienza empirica del trascendentale, l'evocazio­ ne discorsiva della disposizione biologica sottostante a ogni discor­ so umano. Fin qui la trama obiettiva del rito, o almeno alcuni dei

CAPITOLO SECONDO

fili che concorrono a imbastirla. È evidente, però, che bisogna te­ nere in massimo conto quel che accade al soggetto officiante: il rito, infatti, è una prassi, non una indagine concettuale. La produ­ zione di un enunciato (non il suo testo) consente al locutore di manifestarsi, lo rende letteralmente visibile. « Parla, affinché io possa vederti», ha scritto una volta Lichtenberg ( r n8 , p. r r 9) . Con la semplice emissione della voce articolata - o anche, ma è lo stesso, collocandosi sulla soglia tra linguaggio e lingua - il parlante diventa un fenomeno, qualcosa cui compete il phainesthai, l'appa­ rire (cfr. supra, cap. r ) . Si espone cioè agli occhi degli altri. E pro­ prio in tale esposizione consiste l'inconfondibile opera del rito.

2.

Comunicare che si sta comunicando

Il lato prominente del foglio-enunciato, quello cui subito corre la nostra attenzione, è costituito di solito da ciò che si dice. Il fatto che si parla resta invece per lo più inavvertito. Benché sia presente in ogni eloquio, o forse proprio per questo, esso non ha un autonomo rilievo. Il fatto-che-si-parla è il presupposto misconosciuto, o lo sfondo inappariscente, di ciò-che-si-dice; la presa di parola è al ser­ vizio del messaggio comunicativo. Vi sono tuttavia giochi lingui­ stici in cui il consueto rapporto tra sfondo e primo piano si capo­ volge; giochi linguistici, dunque, in cui quel che più conta è il fatto-che-si-parla, mentre ciò-che-si-dice sbiadisce, riducendosi a mero espediente o tramite ancillare. Si vorrebbe vagliare, qui, que­ sto capovolgimento tra recto e verso, in base al quale il contenuto semantico figura talvolta come un semplice segnale della presa di parola e l'enunciato significa in primo luogo che si sta producendo un enunciato . Detto altrimenti: interessano, qui, i concreti profe­ rimenti in cui la relazione langue-parole si limita a indicare la faculté de langage. Lungi dal costituire una bizzarria marginale, essi offro­ no il destro per affrontare questioni logiche, ma anche etiche, di assoluta rilevanza. Molteplici sono le tecniche per far dimenticare, o mettere tra parentesi, il contenuto semantico dell'enunciato, dando proprio così il massimo risalto al fatto stesso di enunciare. La ripetizione meccanica della stessa frase (si pensi all'ecolalia che pervade ogni

IL PERFORMATIVO ASSOLUTO

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conversazione ordinaria, non solo alle sue manifestazioni infantili o patologiche) appanna - ma sarebbe meglio dire, in gergo non casualmente rituale: sacrifica - il messaggio comunicativo, lascian­ do campo libero all'evento costituito dalla presa di parola. Ciò vale anche per le formule stereotipate come «buongiorno» o « How are you? » . Si pensi, in generale, alla cosiddetta comunicazione /àtica: in essa, gli interlocutori nulla dicono, se non che stanno parlando (« Pronto, pronto» , « Sl, ci sono»); e nulla fanno, gli interlocutori, se non rendersi visibili, esporsi agli occhi degli altri. Scrive Broni­ slaw Malinowski, in un saggio dedicato alle comunità primitive, che ben si attaglia, però, anche alla chiacchiera informatica delle metropoli contemporanee: « Nella comunicazione fàtica, le parole vengono forse essenzialmente impiegate per trasmettere una signi­ ficazione, la significazione che è simbolicamente quella loro pro­ pria? Certamente no. Esse adempiono una funzione sociale e questo è il loro scopo principale » (Malinowski 1 9 2 3 , p. 355) . Le opinioni talora espresse sfoggiano apertamente la propria infondatezza e volatilità; anziché testi dotati di peso specifico, sono pretesti il cui solo scopo è attirare l'attenzione sull'atto di proferire eseguito da un certo parlante. La funzione fàtica interdice un reale scambio di informazioni, interrompe o differisce la propagazione di messaggi definiti, atro­ fizza l'uso descrittivo del linguaggio. L'enunciato si riferisce sol­ tanto al fatto che qualcuno lo ha prodotto. Non rispecchia stati di cose del mondo, ma configura esso stesso un evento: un evento sui generis, però, dato che consiste unicamente nell'inserzione del discorso nel mondo. Scrive ancora Malinowski: « È evidente che la situazione esteriore non entra direttamente nella tecnica della pa­ role. Ma cosa si può intendere come situazione quando alcune per­ sone chiacchierano tra loro senza uno scopo preciso? [ . ] L'intera situazione consiste in avvenimenti linguistici» (ibid.). La presa di parola ritorna su se stessa, appagata dal proprio compimento, senza millantare un oggetto peculiare né una peculiare finalità. L'esposi­ zione agli occhi degli altri richiede, come condizione ottimale, la rarefazione dei messaggi. Non si tratta però di un vuoto assoluto : l'assenza d i u n dictum circostanziato e rilevante permette d i comu­ nicare quella generica comunicabilità su cui fa conto ogni dictum. . .

CAPITOLO SECONDO

2 . r . La funzione fàtica mette implicitamente in risalto il fatto­ che-si-parla, a discapito di ciò-che-si-dice. Ora chiediamoci: è pos­ sibile rendere del tutto esplicito ciò che la funzione fàtica (al pari di altre forme discorsive su cui ci soffermeremo più avanti) com­ pie di soppiatto? In altri termini: è possibile estrapolare il fatto-che­ si-parla, ossia un aspetto fondamentale di qualsiasi enunciato, esprimendolo con un enunciato a sé stante? Ovviamente sl. Basta dire: «lo parlo ». 3· Che cos'è un per/ormativo assoluto John L. Austin chiama per/armativi enunciati quali « Prendo que­ sta donna per mia legittima sposa», «Battezzo Luca questo bim­ bo », « Giuro che verrò a Roma », « Scommetto mille lire che l' In­ ter vincerà lo scudetto » . Chi li proferisce, non descrive un'azione (un matrimonio, un battesimo, un giuramento, una scommessa) , ma la esegue. Non parla di ciò che fa, ma fa qualcosa parlando. Anche « , oppure « Stai calmm>,

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o anche « Che cosa ho fatto per meritarlo?», « Smettila », « Farò pro­ prio cosl», « Non ci posso credere». Tutte queste frasi non hanno un contenuto semantico ben definito: chi le ascoltasse di soppiatto, non saprebbe indicarne il riferimento e il messaggio comunicativo. Sono qualcosa di più di una semplice scarica emotiva, dato che, con esse, il parlante si interpella e prova ad agire su di sé; ma sono qual­ cosa di meno di un enunciato autosufficiente, dato che, in esse, ciò­ che-si-dice è incomprensibile o irrilevante. Supponiamo, tanto per non complicare troppo le cose, che il significato delle frasi pro­ nunciate in modo percettibile dall'adulto solitario dipenda da riflessioni silenziose svolte in precedenza. Resta tuttavia da chie­ dersi: per quale motivo, a un certo punto, il pensiero verbale rinun­ cia all'abituale sordina e si ritrasforma in monologo esteriore, o, se si vuole, in chiassoso linguaggio egocentrico? Quale funzione assolve, qui, la vocalizzazione? Perché proferire ad alta voce moniti ed esortazioni che potevano essere pudicamente formulati dall'i­ nappariscente «linguaggio interno»? 1 0 . 2 . È di qualche interesse, a questo proposito, l'analisi ese­ guita da Edmund Husserl nella prima delle Ricerche logiche, il cui paragrafo ottavo si intitola per l'appunto Le espressioni nella vita psichica isolata (Husserl 1 9 00-0 1 , I , § 8, pp. 3 0 2 sg. ) . Che cosa /a chi intraprende un monologo altisonante? Secondo Husserl, nulla che possa essere ricondotto all'ordinaria accezione di «parlare » . Quel locutore non comunica alcunché neppure a s e stesso. Le frasi dette non hanno certo il compito di informare colui che le va pro­ nunciando circa i «propri vissuti psichici». L'autore del soliloquio non ha bisogno di mettersi a parte di ciò che sta già provando: « Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi fun­ zione di segnali dell'esistenza di atti psichici, perché questa indi­ cazione sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi nel medesimo istante » (ibid., p. 3 03) . Gli enunciati indirizzati a sé medesimi sono sfrontatamente superflui: si parla per finta, quasi si stesse sul palcoscenico di un teatro. Eppure, con questa finzione per tanti versi pleonastica, qualcosa accade . Secondo Husserl, « quando, rivolgendoci a noi stessi, di­ ciamo: " Hai fatto male, non puoi continuare a comportarti cosl" », non stiamo veramente parlando, ma ci limitiamo a compiere un'o­ perazione alquanto bizzarra: « non si fa altro che rappresentare se

CAPITOLO SECONDO

stessi come persone che parlano e che comunicano» (ibid. , corsivo mio) . Sappiamo che questa messa in scena di sé in quanto «persona che parla » non è affatto parassitaria o stravagante (come invece sembra ritenere Husserl), ma costituisce un aspetto insopprimibile, anche se per lo più inavvertito, di ogni enunciazione. Il punto cru­ ciale è che l'individuo intento a monologare ad alta voce isola tale aspetto e lo ostenta apertamente. Nel soliloquio ben scandito, pro­ prio perché viene meno ogni empito comunicativo, ci si acconcia a rappresentare lo stesso fatto-che-si-parla. Esonerata da particolari compiti informativi, la voce significante dà teatralmente ragguagli sulla facoltà di linguaggio. « Hai fatto male, non puoi continuare a comportarti cosl», « Smet­ tila», « Torna indietro », « Signore, pietà » sono altrettanti perfor­ mativi assoluti, sebbene impliciti. Il loro significato ultimo è « dire: "dico" ». Il passaggio dal silenzioso pensiero verbale al monologo sonoramente proferito risponde alla necessità di « rappresentare se stessi come persone che parlano ». Ovvero, con altra terminologia, alla necessità di risalire, mediante un puntuale proferimento empi­ rico, al presupposto trascendentale di ogni possibile proferimento (la facoltà di parlare, appunto) . Questa necessità, come accennato, sorge in momenti critici dell'esistenza. Per lenire uno smarrimento, occorre talvolta ripercorrere ritualmente certe tappe dell'antropo­ genesi o dell'ontogenesi. Tra esse vi è, senza alcun dubbio, il lin­ guaggio egocentrico infantile, cui si deve la formazione dell'auto­ coscienza e l'individuazione del parlante.

II.

La parola religiosa

Soltanto la parola religiosa è sempre potente, gravida di effetti, operativa. Dalla preghiera al miracolo, dalla benedizione alla con­ fessione, dall'invocazione alla bestemmia, questa parola comunica unicamente ciò che essa stessa fa nel momento in cui viene pro­ nunciata. Museale o tellurico che possa sembrare, l'ambito reli­ gioso esibisce in modo concentrato la performatività e la ritualità dell'eloquio umano. Lo studio degli atti linguistici, se condotto con sobrio rigore scientifico (o, meglio ancora, con piglio materialisti­ co) , culmina necessariamente in una indagine teologica.

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L'ipotesi che qui si vorrebbe proporre non verte, però, sulla ge­ �erale e ramificata parentela tra speech acts e discorso liturgico. E un'ipotesi più circoscritta e, insieme, più impegnativa. Eccola: il lessico religioso è, innanzitutto, il luogo di residenza ufficiale del performativo assoluto, ossia dello speech act che dichiara di ese­ guire proprio e soltanto l'azione di parlare. La forma logica degli enunciati religiosi è « ) . E possibile che egli reagisca con imbarazzo e non faccia nulla, ma è anche possibile che egli disponga le vocali in un certo ordine (probabil­ mente: i, e, a, o, u). [ . . . ] Ora, alla domanda se u sia «realmente>) più scura di e, egli risponderebbe quasi certamente qualcosa come: « non è che u sia realmente più scura, ma mi dà in qualche modo un'impressione più scura >) (Wittgenstein 1 958, pp. 1 74 sg.) .

A proposito dell'attribuzione di u n colore alle vocali, Wittgen­ stein fa una osservazione che vale, in generale, per tutte le sensa­ zioni di secondo grado:

SENSISMO DI SECONDO GRADO. PROGETTO DI FISIOGNOMICA

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Qui si potrebbe parlare di significato «primario » e di significato >, indica con precisione che cosa debba intendersi, da un punto di vista naturalistico, per « carne del verbo »: il pensiero verbale non cerca un corpo qualsiasi (questo o quel suono articolato) per diventare fenomeno e res, ma è in se stesso corporeo, fenomenico, casale; fa tutt'uno, dunque, con il lavorio dei polmoni e dell'epiglottide, che i suoni articolati produce. La resistenza psicologica a considerare il linguaggio come una res sensibile, ascoltata o vista, va di pari passo con l'inclinazione feticistica ad attribuire alle cose più diverse certe prerogative che competono, invece, proprio e soltanto al linguaggio. Ci si rammenti dell'Odradek di Kafka, l'indefinibile aggettino semovente che si '

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CAPITOLO QUINTO

aggira nel condominio, crucciando il padre di famiglia. Niente di diverso dal già menzionato « oggetto semplice » di Russell, che molto ha crucciato la filosofia analitica. Ma innumerevoli, e di chia­ ra fama, sono gli Odradek filosofici. Essi devono la loro vita di fe­ ticci a due mosse concatenate: dapprima si afferma l'autonomia del pensiero signifié dal corpo-signi/iant; poi, forti della presunta bifac­ cialità del segno, si trasferiscono certi tratti del disincarnato pen­ siero signifié all'oggetto di cui si parla (anziché imputarli, come si dovrebbe, a quelle res altisonanti che sono le nostre parole) . Un esempio aggiuntivo: la negazione. Allorché si distacchi indebita­ mente il significato concettuale della paroletta « non» dalla sua « carne », cioè dal corpo sensibile del significante, si arriva fatal­ mente a postulare l'esistenza di enti o fatti in sé negativi, tali cioè da negare altri enti o fatti. Queste enigmatiche «cose negative» non sono altro che una proiezione animistica: Odradek all'ennesima potenza, per l'appunto. Chi non riconosce la realtà sensibilmente sovrasensibile del linguaggio, ossia la reificazione della mente che esso porta sempre con sé, finisce con l'avallare il feticismo, impu­ tando certe attitudini concettuali a un oggetto non-linguistico. Il linguaggio è lo sfondo casale del pensiero. Ogni vocabolo ha molto da spartire con la nozione di Urphanomen elaborata da Goethe: ogni vocabolo è, cioè, il « fenomeno originario» che mani­ festa in modo contingente ed empirico una idea giudicata a torto invisibile . La reificazione consiste, dunque, nel ricondurre il pen­ siero a quell'insieme di oggetti transizionali e transindividuali che è il linguaggio. Essa somiglia a un'anamnesi, a un ricordo chiarifi­ catore: ci si sovviene delle cose sensibilmente sovrasensibili, ossia dei sonori significanti, in cui si incarna fin dall'inizio la categoria trascendentale. Un autentico esercizio di anamnesi reificante (e quindi, implicitamente, di critica del feticismo) è il saggio di Emile Benveniste Catégories de pensée et catégories de !angue, in cui è messa in luce la genesi rigorosamente linguistica, talvolta addirittura idio­ matica, di tutte e dieci le categorie aristoteliche. -

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Arìstotele credeva di definire gli attributi degli oggetti, mentre non enuncia che degli enti linguistici [ . . .] . La lingua evidentemente non ha orientato la definizione metafisica dell' «essere» - ogni pensatore greco ha la sua - ma ha permesso di fare dell'« essere» una nozione oggettivabile, che la riflessione filosofica poteva maneggiare, analizzare, situare come qualsiasi altro concetto (Benveniste 1 958b, pp. 87 sg. ; corsivi miei) .

ELOGIO DELLA REIFICAZIONE

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Familiare fino alla stereotipia, ma del tutto fuorviante, è la frase: esprimere in parole i propri pensieri. A sentirla, potrebbe sembrare che le parole vengano per ultime, con il compito ancll!are di mani­ festare o attualizzare pensieri pregressi. Non è cosl. E vero, anzi, il contrario: che si tratti di un calcolo o di una meditazione meta­ fisica, sono le cogitationes ad attualizzare il linguaggio. Di gran lun­ ga più congrua, anche se a tutta prima paradossale, è la frase: tra­ durre in pensieri le proprie parole. Tocca alla riflessione realizzare l'una o l'altra possibilità offerta dai segni sensibilmente sovrasen­ sibili, cioè « monofacciali», la cui stabile dimora è il mondo delle apparenze uditive e visive.



Le disavventure dell'« lo penso »

È necessario chiedersi, ora, come si prospetta l'alternativa tra feticismo e reificazione quando ne va dell'autocoscienza indivi­ duale. In gioco non è più il rapporto tra uomini (e il suo eventuale capovolgimento in un rapporto tra cose) , ma tutto ciò che, nella vita della mente, assicura l'unità di una particolare biografia; non più la regione intermedia tra lo e non-Io, ma la costituzione dello stesso Io singolare. A quali fraintendimenti feticistici è esposto il soggetto dell'autoriflessione, dunque il soggetto che sa di sapere, pensa se stesso, dice « io » al proprio riguardo? E, viceversa, in che consiste la sua adeguata reificazione, ovvero il suo corrispettivo oggettuale, fenomenico, empirico? Il contrasto tra feticismo e rei­ ficazione concerne, qui, l' «