Qohelet. Introduzione, traduzione e commento 8892210858, 9788892210851

Testo ebraico a fronte. La titolatura classica del libro di Qohelet è Ecclesiaste. La sua fisionomia letteraria è molto

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Qohelet. Introduzione, traduzione e commento
 8892210858, 9788892210851

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SERAFINO PARISI ha ottenuto la Licenza in Scienze Bibliche presso il Pontificio Istituto Bi­ blico di Roma Si è laureato in Filosofia presso l'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" discutendo una tesi sulla "ripresa" di Giobbe in alcuni autori contemporanei. Insegna Ebraico, Greco del Nuovo Testamento ed Esegesi biblica presso l'Istituto Teologico Calabro di Catan­ zaro,

aggregato alla Pontificia Facoltà Teologica

dell'Italia Meridionale di Napoli. Giornalista pub­ blicista, è direttore di

Teologiche

Vivarium. Rivista di

Scienze

ed è membro dell'Associazione Bi­

blica Italiana.

"Bét jdséph"

È

direttore della Scuola Biblica

della Diocesi di Crotone - Santa

Severina, che è sotto il patrocinio dell'Associa­ zione Biblica Italiana

È

autore di alcune voci di

dizionario e di diversi articoli pubblicati su riviste specializzate e in opere collettanee.

Copertina: Progetto grafico di Angelo Zenzalari

NUOVA VERSIONE DELLA BIBBIA DAI TESI'I ANTICHI

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Presentazione

a Nuova versione della Bibbia dai testi antichi si pone sulla scia di una Serie inaugurata dall'editore a margine dei lavori conciliari (la Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali), il cui primo volume fu pubblicato nel 1967. La nuova Serie ne riprende, almeno in parte, gli obiettivi, arricchendoli alla luce della ricerca e della sensibilità contemporanee. I volumi vogliono offrire anzitutto la possibilità di leggere le Scritture in una versione italiana che assicuri la fedeltà alla lingua originale, senza tuttavia rinunciare a una buona qualità letteraria. La compresenza di questi due aspetti dovrebbe da un lato rendere conto dell'andamento del testo; dall'altro, soddisfare le esigenze del lettore contemporaneo. L'aspetto più innovativo, che balza subito agli occhi, è la scelta di pubblicare non solo la versione italiana, ma anche il testo ebraico, aramaico o greco a fronte. Tale scelta cerca di venire incontro all'interesse, sempre più diffuso e ampio, per una conoscenza approfondita delle Scritture che comporta, necessariamente, anche la possibilità di accostarsi più direttamente ad esse. Il commento al testo si svolge su due livelli. Un primo livello, dedicato alle note filologico-testuali-Iessicografiche, offre informazioni e spiegazioni che riguardano le varianti presenti nei diversi manoscritti antichi, l'uso e il significato dei termini, i casi in cui sono possibili diverse traduzioni, le ragioni che spingono a preferime una e altre questioni analoghe. Un secondo livello, dedicato al commento esegetico-teologico, presenta le unità letterarie nella loro articolazione, evidenziandone gli aspetti teologici e mettendo in rilievo, là dove pare opportuno, il nesso tra Antico e Nuovo Testamento, rispettandone lo statuto dialogico. Particolare cura è dedicata ali' introduzione dei singoli libri, dove vengono illustrati l'importanza e la posizione dell'opera nel canone, la struttura e gli aspetti letterari, le linee teologiche fondamentali, le questioni inerenti alla composizione e, infme, la storia della sua trasmissione. Un approfondimento, posto in appendice, affronta la presenza del libro biblico nel ciclo dell'anno liturgico e nella vita del

PRESENTAZIONE

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popolo di Dio; ciò pennette di comprendere il testo non solo nella sua collocazione "originaria", ma anche nella dinamica interpretativa costituita dalla prassi ecclesiale, di cui la celebrazione liturgica costituisce l'ambito privilegiato.

l direttori della Serie Massimo Grilli Giacomo Perego Filippo Serafini

Annotazioni di carattere tecnico

Il testo in lingua antica Il testo ebraico stampato in questo volume è quello della Biblia Hebraica Stuttgartensia (BHS), quinta edizione. Le correzioni alla lettura di alcuni tennini, indicate dai masoreti (qerè l ketìb), sono segnalate da parentesi quadre, con il seguente ordine: nel testo compare la fonna "mista" che si trova nel manoscritto, nelle parentesi si ha prima la fonna presupposta dalle consonanti scritte (ketìb) e poi quella suggerita per la lettura dai masoreti (qerè). La traduzione italiana Quando l'autore ha ritenuto di doversi scostare in modo significativo dal testo stampato a fronte, sono stati adottati i seguenti accorgimenti: - i segni · , indicano che si adotta una lezione differente da quella riportata in ebraico, ma presente in altri manoscritti o versioni, o comunque ritenuta probabile; - le parentesi tonde indicano l'aggiunta di vocaboli che appaiono necessari in italiano per esplicitare il senso della frase ebraica. Per i nomi propri si è cercato di avere una resa che non si allontanasse troppo dall'originale ebraico o greco, tenendo però conto dei casi in cui un certo uso italiano può considerarsi diffuso e abbastanza affennato. I testi paralleli Se presenti, vengono indicati i paralleli al passo commentato con il simbolo Il; i passi che invece hanno affinità di contenuto o di tema, ma non sono classificabili come veri e propri paralleli, sono indicati come testi affini, con il simbolo •:•. La traslitterazione La traslitterazione dei tennini ebraici è stata fatta con criteri adottati in ambito accademico e quindi con riferimento non alla pronuncia del vocabolo, ma all'equivalenza fonnale tra caratteri ebraici e caratteri latini.

ANNOTAZIONI

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L'approfondimento liturgico Redatto sempre dal medesimo autore (Matteo Ferrari), rimanda ai testi biblici come proposti nei Lezionari italiani, quindi alla versione CEI del 2008.

QOHELET Introduzione, traduzione e commento

a cura di

Serafino Parisi

~

SAN PAOLO

Biblia Hebraica Stuttgartensia, edited by Karl Elliger and Wilhelm Rudolph, Fifth Revised Edition, edited by Adrian Schenker, Cl 1977 and 1997 Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart. Used by permission.

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2017 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-922-1085-1

INTRODUZIONE

TITOLO E POSIZIONE NEL CANONE

Il libro di Qohelet inizia con un versetto composto da due parti distinte: una più antica («parole di Qohelet») e l 'altra più recente («figlio di Davi d, re a Gerusalemme»). L'espressione iniziale ha tutte le caratteristiche di un titolo riferito ali 'intera opera: in tal modo, infatti, iniziano alcuni libri biblici ai quali, verosimilmente, ci si vuole idealmente collegare 1• Nondimeno, il versetto iniziale, come si presenta a noi oggi, intende esibire le credenziali dello scritto e dell'autore. Quanto allo scritto, la formula «parole di. .. » ne definisce i contenuti come riflessioni sapienziali, formulate attraverso massime, sentenze, consigli, argomentazioni, osservazioni critiche. Quanto all'autore, il v. l attira l'attenzione sul nome «Qohelet» (presente in 1,1.2.12; 7,27; 12,8.9.10) e sull'ascendenza del personaggio. Il termine Qohelet è di difficile interpretazione. In ebraico la terminazione femminile «et» è usata per identificare una funzione o un ufficio: in questo caso, il vocabolo, costruito con verbi al maschile, pare indicare un professionista della parola; tuttavia nel corso del libro verrà adoperato come nome proprio di persona, forse per l'evoluzione di un nomignolo o per il consolidamento di uno pseudonimo. Il riferimento a Salomone, «figlio di David, re a Gerusalemme», sembra contenere ed evidenziare una funzione teologica piuttosto che l 'intenzione di attribuire l 'opera al grande

1 Cfr. 2Sam 23, l; Ger 1,1; Am l, l; Os 1,1; Mi 1,1; Sof l, l; Ne 1,1. Così iniziano pure delle sezioni che fanno parte di opere più ampie: p. es., Pr 30, l e 31, l.

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re 2• Nel passato il libro è stato realmente attribuito a Salomone3 ; tuttavia, il legame ideale con quel sovrano, considerato nella tradizione biblica e nell'immaginario collettivo come il sapiente per antonomasia, è servito a dare credibilità e autorevolezza a uno scritto ritenuto problematico a tal punto da metteme in discussione, fin dall'inizio, la stessa fruizione serena da parte dei credenti. La titolatura classica del libro di Qohelet è Ecclesiaste. La parola proviene dalla traslitterazione latina del termine greco ekklesiastis (da ekklesia) col quale la Settanta ha reso l'ebraico qohelet (da qiihiil = «assemblea», «riunione»). A motivo del legame con la radice qh/l' autore venne ritenuto uno che radunava l'assemblea, o forse il popolo o, più verosimilmente, una scuola con un ristretto numero di allievi, nella quale esercitava la sua funzione di maestro, o di conferenziere, o di predicatore. La dimensione sapienziale è sottolineata con forza anche dai versetti conclusivi dell'opera. Alcuni critici, e noi con loro, ritengono che la chiusa del libro sia composta da due poscritti, composti da due persone diverse. Nel primo ( 12,9-11 si sostiene che, malgrado la singolarità del linguaggio e l'originalità del contenuto, il libro di Qohelet appartenga al genere dei libri sapienziali; nel secondo ( 12, 12-14 ), di tono apologetico5, viene salvaguardato l'elenco dei

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2 L'identificazione col re Salomone è una pseudoepigrafia, tipica degli scritti sapienziali, con la quale rifacendosi al re giusto e saggio presentato in IRe 3,4-28; 5,9-14 e 10,1-29 e idealizzato in altre pagine bibliche, si intende dare autorevolezza allo scritto: «La tradizione salomonica ha garantito allibro un posto nel canone della Scrittura, salvaguardandolo cosi per i posteri» (R. Gordis, Kohelet. The Man and His Wor/d, Schocken, NewYork I968 3 , p. 42). 3 Un testo del X sec. d.C., il Midrash Shir Hashirim Rabbah l, l, sostiene che Salomone avrebbe scritto da giovane il Cantico dei cantici, da uomo maturo il libro dei Proverbi e da vecchio Qohelet. Di fatto, fino agli inizi del XX secolo ci furono sostenitori della paternità salomonica dello scritto, anche se già intorno alla metà del XVII sec., con Ugo Grozio, essa veniva messa in dubbio. 4 Di Fonzo lo definisce uno «splendido elogio biografico-letterario sull'A. e la sua attività sapienziale» composto da un «affezionato Discepo/o-epiloghista [che] ne raccolse fedelmente e divulgò lo scrittO>> (L. Di Fonzo, Ecclesiaste, Marietti, Torino I967, p. 74). 5 Questo poscritto è da ricondurre al periodo delle persecuzioni religiose operate da Antioco IV Epifane (ca. 175-164 a.C.). In questa fase storica, cui fece seguito la rivolta maccabaica, vennero distrutti i libri sacri degli ebrei (cfr. IMac I,56-57). Come resistenza attiva alle profanazioni e agli oltraggi, Giuda Maccabeo promosse la raccolta dei libri (2Mac 2,14-15) al fine di ricostituire il patrimonio tradizionale. Con molta probabilità fu allora che si rese necessaria la difesa dell'ortodossia di alcuni testi. Verosimilmente, quindi, uno «Scriba-epigrafista canonico» (cosi Io aveva nominato lo stesso L. Di Fonzo, Ecclesiaste,

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testi destinati all'educazione, del quale faceva parte Qohelet, al fine di impedire o, quantomeno, di ostacolare la manipolazione della lista con la sostituzione di alcuni libri e l 'introduzione di altri (fra i quali forse c'era anche il Siracide). La presentazione della figura dell'autore come un sapiente e la giustificazione delle parole di Qohelet riportate nell'alveo della visione dottrinale ortodossa6 hanno consentito allibro, pur attraverso una sintesi e un'interpretazione riduttive e parziali dell'opera, di essere collocato nell'elenco dei libri ispirati della Bibbia. Sulla questione della canonicità, infatti, era sorta già in tempi antichi una controversia fra la scuola di Hillel (vissuto tra il60 a.C. e il l Od.C.), più aperta e possibilista, che riteneva Qohelet un testo «sacro», e quella più rigida del suo contemporaneo Shammay che, al contrario, sosteneva che non lo fosse. Prevarrà la posizione di Hillel. Fu, infine, Rabbi Akiba che, prima della metà del II secolo d.C., riconobbe l'autorità canonica di Qohelet. Dalle fonti rabbiniche si apprende che nel cosiddetto sinodo di Yamnia7 , verso la fine del I secolo d.C., ci fu un dibattito specifico sulla canonicità di alcuni libri, fra cui anche Qohelet 8 • Nella Netilat Yadayim (trattato sul lavaggio rituale delle mani) della Mishnà 9 , verso la fine del II secolo d.C., è riportata una disputa per chiarire se il Cantico dei cantici e Qohelet fossero libri che «sporcano le mani», cioè se fossero libri sacri, dopo la cui lettura occorreva purificarsi. Il Talmud babilonese (Shabbat 30b) ci informa sulle ragioni di quella controversia: i rilievi cricit., p. 74) s'incaricò di ridimensionare alcune espressioni che potevano essere ritenute eterodosse e di mitigare la carica rivoluzionaria del libro. 6 In tale linea, secondo alcuni commentatori, vanno considerati gli interventi di correzione (p. es. in 3,21) o di aggiunta fatti nel testo: sarebbero dei tentativi per attenuare la durezza o la stranezza o la contraddizione delle posizioni di Qohelet rilevabili in alcuni passi del libro (cfr. G. Bellia- A. Passaro, «Qohelet, ovvero la fatica di conoscere», in G. Bellia- A. Passaro, Il libro del Qohelet, Paoline, Milano, 2011, pp. 375-376). 7 Si tratta di una città posta sul litorale mediterraneo, a Sud dell'attuale Tel Aviv, che divenne nuovo centro spirituale del giudaismo palestinese dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. 8 Non tutti gli studiosi sono d'accordo nel ritenere che la canonicità di Qohelet sia stata stabilita per la prima volta a Yamnia. La maggioranza dei commentatori pensa che a Yamnia sia stata piuttosto ratificata l'autorità canonica già tradizionalmente riconosciuta al libro. 9 Compilazione della tradizione orale cosi come fu esposta dai Tannaiti (maestri anteriori al III sec. d.C.) e compilata verso il200 da Rabbi Yehuda Hanassi in Galilea.

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tici sollevati non erano di ordine esterno allibro (ossia relativi alla tradizione e alla canonicità), ma dipendenti da difficoltà interne individuate nella presunzione di un 'origine solo umana dello scritto; in talune contraddizioni notate, per esempio, tra 2,2 e 7,3; tra 2,2 b e 8, 15; tra 4,2 e 9,4; e nei potenziali contrasti di alcuni passi qoheletiani con altri testi biblici, in particolare, con la Torà, come accadrebbe tra Il ,9 e N m 15,39, tra 4,2 e Sal 115,17. Tuttavia prevalsero gli argomenti a favore della sua inclusione tra i libri sacri: l 'attribuzione salomonica di l, l che conferiva autorità e autenticità allo scritto, la dichiarazione presente nell'epilogo relativa alla conformità del libro alla Torà, la tradizionale considerazione della sua canonicità. Nel canone ebraico del Talmud (nel trattato Baba Batra 14b e 15a del V-VI sec. d.C.) Qohelet si trova al quinto posto della terza sezione della Bibbia Ebraica, che comprende i Ketubim, collocato tra Proverbi e Cantico dei cantici. Il libro di Qohelet compare nella Bibbia Ebraica tra i K•tubim (gli Scritti), nell'elenco delle /:liimes megillot (cinque rotoli) lette pubblicamente durante la liturgia ebraica delle cinque principali festività dell 'anno 10 • Qohelet, messo al quarto posto tra Lamentazioni ed Ester, veniva proclamato nel terzo giorno della festa autunnale delle Capanne (SukkOt), quella più lieta, a motivo del suo ripetuto invito alla gioia che è dono di Dio 11 • Verso il 190 d.C. il libro compare nella lista canonica del cristiano Melitone di Sardi. Proverbi, Qohelet e Cantico formano un gruppo di tre volumi che la tradizione giudaica e quella cristiana hanno attribuito a Salomone, detti in greco, treis Solomontiai. Tuttavia, nei manoscritti e nelle liste antiche il libro ha occupato posti diversi. Nella Settanta e, conseguentemente, in molti 10 Rut (Shabu 'òt, festa delle Settimane), Cantico dei cantici (Pesab, Pasqua), Lamentazioni 'd lf 'ab, giorno di digiuno del Nove diA b), Qohelet (Sukk6t, festa delle Capanne), Ester (Purim, festa della liberazione degli ebrei dall'impero persiano). 11 Va, tuttavia, dato conto anche di un'interpretazione di segno contrario: la lettura pubblica di Qohelet nel terzo giorno della festa delle Capanne avrebbe dovuto far comprendere che quanto accade nel ciclo della natura vale anche per la vita umana; in tal senso la lettura posta in autunno doveva indicare che ormai l'esistenza dell'uomo volgeva verso la fine (cfr. E. Zolli, Guida all'Antico e al Nuovo Testamento, Garzanti, Milano 1956, p. 18).

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Padri della Chiesa, nella Vulgata di san Girolamo, nel Canone tridentino e nelle versioni moderne, è collocato al quarto posto nella serie dei sette libri chiamati didattici, sapienziali o poetici (Giobbe, Salmi, Proverbi, Qohelet, Cantico dei cantici, Sapienza e Siracide).

ASPETTI LETTERARI

La fisionomia letteraria del libro di Qohelet è molto complessa a causa di diversi problemi fra di loro collegati: il genere letterario o i generi, lo stile, la lingua e il suo uso, le fonti, la struttura. Il genere letterario

Una prima questione è quella del genere 12 • Nel libro di Qohelet ci sono vari generi letterari utilizzati dall'autore per particolari finalità. Il problema sta nella difficoltà a individuare un solo genere che possa riferirsi all'intera opera e che sia meno ampio e più specifico del genere sapienziale 13 • Nel tempo si è parlato di dialoghi, considerati tuttavia sui generis poiché Qohelet, più che introdurre vari personaggi, pone in tensione dialettica varie posizioni fra di loro articolate e divergenti. Si è anche pensato alla diatriba, genere di chiara matrice ellenistica. Anche in tal caso va osservato che, pur trattandosi di un espediente stilistico fra i più utilizzati da Qohelet, la diatriba non è l'unico genere presente all'interno del libro. D'altra parte questa tecnica non può essere riconosciuta come 12 Cfr. J. Vilchez Lindez, Qoèlet, Boria, Roma 1997, pp. 54-62; L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Dehoniane, Bologna 20092, pp. 47-49. 13 L. Di Fonzo elenca e integra varie particolarità stilistiche, diversi procedimenti e artifici retorici che, a suo dire, rendono «complesso e singolare» il genere letterario di Qohelet. Egli Io descrive come «un genere didattico-sapienziale del mii.sal ebraico, ma della specie dei "pensieri"; espressi questi in forme letterarie variate, comportate dallo stesso genere pensieristico, e con due parti più generali di riflessioni (genere sapienziale) e di proverbi (gen. gnomico), stese rispettivamente in prosa, ma con frammiste sezioni di prosa cadenzata, e in poesia gnomica. I pensieri stessi sono per lo più presentati a quadri e bozzetti di fatti e detti salienti ("crie" dei greci), e svolti infine con vari procedimenti logici e artifici stilisti ci, in specie ragionamenti ciclici e metodo della "diatriba" [ ... ]. Praticamente, l'Ecci e. rappresenta nella Bibbia una forma letteraria singolare, ricca e variata, del comune genere didattico-sapienziale e gnomico» (L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., p. 15).

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genere letterario capace di inquadrare l'intero scritto. Si è, dunque, parlato di «testamento regiO>), ma pure tale genere ha il limite di non essere estensibile a tutta l'opera. Così, neanche la raccolta di sentenze si presta a essere una forma letteraria applicabile a tutto Qohelet; peraltro questo genere di lavoro, mentre fa pensare a un'inverosimile quanto insostenibile successione casuale del materiale, nega, di fatto, una precisa intenzione strutturante 14 • A fronte di ciò, va segnalata la tendenza degli ultimi anni di considerare Qohelet come un trattato, vale a dire una composizione curata con una chiara strutturazione intema 15 • Tra i vari tentativi di classificazione i critici hanno pure parlato di meditazione, o di monologo interiore, o di soliloquio, o di ricordi autobiografici, o di pensieri, o anche di riflessioni: proprio queste ultime caratterizzerebbero l'opera qoheletiana come un trattato filosofico orientandone però l'interpretazione in modo del tutto riduttivo. Dalla rassegna delle varie posizioni pare difficile rintracciare un unico genere che renda ragione esaustivamente sia della pluralità di sfaccettature sia dell'articolata conformazione letteraria di Qohelet. Con ciò, tuttavia, non si vuoi negare in maniera assoluta la presenza di un'unità compositiva e di autore nel corpo del libro. Concordiamo con Vilchez Lindez nel sostenere che sia compatibile «una pluralità fondamentale di generi letterari in un 'unità superiore, originata dal genere letterario o da un altro elemento, quale può essere lo stile)) 16 • Stile e lingua In linea generale, negli studi più recenti prevale la tendenza a rivalutare lo stile del libro di Qohelet, specialmente per la singolarità e l'originalità che lo caratterizzano. Eppure, neanche sotto questo aspetto vi è accordo fra gli autori 17 : alcuni non riconoscono 14 La difficoltà di stabilire il genere letterario di Qohelet si ripercuote naturalmente sulla questione dell'individuazione della struttura del libro. Sulla base di ciò, alcuni autori ritengono che anche a livello letterario non vi sia nel libro un'ossatura architettonica: cfr. infra. 15 Cfr. L. Schwienhorst-SchOnberger, Kohelet, Herder, Freiburg 201 P, pp. 46-53. 16 J. Vilchez Lindez, Qoè/et, cit., p. 62. 17 Cfr. J. Vilchez Llndez, Qoèlet, cit., pp. 63-68; L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 51-60.

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a Qohelet alcun valore letterario apprezzabile; altri ne individuano l'originalità nella forza della lingua parlata, meno pura e curata rispetto a quella scritta, ma che si contraddistingue come linguaggio non convenzionale, non omologato e, per questo, non scontato né retorico e con tratti addirittura irriverenti. La lettura attenta del testo qoheletiano, così come si presenta a noi, mostra un timbro indelebile e un marchio netto e riconoscibile impresso nelle molteplici caratteristiche stilistiche: l'uso della prima persona singolare 18 che fa emergere la personalità e la coscienza dell'autore in modo tale che non si perda il suo peculiare punto di vista; la ripetizione di alcune parole o di alcune formule che giungono a costituire la cifra identificativa dell'opera; l'utilizzo ripetuto di diverse figure retoriche; l'impiego del miisiil e di alcune delle tecniche poetiche quali il chiasmo, il parallelismo e la paronomasia. Ma vi sono anche altre particolarità stilistiche 19 quali: l'uso dei proverbi comparativF 0 , degli aforismi, delle massime popolari, dei paragoni, delle contrapposizioni, delle contraddizioni, delle ammonizioni, delle metafore, della prosa ritmica e cadenzata che, in Qohelet, è molto più rilevante rispetto alle sezioni costruite in forma poetica. Tutto ciò che è riconducibile a una riflessione tipicamente qoheletiana sulla struttura ambigua o polivalente della realtà, nel libro viene anche espresso o sottolineato a livello letterario: accanto al procedimento dialettico che è, al tempo stesso, un atteggiamento mentale (che definiamo «inversione della prospettiva», presente in modo particolare nel capitolo sette e che integra il cosiddetto modello delle citazioni) si trovano le iperboli e i paradossi, l'uso del doppio senso, dei giochi di 18 Si tratta della «lch-Fornm («in prima persona))) o «lch-Erz!ilung» (la «narrazione-io»). Va notato che in Qohelet compare per ottantacinque volte, talora anche con una funzione enfatica, il pronome di prima persona singolare (in ebraico 'ani, «io»), tanto da far definire il libro come il più personale dell'intero Antico Testamento. 19 L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., p. 15-20, soprattutto le pp. 17-19. 20 Queste massime comparative (i «detti-/oh») a volte introducono e a volte concludono un'argomentazione: si tratta di un procedimento stilistico col quale Qohelet critica il patrimonio sapienziale tradizionale e innova, al tempo stesso, i parametri di giudizio.

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parola, dell 'ironia21 e del sarcasmo, della negazione 22 e della domanda23 • Questo polimorfismo letterario rende lo stile di Qohelet vario, non classificabile in un unico formato, flessibile e aperto a forme non convenzionali, non tradizionali, non uniformi, anzi contaminate dalla quotidianità e in perfetta sintonia con il suo pensiero anticonformista. La stessa valutazione va fatta per la lingua di Qohelet24, anch'essa originale, a tal punto che si è pensato al testo ebraico qoheletiano come a una traduzione di un ipotetico originale composto in aramaico. È senz'altro vero che in Qohelet ci siano degli aramaismF 5 e, parimenti, che le parole straniere, le espressioni popolari, le forzature sintattiche e le imperfezioni grammaticali contribuiscano a rendere l'ebraico di Qohelet diverso rispetto a quello classico e più raffinato26, ma non si può parlare del libro come di una traduzione. Piuttosto, siamo di fronte a una forma tardiva dell'ebraico biblico, vicina alla lingua della Mishnà e, dunque, con una forte influenza dell'aramaico. Del resto, dopo l'esilio babilonese, in Palestina l'aramaico era conosciuto e parlato; il suo uso, quindi, è da attribuire alla precisa volontà dell'autore di scrivere in forma popolare, per avvicinarsi di più alla parlata della gente comune e risultare più immediato e comprensibile. Come già sottolineato, anche questo impiego della lingua contribuisce alla creazione di uno stile marcatamente personale27 • 21 L'ironia serve a Qohelet per decostruire l'illusione della conoscenza e per ridimensionare la pretesa dell'uomo di dominare la sua condizione e tutta la realtà. In tal senso se ne può parlare come di «uno strumento epistemologico che serve a vagliare e dare fondamento alle sole realtà che abbiano un senso nella vita» (L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., p. 57). 22 Con la negazione l'autore reagisce dialetticamente alle posizioni altrui, sia che appartengano alla tradizione d'Israele o a quella profetica, sia che riguardino il ricordo presso i posteri, o la dottrina della retribuzione, o il senso e le potenzialità (limitate) de li 'agire umano. 23 La funzione della domanda è almeno duplice: coinvolgere il lettore e stimolare l'interlocutore alla riflessione sulla propria esperienza e su tutta la realtà. 24 Cfr. L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., pp. 20-27. 2; Cfr. la ricognizione che si trova in L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., p. 22. 26 Sulle particolarità ortografiche, grammaticali e morfologiche, sintattiche, Jessicali e semantiche, cfr. L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 63-66; e anche J. Vilchez Lindez, Qoèlet, cit., pp. 68-76. 27 Cfr. A. Schoors, The Preacher Sought to Find Pleasing Words. A Study ofthe Language ofQoheleth, Departement Orit!ntalistiek and Uitgeverij Peeters, Louvain 1992, pp. 221-222; nonché F. Bianchi, «The Language ofQohelet: A Bibliographical Survey», Zeitschriftjùr die alttestament/iche Wissenschaft l 05 ( 1993) 210-222.

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Ambiente culturale Altrettanto articolata è la questione delle fonti o, per meglio dire, del rapporto di Qohelet con il contesto culturale dell'epoca e degli influssi letterari che avrebbe subito28 • Diversi autori hanno notato legami e affinità tematiche tra Qohelet e la letteratura mesopotamica, egiziana, fenicia e, soprattutto, ellenistica. Ma alcuni tra gli studiosi si sono spinti a considerare i paralleli contenutistici e stilistici come delle dipendenze dirette di Qohelet da queste letterature. Si può osservare, in linea generale, che nelle opere letterarie extrabibliche ricorrano alcuni temi che sono delle costanti culturali e che, come tali, dato il loro carattere universale, attraversino tutti i popoli: si pensi alle domande sulla morte, o sul dolore, o sul destino dell'uomo, o sui limiti della conoscenza umana, o sul desiderio di giustizia, o sulla nostalgia di un equilibrio sociale, o sulla sfiducia verso gli uomini, o sulla preoccupazione per l'incomprensibilità dell'esistenza umana e della fugacità della vita. C'è da dire che, certamente, la produzione culturale del Vicino Oriente Antico ha avuto, in generale, un influsso sulla letteratura ebraica e, in particolare, su quella sapienziale biblica. Tuttavia, allo stato attuale della ricerca, non si può affermare che la conoscenza che Qohelet dimostra di avere del patrimonio letterario egiziano, mesopotamico e cananaico abbia influenzato o, addirittura, condizionato il suo pensiero. Lo stesso influsso delle correnti filosofiche greche e della stessa cultura ellenistica, che fu certamente determinante per Qohelet, va ridimensionato. Il contatto di Qohelet con quel processo di «globalizzazione culturale» ante litteram che sarà chiamato «ellenismo» non può essere inteso come una netta dipendenza. È innegabile che l'ellenizzazione tra il IV e il III secolo a.C. fosse inarrestabile29 • I segni di questa trasformazione erano percepibili a livello di mentalità diffusa e di modi di pensare, di parlare e di vivere: senza dubbio tutto ciò ha esercitato un influsso su Qohelet che fu un uomo colto, un intellettuale aperto e sensibile alle correnti culturali di un'epoca contaminata dall'atmosfera del primo ellenismo i cui 2" 29

Cfr. P. Sacchi, Qohelet, San Paolo, Cinisello Balsamo 1986, pp. 51-69. Cfr. M. Hengel, Ebrei, greci e barbari, Paideia, Brescia 1981, pp. 179-204.

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venti di novità iniziavano a giungere a Gerusalemme. Qohelet, da acuto e attento osservatore e da critico fruitore delle emergenze culturali coeve, avrà senz'altro conosciuto la nuova mentalità che filtrava negli ambienti giudaici più aperti (si pensi allo stoicismo e all'epicureismo), ma non per questo si può sostenere che ne sia stato succube. Dall'attenta considerazione dello scritto qoheletiano si ricava la convinzione che, a parte le affinità con alcuni temi e opere della letteratura del Vicino Oriente Antico e di quella greco-ellenistica, Qohelet vada collocato prevalentemente nell'ambito biblico e giudaico. A tale proposito è interessante la valorizzazione del rapporto critico, e perciò atipico, di Qohelet con questa tradizione: egli ha una visione di Dio come il creatore di Gen 1-3 (cfr. Qo 3,11; 3,20; 12,1.7), riprende e modifica passi del Deuteronomio (cfr. Qo 5,36 e Dt 23,22-24 e anche Qo 3,14 e Dt 4,2; Qo 7,7 e Dt 16,19), si rapporta in modo libero e autonomo con la tradizione sapienziale. Questa affermazione, tuttavia, non intende avallare l'idea di una sua radicale opposizione alla tradizione sapienziale biblica30 : anche quando Qohelet si presenta come un contestatore, non smette di essere pienamente inserito nella tradizione di padri, a volte in modo attivo, a volte in modo reazionario 31 • Qui si trova la singolarità di questo colto giudeo di Gerusalemme: «mentre critica la tradizione d'Israele alla luce delle suggestioni provenienti dal mondo greco, mostra di non volerne cogliere le soluzioni, nel momento stesso in cui ne accetta però le provocazioni. Egli rimane, nonostante tutto, ancorato a quella stessa sapienza della quale vuole mostrare i limiti e, nel far questo, riesce a farla crescere» 32 •

30 Su questo argomento cfr. G. Von Rad, La sapienza in Israele, Marietti, Casale Monferrato 1975, pp. 212-213. 31 Cfr. R.N. Whybray, «Conservatisme et radicalisme dans Qohélet», in E. JACOB (ed.), Sagesse e Religion. Col/oque de Strasbourg (octobre 1976), Presses Universitaires de France, Paris 1979, pp. 64-81; R.E. Murphy, «Qohelet's "Quarrel" with the Fathers», in D.Y. Hadidian (ed.), From Faith to Faith: Essays in Honor of Dona/d G. Mil/er on his Seventieth Birthday, Pickwick Press, Pittsburgh 1979, pp. 234-245. 32 L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., p. 91; cfr. pure L. Mazzinghi, «Qohelet tra giudaismo ed ellenismo. Un'indagine a partire da Qo 7, 15-18», in G. Bellia -A. Passaro, l/libro del Qohelet, cit., p. 116.

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Articolazione del libro Anche riguardo alla struttura del libro di Qohelet non vi è accordo fra gli studiosi: sono stati fatti vari tentativi di ricostruzione dell'intelaiatura del libro, ma nessuna proposta ha riscosso il consenso unanime degli esegetP 3• Le proposte degli autori si possono dividere, grosso modo, in tre gruppi. Alcuni esegeti- non riconoscendo una coerenza tematica, stilistica e metodologica nel libro di Qohelet- non individuano alcuna struttura unitaria: questi sostengono, in definitiva, che l'autore abbia messo insieme dei testi in modo casuale, senza una logica compositiva. A questa posizione viene mossa l'obiezione di non tenere in alcuna considerazione i segni di composizione, peraltro evidenti, quali la ripetizione di parole-chiave e di alcune espressioni idiomatiche, nonché l'uso di tecniche stilistiche peculiari e di forme retoriche proprie di Qohelet. Altri esegeti aderiscono a una posizione intermedia34 e, pur non riconoscendo nel libro una struttura globale, ammettono delle strutture parziali e dei legami intenzionali nel maggior numero delle pericopi. La critica che si muove a questa visione è per lo più simile alla precedente. Infine, altri autori, partendo da un criterio tematico, rintracciano nel testo delle sezioni bilanciate e corrispondenti che formano una struttura quasi perfetta. Un esempio di questo tipo si trova nel commento di Lohfink: egli individua nel libro di Qohelet una struttura palindromica al cui centro è posta la critica della religione di 4,17-5,6. 1,2-3 Cornice l ,4-11 Cosmologia (poesia) 1,12-3,15 Antropologia 3,16-4,16 Critica sociale l 4,17-5,6 Critica della religione (poesia) 33 Per una considerazione della complessità del problema e per una sintesi delle varie posizioni, cfr. L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., pp. 4-10. Si vedano anche: R.A. Schoors, «La structure littéraire de Qohéleth», Orienta/ Library Publications l3 (1982) 91-116; V. D'Alario, l/libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica, Dehoniane, Bologna 1992, pp. 19-58; 14 Cfr. J. Vilchez Lindez, Qoè/et, cit., p. 54.

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5,7-6,10 6,11-9,6 9,7-12,7 12,8

Critica sociale II Critica dell'ideologia Etica (in conclusione: poesia) Cornice 35 •

In questa ipotesi, il punto gravitazionale di tutto il libro è costituito, pertanto, dal timor di Dio. Per F. Rousseau, invece, il libro di Qohelet ha una struttura ciclica che si sviluppa in sette cicli complessivi, organizzati in base alla ricorrenza del ritornello sulla gioia36 • Un altro esempio di suddivisione ben ordinata di Qohelet è quello proposto da L. Schwienhorst-Schonberger, secondo il quale il libro consta di quattro parti organizzate secondo l'impostazione del discorso classico antico (propositio, exp/icatio, refutatio, applicatio )37 • 1,1

Titolo del libro l ,2 Versetto-cornice e motto l ,3-3,22 Esposizione (propositio ): Contenuto e condizione di una possibile felicità umana Dimostrazione (explicatio): Discussione di una con4,1-6,9 cezione prefilosofica della fortuna 6,10-8,17 Difesa (refutatio ): Discussione di definizioni alternative alla fortuna 9,1-12,7 Applicazione (applicatio): Esortazione alla gioia e ad agire fattivamente 12,8 Versetto-cornice e motto 12,9-14 Parole conclusive. 35 N. Lohfink, Qohe/et, Morcelliana, Brescia 1997, p. 19. V. D'Alario ha avanzato dei rilievi critici sulla strutturazione proposta da Lohfink in questi tennini: «Il motivo per cui non possiamo accogliere i risultati dell'analisi di N. Lohfink risiede nell'impossibilità di accettare la sua proposta di strutturazione dei capp. 6,10-12,8, che non corrispondono tout court a 1,2-ll e 1,12-3,15. Ad esempio in 8,16-17 Qohelet tratta dei limiti della sapienza umana e ciò in perfetta corrispondenza con 1,12-3, 15, dove è sviluppato il tema della fragilità della ricerca sapienziale. Il poema introduttivo (l ,4-ll ), preceduto dal ritornello della vanità, corrisponde invece molto bene a ll,7-l2,8. Pertanto non ci sembra fondata la simmetria che N. Lohfink stabilisce tra 1,2-ll (A) e 8,18-12,8 (A')» (V. D'Alarlo, «Struttura e teologia nel libro di Qohelet», in G. Bellia- A. Passaro, Il libro del Qohelet, cit., p. 259, nota Il). 36 Cfr. F. Rousseau, «Structure de Qohélet 1,4-ll et pian du livre», 1-étus Testamentum 31 (1981) 200-217. 37 L. Schwienhorst-Schlinberger, Kohe/et, cit., pp. 46-53.

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Di fronte a queste ipotesi di strutturazione ordinata del libro, molto diverse tra loro, la critica non ha esitato a parlare di arbitrarietà, non intenzionale ma pratica, nella soggettiva definizione dei titoli e degli argomenti posti alla base dei raggruppamenti strutturali proposti. Un discorso a parte deve essere fatto per l'interessante lavoro di Vittoria D' Alario che, combinando l 'analisi letteraria con quella retorica, ha evidenziato l'esistenza in Qohelet di un piano organico diviso in due parti: la prima racchiusa tra 1,3--6,9, la seconda tra 7,1-11 ,6. Queste si raccordano con il testo di 6, l 0-12 che, costituendo il centro tematico e non solo formale del libro, mette in risalto il rapporto, pure da altri evidenziato, tra struttura e messaggio teologico di Qohelet. Secondo D'Alario ali 'interno del libro di Qohelet vi sono degli elementi stilistici e retorici che orientano nella ricerca della struttura, indizi costituiti sia dalla ripetizione di alcuni termini e frasi che sottolineano alcuni temi caratteristici, sia dagli interrogativi, dai ritornelli e dalle espressioni tipiche qoheletiane. Tutti questi elementi convergono verso un'unità a sé stante (6, l 0-12) che, posta al centro, funge da unità di transizione, sintetizzando i vari temi del libro e offrendone, al tempo stesso, la chiave interpretati va. Di conseguenza, il libro può essere realmente diviso in due parti: la prima (l ,3--6,9)38 affronta il tema del significato della fatica umana ragionando sull'interrogativo posto in 1,3: «Che guadagno ha l'uomo da tutta la sua fatica con cui si affanna sotto il sole?»; la seconda (7, 1-11 ,6)39 riflette sui limiti della sapienza umana rispondendo all'interrogativo posto 38 V. D'Alarlo fa notare degli indizi letterari che orientano la divisione: nei primi sei capitoli la radice 'm/ («faticare», «affannarsi>>) ricorre trenta volte sulle trentacinque complessive. Anche il termine hebel ricorre ventidue volte da l, 14 a 6, 12, di cui otto volte solamente nel c. 2. In aggiunta, la formula stereotipa che mette insieme i due elementi hebel e «inseguire il vento» si trova in 1,12 e 6,9 chiudendo la prima parte (V. D'Alarlo, «Struttura e teologia nel libro di Qohelet», in G. Bellia - A. Passaro, l/libro del Qohelet, ci t., pp. 260-261 ). 39 A partire dal c. 7 cambia la topica del libro. Si rifletterà, infatti, sull'impossibilità dell'uomo di sapere ciò che è per il suo bene. In tal senso è indicativa la prevalenza dell'interrogativo «Chi può sapere ... ?» che era già stato posto in 2,19 e in 3,21, ma che ricorrerà con insistenza a partire da 6, 12, in 8,4. 7; 9, 1.5; lO, 14; 11.5-6 per sviluppare il tema dei limiti della sapienza introdotto in 7,13-14.23-24 (cfr. V. D'Alarlo, «Struttura e teologia nel libro di Qohelet», in G. Bellia- A. Passaro, l/libro del Qohelet, cit., p. 261 ).

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in 6,12: «Chi sa che cosa sia meglio per l 'uomo nella vita, nei giorni contati della sua fugace esistenza, che egli trascorre come un'ombra? Di fatto, chi dirà all'uomo ciò che avverrà dopo di lui sotto il sole?». Evitando di indicare la suddivisione dettagliata dei vari brani, di seguito è riportato solo lo schema generale dellibro 40 al quale ci si è attenuti nel presente commento: l'l : l ,2: 1,3--6,9: 6,10-12: 7,1-11,6: 11,7-12,7: 12,8: 12,9-11+12-14:

Titolo Motto iniziale Prima parte Unità di transizione (gli interrogativi fondamentali) Seconda parte Cantico finale Motto conclusivo Doppio epilogo41 •

LINEE TEOLOGICHE FONDAMENTALI

Questioni preliminari È necessario evidenziare, in via preliminare, che quello che segue è solo un tentativo di presentazione sintetica della visione teologica di Qohelet. Appena qualche anno fa L. Mazzinghi, in una conferenza inserita nel programma celebrativo per il centenario del Pontificio Istituto Biblico in Roma, segnalava l'incapacità «di far sintesi fra i tre grandi temi che percorrono tutto il libro» 42 • In un '" V. D'Alarlo, Il libro del Qohelet, ci t., p. 181 (schema riassuntivo). 41 A proposito dell'epilogo- come ulteriore prova di una discussione ancora aperta- V. D'Alarlo, in un suo successivo lavoro, manifesta un ripensamento, da noi non condiviso, ritenendo che la conclusione faccia parte integrante del libro: «Che il motto di vanità (1,2; 12,8) costituisca la cornice del libro è una convinzione comune degli esegeti, che abbiamo condiviso nel nostro lavoro sulla struttura di Qohelet (cfr. Il libro del Qohelet, p. 181 ). Le conclusioni in questo contributo sono differenti: l'epilogo, lungi dall'essere un'appendice del libro a esso giustapposta, rompe la cornice impedendo l'inquadramento interno al tema della vanità e riaprendo tutto il discorso grazie alla ripresa del tema del timor di Dio» (\/. D'Alarlo, «Struttura e teologia nel libro di Qohelet», in G. Bellia -A. Passaro, l/libro del Qohelet, cit, p. 260, nota 15). 42 L. Mazzinghi, La letteratura sapienziale: status quaestionis, in www.biblico.it/centenarlo/conferenze/mazzinghi.pdf, p. 8.

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certo senso, più che di incapacità, converrebbe parlare di impossibilità: nel libro ci sono degli argomenti molto complessi che sono ricorrenti e interconnessi, che è possibile apprezzare solo nella considerazione del contesto letterario all'interno del quale sono inseriti 43 • È proprio vero: più si riassume il messaggio di Qohelet e più si corre il rischio di fargli torto, perché si impoverisce la varietà delle sue osservazioni nel tentativo di racchiudere tutto in un'artificiale «sistematicità» di pensiero. D'altra parte, la sola analisi dei singoli termini o delle espressioni ricorrenti rischia di presentare in modo eccessivamente frammentario il messaggio dell'autore senza far cogliere la linea unitaria del suo pensiero. In aggiunta, ci sono almeno due questioni centrali che emergono quando si prova a offrire una sintesi del complesso messaggio di Qohelet. La prima, che è fuorviante, riguarda direttamente la «caratterizzazione» del personaggio Qohelet: sulla base di letture settoriali e, a volte, su preconcette sensazioni personali è stata fatta un'operazione di riduzione di un uomo, di per sé poliedrico e difficilmente catalogabile, in una definizione schematica. In pratica, Qohelet è stato bollato, di volta in volta, come un nichilista, un pessimista, un ateo, uno scettico, un agnostico, un epicureo, un edonista, un cinico, un fatalista, un sapiente disincantato, un maestro del sospetto, un impotente testimone della crisi dei valori tradizionali e così via. Il risvolto pratico di questa etichettatura è che, sovente, da essa è stata fatta dipendere anche l'interpretazione complessiva del libro. La seconda questione, poi, è più radicale e può essere formulata come segue: è più appropriato parlare di «ideologia/filosofia» o parlare di «teologia» in Qohelet? Storicamente, nell'interpretazione del libro si è registrato più volte uno sbilanciamento sul versante 41 È questo il suggerimento che dà, p. es., C.L. Seow, Ecc/esiastes. A New Translation with lntroduction and Commentary, Doubleday, New York 1997, p. 47: per non cedere alla

tentazione di sistematizzare il materiale del libro intorno a un tema centrale presentandolo come il punto nodale dell'autore, è preferibile considerare preliminarmente il contenuto di Qohelet cosi come viene proposto, dando priorità all'ordine interno all'opera, per poi riconsiderare il suo messaggio in modo sistematico. Di conseguenza, egli presenta la logica interna dei vari brani o delle sezioni del libro nella loro successione (alle pp. 47-54) e poi espone l'antropologia teologica qoheletiana (pp. 54-60).

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filosofico; solo di recente, invece, è stata accentuata la valenza teologica dell'opera44 • Giova richiamare quei punti basilari del libro individuati dai sostenitori della prima posizione e legati, nella loro visione, ai limiti e ai fallimenti con cui gli uomini convivono: la debolezza e la fugacità delle conquiste umane; l'incertezza del destino; l'impossibilità per l'uomo di raggiungere la vera conoscenza del mondo; la gratificazione, offerta sotto una forma di gioia (che in realtà è un dono di Dio), cui in qualche modo portano gli sforzi umam. A loro volta, i sostenitori della dimensione teologica presente in Qohelet valorizzano la relazione esistente tra articolazione del libro e messaggio teologico. È già stato evidenziato che nella strutturazione bipartita del libro proposta da V. D'Alari o, e da noi sostanzialmente condivisa, si trova un'unità che costituisce lo snodo dello scritto, individuata in 6, l 0-12. Verso questo nucleo centrale convergono gli elementi letterari e contenutistici della prima parte (1,3-6,9) che riflette sul senso dell'agire umano muovendo dalla domanda introdotta in l ,3 circa il guadagno che all'uomo viene «da tutta la sua fatica con cui si affanna sotto il sole». Successivamente, a partire dali 'interrogativo presente in 6, 12, si avvia la seconda parte (7, 1-11 ,6) che riflette sul tema della limitata conoscenza dell'uomo, delle sue aspirazioni, dei sui suoi dubbi, delle sue possibilità e delle sue pretese di conoscere l'intera realtà. È intorno a questi due interrogativi fondamentali che ruota tutta la problematica del libro che, sotto il versante teologico, può essere espressa nei tre temi che costituiscono la 44

L'attenzione alla dimensione teologica di Qohelet sta «riconoscendo sempre più come

il libro- pur a suo modo, evidentemente- parla di Dio ed è dunque una vera teo-logia» (L. Mazzinghi, La letteratura sapienziale: status quaestionis, cit., p. 8). Lo stesso Mazzinghi chiarisce, poi, che l'espressione «pur a suo modo» riferita a Qohelet deve essere intesa nella linea della singolarità dell'idea della fede di questo credente, vissuta come un cammino di ricerca nella consapevolezza del proprio limite e non come un insieme di certezze acquisite una volta per tutte. Da questo particolare angolo prospetti co, p. es., Qohelet muove la sua critica al giudaismo del suo tempo pur restando nell'ambito della fede d'Israele, ma «contro la tentazione di considerare la Legge uno strumento sufficiente di salvezza e quella di ritenere il culto e il tempio come l'unico mezzo possibile per entrare in rapporto con Dio» (L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 362-363).

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chiave per comprendere l'opera qoheletiana e il suo messaggio: il tema dell' hebel («soffio»), il tema della gioia e quello del timore di Dio 45 •

Tutto, sotto il sole, è un soffio Il termine hebel ricorre nel libro di Qohelet trentotto volte sulla settantina di occorrenze nell'Antico Testamento. Il significato originario del lemma è «soffiO>>, «fumm>, «nebbiro>, «vapore>>, «respirO>>, «alitO>>. Tuttavia, in Qohelet il vocabolo hebel subisce una evoluzione semantica: passa dall'iniziale significato concreto a un senso astratto, metaforico ed evocativo, indicando qualcosa di effimero o di inafferrabile. Da qui provengono le parole «vanità>>, «vacuità>>, «nulla/nullità», «inutilità», «vuoto». In aggiunta, il termine è stato anche tradotto con «assurdità», «enigma», «fragilità», «illusione» e «ironia». Lo sfondo di riferimento di Qohelet per l'uso consistente che egli fa del sostantivo hebel sembra essere quello di alcuni passi biblici nei quali il «soffio» viene applicato alla fugacità della vita (Sal 39,6. 7.12; 62, l O; 78,33; 144,4; Gb 7, 16), alt 'evanescente bellezza della donna (Pr 31 ,30), alt 'inconsistenza dei pensieri e dei progetti umani (Sal 94, Il). Ma, in effetti, come va intesa questa «cifra simbolica» qoheletiana che contraddistingue il libro e la sua interpretazione46? Si tratta, forse, di una valutazione rassegnata di Qohelet circa l'esistenza umana, anche riguardo al percorso di ricerca che si deve compiere alla scoperta del suo senso, oppure indica l'approdo pessimista di un uomo insoddisfatto che, dopo le 45 Per questa parte seguiamo l'approfondita analisi, completa di ricognizioni semantiche e interpretative unitamente a puntuali rilievi critici di L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 359-432. 46 Vi è da notare che l 'interpretazione di hebel può condizionare tutta la lettura del libro. In questa direzione va compreso il rilievo mosso alla traduzione, divenuta ormai classica, vanitas vanitatum ereditata dalla Vulgata: appare evidente che «vanità delle vanità» rimandasse inizialmente all'idea di evanescenza. Successivamente, soprattutto nell'esegesi cristiana di Qohelet, all'espressione è stata data una connotazione esclusivamente morale, il contemptus mundi («disprezzo del mondo»), come se si trattasse della dichiarazione della vanità del tutto o di un invito al distacco dai beni mondani. Questa interpretazione potrebbe creare nel lettore un'attesa ingiustificata e fuorviante, poiché l'autore non voleva esprimere un giudizio di tipo filosofico sulla realtà da intendere come vuota o assurda nella sua essenza, ma desiderava rivolgere un invito a ricercare, non senza affanno e difficoltà, il senso dell'esistenza umana che, alla luce dell'esperienza, appare effimera.

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peripezie vissute o subite, percepisce la vita come sostanzialmente vuota? E se si trattasse di un punto di partenza provocatorio che, evocando una realtà fugace ed enigmatica, suonasse come un invito pressante alla riflessione? Nei testi del libro di Qohelet nei quali compare hebel e nelle frasi aggiuntive che illustrano lo stesso argomento, emerge con chiarezza che l'autore non intende affidare a questo termine il compito di descrivere la vita umana e tutto ciò che c'è «sotto il sole» come una realtà vuota, o insignificante, o assurda, o irrazionale, bensì come fugace e incomprensibile. La domanda, allora, potrebbe essere la seguente: può essere considerata vuota un'esistenza condotta fino al momento in cui le viene rivolta, dal suo diretto interessato, una domanda sul suo senso? Una vita giunta fino a questo punto potrà anche essere avvertita, nella sua provvisorietà, come un soffio, ma non potrà mai essere detta vuota, per il semplice motivo che, in qualche modo, essa è stata comunque vissuta, anche se nella sua incomprensibilità e nei suoi misteri. In questa linea può essere individuato l'effetto significativo prodotto da hebel col quale intenzionalmente si apre e si chiude il libro (l ,2 e 12,8). Si può dire che tutto il testo di Qohelet sia compreso all'interno di questo termine evocativo che fa da inclusione: il lettore, per entrare nel libro ed esplorare sia il testo sia la stessa esistenza umana, deve attraversare questo «sottilissimo velo di fumo», che avrà altri richiami nel corso dell'opera. I due versetti, posti all'inizio e alla fine, costituiscono come un passaggio obbligato, dentro un «velo leggero di nebbia» che rimanda al sommo grado dell'evanescenza e dell'inafferrabilità. L'uomo, allora, si trova in un banco di nebbia che lo avvolge, impedendogli di vedere oltre, di cui avverte la presenza, anche fastidiosa, ma che non può in alcun modo afferrare. Lo stesso lettore, poi, giunto al termine del percorso (fatto di ricerca, di esplorazione, di osservazione, di esperienza, di presa di coscienza delle potenzialità e dei limiti umani) e uscendone, ritrova la stessa nebbia, il medesimo vapore, l'identico fumo e lo stesso soffio dell'inizio: il risultato dell'immagine evocata dalla concretezza espressa da hebel è che l'attenta riflessione

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condotta sull'esperienza della realtà sfocia nella consapevolezza dell'indisponibilità della vita umana e della sua drammatica enigmaticità, nella quale è situata e dalla quale inesorabilmente parte e a cm arriva. Questo limite è umano. Il termine hebel, infatti, non è mai usato a proposito di Dio: è sempre messo in relazione all'uomo e a tutto ciò che compie «sotto il sole». L'uomo fa esperienza di una realtà, compresa la sua esistenza e ogni sua attività, che può essere descritta come un soffio, ossia transitoria, fugace, inconsistente e inafferrabile (cfr. l'espressione ricorrente, che forse porta le tracce di un velato desiderio o di un'aspirazione, messa spesso in parallelo con hebel: «inseguire il vento», o la variante «andare a caccia di vento»). Dali' esperienza della realtà, dalla ricerca praticata da Qohelet, si scopre che «sotto il sole», vale a dire, ali' interno del circoscritto palcoscenico della terra, tutto è hebel. In questo ambito, già angusto, il «soffio» più tremendo, di fronte al quale tutto crolla e ogni umana illusione finisce, è la morte (3, 16-22; 8,6-14; 9, 1-12). Rimane da notare un altro uso antropologico di hebel. Questo «motto» qoheletiano, infatti, non è messo in rapporto con Dio e nemmeno con la conoscenza umana: da ciò si coglie che il compito pesante dato da Dio all'uomo, quello di «cercare)), non è affatto insensato. Per quanto l 'uomo si affanni sperimenta che, in definitiva, non riesce a trattenere niente. Tuttavia, dalla spietata critica di Qohelet non deriva un'assoluta visione negativa del mondo, anzi: dato che sotto il sole non c'è alcun «guadagno» e che tutto è soffio, allora è opportuno che l'uomo goda della gioia che è un dono divino e che si disponga sostanzialmente a «temere Dio» che è l'unica possibilità per orientarsi in questa vita che, proprio all'uomo, appare così fugace e incomprensibile. Ogni gioia viene da Dio Il tema della gioia ritorna nel libro sette volte (2,24-26; 3,12-13; 3,22; 5,17-19; 8,15; 9,7-10; 11,7-10). La qoheletiana esortazione alla gioia, indicata di recente come il tema portante di tutto il libro

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di Qohelet?, è stata sovente fraintesa. Partendo da una lettura non contestualizzata, Qohelet è stato tacciato finanche di essere epicureo. Da un altro versante, i sette passi d'invito alla gioia sono stati interpretati come se si trattasse dell'inserimento di un anestetico fra i travagli esistenziali, o meglio, come se la gioia fosse un espediente pratico per resistere il più possibile fra le assurdità della vita. L'idea della gioia sarebbe, in tal senso, puramente surrogatoria e compensativa e, oltre che unilaterale, anche fuorviante. Al contrario, Qohelet intende demolire un'interpretazione superficiale della gioia proponendola, in quanto dono e risposta divina, come una condizione pervasiva di tutta la vita umana. Da ciò si comprende che il rapporto tra hebel e gioia è dialettico: la precarietà della vita relativizza senz'altro la gioia, ma a sua volta la gioia abbellisce la realtà nella quale tutto appare come incomprensibile ed effimero. L'analisi dei singoli testi fornisce, nel merito, alcune indicazioni di contenuto: la gioia, anche quella espressa con l'immagine prosaica del mangiare e bere, è, al tempo stesso, frutto del lavoro faticoso dell'uomo, ma anche dono di Dio il quale la concede liberamente senza seguire criteri di merito48 • La gioia è la «parte» che l'uomo può ricevere solo da Dio, non è «guadagno». La relazione tra gioia e fatica spossante è, per Qohelet, indice di concretezza. In tal senso la gioia, situata ali 'interno del lavoro, non distrae l 'uomo dalla sua gravosa occupazione né dalla stessa fatica del vivere. La gioia non può essere intesa come un godimento sporadico legato a fattori esterni all'uomo: nasce dalla coscienza della presenza di Dio e riguarda tutta la vita umana. La gioia è un habitus che deve permanere nell'uomo anche nei suoi giorni bui e non solo in quelli felici. 47 Cfr. L. Schwienhorst-ScOnberger, Kohelet, cit. Per il tema della gioia in Qohelet si veda, oltre al già citato L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 389-408; anche R.N. Whybray, «Qohelet, Preacher of Joy», Journal for the Study of the O Id Testament 32 (1982) 87-98; A. Bonora, Qohelet. La gioia e la fatica di vivere, Queriniana, Brescia 1987, pp. 95-108; J.Y.-S. Pahk, Il canto della gioia in Dio. L 'itinerario sapienziale espresso dali 'unità letteraria in Qohelet 8,/6-9,10 e il parallelo di Gilgames Me. iii, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1996; R. Lavatori- L. Sole, Qohelet. L 'uomo dal cuore libero, Dehoniane, Bologna 1997. •• La nozione di «dono» supera contemporaneamente sia la mentalità greca che interpretava la vita come una ricerca della gioia e questa come una conquista, sia la mentalità giudaica che comprendeva la gioia come una ricompensa per un comportamento eticamente corretto (cfr. L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 405-408).

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L'invito a godere dei beni, poi, non è volgarmente materiale, per il fatto che questi sono una sorta di completamento di un progetto di vita ben attuato, riuscito e assistito da Dio. In tal senso l'esortazione alla gioia manifesta una condotta essenzialmente religiosa: bisogna dunque cogliere la positività del presente, accogliendo il «tempo opportuno» che Dio concede. Dio è sempre all'opera ed è lui il datore di ogni cosa: la vita va presa come viene, senza pretendere di comprendere e di spiegare l'intera realtà, perché all'uomo non è dato conoscere il suo avvenire, né questa conoscenza può avere importanza se l'uomo si impegna a vivere le occasioni propizie che Dio gli dona, sebbene nella prospettiva che tutto è hebel. La gioia di cui parla Qohelet può essere intesa in modo pieno solo se viene messa in relazione con Dio che la concede. Significativo è 11,9-1 O in cui la gioia è presentata come un compito affidato da Dio all'uomo, tanto che, secondo un'interpretazione possibile, ci potrebbe essere un giudizio sull'incapacità di aver goduto pienamente la vita. In quanto dono divino, dunque, la gioia deve essere vissuta nell'ottica del «temere DiO>). Ci sarà felicità per coloro che temono Dio In quattro passi del suo libro Qohelet parla del «temere Dim): 3,13-14; 5,6; 7,15-18; 8,12-13. C'è anche una ricorrenza nel secondo epilogo, in 12,13. Il primo aspetto da evidenziare è quello relativo alla visione qoheletiana di Dio49 • Nel libro non ricorre mai il tetragramma divino YHwH, ma per quaranta volte Dio è detto con il termine 'elohim e in 12,1 viene presentato come il Creatore. Dio è soggetto dei verbi «dare)) e «fare)): egli agisce, opera e concede all'uomo «il soffio vitale)); gli dà l'impiego gravoso ma indispensabile, quello di «cercare)), e gli dona anche la gioia. Tuttavia il Dio di Qohelet, che sa farsi vicino all'uomo 49 Cfr. F. Festorazzi, «Il timore di Dio in Qohelet. Un sapiente d'Israele alla ricerca di DiO>), in G. Danieli (ed.), Dio nella Bibbia e nelle culture ad essa contemporanee, ElleDiCi, Leumann (TO) 1980, pp. 37-61; lo., «) è un atto gratuito, non legato ali' osservanza di precetti o a una prassi cultuale interessata (8, 12-13). «Temere DiO>) è anche un consiglio «sapienziale)) che viene rivolto all'uomo affinché non si consideri protagonista in modo autonomo e autoreferenziale. Dio ha dato all'uomo il gravoso compito di cercare, ma al tempo stesso lo ha ammonito a non sopravvalutarsi; anzi, lo ha invitato a riconoscere il proprio limite senza superare quelle potenzialità che gli sono state concesse da Lui. Nel breve saggio di antropologia biblico-teologica presente in 3, l 0-15, Qohelet esprime in modo realistico la sua visione della creatura in relazione a Dio: questi ha posto la grandezza dell'uomo all'interno della sua limitata conoscenza. Il limite di ogni sapienza, infatti, è il mistero stesso di Dio. Perciò Qohelet indica che l'unico atteggiamento religioso che l'uomo può avere si compendia nel «temere DiO>). Per coloro che temono Dio ci sarà felicità (8, 12).

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AUTORE, DESTINATARI E DATAZIONE

Autore e destinatari La questione dell'autore del libro di Qohelet deve essere affrontata su due versanti: quello della composizione letteraria del libro, con la conseguente discussione sull'unicità o sulla molteplicità degli autori, e quella dell'identità del personaggio che in l, 1 viene chiamato «Qohelet, figlio di David, re a Gerusalemme». A tale proposito si è già accennato ali' errata identificazione dell'autore con Salomone che fu sostenuta, dali' antichità fino a tempi recenti, sulla base del procedimento pseudepigrafico. In realtà, dal libro non si ricavano dati certi sulla vita di Qohelet: il tentativo di ricostruzione del profilo biografico dell'autore a partire dalla lettura dell'opera appare difficoltoso; tuttavia, è possibile desumere alcune informazioni sulla sua personalità, sulla sua cultura e sulla sua visione del mondo. Un primo aspetto del problema è quello relativo all'unità di autore 50 • Su questo argomento ci sono stati degli studiosi che, vivisezionando l'opera, sono arrivati a riconoscere nel suo interno fino a nove stratificazioni riconducibili a nove diverse mani (teoria plurifontista); altri, invece, vi hanno individuato quattro strati attribuiti ad altrettanti autori: Qohelet, l'epiloghista, il pio e il sapiente. Questa frammentazione del testo è stata condivisa da diversi studiosi tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo poiché offriva una spiegazione delle contraddizioni, delle intemperanze, delle antilogie letterarie e delle antinomie formali e contenutistiche presenti in Qohelet, introducendo l'ipotesi di interventi plurimi nella composizione dell'opera. Queste teorie, tuttavia, sono già state per lo più superate. Oggi, sulla base dell'uniformità di stile e di terminologia, si è sostanzialmente d'accordo nel ritenere l'unità del libro composto da un solo autore, a eccezione della cornice redazionale (l, 1-2; e 12,8) e dei due epiloghi (12, 9-11 e 12,12-14); nondimeno, all'interno si riconoscono vari interventi correttivi di alcuni passi ritenuti problematici e non in linea con i dati tradizionali. 50

Le diverse posizioni sono esposte in L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., pp. 29-32.

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Dopo la discussione sull'unicità dell'autore, giungiamo al secondo versante del problema. Chi era Qohelet? Se si vuole prestare attenzione all'informazione del primo epiloghista, forse un discepolo dell'autore o un suo conoscente, Qohelet era un «saggio» che svolse la sua attività in riferimento al popolo (12,9). Questa indicazione risponde a un'immagine utilizzata da Sir 37,22-23, che presenta il lavoro del sapiente non come autoreferenziale, ma di utilità o interesse pubblici5 1• Tuttavia, questa notazione ha suscitato interpretazioni divergenti sulla figura e sul ruolo di Qohelet, come pure sui destinatari della sua opera. Dato che già il nome è problematico, c'è stato chi ha legato la funzione del «riunire», sottointesa dal termine «Qohelet» (dal verbo qiihal, «riunire»), con l'opera di chi avrebbe messo insieme proverbi, detti, sentenze, oppure opinioni contrastanti, comportandosi, di fatto, come un riconosciuto «maestrm> di scuola: questo sarebbe indicato, fra l'altro, in 7,27 dove si legge: «Vedi, ho scoperto questo, dice Qohelet, vagliando a una a una le cose per trovarne il senso». Tale interpretazione, tuttavia, non rende ragione degli elementi letterari, linguistici e contenutistici tra di loro correlati che, come già visto, strutturano l'opera dentro un piano unitario ordinato. C'è stato, poi, chi ha inteso legare il ruolo di Qohelet con l'attività del responsabile di una comunità, forse di tipo religioso (intendendo l'ebraico qiihal nel senso di «riunire in assemblea»): da questa interpretazione sono derivati i termini ekklesiastis (della traduzione greca), concionator (della traduzione latina di Giro lamo) e Der Prediger (della traduzione tedesca di Lutero). Leggendo il testo, però, questo riferimento implicito a una «ekklesia-assemblea» di tipo religioso non si può fare con certezza, perché non ha fondamento. Anzi, sembra che l'uditorio di Qohelet sia stato piuttosto «laico», proprio secondo l'accezione moderna del termine, interessato al modo «alternativo» di presentare la fede, colta in un rapporto critico con le schematizzazioni troppo rigide della tradizione «ufficiale» d'Israele, sia in ambito legale, sia profetico, sia propriamente sapienziale. Questa qiihal sarebbe stata composta da un gruppo ristretto di persone selezionate, forse di 51 Per una sintesi delle varie interpretazioni e ipotesi, cfr. J. Vilchez Lindez, Qoèlet, cit., pp. 438-439.

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classi elevate o agiate, interessate al dibattito su alcuni temi classici messi in discussione da un intellettuale, ormai anziano che, a partire dalla personale concezione della fede, frutto di una profonda ricerca sul senso dell'esistenza e sulle pretese e i limiti della conoscenza, si confrontava con le novità culturali, filosofiche e religiose provenienti dal mondo ellenistico e anche con le visioni innovative di tipo apocalittico, di matrice propriamente biblica, che si affacciavano nell'ambiente gerosolimitano della seconda metà del III secolo a.C. Le altre ipotesi, che parlano di Qohelet come di un professore alla maniera dei filosofi peri patetici greci o di un insegnante di scuola remunerato, sono congetture allo stato attuale difficilmente verificabili. Sommariamente, dalla lettura dell'opera, dali 'analisi del suo stile complessivo e del modo dialettico con cui affronta gli argomenti, si può ragionevolmente ipotizzare che Qohelet sia stato una persona in vista, forse un aristocratico, di grande carisma e con un forte ascendente nell'ambiente sociale, storico, politico, culturale e religioso del suo tempo, all'interno del quale le sue parole sono state dette e successivamente tramandate. Si può parlare di un libero pensatore che si rapportò alla realtà e all'esistenza con una metodica capacità critica (secondo 12,9 fatta di ascolto, di esplorazione e di correzione) e che comunicò con schiettezza e onestamente ( 12, l O) la sua visione della vita, del mondo, del rapporto con Dio, della giustizia e della sapienza in opposizione alla stoltezza. A tal fine utilizzò contrapposizioni concettuali, confronti tematici, discorsi, lezioni e conferenze. Per tale motivo condividiamo l'idea di A. Baruq52 , senza con ciò voler cadere nella trappola delle facili etichettature cui si è fatto cenno, che l'atteggiamento di Qohelet di fronte alla vita e alla realtà sia stato non quello di un sognatore, ma quello di un acuto osservatore, insomma di un saggio alla ricerca, affannosa e complicata, del senso della vita umana. Qohelet non è un apologeta e la sua opera non è un'apologia. È un saggio che apporta un'innovazione al teologare del suo tempo: intercetta le tendenze e le istanze culturali emergenti in Israele, le discute e le analizza senza inibirsi e senza soccombere di fronte alle opzioni tradizionali del patrimonio storico-religioso. 5 ~ Cfr. A. Baruq, «Qohélet», in Dictionnaire de la Bible - Supplément IX, Paris 1979, col. 640.

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Si mostra provocatoriamente interessato a quella trasformazione in atto- che può essere definita, per alcuni suoi intrinseci aspetti, postgiudaica- assumendola con la volontà di smontare alcune certezze e di affermare, dal suo punto di vista di sapiente, il nodo della questione, ossia «temere Dio» e, conseguentemente, scoprire e vivere gli atteggiamenti esistenziali veri, senza dissimulazioni.

Datazione e luogo di composizione Quanto alla datazione, la maggioranza degli esegeti colloca il libro di Qohelet neli' epoca postesilica, quasi al centro dell'arco temporale che va dalla fine della dominazione persiana (ca. 332 a.C.) al regno di Antioco Epifane ( 175-164 a.C. )53 , grosso modo durante il regno di Antioco III il Grande (223-187 a.C.). N eli' opera qoheletiana ci sarebbero, infatti, dei riflessi della situazione dell'epoca tolemaica54 • Occorre notare, tuttavia, che anche l'identificazione del tempo di composizione del libro ha suscitato contrapposizioni fra gli studiosi. Alcuni, infatti, sono propensi ad anticipare la data ali' epoca della dominazione persiana, tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a.C. 5 5 ; altri, invece, la collocano all'inizio dell'epo53 Cfr. J. Vilchez Lindez, Qoèlet, cit., «Appendice I: La Palestina dei Tolomei e dei Seleucidi», pp. 483-492. 5• Ecco la sintesi del periodo in questione offerta da Bonora: «Qoèlet scrive il suo libro a Gerusalemme, quando la Palestina è sotto l'occupazione dei Tolomei (III sec. a.C.), ma gode di un periodo di pace e, almeno per le classi sociali alte, di benessere e prosperità economica. Anche il libro di Qoèlet non accenna alla guerra come causa di incertezza, precari età e assurdità dell'esistenza umana. In quel III secolo a.C., la Palestina era percorsa da un vento nuovo portato dal governo dei Tolomei di Egitto (301-223 a.C.). L'amministrazione tolemaica favori e sostenne l'aristocrazia locale palestinese, disposta ad adeguarsi agli usi e alla mentalità ellenistica ma anche incurante del divario crescente che si andava scavando tra gli strati sociali a causa di numerose forme di vessazioni e ingiustizie (cfr. Qo 5,7-10). Era una società assetata e quasi ossessionata dal guadagno, dalla ricchezza e dalla ricerca del potere [ ... ),in cui non mancavano i nouveaux riches, gli speculatori abili e spregiudicati, ma nemmeno le più spettacolari bancarotte finanziarie. [ ... ).Niente, nel libro di Qoèlet, lascia trasparire un qualche riflesso della persecuzione dei Giudei da parte di Antioco Epifane e della successiva rivolta maccabaica degli anni 160 a.C., né da esso si intravede la polarizzazione dei giudei inanti e pro ellenisti» (A. Bonora, li libro di Qoèlet, Città Nuova, Roma 1992, pp. 6-8). Si veda pure l'interessante studio sul quadro storicosociale del libro di G. Bellia, «Il libro del Qohelet e il suo contesto storico-antropologico», in G. BELLIA -A. Passaro, li libro del Qohelet, cit., pp. 171-216, in particolare le pp. 172-176 e 182-198: Bellia situa il libro nella diaspora siro-fenicia, piuttosto che a Gerusalemme, anticipando la datazione all'inizio del III secolo a.C. 55 Cfr. C.L. Seow, Ecclesiastes, cit., p. 38.

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ca greca (dal 333 al 300 a.C.) 56 ; altri ancora si sono spinti fino al periodo posto a cavallo tra III e II secolo a.C. 57• Va precisato che nell'opera qoheletiana non ci sono riferimenti, nemmeno allusivi, a fatti storici noti, utili alla determinazione della data di composizione del libro. Per tale motivo gli esegeti evocano quattro aspetti. Il primo, di ordine linguistico e letterario, mette in luce, come è già stato notato, sia dei contatti con il persiano 58 e il neoebraico (ossia, la lingua ebraica simile a quella postbiblica della Mishnà) sia la presenza di molteplici aramaismP 9 • Il secondo aspetto è costituito dal ritrovamento nella quarta grotta di Qumran di alcuni frammenti del libro 60 che, per la loro presunta datazione (all'incirca 150-100 a.C.), non consentono di andare cronologicamente oltre la seconda metà del II secolo a.C. Il terzo argomento, che confermerebbe la datazione dell'opera intorno al III secolo a.C., si concentra sulla polemica, presente in alcuni testi di Qohelet, nei confronti della corrente apocalittica (l Enok, Giubilei e Daniele)61 espressa nella tradizione enokica62 che, fin dalla fase più antica, aveva mostrato interesse verso il problema del male, verso una 56 Cfr. il già citato G. Bellia, «Il libro del Qohelet e il suo contesto storico-antropologico)), in G. Bellia- A. Passaro, Il libro del Qohe/et, cit., pp. 171-216. 57 Cfr. G.A. Barton, A Critica/ and Exegetica/ Commentary on the Book of Ecc/esiastes, T. & T. Clark, Edinburg 1908, p. 62. 58 Nel testo compaiono due termini persiani pardes («parco)), «giardino))), in 2,5 e pitgam («sentenza», «decreto)), «editto))), in 8, Il che, uniti agli aramaismi sparsi nello scritto, orientano la datazione del libro nel periodo post-esilico. 59 Cfr, una lista degli aramaismi in R.H. Pfeiffer, lntroduction to the 0/d Testament, Harper & Brothers, New York 19482 , p. 729. Cfr. pure L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., p. 22. 60 Cfr. il primo editore: J. Muilenburg, «A Qohelet Scroll from Qumran)), Bulletin ofthe American Schoo/s o/Orienta/ Research 135 (1954) 20-28. 61 Cfr. L. Rosso Ubigli, «Qohelet di fronte all'apocalittica>>, Henoch 5 ( 1983) 209-234; P. Sacchi, L 'apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990, pp. 220-258. 62 Con l'espressione «tradizione enokica)) (o «enokismo))) s'indicano le opere attribuite a Enok che hanno determinato la nascita di una corrente di pensiero parte della quale è confluita nell'apocalittica, mentre un'altra parte ha continuato ad avere vita autonoma (per la discussione tuttora aperta sulle possibili definizioni e sulle opere di questo filone, cfr. J.C. VanderKam, Enoch and the Growth of an Apocalyptic Tradition, Catholic Biblical Association of America, Washington 1984 ). Sulla base di recenti approfondimenti legati alla pubblicazione di alcuni frammenti aramaici scoperti a Qumran - contenenti parti del libro di Enok, frammenti del Libro del/ 'Astronomia (che è probabilmente della fine III sec. a.C.), sezioni del Libro dei Vigilanti (datato intorno alla seconda metà del Il sec. a.C.) -la tradizione enokica, che ebbe come centro Gerusalemme, viene fatta risalire alla fine del V sec. a.C., subito dopo le riforme di Esdra e Neemia. Questa tradizione enokica si troverebbe alle radici della più ampia tradizione apocalittica.

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visione deterministica della realtà, come anche verso l'assillante questione della conoscenza e della concezione del tempo e della storia. Questi punti di interesse, da una parte, illustrano lo scenario all'interno del quale opera Qohelet; dall'altra, mettono in evidenza alcuni aspetti dello scritto che si contrappongono alla tradizione enokica63 (cfr. 1,4-11; 3,11.22; 4,17-5,6; 6,12; 7,14; 8,7). Al di là della visione deterministica presente in tale tradizione, Qohelet tratta i temi del male e della morte come misteri insondabili e assurdi. Lo stesso problema gnoseologico, secondo il Nostro, pone l'uomo all'interno di una tensione che si esprime come una lotta tra la volontà di comprendere la realtà e la consapevolezza del limite di ogni umano sapere. Qohelet, a differenza dell'enokismo, non ammette il ricorso a visioni o rivelazioni (cfr. 5,6 e 6,9): l'unico strumento che l 'uomo ha a disposizione per poter ricercare e conoscere è la ragione forgiata dali' esperienza. Circa la concezione del tempo e della storia, Qohelet è interessato al presente: il passato non è migliore dell'oggi e il futuro è sconosciuto. Un ulteriore argomento si basa su un presunto rapporto 64 tra Qohelet e Siracide (Qo 3,12; 7,14; 9,10; 11,9 e Sir 14,11-19; Qo 2, 15-16 e Sir ebraico 41, 11-13 )65 • Se davvero Ben Sira, datato ca. 190-180 a.C., ha conosciuto e utilizzato Qohelet66 , allora non si può andare oltre il 150 a.C. La data più probabile, pertanto, s'individua tra il 250 e il 220 a.C. 63 Cfr. L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 70-75. In seguito, aggiunge: «Il Qohelet polemizza [ ... ]contro le speculazioni sull'aldilà tipiche dell'enokismo e dell'apocalittica e contro una visione escatologica intesa come una possibile spiegazione del problema del male e della morte, che restano invece, per il nostro saggio, i veri scogli insuperabili. Il Qohelet reagisce infine alla tentazione di proporre una sapienza che ritiene di poter comprendere tutto e spiegare il vero senso della realtà e persino del comportamento divino» (L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato, cit., pp. 362-363). "'Cfr. E. Podechard, L 'Ecclésiaste, Gabalda, Paris 1912, pp. 56-65. 65 Si vedano altri raffronti in L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., p. 46. ""Occorre dire, comunque, che alcuni autori hanno avanzato l'ipotesi- prontamente respinta- che Ben Sira sia stato composto prima di Qohelet (cfr. N. Peters, «Ekklesiastes und Ekklesiasticus», Biblische Zeitschrifi l [1903] 47-54, in particolare p. 48; Ch.F. Whitley, Kohelet. His Language and Thought, De Gruyter, Berli n - New York 1979, pp. 163-164 ), e che altri negano il rapporto tra Qohelet e Siracide (cfr. F.J. Backhaus, «Qohelet und Sirach», Biblische Notizen 69 (1993) 32-55; M. Gilbert, «Qohelet et Ben Sira», in A. ScHOORS [ed.], Qohelet in the context of Wisdom, Leuven University Press, Leuven 1998, 161-179). Per questi motivi, al criterio di datazione basato sul raffronto tra Qohelet e Siracide non viene data molta plausibilità.

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Quanto al luogo di composizione del libro vengono avanzate quattro ipotesi: in Babilonia, per supposte motivazioni fondate su una controversa ipotesi d'influenza linguistica; in Fenicia, per via della teoria che vorrebbe far provenire l'ebraico di Qohelet da un dialetto nord-palestinese affine al fenicio e, quindi, il libro stesso da quell'area posta oltre il confine settentrionale d'Israele; ad Alessandria d'Egitto, capitale dei Tolomei che ospitava un'attiva diaspora ebraica nella quale erano consentite, per il suo carattere cosmopolita, delle visioni alternative rispetto alle rigide idee tradizionali; infine, esclusi i precedenti luoghi, in Palestina e, all'interno di quest'area, con ogni probabilità a Gerusalemme, laddove si trovavano le principali scuole e circoli di saggi e nella quale Qohelet verosimilmente svolse la sua attività sapienziale67 •

TESTO E TRASMISSIONE DEL TESTO

Il testo ebraico è sostanzialmente ben conservato e corretto. Le varianti del qerè-ketìb dei Masoreti sono undici. Nella quarta Grotta di Qumran sono stati trovati due frammenti che vengono datati intorno alla metà del II secolo a.C. 68 • Riportano alcune parti di Qohelet: 4QEcclesiaste8 ( 4QQoha o 4Q l 09) contiene 5,13-17; 6,1.3-8.12; 7,1-10.19-20; e 4QEcclesiasteb (4QQohb o 4Q Il O) contiene l, l 0-16. Le varianti qumraniche non sono significative rispetto al Testo Masoretico. La versione greca di Qohelet presenta delle correzioni di tipo 67 La maggioranza degli autori ritiene che il luogo naturale della composizione di Qohelet sia Gerusalemme sostanzialmente per due motivi: alcuni riferimenti che si trovano nel libro relativi al tempio e al culto sacrifìcale (4, 17-5,6) e la nota critica sulla corruzione del governo (5,7) farebbero pensare a una conoscenza da parte dell'Autore dell'ambiente gerosolimitano (cfr. L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., p. 63); il pensiero di Qohelet si può comprendere all'interno dello scenario culturale del IU sec. a.C. allorquando la situazione di Gerusalemme poteva assecondare le aperture alle idee occidentali che vi giungevano e che stavano cominciando a influenzare, se non ancora il pensiero, certamente la mentalità comune (cfr. P. Sacchi, Qohe/et, cit., p. 18 e L. Schwienhorst-Sch~nberger, «Kohelet: Stand und Perspectiven der Forschung», in lo., Das Buch Kohelet. Studien zur Struktur. Geschichte, Rezeption und Theo/ogie, De Gruyter, Berli n - New York 1997, p. 28). 68 Cfr. E. Puech, «Qohelet a Qumran», in G. Bellia - A. Passaro, l/libro del Qohelet, cit., pp. 144-170.

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teologico-sapienziale, ma quasi mai la lezione della Settanta è da preferire a quella del Testo Masoretico. La Vulgata di Girolamo è il risultato di tre tentativi di traduzione o revisione della Vetus Latina. La versione segue abbastanza fedelmente l'ebraico, non mancando di prendersi parecchie «licenze», ma per alcuni casi di critica testuale risulta essere di grande interesse69 • Elenco dei manoscritti citati nel commento

4QEcclesiaste8 (4QQoh8 o 4Q109) pubblicato in E. ULRICH et. al. (a cura di), Qumran Cave 4. XI Psalms to Chronicles, Clarendon Press, Oxford 2000, pp. 221-227. Codice Sinaitico (l't), scoperto da C. von Tischendorfnel monastero di santa Caterina al Sinai, risale al IV secolo ed è conservato per la gran parte presso la British Library di Londra. Codice Vaticano (B), del IV secolo; è conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Cfr. L. Di Fonzo, Ecclesiaste, cit., pp. 97-102.

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Commenti

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n~;,p QOHELET

QOHELET 1,1

1,1 Parole di Qohelet - La formula n~ryp "1~"'1 è costruita sul modello dell'inizio di alcuni libri biblici che qui vengono allusivamente evocati (cfr. 2Sam 23,1; Ger l, l; Am 1,1; Ne 1,1) e richiama pure l'apertura di alcune sezioni o raccolte che si trovano all'interno di opere più ampie (cfr. Pr 30, l; 31, l); sicché, situando il libro dentro un solco noto e facilmente riconoscibile della Bibbia ebraica, lo predispone alla collocazione nel novero degli Scritti sacri e gli conferisce, fin dall'inizio, il carattere austero delle riflessioni sapienziali. Qohelet (n~ryp)- È un vocabolo che non si trova in alcun altro libro biblico; nel nostro testoèpresentein 1,1.2.12; 7,27; 12,8.9.10. Dal punto di vista morfologico potrebbe essere un participio presente femminile di una ipotetica forma qal del verbo ~:'lp che signi-

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fica «convocare», «adunare», «raccogliere», «radunarsi in assemblea» (da intendere non necessariamente come assemblea religiosa, ma come popolare). Nondimeno, stando allo sviluppo semantico del termine, Qohelet può essere considerato come un aggettivo sostantivato da ~:;ti? («assemblea», «riunione>>, «adunanza», «convocazione»); in tale forma, secondo i grammatici, designa nomi di ufficio o di dignità. Dunque, per analogia a n~.çb («scriba», «segretario», che troviamo in Esd 2,55; Ne 7,57), a C'";~;:t n~.~D («cacciatore di gazzelle», presente in Esd 2,57 e interpretato di solito nelle traduzioni come nome proprio «[figli di] Pochèret Azzebàim»; cfr. pure Ne 7,59) e a n~.~;'? («araldo», «messaggero» di Is 40,9), Qohelet può essere tradotto con «conferenziere», «colui che parla in pubblico». Nelle sette

CREDENZIALI (1,1) Il versetto iniziale del libro di Qohelet è composto da due parti attribuite ai due epiloghisti che avrebbero curato la redazione finale dell'opera (cfr. 12,9-11.12-14 ). Il primo, con ogni probabilità identificabile con un affezionato discepolo dell'autore, attraverso la formula «Parole di ... », che richiama idealmente l'inizio di altre raccolte bibliche, dà al testo l'aura tipica delle sentenze, delle massime, delle riflessioni, dei pensieri, dei ragionamenti sapienziali. All'interno del libro, infatti, verrà presentata la sapienza stessa, anche al di

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QOHELET 1,1

1

Parole di Qohelet, figlio di David, re a Gerusalemme.

1

ricorrenze si nota che è usato sempre in terza persona (tranne in 1,12 e 7,27 dove è in prima persona, quella dell'autore) e che due volte compare con l'articolo (in 7,27 se si corregge il testo, come propongono alcuni, e in 12,8). La sostanziale assenza dell'articolo fa capire, dunque, che da nome comune, indicante un ufficio o un ruolo, passò adesignare una persona precisa. Si può interpretare, quindi, come uno pseudonimo dietro cui si nasconde il nostro sapiente, oppure come un nome usato in modo antonomastico al posto di nome proprio. Figlio di David- L'espressione ,,T1~ rimanda a Salomone (cfr. pure 1,12), che è considerato il padre della sapienza di Israele sulla base della idealizzazione del personaggio che, a partire da IRe 3,4-28; 5,9-14 e 10,1-29, è stata operata nella Bibbia. Non si

tratta, a ben vedere, di un sia pur cauto paragone di Qohelet con Salomone, quanto piuttosto di un collegamento ideale con il saggio per eccellenza. Anche questa finzione, che conferisce chiaramente autorevolezza allo scritto, è funzionale allo scopo, sotteso al versetto iniziale di matrice redazionale, di far inserire a pieno titolo Qohelet nei libri biblici. Re a Gerusalemme (C~~W:;l '1~1?,)- Va notata l'aggiunta, presente nella Settanta (e in altre versioni antiche), dell' espressione pao~À~wç '/apaq). Év 'IEpouoaÀ~I-I modellata su ';!~';lt;l'-';!ll («su Israele») di l, 12 al fine di completare la fotmula più breve e, dunque, meno consueta di l, l, rendendola cosi più normale. La formulazione più concisa va preferita in quanto lezione più difficile.

là degli stereotipi riduttivi con cui talvolta la problematica sapienziale è stata identificata. Il secondo epiloghista, forse del periodo di Giuda Maccabeo, potrebbe essere uno scriba che intervenne nel libro per dimostrarne l'ortodossia. Egli, attraverso un espediente di pseudoepigrafia, identifica l'autore con Salomone, il re saggio e giusto, ritenuto il rappresentante eccelso della sapienza biblica, il prototipo del sapiente. Questa finzione letteraria, non nuova nella Bibbia, è volta ad accreditare Io scritto all'interno del patrimonio sapienziale d'Israele.

QOHELET 1,2

1,2 Sottilissimo velo di fumo- Dal punto di vista grammaticale, l'espressione C'~?::) ";l::) è un superlativo assoluto (ritornerà alla fine del libro in 12,8): una delle possibilità della lingua ebraica è quella di rendere il superlativo con la ripetizione al plurale (a volte preceduto dali 'articolo determinativo) del primo termine che compare al singolare in stato costrutto (p. es., c•;'ft? 1'?1.?. «re dei re» in Ez 26,7; c·J~~ •r ~ «signoredeisignori»,Dt 10,17;Sall36,3; c•,•$;:t ,.~.«cantico dei cantici»; c·~ ~. «santo dei santi» in Lv 2,3.1 Oe altre dieci volte nel libro; c;~ nn in Os 10,15: in questo caso, nel Testo Masoretico il secondo nome è al singolare con suffisso pronominale di seconda persona plurale maschile, quindi da tradurre: «malvagità della vostra malvagità»). Come accade in alcuni dei casi rappresentati, è difficile rendere in italiano il superlativo con un solo termine: «santo dei santi» può essere detto con «santissimo», ma è impossibile rendere «re dei re» o «cantico dei cantici» con una sola parola. Si impiegano quindi delle espressioni alternative per rendere l'idea del superlativo: per «cantico dei cantici>> si usa, p. es., «cantico sublime>> e per «malvagità di malvagitru> si usa «malvagità enorme>>. Anche nel caso di C'~?;::t ";l::) ci si trova nella stessa difficoltà. In più c'è un'aggravante: il termine, di per

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sé, indica il «soffim> (cfr. Pr 21,6; Is 57,13), l'aria leggera o l'alito (della respirazione) che subito svanisce; per estensione, designa anche il «vapore>>, il «fumm>, la «nebbiiD> (Aquila, Simmaco e Teodozione hanno tradotto il termine con Ò:t).L(ç che, p. es., in Platone significa appunto «vapore>>, «esalazione>>, o àtfU)ç, di identico significato, usato anche nella letteratura greca da Aristotele e Plutarco ), qualcosa che si percepisce, che si vede, nella quale ci si trova e dalla quale si è avvolti, ma che non può essere afferrata, né stretta, né contenuta perché «evanescente>>, «VacUID> e che impedisce di vedere oltre o in profondità. A questo «svanimento dell'effetto» rimanda la traduzione, oramai classica, della Vulgata, vanitas vanitatum (vanità delle vanità), che, a parere di molti commentatori, dovrebbe essere mantenuta inalterata. Sulla questione giova proporre le due seguenti annotazioni: la prima è che, nel corso del tempo, alla parola vanitas è stata data quasi esclusivamente una connotazione morale (il contemptus mundi, «disprezzo del mondo», un invito al distacco dai beni mondani) che non ha consentito più al termine ";l;::t (stato costrutto di "~). usato in Qohelet trentt,tto volte, tanto da fame una parola-chiave) di evocare quell' atmosfera che la formula iniziale del libro vuole ricostruire e nella quale il lettore viene subito

TITOLO (1,2)

Secondo alcuni commentatori, anche nel caso del v. 2 si tratterebbe di un'aggiunta posteriore con funzione prolettica e riassuntiva del tema di fondo del libro. L'uso dell'espressionehabe/ Mbiilim, che ricorre solo in 1,2 e in 12,8,e l'inciso 'iimarQohe/et, dimostrerebbero l'intervento di una mano redazionale. Secondo altri, invece, il v. 2 è, probabilmente, il titolo originale del libro, il suo vero inizio. Di fatto, questo versetto, secondo il parere di molti commentatori, ha il merito di creare un'atmosfera evanescente, indispensabile per la lettura del libro. Si tratta di una ricostruzione plastica. resa con un'illustrazione simbolica. della condizione umana. L'immagine del «fumo», o «nebbia», o «vapore>>, o «soffio»- attraverso la quale il lettore deve passare- è una situazione che descrive la concreta esistenza dell'uomo. Questo simbolo, non solo letterario, che attraverserà tutto il libro, rimanda a qualcosa di effimero, fugace, transitorio. Per spiegare questa immagine iniziale si è fatto ricorso a richiami musicali: è un basso continuo, con

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QOHELET 1,2

Sottilissimo velo di fumo, dice Qohelet, l sottilissimo velo di fumo, tutto è soffio.

2

introdotto, rendendolo, in tal modo, esploratore interessato del testo e dell'esistenza umana; la seconda è che la traduzione cristallizzata della fonnula rischia di occultare la posizione anticonfonnista di Qohelet che si deve percepire fin dalle prime battute dello scritto anche perché emerge in altri punti del testo. Cosicché, nel rispetto dell'intenzione originaria dello stesso Girolamo, si rende necessario recuperare quell'ambientazione «evanescente», proponendo per la sua traduzione o alcuni tennini della gamma dei significati di ':!?:;t e, quando ciò è possibile, indicarne anche il plurale, oppure utilizzare delle espressioni composte per esprimere il superlativo. A nostro parere, il motto qoheletiano c•':!?ìJ ':!:lìJ deve essere reso, nelle due occorrenze, con un'espressione che richiami simbolicamente un ingresso (1,2) e, alla fine del libro, anche un'uscita (12,8) attraverso una tenue cortina di nebbia o un sottilissimo velo di fumo o di vapore. Che questa fonnazione brumosa, poi, debba essere sottile e non densa, è lasciato intendere dalla reiterazione espressiva dello stesso tennine ";l>. Questa figura etimologica rende l'idea dell'«affan-

no» per , per un verso fa comprendere chiaramente l'interesse della sua ricerca, dali' altro si allinea con le questioni sul senso della vita che avevano trovato una formulazione più elaborata nella tradizione filosofica greca InteiTOgativi e ragionamenti di questo tipo sono presenti, per esempio, nel capitolo settimo dell'Etica Nicomachea di Aristotele. A tale riguardo va sottolineato che, se da un lato non è sostenibile una dipendenza diretta di Qohelet dali' opera aristotelica, dall'altro si percepisce il riverbero, nell'ambiente culturale ebraico, della produzione filosofica classica, in particolare delle scuole ellenistiche, quali lo stoicismo e l'epicureismo, che avevano contribuito a spostare l'attenzione dalle questioni metafisiche alla condizione esistenziale. Qohelet, in questo passo, indispensabile per capire la sua opinione, sta abbozzando una sorta di visione antropologica, che riprenderà in seguito, partendo dalla constatazione esperienziale dei limiti, non solo conoscitivi, dell'uomo e affida al v. 9 il compito di illustrare l'andamento logico del discorso. La questione di fondo. Nel v. 3 si affaccia una problematica propria di tutte le culture vicinorientali: quale utilità (yitron) l'uomo può ottenere (o spera di ottenere) da tutto lo sforzo operativo e lavorativo attraverso il quale si affatica sotto il sole. Accanto alla formulazione di questo problema, nel v. 3 emerge anche una constatazione penosa che, secondo alcuni commentari, renderebbe retorico lo stesso inteiTOgativo. Ma conviene seguire la presentazione dell'autore, perché altri elementi saranno introdotti e sviluppati nel prosieguo. Attraverso il termine «guadagno», mutuato dall'ambito

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QOHELET 1,4

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1,5 Sorge -Con la Settanta, con la Vulgata e con la versione siriaca leggiamo f'!1i come un participio presente, per analogia con ~~1~ e gli altri due participi del v. 6 (l~i:'l e :l~1o ), tralasciando il perfetto M"l! del Testo Masoretico.

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(~~1W) - Il significato di ~MW è «ansimare», «arrancare». Alcuni traducono con il verbo «affrettarsi», col significato di «uscire di fretta al mattino per andare a lavoro». In tal caso viene messa in risalto la ripetizione alienante e deprimente di un'esi-

Ansimante

commerciale, Qohelet, nella linea del suo costitutivo realismo, pone la domanda provocatoria sul senso della vita dell'uomo, chiamato con il tennine 'adiim che, secondo l'uso biblico, indica l'essere umano tratto da quella terra ('Mama) alla quale deve tornare (cfr. 3,20). È evidente che all'interno del contesto nebuloso ed evanescente indicato dall'ambientazione ricostruita nel v. 2,l'interrogativo sembra aver awto già una risposta, dal sapore della fragilità e della finitudine. Ma nel testo non si coglie una protesta nei confronti della pesantezza del lavoro, che peraltro non viene negata. Anzi, l'espressione che descrive il lavoro spossante e oppressivo (che richiama, nell'uso della figura etimologica, il ,il, usato tre volte in questo verso, è da noi reso di volta in volta con il significato italiano più rispondente all'azione descritta: «scorrere», «fluire», «dirigersi».

con la fragilità umana. Dunque, con un tono solenne e con immagini legate ai cicli degli uomini e della natura l'autore introduce una contrapposizione tra ciò che permane nella sua ripetitività (cfr. l'uso dei due verbi «andare» e «venire» che nel testo ebraico sono al participio per significare un'azione duratura) e ciò che passa. Le immagini dei vv. 4-7 coinvolgono il lettore in un grande movimento: tutte le forze della natura (generazioni di uomini, sole, vento, fiumi) sono in agitazione, ma paradossalmente tutto è immobile, inalterabile: non si registra cambiamento alcuno, né alcun progresso. Si parte dall'avvicendamento ripetitivo delle generazioni, con il quale si affaccia sommessamente, per la prima volta nel libro, il tema della morte (che sarà ripreso in 2, 16): questo ritmo incessante non è in grado di trasformare sostanzialmente la terra, la quale rimane stati ca, sempre uguale a se stessa. Si prosegue con il susseguirsi dei giorni segnati dall'abitudinario movimento del sole che va ansimante (oppure, «si affretta>> ad andare, secondo un'altra interpretazione del verbo sii 'af, per compiere il suo monotono lavoro) dal luogo del tramonto a quello del sorgere e poi ancora a quello della sua morte provvisoria o apparente («i sempitemi calli ... » direbbe Leopardi nella riflessione esistenziale, contenuta nel Canto notturno di un pastore errante de/l 'Asia, riferita alla luna come nel nostro testo al sole). Si richiama, inoltre, il vorticoso e ripetitivo giro del vento che, nonostante il suo impeto, non può oltrepassare il confine che gli è stato fissato. Questa immagine del vento, proprio per l'espressività del suo dinamismo, fa comprendere che tutto è in movimento e tutto è statico, inclusa l'inesausta sete del mare che inghiottisce perennemente i fiumi che continuano a fare tutti Io stesso inutile cammino, per

QOHELET l ,8

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1,8 Parole- È controversa l'interpretazione di ,~1,: il termine in ebraico ha diversi significati. Nel nostro caso si discute se debba essere reso con «cosa» o «parola». In realtà in Qohelet è più frequente il significato di «parola». Di fatto, il contesto immediato suggerisce proprio questa interpretazione (e cosi hanno inteso pure alcune antiche versioni): si sta parlando, infatti, de li 'uomo; in particolare, della bocca, degli occhi e degli orecchi, per cui

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si può intendere rispettivamente: «parole», «vista» e «udito». 1,9 Sotto il sole (W~~ij I"II}J:i)- È una locuzione che, nell'Al e in tale forma, si trova solo in Qohelet (ventinove volte). Di per sé, il nostro autore conosce anche l'altra espressione, più comune nella Bibbia, «sotto il cielo» (1,13; 2,3; 3,1 che, p. es., si trova in Gen 1,9; 6,17; 7,19; Es 17,14; Dt 7,24; 9,14; 2Re 14,27; Ger 10,11; Lam 3,66; Dn 9,12 ecc.), ma preferisce quella più ricercata

poi dileguarsi e perdersi. È notevole, infatti, come questo testo biblico abbia più di altri influenzato il pensiero umano anche in culture ed epoche assai lontane. Attraverso la lettura dei grandi fenomeni atmosferici, la visione antropologica appare di fatto ancorata alla cosmologia antica degli elementi originari (aria, acqua, terra e fuoco) anche se, a differenza della filosofia greca, Qohelet non si interroga sui principi generali, ma sulla realtà concreta. Di fronte a questo scenario grandioso e ripetitivo l'uomo sembra essere rinchiuso all'interno di un cerchio, vale a dire nel confine dell'ordine naturale, al di fuori del quale non potrà mai spingersi, pur desiderando di uscire. Adombrato in questa ciclica ripetitività si trova anche il problema della conoscenza: da una parte, infatti, nella ripetitività sembra esservi una logica ordinata e sensata, la cui finalità, tuttavia, sfugge alla comprensione dell'uomo; dall'altra parte, attraverso l'estenuante ritorno, viene elusa, se non proprio risolta, la questione della conoscenza dell'avvenire, giacché tutti i cicli che si susseguiranno altro non saranno se non il clone di quelli passati. Questo dinamismo ripetitivo produce un paradossale effetto ambivalente: mentre inquieta per la snervante ripetitività della quale l'uomo non riesce a comprendere il fine, al tempo stesso rassicura perché la conoscenza di un ciclo, che basta per prevedere l'andamento e l'esito di quelli successivi, esclude tutto ciò che è imprevedibile. L'autore potrà, dunque, dire che sotto il sole non c'è nulla di nuovo. Riflessione sulla storia umana ( 1,8-11 ). Le posizioni dei commentatori sulla presenza, in questo punto, del v. 8 sono molto varie. Si va dalla proposta di eliminarlo in parte o totalmente, fino a quella, da noi condivisa, di ritenerlo un versetto scomodo ma risalente all'autore. A nostro avviso il v. 8 fa da passaggio e da congiunzione tra i vv. 4-7 e i vv. 9-11: quanto è stato appena affermato nel

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QOHELET 1,9

Tutte le parole sono esauste: l non può parlare l 'uomo; non si sazia l'occhio di vedere, l non è pago l'orecchio di ascoltare. 9Ciò che è accaduto ancora accade, l ciò che è stato fatto ancora si fa; non c'è niente di nuovo sotto il sole. 8

e, in quanto esclusiva di Qohelet, certamente frutto della sua originalità. Neli 'uso si notano alcune associazioni: la formula «sotto il sole» ricorre in Qohelet otto volte unita al verbo "~.!.7 («faticare», «affannarsi»: 1,3; 2, 11.18.19.20.22; 5, 17; 9,9), altre nove volte collegata al verbo nttl.t7 («fare»: 1,9.14; 2, 11.17; 4, 1.3; 8,9.17; 9,3.6). L'espressione, che descrive il delimitato spazio vitale dell'uomo, si riferisce all'esistenza terrena concreta (cfr. anche Qo 5, l), all'attività urna-

na che si svolge nel nostro mondo. Secondo alcuni esegeti, in questa formula è possibile rintracciare l 'influsso di una cultura straniera (egiziana, greca o fenicia) ma, come accade costantemente, è difficile stabilirne la dipendenza letteraria, giacché un interesse di Qohelet per le tendenze, anche nuove, del pensiero del suo tempo è innegabile, anche se questo non significa che egli abbia attinto direttamente espressioni e/o contenuti da testi importati.

primo movimento letterario viene confermato nel secondo, ma con un cambio di prospettiva, quella dell'uomo situato nella storia. Da questo versante, Qohelet fa un 'amara constatazione e asserisce, ricorrendo all'immagine dell'insaziabilità dei sensi, che l'uomo fa continuamente l'esperienza dell'inappagabile brama della ricerca. Tutte le parole sono esauste, sature, inflazionate e non c'è alcuno in grado di trovarne la causa, indi carne il motivo; ecco perché si è sempre in atteggiamento di ricerca: l'occhio non si sazia di guardare e l'orecchio non è mai soddisfatto o pago di udire. Vista e udito dell'uomo, che secondo alcuni interpreti sono i sensi che simboleggiano la ricerca filosofica, sono sotto una continua pressione per tentare di capire e di spiegare l'inflazione del significato e il faticoso travaglio delle parole mai piene e adeguate. Così, lasciano intendere i vv. 9-11, la stessa storia è una ripetizione estenuante delle medesime cose e azioni. Anche ciò che a prima vista appare come una novità, a ben vedere, è già stata conosciuta nei secoli precedenti. Il v. 9 illustra il procedimento logico del discorso. Con il gioco dei verbi «essere» e «fare» viene riproposta l'immutabilità e la ripetitività degli avvenimenti, delle cose che accadono e di quelle che si compiono. Per cui il v. 9 può decretare che sul «de-limitato» palcoscenico della terra, cioè nell'area circoscritta e ben definita che si trova «sotto il sole», non è dato scorgere alcun intrinseco mutamento o novità. L'espressione usata da Qohelet nel v. 9, con molta probabilità, fa risuonare nella mente dei suoi ascoltatori il motivo della teoria dell'eterno ritorno, già noto nella filosofia greca. Tuttavia, al di là del richiamo critico alla cultura ellenistica, della quale l'autore, probabilmente, intendeva ridimensionarne le attese fin dal suo primo ingresso in Palestina, i contemporanei di Qohelet coglievano, molto

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QOHELET 1,10

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1,13 Ho dedicato tutto me stesso -Alla lettera: «e ho dato il mio cuore». Giova ricordare che il «cuore», nellin(•::~'(-~

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più facilmente, la critica al profetismo biblico che, con atteggiamenti diversi, aveva annunciato tempi di rinnovamento (cfr. Is 42,9; in particolare gli stretti legami lessematici con 43, 18-19; 65, 17; 66,22; Ger 31,22.31; Ez l, 19; 36,26): una novità radicale che, nell'esperienza contingente, non si scorge mai sotto il sole. Dato che tutto cade nella dimenticanza, come è già avvenuto e come continuerà ad avvenire, ogni spinta in avanti, presentata come possibile nell'escatologia profeti ca, per il nostro autore non ha ragione di esistere (cfr. anche Qo 9, 1-6). Nulla può essere detto «nuovo», niente suscita meraviglia o sbalordimento: tutto è già stato e, comunque, della totalità degli eventi e delle persone si perderà la memoria. Come già nel passato si è perso il ricordo, così accade nel presente e avverrà nel futuro. Il cerchio, dunque, sembra chiudersi comprendendo tutte le cose in un inesorabile oblio. Poiché non resta ricordo alcuno, la memoria ne viene ingannata, e tutto sembra nuovo, ma non lo è: la novità è un'illusione che nasce dalla dimenticanza delle cose antiche. In tal senso, la riflessione fin qui proposta si chiude anche a livello letterario: l'alternarsi delle generazioni del v. 4 viene ripreso al v. Il con il motivo della scomparsa del ricordo degli antichi, cosa che si ripeterà anche per coloro che in avvenire saranno: è un morire per tutti uguale e per sempre (cfr. 2, 16). Così finisce la prima pericope del libro che si contraddistingue per la forte valenza antropologica. Qohelet, selezionando e assaporando i termini, quasi a voler ridare vivacità a parole ormai stanche, induce a interrogarsi sul senso dell'esistenza, non tanto universale quanto personale: sul piano dell'esperienza cosmica e storica, rimane l'incontrovertibile consapevolezza che di ciascuno non resterà alcunché. 1,12-2,26 Un discorso da re In 1,12 inizia un discorso compatto e solenne che prosegue fino a 2,26. Secondo alcuni esegeti, questo sarebbe l'inizio vero e proprio di tutto il libro

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QOHELET 1,13

C'è qualcosa di cui si dica: l «Vedi questo! Questo è nuovo!))? Già è avvenuto lungo i secoli l che sono prima di noi. 11 Non c'è ricordo per gli avi l e per i posteri che saranno, neppure per loro ci sarà ricordo l presso coloro che verranno in seguito. 12 Io, Qohelet, sono stato re su Israele a Gerusalemme. 13 Ho dedicato tutto me stesso a cercare e a esaminare con sapienza 10

rative dell'uomo. Per tale motivo, quindi, più volte significa «la mente». L'espressione (resa da alcune recenti versioni «ho deciso», «mi so-

no proposto») deve conservare un sapore appassionato, per noi indicato da «tutto me stesSO», in quanto richiama le decisioni dell'uomo.

di Qohelet o, comunque, della sua parte primitiva. A conforto di tale ipotesi, viene richiamata l 'autopresentazione iniziale di alcune opere letterarie del Vicino Oriente Antico con la quale l'autore, in genere il sovrano o un personaggio illustre, presentava se stesso. Questa idea non ci convince. Infatti, se l'opera qoheletiana iniziasse realmente in l, 12, allora bisognerebbe spiegare la collocazione e il senso dei vv. 3-11 che, svolgendo la funzione di prologo, presentano questioni aperte e temi portanti che saranno ripresi e approfonditi nel corso dello scritto. Qohelet, dunque, a partire dal v. 12, procede sulla linea della propria identificazione con Salomone, il re giusto e saggio (cfr. IRe 3). Da questa posizione dominante, segnalata letterariamente dal pronome di prima persona enfaticamente collocato ali 'inizio del verso e che sarà ripetuto frequentemente nel prosieguo del discorso, parla del suo percorso umano, delle sue ricerche e indagini contrappuntando il suo dire con proverbi di uso corrente e riflessioni sapienziali. Il discorso ha un'articolazione interna distribuita in sei unità (Qo 1,12-15; 16-18; 2,1-11; 12-16; 17-23; 24-26), delle quali la terza è più elaborata. Privilegiato punto di osservazione e impiego gravoso (1,12-15). Il v. 12 dichiara il punto di vista di Qohelet: nella finzione è quello del re Salomone, un uomo ritenuto, nella considerazione comune, pienamente realizzato; una figura idealizzata nella Bibbia. Da questo privilegiato angolo prospettico propone un monologo che non può essere interpretato come una narrazione del passato di quel re; va inteso piuttosto come un invito a scrutare la condizione presente dell'uomo e la situazione attuale della storia. È come se Qohelet, impersonando Salomone, giudicasse l'esistenza «col senno del poi. .. », ossia a partire dalla propria esperienza. Per tutti questi elementi, per gli argomenti affrontati e le acute considerazioni, questo discorso ha una forte connotazione antropologica con chiare aperture alla teologia.

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QOHELET 1,14

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Impiego gravoso (li"") 1~~11) - Il sostantivo ricorre solo in Qohelet (cfr. 2,6; 5,2; 4,8; 5, 13) e ha una chiara connotazione negativa. Si tratta del mestiere ripetitivo e affannoso, del lavoro visto sotto l'aspetto del tormento e dell'ansia che esso produce. In 1,13 la ricerca personale dell'autore viene definita, dunque, come un tormento, un affanno, un inesorabile «impiego gravoso» (cfr. 4,8 «occupazione gravosa» e 5,13 «cattivo affare»). Dio (c•;:~-t,~)- È la prima volta che compare in Qohelet il nome «generico)) di Dio; mai si troverà l'antico nome divino YHWH. Alcuni interpreti propongono di tradurre C'~'='~ (soprattutto quando ha l'articolo determinativo) con «la divinità>>. In tal uni contesti questa traduzione potrebbe essere possibile, ma si 1~~.!7

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correrebbe il rischio di lasciare intendere che Qohelet si riferisca a un Dio diverso da quello della tradizione biblica: è vero che nel libro non ci sono riprese esplicite e richiami fondativi o dogmatici alla storia della salvezza, però il nostro autore certamente parla del Dio della creazione (cfr., p. es., 12, l e anche: 3,11.20; 12,7). Agli uomini (C1~:;t 'l~~)- Alla lettera: «ai figli dell'uomo». Perché in esso si tormentino (i::! nil~~): si tratta del verbo :'llll che, evocando il concetto già espresso poco prima col sostantivo 1;~.!7, rafforza l'idea dell'affaticamento assumendo il significato di «tormentarsi». 1,14 Inseguire il vento - L'espressione 1'!~, n~lll~ evoca una caccia al vento. Si

I vv. 13-15 illustrano l'occupazione che ha interessato il re e la sua constatazione sull'inconsistenza di tutto ciò che si fa «sotto il sole». Questa prima unità si chiude (come, del resto anche 1,16-18) con una massima popolare. Il v. 13 pone in premessa che l'attività principale del re saggio per antonomasia è stata quella di aver impegnato intelligenza, volontà e passione, il «cuore» di cui si parla nel testo ebraico, nell'investigare profondamente (cfr. il verbo daraS) ed esaminare largamente, ampiamente (cfr. verbo tur) tutto ciò che si fa sotto il cielo. Il mezzo di questa indagine, sottolinea il v. 13, è stato la sapienza (così fa capire l'uso del prefisso b• strumentale). Quest'attività di esplorazione di ogni aspetto della realtà interesserà anche i versi successivi, costituendo, di fatto, il movente della ricerca. Tra il v. 13a e il v. 14 c'è un'amara quanto realistica riflessione, detta per inciso, sull'«impiego gravoso» dato da Dio agli uomini. Il riferimento non è a tutto ciò che si fa sulla terra, come alcuni intendono, ma, riteniamo, alla ricerca sapienziale, che è il soggetto principale del verso, presentata come un vortice di

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QOHELET 1,14

tutto ciò che si fa sotto il cielo: questo è un impiego gravoso che Dio ha dato agli uomini perché in esso si tormentino. 14 Ho visto tutte le opere l che si fanno sotto il sole ed ecco: tutto è soffio e un inseguire il vento.

tratta di una formula che ricorre nel libro sette volte (1,14; 2,11.17.26; 4,4.6; 6,9); si trova per due volte anche la locuzione 1(1, ji'J?1 che è da intendere come un sinonimo («andare a caccia di vento»: 1,17; 4, 16). Si discute sul significato del verbo 'P, che, comunque, può essere interpreta· to come un «inseguimento» sulla base di Sir 34,1-2, in cui si dice che chi crede ai sogni è come colui che afferra le ombre e insegue il vento. Secondo alcuni esegeti questo verbo avrebbe un collegamento con l'aramaico in cui si trova un termine che significa «desiderio», «ricerca», «ambizione», «aspirazione», «anelito», «tensione». Comunque, l'efficacia dell'immagine dell'inseguire il vento, rafforzata in ebrai·

co da un'allitterazione, è inequivocabile. Fra l'altro, in linea con l'ambientazione iniziale di Qohelet, il significato della formula «inseguire il vento» conferma e rafforza la visione con la quale l'autore aveva descritto la vana fatica di chi tenta di stringere fra le mani la nebbia. Si tratta di uno sforzo inane, come un andare a cac· eia di vento, cimentandosi con sacrificio in una occupazione illusoria. Efficace è anche la traduzione «avventarsi sul vento» che cerca di rendere in italiano l'allitterazione presente nell'ebraico. Non del tutto condivisibile è invece la traduzione «pensiero (fatto) di vento» perché, a nostro parere, in questo caso sarebbe l'idea stessa a essere evanescente e vana.

tormento all'interno del quale l'uomo stesso è situato. A questa valutazione fa se· guito una constatazione: «tutto è soffio e un inseguire il vento». Questa espressione metaforica e la locuzione «impiego gravoso», che introducono immediatamente l'argomento del discorso del re, saranno riprese altre volte; in questo contesto servono a delimitare la pretesa autosufficienza umana, mettendo in discussione, sulla base dell'autorevole esperienza personale del re, quanto veniva tradizionalmente considerato fonte di felicità. Qohelet, dopo aver osservato ed esaminato tutte le azioni umane, giunge alla convinta considerazione che tutte le opere compiute sulla terra sono evanescenti, come il vapore prodotto da un soffio; fra l'altro, snervano l'uomo che, pur impegnandosi a colmare il desiderio di senso della vita, non riesce ne li 'impresa e si sfianca, proprio come capita a chi insegue il vento tentando di afferrarlo (cfr. l, 14). Questo motivo è già noto: anche nell'epopea di Gilgamesh si legge, infatti, che tutto ciò che gli uomini fanno, nei loro giorni contati, è solo vento. In definitiva, che cosa può fare l'uomo? Niente. Ecco perché l'autore rimarca l'impotenza degli uomini

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QOHELET 1,15

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1,15 Essere raddrizzato- Il verbo 1pr:t, del Testo Masoretico è un infinito qal intransitivo; siccome sarebbe l'unica occorrenza del verbo 1i'n al qal, si può vocalizzare come 1PI.:l" e intenderlo al nifal, cioè al passivo (forma richiesta dal contesto), senza congetturare 1~ come a volte si propone, seguendo piuttosto la Settanta ('t"OU È1TLKOOj.LT}9iìvaL, «essere raddrizzato»). · La Vulgata invece interpreta: perversi difficile corriguntur et stultorum in.finitus est numerus («l perversi difficilmente si raddrizzano [si cor-





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reggono] e degli stolti il numero è infinito»). 1,16 Ho riflettuto dentro di me ('l~ 'l'l!~, ':;!~~) - In questa espressione è pamcoiare l'uso della preposizione ClJ («con>>), associata a «cuore», «mente», al posto della consueta~ («in>>), particolarità che, a nostro avviso, rafforza il significato di «dialogo interiore», di «riflessione intima e personale»; la traduzione letterale è: «ho parlato proprio io con il mio cuore». Sono stato grande ('1'1~'1~:'1)- Nel testo ebraico si trova il verbo '~~'1~:'1 (perfetto

ricorrendo a un proverbio popolare (v. 15) che sentenzia sull'incapacità umana a modificare la realtà (cfr. anche 7, 13). C'è chi fa notare che nella fonna passiva del verbo 'iiwat (al pual in ebraico: «ciò che è storto») sia possibile leggere l'azione di Dio. In tal senso, il proverbio, che nella sua fonna iniziale e nell'uso popolare forse non prevedeva alcun riferimento religioso, acquisterebbe un valore pro letti co rispetto a quanto si affennerà alla fine del discorso regale sull'incapacità umana di intervenire attivamente nella storia. La connotazione antropologica ed esistenziale è tanto più forte se queste considerazioni vengono esposte non da un fallito, ma da un uomo notoriamente realizzato e trionfante, da chi aveva avuto occasioni e prerogative più ampie rispetto a quelle dei suoi contemporanei e le aveva pure usate bene. L'allusione agli sforzi inconcludenti spinge, in definitiva, la riflessione fino alla negazione di ogni autosufficienza antropocentrica o autoreferenzialità: l'uomo non può influire sulle leggi del cosmo, può solo subirle (cfr. 1,12-15.16-18). Bigenza umana di sapere e consapevolezza del dolore (l, 16-18). Questi versetti hanno la stessa articolazione dei vv. 12-15. Il tono di questa unità è quello della riflessione intima e personale, tipica dei maestri di sapienza e presente anche nelle letterature antico-orientali. Qohelet vuole inserire l'ascoltatore/lettore nel suo travagliato dialogo interiore, ma pretende attenzione e la richiama espressamente con l'avverbio dimostrativo «Ecco». Quindi interviene Salomone, il re-sapiente, sottolineando la sua grandezza e le sue possibilità di approfondimento della conoscenza, di gran lunga superiori rispetto

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QOHELET 1,18

«Ciò che è storto non può essere raddrizzato l e ciò che manca non può essere contato». 16 Ho riflettuto dentro di me, dicendo: «Ecco, io sono stato grande e ho approfondito la saggezza rispetto a tutti coloro che mi precedettero a Gerusalemme e la mia mente ha visto molta sapienza e conoscenza». 17 Ho votato tutto me stesso a indagare sapienza e conoscenza, follia e stoltezza, e ho sperimentato che anche questo è un andare a caccia di vento. 18 Poiché «in molta sapienza c'è molta inquietudine l e aggiungere conoscenza è accrescere dolore». 15

hifil prima persona: «ho ingrandito»); alcuni commentatori, che noi seguiamo, propongono di leggere '1'17"H (perfetto qal: «sono divenuto grande», «sono stato grande»), come nella Settanta che ha ÉtJ.Eyc.tÀuverw (cfr. anche Testo Masoretico e Settanta in 2,9).

E la mia mente ... e conoscenza ( ... •:;:'?1 rwT)) - Alla lettera l'ebraico dice: «il mio cuore ha visto molta sapienza e conoscenza». Si può notare il riferimento a lRe 5, 9 e l Re l 0,23. Per i diversi significati

del verbo ilN, («vedere») cfr. nota a 9,9. 1,17 E conoscenza- Scegliamo la vocalizzazione M-!?11 (congiunzione più sostantivo), come si trova in 1,16, al posto di M-!?11 (congiunzione più infinito costrutto sostantivato retto dal precedente': «e al conoscere»). 1,18 Inquietudine (O,P~)- Il significato del termine è «affanno», «tormentO>>, «pena», o anche «indignazione». Sulla scorta di queste possibilità, noi pensiamo che qui si tratti di una forma di inquietudine esistenziale.

a quelle dei predecessori. Il riferimento a coloro che lo hanno preceduto, a meno che non ci sia un'anacronistica allusione autobiografica dello stesso Qohelet, fa pensare non solo ai re, ma- almeno in questo singolo caso - anche a tutti quei sapienti che non avevano avuto le stesse prerogative regali di Salomone. Il testo, per significare questa superiorità, parla di sapienza (f,okma) e di conoscenza (dii'at): la prima può essere intesa come la capacità di ragionare e di riflettere che è innata nell'uomo, ma che è anche favorita dagli stimoli fomiti dal contesto culturale e sociale nel quale una persona è collocata; la seconda indica il patrimonio delle acquisizioni, delle ricerche e delle esperienze vissute. L'unione dei due termini richiama l'intero arco della conoscenza: speculativa e sperimentale, generale e particolare. Salomone, impersonato nella finzione letteraria da Qohelet, confida, in aggiunta, di essersi spinto oltre i confini della sapienza e della conoscenza e di esser giunto ad assaporare ed esplorare la follia e la stoltezza (cfr. anche 2,3 ). Tuttavia, in confidenza e in tutta onestà, ammette amaramente che il risultato è stato la sperimentazione personale dell'«andare a caccia di vento». Com'era avvenuto nella precedente unità, anche in tal caso la constatazione è suggellata da un detto preesistente che raccoglieva un'opinione comune e popolarmente condivisa: sapere di più produce, non solo tanta sofferenza, ma soprattutto maggiore inquietudine esistenziale. Il saggio soffre più dello stolto perché ha una maggiore conoscenza della realtà, delle cose, del mondo e della vita. Nondimeno, il dramma esistenziale dell'uomo è nella sua innata esigenza di sapere, pur nella consapevolezza del dolore che ciò comporta.

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QOHELET2,1

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2,1 Ho detto poi a me stesso (•~7~ ·~ '1'1"1~~) -Alla lettera: «ho parlato io con il mio cuore» (cfr. anche l, 16 ). Goditi il piacere (~i:O~ :"ltt")~) - Il verbo :"llt, (vedere), seguito dalla preposizione ~ («in», «con»), acquista un significato più intenso indicando una partecipazione al piacere. Dunque, la preposizione assieme ai verbi di percezione dà al termine generico :Ji:O («buono», «bene») la connotazione di «piacere». 2,2 Pazza gioia- Il termine :"lt;T'?~· che media un concetto-chiave di tutto il libro, è ambivalente a seconda del contesto in cui compare: può avere un significato spregiativo e un altro positivo. Nel nostro caso,

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considerando che è in parallelo con «riso», si può rendere con «pazza gioia», espressione questa che richiama la spensieratezza tipica dei buontemponi biasimata nella critica sociale di Amos (cfr. 6,1-7; questa associazione, però, non significa che QoheIet faccia riferimento all'oracolo profetico pronunciato contro la falsa sicurezza dei potenti). 2,3 Ho voluto fare un 'esperienza personale - La locuzione ebraica ':(l"~ "M")!;\ significa «ho voluto condurre un'indagine su me stesso»: l'autore ha deciso di fare un' esperienza personale, su se stesso (l'ebraico ha «in cuor mio») e, come preciserà subito, nel suo corpo.

Assurdità della grandezza e degli eccessi del re (2, 1-11 ). Il brano è dominato dal tema del piacere presentato in varie scene di vita (1-3; 4-8; 9-11) significativamente racchiuse in un 'inclusione, tra il v. 1 e il v. 11, costituita dal temine «soffio». Spingersi oltre per possedere la stoltezza (2,1-3). Il v. 1, portando l'ascoltatore a una fase successiva del dialogo interiore iniziato in 1, 12, dichiara la precisavolontà del re di mettersi alla prova. Nell'incitazione, «Su!», vi è la determinazione di sperimentare e godersi il piacere (cfr. v. 3). Tuttavia, lo sforzo di Salomone è quello di capire, attraverso una prova condotta in prima persona, se la vita ha un senso. D'altro canto, fin dall'inizio, con un'anticipazione del risultato finale (che è anche una ripresa di quanto constatato nei versi precedenti), tutto viene presentato come evanescente, anzi il riso e la pazza gioia sono ritenuti insignificanti (v. 2). Il piacere sfrenato è inadeguato a rendere l'uomo felice. Anche in tal caso si tratta di soffio.

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2

QOHELET2,3

Ho detto poi a me stesso: «Su! Voglio metterti alla prova con la gioia: l goditi il piacere». Ed ecco anche questo è soffio. 2Al riso ho detto «stolto» l e alla pazza gioia «a che serve?». 3Ho voluto fare un'esperienza personale spingendo nel vino la mia carne - governando tuttavia la mia mente con la saggezza - per possedere la stoltezza, fino a vedere quale sia il bene per gli uomini, che essi realizzano sotto i cieli durante il numero determinato dei giorni della loro vita. 1

Spingendo nel vino la mia carne ('1i~~?~',~:il--n~ r~:;;)- Il testo ebraico non è molto chiaro. Nella storia dell'interpretazione si contano diverse correzioni proposte sul punto, alcune delle quali mirano solamente a mitigare la durezza del!' espressione che, nella traduzione fedele, dice: «trascinando nel vino la mia carne>>, oppure «attirando al vino la mia carne». Alcuni, invece di leggere '1i~'?~ (alla lettera «spingendo», da cui deriverebbe la traduzione «soddisfacendo [allettando] la mia carne [il mio corpo] con il vino»), leggono '1i0t;l~ e traducono «sostenendo il mio corpo con il vino». Riteniamo che possa essere lasciata l'espressione

ebraica, anche se va compresa all'interno della scelta di Qohelet di tentare di trovare la felicità nei piaceri della vita. L' espressione ebraica ,,~:ilo-n~ significa, a calco, «la mia carne», e sta a indicare «il mio corpo». Abbiamo lasciato la traduzione letterale perché questa resa dà più vigore all'immagine. Tuttavia la mia mente (';~1)- Interpretiamo il , come avversativo che rende l'affermazione un inciso. Per possedere (Ti'!~~1) - Il verbo TnN significa «afferrare»; può dunque essere reso con «possedere». Per gli uomini (C1~:;t 'J=?':!)- Alla lettera: «per i figli dell'uomo».

Il re nella sua anamnesi, che tuttavia è attualizzata nella finzione strategica di Qohelet, dice di essersi dato alla vita spensierata: al riso, al piacere, alla pazza gioia; e confessa, con un'espressione vivace quanto estrema, di avere spinto la sua «carne» nel vino. Il v. 3, però, mentre propone l'immagine dei godimenti della vita, con un inciso, ricorda che Io scopo perseguito resta quello di un esperimento sapienziale (cfr. l, 13) dal quale non è escluso il toccare con mano la stoltezza. In questa logica s'inserisce la confidenza del re nella quale ammette di avere sperimentato tutto, di avere superato i normali confini, di avere frequentato pericolose abitudini, pur essendosi mantenuto nel pieno possesso delle proprie facoltà (cfr. pure il v. 9) per cercare di capire il bene dell'uomo nei giorni contati della sua vita. Il portato del testo è chiaramente antropologico: questa prima scena, infatti, si chiude con l'espressione «sotto i cieli» per sottolineare l'orizzonte delimitato all'interno del quale l'uomo vive la sua esistenza passeggera.

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> 2,10 Tutto quanto hanno bramato (,',~~ ,~~ "~:>-Alla lettera: «E tutto ciò che hanno chiesto». Non mi sono privato di ogni mio più intimo

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piacere (i1J;!~f;r',f~ ':;l~-n~ 'r1-\)~lrl6)- In ebraico il testo parla piuttosto di «gioia del cuore» (alla lettera: «non ho privato il mio cuore da ogni gioia») che abbiamo ritenuto di rendere con un piacere forte, passionale, «intimo». L 'aver goduto (l'!~~ ':;l~"':l)- Alla lettera: «(il fatto) che il mio cuore era gioioso». Premio (p~lj)- Questo vocabolo è presente in tutto otto volte in Qohelet (cfr. 2,10.21;

La sapienza fra gli eccessi (2,9-11 ). Nel prosieguo della lucida disamina si trova ancora un affondo sulla sua grandezza e il suo potere (vv. 9-11 ), su quanto si è concesso, non negando alcunché alla sua brama. Fedele al modello di Salomone consacrato dalla tradizione, il testo si preoccupa di ribadire quanto aveva già affermato nell'inciso di 2,3: nei suoi eccessi e nella sua grandezza ha sempre mantenuto la sapienza accanto a sé (v. 9), per voler dire che tutto ciò che faceva era in funzione della ricerca dalla sapienza. Questo stesso tono sapienziale accompagna la finale del v. lO in cui dice che il premio di tutto il suo operato è stato l'aver «goduto» di ogni sua fatica (cfr. anche v. 24). Poi si volta indietro e ripensa a tutte le sue realizzazioni e al travaglio che hanno richiesto e vede tutto nella sua vacuità, come un mero sforzo che non produce «guadagno».

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QOHELET 2,11

Sono divenuto più grande e più potente l di tutti quelli che mi hanno preceduto a Gerusalemme; eppure la mia sapienza è rimasta salda al mio fianco. 10Tutto quanto hanno bramato i miei occhi, l non l 'ho mai negato loro, non mi sono privato l di ogni mio più intimo piacere; anzi l 'aver goduto l di ogni mia fatica, questo è stato il mio premio per tutto il mio operato. 11 Ho ripensato l a tutte le opere prodotte dalle mie mani e alla fatica da me sostenuta per realizzarle, ma ecco l tutto è soffio, un inseguire il vento e non c'è guadagno sotto il sole. 9

3,22; 5,17.18; 9,6.9; 11,2). Il concetto, mutuato dal diritto fondiario israelitico, indica «porzione», «ciò che spetta» a un uomo, la «parte» e anche la «ricompensa», il «premio». Alcuni commentatori discutono se questa parte sia da considerare come un vantaggio. L'uso del termine nel v. IO sembra richiamare proprio tale significato, anche se il senso di questa ricompensa verrà relativizzato già nel versetto seguente.

2,11 Ho ripensato ('J~ 'f:l'Jfil1)- Alla lettera: «e mi sono voltato» (cfr. anche v. 12), col significato di «ripensare», «riconsiderare». Prodotte dalle mie mani ('1~ 1i!llJ~)­ Alla lettera: «che le mie mani avevano fatto». Alla fatica da me sostenuta ('1'\~~V~ "~tV~) -Alla lettera: «alla fatica che avevo faticato».

Se in 1,3 il termine «guadagno» introduceva sommessamente una questione antropologica, qui costituisce un 'affermazione su quello stesso argomento tanto da se m br are una prima risposta ali' interrogativo iniziale: l'uomo può realizzare tante opere, sperimentare tante cose, le più piacevoli e le più gratificanti, può sentirsi o essere considerato più grande degli altri, ma è condannato a sapere che sotto il sole, su questa terra, non vi è guadagno. Può però godere di un premio (/:leleq), quella parte spettante per le fatiche. Ma di un guadagno vero e proprio, e al tempo stesso duraturo, non si può parlare. E, come se ciò non bastasse, si prospetta immediatamente un altro motivo di tormento che acuisce la dominante insensatezza di un'intera esistenza: un giorno tutto si fermerà per lui e un altro verrà a prenderne il posto.

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2,12 La follia e la stoltezza - Questi due tennini vengono spesso considerati nelle traduzioni come sinonimi. La Settanta, p. es., usa un solo tennine: ci(jlpoouvrw («mancanza di senso», generalmente inteso come «follia>>). Nondimeno, se si considera la produzione sapienziale biblica, si nota che vi è una differenza, legata ai significati relativi a due tennini distinti, tra la follia (M~"~~;,) e la stoltezza (M~"::o ). La spiegazione potrebbe essere la seguente: lo stolto sceglie volontariamente di andare contro la sapienza; il folle, invece, è privato, per malattia ed evidentemente contro la sua stessa volontà,

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de li 'uso del dono o della virtù della sapienza. Poiché cosa... Ciò che è già stato fatto (m~w~ ;~~-;~!!! M~:t ... ;,'? ·~)-n v. 12b presenta un testo poco chiaro in ebraico; accogliamo la proposta di interpolare ;,~;:~ nella prima frase, leggendo C11;t:;t ;,W~~-;,1? «cosa farà l'uomo ... >>. Nella seconda frase, il Testo Masoretico vocalizza ''11Jtt in modo da legare il tennine al successivo. -,'(.~;:t. sicché la traduzione sarebbe: «dopo il ren. Tuttavia, supponendo la vocalizzazione '1J:!tt, potrebbe essere inteso anche come un avverbio con suffisso pronominale di prima persona singolare; in tal caso il tennine «re»

La morte rende tutto vano (2,12-16). All'interno di questa progressione, nel v. 12 compare prepotentemente un elemento finora solo sfiorato (cfr. 1,4; 2,3): la morte che vanifica tutto e omologa tutti, sia i saggi sia gli stolti e, di fronte a essa, anche lo sforzo del sapiente risulta essere insignificante e senza senso. Nondimeno, il v. 13 lascia intendere che c'è un vantaggio della sapienza rispetto alla stoltezza e la stessa cosa è affermata dalla citazione del proverbio popolare al v. 14 secondo il quale il saggio, che ha gli occhi sul viso, sa regolarsi bene

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QOHELET 2,15

Ho riesaminato la sapienza, l la follia e la stoltezza, poiché cosa ·farà' l'uomo l che verrà dopo il re? Ciò che è già stato fatto! 13 Ho considerato che c'è un vantaggio a favore della sapienza rispetto alla stoltezza, paragonabile al vantaggio della luce sull'oscurità: 14 «11 saggio ha i suoi occhi sulla sua testa, l mentre lo stolto cammina nel buio». Tuttavia ho imparato pure l che un'unica sorte toccherà a entrambi. 15 E ho pensato fra me: «Anche a me toccherà l il destino dello stolto? Allora perché sono stato sapiente? Qual è il vantaggio?». E ho concluso fra me che anche questo è soffio. 12

potrebbe essere considerato come una glossa esplicativa e la traduzione sarebbe: «dopo di me (che sono) il re». Di fatto il significato non cambia. Va sottolineato, però, che del v. 12b vengono proposte diverse traduzioni che attestano la lettura controversa: «Che cosa può fare un successore di re? Quello che è stato fatto)) (Nuova Diodati); e ancora: «Chi sarà l'uomo che verrà dopo di me? Il re già da tempo fatto)) (Nuova Riveduta); la Nuovissima Versione della Bibbia dai Testi Originali traduce: «"Che cosa farà l'uomo che mi succederà?" Farà ciò che è già stato fatto)); la Traduction Oecuménique de la

Bib/e traduce: «Vediamo! Cosa sarà il successore del re? Ciò che avranno già fatto di lui!». La Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente esplicita il significato e fa dire al v. 12b (anteposto al v. 12a): «Anche il re che verrà dopo di me non farà niente di nuovo». La versione della CEI del 2008 rende: «Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui)). 2,14 Sorte (:"!)j?C)- Qui la sorte, il destino unico che toccherà sia al sapiente che allo stolto, è la morte (cfr. anche 3,19; 9,2.3). 2,15 E ho pensato fra me('~~~ '~~ 'l'll~':t1) -Alla lettera: «e ho detto io in cuor mio)).

nella vita, mentre lo stolto procede a tentoni. Ma la realtà è più terribile: quasi negando la sapienza tradizionale, Qohelet afferma che lo stolto e il saggio subiranno la medesima sorte. La conclusione è drammatica: non c'è vantaggio del sapiente sullo stolto! Tutto è vapore evanescente, compresi gli sforzi compiuti per ottenere la sapienza. Sia per il sapiente che per lo stolto non ci sarà ricordo (cfr. lo stesso tema in l, Il), l'oblio sarà la loro sorte comune, come uguale sarà per loro il morire.

QOHELET2,16

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2,16 Imperituro (C~ill~) - L'espressione ebraica si può tradurre «perenne», n; nlJ,.. ' t-tji.zh mn ~l'uò nlJ 8 -.·a O:ci;'IV nv1 i10n;o nlJ -:-

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3,5 Per gettare pietre ... per raccoglier/e (C'l~~ Oilt ... C'l~~ T~~i}~)- Il significato delle due espressioni è molto dubbio. Alcuni, sulla base del collegamento con l'emistichio successivo, danno ai verbi un significato sessuale: «gettare pietre)) indicherebbe l'unione sessuale, «raccoglierle)) significherebbe la continenza. Questa lettura si deve alla tradizione midrashica e i sostenitori chiamano a supporto i testi di Es l, 16 (fra l'altro di difficile lettura); Ger 2,27 e anche Mt 3,9. Altri, sulla base di testi quali 2Re 3,19.25; ls 5,2 e Os 12,12 interpretano il «gettare le pietre)) come un atto distruttivo

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contro un territorio nemico, mentre il «raccoglierle)) come una bonifica del campo perché possa essere coltivato in tempo di pace. Sta di fatto che i due sostantivi «pietre)) che accompagnano i verbi, alterando in tal modo il ritmo del verso, possono essere considerati come delle glosse aggiunte con Io scopo di chiarire un testo estremamente conciso. Sicché i due verbi «gettare» e «raccogliere)), per la loro genericità, possono lasciar intendere al lettore diverse attività: in tal senso, tutte le sfwnature di significato possono trovare spazio nella lettura del versetto. Da notare che nel v. 5a (come pure in 4b) il verbo all'infi-

e non necessariamente sempre in modo antitetico, costruite con il verbo preceduto dalla preposizione /' («pem) che indica una finalità (fanno eccezione solo i vv. 4b. Sa; in Sb, poi, verranno introdotti due sostantivi al posto dei verbi senza la preposizione /'). La presenza di alcuni valori numerici nell'andamento del testo (4 e poi 7 e i suoi multipli 14 e 28) ha fatto pensare a una volontà di completezza, di totalità, di perfezione: vi sono in quattordici emistichi ventotto azioni molte volte contrapposte, ma anche messe in continuità fra loro e inserite, sia pure casualmente e senza alcuna connessione logica o concatenazione progressiva, all'interno di un ritmo ciclico e ripetitivo. La continua anafora del tennine «tempo» (ebraico, 'et), non solo conferisce risalto al vocabolo rimarcandone il significato, ma ne rende pure martellante la scansione. L'argomento trattato è noto e non è esclusivo di Qohelet. Si trova già nella letteratura greca e in testi del Vicino Oriente Antico. Tuttavia, è diverso il contesto all'interno del quale l'autore inserisce la composizione ed è originale la scelta dei vari tempi, come pure l'esemplarità non esaustiva (pur tuttavia molto rappresentativa dell'esperienza umana), delle scene di vita collocate fra due poli che, per effetto della figura retorica del merismo, anziché rappresentare rigidamente i punti di partenza e di arrivo, indicano piuttosto tutto il lasso di tempo e le vicende che in questo spazio animato occorrono all'uomo. Nell'inesorabile incedere del tempo sono descritte le attività umane, quelle più impegnative e significative comprese tra il nascere e il morire, tra l'amore e l'odio, tra la guerra e la pace. Nel mezzo vi è una rassegna dei tempi resa da un elenco di

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QOHELET3,8

un tempo per gettare pietre l e un tempo per raccoglierle; un tempo per abbracciare l e un tempo per sottrarsi ali' abbraccio; 6un tempo per cercare l e un tempo per lasciar perdere; un tempo per custodire l e un tempo per buttar via; 7un tempo per stracciare l e un tempo per cucire; un tempo per tacere l e un tempo per parlare; 8un tempo per amare l e un tempo per odiare; un tempo di guerra l e un tempo di pace. 5

nito non è preceduto dalla preposizione ~. 3,6 Per cercare (dp~7>- L'interpretazione di questo verbo è varia. Coloro che preferiscono tradurre l'altro verbo (,:l~) con «perdere» (cfr. nota successiva) rendono il verbo ~p::l con «guadagnare». Lasciar perdere - Da alcuni traduttori per il verbo .,::lM viene scelto il significato di «perdere» collegato al precedente «guadagnare». A supporto di questa traduzione si richiamano i testi di Ger 23, l, in cui si legge del pastore che perde le pecore, e di l Sam 9,3.20, in cui si trova lo stesso ambito pastorale ma si tratta delle asine di Saul. Tuttavia,

nel contesto del v. 6 consideriamo più appropriato il significato di «lasciar perdere11, nel senso di «rinunciare», o anche «fermarsi», «smettere di cercare». 3,8 Un tempo di guerra e un tempo di pace (Ci~~ n;n i'1f?J;!~ n.11)- Preferiamo tradurre alla lettera l'ebraico con «un tempo di guerra e un tempo di pace», per spezzare il ritmo e avviare la conclusione. La preposizione «di)) potrebbe essere intesa come. se introducesse un complemento di qualità per significare che non si tratta di un tempo per fare la guerra e di un tempo per fare la pace, ma di un tempo che ha, come qualità propria, la guerra o la pace.

situazioni esistenziali: awenimenti legati alla vita familiare, lavorativa, politica e sociale. Di scadenza in scadenza vengono rappresentate vicende che descrivono le stagioni della violenza e della guerra e poi quelle della cura e della guarigione. Di seguito viene richiamato il tempo della distruzione e quello della ricostruzione, quello delle lacrime e quello del riso, del lamento e della danza per indicare l'alternanza, nell'esistenza umana, di giorni di lutto e di festa, di sofferenza e di gioia, provocati dall'amore o dall'odio, sentimenti profondi nell'uomo. Nel v. 7 viene richiamato l'uso saggio della parola, argomento noto nella letteratura sapienziale biblica: il sapiente sa tacere e sa parlare al momento opportuno (cfr. Pr Il, 12; 15,23 ). È significativa la chiusura del poema con il chiasmo amare-odiare, guerra-pace: nella prima parte del v. 8 viene proposto, seguendo lo schema consueto, l'accostamento tra «un tempo per amare l un tempo per odiare», ma nella seconda parte, spezzando il ritmo e con cadenza conclusiva evocante la quiete, viene 1àtta cessare la sfilza dei verbi per introdurre due sostantivi: guerra e pace. Se si escludono quelli inseriti nel v. 5 (pietre e abbraccio), questi sono gli unici due sostantivi del poema utilizzati non tanto per descrivere attività, quanto per indicare delle situazioni: quella della guerra e quella della pace. L'ultima parola, dunque, è «pace», un termine di grande valore positivo nella tradizione biblica, che porta con sé risvolti personali, sociali e religiosi. L'espressione ebraica, resa alla lettera con «tempo di pace», non invita a pensare che vi sia un tempo per fare la pace, ma che, a conclusione di tutto, è dato un tempo qualitativamente connotato dallo séllom.

QOHELET3,9

76

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='litri~ì u>N1~ o'v'~i! il\1?~-,W~ i1WP.~~-n~ oi~i! N~T?7_N, 3,9 Qual è il guadagno (1~,~·-:'1~)- Cfr. nota a 1,3. Per chi opera affaticandosi (!:l~ 1>, «il desiderio di conoscere il mistero del mondo», «una certa visione d'insieme», «il senso della durata», «la durata dei tempi», «il mistero del tempo»), tenuto conto delle capacità

limitate della conoscenza umana che vengono subito messe in evidenza nel prosieguo del v. Il, proponiamo di tradurre «un frammento di mistero», magari del mistero stesso del tempo, sottolineando con il termine «frammento» la potenzialità e il limite, quasi si trattasse di un «ragionevole accesso» al mistero senza la pretesa di poterlo compiutamente afferrare. Questo tentativo tiene anche conto del gioco di parole che è pennesso dalla scriptio defectiva o assenza di 1: senza vocali, la parola c'{iJ può anche essere ricondotta alla radice C".!l (come già aveva osservato nel medioevo Rabbi Shelomo ben Yzchaq) che, fra l'altro, può significare «essere nascosto», «essere velato», «essere misterioso». L 'opera di Dio (l'l~~-,~~ l't~~~:j-MI$ c•n>,~:;t)- Alla lettera: «l'opera che Dio ha fatto».

droneggiare la vita. Qohelet sa che la conoscenza umana è limitata (cfr. l, 12-18) e che non c'è un reale guadagno nella ricerca di una realizzazione personale da lucrare per mezzo delle proprie fatiche (cfr. 2,1-26); allora scruta, in questi versetti, l'ambito della fede in Dio. Il termine «Dio» ( 'e/ohim) compare sei volte nei vv. l 0-15 facendo di questo brano quello che ha più ricorrenze di espressioni su Dio di tutto il libro: l'intento di Qohelet è chiaramente teologico. Apertura dell'uomo e sua costitutiva finitudine (3,10-11 ). Nel v. lO Qohelet ripropone lo stesso testo di 1,13b: egli ha osservato l'occupazione data agli uomini da Dio perché vi si tormentino. Il v. 11 chiarisce che questa incombenza coincide con la brama umana di voler investigare per tentare di comprendere il misterioso agire divino nel mondo: è lo sforzo di conoscere le ragioni dei tempi che si avvicendano nella vita e nella storia. Al tempo stesso, però, dichiara che, a fronte dell'impegno nella ricerca, la conoscenza dell'uomo è limitata e frammentaria e, per tale motivo, non potrà comprendere interamente l'operato di Dio. Pertanto nel v. 11, che è un concentrato di antropologia biblico-teologica, l'autore, rievocando i testi della Genesi (cfr. 1,31), unisce la contemplazione della bellezza (yiipeh) dell'opera fatta da Dio in principio e la grandezza dell'uomo posta nel suo stesso limite conoscitivo.

78

QOHELET 3,12

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Alla lettera: «c'è uno e non c'è il secondo». Né il suo occhio è mai sazio (ll~~m6 U'ln:m - Alla lettera: «anche i suoi occhi non sono mai sazi (appagati, soddisfatti)». Il qerè il'.V., che noi seguiamo, propone di leggere al singolare (invece che al plurale, suggerito

dal ketìb ,,~'.V.) per accordare il sostantivo col verbo che è alla terza persona singolare femminile. Di per sé il significato non cambia. Eprivomestessodibeni(it~~ ~}

-Alla lettera: «e privo il mio respiro di benessere». In realtà,~ indica sì il respiro, ma anche la persona vivente grazie ad esso; perciò qui

Altro vapore sotto il sole (4,7-12). Nei vv. 7-12 Qohelet fa un'altra osservazione sulla fatica, presentata nella sua inconsistenza, soprattutto se uno è solo, senza un discendente cui lasciare tutte le ricchezze accumulate (vv. 7-8). La parola hebel (qui resa con «vapore» per significare visivamente l'evanescenza) è posta nella frase iniziale e non alla fine come accade di solito: questa anticipazione intende dire che ciò che si sta per affermare è già noto essere cosa vana, come specifica il v. 8. C'è come una perplessità in Qohelet che, immedesimandosi nel personaggio Tto con Dio. Dalla descrizione emerge un contesto poJX>lare incline a forme di preghiera espresse con molte parole, a vincolanti promesse sovente non mantenute, a stratagemmi, quali l'invocazione dell' «inavvertenza», considerati attenuanti per giustificare un errore, al ricorso ai sogni o alle estasi o agli oracoli. Qohelet sferra una risoluta critica nei confronti di un culto prevalentemente formale che esclude un reale sentimento religioso. Tuttavia, non si può affermare che la sua polemica sia un rifiuto di ogni pratica esteriore di espressio-

93

QOHELET 5,1

Bada ai tuoi passi l quando vai alla casa di Dio; e accostati per ascoltare, l piuttosto che per offrire il sacrificio degli stolti, poiché essi non avvertono neppure il male che fanno. 1Non essere precipitoso nel parlare l e non affrettarti a pronunciare una parola di fronte a Dio: perché Dio è nei cieli l e tu sulla terra; perciò siano poche le tue parole: 17

5

piedi», forma questa meno usuale, tuttavia utilizzata anche in altri testi (cfr. l Re 14, 12; Sal 129,59). 5,1 Non essere precipitoso nel parlare

(1'~-"~ "il~f;'l-"l:t)- Alla lettera: «Non precipitarti sulla tua bocca». E non affrettarti (,;:t~;-"~:t 1~"1)- Alla lettera: «e il tuo cuore non si affretti».

ne della religiosità; si tratta piuttosto di una presa di posizione alternativa rispetto a quella tradizionale rintracciabile, per esempio, in Ezechiele, nel Trito-Isaia e nel libro delle Lamentazioni. Secondo questa linea profetica,l'uomo ottiene la salvezza dalla propria giustizia. Qohelet non la pensa così: infatti dirà, in 7, 15, di aver visto il giusto distrutto nonostante la sua giustizia. L'atteggiamento richiesto, quindi, al di là di una precettistica minuziosa e deresponsabilizzante, è quello più radicale di «temere Dio». Qohelet, pertanto, trasforma in un consiglio di chiaro tenore sapienziale un precetto del Deuteronomio (cfr. 23,22-24). Quest'adattamento è più consono alla convinzione che la sapienza è ricerca del volere divino e non ossequio supino a una prescrizione. Per tale motivo, secondo la concezione qoheletiana. superato l'appiattimento legalistico tipico di una pratica abitudinaria di atti di culto, la religiosità deve essere aderente alla realtà e, alleggerita dai riduzionismi ritualistici, è chiamata a dare il suo contributo concreto alla trasformazione del mondo. Si tratta, dunque, di una visione sapienziale della vita e della storia a partire proprio dal rapporto con Dio. In questo senso può essere compreso come l'epiteto «stolto» venga esteso a chi crede di praticare la religione moltiplicando voti che rimangono insoluti e sciorinando parole vane. Nel culto non valgono gli eccessi e le giustificazioni di comodo; occorre un cambiamento di vita. All'interno di questa logica, 4,17 dà una prima istruzione sotto forma di ammonizione, proposta alla seconda persona singolare per coinvolgere direttamente l'interlocutore. Nel rispetto, quindi, dello stile tipico della letteratura sapienziale, viene detto di badare ai passi, cioè di fare attenzione, quando si va alla casa di Dio e viene raccomandato di predisporsi all'ascolto. In 5, l segue un altro avvertimento, che è anche un'esortazione, secondo cui bisogna misurare le parole. In realtà Qohelet, in questa micro-unità, sta riproponendo un principio tradizionale, espresso in diversi passi anticotestamentari (cfr. lSam 15,22; Is l, 10-20; Ger 7,115.21-28; nonché Am 5,21-25; Os 6,6; Mi 6,6-8; Pr 21,3), che affenna la superiorità de li' obbedienza rispetto al sacrificio formalistico, che in Qo 4,17 era stato

94

QOHELET5,2

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5,2 Dalle molte preoccupazioni proviene il sogno (1~~~ :::1"1~ ci"r:)I'J 1(1)- Alla lettera: «Viene il sogno con la molta preoccupazione». 5,3 Tu (r'IK.) - Leggiamo il testo conso-



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nantico MI( non come segno del complemento oggetto, ma come pronome di seconda persona singolare ~ ~ («tU»). Nei manoscritti greci più antichi è unanimemente attestata la lettura où oùv

definito come il «sacrificio degli stolti» che non hanno consapevolezza del male che compiono. Questa espressione può essere intesa sia nel senso che gli stolti, offrendo il loro sacrificio insignificante, fanno il male, sia nel senso che costoro, pur compiendo il male del quale non si rendono conto, offrono ugualmente dei sacrifici che sono inutili. L'ambivalenza contenuta nel versetto rende più ampio il raggio d'azione della stoltezza. L'altro ammonimento, non parlare con leggerezza (cfr. 5,1), è motivato dal fatto che la distanza che separa Dio e l'uomo (cfr. Sal 115,16) non può essere accorciata dalle parole umane: le molte parole non sono una scala protesa verso il cielo per raggiungere Dio. Tutt'altro: il consiglio di Qohelet è che le parole siano poche, perché le molte parole producono solo un suono vacuo e insignificante e fanno perdere la percezione e il senso della realtà. Con ogni probabilità, in questo passaggio è possibile leggere una velata polemica con il mondo culturale greco che amava l'eloquio elaborato nell'illusione di raggiungere, in tale maniera, la verità. La concezione qoheletiana in questo versetto è quella di un Dio distante (cfr. Qo 3, 18) anche se non indifferente (come invece dicono gli «stolti» in Sal l 0,4 e 94, 7). L'uomo deve ricordare il suo posto e il suo limite di fronte a Dio, considerando la sua reale posizione. Il proverbio di Qo 5,2 (forse un rimaneggiamento della forma più antica, certamente più breve, presente in 5,6) è analogo a Pr l O, 19 e offre un 'argomentazione esperienziale a quanto detto in 5, l con la quale Qohelet, oltre a segnalare la necessità di misurare le parole, probabilmente, tenta anche un recupero del significato biblico del termine «parola» che è dinamica, performativa, efficace e realizza ciò che esprime. L'uomo, che nel rapporto con Dio è logorroico, come lascia intendere la critica di Qohelet, commette vilipendio della parola, colpita e tradita nella sua efficacia. In definitiva, la bocca deve parlare dali' abbondanza del

95

QOHELET 5,4

molte preoccupazioni proviene il sogno e dalla moltitudine delle parole la voce dello stolto». 3Quando fai un voto a Dio l non tardare ad adempierlo, poiché egli non si compiace degli stolti; l rtu1 , ciò che hai promesso, attualo. 4Meglio che tu non faccia un voto, l piuttosto che farlo e poi non mantenerlo. 2«dalle

(«tu, dunque))), successivamente emendata con ouv. Tuttavia il pronome costituisce la lezione più difficile e ha un buon valore letterario. Fra l'altro è facile comprendere come, nel processo di tra-

smissione del testo, il pronome sia stato scambiato con il segno dell'accusativo. Da un punto di vista letterario, poi, la sottolineatura del pronome dà più enfasi al consiglio che segue.

cuore. Dio, infatti, potrebbe adirarsi per le parole dette a caso ed euforicamente illusorie, distruggendo l'opera delle mani dell'uomo (cfr. 5,5). Parole e timore di Dio (5,3-6). Anche in questa seconda micro-unità Qohelet fa delle incursioni nei testi tradizionali relativi al tema del rapporto del credente con Dio. L'esortazione ad adempiere i voti espressi s'incontra più volte nell'Antico Testamento (cfr., p. es., N m 30,3 ). Qui siamo di fronte a una citazione quasi letterale di Dt 23,22-24 (cfr. pure Sal 66,13 e 76,12): il nome divino (che nel Deuteronomio è «Signore tuo Dio», yhwh 'é/ohèkii) qui è quello generico «Dio» ( 'élohim) e la negazione lo' («non tardare ad adempierlO>>, lo' r 'fzér lesa/l•mo) è cambiata in 'al ('al r 'fler /esa/l•mo). Tuttavia, è l'aggiunta della motivazione «perché egli non si compiace degli stolti» a dare al precetto una connotazione sapienziale e a far comprendere che l'intenzione di Qohelet è diversa da quella del Deuteronomio. Mentre per il Deuteronomio i voti andavano evitati per non incorrere in una trasgressione della Legge qualora non fossero stati soddisfatti, per Qohelet, invece, va evitato il rischio di giudicare il rapporto con Dio solamente dalla pratica esteriore di alcuni atti, quali i voti. Il v. 4, con una formulazione comparativa sulla scelta migliore rispetto a un 'altra e con un probabile riferimento al sacrificio degli «stolti» di 4,17, ribadisce che i voti espressi vanno adempiuti. In 5,5 si riprende l'ammonimento di 5,2: la lingua non può pronunciare parole che possano indurre in errore. Ciò non va permesso, anche perché non valgono scuse illudendosi di far passare il proprio sbaglio come una svista, ossia come un 'inavvertenza (S'giigd): Io stolto che parla così, anziché piacere a Dio, provoca la sua ira. Ci sarà, dunque, un giudizio di Dio? Questa domanda è legittima, tuttavia in Qohelet non si fa cenno a sviluppi ulteriori su tale questione.

96

QOHELET 5,5

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:O\.J'7P. O'iJ!l-t~ ,~w M:l~ ;P-~ i1~ 'f. l'~r.m·;p n~J;~r:t·;~ 5,5 Non permettere alla tua lingua di indurii in errore (i~-~~-n~ M'lP~:!~ ì'~-n~ 11'11'1_.,~) -Alla lettera: «non concedere alla tua bocca di indurre all'errore la tua carne». La «bocca» significa la lingua, come nel v. l; l'espressione «la tua carne>> (i}~~) indica per sineddoche tutto il corpo, dunque la persona. In aggiunta, anche in questo caso preferiamo dare al verbo M:Qn, che viene tradotto quasi sempre con «peccare>>, il significato di «errare>>, sbagliare>>, «fallire>>. Come è stato già detto in 2,26, a nostro parere all'interno del libro di Qohelet questo verbo non ha una connotazione morale. Ministro - Il termine '1~7~ di per sé indica

«il messaggerm>. La versione greca della Settanta e quella siriaca lo identificano con Dio stesso, soggetto di tutto il contesto (nella Settanta si legge: rrpò rrpoowrrou tou ~ou, «davanti a Dio»). In questo ambito, stando alla critica religiosa di Qohelet, il termine può significare, sulla base del midrash, un uomo impiegato presso il tempio col compito di verificare l'esattezza dei voti e riscuotere le offerte votive, un «ministro», una sorta di «sacerdote» (cfr. MI 2,7), come viene interpretato dal maggior numero degli esegeti. Un 'inavvertenza- Il termine i1~~f.!i è di matrice cultuale (cfr., p. es., Lv 4,22.27; 5,18; Nm 15,25) e indica un errore non intenzionale,

Il v. 6 palesa il fulcro della concezione religiosa di Qohelet. Questa volta la citazione di un proverbio popolare serve sia ad affennare che la raffica inconsistente delle parole deriva da sogni e vagheggiamenti (cfr. 5,2} sia a preparare la conclusione: .

Giovamento (li11l:i:;l)- È un altro termine del lessico qoheletiano del «vantaggio», del «guadagno» (cfr. anche 5,9). Di per sé significa «industriosità», «attività», ma anche «giovamento», «soddisfazione». Si veda la nota a 4,4. Constatarlo n,Ml)- Seguiamo il qerè che suggerisce il sostantivo n,ttl «vista», «visione»; quindi, traduciamo cosi l'espressione, che alla lettera suona: «la visione dei suoi occhi».

(,•r.v.

ad averne sempre di più generando, di fatto, un meccanismo di autodistruzione. Sembra che il testo, in linea con l'Antico Testamento, condanni non la ricchezza in sé, ma la scelta di perseguirla come ideale di vita. In tal caso è una sciagura. Il v. l O ripropone un vecchio adagio: la sapienza tradizionale aveva già fatto notare, infatti, che gli amici del ricco sono numerosi (cfr. Pr 14,20 e 19,4.6). Anche Qohelet registra che la ricchezza fa aumentare il loro numero: si tratta, però, di un 'amicizia fondata sul mero interesse a sfruttare il patrimonio del ricco. Quest'ultimo è condannato a sperimentare che i beni non bastano mai, perché attirano tanti parassiti che consumano ogni cosa, sicché al ricco non rimane neppure la serenità del riposo (cfr. Qo 2,23; Sir 31, 1-2). Il ricco possidente ha l'amara soddisfazione di sapere di essere benestante e, paradossalmente, di constatare con i propri occhi lo sperpero delle sue ricchezze. Volendo, d'altro canto, assecondare la sensibilità di Qohelet, il tema dell'insaziabilità si presta a essere letto come sintomo di un'insoddisfazione profonda dell'uomo (cfr. 1,8). Il sonno di chi è pago dei beni che possiede ed è soddisfatto del proprio lavoro, che gli consente di vivere, è dolce e ristoratore. Un effetto opposto sortisce la sazietà del ricco: gli impedisce di dormire (cfr. commento a 4,7-12).

100

QOHELET 5, Il

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;;N' 'ifWfJ~ :~~i?.l i;?~ l 5,12 Atroce tragedia (n~in i1~"))- Questa traduzione può risultare enfatica; tuttavia l'intento è quello di rendere ciò che alla Jettera è detto «grave male». Zorell traduce il participio qal n~in (dalla radice n"n, «ammalarsi», «essere ammalato») con «atroce», «fatale». Il sostantivo i1~l indica, fra l'altro,

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«disgrazia», «tragedia», «avversità», «sciagura», «sofferenza» (cfr. anche v. 15 e 6,1; 7,14; 9,12; 10,5.13; 11,2.10). 5,13 Cattivo affare (l1") 1:~.\141)- Ricorre qui l'espressione già incontrata altre volte in Qohelet e che abbiamo reso con «occupazione gravosa»; l'uso della locuzione in questo

Il ricco se ne andrà nudo (5,12-16). Qohelet propone un'osservazione pratica («ho visto», v. 12) sul tema della ricchezza e poi continua con una considerazione che si estende fino al v. 16. In realtà questi versetti sviluppano almeno tre temi introdotti in precedenza: il bramoso accumulo delle ricchezze, anticipato in 5,9; l'esempio del ricco che acquista ricchezza mentre è un altro quello che ne gode, presente nel v. IO e che sarà ripreso in 6,1-9; e l'ansia che impedisce di godersi i beni, già vista al v. Il. Ciò che osserva l'autore è che la ricchezza viene custodita dalla persona facoltosa per la sua sventura (v. 12): si tratta di ricchezza che svanisce, come può capitare, per esempio, con un errato investimento. Questa situazione si ripercuote negativamente sul figlio, che si ritrova con le mani

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QOHELET 5,16

11 sonno del lavoratore è dolce, l poco o molto che mangi; ma la sazietà del ricco l non gli concede di dormire. 12 Vi è un'atroce tragedia l che ho visto sotto il sole: la ricchezza custodita dal padrone per la propria sventura. 13 Quella ricchezza svanisce in un cattivo affare: e il figlio che ha generato non ha niente nelle mani. 14 Come è uscito dal ventre di sua madre, l nudo se ne tornerà, se ne andrà come era venuto e niente ricaverà dalla sua fatica l da portare con sé. 15 E anche questo è un orribile strazio: come uno è venuto, l così se ne andrà; e qual è il vantaggio per lui l che ha faticato per il vento? 16E per di più, tutti i suoi giorni l ha consumato nella tenebra, tra molto affanno, l malattia e collera. 11

contesto orienta l'interpretazione verso un «cattivo affare» in cui si disperdono e svaniscono tutte le ricchezze. E i/figlio che ha generato non ha niente nelle mani (i1~~K1? ;,:~ 1'~11:;l ,,~ii11)- Alla lettera: «e ha generato un figlio e non c'è nella sua mano alcunché».

5,14 Nudo (Ci,;')- È lo stesso aggettivo usato in Gb l ,21 per esprimere lo stesso concetto. E niente ... con sé (i"~ll~ tcl;'"l6 1'T~~K~~ ;,:~ 1~'~) -Alla letk~~: «e' qualcos~ n~n prenderà dalla sua fatica che porterà via nella sua manm>.

vuote (v. 13). Anche il ricco, d'altronde, morirà. L'introduzione del tema della morte, che pone fine a tutto, rende più drammatica la ricerca della vana ricchezza: il ricco se ne andrà dalla vita senza portare nulla con sé (cfr. Sal 49,18), nudo così com'era venuto al mondo e la sua fatica non sarà servita a niente (v. 14). Nei vv. 15-16 c'è ancora un altro orribile strazio, reso con un'inquietante domanda che indica l'aspetto negativo della ricchezza: quando uno se ne sarà andato allo stesso modo nel quale era venuto, quale sarà il suo vantaggio? Tutta la fatica fatta unicamente per il profitto è come un lavoro fatto per il vento. Tutti i sacrifici e gli affanni, consumati nella tenebra (v. 16), ossia nell'impossibilità di conoscere la realtà, saranno stati inutili.

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QOHELET 5,17

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6,11 Parole- Il termine ebraico è C'i~"! che indica pure «cose», «fatti», «azioni» (cfr. nota a 1,8); in questo caso, dal punto di vista interpretativo, potrebbe essere mantenuta l'ambivalenza del significato. 6,12 Nei giorni contati della sua .fugace esi-

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stenza (il:l~:;t ~~ i~ C'"'!};)- Alla lettera: «nella vita, (cioè) il numero dei giorni di vita del suo soffio». Per la prima parte dell'espressione cfr. 2,3 e 5,17 e per la parte finale cfr. 9,9. Come un 'ombra (l:ll'~)- Si può conservare il Testo Masoretico (cfr. anche 8,13) anziché

A partire dal v. Il vengono presentate delle domande di senso sul guadagno (cfr. 1,3; 3,9), sul bene, sull'avvenire dell'uomo. Il punto di partenza è costituito dalla ripresa del tema della relazione con Dio trattato in 4,17-5,6: quando l'uomo è posto di fronte a Lui, le parole (cfr. 5,1-2.6) e le azioni umane (in ebraico d barim; cfr. nota al v. Il) vengono relativizzate. Nel v. 12 troviamo due interrogativi. Il primo, che per alcuni ha un sapore più greco che ebraico, è sulla possibilità della conoscenza da parte dell'uomo di quale sia il bene nella sua vita, paragonata a un'ombra. La risposta, evidentemente, non può venire dali 'uomo, ma da Dio. Nei capitoli precedenti, infatti, se n 'era già parlato (cfr. 2,24; 3,12-13.22; 5,17-18): l'uomo deve condurre l'esistenza riconoscendo che ogni cosa è dono di Dio. Il secondo interrogativo è sulla possibilità di conoscere il futuro dell'uomo, quello compreso «sotto il sole», ossia nel cerchio della sua fugace esistenza. Del resto, se qualcuno conoscesse già il proprio avvenire, sarebbe semplice sapere quale sia oggi il suo bene, rendendo inutile e superfluo domandarselo. Ma l'interrogativo rimane e l'argomento (già introdotto in 3,22b sia pure in altro contesto) sarà sviluppato nella seconda parte (cfr. 7,8a; 8,7; l1,2b.6b). CHI PUÒ CONOSCERE (7,1-12,7) Inizia ora la seconda parte del libro. Essa contiene pagine molto difficili per la loro composizione, la loro provenienza e la loro interpretazione. Intende rispondere alle domande poste in 6,11-12 ed è interessata al problema della conoscenza umana intesa nella duplice dimensione, quella esistenziale-pratica e quella speculativa. Al suo interno è possibile individuare tre sezioni, a loro volta divise in varie pericopi e unità testuali: in 7,1-8,17 si affronta il tema della sorte dell'uomo nell'intento di ca-

109

QOHELET7,1

Ci sono molte parole, infatti, l che moltiplicano il fiato: e quale è l'utile per l'uomo? 12Effettivamente chi sa che cosa sia meglio per l'uomo nella vita, nei giorni contati della sua fugace esistenza, l che egli trascorre come un'ombra? Di fatto, chi dirà all'uomo l ciò che avverrà dopo di lui sotto il sole? 11

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Meglio un buon nome che un buon unguento l e il giorno della morte che quello della nascita. 1

correggere con la Settanta (Èv OKL~) e con altre versioni antiche in ~~;! (;,·nN 15 o

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7,15 Nei miei giornijùgaci ('~~ry '~'::!)-Al­ Ia lettera: «nei giorni del mio soffio». Ritorna in questo verso il termine "=?-v• che riteniamo voglia indicare la fugacità dei giorni. Alcuni traduttori, invece, rendono ripetutamente L,;ry con «vuoto». Siamo convinti che questa traduzione non sia coerente con il pensiero dell'autore: per Qohelet l'esistenza umana, della quale si sente tutto il peso, è inafferrabile ed effimera per l 'uomo, ma non è certo vuota o frivola, tantomeno insignificante.

Nonostante la sua giustizia ... nonostante la sua malvagità (in~\:l1- ... i p,,~ :l1-) Abbiamo dato alla preposizione ebraica ~ un senso avversativo («nonostante», «malgrado»). 7,17 Nel tempo sbagliato (i~.!l t(L,~)- Alla lettera: «non nel tuo tempo». 7,18 Staccarti (i'1:·n~ M~IJ)- Alla lettera: «far riposare la tua mano». Molti manoscritti hanno il plurale i''1.: «le tue mani», ma di per sé la variante non è de-

7,15--8,17 Una lezione sapienzia/e Si apre con il v. 15 una lunga lezione che Qohelet, con Io stile del maestro di sapienza, tiene fino a 8,17 e che introduce con un'osservazione desunta dali' esperienza («ho visto»), Gli argomenti trattati, di vario genere, sono almeno tre: il primo brano, passando attraverso il rapporto complesso tra giustizia e ingiustizia, ha per oggetto la sapienza (7, 15-24 ); il secondo è dedicato alla questione femminile (7,25-29); il terzo (8, 1-17) è interessato al problema della conoscenza e a tale scopo presenta due scene (un ritratto della vita di corte e un funerale dei malvagi, 8,1-9.1 0-14) e un'osservazione conclusiva (8,15-17). La sapienza è irraggiungibile (7,15-24). Sulla scia dei precedenti vv. 13-14, il discorso continua attribuendo a Dio la contraddittorietà e la complessità della vita. Secondo la tradizionale dottrina biblica della retribuzione, Dio premia il giusto e punisce il malvagio. In questi versetti, invece, Qohelet dice che Dio distribuisce la vita e la morte indistintamente al giusto e all'empio e che la fedeltà alla Legge, che tradizionalmente determinava chi fosse giusto, non garantisce alcun successo nella vita. Qohelet, dunque, invita ancora una volta a cambiare il punto di osservazione: nel v. 15, evitando ogni astrattismo, viene presentata la realtà dell'ingiustizia nel mondo. Questa è anche un'esperienza di vita della quale bisogna prendere atto. A partire dalla

117

QOHELET 7,18

Tutto ho visto l nei miei giorni fugaci: il giusto distrutto nonostante la sua giustizia l e il malvagio fiorente nonostante la sua malvagità. 16Non essere troppo giusto, l e non diventare sapiente oltre misura: perché vuoi rovinarti? 17Non essere troppo cattivo l e non essere stolto: perché vuoi morire nel tempo sbagliato? 18È bene che tu afferri questo l ma senza staccarti dall'altro, poiché chi teme Dio eviterà tutte queste cose. 15

terminante poiché l'espressione ha valore metaforico. Eviterà tutte queste cose (o7~-n~ N):')- Alla lettera: «uscirà da tutto» oppure «eviterà tutto». Il verbo M~' costruito con la preposizione Ì~ («da») oppure con l'accusativo (come nel nostro caso, cfr. n~). significa «sfuggire», «evitare». Il verbo M~' ha, però, anche il significato di «compiere», «eseguire», nel senso di uscire libero da un obbligo, avendolo soddisfatto; per tale motivo

alcuni traducono con il verbo «riuscire». È il caso della versione CEI del 2008 che, sulla scia della precedente, propone nel testo un'esplicitazione del significato de li' espressione e traduce: «riesce bene in tutto». Altri traduttori, in linea con il significato da noi preferito, intendendo che chi teme Dio è capace di evitare tutto, interpretano: «è pronto a tutto». Per noi è significativo lasciare il riferimento al contenuto dei consigli dati nei versi precedenti.

constatazione della sconfitta dei principi della giustizia e della sapienza nell'esistenza concreta, Qohelet, con sottile ironia, prende a discutere sulla pratica, di matrice greca (cfr. Aristotele, Etica 2,6,7; Platone, Fedone 113; Protagora 346), del «giusto mezzo» (mésos échein) o della moderazione (vv. 16-17): dato che è impossibile essere perfetti, non vale la pena di sforzarsi per questo, né d'altra parte conviene essere eccessivamente malvagi. Questo modo di orientarsi nella vita, sintetizzato nel v. 18a, è stato definito «elastico», nel senso che consiglierebbe di non fare scelte unilaterali e troppo radicali perché potrebbero nascondere sorprendenti risvolti negativi. Tuttavia, di fronte a tutto ciò la proposta più determinata di Qohelet è quella di «temere Dio» (v. 18b) che, seguendo il significato da noi dato al verbo yasa ', consente di evitare le cose negative e che, volendo valorizzare un'altra traduzione (cfr. nota al v. 18), garantisce la riuscita di ogni scelta o azione. In tale contesto, comunque, il tema del timore di Dio si presta a essere inteso come accoglimento della volontà divina (cfr. 7, 13-14) e come consapevolezza dei limiti della conoscenza umana. Va detto che l'autenticità qoheletiana del v. 18b è stata messa in dubbio da alcuni commentatori che lo hanno considerato come glossa interpolata da una mano pia. In realtà questo versetto, che è in linea con il pensiero di Qohelet, costituisce il punto di appoggio di tutto il discorso che si sta facendo e la risposta dell'autore alla domanda centrale del libro su cosa sia il bene dell'uomo.

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QOHELET 7,19

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:u~~'?~ ''t. Pft~ l Pf?~1 7,19 La sapienza dà forza al saggio (:'!~!?r;t::t c~r;t~ ~:UN- La lettura del greco (~ oocp(a rx>T)9Tion tQ oocpQ, «la sapienza presterà aiuto al saggio»), suffragata da alcuni manoscritti ebraici e da 4QEcclesiaste' (4QQoh' o 4QI09) che trasfonna Tlln («è fona») in i~:ln («aiuta»), risponde ali 'intento di salvaguardare il valore della sapienza la quale sostiene il saggio più di quanto possano fare dieci governatori. 7,20 E non sbagli (M~Q; M"1)- La versione CE! del 2008 sostituisce, secondo noi giustamente, il verbo «pecchi» usato nel 1974 con «sbagli» (cfr. nota a 2,26 ).

7,21 Le parole che si dicofl() (~i;l"T,i~ C~) - I codici Vaticano (B) e Sinaitico (M) della versione della Settanta prolungano con &oeJ3Etç, «gli empi»: «tutte le parole che dicono gli empi». Non dare retta (1~~ 11'\1'1""~)- Alla lettera: «non dare il tuo cuore», nel senso di «non porre mente», «non dare retta». 7,22 In cuor tuo sai (1~~ :11~)- Alla lettera: «sa il tuo cuore»; in tal caso ha senso lasciare la parola «cuore», perché in italiano «in cuor tuo sai» è espressione idiomatica che richiama la coscienza e la consapevolezza. Anche tu (:'1~~-c~)- Seguendo il qerè.

Nel v. 19 Qohelet enuncia un principio sulla sapienza che dà forza al sapiente richiamando, nel v. 19b, l'idea (presente in Pr 24,5-6; 21 ,22) che la sua funzione è importante per la difesa della città: la sapienza, infatti, dà più forza al sapiente di quella di dieci capi in una città. Con un ki («poiché»), che vuole essere un richiamo di alcuni testi tradizionali (cfr. l Re 8,46; Sal 143,2; Pr 20,9; Sir 19, 16b) più che indicare un nesso causale con ciò che precede immediatamente, viene aggiunto nel v. 20 un commento con finalità istruttiva, mentre vengono tematicamente riprese le affermazioni dei precedenti vv. 16-18: l 'uomo è strutturalmente limitato, perciò sbaglia. L'autore, poi, passando da una forma proverbiale in terza persona a una esortativa in seconda persona, ai vv. 21-22 dà un orientamento, poiché ognuno in coscienza sa di non essere stato sempre giusto o saggio.

119

QOHELET 7,24

La sapienza dà forza al saggio l più di dieci governatori che sono nella città. 20 Poiché non c'è un uomo giusto sulla terra l che faccia bene e non sbagli. 21 E ancora: a tutte le parole che si dicono l non dare retta così non sentirai il tuo servo dir male di te; 22 infatti in cuor tuo sai l che molte volte anche tu l hai detto male degli altri. 23 Tutto questo ho esaminato con sapienza. Ho detto: «Voglio (acquistare) la sapienza», l ma essa è lontana dame. 24 Ciò che è accaduto rimane lontano l e molto profondo: chi lo troverà? 19

7,23 Ho detto: «Voglio (acquistare) la sapienza» (il~:jlfi~ '1'1"WI:t)- Alla lettera: «Ho detto: "Che io sia sapiente"!». Nella traduzione aggiungiamo il verbo «acquistare» solo per rendere esplicito il riferimento alla sapienza che, nell'ultima parte del v. 23, è espresso da M'::t1 («ed essa»). 7,24 Ciò che è accaduto ... chi lo troverà? - Testo Masoretico e Settanta differiscono: l'ebraico usa la frase po~1 i'l~;;t~ti'l~ pinl ~l~~~· ·~ po~ (alla lettera: : come si concilia l'uso della sapienza con la sua irraggiungibilità? Certamente l'autore sta pensando a due modi diversi di intendere la sapienza: quella pratica e quella teoretica; la prima coincide con uno sguardo critico sulla realtà e con un modo di agire giusto (cfr. vv. 19-20); la seconda. quella che Qohelet vorrebbe acquistare, ha come oggetto la comprensione dei misteri del mondo, della realtà e dell'esistenza. ma supera i confini delle umane possibilità.

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QOHELET 7,25

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7,25 Mi sono dedicato (':;1~1 'J~ 'z:'IÌ:ill;l)Alla lettera: «Mi sono voltato io e il mio cuore». Con molti manoscritti ebraici, con il Targum, con Simmaco e con la stessa Vulgata, ':il~, andrebbe corretto, per uno scambio di consonante, con ':;l~~; in tal caso sarebbe alla lettera: «Mi sono voltato io nel mio cuore». Comunque, non varierebbe il senso deli' espressione. Il senso delle cose - Il termine 1i:lll!il) è un vocabolo aramaizzante che, nella sua accezione concreta, significa «contm>, «bilancio», «computo», «calcolm>, «conclusione», «risultato finale», «schema»; in senso teorico indica «il perché», «la ragione)), «il senso»

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e anche «la logica)), «lo schema». La stessa parola si incontrerà al v. 27 e in 9, IO. Follia (nì'='~i:'!) - Molti manoscritti della Settanta premettono la congiunzione «e»: KllL 1TEpLcpopav. 7,26 E ho scoperto ('J~ M~iO~)- A nostro parere, è preferibile la traduzione «ho scopertO» anziché «trovo che si dice», come sostenuto da alcuni. Con questa resa più sfumata si vorrebbe affermare che Qohelet sia latore di una opinione misogina, senza dubbio diffusa nel suo ambiente, ma non condivisa da lui. A nostro avviso, questa premura non rende ragione de li' esperienza personale vissuta e riferita dallo stesso Qohelet (cfr., p.

La questione femminile (7,25-29). L'applicazione di Qohelet a conoscere, indagare e cercare la sapienza e la ragione delle cose (besb6n), lo ha condotto alla scoperta che c'è una tragedia più grave della morte, ed è la donna (cfr. Pr 5,3-5 e 7,5-27) per il suo potere seduttivo. In quest'unità Qohelet, riecheggiando una visione maschilista e patriarcale, presente anche nei poeti greci come Semonide o Euripide, esprime un giudizio fortemente negativo del sesso femminile con l'immagine della trappola: la donna ammalia, adesca e irretisce (cfr. Pr 9,13-18). Qohelet arriva a definire la donna come la realtà più ardua e incomprensibile (v. 28). Di fronte alla crudezza della misoginia c'è chi ha voluto interpretare questa requisitoria come un pensiero altrui, che magari era di pubblico dominio, raccolto e riferito da Qohelet, ma non necessariamente condiviso. L'appiglio a questa interpretazione sarebbe dato dal verbo usato nel v. 26 «ho scoperto» che, secondo questa linea interpretativa tesa a scagionare il nostro sapiente dall'accusa di m iso-

QOHELET 7,28

121

Mi sono dedicato a conoscere e a investigare, l a ricercare sapienza e il senso delle cose, a capire che il malvagio è uno stolto l e la stoltezza è una follia. 26 E ho scoperto l che più amara della morte è la donna: essa è (tutta) lacci: una rete il suo cuore l e le sue mani catene. Chi è caro a Dio l la sfugge, l mentre chi sbaglia sarà suo prigioniero. 27 Vedi, ho scoperto questo, l dice Qohelet, vagliando a una a una le cose l per trovarne il senso. 28 Ciò che ancora io stesso cerco l e non ho trovato è questo: un uomo tra mille l'ho trovato ma una donna tra tutte non l 'ho trovata. 25

es., 2,3.8-10), né del pronome personale "l~ («io») che rafforza il participio qal di ttlO. Chi sbaglia (M~in1) - Ritorna il verbo Mton che, in questo caso, potrebbe anche essere inteso nel significato di «deviare», «sbagliare la strada», «imboccare la strada errata», in tal modo collegando l'immagine al testo di Pr 9,15: donna Stoltezza adesca coloro che vanno diritti per la loro strada, invitandoli a deviare e attirandoli, cosi, in una trappola mortale (cfr. Pr 9, 13-18). Sarà suo prigioniero (:1~ ,~7•) Il verbo si può tradurre con «conquistare» o «catturare». L'essere catturato (prigioniero), è più espressivo dell'essere conquistato,

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perché risponde meglio al contesto in cui si parla di lacci, reti e catene. 7,27 Dice Qohelet (n~ryp illf?l;t) - Il testo consonantico presenta una forma femminile del verbo ,OM («dire»). Ciò si può spiegare considerando che il nome Qohelet, come è già stato detto in 1,2, è morfologicamente un femminile; in tal modo non c'è necessità di spostare, come fa la maggioranza degli autori, la :'1 per legarla con la parola successiva (n~rypiJ, vale a dire articolo più nome di Qohelet): Qohelet è nome proprio, senza articolo. 7,28 lo stesso ("~F;lH - Si tratta dell'uso di ~!?..~ con suffisso pronominale che fa le veci del pronome personale (cfr. anche 4,8).

gioia, avrebbe come significato «ho trovato che si dice ... ». Secondo noi Qohelet, in linea con quanto dichiarato nel v. 25a, dice di aver fatto un'esperienza personale (cfr. prima nota al v. 26) e non di riferire il parere di altri, su ciò che è stata per lui un'ennesima delusione, intesa come un errore, dice il v. 26f, che si paga caro. Ci sono, tuttavia, altri tentativi di alleggerimento della posizione di Qohelet, da noi non condivisi per i motivi appena detti. Secondo un'interpretazione del testo, l'autore parlerebbe non tanto della donna in sé, quanto del! 'amore, della passione che lega l'uomo sino a fame uno schiavo (Sacchi); secondo un'altra, la riflessione sulla donna sarebbe introdotta in modo strumentale, per illustrare il tema più generale della sapienza e della stoltezza (D' Alario). Sta di fatto che Qohelet, risentendo forse di una certa avversità alla donna nota nella società giudaica dell'epoca (cfr. Sir 25,18-33), nel v. 28 ribadisce che tra mille uomini uno lo ha trovato (degno di tal nome, o saggio, o retto?), ma tra tutte le donne una non l'ha trovata. La

122

QOHELET 7,29

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7,29 Lineare (i~~)- Alla base della radice i~' c'è il significato di «essere diritto», «essere piano», «essere retto». Per indicare la sintesi delle parole «retto e semplice», usate comunemente dai traduttori, noi abbiamo voluto scegliere il termine «lineare» per tradurre l'aggettivo. Ma esso - Il pronome di terza persona maschile plurale :"'l?:::t: è riferito a C"!l;t:;t («l'uomm>, «l'umanità») considerato, come spesso accade per l'idea di molteplicità contenuta nella parola, come un collettivo o un plurale («gli uomini»). Complicazioni - Il termine ni)=:!$1! significa «espedienti, sotterfugi, questioni»; la

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nostra traduzione tiene conto della contrapposizione alla «linearità» detta nella frase precedente. 8,1 Chi è come il sapiente? (c:tr:-':J':? '~)- Rispetto al Testo Masoretico da noi seguito, la versione greca della Settanta legge: ·t(ç ol&v ooouc;, «chi conosce i sapienti?».

E chi conosce la spiegazione delle cose? La sapienza ... (n~:;:r:- i~"! i~ll .ll1i' '~~)-La Traduction Oecuménique de la Bible traduce nel modo seguente: «Sa interpretare questa parola: "La sapienza dell'uomo ... "». In tal caso il v. 2 offrirebbe l'interpretazione del v. l. La nostra scelta prepara la conclusione che si trova nel v. 2, nel quale l'autore con-

difficoltà interpretativa del v. 28 rimane nel punto di domanda. Tuttavia, il v. 29 chiude il paragrafo con un riferimento alla sola scoperta di Qohelet in merito alla questione: si tratta della linearità dell'opera divina alla quale, purtroppo, si contrappongono le complicazioni che l'uomo cerca. Torna qui velatamente il tema della responsabilità umana anticipato nella chiusa del v. 26. l/ problema della conoscenza (8,1-17). L'argomento di questa unità è il problema della conoscenza. Si rilevano, in questi versi, precisi elementi di strutturazione: nei vv. l e 17 compaiono il termine «sapiente» e il verbo «conoscere»; inoltre la forma interrogativa dà il tono del contenuto dell'intera unità. Alla domanda posta in 6,12 («Chi dirà all'uomo ciò che avverrà dopo di lui sotto il sole?») continua a rispondere, come già segnalato, il capitolo 8, a partire da 8,1, con la transizione tra la pericope precedente e quella presente; in 8, 17b, alle questioni poste da Qohelet nella sua continua e ineludibile attività di ricerca seguirà, ancora una volta, una risposta negativa. La pericope ha una triplice ripartizione interna: vv. 1-9; vv. 10-14; vv. 15-17. Un ritratto della vita di corte (8,1-9). La sezione è dedicata al saggio e alla saggezza considerati soprattutto in relazione con il potere e con gli assetti pubblici

123

QOHELET8,2

Vedi, solo questo ho scoperto: che Dio ha fatto l 'uomo lineare, ma esso cerca molte complicazioni. 1Chi è come il sapiente? l E chi conosce la spiegazione delle cose? La sapienza dell'uomo illumina il suo volto l e ne addolcisce l'aspetto. 2 Io (dico): Obbedisci alla parola del re l a motivo del giuramento fatto a Dio. 29

8

siglia di obbedire a motivo del giuramento che porta ad avere un'espressione serena (addolcita) del volto. La spiegazione- Il sostantivo,~ è un aramaismo che significa «interpretazione», «significato», «spiegazione», «soluzione». Il significato di base della radice semitica è quello di «sciogliere». Nella fase matura dello sviluppo semantico la parola è divenuta un termine tecnico nella prassi interpretativa della Scrittura. 8,2 lo (dico) ('J~)- Anziché eliminare il pronome, come fanno alcuni che lo considerano come una dittografia della finale del v. l (come attesta la Settanta e la versione siriaca), supponiamo che sia da sottintendere

il verbo «dire» (cfr. 2, l; 3,17 .18). In tal caso il pronome, cosi come si trova, è l'equivalente dell'assertivo «io (dichiaro)» (cfr. Os 12,9 e Ger 50, 7). Va notato, tuttavia, che si tratta di un uso particolare per lo stesso Qohelet nel quale si trova diverse volte solo il verbo senza il pronome (cfr. 2,2; 6,3; 7,23; 8,14). Obbedisci alla parola del re (,i~~ 1~1?-'~) -Alla lettera: «la bocca del re osserva», cioè osserva i suoi comandi. A motivo - In questo caso concreto ci sono due possibilità di intendere M1~"1 ".p: o in senso causale o in senso modale («allo stesso modo in cui», «conformemente a>>). Noi pensiamo che l'espressione abbia valore causale.

e comunitari, qui rappresentati dal re, ma che richiamano, di fatto, una struttura del mondo. L'ambientazione della scena all'interno del palazzo regale fa pensare al saggio che è a servizio del trono, forse come consigliere. Ancora sotto forma di domanda viene indicato ciò che ci si attende dal saggio, che cosa sa fare. Il sapiente è colui che conosce la spiegazione (peser) delle cose. La prima risposta alle domande è sugli effetti visibili che produce la sapienza. L'immagine usata nel v. l b è presente anche in Sir 13,26 e 19,29: la sapienza fa bello il volto del saggio. Nei vv. 2-5 c'è la ripresa di alcuni consigli noti, che sono come un patrimonio comune, ma Qohelet li commenta nei vv. 6-9. Il suggerimento del v. 2 di obbedire al re per il giuramento fatto a Dio ha convinto alcuni commentatori a vedere nel re Dio stesso (ci sono espressioni simili sulla provenienza della sovranità del re in Sap 6,3) cogliendo nel testo un'ambiguità, da ritenersi probabilmente voluta dallo stesso autore. In tal caso, questa prima parte della pericope realizzerebbe una contrapposizione tra la prerogativa del re-Dio di compiere ogni suo volere senza la benché minima possibilità per chiunque di interferire nel suo operato, nemmeno con una domanda, e l'impotenza dell'uomo di disporre della sua sorte davanti a Dio. Secondo questa interpretazione, per noi da preferire, il potere regale farebbe

124

QOHELET8,3

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8,3 Non aver fretta ("::'1~1'1-"~)- Segnaliamo che c'è chi propone di tradurre il verbo "::'!~ non come «affrettarsi» ma come «essere atterrito», «spaventarsi», come in Gen 45,3 e Gb 23, 15. La versione sarebbe: «Non ti spaventare di andare al suo cospetto». A nostro parere è preferibile tradurre il verbo con «affrettarsi» visto che Io stesso significato, legato probabilmente a una fase tardiva della lingua ebraica, è presente in 5,1 e 7,9. Ad allontanarti (1~Ml- Alla lettera sarebbe «andrai»: è un imperfetto qal. La grammatica fa notare che si tratta di una costruzione rara in cui un verbo di modo finito sta per un infinito che funge da complemento. Non cacciarti nelpericolo (.!Il ,~1~ ~~)

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- Alla lettera: «non stare fermo in una cosa malvagia>>. Il senso rimanda a un cattivo affare, una situazione pericolosa (cfr. anche v. 5). 8,4 Infatti - Alcuni manoscritti al posto di ,W~~ («in quanto che», «infatti») hanno ,W~~ («come», «perché»). Col consenso della grammatica, pensiamo che possa restare ,~~ con funzione simile a quella di ·~ «perché», «infatti». La parola del re è sovrana (1ìto7l!i 171?-,;~·p -Alla lettera: «la parola del re è dominatrice». Il sostantivo lìto7~ è qui usato come predicato nominale al posto dell'aggettivo co·~~. Facciamo notare che la Settanta traduce À!XÀEi ~!XOLÀEÙç È~ouaui(wv, «il re parla (esprimendosi) con autorità»,

sentire all'uomo la sua incapacità e il suo limite di fronte a chi è più grande e potente di lui: il re compie ciò che vuole (v. 3),1a sua parola è sovrana e nessuno può chiedergliene conto (cfr. al v. 4b la domanda «che cosa fai?» riferita a Dio in Gb 9,12; e si vedano pure Gb 23,13; Is 45,9). Bisogna perciò essere prudenti di fronte al re, usando l'adulazione più che la contrapposizione, un atteggiamento servile più che la lealtà. In ogni caso, ricorda il v. 5, chi si attiene agli ordini non passa guai perché il sapiente conosce il tempo opportuno e il modo migliore per agire. Nei vv. 6-9, commentando i versetti precedenti, vengono ripresi per cenni

125

QOHELET 8,7

Non aver fretta ad allontanarti dalla sua presenza l e non cacciarti nel pericolo, perché egli compie tutto ciò che vuole. 4 lnfatti la parola del re è sovrana e chi può dirgli: «Che cosa fai?». 5Chi osserva il comando l non incorre nel pericolo; e la mente del sapiente l conosce il tempo e il giudizio. 6lnfatti per ogni avvenimento l vi è un tempo e un giudizio; perché la sventura dell'uomo (grava) molto su di lui; 7egli non sa, infatti, l quello che accadrà; poiché chi glielo racconterà l quando avverrà? 3

trasfonnando Ji:O~t!i nel participio presente del verbo f~ououx(w con funzione predicativa. Il significato, tuttavia, rimane lo stesso. 8,5 Non incorre nel pericolo (V'l ,=1'1 :rr M") - Alla lettera: «non conosce una cosa cattiva)). La mente del sapiente (C~J;! :l~) -Alla lettera sarebbe «il cuore del sapiente». Si tratta di un'espressione ebraica, peraltro già incontrata, che rimanda al cuore quale luogo della riflessione dell'uomo e delle sue scelte, dunque «la mente del sapiente» (cfr. 10,2). Il tempo e il giudizio (~~~o~ n.v:> - La Settanta, sulla base di alcuni manoscritti ebraici antichi nei quali non compare la seconda congiunzione . legge la

locuzione come catena costrutta (Kal KCXLpÒv KpLofwc;, «e tempo di giudizim> ). Tuttavia, nel verso successivo viene ripetuta la frase che presenta la congiunzione tra i due termini (~~~~~ n.l1) e che la Settanta traduce KCXLpòç Kal KpLOLç («tempo e giudizio»). Per tale ragione può essere mantenuta la fanna del Testo Masoretico. 8,6 La sventura dell'uomo (C1~~ n~l)- La versione greca dei Settanta, modificando il significato del versetto, legge n-!:71 (yvw 1WN nl) "o"

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8,8 L 'uomo non è padrone del soffio vitale (r'!~,~ ~·lo,~ e:!"!!$ l'tt) - Il tennine r'!~, è tradotto da alcuni nel senso più concreto di «vento», sicché l'uomo non avrebbe potere sul vento tanto da dominarlo. Tuttavia, il successivo riferimento al giorno della morte, orienta l'interpretazione dir'!~, come «alito di vita», «soffio vitale». Tanto da trattener/o (r'!~,:;t·n~ Mi'=':;:~)- Secondo alcuni commentatori sarebbe un'aggiunta. Ma può essere considerata come un'espressione che rafforza l'immagine presentata nella prima parte del verso. 8,9 Ho interiormente riflettuto (':;~'='·n~ 1irq1) - La locuzione è ricorrente in Qohelet; alla lettera si traduce: «ho dato il mio cuore». Il significato è quello di «porre mente», «fissare l'attenzione)), «riflettere)), espressione che in questo contesto abbiamo voluto enfatizzare esplicitando ':;1~-n~ con l'avverbio «interionnente)), variando così la

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traduzione rispetto a l, 13 (cfr. nota) che avevamo reso con «ho dedicato tutto me stessm). Facendogli del male (i'=' l1'1'f) -Alla lettera sarebbe: «per male a luh). In ebraico l'espressione è ambigua: si può intendere «per far male a se stessO)) (alcuni traduttori rendono «a proprio dannm) ), oppure per arrecare male a chi è sottomesso (cfr. 8,6). Il significato che noi abbiamo dato all'espressione è suggerito anche dalla Settanta che ha: K!XKwmn airtov («per far male a luh) ). In ogni caso, riteniamo che il tennine «male)) sia da intendere come «sventura)), «disgrazia>): l'espressione potrebbe essere tradotta con «per sua disgrazia>), come è stato fatto da alcuni. 8,10 Il testo del v. l O è incerto e la traduzione è solo approssimativa. Il significato è legato alla constatazione che alcuni malvagi, frequentatori del luogo santo (forse il tempio?), avevano ricevuto la sepoltura pur

l'uomo non è padrone del soffio vitale e non è in grado di trattenerlo (v. 8); non ha potere sul giorno della morte. Questi sono i limiti della natura umana. Inoltre, quando uno si trova in guerra, e la lotta per la vita contro la morte è un agone, non si può congedare: non c'è azione che possa liberarlo o salvarlo, nemmeno quella trasgressiva. Il v. 9 chiude questa prima riflessione su ciò che Qohelet ha visto sotto il sole, tornando ai vv. 1-5 con il riferimento ali 'uomo che domina su un altro uomo, facendogli del male. A partire dal v. l O egli addurrà alle sue osservazioni e ai suoi ragionamenti degli esempi concreti.

127

QOHELET 8, l O

L'uomo non è padrone del soffio vitale l tanto da trattenerlo, né è padrone del giorno della morte: l non c'è congedo nella battaglia, né la malvagità salverà chi la commette. 9Tutto questo ho visto l e ho interiormente riflettuto su tutte le opere l che si compiono sotto il sole, nel tempo in cui l'uomo domina su un altro uomo facendogli del male. 10 lnoltre ho visto dei malvagi essere sepolti; costoro entravano e uscivano dal luogo santo, l ma nella città venivano dimenticati coloro che così avevano agito. Anche questo è soffio.

8

avendo tenuto, in vita, una cattiva condotta. A questa meraviglia se ne aggiunge un'altra: una volta morti e onorati, la città non ricorda più il loro modo di agire. C'è un'altra interpretazione, che è quella della versione CE! del 2008, ove si legge: «Frattanto ho visto malvagi condotti alla sepoltura; ritornando dal luogo santo, in città ci si dimentica del loro modo di agire»; qui il ~;,i? cip~ («luogo santo») è il cimitero. La versione del 1974, invece, rende la frase cosi: «Frattanto ho visto empi venir condotti alla sepoltura; invece, partirsene dal luogo santo ed essere dimenticati nella città coloro che avevano operato rettamente»; questa traduzione è da considerare come molto influenzata dalle varianti presenti in alcuni manoscritti ebraici e in alcune versioni antiche. Venivano dimenticati (~I"Tfl;\~'1)- Qui viene mantenuto lo stesso significato che il verbo l'T!:~ ha in 2,16 (e, in seguito, in 9,5), ossia

«dimenticare)) senza correggere, come fanno vari manoscritti ebraici seguiti dalla Settanta, la consonante :: con la ::1 (~I"T=\)1;1~'1- «e sono celebrati»). La ricostruzione critica del verso è problematica: per tale motivo vengono proposte delle correzioni che non sempre contribuiscono a chiarire il senso, di per sé complicato, del testo. In aggiunta, va fatto notare che, in alcuni commenti, s'interpreta il verbo «dimenticare)), col significato di «abbandonare», come se si trattasse di una dimenticanza dei cadaveri lasciati insepolti in mezzo alle vie, quindi abbandonati per strada. È impensabile un abbandono dei cadaveri in città, in primo luogo perché questo atto è considerato una grave ignominia; in secondo luogo, perché il senso giusto pare non sia proprio questo, ma quello dell'onore tributato ai malvagi nella sepoltura e, ancor più, quello del paradossale oblio delle loro opere.

Il funerale dei malvagi (8, l 0-14 ). Questi versetti riflettono sul problema della malvagità. Qohelet comunica un'esperienza diretta: dice di aver assistito alla sepoltura con tutti gli onori di persone malvagie e di aver visto cadere nel silenzio e nell'oblio coloro che avevano operato rettamente. Tale esempio concreto, che richiama la protesta di Giobbe (21 ,32-33), spinge il ragionamento fino alla critica del principio della retribuzione, che, infatti, sembra essere palesemente smentito dai fatti. Questo è soffio, dice Qohelet con il suo consueto intercalare. Però, spingendo in avanti la riflessione si arriva a una conclusione, che vorrebbe

128

QOHELET 8, Il

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8,11 Il cuore degli uomini (Cll;tiT'J~ :l~) -Alla lettera: «il cuore dei figli de II 'uomo». È stato già detto (cfr., per es., nota a l, 13) che in ebraico il termine «cuore», per il fatto di non indicare solo il muscolo

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cardiaco, può essere reso, in traduzione, in diversi modi. Nel contesto di questo versetto, tuttavia, preferiamo mantenere la parola «cuore» del testo ebraico per rendere più espressiva, in tal modo, l'immagine del

avere anche la caratteristica della spiegazione, secondo la quale il cuore umano fa il male per colpa della giustizia, intesa come strumento pubblico e politico: le sentenze sono tarde a venire e, molto spesso, le azioni malvagie rimangono impunite. Ma la constatazione è ancora più amara: non solo si agisce male perché c'è la certezza dell'impunità, quanto piuttosto si vede che chi fa il male sembra addirittura ricompensato con una lunga vita (v. 12a). Sulla base di questa constatazione si potrebbe concludere che alle carenze di una condanna umana si aggiunge anche ciò che appare come una lacuna della sanzione divina. A fronte di tutto ciò, nella seconda parte del v. 12 c'è un sobbalzo dell'autore, tanto repentino e in apparenza contraddittorio da aver fatto pensare a questa parte del versetto come a un 'aggiunta posteriore: Qohelet afferma, in modo perentorio, in linea con altri suoi interventi, di sapere che per coloro che temono Dio ci sarà felicità, per il fatto che nutrono timore davanti a lui. Anzi, suggerisce il parallelismo antitetico tra 12b e 13b, il malvagio che non ha timore di fronte a Dio, non sarà felice e non avrà una lunga vita. Tra la constatazione oggettiva

129

QOHELET 8,14

non viene pronunciata immediatamente una sentenza l contro una cattiva azione, il cuore degli uomini si riempie l di voglia di fare il male; 12e per di più il trasgressore, anche se fa il male cento volte, l ha lunga vita. Tuttavia io so l che ci sarà felicità per coloro che temono Dio, proprio perché nutrono timore davanti a lui; 13e che non ci sarà felicità per il malvagio l e non saranno prolungati i suoi giorni come l'ombra, poiché egli non nutre timore l di fronte a Dio. 14 C'è altra nebbia che appare sulla terra: vi sono giusti l ai quali tocca la sorte meritata dai malvagi con il loro operato, e vi sono malvagi l ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con il loro operato. Io dico che anche questo è soffio. 11 Siccome

cuore degli uomini che si riempie della voglia di fare il male. 8,13 Non nutre timore di fronte a Dio (C'i1"1$. 'Jfil~~ aq~ ~lrl't ,W~) - Traduciamo la locuzione M,~ ~l~'l't (alla lettera:

«non è temente») con l'espressione «non nutre timore»: in questo modo si può mantenere l 'ebraico ·~'?~~ (alla lettera: «davanti al volto di») traducendo «di fronte aDio».

dei fatti e il sobbalzo di fede qoheletiano c'è un'inedita immagine di Dio e, al tempo stesso, la consapevolezza dell'incapacità dell'uomo di capire a fondo la complessità della realtà. Tutto questo rimane vero anche quando il problema si ripresenta, nel v. 14, sotto una veste che mostra, ancora una volta, un'eccezione alla dottrina tradizionale della retribuzione. A tale proposito giova evidenziare che la riflessione si apre e si chiude con il termine hebel. In questo contesto, abbiamo reso tale motto caratteristico, nel primo caso, con «nebbia», per indicare lo sconforto che si prova quando, sulla terra, è difficile orientarsi perché impossibilitati a guardare lontano; nel secondo, con «soffio», per dare l'idea de li' inconsistenza. Qohelet inizia con il dire che c'è ancora altra nebbia che avvolge la terra, riproponendo, dunque, una sua tipica osservazione esperienziale: si scorgono giusti che subiscono la sorte meritata dai malvagi e viceversa (cfr. 7, 15); tutto questo è un'anomalia della vita. Pure in tal caso interviene l'autore e afferma che questo è soffio che svanisce. Che fare?

130

QOHELET 8,15

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8,16 Quando (1~)- Due manoscritti variano in ,~ e la Settanta ha €v o'iç; tuttavia pensiamo che fimzioni bene la congiunzione 1~. Mi sono votato ('::!"·n~ •nnJ)- Alla lettera: «ho dato il mio cuore», cfr. nota a l, 13 e 8,9. L 'obbligo gravoso (1~~~~-nt()- Alla lettera: «il tormento», «l'affanno», «l'incombenza>>. '

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Nel testo ebraico manca l'aggettivo «gravoso», qui inserito per esplicitare la durezza dell'obbligo, considerata la connotazione negativa del sostantivo 1~~ll (cfr. nota a l, 13; si vedano pure le ricorrenze in 2,23.26; 3,10; 4,8; 5,2.13 ). Poiché uno ... né di notte (:1~"1 ... c~ •:;) -

La vocazione de li 'uomo è dedicarsi alla conoscenza (8, 15-17). Qohelet propone, ancora una volta, non una risposta definitiva ali' arnara constatazione della finitudine della condizione lllllana e alle contraddizioni deli' esistenza, ma una realtà che «accompagna» (cfr. il verbo liiwiih) l'uomo tra le incombenze gravose della ricerca e della fatica (v. 15) che si svolgono nella vita: si tratta della gioia che qui viene esaltata nello stesso modo in cui s'introduce un encomio. Il testo, tuttavia, sembra suggerire che questa gioia non debba essere intesa come un intervallo rigeneratore o come una sosta corroborante, ma come un atteggiamento costante che pervade tutti i giorni che Dio regala ali 'uomo sotto il sole. I vv. 16-17, riprendendo il problema della sapienza, si presentano come la conclusione della riflessione iniziata in 7, l sull'incapacità dell'uomo di capire le ragioni di ciò che accade sotto il sole. Il v. 16 torna ad affermare che la vocazione dell'uomo è quella di dedicarsi alla conoscenza, all'analisi, alla riflessione (cfr. l, 13.17) e che la sua principale occupazione «gravosa» (cfr. 3, l 0), per la quale non chiude occhio, è quella di scoprire il progetto di Dio e di penetrare nel mistero della realtà. Tuttavia, l'esito è che l'uomo deve ammettere di non poter comprendere tutto dell'opera di Dio (cfr. 3,11). Deve riconoscere, da una parte, l'incomprensibilità del mistero; dall'altra, la sua impotenza a spiegare il lato nascosto degli avvenimenti dei quali è protagonista. Questo risultato ridimensiona l'ambizione umana. L'ultima parte del v. 17 lascia intendere che è una pura illusione per il sapiente dire di conoscere profondamente e adeguatamente la realtà: egli può pure affermare di possederla,

131

QOHELET9,1

15 Allora

io esalto la gioia poiché non c'è altro bene per l'uomo sotto il sole che mangiare, bere e godere: questo lo accompagnerà nella sua fatica, nei giorni della sua vita che Dio gli concede sotto il sole. 16Quando mi sono votato a conoscere la sapienza e a considerare l'obbligo (gravoso) che si compie sulla terra- poiché (uno) non prende sonno né di giorno e né di notte- 17 allora ho osservato tutta l'opera di Dio: l'uomo non può scoprire ciò che viene fatto sotto il sole. Per quanto l'uomo si affatichi a ricercare, non lo scoprirà. E anche se il sapiente affermasse di conoscerlo, non potrebbe scoprirlo.

9

Poiché tutto questo ho considerato fra me l e questo è tutto ciò che ho sperimentato: 1

Alla lettera: «poiché di giorno e di notte sonno nei suoi occhi egli non vede» (per i possibili significati del verbo :1N, cfr. la nota a 9,9). Per alcuni la frase del v. 16b è stata anteposta al v. 17, per cui la locuzione c~ •::: deve essere tradotta con «anche se». Noi pensiamo che l'espressione possa resta-

re li dove si trova, rendendo c~ ':;l con «poiché» e anticipando il soggetto «l'uomo» che si trova nel v. 17, e nel v. 16b sottinteso nel suffisso di terza persona singolare in ,,~,ll~ («negli occhi di lui») e in ,lt~ («non egli»). 9,1 Ho considerato fra me (·:;~-':l~ 'J'l!j~)­ Alla lettera: «ho dato al mio cuore».

ma in cuor suo sa che scoprirla è impossibile. Dunque, non solo l'uomo, detto in genere, non conosce, ma nemmeno il sapiente può vantare questo privilegio: egli stesso deve ammettere che questo limite lo condivide con tutti gli altri uomini. 9,1-11,6 Riflessioni per la vita Questa sezione del libro si collegaallasecondadomanda posta in 6,12: «Chi dirà all'uomo ciò che awerrà dopo di lui sotto il sole?». Il tema è che l'uomo ignora il futuro. Ricorre, infatti, almeno quattro volte la dichiarazione deli'impossibilità di conoscerlo: in 9,12; l O, 14; 11,2; 11,6. È possibile individuare una quadrupla articolazione interna: in 9,1-12 si trova una riflessione sull'ignoranza del futuro da parte dell'uomo; in 9,13-18 c'è un racconto sapienziale con finalità istruttiva; in l O, 1-20 c'è una raccolta di provemi sulla forza e la fragilità della sapienza e sulle potenzialità e i limiti della parola; in 11,1-6l'autore fa un invito all'azione, suggerendo di accettare i rischi e gli imprevisti, ma al tempo stesso afferma di non illudersi perché la realtà rimane incomprensibile sia per il mistero insondabile della vita e dell'agire divino, sia per illùnite costitutivo della conoscenza umana. Tuttavia la pericope si chiude con una nota positiva che lascia il posto al ~a sulla vita umana (11,7-12,7). 9,1-12 L 'uomo ignora il futuro Considerato il fatto che in 9,13 inizia una nuova raccolta di proverbi, è possibile individuare in 9,1-12 un 'unità ben definita che ha un triplice movimento interno: 9,1-6; 9,7-10; 9,11-12.

132

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9,lb-2 L 'uomo ... davanti a lui tutto è soffio (Cv'l'?':l l;l:,ry ... il?~a:t·c~)- La prima parola del v. 2 (':l!:I;:T) è da correggere in ':l?~ come grafia errata, per un probabile scambio di consonante (la !l per la :l): ripetere ':l:,ry («il tutto») non aiuta la comprensione del testo. Il v. 2 deve iniziare con,~;: «poiché» (cfr. 8, 16a; Il ,5a). Il verso ha avuto diverse interpretazioni: p. es., la versione CE! del I 974, accogliendo l'emendazione, traduceva: «i giusti e i saggi e le loro azioni sono

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nelle mani di Dio. L'uomo non conosce né l'amore né l'odio; davanti a lui tutto è vanità>>; quella del2008, invece, non accoglie la proposta di correzione e traduce: «i giusti e i sapienti e le loro fatiche sono nelle mani di Dio, anche l'amore e l'odio; l'uomo non conosce nulla di ciò che gli sta di fronte». 9,2 • • - Seguiamo la proposta di alcuni commentatori che prevede di eliminare ::li:l~ che appare sospeso e scritto forse per dittagrafia del successivo ,;i1~~1 («per il puro>>).

l giusti e i sapienti sono nelle mani di Dio (9,1-6). Un'inclusione, costituita dalle parole «amore» e «odio» presenti nel v. l e nel v. 6, segnala l 'unità letteraria dei primi sei versetti del capitolo 9, confermata anche dall'unicità tematica. In 9, 7, poi, il discorso condotto fino al v. 6 in terza persona cambia: l'imperativo iniziale «Va'>> indica il passaggio alla seconda persona singolare. Qohelet, com'è solito fare, partendo dall'esperienza diretta e dalle osservazioni precedenti contenute in 8,16-17, presenta, nel v. 9b, una nuova considerazione: i giusti e i sapienti sono nelle mani di Dio, vale a dire sotto la sua protezione. Questa riflessione, che propone in filigrana il problema della retribuzione, rafforza l'idea che era stata espressa nei versetti immediatamente precedenti: l'uomo non conosce l'opera di Dio. Anche se i fatti mostrano che il giusto soffre e il malvagio prospera, in realtà Dio sa come trattare l'uno e l'altro. È un'affermazione in linea con quel sobbalzo di fede di 8,12b-13. E come avviene di solito, quando compaiono queste affermazioni, Qohelet introduce contemporaneamente il tema del limite del sapere: l'uomo non conosce l'amore, come non conosce l'odio;

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QOHELET9,3

che i giusti e i sapienti l con le loro opere sono nelle mani di Dio. L'uomo non conosce l l'amore né l'odio: davanti a lui tutto ·è soffio'. 2Poiché vi è una sorte unica per tutti, per il giusto e per l'empio, l., per il puro e per l'impuro, per chi offre sacrifici l e per chi non li offre; come pure per chi è buono e per chi sbaglia; l per chi giura come per chi teme di giurare. 3Questa è la sventura intutto ciò che accade sotto il sole: che la sorte sia unica per tutti, e, per di più, il cuore degli uomini è pieno di cattiveria: la stoltezza è in loro mentre sono in vita, e dopo se ne vanno fra i morti. Molte versioni, per analogia allo schema costante nel resto del verso, lo mantengono completandolo con «e per il cattivo)) (cfr. la Settanta: tQ àya9Q Kat tQ KIXKQ). Noi omettiamo «per il buono (e per il cattivo))) perché li riteniamo ripetitivi e, in aggiunta ai problemi di critica testuale già sollevati, li consideriamo come sinonimi generici rispetto agli aggettivi più dettagliati (giusto ed empio, puro e impuro) che si trovano nel versetto.

9,3 Questa è la sventura (11"! ~!.) -Alla lettera: «Questo è il male)). Il termine 111 è da intendere non come un male morale, ma come «guaio)), «sventura)), «disgrazia)) (cfr. anche 6,2), per significare una situazione che non risponde alle aspettative. Il cuore degli uomini (C"!~:;t-·~~ :l~ C~1) Cfr. nota a 8, Il. In loro (C~~~:;) -Alla lettera: «nel loro CUOre)).

ai suoi occhi tutto è soffio. Amore e odio sono due poli estremi all'interno dei quali si trova l'esistenza concreta dell'essere umano, fatta di relazioni, affetti e sentimenti contrastanti che egli deve accettare di vivere finché è in vita, anche se ignora il giorno della propria morte. Pure in questo caso c'è una certezza che viene dall'osservazione della realtà: a tutti tocca la stessa sorte (vv. 2 e 3) e per tutti accadono le cose allo stesso modo. Per sottolineare l'importanza di questa sua affermazione, Qohelet ribadisce drammaticamente, all'inizio del v. 3, che sul palcoscenico della terra (qui ritorna l'espressione «sotto il sole»), questa è la sventura: a tutti, indistintamente, tocca la stessa sorte. La morte non ha più, secondo quanto sosteneva la dottrina tradizionale, il senso di un giudizio o di un premio, ma viene vista come un evento ineluttabile e comune a tutti (anche alle bestie: cfr. 3,18-21 con relativo commento). Le categorie con cui l'uomo interpreta la realtà e la storia, cioè quelle della giustizia, della purità, della pietà, della bontà, dell'impegno sancito da un giuramento, vengono poste sullo stesso livello.

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QOHELET9,4

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(leggiamo 1:tl':f; col qerè). Speranza - Il temine lirTI;)~ si trova altrove solo in 2Re 18,19 col significato di «fiducia)) e in ls 36,4 («sicurezza»). Alcuni com-

mentatori lo intendono come la speranza dell'uomo, finché è in vita, di vedere andare bt;ne le cose. Il contesto immediato, costituito da una trama di rapporti umani (vv. 5-6) e dall'affermazione iniziale dell'autore che le opere dei giusti e dei sapienti sono nelle mani di Dio (v. l), orienta l'interpretazione

Tuttavia, la vita è preferibile alla morte. Nonostante in 4,2-3 avesse detto che la condizione migliore è quella di non essere nati, con la citazione di un proverbio popolare (v. 4) si schiera dalla parte della vita: il leone aveva una considerazione maggiore rispetto al cane; ma a che cosa sarebbe servito un leone morto? Meglio, allora, un cane vivo! Finché si è vivi c'è la possibilità di sperare. Il termine «speranza» (bil!ii/:16n, cfr. nota) non implica alcun riferimento ultraterreno: si tratta della fiducia che l'uomo ha, mentre è in vita, di vedere andare bene le cose oppure di sperimentare il dono della gioia. Certamente chi è vivo può fare qualcosa in più rispetto a chi è morto. Ma non solo per questo è preferibile la vita rispetto alla morte. Finché si è vivi c'è anche la possibilità di conoscere e di essere ricordati: l'oblio, infatti, è la fine di tutto. Qohelet, quindi, al v. 5, con amara ironia, indica la differenza tra i vivi, che sanno di dover morire, e i morti, che non ne hanno più consapevolezza (cfr. 4,2: a motivo dell'oppressione i morti erano stati giudicati più fortunati dei vivi). Qual è l'oggetto di questa conoscenza? Con il v. 5 si può dire che tale oggetto sia la certezza della morte: «i vivi sanno di dovere morire, ma i morti non sanno niente». Tuttavia, ed ecco l'affondo ironico, i morti stanno già sperimentando su loro stessi la morte e intanto il loro ricordo è già svanito (cfr. anche 1,11; 2,16). L'idea che Qohelet ha della morte è l'esatto contrario della vita: ai morti manca

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QOHELET9,8

Finché uno è in vita c'è speranza: poiché «è meglio un cane vivo che un leone morto». 5lnfatti i vivi sanno di dover morire, l ma i morti non sanno niente; per loro non c'è più salario, l poiché il loro ricordo è stato dimenticato. 6 Sia il loro amore, che il loro odio, l e la loro ambizione, tutto è finito: non avranno mai più una parte in tutto ciò che accade sotto il sole. 7Va', mangia con gioia il tuo pane l e bevi con cuore lieto il tuo vino, poiché Dio ha già gradito le tue opere. 8ln ogni tempo siano bianche le tue vesti e non manchi l'olio profumato sul tuo capo. 4

della speranza come se fosse «fiducia». C'è chi (p. es., Lohfìnk) si spinge fino al punto di intendere questo termine, compreso nel senso di speranza-fiducia, come se fosse una nuova parola per dire «timore di Dio». 9,6 Mai più - Rendiamo in questo modo l'espressione c7il1'f iill. Alcune traduzio-

ni riprendono un 'altra accezione tardiva di

c7il1 e traducono «al mondo» («e per loro non c'è più parte al mondo»), probabilmente per metterlo in parallelo, in tal modo, con la parte conclusiva del v. 6 dove si legge «sotto il sole» (per il termine c7il1 cfr. nota a 3,11).

la comunicazione interpersonale, quella trama degli affetti che può dare ai vivi la consapevolezza di essere tali. Ecco perché tutte le loro passioni comprese tra l'amore e l'odio (v. 6) e i loro criteri ispirati dall'invidia (cfr. 4,4) o all'ambizione, finiranno, e, per i viventi, non ci sarà «mai piÙ)) parte (cfr. nota) in tutto ciò che accade sotto il sole. In definitiva, Qohelet riconosce la complessità e l 'inafferrabilità d eli' esistenza umana, fino a indicarne i paradossi e le assurdità, eppure non se la sente di dire che la morte è preferibile alla vita. Invito alla gioia e timore di una sventura improvvisa (9, 7-10). Gli ultimi due movimenti del brano (vv. 7-12) sono dominati da due elementi che si implicano a vicenda: l'invito alla gioia e il timore che una sventura improvvisa si abbatta sull'uomo. È la sesta volta (cfr. 2,24; 3,13.22; 5,17; 8,15; 9,7-ll; e poi in 11,9-1 O) che Qohelet invita a saper godere dei piaceri della vita, anche minimi, ma descritti, questa volta nei vv. 7-8, nel dettaglio: il cibo, l'abbigliamento elegante, il profumo e l'amore per la propria sposa. L'uomo è consapevole di ignorare il momento della fine, sa solo che arriverà e allora si troverà come in una rete fatale e in un laccio (v. 12). L'imperativo è quello di cogliere la positività del presente (v. 7), prepararsi per gli incontri (v. 8) e

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QOHELET9,9

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9,9 Godi la vita (C''Ij ~)-Alla lettera: «Vedi la vita». Il verbo ebraico ilNi ha anche il significato di «sperimentare», «gustare», «godere» ecc., specialmente quando è unito a nomi indicanti WlO stato o Wla sorte: vita, morte, fame ecc. (cfr. Sall5,10; 89,49;Ger5,12). Cfr. 1,16: «la mia mente ha visto (cioè: sperimentato, constatato) molta sapienza e conoscenza>>; 3,13:

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9,12 Così sono catturati gli uomini (C")I:t~ 'J~ C'~i?,' Ci1f)- Alla lettera: «COSÌ essi sono catturati, i figli dell'uomo». Nel tempo del/ 'avversità(:'!-\'") n.l)7)- Alla lettera: «al tempo cattivo». 9,13 Sapienza- Secondo alcuni il termine :'17?:;:~ andrebbe probabilmente eliminato, ma è attestato anche nella Settanta e nella Vulgata. Si può tradurre: «anche questa lezione di sapienza ho appreso sotto il

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sole»; oppure: «anche questa esperienza ho fatto sotto il sole», facendo notare, però, che il verbo presente nel testo è 'M'W\ («ho visto). Notiamo che la versione CEI dell974, accogliendo l'emendazione, traduceva: «Anche questo fatto ho visto sotto il sole», mentre la nuova versione CEI del 2008 traduce: «Anche quest'altro esempio di sapienza ho visto sotto il sole».

dipende da circostanze fortuite. Per quanto si legge nel v. 12 sembra che incomba sull'uomo, che non conosce la sua ora, una trappola mortale che all'improvviso può catturarlo. Non c'è solo la morte, dunque, a porre fine alle azioni umane, ma anche un evento imprevisto o un momento cattivo che porta all'insuccesso. Tutti s'imbattono nel tempo e nel caso, sicché l'uomo non può ritenersi signore del suo destino: non ne conosce i meccanismi intrinseci e nemmeno i tempi. 9,13-18 Un apologo di valore esemplare Da questo punto in poi troviamo un nuovo gruppo di proverbi comunemente conosciuti (cfr. 7,1-12), forse non coniati dall'autore ma, molto probabilmente, modificati talvolta da lui. Ancora un'altra constatazione di Qohelet, a partire dal v. 13, si presenta come una lezione importante sulla sapienza: la radice ebraica del tennine (bkm) ricorre sette volte in sei versetti. Con un esempio concreto, desunto probabilmente dalla

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QOHELET9,16

lnfatti l 'uomo non conosce la sua ora: come i pesci l presi in una rete fatale, e come gli uccelli l presi nel laccio, così sono catturati gli uomini l nel tempo dell'avversità che piomba su di loro ali' improvviso. 13 Anche questa (lezione di) sapienza ho appreso sotto il sole l e la considero importante: 14c'era una piccola città con pochi abitanti. Un grande re vi si mosse contro, la cinse d'assedio e costruì contro di essa grandi ·fortificazioni'. 15 Si trovava in essa un uomo povero ma sapiente, il quale con la sua sapienza liberò la città. Ma (poi) nessuno si ricordò più di quest'uomo povero. 16 Allora io dico: l meglio la sapienza che la forza, ma la sapienza del povero è disprezzata l e le sue parole non sono ascoltate. 12

E la considero importante ('71ot ~·:-:t :-:t7i,~~) - Alla lettera: «E grande essa è per me». 9,14 Con pochi abitanti (~!l~'? i'!~ c•l;ì~~J)­ Alla lettera: «e in essa pochi uomini». Fortificazioni- Il termine c•,i~'? («lacci») ricorre nella Bibbia ebraica solo due volte e ambedue in Qohelet: 7,26 e 9, 14. Riguardo a questo nostro versetto nella Settanta il termine viene letto con xapaKaç («bastioni», «trincee», «opere fortificate»)

e nella Vulgata munitiones («fortificazioni>>); in questa linea si propone spesso di emendare e di leggere con diversa vocalizzazione c-,~~'? «bastioni», «fortificazioni». Nella nostra traduzione seguiamo la proposta di emendazione del testo. Tuttavia si può notare che anche la traduzione «grandi trappole» potrebbe funzionare; in tal caso non sarebbe necessario emendare il testo.

storia, viene affrontato il tema della grandezza della sapienza che spesso è negata e non apprezzata. L'autore introduce, nel v. 14, un tipico racconto sapienziale (un masiil, un proverbio o, come in questo caso, un apologo, un racconto breve): un uomo povero ma saggio con la sua intelligenza salva una piccola città (v. 15) assediata da un grande re; ma nessuno gli fa caso: non solo non riceve ricompensa alcuna, ma per giunta è dimenticato da tutti. Non è certo che il racconto sia ispirato a un fatto storico; tuttavia l'apologo conserva il suo valore esemplare. L'insegnamento che se ne trae è detto nel v. 16 con un proverbio comparativo: la sapienza vale più della forza; tuttavia conta maggiormente la sapienza del ricco o del forte, perché quella dell'umile è denigrata e le sue parole non sono ascoltate. La sapienza da sola, se non è unita alla potenza dei mezzi (cfr. 7, Il), non ottiene approvazioni ed è disprezzata. Essa, quindi, può superare le difficoltà, ma non trova riconoscimento se il sapiente è povero.

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QOHELET 9,17

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9,17 Le parole dimesse dei sapienti (nlj~=il c·~~t:) ,,~.,)-Alla lettera: «le parole dei sapienti (sottinteso: "pronunciate") con calma». 10,1 Mosche morenti - Conserviamo la vocalizzazione del Testo Masoretico nw ':l ~:l!, (alla lettera: «mosche di morte»), trasformando al plurale il verbo che segue: questa irregolarità grammaticale è ricorrente anche nell'ebraico classico. Altri, invece, mantenendo il verbo (o i due verbi) al singolare (cfr. il seguito della presente nota) leggono come se l'espressione fosse nQ :l~:l\ (una mosca morta). Ma per le ragio-

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ni di accordo grammaticale, irregolare ma possibile, fra soggetto al plurale e verbo al singolare, riteniamo che la lezione non vada cambiata. Oltre tutto, il significato della frase non varia. Guastano il vaso - Molto si discute fra i commentatori sulla ricostruzione di questo verso, in particolar modo sull'interpretazione dell'espressione lt':;l~ w·ac~~ che le antiche versioni hanno tradotto in vario modo, giungendo, talvolta, a cambiare il testo o a ometterlo in parte o del tutto. Tra le tante proposte ne emergono tre che possono riassumere la questione: l)

Nel v. 17 torna la metafora della guerra e, segnando una svolta, viene introdotto il tema della stoltezza. La contrapposizione, ora, è tra un comandante che urla e un sapiente che parla con tono dimesso. Le parole pacate di quest'ultimo vengono ascoltate, perché la loro validità e la loro forza non si misurano dal vigore della voce. Da questa scena, che evoca il clamore della battaglia nell'immagine del comandante che urla, giunge un'altra istruzione: la sapienza è superiore alle armi belliche, è migliore. Tuttavia, afferma il v. 18 riprendendo quasi alla lettera il v. 16a, la sapienza è fragile e può fallire: basta un solo errore per distruggere un immenso bene. 10,1-20 Altre massime

Da questo punto inizia una raccolta di massime di materia eterogenea. Questi proverbi, a volte sono collegati dallo stesso argomento, altre volte da un richiamo verbale o, anche, da un'associazione di idee. Nel passo, che non ha una solida unità letteraria, mancano quei verbi tipici che si riferiscono alla considerazione personale di Qohelet, a eccezione di l 0,5 («ho visto»). La sfera d'interesse è varia: si va dalla discussione sulla relazione tra bene e male, alla possibilità di praticare la giustizia senza sbagliare (cfr. 7,20). Secondo alcuni, solo pochissimo materiale è riconducibile allo stesso Qohelet, anche se è possibile riscontrare all'interno di vari proverbi mutuati dalla tradizione l'intervento dell'autore che li ha vergati con

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QOHELET 10,2

Le parole dimesse dei sapienti l vengono ascoltate più delle urla di un comandante fra gli stolti. 18Meglio la sapienza l che le armi da guerra, ma un solo errore l annienta un bene immenso. 1 Mosch~ morenti l guastano "il vaso' d'olio del profumtere; più pesante della sapienza e dell'onore l è un po' di stoltezza. 2La mente del saggio è alla sua destra l e la mente dello stolto alla sua sinistra. 17

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il verbo ~·:.; ~ potrebbe essere in endiadi col verbo precedente, suggerendo cosi l'unione di due verbi di significato simile («Una mosca morta infetta e rovina l'olio del profumiere» ), ma c'è chi obietta che la traduzione col verbo «rovinare», «corrompere» sia forzata, dato che la radice significa propriamente «far scorrere, spandere»; 2) il secondo verbo potrebbe essere omesso («Una mosca morta guasta l'unguento del profumiere» ); 3) il verbo l?.':l; ~ potrebbe essere il risultato della corruzione del sostantivo in stato costrutto 11.'::;1~ (da l?.' :;l~, «coppa», «vaso»), cosi come ha

inteso la Settanta (oKEiioç, «vaso») e ancor meglio la versione siriaca. Noi seguiamo quest'ultima soluzione. t 0,2 La mente (:l~)- Alla lettera: «il cuore», per due volte. È alla sua destra ... alla sua sinistra (i"Nb~" ... il'Q'")- Il significato più proprio dell'espressione è che il sapiente ha la testa sul collo, mentre lo stolto ha la testa vuota; alcune traduzioni preferiscono proporre l'immagine già decodificata: la mente del sapiente imbocca la via giusta, mentre quella dello stolto prende la via sbagliata.

tal uni tratti personali o impreziositi con sue osservazioni o commenti. Dal punto di vista letterario e da quello contenutistico, pur nella difficoltà nell'individuazione delle pericopi largamente riconosciuta dai commentatori, è possibile rintracciare alcuni nuclei tematici che, richiamandosi a vicenda o contrapponendosi tra loro, rimandano ad argomenti già affrontati in precedenza. Un po' di stoltezza rovina tutto (IO, 1-3). Il v. l riprende il commento di 9, 18b alla massima introdotta nel v. I Sa. Per dire che un solo errore può rovinare un' opera ben progettata si cita, come esemplificazione, un proverbio popolare: le mosche morenti, cadendo in un vaso di olio profumato, rovinano tutto il contenuto. Secondo la caratteristica del masii/, che parte da un caso particolare per elaborare e proporre un principio generale, qui si vuoi dire che la sapienza può essere vanificata da un po' di stoltezza. Questo è detto espressamente con l'aggiunta del v. l b. Proprio per l'omogeneità dell'argomento con 9,17-18, il v. l svolge la funzione di collegamento con ciò che precede e di transizione a nuovi temi. I vv. 2-3 per allargare il discorso sulla contrapposizione tra sapienza e stoltezza si rifanno al significato che in molte culture viene dato alla destra e alla sinistra: la prima indica una cosa giusta, un cammino retto e buono, la seconda indica il contrario. Qui, si può dire: la sapienza conduce il saggio al successo, mentre la

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QOHELET 10,3

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l 0,5 Un errore (il~~:;:) - Si discute sull' interpretazione della : iniziale: per alcuni ha funzione comparativa; noi riteniamo, per il contesto e per il tono della frase, che abbia, invece, valore assertivo. Il termine il~~~ l'abbiamo reso con «errore»; significa anche «inavvertenza», «svista» ed è usato in senso cultuale in Qo 5,5. Qui potrebbe avere pure il significato più aspro di «banalità», «incoscienza>>.

stoltezza Io guida verso il fallimento. La sapienza, insomma, è di per se stessa un valore (cfr. 2,13-14 ). La stoltezza, invece, confonde la mente. Lo stolto non solo s'incammina su una strada sbagliata, ma è incapace di capirlo, è senza criterio e chiama stolti quelli che non vanno con lui. L 'inetto collocato in posti di responsabilità ( 10,4-7). C'è qui una riflessione che verte sia sul modo con il quale il potente (e di riflesso anche il re) si rapporta con gli altri, in particolare con i suoi consiglieri, sia sulle scelte da fare nel caso in cui, come è descritto nel v. 4, ci si trovi sotto la sua collera. Il suggerimento è di non modulare la propria risposta sulla provocazione tracotante di chi domina, ma di mantenere la calma e anche il posto a corte (cfr. 8,3a). Le scelte non devono avvenire per reazione: Io stile deve essere diverso e bisogna agire costantemente con calma (cfr. 9, 17), come suggerisce pure la sapienza tradizionale (cfr. Pr 15, 1.18; 16, 14; 25, 15). L'indicazione formale a non lasciare il proprio posto sembra essere spiegata dai versetti seguenti, ed è in linea con l'atteggiamento richiesto al saggio consigliere del re: egli sa che al re piace l'adulazione e non la lealtà (cfr. 8,3-5), ma è proprio di uomini schietti e onesti che il re ha bisogno; per questo non bisogna fare che, con le proprie dimissioni, il posto lo prenda uno stolto; nonostante tutto, bisogna restare a collaborare. Probabilmente in questo consiglio del v. 4 c'è un ulteriore significato: è richiesto di rimanere persone rette anche occupando posti elevati. Ambedue le interpretazioni sono possibili e significative. Nel v. 5 Qohelet riferisce, con il suo gergo caratteristico, una constatazione personale. Dice di aver visto un altro male sotto il sole e lo identifica come un errore commesso da un sovrano che ama circondarsi di elementi mediocri, forse perché crede di non aver bisogno di consigli (cfr. quanto si dice del re vecchio e stolto in 4,13) o perché ritiene di

143

QOHELET 10,7

E anche quando lo stolto cammina per strada l è senza criterio e di ognuno dice: «Questo è uno stolto». 4 Se l'ira di un potente si accende contro di te l non lasciare il tuo posto, perché la calma fa evitare grandi errori. 5C'è un altro male che ho visto sotto il sole, l un errore commesso da un sovrano: 6 l'inetto è collocato in posti molto alti, l mentre i meritevoli siedono in basso. 7Ho visto schiavi a cavallo l e principi appiedati come schiavi.

3

Commesso da un sovrano(~·~·~~~ Mf~) - Alla lettera: «che esce dalla faccia di chi è al potere)). 10,6 L 'inetto (~;:~;:t)- Questo termine~:;;:!::), ritenuto genenil~ente sinonimo di ~~9 («stoltm>: cosi la Settanta con ò iicppwv e la Vulgata con stultum), che ricorre più volte (cfr. 2,19; 7, 17; 10,3.14), deve essere messo in relazione con C','~P, («ricchi)), «abili)),

«competenti)), «meritevoli))) al quale si contrappone; in tale contesto può essere tradotto con «imbecille)), «inetto)). In posti molto alti (C':! "l C'Oii~:;l)- Alla lettera: «nelle altezze molte». 10,7 Schiavi (C'i~;:)- Qualche manoscritto premette o aggiunge c·~"'! «che cavalcano». Appiedati o~-Ni'7f WIJ~D 'if~~-c~n :u~~:;r;t "'?.:P nil)~W1 mC?,Q-';l 'J:;t1 12

l O, IO Uso corretto della sapienza 1'tP=?;:t)- In questa espressione ricorre la radice ,!D::l (all'hifi/ infinito costrutto) che nella Bibbia (cfr. anche 11,6; Est 8,5) non ha ancora il significato specialistico di «ritualmente corretto», che le sarà attribuito (~=?':!

successivamente dalla letteratura rabbinica. Qui significa >. 10,19 Banchettano (cry~ c•~il)- Alla lettera: «facenti cibo» per la festa. Con l'uso del participio si esprime un'azione frequentativa.

loro nutrimento e non per gozzovigliare. Alla dissolutezza e alla corruzione descritte dal v. 16 si contrappongono la coerenza e la moderazione espresse nel v. 17. Questa idea del vantaggio di cui gode una terra quando è amministrata da un uomo di nobile stirpe, descritto con le caratteristiche presenti nel v. 17, ci fa pensare, per una semplice suggestione, a una possibile lettura del complicato testo di 5,8 in cui si parla di «un re che si fa servo della campagna», intendendo che un re saggio è la fortuna del paese. Non conviene parlare male di un re, anche avendone buoni motivi (10,18-20). Secondo alcuni commentatori, i vv. 18 e 19 devono essere considerati separatamente. Il v. 18 sarebbe un proverbio riconducibile allo stile di Pr 20,4; il v. 19, è da considerare a parte. Di fatto questi versetti, inseriti in tale contesto, possono essere letti come una continuazione dei precedenti: non sono solo una condanna del pigro e del buontempone, ma fanno vedere gli effetti di un'amministrazione allegra e negligente. Si dice, infatti, che crolla il soffitto della casa e vi piove dentro, mentre i potenti banchettano divertendosi e bevono lautamente (cfr. 10,16), confidando nella forza del denaro per soddisfare ogni bisogno. Va aggiunto che questa rappre-

148

QOHELET 10,20

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il~ìot.p? Of-1 iiP.:;tW7 v?r.nJ::.~ 2 =n.~~-;~ iiP.l ii,~T.l~-il~ v-Io N? ,~ 10,20 Con il tuo pensiero (i~~)- Si può anche tradurre «nell'intimità>>: anche nell'intimità, tra persone fidate, è bene non parlare male del re, perché questi potrebbe venire a saperlo. Potrebbe riportare la voce - Traducen-

do in modo letterale: «fa andare la voce». E un volatile (C'~~f "~~,)-Alla lettera, leggendo il qerè che omette l'articolo: «e un

padrone di doppie ali». 11,1 Col tempo (c•~:;:~

:"1~)-

Alla lette-

sentazione non contraddice l'invito di Qohelet a vivere, mangiando e bevendo, la felicità del momento presente perché, mentre qui tutto è inserito in un 'immagine di superficialità e svago, il bene da godere di cui parla ripetutamente il nostro autore è legato alla fatica ed è presentato sempre come dono di Dio. In questi versetti non si trova nulla di questo: a essere biasimata, di fatto, è la sregolatezza. C'è poi un consiglio nel v. 20: non parlare male del re, né con il pensiero né nell'intimità, perché la cosa diventerà pubblica comunque. Con il potere, specie quello arrogante e stupido descritto nei vv. 4-6, bisogna sempre essere prudenti: il re non va criticato né condannato, perché ciò può compromettere chi pronuncia tale giudizio; c'è sempre un uccello chiacchierino, metafora nota nelle culture coeve a Qohelet, pronto a diffondere ovunque la notizia fino a consegnarla alle autorità. Non ci sono segreti che possano restare nascosti. 11,1-6 L 'esito delle attività umane, il mistero della vita, il limite dell'uomo I vv. l-6 costituiscono un 'unità letteraria definita ali 'interno del contesto. Anzitutto cambiano gli argomenti, il tenore e il vocabolario: non vi si trovano più le considerazioni sullo stolto e sul sapiente, non si parla più dell'idiozia al potere e dell'impossibile segretezza dei giudizi pronunciati sui potenti. Nella pericope si trovano due imperativi, collocati fra due consigli tratti dall'esperienza (vv. l-2); ci sono delle osservazioni esplicative sul v. l (vv. 3-4) e una spiegazione del v. 2 (v. 5) con la ripresa del tema del limite della conoscenza umana; vi è poi un altro imperativo (v. 6) con il quale è rivolto un invito ad agire. Nel v. 7, poi, inizia una nuova riflessione non più alla seconda persona singolare, ma alla terza. Insieme a questi elementi di struttura è significativo notare che nella pericope ricorrono quattro volte i verbi dell'incapacità umana a capire: «non puoi conoscere», v. 2; «tu ignori», due volte nel v. 5; Ci1,lt.V-cN1 l"

11,5 Nelle membra - Preferiamo la lettura («nelle ossa», «nelle membra»), at· testata in alcuni manoscritti e nel Targum, al posto di C'l?~;:; («come le ossa>>) del Testo Masoretico, seguito dalla Settanta e

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dalla Vulgata. Di per sé la proposta del Testo Masoretico, che è stilisticarnente più improbabile, risulta essere la lezione più difficile; tuttavia complica la traduzione. La versione CEI del 2008, a differenza di quella del

La cautela non deve condurre all'inattività ( 11,3-4). Si sviluppa il pensiero complesso, ma chiaro, espresso da Qohelet nei vv. 1-2. Abbiamo quattro proverbi che tradiscono un'evidente origine rurale, essendo legati a fenomeni atmosferici e a situazioni del mondo agricolo. Secondo il v. 3 ci sono casi in cui si pòssono riconoscere nessi causali tra gli eventi, ma anche casi imprevedibili. In tal senso il v. 3 riprende il tema di 3, l: per ogni azione c'è il suo tempo. Non riteniamo, come sostiene qualche commento, che le immagini della pioggia e dell'albero che cade vogliano significare che bisogna correre per tempo ai ripari dato che un guaio può sempre capitare. Se questo fosse il senso, ci si potrebbe chiedere: di fronte all'ineluttabilità della sciagura a cosa servono le scappatoie? Questa interpretazione, dunque, non ci sembra in linea con l'intervento del v. 4 che è un invito a riflettere sulle conseguenze che può avere l'eccessiva cautela: può condurre all'immobilismo. Se si attendono le condizioni favorevoli e i momenti ideali non si agisce mai. Occorre dunque operare, pur non essendo certi del successo. La sapienza tradizionale paragonava il pigro allo stolto e, di conseguenza. il sapiente ali 'uomo intraprendente e attivo. In questa visione l'operosità era premiata perché portava sempre a risultati certi, automatici. Qohelet, invece, pur ponendo l'accento sull'oscurità e sull'indisponibilità del futuro e sull'incertezza del risultato, dice che l'uomo deve darsi da fare comunque, accettando i rischi delle azioni. L 'uomo non può comprendere l'opera di Dio (Il ,5-6). Il v. 5 ripropone i temi, ricorrenti in Qohelet (cfr. 3,11; 7,13; 8,17), dell'impossibilità e dell'incapacità dell'uomo di comprendere l'impenetrabile opera di Dio. In questo versetto il mistero dell'agire divino è paragonato all'origine dell'esistenza. L'uomo si ferma stupito di fronte ali' enigma del concepimento della vita. Nel seno materno si forma

151

QOHELET 11,6

Se le nuvole sono piene, l riversano la pioggia sulla terra; e se un albero cade, verso meridione l o verso settentrione, là dove cade, l l'albero rimane. 4Chi bada al vento non semina, l e chi osserva le nubi non miete. 5Come tu ignori l per quale via lo spirito vitale entri ·nelle' membra, l in un seno di donna incinta, così tu ignori l l'opera di Dio che fa tutto. 6Al mattino semina il tuo seme l e alla sera non dare riposo alla tua mano poiché tu non sai l quale (seme) attecchirà, l se questo o quello, o se ambedue saranno ugualmente buoni. 3

1974, segue il Testo Masoretico ma è costretta ad apportare delle aggiunte esplicative per rendere meglio il significato: «Come tu non conosci la via del soffio vitale né come si formino le membra nel grembo di una donna

incinta, così ignori ... ». Notiamo, ancora, che il termine C~t' significa «osslm, ma a volte può indicare anche «membra», «COrpo»: una simile accezione risulta più appropriata in questo contesto che fa riferimento al feto.

un uomo senza che sia noto come ciò accada; eppure; nonostante sia sconosciuto il meccanismo, una vita prende forma per poi vedere la luce. Così può essere illustrato l'agire divino: se ne vedono i risultati, gli effetti, senza conoscerne la ratio interna e i principi operativi. Ciò è dovuto non a Dio, ma all'incapacità umana di conoscere il modo d'agire divino e di scrutare dall'interno e in profondità il segreto della vita (cfr. questo argomento sviluppato da Qohelet in 3,10-15). Con Lohfink, si può dire che nel v. 5 si trova una delle affermazioni teologiche più di principio di Qohelet («tu ignori l'opera di Dio che fa tutto»), che lo hanno fatto accusare da alcuni, ma a torto, di determinismo. In realtà si tratta della questione del rapporto tra libertà di Dio e libertà dell'uomo. Qohelet, però, non è interessato al determinismo: non è questo il problema; né questo argomento sarebbe messo in risalto dai fenomeni naturali descritti. L'autore vuole mettere in luce, contemporaneamente, il valore e il limite della conoscenza umana. Infatti il v. 5 ripete due volte il verbo-chiave della pericope: l'uomo «non sa>>. Questo «non sapere» è relativo al limite specifico di ogni conoscenza umana che è, appunto, l'agire di Dio. Nondimeno, l'invito all'azione rivolto all'uomo, nonostante la sua ignoranza, ne sottolinea la libertà, proprio davanti all'opera di Dio (v. 5). Il proverbio del v. 6 raccomanda una laboriosità inquadrata in una visione ottimistica. L'uomo, malgrado la sua costitutiva ignoranza, deve agire sempre, dalla mattina alla sera. Il futuro, dato che è ignoto e imperscrutabile, non può essere programmato. Per tale motivo bisogna lavorare costantemente e seminare senza interruzione, accettando i rischi con speranza: le potenzialità e la riuscita possono superare le aspettative umane. Non a caso la pericope si chiude con la parola positiva tobim che richiama, senz'altro, il tema del vantaggio anticipato in 6, l 0-12, cioè l' intersezione tra le due parti del libro.

152

QOHELET 11,7

:lz>9'ft;:t·ntt ni~l7 c~ ~,~7 :ti'?1 ,;~;:t Pii:~'?~ 7 noi.v' c;:J::t C1Ni1 i1'n' i1::t,i1 C'llz>-cN ':;)8 =z,~v N;w-z,f ~;;;'~~ i1~liJ-'f. 'iftt>iio '9.;-ntt ,~T~1 'iJ'ç;,~n:t '9.'~ ~:j17 !f:t'\?.'1. 'iJ''l)~1'r-:jl ,~l]f n~i.p 9 IIT

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'if")..'~ 'tno:t~ :O~"?~~ C'ijZ,~;:t ~~'~7 11,8 Certo!- Il ':l iniziale dà enfasi a tutta la frase. Se li goda tutti (MI? i;'' c~~~)- Alla lettera: «in tutti essi gioisca)). Il futuro- L'espressione M~ W-~~ che alla lettera significa «tutto ciò che viene», si riferisce all'avvenire dell'uomo. 11,9 Godi (M~t;l)- Alla lettera: «Sii allegro», «gioisci». Considerando il contesto che invi-

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ta a godersi la vita, si può rafforzare il significato traducendo, appunto, «godi». E gioisca pure il tuo cuore (1~~ i~'tp'!) Alla lettera: «sia buono con te il tuo cuore», cioè «ti renda felice». Sappi, però ... in giudizio(~~~~~ ... .1111)Questo avvertimento col quale si chiude il v. 9 sarebbe, secondo alcuni commentatori, un'aggiunta. L'estraneità di questa parte del

11,7-12,7 Le fasi della vita umana In questa ultima sezione del libro, i vv. 7-8 introducono la prima pericope (11,7-10) incastonata fra la ricorrenza del termine hebel che compare nel v. 8 e nel versetto finale (cfr. v. IO). Nella strofa introduttiva, al v. 8, sono presenti anche due verbi, «godere» e «ricordare», che contribuiscono a strutturare in due parti il componimento finale: il primo verbo viene ripreso in Il ,9, il secondo in 12, l, dove inizia l'altro brano che si estenderà fino a 12,7. 11,7-10 Bellezza della giovane età Introduzione (11,7-8). Giunti quasi al termine dell'itinerario che Qohelet ha fatto percorrere al lettore, con un testo poetico, viene offerta una descrizione intensa della vita che nei versetti introduttori (vv. 7-8) è valutata positivamente (cfr. 6,5 e 7, Il) con immagini luminose: la luce è descritta come una gioia dolce e piacevole. L'autore, per la settima volta, invita a gioire del presente e a ricordare che verranno giorni in cui tutto ciò non sarà più possibile: la vecchiaia e la morte sono in agguato e Io stesso futuro è labile ed effimero come il soffio o il vapore. Invito a godere nella giovane età che passa in.fretta ( 11,9-10). In Il ,9 Qohelet si rivolge direttamente a un giovane e gli consiglia di godere della sua età adolescenziale e giovanile, seguendo i richiami del cuore e i desideri degli occhi: interiorità ed esteriorità sono al contempo implicate. Queste espressioni che in altre parti della Bibbia hanno un senso negativo (evitare le vie del cuore e quelle degli occhi: cfr. N m 15,39; Is 57,17; Gb 31,7; Sir 5,2) qui hanno un senso positivo (cfr. pure Qo 6,9): con il riverbero ancora udibile dei vv. 7-8, questi versetti non costituiscono un 'istigazione ali' edonismo sfrenato, ma suonano come un invito a scoprire la sorprendente apertura al mondo, a sperimentare l'abbagliante ebbrezza dei primi passi giovanili fatti nella

153

QOHELET 11,9

Dolce è la luce l e piacevole per gli occhi vedere il sole. Certo! Se l'uomo vive molti anni, l se li goda tutti, e ricordi i giorni oscuri, l che saranno molti. Il futuro è soffio. 9 Godi, o giovane, nella tua adolescenza, l e gioisca pure il tuo cuore nei giorni della tua giovinezza; segui le vie del tuo cuore l e i desideri dei tuoi occhi; sappi, però, che per tutte queste cose l Dio ti convocherà in giudizio. 7

8

verso è data sia dalla dissonanza dello stile, giacché si tratta di un emistichio in prosa all'interno di un passo in poesia, sia dal contenuto, poiché questo inserimento sarebbe servito a mitigare l'espressione scandalosa della prima parte del verso. L'inserto potrebbe provenire dalla stessa mano dell'epiloghista se si considera la formulazione simile di 12,14, ancorché rara. Nondimeno, questa

aggiunta costituirebbe una prova, insieme con altri esempi, della lettura negativa subita fin dall'inizio dal libro di Qohelet che, per questo motivo, ha suscitato la necessità degli interventi correttivi in più punti (cfr. nota a 3,21 ). E i desideri dei tuoi occhi (iTl1 ·~:~~~)­ Alla lettera: «e (cammina) nelle visioni dei tuoi occhi».

vita e a goderne in pienezza. cogliendoli come dono di Dio (cfr. 2,24-25; 3,13; 5,18; 9,7) e sempre nella prospettiva che tutto è «soffio». Contemporaneamente, dall'altro versante, Qohelet consiglia al giovane di allontanare ogni tristezza dal cuore e ogni sofferenza dal corpo: tutto sfuma. La gioia è, dunque, nella prospettiva di Qohelet sottesa a questi versetti, come un compito affidato da Dio all'uomo. Tale idea è posta tra questi consigli come un avvertimento, che però molti hanno letto, per motivi stilistici e contenutistici, come un'aggiunta moralizzatrice, attribuita all'epiloghista (cfr. nota), per mitigare una posizione che sembrava contraddire, come già detto, un filone tradizionale. L'ammonimento che si trova nel testo fa riferimento a una convocazione in giudizio da parte di Dio. Il dibattito sull'autenticità del versetto è aperto e la soluzione non sembra semplice (cfr. nota). Alcuni autori, infatti, fanno risalire il v. 9b allo stesso Qohelet, mentre per noi potrebbe trattarsi di un'aggiunta. Tuttavia nel versetto, così come giace, non si coglie alcun riferimento alla procrastinazione del giudizio in tempi escatologici. È vero che nell'ambiente culturale e religioso del Ill secolo a.C. si faceva strada la visione apocalittico-enokica della quale Qohelet doveva essere al corrente. Ma, considerando l'intero libro, non è possibile sostenere che l'autore pensasse a un giudizio nell'aldilà dove c'è solo assenza di vita e di azione (cfr. 9,10), né a una valutazione legata alla teoria della retribuzione. Egli è senz'altro convinto che un giudizio divino sulle azioni umane ci sarà (cfr. 3,17; 8,6), ma non lo immagina oltre la morte: le modalità e i tempi di questo giudizio fanno parte del mistero dell'agire divino, e questo è un punto acquisito. Leggendo il testo così come si trova, dunque, possiamo focalizzare l'attenzione sull'espressione «per tutte queste cose» da riferire, senza dubbio, a quanto è stato detto immediatamente prima nello stesso v. 9. Per cui si può intendere che ci sarà un giudizio sull'incapacità di aver go-

154

QOHELET 11,10

:r~o cn:t '7.-r~ ,~Nn ,W~ c'~'P ~v'~iJ1 c';;~t:liJ1111:iJ1 ,;Ni!1 w9~0 'ifWr:tJ::l-N7 ,w~ il/2 :ClVli1 1MN •o• ITJ- 11,10 Dal tuo cuore ... dal tuo corpo (':f')~:p.o ... ':f~~O)- Queste due espressioni indicano tutto l'uomo, nella sua interiorità e nella sua fisicità («carne», alla lettera). Il nero - Il sostantivo n,,t:)~;:T. che ricorre

solo qui, è riferito ai capelli e indica una caratteristica della giovane età, rafforzando la conclusione che la giovinezza e il nero dei capelli sono un soffio. 12,1 Chi ti ha creato - L'ebraico ':f'~qi: è un participio plurale, anche se le ver-

duto pienamente la vita. Significativamente al v. l O, l'invito a scacciare ogni pensiero malinconico che si ripercuote negativamente su tutta la persona (così si può leggere complessivamente l'espressione ebraica «bandisci la tristezza dal tuo cuore») e ad allontanare la sofferenza fisica, è motivato dal fatto che la giovinezza e la chioma corvina, passano velocemente, sono un soffio. 12,1-7 Tristezza della vecchiaia Questa pericope ha avuto diverse interpretazioni. Ci troviamo, infatti, di fronte a un testo molto complesso in merito al quale c'è tuttora un acceso dibattito sulla definizione del genere letterario. Nel tempo sono state proposte varie letture, alcune delle quali vengono riprese singolarmente o unite ad altre. C'è un'interpretazione allegorico-fisiologica secondo la quale a ogni elemento del testo corrisponderebbe una parte del corpo umano. Alcuni propendono per un'interpretazione letterale, altri per soluzioni miste. È possibile praticare una lettura simbolica che rispetti, da una parte, il dinamismo di un poema che parla a più liveiii; dall'altra, la contrapposizione tra la descrizione della giovinezza e della gioia fatte in 11,71O e la descrizione della vecchiaia e della morte fatte in 12, 1-7. Dal punto di vista del movimento letterario interno si nota una proposizione principale nel v. 1a che regge le successive tre subordinate inizianti con la stessa congiunzione «prima che ... » (12,1b.2.6); la seconda subordinata (12,2) include un'altra secondaria introdotta da «nel giorno in cui. .. » (12,3) e poi segue una spiegazione in 12,5b. Ricorda chi ti ha creato ( 12, la). Il verbo «ricorda» avvia la seconda parte del poema e dà un'indicazione eminentemente teologica. All'origine di tutto il brano è posto Dio in quanto creatore, che sarà richiamato anche in 12,7, come colui verso il quale ritorna l'alito vitale che l'uomo aveva da Lui ricevuto. Il fatto che Dio venga chiamato

155 10 Bandisci

QOHELET 12,2

la tristezza dal tuo cuore l e allontana la sofferenza dal

tuo corpo, poiché la giovinezza e il nero dei capelli sono un soffio. 1 ~ic?rda chi ti ha creato, l nei giorni della tua g1ovmezza, prima che vengano l i giorni tristi, e giungano gli anni in cui dirai: l «Non provo alcun piacere»; 2prima che si oscuri il sole, la luce, l la luna, le stelle e ritornino le nubi l dopo la pioggia;

1. 2

sioni (Settanta e Vulgata) lo hanno reso singolare (rispettivamente rou Kttaavtoç Of e creatoris tu i, «del tuo creatore»); per questo si propone spesso di emendare il testo ebraico leggendo un participio qal maschile: o:nt:. Tuttavia, dal punto di vista

grammaticale la forma del Testo Masoretico potrebbe essere considerata un plurale di eccellenza. Non provo alcun piacere oi•::~. 3 :ni::J.,N::J. niN'"Ii1 ~:1u>n1 ~o~o ':;) hilnbi1 ~'7o:J.~ i1aQW;;J '7ii? ;~V?~ p~Vi~ b7ò7l ~'1~~1 4 :,'~ti ni~:r'7:p mW71 ,itl~t1 '7ii?7 b~P~1 ...

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:inN IT "•" 12,7 Ritorni- Il verbo ::~w:1 è uno iussivo nella fonna, non nel senso; per questo alcuni propongono di leggere ::1~:1. L 'alito vitale (T'!.,,;:t) - La versione della CEI del 1974 traduceva «spirito»; si tratta piuttosto del «soffio vitale», «ali-

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to di vita», come in 3,19 (cfr. nota). 12,11 Le loro collezioni di testi ('~P,~ ni~) -Alla lettera: «padroni di collezioni». Non si è certi sul significato dell'espressione. Il secondo tennine :'1~ è un hapax /egomenon che è stato interpretato, sulla base del verbo

Poi nel v. 7 l'autore ricorre a Gen 2,7; 3,19; Sal 104,29-30; 146,4 per spiegare i simboli usati in 12,6, riprendendo l'antica concezione circolare secondo cui con la morte si ritorna al punto d'origine: la polvere con la quale era stato formato l'uomo ritorna alla terra e lo «spirito» (nel testo il termine ebraico rual:z sostituisce quello genesiaco nismat /:zayyim, «soffio vitale») torna a Dio che lo aveva donato. Dio si riprende la vita che aveva dato in prestito all'uomo (cfr. Gb l ,21 ). Qohelet evita di dare indicazioni o, semplicemente, di fare supposizioni su ciò che potrebbe esserci dopo la morte. Non si pone questo problema. A tale proposito giova sottolineare che Qohelet non pensa affatto all'immortalità dell'anima; il testo parla di «spirito» intendendo «soffio vitale». Soltanto la riflessione posteriore, basandosi sulla visione dicotomica greca, arriverà a parlare del disfacimento del corpo dell'uomo nel sepolcro, mentre il suo spirito soprawive in alto presso Dio (cfr. Sap 2,22-23; 3,1 ). RIPRESA CONCLUSIVA DEL TITOLO (12,8) Il tema del libro (cfr. l ,2) in 12,8 è ripetuto in modo più conciso e funge da conclusione dell'opera Entrando nello scritto, il lettore ha dovuto attraversare un sottilissimo velo di fumo, rappresentazione plastica dell'esistenza umana, per esplorare, sperimentare, considerare profondamente tutta la realtà e così prendere coscienza del limite conoscitivo e della brevità e inconsistenza della vita, riempita da quelle gioie concesse da Dio perché

159

QOHELET 12,11

ritorni la polvere ·alla, terra, come era prima, e l'alito vitale ritorni a Dio, che lo ha dato. 7

8

Sottilissimo velo di fumo, l dice Qohelet, l tutto è soffio.

Qohelet, oltre a essere saggio, insegnò anche la scienza al popolo; ascoltò, indagò l e compose innumerevoli proverbi. 10 Qohelet cercò l di trovare parole piacevoli e scrisse rettamente parole di verità. 11 Le parole dei saggi sono come pungoli e come chiodi conficcati le loro collezioni di testi: sono date da un solo pastore. 9

che significa «raccogliere», come «as· semblea (popolare)» o anche come «collezione (di proverbi)». Va osservato che nella struttura chiastica del verso, la frase è parallela a «le parole dei saggi». All'espressione si può dare sia un senso personale (intendendo coloro che

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sorvegliano sui detti raccolti) sia uno impersonale (le raccolte dei detti che a loro appartengono): il senso generale cambia di poco. Tuttavia il parallelismo porta a far prevalere il significato impersonale e noi abbiamo indicato proprio questo nella nostra traduzione.

siano gustate intensamente fra le fatiche umane. Ora, alla fine del libro, il lettore, anicchito e inquietato dalle riflessioni di Qohelet, si ritrova nella stessa cortina evanescente: tutta l'estensione della vita umana, con il suo percorso sinusoidale, è compresa in un soffio. EPILOGHI (12,9-14)

Allibro, concluso in 12,8, segue un'appendice che, per diverse ragioni di vocabolario, stile e contenuto, viene ritenuta un'aggiunta posteriore. Tuttavia si discute sulla sua paternità e sulla sua composizione: è un solo epilogo composto da un solo autore, o si possono individuare due mani intervenute in epoche diverse? Il maggior numero dei critici individua in 12,9-14 due parti, riconducibili a due autori distinti che avrebbero scritto con motivazioni diverse (cfr. Introduzione). Nella prima ( 12,9-11 ), l' epiloghista, intorno agli inizi del Il secolo a.C., in tena persona, presenta dei dati biografici su Qohelet e una valutazione complessiva dell'opera; nella seconda ( 12,12-14) un altro epiloghista riprende il discorso rivolgendosi, con l'uso della seconda persona, al destinatario per offrire una sintesi, a suo modo, del contenuto del libro e delle esigenze che da esso derivano. 12,9-11 Primo epilogo

Questi ultimi versetti sarebbero stati aggiunti da un conoscente di Qohelet, probabilmente un suo discepolo, con l'intento di far cogliere il significato da dare allibro. È

160

QOHELET 12,12

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