Prima lezione di storia moderna
 9788842091592

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Editori Laterza

© 2008, 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008 Nuova edizione ampliata 2009 Seconda edizione 2010 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9159-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

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Capitolo primo

Definire la storia moderna

Moderno Se si deve parlare di storia moderna, è bene chiedersi subito che cosa vogliano dire queste due parole. Per storia ci si può intendere alquanto facilmente. Assumiamo come scontato che significhi due cose: 1. tutto ciò che è accaduto nel passato; 2. lo studio e la narrazione di ciò che è accaduto nel passato. Sono due definizioni alla buona, ma più che sufficienti qui. Altrettanto facile dovrebbe essere il chiarimento di ciò che significa moderno. Si tratta, infatti, di un aggettivo che deriva da un avverbio latino, l’avverbio modo, che significa “ora”, “adesso”, e indica, quindi, il tempo presente. Nell’italiano antico la parola era ancora usata. Dante parla, ad esempio, delle «fogliette pur mo’ nate» (Purgatorio, VIII, 28), ossia delle piccole foglie spuntate appena ora. La parola è ancor oggi viva in alcune parlate italiane. In napoletano, ad esempio, è comune la locuzione mo’ mo’, per dire “subito ora”, ossia immediatamente adesso. Storia moderna vorrà quindi dire, stando al significato letterale dei termini, la “storia di ora”, la “storia del presente”, del nostro tempo. La storia contemporanea, dunque. E, infatti, è così, e la coincidenza merita sia di essere sottolineata che di essere spiegata, e ciò tanto più in quanto il fatto che moderno e contemporaneo abbiano assolutamente lo stesso significato di riferimento all’attualità non

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è sempre tenuto presente come meriterebbe: anzi, per lo più, non è neppure avvertito. A dire il vero, una differenza tra i due termini può anche essere ravvisata, ma sul piano etimologico più che sul piano semantico, ossia sul piano della rispettiva provenienza linguistica più che su quello del significato. Per il termine moderno il riferimento all’attualità è esclusivo sul piano del significato, essendo l’aggettivo derivato, come si è detto, dall’avverbio latino modo, mentre per contemporaneo il riferimento all’attualità non è altrettanto esclusivo, in quanto la proprietà del contempo, ossia dell’identità di tempo, dell’accadere o trovarsi nello stesso tempo, può essere riscontrata sia nel presente che nel passato. Possiamo dire perciò – con tutta legittimità lessicale e semantica – che Cesare, ad esempio, fu contemporaneo di Cicerone, così come, ventuno secoli dopo, sono contemporanei il papa Benedetto XVI e la regina Elisabetta II d’Inghilterra. Invece, soltanto in senso traslato, metaforico, soltanto per modo di dire, possiamo affermare – se lo crediamo! – che Aristotele fu più moderno di Platone, o, naturalmente, viceversa; o che l’uso dei metalli introdusse un’economia più moderna di quella della pietra o di altri materiali di uso più antico; o che la strategia di Annibale era più (o meno) moderna di quella di altri grandi capitani dell’antichità. Ciò induce a notare subito che l’uso del termine moderno appare alquanto meno innocente, meno anodino di quello del termine contemporaneo. Quest’ultimo presenta un significato che si esaurisce nell’affermazione o nella constatazione dell’identità del tempo in cui ci si trova nel presente o nel passato (Cesare e Cicerone, nell’esempio che abbiamo fatto). Il primo termine, invece, include un’affermazione sia di qualità che di valore (un pensiero, un’economia o altro sono moderni dal punto di vista della loro qualità, e tale qualità costituisce un loro pregio). In altre parole, l’attribuzione della qualifica di moderno impegna molto di più nelle sue idee chi dà una tale definizione. (La differenza può essere ancora meglio spiegata os-

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servando come noi possiamo affermare che sentiamo Platone, o Aristotele, come un nostro contemporaneo o più nostro contemporaneo, ma non che Aristotele fosse più contemporaneo del suo contemporaneo Platone, mentre possiamo dire che Aristotele fosse più moderno di Platone, o viceversa). Moderno, insomma, è un termine molto più valutativo, molto più carico di misure di valore rispetto a contemporaneo. Ugualmente gioverà osservare che neppure viene sempre tenuta presente come sarebbe necessario la storia delle due parole e, in particolare, quella del loro uso storiografico: un uso relativamente recente per contemporaneo, e, invece, ben più remoto e sedimentato per moderno. Intanto, nell’italiano tutti e due i termini sono attestati fin dal secolo XIV e con entrambe le accezioni di ciascuno di essi, alle quali abbiamo accennato. Ugualmente attestata è la precoce utilizzazione storiografica di “moderno”. Né si tratta di un uso soltanto italiano. Il Du Cange riporta la formula, frequente in carte del secolo XIII, noverint igitur tam moderni quam futuri, che cita tanto “gli uomini di ora, i contemporanei” quanto “gli uomini del futuro, i posteri”: formula che dimostra come già nel latino medievale si praticasse questo senso della parola (moderno = contemporaneo); e mostra, anzi, in vigore già anche l’antitesi antiquitas-modernitas. Lo stesso Du Cange registra contemporalis nel senso di aequaevus (dello stesso evo, cioè dello stesso periodo, dello stesso tempo), ma anche l’idea dello stesso tempo (contempo in italiano, contempe in francese, mentre contemporaneus è già nel latino tardoimperiale) non offre alcuna difficoltà di utilizzazione storiografica, come si è visto per secoli con i libri dedicati a temi trattati fino “ai nostri tempi” o “ai nostri giorni”. Quanto alla richiamata precoce utilizzazione storiografica di moderno, non si può fare a meno di ricordare che il termine fa parte, in effetti, di un trittico, nato nell’ambito europeo, che scandisce il corso della storia nella succes-

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sione di antico, medievale e, appunto, moderno, dove il primo e il terzo sono di più trasparente significato, sicché è il secondo a porre con maggiore pregnanza il problema del suo senso. Antico, medievale, moderno Medioevo, cioè “età di mezzo”, è, infatti, qualsiasi epoca o tempo della storia. Ogni epoca o tempo sta fra quel che viene prima e quel che viene dopo, sicché tutta la storia può essere egregiamente definita come un perenne medioevo, una continua transizione dal prima al poi. Quale senso può allora avere il termine “medioevo” nella ripartizione dei tempi storici, che nel mondo occidentale si insegna e si apprende fin dalle scuole elementari? L’accenno al mondo occidentale contenuto in questa più che legittima domanda porta già in sé la risposta. Il Medioevo a cui ci si riferisce nella cronologia di cui stiamo parlando è, infatti, una definizione temporale elaborata nell’ambito dell’esperienza europea; e sappiamo abbastanza bene quando e dove, come e perché è nata. Bisogna rifarsi, per questo, all’Italia del secolo XV. Fu allora, già nella prima metà di quel secolo, che innanzitutto in Toscana, e in specie a Firenze, si cominciò a parlare della rinascita o restauro o ripresa delle lettere e delle arti dopo un lungo sonno o eclisse o declino di dieci secoli. Ciò che rinasceva era la purezza, l’eccellenza, la luce, in una parola la perfezione delle lettere e delle arti dell’età antica. Questa perfezione si era oscurata nei secoli bui e barbari che erano seguiti alla caduta dell’Impero di Roma sotto l’urto delle invasioni barbariche e alla conseguente rovina della civiltà antica, la civiltà dei Romani e dei Greci. Ora rinasceva. Si tornava al terso ed elegante latino di Cicerone e di Cesare. Si leggeva e si scriveva di nuovo il greco di Omero e degli altri grandi scrittori ellenici, che da secoli erano spariti dall’orizzonte europeo. Una nuova arte figu-

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rativa (pittura, scultura, architettura: Botticelli, Donatello, Brunelleschi) metteva finalmente fuori causa la rozzezza romanica, i deliri gotici e rinnovava i fasti della bellezza perfetta, di cui l’arte antica aveva il segreto. Il Medioevo era, dunque, il lungo interludio millenario fra l’antico e l’età moderna, ossia il periodo posto fra l’età antica e l’età che per gli umanisti e gli artisti del secolo XV era l’età presente, era l’adesso, l’ora, il mo’ del loro parlare italiano, era l’età moderna. Come si vede e si intende, le determinazioni alle quali così si giungeva non erano affatto definizioni puramente cronologiche. Erano tutte definizioni che associavano alla determinazione cronologica una valutazione qualitativa. In questa valutazione l’antico e il moderno rappresentavano il positivo; il medievale rappresentava il negativo. Il che dimostra che il senso valutativo, la carica anche ideologica del termine moderno, di cui abbiamo parlato, si ritrova fin dall’inizio del suo uso storiografico, nella sua contrapposizione, come si è visto, al Medioevo, e nella qualificazione negativa che ne deriva per l’età medievale. Infine, la prima concezione della modernità era di ordine estetico: artistico e letterario. È agli artisti e agli scrittori del secolo XV e del secolo XVI che ci si riferiva come ad artefici ed esponenti di quel ritorno delle lettere e delle arti al grado di eccellenza che si riteneva le avessero caratterizzate nell’età antica e per cui si parlava dell’“età di mezzo” nei termini negativi che si sono visti. È comprensibile che questo facesse sorgere la questione del perché gli antichi fossero così eccellenti da far pensare, come allora per lo più accadeva, che li si potesse imitare, non già superare o far altro. La risposta allora generalmente data (o, molto più correttamente, suggerita perché implicita nelle idee all’epoca prevalenti) era che gli antichi imitavano la natura; che la natura era il regno insuperabile dell’eccellenza; e che a loro volta gli antichi nell’imitazione della natura avevano raggiunto l’eccellenza. Perciò, imitare gli antichi era lo stesso che imitare la natura; e, come quest’ultima, an-

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ch’essi, per la stessa ragione, erano insuperabili, modelli assoluti come quelli naturali. In seguito, già dalla prima metà del secolo XVI, la determinazione del moderno si andò via via incrementando. Lo si vede, in particolare, negli svolgimenti del pensiero politico. La riflessione di Machiavelli ne è un buon esempio. Egli dichiara, infatti, di costruirla su due pilastri, su un doppio riferimento di metodo: la «lezione delle cose antique» e «l’esperienza delle cose moderne». E le «cose antique» sono per lui quelle dell’età antica. Non che egli ignori gli svolgimenti storici del Medioevo. Al contrario. È davvero singolare che manifesti, anzi, una conoscenza non banale e non superficiale della storia medievale della sua città, e che nelle Istorie fiorentine dimostri, narrando le vicende di Firenze, la capacità di percepire aspetti e problemi di ordine generale di quella storia, nel cui quadro la storia della città viene collocata. Esemplare è certamente, a questo riguardo, il brano delle Istorie fiorentine (libro I, cap. V), in cui si nota che, caduto l’Impero di Roma, «l’Italia e le altre provincie romane […] non solamente variarono il governo col principe, ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua, l’abito ed i nomi […] Da questo nacque la rovina, il nascimento o l’augumento di molte città […] e molte variamente furono disfatte e rifatte […] Sursono nuove lingue […] Hanno variato il nome non solamente le provincie, ma i laghi, i fiumi, i mari e gli uomini, [e] non fu di minor momento il variare della religione». Il passaggio dall’età antica a quella medievale è qui delineato in poche righe, ma in tutta la sua portata e varietà di radicale e totale mutamento della vita civile. Eppure, l’esemplificazione storica alla quale Machiavelli sistematicamente ricorre nella costruzione delle sue idee quasi mai si riferisce al Medioevo. Le «cose antique» da cui trarre insegnamenti e ammonimenti sono per lui, come abbiamo già detto, e con tutta evidenza, le cose dell’età antica e, soprattutto, romane. Da Giustiniano a Car-

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lomagno, da Carlomagno a Federico II, sembra davvero stendersi per lui un vuoto di materia storica istruttiva e illuminante ai fini dello sviluppo e della dimostrazione delle sue idee: un vuoto dal quale nulla, o ben poco, può essere tratto per la maturazione e per l’approfondimento di quella sapienza politica che è il fine della sua riflessione. E poiché a integrare la «lezione delle cose antique» vale l’esperienza delle cose presenti – le «cose moderne» – appare implicita anche nel caso del Machiavelli la tripartizione antico-medievale-moderno, benché non venga mai esplicitamente formulata come tale. Per tutt’altra via la stessa triade si afferma anche sul piano, completamente diverso, della vita religiosa. È noto che già con Lutero lo schema storico sul quale venivano fondate le tesi della riforma cristiana da lui propugnata, e che hanno formato la maggiore base dottrinaria del Protestantesimo, presentava una parte iniziale della storia cristiana, costituita dall’età apostolica e patristica; una successiva, lunghissima, millenaria parte, caratterizzata dall’egemonia della Chiesa di Roma; una terza parte che era, per l’appunto, quella che al loro tempo inauguravano Lutero e gli altri riformatori. La prima età era quella della purezza e dell’autenticità evangelica. La seconda era quella della corruzione e dell’adulterazione più piena e degradante della purezza del messaggio evangelico. La terza parte era quella del ritorno al vero Evangelio, che nel loro tempo si proponevano i riformatori. Era – come ben s’intende – anche questo, al pari di quello machiavelliano sul piano politico, un ampliamento notevole della configurazione che veniva prendendo la modernità. E ancora altri elementi si potrebbero indicare nello stesso senso, ma è di certo più importante osservare che l’idea del Medioevo come “età oscura” fra quella antica e quella moderna finì con l’abbracciare l’intero campo della vita civile, come appare al più tardi, con tutta chiarezza, nel pensiero e nella storiografia dell’Illuminismo. Nell’Illuminismo, infatti, il Medioevo è oggetto della più completa sva-

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lutazione. Nella vita morale è il regno della superstizione e del fanatismo religioso. Nell’ordine politico è la dissoluzione dello Stato dinanzi alla Chiesa e al feudalesimo, regime della forza, della violenza e del disordine. Nell’ordine sociale è il regno delle disuguaglianze, del privilegio ecclesiastico e feudale e dell’oppressione violenta a cui è sottoposta la parte restante della società, ossia quasi tutta la popolazione. Nell’ordine giuridico vi dominano i privilegi e le immunità. Nel campo estetico e culturale è il regno dell’ignoranza generalizzata, del gusto barbarico, già deprecato dagli umanisti. E di conseguenza il moderno è l’antitesi di tutto ciò: è la luce che rischiara le tenebre, il trionfo della ragione, che comporta l’ordine e la giustizia. Questa estensione generalizzante del significato di “modernità” dal punto di vista storico ne rafforza sia l’originario significato di contrapposizione al termine e all’idea di “medioevo”, sia l’altrettanto originario carattere europeo della contrapposizione. Nel secolo XVII il boemo Cristoforo Keller (latinamente Cellarius) in tre sue opere pubblicate fra il 1675 e il 1696 avanzò formalmente la tripartizione della storia allora considerata, che era, in sostanza, la storia europea e biblica o cristiana, in historia antiqua, historia medii aevi e historia nova, quest’ultima comprendente la storia dei secoli XVI e XVII, ossia la nostra storia moderna, come ben presto la si designò. E da allora l’uso di una tale terminologia appare ormai istituzionalizzato nel suo significato più generale, sul quale si è fondato il suo valore periodizzante sul piano storiografico. L’importante è, comunque, che sia per “moderno”, sia per “medievale” la temporalizzazione – ossia la definizione cronologica, l’individuazione dei limiti di tempo entro i quali la definizione ha il suo proprio e specifico valore storico, l’assegnazione di confini temporali a ciò che intendiamo per età medievale o per età moderna – si risolva in un’idea storica, e non soltanto in un dato cronologico. A entrambi i termini è annessa, come si è visto, una qualificazione generale costitutiva, intrinseca, complessa, per

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cui quei termini designano non soltanto un tempo, bensì anche una civiltà, con i suoi valori e i suoi istituti morali e materiali. Proprio perché tali, le valutazioni cambiano, naturalmente, da tempo a tempo. Nel nostro caso, la valutazione profondamente negativa per il Medioevo, fissata già (come sappiamo) dagli umanisti nel secolo XV e da allora continuata a lungo ininterrottamente, diede luogo a una valutazione del tutto opposta tra la fine del secolo XVIII e i primi decenni del XIX, quando si determinò quella profonda rivoluzione culturale che designiamo come Romanticismo. Contemporaneamente continuavano a prodursi incrinature del giudizio incondizionatamente laudativo con cui si accompagnava la nozione di “età moderna”. Bisogna, infatti, notare che fin dall’inizio l’esaltazione della modernità non andò per nulla esente da critiche e riserve, che poi tra la fine del secolo XVIII e la prima metà del secolo XIX assunsero particolare spessore e organicità. Essenziale resta, comunque, il fatto che le revisioni avvengano sempre sul piano di un’ottica di netto significato qualitativo. Resta, insomma, immutato il criterio, per cui la periodizzazione – ossia la distinzione dell’ininterrotto fluire della storia in periodi, età, fasi diverse – non designa solo un tempo, bensì anche un insieme, e molto spesso un sistema, di valori. Moderno e contemporaneo: la scuola Rispetto a quella della distinzione e contrapposizione tra medievale e moderno, la vicenda della corrispondente distinzione e contrapposizione tra moderno e contemporaneo sul piano storiografico è una vicenda al tempo stesso più semplice e più complessa. Più semplice perché è evidente la differenza che per questo aspetto si determina nei confronti dell’uso del termine “contemporaneo” allorché viene ad essere impiegato

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in titoli di libri (storia contemporanea), sostituendo l’uso precedente dei termini “nostri tempi”, “nostri giorni” e simili. Sia le espressioni “nostri tempi”, “nostri giorni”, sia il termine “contemporaneo” sono, infatti, pure designazioni cronologiche, indicano un tempo (il nostro tempo, il tempo dei nostri contemporanei), e – al contrario di quanto si è visto per “medievale” e per “moderno” – lo indicano al di qua di ogni valutazione o discorso di merito. Lo stesso accade quando “contemporaneo” entra nell’uso scolastico e universitario. Qui viene indicata come “contemporanea” l’ultima parte della storia moderna, quella che, essendo più vicina a noi, si dà per scontato che debba essere più e meglio conosciuta. L’uso scolastico è, anzi, una spia preziosa del senso che di fatto e in concreto ha assunto il riferimento alla contemporaneità come termine di periodizzazione storica, ossia come indicazione di un periodo storico. Seguiamo, ad esempio, l’uso scolastico italiano. Nel periodo antecedente alla prima guerra mondiale il punto di partenza dell’età moderna, così come il punto terminale del Medioevo, era il 1313. Il punto terminale dell’età moderna era fissato al 1713, punto, a sua volta, di partenza della storia contemporanea. Si noti che già in questo caso l’arco cronologico riservato alla storia contemporanea oscilla tra un secolo e due secoli (cioè dal 1713 al 1860 o al 1915). Poi, gradualmente, il punto di partenza della storia moderna si sposta dal 1313 al 1453 e, infine, al 1492, mentre il punto di partenza della parte contemporanea si sposta nello stesso tempo dal 1713 al 1748 e, infine, al 1789, per approdare, dopo la seconda guerra mondiale (terminata nel 1945), al 1815, data alla quale è rimasto fino agli inizi del secolo XXI. È facile notare che in tutta questa serie di spostamenti – stabiliti nei programmi ministeriali per le scuole secondarie, ma seguiti anche nell’insegnamento universitario e nella sua ripartizione disciplinare – si è mantenuto il criterio, che abbiamo già notato, per cui l’ampiezza della storia contemporanea si conserva tendenzialmente immutata

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su una durata che va da più o meno un secolo a un secolo e mezzo o addirittura a due secoli quando lo spostamento ritarda. Invece, la durata della storia moderna fissata per i programmi scolastici, inizialmente di quattro secoli (dal 1313 al 1713), si è piuttosto ristretta che ampliata. Nei programmi adottati dopo la seconda guerra mondiale essa ha coperto poco più di tre secoli (1492-1815). L’estensione complessiva della storia moderna e contemporanea rimane, quindi, assestata intorno a un blocco di più o meno cinque secoli rispetto al millennio assegnato al Medioevo (che quando era fatto terminare al 1313 veniva fatto iniziare con l’epoca di Diocleziano e Costantino, tra il III e il IV secolo). Si noti pure che, quando l’inizio dell’età moderna era fissato al 1313, questa scansione cronologica adombrava quella che si rifaceva all’idea di Rinascimento, poiché, come è noto, è nel secolo XIV che con Petrarca e Boccaccio si hanno in Italia gli inizi dell’Umanesimo. Lo notiamo perché allora si era ancora legati a quelle che l’opinione storiografica corrente considerava le caratteristiche essenziali del Medioevo. Fissando l’inizio della storia moderna al 1313, era come se si fosse voluto tenere presente, nei suoi inizi umanistici, quello che, soprattutto in Italia, era considerato l’atrio, l’ingresso della modernità, ossia, appunto, il Rinascimento. In tal modo il Rinascimento veniva a fare organicamente parte dell’età moderna, come in effetti è, e come apparirà dal complesso di ciò che abbiamo detto e diremo. Questa ripartizione cronologica troviamo adottata, ad esempio, in uno dei migliori testi scolastici di storia apparsi fino alla riforma Gentile del sistema scolastico italiano (1924): il corso di storia per i licei pubblicato dall’editore Principato a metà degli anni ’20. Il primo volume di tale corso, Il Medioevo, fino al 1313, era dovuto a Ettore Ciccotti; il secondo, intitolato senz’altro Il Rinascimento, dal 1313 al 1748, era di Francesco Cognasso; il terzo, L’età moderna e contemporanea, dal 1748 al 1918, era di Adolfo

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Omodeo. Si trattava, quindi, di tre autori di particolare rilievo, ancorché di vedute storiografiche alquanto divaricate fra loro, come il marxista (di un marxismo piuttosto lieve) Ciccotti, il sabaudo-nazionalista Cognasso e l’idealista e liberal-democratico Omodeo. Singolare era pure la ripartizione della materia fra i tre autori, poiché Ciccotti era uno studioso dell’età antica, e Cognasso un medievista (del tardo Medioevo, soprattutto), mentre Omodeo era stato, fino ad allora, essenzialmente uno storico del Cristianesimo. Il testo dell’editore Principato è, dunque, molto significativo dal punto di vista qui considerato sia per la scansione cronologica che per i titoli dati ai singoli volumi. La stessa scansione cronologica presentava, a sua volta, un altro testo scolastico pubblicato quasi allo stesso tempo da un altro editore importante, Mondadori, e redatto da un altro storico di rilievo, ossia Luigi Salvatorelli; e le stesse considerazioni si possono fare per quelli redatti in varie versioni da Corrado Barbagallo, anch’egli uno storico allora generalmente apprezzato. Per quest’ultimo le numerose edizioni e variazioni dei suoi testi scolastici, redatti per vari ordini di scuole secondarie, finirono nella prima metà degli anni ’30 col fissarsi per quanto riguardava i licei – l’ordine di scuole più legato alle tendenze e alle risultanze degli studi quali erano sancite dall’insegnamento e dalla prassi dell’università e della ricerca scientifica – in una Storia del Medioevo che andava dal 476 al 1313, in una Storia medioevale e moderna che andava dal 1313 al 1763 e in una Storia moderna e contemporanea che andava dal 1763 al 1929 (nell’edizione del 1942 fino al 1936), ulteriormente distinta in due parti, la prima fino al 1815 e la seconda da tale data in poi (casa editrice Albrighi e Segati). Nell’edizione Sansoni del 1945 la scansione era, invece, 476-1492 per il primo, 1492-1789 per il secondo e 1789-1919 per il terzo volume (la limitazione alla prima guerra mondiale va notata perché restringe il terminus ad quem del corso di storia per le scuole secondarie ri-

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spetto all’uso del periodo fascista, ed è evidente la pruderie politica di tale limitazione). La sorte scolastica di alcuni di questi testi non fu felice, poiché il colore politico dei loro autori non li predestinava al successo nel periodo fascista. Il testo dell’editore Principato scomparve dalla circolazione. Omodeo trasformò subito la sua parte, con l’ampliamento di qualche ventina di pagine, nel volume L’età del Risorgimento, che avrebbe poi avuto grande fortuna e rinomanza. Cognasso passò a redigere da solo un intero corso di storia per i licei, in cui utilizzò più che ampiamente il volume scritto per Principato, e intitolò il nuovo corso, pubblicato per l’editore Paravia, semplicemente Storia d’Italia. Anche Salvatorelli utilizzò il suo testo scolastico nei volumi di storia d’Italia e d’Europa che poi scrisse per lo stesso editore Mondadori e per Einaudi. Qui, però, ci importa soprattutto notare che il titolo dato da Omodeo al suo volume scolastico, L’età moderna e contemporanea, era da tempo in uso nei manuali scolastici per le scuole secondarie. Lo ritroviamo, ad esempio, nel testo, apprezzato anche dal Croce, di Alfonso Professione, che con esso presentava, nell’edizione del 1894-1895, il volume finale del corso, diviso in due parti, 1748-1815 e 1815-1895, mentre il titolo di questa seconda parte, nell’edizione del 1909, era Nuova storia contemporanea dal 1815 ai nostri giorni. Dall’insieme di questo rapido spulcio ci sembra ampiamente confermato il significato di “contemporaneo” quale ultima parte – come si è notato – o quale coda, per così dire, dell’età moderna. Altrettanto chiaro sembra che questa ultima parte o coda della storia moderna venisse progressivamente distinta dalla parte antecedente della stessa età moderna solo per ragioni di ordine pratico. Ne risultava un graduale scivolamento del confine fra il moderno e il contemporaneo; e si evitava, così, un altro inconveniente, che si sarebbe fatalmente avuto se si fosse lasciato rigido e immobile quel confine. In tal modo, infatti, una “età moderna”, ristretta ai secoli fra il XVI e il XVIII, e dunque a

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una durata non superiore a due o tre secoli, sarebbe apparsa sempre meno “moderna” rispetto a un’“età contemporanea” aggiornata per definizione fino ai “nostri giorni”, e quindi anche progressivamente estesa su un arco di tempo più vicino o uguale, per la sua durata, a quello della storia moderna. Se, ad esempio, il confine fra storia moderna e storia contemporanea fosse rimasto fissato al 1748, oggi, all’inizio del secolo XXI, le due storie avrebbero una estensione cronologica all’incirca uguale. Lo stesso criterio ha poi portato di recente a modificare i programmi italiani di storia per l’ultimo anno delle scuole secondarie spostando l’inizio del periodo da studiare dal 1815 a una data imprecisata, ma che può essere ipotizzata o individuata nello scorcio del secolo XIX, considerando che l’insegnamento di storia di tale ultimo anno è stato concepito come studio del Novecento; e ciò ha ridato, fra l’altro, a questo insegnamento, tipicamente di storia contemporanea, quella profondità di poco superiore a un secolo, che sembra la più corrispondente al criterio originario della sua distinzione dalla storia moderna. Contemporaneo: l’università Sulla distinzione o non distinzione di moderno e contemporaneo conviene, peraltro, insistere con qualche ulteriore specificazione. Nella prassi universitaria italiana, per stabilire un criterio di distinzione disciplinare tra storia moderna e storia contemporanea, ci si è regolati sulla falsariga della divisione della materia stabilita per le scuole secondarie. Per la verità, di cattedre di storia contemporanea non ve ne furono sino alla fine degli anni ’40 del ’900. Dal momento in cui, tra gli anni ’40 e ’50, si sono cominciati a varare i primi concorsi di storia contemporanea, e insegnamenti di questo nome sono apparsi nelle attività didattiche delle fa-

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coltà universitarie interessate, è stato, comunque, pressoché istintivo seguire tale criterio. Non era così fino agli anni ’40, e, per molti professori universitari di storia moderna, non fu così fino agli anni ’50. I programmi fissati da uno storico e professore di grande rilievo, quale fu Federico Chabod, per gli esami di storia moderna nell’Università di Roma (oggi La Sapienza) dopo il 1945 comprendevano, ad esempio, lo studio della storia generale dal 1492 fino al 1945, con una piena e felice percezione dell’unità del periodo considerato, il cui inizio era canonicamente fissato al Rinascimento, ma, in pratica, si rifaceva al termine fissato per la fine del Medioevo dai programmi per le scuole secondarie. Poi la situazione è cambiata e la distinzione fra storia moderna e storia contemporanea con lo spartiacque del 1815 non solo è diventata, a sua volta, canonica nell’insegnamento, ma ha costituito un canone discriminante anche agli effetti dei concorsi per l’insegnamento universitario. È perciò oggi oltremodo difficile che uno specialista, la cui figura di studioso sia caratterizzata soprattutto dalla ricerca su problemi della prima metà del secolo XIX, venga considerato un modernista o, alla resa dei conti, venga preferito, quale vincitore di un concorso di storia moderna, a uno studioso di problemi del periodo che va dal secolo XVI al secolo XVIII. E, come per le scuole secondarie, le cose non vanno diversamente, in sostanza, per le università, neppure in Francia o in Spagna o in Germania, quando non si tratti di iniziative di singole facoltà, istituti o dipartimenti o addirittura di singoli docenti e studiosi. Ovunque, insomma, in Europa, i secoli XIX e XX sono stati sempre visti come una unità a sé e si è profilata una neueste Geschichte (storia recentissima, o storia contemporanea), per dirla alla tedesca, come coda della neuere Geschichte (storia recente, o storia moderna), o definita come späte Neuzeit (tarda età moderna) rispetto alla frühe Neuzeit (prima età moderna).

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Contemporaneo: la storiografia Il problema che a questo punto ci si deve porre può essere definito così: l’uso scolastico e universitario definisce la storia contemporanea con criteri essenzialmente di opportunità e di funzionalità pratica; ma fuori della sede scolastica o didattica, sul piano del metodo storico, dal punto di vista dei contenuti e delle sistemazioni critiche, nell’orizzonte dei problemi della ricerca storica, la storia contemporanea può assumere un senso più sostanziale? può porsi con la stessa forza periodizzante della storia moderna rispetto a quella medievale o di quest’ultima rispetto a quella antica? L’assorbimento della storia contemporanea in quella moderna, o, meglio, l’originaria estensione della storia moderna fino all’epoca contemporanea è fuori di ogni possibilità di dubbio. Basti pensare che la prassi anglosassone usa ancora modern history in tale accezione. Citiamo, solo a titolo di curiosità, ad esempio, un libro come Mastering Modern World History, di Norman Lowe, pubblicato a Londra nel 1982, un manuale che tratta la storia del mondo considerata come “moderna” dal 1914 in poi; o come The Birth of the Modern World, di Christopher A. Bayly, pubblicato a Oxford nel 2004, che è dedicato al periodo 1780-1914. E vale, dunque, la pena di osservare che, dovendosi articolare cronologicamente la storia moderna, nel mondo anglosassone si è preferito operare la distinzione sul versante iniziale piuttosto che su quello finale del periodo definito come “moderno”, parlando di una early modern history, storia della prima età moderna, per indicare il periodo dal XV al XIX secolo. In altri termini, qui modern vale senz’altro come l’italiano contemporaneo, mentre per indicare ciò che nell’uso italiano più frequentemente si intende come moderno occorre una qualche ulteriore specificazione (come la già riferita early modern history). L’uso anglosassone ha, peraltro, influito fortemente sul linguaggio corrente anche molto al di fuori del campo de-

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gli studi storici. Basti pensare al titolo di un film come Modern Times di Chaplin (del 1936: un film che qualcuno definì, molti anni dopo, «più moderno che mai») o a riviste degli anni ’40-’60 del ’900 impegnate nell’analisi e nella critica dell’attualità etica e culturale, come la francese «Temps modernes» o l’omonima italiana «Tempi moderni» (quest’ultima diretta da un intellettuale particolarmente sensibile alle problematiche dell’attualità qual era Nicola Chiaromonte). Sono casi evidenti, a quanto sembra, e facilmente moltiplicabili, di un’accezione della modernità senza limitazioni cronologiche, che lo storico non può ignorare e ai quali non può essere indifferente. Si può allora assumere che una distinzione sostanziale tra moderno e contemporaneo sia del tutto improponibile e che l’uso scolastico, con i suoi criteri soprattutto pratici, sia, dopo tutto, più saggio e confacente alla materia di quanto di primo acchito si potrebbe pensare? Una tale conclusione non sarebbe del tutto impertinente. In fondo, se si parla senza imbarazzi di early modern history, non dovrebbero esservi controindicazioni a parlare di late modern history (dunque, rispettivamente, frühe Neuzeit e späte Neuzeit, come si è visto che si direbbe in tedesco). Tanto più potrebbe ciò non essere, poi, incongruo, se si riconosce che la storia contemporanea vista come tarda storia moderna, late modern history, si è andata affermando anche attraverso la prassi di tecniche di ricerca sempre più raffinate. Questo affinamento appare certamente connesso con la disponibilità di strumenti di indagine nuovi, più potenti e a più ampio spettro, e insieme più precisi, resi disponibili dalla cosiddetta civiltà o cultura materiale del XX secolo. Appare connesso, altresì, alla possibilità di estendersi a temi e a problemi di difficile esplorazione, o addirittura inediti, anche grazie a un rapporto con le molteplici articolazioni disciplinari delle scienze sociali, particolarmente sviluppatesi nell’età contemporanea: un rapporto

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che perciò, ossia per questo simultaneo sviluppo delle scienze sociali nell’epoca contemporanea, riesce per lo studio della storia contemporanea molto più diretto e molto più naturale e praticabile di quanto non riesca per lo studio di periodi storici più lontani nel tempo. La storia contemporanea si è avviata in tal modo a costituire un corpus disciplinare rispettabile per consistenza di ampiezza e di problematiche e per specificità di criteri e tecniche di ricerca: punto, questo, sul quale non ci soffermiamo qui perché di facile riscontro, a non dire altro, nei manuali dedicati appunto alla storia contemporanea. Un blocco storico epocale Tuttavia, qualche rilievo va pur fatto. Già nella estensione di solito più o meno bisecolare che, specialmente in Europa, viene assegnata alla storia contemporanea, tutto quanto abbiamo or ora detto circa il suo costituirsi come corpus disciplinare si applica, come è facile intendere, molto più al secolo XX che al secolo XIX, e già questa circostanza, che sarebbe facilmente e ampiamente dettagliabile, merita qualche riflessione. In secondo luogo, il fondamento disciplinare della storia contemporanea, che abbiamo rilevato e abbiamo cercato di precisare, riguarda, come si è detto, in particolare la struttura, le possibilità, i mezzi materiali della prassi di ricerca o altri elementi dello stesso ordine. Si commetterebbe davvero un errore se si cadesse nell’eccesso di ritenere che gli strumenti e i modi materiali della ricerca non abbiano alcun rapporto con la struttura critica e concettuale della ricerca stessa. Una strumentazione materiale diversa esige anche strumenti critici di analisi e di riflessione, a loro volta, in qualche modo, diversi. Ciononostante, è certo che non cessa di essere valido quel che abbiamo detto circa la difficoltà di distinguere – sul piano della grande riflessione storica, delle grandi idee e dei grandi concetti della cultura storica – la storia

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contemporanea rispetto alla moderna con la stessa forza e con la stessa evidenza critica con la quale distinguiamo la storia moderna rispetto alla medievale o la medievale rispetto alla storia antica. In altri termini, la si definisca moderna o contemporanea, la materia complessiva delle due storie si presenta con gli aspetti di un unico blocco storico epocale. Come ogni altro, anche questo blocco storico è articolabile in fasi diverse; e in ciascuna fase risultano accentuati aspetti e problemi diversi del corso storico. Tra età moderna ed età contemporanea non appaiono, però, in nessun modo fratture in grado di delineare una diversa una diversa “filosofia” del loro significato e della loro dialettica storica. “Filosofia” è qui, per la verità, un termine che bisognerebbe evitare per non provocare l’equivoco di credere che vi sia un significato riposto o un senso trascendente del corso della storia al di là della sua, appunto, storicità, ossia concretezza storica evidente, e tutta racchiusa nella immediatezza di quel corso. Qui lo abbiamo usato solo per sintetizzare in una sola parola il significato complessivo più profondo del problema che stiamo trattando. E, tornando a questo problema, possiamo subito osservare che anche i caratteri solitamente ritenuti più propri e specifici dell’età moderna – come il modo di produzione industriale, l’affermazione di un (quasi) onnipotente capitalismo finanziario, la società cosiddetta di massa, molti sviluppi sia sociologici che antropologico-culturali, le particolari caratteristiche di ciò che si intende per “civiltà” o “cultura materiale”, le dimensioni quantitative dei fenomeni o altri elementi che facilmente si potrebbero richiamare – non appaiono mai quali elementi atti e sufficienti a individuare in maniera dettagliata un “contemporaneo” storiografico del tutto diverso dal “moderno”. Questi vari elementi riescono, invece, effettivamente persuasivi quando sono assunti quali ragioni di interna articolazione di uno stesso blocco epocale, come lo abbiamo denominato, ossia quali elementi di articolazione interna

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dell’unico periodo storico che costituisce l’età moderna. E abbiamo visto che l’uso terminologico corrente è del tutto pregno di questa sicurezza circa la dimensione semantica del “moderno”, si tratti della modern history britannica o del film di Chaplin o di denominazione di riviste. Se poi si passa all’uso linguistico corrente nei campi più vari, dalla pubblicità alla vita quotidiana, si constata subito che tutto quanto viene giudicato o proposto in positivo è definito senza indugio “moderno”, senza che si senta nessun bisogno di ricorrere all’idea della contemporaneità, chiaramente assorbita in quella di modernità (si pensi alle innumerevoli espressioni del tipo: una ragazza moderna, una automobile moderna, mobili moderni, una linea moderna, un punto di vista moderno, spregiudicatezza moderna, attrezzature moderne, e così via). Postmoderno Tutto ciò premesso, quale valore si può attribuire a vari elementi innovativi che nella seconda metà del XX secolo sono apparsi più o meno chiaramente o, se si preferisce, più o meno oscuramente in fermentazione rispetto all’idea, come si è visto, tuttora corrente di “moderno”? Solo in parte alquanto minore vogliamo riferirci con ciò alla nozione di “postmoderno”, affacciatasi – ancora una volta, come l’idea di “moderno”! – innanzitutto nel campo artistico (specialmente per l’architettura, dove è più precoce, e negli Stati Uniti appare già a partire dagli anni ’60 del ’900) e nel campo letterario. Né vogliamo riferirci al fitto quanto spesso confuso e poco pregnante dibattito che al riguardo si è sviluppato un po’ ovunque, fino a investire ampiamente anche problematiche squisitamente filosofiche. Vorremmo prescindere da ciò anche per la buona ragione, almeno ai nostri occhi, che la critica del “moderno” in cui consiste l’essenza del “postmoderno” non è affatto una

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novità della seconda metà del secolo XX. Come abbiamo già osservato, la critica della modernità è, infatti, cresciuta insieme con lo sviluppo progressivo della stessa idea di modernità. Nell’Europa controrivoluzionaria della fine del secolo XVIII e nell’Europa della Restaurazione i motivi di tale critica furono oggetto di elaborazioni addirittura sistematiche. Quando, a partire soprattutto dagli anni ’80 del ’900, l’elaborazione del “postmoderno” venne sempre più trasferendosi dal campo artistico e letterario a quello di più ambiziose implicazioni filosofiche, furono affacciate varie teorie e formulati nuovi sistemi di critica complessiva della modernità. Sennonché, proprio in questa riformulazione di sistematiche dissoluzioni del moderno la trama dei precedenti sette-ottocenteschi della critica della modernità, a cui abbiamo accennato, si rivelò più apertamente. Questo – per fare un solo esempio – è il caso dell’appello a un’autentica libertà di espressione al di fuori dei principi di razionalità e di funzionalità, ai quali, con eccessivo semplicismo, si riduceva per intero il proprium, ossia il senso della modernità: un appello di origine e di stampo prettamente romantici, già ampiamente risuonato a più riprese e in varia forma dai tempi del Romanticismo in poi. Modernità e storia moderna Con ciò non vogliamo affatto dire che il discorso sul senso e sulla vicenda della nozione di “postmoderno” si possa considerare esaurito. Resta, anzi, fermo che, in qualche modo, come abbiamo accennato, lo si deve tener presente nel discorso più specifico circa la modernità sviluppatosi nella seconda metà del secolo XX. È stato questo, infatti, il periodo in cui – mentre la storia contemporanea raggiungeva, anche negli ambienti culturali e accademici più tradizionali, la pienezza della sua affermazione disciplinare – cominciavano pure a emergere elementi che, anche su piani molto diversi da quelli accademici e disciplinari,

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mettevano variamente in discussione non solo l’idea, ma anche i fondamenti stessi, veri o presunti, della modernità. La modernità – dobbiamo ricordarlo – è uno dei concetti storici che proprio nella seconda metà del secolo XX sono stati posti radicalmente in discussione, così come gli altri dei quali si è parlato: Medioevo, Rinascimento etc. La discussione ha portato, quasi in ogni caso e per ogni aspetto, a una radicale negazione del senso storiografico di tali concetti e della possibilità o, almeno, utilità del loro uso in storiografia. Lo stesso è accaduto, del resto, con i concetti o le idee o le nozioni o i temi storici più consolidati nella tradizione storiografica europea, e per la storia moderna non meno che per quella medievale o per quella antica. Basti pensare a nozioni addirittura fondamentali perfino nella cultura corrente, come feudalesimo, assolutismo, Stato moderno e tante altre. Molto spesso, ma non sempre, questo revisionismo dissolutore si è anche tradotto in ricerche e in opere storiche, che, a prescindere dall’altezza del loro profilo, hanno giovato moltissimo all’approfondimento e a una più realistica e penetrante rappresentazione della materia storica trattata. La liquidazione di un patrimonio storiografico non è, tuttavia, un’operazione così facile come si può immaginare. Ogni patrimonio storiografico ha infatti uno spessore storico che nel caso delle maggiori culture e civiltà è, per lo più, imponente, e si è formato attraverso studi, riflessioni, elaborazioni lunghe e complesse, che formano una humus, un vero e proprio terreno di coltura in cui si fondono e si sviluppano le esperienze e le idee di numerose generazioni. Si formano così tradizioni e ricchezze culturali, i cui motivi di validità sono destinati a durare ben al di là della coscienza e della cultura che li espresse e del loro destino e delle loro sorti storiche, sia quando si ha consapevolezza di un tale perdurare, sia quando una tale consapevolezza, per qualche ragione, manca. È solo con questa premessa che si può parlare delle “rivoluzioni storiografiche” come operazioni innovative, che

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possono anche sovvertire le visioni più consolidate del passato dei paesi e dei popoli. Non è un caso, del resto, che a ogni grande svolta della cultura, a ogni “rivoluzione culturale” si accompagni immancabilmente una svolta storiografica per cui cambia il modo e cambiano i contenuti delle nostre conoscenze e rappresentazioni, idee e concezioni storiche. Né sono rari i casi in cui un rinnovamento della storiografia ha preceduto e sollecitato un rinnovamento culturale generale: caso del quale proprio la genesi della tripartizione storica di antico, medievale e moderno, di cui abbiamo parlato, offre un esempio addirittura classico, poiché fu anche sulla base di questa tripartizione che nacque e crebbe la grande rivoluzione culturale che va sotto il nome di Umanesimo e Rinascimento. E proprio questa constatazione offre il destro per procedere alla considerazione che potrebbe anche essere ritenuta la più importante tra quelle che andiamo svolgendo per introdurre la nozione, l’idea, il concetto di “storia moderna”. Tale, infatti, appare la considerazione che l’idea di modernità non è affatto una superfetazione storica, non è stata inventata dagli storici, non è nata dopo rispetto alla modernità e al mondo che definiamo moderno; è nata, invece, dal corso storico stesso, ad un parto con gli sviluppi storici ai quali si riferiva e si riferisce, è nata quale interpretazione di tali sviluppi, quale espressione di come questi sviluppi erano sentiti e di come ci si atteggiava rispetto ad essi. E tanto ciò è vero che l’idea di modernità, nascendo così, ha potuto servire, nel tempo e nel mondo in cui nacque, ossia nel mondo europeo del XV e XVI secolo, a costruire, per quel mondo europeo, una base di consapevolezza storica e una piattaforma ideologico-culturale con cui ci si proiettava nel presente e nel futuro. Elemento storico di primaria importanza, confermato dal fatto che, nata quale concetto settoriale, applicato, come si è detto, alle arti e alla letteratura, l’idea di modernità appare poi via via trasformarsi in un concetto globale di civiltà e di cultura.

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Questo radicamento storico – un radicamento cinque volte secolare – parla da solo circa la qualità concettuale e storiografica dell’idea del moderno. Lo storico non se ne può liberare a suo arbitrio. Se lo fa, non perde solo una nozione illustre e tradizionale del patrimonio storico europeo. Perde anche una dimensione fondamentale, essenziale, costitutiva del mondo e dell’epoca che non siamo stati noi ad aver denominato moderni; perde, per così dire, un pezzo sostanziale di quella storia moderna che, eventualmente, volesse studiare e ricostruire. A dirsi moderni e a designare come moderni il loro mondo e la loro epoca sono state, infatti, come si è notato, le generazioni che in quel mondo e in quell’epoca hanno vissuto essendone fin dall’inizio consapevoli e protagoniste, e hanno assunto l’iniziativa di tale denominazione. Non solo, quindi, l’idea della modernità non è una invenzione postuma, una invenzione dei posteri che con essa hanno definito un certo mondo e una certa epoca. Non solo quell’idea è stata prodotta e sviluppata da quell’epoca e da quel mondo. Bisogna anche aggiungere che non si vede nessuna plausibile ragione di non continuare a definire quel mondo e quell’epoca come fecero i loro protagonisti. La contestazione della modernità, fondata o non fondata che sia, non può essere la negazione della modernità. La considerazione storica porta, anzi, a un’ulteriore notazione. La modernità nacque e si pose come un valore nuovo e superiore rispetto al mondo che l’aveva preceduta; e come un valore, oltre che come una nozione storica, la modernità ha tutti i titoli per restare nel patrimonio storiografico. La storia moderna non è altro che lo studio del mondo moderno quale si è venuto via via sviluppando dal momento in cui l’idea stessa di modernità è nata. È, dunque, lo studio del periodo storico che, come abbiamo detto, si apre nel secolo XV, e giunge fino ai giorni nostri, anche quando stacchiamo da esso la parte più recente – quella che definiamo di storia contemporanea – e adottiamo, quindi,

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una data del secolo XIX, se non anche un po’ più tardiva, quale termine finale della stessa età moderna (come si è visto, stabilito nell’ordinamento scolastico italiano, e più o meno, in vario modo, praticato negli studi storici all’inizio del secolo XXI). Periodizzare In tutto quanto siamo andati dicendo può annidarsi un rischio storiografico che conviene chiarire subito ed evitare. Può sembrare, cioè, che, precisando con tanta cura la dimensione di un periodo storico e contrapponendola con una sua individualità specifica a quella di altri periodi, si voglia dare a intendere che i periodi storici si succedano come blocchi separati e compatti, l’uno dopo l’altro. La realtà, ovviamente, non è questa. La storia, come la vita, scorre continua e non conosce paratie stagne fra i suoi momenti. Conosce distruzioni, mutamenti radicali o addirittura totali, cessazioni di vicende di piccoli e grandi gruppi umani e tutto quello che può apparire o essere una catastrofe o un cataclisma storico. Poi, però, il mondo procede. La vita continua ininterrotta, oppure riaffiora dove e come può là dove è stata minacciata o conculcata, oppure ancora conosce un conclusivo tramonto là dove, interrotta, non riaffiora più. Ma le cesure della storia nel complesso del suo corso sono sempre parziali, temporanee, localizzate. Se finisce in un posto, essa si riapre o prosegue in un altro. Il corso della storia è anche sempre l’alba della storia, di una storia che continua oppure che inizia. Molto spesso è tutto questo insieme. La storia è, insomma, nel senso letterale del termine, un continuum, o, come si dice con una bella espressione tedesca, un fortlaufendes Kontinuum, una corrente ininterrotta, che forma il grande oceano della storia stessa in cui unda supervenit undam, un’onda segue l’altra, e il moto ondoso è tutto ed è indivisibile nel suo fitto propagarsi.

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In questa essenziale continuità sarebbe, però, difficile orientarsi se di essa non si distinguessero fasi, cicli, epoche, momenti in cui il corso storico si articola. La continuità della storia non è una realtà lineare, non costituisce un’unica linea. È, appunto, un oceano in movimento, una sinfonia dalla straordinaria ricchezza di motivi e di suoni. Bisogna distinguervi ritmi, scansioni, passaggi, percorsi, movimenti, sintonie e dissonanze, parallelismi e sfasature. Distinguere non vuol dire dividere. La distinzione non è una separazione, e non è nemmeno necessariamente una contrapposizione. Senza di essa il corso della storia diventerebbe incomprensibile. Si realizzerebbe il paradosso di perdere la bussola e la rotta procedendo su una linea continua, quale sarebbe la storia se la sua pur ininterrotta continuità non conoscesse quei ritmi, cicli, fasi etc. a cui ci siamo riferiti. Per questa ragione molti studiosi dei problemi di metodo storico non hanno esitato ad affermare che storicizzare, realizzare una operazione storica, costruire un lavoro di storia non significa altro che periodizzare, ossia individuare tempi, ritmi etc. nella corrente ininterrotta del corso della storia; e la loro affermazione è molto più sensata di quanto a prima vista potrebbe apparire a qualcuno. Fuori d’Italia, fuori dall’Europa: il moderno come modernizzazione Fuori d’Italia, almeno nei paesi latini (anche per l’influenza degli ordinamenti scolastici ruotanti intorno al modulo liceale istituito al tempo e per opera di Napoleone), la ripartizione disciplinare e didattica della storia in medievale, moderna e contemporanea quale si riscontra nei programmi di studio delle scuole secondarie e nell’università non è stata molto diversa, come abbiamo accennato, dall’uso italiano; e neppure nei paesi germanici le variazioni sono state davvero notevoli (semmai, più sensibili per il

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Medioevo: si pensi alla diffusa prassi tedesca di estendere l’“alto Medioevo” fino al 1250). Questo non vuol dire, tuttavia, che non vi siano differenze; e le ragioni delle differenze da parte a parte d’Europa sono facili a individuarsi, anzi balzano all’occhio di per se stesse. Nell’Europa meridionale, mediterranea, la durata, il peso, il significato della storia antica sono stati fortissimi, ma già una distinzione altrettanto forte si impone immediatamente, in questa vasta area europea, fra la parte occidentale e la parte orientale. Non è un caso che la nozione, il concetto di Medioevo sia nato nella sezione occidentale di quest’area: ossia in quella i cui svolgimenti storici avevano avuto luogo in più diretto rapporto con la storia antica, che era qui, essenzialmente, la storia di Roma e del suo Impero. Dell’impronta romana e imperiale questa stessa sezione portava impresso profondamente il segno innanzitutto nelle sue lingue, essendo questo l’ambito delle lingue neolatine o romanze. E, come abbiamo visto, l’idea di modernità era nata appunto come idea di un tempo che recuperava l’eccellenza attribuita alla storia antica e ritenuta imbarbarita e dispersa nei “secoli bui” del Medioevo. Già diverso era il caso dell’Europa germanica, dal Reno alla Scandinavia. Qui l’età antica non presentava per nulla la densità storica e civile propria dell’area mediterranea. L’antichità era l’epoca di quei popoli che nell’ambito imperiale romano erano considerati barbari e ai quali si faceva risalire la causa della caduta di Roma e dell’Impero romano. La manifestazione più tipica della civiltà mediterranea e romana – ossia, la città – vi mancava del tutto. Soltanto dall’epoca di Carlomagno l’area germanica si era andata via via omogeneizzando a quella neolatina in una solidarietà civile praticamente amplissima, tanto che l’idea di Medioevo vi ebbe subito altrettanto riscontro che nell’altra area. Ma era ovvio che il Medioevo germanico non potesse cominciare con la caduta dell’Impero romano in Occidente nel 476, come divenne consuetudine nella sto-

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riografia europea (non esclusa quella dei paesi germanici). Poteva cominciare, più pertinentemente, proprio con Carlomagno e con la sua conquista e ordinamento dei paesi al di là del Reno, a cavallo dell’anno 800. E questa è la ragione dell’accennato prolungamento dell’alto Medioevo tedesco fino al 1250, mentre nelle regioni latine per questo termine si preferisce la data del 1000. Grosso modo analogo è il caso dei popoli dell’Europa orientale, ossia slavi occidentali (polacchi, boemi, slovacchi) e meridionali (croati, serbi, sloveni), ungheresi, e popoli dei paesi baltici e della Finlandia, per i quali si deve, tuttavia, spostare verso il 1000 il termine segnato per i paesi germanici da Carlomagno; e per i popoli slavi orientali, a cominciare dai russi, con i quali si va anche oltre il 1000. Ben più complesso è, infine, il caso dell’Europa balcanica. Se il Medioevo, in rapporto al quale l’Europa occidentale ha definito il “moderno”, è il tempo dei “secoli bui”, nella penisola balcanica non è così. Qui l’Impero romano – dopo l’insediamento in Costantinopoli della sua nuova capitale – continuò a vivere con il suo nome ininterrottamente per quasi altri mille anni dopo il 476, e con esso anche l’antichità greca e romana ebbe una particolare prosecuzione. È vero che – romano di nome – quell’impero sopravvissuto era solo una parte della sezione orientale dell’antico Impero romano. È vero, altresì, che questa prosecuzione dell’antichità e della romanità ebbe una connotazione talmente, e sempre più, diversa dallo spirito e dalle forme antiche da non poterla considerare che come cosa nuova e altra rispetto a quella antica. Che è la ragione per cui già per il tempo di Giustiniano (che regnò dal 527 al 565) gli storici preferiscono parlare ormai senz’altro di Impero e di civiltà bizantina. E l’Impero bizantino fu per molti secoli, rispetto all’Europa medievale, una grande area di avanzata civiltà, così come Costantinopoli fu una metropoli con la quale nessuna città di quella Europa avrebbe potuto confrontarsi. Poi nel 1453 i turchi ottomani presero il posto di Costantinopoli e del suo impero, e cominciò, an-

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cora una volta, una storia nuova e diversa. Né i popoli balcanici che vissero nell’orbita bizantina, e poi ottomana, potevano vantare una vicenda quale quella adombrata nell’idea europea occidentale di Medioevo (luminosa antichità, tenebre medievali, ritorno alla luce con l’età moderna). Erano popoli nuovi (slavi meridionali, bulgari, romeni, albanesi); e lo era anche il popolo greco, che continuava a parlare la lingua degli antichi elleni, ma era anch’esso tutt’altra cosa dai popoli dell’antica Grecia ellenica e romana. E per tutti questi popoli la modernità non sarebbe iniziata se non a età moderna europea già molto avanzata. Ancora più inapplicabile, poi, l’idea europea di Medioevo si rivelerebbe se provassimo a impiegarla nella periodizzazione della storia di altre parti del mondo. Per gli arabi e per l’Islam, ad esempio, quelli che apparvero in Europa come dark ages, “secoli bui”, sono i secoli della grandezza e della piena classicità. In altri mondi storici (Cina, India) le difficoltà di un’applicazione della cronologia europea sono, se possibile, anche maggiori. Per l’ambito dell’Africa subsahariana e per le Americhe, per l’Oceania e per il mondo insulare del Pacifico nella loro interezza il problema non si pone neppure. Nelle varie parti del mondo si ebbero – durante l’età che in Europa definiamo moderna – vicende storiche della massima importanza sia per i paesi direttamente interessati che per la storia del mondo. In alcune zone (in Cina, ad esempio, e in India, nel mondo islamico, in Giappone e altrove) si ebbe la formazione di realtà politiche importanti, organizzate spesso in grandi e piccoli imperi, che furono talora matrici di notevoli e raffinate civiltà. Ancora durante il secolo XVII si poteva avere la fondata impressione che la storia degli uomini proseguisse con quel policentrismo geografico e tipologico che fino ad allora l’aveva caratterizzata, e ancora molto più tardi non sarebbero stati pochi gli storici e gli studiosi per i quali a quell’epoca tra la Cina e l’Europa non vi era differenza di sviluppo, e che, se mai, era la Cina a essere in vantaggio. Come diremo anche

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altrove, questo modo di vedere le cose non è accettabile; e, comunque, nel corso del secolo XVIII il rapporto tra mondo europeo occidentale e mondo extraeuropeo si andò definitivamente svolgendo nel senso del predominio europeo, già annunciatosi nel secolo XVI. Su questi sviluppi non ci soffermeremo qui, lasciandoli allo studio più particolare che ad essi va dedicato. Sottolineiamo, peraltro, che si tratta di sviluppi esterni alla storia dell’Europa e del mondo occidentale, da noi qui specificamente trattata, ma che nella storia europea e occidentale tali sviluppi in vario modo rientrano, dato il ruolo centrale che durante la stessa età moderna l’Europa assunse nella storia del mondo, e data la portata dell’influenza che essa finì per esercitarvi, per cui modernizzazione ed europeizzazione sono venute largamente coincidendo. Sembra diventato vero, perciò, alla fine, che parlare di Europa implica che si parli dell’intera storia mondiale, e viceversa. In altri termini, come avremo modo di vedere, l’Europa ha in pratica unificato la storia del mondo e dell’umanità nella scia non solo della sua formidabile ascesa nella scala della potenza che l’ha portata a dominare per qualche secolo la massima parte dei paesi extraeuropei, ma, ancor più, con il suo impressionante sviluppo tecnico e scientifico e con le sue idee e i suoi criteri di valore e i suoi modi e stili di vita. A tutto ciò corrispondeva, peraltro, una influenza extraeuropea sull’Europa di altro segno e di altra portata, nonché l’importanza crescente che la disponibilità di posizioni strategiche e coloniali fuori d’Europa ben presto assunse ai fini delle lotte di potenza tra gli Stati europei. Fuori di questa angolazione europea la storia del molto vario mondo extraeuropeo è, peraltro, irriducibile a una qualsiasi unità, come si vede chiaramente quando si pensa a branche di studio quale è stata, ad esempio, in particolare, la “storia dei paesi afro-asiatici”, che nelle università italiane ha avuto per parecchio tempo una immeritata for-

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tuna di disciplina storica, ma che era poi soltanto la storia di singole parti o paesi dell’Africa o dell’Asia senza intrinseco e sostanziale nesso fra loro. E la controprova di quanto andiamo dicendo è offerta dalle vicende del tardo secolo XIX e del XX in cui un filo rosso evidente è segnato, come si sa, dalla compartecipazione sempre più ampia – e in ultimo, ossia, al più tardi, dalla metà del secolo XX in poi, piena e codeterminante – dei popoli extraeuropei nel condizionare il corso della storia mondiale. Staccare l’idea di “moderno” da quella di “medievale” Queste elementari constatazioni di dati di fatto temporali non possono – o non dovrebbero – restare senza qualche conseguenza anche concettuale e storiografica. Il punto essenziale è sempre costituito dal fatto che l’idea di modernità è nata in Europa in correlazione con quella di Medioevo, e – come si è visto – sul terreno delle lettere e delle arti, per allargarsi poi a tutto il complesso della vita civile. Orbene, in considerazione delle enormi difficoltà e, per lo più, della impossibilità di applicare una tale idea periodizzante non soltanto agli ambiti extraeuropei, ma addirittura all’Europa stessa in tutte le sue parti, non sarebbe preferibile staccare l’idea di “moderno”da quella di “medievale” e cercarne una delimitazione e un contenuto storico in maniera diretta e autonoma, avulsa dal riferimento ai “secoli bui”? Rompere una connessione – che, come si è visto, non è soltanto storiografica – tra i due termini del binomio medievale-moderno può apparire azzardato, e anche indebito, dopo tutto quello che abbiamo detto circa la nascita a un parto di queste due idee; circa il profondo radicamento dell’una e dell’altra nell’esperienza storica dalla quale sono nate e della quale sono espressione; circa il fatto che la modernità, prima di nascere come idea degli storici, è nata come percezione del proprio tempo rispetto al mil-

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lennio precedente nella società e nella cultura europea del XV e XVI secolo; circa l’opportunità di non procedere a una liquidazione inconsulta di idee e visioni storiche che hanno formato e, malgrado ogni critica in contrario, continuano a far parte di un grande e vivente patrimonio di cultura, di una eredità alla quale da secoli si sono rifatte e si rifanno la coscienza e l’identità europee. Una cosa, però, è rompere una connessione come quella tra “medievale” e “moderno” per una scarsa saldezza di concetti e di metodo e, quindi, per una evidente inconsapevolezza della natura e della portata dei termini in gioco; oppure per un amore del nuovo per il nuovo o per uno spirito dissacratore o, come spesso suol dirsi, revisionista, che portano a scorciatoie assai poco sensate e feconde. Tutt’altra cosa è, invece, rompere il nesso tra quei due termini non per negarne la solidarietà genetica o per scindere la loro profonda correlazione storica, bensì per approfondire il senso di questa correlazione e potenziarne il significato, superando nello stesso tempo le limitazioni geografiche o, se si vuole, geo-storiche, che limitano, come si è detto, la loro applicabilità fuori del contesto originario. Specialmente per il termine “moderno” quest’ultimo punto è di grande importanza. Sappiamo, infatti, che nella storia del termine “moderno” si mostra una permanenza costante della originaria connotazione positiva del suo significato. Moderno è ciò che è adatto ai nostri tempi; ciò che è ancora abbastanza nuovo per essere apprezzato da noi come tale; ciò che ha segnato una soluzione di continuità con precedenti meno apprezzabili. Diventare moderni rappresenta una promozione storica. La modernizzazione è la meta dichiarata e ambita di movimenti politici e culturali, economici e sociali. Staccarsi dalla tradizione ed entrare nella modernità è ancora, all’inizio del XXI secolo, il problema sofferto e denunciato di buona parte dell’umanità. E da tempo tutto questo si è affermato per tutto il mondo, anche fuori e lontano dall’Europa, e anche là dove l’antinomia del moderno col medievale non solo non

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aveva senso, ma era completamente assente nel lessico e nelle idee correnti. In altre parole, pur mantenendo la correlazione originaria dell’antinomia con il termine di Medioevo, il termine “moderno” ha acquistato via via una sua autonomia che ha finito per renderlo percepibile, noto e fungibile pressoché in ogni parte del mondo. Quando parliamo di staccare l’idea di moderno da quella di medievale vogliamo, dunque, soltanto mettere in rilievo questa conseguita autonomia della modernità come valore riconosciuto e preminente dell’età moderna. E, d’altra parte, a dare ancora maggiore senso all’autonomia finale del moderno si aggiunge il ruolo svolto dall’Europa nel mondo durante l’età moderna, certamente decisivo anche nel dare alla modernità il suo finale scenario mondiale e i suoi rivoluzionari effetti altrettanto globali.

Capitolo secondo

Quando e come si apre l’età moderna

Una serie di eventi e di sviluppi Abbiamo ripetutamente detto che all’inizio dell’età moderna si colloca la dottrina umanistica del rifiorimento delle lettere e delle arti dopo quella che veniva definita la lunga e buia notte del Medioevo. Abbiamo anche detto che dalla iniziale caratterizzazione sul piano artistico-letterario l’idea della modernità si è poi allargata gradualmente fino ad abbracciare tutto l’àmbito della vita civile. Appunto per il graduale allargamento del significato della modernità è, però, ancor più evidente che a costituire l’idea della stessa modernità sono intervenuti molteplici, disparati elementi, e che è stato il concorso, è stata la sinergia di tanti elementi a fare in modo che essa assumesse tutta la sua consistenza. Intanto, occorre, però, fissare subito un concetto fondamentale: l’inizio dell’età moderna non è segnato in particolare da un evento, da un fatto, che faccia scoccare tutto a un tratto la scintilla del moderno. Un tale inizio puntuale non ha molte probabilità di verificarsi nel corso della storia. In generale, anche i fatti, gli eventi più catastrofici, più rivoluzionari, più violenti nel loro irrompere nel corso storico avvengono in un contesto e danno luogo a prosecuzioni e modificazioni di quel contesto. L’inizio di un’epoca storica è, propriamente parlando, un processo, un cursus, un susseguirsi di eventi, dal cui sviluppo prende for-

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ma e consistenza l’avvio di un’età nuova, di una nuova realtà, e cioè, in pratica, una nuova storia. Nel caso della storia moderna questo appare con una evidenza addirittura solare, e sarà, quindi, il caso di trattenersi ora sulla serie di eventi o di sviluppi che diedero concretamente inizio a quella che chiamiamo età moderna. Sono tutti eventi e sviluppi che si dipanano tra la fine del secolo XV e la prima metà del secolo XVI, nello spazio di pochi decenni, e la cui portata non sfuggì ai contemporanei. Ed è per questa ragione che la coscienza della modernità inaugurata, già nella prima metà del secolo XV, dalla dottrina umanistica sulle lettere e le arti rifiorenti suona come una grande ouverture del nuovo tempo. Umanesimo e Rinascimento agli inizi dell’età moderna “Rinascimento” – come tutti quelli attinenti alla definizione di grandi periodi storici – è un termine intorno al quale è sorta tutta una selva di interpretazioni, anche molto divergenti o del tutto opposte fra loro. Esso fu, infatti, inteso, volta a volta, come una netta rottura con la precedente civiltà medievale; o come prosecuzione e sviluppo di motivi fondamentali o di qualcuna delle fasi più felici del Medioevo; o come animato da uno spirito essenzialmente laico e da un individualistico scatenamento delle forze che avrebbero poi animato la civiltà moderna; e perfino come uno sforzo tradizionalistico e conservatore di salvaguardia di valori viventi nella civiltà e nella cultura europea fin dall’antichità classica. D’altra parte, nel secolo XX l’idea di Rinascimento, non diversamente da altre grandi idee storiche, è stata discussa e negata quale effettivo, coerente e consistente insieme di tendenze del pensiero filosofico, di orientamenti ideali, di fenomeni artistici e culturali, di sviluppi e trasformazioni morali, e, insomma, di tutto ciò che può indicare una civiltà nel suo complesso. E soprattutto è apparsa di-

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scussa e negata la possibilità che il concetto di Rinascimento possa essere utile in relazione al discorso sulla genesi e sulla natura della modernità. La prospettiva del moderno viene, infatti, ritenuta un evento di altro momento storico (a volte anteriore, già a partire dal Mille, ma, per lo più, decisamente posteriore, poiché si pensa soprattutto, come diremo, al secolo XVIII e alla “rivoluzione industriale”). Tuttavia, vale per il Rinascimento come per la modernità la considerazione che l’idea di una “rinascita”, inizialmente sul terreno delle lettere e delle arti, poi ampliata fino a comprendere tutti i campi della vita civile, non è un’idea sorta in tempi posteriori nel lavoro e nei discorsi degli storici. Vale, cioè, la considerazione che essa fu, al contrario, un’idea sorta nella cultura degli stessi secoli XV e XVI, ai quali l’idea di Rinascimento si riferisce. Anche per questo, tali secoli sono stati visti spesso come un’epoca di transizione dal mondo medievale a quello moderno: una transizione durata, secondo alcuni, fino al secolo XVIII. L’idea storica di transizione ha, peraltro, una propria e indiscutibile forza come modulo sia interpretativo che rappresentativo del corso della storia. C’è sempre, infatti, l’esigenza viva di non intendere i passaggi da un’epoca all’altra soltanto come passaggi immediati, catastrofici, come sovversioni istantanee di civiltà e di mondi storici. E, perciò, per quanto discussa e negata come concetto storico, l’idea di Rinascimento ha continuato a mantenere un suo largo spazio storiografico come idea, appunto, di un’epoca di transizione. Neppure coloro che negano più decisamente la validità di un’idea del Rinascimento come periodo storico spingono, poi, la loro negazione fino a non riconoscere niente della serie, quanto si voglia disorganica e di varia natura e significato, delle manifestazioni di arte, di pensiero, di cultura in cui per tradizione è stato individuato e articolato il Rinascimento. Non è, comunque, solo per questa esigenza logica e storica di una transizione che Umanesimo e Rinascimento vanno considerati in relazione al discorso sulla storia moderna. Quando si penetra nel mondo storico – morale e

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culturale – che da essi prende il nome, il mondo cioè dei secoli XV e XVI, appare subito chiaro che l’idea della transizione non basta più a definirli. Il binomio RinascimentoUmanesimo rivela, infatti, una tale ricchezza di determinazioni storiche di ogni genere e in ogni campo da richiedere, comunque, una loro considerazione non riducibile alla funzione di cerniera in cui molti tendono a identificarli. Richiedono, cioè, di essere considerati sul piano storiografico in piena autonomia, come un movimento e una fase storico-culturale di forte identità e rilievo. Così considerati, l’Umanesimo e il Rinascimento non traghettano alla modernità, ma la inaugurano. Prima grande «rivoluzione culturale» della nuova età, nel lungo percorso che va dal Petrarca nel secolo XIV a Erasmo da Rotterdam nel secolo XVI, essi innovano la concezione dell’uomo, del suo ruolo nell’universo, della sua essenza morale e razionale. Nessuna rottura in materia religiosa, come un tempo si pensava, ma un’etica più semplice e l’idea di una “religione naturale” integrano una nuova intuizione dell’uomo e della vita, quale si considera espressa già nell’antichità classica. L’età antica viene ricercata ora nelle sue perdute testimonianze archeologiche e letterarie, per cui sono recuperati innumerevoli opere e testi greci e latini; e viene considerata quale modello insuperabile sia sul piano degli ideali morali che sul piano della bellezza e della perfezione estetica, e modello, perciò, delle lettere e delle arti. Arte e letteratura assumono il rango di una mediazione che nella figurazione e nella parola rivela valori superiori. L’uomo è considerato una cerniera dell’universo quale tramite tra le cose materiali e gli esseri inferiori, da un lato, e le cose celesti e spirituali, dall’altro lato; e perciò si esalta la sua “dignità”, l’“eccellenza”, di cui si irraggiano anche la sua vita terrena e il mondo. A loro volta, la vita terrena e il mondo sono visti anch’essi in una luce nuova e positiva, e non più deprecati come regno soltanto della caduta e del peccato originale. Sono, anzi, considerati come “natura”, come modello dei modelli nella via alla bellezza e alla perfezione. Il grande onore in cui furono tenuti artisti e

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letterati (ci si esaltava per il gesto, attribuito all’imperatore Carlo V, di piegarsi a raccogliere a terra il pennello caduto dalle mani del Tiziano) traduceva in fatti sociali questi nuovi modi di guardare al mondo, all’uomo, alla vita. Soprattutto l’arte della parola, vista come la più umana delle doti e delle manifestazioni dell’uomo, ebbe una considerazione particolare, e la parola stessa fu considerata come una forza universale di rivelazione e di sublimazione dell’essenza e della nobiltà delle cose e della vita. Nello stesso tempo tutto ciò fu accompagnato da una forte affermazione dello spirito critico. Da questo spirito nacquero la filologia e la critica moderna col loro metodo e con le loro tecniche (e ne fu esempio insigne l’opuscolo scritto nel 1440 da Lorenzo Valla contro la lunga tradizione e leggenda della presunta donazione, da parte di Costantino, della parte occidentale dell’Impero romano ai papi). E, non per nulla, la critica e la filologia sono state pure tra i maggiori supporti dello spirito laico e mondano, in cui si manifesta un’ulteriore e determinante componente della modernità. D’altra parte, se questi furono i fili centrali negli svolgimenti umanistici e rinascimentali, non furono i soli, né coprirono tutto l’arco di questa fase storica. Filosofia, arte, letteratura diedero luogo a numerose e importanti manifestazioni di altro segno e di altra ispirazione. Non è molto funzionale parlare di un “Antirinascimento” in contrapposizione al “Rinascimento”. Molte delle presunte espressioni antirinascimentali consistono soltanto in altri modi di esprimersi dello spirito rinascimentale rispetto a quella che può essere considerata la sua trama centrale. Inoltre, certamente vi furono indirizzi e orientamenti non riconducibili in qualche modo a quella trama centrale, e fortemente originali, se non alternativi, rispetto ad essa. Ma, in questo caso, ciò che si vede è un ulteriore e diverso, e spesso più specifico e consistente, modo di anticipare e inaugurare la modernità (e così è, ad esempio, nel caso del grande saggista e moralista Michel de Montaigne). Soprattutto, poi, è vero che nell’Umanesimo, e nel Rinascimento, vi fu una pluralità

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di scuole, di indirizzi, di correnti che compongono – intorno al loro filone centrale – un ampio panorama artistico e culturale. E, perciò, senza tenere ben presente questo molto vario e complesso panorama, e senza farne parte integrante nella considerazione di quell’epoca, si resta molto lontani dal comprendere appieno la realtà e gli sviluppi dell’Umanesimo e del Rinascimento. Un ultimo cenno meriterebbe il rapporto tra Umanesimo e Rinascimento. Basterà, però, qui dire che essi formano una unità, i cui due termini solo in astratto possono essere considerati a parte, l’uno separato dall’altro in una sua rispettiva specificità. E quindi solo in astratto si può sottolineare l’Umanesimo come contrassegno che mette in evidenza lo spirito critico, le preoccupazioni e sollecitazioni morali e religiose, la disciplina filologica, il senso dell’uomo e dell’umano sulla base della loro “eccellenza” e “dignità”, il senso dell’individuo e dell’individualità come valori imprescindibili e di partenza in ogni esperienza umana. E altrettanto solo in astratto si può considerare il Rinascimento come un moto culturale e sociale di più ampia portata che abbraccia l’Umanesimo e ne è fortemente connotato, ma comprende l’intera serie degli sviluppi culturali e sociali del tempo in ogni campo (scientifico, tecnico, politico etc.), con una molteplicità e varietà di espressioni, tendenze, spinte e controspinte, che ne fanno uno dei periodi più complessi e ricchi di motivi e di sviluppi della storia europea. Colombo (e gli altri) Tra i singoli eventi o sviluppi delle vicende attraverso cui la modernità prese forma e si manifestò il suo carattere processuale, la data in cui Cristoforo Colombo avvistò per la prima volta una terra americana, la mattina del 12 ottobre 1492, fu ritenuta per lungo tempo una data quasi obbligata per fissare l’inizio dell’età moderna. E, in verità, non era una data male scelta.

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Lasciamo da parte le mille questioni che hanno annodato intorno al nome e alla figura di Colombo un vero capestro problematico. Accenniamo solo al fatto che gli studi sembrano aver sempre più confermato la sua patria e nascita genovese, anch’essa messa in discussione. Ci fermiamo invece sul punto della originalità e novità della sua impresa, per affermare innanzitutto un punto: e, cioè, che – anche se prima di Colombo altri avessero scoperto o raggiunto le terre americane (i Vichinghi, si dice, ad esempio) – la cosa non avrebbe alcun rilievo storico. E, infatti, soltanto dalla scoperta colombiana in poi si capì che si era scoperta una parte fino ad allora ignota del mondo e si cominciò a parlare di un Nuovo Mondo distinto dal Vecchio (Asia, Africa, Europa). Oltre questo punto di indiscutibile novità, c’è una seconda ragione di originalità, che merita di essere ancor più sottolineata. Si tratta del fatto che con Colombo per la prima volta una esplorazione geografica venne condotta sulla base di un’ipotesi scientifica. Fino ad allora l’esplorazione del mondo aveva proceduto sulla base di viaggi marittimi o terrestri con i quali si proseguivano gli itinerari già noti. Si potrebbe dire che vigeva il principio di andare a vedere che cosa vi fosse dietro l’angolo, conoscendo l’uno dopo l’altro, tratto a tratto, gli spazi marini e le terre fra cui ci si muoveva. Con Colombo il cambiamento di scena è impressionante. Il viaggio è, infatti, organizzato da lui non secondo il costume tradizionale dell’andare pragmaticamente un po’ oltre le mete raggiunte nei viaggi intrapresi fino ad allora, bensì, appunto, sulla base di un’ipotesi scientifica. Il merito dell’aver adottato questo procedimento è accresciuto dal fatto che l’ipotesi alla quale si rifaceva Colombo – ossia la rotondità o sfericità della Terra – non era allora affatto accettata da tutti, anzi era assai largamente contestata. Fu proprio il viaggio di Colombo ad avviarne una prova sperimentale di non piccola importanza. Se la Terra è rotonda, allora sarà possibile andare in Oriente viaggiando sempre verso occidente: buscar el Levante por

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el Poniente, detto alla spagnola. La meta di Colombo erano, come si sa, le terre orientali, dalle quali provenivano le spezie e altri prodotti che i popoli europei si procuravano acquistandoli dagli arabi o da altre popolazioni musulmane dislocate nello spazio intermedio fra India e Cina da un lato e rive del Mediterraneo dall’altro lato. Il guadagno che il commercio europeo avrebbe ricavato liberandosi dalla intermediazione commerciale islamica nei rapporti con l’Oriente sarebbe stato cospicuo. Ancor più avrebbe contato, poi, la possibilità di non fare più conto di quella intermediazione nei rapporti politici con i paesi interessati al traffico delle spezie e dei prodotti orientali. In realtà, Colombo non scoprì affatto, come si era proposto, la via delle Indie. Credette di essere giunto, per l’appunto, colà (e ancora oggi noi chiamiamo perciò indiane o indie le popolazioni trovate dagli europei nelle terre americane). Non era, invece, così; e fu una vera fortuna per lui. Egli, in base ai calcoli dei geografi arabi del tempo, aveva calcolato una lunghezza della circonferenza terrestre inferiore di un terzo o di un quarto a quella reale. Se fra le coste spagnole dalle quali partì e le coste indiane dove si proponeva di giungere non si fossero interposte le terre americane, le sue navi sarebbero state inghiottite dall’oceano, non avendo assolutamente l’autonomia necessaria per viaggiare su distanze maggiori di quella che percorsero per raggiungere l’isola di Hispaniola, prima terra americana scoperta dagli europei. Poco dopo la navigazione di Colombo la via delle Indie fu effettivamente trovata a opera del portoghese Vasco da Gama, che nel 1498, raggiunto lungo la costa atlantica dell’Africa il Capo di Buona Speranza, poté attraversare l’Oceano Indiano e approdare nella vera e propria India. Si cominciò così a capire che la terra scoperta da Colombo era un’altra, non quella cercata come India. Nel 1507 il Nuovo Mondo, che ormai si era capito essere stato scoperto da Colombo, ricevé il suo definitivo nome di America, la terra di Amerigo, ossia di Amerigo Vespucci, navigatore fiorentino, che aveva esplo-

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rato le coste americane e aveva fornito carte e ampi resoconti dei suoi viaggi. Ancor più si capì poi la novità della scoperta di Colombo quando tra il 1519 e il 1521 si svolse il viaggio guidato da un altro portoghese, Ferdinando Magellano, anch’egli, come Colombo, al servizio dei sovrani di Castiglia. Fu lui a realizzare quella che può essere considerata la prima circumnavigazione del globo terrestre, poiché, partendo dalla Spagna, raggiunse le coste atlantiche dell’America meridionale, puntò a sud, raggiunse lo stretto che da lui prese il nome, lo doppiò e passò dall’Atlantico nel Pacifico, scoprendovi le isole Molucche e raggiungendo infine le Filippine, dove fu ucciso dagli abitanti del luogo. La sua spedizione, peraltro, proseguì sotto il comando dello spagnolo Juan Sebastián del Cano, che nel 1522 poté raggiungere Lisbona. Così, nel breve giro di trent’anni, per la prima volta nella storia, la struttura fisica e geografica complessiva del pianeta Terra si rivelava all’uomo nella sua interezza. Per la prima volta si acquisiva un senso pieno di ciò che significava in concreto l’espressione “globo terracqueo”, anche se molte zone della Terra rimanevano ancora da esplorare ed erano sconosciute: gran parte delle stesse Americhe, l’Australia e l’intera Oceania, l’interno dell’Africa, l’Antartide. “Guerre d’Italia” e sistema degli Stati europei nell’età moderna Negli stessi anni in cui si svolgevano le navigazioni di Colombo, di Vasco da Gama, di Magellano e degli altri esploratori e navigatori di quel tempo si avviavano anche le “guerre d’Italia”, ossia un ciclo bellico che in poco più di una trentina di anni determinò il quadro della grande politica europea nell’età moderna. Per intendere questi sviluppi è necessario un rapidissimo accenno alla situazione determinatasi in Europa alla metà del secolo XV. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente e per tutto il Medioevo nello spazio conti-

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nentale e mediterraneo che noi designiamo come Europa vi furono tre o quattro macro-aree storiche. Una era formata dall’Impero romano d’Oriente, che gli storici indicano con il già ricordato nome di Impero bizantino, e che durò fino al 1453, quando gli ultimi avanzi (in pratica, quasi solo la capitale, Costantinopoli) ne furono conquistati dai turchi ottomani. Un’altra era formata dalle terre invase e occupate dai musulmani dell’Africa settentrionale, i cui ultimi resti (il dominio di Granada, in Spagna) furono conquistati dai sovrani spagnoli, Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, nel 1492. Una terza zona era quella formata dall’intera Europa orientale, controllata a lungo da mongoli e tartari, in cui lentamente si venivano sviluppando i principati che avrebbero formato, alquanto più tardi, la Russia moderna. Una quarta zona comprendeva l’Europa occidentale fra la Scandinavia, la penisola iberica e la Sicilia, le isole britanniche e i territori polacchi e lituani. Fu questa zona, contraddistinta dalla sua confessione religiosa cristiana cattolica, e quindi stretta nel riferimento al Papato romano come vertice della Chiesa cattolica, l’incubatrice della modernità, e il cuore animatore e plasmatore dell’Europa moderna. Dal punto di vista politico, l’Europa cattolica – che coincideva, in pratica con l’Europa occidentale – era suddivisa in una serie di paesi, di popoli, di organismi politici, che si consideravano assolutamente sovrani e non riconoscevano alcuna autorità politica superiore. L’Impero romano restaurato da Carlomagno nell’anno 800 (e dalla metà del secolo XIII indicato come Sacro Romano Impero) aveva preteso per lungo tempo di costituire appunto l’organizzazione politica superiore, che tutti i paesi cattolici avrebbero dovuto riconoscere e che avrebbe dovuto realizzare l’unità politica del mondo cristiano. Uguale rivendicazione di competenza a sovrintendere alla struttura politica dei paesi cattolici avanzava il Papato romano, che perciò aveva contrastato a lungo l’opposta pretesa imperiale. Già, però, nel secolo XIII la rivendicazione imperia-

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le aveva perduto ogni consistenza e l’Impero sopravviveva unicamente come organizzazione politica del mondo germanico, titolare di diritti anche nell’Italia centro-settentrionale, che, però, erano praticamente caduti anch’essi in desuetudine. E sorte analoga avevano subìto pure le rivendicazioni pontificie di sovranità “universale” su tutto il mondo cattolico (tranne qualche caso ormai isolato, come era quello dei Regni di Napoli e di Sicilia, sui quali la sovranità pontificia era formalmente riconosciuta). L’Europa occidentale formava così – alla metà del secolo XV – un’area a struttura politica pluralistica, nel senso che in essa esistevano varie regioni, ciascuna con la sua fisionomia, i suoi problemi, i suoi equilibri e squilibri: una regione iberica (Castiglia, Aragona, Portogallo, qualche principato minore); una regione francese, egemonizzata dalla monarchia francese; una regione britannica (Inghilterra, Scozia, Irlanda); una regione germanica, formata in pratica dalla struttura del Sacro Romano Impero; una regione italiana, formata dalla penisola e dalle isole circostanti; una regione scandinava (Danimarca e Svezia); una regione danubiana e baltica (Ungheria, Polonia, Lituania). Ciascuna di queste regioni viveva assorbita essenzialmente nei suoi problemi, ma esistevano varie interferenze, per cui fra di esse si verificavano incontri e scontri a cavaliere dei loro rispettivi spazi: così a cavaliere della Manica fra Inghilterra, Francia e terre fiamminghe; così fra regione germanica e regione danubiana (Austria, Ungheria, Polonia, Boemia); così fra penisola iberica e penisola italiana (Aragona con le sue dipendenze di Sicilia e Sardegna, Regno di Napoli, Genova); così fra spazio francese e spazio germanico (Francia, Ducato di Borgogna con le Fiandre, Casa d’Asburgo, Confederazione Elvetica). I rapporti fra le varie regioni seguivano le onde delle circostanze, intensificandosi in alcuni periodi e diradandosi o addirittura cessando in altri. Ciascuna regione formava un sistema, ma non si poteva dire che vi fosse uno stabile, vero e proprio sistema degli Stati europei. Le coa-

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lizioni e le relazioni che si formavano in determinate occasioni si scioglievano, poi, appena superate le circostanze che le avevano provocate. Un esempio tipico di coalizione europea di questo tipo era stata, a suo tempo, quella che aveva opposto il Papato, il Regno di Francia, la Casa di Svevia e i loro alleati all’Inghilterra, all’imperatore Ottone IV, al conte di Olanda e ai loro alleati per i diritti alla Corona imperiale rivendicati da Federico II di Svevia, sostenuto dai primi contro Ottone IV. Risolta la questione con la battaglia di Bouvines nel 1214, le due coalizioni si sciolsero, senza lasciare dietro di sé nessuna tradizione politico-diplomatica. La grande importanza storica dell’impresa italiana di Carlo VIII di Francia in Italia nel 1494-1495 stette, appunto, nell’aver dato avvio al moderno sistema degli Stati europei, segnando il momento in cui nell’Europa occidentale si passò dalla pluralità dei sistemi regionali, e, in parte, interregionali, a un unico sistema continentale che, stretto allora, non solo non si sarebbe più dissolto, ma si sarebbe alla fine trasformato in un sistema mondiale. Resta solo da aggiungere qualche precisazione circa il senso dell’espressione “sistema di Stati”. Per tale va intesa, in effetti, ogni area politica nella quale i rapporti fra i vari organismi politici che la compongono siano regolari, continui, intensi e tali da toccare gli interessi di ciascuno di quegli organismi, al punto che tutto ciò che accade in qualsiasi parte di quell’area interessa tutte le altre. Si determina così, in ogni area con queste caratteristiche, un gioco automatico e ininterrotto di azioni e di reazioni o di assenze o rinunce a reazioni, immediate o non immediate che siano, a tutto ciò che in essa accade. Si determina, cioè, una certa solidarietà di destini fra tutti gli organismi presenti nell’area, nel senso che il destino dell’area e la sorte di ciascuno degli organismi in essa presenti dipendono dall’equilibrio o squilibrio di potenza e di rapporti stabilito via via in essa dalla dialettica quotidiana delle azioni e reazioni di cui l’area stessa è teatro. Vi è una ricerca di pe-

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si e contrappesi di potenza fra gli organismi. Si può osservare non solo una lotta continua e radicale fra opposte tendenze al predomino, ma anche una costante antitesi fra tendenze all’egemonia e tendenze all’equilibrio nell’ambito dell’area; si determinano situazioni di equilibrio o di egemonia e predominio unipolari, bipolari o multipolari a seconda dei tempi e del mutare della situazione generale. Si dispiega un vario gioco dei fattori di potenza, da quello militare a quello economico e finanziario, da quello strategico-territoriale a quello ideologico-religioso, e ad altri. E di tutto ciò vive e si svolge la dialettica di un sistema di Stati. Indubbiamente, alla fine del secolo XV l’Europa occidentale era matura per una trasformazione della pluralità dei suoi sistemi regionali in un solo sistema. È anche relativamente facile intravvedere il perché di questa maturità. Alla metà, infatti, del secolo XV tutti i sistemi regionali che abbiamo sopra indicati appaiono aver raggiunto uno stabile equilibrio interno, non più facilmente modificabile con il gioco delle forze interne di ciascuna regione. Nello stesso tempo, la seconda metà del secolo XV vede in Europa l’avvio di una grande ripresa demografica, economica, sociale dopo la lunga depressione e ristrutturazione provocata dalla catastrofe della metà del secolo precedente, quando la grande “peste nera” del 1348 aveva decimato la popolazione e causato una profonda depressione economica. Infine, i poteri statali in ciascuno degli organismi politici dell’area europea si erano in pari tempo rafforzati, e pressoché ovunque lo Stato (o quel che si può designare con tale nome) godeva di maggiore autorità e aveva allargato e potenziato la sfera della sua attività. E perciò un’Europa politicamente meglio organizzata e più forte, traboccante di nuove energie, non poteva che trovare fuori dei confini regionali tradizionali lo spazio in cui riversare le sue nuove potenzialità, mentre le scoperte americane e le nuove rotte oceaniche in Oriente e in Occidente allargavano gli orizzonti e le vedute delle generazioni europee di

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quel tempo, assuefacendole alla considerazione di spazi molto più ampi di quelli tradizionali. La sensazione delle nuove circostanze doveva essere già ben presente ai contemporanei, come possiamo senz’altro dedurre proprio dall’azione di Carlo VIII per rivendicare i diritti da lui pretesi sul Regno di Napoli. Con un criterio insolito fino ad allora, il sovrano francese si premurò di prendere contatto con tutte le potenze europee che avrebbero potuto attaccare la Francia mentre il re era impegnato in Italia, e con quelle che, comunque, potessero avere interessi in Italia e su Napoli. Per ottenerne una benevola neutralità, e poter svolgere così in tutta tranquillità l’impresa che si era proposto, Carlo VIII fece molte concessioni, anche territoriali, a varie potenze, e pagò quindi anticipatamente il suo debito politico. Iniziata, però, la campagna in Italia, le altre potenze, anche quelle che erano state compensate, come si è detto, in anticipo, reagirono all’iniziativa del re di Francia, coalizzandosi contro di lui nel momento in cui apparve chiaro che l’impresa d’Italia non solo non aveva logorato Carlo VIII, come un po’ tutti si aspettavano, ma era stata per lui molto facile e rapida e aveva rivelato tutta la forza del suo paese. Una Francia ingrandita del Regno di Napoli dava a Carlo VIII una potenza eccessiva agli occhi di tutte le altre potenze europee, e gli costituiva una nuova grande posizione al centro del Mediterraneo. Fu allora oltremodo facile formare una coalizione antifrancese, che costrinse Carlo VIII a rinunziare alla sua subitanea conquista napoletana e a tornarsene in Francia. La monarchia francese non avrebbe con ciò abbandonato per sempre le sue rivendicazioni su Napoli e le avrebbe, anzi, riprese dopo pochi anni sotto il successore di Carlo VIII, cioè Luigi XII. Anche il nuovo re dové pensare, però, a un’adeguata preparazione e ripetere il cammino politico-diplomatico indicato dal suo predecessore. Si sapeva, ormai, che la questione italiana era al centro dell’attenzione europea e che nessuno sarebbe rimasto indifferente alle sorti dell’Italia, per quanto lontani da essa si fos-

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se e per quanto modesti o addirittura nulli fossero gli interessi che vi si avevano. Contava, infatti, la modificazione che il possesso o il controllo dell’Italia avrebbe apportato negli equilibri del sistema europeo, di cui tutti avvertivano il peso nascente, ma già determinante. E con tutta naturalezza, del resto, la lotta per l’Italia e le guerre d’Italia si sarebbero trasformate in lotta e guerre per il predominio o per l’equilibrio in Europa combattute soprattutto fuori d’Italia, dopo che intorno al 1530 la penisola apparve come uno spazio nel quale si era ormai stabilizzato il predominio spagnolo. Da allora si susseguirono nella grande politica europea fasi alterne di egemonia o di primato di una delle grandi potenze del continente (così fu per la Spagna fin quasi alla metà del secolo XVII, per la Francia di Luigi XIV e, poi, di Napoleone), oppure di equilibrio fra le potenze (come fu per gran parte del secolo XVIII e, dopo Napoleone, per gran parte anche del secolo XIX). Le fasi di equilibrio videro situazioni bipolari (in cui i contendenti principali erano due grandi potenze, con l’una o con l’altra delle quali si schieravano le altre), oppure situazioni multipolari (quando vi erano tre o più grandi potenze); così come del resto potevano essere bipolari o multipolari le fasi di egemonia o di primato di una delle grandi potenze (a seconda che l’opposizione alla potenza primeggiante si accentrasse intorno a una o più delle altre). L’antagonismo tra Francia e Spagna prima e tra Francia e Austria poi (che era anche antagonismo tra le due Case regnanti, i Borboni in Francia e gli Asburgo in Spagna e in Austria) dominò a questi vari titoli la politica europea fra il XVI e il XVIII secolo. Il corso della vicenda di antagonismi dinastici e di lotte di potenza che ne conseguì non fu un inconcludente alternarsi di situazioni e di rapporti di forza diversi. Intanto si formò una gerarchia che diede luogo a quello che venne poi definito il concerto delle potenze, ossia delle grandi potenze, che nei loro congressi e conferenze già dalla metà del secolo XVII presero a regolare il complesso della gran-

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de politica continentale. Agli inizi del secolo XVIII alla Francia, alla Spagna, all’Austria, all’Inghilterra e all’Olanda si aggiunsero in questo concerto la Russia e la Prussia. Nel corso dello stesso secolo XVIII ne uscì l’Olanda e agli inizi del secolo XIX la Spagna. Più tardi nel corso del secolo XIX vi entrò l’Italia, mentre la Prussia fu sostituita dalla Germania unificata. Si dimostrò pure in quest’alternarsi l’irreprimibile spinta europea a rovesciare, a breve o a lungo termine, le situazioni di egemonia e di primato, sicché i tentativi aperti o dissimulati di una più o meno larga unificazione del continente sotto una sola potenza dominante fallirono tutti, l’uno dopo l’altro, senza eccezioni. Ne emerse anche l’adozione e la teorizzazione del principio dell’equilibrio come norma fondamentale della grande politica europea. Si è a lungo pensato che la dottrina dell’equilibrio avesse avuto la sua origine nell’esperienza politica italiana del secolo XV, quando nessuno degli Stati regionali affermatisi nella penisola si rivelò in grado di assumervi una duratura posizione egemonica, e tanto meno di procedere a un’ampia, ancorché parziale, unificazione del paese. La pace di Lodi riconobbe, appunto, nel 1454, questo stato di cose, durato fino alla spedizione di Carlo VIII quarant’anni dopo e fatto spesso risalire all’azione politica dei maggiori protagonisti della storia italiana di allora (fra i quali rimase famoso per questa ragione, in particolare, Lorenzo de’ Medici, non a caso definito “ago della bilancia d’Italia”). Poi la scaturigine italiana del principio di equilibrio è stata negata da molti storici, e fatta risalire alla lezione delle lotte europee di potenza nei seguenti secoli XVI-XVIII e, in particolare, all’iniziativa e ai criteri della politica inglese, interessata a tenere a freno le potenze continentali e a impedire situazioni di egemonia che potessero minacciare l’Inghilterra nella sua sicurezza insulare e nel grado di potenza da essa raggiunto col predominio marittimo. Ciò che importa non è, comunque, la prima genesi di una teorizzazione del principio di equilibrio, se italiana o

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altra (e parliamo della teorizzazione perché il principio è un criterio politico attivo da sempre). Ciò che a questo riguardo importa è la sempre confermata tendenza europea a riluttare a ogni riduzione forzata a una maggiore unità: la tendenza, cioè, a un pluralismo che nella storia d’Europa si è fatta valere in ogni altro campo (a cominciare da quello culturale), non solo in quello politico. Si aggiunga, inoltre, che si tratta di un pluralismo perseguito e vissuto ugualmente nella vita interna degli Stati, non solo nei rapporti tra gli Stati. Un pluralismo che si rivela quindi, al fondo, come una vocazione, un “carattere originale” (e “originario”) dello spirito europeo, una sua irrinunciabile ricchezza di valori e di princìpi, una risorsa determinante ai fini delle grandi realizzazioni di cui l’Europa è stata agli occhi di tutti un campo decisivo per la storia dell’intera umanità. Europa e Mediterraneo. La prima globalizzazione. E la Cina? Il declassamento, per così dire, del rilievo dell’Italia come teatro dei grandi scontri europei durò a lungo. Solo le prime campagne di Napoleone in Italia nel 1796-1797 e nel 1800 diedero alla penisola, da questo punto di vista, un’uguale, temporanea importanza. Poco vi fu perfino durante le cosiddette “guerre d’indipendenza” del 1848, 1859, 1866; e neppure nei due conflitti mondiali del 1914-1918 e 19391945 il fronte italiano, per quanto di indubbia importanza nel quadro strategico generale, fu davvero decisivo. Questa sorta di declassamento non fu, peraltro, un elemento singolo e specifico dell’Italia. Pur determinato dall’equilibrio di potenza formatosi in Europa nella prima metà del secolo XVI, esso venne, infatti, a saldarsi con un più generale declassamento dell’intera area mediterranea dopo la scoperta dell’America e quella dell’effettiva via delle Indie, nonché per le successive scoperte che fino al secolo XVIII allargarono di molto la conoscenza europea

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del mondo extraeuropeo. Ne seguì pure una prevalenza sempre più forte della navigazione oceanica nei traffici mondiali. Il Mediterraneo era stato per millenni – come ben si sa – il mare di civiltà tra le più avanzate del mondo, a partire da quelle mesopotamiche ed egiziana, fino a quella greca e romana; e anche dopo la caduta dell’Impero di Roma in Occidente era servito da vera base storica della formazione dell’Europa nei secoli dell’alto Medioevo. Quando dopo il Mille il predominio, già bizantino e islamico, nel Mediterraneo passò, e poi rimase saldamente agganciato per tre o quattro secoli, alle potenze cristiane dello stesso Mediterraneo, era già del tutto formata una saldatura euro-mediterranea: saldatura che, nata con l’Impero romano per l’Europa fino al Reno e al Danubio, si estese in ultimo a tutto il continente fino alla Scandinavia e agli spazi polacchi e ucraini. L’irruzione degli Ottomani nel Mediterraneo e la costruzione del loro potente impero nell’area orientale e balcanica lesero il predominio europeo con la minacciosa presenza turca nella valle del Danubio e con l’estenuante pratica della pirateria e delle razzie turco-barbaresche nel bacino occidentale del Mediterraneo; e l’alleanza tempestiva e duratura tra Costantinopoli e Parigi non fece che accrescere e consolidare questa lesione. Tuttavia, la marcia turca nel Mediterraneo subì un arresto decisivo quando nel 1571 le potenze cristiane (Spagna, Roma, Venezia) distrussero a Lepanto la flotta ottomana, dando praticamente luogo a un equilibrio che vedeva il pieno dominio ottomano nel bacino orientale e un non corrispondente, ma sufficiente controllo spagnolo, fino a che la Spagna fu una grande potenza (poi subentrarono altre potenze cristiane), nel bacino occidentale. Solo alla fine del secolo XVIII le potenze europee andarono gradualmente riacquistando una più decisa prevalenza negli spazi ottomani, preludio alla liquidazione della potenza turca, considerata sin dalla fine del secolo XVIII the sick man, “l’uomo malato” della politica internazionale: liquidazione poi consu-

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mata nel secolo XIX e perfezionata con la prima guerra mondiale. Intanto, la Russia aveva già completato tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, con lo spazio orientale, il quadro geo-politico europeo, e iniziò subito una sua marcia verso il Mediterraneo, che mirava addirittura al possesso della stessa Costantinopoli e che fu sempre avversata dalle potenze europee occidentali. La simbiosi euro-mediterranea non venne, dunque, mai meno nell’epoca moderna e il Mediterraneo, pur non costituendo più quel mare della civiltà che era stato per vari millenni, mantenne un suo importante rilievo nel gioco delle potenze europee. Tuttavia, già alla fine del secolo XVI era evidente che ormai l’area nordatlantica si avviava a diventare la più importante nel quadro dei traffici mondiali, e che essa si sommava, da questo punto di vista, sostanziosamente, con la navigazione nell’Atlantico meridionale, sia nella parte di essa che si volgeva all’America centrale e meridionale, sia nella parte che si dirigeva verso le coste africane e verso le coste asiatiche dall’Arabia, all’India, all’Indonesia, alla Cina, al Giappone. Il Mediterraneo divenne così già nel secolo XVII un mare commercialmente di ridotto àmbito rispetto a una navigazione e a commerci che avevano un respiro ormai mondiale. Bisognerà giungere oltre la metà del secolo XIX perché, col taglio dell’istmo di Suez, vi si riaprisse una prospettiva mondiale. Ma anche allora questa prospettiva si sarebbe rivelata un elemento connesso alla funzione della navigazione nel Mediterraneo come tramite molto più rapido di comunicazione tra l’Oriente asiatico dall’India al Giappone e l’Europa nordoccidentale piuttosto che come elemento marinaro e mercantile connesso alla specifica importanza e al peso dei traffici mediterranei nel quadro mondiale. Su questa base si venne anche realizzando quella che, non troppo a torto, potrebbe essere definita come la prima globalizzazione dell’economia mondiale, ma che per varie ragioni facilmente intuibili, e soprattutto per non cadere in un poco giustificato anacronismo lessicale, si può

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più correttamente definire come mondializzazione della navigazione e dei traffici. Se ne videro, del resto, molto presto gli effetti non solo sulla navigazione e sui commerci, ma nella stessa storia sociale dell’Europa. Il grande afflusso di metalli preziosi dal Nuovo Mondo provocò, infatti, nel Vecchio Mondo una crisi, che trovò la sua immediata espressione in quella che fu definita la “rivoluzione dei prezzi”, ossia in una impennata dei prezzi all’ingrosso e al dettaglio, della quale le classi che avevano redditi elastici e rapidamente modificabili non soffrirono troppo, ma le classi a reddito fisso (a cominciare dai ceti feudali legati alle entrate tradizionali e stabili dei loro possessi) si trovarono in grave difficoltà, e non ne mancarono gli effetti nella struttura sociale di molti paesi d’Europa. Di questa globalizzazione-mondializzazione gli studi hanno via via precisato i caratteri fondamentali, che (con qualche integrazione) si possono così sintetizzare: – la mondializzazione si produsse essenzialmente per iniziativa europea e portò nei suoi svolgimenti il segno di questa sua origine, nel senso che coincise, in ultima analisi, con l’affermazione del primato e dominio europeo nel mondo moderno; – l’iniziativa europea coincise, a sua volta, con la superiorità storica che il mondo europeo poté allora esibire e che portò rapidamente alla formazione di un mercato mondiale in cui lo scambio ineguale (a favore degli europei, naturalmente) fu fin dall’origine il tipo di scambio universalmente praticato; – la mondializzazione coincise, inoltre, con un’altrettanto rapida affermazione del capitalismo moderno, del quale molte teorie (Marx, Weber, Schumpeter, Braudel, Wallerstein) vedono proprio nel secolo XVI (o comunque nella prima età moderna) il momento decisivo di formazione, a prescindere dalle vicende più antiche o più recenti che altri studiosi ravvisano nella cronologia del fenomeno; – per capitalismo moderno non appare tanto da intendere il fatto di un sistema economico caratterizzato dal-

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l’impiego di ingenti capitali perché possa funzionare, né soltanto il fatto che i profitti di tale impiego siano reimpiegati nella produzione per incrementarla oltre i limiti precedenti, quanto, piuttosto, il fatto che sia soprattutto il capitale finanziario ad avere la parte decisiva negli sviluppi dell’economia, come sempre più chiaramente si sarebbe visto nelle vicende economiche dell’età moderna, quando la prevalenza di questa forma di capitale su ogni altra sarebbe divenuta, alla fine (e già ai primi del secolo XX), addirittura schiacciante; – nel carattere internazionale assunto così dall’economia moderna, la parte principale è subito assunta dal commercio, che resta anche oltre la “rivoluzione industriale” del XIX-XX secolo il maggiore motore del movimento economico internazionale; – grazie all’insieme di questi elementi, si determina anche un rapporto particolare tra l’Europa e il resto del mondo, che viene spesso rappresentato come un rapporto tra centro e periferia, e questo non è un modo improprio di rappresentare le cose, ma occorre precisare che il centro europeo non è un centro unico, bensì formato da una pluralità di centri (nei secoli XVI-XVIII: Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Inghilterra), a loro volta in forte e reciproca concorrenza fra loro fino a che una parte di essi (Spagna, Portogallo) passa in secondo piano e altri nuovi se ne aggiungono (nel secolo XIX soprattutto la Germania); – nel determinarsi di questa serie di sviluppi la parte dell’economia non è l’unica, perché almeno altrettanto, se non più, in molti casi, agisce la logica del dominio politico, che condiziona decisivamente anche i rapporti economici tra Europa e resto del mondo; e bisogna aggiungere che là dove la logica del dominio era o tendeva a essere la sola o prevaleva troppo, venne meno prima e si indebolì, comunque, rapidamente nel corso del tempo, anche la posizione di privilegio e prevalenza economica (così per la Spagna e il Portogallo), mentre là dove il movimento era sufficientemente sostenuto da spinte di natura prettamen-

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te economica (Francia, Olanda, Inghilterra, poi anche Germania e altri) la posizione egemonica europea andò fortemente consolidandosi e (con la “rivoluzione industriale”) divenne pressoché monopolistica; – la spinta economica europea non sarebbe neppure pensabile nella forza irresistibile che assunse col tempo, se non si ricordasse il formidabile sviluppo tecnico-scientifico dei paesi europei, che tra i secoli XVII e XVIII rese addirittura improponibile il confronto fra Europa e resto del mondo quanto a economia e potenza. Emerge già da quanto si è detto che gli sviluppi storici sopra indicati occuparono un lasso cospicuo di tempo, raggiungendo la pienezza dei loro effetti più o meno dalla fine del secolo XVIII in poi, e ciò, come è facile intendere, non ha una scarsa importanza per l’individuazione della cronologia dell’età moderna, come ancora avremo modo di rilevare. Un problema sempre più spesso fatto presente a lato delle considerazioni finora esposte è quello del rapporto fra i tempi e i modi dello sviluppo europeo nei secoli decisivi dal XVI al XIX e le coeve condizioni di sviluppo dei più avanzati fra i paesi extraeuropei. Si tratta, in effetti, della Cina, che certamente rappresentò in quell’epoca la zona di massimo sviluppo, anche tecnologico, fuori dell’Europa, e, secondo vari studiosi, anche in confronto all’Europa. Si è giunti, anzi, a riportare ai cinesi il primato in quasi tutte le materie che hanno formato il quadro degli impressionanti progressi della scienza e della tecnica nel mondo moderno. Perfino nella navigazione oceanica, dove in Europa si annoverano le strabilianti novità della scoperta dell’America e della prima circumnavigazione mondiale, si vuole che flotte cinesi abbiano raggiunto nel secolo XV non solo l’Oceano Indiano fino alle coste dell’Arabia e di qualche paese africano, ma anche le coste sud-americane occidentali. Impossibile è, tuttavia, recepire una tale visione della storia del mondo moderno. Questa storia è saldamente assisa sull’iniziativa europea e sui suoi stupefacenti progres-

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si in un lasso di tempo, tutto sommato, breve. Basterebbero la rivoluzione scientifica, la rivoluzione industriale, l’esplorazione del mondo, l’avvento dei mezzi di trasporto a vapore, la costruzione (comunque la si voglia intendere) dello Stato moderno, l’elaborazione delle moderne idee di libertà e di democrazia, il passaggio alla medicina scientifica (tanto per citare solo alcuni degli elementi che valgono a sostenere il giudizio da noi sopra espresso) per mettere assolutamente fuori discussione non solo la centralità, ma la guida e per molti aspetti il monopolio europeo nella questione di cui parliamo. La questione religiosa: la Riforma protestante Accanto ai fattori politici, economici etc. ai quali ci siamo riferiti, altri fattori intervennero ugualmente nel determinare il panorama storico da tenere presente nel discutere degli inizi dell’età moderna: fattori che potrebbero essere definiti immateriali per la loro specifica natura, ma che, comunque, nel contesto del quale parliamo, agirono in stretta connessione con tutti gli altri, a cominciare da quelli politici, sicché è in tale connessione che bisogna considerarli. In prima linea tra questi altri fattori fu certamente quello religioso, per il quale va subito ricordato che ebbe inizio nel 1517 l’azione di Martin Lutero, dalla quale conseguì in Europa una nuova divisione sul piano, appunto, religioso. Già allora, come si sa, esistevano in Europa due confessioni cristiane: quella cattolica, occidentale, e quella ortodossa, orientale. Esse si erano separate formalmente nel 1054. In realtà, la divisione risaliva alquanto più indietro nel tempo e si era alimentata di vari motivi più strettamente teologici e dottrinari. Prescindendo da essi, basterà ricordare che non mancavano motivi di altro ordine: così era per il celibato dei preti, istituzionale nella Chiesa occidentale, mentre in quella orientale lo si ammetteva solo

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per i monaci; così per il culto delle immagini, negato, con qualche eccezione, dalla Chiesa orientale; così per la prassi della santificazione, ossia per la proclamazione di nuovi santi, onorati di un loro particolare culto, costantemente praticata nella Chiesa occidentale. Le differenze maggiori vertevano, tuttavia, su due punti: da un lato, il rapporto tra la Chiesa e il potere politico; dall’altro, il primato pontificio nella Chiesa. In breve, la Chiesa occidentale rimase sempre molto più autonoma rispetto al potere sovrano; mantenne viva nelle più varie condizioni politiche e sociali la presenza di un potere alternativo forte della sua natura religiosa rispetto al potere politico e a ogni altro potere; fu perciò spesso da vari punti di vista una garanzia e un fattore di libertà che assicurò e promosse il dinamismo sociale delle aree in cui operò; e fu pure, non di rado, protagonista di esperienze di rilievo anche dal punto di vista economico e sociale. Nella Chiesa occidentale prevalse, inoltre, ben presto il principio del primato pontificio, per cui il vescovo di Roma veniva riconosciuto quale capo effettivo della comunità ecclesiastica, e il riconoscimento non si risolse soltanto in una petizione di principio, bensì costituì il criterio costantemente seguito nella prassi della vita della Chiesa, fino a che, a partire dal secolo XI, il primato si tradusse in una vera e propria monarchia pontificia nell’ambito ecclesiastico e in un punto di principio caratterizzante e irrinunciabile della stessa Chiesa, non per nulla definita, perciò, romana, oltre che cattolica. La divisione dovuta all’azione di Lutero colpì, dunque, come si è detto, la cristianità occidentale, e introdusse in essa elementi, non solo religiosi, di grande importanza, destinati a un duraturo avvenire. A prescindere, anche a questo proposito, dagli elementi più strettamente teologici e dottrinari, il punto più innovatore e determinante della posizione di Lutero fu sùbito percepito nella sua sostanziale vanificazione della funzione del clero e, quindi, della Chiesa. Nella sua visione il rapporto tra il fedele e Dio non ha bisogno di mediazioni,

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né vi si presta. La Chiesa è la comunità dei fedeli, nel senso di essere espressione della loro comune fede cristiana, che essi manifestano anche in forma associata e collettiva sul piano sociale, ma che sul piano religioso resta esclusivamente individuale. Il fedele è, perciò, il vero sacerdote di se stesso. La dottrina cristiana si fonda soltanto sulle Sacre Scritture, sul Vecchio e sul Nuovo Testamento, ed è ancora il singolo fedele a doverne percepire e interpretare il senso e la lezione, attraverso un personale e libero esame. La negazione della massima parte dei sacramenti toglieva, inoltre, alla Chiesa un altro fondamento della sua funzione religiosa, ossia l’amministrazione e la somministrazione di quei riti culminanti della vita del fedele che erano appunto i sacramenti. Dei due che Lutero conservava, il battesimo e l’eucarestia, il primo non implicava una funzione ecclesiastica particolare, il secondo aveva valore soltanto commemorativo ed esortativo. Su queste basi era davvero difficile cercare una conciliazione tra il nuovo movimento cristiano e i princìpi e la prassi plurisecolare della Chiesa romana. Una conciliazione fu, tuttavia, ricercata, e i luterani avrebbero voluto che si riunisse un concilio per decidere dei punti in questione. Le trattative si arenarono soprattutto sul punto del primato e della guida pontificia e romana della Chiesa, nel cui sostegno i cattolici erano altrettanto intransigenti di quanto lo erano i protestanti nel negarla. La disarticolazione della funzione sacramentale e mediatrice della Chiesa colpiva, però, in effetti, tutto il quadro della struttura e della gerarchia ecclesiastica. Non solo il potere pontificio, ma anche la pura e semplice funzione sacerdotale o episcopale e ogni forma di vita monastica o conventuale venivano escluse dal novero delle istituzioni religiose. Con tutto ciò veniva, inoltre, meno anche la ragione costitutiva dei poteri giurisdizionali e sovrani o signorili e degli enormi patrimoni accumulati dalla Chiesa nel corso dei secoli. La riforma cristiana promossa da Lutero si risolveva, quindi, in una sovversione dell’edificio che, sotto la guida

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dei pontefici romani, il mondo cattolico aveva visto crescere da secoli come centro della sua vita religiosa, in corrispondenza col lunghissimo, millenario processo di ripresa e di riorganizzazione su nuove basi della vita materiale e morale dell’Europa occidentale dopo la rovina del mondo antico, e in corrispondenza, altresì, con la mirabile fioritura della stessa Europa nei secoli dopo il Mille. Non una semplice riforma, insomma, ma una rifondazione su nuove basi non solo della Chiesa, ma dello stesso modo di intendere e di vivere il Cristianesimo. In Germania, dove più forte fu il primo impatto dell’iniziativa di Lutero, che riscosse un’inattesa adesione di massa, ne nacque un movimento impetuoso di secolarizzazione del clero e dei beni ecclesiastici, un’amplissima dissoluzione della struttura ecclesiastica, una larga adesione dei prìncipi e di grandi e piccoli potentati tedeschi al movimento, un largo riadattamento degli stessi edifici del culto alle nuove esigenze sollecitate e promosse da Lutero. Lenta fu la reazione di Roma alla diffusione immediata del movimento luterano, finché nel giugno 1520 Lutero venne scomunicato. Un problema non minore si creò così nel Sacro Romano Impero, che era, come si sa, la struttura politica, sia pure alquanto decaduta, in cui la Germania si riconosceva. L’imperatore, che era allora Carlo V, si schierò nettamente a favore della Chiesa, e Lutero dovette, quindi, affrontare anche la reazione imperiale. Dalla protesta dei suoi fautori contro le misure imperiali nella Dieta di Spira del 1529 venne intanto fuori il nome di “protestanti”, col quale furono designati gli aderenti al moto luterano. Col problema religioso si determinò così anche un problema politico di primaria importanza, che ebbe grande influenza in tutta la posteriore storia europea, e non solo per la Germania. Quasi fin dall’inizio la lotta religiosa fu combattuta in Germania anche con le armi. La Riforma luterana – nella vasta adesione di massa che subito, come si è detto, la accompagnò – ben presto vide diffondersi movimenti estre-

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misti che trasferivano i motivi religiosi di Lutero sul piano sociale, sollecitando rivendicazioni di collettivismo dei beni e di ordinamenti egualitari. Nel 1525 il Bauernkrieg, la guerra dei contadini, scosse il paese, e la repressione dell’agitazione fu durissima da parte dei signori germanici, che vi vedevano un attentato alla loro posizione proprietaria e ai loro privilegi. Gli stessi signori e i numerosissimi grandi e piccoli potentati che caratterizzavano la struttura politica dell’Impero germanico furono prontissimi nel profittare delle circostanze non solo per impadronirsi di larga parte dei poteri e del patrimonio della Chiesa, ma anche per rafforzare la loro posizione giurisdizionale e politica di fronte al potere imperiale. In seguito, la storiografia protestante e germanica attribuì a Lutero il ruolo di iniziatore e fondatore della libertà di coscienza e del senso della soggettività dell’uomo nel mondo moderno. Una tesi esagerata e partigiana? In buona parte, ma non del tutto. Effettivamente, nell’Europa moderna il motivo luterano del libero esame delle Sacre Scritture e del sacerdozio personale di ciascun fedele, l’indicazione di una fede che ha nell’individuo cristiano tutto il suo orizzonte esistenziale e operativo, la decisa riduzione di altri aspetti della dottrina cristiana a quello morale, la stessa esaltazione di una fede che ha valore cristiano per se stessa, indipendentemente dal destino di salvezza o di dannazione a cui si è riservati negli impenetrabili disegni divini, sono punti di una estrema rilevanza non solo nella storia della spiritualità cristiana, bensì anche nella storia della moderna sensibilità e coscienza civile, morale e religiosa dell’Europa moderna, nella quale segnano perciò un momento di svolta che non si può ignorare o sottovalutare. Di fronte a ciò hanno poco senso i rilievi che si sono fatti a circostanze indubbie, come il carattere per molti aspetti più medievale che moderno del modello di fede proposto da Lutero o come la rapida trasformazione delle Chiese luterane in Chiese praticamente di Stato. Meno

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che mai può, poi, avere un qualsiasi senso l’accusa spesso rivolta al Luteranesimo di non aver impedito gli eccessi orribili e criminosi in cui la Germania cadde sotto Hitler e il nazismo: un’accusa davvero incredibile, se si pensa che la Germania hitleriana e nazista non era solo luterana, ma anche cattolica; e a chi ricorda che anche il Cattolicesimo, come il Protestantesimo, fu lontano dal riuscire a scongiurare quegli eccessi (e secondo alcuni anche dal protestare contro di essi), bisogna ricordare che quei crimini orribili non furono evitati neppure dal liberalismo, dal conservatorismo tradizionale, dalla potente socialdemocrazia, dal comunismo tedesco del tempo. D’altra parte, il Luteranesimo conseguì ben presto una diffusione europea e diede luogo ad altre iniziative di riforma protestante, dalle quali ugualmente venne un contributo di prim’ordine allo svolgimento della civiltà europea nell’età moderna. E da questo punto di vista una menzione particolare dev’essere fatta di Calvino e della Chiesa calvinista da lui fondata, nelle cui vicende si vede con ancora maggiore evidenza la parte storica che è stata propria del Protestantesimo non solo sul piano religioso e morale, bensì anche sui più vari piani sociali. La questione religiosa: Controriforma e Riforma cattolica Il successo dell’azione di Lutero fu troppo rapido per non far pensare che essa rispondesse ad attese e a convinzioni molto diffuse nel corpo sociale dei paesi cattolici. Lo spirito mondano che aveva caratterizzato la Chiesa romana negli ultimi due o tre secoli aveva sollevato già lo sdegno di coloro che avevano, come il Petrarca, criticato la Curia pontificia durante il periodo della sua residenza ad Avignone. «Empia Babilonia», «avara Babilonia» era stata definita l’Avignone pontificia dal grande poeta; «per l’altrui impoverir se’ ricca e grande», egli aveva sentenzia-

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to; «già Roma, or Babilonia falsa e ria», aveva esclamato, deprecando «le mal nate ricchezze tante»; schiava di Venere e Bacco, tanto che sarebbe stato «un gran miracol» se Cristo alla fine non si fosse adirato: motivi tutti che sarebbero tornati nelle polemiche dei tempi di Lutero e che si erano in qualche modo radicati nel mondo cattolico. Dopo il ritorno del Papato a Roma nel 1378 la crisi morale del mondo ecclesiastico era andata prendendo strade più aperte e significative. Non per nulla vi furono allora movimenti come quelli di Hus in Boemia e di Wycliffe in Inghilterra, così come più tardi, e poco prima di Lutero, quello del Savonarola in Italia, che espressero un dissenso e una protesta ai quali si può pure guardare come anticipazioni, in qualche modo, di ciò che sarebbe accaduto più tardi. La Chiesa si trovò allora non solo dinanzi a un ricorrere di contrapposizioni di fazioni curiali per cui si parlò di “grande scisma d’Occidente” e si susseguirono parallelamente vari papi e antipapi, fino ad avere tre papi contemporaneamente. Nello stesso tempo si tenne anche una serie di concili, che invano cercarono di acquisire un loro ruolo nel governo della Chiesa. I papi riuscirono a ripristinare l’unità monarchica della Chiesa, e dal pontificato di Martino V Colonna (1417-1431) in poi l’azione di Roma cominciò ad assumere i toni e il colore che fecero del Papato umanistico e rinascimentale la sua epoca più brillante dal punto di vista dello splendore artistico e dell’azione culturale, ma anche uno dei periodi in cui più evidente e macroscopico fu il suo coinvolgimento negli interessi materiali, mondani, privatistici, delle oligarchie cardinalizie e aristocratiche che ne dominavano i vertici. Fu l’epoca del “grande nepotismo”, per cui per circa un secolo, fino a Paolo III (1534-1549), la prima preoccupazione dei pontefici fu quella di ingrandire e di promuovere a un grado principesco e sovrano i loro parenti, che in più di un caso (Alessandro VI, Paolo III) erano loro figli. La Chiesa apparve allora frequentemente come una grande istituzione corrotta e corruttrice, una sanguisuga

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che con gli enormi redditi prodotti dal suo vastissimo patrimonio e dalle sue stesse attività spirituali e sacramentali, e coprendosi con spregiudicate dichiarazioni religiose, succhiava immense risorse dal mondo cattolico. Non per nulla la vendita delle indulgenze figurò nella polemica protestante come un simbolo di questa degenerazione simoniaca. Fuori d’Italia, inoltre, lo sfruttamento economico e finanziario della posizione e dell’attività ecclesiastica sollevava sdegno e protesta per quella che appariva una spoliazione delle ricchezze dei singoli paesi a vantaggio di una Roma lontana e destituita di ogni luce e prestigio religioso. Particolarmente in Germania, questo motivo fu assai forte e contribuì in altissima misura al successo di Lutero. Quando nel 1527 le truppe di Carlo V si impadronirono di Roma e perpetrarono quel sacco della città che lasciò una così terribile fama di violenza e di vandalismo, i contingenti germanici di quelle truppe (i Landsknechten, lanzichenecchi), invasati, come erano, del nuovo verbo luterano, furono i più smoderati nelle violenze e nelle offese alla popolazione di quella Roma che essi consideravano la capitale della degenerazione del Cristianesimo, la sentina di tutti i vizi, la simoniaca sfruttatrice della Germania e degli altri paesi cattolici. La stessa occasione più specifica legata al divampare del moto luterano – ossia la vendita delle indulgenze (il Papato metteva a disposizione dei fedeli una serie di concessioni di perdono per i peccati commessi in cambio del pagamento di somme proporzionate alla rilevanza dei peccati) – apparve come una dimostrazione del modo pretestuoso e dello spirito di rapina della Chiesa nell’amministrare il potere sacramentale di cui si proclamava titolare. La predicazione luterana che disconosceva questo potere trovava, quindi, spiriti e menti più che disposti ad accoglierla. Nonostante tutto, la Roma pontificia non sembra aver avvertito tra il XV e il XVI secolo né il peso delle tante e tanto feroci e diffuse critiche nei suoi riguardi, né che ne potesse derivare un pericolo incombente neppure di agi-

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tazione e di protesta degne di considerazione, e tanto meno sembra aver pensato a una secessione religiosa. Forse ciò aiuta a capire una certa lentezza di percezione e di reazione a quanto, come si è detto, sotto il pontificato di papa Leone X Medici (1513-1521), cominciò ad accadere in Germania nella scia dell’iniziativa di Lutero. Le premure imperiali per secondare la convocazione di un concilio, richiesto dai luterani, che risolvesse le questioni dottrinarie sollevate dal frate tedesco furono respinte da Roma, nel timore dell’insidia che il concilio avrebbe potuto rappresentare per il primato pontificio e per la monarchia papale nella Chiesa. Su questo stesso ostacolo della posizione e dell’autorità del pontefice, soprattutto, fallirono, come pure si è detto, anche i colloqui che, sempre sotto la sollecitazione del governo imperiale della Germania, furono tenuti fra cattolici e protestanti, e che, sul piano dottrinario, erano sembrati più produttivi. Si ebbe così agli inizi degli anni ’40 una svolta decisiva sia di Carlo V, che, per la parte dell’Impero, decise di risolvere con le armi il problema della dissidenza religiosa; sia del Papato, che con varie decisioni (e specialmente con l’istituzione della Congregazione della Santa Inquisizione come una sorta di corte suprema nella lotta all’eresia, con il riconoscimento della Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola che avrebbe procurato al Papato una milizia sacerdotale fedelissima e di estrema efficacia, e con la convocazione del concilio a Trento come iniziativa tutta cattolica) passò a inaugurare quella sua lunga fase che venne definita della Controriforma, ossia dell’opposizione integrale e frontale ai movimenti protestanti. La Chiesa e gli storici cattolici hanno contestato e contrastato radicalmente questa definizione di Controriforma. A loro avviso, il termine lascia intendere che l’azione di rinnovamento e di riorganizzazione della Chiesa e della vita ecclesiastica allora avviata sia stata promossa soltanto dal bisogno di reagire alla diffusione del Protestantesimo e sia consistita tutta ed esclusivamente nella lotta ai prote-

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stanti. Essi fanno, inoltre, presente che idee e movimenti di riforma erano presenti nella Chiesa e nel mondo cattolico prima e indipendentemente dai fermenti e dal dilagare del Protestantesimo, e che sarebbe, quindi, errato ignorare questo diffuso e già operante riformismo cattolico. Sono ragioni comprensibili. Bisogna, però, considerare, in primo luogo, che i movimenti e le tendenze riformatrici della Chiesa e nella Chiesa già prima di Lutero o in parallelo con lui non ebbero mai un effetto di trascinamento decisivo nel dare alla Chiesa il volto di riformatrice di se stessa, come invece accadde a Protestantesimo ormai dilagato, e nel far sentire nella società cattolica del tempo un vento di riforma e di rinnovamento tale da impedire il clamoroso successo del moto luterano e, nella sua scia, degli altri movimenti protestanti, o tale, almeno, da ridurne l’impatto. In secondo luogo, comunque si sia determinata e sia nata, l’azione di rinnovamento della Chiesa e della vita cattolica non prese corpo se non con la convocazione del Concilio di Trento e sotto la ferma direzione del Papato, che rafforzò la sua posizione di preminenza e trovò nel motivo antiluterano e nella lotta alla Riforma protestante il suo massimo collante ideologico e disciplinare, sicché Lutero rimase a lungo l’emblema del pessimo dei mali per la coscienza cattolica. In terzo luogo, bisogna pure considerare che l’azione riformatrice svolta soprattutto attraverso il Concilio di Trento (per cui si parlò poi di Cattolicesimo tridentino e di Chiesa tridentina) fu imponente, ma si concentrò sull’esigenza di un disciplinamento della vita morale, sociale e religiosa dei cattolici ai fini del controllo che la Chiesa (e, per essa, il Papato) avrebbero esercitato al riguardo, nell’intento di potenziare al massimo la lotta all’eresia protestante: il che spiega poi il prevalente aspetto repressivo che nell’opera del Concilio fu messo tempestivamente in rilievo e che fece passare in secondo piano altri aspetti, anche

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di originali fermenti dottrinari ed etico-religiosi, che nel Concilio non mancarono affatto. Tutto ciò considerato, appare ragionevole non respingere né l’idea di parlare di una Riforma cattolica in quel tempo, né l’idea di continuare nell’uso di denominare Controriforma l’azione e la fase della storia della Chiesa e del mondo cattolico in cui la Riforma cattolica si delineò chiaramente, ma con un tratto indubbiamente meno spiccato della sua spinta antiluterana e antiprotestante. Perché proprio allora? È, dunque, l’insieme di questi elementi, è il loro storico cumularsi in uno stesso processo a dare l’avvio decisivo alla modernità quale poi è stata in tutti i suoi aspetti materiali e culturali. Non fu (sia detto e ribadito) un processo fatale, reso automatico e inevitabile da una qualsiasi legge o condizione storica. Fu l’opera consapevole degli europei dai quali il moderno fu pensato e voluto, immaginato e realizzato. Per alcuni storici e filosofi, almeno nei suoi aspetti economici o tecnico-scientifici, la modernità avrebbe potuto nascere anche altrove o in altro tempo (in Cina? nella civiltà ellenistico-romana?). Questa presunta storia possibile è, però, in realtà, una non-storia. La storia umana è sempre determinata e condizionata, ma su questo tronco si sviluppa poi quale gli uomini la fanno. Neppure per l’Europa dal secolo XV in poi la modernità era fatale e inevitabile. Si può pure credere che allora essa fosse magari più possibile che prima o altrove, ma ciò non cambia nulla. Anche allora la modernità avrebbe potuto non avviarsi, o avviarsi per altri sentieri o in altri modi. Quel che la rese reale e fatale, e quale è stata ed è, fu l’iniziativa, fu l’azione delle generazioni europee susseguitesi da allora sulla scena della storia. Né più, né meno.

Capitolo terzo

Strumenti e percorsi del moderno

Strumenti del moderno: stampa, armi da fuoco, grandi velieri Né quelli che si sono descritti, né gli altri sviluppi dell’età moderna sarebbero pensabili nelle forme che la storia di questa età ci presenta, se non vi fosse stata una strumentazione nuova e particolare che avesse procurato sia quegli sviluppi, sia le loro forme. Almeno alcuni casi debbono essere ricordati. Conseguenze dirompenti e incontenibili ebbe l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Altre forme di stampa (xilografia, matrici in argilla e anche metalliche) erano conosciute già da secoli in Estremo Oriente (Cina, soprattutto) e si erano diffuse anche in Europa a partire dal secolo XIII. Erano, però, forme che diremo, per semplificare la questione, equivalenti alla riproduzione di immagini ben più che alla composizione della pagina a stampa come poi si è avuta. Il progresso decisivo si ebbe, invece, quando alla metà del secolo XV il tedesco Johann Gutenberg (Magonza 1400-1468: ma l’anno di nascita è incerto, così come il luogo della morte) inventò la stampa a caratteri mobili. In pratica le lettere venivano prodotte in piombo fuso in stampi di terracotta di uguale altezza, in modo da poterle allineare a filo diritto sulla stessa riga; le singole lettere venivano poi unite fra loro in modo da formare le parole e i righi della pagina; quindi, con determinati sistemi di pressione,

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le pagine così composte venivano stampate. Lettere e piombo, una volta utilizzati per una pagina, potevano essere sciolti dal legame necessario per quella pagina ed essere riusati finché non si alterassero o si consumassero. Il primo libro così composto fu la Bibbia latina in folio di 1282 pagine, pubblicata, dopo quattro anni di lavoro, a Magonza nel 1455, su due colonne (ciascuna di 21 righi) per pagina (onde si definì questa come l’edizione biblica “delle 42 linee”). La conoscenza della nuova tecnica fu presto diffusa in tutta Europa sia da emigrati tedeschi che la conoscevano, sia da stampatori locali che fiorirono numerosi in ogni paese. I libri prodotti fino al 1500 vennero poi definiti “incunaboli”, quasi come prodotti di una stampa ancora nella sua culla (incunabula, appunto), nella primissima infanzia; e furono così numerosi che ancor oggi se ne contano nel mondo 450.000, dei quali oltre il 20%, circa 100.000, in Italia. In realtà, i libri stampati fino a quella data sono spesso già opere tecnicamente e graficamente ammirevoli. Nel ’500 la stampa giunse poi a una finezza di impostazione tipografica e grafica che per alcuni aspetti appare addirittura insuperata, e sono rimasti prestigiosissimi i nomi di editori veneziani come i Manuzio (i cui libri sono indicati come edizioni aldine, dal nome di Aldo Manuzio) e fiorentini come i Giunti (per cui si parla di giuntine). Nello stesso tempo, la stampa consolidava in tempi rapidissimi il suo aspetto di fenomeno di massa, rivelandosi immediatamente in grado di consentire una circolazione delle notizie, delle idee, delle comunicazioni di qualsiasi genere inauditamente superiore a quanto era accaduto fino ad allora. E da allora in poi la stampa si rivelò e si confermò, infatti, come uno dei più potenti strumenti di modernizzazione della vita sociale (pubblica e privata) in tutti i suoi aspetti, senza del quale sarebbe impossibile anche soltanto pensare ai grandiosi sviluppi qualitativi e quantitativi in ogni campo della vita moderna. In un settore del tutto diverso, ma ugualmente produttivo di un impulso decisivo agli sviluppi della società e

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del mondo moderno, e con effetti non meno radicali, operarono le armi da fuoco. La polvere da sparo, anch’essa di origine e di tradizione orientale, era conosciuta da tempo in Europa. Solo nel secolo XIV si riuscì però a utilizzarla per armi pesanti, iniziando la lunga carriera moderna delle artiglierie (come si cominciò a denominarle dal secolo XV in poi). L’efficacia delle artiglierie – già emersa in varie battaglie del secolo XIV specialmente in occasione di scontri fra la vecchia cavalleria pesante di tradizione feudale e le nuove fanterie di paesi che non potevano avere cavallerie all’altezza di quelle più potenti d’Europa, quale, innanzitutto, la francese – fu poi largamente dimostrata durante l’assedio di Costantinopoli da parte dei turchi nel 1453. Dalla bombarda si giunse così, via via, al cannone; e, anche se la fabbricazione rimase sempre artigianale e solo nel secolo XVIII se ne cominciò una certa moderna produzione in serie, l’incremento produttivo appare evidente già nella prima metà del secolo XVI. Dopo la metà del secolo XVI nessun esercito moderno fu più concepito senza che le artiglierie vi avessero una parte cospicua. Gli effetti dell’introduzione delle artiglierie non furono di ordine soltanto militare (per la loro potenza distruttiva, per i mutamenti che imposero nella strategia e, ancor più, nella tattica e in tutta la concezione dell’arte militare, per le modificazioni che imposero nell’architettura – fortezze, mura delle città o dei borghi, fortificazioni di campagna –, per la necessità di avere un personale specializzato per l’uso e per la manutenzione e i servizi richiesti dalle nuove armi). Furono anche di ordine politico e militare. Contribuirono a togliere forza e importanza alle classi militari tradizionali, che erano sostanzialmente quelle feudali, incrementando la forza dello Stato, ulteriormente accresciuta dal fatto che la disponibilità di un parco di artiglieria divenne sempre più una necessità a cui soltanto il livello istituzionale, la capacità di mobilitazione di energie tecniche e umane e le possibilità finanziarie e organizzative dello Stato potevano provvedere. Valorizzarono le capacità militari delle

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classi dei comuni cittadini e spostarono, quindi, l’equilibrio sociale complessivo a favore di queste ultime, che poterono percorrere così nuove vie di affermazione sociale. Si fecero inoltre sentire anche nell’ordine ideologico e morale, nonché nella mentalità collettiva, sia in materia di valori generali della convivenza civile, sia nella considerazione di elementi caratterizzanti del comportamento privato e pubblico. Cadde l’idea del confronto cavalleresco, del valore militare corrispondente alla qualità (nobile per definizione) della persona, l’idea dello scontro diretto e frontale, oltre che ravvicinato, tra un singolo combattente e l’altro. Ora da lontano, senza scontro personale, anche il più vile, imbelle, ignobile degli uomini poteva spazzare via in un colpo solo i più valorosi e nobili cavalieri. Nello stesso tempo nasceva così, d’altra parte, l’idea moderna del “valor militare”, che portava sempre in sé qualcosa della tradizione cavalleresca, ma era ormai fondata su un concetto diverso di disciplina civile e militare, di onore e di lealismo verso il sovrano, di senso dello Stato, e, in ultimo, anche di sentimento nazionale e patriottico. Tutti questi effetti furono poi potentemente incrementati dalla invenzione e diffusione, a partire dal secolo XVI, delle armi da fuoco portatili. Le armi da fuoco si trasformarono così da armi di appoggio in armi dello scontro diretto e frontale tra gli eserciti in lotta, che ridussero via via a un ruolo sempre più marginale le armi da punta, da taglio e da lancio, che dall’età della pietra a quella del ferro avevano costituito l’armamento individuale e collettivo. Dall’archibugio (menzionato per la prima volta in Italia nel 1522) si passò così al moschetto, al fucile, ai proiettili a mano (granate, bombe), alle pistole, con progressivi perfezionamenti della potenza, della gittata, della funzionalità. Le armi bianche continuarono a essere largamente usate, ma sempre più come integrazioni di quelle da fuoco (baionetta, pugnale, spada) o come armamento (sciabola, lancia) di corpi speciali, e soprattutto della cavalleria. La cavalleria perse, peraltro, il dominio esercitato per un millennio sui

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campi di battaglia europei, che già prima dell’avvento delle armi da fuoco era stato fortemente leso fra il secolo XIV e il XV nelle guerre anglo-francesi e fra svizzeri e austroborgognoni, ma che dalle armi da fuoco fu reso impossibile. Oltre le conseguenze militari, politiche e sociali a cui si è accennato, le armi da fuoco, pesanti e portatili, esercitarono altri effetti decisivi. Innanzitutto, l’addestramento di un soldato dotato delle nuove armi richiedeva molto meno tempo rispetto a quello della vecchia cavalleria feudale. Ciò permetteva, inoltre, un reclutamento più numeroso, che era, del resto, richiesto anche dalla qualità del nuovo armamento. Per questa e per altre ragioni connesse, nell’età moderna riapparvero i grandi eserciti, di cui dopo la caduta dell’Impero romano nell’Europa occidentale si era perduta la tradizione, ma che già si cominciarono a rivedere con le grandi armate ottomane imperversanti da Costantinopoli a Vienna. Nella seconda metà del secolo XVII gli eserciti francesi di Luigi XIV raggiunsero dimensioni più o meno pari a quelle degli antichi eserciti imperiali romani (350.000400.000 uomini). Effettivi così cospicui resero sempre più difficile provvedere ai bisogni militari di un paese con l’arruolamento di mercenari e imposero il ricorso a milizie “nazionali”, che, tuttavia, ponevano altri e non meno difficili problemi. Nuove necessità politiche richiesero, a loro volta, che gli eserciti si organizzassero con nuclei permanenti sempre più consistenti. Anche per questo la diversità rispetto al periodo precedente era forte: le armate non solo non erano più di numero sempre tendenzialmente limitato, ma non erano neanche più mobilitate soltanto per i limitati periodi delle stagioni di guerra. In secondo luogo, ben più delle armi bianche tradizionali, le nuove armi da fuoco, specialmente le artiglierie, esigevano l’impianto di manifatture belliche, di una vera e propria industria militare, tecnologicamente adeguata alla sempre più sofisticata e differenziata capacità di progetta-

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zione e di innovazione degli armamenti. Fin dalle prime fasi della nuova epoca dell’arte della guerra si determinò, così, una larga identificazione tra paesi potenti sul piano economico manifatturiero o industriale e paesi potenti militarmente. Le armi da fuoco furono applicate anche alle navi, e si sviluppò, in particolare, un’artiglieria navale caratterizzata da suoi elementi di potenza e balistici. Ma il progresso della navigazione moderna non riguardò soltanto l’armamento delle navi militari. Riguardò soprattutto un nuovo tipo di nave, reso necessario dalle scoperte geografiche del tempo, che imponevano di disporre di imbarcazioni adatte alla navigazione oceanica. Si insistette allora sul tipo di nave che si era affacciato già nel corso del secolo XV, ossia una nave tonda (la cocca nordica), con alta poppa e prora, di alto bordo, con timone verticale a poppa. Le caracche e le caravelle del seguente secolo XVI potenziarono la cocca. La caracca era più da carico, ma portava anche cannoni, e aveva castelli a poppa e a prora, tre alberi, una lunghezza fino anche a una quarantina di metri, un dislocamento anche oltre le 500 tonnellate, un paio di centinaia di uomini di equipaggio e alcune centinaia di soldati da trasportare. La caravella era più maneggevole, giungendo fino ai 20-30 metri di lunghezza, con un dislocamento fino a una cinquantina di tonnellate ed equipaggi fino a poco più di una ventina di persone, ma aveva castelli vistosi a poppa e a prora, due alberi a vele quadre e uno a vele latine e il bompresso a vele di civada. Nella seconda metà del secolo XVI si affermò poi il galeone, perfezionato specialmente dagli inglesi, a scafo più basso, con due ponti, tre alberi e bompresso, con potente artiglieria, con un dislocamento corrispondente a quello delle caracche, ma con alquanto maggiore stabilità e maneggevolezza, e talora anche con un quarto albero. Nel secolo XVII fu, inoltre, potenziata l’attrezzatura strumentale e cartografica, mentre anche la velatura veniva notevolmente perfezionata, e i grandi velieri mercantili e da guerra divennero strumenti

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della navigazione oceanica e di altura che sarebbero stati superati solo dalla navi a vapore nel secolo XIX. Sentieri del moderno: politica e diritto Come si avvalse di questi e di altri strumenti, così l’avvento della modernità si sviluppò attraverso una molteplicità di percorsi culturali e sociali, che vanno ugualmente messi in rilievo in quanto formano parte integrante di quell’avvento e dei suoi ulteriori sviluppi. Un percorso fondamentale, anzi, in un certo senso, il percorso-base della generale trasformazione del mondo moderno, fu, ad esempio, quello che portò, come vedremo, all’affermazione della monarchia assoluta e al sistema politico-sociale detto dell’ancien régime. Un percorso politico che si svolse secondo una complessa logica di potere, corroborata da una fortissima spinta sociale e culturale. E fu attraverso l’affermarsi di questa logica così corroborata che nella vita europea si rinnovò un primato della politica, la cui traccia era stata offuscata, nella lunga tradizione medievale, dalla interferenza di fattori sociali e ideologici di gran peso: ossia, ad esempio, dal grande sviluppo di forze particolaristiche, la cui ragion d’essere e il cui principio organizzativo risiedevano nella loro stessa natura e struttura particolaristica; dall’ideologia cavalleresca e feudale con la loro dimensione privatistica e personale, per cui è stato perfino negato che la società feudale abbia conosciuto lo Stato nel senso classico e moderno del termine, e si è negata la possibilità stessa di uno Stato feudale; dalla componente ecclesiastica e religiosa che interferiva così potentemente e largamente in tutta la vita civile sulla base di un quadro che era fatto non solo di valori e di istanze esplicitamente antagonistiche e proclamate superiori e trascendenti per ragioni etiche e di fede rispetto a quelle della vita civile, ma anche di corposi e concreti interessi terreni.

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Con il trionfo dei poteri sovrani è proprio lo Stato nel senso classico e moderno del termine a occupare il centro della scena sociale e a dominare questa scena. Rinasce quel modo di intendere la cosa pubblica come materia di un interesse generale, a suo modo, oggettivo e preminente, che già appare nei trattati di politica dell’età antica. Rinasce, ma, per la verità, piuttosto nasce. È profondamente significativo che sia questo il tempo non solo della riflessione politica di Machiavelli, della quale abbiamo indicato il senso più immediato, bensì anche della ragion di Stato. Una “ragione” che costituì, paradossalmente, il veicolo forse più efficace per diffondere e fare anche teoricamente accettare il pensiero machiavelliano, sul quale pesava la condanna morale e religiosa non solo delle Chiese cristiane, ma anche di tutto il pensiero e il mondo, di tradizione tipicamente medievale, che da secoli vedevano nella politica unicamente un caso e una fattispecie della morale. La ragion di Stato fu, appunto, lo sforzo rivelatore attuato dal pensiero europeo, tra il XVI e il XVII secolo, per sostenere e dimostrare che l’autonomia della politica rivendicata da Machiavelli, ormai indiscussa nella sua perentoria affermazione, poteva essere conciliata con i dettami della morale e della religione. E ciò veniva sostenuto sia che si respingessero appieno le dottrine e i mezzi definiti propri del “machiavellismo” e condannati come immorali e contrari alle ragioni dei princìpi superiori della tradizione cristiana e delle sue ascendenze nel mondo antico; sia che – con una tendenza da sottolineare ancora di più nel quadro di ciò che andiamo dicendo – si affidasse la loro gestione alla prudenza, al senso del limite, agli scrupoli e alla coscienza del sovrano o protagonista politico. Ancora più ravvicinati allo sviluppo complesso delle cose appaiono, inoltre, alcuni svolgimenti del pensiero politico che fanno dell’accentramento del potere nello Stato un motivo di riflessione dominante. Fin dall’origine lo Stato moderno si pone nella riflessione di Hobbes come il Leviatano biblico. Nel quadro sociale l’assunzione del pote-

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re da parte del sovrano appare a lui subito totale e irreversibile. La dura concezione hobbesiana della convivenza sociale come una guerra di tutti contro tutti (una concezione che traspone in termini materialmente più drastici la concezione realistica della politica di Machiavelli) rende l’assolutismo sovrano ancora più rigido. E le reazioni saranno conseguenti. Dinanzi all’incremento costante del potere sovrano si rafforza l’idea contrattualistica dello Stato: la sovranità non si ha per diritto divino, ma deriva da un accordo, da rispettare, fra il popolo e il sovrano. Una ricaduta nel “pattismo” di più antica tradizione? In effetti, come è antica – secondo quanto abbiamo già notato – la petizione assolutistica della sovranità, così è antica l’idea del patto o contratto sociale. Ma come per l’assolutismo è nuovo l’ufficio e sono nuovi i modi in cui lo si spende nelle monarchie moderne, così accade anche per il pattismo o contrattualismo. Se ne dipartono, fra l’altro, due sviluppi. Lungo uno di essi si elabora la dottrina del tirannicidio. Non si distingue più fra tirannide e despotismo come si era soliti fare nella tradizione antica; né sopravvive l’idea medievale della tirannide come violazione di un ordine legittimo fondato su basi etiche e naturali. Col XVI secolo la sovranità si identifica con le nuove monarchie in ascesa a tutto danno delle limitazioni imposte dai vincoli del “costituzionalismo” o “pattismo” medievale, da tradizioni consolidate di giurisdizioni e poteri particolaristici, e perfino, talora, da accordi con altri sovrani. A ciò si aggiunge nello stesso secolo XVI il motivo religioso con le sue esigenze o pretese, sia fra i cattolici che fra i protestanti, di lealtà e fedeltà confessionale. Tanto il motivo politico-istituzionale quanto quello religioso fanno contemplare l’ipotesi della uccisione del sovrano come atto dovuto alla luce di una particolare etica e appartenenza politica o religiosa. Il tirannicida, che nel Rinascimento aveva evocato la retorica della libertà repubblicana e aveva avuto nell’uccisione di Cesare e in Bruto e Cassio le sue figure tipiche, cambiò profon-

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damente di significato: da una logica evocativa passò a una logica operativa in vista di determinati fini e casi politici o religiosi o politico-religiosi (come chiaramente si vide nell’assassinio di Enrico IV di Francia nel 1610), senza però configurarsi come eroe della libertà moderna, di cui non era ancora questione. Senonché, proprio in ciò si rivela come il tirannicidio sia un ulteriore segno dell’ascesa della monarchia moderna. È allo strapotere di questa che ora l’uccisione del sovrano vuole reagire, teorizzando non solo il tirannicidio, ma, a sua base, il diritto naturale e morale dei sudditi di reagire ai suoi eccessi. Ben più costruttivo è l’altro sviluppo, che si concreta nella elaborazione di una teoria moderna di limitazione dei poteri e delle facoltà del sovrano, che segna in pratica gli albori del liberalismo. È significativo che tanto il primo percorso (con gli scrittori cosiddetti “monarcomachi”, combattenti contro i monarchi) quanto il secondo (ad esempio con John Locke) abbiano trovato forte espressione in Inghilterra, indubbiamente il paese più fecondo e precoce nell’affrontare le problematiche poste dall’apogeo della monarchia moderna. Se il pensiero politico e l’organizzazione del potere costituirono un percorso da considerare privilegiato nel cammino verso la modernità, portando, fra l’altro, come si è visto, a un rinnovato primato della politica, altrettale e parallelo appare il percorso seguito nel campo del diritto. La connessione tra politica e diritto appare, anzi, essa stessa come un sentiero collegato ai loro rispettivi percorsi. Nel diritto la riserva allo Stato, ossia ai poteri sovrani, della legislazione e della giurisdizione segnò la meta a cui quei poteri consapevolmente tesero. Da questo punto di vista il pensiero giuridico esercitò una funzione non minore di quella che si è vista svolta dal pensiero politico; e, del resto, la già accennata connessione tra politica e diritto si tradusse in una più che frequente coincidenza, fino a rendere indistinguibili fra loro la riflessione politica e quella giuridica. E se sul terreno politico la centralizzazione fu la parola d’ordine dell’azione dei sovrani, lo stesso

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accadde sul piano del diritto, con la rivendicazione al potere centrale della dispersa e molteplice vita forense e attività giudiziaria ereditata dall’ancora recente passato medievale. Sul piano della legislazione la linea dell’accentramento incontrò difficoltà non minori, se non senz’altro maggiori, che nell’esercizio concreto e minuto del potere giudiziario. In ultimo, i due processi centralizzatori nella legislazione e nella giurisdizione avrebbero messo capo a esiti del tutto paralleli. Da un lato, si giunse a istituire organi giurisdizionali centrali, ai quali finiva con l’affluire in ultima istanza la trattazione di tutti i casi (in numero sempre crescente) consentiti o imposti dall’autorità sovrana. Dall’altro lato, venne maturata e attuata una unificazione legislativa radicale attraverso la codificazione del diritto vigente, che semplificava e radunava nelle due grandi ripartizioni del diritto e della procedura l’enorme e inestricabile selva delle norme e delle fonti del diritto riconosciute in base alle perduranti tradizioni medievali. Alla piena affermazione di queste strutture centralizzate si sarebbe giunti solo con la rivoluzione francese e con Napoleone, ma il cammino dello Stato moderno ne è tutto contrassegnato. Con la rivoluzione francese e con la codificazione napoleonica (il Codice Civile o Code Napoléon è del 1804) si ebbe pure un larghissimo sopravvento dei princìpi e dei criteri normativi del diritto romano. Si concludeva, così, il contrasto millenario di quel diritto con le tradizioni giuridiche dei popoli germanici e con quel “diritto comune” che ne era stato la frequente risultanza pratica nella vita pubblica e sociale di oltre un millennio. Si concludeva allo stesso modo il contrasto della tradizione giuridica romana con le pretese ecclesiastiche di imporre nei paesi cattolici il diritto canonico (ossia il diritto regolato secondo i canoni e i precetti della Chiesa) anche nella vita pubblica e privata della società civile. Solo nell’ambito anglosassone e in alcuni ambiti germanici non vi furono né la codificazione, né la ripresa del diritto romano, e il diritto comune continuò a regolare il diritto e la vita giudiziaria.

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Il diritto romano comportava una concezione piena ed esclusivistica sia della sovranità che della proprietà, ed era, perciò, molto favorevole all’affermazione del potere centrale dei sovrani nella vita politica e dell’individualismo personale e familiare nella vita sociale. Per quest’ultima, la codificazione napoleonica configurò un ordinamento a base maschilistica e familistica dai tratti piuttosto accentuati, che solo la lunga e travagliata vicenda dei secoli XIX e XX avrebbe incrinato e profondamente modificato o addirittura rovesciato. Ma le difficoltà nel superare la prevalenza del maschio e dell’istituzione familiare non sarebbero state molto minori nei paesi di diritto comune, a conferma del fatto che il diritto vincola la società, ma è poi in ultimo la società a determinare il diritto. Allo stesso modo, è stata sempre notata la maggiore flessibilità del diritto comune rispetto al diritto romano, essendo il primo largamente fondato sulla consuetudine e il secondo su precisi e rigidi testi normativi. Tuttavia, è stato pure osservato che nel diritto inglese la flessibilità e la potenzialità evolutiva appaiono poi ridotte dal valore vincolante riconosciuto ai precedenti: un valore equivalente, secondo alcuni, a una vera e propria codificazione dei precedenti, che solo nell’esperienza americana appare apprezzabilmente attenuata. E, infine, se nell’ordinamento anglosassone si rivela un protagonismo notevole del giudice come fonte delle norme di diritto in quanto non vincolato da rigidi testi normativi, a esiti non molto lontani da questi si finisce col giungere anche, molto spesso, nei paesi di diritto romano sia attraverso la giurisprudenza delle corti supreme (in pratica, le Corti di Cassazione) in cui culmina l’ordinamento giudiziario, sia attraverso il frequente debordare della magistratura dalla sua funzione di pura applicazione delle disposizioni legislative. Resta, tuttavia, significativa la circostanza per cui, mentre nei paesi di tradizione giuridica romana si sviluppò fortemente la funzione del notaio, per cui quest’ultimo finì con l’assumere un’importanza decisiva nella formalizzazione data a ogni

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aspetto e momento dei rapporti personali e reali, nei paesi del diritto comune la figura del notaio come tale fu praticamente ignorata e supplita in vario modo. Sia nella vita politica che in quella giudiziaria si delinearono, inoltre, con un valore particolare gli obblighi del giuramento e del segreto. Il giuramento fu ora preteso dallo Stato (e per esso dal sovrano o dai suoi rappresentanti) come una via spedita e risolutiva per volgere a proprio vantaggio tutti gli elementi di carattere sacrale e religioso propri del giuramento di per se stesso e ancor più radicati nella tradizione medievale. Col giuramento, inoltre, si superava il carattere pattizio e concordato prevalente largamente nei rapporti politici tradizionali, e il vincolo con il potere politico diventava un rapporto subordinato e unilaterale del suddito o cittadino con il sovrano e con lo Stato. Quanto al segreto, anch’esso non è un’assoluta novità moderna. Nella prassi dello Stato moderno il segreto prende, però, un significato nuovo, che sostituisce in qualche modo i vincoli personali degli ordinamenti precedenti. Col segreto la forza del potere sovrano e quella dell’ordinamento giudiziario acquistano una copertura in parte destinata ad aumentarle, ma, in parte ancora maggiore, destinata ad assicurare al potere uno strumento tutto proprio e particolare, col quale svolgere la sua attività in forme che salvaguardano aspetti vantaggiosi di precedenti concezioni, oltre che aspetti funzionali intrinseci all’esercizio del potere stesso. Anche il giuramento e il segreto si sarebbero rivelati tenaci nella loro permanenza quali aspetti convenuti dell’ordinamento vigente, e avrebbero pure manifestato una insospettata capacità di adattamento a nuove circostanze e condizioni della vita pubblica. Così il segreto sarebbe diventato una forma di garanzia dei diritti individuali, oltre che della privacy, specialmente nelle fasi istruttorie dei procedimenti giudiziari, perdendo del tutto, almeno tendenzialmente, l’antico significato che lo collegava agli arcana imperii (cioè ai segreti e ai misteri del potere). A sua

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volta, il giuramento sarebbe servito da collante particolarmente significativo nei rapporti tra cittadini e Stato quando sopravvenne l’ora delle ideologie e dei valori nazionali e di nuove forme di organizzazione politica (come, in particolare, quelle dei partiti e dei regimi totalitari). Infine, sia sul versante politico che su quello del diritto si verificò la parallela affermazione di ceti professionali, in gran parte di recente formazione, investiti sia di ruoli tradizionali, sia dei ruoli nuovi legati alla progressiva affermazione dei poteri sovrani. Per la verità, la dominante confusione dei poteri, per cui legislazione, amministrazione e giurisdizione rimanevano assai largamente indistinte, non consente di individuare chiaramente e distintamente personale e ruoli politico-amministrativi e personale e ruoli giudiziari. È indubbio, tuttavia, che si iniziò a distinguere in modo consapevole e registrato, nonché crescente, tra quei ruoli e il rispettivo personale. Si cominciò così a distinguere tra la robe (la toga, l’ordine giudiziario) e la plume (l’amministrazione, il ceto burocratico), anche se le funzioni, il potere e il prestigio dei robins (i togati) prevalevano nettamente su quelli degli hommes de plume (i burocrati). L’indistinzione dei ruoli generava quella dei ceti, ma non senza che, specialmente ai livelli inferiori, la distinzione, come si è accennato, cominciasse a farsi sentire. L’elaborazione dottrinaria della separazione dei poteri fu, a questo riguardo, decisiva, con conseguenze che sul piano della struttura sociale non furono minori che su quello dell’ordinamento istituzionale. Anche questi sviluppi conobbero il loro momento risolutivo con la rivoluzione francese. Finì con quest’ultima anche il principio della venalità degli uffici, che pure aveva largamente dominato fino ad allora nella vita amministrativa e giudiziaria. L’acquisto dell’ufficio rappresentava un investimento di capitale, che poteva avere gli scopi più vari, da quello di assicurare un reddito per la sussistenza e il mantenimento dell’acquirente a quello di garantirgliene uno di natura speculativa. In ogni caso, l’ufficio doveva re-

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munerare l’acquirente del capitale impiegato per acquistarlo e di quello occorrente per esercitarlo, con le conseguenze che si possono facilmente immaginare sulla funzionalità e sulla correttezza del servizio (il che diventava ancor più evidente quando l’ufficio, venduto ed esercitato nella grande maggioranza dei casi a tempo determinato, veniva subaffittato, oppure non era esercitato direttamente dall’acquirente, bensì da suoi dipendenti). Soprattutto, però, l’acquisto dell’ufficio equivaleva a una sicura promozione sociale, sicché fu anche questo un canale importante per l’emergere e il consolidarsi di nuovi ceti. Sentieri del moderno: economia e dintorni Solo in parte quello dell’economia può apparire un percorso staccato dagli altri finora illustrati della politica e del diritto. In realtà, le connessioni furono forti nell’età moderna come in ogni altro periodo storico. Non è, tuttavia, un caso che l’età moderna abbia segnato, fra le tante altre sue novità, anche quella della nascita di una nuova scienza o disciplina: l’economia politica, come ben presto la si definì, congiungendo in modo molto diretto e significativo l’aggettivo col sostantivo. Nelle origini dell’economia politica è stata spesso segnalata l’esplosione dei commerci che si ebbe nei primi secoli dell’età moderna, ossia quella mondializzazione, come abbiamo detto, dei circuiti economici che sarebbe culminata molto più tardi nella “globalizzazione”. Appare, però, difficile vedere solo nell’estensione del raggio dei commerci lo stimolo a una riflessione economica più specifica e organica. I mercanti italiani del basso Medioevo e del Rinascimento avevano avuto già uno sguardo assai ampio sugli orizzonti del grande commercio mediorientale, mediterraneo ed europeo. La “rivoluzione dei prezzi” alla fine del secolo XVI aveva pure costituito materia di studio e di riflessione. A sua volta, la politica fiscale, doganale, monetaria e finanziaria dei

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grandi Stati moderni aveva attirato molti sforzi di analisi e di riflessione, e aveva dato luogo a vere e proprie scuole di pensiero, espresse nel lavoro di consulenti e tecnici dei poteri sovrani (o di semplici proponenti di piani e azioni più o meno bene o mal fondate, e spesso del tutto fantasiose, per l’attività di governo). Notevole fu, ad esempio, nella monarchia spagnola la tradizione degli arbitristas. E non è, ancora una volta, un caso che le prime trattazioni di economia politica vertessero, bensì, su commerci interni e scambi con l’estero, ma, allo stesso tempo, anche su moneta, fisco, gestione delle finanze pubbliche. In altri termini, tutto lascia pensare che dietro la “scoperta” (come fu pure definita) dell’economia politica vi sia tutta la vicenda della formazione e dell’affermazione dello Stato moderno. Una vicenda (è bene ricordarlo) dominata da problemi gravissimi, quali: – il costo dello Stato nella sua nuova struttura e organizzazione interna, con la moltiplicazione degli uffici e dell’area di intervento del potere statale; – il costo delle relazioni diplomatiche e dell’apparato militare richiesto dal gioco, al quale non ci si poteva sottrarre, del moderno sistema degli Stati europei; – il peso del regime dei privilegi e della politica sociale sostanzialmente conservatrice prevalsa nell’ancien régime; – lo spreco, la corruzione e altre mende gravissime della vita pubblica, diffuse un po’ ovunque nell’ancien régime; – la sfida economica rappresentata non solo dall’ampliamento senza precedenti del quadro dei traffici a tutto l’ambito mondiale, ma anche dalla presenza di nuove realtà produttive fiorite dalla fine del secolo XVI in poi (in Inghilterra, in Olanda, in varie parti della Francia, più tardi nella Germania renana), che misero in crisi i vecchi centri dell’economia europea (Fiandre, Italia centro-settentrionale, Catalogna, varie parti della Germania e della penisola iberica) e obbligarono lo Stato a farsi carico di problemi nuovi per il peso assunto dall’economia e dalle relazioni economiche anche nella gestione del potere politico.

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Ad accrescere le difficoltà rappresentate da questo nodo di problemi, che si presentano, inoltre, simultaneamente, si aggiunge la carenza di strumenti operativi e cognitivi per agire al meglio nelle condizioni in cui ora ci si ritrovava. A questa carenza sono proprio gli studi della nuova scienza economica che cominciano a fornire elementi importanti di orientamento e di valutazione, e tanto più in quanto si avvia contemporaneamente anche lo sviluppo della statistica moderna, che comincerà a dare, anch’essa, alla politica e agli studi il supporto di una informazione quantitativa sempre più attendibile, anche se occorrerà parecchio tempo perché la statistica elabori criteri e tecniche perfezionate di raccolta e di studio dei dati. Il nuovo pensiero economico delinea ben presto alcuni orientamenti fondamentali: quello dell’interventismo dello Stato nella vita economica con un’attiva politica di regolazione, di promozione e di protezione interna ed esterna delle attività di un paese; quello della massima possibile libertà da lasciare alle imprese economiche e alla circolazione delle merci; quello che vede la base insurrogabile e sufficiente della prosperità economica nell’agricoltura e nelle attività ad essa connesse; quello che, all’opposto, vede nelle manifatture e nei commerci, e spesso soprattutto in questi ultimi, la chiave della floridezza di un paese; quello per cui la ricchezza di un paese consiste nella quantità di moneta e di metalli preziosi che esso possiede, conserva e custodisce; quello che, invece, vede la ricchezza solo nella sua mobilità e nel suo continuo entrare e rientrare nel circuito economico, potenziandolo e venendone potenziata; quello per cui è il possesso terriero e fondiario a stabilire le gerarchie e le potenzialità della ricchezza e dell’economia; quello per il quale sono, al contrario, le attività manifatturiere, mercantili e finanziarie a segnare quelle gerarchie e quelle potenzialità. Si delineano pure, in tal modo, gli indirizzi di politica economica e sociale che caratterizzeranno in modo sempre più determinato e consapevole l’azione degli Stati dalla fi-

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ne del secolo XVIII in poi. Si aprirà, altresì, quasi parallelamente, la discussione sul carattere e la funzione della proprietà, con l’alternativa che sarà poi dominante: proprietà pubblica o proprietà privata? Inoltre, allo sviluppo della scienza economica si accompagna quello della scienza delle finanze, che varrà a dare nuovi criteri e nuovi strumenti di intervento nel campo finanziario, fiscale, tributario, doganale, con preoccupazioni inedite e fondamentali sui rapporti tra finanze pubbliche e attività economiche, sui problemi di equità e di giustizia tributaria, sulla opportunità che i servizi finanziari dello Stato siano esercitati direttamente dallo Stato stesso, invece di affidarli a esosi e dannosi appaltatori, come di norma accadeva nell’ancien régime. Non sono, peraltro, soltanto gli strumenti operativi e di conoscenza messi a disposizione del potere politico a caratterizzare l’economia moderna. Le vie della modernizzazione economica vedono fiorire una serie continua di nuove forme e istituti in ogni campo di attività: compagnie e società di commercio e di navigazione, società di imprenditori con particolari finalità, società per azioni, banche di nuovo tipo (con l’avvio alla istituzione delle banche centrali), borse per la negoziazione dei valori economici e finanziari e per il cambio delle monete, mezzi di pagamento come assegni bancari e cambiali, e ancora altri. Alcune iniziative del mondo economico coinvolgono profondamente lo Stato. Tipico è il caso delle compagnie di commercio e di navigazione e delle iniziative bancarie. La Compagnia delle Indie Orientali, fondata in Inghilterra nel 1600 – indubbiamente il caso di gran lunga più rilevante in questo campo – si trasformò in un’agenzia di dominio e controllo politico di vaste aree indiane e fu la battistrada di Londra nella costruzione dell’Impero inglese in India. E sempre in Inghilterra, con la fondazione della Bank of England nel 1694 per la collocazione del debito pubblico inglese, si ebbe l’avvio dell’esperienza, poi fondamentale, delle banche centrali, ossia delle banche che

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avrebbero poi provveduto all’emissione della moneta e alla vigilanza sul mercato e sugli istituti creditizi, nonché ai crediti e accordi fra le altre banche. Funzioni, queste ultime, particolarmente importanti, perché – nella scia dei mezzi di pagamento cartacei sempre più diffusi nella prassi bancaria, oltre che per varie altre e non meno importanti ragioni – anche gli Stati provvidero a una graduale e larghissima sostituzione della moneta metallica con quella cartacea. Né si può fare a meno di ricordare che lo Stato si lasciò ampiamente coinvolgere anche in traffici particolari per i loro oggetti e le loro finalità. E in questo campo il riferimento obbligato è alla tratta degli schiavi dall’Africa nelle Americhe per provvedere a una manodopera a buon mercato per lo sfruttamento delle colonie americane da parte degli europei che le avevano popolate. La tratta prese subito un enorme sviluppo. Si calcola che nelle sole colonie inglesi delle Antille e dell’America settentrionale siano stati importati fra il 1680 e il 1780 oltre un milione di schiavi. Poi dai primi anni del secolo XIX, per impulso soprattutto inglese, si andò via via proibendo la tratta, e il relativo traffico andò rapidamente cessando, anche se per l’abolizione dello schiavismo nel Nuovo Mondo bisognò aspettare ancora del tempo, e negli Stati Uniti vi si giunse solo dopo la sanguinosa “guerra di secessione” tra il Nord e il Sud del paese (1861-1865). In sostanza, l’economia si rivelò, in effetti, un grande appoggio, ma anche una grande tentazione per lo Stato moderno, nel quale essa aprì un solco profondo e determinò un grande accrescimento di possibilità operative, insieme a rischi e pericoli ancora maggiori che per il passato. Anche per l’economia bisogna, tuttavia, specificare che valse quel primato della politica che abbiamo già richiamato. Per quanto la dimensione economica condizionasse ora in misura certamente maggiore la politica e i governi, in ultima analisi fu poi sempre la politica a determinare il corso delle cose (e si potrebbe dire che i danni fatti dall’economia alla politica furono ampiamente compensati e su-

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perati dai danni che la politica ripetutamente fece all’economia). Lo si vide in forma ancora più evidente quando nella seconda metà del secolo XIX suonò l’ora di una nuova espansione coloniale dell’Europa, l’ora, come fu detta, dell’imperialismo, dopo la prima ora imperiale seguita alla scoperta del Nuovo Mondo. L’interpretazione economica dell’imperialismo ha, infatti, dovuto cedere alla sua interpretazione politica: si trattava di assicurarsi non solo e non tanto spazi di sfruttamento e di potenza economica quanto, invece, spazi strategici e posizioni di controllo e di dominio nelle aree del mondo in cui ciò era, comunque, possibile, ai fini di un sostanziale incremento delle proprie posizioni nella bilancia della potenza mondiale. La “rivoluzione scientifica” Anche il progresso tecnico e scientifico fu un percorso del moderno. Lo fu, anzi, a tal punto da dover essere considerato a parte per gli effetti che esso ebbe addirittura sulla posizione esistenziale e sul ruolo dell’uomo nel mondo. Già dal secolo XIV andarono susseguendosi, con un ritmo discontinuo e piuttosto casuale, ma non trascurabile, numerosissimi ritrovati nei vari campi allora toccati dal progresso tecnico o scientifico, e pressappoco in ogni settore della scienza, dall’astronomia alla medicina. Ben più dei singoli ritrovati, per importanti che siano stati, conta, tuttavia, per l’avvio dell’età moderna, la decisa trasformazione che nello statuto pubblico e sociale dell’attività scientifica e nella concezione stessa del lavoro scientifico e dei suoi presupposti e connessioni si ebbe tra la seconda metà del secolo XVII e la prima del secolo XVIII. Non fu un caso che già ai primi del secolo XVIII un intellettuale di rilievo come Bernard de Fontenelle, e poi altri dopo di lui, cominciassero a parlare di rivoluzione scientifica per indicare i progressi intervenuti da qualche tempo a quella parte. Dapprima si videro questi progressi (e quindi la relati-

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va rivoluzione) concentrati in qualche disciplina particolare (fisica, matematica), e se ne vide l’esponente maggiore in Newton. Poi via via ci si riferì a sempre nuove discipline, e nuovi nomi, in particolare Keplero e Galilei, entrarono nel novero delle figure iniziatrici. All’idea di una rivoluzione scientifica, ossia di un netto e decisivo salto di qualità nella storia della scienza si è reagito, indicando le tante premesse, che già dal secolo XIV possono essere rilevate, dell’imponente progresso realizzato nei secoli XVII e XVIII. Si è preferito parlare, perciò, di un lenta evoluzione, che con sostanziale continuità irrobustisce a mano a mano l’albero del patrimonio scientifico e tecnico. Come abbiamo già detto per altri settori e per altri problemi, è difficile, però, rinunziare a una nozione nata nel corso stesso dei processi storici di cui si tratta, e tanto più quando con la rinunzia si perde molto più di quanto si guadagni. L’intento di dimostrare che il mondo tardomedievale e la cultura ecclesiastica che in esso fioriva non fossero contrari né alla scienza, né al progresso non ha molto a che fare con la nuova coscienza non solo strettamente tecnica e scientifica, ma più generalmente filosofica e culturale, critica e metodologica dei tempi di Galilei e di Newton. La discontinuità – o, per essere più precisi, un certo e non lieve elemento di discontinuità, e cioè di “rivoluzione” – nell’avvio della scienza moderna rispetto a quella precedente rimane assolutamente al di fuori di ogni discussione. È, invece, senz’altro da recepire l’esigenza, che nel corso del tempo gli studi di storia della scienza hanno fatto valere, di congiungere lo sviluppo scientifico al generale mutamento filosofico e culturale, a cui si è accennato, con riferimento ai Bacone, ai Giordano Bruno, ai Cartesio e alle altre figure del movimento culturale europeo del tardo Rinascimento e del periodo successivo, che allo sviluppo della scienza diedero il conforto di stimoli, di integrazioni e supporti, di canoni metodologici e critici, senza dei quali non appare possibile pensare realmente la vicenda della

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scienza moderna. Del resto, la frequenza con la quale per più di un paio di secoli la figura dello scienziato fa tutt’uno, almeno per alcune problematiche, con la figura del filosofo (basta pensare già allo stesso Galilei) dice da sola la pertinenza di questa esigenza storiografica. Il posto che la ricerca scientifica avrebbe finito con l’occupare nella società moderna è, dunque, fondato su una fase iniziale piuttosto lunga. Ma la lunghezza di questa fase non toglie nulla alla sua importanza, né alla necessità di considerarla in maniera e misura adeguate a tale importanza. In ogni caso, almeno dalla metà del secolo XVII in poi la “rivoluzione scientifica” dev’essere certamente considerata fra i punti più sicuri e più rilevanti nella discussione sugli inizi dell’età moderna. Sul suo significato ultimo si può, inoltre, aggiungere ancora qualcosa. Tutto sembra, infatti, concorrere a far notare come con questa rivoluzione si venga alla fine a invertire il rapporto originario fra scienza e tecnica. In tale originario rapporto la tecnica ha sempre indubbiamente anticipato la scienza. In altri termini, l’homo faber è nato di gran lunga prima dell’uomo-scienziato, e le sue arti hanno a lungo costituito tutta la scienza di cui l’uomo era provveduto. Il grandioso sviluppo posteriore del pensiero scientifico già in civiltà remote nel tempo e poi in quelle successive del mondo greco-romano, di vari paesi extraeuropei, come la Cina, di Bisanzio e soprattutto dell’Islam nel Medioevo e la grande spinta umanistica e rinascimentale non annullarono, nella sostanza, il ruolo prioritario della tecnica. Già, tuttavia, nel tardo Rinascimento era ormai matura una concezione diversa. Abbiamo notato come lo stesso Colombo fondasse la ricerca della sua via delle Indie su una ipotesi scientifica: la rotondità della Terra. Con un filosofo come Bacone e con uno scienziato come Galilei si fa strada il metodo rimasto poi canonico della scienza moderna: la ricerca di soluzioni scientifiche e tecniche sulla base di ipotesi di lavoro fondate sul patrimonio di conoscenze scientifiche già conso-

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lidato o su nuove scoperte o invenzioni. In ultimo si sarebbe giunti non solo a formulare i problemi delle soluzioni ricercate, ma perfino i tempi necessari al conseguimento dell’obiettivo. Anche se – bisogna aggiungere – con ciò non vengono affatto meno, a loro volta, l’episodicità, la casualità, l’imprevedibile creatività, la particolare spontaneità e immediatezza di invenzioni e scoperte sul piano tecnico, un tempo ad opera anche, se non soprattutto, di inventori e scopritori sprovveduti di effettiva cultura scientifica, e poi, sempre più spesso, per lo meno di dilettanti o amateurs di scienza, fino alla dominante prevalenza di veri e propri scienziati. La “rivoluzione industriale” e le macchine In parte fu anche effetto di tali elementi (spontaneità e immediatezza, episodicità e casualità, imprevedibile creatività) il massimo progresso tecnico dell’età moderna, che segnò una svolta radicale in tutta la vicenda della civiltà, anzi della condizione umana, ossia la cosiddetta “rivoluzione industriale”, apertasi intorno alla metà del secolo XVIII. Essenzialmente questa “rivoluzione” consistette nell’applicazione di un certo tipo di energia per azionare gli strumenti del lavoro umano, sia quelli vecchi (telai, fusi, mulini etc.), sia, ancor più, quelli nuovi (che da allora, nella scia della “rivoluzione industriale”, divennero sempre più numerosi). La forma di energia ora adoperata fu quella termica ottenuta dal vapore. Ad essa se ne aggiunsero via via altre, da quella elettrica a quella atomica, con una enorme moltiplicazione della potenza produttiva dell’uomo e un formidabile incremento delle sue attività economiche. Il particolare che qui va sottolineato è che questo nuovo modo di procurarsi l’energia non era rimesso alla disponibilità di forze che da sempre si ritrovavano in natura (la forza muscolare di uomini e animali, il vento, il moto dei corsi d’acqua, il fuoco e così via). Rispetto a tali forze il pro-

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blema era per l’uomo di escogitare i modi più efficaci di utilizzarle, di potenziarne gli effetti, di aumentarne la disponibilità e la fungibilità. Con la “rivoluzione industriale” l’energia diventa, invece, una produzione dell’uomo in forme che non si ritrovano immediatamente in natura. Per di più, queste forme si sono rivelate sempre più varie, e suscettibili di essere incrementate in misura esponenziale anche grazie all’applicazione via via più ampia, e, ben presto, praticamente totale, della scienza alla tecnica nei modi che abbiamo già indicato. Inoltre, non solo le nuove forme di energia hanno moltiplicato fino all’inverosimile la capacità produttiva dell’uomo, ma è parallelamente aumentata la capacità umana di produrre quantità crescenti di energia. Infine, applicata non solo alla produzione dei beni, ma anche ai mezzi di trasporto, la nuova tecnica dell’energia ha consentito un non meno formidabile ampliamento della rapidità e della capacità di comunicazioni e relazioni sociali e di trasferimento di uomini e cose da un luogo all’altro anche sulle più lunghe distanze. E ciò ha radicalmente innovato il quadro e i tempi della vita economica e sociale, e ha reso, per così dire, più piccolo il mondo. Lo strumento di questa vertiginosa trasformazione dei fondamenti e del ritmo dell’attività economica sono state le macchine: un protagonista e compagno originario della vita dell’uomo, che per quest’ultimo, con la “rivoluzione industriale”, ha assunto – secondo un’immagine molto diffusa – il ruolo del servo-padrone. Si è potuto così parlare, con una certa iperbole, del “macchinismo” come dimensione connaturata alla civiltà dell’epoca industriale. Questo si vede bene, però, alla fine del secolo XIX, quando il paesaggio umano e sociale di un mondo industriale ormai maturo si stagliò con fortissimo risalto rispetto al passato recentissimo della storia dell’uomo e, ancor più, rispetto alla sezione di molto maggioritaria dell’umanità e alla parte di gran lunga prevalente della Terra in cui la “rivoluzione industriale” non si era ancora in alcun modo prodotta. Fu, infatti, solo tra il XVIII e il XIX secolo

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che dall’Inghilterra l’industrializzazione si diffuse in vari paesi europei, e fu solo nella seconda metà o alla fine del secolo XIX che essa si estese, con i “secondi arrivati”, ad altri paesi europei (ma ancora non a tutto il continente) e già anche a paesi extra-europei (in primo luogo gli Stati Uniti e il Giappone). Le trasformazioni economiche e sociali dell’industrializzazione divennero perciò del tutto evidenti solo nel corso del secolo XIX, formando un telaio, per così dire, preminente nel quadro della storia contemporanea. Qui non seguiteremo a indicarne le vicende. Ci limitiamo – oltre che a ribadirne il carattere di evento, nel senso pieno del termine, rivoluzionario nella storia dell’uomo – a due sole osservazioni. Anche per la “rivoluzione industriale” si è negato – come già abbiamo accennato, e secondo una tendenza della storiografia contemporanea di cui si sono visti o si vedranno altri casi – il carattere di evento-rottura e se ne è affermato l’avvento graduale attraverso un processo molecolare di innovazioni e invenzioni non di primo piano culminate in quella del motore a vapore. Si è, anzi, addirittura sostenuto che, sulla linea dei progressi nella meccanizzazione e nell’organizzazione del lavoro conseguiti nel corso del secolo XVIII sfruttando tipi tradizionali di macchine e di energia, si era già giunti a risolvere molti dei problemi che ormai ci si poneva per accrescere e potenziare l’attività produttiva dell’uomo. Si perde, però, completamente di vista, così, il salto di qualità che con l’industria moderna si è realizzato grazie ai suoi procedimenti e ai suoi strumenti tecnici, a cominciare dalla nuova combinazione di macchine e di energia prodottasi con lo sfruttamento del vapore. Questa combinazione è radicalmente diversa e altra rispetto al presunto graduale progresso molecolare di innovazioni e di invenzioni in cui si pretende di risolverla. Il salto di qualità con essa realizzato è stato tale da ridurre a ben poco ciò che si stava ottenendo o si sarebbe potuto ottenere per altre vie rispetto al potenzia-

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mento verticale, assoluto, che nelle attività economiche umane è stato segnato dall’avvento dell’industria moderna. A buona ragione, perciò, alcuni storici ribadiscono con opportuna fermezza e decisione che la “rivoluzione industriale” fu davvero una “rivoluzione”. La seconda osservazione ha maggiore rilievo. Il carattere effettivamente sconvolgente della “rivoluzione industriale” e le sue conseguenze in tutta la vita materiale e sociale dell’umanità hanno indotto a fare di essa il vero spartiacque della storia dell’uomo e la più autentica data di inizio della modernità. Si nota, a ragione, che a ben vedere la vita dell’uomo fino all’avvento della civiltà industriale non era davvero diversa nei suoi mezzi, strumenti, modi e tempi da quella propria dell’uomo da alcuni millennii. E, in effetti, – se si vogliono trovare sia le origini del quadro civile ancora sopravvivente in molti dei suoi fondamenti nel secolo XVIII, sia un mutamento storico fondatamente paragonabile alla “rivoluzione industriale” – quella che si può ricordare è solo la “rivoluzione dell’età neolitica” a partire dal 10.000 o 8.000 a.C., con il passaggio degli uomini da cacciatori e raccoglitori ad agricoltori e pastori. In questo modo si perde, però, di vista il profondo mutamento di quadri e di valori intervenuti nell’esperienza in particolare europea fra il XV e il XVIII secolo, già a partire dalle grandi scoperte geografiche che per la prima volta allargarono l’orizzonte operativo dell’uomo all’intero pianeta Terra, e che nell’operare umano diedero tutt’altro senso all’idea materiale e all’immagine del mondo. Ben più: si trascura che proprio nel quadro di tali mutamenti fu possibile, in concreto, il prodursi della “rivoluzione industriale”. La macchina costituisce, infatti, essa stessa una espressione e un veicolo di quella enorme serie di mutamenti nel cui quadro quella “rivoluzione” fu prodotta. Non sono, insomma, questi mutamenti ad aver luogo e ad assumere il proprio significato grazie alla macchina. Ossia, in altri termini, è la macchina ad essere figlia della modernità, non il contrario; ed è una limi-

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tazione gravissima ritenere che la modernità sia consistita e consista tutta nella macchina e in ciò che vi si connette, mentre la macchina – protagonista fin troppo vistoso della civiltà moderna dal XVIII-XIX secolo in poi – è solo uno, per quanto rilevante, dei suoi orizzonti e delle sue radici e delle sue prospettive.

Capitolo quarto

Lo Stato moderno

Lo Stato moderno: i precedenti medievali Il possesso di questi e di altri non pochi nuovi strumenti richiedeva, a sua volta, una nuova struttura tecnico-organizzativa del potere politico capace di trarne tutti i vantaggi possibili e controllarne, al tempo stesso, l’uso e gli effetti. Il che significava, in altri termini, un profondo rinnovamento e una profonda trasformazione dello Stato, che, infatti, si ebbe col graduale delinearsi e affermarsi in Europa dello Stato moderno. Anche la nozione di Stato moderno, come quella stessa di modernità, è stata vivamente discussa e largamente negata nella storiografia del secolo XX. In questo caso una qualche ragione vi era, se si pensa che nella tradizione europea lo Stato moderno era identificato con la “monarchia assoluta”, ed era facile osservare che, come vedremo, l’assolutismo aveva in questa espressione un valore relativo, da riportare alla varietà delle singole forme storiche del fenomeno così designato. Una ulteriore difficoltà era pure costituita dal fatto che – per una non piccola parte della storiografia e del pensiero storico, politico e giuridico d’Europa – lo Stato era, come sappiamo, una realtà politico-istituzionale molto latente nella precedente struttura feudale del contesto europeo, e lo “Stato feudale” era una convenzione storiografica più che un effettivo referente storico.

IV. Lo Stato moderno

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La prassi storiografica dovrebbe, tuttavia, valere a dissipare senza sforzi questi e altri dubbi affini o diversi in materia di Stato moderno. Già dovrebbe essere chiaro che, per parlare in sede storica di Stato, più che indagarne la rispondenza a elaborate dottrine coeve o posteriori, occorre verificare la sussistenza di un centro politico che, in un determinato ambito storico-geografico, eserciti a titolo di sovranità alcuni poteri superiori a quelli di qualsiasi altro centro politico presente in quell’àmbito e riconosciuti per tali: poteri legislativi, giudiziari, di guerra e di pace, fiscali e finanziari, amministrativi e di polizia. Anche le monarchie feudali europee dei secoli XII-XV presentavano queste caratteristiche, ma le presentavano in concorrenza con altri centri politici presenti al loro interno, che, da soli o in coalizione fra loro e, spesso, con centri di potere esterni, li contestavano, ne riducevano la portata effettiva e ne rendevano difficile la gestione, suscitando così crisi e problemi ricorrenti, che inficiavano più o meno gravemente i titoli e la consistenza del potere sovrano e ne determinavano una, per così dire, debole qualità. Quanto all’assolutismo, andrebbe tenuto ben presente che esso era una rivendicazione antica del potere sovrano, di ascendenza anche romana, che in vario modo si era conservata nella tradizione medievale e – soprattutto nelle lotte fra la Chiesa e l’Impero – era stata spesso riaffermata come costitutiva nella concezione della natura e della funzione del potere imperiale. Con questa concezione romano-imperiale contrastava non solo la situazione di fatto alla quale abbiamo accennato, ma anche una serie di dottrine circa libertates, immunitates, privilegia e altre esenzioni o eccezioni concesse o conquistate nell’ambito dell’Impero o dei vari poteri politici agenti dentro e fuori di esso con propria fisionomia e autonomia. Agiva ancora di più la dottrina del feudo prima come porzione delegata, temporanea e revocabile della sovranità, e poi come consolidato diritto patrimoniale ed ereditario dei titolari dei feudi. Da qui si sviluppò, quindi, anche una dottrina dell’esercizio del potere feudale,

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Prima lezione di storia moderna

per cui il diritto feudale e la feudistica divennero enormi e vincolanti capitoli del diritto pubblico europeo. Agiva una tradizione parallela e ancor più sviluppatasi con gli ingenti privilegi e poteri acquisiti nel corso dei secoli dalla Chiesa in tutte le sue espressioni centrali e periferiche, per cui si sviluppò la lunga vicenda del diritto ecclesiastico (rapporti tra Chiesa e poteri civili) e della sua distinzione dal diritto canonico (diritto interno della Chiesa, formatosi secondo i suoi princìpi), col quale la Chiesa tendeva ad assimilarlo, se non proprio a identificarlo. Agiva la tradizione giuridica e dottrinaria via via più robusta e articolata formatasi col consolidarsi, nel lungo periodo, di altri poteri particolari (innanzitutto le città). Agivano le questioni determinate da sistemazioni di problemi di potenza e di relazioni diplomatiche, che prevedevano gerarchie di poteri sovrani, specialmente, ma non soltanto, tra l’Impero e i Regna della tradizione carolingica e postcarolingica, nonché tra il Papato e i singoli poteri sovrani. Ciò premesso, non appare affatto difficile sciogliere i nodi delle difficoltà sopra accennate circa il concetto e lo sviluppo dello Stato moderno. L’assolutismo continuò ad essere una rivendicazione della sovranità moderna, ma si trovò dinanzi il problema dell’eredità medievale costituita dalle tradizioni, dalle prassi e dalle forze politiche e sociali agenti nel quadro di ciascuna sovranità. Nello sviluppo dello Stato moderno questa eredità formò ciò che venne designato come costituzioni, leggi, patti, diritti a cui il sovrano si doveva attenere nell’esercizio del suo potere. Violare queste leges significava trasformare un potere legittimo in una tirannide. Machiavelli affermava perciò che il sultano di Costantinopoli era il signore di un popolo di schiavi, perché, a suo avviso, il sultano non aveva limiti alla sua facoltà di governo, mentre il re di Francia era il sovrano di uomini liberi, perché non poteva governare che sulla base delle leggi del Regno di Francia. Proprio per tale ben noto ed esplicitamente affermato carattere legalitario della sovranità si è parlato e si parla di

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costituzionalismo, ossia di una natura o fisionomia “costituzionale”, dei regimi così conformati. In alcuni casi si parla, anzi, senz’altro di un carattere pattizio di quei regimi: così, per fare almeno un esempio, si fa per quanto concerne l’àmbito dei domini della Corona d’Aragona. È chiaro, tuttavia, che il costituzionalismo così indicato è tale solo perché alcune “costituzioni” – e, cioè, convenzioni o procedure o norme convenute o tradizionali – sono praticate nella vita pubblica dei paesi interessati. Abissale è la differenza dal vero e proprio costituzionalismo moderno che si avrà con gli ordinamenti politici posteriori alle rivoluzioni americana e francese della fine del secolo XVIII. In questi ordinamenti la costituzione è promossa e praticata sulla base dei diritti dell’uomo e del cittadino e, in un modo o nell’altro, presuppone il principio della sovranità popolare. Nel cosiddetto costituzionalismo dei vecchi ordinamenti quella che si riconosce è una condizione storica, sono diritti e libertates che fanno parte della tradizione e ne esprimono gli equilibri raggiunti attraverso particolari vicende e sviluppi storici. E quanto al carattere pattizio dell’esercizio della sovranità, appare fin troppo chiaro che esso è completamente relativo ai rapporti di forza che si stabiliscono fra determinati soggetti storici: in questo caso, fra comunità e forze storiche dell’ambito aragonese e la Corona d’Aragona, senza che l’azione storica della Corona appaia, però, mai impedita o anche solo troppo aduggiata dai “patti” tra la stessa Corona e il paese. Anche qui, dunque, si ritrova una condizione di fatto; e si comprende subito tutta la grande differenza tra una condizione storica o di fatto, come agli inizi dell’età moderna si configurava il cosiddetto “costituzionalismo”, e un punto di principio (che esprime, fra l’altro, anche la maturazione di nuovi grandi protagonisti storici) qual è quello che sostiene il vero e proprio costituzionalismo moderno. Pressappoco ovunque, il vecchio costituzionalismo, con le sue leges e con gli interessi che esse tutelavano, aveva anche una sua istanza rappresentativa, ossia quelle isti-

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tuzioni che, col nome prevalente di parlamenti (ma anche Diete, Cortes, Stati generali etc.), in prosecuzione di tradizioni e istituti del mondo feudale, giunsero, specialmente nel corso del secolo XIV, a un notevole grado di formalizzazione. Questi parlamenti erano strutturati per ceti o ordini o classi (clero, nobiltà, comunità borghesi) e si occupavano soprattutto delle richieste dei sovrani in materia di contribuzioni fiscali e, quindi, dei tributi, tasse o imposte con cui vi si doveva provvedere. Il controllo della materia finanziaria avrebbe dovuto o potuto implicare anche un controllo dell’azione politica del sovrano. In pratica non era così, e i sovrani finivano sempre con l’ottenere, in un modo o nell’altro, più o meno, quel che avevano chiesto; e in cambio del loro assenso i parlamenti chiedevano e, di solito, anch’essi ottenevano, privilegi e concessioni per i ceti in essi rappresentati, la cui effettiva traduzione in pratica era, però, altrettanto di solito, largamente disattesa. Per questo motivo è stato giustamente notato che i parlamenti finivano così con l’essere assemblee fortemente conservatrici, in quanto volte a mantenere le facoltà, i poteri, gli spazi dei corpi politico-sociali tradizionali; e tale funzione conservatrice appare decisivamente incrementata dal fatto che gli ordini rappresentati rimanevano, anche nel momento conclusivo dei loro lavori, oltre che nel loro principio costitutivo, concorrenti o, più spesso, rivali fra loro, poiché della situazione in essere anche gli equilibri fra i ceti facevano parte. Si spiega, così, che non si sia determinato coi parlamenti nessun processo di affermazione di nuovi diritti, né di riforma di quelli esistenti e del relativo quadro statale. Nelle fasi in cui il potere sovrano era o si sentiva più forte riusciva anche per questo a ridurre la funzione parlamentare a una semplice lustra della propria azione, e solo nelle fasi di debolezza del potere sovrano i parlamenti prendevano maggiore rilievo, ma assai più come fattore di disgregazione e di divisione dell’ordine costituito che come forza costruttiva di nuovi ordinamenti. Soltanto in In-

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ghilterra il loro processo di istituzionalizzazione fu più forte, più continuo e più duraturo, ma gli esiti più rilevanti di questa diversità inglese si sarebbero visti solo in età moderna piuttosto avanzata: in pratica solo dalla metà del secolo XVII in poi, e soprattutto nel corso del secolo XVIII. Altrove, segni di indebolimento della funzione parlamentare e di rafforzamento dell’amministrazione regia si notano già nel secolo XV, e questa sarebbe stata anche la linea di svolgimento istituzionale nell’epoca successiva. Lo Stato moderno: logica e dialettica La linea di svolgimento fin qui illustrata ebbe una sua logica estremamente chiara, che basterebbe da sola a configurare uno sviluppo moderno dello Stato in Europa e che si può riassumere nel grande rafforzamento dei poteri centrali e dell’autorità sovrana e in un corrispondente indebolimento dei poteri particolari e periferici. Per apprezzare appieno questa linea bisogna, però, specificare che l’ampliamento dello spazio centrale e del potere sovrano fu accompagnato anche da una progressiva estensione delle funzioni e dei poteri dello Stato in campi nuovi della vita materiale e sociale. Notazione importante, poiché fu in forza di questa estensione che il rafforzamento del potere sovrano poté procedere sia togliendo spazi ai poteri tradizionali, sia lasciando ad essi i loro spazi, ma occupando in modo esclusivo gli spazi nuovi offerti all’azione pubblica dai nuovi tempi. Ben presto la sfera del potere sovrano apparve largamente prevalente e la gerarchia del potere non fu più in dubbio. Dappertutto il partito del sovrano – ossia le forze e le presenze politiche e sociali che riconoscevano questo potere e si riconoscevano in esso – divenne dominante in misura maggiore di quanto fosse mai stato. Anche l’impianto istituzionale dello Stato conobbe mutamenti di grande importanza. Pressoché dappertutto la

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struttura degli ordinamenti si configurò in una triplice direttrice: ministri, consiglieri e rappresentanti o delegati del sovrano e cancellerie e segreterie per la diretta esplicazione del potere politico; organi specifici per l’amministrazione della giustizia; altri organi altrettanto specifici per l’amministrazione finanziaria. Ma questa tripartizione è lontana dall’esprimere l’intero arco del potenziamento organizzativo dello Stato moderno. Si pensi, ad esempio: – che il ritorno a eserciti permanenti di maggiori dimensioni impose uno sforzo corrispondente di potenziamento dell’amministrazione e dell’intendenza militare; – che la nuova realtà della diplomazia permanente impose uno sforzo forse addirittura maggiore di organizzazione di un servizio diplomatico, con tutte le sue necessità di comunicazione, di informazione, di tempestività e di segretezza, nonché con gli ulteriori sviluppi provocati, ben presto, dal servizio consolare moderno, affiancato a quello delle ambasciate e legazioni; – che il rapido diffondersi di nuove tecniche e strumenti in tutti i campi della vita civile impose a sua volta l’istituzione di servizi permanenti del più vario ordine (meteorologia, topografia, cartografia, statistica, genio civile e militare, vigilanza sanitaria etc.); – che la crescita dell’economia moderna pose problemi analoghi di potenziamento di sollecitazione e di vigilanza per quanto riguardava sia il campo della produzione sia quello del commercio; – che anche l’organizzazione degli studi dové essere in qualche modo riconsiderata, anche se in questo campo i mutamenti e gli adattamenti che si rendevano necessari seguirono la logica di tempi molto lunghi. La formazione del rinnovato e potenziato apparato statale così costituito non fu affatto il risultato di una pacifica evoluzione. Fu, invece, segnata da conflitti politici e sociali che furono gran parte della storia di quei tempi. In alcuni paesi i tentativi dei ceti nobili delle città e delle borghesie maturate localmente di assumere una parte di rilievo nella vita pubblica e nella gestione del potere furono violentemente repressi. Così accadde, ad esempio, in Ca-

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stiglia tra il 1520 e il 1522. L’urto maggiore fu, tuttavia, ovunque quello del potere sovrano (e quindi anche di tutti i ceti e le forze sociali che ad esso facevano capo) con l’aristocrazia feudale. In nessun paese ci si propose alcun disegno di soppressione del feudalesimo; anzi, i diritti feudali furono ristabiliti là dove risultarono usurpati o insidiati dalle popolazioni dei feudi. Ovunque, però, la trama feudale fu circondata e circoscritta dai sovrani attraverso una maglia di vecchie o di nuove istituzioni; attraverso una rete di alleanze o convergenze sociali con ceti di vecchia o di nuova formazione e con sezioni della stessa aristocrazia feudale guadagnate in un modo o nell’altro alla causa dei sovrani; attraverso una serie di misure legislative e normative; e insomma in tutti i modi possibili. Da paese a paese la realizzazione di questa strategia del potere sovrano ebbe le sue particolarità, ma la linea di tendenza che abbiamo accennato appare in ogni caso evidente. Si parlava una volta, a questo proposito, di un’alleanza delle monarchie con i ceti definiti con generica approssimazione come borghesi, che avrebbe isolato e piegato le vecchie aristocrazie feudali, con la notevole eccezione dell’Inghilterra, nella quale, invece, vecchia aristocrazia e nuove borghesie si sarebbero alleate fra loro e avrebbero messo il potere sovrano in condizioni di inferiorità. In realtà, le cose andarono nell’Europa moderna in modo di gran lunga più complesso, e la rete delle alleanze che in ciascun paese o situazione si sviluppò e prese corpo fu alquanto varia nella sua composizione. Anche l’indubbia particolarità dello sviluppo politico-istituzionale che finì con l’affermarsi in Inghilterra non può essere resa secondo gli schemi interpretativi del passato (basti pensare che la posizione di primato, se non di dominio o di privilegio, sociale dell’aristocrazia inglese si protrasse a lungo, e perdurava ancora nella prima metà del secolo XIX). La logica dei poteri sovrani fu, inoltre, costantemente ispirata al criterio di evitare, tranne che in casi estremi o di necessità, una drastica e completa eliminazione delle for-

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ze antagoniste, e di cercare, invece, con esse un modus vivendi, un compromesso storico, che consentisse, allo stesso tempo, la sicura affermazione del potere sovrano e la salvaguardia di larghe zone di privilegio e di potere e, quindi, una più facile remissività delle forze particolaristiche. E non c’è dubbio che di tale criterio siano state le vecchie aristocrazie a beneficiare in particolar modo. Al contrario, una strategia non meno decisiva del successo riportato dai poteri sovrani fu quella felicemente definita dell’integrazione dinastica. Per questa via la concessione di titoli, onori, pensioni o particolari diritti e funzioni in ogni campo della vita sociale, o l’offerta di grandi carriere nella vita civile o militare, la possibilità di conferire o facilitare il conseguimento di cariche e di posizioni di rilievo nella stessa vita ecclesiastica, la prospettiva degli innumerevoli piccoli e grandissimi affari nell’ambito dei poteri e delle attività dello Stato, insomma uno spettro amplissimo di strumenti di intervento e di attrazione contribuivano a stringere intorno al sovrano una rete di adesioni, legami, condizionamenti, vincoli di ogni genere che davano al “partito del re” una consistenza tanto maggiore quanto maggiori erano i mezzi e le risorse a disposizione del sovrano. E, poiché questi mezzi e risorse andarono progressivamente crescendo con lo sviluppo della società moderna, crebbero pure, via via, le possibilità dei sovrani di praticare l’integrazione dinastica. La difficoltà di analisi dei processi svoltisi nei vari paesi europei sta proprio nel fatto che le nuove sistemazioni e la disciplina imposta dai poteri sovrani non tolsero sostanza e vigore alla dinamica sociale e alle rivalità e lotte di classe, che proseguirono il loro corso, assai spesso sommandosi e fondendosi con altri motivi e percorsi della storia del tempo. Perciò, ad esempio, le agitazioni contadine in Germania nei primissimi anni del movimento luterano si confusero con le vicende di questo movimento, mentre in Francia le lotte di religione della seconda metà del secolo XVI assorbirono in gran parte anche le tensioni fra

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monarchia e vecchia nobiltà sia nel campo cattolico che in quello ugonotto. Le ultime fasi di questa lunga e complessa vicenda si ebbero alla metà del secolo XVII, con la vittoria completa della monarchia in Francia e la sua sconfitta in Inghilterra, e con il duraturo configurarsi dell’ancien régime nei diversi paesi europei. L’“ancien régime” Ancien régime fu l’espressione adoperata in Francia dallo scoppio della rivoluzione del 1789 in poi per indicare l’assetto politico-sociale del paese prima della rivoluzione, e quale si era delineato sin dalla seconda metà del secolo XV, ma aveva poi raggiunto la maturità alla metà del secolo XVII. Espressione particolarmente efficace soprattutto per la definizione dell’assetto prerivoluzionario come “regime”. Regime: ossia un vero e proprio sistema, un ordinamento politico, che non è soltanto un’empirica sistemazione dei rapporti di potere, ma obbedisce a una logica complessiva ed è caratterizzato da particolari istituzioni, da distribuzione, ampiezza e modi di esercizio del potere nell’ambito di tali istituzioni, da suoi fondamenti ideologici, e da equilibri sociali confacenti a questo insieme di elementi. Rilevare il carattere sistematico dell’ancien régime ha una particolare importanza storiografica. Questo carattere, infatti, non dipende da una fusa e diffusa organicità e omogeneità delle realtà politiche e delle relative strutture istituzionali. L’ancien régime rimase connotato sino alla fine dalla sostanziale assenza di tale organicità e omogeneità, che era, piuttosto, il fine ultimo a cui quel regime tendeva, ma che non si rivelò in grado di conseguire se non in parte. Il potere sovrano sul territorio e sulla popolazione era di fatto limitato da molteplici interferenze (feudali, ecclesiastiche, particolaristiche del più vario ordine); vec-

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chie e nuove istituzioni si affiancavano senza nessuna chiara distinzione di compiti al di fuori di ciò che la prassi via via determinava; le amministrazioni locali presentavano una strabiliante varietà di ordinamenti; non di rado i titoli stessi della sovranità variavano secondo le zone, e il sovrano non era ugualmente sovrano in tutte le parti del suo paese o in tutti i suoi domini; a ogni livello il potere veniva esercitato con una molteplicità di funzioni (normative, giudiziarie, amministrative, esecutive…), per cui, in linea di massima, ogni livello di esercizio del potere era anche un tribunale e una fonte di diritto; e nella selva di giurisdizioni, di immunità, di privilegi o, comunque, di eccezioni allo status comune i conflitti di competenza erano il pane quotidiano della vita pubblica, senza che vi fossero nella maggior parte dei casi poteri e istanze in grado di procedere ad arbitrati o a mediazioni risolutive. L’ancien régime era, insomma, innanzitutto una grande stratificazione storica di livelli e centri di potere, di normative e condizioni, fondato per di più su un principio di privilegio, per cui la popolazione – nei tre elementi in cui solitamente si articolava: l’ecclesiastico, l’aristocratico e quello comune – risultava fortemente sperequata nei suoi obblighi e nei suoi diritti, e di contro a una minoranza privilegiata, e per molti aspetti fortemente privilegiata, l’enorme maggioranza della popolazione si ritrovava in uno stato di inferiorità, che non era solo giuridico. I dislivelli nei diritti si traducevano, infatti, in ostacoli sostanziali a una dinamica sociale libera da vincoli condizionanti. Innanzitutto per questa ragione, oltre che per altre, la logica del “compromesso” che i poteri sovrani praticavano nei riguardi degli elementi sociali con i quali avevano a che fare assumeva un significato nettamente conservatore. E questo perché, come abbiamo notato, nei confronti di tali elementi questa logica portava il potere sovrano, una volta conquistata la supremazia, a non procedere oltre; a riconoscere alle forze che esso vinceva o sottometteva o disciplinava un loro ruolo nella vita sociale; a mantenerne gli

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elementi di distinzione e di privilegio, sia nel quadro sociale che nel quadro istituzionale e giuridico, come i più conformi alle sue basi ideologiche. Non è nemmeno paradossale il fatto che il grande ampliamento degli spazi vecchi e nuovi riservati al potere sovrano permettesse a quest’ultimo addirittura, in molti casi, di largheggiare con le classi già privilegiate, aprendo loro nuove possibilità di presenza o ampliando le precedenti, sicché al declino politico delle vecchie classi già antagoniste del potere sovrano non si accompagnava per nulla un loro declino nel prestigio e nelle gerarchie sociali. Naturalmente, è da chiedersi perché il potere vincente si comportasse così. La risposta non è univoca e, ancora una volta, va riscontrata nella fattispecie dei singoli paesi e delle singole circostanze di tempo a cui ci si riferisce. In linea generale si può, tuttavia, dire che i sovrani non avevano alcun interesse determinante a stravincere eliminando completamente dalla scena storica i loro storici avversari. Interveniva qui anche il già accennato elemento ideologico. Nell’ideologia dominante l’aristocrazia rappresentava pur sempre un elemento centrale, intrinsecamente complementare alla teoria del potere sovrano, fondata sul diritto del sangue reale e sulla struttura gentilizia della società feudale, di cui il sovrano rappresentava il vertice e in cui i signori feudali erano originariamente suoi delegati o concessionari. Il ruolo dell’aristocrazia finiva così con l’apparire radicato non tanto nelle grandi riflessioni e sistemazioni filosofiche e dottrinarie di questa materia quanto nelle idee e nelle intime e pratiche convinzioni diffuse e vissute a tutti i livelli della vita sociale, e in particolare fra le masse urbane e rurali. Era, tuttavia, anche da considerare che le classi tradizionali avevano, per lo più, solide radici nella realtà territoriale e sociale. Particolarmente vero era, poi, questo per quanto riguardava la presenza ecclesiastica. Una eversione completa dei rapporti sociali esistenti non avrebbe dato ai poteri sovrani vantaggi maggiori del disciplinamento politico e sociale che essi riuscirono

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a imporre sulla base del “compromesso” di cui si è detto, e avrebbe comportato costi e incertezze che non valeva la pena di pagare, dal momento che non era una rivoluzione sociale quella che si intendeva promuovere, bensì un netto e decisivo superamento – a vantaggio dei sovrani – degli equilibri politici e sociali preesistenti. In realtà, poi, quel che i sovrani non si proposero come loro compito particolare fu, comunque, ugualmente ottenuto dallo sviluppo della società, dell’economia e delle idee moderne, e la posizione delle classi privilegiate tradizionali rimase forte soprattutto nei paesi in cui lo sviluppo economico e sociale fu parziale o inferiore a quello dei paesi più avanzati. E ciò anche se, negli stessi paesi meno avanzati, quel tanto che vi fu di sviluppo economico e sociale contribuì senz’altro a incrementare e a rendere più efficace l’azione che i poteri sovrani vi svolsero. Nel secolo XVIII, ovunque la fisionomia della società non poteva più essere considerata come una semplice continuazione di quella di due secoli prima. Sicché anche da questo punto di vista si conferma che la logica di classe e le lotte di classe connotarono largamente, nei modi allora visibili e praticabili, il panorama europeo, e ricostruirne i modi e le vicende nel tempo e nelle singole situazioni è ancora una volta una via storiografica resa inevitabile dalla facies storica più evidente dei secoli dal XV o XVI in poi. Il «plenilunio delle monarchie» Proprio sulla base delle considerazioni che abbiamo or ora svolte è possibile fare un’osservazione ulteriore particolarmente importante, relativa alla centralità del potere sovrano negli svolgimenti di quel periodo. Si trattava quasi sempre di monarchie, principati, signorie, più raramente di repubbliche, della più varia dimensione. La logica storica è, però, sempre la stessa, sia pure differenziata in innumerevoli fattispecie; ed è la logica, appunto, dell’affermazione

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dell’autorità sovrana nella direzione e nella prassi della vita pubblica in tutti i suoi aspetti. Una logica alla quale corrispondeva, ovviamente, la compressione, quando non addirittura la nullificazione, di forze e istituzioni tradizionali, ossia delle forze particolaristiche, corporative, localistiche e di quant’altro poteva esservi di simile. Una logica che aveva per fine ultimo la costruzione di un unico potere generale tanto sovraordinato agli altri da poterli rendere tutti uguali nel dipendere dal potere centrale in ogni parte del territorio. Lo sviluppo delle città capitali dal secolo XVI in poi è, appunto, un aspetto di questa opera di uguagliamento, e nell’ambito delle capitali lo saranno, a loro volta, le corti dei sovrani. Allo stesso modo rientrerà, inoltre, nella stessa logica di affermazione del potere sovrano un nuovo rapporto tra centro e periferia dello Stato: un rapporto in cui la periferia soggiace a una forte spinta alla gestione centralistica delle sue cose e a una vera e propria provincializzazione culturale, con riflessi in ogni campo della vita civile. Tutto ciò si tradusse nella formazione delle strutture organizzative e operative poi considerate sempre tipiche dello Stato moderno: una macchina burocratica, giudiziaria, finanziaria, in grado di svolgere funzioni crescenti, sia promozionali che repressive, in tutta la vita sociale ed economica e di mantenere possenti apparati militari. Si irrobustì, così, via via, quella tendenza storica che ha visto lo Stato moderno percorrere una strada di progressivo incremento della sua capacità di potere (all’interno) e di potenza (all’esterno), che avrebbe poi costituito la fonte di tutta una serie di nuovi problemi pratici e materiali, morali e politici e che avrebbe fatto parlare del «volto demoniaco del potere». E, poiché alla metà del secolo XVII questo incremento di potere e di potenza era ormai già più che evidente, vale la pena di ricordare che uno storico italiano di allora, per la verità di non grande profilo, Maiolino Bisaccioni, sentì di poter affermare – con parole di grande felicità espressiva e, insieme, storicamente ben fondate –

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che quel tempo aveva segnato «il plenilunio delle monarchie». Così era, infatti, anche se abbiamo già notato quanto parziale, compromissoria, conservatrice fosse la costruzione del nuovo ordine politico in quello che poi fu definito ancien régime. Nell’ottica dello Stato moderno sarebbero rientrati l’affermazione della titolarità esclusiva dello Stato nel determinare le leggi e i modi della loro applicazione, l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge e della legge per tutti, il monopolio statale nell’esercizio di ogni forma di coazione o di repressione, la totale riserva della rappresentanza interna ed esterna dello Stato al sovrano, e, insomma, una serie di elementi per cui la sovranità diventava l’unico potere da riconoscere e da seguire per tutte le articolazioni della vita sociale in ciò che esse avevano di pubblico e di politico (ma si avverta che i limiti del pubblico e del politico erano nelle idee e nella coscienza del tempo alquanto più elastici e opinabili che in altri periodi). Perciò l’azione dello Stato assumeva un profilo che la rendeva indiscutibile. La monarchia moderna era praticamente uno Stato a partito unico, quello del re, in cui si poteva ancora dire qualcosa sulla religione, ma nulla sulla politica dei sovrani (parum de Deo, nihil de rege) e le opposizioni – anche le più dissimulate o le meno consistenti – dovevano cercare una via di manifestarsi all’interno del sistema e come espressione del sistema, se volevano trovare un modo di evitare la repressione totale e preventiva prevista dallo stesso sistema con la censura, con la polizia, con un ordine giudiziario al servizio del regime e con tutti gli altri mezzi e possibilità che erano nella logica e nella realtà di quel sistema. Nacque, intanto, subito, da tutto ciò, l’ideologia assolutistica, di cui si è detto, fondata anche sulla teoria della sovranità per diritto divino e sulla connessa e, insieme, derivata concezione patrimoniale dello Stato. La sacralità dei diritti del sovrano era trasferita, perciò, con tutta immediatezza alla persona del sovrano e giustificava la presun-

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zione di un diritto dinastico di proprietà dell’oggetto (paese e sudditi) sui quali la sovranità era per divina concessione esercitata e che costituiva, perciò, un patrimonio di famiglia. La frase attribuita a Napoleone nell’imporsi da se stesso la corona imperiale il giorno della incoronazione nella cattedrale parigina di Notre-Dame il 2 dicembre 1804 («Dio me l’ha data, guai a chi la tocca») rendeva appieno – pur essendo l’espressione tipica di una personalità eccezionale in una condizione storica ormai del tutto diversa – questo senso del diritto divino, della sacralità e della condizione proprietaria del sovrano ai tempi del «plenilunio delle monarchie». L’importanza assunta dalle corti, dalle loro procedure e codici di comportamento, dai giochi cortigiani e di potere che vi si svolgevano simboleggiò adeguatamente il rilievo politico preso dalle monarchie, e le corti divennero, perciò, un elemento della dinamica politica tra i più considerati non solo nei rapporti interni, ma anche nelle relazioni esterne di un paese. La nobiltà tradizionale prese a lasciare le proprie residenze tradizionali e a risiedere nelle capitali delle monarchie, frequentando assiduamente la corte e assumendo, anche come ceto, un’accentuata fisionomia cortigiana, a ulteriore sanzione della sua trasformazione in ceto non meno degli altri allineato nella disciplina generale imposta dalla monarchia. Il re è morto, viva il re!: la tradizionale proclamazione che, al momento della morte dei sovrani, accompagnava il passaggio dal regnante defunto al successore assunse anch’essa un significato più pregnante. È stato notato che la dottrina dei due corpi del re – il corpo fisico e mortale del singolo sovrano e il corpo politico e non perituro che nel singolo sovrano rappresentava e perpetuava il potere del quale egli era portatore – si era già formata nel Medioevo, ma che tra il secolo XVI e il secolo XVIII essa si risolse in un potenziamento del consenso ai sovrani, e quindi allo Stato, anche attraverso una forte innovazione metaforica del linguaggio politico. Che è, tra l’altro, un interessante processo di trasposizione po-

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litica di un elemento insieme ideologico e antropologico, quale appunto è la dottrina dei due corpi del re; e dà agli sviluppi politici di quel tempo, intorno al motivo della regalità, un particolare spessore storico e culturale. Di fronte a questi sviluppi appaiono limitative le concezioni tradizionali dello Stato moderno come fondato sui tre elementi della diplomazia residenziale (una indubbia novità del mondo moderno), degli eserciti permanenti e del potenziamento degli uffici del principe, ossia sullo sviluppo della burocrazia moderna. C’è, infatti, tutto ciò nella formazione dello Stato moderno, ma si tratta di componenti che vanno considerate nello scenario che qui stiamo delineando: uno scenario i cui elementi materiali di rilievo non si limitano a quei tre e – ciò che importa di più – sono accompagnati da una serie di altri elementi del più vario ordine (da quelli sociologici a quelli culturali), in un rapporto al di fuori del quale i singoli elementi perdono largamente il loro effettivo significato. Al contrario, non si sottolineerà mai abbastanza il già accennato problema del costo dello Stato e della politica nelle nuove condizioni dell’Europa moderna. La falta del dinero (come si diceva alla corte di Spagna), la carenza, cioè, di disponibilità finanziarie sufficienti alle proprie esigenze, fu l’afflizione certamente maggiore dello Stato moderno, un problema che la pur potente e attiva macchina che abbiamo visto nascere come proiezione e strumento del nuovo Stato si rivelò incapace di risolvere. In Spagna (ben dotata di mezzi per l’afflusso di metalli preziosi dai suoi possedimenti americani) vi furono nel solo regno di Filippo II (1556-1598) ben quattro dichiarazioni di bancarotta. Ciò esponeva i sovrani al gioco di coloro che avevano la disponibilità di grandi capitali o di consistenti risorse finanziarie, ma esponeva anche costoro all’alea e agli imprevedibili pericoli delle ingovernabili finanze statali. Ovunque un debito pubblico, assai spesso di massicce dimensioni, gravò stabilmente sull’orizzonte della società non meno che su quello dell’attività politica e di governo.

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Nel debito pubblico investivano, infatti, le loro risorse, non sempre del tutto modeste, i ceti più vari e gli istituti o enti religiosi e opere pie. La bancarotta dello Stato colpiva, perciò, del pari le alte sfere della finanza e la base stessa della società, in una vicenda in cui a grandi speculazioni e all’accumulazione di enormi fortune si contrapponevano l’immiserimento e la precarietà di numerosissime vittime della “fame finanziaria” dello Stato e delle connesse speculazioni. Ne risentivano, in particolare, la moneta e la sua circolazione, con alterazioni, falsificazioni, deprezzamenti continui. E ne risentivano soprattutto le classi e i ceti in più disagiate condizioni di reddito e di vita, e in particolare i contadini e le popolazioni rurali, che, già in condizioni di miseria e di precarietà estrema nel quadro e per gli squilibri della società del tempo, si vedevano ridotte dal fiscalismo statale pressoché alla disperazione. Non è un caso, perciò, che, in particolare nel paese in cui la costruzione dello Stato moderno fu più intensa e funse da grande modello in pressoché tutta l’Europa (ossia, la Francia), la fase centrale e più dura di quella costruzione, cioè i decenni intorno alla metà del secolo XVII, sia stata caratterizzata da una serie di rivolte contadine, che sconvolsero largamente anche altri paesi del continente. Erano rivolte in cui, in generale, veniva fatta una puntuale distinzione fra il sovrano e il suo governo (viva il re, e mora il mal governo! ne era il motto più tipico), ma che non per questo cessavano di rappresentare un momento critico della modernizzazione politica, e spiegano come e perché nell’immaginario e nella sensibilità popolare, e non solo a questo livello sociale, la rappresentazione dello Stato si fissasse tempestivamente nella configurazione di un’entità lontana, oppressiva, rapinatrice, che nulla offriva e tutto pretendeva dai suoi disgraziati sudditi. Nelle zone più vicine all’area ottomana e barbaresca ciò alimentava, più spesso di quanto si potrebbe pensare, il fenomeno dei rinnegati, di coloro che passavano al campo degli infedeli.

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La concezione sacrale del potere sovrano e i condizionamenti religiosi e socio-culturali assicurarono, tuttavia, in misura sufficiente o più che sufficiente la tenuta degli organismi politici. A sua volta, la grande espansione dell’economia europea dal secolo XVI in poi rese possibile sopportare il costo crescente dello Stato e della politica, in una società che, specialmente nei suoi ceti più disagiati, ne soffriva, comunque, oltre il pensabile. E, tuttavia, rimane di valore emblematico il fatto che nel paese in cui, come si è detto, la modernizzazione politica ebbe uno dei suoi picchi, se non il picco in assoluto, ossia in Francia, la crisi finale e la conclusione rivoluzionaria dell’ancien régime si produssero precisamente sul terreno delle disastrate e inguaribili finanze pubbliche di un paese dei più ricchi d’Europa; e che in questo momento finale la distinzione tradizionale fra il re e il suo governo non fu più fatta, e fu, anzi, soppiantata da un attacco violento e totale al sovrano come primo responsabile e massima causa del disagio e della miseria del suo popolo e dei mali dell’ormai più che odiato regime del privilegio.

Capitolo quinto

La superiorità e le idee nuove dei moderni

La superiorità dei moderni sugli antichi Abbiamo già detto che l’idea della modernità si è formata a partire dal presupposto che i moderni riportavano le lettere e le arti alla eccellenza che esse avevano raggiunto nell’età antica. L’eccellenza degli antichi era, a sua volta, considerata un vertice insuperabile. In ogni parte delle lettere e delle arti essi avevano raggiunto la perfezione. Di qui anche un corollario – non importa se implicito o esplicito – ben presente alla cultura umanistica e rinascimentale e che abbiamo avuto già modo di notare, ma sul quale è opportuno tornare. Data la loro perfezione, i classici non potevano essere superati; li si poteva al massimo uguagliare; la nuova eccellenza non poteva che essere una ripetizione dell’antica. Da dove derivava, allora, l’eccellenza degli antichi? perché essi avevano raggiunto la perfezione? La risposta era qui assai semplice. La perfezione degli antichi era, come pure abbiamo già detto, una imitazione della perfezione della natura. Essi avevano riprodotto nelle loro opere le forme, le proporzioni, gli equilibri, i rapporti, gli aspetti, i valori, con cui la natura e la sua vita si presentano alla nostra osservazione. Oltre la natura non si poteva andare. Una perfezione non naturale, cioè non contemplata dalla natura, non realizzata in natura, non poteva essere né ammessa, né concepita, come proprio l’esperienza

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dal mondo antico comprovava. A far raggiungere la nuova eccellenza nelle lettere e nelle arti tanto valeva, quindi, imitare la natura quanto le opere degli antichi, in cui la perfezione della natura era stata trasposta e riprodotta. Sulla base di questo presupposto la convinzione circa l’eccellenza degli antichi si era agevolmente trasformata in convinzione della superiorità degli antichi, o agiva, comunque, in pratica, come tale. Queste certezze ebbero un grande ruolo nel determinare lo svolgimento del mondo umanistico e rinascimentale. Determinarono, soprattutto, la forma di una civiltà che a lungo si riconobbe nei suoi modelli classici e trovò in essi una cifra sicura della stessa propria individuazione, la prima ragione della sua identità. Fornirono, inoltre, una guida sicura alla spinta costruttiva e innovatrice che le generazioni del tempo umanistico e rinascimentale avvertivano fortemente in sé. Proprio perciò, tuttavia, il modello offriva il rischio di trasformarsi in una disciplina mortificante: il rischio, cioè, di ridurre l’ambito della creatività a vantaggio dell’osservanza di un formalismo di facciata, dietro il quale, se non si manifestava una diversa spinta, restava il vuoto; faceva ritenere l’imitazione valida quanto il nuovo vero e proprio, e le forme più della sostanza. «E’ dice cose, e voi dite parole», avrebbe esclamato Francesco Berni difendendo Michelangelo dalle accuse dei suoi detrattori, che lo criticavano per la sua robusta libertà di modi, forme, contenuti nel concepire e realizzare i suoi versi. Con la stretta e il disciplinamento che nella vita civile e religiosa si determinarono nella maggior parte d’Europa dalla metà del secolo XVI in poi l’irrigidimento delle forme divenne uno dei tanti canali di esaurimento della spinta creativa rinascimentale esercitatasi fino ad allora con relativa spregiudicatezza, anche se mai con piena libertà. A torto o a ragione, a seconda dei punti di vista, fu indicato nei Gesuiti (e nella loro Ratio studiorum) non solo il maggiore e più importante simbolo e veicolo di quella stretta

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e di quel disciplinamento, ma anche il principale centro di elaborazione del modello culturale ed educativo che adottava il classicismo quale forma inderogabile del suo procedere. Dalla “classicità”, dunque, al “classicismo”: da un modello vivo e liberamente atteggiato e vissuto a una formula convenzionale e ripetitiva, soffocante e limitativa. Il percorso della modernità proseguiva, peraltro, senza soste per sentieri molteplici e sempre più evidenti. Per di più, ne progrediva anche la coscienza, o consapevolezza. Per dirla in maniera immediata, anche se non vi fosse stato l’irrigidimento classicistico, il modello classico non avrebbe potuto continuare indefinitamente a coprire il manifestarsi della modernità. L’urto fra il passato come modello e un presente che si sentiva sempre più come il vero modello di se stesso non poteva mancare: è sintomatico, comunque, che si sia avuto in forma esplicita e dichiarata, e che si sia manifestato in un paese europeo di più intensa elaborazione del moderno. Fu in Francia, infatti, che alla metà del secolo XVII si ebbe la Querelle des anciens et des modernes, ossia la polemica sugli antichi e i moderni. La disputa vera e propria si sviluppò fra il 1687 e il 1715, e vide schierati alcuni dei nomi maggiori della cultura francese di quel tempo: Charles Perrault (il grande favolista autore di Cappuccetto rosso e di Cenerentola) e Bernard Le Bovier de Fontenelle (l’autore di libri allora di successo, i Dialogues des morts, del 1683, gli Entretiens sur la pluralité des mondes, del 1686, e la Histoire des oracles, del 1687) a favore dei moderni; e Nicolas Boileau (prestigioso autore di una celebre Art poétique, del 1674), Jean de La Fontaine (il famoso poeta delle Fables) e Anne Dacier (apprezzata traduttrice di Omero in francese, l’Iliade nel 1711 e l’Odissea nel 1715) a favore degli antichi. È un vero e proprio errore credere che la Querelle sia consistita soltanto in una disputa letteraria, della quale si siano deformati il senso e la portata. Disputa letteraria essa fu di certo, ma altrettanto certamente non fu soltanto

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questo, e anche come tale, ossia come disputa letteraria, difficilmente avrebbe potuto aver luogo fuori del suo contesto storico. Un contesto segnato nettamente dalla grande affermazione del cartesianesimo, ossia di una filosofia razionalistica, per la quale la tradizione aveva senso in quanto rispondeva ai criteri della ragione, ed era quindi suscettibile sempre di una revisione in nome della stessa ragione. E ciò è tanto vero che la disputa propriamente letteraria ebbe un suo decorso non del tutto lineare, con pause, riprese, spostamenti di temi e di criteri comparativi, e si concluse con una conciliazione, nel 1694, tra i fautori delle due opposte tesi, a opera di Boileau e Perrault, per cui si riconoscevano le esigenze dei moderni e in qualche misura, sia pure in modo semplificatorio, si storicizzava il rapporto con gli antichi: conciliazione sostanzialmente riproposta da Fénelon con una sua Lettera pubblicata nel 1716. Invece, il tema della storicità del pensiero e della cultura andò sempre più imponendosi come idea di un cammino dalle tenebre alla luce, secondo la tesi che sarebbe stata propria dell’Illuminismo e che avrebbe dominato nella cultura europea del secolo XVIII. Già nel secolo XVI era tornata più di una volta la metafora dei “nani sulle spalle dei giganti” per indicare la posizione di coloro che, venendo dopo nel tempo, e basandosi sul lavoro di quelli che li hanno preceduti, sono in grado di guardare oltre l’orizzonte dei loro predecessori, come, appunto, un nano che, poggiato sulle spalle di un gigante, ha a sua disposizione un campo visivo più ampio di quello del gigante. «Quando ancora fossi gigante, non sapete voi che i nani posti sopra gli òmeri de’ giganti, veggon più lungi che non fanno i lor portatori?»: così diceva uno scrittore italiano minore, Gregorio Comanini, in un suo trattato sulla pittura, della seconda metà del secolo XVI. E la metafora era ben più antica, poiché la si ritrova già in Bernardo di Chartres, un notevole esponente della scuola filosofica medievale di quella città. Con il Rinascimento e con la Querelle des anciens et des modernes il sen-

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so dell’espressione cambia. I moderni non sono più i nani che a fatica si arrampicano sulle solide e ampie spalle dei giganti (cioè, gli antichi), del cui maestoso edificio di sapere e veneranda esperienza cercano di profittare. Al contrario, sono gli antichi a rappresentare uno stadio meno denso di conoscenze e di saperi, sono essi l’infanzia del mondo: i veri antichi sono proprio i moderni, che utilizzano e incrementano il sapere accumulato nel corso del tempo. I moderni sono del tutto pari agli antichi nel procurarsi e incrementare il patrimonio delle conoscenze umane, ma, avendo a disposizione il frutto di un tempo più esteso, hanno anche una maggiore quantità di verità nel loro bagaglio conoscitivo, e una maggiore esperienza della storia, della natura e delle vicende umane. Ed ecco perché alla metafora dei nani e dei giganti si viene ora a sostituire quella che considera l’umanità come un solo uomo, che dall’infanzia passa alla giovinezza e alla maturità e che ha la possibilità di prolungare indefinitamente la pienezza di questa maturità. La superiorità dei moderni sugli antichi cessava così di essere una considerazione ammirativa della grandezza antica alla quale rifarsi e sulla cui base costruire per il presente e per il futuro; cessava anche di essere una pura e semplice constatazione di fatto dell’incremento materiale delle conoscenze e dei saperi nel tempo; e si convertiva in una visione fortemente storicizzante della capacità umana di ricercare e conoscere se stessi e il mondo, in una visione che rovesciava i rapporti tra infanzia e vecchiaia dell’umanità, ossia in una visione che dei moderni faceva, da un lato, i nuovi perché ultimi arrivati e, d’altro lato, i più dotti ed esperti perché in grado di utilizzare tutto il lavoro precedente della storia dell’uomo. È di grande significato che questo risultato, in un certo senso, clamoroso della Querelle, sempre più evidente nel corso del secolo XVIII, nascesse, come abbiamo detto, in un clima intellettuale permeato di razionalismo, del razionalismo cartesiano, ossia in un clima filosofico che rappre-

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sentava un vertice del pensiero moderno. E non sorprende, perciò, che l’esito essenziale della polemica fosse già molto tempestivamente anticipato proprio da Cartesio. «Non è il caso – egli scriveva – di inchinarsi dinanzi agli antichi per il fatto che sono antichi. Siamo noi piuttosto a dover essere chiamati antichi. Il mondo è più vecchio ora che in passato, e noi abbiamo una maggiore esperienza delle cose». Come si vede, l’aspetto letterario della Querelle è largamente sorpassato dal suo significato concettuale. Ed è, quindi, improprio anche considerare quella polemica come un’anticipazione delle posteriori polemiche tra romantici e classicisti, che ebbero la loro indubbia importanza da molti punti di vista, ma che non rispecchiarono un salto di qualità nella visione storica dell’uomo europeo come accadde, invece, con la polemica sugli antichi e i moderni di un secolo o un secolo e mezzo prima. Il ritmo della modernità e il ritmo della storia La Querelle di cui abbiamo appena parlato è soltanto uno dei segni di profondo mutamento che contraddistinguono la storia dello spirito moderno. E questa constatazione ci dà l’occasione per alcune considerazioni di fondo su quello che potrebbe essere definito il ritmo della modernità. Si sarà, intanto, già ampiamente capito da tutto quanto precede, e torniamo qui a sottolineare, che la modernità non nasce già tutta insieme e compiuta. Si afferma settore per settore, con ampiezza e tempi variabili dall’uno all’altro, lasciando in piedi sopravvivenze e preesistenze cospicue, che rendono per molti aspetti il moderno un genus mixtum di vecchio e nuovo (come accade, del resto, per ogni fondazione di nuovi mondi storici). La storia è, in effetti, come quegli orologi che segnano sul loro quadrante l’ora rispettiva di ciascun punto del mondo secondo la differenza di fuso orario; ma, mentre sull’orologio le differenze hanno il senso soltanto di una registrazione, nella

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storia la differenza è essenzialmente qualitativa. Peraltro, questa differenza di qualità determina, sì, una compresenza di tempi storici diversi, consente e riflette le sopravvivenze e le preesistenze di cui abbiamo detto, rende molto differenziata la struttura del tempo storico presente e, quindi, più complessa la sua lettura. Essa non impedisce, però, che l’orologio della storia segni tutti gli altri tempi in riferimento all’ora principale del presente, e che all’ora principale siano subordinati il senso e la portata delle altre ore segnate sul suo quadrante. In altre parole, sopravvivenze e preesistenze non rendono affatto meno nuovo il mondo nuovo. Anzi, a chi guarda bene al fondo delle cose, anche il vecchio che sopravvive appare, in effetti, trasformato dall’azione del nuovo nel quale, per l’appunto, sopravvive. Come ogni altro mondo storico, anche la modernità è, quindi, una realtà composita, con le molte sfasature, discrasie, contraddizioni prodotte da una pluralità di elementi che si organizza nel segno e nel senso del moderno non secondo un piano definito a priori in un inimmaginabile progetto metastorico – ossia non secondo un progetto che sovrasti la storia nel concreto succedersi dei suoi eventi, quasi sospeso al di sopra dello scorrere della storia come un tracciato del percorso che essa obbligatoriamente dovrebbe seguire – bensì secondo le opportunità, le sollecitazioni, le resistenze che offrono le forze storiche in gioco, e, tuttavia, senza che, in fondo, la complessiva affermazione della modernità ne soffra. Tutto questo – vale la pena di ripeterlo – è comune alla modernità e a ogni altro mondo storico. Un carattere particolarmente accentuato nel caso del mondo moderno può essere, tuttavia, indicato nel fatto che esso appare fin dall’inizio in continua evoluzione e trasformazione, in continuo ampliamento e rinnovamento nel corso stesso della sua vicenda. È un mondo in sviluppo che sposta e ingrandisce senza sosta i suoi obiettivi, senza perdere di vista, né di mira l’essenza fondamentale di quello che a

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poco a poco si chiarisce come il suo – per dirlo alla greca – télos, ossia la sua vocazione, il fine ultimo di questa vocazione, che forma la sua ragion d’essere nel divenire storico dell’uomo e del mondo: vocazione, fine, ragion d’essere che è il corso storico stesso a rivelare perché è in questo corso che esse si formano e si precisano, come in un mai interrotto work in progress, lavoro in corso e in avanzamento. Per queste stesse ragioni si può ben affermare, peraltro, che la modernità ha anche costituito lo sbocco “naturale” della civiltà europea, l’esito in cui i caratteri originali della storia europea e dell’esperienza umana in Europa hanno realizzato il loro senso intimo e ultimo. Di qui il ritmo, serbatosi inarrestabile per un lungo volgere di secoli, della vita intellettuale e civile; di qui l’impronta forte di miti antichi come quello di Prometeo (audace, scriveva Giordano Bruno, fino al punto di «stender le mani a suffurar il fuoco di Giove per accendere il lume della potenza razionale») o di Ulisse (che nella rappresentazione di Dante dichiara di non aver potuto vincere dentro di sé «l’ardore [...] a divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore»), e perfino di figure della tradizione cristiana (come l’Adamo dello stesso Giordano Bruno, anch’egli audace nello «stender le mani ed apprender il frutto vietato dall’arbore della scienza»). Di qui pure, però, d’altra parte, insieme con la cifra adamitica, prometeica e ulissidica, la profonda vocazione etica e il senso religioso del mondo, dell’uomo, della vita: vocazione e senso culminati nella tradizione europea in una originalissima e intensa esperienza cristiana, che ha fatto dell’amore, della fraternità, dei valori dello spirito il cardine della sua intuizione e del suo verbo di fede, e che ha trovato nel moderno pensiero laico della stessa Europa una trasposizione ricca di ulteriori intuizioni e sviluppi, come apparirà anche dal pur breve esame che faremo delle nuove idee maturate nel cuore della modernità europea.

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La “crisi della coscienza europea” e le idee nuove: diritti, progresso, culture, tolleranza, libertà Nel cuore, appunto, della modernità, tra la fine del secolo XVII e gli inizi del XVIII, è stata vista, peraltro, una vera e propria crisi della coscienza europea. La crisi sarebbe consistita nel tramonto dei concetti fondamentali della civiltà politica di cui il «plenilunio delle monarchie» era portatore, così come lo erano le dottrine etico-religiose di cui erano portatrici le Chiese europee, consolidatesi in istituzioni assestate su posizioni dottrinarie tendenzialmente assai rigide dopo l’infiammata vicenda delle lotte di religione. Quei concetti erano fondati sul dovere e sulle relative norme nei confronti delle autorità costituite – i sovrani e le Chiese – e sulla stabilità dei punti di riferimento così adottati. Ad essi sarebbero subentrati (in un lasso di tempo anche assai breve: 1680-1715) i concetti di una civiltà politica fondata essenzialmente sull’idea del diritto e del movimento, invece che dell’autorità e della stabilità. Si passava, cioè, a un’idea dinamica del corso della storia e della realtà umana e sociale; e questa idea dinamica era aperta a presupposti sia naturalistici (il diritto come diritto naturale, non come manifestazione di valori soprannaturali) sia storicistici (il diritto come maturazione di criteri e valori sviluppatisi nel corso della storia). Sia sul versante naturalistico che su quello storicistico di questa apertura vigeva, però, l’istanza razionalistica, l’idea della “ragione ragionante”, che diventava, per così dire, il sale di un nuovo modo di sentire la storia, il mondo, la vita. Ne derivavano varie conseguenze ideologiche e di principio. Venivano, infatti, poste in primo piano le idee del progresso e della libertà che avrebbero dato sostanza a una parte rilevante della storia intellettuale e civile del secolo XVIII, istituendo un ponte storico tra due momenti decisivi. Da un lato, cioè, il momento in cui – con Galilei, Bacone, Cartesio – il razionalismo moderno aveva fatto irruzione sia nella scienza che nella filosofia europea, ma ri-

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manendo ancorato a un livello speculativo e scientifico non calato nella realtà della vita intellettuale e civile, e quindi senza immediate influenze nella realtà sociale. Dall’altro lato, il momento storico in cui il metodo critico e razionalista della scienza e della filosofia si estendeva a tutta l’attività intellettuale e a tutti i campi di attività dell’uomo, diventando, appunto, il tessuto connettivo di una nuova e largamente diffusa e sentita visione del mondo. L’idea di questa crisi della coscienza europea è stata molto discussa. Sembra, però, difficile non mantenerne il senso fondamentale. Un senso che si può eccellentemente riassumere nella basilare distinzione che ora si afferma tra valori civili, valori religiosi e valori morali. La religione non è l’unica matrice e il solo giudice dei valori morali e civili, anche se la sfera ad essa propria è, a sua volta, indiscutibile nella vita dell’uomo. La morale non può pretendere di imporre i suoi dettami se non a ciò che è suo oggetto specifico. La vita civile (dalla politica all’economia alla cultura etc.) è, anch’essa, reciprocamente autonoma rispetto alle valutazioni di altra matrice. Era proprio in questa conseguita capacità di rappresentarsi e di sentire la distinzione tra valori e campi di valore diversi che si determinava un nesso oggettivo con l’elaborazione dell’idea di libertà. Idea alla quale già recava un forte impulso l’idea tradizionale del diritto naturale, rivisitata non alla luce della tutela di situazioni acquisite di autonomia, immunità, privilegio, ma di un nuovo modo di guardare allo stesso diritto naturale. L’idea di libertà riceveva peraltro un parallelo e – tutto sommato – ancor più forte impulso dallo sviluppo dell’idea di tolleranza. Ad essa aveva portato, per una parte, la drammatica esperienza delle lotte di religione combattutesi in Europa per un secolo e mezzo, dagli inizi del secolo XVI fin oltre la metà del XVII, ma per un’altra e più importante parte essa risaliva ad alcune delle espressioni più fini dello spirito umanistico, e in particolare a Erasmo. A Erasmo, e, in generale, all’Umanesimo, appaiono legate le

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posizioni di alcuni esponenti di minoranze protestanti di origine italiana (i sociniani), che sembrano confermare la tesi di una spiritualità umanistica più avanzata e moderna, su questo piano, di quella teologica e rigorista del Protestantesimo. Il salto decisivo si fa poi quando la rivendicazione della tolleranza viene a fondarsi sull’idea della capacità umana di scelta e di determinazione e su quella del diritto a usufruire di tale capacità. E fu un salto decisivo al quale non poco contribuì quell’idea dell’autonomia e distinzione di valori di cui abbiamo parlato. Autonomia e distinzione di valori voleva dire, in effetti, un riconoscimento di legittimità a punti di vista e a opinioni diverse, ma giustificate nelle rispettive visuali. Questo modo di vedere le cose aveva cominciato ad aprirsi per lo spirito europeo già dal tempo delle grandi scoperte geografiche, come si è accennato. Tra il secolo XVII e il XVIII anche il concetto della molteplicità delle culture e l’idea di comprenderle nella loro legittima e specifica individualità si affermarono con forza maggiore di quanto fosse mai accaduto prima. Data la dominante ispirazione razionalistica della cultura europea agli inizi del secolo XVIII, questo non portò a nessun criterio di relativismo culturale o di equivalenza e parità delle culture. Le culture erano molte, ma la ragione umana è una, e i suoi dettami valgono per tutte le culture e le condizioni umane. In altri termini, il riconoscimento dell’alterità culturale non inficiò sostanzialmente la certezza europea di abitare ormai nel regno della Ragione. Era così che il passaggio dall’idea di tolleranza a quella di libertà diventava ormai pressoché immediato, e se ne alimentò, infatti, nel corso del secolo XVIII tutta la prima grande fase del liberalismo europeo. Fase che tradusse il diritto naturale e storico dell’uomo alla libertà in un diritto giuridico e politico e civile, da riconoscere non più come oggetto di tolleranza o come privilegio o come concessione o compromesso sovrano, e, soprattutto, non più a gruppi umani (classi, ceti, città, paesi, comunità etc.), ma

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a ogni uomo singolarmente per il fatto stesso di essere uomo, uguale in ciò a ogni altro uomo. Perciò, la tolleranza rimase soltanto come principio della vita morale e sociale, cioè come disponibilità a rispettare modi di pensare e di agire diversi dal proprio, fino al limite in cui il tollerare non significhi cedere, subire, sottomettersi. Le idee nuove: Illuminismo e “intellettuali”, repubblica, riforme e rivoluzione Con ciò, siamo già nella grande stagione dell’Illuminismo, come con un termine estremamente significativo fu complessivamente designata la cultura del secolo XVIII. Nel termine si esprimeva una metafora della luce: la luce della ragione che rischiarava e fugava le tenebre delle superstizioni, dei fanatismi, delle catene di ogni genere che ad opera dei poteri costituiti (dispotismi, Chiese, interessi di dominio sociale) impedivano il pieno sviluppo delle possibilità e facoltà dell’uomo e della sua civiltà. Nulla, se non le oppressioni della tirannide e della superstizione, poteva impedire questa virtù e azione rischiaratrice della ragione. E non era un ottimismo generico o facilistico. Tiranni e Chiese, matrici di ogni oppressione e superstizione, andavano vigorosamente combattuti. Sovrani illuminati potevano in ciò esercitare una funzione decisiva, per cui bisognava distinguere dalla pura tirannide il dispotismo illuminato di sovrani intesi a seguire i dettami della ragione nel governo dei paesi e degli uomini. Il possente moto di opinione che la cultura illuministica destò in Europa – indubbiamente il maggiore di quelli registratisi fino ad allora – operò su questa linea con molta decisione e convinzione. I philosophes (come i seguaci delle nuove idee si definivano ed erano definiti) costituirono, così, una forza sociale nuova, che non senza ragione fu anche definita come il partito degli intellettuali. È da allora, infatti, che nella storia europea si può ri-

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conoscere all’“intellettuale” (il termine è però proprio del secolo XX) una personalità pubblica sul piano politico ben più di quanto fosse fino ad allora avvenuto, pur trattandosi di un fenomeno di cui si possono riconoscere le prime vere tracce moderne nell’età umanistica e rinascimentale. E, di fatto, il moto delle idee ebbe una sua influenza sui governi europei di vari paesi e i rapporti tra i philosophes e alcuni sovrani furono, almeno nella forma, eccellenti, con molti e notevoli segni di riguardo da parte dei secondi verso i primi. L’apparenza superò, tuttavia, indubbiamente la sostanza, così come la realtà delle riforme allora tentate o attuate in diversi paesi d’Europa non toccò l’essenza del sistema dei privilegi e delle distinzioni giurisdizionali e di casta e la molteplicità e confusione dei poteri che formavano lo zoccolo più duro dell’ancien régime. L’idea della riforma che dominò allora nel panorama politico di gran parte d’Europa non escludeva orientamenti più radicali. Si svilupparono, in particolare, i motivi della tradizione repubblicana, di antica origine nella cultura europea, ma rinnovata e fusa sempre più spesso sia con punti caratterizzanti del nuovo liberalismo che con orientamenti legati all’altra corrente del pensiero politico europeo, quella della democrazia, che pure si venne formando nel secolo XVIII e che insisteva su motivi di ordine sociale tendenzialmente opposti a quelli del liberalismo. Il punto essenziale della distinzione era che, agli estremi, l’uguaglianza degli uomini, teorizzata da entrambe le parti, fosse, per i liberali, di ordine giuridico, civile e politico, mentre per i democratici riguardava anche i beni e le fortune. Alla fine del secolo il divampare e le vicende della rivoluzione francese portarono poi a una contrapposizione tra l’idea di riforma e l’idea di rivoluzione come due metodi alternativi di azione politica, che da allora avrebbero segnato una delle prime e basilari differenze tra le forze agenti nella vita politica europea.

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Le idee nuove: laicità, libertà Tra i settori più investiti dallo spirito riformatore del secolo fu, comunque, indubbiamente quello riguardante i rapporti tra Stato e Chiesa. Furono allora toccati punti essenziali di tali rapporti: numero e privilegi degli ecclesiastici, ampiezza e immunità delle proprietà della Chiesa, poteri ecclesiastici nella vita civile (soprattutto sul piano dell’inquisizione e dell’istruzione, per il numero delle festività, per le somme riscosse a vario titolo per le Chiese e per la parte che, nei paesi cattolici, ne veniva inviata a Roma). In seguito si sarebbe visto che non era, però, in tutto questo il segreto del potere e delle influenze che le Chiese esercitavano con tanta efficacia e larghezza nella società europea, specie nei paesi cattolici. Il segreto stava nel profondo sentimento religioso che continuava a permeare di sé lo spirito europeo. Sia ai sovrani riformatori (pur nella mai smentita o attenuata professione di fede confessionale che formava parte integrante e ufficiale della condizione sovrana), sia ai philosophes fu chiara, inoltre, sul terreno dei rapporti con le Chiese, l’influenza profonda dell’idea di laicità, che – come via via si venne constatando – costituiva certamente una delle più rilevanti tra le idee nuove del tempo. Proprio nella determinazione di lotta alle Chiese e ai privilegi o, più in generale, alle posizioni occupate dalla componente ecclesiastica in tutta la vita sociale ancora alla fine del secolo XVIII, l’idea laica maturò, infatti, anch’essa in maniera ben più completa e significativa di quanto fosse accaduto fino ad allora. Nella sostanza si trattava di un perfezionamento dell’idea di libertà in applicazione al problema costituito, appunto, dal privilegio, dal condizionamento e dall’invadenza della presenza ecclesiastica nella vita civile. In tutta l’estensione del suo significato ultimo l’idea laica sarebbe maturata solo nel corso dei secoli XIX e XX; e in tale significato sarebbe stata intesa a garantire l’autonomia culturale e politica, ideale e spirituale degli individui e di tut-

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te le presenze sociali da tutto ciò che tendesse a imporre, attraverso il potere pubblico, attraverso lo Stato, concezioni filosofiche, politiche, religiose, sociali, proprie di particolari gruppi prevaricanti nelle posizioni da essi occupate nella vita civile. Così, nella visuale della laicità non solo la dimensione ecclesiastica, ma anche ogni elemento ideologico veniva rifiutato. Inoltre, furono notevoli anche gli svolgimenti per cui l’idea laica – specialmente in alcuni paesi, come l’Italia – si estese fino a significare un orientamento di pensiero in opposizione frontale a ogni visione di trascendenza divina o di natura divina della realtà. Al laicismo fu perciò imputato di pretendere un totale e del tutto improbabile agnosticismo della vita pubblica e della sua direzione. Senza entrare, però, qui nelle discussioni accesesi a questo riguardo, è sul senso fondamentale del delinearsi della rivendicazione laica nel mondo moderno che bisogna fermarsi, e ciò almeno da due punti di vista. È chiaro, in primo luogo, che la laicità fu rivendicata specificamente – come abbiamo già notato – contro il peso, indiscutibilmente eccessivo per la sua portata, per i suoi privilegi, per la sua invadenza, dell’elemento ecclesiastico nella vita sociale. E, poiché questo peso era particolarmente evidente e rilevante nei paesi cattolici, fu qui che il laicismo trovò espressioni più precoci e generali, trasformandosi spesso in ideologia apertamente antireligiosa e peccando in molti casi per eccesso anche più di quanto si imputasse all’elemento ecclesiastico. Neppure nei paesi cattolici, però, il fine esenziale della rivendicazione laica fu all’inizio sempre ancorato a un fine antireligioso, e così fu anche in seguito. Al contrario, secondo motivi già presenti e forti nell’Umanesimo e nel Rinascimento, furono fortissimi i motivi del deismo, della religione naturale, della sapienza divina nell’architettura e nell’ordinamento dell’universo. Di questi ultimi motivi si alimentò – come è noto – in particolare la Massoneria, che mostrò specialmente nel secolo XVIII quanto il motivo di un razionalismo religioso fosse allora diffuso e sentito, così come fu diffuso e sen-

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tito dentro e fuori della Massoneria il motivo di una religiosità civile, fondata essenzialmente su un sentimento umano di naturale fratellanza universale e sul connesso riconoscimento dei diritti dell’uomo. Solo alquanto più tardi maturò l’idea di una religiosità civile fondata sul senso di un dovere categorico e degli interessi generali, che può essere definita laica in senso più stretto. In secondo luogo, il significato dell’idea laica non è riducibile, neppure in questa sua prima matrice antiecclesiastica, a un puro atto di negazione di eccessi, privilegi e invadenze. Fin dall’inizio la lotta antiecclesiastica fu un momento, certo di particolare rilievo, ma tutt’altro che esclusivo, di una lotta al privilegio in generale, alle forme di oppressione o di negativo condizionamento, alle prevaricazioni che trovavano adito e praticabilità in superstizioni o pregiudizi ostili anche alle più ordinarie forme di innovazione della vita pubblica e sociale. Da vari storici si è poi sostenuto che la lotta al privilegio ecclesiastico fu quella che allora prevalse nell’azione dei poteri sovrani in Europa perché le Chiese, e fra esse anche quella cattolica, erano l’anello più debole della catena del privilegio. Non è, però, un’osservazione ben fondata. Di tutte le vecchie forze sociali le più durature e tenaci si dimostrarono proprio quelle del mondo ecclesiastico. L’attacco più deciso che appare portato ad esse nel secolo XVIII era certamente dovuto anche al fatto che contro di esse era più facile mobilitare consensi e convergenze, e questo è un altro elemento per giudicare sia della portata del problema ecclesiastico nella società del tempo, sia del senso che se ne aveva. In seguito, la lotta al privilegio di ogni genere proseguì nel mondo moderno con esiti – se si vuole – alquanto vari secondo i luoghi e i tempi, ma con sostanziale continuità e successo, confermando, così, la necessità di inquadrare in un tale contesto generale i diversi settori di questa lotta, ivi compreso quello ecclesiastico. Considerato tutto ciò, non sembra molto pertinente la rivendicazione, promossa da alcuni storici, di una parte

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fondamentale della Chiesa cattolica, in particolare, nella costruzione del mondo moderno, sia per quanto riguarda la questione dell’esercizio della sovranità che per quanto riguarda i valori e la prassi della libertà e della laicità. Tuttavia, sul punto dell’esercizio della sovranità si può agevolmente concedere che la prassi di governo papale, non tanto per lo Stato della Chiesa quanto per il governo della Chiesa stessa da parte della Curia pontificia, abbia esercitato utili suggestioni sui governi europei. In alcuni campi – come le finanze o come l’istituzione della diplomazia moderna – è più facile riconoscerlo, e la figura monarchica del “sovrano pontefice”, per i suoi aspetti assolutistici e tendenti alla centralizzazione, riscosse certamente un suo interesse da parte degli altri sovrani europei. Che, però, tale figura costituisse per questi ultimi un modello, nonostante tutta la già ricordata sacralità della figura del re fin dal Medioevo, non si può affatto dire. Meno ancora si può dire che costituisse un modello lo Stato della Chiesa, del quale si diffuse precocemente una immagine molto lontana da quelle che erano le aspirazioni della modernità. E perciò neppure su questo piano, sul quale più si può riconoscere, come si è detto, un valore e un interesse europeo per l’esperienza politica compiuta all’ombra del “sovrano pontefice”, il riconoscimento può sorpassare i suoi, anche se per qualche verso non esigui, limiti di validità. Per quanto riguarda i valori della libertà e della laicità, il discorso è più complesso, ma ancora meno suscettibile di particolari ammissioni. Nessun dubbio può esservi sul fatto che l’affermazione cristiana di uno spazio che non è di Cesare, ma di Dio abbia rappresentato una formidabile risorsa di energie morali e civili. Né si può dubitare che, specialmente nel Medioevo, ma anche in altre fasi e per altri aspetti della storia europea, la funzione delle Chiese europee, e in particolare della Chiesa cattolica, sia stata quella di una forza promotrice di esigenze e di conquiste di libertà, che il mondo laico ha riconosciuto, giovandosene in

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non trascurabile misura. Anche qui sono, però, possibili almeno due osservazioni. La prima è che l’istanza di una morale più alta e più inderogabile delle leggi della politica e dell’ordine statale e giuridico ha cominciato a delinearsi e a fermentare nella cultura e nella civiltà occidentale fin dall’età precristiana. La figura di Antigone è già costruita nella tragedia di Sofocle sul tema di un grande duello tra le leggi divine e celesti, inviolabili, e le leggi civili, necessarie e utili o opportune, ma che non hanno lo stesso grado e valore imperativo delle leggi divine. Nel Cristianesimo questo motivo subisce una profonda metamorfosi, acquistando un valore centrale discriminante per tutta la storia e per la vita di tutti gli uomini, accrescendo di molto la forza dirompente e operativa del principio così proclamato. Ancora una volta, quindi, ci si riconduce – anche per questa via – alla genesi enormemente complessa del mondo occidentale moderno, che trova alcuni dei suoi tratti più caratterizzanti proprio nell’antica civiltà mediterranea, e, in particolare, nelle massime espressioni che essa ebbe in Grecia e in Roma, culminando nell’età che fu detta poi dell’Ellenismo. Il Cristianesimo stesso – se si fa astrazione dal suo porsi come fatto propriamente religioso e fideistico di Rivelazione divina e di dramma della Caduta e della Redenzione – rientra, in effetti, nella più generale parabola dello spirito occidentale; e ciò costituisce inevitabilmente un elemento di valutazione di primaria importanza. Non meno importante è un altro punto. In linea di fatto, proprio nei secoli iniziali e formativi della modernità il ruolo politico delle Chiese appare consegnato in Europa a una funzione repressiva e illiberale che rende molto difficile riconoscerla come una forza di incremento dei valori di laicità e di libertà. Il dissenso religioso non fu tollerato dal potere politico, ma ancora meno fu tollerato in sede ecclesiastica. Roghi si accesero anche in capitali ritenute emblematiche di alcuni aspetti della modernità, come Ginevra. Le Chiese premettero fortemente sul potere politico

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per ottenerne ovunque un’accentuazione della lotta al dissenso religioso, il che rendeva più facilmente conniventi le Chiese stesse nella repressione del dissenso politico. L’apparato repressivo, specie sul terreno culturale, ebbe nella censura ecclesiastica uno dei suoi bracci più vigorosi. In interi paesi, come la Spagna e l’Italia, la diffusione del moto protestante fu stroncata alla radice con una pratica larghissima della violenza, così come il Cattolicesimo fu represso e oppresso in Inghilterra, almeno sul piano politico, fino al 1828, quando già il paese era da tempo aduso a un regime liberale. L’emigrazione provocata da motivi religiosi fu frequentissima e coatta all’interno dell’Europa e verso il Nuovo Mondo da paesi sia cattolici che protestanti fino a molto addentro al secolo XVIII. In molti paesi l’apparato inquisitoriale divenne un momento fondamentale della struttura ecclesiastica. Il concreto e specifico problema storico della fondazione e dello sviluppo del mondo moderno, anche soltanto in alcune delle sue espressioni più caratteristiche, come le idee di laicità e di libertà, non può essere, insomma, né vanificato, né eluso richiamandosi al senso e al corso generale di una storia così lunga e complessa, come è quella della civiltà e dello spirito dell’Occidente. Nel mondo cattolico ancora al primo Concilio Vaticano del 1870 veniva ribadita la condanna cattolica del liberalismo e di altre idee fondanti della modernità. La parte retriva che la Chiesa parve recitare nei momenti di scontro decisivo sui temi della laicità e della libertà, che toccarono il culmine nei secoli XVIII e XIX, non fu soltanto una montatura polemica degli avversari della Chiesa e dei nemici della religione, degli atei e dei materialisti. Fu l’oggetto di una percezione storica diffusa, che qualche momento di opposizione della Chiesa a questo quel regime politico (ad esempio, a Napoleone) non poteva valere a rovesciare; e non a caso l’immagine dell’alleanza fra il Trono e l’Altare fu una immagine, non laica né liberale, anch’essa molto diffusa. A sua volta, l’emancipazione degli ebrei (la fine delle

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«interdizioni israelitiche», come le definiva Carlo Cattaneo) va, anche a questo proposito, particolarmente considerata, trattandosi di uno dei filoni più importanti, per molte e forti ragioni, nella storia europea. E questa, certamente, fu opera della moderna cultura laica in una delle sue spinte più congeniali e felici. Le idee nuove: «sape˘re aude!» Dopo la grande stagione attraversata nei secoli dal XV al XVII, la cultura europea conobbe con l’Illuminismo, nel secolo XVIII, un nuovo e non minore picco. Abbiamo già accennato alla metafora della luce, che ne regge il significato col riferimento alla luce rischiaratrice della ragione. Non basta, tuttavia, questa, sia pur così significativa, metafora a individuare il senso complessivo di quella grande epoca, il balzo in avanti che allora si ebbe nel percorso dello spirito europeo nella sua più moderna versione. Lo colse appieno uno dei maggiori esponenti del pensiero europeo di tutti i tempi, Immanuel Kant. Nella sua Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, pubblicata nel 1784, egli scriveva che «l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di far uso del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sape˘re aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo». Con le sue alte e alate parole Kant definiva felicemente il senso del grande pensiero razionalistico fiorito in Europa da Cartesio in poi e, al di là di esso, il senso anche della lezione dello spirito umanistico e rinascimentale. Raccoglieva istanze in qualche modo originarie dello spirito occidentale, che si possono osservare già nell’antica Grecia, con i sofisti e, ancor più, nella grande esperienza del-

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l’Ellenismo. Soprattutto, coglieva appieno, come abbiamo detto, il punto essenziale della questione. La sua esortazione ad avere il coraggio della propria intelligenza era nello stesso tempo una constatazione. La constatazione, cioè, che il percorso dello spirito e dell’umanità europea aveva messo capo a un salto di qualità nel modo stesso di atteggiarsi della condizione intellettuale dell’uomo e di concepirla. I capisaldi illuministici di questo moto innovativo possono essere riassunti in pochi, ma essenziali punti: – il dovere di tenere un atteggiamento critico e razionalistico rispetto a qualsiasi problema personale o collettivo, avvalendosi di tutti i mezzi di cui a tale scopo l’uomo può disporre nella sua esperienza e nelle sue facoltà; – la convinzione operante di una possibile e doverosa emancipazione del mondo umano, dato il valore e il senso intrinseco dell’uomo e del suo mondo, da qualsiasi esigenza esistenziale o teorica di ipotesi metafisica; – il rifiuto di ogni pretesa di impalcatura dottrinale per sostenere idee (anche quella del divino) e valori, in cui si può pure avere fede profonda, ma non al di fuori di una piena consapevolezza della loro costitutiva solidarietà e rispondenza con l’ordine naturale e universale delle cose; – la centralità dell’esigenza che le idee e i valori si traducano in iniziative e azioni sociali e politiche, che portino alla concretezza della realtà realizzata sia le idee che i valori, anziché lasciarli come petizioni astratte di un ideale senza consistenza storica; – la centralità, perciò, della politica nell’esperienza degli uomini e delle società umane; – il bisogno che, anche per tale ragione, la cultura sia di per se stessa una “cultura pubblica”, cioè impegnata appieno nella realizzazione dei valori e delle idee che si hanno di mira; – l’implicita convinzione che storia e politica sono una lunga esperienza educativa del genere umano (e non per nulla una delle opere più significative del pensiero illumi-

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nistico sarà quella intitolata Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, pubblicata da Herder nel 1774); – la convinzione che questa realizzazione avvenisse in una marcia dell’umanità che segnava un sostanziale progresso della realtà e della spirito umano (e non per nulla un altro testo fondamentale della cultura illuministica fu l’Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, che Condorcet scrisse nel 1794). Queste caratterizzazioni essenziali e impreteribili valgono a far capire meglio, oltre che il memorabile significato epocale, anche la profonda unità di ispirazione e di pensiero dell’Illuminismo europeo. Tuttavia, non meno importante è il notare che questa unità – come in ogni altro grande momento della cultura europea – non fu affatto compatta o indifferenziata. Secondo i paesi e le loro storie particolari fiorirono molti Illuminismi, ossia varietà notevoli della cultura illuministica. Da qualcuna di esse – e, in particolare, da quella germanica – sarebbe addirittura nata la stessa istanza di superamento del pensiero illuministico nei suoi ultimi svolgimenti, da quelli più moderati a quelli più radicali. All’interno stesso di quel pensiero e della cultura in cui esso si muoveva vennero espressi, inoltre, orientamenti e tendenze che, specialmente dagli anni ’80 del secolo XVIII, svilupparono le posizioni illuministiche nelle più varie direzioni sia dal punto di vista filosofico e dottrinario che da quello politico e sociale. Emersero posizioni che portavano anche il tratto massimo e dominante dell’Illuminismo, ossia il suo razionalismo, in direzioni alternative, e perfino estreme: da quelle tendenti a risolversi in una sapienza misterica, iniziatica, teosofica (per cui si è parlato di illuminati e di illuminatismo o di altri Lumi invece che di illuministi e di Illuminismo) a quelle intese a esaltare le componenti non razionali della condizione e della vita dell’uomo (come nel movimento tedesco dello Sturm und Drang, “Tempesta e Assalto”, o come le nuove e spesso geniali riflessioni di quel periodo sull’estetica, sulla storia, sul

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mondo dei sensi e sulla loro parte nella vita intellettuale e morale). Del resto, lo stesso Kant distingueva l’uso pubblico della ragione sul piano intellettuale – che deve essere sempre libero e pieno e deve dare concretezza all’uscita dalla pigrizia e dalla minorità della ragione – da quello privato, che può essere limitato per qualche motivo funzionale, o anche pubblico, di vario ordine. Su queste basi, pur superato nel ciclo continuo, inarrestato e inarrestabile, della vita intellettuale e civile dell’Europa moderna, l’Illuminismo poté restare, ancor più dello stesso momento umanistico, una tappa fondamentale nel cammino della modernità. Tanto fondamentale da potersi dire che proprio con l’Illuminismo si tocca la maturità del moderno, poi pienamente dispiegatasi, a partire dalle rivoluzioni d’America e di Francia e dalla precedente “rivoluzione scientifica”, nel seguente secolo XIX. Relatività e pluralità delle culture, idea del progresso e storicismo Nell’ambito delle idee nuove di cui parliamo, va, infine, anche compresa la formazione di un nuovo concetto della relatività e del pluralismo culturale. Era un punto già presente nel passato classico e medievale (si ricordi la novella dei tre saggi – il cristiano, l’ebreo e il musulmano – di cui si avvale Federico II di Svevia). Dal momento della scoperta dell’America il problema si presentò, tuttavia, con una forza e in nuove forme: il Vangelo non era stato, allora, predicato in tutto il mondo? L’umanità del Nuovo Mondo era in tutto uguale a quella del Vecchio Mondo? Le sue culture non andavano adeguatamente considerate (come di fatto faceva la Chiesa, cristianizzandone alcune forme o aspetti)? Successivamente quella musulmana, quella indiana, quella cinese apparvero come modelli autonomi di cultura, che avevano aspetti e princìpi da cui anche gli europei avevano tutto da apprendere.

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A tutto ciò si accompagnò lo scrupolo del “genocidio culturale”, oltre quello fisico, che gli europei operavano nell’imporre il loro dominio o la loro civiltà in altre parti del mondo. Ogni cultura era un mondo a sé, relativo alla propria geografia e storia. Era illegittimo pretendere che vi fosse una cultura superiore che avesse il diritto, e anche lo storico e benefico destino, di imporsi a tutte le altre. La stessa cultura europea era una fra le altre, che solo le circostanze della storia e la potenza dell’Europa avevano imposto alle altre. Col tempo intorno al concetto della relatività e della pluralità delle culture si sarebbe sviluppata una visione molto critica della storia d’Europa e della parte degli europei nella storia del mondo. Dai tempi della “crisi della coscienza europea”, nel secolo XVII, a quelli di un vero e proprio “processo all’Europa” per il suo rapporto col resto del mondo, nel secolo XX, si sarebbe svolta così tutta una lunga vicenda che avrebbe dissolto, e avrebbe anzi risolto nel suo contrario, il senso della propria superiorità storica e culturale, che aveva accompagnato gli europei nel corso di tutta l’età moderna ed era stata tra le maggiori forze propulsive della loro espansione imperiale fuori d’Europa e della loro sicurezza di essere protagonisti di un progresso ineluttabile e indiscutibile per tutta l’umanità. Non per nulla, del resto, a quella dell’idea della superiorità europea si accompagnò la quasi contemporanea crisi dell’idea di progresso, che tra le idee nuove di cui abbiamo parlato occupò ben presto un luogo di primo piano ed ebbe svolgimenti cospicui nella cultura illuministica, romantica e positivistica, finendo col culminare nello storicismo dei secoli XIX e XX, che rappresentò, a sua volta, un altro vertice del pensiero europeo e, da un certo punto di vista, può essere considerato l’espressione più originale e più alta del pensiero europeo, fino a quando, nella seconda metà del secolo XX, superiorità europea, idea di progresso e idea della storia furono sottoposte a una parallela, radicale e dissolutiva revisione critica.

Capitolo sesto

Antropologia, sociologia, politologia del moderno

Antropologia del moderno L’avvento della modernità fu lento e graduale, come abbiamo avuto e avremo occasione di osservare; e per ciò abbiamo parlato e parleremo del suo carattere di processo, non di evento. In nessun caso, comunque, quell’avvento segnò l’apparizione di un nuovo tipo di struttura dell’uomo. L’homo modernus è l’uomo di sempre, con la sua struttura cognitiva e psicologica, ideativa e operativa, raziocinante ed emotiva. È, tuttavia, l’uomo dell’età moderna, che si trova al centro di nuove e inedite condizioni e problematiche storiche, e che, nella dialettica della sua soggettività in questo contesto, agisce e reagisce in modo effettivamente moderno. E anche a questo riguardo vale ciò che abbiamo già notato a proposito del tempo storico: l’ora della modernità non è l’unica a battere sull’orologio dell’età moderna; su di esso, come sull’orologio di ogni altra epoca, battono anche molte ore del passato (nonché, magari, qualche ora del futuro); il tempo storico complessivo è come una grande tavola dei fusi orari che ne compongono il complesso; tra i fusi orari compresenti non c’è una divisione verticale, quasi essi fossero mondi separati l’uno dall’altro, bensì una serie di sovrapposizioni orizzontali, per cui i protagonisti storici (individui e collettività) partecipano contemporaneamente di più orari; l’ora della modernità è, quindi, propriamente, nell’età moderna, in so-

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stanza e in ultima analisi, l’ora determinante del tempo storico, quella che lo fa spostare, in conclusione, nell’una o nell’altra direzione. Data la compresenza storica di tempi (il che vuol dire compresenza di mentalità e di comportamenti) diversi possiamo, ad esempio, parlare di un’altra Europa che coesiste e convive con l’Europa della modernità. Una contrapposizione, delineatasi già chiaramente, al più tardi, nel secolo XVIII, opponeva l’Europa moderna – l’Europa della ragione e della sua luce, dell’intimità religiosa e spirituale, dell’iniziativa e della libertà dell’individuo – all’Europa del passato e della sua ombra, delle superstizioni, dei tradizionalismi inconsulti, degli “errori popolari”, dei conformismi e dei condizionamenti atavici e sociali, della materializzazione dei valori religiosi e personali. La prima Europa era, in generale, identificata con quella nordoccidentale e protestante; la seconda, altrettanto in generale, con quella meridionale, mediterranea (in particolare della penisola iberica e dell’Italia) e cattolica. Era una contrapposizione che ipotizzava due antropologie strutturalmente divise e opposte fra loro, ma che non trova conforto nelle analisi più spregiudicate della realtà storica. In questa realtà, molta Europa moderna è presente in quella del passato, e viceversa. La realtà complessiva è quella di un’Europa in cui i tratti e i fermenti della modernità convivono ovunque con i tratti e le spinte del passato. Quella che si può riconoscere è una accentuazione più o meno netta dei primi sui secondi in una parte d’Europa e dei secondi sui primi in un’altra. Un’Europa, dunque, dal punto di vista antropologico, a pelle di leopardo, che alterna luci e ombre secondo una logica molto più complessa, nel tempo e nello spazio, di una semplice divisione geografica e culturale. E le stesse considerazioni valgono per la contrapposizione di ordine sociale, che vedeva (e vede) nelle classi alte e nelle classi colte le depositarie e propagatrici della modernità e nelle classi popolari le depositarie e conservatrici delle tradizioni antimoderne o premoderne.

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Anche a questo riguardo si scopre, infatti, agevolmente che mentalità e comportamenti antimoderni o premoderni compongono certamente la trama fondamentale dell’elemento popolare nella storia che ci interessa. Ma si scopre anche che mentalità e comportamenti non si possono ripartire e attribuire secondo semplicistici schemi di classe. Il “popolare” non è puramente e semplicemente un carattere del popolo inteso come insieme sociologico dei ceti che consideriamo popolari. Il popolare è un modo elementare (ma per alcuni versi anche complesso) di considerare la realtà umana e sociale, il mondo e la vita e i loro orizzonti per l’uomo, permanendo in valutazioni e atteggiamenti tradizionali o antichi, o addirittura ancestrali. Il popolare è qui, essenzialmente, una mentalità, con i relativi comportamenti, che si può ritrovare in qualsiasi condizione sociale, popolare o non popolare che sia. Insomma, quella composita configurazione a pelle di leopardo, che abbiamo detto propria dell’Europa sul piano geografico-culturale, si ripropone anche sul piano della struttura culturale di classe della società europea a tutte le latitudini. E anche in ciò la Francia può essere considerata uno degli specchi più rivelatori e completi della realtà e dei movimenti dell’Europa, poiché in essa le due Europe, nel senso geografico-culturale e nel senso social-culturale, si incontrano e si sommano più che in ogni altro paese europeo. Naturalmente, sul binario di una tale, molto complessa considerazione vanno analizzati e valutati, a loro volta, gli altri aspetti che connotano la vicenda antropologico-culturale, e innanzitutto e soprattutto quelli inerenti alle fratture e alle continuità, alle innovazioni e alle permanenze di mentalità e comportamenti nelle loro molte componenti, nei loro condizionamenti, nelle loro spinte e in tutta la loro dinamica. L’esame storico attesta con evidenza che fratture e continuità, innovazioni e permanenze, il nuovo e l’antico hanno vite segrete e intrecciate, latenti e correlative, intime e interferenti, che sono più complesse di quanto qualsiasi tipologia o rigida sistemazione teorica induca a credere.

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Ciò premesso, sulla scala dei tempi più lunghi della modernità, ossia sulla scala del complessivo blocco temporale formato dall’età moderna fra il XVI e il XX secolo, alcuni temi antropologico-culturali emergono, comunque, chiaramente. Percorsi eminenti sono, ad esempio: – quello dell’affermazione di comportamenti razionali, utilitari, funzionali e di altra simile connotazione rispetto a quelli tradizionali fondati su credenze magiche o su pratiche di incantesimo o di fascinazione o su operazioni occultistiche, su valutazioni inerenti ad appartenenze e identità di classe o di status o di parentela, su atteggiamenti ispirati a valori diversi da quelli dell’utilità e della funzionalità; – quello che si concluderà con un grandioso processo di secolarizzazione, ossia non solo e non tanto l’uscita da ogni concezione sacrale del mondo e della vita, e quindi dal senso religioso della condizione umana, quanto l’assunzione di modelli e di modi di vita, di effettivi comportamenti ispirati a valori o moduli mondani, terreni, laici, al di fuori dell’influenza di valori e istituzioni ecclesiastiche o confessionali, anche quando si continua a variamente professare un’identità o un’appartenenza confessionale (il che non vuol dire che nella modernità manchino la religiosità e le sue dimensioni, ma, piuttosto, che se ne modernizzano le forme e il contesto); – quello di un percorso psicologico che porta a un’accentuazione lenta, a una progressione nella considerazione della personalità dei singoli individui come elemento centrale della rete dei rapporti sociali (superando, quindi, i tradizionali riferimenti comunitari o familiari) e come bisogno di realizzazione al quale riferire (al contrario che per la tradizione) i fini e gli svolgimenti della vita collettiva (il che non significa, come qualcuno ha detto, «la nascita dell’individuo», bensì un diverso modo di porsi dell’individuo nella società); – quello di un percorso parallelo e, insieme, identico al precedente, che sconvolge la trama delle relazioni emoti-

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ve e affettive, e determina variazioni via via più notevoli nel senso della vita e della morte, nella natura degli affetti familiari e personali, nel tipo di famiglia e di parentela, nel vivere la fede religiosa e i suoi precetti, nel sentire le proprie identità e appartenenze, ivi comprese quelle politiche, insomma in tutto l’arco dell’esperienza sociale e individuale, pubblica e privata; – quello di una nuova vita di relazione personale e sociale, che porta a un progressivo disciplinamento di pulsioni e di emozioni e all’avvento di una «civiltà delle buone maniere», sulla quale è molto forte l’influenza dei modelli sia della società aristocratica e cavalleresca, sia della nuova cultura umanistica e rinascimentale; – quello per cui non vengono eliminati, come a torto si pensa, i contenuti simbolici della cultura tradizionale (a cominciare dalla cultura politica), ma questi contenuti, anzi l’intero universo dei simboli e tutta la trama dell’immaginario collettivo e delle sue rappresentazioni (dalle fiabe alle leggende, dalle allegorie alle parabole, fino alla “sapienza popolare” dei proverbi e delle tradizioni narrative coi loro vari contenuti parastorici o pseudostorici) vengono profondamente rinnovati nelle loro forme, se non nella sostanza, anche quando si presentano come legati a strutture archetipiche o ricorrenti; – quello, di particolare rilievo, per cui muta lentamente, ma, alla fine, radicalmente – e innanzitutto come autocoscienza femminile – la concezione della donna e del suo ruolo nella vita e nella società, e nasce una “problematica di genere”, ossia un problema della differenza di sesso come elemento fondamentale della considerazione sociale, e “l’altra metà del cielo” emerge alla pienezza di un protagonismo storico senza precedenti e segna un aspetto fondamentale nella piena maturazione della modernità. Quelli appena sintetizzati non sono tutti i percorsi seguiti dagli sviluppi antropologici caratteristici dell’età moderna, il cui complesso è imponente, comprendendo aspetti di una indubbia importanza epocale. Basta pensare a ciò

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che significa l’avvento finale del modulo familiare elementare (padre, madre e figli) rispetto al modulo tradizionale della famiglia allargata (nonni e nonne, fratelli e sorelle dei genitori e loro figli) o patriarcale (con tre, quattro e perfino cinque generazioni conviventi sotto lo stesso tetto o nello stesso complesso di case) in fatto di affetti e, in generale, in tutta la vita emotiva. Oppure basta pensare al sentimento dell’amore tra i coniugi e dell’amore per i figli, che già dalla fine del secolo XVIII fa registrare un vero e proprio salto di qualità, passando anche qui sui piani di una personalizzazione, di una tenerezza e di una quasi esclusiva autofinalizzazione, ignote al mondo tradizionale o viventi in esso in tutt’altra forma. Oppure, ancora, basta pensare al nuovo atteggiamento verso i loisirs e i comforts della vita, ossia rispetto all’uso del tempo libero, agli svaghi, ai divertimenti e alle comodità, agli agi, al benessere, ai conforti della vita quotidiana e privata, per cui si giungerà progressivamente a un nuovo atteggiamento verso i piaceri della vita in generale, tra i quali anche i rapporti sessuali finiranno con l’assumere una nuova fisionomia e un nuovo ruolo. Più che indugiare su questi e sugli altri, non pochi, esempi possibili in questa materia, vale, comunque, la pena di far presente la necessità di non considerare gli sviluppi antropologici (così come quelli sociologici e politici, di cui diremo più avanti) alla luce di ideologie particolari o di considerazioni parziali dello sviluppo storico. Tanto per fare almeno un esempio al riguardo, è stato spesso osservato che l’accennato disciplinamento di pulsioni ed emozioni avviene sotto il segno della coercizione (politica, religiosa, civile) e di una corrispondente autocoercizione, anziché sotto il segno della libertà. Questo è vero per vari aspetti, ma non significa molto dal punto di vista del giudizio complessivo sull’età moderna. Vi è un parallelismo con la fuorviante osservazione che identifica il trionfo della modernità col trionfo dell’astratta ragione, oppure l’affermazione della modernità politica con l’affermazione della democrazia. Storicamente la modernità è tutt’altro

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che unidimensionale, e, per coglierne il senso complessivo, occorre considerarla nel suo insieme e nei suoi esiti finali. Quanto al disciplinamento è chiaro, sempre ad esempio, che, prima ancora di essere l’effetto di un’azione statale o ecclesiastica, esso maturò liberamente come un frutto assai significativo (lo abbiamo accennato) della cultura umanistica e rinascimentale nelle sfere alte della società di quel tempo: ossia, come un progresso spontaneo di maturazione di nuovi modelli di comportamento, implicati dalla percezione e dalla convinzione della possibilità di una civiltà più alta e più fine. E questo esempio può essere ripetuto per molti altri casi, autorizzando così vieppiù l’esigenza di tenere sempre libero il campo storico della modernità sia da condizionamenti ideologici fuorvianti, anche quando sono comprensivi di elementi indubbiamente storici, sia dalle sovrapposizioni di momenti e di forme diverse dello sviluppo storico. Sociologia del moderno Abbiamo già accennato alla tripartizione sociale dell’ancien régime – clero, nobiltà e Terzo stato o borghesia o comuni cittadini o popolo o come altrimenti venivano designati tutti coloro che non facevano parte dei primi due ordini – che si rifletteva significativamente già nella composizione dei parlamenti, ossia dell’istituzione rappresentativa allora di maggiore rilievo, almeno in linea di principio. Si trattava di una tripartizione medievale, per la quale sono stati evocati remoti modelli di origine indoeuropea e che rimanda per il suo fondamento alla distinzione delle essenziali funzioni sociali ravvisabili nella religione, nella guerra e nel lavoro. Né modelli storicamente così lontani, né l’esperienza medievale in sé e per sé fanno, però, al caso degli sviluppi che su questo piano si hanno nell’Europa moderna. In realtà, nella stessa società medievale quella tripartizione difficilmente è ravvisabile nella rigidezza con

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la quale viene presentata; e ciò vale per ogni parte del continente, non solo per i paesi come l’Italia comunale, le Fiandre e varie regioni di altre parti d’Europa in cui si ha una serie di sviluppi economici e sociali profondamente innovativi rispetto alla tripartizione canonica, onde parliamo di borghesie, di capitalismo e di altre realtà premoderne o moderne, a giudicarle col metro degli eventi posteriori. Inoltre, nel secolo XVI la società europea è già solcata, rispetto al passato, da divisioni ancora più irriducibili al semplice schema tripartito, ed è per giunta in chiaro movimento verso un’ancora maggiore articolazione. Il senso di questo movimento, che caratterizzerà tutta l’epoca moderna, è stato riassunto abbastanza bene come passaggio da una società di ordini a una società di classi, intendendo gli ordini come fondati su un rigido principio di casta, per cui le differenze sociali sono riconosciute e sanzionate sul piano giuridico e istituzionale, e per società di classi quella in cui le differenze sociali non seguono principi giuridici più o meno istituzionalizzati e sono rimessi al libero gioco della dinamica sociale. Tuttavia, è questa un’osservazione che non basterebbe di per sé a dare il senso complessivo di quel passaggio, se non venisse accompagnata da qualche altra notazione. Bisogna, infatti, sempre precisare che la società di ordini (o di ceti, o comunque la si voglia denominare) era, come abbiamo pure già notato, basata essenzialmente sul regime del privilegio, che ne costituiva il principio fondante e ordinatore. Il privilegio poneva coloro che ne erano titolari in una particolare condizione personale e di gruppo su molteplici piani: giuridico (diritti e facoltà varie), fiscale (esenzioni e immunità), funzionale (esercizio di determinati ruoli e uffici o attività), cerimoniale (prerogative di precedenza e di distinzione in tutte le occasioni della vita fino alla morte), e la specificazione potrebbe continuare. Per tutte queste ragioni insieme, il privilegio comportava anche vantaggi economici di prim’ordine, che si innestavano su una base storica per cui i gruppi sociali privilegiati erano,

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in linea di massima, anche quelli caratterizzati da una maggiore ricchezza. E ciò spiega perché tutto quanto maturava di nuovo nelle società di ancien régime tendesse a entrare, in un modo o nell’altro, nel mondo del privilegio: acquistando uffici pubblici, titoli nobiliari, feudi e beni feudali, cariche militari, procurandosi la grazia sovrana abilitata a promuovere e a riconoscere lo status delle persone e le sue variazioni, percorrendo la strada delle carriere ecclesiastiche fino a livelli sufficientemente alti a tale effetto. La dinamica sociale del tempo aiuta la tendenza generale a partecipare al regime del privilegio, poiché sollecita alla formazione di nuove fortune e alla maturazione di gruppi, via via più consistenti, ben capaci di accedere ai gradini superiori della scala sociale. È, in altri termini, una dinamica più intensa di quanto potrebbe apparire dalla sistemazione formale dell’ordinamento sociale, che appare caratterizzato dalla evidente stabilità dei suoi diversi gradi e livelli e dal senso sostanzialmente conservatore che abbiamo già rilevato nella politica generale dello Stato moderno coi suoi compromessi e transazioni, anche se, come pure si è detto, né quella linea conservatrice, né quella formale sistemazione valgono ad arrestare il dinamismo della vita sociale. Né questa è una dimensione soltanto della modernità. È, in effetti, una dimensione storica che – per attenersi unicamente al quadro europeo, ossia al quadro più specifico della modernità – si avverte ugualmente attiva anche nell’epoca precedente, in rispondenza a un carattere di fondo della vicenda europea. Proprio della modernità è, piuttosto, il dinamismo nuovo col quale la stessa dimensione si manifesta. È, infatti, nuova la circostanza per cui quel dinamismo opera all’interno di un quadro politico e istituzionale di segno diverso o opposto e, sostanzialmente accettandolo, si avvale – da un lato – delle opportunità che esso offre di appropriarsene e goderne i vantaggi (da qui la corsa al privilegio, alla nobilitazione etc.) e, dall’altro lato, asseconda, facendosene strumento e partecipandovi attivamente, l’azione dei poteri, a partire da quelli sovrani, che agiscono per ri-

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durre a unità di giurisdizione e di norma la frammentata struttura della società all’inizio dell’età moderna. Di qui l’accumularsi di sedimentazioni politico-sociali ricche di implicazioni. I poteri sovrani possono condurre la loro azione unificatrice solo perché sanno di poter disporre, ed effettivamente dispongono, di risorse e di energie materiali e sociali di tale consistenza da poter giustificare la loro azione, che altrimenti apparirebbe puramente velleitaria e non sortirebbe gli effetti che, invece, consegue. Durante l’età moderna, specialmente in alcuni paesi (esempio tipico la Francia), questa disponibilità di nuovi mezzi e di nuove forze non fa, nel complesso, che crescere. Ma l’azione di quei poteri non è, come sappiamo, tutta a favore delle forze nuove della società, soggiacendo a quella che per essi è la necessità del compromesso, del modus vivendi con le forze a cui si contrappongono. E di questo compromesso, di questa disponibilità a mantenere l’essenziale, o, comunque, più di quanto si potrebbe pensare, dell’ordinamento tradizionale, si avvalgono le stesse forze ed energie sociali nuove di cui i poteri sovrani si servono nella loro azione e che, nella logica dei propri interessi, vi partecipano. È anche a queste forze ed energie nuove che si estende, non per caso, la linea sopra illustrata dell’integrazione dinastica, così come vi si estende, a contrasto, il già rilevato carattere complessivamente conservatore della politica sociale dei poteri sovrani fra il XVI e il XVIII secolo. Il carattere empirico, del tutto pratico, degli equilibri e delle strutture sociali che risultano da un tale progressivo cumularsi di condizioni e di elementi diversi e largamente eterogenei ha fatto pensare, da parte di molti studiosi, a questa società moderna come a un insieme incoerente di spinte e di sistemazioni molecolari, individuali, mobili, mutevoli, senza un principio ravvisabile o convenuto. In tale visione le pratiche di presenza e di comportamento sociale rappresentano la concreta essenza storica della società di cui si tratta. Ma questa rappresentazione della società moderna – che nega alla modernità l’impulso alla tra-

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sformazione e a un nuovo dinamismo – risponde solo in parte alla realtà delle cose. Vi risponde per il carattere molecolare e frammentato che rivela nella dinamica sociale di quel tempo. Tale carattere finisce, però, così inteso, con l’apparire in essa altamente dispersivo e inconcludente. E, invece, non è così. Da quel procedere molecolare e frammentato deriva, infatti, una modificazione profonda che rende la società della fine del XVIII secolo alquanto diversa da quella di due secoli prima, nonostante la permanenza di ordinamenti, privilegi, stratificazioni e gerarchie sociali. In quei due secoli, anche quando non c’è, in effetti, nessuna contestazione organica e di principio dell’ordine vigente, l’ordine vigente resta in piedi, ma trasformandosi in molti dei suoi equilibri formali e sostanziali e accumulando una serie esplosiva di tensioni e di contraddizioni. Per altri studiosi i princìpi eminentemente moderni della distinzione tra pubblico e privato, tra la società politica e la società civile, tra la sfera politica e quella economica non servono nell’analisi delle società di ancien régime. Per essi queste società hanno un’interna coesione e integrazione fondata su una grande varietà di princìpi ordinatori e identità convenute, che, però, non tocca la loro suscettibilità di coesistenza e convivenza all’ombra di un progetto patriarcale (come è stato definito) di ordine sociale. Anche qui si urta, però, contro la dinamicità sostanziale della società di cui si parla: una dinamicità che non risolve tensioni e contraddizioni in uno sbocco unico, eppure altera in misura cospicua gli equilibri iniziali dell’età moderna. La storia sociale dell’età moderna sarebbe molto semplice, lineare, coerente, se una tale sostanziale dinamicità non vi fosse. Né si capirebbe perché solo in ultimo, per l’affacciarsi di un nuovo sistema di valori e di referenze fondamentali come quelle affermate dalla rivoluzione francese, si avesse il tracollo del mondo tradizionale. In realtà, questo evento catastrofico, risolutivo, ebbe una lunga gestazione, e le forze che finirono con il promuoverlo erano già da tempo presenti, attive, efficaci nella vita europea.

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È bene, dunque, lasciare alle società di ancien régime tutta la loro complessa, composita, contraddittoria, disordinata, ma viva e vitale, complessità costitutiva e dialettica. In quel disordine maturano le forze e le idee che porteranno al finale rovesciamento dell’ordinamento tradizionale, preparando questo rovesciamento con una loro azione e penetrazione che si fa profondamente sentire fin dagli inizi dell’età moderna e che concorre in misura determinante a rendere diverso da quello di due secoli prima l’universo sociale della fine del secolo XVIII, quando sopravviene la crisi finale dell’ancien régime. Di questa tumultuaria complessità si vedono, comunque, i riflessi nell’esame di qualsiasi condizione sociale di quel tempo, perfino in quelle che sembrerebbero più certe e meglio definite, come quelle della nobiltà e del clero. La nobiltà compone un universo estremamente vario, tanto vario che lo “status” di nobiltà non è sempre facile ad appurarsi e a vedersi riconosciuto, e ciò fino al punto di una larga applicazione del criterio per cui è e viene riconosciuto come nobile colui che tale è considerato nel suo paese. In realtà, c’è una società aristocratica internazionale formata da grandi famiglie, preminenti, ma tutt’altro che limitate nell’orizzonte del proprio paese. Legate non di rado da vincoli di parentela, sempre in relazioni ispirate a un alto tono di civiltà, partecipi molto spesso di distinzioni e dignità inerenti a paesi o organismi di vari paesi (ordini cavallereschi, posizioni ecclesiastiche), con un loro codice di reciproco comportamento e considerazione, provvedute di fortune solitamente ingenti, queste famiglie formano una società europea che si considera in qualche modo autosufficiente per la condizione di dignità atavica che è la loro. In base a tale presunzione di autosufficienza esse intrattengono la rete delle loro relazioni, ma non per questo escono realmente fuori dai quadri istituzionali ai quali propriamente appartengono e secondo i quali si regolano, quando le circostanze obbligano a scelte inevitabili.

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Al di sotto di questa cuspide aristocratica la varietà dello status nobiliare si esprime in un arco molto ampio che va dal rango di grandi famiglie, più allineate, a differenza di quelle rientranti nella “internazionale aristocratica” testé accennata, sull’orizzonte dei loro paesi, alle famiglie di nobiltà assolutamente minore o di semplici gentiluomini, insigniti appena della dignità cavalleresca, con una varietà straordinaria di condizioni patrimoniali. Molte famiglie della piccola nobiltà sono al servizio delle famiglie maggiori e in questo servizio trovano la strada di una loro maggiore fortuna o di una stabilizzazione a un certo livello o addirittura incorrono in qualche retrocessione nella scala sociale. Le nobiltà urbane sono tali per le posizioni di potere e per la loro ricchezza o prosperità nell’ambito municipale. Anche in questo campo si tratta, però, di condizioni diversissime, a seconda che si tratti di piccolissimi centri urbani di periferia o di città importanti per le loro funzioni politiche, mercantili o di altro ordine. Le nobiltà delle città maggiori non si ritengono a nessun titolo da meno delle famiglie nobili di più alto rango feudale o cavalleresco, e questo sia in città-Stato (come Venezia o Genova), sia in città capitali (come, per stare sempre in Italia, Napoli). I gruppi più eminenti di queste nobiltà fanno, anzi, parte integrante dell’“internazionale aristocratica”. Inoltre, anche nella posizione aristocratica si determinano sovrapposizioni che appaiono del tutto naturali e che indicano un altro aspetto non solo dello status di nobiltà, bensì pure di altre condizioni sociali (come del resto suole accadere non solo nell’ancien régime, ma, in effetti, in fin troppo numerosi contesti storici e sociali). Le stesse famiglie possono far parte, infatti, di una nobiltà urbana, e, nello stesso tempo, anche della classe aristocratica di altri ordinamenti. Tipico il caso di famiglie come i genovesi Doria, che erano della più alta nobiltà nella loro città e, insieme, Grandi di Spagna, grandi baroni nel Regno di Napoli, insigniti del Toson d’Oro etc. Semmai, è meno frequente, per quanto continuamente ricorrente, il caso di grandi fa-

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miglie feudali o signorili che entrino a far parte di nobiltà urbane. La difficoltà di inquadramento della condizione nobiliare in schemi esaurienti si manifesta anche nella varietà dei termini ricorrenti per indicare tale condizione: nobiltà, aristocrazia, patriziati, gentiluomini, cavalieri, nobiltà di sangue o di toga... In linea di massima, e solo a scopo esemplificativo, si può riservare il termine “patriziato” alle nobiltà urbane, ma per le città maggiori si offre troppo spesso già nel linguaggio del tempo il termine di “aristocrazia”. Questo stesso termine già in quel linguaggio ricorre altrettanto spesso per indicare il complesso della nobiltà maggiore, di più cospicua e più ricca condizione, che sia urbana, feudale o di qualsiasi altra condizione. Da tale varietà di termini non pare, tuttavia, da dedurre altro sul piano storiografico che la necessità di attenersi solo in via molto generale a schemi di classificazione fatalmente troppo semplici o troppo minuziosi; e l’opportunità di rimettersi, invece, allo studio specifico delle singole condizioni di nobiltà nel loro proprio quadro istituzionale e geografico, lasciando tutto lo spazio dovuto alla nota della varietà e, insieme, all’indubbio connotato comune della professione e del riconoscimento dello stato di nobiltà e dei relativi privilegi, che individuano ovunque lo status nobiliare come una condizione effettiva e reale della società del tempo. Era, infatti, tanto effettiva e reale da determinare una continua oscillazione dell’antico dibattito sulla nobiltà: ossia la discussione se essa sia una condizione nativa, una questione di sangue, un dato etnico o, invece, un effetto di doti morali e sociali, un carattere dell’animo e dello spirito, un effetto della cultura come del sentire e dell’operare o anche, semplicemente, il corollario della toga o di altri uffici pubblici o ancora, come nessuno contesta, una graziosa concessione del sovrano o di chi ha titolo e facoltà di concederla. La discussione, in una parola, volta ad appurare se nobili si nasca o si diventi. È, anzi, molto significativo che si giunga a distinguere, a questo fine, tra il nobi-

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le, tale per nascita, e il gentiluomo, che diventa tale per qualche ragione e, in particolare, per le sue doti. Con questa distinzione fra nobile e gentiluomo le cose, in effetti, si complicavano ed entravano in campo vari elementi: dalla premura della nobiltà tradizionale e di sangue di distinguersi dalla nobiltà acquisita o recente all’obiettivo dei nuovi nobili di assimilarsi, in qualsiasi modo, allo status privilegiato della nobiltà e di distinguersi in maniera radicale dalla condizione dei (come si sarebbe detto in Inghilterra) commoners, degli uomini comuni e sicuramente non nobili, borghesi o popolani che fossero. E si può anche notare, nello sviluppo dell’ancien régime, l’incrociarsi del passaggio da una prevalenza delle dottrine umanistiche circa la nobiltà come condizione dello spirito e dell’animo, in cui si traducono determinate doti morali e culturali, alla prevalenza delle dottrine più rigorose circa la nobiltà come dote nativa e gentilizia e di sangue, che si distingue innanzitutto per le sue qualità militari (di cui è simbolo la spada, riserbata appunto a nobili, gentiluomini e cavalieri), ma che non esclude che, come si dice nei versi del Parini, «del sangue emendino i difetti» varie circostanze (dai «compri onori», ossia dall’acquisto del rango nobiliare, alle doti dell’animo, ai meriti sociali, agli uffici ricoperti o alla grazia sovrana o ad altro). Si spiega pure, così, che sorgano qualificazioni miste (ad esempio: il borghese gentiluomo), che non rientrano facilmente negli schemi sociologici e nella mentalità del tempo, ma si giustificano perché nascono sul tronco di sviluppi sociali complessi e non univoci, dai quali, tuttavia, la dottrina della nobiltà come condizione sociale di eccellenza e di privilegio non viene affatto toccata. E, anzi, si rafforza col progressivo accesso di gruppi e figure emergenti all’eccellenza e al privilegio, insidiando e sconvolgendo il rigore delle chiusure oligarchiche, e proprio così, con l’aprirle alla dinamica delle spinte di elementi sociali emergenti, di parvenus, di “arrampicatori sociali”, che rafforzano, paradossalmente, la conservazione del carattere di eccellenza e di privilegio della condizione di nobiltà.

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Ci siamo intrattenuti sulla condizione di nobiltà, ma per gli altri ceti o classi o, semplicemente, gruppi sociali, le considerazioni da fare non sono per nulla diverse quanto a varietà al loro interno. Una uguale molteplicità di composizione si ritroverebbe in ogni altro caso: per il clero, per i ceti popolari, per i ceti che genericamente possiamo definire borghesi, e, forse addirittura di più che per ogni altro gruppo sociale, per l’oceano costituito ovunque dal mondo contadino. Come, quindi, per la nobiltà, sarà opportuno dettagliare per ogni singolo contesto storico la fisionomia della stratificazione e della dinamica sociale. Si scoprirà allora ancora meglio come nel generale contesto europeo e nella cornice dei suoi vari elementi si svolgano innumerevoli storie particolari di gruppi, di famiglie, di singoli, di grandi e piccole comunità, che nella complessiva unità – europea e moderna – di quel contesto e di quella cornice esprimono una pressoché inesauribile ricchezza di casi, di varianti, di cronologie, di tipologie storiche e umane. E, all’inverso, si constaterà che nella varietà e ricchezza di tali casi, varianti, cronologie, tipologie si esprime ugualmente il senso complessivo – europeo e moderno – del contesto e della cornice di tutto ciò. In generale, resta comunque fermo che la sociologia dell’età moderna è caratterizzata dagli elementi che abbiamo già indicato, e che contemplano una grande varietà di elementi, sviluppi, continuità e rotture, sistemazioni e risistemazioni degli equilibri volta a volta raggiunti, che (vale la pena di ripeterlo) soltanto l’analisi dei singoli contesti storici può illustrare in maniera adeguata all’importanza e alla realtà di tali svolgimenti storici. Ma resta fermo anche che tutta questa varietà di elementi e di sviluppi tende, comunque, a seguire una innegabile linea complessiva che si può riassumere nella crescente maturazione di nuovi gruppi, forze, elementi sociali al di fuori della sfera del privilegio e sempre più prementi per entrare in tale sfera. Di fatto questo sforzo ha successo e assume, in molti casi e per qualche aspetto, una consistenza notevole. Tanta matura-

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zione e tanto successo non valgono, però, a inficiare e a superare il sistema del privilegio come struttura sociale e ideologica. A ciò provvederà soltanto il momento rivoluzionario alla fine del secolo XVIII, a partire dalla Francia e poi, con un moto progressivo e incontrastabile, in tutta Europa, con ritmi molto vari, che rallentano fortemente nel passare dall’Europa occidentale all’Europa orientale, dove il processo sarà ancora in corso agli inizi del secolo XX. La diversità del caso inglese è notevole anche per questo aspetto, ma, come per altri aspetti, si riduce di molto se si guarda alla sostanza più che alle forme e ai tempi del complessivo processo storico di cui l’Europa è protagonista. Nella logica delle linee generali emergenti da questa sociologia dei primi secoli dell’età moderna rientrano, poi, ovviamente, anche altri aspetti sociologici di primaria importanza, fra i quali si debbono ricordare almeno quelli relativi ai problemi della comunicazione sociale a tutti i livelli. Ovviamente, assume a sua volta un rilievo particolare, in questo quadro, il problema dell’alfabetizzazione. Questa è scarsa ovunque, ma è alquanto maggiore nei paesi dell’Europa settentrionale che in quelli dell’Europa meridionale, più nei paesi protestanti che in quelli cattolici, e molto di più, ovunque, nelle città che nelle campagne. Anche per questo motivo la comunicazione orale ha un ruolo fondamentale; e, poiché le Chiese hanno nella oralità un momento prioritario e fondante (in particolare la Chiesa cattolica), si spiega così che l’àmbito ecclesiastico sia un luogo eminente della comunicazione. La comunicazione orale trova, tuttavia, momenti non meno importanti nei più vari campi della vita sociale: dai banditori, che leggono le disposizioni e le notizie trasmesse dai sovrani o da altri poteri o autorità, ai cantastorie, che diffondono tradizioni narrative e novità di invenzione o di cronaca o di qualsiasi altro ordine. Quello della comunicazione orale è, in effetti, davvero un universo, la cui incidenza si riflette in vario modo in tutte le pieghe della vita sociale. Nel valutarla, va pure tenuta presente la particola-

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re forma di integrazione dell’oralità che è costituita dalla figurazione spicciola di immagini, carte, cartoni e altri oggetti figurati, accessibili efficacemente anche agli strati della popolazione più lontani dall’alfabeto. Comunicazione vuol dire, peraltro, anche socializzazione. Rimangono, su tale piano, attivi e, nel complesso, poco variati gli strumenti e i modi tradizionali della comunicazione e della socializzazione, a cominciare da quelli consueti attraverso il canale ecclesiastico e i suoi molteplici momenti (riti, devozioni, cicli liturgici etc.) e attraverso i canali della famiglia e della parentela, del vicinato e delle altre sedi di rapporti comunitari. Via via si affermano, però, con l’avanzare dei tempi moderni, nuove e rilevanti forme di socializzazione. Una forma di particolare rilievo sarà costituita nella vita pubblica dalle organizzazioni di partiti e movimenti politici e da organizzazioni sociali quali i sindacati. Ciò avverrà a partire dalla fine del secolo XVIII, ma con precorrimenti già nello stesso secolo XVIII, a cominciare dalla fondamentale e già ricordata esperienza della Massoneria, che fu pure come un modello, a suo modo, delle numerose “società segrete” che a lungo agitarono la vita europea, soprattutto, ma non soltanto, finché non vi fu libertà di parola e di associazione. A determinati livelli sociali le innovazioni nel campo della comunicazione-socializzazione ebbero episodi e svolgimenti di particolare rilievo sia nella vita di corte che nei circoli aristocratici e di quella che può essere considerata l’alta borghesia. Specialmente in Francia – che appare anche da tale punto di vista il paese europeo più dinamico e innovatore – e sviluppando le già più che consistenti anticipazioni che si erano avute nell’Italia del Rinascimento, la società aristocratica elaborò un’idea e una prassi di buone maniere e di civiltà della conversazione, dell’honnêteté e dell’ésprit che (come già l’idea cavalleresca dell’onore, della cortesia, della gentilhommerie, ossia della condizione di gentiluomo) funsero da matrici di un costume più fine e più intenso di rapporti sociali, di forma-

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zione dell’opinione modernamente intesa, di modi di convivere e di condividere gusti e atteggiamenti in una società in cui le cuspidi della scala sociale perdevano antichi privilegi e poteri, ma conservando ancora a lungo una profonda influenza sul costume e sulla mentalità dei ceti più vari, secondo moduli di cui è facile ritrovare la traccia nei più diversi campi della vita sociale. Buone maniere e conversazione si sarebbero, infatti, diffuse largamente a tutti i livelli, informando di sé la fisionomia sociale europea, specialmente nei paesi e nei ceti in cui l’impronta feudale e contadina si attenuò di più e prima. Si tratta di elementi e condizioni senza considerare i quali non si potrebbe avere un quadro più pieno non solo della sociologia, bensì dell’intera fisionomia del tempo. E valga questa considerazione per richiamare, allo stesso scopo, la necessità di prestare attenzione a tutti gli opportuni o possibili aspetti della dimensione sociologica, non lasciandosi irretire soltanto da quell’aspetto, indubbiamente eminente, vistoso e particolarmente vario e complesso, che è costituito dalla dinamica dei ceti e delle classi, dalle loro lotte e contrapposizioni, dal peso appariscente e primario del privilegio fin nelle più minute occasioni della vita quotidiana. Peraltro, con la rivoluzione industriale, le lotte sociali, la “questione sociale”, come fu definita, assunsero effettivamente una vistosità di tipo e portata affatto nuovi. Si suole dire, al riguardo, che allora cominciò la società di massa, una società in cui le masse entravano nella storia e vi entravano da protagoniste. Erano soprattutto le masse reclutate dalla grande industria in opifici di grandi dimensioni, che segnarono la dimensione più impressionante del nuovo modo di produzione instaurato dalla rivoluzione industriale, con una proletarizzazione massiccia del precedente mondo del lavoro urbano e rurale. La massificazione fu vista, in quest’ottica, come processo di alienazione e di spersonalizzazione che attentava in maniera radicale all’umanità stessa di quel mondo del lavoro, taglian-

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done le radici tradizionali e sostituendole con le condizioni della dipendenza proletaria dal nuovo protagonista storico, rappresentato dal capitalismo e dai capitalisti che lo mettevano in pratica. Sfuggivano a questa visione drammaticamente dualistica e semplificatrice elementi fondamentali delle nuove condizioni determinate dalla rivoluzione industriale. Sfuggivano gli aspetti di liberazione, di promozione umana e sociale, di stimolo a nuovi tipi di presenza politica e sociale (come i sindacati, innanzitutto, o come i cosiddetti partiti di massa) che quella rivoluzione ha reso possibili e realizzato. Sfuggiva che nell’economia e nella società industriale non tutto è industria, e non tutto è grande dimensione, e che anzi proprio economia e società industriale hanno sollecitato una molto maggiore e positiva articolazione e differenziazione di presenze e di ruoli sociali e hanno dato alla struttura stessa della società un impulso dinamico, che infrange ogni fossilizzazione di confini di classe. Sfuggiva che l’indubbia riarticolazione e l’avanzamento a un più alto livello di tutta la struttura sociale sono stati anche un processo di grande promozione culturale. Sfuggivano, cioè, una serie di elementi che il passaggio alla cosiddetta economia e società postindustriale ha reso poi molto più visibili e che hanno dato alla trasformazione in atto ormai già dalla fine del secolo XVIII la sua inconfondibile fisionomia di progresso desiderato e perseguito in ogni altra precedente e diversa condizione storica e sociale. Dinanzi a queste considerazioni appaiono sempre meno persuasive le esaltazioni del mondo tradizionale, preindustriale, contadino e rurale, patriarcale e inalterato nella sua pretesa struttura di valori fondamentali superiori e insurrogabili nella loro profonda umanità, lontana dalle frenesie alienanti e spersonalizzanti della civiltà industriale: il mondo della “civiltà contadina”, il “mondo che abbiamo perduto” nella corsa del progresso, che è anche la corsa al progresso. Appare, invece, sempre più chiaro che proprio

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secondo lo spirito della modernità la sfida della stessa modernità non è sul fronte del passato, bensì col futuro che essa va costruendo, con tutti i problemi terribili e affascinanti che ogni costruzione di un nuovo mondo storico comporta, e che nel caso del mondo moderno sono resi ancora più terribili e affascinanti dal livello altissimo di progresso dal quale ci si muove. Politologia del moderno Della ricca e varia esperienza politica che forma la trama della storia dell’Europa moderna si alimentò una riflessione politica assai spesso di alto rilievo, che, iniziata con Machiavelli e con la sua rivendicazione dell’autonomia della politica, sarebbe giunta a investire pressoché ogni campo della vita civile nei suoi aspetti e nelle sue dimensioni pubbliche. Furono così indagati a fondo e via via rinnovati o rifondati completamente le idee e i concetti fondamentali concernenti la natura della convivenza, delle relazioni e dell’agire politico. Le idee-chiave del lessico politico e delle relative mentalità e comportamenti ne uscirono altrettanto modificate; e anche per esse gli eventi della fine del secolo XVIII segnarono una svolta epocale. Da molti punti di vista, quello dell’idea di sovranità può essere considerato il primo punto eminente di questi sviluppi. Come altre questioni, lo si discute sia sul piano concettuale che su quello del concreto esercizio della sovranità stessa. Nella molteplicità delle vedute al riguardo e dei piani sui quali esse si muovono è, comunque, chiaro che l’idea di sovranità riceve un impulso e un rafforzamento che ne fanno il momento fondante e prioritario della vita politica. E questo avviene quale che sia la dimensione assegnata alla sovranità: di origine divina o nascente da un “contratto sociale”; limitata o illimitata; assoluta o condizionata; arbitraria o pattuita; nuova e diversa o antica e tradizionale; frutto di conquista o prosecuzione di un più o meno antico status quo; legittima o illegittima che sia ritenuta.

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«La sovranità – scriveva Jean Bodin in una definizione giustamente famosa – è il potere assoluto e perpetuo di una repubblica». Alla pienezza del potere si riporta pure un altro tratto della sovranità moderna: «il potere – scriveva Bodin – di stabilire o di revocare la legge», ossia il diritto, nel quale potere di statuizione o di revoca «sono compresi tutti gli altri diritti e segni della sovranità». E qui si ha uno dei mutamenti fondamentali del passaggio alla modernità: il diritto cessa di essere un dato che esiste di per sé e che è soltanto da riconoscere, e diventa il frutto di una consapevole innovazione; cessa di essere una questione di giustizia sostanziale, e diventa un istituto che mira a determinati fini politici e sociali; cessa di essere la messa in atto di imperativi intrinseci ad esso attribuiti, e diventa l’adozione di norme miranti a uno scopo specifico (in ipotesi, uno scopo razionale e tecnico). Come è stato ben detto, il diritto passa, così, dal piano del “iustum”, della giustizia, al piano del “iussum”, del comando. Concepita come manifestazione della suprema potestà del sovrano, la legge diventa sempre più la prima e maggiore forma di esercizio della sovranità e, in tal modo, il principale strumento di governo e di disciplinamento della società da parte del sovrano. Nello stesso tempo, però, la caratterizzazione della sovranità nei termini di un potere generale e totale urta contro l’esperienza politica concreta del tempo, e porta alla necessità di dare spazio alle tensioni e ai contrasti a cui l’esercizio del potere sovrano dà luogo. Gran parte della riflessione politica nei primi secoli dell’età moderna si concentra su questo punto, che è piuttosto un nodo di questioni. Si distingue fra imperium e dominium, che è come dire fra giusta facoltà di decisione e arbitrio o tirannide; tra la persona del sovrano e l’istituzione (lo Stato, la res publica) in cui egli esercita la sovranità; tra il patrimonio privato del sovrano e il patrimonio dello Stato, disponibile il primo per lo stesso sovrano, indisponibile il secondo; tra l’opportunità, la convenienza, la pertinenza della voluntas del sovrano e la sua auctoritas quale misura di tale pertinenza.

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In tal modo il sovrano si trasforma a poco a poco da detentore del sommo potere dello Stato (rex, cui corrisponde la maiestas personalis) in organo dello Stato (regnum, cui corrisponde la maiestas realis) e suo servitore. La legge assume sempre più nettamente i tratti del “comando giusto” (ma piuttosto in termini di opportunità, convenienza, pertinenza che nel senso di comando rispondente all’idea di giustizia). Si affermano i princìpi del regime rappresentativo, e la rappresentanza politica del paese viene definita come compartecipe a pieno titolo, anche in varie forme e misure, della sovranità (ma in Inghilterra l’equazione tra rappresentanza e sovranità è piena e risolve in sé la personalità politica dello Stato). Si comincia a sostenere e ad elaborare il principio della distinzione e separazione dei poteri (fondamentalmente: legislativo, esecutivo, giudiziario). L’amministrazione dello Stato è concepita come servizio dello Stato allo Stato stesso e alla cittadinanza. Insomma, la sovranità diventa davvero l’elemento centrale della riflessione politica e il punto di riferimento imprescindibile di ogni questione che si ponga nell’ambito della vita pubblica. Il sovrano acquista una rilevanza nuova e superiore perché è lui a rappresentare l’unità del corpo politico, la quale senza di lui o a prescindere da lui verrebbe meno, facendo venir meno anche la trama dei rapporti che legano gli uomini nella vita pubblica e che permettono di superare l’atomismo, le conflittualità, il disordine dello stato naturale o presociale. Il cammino del pensiero politico moderno è volto, peraltro, a colmare la sfasatura così introdotta tra le dimensioni ordinatrici e razionalizzanti della società politica e la dispersa fisionomia della società civile nelle sue molteplici articolazioni. Ed è lungo questo cammino che maturano le idee moderne del suddito che passa a cittadino; della tolleranza che diventa libertà civile e politica; dell’ordinamento politico come oggetto di una costituzione, che riconosca e fissi gli obblighi e i poteri dello stesso ordinamento; della sovranità come espressione di un diritto insieme collettivo e individuale

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dei cittadini, che debbono avere il modo di esprimere tale diritto come loro volontà politica. È così che la sovranità e tutte le altre idee connesse escono fuori dall’antitesi fra iussum e iustum, dando luogo a un momento fondamentale nella maturazione del concetto moderno di sovranità. È un’altra intuizione politica quella che ormai regge le fila politologiche della civiltà moderna. E questo in vario modo – pur con profonde differenze di sviluppo del sistema politico, e pur con particolari espressioni dottrinarie – è vero anche per l’Inghilterra, che appare così difforme, e addirittura opposta, nei princìpi e nell’esperienza della sua vita politica, rispetto ai paesi dell’Europa continentale. Alla fine, anzi, su un ramo del grande albero inglese si avrà, con gli Stati Uniti d’America, un’esperienza che vi innesterà visibilmente il succo di elementi caratterizzanti dell’esperienza europea continentale. Naturalmente, quella che abbiamo definito politologia del mondo moderno nei suoi primi due o tre secoli guarda agli aspetti teorici, dottrinari della politica moderna considerata nei suoi concetti fondamentali. Di fatto, la vita politica si svolge in una serie estremamente varia di forme e di forze concretamente e minutamente operanti negli svolgimenti politici di quel tempo. Numerose, invero, sono le forme di aggregazione o di convergenza che si possono individuare in tale epoca: gruppi di potere e gruppi di pressione, fazioni e coalizioni che nel linguaggio del tempo sono spesso definiti “partiti”; posizioni individuali e familiari; collegamenti e interferenze di gruppi o fazioni o posizioni interne ed esterne; le relazioni di clientela o di patrocinio, nonché di parentela; le appartenenze o identità antiche o istituzionali o corporative o di altro genere. Questa enumerazione, pur abbastanza ampia, è, peraltro, suscettibile di ulteriori, varie specificazioni, ma vale a individuare un campo molto esteso di modi di essere e di agire della società di allora; e, del resto, ogni società, in qualsiasi tempo, presenta numerose griglie di rapporti sociali, che la caratterizzano. Si tratta di rapporti che agisco-

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no e interagiscono fra loro, formando una trama di relazioni che può essere più estesa o meno estesa, più fitta o meno fitta, ma costituisce sempre un mobile paesaggio storico che va individuato e seguito secondo la logica propria di ciascuna età. Si tratta, in effetti, di una trama storica che ha dimensioni antropologiche e sociologiche strettamente connesse e interferenti fra loro nella solidarietà generale degli aspetti di un’epoca. Lo notiamo qui, dopo aver parlato di antropologia e sociologia dell’età moderna, nel momento in cui parliamo delle forme politiche, perché il livello politico è quello in cui gli effetti di tutti questi sviluppi emergono, in piena luce, alla superficie del processo storico. Nel caso dell’età moderna anche la logica dei rapporti sociali gira sempre intorno ai due poli, come ormai sappiamo, contrapposti, di una sovranità che tende ad ampliare progressivamente, in estensione e nella sostanza, il suo spazio, e una serie di forze che si oppongono ad essa o, anche, senza opporsi, costituiscono una forma passiva di resistenza o di remora. Bisogna aggiungere, tuttavia, che sia la sovranità che le opposizioni ad essa hanno colori politici e significati storici eterogenei. Il moto di espansione del potere sovrano può essere pura affermazione di potere, struttura dominante oppressiva, rafforzamento del potere per il potere; oppure può essere consapevole costruzione di un ordine politico nuovo, sforzo di soluzione più o meno autoritaria di problemi reali del contesto storico in cui si opera, forzatura degli elementi che possono giovare a tal fine. In qualche modo, come è naturale, e per lo più, le due possibilità si fondono: nel caso delle maggiori monarchie del tempo il loro confondersi o sovrapporsi o giustapporsi è fin troppo evidente, e, però, il senso costruttivo dell’azione della monarchia chiaramente prevale. In altri casi è il contrario, ed è la logica del potere per il potere a prevalere. Ma la diversità di senso è anche questione di tempi. Nel corso e, in specie, nella seconda metà del secolo XVIII la monarchia francese mostra, ad esempio, un graduale esaurirsi della

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sua spinta costruttiva; per la monarchia di Madrid questo esaurimento è alquanto più precoce. Inoltre, durante lo stesso secolo XVIII cultura illuministica, ideologia delle riforme, maturazione di nuove spinte sociali aprono al gioco della sovranità un grande spazio, al quale abbiamo già accennato, quello, cioè, del dispotismo illuminato, dell’epoca che fu definita “età delle riforme”. La geografia del riformismo (proprio la Francia, ad esempio, vi è assente o scarsamente presente) non coincide con quella dell’affermazione del potere sovrano nei due secoli precedenti. Non cambia, invece, la dialettica di gruppi, fazioni, posizioni, che ruotano intorno al potere e lottano per il potere, alla quale abbiamo accennato. È, però, di grande importanza il fatto che in tale dialettica comincino a manifestarsi elementi nuovi o rinnovati. È tale il già accennato “partito degli intellettuali”. È tale l’emergere di ceti nuovi, sostanzialmente borghesi, forti non solo del loro numero rispetto agli esigui ceti privilegiati, bensì, soprattutto, della loro forza, iniziativa, funzione economica e delle loro ricchezze. È tale, in particolare, l’opinione pubblica come nuovo personaggio storico, che non è l’opinione generale sempre sussistente in ogni tipo di regime, ma è l’opinione generale nel momento in cui assume piena consapevolezza di sé e si esprime in un modo che variamente influisce sullo svolgimento del gioco politico, e la cui forza andrà crescendo nel corso dei secoli XIX e XX. Le stesse cose si debbono dire per le forze che si oppongono all’affermazione dei poteri sovrani. Anch’esse giocano un ruolo più o meno volto alla pura conservazione e difesa di posizioni e interessi tradizionali, oppure, invece, alla promozione e al sostegno di posizioni e interessi emergenti e innovativi. Anche in questo caso le due possibilità tendono, spesso, a sommarsi. Dopo la metà del secolo XVII si produce, però, qui una differenziazione crescente. Le forze tradizionaliste e passatiste appaiono sempre più svuotate delle loro capacità di remora o di resistenza, e ciò anche in dipendenza dal fallimento di alcune prove di ri-

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volta o di insurrezione (come la Fronda, sia aristocratica che parlamentare, in Francia, o come i moti masanielliani a Napoli). Le forze innovatrici, che trovano espressione tanto nel sostegno che da esse riceve il potere sovrano quanto nella loro opposizione a questo potere, si vanno sempre più rafforzando. E qui appare una ulteriore e non meno importante implicazione della complessa politologia moderna di cui parliamo: e, cioè, che le stesse forze possono – in qualche modo, in qualche misura, per qualche aspetto, nello stesso tempo o in tempi diversi – giocare parti diverse, di sostegno o di opposizione, rispetto al tema centrale del rafforzamento dei poteri sovrani. Al fuoco della grande esperienza rivoluzionaria della fine del secolo XVIII e della successiva sistemazione napoleonica la complessa fisionomia politologica dell’Europa moderna cambierà radicalmente nella sua struttura, nella sua dialettica, nella sua dinamica. Col secolo XIX la vita politica europea si collocherà allora tra il suo estremo occidentale, con l’Inghilterra, e il suo estremo orientale, con la Russia: l’una al limite di un particolare svolgimento della nuova civiltà politica liberale, l’altra al limite di una via via più anacronistica conservazione di un regime monarchico assolutistico; ma, mentre la prima darà, coi suoi particolari svolgimenti liberali, piena espressione alle tendenze prevalenti e caratterizzanti nel mondo moderno, l’altra vedrà ben presto ridursi, se non esaurirsi, la carica modernizzante che aveva contraddistinto da Pietro il Grande a Caterina II l’assolutismo zarista. Tra questi due estremi si svolgeranno gli istituti e le forme politiche del secolo XIX fino a quando, nel secolo XX, la contrapposizione fra liberaldemocrazie e totalitarismo non avvierà a nuovi e inediti confronti, che si concluderanno alla fine del secolo XX con la piena eclisse dei totalitarismi fino ad allora sperimentati.

Capitolo settimo

La pienezza della modernità e la modernità del postmoderno

La matura pienezza della modernità La pienezza della maturità del moderno si manifestò nel secolo XIX con un impeto che si andò accelerando nel corso di quel secolo e del successivo e diede a tutto il complesso degli sviluppi prodottisi in questo periodo una connotazione del tutto particolare: quella di un destino manifesto che avesse acquistato alla fine, cioè dopo la metà del secolo XX, una sua quasi automaticità, una sua spontaneità e autonomia, insomma una forza intrinseca non più pianificabile e neppure dominabile dall’uomo, che ne è stato promotore, ne è protagonista e beneficiario, e, tuttavia, anche, in qualche modo, vittima. E questa è, appunto, una delle critiche alla modernità più frequenti nelle più varie versioni e da parte delle più varie scuole di pensiero, ma è anche una delle meno accettabili. Come in altri casi o per altri aspetti che si sono o che saranno accennati (lo abbiamo visto per il trionfo delle macchine), si tratta di un tipo di critica della modernità comprensibile nella sua scaturigine o matrice storica, ma che ha soltanto la consistenza di un dato di ordine sociopsicologico, soggettivo e valutabile sulla scala delle singole personalità in cui lo si può riconoscere piuttosto che sulla scala complessiva del processo storico di cui parliamo. L’automaticità del processo e la spirale ineludibile in cui esso avrebbe trascinato il soggetto umano del processo

VII. Pienezza della modernità e modernità del postmoderno

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stesso rispondono all’ordine psicologico-sociale in cui nasce la spinta alla critica alla modernità per la sua supposta e non più governabile automaticità. Non rispondono, invece, in alcun modo alla realtà del processo storico a cui ci si riferisce. Ciò che, in effetti, si alimenta nell’esperienza dell’uomo moderno non è la supposta automaticità travolgente e opprimente acquisita dalla modernità, bensì la progressiva certezza del soggetto umano di potersi spingere sempre più avanti sulla strada della tecnica e della scienza moderne. Ed è anche di tale crescente certezza che si alimentano a loro volta la spinta irresistibile ad andare avanti e la brama ansiosa, tormentosa, appassionata, ormai consolidata, di raggiungere sempre nuove e più straordinarie mete. Nella quale spinta e nella quale brama, non nell’automaticità di un processo che avrebbe preso la mano al suo protagonista, è, dunque, da vedere l’effettivo motore dei ritmi, della portata e della qualità che ha assunto la modernizzazione nella sua fase culminante. Europa, mondo; Europe, Occidente Con i grandi avvii rivoluzionari tra XVIII e XIX secolo fu investita la totalità – come già sappiamo – della vita e dell’esperienza storica europea, ampliata nelle sue prospettive da un crescente, ormai, protagonismo di varie zone del mondo extraeuropeo. Nel corso del secolo XIX si ebbe così l’emergere e il maturare delle questioni di cui, come si è visto, suole più propriamente occuparsi la storia contemporanea, in particolare per il periodo dagli ultimi decenni del secolo XIX in poi, con sviluppi di cui si sarebbero visti gli sbocchi e gli approdi nella seconda metà del secolo XX. Lasciamo, dunque, il periodo dalla fine del XIX secolo in poi alle trattazioni di storia contemporanea, e fermiamoci qui, infine, sul significato complessivo della fase segnata dai secoli XIX-XX dal punto di vista del rapporto fra Europa e mondo.

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Prima lezione di storia moderna

Il punto di partenza è che dalla scoperta dell’America in poi l’Europa acquisì un progressivo predominio sul resto del mondo sia in senso economico che in senso politico. Tra il secolo XVI e il XVIII il predominio mondiale dell’Europa si tradusse nella formazione di alcuni imperi europei di grande rilievo: da quello spagnolo a quello portoghese, da quello francese a quelli inglese e olandese. Questi imperi costituirono nelle Americhe e in Australia anche spazi di popolamento da parte degli europei, e ben presto furono visibili gli effetti del diffondersi in essi di una consistente popolazione di lingua e di origine o cultura europea. Alla fine di un lungo processo di assestamenti e di trasformazione ne nacquero una serie di nazioni europee fuori d’Europa, una serie di altre Europe, via via più riluttanti al mantenimento della sovranità europea su quelle terre. Dalla rivoluzione dei coloni inglesi d’America contro l’Inghilterra, dalla conseguente fondazione degli Stati Uniti e dalla guerra di indipendenza degli stessi Stati Uniti che ne seguì fra il 1776 e il 1783, nonché dalla successiva rivolta, a partire dal 1809, delle colonie spagnole dal Messico al Cile e all’Argentina, e dalla separazione del Brasile dal Portogallo, si ebbe un primo grande processo di decolonizzazione e di passaggio all’indipendenza dei possedimenti europei nelle Americhe. Nel giro di pochi decenni si formarono una ventina di nazioni latinoamericane, oltre quelle anglosassoni degli Stati Uniti e del Canada. Paesi tutti che nell’origine, nella lingua e nella cultura, negli ordinamenti politici e nelle strutture e dinamiche sociali rivelavano nettamente il loro carattere europeo. Altrettanto accadde con l’Australia e con la Nuova Zelanda, e (in misura minore e molto più complessa per la parte che vi giocò la questione razziale) nel Sud Africa. In Asia e in Africa ugualmente vi fu la formazione di grandi imperi europei, che, però, solo per eccezione (e in qualche caso per un più o meno lungo periodo) costituirono pure spazi di popolamento. Anche in queste altre

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parti del mondo si ebbe, alla lunga, un processo di decolonizzazione e di passaggio all’indipendenza, ma il sorgere e il declinare del dominio europeo vi fu accompagnato da un conflitto di culture e di tradizioni di grande rilievo sia in paesi che potevano vantare al riguardo titoli antichi e cospicui (Cina, India, Giappone, paesi musulmani etc.), sia là dove questi titoli (come, in generale, nell’Africa nera) o non sussistevano o presentavano aspetti del tutto particolari. Il grosso dell’espansione europea avvenne, inoltre, qui dalla metà del secolo XIX in poi, in quella fase della storia europea e mondiale che si suole definire, appunto dell’imperialismo e che segnò pure il culmine della potenza militare ed economica dei paesi europei. Ciò contribuì, in qualche modo, a rendere più aspro l’urto politico e culturale fra dominatori e dominati, con strascichi destinati a durare a lungo anche dopo la fine del dominio coloniale. Tuttavia, anche in questi paesi il corso della storia fu caratterizzato da un processo larghissimo e crescente di europeizzazione della vita civile, innanzitutto per quanto riguardava tecnica ed economia, ma poi anche per innumerevoli altri aspetti della civiltà moderna. In alcuni paesi l’apertura al modello europeo fu il frutto di una scelta molto più tempestiva e spontanea, condizionata solo dalla propria volontà di porsi al livello di quelli che apparivano su tutti i piani i più avanzati e i più forti del mondo. Fu questo soprattutto il caso del Giappone, indubbiamente l’esperimento più autonomo e riuscito (il paese era indipendente e di forte e antica cultura e tradizione) di adozione del modello europeo, al punto da inserire i giapponesi fra le grandi potenze riconosciute del sistema euromondiale già agli inizi del XX secolo, dopo una prodigiosa e rapidissima trasformazione. Ciò concorre, inoltre, a spiegare come nel secolo XX la globalizzazione fosse, in pratica, una europeizzazione, ma anche come nel corso dello stesso secolo XX al concetto di Europa si sia sempre più affiancato, alla fine prevalendo, o addirittura sostituendolo, il concetto di Occidente.

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Un concetto – ancora una volta – dai non trascurabili precedenti già nel mondo antico e nell’esperienza greca e romana (secondo un’etimologia accreditata il nome stesso di Europa vorrebbe dire “occidente”), variamente visitato e rivisitato nel Medioevo e nell’età moderna, ma che solo nei travagli europei del secolo XX ha assunto una diffusione e una intensità di uso, passando da sinonimo a sostituto del termine “Europa” sia sul piano dei valori che su ogni altro piano. Sono stati tradotti, così, in un fatto linguistico entrambi gli aspetti che il termine Occidente coinvolge: da un lato, il declassamento dell’Europa come centro della potenza, della ricchezza e della cultura mondiale; dall’altro, l’estensione del modello europeo, del suo senso e dei suoi valori a un àmbito storico di matrice europea, ma assai più vasto dell’Europa, e del quale l’Europa è solo una parte, e che, in ipotesi, ha ormai un vigore tale da poter assicurare, anche senza l’Europa, il sostegno, la prosecuzione e l’ulteriore sviluppo dei valori e della tradizione europea. Vicende – come si vede – che richiamano anch’esse ai problemi e ai temi di quella che più strettamente si suole considerare come età contemporanea. La tematica tradizionale della storia moderna Dopo tutto quanto abbiamo detto finora, sarà più facile – e, soprattutto, più chiaro nel suo significato – ritornare sulla delimitazione scolastica e corrente, oltre che tradizionale, della storia moderna nei confini ad essa a lungo assegnati, ossia dal suo inizio nella seconda metà o alla fine del secolo XV fino alla pienezza della sua maturità, come si è notato, nel secolo XIX. Sarà l’occasione, riprendendo i discorsi già fatti, per fissare i temi emersi come essenziali e indispensabili nel parlare di storia moderna, quasi come tesi e temi per sostenere un esame di storia moderna provveduti del bagaglio minimo necessario a indicare gli eventi, gli sviluppi che possono meglio dare un senso sto-

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rico all’idea di moderno, di storia moderna, e un’idea convincente della fondatezza e della praticabilità dei criteri che ci hanno portato a individuare il campo o disciplina scientifica che tratta della storia moderna. L’ordine in cui esporremo i temi da ricordare non sarà rigoroso né dal punto di vista logico, né dal punto di vista cronologico. Si possono, quindi, indicare: – lo sviluppo dell’Umanesimo e del Rinascimento in quanto avvio del moto che avrebbe portato all’affermazione del razionalismo come tratto eminente, qualsiasi versione se ne dia, del pensiero moderno; – la rivoluzione scientifica, che, dalle idee astronomiche di Copernico e di Keplero, già con Galilei, e poi da Galilei a Newton, fonda il metodo e fissa i tracciati del pensiero e della ricerca scientifica moderna, mettendo capo a una pratica di costante e irreversibile innovazione; – la scoperta dell’America (Colombo) e la prima circumnavigazione del globo (Magellano), che aprono la strada alla definitiva acquisizione di una prospettiva geografica mondiale, anzi alla stessa categoria della mondialità come dato fisico e antropico; – il parallelo avvio alla formazione di un mercato mondiale con relativa navigazione e rete commerciale (per cui si parla di rivoluzione commerciale) e con le ripercussioni di questi traffici sull’economia, sulla finanza e sulle monete, oltre che sulla politica, del Vecchio Mondo (d’onde il carattere emblematico della rivoluzione dei prezzi); – il primo delinearsi nel mondo europeo, sul piano religioso e antropologico, di un nuovo concetto della relatività e del pluralismo culturale; – il definitivo decollo, con le “guerre d’Italia”, del moderno sistema degli Stati europei; – le vicende di questo sistema di Stati nelle sue fasi di equilibrio e di egemonia, con il progressivo prevalere delle potenze dell’Europa settentrionale e occidentale su quelle dell’Europa meridionale e mediterranea, con il suo allargamento in modo da comprendere alla fine nuove grandi

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potenze come la Russia e la Prussia e con la progressiva liquidazione della potenza ottomana in Europa; – la formazione di grandi imperi coloniali, con la prima espansione ed emigrazione transoceanica degli europei, per cui non solo nasceva una serie di Europe d’oltremare, ma il sistema europeo era necessitato a trasformarsi in un sistema mondiale degli Stati; – la frattura religiosa dell’Europa occidentale, con le sue molteplici e profonde implicazioni su tutti gli sviluppi di cui parliamo; – il decollo di strutture e di equilibri politici, istituzionali, sociali che nel secolo XVII faranno parlare del «plenilunio delle monarchie» e si concreteranno nella forma classica dell’“ancien régime”; – la cosiddetta Querelle des anciens et des modernes, momento fondamentale nella costruzione della coscienza del moderno; – la cosiddetta crisi della coscienza europea e l’avvio e lo sviluppo dell’Illuminismo nei suoi molti aspetti e momenti; – la fase delle grandi rivoluzioni in Europa e fuori d’Europa, da quella americana e da quella francese fino a quelle del 1848, con il superamento istituzionale e giuridico, politico e sociale dell’“ancien régime”, con la centralità assunta dalla questione della libertà e della democrazia, dalla questione nazionale e dalla questione sociale; – l’assetto dell’Europa che in conseguenza di tali rivoluzioni si determina fra il 1848 e il 1871; – le prospettive europee e mondiali nel 1870 e le prime proiezioni delle linee di sviluppo dell’età definita contemporanea. Conferme e problemi Il complesso, semplicemente indicativo, di tali elementi conferma, innanzitutto, che le forme del moderno sono molteplici, così come molteplici sono le versioni delle sue

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singole forme. Conferma, inoltre, di per se stesso – ed è un punto di ancora maggiore rilievo – che la periodizzazione iniziale della modernità non postula un evento, ma un processo; non è riportabile a una data, ma a uno sviluppo; non è in un “fatto”, ma in una serie storica di “fatti”, che a loro volta sono processi, congruenti e sinergici, come dimostra il loro progressivo e reciproco interferire e cumularsi. Il punto del carattere processuale proprio della periodizzazione, il criterio della periodizzazione processuale sono canoni di grande importanza teoretica, ben al di là della questione della modernità, per qualsiasi problema di periodizzamento. Altrettanto si dica di un altro canone di non minore rilievo, e cioè che il processo del moderno è un processo aperto: irreversibile e globale, ma aperto, sia nel senso che il moderno è in continua evoluzione, sia nel senso che in continua evoluzione sono le sue forme e le singole loro versioni. Ciò non vuol affatto dire che la modernità non sia un concetto storico organico ed effettivo, concreto e storicamente fondato. Ciò apre, anzi, la via a un rafforzamento del valore storico e storiografico di tale concetto. È, infatti, evidente che la critica alla modernità, sia sul piano ideologico e teorico, sia sul piano storico e storiografico, fa parte essa stessa dello sviluppo del moderno, oltre ad essere, molto spesso, la critica a una forma o ad aspetti particolari della modernità. Di per sé il moderno dimostra la sua vitalità e la sua inesausta creatività attraverso la serie dei suoi svolgimenti, che ne marcano le interne articolazioni e periodizzazioni. Aggiungiamo solo che, parlando di globale irreversibilità del moderno, non vogliamo affatto escluderne la possibilità di crisi di sostenibilità, di mantenimento dei livelli raggiunti sul piano materiale delle risorse e dei beni a disposizione, di complicazioni che su questo piano o su piani affini possono essere determinate da sviluppi più o meno imprevedibili, e così via. Tanto meno vogliamo o possiamo escludere la possibilità di crisi sul piano della vita morale o della vita culturale, sul piano delle mentalità e dei

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comportamenti, su quello delle idee e degli ideali che condizionano mentalità e comportamenti. La prospettiva del tramonto o crisi o sparizione o immiserimento materiale e morale di un mondo e di una civiltà è un’eventualità che nessun ottimismo o progressismo storico potrà mai eliminare dall’animo, prima ancora che dal pensiero, dell’uomo. Nella tradizione europea è radicata, fra le altre, l’idea della ciclicità della storia, del succedersi di cicli positivi e negativi, dei «corsi e ricorsi» storici e della «barbarie ritornata» (questi ultimi sono termini, e idee, di Giambattista Vico). Più ancora è radicato il ricordo ammonitore della fine della civiltà mediterranea antica, della caduta di un organismo civile delle dimensioni e della qualità dell’Impero romano; l’esperienza dei “secoli bui” dopo gli splendori greci e romani. Ma la rovina di un mondo storico non è mai soltanto una fine. È sempre la affermazione, la gestazione di un altro mondo storico. E anche quando si parla di un nuovo Medioevo o Rinascimento o altro qualsiasi mondo storico, si deve assolutamente ricordare che il nuovo sarà sempre diverso dal precedente e che l’assimilazione al precedente è soltanto un modo immaginoso e intuitivo di esprimere un giudizio o un orientamento. Una periodizzazione da discutere? Neppure la periodizzazione tradizionale dell’età moderna – quale l’abbiamo finora illustrata – è sfuggita al destino di una radicale contestazione, che nel corso del secolo XX ha colpito, come si è visto, tanti concetti e idee storiche. Il primo perfezionamento delle armi da fuoco, l’invenzione della stampa, le scoperte geografiche tra il secolo XV e il secolo XVI, la rottura religiosa operata da Lutero e le altre circostanze che abbiamo indicato come il quadro storico iniziale dell’età moderna vengono in vario modo e con varie ragione disconosciute quali elementi sufficienti a determinare un tale inizio. In modo particolare viene contestato, poi, il concetto di Rinascimento, il cui valore di aper-

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tura di una nuova epoca è negato. Esso non segnerebbe, in effetti, un vero avvento dello spirito critico e, quindi, un avvio anche allo sviluppo della scienza moderna; né la percezione di un valore nuovo e diverso dell’individuo; né la rivalutazione della vita umana e della natura rispetto al contemptus o disprezzo medievale; né altri simili tratti con cui il Rinascimento viene tradizionalmente prospettato sullo sfondo del passaggio dal mondo medievale a quello moderno. In altri termini, razionalismo, laicismo, individualismo e gli altri caratteri connessi non sono visti nascere dal Rinascimento, né iniziare col Rinascimento, e vengono, invece posti in rapporto con altri momenti posteriori della storia europea. Una negazione non minore è toccata poi alla Riforma luterana, ugualmente considerata da tempo come una grande data iniziale della storia moderna per il suo appello alla coscienza individuale come elemento decisivo della fede e della vita religiosa o per la sua petizione di un libero esame delle Sacre Scritture. Anche dal punto di vista economico e demografico il valore periodizzante del tempo del Rinascimento è stato attaccato. Molto più caratterizzante – si dice – è la catastrofe demografica che si era avuta alla metà del secolo XIV, e che aveva fortemente decimato la popolazione europea. E molto più caratterizzante – si aggiunge – sul piano economico è la rivoluzione che a metà del secolo XVIII dà l’avvio allo sviluppo dell’economia industriale. Infine, è la rivoluzione francese a essere richiamata quale analogo inizio di una civiltà politica ben altrimenti moderna di quella che contraddistingue il Rinascimento e che viene riassunta e celebrata nella “scoperta della politica” da parte del Machiavelli. La conclusione di questa serie di critiche o di revisioni non manca di qualche aspetto paradossale. Lo dimostra chiaramente la conclusione per cui il vero inizio della modernità si ha alla fine della ripartizione scolastica che colloca i termini cronologici della storia moderna fra il 1492 e il 1815. Nella seconda metà del secolo XVIII – si dice –

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da un lato, la rivoluzione industriale segna un passaggio epocale e radicale a una nuova “civiltà (o cultura) materiale”, ossia a nuove condizioni e forme di vita economica e di condizioni e forme di vita materiale dell’uomo e delle società umane; dall’altro lato, la rivoluzione americana e quella francese chiudono l’esperienza dell’ancien régime, e aprono i processi storici in cui è effettivamente possibile riconoscere il segno della vera e propria modernità. Le rivoluzioni così richiamate sono indubbiamente un’articolazione fondamentale della storia moderna e ne segnano uno snodo decisivo. Si tratta, però di uno snodo e di una svolta che avvengono all’interno del processo generale di svolgimento dell’età moderna. Al di fuori di tale contesto non è possibile intenderli; anzi, non è possibile neppure intendere davvero in quale senso essi segnino uno snodo o una svolta. L’età che li precede non solo non è una prosecuzione, in qualsiasi senso, del Medioevo, come pensano, ad esempio, coloro per i quali il feudalesimo è il tratto essenziale caratterizzante del Medioevo e per i quali, perciò, solo con la soppressione del regime feudale, operata a partire dalla rivoluzione francese, è possibile parlare di fine del Medioevo e di inizio dell’età moderna (sia detto per inciso: questo modo di vedere era particolarmente diffuso fra gli storici marxisti, intesi a ritenere determinante nella storia il fattore economico). L’età che precede le svolte del secolo XVIII è la matrice di queste svolte; è l’habitat storico al quale quelle svolte sono indissolubilmente legate. E ciò non toglie nulla al fatto che le stesse svolte siano vere e proprie rivoluzioni, ossia rotture e innovazioni profonde del corso storico, così come la loro natura rivoluzionaria non toglie nulla al ruolo essenziale che l’età precedente ha avuto nel determinarli. Quella che operano la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese è già una modernità molto cresciuta su se stessa, ossia fin dal momento in cui si può parlare di inizio dell’età moderna. Dei vari punti indicati dalla revisione della periodizzazione dell’età moderna abbiamo, del resto, già trattato, e

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di altri avremo occasione di trattare più oltre. Merita, però, di essere sottolineato il fatto che la delimitazione e caratterizzazione tradizionale dell’età moderna non viene contestata soltanto sul piano dei fatti, ma anche su quello dei princìpi che l’avrebbero animata. Da un lato – si dice – essa è stata ispirata da una concezione della modernità come idea di libertà e di ragione, di democrazia e di progresso, contraddetta nell’effettivo svolgimento storico della stessa storia moderna. Dall’altro lato, la concezione tradizionale si sarebbe dimostrata debole di fronte all’avvento di nuove esigenze critiche e culturali, e in particolare di fronte all’affermazione delle scienze sociali tra il XIX e il XX secolo. Esaminiamo ora, benché molto rapidamente, questi due punti. Per il primo c’è effettivamente da dire che la modernità come epoca di indiscutibile e continuo progresso, come epoca di affermazione di valori considerati altamente positivi (ad esempio, la libertà) è stata la rappresentazione che della modernità stessa è stata proposta e riproposta nelle forme più varie fino alla prima metà del secolo XX. È vero anche, peraltro, che gli sviluppi materiali e morali del mondo moderno sono stati, di fatto, talmente continui e cumulativi da imprimere un senso concreto, evidente e imponente all’insieme dei vari aspetti della modernità. Si spiega, perciò, che, come accadde specialmente nella seconda metà del secolo XIX, la certezza del progresso moderno abbia raggiunto il culmine, uguagliando e superando i livelli già molto alti ai quali la stessa certezza era giunta nel secolo XVIII. Riconosciuta, tuttavia, quest’accentuazione positiva delle vedute sulla modernità, la questione invece di chiudersi, si apre. Da un lato, quando il progresso moderno è stato più fieramente discusso, come, ad esempio, è accaduto per più aspetti tra il XVIII e il XIX secolo, ciò è avvenuto in nome di ideali che riproponevano il passato di cui la modernità aveva avuto ragione. Esempi tipici, e già notati, ne sono il vagheggiamento dell’Europa medievale come model-

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lo ideale di vita sociale e morale, che si ebbe nel periodo del Romanticismo; oppure l’esaltazione della “tradizione” come “mondo che abbiamo perduto” rispetto alla “modernità” nel secolo XX; o ancora il rimpianto della “civiltà contadina” come patrimonio di valori umani e comunitari superiori, che pure si è visto frequentemente esaltato nel corso dello stesso secolo XX. Dall’altro lato, come emerge già da queste considerazioni, nello svolgere la contestazione del concetto di modernità in quanto fondato su un presupposto ideologico, non si fa altro che opporre ad esso un diverso presupposto ideologico. Se il vizio della modernità sta nella sua natura ideologica, nel suo concetto e contenuto ideologico (libertà, uguaglianza, progresso, etc.), allora questo vizio è rilevabile anche nella contestazione che in base ad esso si fa di quel concetto. E soprattutto, poi, è incongruente il rilievo secondo cui la modernità non avrebbe mantenuto tutte le promesse e gli annunci del concetto che se ne ha, per cui libertà, democrazia e altri valori appaiono molto parzialmente realizzati o troppo spesso negati nel mondo moderno. Quasi che la storia sia il regno delle realizzazioni compiute e perfette di idee e di valori, e non un faticoso cantiere, in cui idee e valori sono la materia di un inesauribile work in progress e contano come princìpi, oltre che come fatti. Di positivo la contestazione – che respingiamo – della ripartizione storica tradizionale per la quale gli inizi dell’età moderna si ebbero nel secolo XV, contiene, però, un elemento importante: la diffidenza, appunto, per le caratterizzazioni ideologiche del lavoro storico. Ciò non significa che lo storico possa rifuggire essenzialmente e impunemente dai criteri di valutazione imposti dalla sua personale collocazione temporale e culturale. Come tutti gli uomini, e a qualsiasi effetto, lo storico è compenetrato della mentalità, degli interessi, delle idee e di tutto quanto comporta il suo tempo. La riuscita del lavoro storico si misura da come e quanto esso, nel subire il condizionamento del

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proprio tempo, si elevi al di sopra di questa soglia e consegua una visione storica che parli per sempre a uomini di altri tempi, diversamente condizionati. Da un tale punto di vista gli elementi ideologici imputati alla concezione cosiddetta tradizionale dell’età moderna cessano di essere tali e si convertono in dati di fatto, in elementi – si potrebbe addirittura dire – materiali della vicenda storica di cui si tratta. E tali vanno considerate, perciò, non solo l’invenzione della stampa o la scoperta dell’America o la mondializzazione dell’economia, bensì anche le idee che l’età moderna lanciò ed elaborò con eguale applicazione e originalità. In conclusione, i secoli dal XV al XVIII non possono essere in alcun modo considerati come quelli della vita prenatale dell’età moderna. Essi sono già la modernità nel suo dispiegarsi, che – come abbiamo più volte notato – non è un dispiegarsi totale, immediato e istantaneo, bensì un lungo processo di formazione ed elaborazione delle novità materiali e morali in cui il moderno si concreta. Quando si parla di inizio dell’età moderna è, dunque, all’insieme di tali novità che conviene, da ogni punto di vista, continuare a guardare: dalle armi del fuoco alla stampa, dalle scoperte geografiche alle loro ripercussioni economiche e culturali, politiche e sociali, dall’avvio del moderno sistema degli Stati europei alla formazione di una politica mondiale di espansione e di potenza, dall’emergere del vero e proprio Stato moderno (o di ciò che possiamo intendere come tale) al configurarsi del nuovo ordine designato come ancien régime, dalla Riforma protestante alle reazioni e ai moti riformatori in campo cattolico, dalla genialità inventiva e dalle inesauribili curiosità e tentativi del Rinascimento alla “rivoluzione scientifica”. L’essenziale di questo lungo processo è già ampiamente maturato alla metà del XVII secolo. E si conferma, perciò, che allora l’aspetto delle cose europee è tale da togliere ogni dubbio sul fatto che ci si trovi in un’epoca nuova e diversa rispetto a quella medievale, in un’epoca che certamente non

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può essere nata o nascere proprio allora, e che evidentemente ha già dietro di sé tutto un lungo passato. Insomma, non un’età soltanto o ancora adolescente, ma adulta. Fine del moderno, un nuovo moderno, un moderno ancora più moderno? Nel ricordare più volte alcuni elementi fondanti del concetto di modernità, quale nella cultura occidentale si è venuto sviluppando dall’età, come si è visto, umanistica e rinascimentale in poi, abbiamo anche affermato che modernità e storia moderna coincidono, nel senso che il tempo di questa storia è lo stesso tempo del sorgere e svilupparsi di quel concetto. Copre, cioè, i cinque secoli, dal secolo XV in poi, della vita di quel concetto. La domanda che ora vorremmo porci è se nel corso di questo (come lo abbiamo definito) “blocco storico epocale”, oltre le grandi articolazioni di cui abbiamo discorso, si siano profilati, fino all’inizio del secolo XXI, elementi innovativi tali da far pensare a cesure radicali del corso storico, diverse nella portata e nei significati da quelle articolazioni, e tali da configurare l’alba di un nuovo periodo storico, che possa svilupparsi o in continuità, oppure in opposizione al moderno che è servito da definizione per l’età moderna. Orbene, almeno la suggestione di una tale possibilità certo sussiste, se si pensa a una serie di elementi che colpiscono per la loro imponenza e radicalità rispetto al senso e al procedere del corso storico in cui sono sopravvenuti. Anche di essi si può dare una rapidissima indicazione: – lo spostamento del centro della potenza, della ricchezza e, in gran parte, della cultura mondiale fuori dell’Europa, messo in ancor più netta evidenza dalla fine degli imperi coloniali europei, nonché da una crisi radicale della coscienza europea di propria superiorità storica e culturale rispetto a tutto il resto del mondo;

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– l’inizio dell’era atomica, che da un lato ha proiettato sulla potenza militare l’ombra del rischio di un suicidio collettivo dell’umanità, dall’altro lato ha aperto la prospettiva della disponibilità di un tipo di energia tale da potenziare oltremodo e da trasformare qualitativamente la capacità produttiva e operativa dell’uomo; – l’inizio dell’esplorazione spaziale, che per la prima volta ha portato l’uomo fuori del suo mondo terrestre, aprendo con ciò un’era non solo di viaggi e di esplorazioni spaziali rese possibili dallo sviluppo tecnico del mondo moderno, ma già anche (si pensa) di insediamenti extraterrestri, in stazioni e colonie dall’ancora troppo incerto profilo giuridico e funzionale per poterne indovinare il futuro, ma certo con una possibilità che appare sicura di ulteriore potenziamento delle risorse umane, grazie a materiali e ad altri elementi rinvenibili fuori della Terra e non rinvenibili, o solo in misura scarsa o caduca, sulla Terra; – la rivoluzione informatica e la comunicazione in tempo reale, con tutte le problematiche dei nuovi mezzi di comunicazione, tra cui quella particolarmente suggestiva del “villaggio globale”, ossia di una piena correlazione comunicativa e sociale fra tutti i luoghi e fra tutti i popoli del mondo; – i “miracoli” non solo delle scienze medico-chirurgiche (terapie e protesi), ma, ben più, della biologia, della genetica, dell’ingegneria genetica – vegetale, animale e umana – al di là di ogni precedente frontiera della ricerca scientifica, che hanno portato a considerare l’eventualità che l’uomo possa modificare la sua stessa fisicità e alterare gli orizzonti temporali, qualitativi e operativi del suo vivere e quello di tutto l’ambiente vivente con lui nel quadro naturale; – i grandi movimenti di popolazione che vanno incidendo in misura crescente sulla geografia antropica del pianeta, con conseguenze profonde sul piano dell’antropologia sia culturale che fisica, oltre che sul piano politico e sociale; – l’economia della globalizzazione con le dimensioni

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macroscopiche e multinazionali delle sue imprese, e con la forza trascinante della sua capacità assimilatrice, parificatrice e omologatrice, che, insieme con l’unico mercato mondiale, costruisce anche un unico modello di consumatore, e quindi di generi e modi di vita; – la questione dello “sviluppo sostenibile”, peraltro connessa a una prospettiva di progressiva estensione dell’economia del benessere a fasce crescenti della popolazione mondiale, e a un incremento dei consumi di risorse terrestri e dell’usura dell’ambiente naturale, che portano a chiedersi fino a qual punto ambiente e risorse terrestri possano sostenere la sfida di una umanità incapace di regolare il suo sviluppo in funzione delle possibilità geofisiche del suo habitat e senza rischi di mutamenti di tale habitat fino al punto da renderlo inadatto alla sua mansione di domicilio dell’umanità stessa. Anche questa è una elencazione troppo rapida e piuttosto parziale per poter servire ad altro che allo scopo di dare conto, nel modo più immediato e sintetico possibile, di una serie di elementi in tanto diretta connessione cronologica e sostanziale fra loro da apparire come un insieme tendenzialmente organico e da intendere come tale. E, infatti, il complesso degli elementi indicati (e di altri che si potrebbero indicare) sembra innegabilmente fornire un senso possibile del loro insieme. Non è il senso di una chiusura, di una conclusione finale dell’epoca moderna apertasi al tempo di Colombo. È, invece, il senso di una svolta clamorosa, radicale e di sicura forza periodizzante. Se si cercano elementi strutturali di fondo, che valgano a sostanziare questa svolta e a individuare una chiara soluzione di continuità concettuale con l’età moderna quale comunemente viene intesa da più secoli a questa parte, analoga e corrispondente a quella che a suo tempo gli umanisti elaborarono per il “moderno” in opposizione al “medievale”, la ricerca risulterà vana. Quel che verrà fuori sarà un nuovo moderno, caratterizzato dall’essere ancora più moderno, ossia, per così dire, un supermoderno, una

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prosecuzione potenziata della modernità, che resta il valore di riferimento e la misura dominante del presente, e quindi anche del passato e del futuro. Contro questo sfondo, anche il discorso sul postmoderno può assumere un senso ben più pertinente e riconoscibile di quel che le troppe elucubrazioni intorno ad esso permettono di sperare. “Postmoderno” può assumere, cioè, lo stesso senso dell’espressione “postindustriale”, che, correttamente intesa, non allude a un modo di produzione economica che subentri a quello industriale, bensì al modo di produzione industriale nella forma che esso assume dal momento che lo sviluppo tecnico-scientifico ha messo a sua disposizione una strumentazione che ne ha profondamente modificato le procedure tecniche e organizzative. E, nello stesso senso, anche il contemporaneo può pragmaticamente e utilmente distinguersi dal moderno. Può distinguersi, cioè, non più come indicazione soltanto cronologica, quale finora l’abbiamo considerato, bensì come indicazione di un quadro di valori che si muovono sempre, come si è detto, nell’ambito del moderno, ma che, in tale ambito, manifestano una fin troppo spesso sconvolgente novità: una novità avvertita dai contemporanei fra disorientamenti e incertezze che hanno pochi precedenti storici equivalenti, almeno nell’esperienza europea. È solo un’ipotesi, ma potrebbe valere la pena di approfondirla. Non vogliamo dire, con l’oscura sentenziosità di Nietzsche, che «la parola del passato è sempre simile a una sentenza d’oracolo; e voi non la intenderete se non in quanto sarete gli intenditori del presente, i costruttori dell’avvenire»: sentenziosità, peraltro, per nulla sprovvista di senso e di suggestione concettuale. Vorremmo solo insistere sul fatto che la coscienza dei contemporanei è sempre un riferimento di particolare rilievo storiografico, e che la nozione o concetto del moderno vi risponde in modo particolare per la sua genesi, come si è visto, nella coscienza culturale europea a partire dai tempi dell’Umanesimo e del Rinascimento.

Capitolo ottavo

Studiare la storia moderna

I documenti dell’età moderna No documents, no history, si potrebbe dire, e a molto migliore ragione, parafrasando un noto slogan pubblicitario. Il passato, si dice, è un non più. Alcuni ne parlano come di un’assenza. In realtà, non si tratta né di qualcosa che non è più, né di un’assenza. Si tratta semplicemente del passato, cioè di vicende umane che hanno avuto luogo e che noi, secondo le nostre possibilità, vogliamo o dobbiamo rievocare. E le rievochiamo perché ne sentiamo oggi il bisogno, e ciò significa che il passato in qualche modo, in qualche misura, è ancora con noi; e che presso di noi la sua non è la presenza di un’assenza, ossia di qualcosa che non c’è, bensì la presenza di un elemento di cui avvertiamo la sollecitazione. Il lavoro degli storici è, appunto, quello di giungere a una rievocazione la più piena possibile di quel passato. Come? Servendosi, si può subito rispondere, di tutte le tracce che il passato lascia di sé, del suo operare e del suo pensare, sentire e, insomma, di tutta la sua vita materiale e morale. Per lunga tradizione il lavoro storico ha privilegiato in modo quasi esclusivo le tracce scritte del passato, ossia documenti pubblici e privati, libri e scritture di qualsiasi genere, iscrizioni o epigrafi su tombe, monumenti, pietre miliari, o sugli “avanzi” (come pure si dice) in qualsiasi altro modo

VIII. Studiare la storia moderna

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giunti fino a noi. Poi è stato a giusta ragione osservato che i documenti e le tracce del passato non sono affatto limitati alle scritture, quali che esse siano, ma che anche le opere d’arte, gli utensili, le produzioni dell’artigianato, i capi di abbigliamento e di arredamento, gli arnesi di lavoro, gli oggetti preziosi, una tavoletta votiva e, quindi, ogni altro oggetto o cosa che ci sia pervenuta, è una traccia di quel passato. Né basta: leggende, tradizioni, credenze, la struttura delle lingue, i modi di dire, la fisionomia del paesaggio urbano e non urbano, le pratiche produttive della vita economica, i resti organici e fossili di qualsiasi tipo, i mutamenti climatici in quanto ricostruibili sono diventati via via documenti storici non meno rilevanti di qualsiasi scrittura. L’archeologia, la linguistica, lo studio dell’immaginario, la storia della tecnica e varie altre discipline hanno contribuito, così, a un provvidenziale allargamento della documentazione storica. Si sono messe a punto tecniche molto sofisticate per individuare la data e l’autenticità, oltre che la natura e il significato, dei documenti storici. Si sono studiate le maniere migliori non solo di rintracciare tali documenti, ma anche di conservarli. Nell’ampiezza, praticamente illimitata, assunta dal tipo di documentazione a cui rifarsi per gli studi storici, la documentazione scritta ha conservato, tuttavia, una certa preminenza. Questa preminenza ha diverse ragioni. La principale è certamente che la scrittura offre una espressione solitamente diretta e immediata di quanto con essa si vuole attestare, ricordare, disporre, affermare o negare, modificare o revocare, e insomma stabilire a futura memoria o per le esigenze più o meno urgenti del presente. È come se, essendo stata il primo mezzo di comunicazione consapevolmente usato per scrivere di storia, la scrittura conservasse una sorta di diritto di primogenitura anche dopo che la tipologia delle fonti storiche è diventata tanto più ampia e diversificata. Nel caso, poi, dell’età moderna le fonti scritte hanno fatto registrare qualche novità che va segnalata e sottolineata.

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Si tratta, in pratica, di un fortissimo incremento che questo tipo di fonti ha ricevuto rispetto a quanto accadeva per le età precedenti. È stato giustamente osservato che tale incremento è in diretta relazione con il rafforzamento dei poteri sovrani e centrali nella stessa età moderna e con la possibilità crescente che essi hanno avuto di imporre una disciplina e una tecnica di svolgimento della vita pubblica e di statuizione pubblicamente riconosciuta della volontà che si intendeva far valere anche nella vita privata, per cui il documento è diventato il veicolo principale di pressoché ogni momento dell’esperienza vissuta in una società moderna. Si aggiunga che la forte e pervasiva struttura burocratica assunta dallo Stato moderno ha moltiplicato in misura esponenziale le necessità di comunicazione all’interno stesso della struttura statale. E si aggiunga pure che le stesse cose vanno dette per la documentazione ecclesiastica, nella quale la cura e la capacità di conservazione di carte e documenti è stata, anzi, anche più precoce rispetto a quella dei poteri laici, e anche in questo campo è servita ad essi, per vari aspetti, di esempio. Si aggiunga ancora che l’invenzione della stampa ha contribuito non poco alla moltiplicazione delle fonti scritte nell’età moderna, consentendo una incomparabilmente più larga circolazione di carte e documenti e assicurandone una più facile e diffusa conservazione. È stato perciò affermato ironicamente che la vita pubblica e istituzionale dell’età moderna rischia sempre di affondare in un mare di carte, e mai come in questo caso si può dire che ogni ironia ha la sua ragion d’essere. Non minore è stata, a ben vedere, la tendenza all’incremento della documentazione nella vita privata, per ragioni che non sono proprio le stesse, ma non sono nemmeno lontane da quelle della documentazione pubblica, e hanno ricevuto, inoltre, un impulso particolare, anche più della documentazione pubblica, sia dai tanto più potenziati servizi pubblici e privati di trasmissione di carte, documenti e quant’altro, sia dalle tanto cresciute possibilità e rapidità di comunicazione assicurate dall’avvento dei moderni mezzi di trasporto.

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L’archivio – ossia il luogo principe di deposito e di conservazione dei documenti e delle carte pubbliche, nonché di quelle private passate in depositi pubblici – è diventato così una specie di santuario della vita sociale e istituzionale, nella crescente preoccupazione di conservare tutto quanto possa servire alla vita e all’azione dei poteri costituiti, oltre che alla memoria e alla sicurezza anche giuridica della vita privata. Gli archivi pubblici, molti archivi privati, gli archivi notarili, gli archivi ecclesiastici hanno assunto perciò dimensioni senza precedenti. E solo una piccola parte di questo sconfinato materiale archivistico è stata pubblicata, sia in edizioni specifiche di questo o quel gruppo di documenti, sia in grandi collezioni dedicate a intere serie documentarie. Una specie di santuario gli archivi sono, perciò, anche per gli storici, che nella documentazione edita e inedita hanno il loro primo, maggiore e irrinunciabile oggetto e strumento di lavoro. Accanto ai documenti di archivio (che in notevole misura sono conservati anche presso grandi e piccole biblioteche pubbliche e private, laiche ed ecclesiastiche), gli storici hanno, inoltre, altri fondamentali oggetti e strumenti di lavoro di non minore importanza nelle scritture narrative, letterarie, teoriche o di qualsiasi altro genere, che attestano le opere, il pensiero, il sentire del passato: fogli volanti, opuscoli, libri, giornali e via dicendo. La biblioteca è, perciò, un luogo di lavoro dello storico altrettanto fondamentale che l’archivio. E anche in questo campo l’età moderna ha fatto registrare una moltiplicazione degli oggetti scritti pressoché prodigiosa rispetto alle età precedenti, e ciò per le stesse ragioni che si sono accennate per i documenti di archivio, a cominciare, ovviamente, dall’invenzione della stampa, e con lo stesso ritmo, che è diventato incalzante e – si può dire – soffocante a mano a mano che ci si è avvicinati all’età contemporanea. Alle forme di comunicazione e di scrittura dell’età moderna si sono aggiunte, da ultimo, quelle procurate, tra il XX e il XXI secolo, dall’informatica e dai suoi quasi in-

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credibili sviluppi, che, tra l’altro, sono anch’essi in rapidissima trasformazione e in progressivo potenziamento quantitativo e qualitativo. Ciò ha creato problemi di nuovo genere per gli storici dell’età contemporanea, ma ha avuto conseguenze di primaria importanza anche per gli storici dell’età moderna (in realtà, per ogni campo storico e ogni attività intellettuale). Qui ci limitiamo soltanto a dire che l’informatica va configurando una possibilità di padroneggiamento della documentazione che possiamo definire, ancora una volta, senza precedenti. E ciò sia per l’enorme quantità (in pratica, senza limiti apprezzabili rispetto alla capacità dello studioso singolo o anche di gruppi di studiosi) di documenti o scritture o oggetti che l’informatica può prendere in esame, considerare e classificare; sia per la molteplicità delle domande che essa consente di porre alla documentazione esaminata, per vasta che sia e per varie e numerose che siano le domande stesse; sia, infine, per la rapidità del lavoro informatico, alla quale non si può in alcun modo confrontare il lavoro dei singoli individui che dell’informatica si servono. È superfluo, peraltro, avvertire che l’inizio dell’era informatica non significa affatto una esenzione dell’uomo (e dell’uomo studioso, in particolare) dalla fatica e dalla responsabilità della ricerca, dell’invenzione intellettuale, del controllo di metodo e di merito del suo lavoro e di tutto quanto comporta tale lavoro. L’informatica è solo un mezzo nuovo e potentissimo del lavoro umano, anche se introduce in esso possibilità e aperture nuove e ricche di capacità di svolgimento diretto e rapido. L’ideazione, la programmazione, le prospettive del lavoro sono sempre e innanzitutto materia e impegno dell’uomo che ha dato luogo al nuovo mezzo, e che, comunque, non si può esimere dal governarlo sempre, in ogni aspetto e momento della sua utilizzazione. In altri termini, l’informatica riduce la fatica e accresce di molto le possibilità esecutive, e perfino inventive, del lavoro umano, ma non è in alcun modo una esenzione dal lavoro.

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Anche nel campo degli studi storici si è compiuto, infine, nel corso del XIX e del XX secolo un passo in avanti decisivo nell’organizzazione scientifica del lavoro, che ha caratterizzato tutta l’evoluzione del lavoro nelle società occidentali, sia con il potenziamento dei compiti di ricerca e di analisi di istituzioni tradizionali (come, ad esempio, le università), sia con l’istituzione di nuovi centri e istituti di studio e di ricerca, deputati esclusivamente a questo fine (che hanno largamente sostituito o integrato istituzioni più antiche, come quella tipicamente europea delle accademie, e che sono spesso dovuti a benemerite iniziative private, oltre che a quella pubblica). Di questo passo in avanti la sistemazione degli archivi e delle biblioteche ha rappresentato un elemento a sua volta decisivo, e ha vieppiù rafforzato il loro ruolo nell’attività storiografica moderna. Nello stesso tempo sia i progressi tecnologici di quest’epoca, sia l’allargamento progressivo dell’attenzione degli storici alle fonti non scritte hanno consentito di rendere il lavoro della storiografia particolarmente raffinato e al tempo stesso robusto, sempre, com’è fin troppo ovvio e sarebbe superfluo ricordare, quando alle nuove possibilità materiali e tecniche si accompagni il vigore metodologico e critico che ogni lavoro intellettuale richiede. Per i paesi extraeuropei, specialmente in Asia e in Africa, una storiografia scientifica moderna ha avuto inizio, in generale, con l’attenzione che alle loro storie hanno dedicato gli storici occidentali. Le composizioni e le saldature con le tradizioni storiografiche o parastoriografiche locali sono state le più varie, ma, altrettanto in generale, le storiografie di tali paesi hanno proceduto, appena possibile, con le loro forze, e hanno dato luogo a diverse condizioni secondo le loro rispettive tradizioni del passato e proiezioni nel futuro. In vari casi, già nel corso del secolo XX si sono cominciati ad avere anche contributi sempre più apprezzabili di storici di quegli stessi paesi allo studio della storia dell’Occidente e dei paesi occidentali. E tutto ciò ha

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comportato anche un avvicinamento o un adeguamento di quei paesi ai modelli dell’organizzazione di archivi e biblioteche secondo i moduli occidentali. Note bibliografiche Gli studi di storia dell’età moderna, comunque intesa, costituiscono, dall’inizio stesso di quest’epoca, un campo storiografico di straordinario interesse. Basti pensare a un’opera come la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, scritta fra il 1537 e il 1540, che abbraccia gli anni dal 1494 al 1534, e che Francesco De Sanctis definì «il lavoro più importante che sia uscito da mente italiana» e Adolphe Thiers uno «tra i più bei monumenti dell’ingegno umano»: un’opera, dunque, eccezionale nel panorama storiografico non solo del suo tempo. La formazione di una storiografia sull’età moderna ha potuto rappresentare, così, una pagina di grande rilievo ben al di là degli studi storici. Basta anche qui pensare ai nomi che in questa pagina si incontrano, che sono, per lo più, nomi di grandi storici e, insieme, nomi di figure eminenti nella storia del pensiero europeo, come, per fare un solo esempio, nel secolo XVIII. A orientarsi nella sterminata massa di questa letteratura storica può servire la Storia della storiografia moderna dello svizzero Eduard Fueter (trad. it., Ricciardi, MilanoNapoli 19702), che giunge agli inizi del secolo XX (per il secolo XIX essa va integrata, per quanto riguarda l’Italia, con B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari 19644). Una utile premessa e un classico al riguardo si può considerare G. Falco, La polemica sul Medioevo, che fa la storia, dal XV al XX secolo, del concetto di Medioevo, strettamente associato con quello di modernità, come si è visto. Si può aggiungere G. Lefebvre, La storiografia moderna, trad. it., Mondadori, Milano 1973. Per gli svolgimenti della storiografia nel secolo XX si veda G. Galasso, Storiografia, in Enciclopedia

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del Novecento, vol. XIII, Supplemento III. I-G, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2004, pp. 474-484. Utile può riuscire anche A. D’Orsi, Piccolo manuale di storiografia, Bruno Mondadori, Milano 2002 (e di D’Orsi si veda pure Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, Scriptorium, Torino 1999, dove alle pp. 293-335 è offerto un sintetico Regesto degli storici, con brevi biografie dei nomi più rilevanti della storiografia soprattutto dei secoli XIX e XX). Qui indichiamo, innanzitutto, serie di opere della storiografia europea dei secoli XIX e XX sulla storia moderna dell’Europa e dell’Occidente dalla scoperta dell’America a Napoleone, che possono essere considerate veri e propri classici degli argomenti di cui trattano. Non intendiamo offrire un panorama organico di questa storiografia, e l’elencazione è volutamente esemplificativa e perfino un po’ casuale, e, anche per questo, ancora più parziale di quanto non si vorrebbe o non sarebbe opportuno, specialmente in rapporto alla tematica della storia moderna, che richiederebbe segnalazioni ben più numerose e organiche. Si tratta, però, di grandi storici dell’Ottocento e del Novecento, ormai scomparsi, ma già nella storia della storiografia, sulla cui forza di suggestione critica e rappresentativa si può contare come su un elemento di sicuro effetto. R.H. Bainton, La Riforma protestante, Einaudi, Torino 1958. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1953. J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1953. D. Cantimori, Studi di storia, Einaudi, Torino 1959. F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Bari 1961. F. Chabod, Carlo V e il suo impero, Einaudi, Torino 1985. F. Chabod, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, Il Mulino, Bologna 1995.

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Prima lezione di storia moderna

B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1993. L. Dehio, Equilibrio o egemonia, Morcelliana, Brescia 1954. A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Einaudi, Torino 1989. N. Elias, La società di corte, Il Mulino, Bologna 1980. L. Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Einaudi, Torino 1978. M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976. A. Gerbi, La disputa sul Nuovo Mondo. Storia di una polemica (1750-1900), Adelphi, Milano 2000. P. Hazard, La crisi della coscienza europea, Utet, Torino 2007. Ch. Hill, La formazione della potenza inglese. Dal 1530 al 1798, Einaudi, Torino 1983. J. Huizinga, Autunno del Medioevo, Rizzoli, Milano 1995. H. Jedin, Riforma cattolica o controriforma?, Morcelliana, Brescia 1957. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 1989. W. Kula, Teoria economica del sistema feudale, Einaudi, Torino 1970. G. Lefebvre, La grande paura del 1789, Einaudi, Torino 1973. J.A. Maravall, Potere, onore, élites nella Spagna del secolo d’oro, Il Mulino, Bologna 1984. F. Meinecke, L’idea della ragion di stato nella storia moderna, Sansoni, Firenze 1970. R. Mousnier, Le gerarchie sociali dal 1450 ai nostri giorni, Vita e Pensiero, Milano 1971. R.R. Palmer, L’era delle rivoluzioni democratiche, Rizzoli, Milano 1971. B.F. Porchnev, Lotte contadine e urbane nel «Grand siècle», Jaca Book, Milano 1974. G. Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna 1958.

VIII. Studiare la storia moderna

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G. Ritter, Federico il Grande, Il Mulino, Bologna 1970. R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 1989. L. Salvatorelli, Leggenda e realtà di Napoleone, Utet, Torino 2007. L. Stone, La crisi dell’aristocrazia inglese, Einaudi, Torino 1972. E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica nell’Inghilterra del Settecento, Einaudi, Torino 1981. F.J. Turner, La frontiera nella storia americana, Il Mulino, Bologna 1959. F. Venturi, Le origini dell’Enciclopedia, Einaudi, Torino 1963. F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1970. F. Venturi, Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino 1998. L. von Ranke, Storia dei papi, Sansoni, Firenze 1959. I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino, Bologna 1978-1982. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1977. Per la storiografia più recente e per indicazioni più organiche e complete ci si può avvalere delle guide o introduzioni alla storia moderna, che sono ormai molto numerose e di valore diverso, ma generalmente utili, anche se spesso sembrano, in generale, obbedire molto a una eccessiva, pur se comprensibile, esigenza di registrare e seguire la cosiddetta “attualità storiografica”, ossia le tendenze e i criteri storiografici dei nostri anni. Proprio per questo è ad alcune di esse che in qualche caso, e per qualche particolare, si riferiscono le discussioni e le confutazioni esposte nel nostro testo. Infine, buone e più che sufficienti indicazioni bibliografiche si possono ormai ritrovare in tutti i manuali di storia moderna.

Indici

Indice dei nomi*

Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 64. Alighieri, Dante, 3, 122. Annibale, 4. Aristotele, 4-5. Asburgo, dinastia, 50. Bacone, Francesco, 89-90, 123. Barbagallo, Corrado, 14. Bayly, Christopher A., 18. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa, 4. Bernardo di Chartres, 118. Berni, Francesco, 116. Bisaccioni, Maiolino, 109. Boccaccio, Giovanni, 13. Bodin, Jean, 160. Boileau, Nicolas, 117-118. Bonaparte, Napoleone, 28, 50, 52, 79, 111. Borbone, dinastia, 50. Botticelli (Sandro Filipepi), 7. Braudel, Fernand, 55. Brunelleschi, Filippo, 7. Bruno, Giordano, 89, 122. Bruto, Marco Giunio, 77. Buonarroti, Michelangelo, 116. Calvino, Giovanni, 63. Carlo V, imperatore, 40, 61, 65-66.

Carlo VIII, re di Francia, 47, 49, 51. Carlomagno, 8-9, 29-30, 45. Cartesio (René Descartes), 89, 120, 123, 134. Cassio Longino, Gaio, 77. Caterina II, imperatrice di Russia, 165. Cattaneo, Carlo, 134. Cesare, Gaio Giulio, 4, 6, 77. Chabod, Federico, 17. Chaplin, Charlie, 19, 22. Chiaromonte, Nicola, 19. Ciccotti, Ettore, 13-14. Cicerone, Marco Tullio, 4, 6. Cognasso, Francesco, 13-15. Colombo, Cristoforo, 41-44, 90, 171, 182. Comanini, Gregorio, 118. Condorcet, Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di, 136. Copernico, Niccolò, 171. Costantino, Flavio Valerio, 13. Croce, Benedetto, 15. Dacier, Anne, 117. del Cano, Juan Sebastián, 44. Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, imperatore romano, 13.

* L’Indice non comprende i nomi presenti nelle Note bibliografiche.

198 Donatello (Donato de’ Bardi), 7. Du Cange, Charles Du Fresne, 5. Elisabetta II, regina d’Inghilterra, 4. Enrico IV, re di Francia, 78. Erasmo da Rotterdam, 39, 124. Federico II di Svevia, imperatore, 9, 47, 137. Fénelon (François de Salignac de la Mothe), 118. Ferdinando II, re d’Aragona, 45. Filippo II, re di Spagna, 112. Fontenelle, Bernard Le Bovier de, 88, 117. Galilei, Galileo, 89-90, 123, 171. Gama, Vasco da, 43-44. Giunti, famiglia, 70. Giustiniano, imperatore romano d’Oriente, 8, 30. Gutenberg, Johann, 69. Herder, Johann Gottfried, 136. Hitler, Adolf, 63. Hobbes, Thomas, 76. Hus, Jan, 64. Ignazio di Loyola, santo, 66. Isabella I, regina di Castiglia, 45. Kant, Immanuel, 134, 137. Keller, Cristoforo (Cellarius), 10. Keplero, Giovanni, 89, 171. La Fontaine, Jean de, 117. Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 66. Locke, John, 78. Lowe, Norman, 18. Luigi XII, re di Francia, 49. Luigi XIV, re di Francia, 50, 73. Lutero, Martin, 9, 58-67, 174.

Indice dei nomi Machiavelli, Niccolò, 8-9, 76-77, 98, 159, 175. Magellano, Ferdinando, 44, 171. Manuzio, famiglia, 70. Manuzio, Aldo, 70. Martino V (Oddone Colonna), papa, 64. Marx, Karl, 55. Medici, Lorenzo de’, 51. Montaigne, Michel de, 40. Newton, Isaac, 89, 171. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 183. Omero, 6, 117. Omodeo, Adolfo, 13-15. Ottone IV, imperatore di Germania, 47. Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 64. Perrault, Charles, 117-118. Petrarca, Francesco, 13, 39, 63. Pietro il Grande, zar di Russia, 165. Platone, 4-5. Professione, Alfonso, 15. Salvatorelli, Luigi, 14-15. Savonarola, Girolamo, 64. Schumpeter, Joseph Alois, 55. Sofocle, 132. Tiziano Vecellio, 40. Valla, Lorenzo, 40. Vespucci, Amerigo, 43. Vico, Giambattista, 174. Wallerstein, Immanuel, 55. Weber, Max, 55. Wycliffe, John, 64.

Indice del volume

I.

Definire la storia moderna

3

Moderno, p. 3 - Antico, medievale, moderno, p. 6 - Moderno e contemporaneo: la scuola, p. 11 Contemporaneo: l’università, p. 16 - Contemporaneo: la storiografia, p. 18 - Un blocco storico epocale, p. 20 - Postmoderno, p. 22 - Modernità e storia moderna, p. 23 - Periodizzare, p. 27 Fuori d’Italia, fuori dall’Europa: il moderno come modernizzazione, p. 28 - Staccare l’idea di “moderno” da quella di “medievale”, p. 33

II.

Quando e come si apre l’età moderna

36

Una serie di eventi e di sviluppi, p. 36 - Umanesimo e Rinascimento agli inizi dell’età moderna, p. 37 - Colombo (e gli altri), p. 41 - “Guerre d’Italia” e sistema degli Stati europei nell’età moderna, p. 44 - Europa e Mediterraneo. La prima globalizzazione. E la Cina?, p. 52 - La questione religiosa: la Riforma protestante, p. 58 - La questione religiosa: Controriforma e Riforma cattolica, p. 63 - Perché proprio allora?, p. 68

III. Strumenti e percorsi del moderno Strumenti del moderno: stampa, armi da fuoco, grandi velieri, p. 69 - Sentieri del moderno: politica e diritto, p. 75 - Sentieri del moderno: economia e dintorni, p. 83 - La “rivoluzione scientifica”, p. 88 - La “rivoluzione industriale” e le macchine, p. 91

69

200

IV.

Indice del volume

Lo Stato moderno

96

Lo Stato moderno: i precedenti medievali, p. 96 - Lo Stato moderno: logica e dialettica, p. 101 L’“ancien régime”, p. 105 - Il «plenilunio delle monarchie», p. 108

V.

La superiorità e le idee nuove dei moderni

115

La superiorità dei moderni sugli antichi, p. 115 Il ritmo della modernità e il ritmo della storia, p. 120 - La “crisi della coscienza europea” e le idee nuove: diritti, progresso, culture, tolleranza, libertà, p. 123 - Le idee nuove: Illuminismo e “intellettuali”, repubblica, riforme e rivoluzione, p. 126 - Le idee nuove: laicità, libertà, p. 128 - Le idee nuove: «sape˘re aude!», p. 134 - Relatività e pluralità delle culture, idea del progresso e storicismo, p. 137

VI. Antropologia, sociologia, politologia del moderno

139

Antropologia del moderno, p. 139 - Sociologia del moderno, p. 145 - Politologia del moderno, p. 159

VII. La pienezza della modernità e la modernità del postmoderno

166

La matura pienezza della modernità, p. 166 - Europa, mondo; Europe, Occidente, p. 167 - La tematica tradizionale della storia moderna, p. 170 Conferme e problemi, p. 172 - Una periodizzazione da discutere?, p. 174 - Fine del moderno, un nuovo moderno, un moderno ancora più moderno?, p. 180

VIII. Studiare la storia moderna

184

I documenti dell’età moderna, p. 184 - Note bibliografiche, p. 190

Indice dei nomi

197