Prima lezione di storia delle relazioni internazionali
 9788842080831

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Universale Laterza 865

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Archeologia orientale di Paolo Matthiae

Grammatica di Luca Serianni

Ennio Di Nolfo

Prima lezione di storia delle relazioni internazionali

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-8083-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Nel suo ultimo romanzo, Ravelstein, Saul Bellow affida al protagonista, un professore di filosofia politica, questo dialogo immaginario: La grigia rete di astrazioni che copre il mondo per semplificarlo e spiegarlo in modo tale da costringerlo ai nostri scopi culturali è diventata il mondo per noi. Esisteva la necessità di avere visioni alternative, diversità di vedute non asservite alle idee. Per lui era una questione di parole: «valori», «modi di vivere», «relativismo». Io concordavo fino a un certo punto. Abbiamo bisogno di sapere, ma il nostro profondo bisogno umano non può essere soddisfatto da questi termini. Non possiamo uscire dal pozzo della «cultura» e delle «idee» che apparentemente li esprimono. Le parole giuste sarebbero un grande aiuto. Ma, più ancora, uno strumento per leggere la realtà: l’impulso di accostarvi affettuosamente il viso e premervi sopra le mani.

Il problema che si deve porre chi cerca di dare un senso al proprio lavoro è proprio quello di trovare le parole giuste fra la «rete di astrazioni» e «l’impulso di accostarvi affettuosamente il viso». Questa prima lezione è stata influenzata dalle esigenze che Bellow affida all’espressione letteraria, e si sviluppa su tre piani diversi,

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Introduzione

che solo per necessità legate alla chiarezza dell’esposizione sono stati separati. In effetti, essi si intrecciano e spesso si sovrappongono in maniera quasi indissolubile. I tre piani riguardano rispettivamente l’evoluzione degli eventi, la riflessione teorica svolta contemporaneamente sulla natura e sulle ragioni di tale evoluzione, e infine i temi che questo doppio ordine di elementi ha posto – e pone – a chi affronta lo studio della storia delle relazioni internazionali. È necessario tener presente l’esistenza di questa diversità per dare un senso unitario alla lezione. Nell’ultima parte di questo «saggio», si è compiuto il tentativo di far convergere i diversi piani in un discorso organico. Questo saggio conclude e, al tempo stesso, costituisce in un qual modo la premessa rispetto al percorso avviato nei miei due precedenti volumi laterziani: Storia delle relazioni internazionali. 1918-1999, pubblicato nel 2000, e Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, pubblicato nel 2002. Alcuni colleghi hanno avuto la cortesia di leggere e commentare il dattiloscritto. Ringrazio in particolare Bruna Bagnato, Duccio Basosi, Mauro Campus, Fulvio D’Amoja, Marilena Gala, Maria Eleonora Guasconi, Massimiliano Guderzo, Leopoldo Nuti, Paola Olla Brundu, Pietro Pastorelli, Ilaria Poggiolini, e Alberto Tonini. Le loro osservazioni mi sono state sempre utili e mi hanno reso possibili alcune correzioni di tiro assai opportune. Naturalmente, come sempre si dice in questi casi, la responsabilità di ciò che è scritto è tutta dell’autore, anche quando alcuni temi sono il risultato di fruttuose e costruttive discussioni. Questa lezione è dedicata a mia nipote, Matilde, al-

Introduzione

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la quale debbo parecchie ore di gioia. Oggi lei preferisce sentirsi raccontare le fiabe, ma forse un giorno vorrà dare uno sguardo a ciò che scriveva il nonno. Ennio Di Nolfo Firenze, marzo 2006

Prima lezione di storia delle relazioni internazionali

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La storia delle relazioni internazionali: origine, metodo e definizioni

1. Una popolarità recente Tractas et incedis per ignes suppositos cineri doloso, avrebbe scritto Orazio*. Non c’è, infatti, uno statuto paradigmatico sufficientemente condiviso per la definizione di «storia delle relazioni internazionali». Anzi, sul carattere della definizione esiste, per l’appunto, un dibattito acceso, che esprime una divergenza così profonda da mettere in gioco, talora, l’autonomia di questo campo di studi e da spingere a confonderlo con altri territori contigui. Il motivo di tale incertezza è però abbastanza evidente. Mentre il «sapere» storico corrisponde, si potrebbe dire, all’esistenza dell’umanità, e mentre la suddivisione tradizionale, per grandi epoche o grandi ma abituali campi di studio, appartiene alla consuetudine, lo studio autonomo delle relazioni internazionali, in quanto aspetto della vita socio-politica che le caratterizza e che talora condiziona l’esistenza dell’uma* I versi di Orazio sono tratti dalle Odi (II, 1, 6) e dicono in modo più esteso: Periculosae plenum opus aleae tractas, et incedis per ignes suppositos cineri doloso, potrebbero essere tradotti così: «Tu affronti un lavoro pieno di rischi e ti avventuri sopra un fuoco coperto da ceneri ingannevoli».

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nità, ha assunto una evidenza dominante solo da pochi decenni. Forse si potrebbe dire che questa attenzione coincide con il XIX secolo, ma meglio si coglierebbe la portata invasiva del tema solo considerando gli ultimi decenni del Novecento, quando esso si pone nella sua valenza autonoma. Quando il termine «globalizzazione» diviene un luogo comune del discorrere politico, allora è evidente che le relazioni internazionali pervadono l’esistenza della vita umana e richiedono una considerazione in sé e per sé. Le «relazioni internazionali» non sono ovviamente un fatto circoscritto alle epoche più recenti. Da quando esiste sul globo una pluralità di soggetti o di «popoli» questi debbono avere interagito, anche quando non si sappia nulla della portata delle loro relazioni. Basta sfogliare le pagine delle Sacre Scritture di molte religioni per ritrovare suggestioni che rinviano a relazioni fra popoli. La distinzione rispetto ai tempi più recenti risiede nel fatto che mentre sino all’età moderna i problemi internazionali erano stati considerati, si potrebbe dire, come «un fatto della vita», un momento fugace dell’esistenza di comunità quasi sempre chiuse all’interno dei propri confini geopolitici, o geograficamente remote, dopo il 1492, quando Cristoforo Colombo mise piede in America, si incominciò a capire che la dimensione del globo era assai più vasta e più importante di quanto si fosse prima immaginato. E se è vero che la marginalità geografica rese possibile all’isola britannica di essere investita da un intervento internazionale solo per due volte nella storia – ai tempi del dominio romano, nel 55-54 a.C., dagli eserciti di Giulio Cesare, e nel 1066 con l’invasione normanna – occorre rilevare che questa eccezione non può essere estesa a molte altre parti del mondo poiché tutte, in varie epoche, subirono più o meno

I. La storia delle relazioni internazionali

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brevi razzie dall’esterno, ne furono in modo diverso influenzate, talora furono addirittura plasmate da tali invasioni, così da essere considerate come frutto della vita internazionale. Del resto, le relazioni fra i gruppi che occupavano territori del globo terrestre erano inevitabili, benché fossero rese difficili dalla qualità dell’ambiente, dall’assenza di vie di comunicazione regolari (eccezion fatta per le grandi carovaniere o per il sistema stradale che fornì l’ossatura funzionale per l’impero romano) o dalla qualità rudimentale dei mezzi di trasporto terrestri o marittimi. Da quando esistono le tracce dell’esistenza di comunità organizzate, si ha notizia di migrazioni, scontri per il controllo di determinate risorse, guerre di conquista, esplorazioni geografiche, commerci: tutte manifestazioni relazionali, spesso oggetto di leggenda o di tradizione, più spesso ancora oggetto di narrazione degli scrittori che si occuparono, a tempo debito, di ciò che accadeva nei loro dintorni. Era una rete di relazioni, alimentata dalla curiosità intellettuale dei clerici vagantes, dall’ardimento dei «cavalieri erranti»; più spesso, e più sistematicamente, da interessi commerciali, da rivalità nello sfruttamento di materie prime o di frutti della natura, dagli scontri fra bande o eserciti armati in maniera prima rudimentale e, con il passare dei secoli, in maniera più efficace e aggressiva; una rivalità che spingeva anche a commerciare uomini o a imporre movimenti demografici da una regione all’altra: fatti, tutti questi, che oggi rientrano per definizione nelle categorie delle relazioni internazionali. Così, dagli albori dell’umanità agli inizi dell’età moderna, le relazioni internazionali ebbero una loro storia che trova descrizione nei graffiti o nei geroglifici ritrovati dall’archeologia; nelle prime narrazioni o nei docu-

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menti lasciati da alcuni autori per narrare le imprese dei loro contemporanei. Erodoto scrisse nel V secolo a.C. delle guerre greco-persiane; Tucidide delle guerre peloponnesiache. E a loro tennero dietro altri storici greci e poi i grandi storici romani e tutti coloro che scrissero in seguito delle «invasioni barbariche», della nascita dell’islamismo e della formazione dell’impero ottomano; delle vicende dell’Asia centrale e, più vagamente, di quelle dell’Asia orientale; gli storici delle crociate; quelli dell’impero mongolo: tutti autori che intrecciarono gli aspetti interni con quelli internazionali, senza però che questi ultimi acquistassero quel carattere autonomo di cui si discute in questa sede. Alla vigilia delle grandi scoperte geografiche del XV e XVI secolo esistevano al mondo alcune grandi realtà politiche che avevano contatti in modo più o meno occasionale o conflittuale. Fuori dell’Europa occidentale, dove stavano nascendo gli Stati moderni e dove la vita politica era divenuta già tanto intensa, vi era nel continente americano l’impero azteco, che l’invasione europea avrebbe distrutto; vi era in Asia l’impero Ming, dominatore del territorio cinese e volutamente restio alle interferenze esterne. Fra l’Europa e l’Asia si consolidava il regno della Moscovia, riducendo entro confini sempre più delimitati l’impero mongolo. Questo era poi a contatto con la più forte realtà politica di quei secoli, l’Impero ottomano che, dopo la prima fase d’espansione, iniziata alla metà del VII secolo e spentasi alla metà del XIII secolo sotto l’impeto dell’invasione mongola, recuperò vigore nel 1421 con la spinta verso Costantinopoli, tentando persino, fra il XVI e il XVII secolo, pur senza riuscirvi, di conquistare l’egemonia nel Mediterraneo e in gran parte dell’Europa meridionale. Vi era dunque una pluralità di soggetti internazionali, sen-

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za che fra di essi esistessero (eccezion fatta per l’Europa occidentale) relazioni stabili, chiaramente definite. Intanto il bisogno innato dell’uomo di conoscere la natura e di dominarla, di conoscere il mondo e di controllarlo (caratteri, questi, che durante il Rinascimento europeo avevano ricevuto una spinta considerevole), si era proiettato nel desiderio, da parte degli europei, di sapere ciò che vi era al di là delle «colonne d’Ercole» o nei mari prospicienti l’Europa. Sebbene i vichinghi avessero preceduto gli altri europei nella corsa – alimentata più dal bisogno che dalla curiosità di sapere – verso il continente americano, dal Portogallo, dalla Spagna, dalla Gran Bretagna, dai Paesi Bassi e dall’Italia s’era manifestata con forza insopprimibile la volontà di esplorare: per conquistare le basi del commercio verso l’Oriente ma anche per sapere se le ipotesi relative alla sfericità del globo fossero fondate. Gli anni delle grandi esplorazioni geografiche misero le prime basi della globalizzazione: da principio tentativi avventurosi ma, dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, premessa della formidabile spinta che avrebbe impegnato gli stessi paesi (soprattutto la Spagna e il Portogallo) a intensificare i contatti, a sfruttare le risorse scoperte oltre oceano, a importare merci nuove, a avviare avventure spregiudicate. Come scrive in sintesi Fernand Braudel, «nel secolo XVI si ha una nuova espansione, quando le aree dominate dagli Europei si estendono al mondo intero e comprendono grandi spazi quasi incolti e, in ogni caso, mal sfruttati dall’uomo»1. Il mondo, esclama Braudel sull’eco di Paul Valéry, è finito, nel senso che anche Raymond Aron farà suo, quando vorrà esprimere la compiutezza della cono1

F. Braudel, Storia, misura del mondo, Bologna 1998, p. 91.

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scenza dell’uomo sulle terre e sui mari del globo. Nello spirito del tempo, la curiosità favoriva l’innovazione. Questa si traduceva, sul piano politico internazionale, nella nascita dei primi imperi transatlantici e nell’acuirsi, in Europa, dello scontro fra principati per la supremazia. Era lo scontro dal quale sarebbe nata l’Europa degli Stati moderni, cioè l’Europa dei soggetti del diritto e della politica internazionale. Nasceva un tessuto di relazioni dapprima intrecciato direttamente con la vita interna degli Stati o con le rivalità dinastiche, poi tale da assumere un profilo autonomo, caratterizzato da regole proprie, scarsamente legate alla realtà della microstoria o a quella della vita quotidiana degli uomini. Certo si poteva ancora immaginare che le relazioni internazionali fossero condizionate dall’esito di un duello fra Orazi e Curiazi o dalla rivalità tra Carlo V d’Asburgo e Francesco I di Valois. Ma questa era la caricatura delle relazioni internazionali. Per millenni l’umanità aveva vissuto all’interno di stretti confini, spazi chiusi, quasi pianeti sconosciuti l’uno all’altro. Ma a poco per volta erano stati inviati segnali ai «fratelli» più vicini, sinché il mondo divenne un globo tutto internazionalizzato. «Tutti i paesi del globo», diceva ancora Braudel, «vengono a contatto e si mescolano in un corpo a corpo tumultuoso»2. Tumultuoso? Dominato dal caos, dalla lotta perenne dell’uomo contro l’uomo, oppure legato a costumi, norme, valori, interessi magari non sempre visibili ma sempre presenti, come struttura implicita della realtà internazionale? È, questo, il dilemma che divide gli storici in generale e, più ancora, gli storici delle relazioni internazionali, che colgono nella vita quotidiana il 2

Braudel, Storia, misura del mondo cit., p. 112.

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mutare dei soggetti, l’affiorare improvviso delle contraddizioni o delle convergenze, l’impressionante moltiplicarsi dei problemi, l’esplosione imprevista di tensioni sotterranee, dapprima soltanto intraviste poi, d’un tratto, percepite come forze dominanti. 2. I confini del campo di lavoro La contiguità con tanti altri temi di lavoro e la contemporaneità dei problemi che la storia delle relazioni internazionali odierne deve affrontare impongono una prima definizione di alcuni confini che debbono essere ben chiari anche quando vengono oltrepassati, anzi, soprattutto se vengono oltrepassati. È ben chiaro, in primo luogo, che questo campo di studi riguarda la ricerca storica, nei modi e con i caratteri che è necessario del pari precisare. Proprio per questo diviene anche necessario tenere presente la netta distinzione rispetto al campo tematico definibile come politica internazionale e rispetto all’altro campo tematico, che si definisce come teoria delle relazioni internazionali. La politica internazionale è un tema di interesse cruciale per la vita contemporanea ma appartiene alla storia solo dopo che essa si è manifestata e quando è possibile avere, sugli aspetti che la caratterizzano, una documentazione sufficientemente ampia e una visione magari non distaccata ma quanto meno meditata. Lo studio della politica internazionale è, in altri termini, cronaca dei fatti contingenti, considerati nel momento in cui essi accadono, nelle loro immediate premesse e nelle conseguenze che ne derivano o se ne possono desumere. Non è necessario per ora discutere se la politica internazionale abbia o meno un carattere di scienza. Ma se per scienza si intende conoscenza mediante criteri (o leggi) generali

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sufficientemente condivisi, la politica internazionale dovrebbe essere ricondotta nell’ambito della teoria politica o della scienza politica delle relazioni internazionali. Tuttavia il giudizio scientifico su eventi contingenti appare condizionato dall’impossibilità di controllare sincronicamente le informazioni in base alle quali un tema specifico viene considerato. Talché si sarebbe portati piuttosto a considerare la politica internazionale come occasione di proposte tematiche da approfondire con studi successivi. Alquanto più complesso è il rapporto con la teoria delle relazioni internazionali. A tale proposito è da osservare in via preliminare che molto spesso gli storici tendono a sentire una certa avversione rispetto a ogni tentativo di dare sistematicità al loro lavoro, basandolo su un profilo scientifico. Questo atteggiamento è avvertito in maniera forse più esasperata dagli storici delle relazioni internazionali. Wolfgang Justin Mommsen, nel descrivere i punti di contatto tra il sapere storico e il sapere derivante dalle scienze sociali, osserva che «soltanto nell’ambito della storia delle relazioni internazionali non si è ancora pervenuti sinora a una stretta collaborazione tra la scienza politica, con i suoi tentativi di sviluppare modelli teorici sistematici di relazioni statali, e la scienza storica»3. Un’osservazione, questa, fondata e parzialmente spiegabile, forse, con la difficoltà di cogliere nell’ambito della «scienza» delle relazioni internazionali un profilo teorico sufficientemente sedimentato al quale ricollegarsi. Tuttavia tale avversione, o riluttanza, se deve essere accompagnata da una precisa delimitazione dei metodi e degli obiettivi di lavoro, non 3 W.J. Mommsen, La storia come scienza sociale storica, in La teoria della storiografia oggi, a cura di P. Rossi, Milano 1987, p. 100.

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può lasciare indifferenti. Come le altre scienze sociali, la teoria delle relazioni internazionali è mossa dal progetto di definire «nomoteticamente», cioè nella forma di leggi scientifiche, le costanti che contraddistinguono le relazioni internazionali. In questa, come in tutte le scienze e, in particolare, nelle scienze sociali, resta aperta la questione di sapere sino a che punto tali categorizzazioni acquistino il valore di leggi scientifiche, cioè di proposizioni caratterizzate da capacità esplicativa e previsionale, o se non si tratti di ingegnosi ma astratti risultati della capacità della ragione di desumere da alcune regolarità comportamentali conseguenze tali da potersi configurare in «leggi» che interpretano la vita socio-politica. Per tutto il Settecento e l’Ottocento, osserva Edward Hallett Carr, gli scienziati pensarono che le leggi naturali «fossero state scoperte e formulate in maniera definitiva, e che pertanto il compito degli scienziati fosse quello di scoprire e formulare altre leggi analoghe, mediante un processo induttivo dall’osservazione dei fatti»4. Nel campo delle scienze sociali si pensò di adottare la stessa metodologia e un identico procedimento. Questo «bisogno» venne tanto più avvertito nell’ambito della teoria delle relazioni internazionali, rispetto alla quale la rapidità del cambiamento dei soggetti del sistema internazionale, l’improvvisa apparizione di fenomeni nuovi o l’attuazione di azioni impreviste, perché imprevedibili, rende ancor più difficile che per le scienze naturali la formulazione di generalizzazioni definibili come leggi. E proprio tale «bisogno» contribuisce ad accentuare la ricerca di ancoraggi concettuali meno sfuggenti rispetto a una realtà in sé troppo dinamica: con il risultato di dare a questo campo di studi la 4

E.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino 1966, p. 64.

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capacità, al più, di indicare nodi problematici particolarmente sensibili o concetti d’uso frequente dei quali appare utile suggerire definizioni coerenti. Da questo tipo di interesse deriva comunque la conseguenza che la teoria delle relazioni internazionali mira per definizione a occuparsi di temi valutati nei loro caratteri generali e costanti, più che di temi considerati nella loro specificità, spesso cronologica. Viceversa l’interesse dello storico è principalmente diretto verso temi, generali o particolari che siano, definiti da contorni precisi, rispetto ai quali si cercano spiegazioni, comprensioni, narrazioni. Il che porta nella direzione diametralmente opposta a quella lungo la quale si muove la teoria delle relazioni internazionali. Questa distinzione non deve tuttavia trarre in inganno e suggerire una specie di contrapposizione fra i due percorsi di lavoro, i quali si rispecchiano invece l’uno nell’altro, avendo ciascuno bisogno dell’altro per meglio operare. I teorici delle relazioni internazionali non possono trarre che dalla storia i casi concreti sulla base dei quali verificare le loro ipotesi normative; gli storici, che tanto spesso si illudono di essere guidati soprattutto dal loro buon senso o da quella che viene chiamata «l’intuizione storica», non si rendono conto di utilizzare, spesso senza nemmeno curarsi di definirli in senso rigoroso, concetti generali magari inconsapevolmente desunti dalla teoria. Oppure, seguendo un itinerario diverso, interagiscono con la teoria, considerandola, come dovrebbe accadere per tutte le scienze, la fonte alla quale attingere per formulare domande significative in relazione ai temi particolari che essi studiano. Si tratta dunque, come si vede, di visioni dalle diverse sfumature (ma forse non si tratta solo di sfumature) che solo il progresso del sapere riuscirà a attenuare, così da ren-

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dere possibile una dialettica più feconda, pur nei rispettivi confini, fra i due campi scientifici. 3. Storia e scienze sociali Diviene perciò necessario parlare del lavoro che compiono gli studiosi di storia; in particolare, di un settore della storia che non ha ancora, nemmeno esso, ben definito i propri confini (paradossalmente e ironicamente si potrebbe dire: che non deve darsi confini altro che sul piano logico) ma i cui protagonisti intendono come historia rerum gestarum. Il carattere scientifico del lavoro storico e il modo in cui tale scientificità si manifesterebbe sono argomenti così dibattuti che addentrarvisi troppo sarebbe come commettere un peccato di superbia. Si rischia di restare intrappolati in discorsi rispetto ai quali lo storico corre il pericolo di aggiungere solo considerazioni generiche su questioni che hanno, magari a fasi alterne, goduto di una grande attenzione da parte degli epistemologi. Nessuno sente il bisogno di aggiungere banalità a tematiche troppo ricche di trabocchetti concettuali. Tuttavia il punto non può essere trascurato. La «diffusa avversione da parte degli storici professionisti» verso gli esiti più recenti della tradizione speculativa è stata messa in rilievo da tempo come un limite paradossale che omette «questioni fondative sulla scientificità della disciplina»5. Infatti non si può eludere l’aspetto caratterizzante della storiografia moderna che, dopo avere cessato di essere, come nell’antichità e sino al Rinascimento, storiografia annalistica o apologetica, 5 G. Polizzi, Filosofia analitica e tempi storici, in «Nuova Corrente», 1999, pp. 404-405.

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già con Machiavelli e Guicciardini e, in termini più espliciti, con Vico, assunse i caratteri della scientificità storicistica e dopo di allora conobbe numerose versioni relative al carattere di tale scientificità. Lo storico comprende la storia poiché è lui stesso a forgiarla e a comprenderla. L’elaborazione del senso della storia fece poi grandi passi sul piano filosofico nel XVIII e nel XIX secolo, come racconto del passato organizzato sull’asse narrativo, descrittivo, assertivo, interpretativo, secondo le concezioni personali dei filosofi della storia che da Kant a Croce affrontarono il tema. O di chi, come Marx, affondò nella storia le radici di una concezione integrale della società, delle sue fondamenta economico-sociali, proiettate sul piano ideologico come il «manifesto» di un nuovo ordine politico (cfr. II. 2. 3.). Erano, tutti questi, squarci illuminanti rispetto a momenti più o meno vasti dell’interpretazione del passato. Ma anche momenti fortemente caratterizzati dall’impronta soggettiva che li condizionava, anche quando si autodefinivano come pensiero scientifico. Il dibattito più vicino agli sviluppi contemporanei venne avviato da Max Weber in diversi suoi saggi. Alla storia, egli sosteneva, spetta esclusivamente «la spiegazione causale di quegli ‘elementi’ e di quegli ‘aspetti’ [di un avvenimento], i quali rivestono da determinati punti di vista un ‘significato universale’ e perciò un interesse storico». Eventi individuali o sequenze complesse di fatti scelti non sulla base dell’intuizione ma «soltanto per la via dell’imputazione razionale di determinati fatti osservabili empiricamente a determinati processi forniti di significato culturale, con l’aiuto di enunciati generali o di teorie di diverso carattere». Weber polemizzava con sarcasmo con coloro che attribuivano alla storia il senso di un’operazione basata sul «fiuto» o «sul-

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l’intuizione» dello storico, ravvisando in questo la differenza tra la storiografia, nella sua natura scientifica, e le scienze naturali. La struttura logica della conoscenza esige invece che anche il sapere storico sia basato sull’astrazione «nel duplice senso dell’isolamento e della generalizzazione», senza fare ricorso a forme «artistiche» di conoscenza bensì arricchendo una realtà data «con l’intero tesoro del nostro sapere di esperienza a carattere nomologico, cioè a carattere derivante dall’individuazione delle leggi generali della società». L’intuitività soggettiva, secondo Weber, non può sostituirsi al sapere scientifico, cioè alla conoscenza mediante lo studio delle cause. Altrimenti lo «storico di minore statura [...] rimane una specie di impiegato subalterno della storiografia». Più ancora nettamente: Quando lo storico partecipa al lettore in forma espositiva, senza tener conto dei loro fondamenti conoscitivi, il risultato logico dei propri giudizi causali, «suggerendogli» il corso degli eventi anziché «ragionarlo» pedantescamente, la sua esposizione diventa un romanzo storico, e non sarebbe più una trattazione scientifica, se dietro alla veste esterna, scientificamente elaborata, mancasse il solido scheletro dell’imputazione causale. Soltanto questo scheletro viene preso in considerazione dall’asciutto procedimento della logica, poiché anche l’esposizione storica pretende di «valere» come «verità».6 6 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali (1922), Milano 1974, pp. 212-23; cfr. anche Mommsen, La Storia come scienza sociale cit., pp. 90-91. Il dibattito al quale si fa cenno nel testo è l’oggetto di una letteratura assai vasta. Basti in questa sede segnalare alcune opere: La storiografia contemporanea. Indirizzi e problemi, a cura di P. Rossi, Milano 1987; J. Ehrard, G. Palmade, Histoire de l’histoire, Paris 1964; G. Lefebvre, La storiografia moderna, Milano 1973; J. Topolski, La storiografia contemporanea, Roma 1981; P. Ricoeur, Tempo e racconto, 3 voll., Milano 1986-1988.

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Nell’affermare con tanto vigore il carattere scientifico della storia, Weber aveva presente soprattutto la scuola storica di Göttingen e l’opera del suo maggior rappresentante, Leopold von Ranke, secondo il quale compito dello storico è riferire «le cose come sono realmente accadute» (cfr. però I. 1. 5.). Questa categoria di conoscenza del reale storico veniva però spiegata da Ranke in riferimento alla disponibilità e alla scelta intuitiva di certe fonti da parte dello storico, secondo un criterio razionalistico, il che finiva per annettere al lavoro di quest’ultimo un aspetto così totalmente soggettivistico o politicizzato da negarne, per ciò stesso, il carattere scientifico. Ranke godette di grande prestigio per il rigore dei suoi studi e, come scrive Georges Lefebvre, per la sua capacità di «mantenersi piuttosto nella tradizione razionalistica», senza farsi influenzare «né dal simbolismo, né dall’influenza mistica, né dal romanticismo germanico»7. Dopo Weber e nei primi decenni del XX secolo, l’assunto di questo tipo di oggettività del lavoro storico venne contestato soprattutto in Germania da storici come Karl Lamprecht, che nella sua Deutsche Geschichte8 cercò di allargare l’interesse della sua analisi ai temi culturali e sociali; negli Stati Uniti dai new historians, che nella loro opera cercarono di aprirsi alle suggestioni delle scienze sociali; e più ancora in Francia da parte della cosiddetta scuola degli Annales, gli apostoli della rivista «Annales d’histoire économique et sociale», fondata nel 1929 da Lucien Febvre e March Bloch e rimasta a lungo, con Braudel, François Furet, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurie e, sul piano della storia delle relazioni internazio7 8

Lefebvre, La storiografia moderna cit., p. 257. K. Lamprecht, Deutsche Geschichte, 14 voll., Berlin 1891-1909.

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nali, Pierre Renouvin, la sede del dibattito più vivace per polemizzare con quel lavoro storico che veniva, con qualche sufficienza, descritto come mera histoire événementielle o histoire-bataille: una polemica che, ricorda Pietro Rossi, risaliva addirittura a Voltaire9. L’accusa era aspra: «Per gli storici narrativi la storia degli uomini è dominata da accidenti drammatici, dalle azioni di quegli esseri eccezionali che emergono occasionalmente, e che spesso sono padroni del proprio fato e ancor più dei nostri. E quando costoro parlano di ‘storia generale’, in realtà stanno parlando dell’incrociarsi di questi destini eccezionali, poiché ovviamente ciascun eroe deve confrontarsi con un altro. Come tutti sappiamo, è una fallacia deludente»10. Gli autori degli «Annali» (che dopo la Seconda guerra mondiale diedero vita alla École des Hautes Études en Sciences Sociales) nutrivano un profondo rifiuto verso la tradizione del racconto storico, che giudicavano soggettivo e personalistico ma soprattutto incapace di «spiegare» davvero il passato. Sebbene in un’accezione non chiaramente definita, l’esigenza della spiegazione veniva avvertita come un assillo, risolto in diverse direzioni: il tempo e lo spazio considerati come coordinate fondamentali del lavoro storico poiché tempi lunghi e localizzazione geografica possono, solo essi, dare una collocazione più esauriente; poi la rinuncia all’evanescenza delle categorie politiche intese in senso stretto e la ricerca delle «forze profonde» che trasformano la società, l’economia, il commercio, la demografia, l’opinione pubblica. La ricerca delle spiegazioni doveva svilupparsi in 9 P. Rossi, Introduzione a Id. (a cura di), La storiografia contemporanea cit., p. XII. 10 F. Braudel, Scritti sulla storia, Introduzione di A. Tenenti, Milano 2001, pp. 39-49.

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ogni direzione. Nel 1942, durante alcune conversazioni tenute mentre era prigioniero dei tedeschi, Braudel enunciava la sua ambizione: La storia che io auspico è una storia nuova, imperialista e anche rivoluzionaria, capace, per rinnovarsi e compiersi, di saccheggiare le ricchezze delle vicine scienze sociali; una storia, ripeto, che è profondamente cambiata, che ha fatto notevoli passi avanti, lo si voglia o no, nella conoscenza degli uomini e del mondo: in una parola, nell’intelligenza stessa della vita. La definirei una grande storia, una storia profonda. Una grande storia vuol dire una storia che punta al generale, capace di estrapolare i particolari, di superare l’erudizione e di cogliere tutto ciò che è vita, seguendo a suo rischio e pericolo le sue strade maestre di verità.11

È innegabile che queste posizioni, largamente condivise e diffuse, ebbero una grande influenza sul modo di affrontare il lavoro dello storico. Lo spinsero a un effettivo approfondimento in varie direzioni. In primo luogo costrinsero gli storici più attenti al senso del loro lavoro a levare lo sguardo dalle carte per guardare verso orizzonti più estesi; a capire che il particulare circoscrive un tema entro confini troppo angusti e che il passato offre tanti, infiniti spunti da prendere in considerazione. Spinsero altri storici a guardare ciò che le scuole più accademicamente paludate avevano trascurato: i fatti più semplici, gli aspetti più umili della vita quotidiana, la cultura materiale come elemento caratteristico di ogni fase della crescita civile di una società. Era come se da questo impulso potesse nascere un fiume interminabile di innovazioni, una storia nuova, capace di guardare da innumerevoli punti di vista e, in tal modo, di ricostruire il pas11

Braudel, Storia, misura del mondo cit., pp. 27-29.

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sato, mirandolo dal basso, con lo sguardo chino verso il terreno; o dall’alto, in una visione panoramica, tesa, in generale, a sospingere in secondo piano il profilo politico per far emergere quello socio-demografico. Il rifiuto della storiografia narrativa da parte degli «annalisti» era in gran parte dovuto alla ripulsa verso il modo convenzionale di «raccontare» la storia usato nella tradizione continentale europea e alla convinzione che questo modo portasse a «drammatizzare», a «romanzare» più che a offrire spiegazioni scientifiche di processi che essi giudicavano evanescenti, come quelli della politica: meri epifenomeni rispetto al reale. Stava in questa mentalità il pregio ma anche il limite della storiografia «annalistica». Del pregio si è detto. Il limite si rivelava in due sensi. In primo luogo, usciti di scena i primi innovatori, anche gli «annalisti» si adagiarono in un tradizionalismo in definitiva banale. Le loro opere troppo spesso ricalcano schemi consolidati: il luogo, lo spazio, la demografia, il commercio, l’opinione pubblica. Capitolo per capitolo, queste opere dipanano i loro temi, talora senza nemmeno comporli in unità, in modo scolastico, schematico, ripetitivo sino a divenire stucchevole e sino a dare l’impressione di un soggettivismo che trascura ogni innovazione non assorbita entro gli schemi della scuola e tale, molto spesso, da isolare fatti minori o anche fatti di grande portata, all’esterno delle grandi trasformazioni politiche frattanto avvenute, e dunque costruito in modo utile a proporre soprattutto un artificio espositivo di grande chiarezza ma praticamente astratto. Non tutti erano grandi storici come Bloch o Braudel e sarebbe ingeneroso elencare i seguaci. Il limite però rimane. L’altro aspetto del limite sta proprio nell’incapacità di fare i conti pratici con il tema detestato: l’esigenza di dare alla ricostruzione storica il carattere di narrazione.

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Anche senza condividere l’aspro giudizio dato dall’americano Hayden White, il quale riafferma la necessità del momento narrativo nel lavoro storico e giudica «puerilmente infondate» le ragioni addotte dagli «annalisti» per confutarlo12, resta ben evidente che l’esposizione dei risultati della ricerca storica senza narrazione o sulla base di una narrazione preventivamente adagiata in schemi precostituiti non appare persuasiva. L’approfondimento e l’ampliamento degli orizzonti non possono circoscrivere la necessità da parte dello storico di rendere conto del maggior numero possibile di variabili e di farlo in maniera comprensibile e logicamente strutturata per tutti i lettori. Sebbene la parola «spiegazione» appaia spesso negli autori della scuola degli Annales, in effetti l’assunzione di schemi soggettivamente preordinati non contribuisce a sollevare lo storico dall’arduo compito di scegliere scientificamente quali fra gli innumerevoli eventi che caratterizzano la vita dell’umanità e il mutare della natura delle cose siano classificabili come «fatto storico». Tutto il passato è storia ma esso rientra nella storiografia quando viene riconosciuto come «fatto storico» da chi si propone di spiegare, comprendere o narrare quanto lo storico si propone di circoscrivere nell’ambito dei propri interessi e senza scordare ciò che in un suo romanzo ha scritto Milan Kundera: «Oggi la storia non è ormai che un filo sottile di memoria sopra l’oceano del dimenticato»13. Alcune date segnano però una svolta radicale in questo processo di presa di coscienza della natura del lavo12 H. White, La questione della narrazione nella teoria contemporanea della storiografia, in Rossi (a cura di), La teoria della storiografia oggi cit., pp. 45-46. 13 M. Kundera, Lo scherzo, Milano 1987, p. 330.

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ro scientifico e, nel suo ambito, di quello storico. Nel 1902, Jules-Henri Poincaré, nel suo saggio La science et l’hypothèse, affermava che, fatta eccezione per le definizioni, le «leggi scientifiche» non sono altro che ipotesi destinate a cristallizzare e organizzare la ricerca da compiere: di conseguenza soggette a verifica, modificazione, confutazione. Nel 1921 Albert Einstein (che nel 1905 aveva enunciato nell’ambito della fisica la teoria della relatività) diceva, in una sua conferenza all’Accademia delle Scienze di Berlino: «Nella misura in cui si riferiscono alla realtà, le leggi della matematica non sono certe, e nella misura in cui sono certe, non si riferiscono alla realtà». Nel 1927 un altro fisico, Werner Heisenberg, formulava il principio di indeterminazione, il cui significato più profondo consisteva nell’affermazione dell’impossibilità metodologica di affermare, con rigore operativo, se nel mondo microfisico vigano o meno leggi ineccepibili e causali14. Erano, queste, solo alcune delle espressioni della trasformazione che il pensiero scientifico conobbe tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo. Altre due date segnano però una svolta radicale in questo processo: il 1942 e il 1962. Nel 1942, mentre il mondo era in preda alla guerra, un epistemologo americano, Carl Gustav Hempel, pubblicava un saggio intitolato The Function of General Laws in History; nel 1962 un altro americano, Thomas Kuhn, pubblicava un saggio, divenuto poi classico come paradigma per l’analisi del progresso scientifico, dal titolo The Structure

14 J.-H. Poincaré, La science et l’hypothèse, Paris 1902, pp. 202203; le altre citazioni sono tratte da: E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. 1918-1999, Roma-Bari 2000, pp. 1401-1402.

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of Scientific Revolutions15. Si tratta di due contributi che pongono le basi del pensiero contemporaneo in materia, integrandosi e, al tempo stesso, contrapponendosi. Il saggio di Hempel, inserito nel contesto del neopositivismo di Karl Popper, che accentua il carattere ipotetico, relativistico e probabilistico della conoscenza scientifica, trasferiva il dibattito sul piano delle scienze sociali e, in particolare, della storia. Il problema di fondo era quello di conciliare l’affermata unità logica e metodologica delle scienze con la preoccupazione di salvare, anche sul piano interpretativo, la nozione di libertà dell’agire umano, il che è stato fatto sottolineando il carattere indeterminato di tutte le leggi16. Hempel si inseriva autorevolmente in questa discussione affermando la necessità di costruire un modello nomologico-deduttivo della spiegazione storica, cioè l’esigenza che le spiegazioni storiche siano basate, in quanto scientifiche, su leggi generali. Ma la difficoltà di indicare «quali» leggi generali siano collegabili all’analisi storica aprì la strada a una serrata diatriba alla quale diede un contributo di rilievo un volume di William Herbert Dray, Laws and Explanation in History17, che riprese il dibattito suscitato dalle tesi di Hempel, contrapponendo alla nozione di «spiegazione» mediante leggi generali la teoria che compito dello storico fosse quello di 15 C.G. Hempel, The Function of General Laws in History, in «The Journal of Philosophy», 1942, pp. 35-48; T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1969. 16 Su questo dibattito cfr.: A. Salsano, Storicismo e neopositivismo in «History and Theory», in «Studi storici», 1968, pp. 340-42. 17 W.H. Dray, Laws and Explanation in History, Oxford 1957. Cfr. anche, in antitesi: T. Abel, The Operation Called «Verstehen», in «American Journal of Sociology», 1948, ora in Readings in the Philosophy of Sciences, a cura di H. Feigl, M. Brodbeck, New York 1953, pp. 677-87.

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comprendere (verstehen), più che spiegare i fatti storici. L’interesse dello storico sarebbe infatti non già quello di comporre o spiegare un determinato evento all’interno di una classe generale di eventi appartenenti al medesimo ambito scientifico ma quello di comprendere gli aspetti particolari di eventi specifici. Perciò la storiografia mostrerebbe «come», a certe condizioni, determinati eventi si siano verificati, «ma non può mostrare ‘perché’ siano necessariamente accaduti così come sono accaduti»18. Come osserva Rossi, la critica di Dray a Hempel (come quella di altri autori) si muoveva pur sempre sul terreno della stessa impostazione, «cioè sul terreno di una teoria della storiografia che assume come centrale il problema della spiegazione»19. L’appannarsi (ma non la scomparsa, poiché il tema della spiegazione resta centrale nella storiografia) dell’impostazione hempeliana aveva le sue fondamenta nell’opera di Kuhn. Sarebbe limitativo circoscrivere la portata di quest’opera al campo delle scienze della natura. L’epistemologo americano affronta il tema del valore di tutte le spiegazioni scientifiche, comprese quelle appartenenti alle scienze sociali. La sua tesi di fondo è che in tutte le scienze sia presente un elemento arbitrario «composto di accidentalità critiche e personali». La nozione fondamentale che egli sostiene consiste nell’affermazione che ogni scienza sia un complesso di nozioni condivise, e perciò paradigmatiche, elaborate dalla comunità scientifica come «scienza normale». L’acquisizione di uno statuto paradigmatico significa che un determinato campo scientifico ha raggiunto un suo grado di maturità: anche nel18 19

Rossi, Introduzione cit., p. X. Ivi, p. XI.

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le scienze sociali, sebbene, secondo Kuhn, in misura più circoscritta. L’evoluzione delle conoscenze scientifiche avviene mediante il lento adattamento delle concezioni paradigmatiche. Quando determinati paradigmi vengono smentiti sul piano sperimentale, una serie di nozioni scientifiche entra in crisi e la risposta alla crisi è l’elaborazione di nuovi paradigmi che, in ogni campo del sapere, si sostituiscono come «scienza normale» alle nozioni preesistenti. Un paradigma si afferma in virtù della sua attendibilità scientifica. Un ambito scientifico esiste nella misura in cui la comunità degli studiosi che lo frequenta può scegliere tra paradigmi diversi ma si ritrova a convergere attorno alle innovazioni più efficaci. Basti pensare alle rivoluzioni avvenute nel campo della spiegazione fisica, chimica, nelle scienze naturali o in alcune scienze sociali (come l’economia dove, a titolo di esempio, il paradigma rappresentato dalla teoria dei costi comparati è un punto di riferimento costante, mentre quelli legati all’uso delle materie prime nel processo produttivo non fanno che subire frequenti innovazioni) per comprendere come il contributo di Kuhn all’affermazione di una mobilità del sapere scientifico sia rilevante. Se le spiegazioni avvengono sulla base di leggi che mutano il loro valore paradigmatico, quali leggi assumere come base per la spiegazione in storiografia e anche per la comprensione? Scaturiva da questo dibattito il riorientamento della teoria storiografica verso il narrativismo, inteso in senso nuovo, cioè tale da integrare e superare la difficoltà posta dalle tesi di Kuhn, divenute esse stesse un paradigma per la ricerca scientifica (ricerca storiografica compresa). È difficile negare che nel lavoro storiografico si faccia uso, più o meno consapevole, di concetti elaborati

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nell’ambito delle altre scienze sociali, anche se ciò non significa unificazione delle scienze. Del resto, che in ogni campo del sapere il momento sperimentale abbia bisogno di un continuo riferimento ai modelli teorici è altrettanto innegabile (basti pensare alla prossimità del lavoro di un fisico sperimentale con quello di un fisico teorico). Modelli e teorie hanno, nell’ambito della ricostruzione storiografica, ovvero in quello riguardante l’applicazione di una legge scientifica a un caso particolare, una funzione euristica poiché consentono l’individuazione di domande significative da rivolgere al materiale (fonti, riflessioni, fantasia, intuizione) di cui si dispone. Come rileva Mommsen, «numerosi ambiti oggettivi di ricerca storica possono essere definiti soltanto per mezzo del ricorso a teorie o modelli provenienti dalle scienze sociali»20. White si è spinto oltre sul piano della specificazione della funzione narrativa in storiografia. Senza riprendere la complessità dell’argomentazione proposta da White, il quale si propone anche di contestare le tesi post-strutturaliste di Roland Barthes e Michel Foucault, che riducono la narrazione a «imitazione» del reale, la prassi permette di osservare che il discorso storico viene prevalentemente costruito sulla base di una serie di proposizioni logiche. In altri termini, un insieme di proposizioni logicamente connesse affida alla «logica» (come procedimento discorsivo) il compito di elaborare «messaggi», cioè rappresentazioni sintetiche di ciò che si intende per realtà storica. I fatti nella loro totalità e i singoli eventi debbono essere logicamente compatibili gli uni con gli altri: il discorso storico acquista la valenza di «messaggio» affidato alla coerenza della costru20

Mommsen, La storia come scienza sociale storica cit., p. 101.

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zione del discorso. Esso non è la «verità» della storia, poiché questa sfugge alla capacità dell’uomo di ricostituirla, ma un veicolo, uno strumento di informazione che rischiara il passato21. Questi temi, non sempre familiari per gli storici di professione, sono invece al centro della discussione dei filosofi della scienza e, in particolare, di coloro che si occupano di antropologia, semiologia, filosofia del linguaggio. Essi possono apparire ostici per uno storico di professione e per la sua personale consuetudine. Resta tuttavia il fatto che lo spessore di ogni discorso solo autolimitandosi può sottrarsi ai problemi metodologici. Lo storico deve conoscere i limiti, la direzione e il carattere del proprio lavoro. Deve sapere che se non riuscirà mai a riprodurre la realtà del passato22, vorrà forse spiegarla, se riesce a trovare le regole generali che gli consentono di seguire tale procedura; comprenderla, ma al tempo stesso indicare il senso di tale comprensione; oppure narrarla, essendo cosciente di esporsi a tutti i rischi connessi alla creazione soggettiva, alle regole della narrazione, alla portata del rapporto tra segni linguistici e significati, misurando i limiti entro i quali egli vorrà dare un carattere artistico o romanzesco o meramente cronachistico alla sua narrazione. Ma, qualora scegliesse questa strada, lo storico dovrebbe comunque essere

21 H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, Baltimore 1973, pp. 150 e sgg.; inoltre gli otto saggi dello stesso autore in The Content of the Form. Narrative Discourse and Historical Representation, Baltimore 1987. 22 La posizione più netta in tal senso è quella esposta in F.R. Ankersmit, Narrative Logic. A Semantic Analysis of the Historian’s Language, The Hague-Boston-London 1983 e in numerosi altri scritti di questo autore.

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conscio dell’estremo soggettivismo delle sue narrazioni. Eludere queste alternative non è impresa facile. Un importante contributo verso l’approfondimento di questo tema è stato offerto di recente da un autore italiano, Giovanni Mari23. La sua ricerca «si presenta come una discussione della dialettica tra eternità della narrazione e temporalità della spiegazione»24. «La narrazione», scrive Mari, «sottrae eternamente il narrato dall’oblìo ma [...] vi riesce perché vi è almeno una spiegazione che intende capire quel narrato. A sua volta, la spiegazione temporalizza quell’eternità spiegandola in un certo modo, finché un’altra spiegazione non la temporalizzerà di nuovo spiegandola in maniera diversa, e così per sempre finché ci saranno spiegazioni che vorranno di nuovo capire quel narrato»25. Attingendo alla sintesi proposta da Gaspare Polizzi, secondo Mari «l’opera storica sarebbe costituita da tre aspetti connessi: la narrazione (espressione di un tentativo immemoriale, e tuttavia costitutivo del bisogno degli uomini di dar ‘senso’ alla propria esistenza), la spiegazione (che richiama la dimensione critica e scientifica della storiografia) e la cronologia»26. La narrazione, oggettivizzata e consegnata a un testo scritto, resta come documento permanente di un certo modo (soggettivo e, forse, autoreferenziale) di esplicitare, spiegare o comprendere un momento storico. La spiegazione, intesa in un senso ampio, cioè come rinvio sia a un sapere nomologico sia ad altri collegamenti che, magari soggettivamente, lo storico istituisce, offre il terreno sul quale, secondo i paradigmi che G. Mari, Eternità e tempo nell’opera storica, Roma-Bari 1997. Così la definisce Polizzi, Filosofia analitica cit., p. 408. 25 Mari, Eternità e tempo nell’opera storica cit., p. 6. 26 Ivi, p. 7. Cfr. Polizzi, Filosofia analitica cit., p. 408. 23 24

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gli storici, talora artigianalmente, fanno propri nel loro lavoro, viene messa alla prova, come elemento di convalida della narrazione. La cronologia suggerisce la possibilità di collocare in un determinato arco di tempo, e secondo la sequenza conosciuta dallo storico, l’evento o il personaggio che sta al centro della sua attenzione. La spiegazione rientra nell’ambito dei concetti complessi o delle teorie confutabili, verificabili e riadattabili secondo il procedere delle informazioni o delle teorie che la sostengono, ovvero secondo l’avanzamento delle formule paradigmatiche sufficientemente condivise che mutano con il passare del tempo. Così, ciò che è stato narrato e resta nel tempo può venir integrato o sostituito da nuove letture degli stessi eventi. Questo modo di operare, che si può classificare come «revisionismo», si integra nel modo di intendere epistemologicamente il lavoro dello storico. Infatti lo storico compone il suo lavoro in maniera puramente empirica solo nei casi di completa «ingenuità» metodologica. Quando, viceversa, egli tende a, o intende, rendersi conto del senso e della direzione del proprio operato, allora accanto alle «fonti» egli utilizza una serie di categorie concettuali che appartengono al campo delle scienze sociali e rimane legato all’evolvere di queste scienze; utilizza una serie infinita di spunti che gli consentono di guardare al tema studiato, tenendo presenti quante più variabili sia possibile integrare in ciò che, per definizione, resta un frutto eterno in sé ma provvisorio rispetto al narrato. 4. L’autonomia della storia delle relazioni internazionali Le ragioni che legittimano una trattazione autonoma della storia delle relazioni internazionali rispetto alla sto-

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ria generale sono radicate nel tempo; tuttavia, solo nella stagione più recente esse hanno acquistato un’evidenza così chiara da far sì che nessuno possa più considerare la propria isola operativa come un terreno chiuso da alti steccati, distaccato rispetto a ciò che accade fuori di essi. Dal momento in cui si studiano le esplorazioni, il commercio internazionale, la colonizzazione, la finanza globale, i temi dello sviluppo disuguale e della fame nel mondo, quelli della globalizzazione o, su un piano più specificamente politico, i problemi dei grandi conflitti mondiali, la storia della «guerra fredda», quella della decolonizzazione e quella delle grandi organizzazioni internazionali, l’aspetto internazionale di ogni tema si pone (anzi si impone) di per sé, senza quasi nemmeno il bisogno di argomentarne la portata. I temi internazionali divengono un argomento autonomo per la ricerca, poiché si avverte il fatto che ogni problema acquista, se guardato da un punto di vista internazionale, un aspetto diverso. Per esemplificare con un luogo comune, il processo di unificazione dell’Italia fra il 1859 e il 1861 viene interpretato in modo diverso se lo si considera come il risultato dell’azione del conte di Cavour o, più appropriatamente, come un momento della revisione dell’assetto europeo secondo i progetti delle grandi potenze del tempo (di Napoleone III in primo luogo). Esiste, in altri termini, una realtà internazionale che richiede di essere guardata come qualcosa che accompagna e, spesso, condiziona anche le piccole, o grandi, vicende interne di ogni gruppo sociale. Esiste un «sistema internazionale» caratterizzato da suoi propri aspetti, tali da poter essere isolati, quanto meno sul piano dell’astrazione, rispetto ai temi interni e tali da essere condizionati da azioni e reazioni proprie, cioè tipiche del loro essere prima internazionali che interne, oppure, in ogni caso, tipicamente

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plasmate dalla dimensione internazionale. Si apre un campo di ricerca abbastanza nuovo, al quale buona parte della tradizione storica non è stata molto sensibile o verso il quale si è guardato spesso, in passato, come a una mera propaggine della vita interna degli Stati, solo occasionalmente vissuta nelle relazioni con altri soggetti internazionali. Una lenta evoluzione è stata però necessaria, sul piano del lavoro storiografico, prima che si giungesse a definire modi nuovi per affrontare lo studio storico delle relazioni internazionali. Una lenta evoluzione che forse è ancora lungi dall’essere compiuta, visto il panorama non sempre confortante del metodo seguito, nel loro lavoro, da alcuni storici tradizionalisti e tenuta presente la necessità di stabilire le distanze rispetto a un certo tipo di semplificazione storiografica, talora affidata alle «clamorose scoperte», frequenti in ambito divulgativogiornalistico. Ma forse l’antinomia può essere superata eludendo ogni giudizio di merito su queste osservazioni, salvo chiarire che tra il lavoro storiografico e il lavoro del divulgatore o del cronista corre una netta distinzione. Giuseppe Pontiggia suggerì a questo proposito una icastica classificazione quando definì i «divulgatori-intrattenitori» come «turisti della storia»27. Questa lenta evoluzione ebbe inizio contemporaneamente alla nascita dello Stato moderno, tra la fine del XV secolo e il XVII secolo. Non esistevano, prima di allora, relazioni diplomatiche (cioè internazionali) stabili fra i paesi d’Europa e, da principio, solo nell’Italia della seconda metà del Quattrocento (dalla pace di Lodi del 1454 alla discesa in Italia dell’esercito francese guidato da Carlo VIII nel 1494) le caratteristiche del27

G. Pontiggia, I classici in prima persona, Milano 2006.

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la «politica di equilibrio» favorirono la nascita di una prassi che poi avrebbe avuto grande risonanza. In quei decenni, i cinque principali Stati italiani (lo Stato pontificio, la Repubblica di Venezia, il Ducato di Milano, la Signoria dei Medici a Firenze e in Toscana, il Regno di Napoli) avvertivano con forza l’esigenza di tutelarsi rispetto alle ambizioni espansionistiche così frequenti nei loro rapporti e proprio per questo motivo percepivano la necessità di conoscere meglio ciò che accadeva presso le rispettive corti o nell’ambito dei rispettivi ceti dirigenti. Nasceva da queste esigenze l’idea di inviare dapprima missioni temporanee e poi rappresentanze permanenti, che da ciascuno dei principati italiani riferissero al proprio governo degli umori di corte o dell’andamento delle trame politiche, dei commerci e delle finanze: insomma che riferissero quelle notizie che si giudicavano utili per ispirare la condotta dei rispettivi mandanti. Erano, in nuce, le prime rappresentanze diplomatiche. La prima missione permanente della quale si abbia conoscenza fu quella stabilita a Genova nel 1455 dal duca Francesco Sforza, signore di Milano. Nel 1460 il duca di Savoia inviò un suo rappresentante permanente a Roma, presso la Corte pontificia; nel 1496 la Serenissima accreditò due mercanti allora residenti a Londra come sub-ambasciatores, adducendo il motivo che «la via per le isole britanniche era molto lunga e molto pericolosa»28. Ermolao Barbaro, celebre umanista e ambasciatore veneziano presso la Santa Sede per un anno, durante il pontificato di Innocenzo VIII, fra il 1490 e il 1491 tracciò, nel suo trattato De officio legati, una definizione molto efficace del compito degli amba28

Cfr. H.G. Nicolson, Storia della diplomazia, Milano 1995, p. 23.

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sciatori scrivendo che essi erano inviati nelle varie sedi «ut ea faciant, dicant, consulent et cogitent quae ad optimum suae civitatis statum et retinendum et amplificandum pertinere posse judicent»29. Non sorprende dunque che in tali funzioni fossero via via utilizzati gli esponenti più in vista della vita culturale di ogni principato: Ludovico Ariosto, Baldassarre Castiglione, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori e, il più famoso di tutti, Niccolò Machiavelli, che all’inizio del XVI secolo venne inviato dai Medici in Germania e in Francia e tracciò un quadro delle sue missioni in due rapporti dal titolo rispettivo Ritratto delle cose della Magna e Ritratto delle cose di Francia30. Questa prassi venne seguita dagli altri governi europei e, nel volgere di pochi decenni, si trasformò nella nascita di un «corpo diplomatico», cioè in un gruppo di inviati speciali, residenti in modo permanente presso le corti o i governi dove erano accreditati e incaricati di svolgere quel lavoro di informazione di cui scriveva Ermolao Barbaro, ma anche un lavoro più sottile, di tessitura dei contatti, di rappresentanza degli interessi e di mediazione nei casi di conflitto, propri della diplomazia. Durante le loro missioni e soprattutto alla fine del mandato loro affidato, questi diplomatici redigevano lunghi rapporti circa la loro esperienza. Era un «genere letterario» alquanto speciale, nel quale si distinsero, ac29 Cfr. D. Santarelli, La nascita del legato «residente». Diplomazia e politica in Italia tra Quattrocento e Cinquecento, in «Storia del mondo», 5 luglio 2004. In italiano la massima può suonare come segue: «Affinché facciano, dicano, diano consigli, riflettano su ciò che può giovare a consolidare e rafforzare la condizione dei loro stati». 30 Ora in N. Machiavelli, Arte della guerra e scritti politici minori, 2 voll., a cura di S. Bertelli, Milano 1961, vol. II, pp. 195-206, 209215.

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quistando un meritato prestigio, gli ambasciatori della Repubblica di Venezia, autori di veri e propri rendiconti dei problemi politici, economici, commerciali e sociali dei paesi presso i quali essi erano stati accreditati31. Quelle relazioni e, più in generale, le relazioni dei diplomatici del tempo, divennero una prima fonte di storiografia abbastanza generalizzata, soprattutto da quando Ranke ne colse il valore informativo e ne fece uso per ricostruire a suo modo la storia della politica internazionale (ma non solo di quella). Esse erano già state utilizzate da scrittori politici come il Machiavelli e il Guicciardini, il primo nelle Istorie fiorentine, ultimate nel 1525 e pubblicate postume per la prima volta in otto «Libri» a partire dal 1532; il secondo nelle Storie fiorentine del 1507 e nella sua ultima fatica storiografica, la Storia d’Italia, dalla morte di Lorenzo de’ Medici nel 1492 fino all’assedio di Firenze del 1530, che egli scrisse in tre successive versioni e non completò prima della morte, avvenuta nel 1540. L’opera, basata sulle carte dell’archivio fiorentino, del quale il Guicciardini poteva disporre largamente, portandosi a casa i documenti che gli servivano per il suo lavoro, venne pubblicata per la prima volta nel 1561. I pensatori del Rinascimento, abbandonata l’idea che in ogni vicenda umana vi fosse un intervento provvidenziale, intesero la storiografia come analisi delle azioni, dei caratteri e degli interessi degli individui, invece che come frutto dell’intervento divino32. 31 Sulla corrispondenza degli ambasciatori veneti esiste una vasta letteratura. In questa sede è sufficiente rinviare a: A. Ventura, Introduzione a Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, 2 voll., RomaBari 1980, con ricca bibliografia. 32 Cfr. su questi concetti: L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano 1970, vol. II, pp. 123-25.

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La storiografia basata su queste fonti potrebbe essere considerata un embrione di storia delle relazioni internazionali, per la ricchezza delle informazioni che essa riusciva a fornire. Tuttavia l’uso dei dispacci e la loro natura rappresentano un limite critico fondamentale rispetto a qualsiasi concezione più moderna. Gli autori erano spesso letterati, attenti non solo alla sostanza ma anche alla forma della loro descrizione (e questo non era certamente un difetto); essi scrivevano di ciò che avevano visto o sentito di prima mano, cioè offrivano ai loro destinatari, oppure ai loro lettori, un’interpretazione quanto mai unilaterale e «artistica» o «artigianale» della loro attività e delle cose di cui parlavano. Anche quando erano nutriti, come nel caso dei due autori italiani appena citati, di un profondo pensiero politico, tale da essere assunto come paradigma dei primi scritti di scienza politica, non avevano se non una occasionale e asistematica conoscenza delle vicende descritte. Appartenevano al mondo degli uomini di lettere, o a quello degli ecclesiastici di rango, o all’aristocrazia. Di conseguenza avevano una visione condizionata dalla loro collocazione sociale, che circoscriveva il senso del loro lavoro. I loro dispacci, nella ricchezza di colore e acume che esprimevano, potrebbero essere considerati come primi esempi di «narrazione» interpretativa della storia delle relazioni internazionali. A mutarne l’efficacia in tale direzione e a delimitarne le potenzialità sopraggiunse l’evoluzione del sistema degli Stati europei, dal quale ebbe origine un diverso modo di essere della vita internazionale, ovvero il «concerto europeo», costruito anch’esso sulla politica di equilibrio (justum potentiarum aequilibrium) e sull’insieme dei principi definiti con le paci di Westfalia del 1648 e nati dal confluire di molteplici esigenze e da con-

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cezioni eterogenee. In effetti l’invasione dell’Italia da parte dei francesi nel 1494 aveva segnato, come è ben noto, l’inizio dell’aspra lotta per l’egemonia in Europa fra l’Impero asburgico, pur anche dopo la sua divisione dalla Spagna, e la Francia. Questa lotta, accomunatasi poi alle tensioni sorte sulla scia della riforma protestante, aveva caratterizzato la vita europea per un secolo e mezzo. Essa aveva altresì accompagnato il rafforzamento delle strutture dei poteri statali, reso tanto più necessario dalle ragioni di guerra ma anche dal procedere dei metodi amministrativi e fiscali. In quei decenni, si può dire, era nato in Europa lo Stato moderno, inteso come potere non legittimato dall’autorità papale o imperiale, dotato di un sistema normativo autonomo e adeguato a affrontare una sorta di modernizzazione delle burocrazie statali. La guerra dei Trent’anni (16181648) e i trattati di Westfalia (cioè di Münster e di Osnabrück, del 24 ottobre 1648), pur senza formalizzare l’estinzione dei poteri imperiali, di fatto creavano in Europa un gruppo di grandi potenze impegnate a mantenere un certo equilibrio continentale o, quanto meno, a ricercare e trovare le regole di un nuovo jus gentium adatto a regolamentare i rapporti fra gli Stati anche su un piano diverso da quello della mera politica di potenza. Si trattava, in altri termini, di definire norme fornite di legittimità e tali, al tempo stesso, da assicurare che le relazioni fra Stati fossero caratterizzate da criteri di giustizia. L’ordine creato dai trattati di Westfalia era perciò alquanto divergente rispetto al disordine dei secoli precedenti e fu basato su principi rimasti validi, in teoria se non in pratica, sino alla Prima guerra mondiale. Sulla base di questi concetti non sarebbero più esistite entità politiche subordinate alla potestà imperiale ma solo

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Stati, di varia grandezza, eppur giuridicamente uguali, cioè superiores non reconoscentes. Si poneva, allora per la prima volta, in termini giuridico-politici un problema che avrebbe sempre condizionato la vita della comunità internazionale, vale a dire la nozione dell’uguaglianza di tutti gli Stati dinanzi al nascente diritto internazionale e, in senso opposto, l’evidenza della diversità fra gli Stati, se considerati dal punto di vista della politica di potenza. Dal 1648 in poi, uomini di governo, diplomatici, scrittori di politica e storici affermarono infatti «in diritto» il principio dell’uguaglianza di tutti gli Stati: grandi e piccoli, tutti caratterizzati da uguali prerogative formali e diplomatiche e tutti immuni da ingerenze esterne. Per avvalorare questi concetti si manifestò allora una grande operosità storiografica e giuridica, dalla quale sarebbe scaturito per lungo tempo, perdurando anche nell’età contemporanea, un certo determinato modo di guardare a ciò che gli Stati facevano sul piano internazionale. Questa attività si sviluppò lungo due filoni: uno che si potrebbe definire di filosofia del diritto internazionale e un altro che si potrebbe definire di storia e documentazione della diplomazia. Sulla scia di quanto avevano scritto prima Alberico Gentili, il giurista marchigiano che la regina d’Inghilterra aveva nominato professore a Oxford, e che nel 1598 aveva pubblicato la sua opera De jure belli, poi Ugo Grozio, che nel 1625 aveva scritto il suo De jure belli ac pacis e, dopo di loro, Christian Wolff e Samuel Pufendorf, nel 1758 Emmerich de Vattel pubblicava la sua opera classica Le droit des gens nella quale, collegandosi esplicitamente alla nozione di diritto naturale, affermava: «Le Nazioni composte di uomini, e considerate come altrettante persone libere che vivono insieme nello stato di natura, sono natural-

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mente eguali e tengono dalla natura le stesse obbligazioni e gli stessi diritti; la potenza e la debolezza non producono a tal uopo alcun divario». E ancora: «Da questa libertà e indipendenza s’intuisce che spetta a ciascuna nazione di giudicare di ciò che la sua coscienza da lei esige, di ciò che ella può o non può, di ciò che le conviene o non le conviene»33. 5. La specificità delle fonti Sul piano filosofico-giuridico veniva dunque affermata con energia l’uguaglianza naturale delle nazioni e lasciato a ciascuna di esse il compito di definire i limiti entro i quali restringere la propria attività internazionale. Sul piano della documentazione e della storia della diplomazia veniva parallelamente avviata un’ampia esplorazione che portava verso la direzione opposta. Proprio per legittimare e condizionare a norme definite l’azione internazionale degli Stati si cercava di dare a questa un fondamento storico basato sulla documentazione di ciò che la tradizione o i testi elaborati in passato insegnavano. Dapprima vi fu una pubblicazione occasionale di documenti pontifici o del testo dei trattati di Westfalia; seguì la prassi di redigere, anche manoscritte, raccolte di documenti riguardanti un determinato problema, «quando si riteneva necessario avere sottomano una certa documentazione per facilitare l’opera dei negoziatori», per richiamarsi a qualche precedente o «per risolvere molti problemi di redazione facendo ricorso a formule già usate in atti precedenti». L’esigenza di tener 33 E. de Vattel, Le droit des gens, ou principes de la loi naturelle, 2 voll., London 1758.

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conto «del crescente interesse del pubblico per i problemi di carattere politico», ma di farlo non in termini filosofico-letterari bensì secondo un atteggiamento scientista, che giudicava preliminare la conoscenza della documentazione diplomatica per avere un’adeguata comprensione della vita politica del tempo, creava il «mercato» per raccolte a stampa meno frammentarie, tali da consentire dibattiti di più alta qualità. E in questo clima nasceva la prassi di pubblicare grandi raccolte di trattati che, in misura sempre più vasta, si diffuse nella seconda metà del Seicento sino a diventare, in vario modo e con intenti diversi, una prassi costante. Il primo editore di una raccolta monografica fu Frédéric Léonard, stampatore ufficiale di Luigi XIV re di Francia, che nel 1683 pubblicò una collezione di documenti concernenti le guerre d’Olanda dal 1672 al 1678 (trattati di Nimega). Lo stesso editore, visto il successo commerciale della sua prima opera, pubblicò nel 1693 in sei volumi una raccolta dei trattati stipulati dal re di Francia. Dopo di lui pubblicarono raccolte di trattati e documenti Leibniz, Jacques Bernard, Thomas Rymer e altri, sinché all’inizio del Settecento si mise all’opera lo storico francese Jean Dumont, che fra il 1726 e il 1731 pubblicò in otto volumi di gran pregio grafico un Corps universel diplomatique du droit des gens, nel quale erano raccolti trattati d’ogni genere e documenti stipulati dopo il regno dell’imperatore Carlo Magno, un’opera che Mario Toscano definisce come «il prodotto più completo della storiografia erudita nel settore della ricerca delle fonti attinenti ai rapporti fra gli Stati», ancor oggi normalmente consultata dagli studiosi. Questo immenso lavoro, seguito da un gran numero di ulteriori esempi, venne ripreso e continuato da uno studioso tedesco, Georg Friedrich von Martens, professore del-

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l’Università di Göttingen, che, a partire dal 1791, iniziò a pubblicare una serie di Recueils dal titolo quanto mai lungo (come del resto lo era stato quello della raccolta di Dumont) che si proponevano di costituire un corpus, il più completo possibile, di testi e poi di aggiornare l’opera dello stesso Dumont. La fatica di von Martens venne poi continuata dai suoi eredi e successori sino al 1942, in parecchie decine di volumi, divenuti un repertorio classico per l’epoca e anche per la storia contemporanea (documentata sino alle fonti relative al 1908). Dopo la collezione di von Martens, la pubblicazione dei documenti non venne più affidata a privati ma assunta in proprio dai governi che la trasformarono o in fonte generale di storiografia o in occasione per documentare (e spesso giustificare) le loro scelte internazionali34. Il governo britannico adottò nel 1814 la consuetudine di accompagnare le maggiori crisi diplomatiche nelle quali era coinvolto da ponderose raccolte di Papers destinate in primo luogo alle Camere britanniche ma che divennero fonte preziosa per gli studiosi35. Era la prima serie dei cosiddetti «libri di colore», cioè di collezioni di corrispondenza diplomatica che ogni governo si impegnò a pubblicare, con copertine dal colore diverso, tali da caratterizzare la loro provenienza (quelli italiani furono i «libri verdi»), sebbene poi la consue34 Un’indicazione completa e accurata di queste raccolte si trova nel volume: M. Toscano, Storia dei trattati e politica internazionale, vol. I, Parte generale. Introduzione allo studio della «Storia dei trattati e politica internazionale». Le fonti documentarie, Torino 1963, pp. 59-93. Da queste pagine sono attinte anche le citazioni qui alle pp. 37-38. 35 Un elenco completo di queste raccolte (o Blue Books, come vennero chiamate a causa del colore della loro copertina) si trova in H. Temperley, L.M. Penson, A Century of Diplomatic Blue Books, 18141914, London-Cambridge 1938.

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tudine di pubblicare fonti relative a temi internazionali o anche a questioni politiche di varia importanza diede origine alla prassi della pubblicazione di «libri bianchi». Per quanto riguarda le crisi internazionali, vennero pubblicate raccolte di documenti sulle origini della guerra del 1859, su quelle del conflitto franco-prussiano del 1870-71 ma soprattutto sulle origini della Prima guerra mondiale. Da tale epoca in poi, con sistematicità sempre più generalizzata, seguendo l’esempio già proposto a partire dal 1870 dal governo degli Stati Uniti, prese le mosse la consuetudine di pubblicare non solo grandi collezioni sulle origini della Seconda guerra mondiale ma anche collane sistematiche riguardanti la politica estera di ogni paese nel corso del tempo, secondo una sequenza cronologica che, di solito, poneva una certa distanza di anni (dai 25 ai 50) tra le fonti pubblicate e gli eventi documentati36. La pubblicazione di documenti, parallela dunque alla riflessione teorica sulla natura della società internazionale e sulle regole giuridiche che dovevano reggerla, completava l’immagine formale della vita internazionale così come essa si era configurata a partire dal 1648 e come sarebbe stata poi modificata nel tempo. La disponibilità di queste fonti apriva una strada nuova agli studi storici. In particolare essa rendeva possibile percepire una distinzione di ruoli fra le potenze. I principi di uguaglianza di fronte al diritto internazionale venivano tradotti nella creazione di una gerarchia realistica dell’ordinamento internazionale. Il «concerto europeo» era dominato e governato dalle grandi po36 Un elenco non completo ma relativo alle più importanti di tali collezioni viene riportato nell’appendice bibliografica di questo saggio.

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tenze o da quelle potenze minori che venivano ammesse alle discussioni – meno alle deliberazioni – in occasioni particolari (come accadde, per esempio, durante il Congresso di Parigi del 1856, al quale il Regno di Sardegna fu ammesso su piede di parità grazie al non disinteressato appoggio francese). Il compito legittimante prima assegnato al papato, poi al Sacro romano impero, venne sostituito dalla volontà delle grandi potenze. Le altre potenze, medie o piccole che fossero, erano costrette, in un certo senso, a eseguire la volontà dei soggetti dominanti. Il corpo diplomatico diventava così una specie di casta fortemente stratificata sulla base dei paesi di provenienza e riservata di norma all’aristocrazia, oppure scelta secondo criteri di censo o legami di parentela che collegavano il potere centrale alle singole famiglie o a determinati potentati economici. Anche quando ebbe inizio, dopo la nascita degli Stati Uniti d’America e dopo la Rivoluzione francese, la costituzionalizzazione delle strutture di governo, la politica internazionale rimase dunque nelle mani di chi era espressione delle classi alte. Solo durante il periodo dell’Illuminismo pochi grandi intellettuali, pochi «avventurieri onorati», come qualcuno definì quei personaggi che diffusero in Europa il verbo illuministico, riuscirono a svolgere un certo ruolo. Personalità come Thomas Jefferson o Benjamin Franklin, che rappresentarono in Europa la democrazia americana, non appartenevano certo ai ceti inferiori, bensì all’aristocrazia di fatto del loro paese d’origine. Perciò i documenti lasciati da questo ceto burocratico del tutto particolare risentono della loro origine. Mentre i dispacci degli ambasciatori veneti, per citare un solo esempio, esprimevano gli interessi di una borghesia mercantile, i membri del corpo diplomatico che do-

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minò l’Europa almeno sino alla Prima guerra mondiale rappresentarono un mondo a parte, tale da far assumere al loro lavoro il carattere di epifenomeno dei mutamenti in atto e corteccia di una sostanza quasi sempre più complessa. 6. La storia diplomatica Dalle fonti prodotte da questo mondo trasse spunto la storia diplomatica, disciplina d’origine della storia delle relazioni internazionali. Dal profilo dell’evoluzione politica il discorso può così ritornare a quello dell’evoluzione storiografica. La storia diplomatica, un campo di studio profondamente coltivato, e ancora oggetto di tanta attenzione, sta all’origine dell’interesse più vasto che la definizione di storia delle relazioni internazionali presuppone. E sta all’origine anche della non dissimile definizione assunta con il tempo dalla stessa storia diplomatica, quando essa venne ribattezzata in Italia, con un artificioso accostamento di concetti, storia dei trattati e politica internazionale. Bisogna dunque cercare di chiarire le distinzioni, specificare le differenze. Circa la storia dei trattati e politica internazionale, la questione può essere delineata in breve. Uno studio che possa accomunare i due aspetti esiste solo nella tradizione accademica italiana come espressione del tentativo di accostare due tematiche che poco hanno in comune dal punto di vista interpretativo. I caratteri specifici della politica internazionale sono già stati definiti (cfr. I. 1. 2.); essi appartengono alla cronaca. La storia dei trattati (in Francia histoire des traités) nacque invece e si diffuse, particolarmente in Francia, come disciplina sussidiaria del diritto internazionale e a lungo venne considerata tale, specialmente dagli studiosi ita-

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liani37. Venne intesa, in altri termini, come studio del procedimento mediante il quale furono elaborate le norme stabilite dai trattati (cioè mediante una delle fonti principali del diritto internazionale). A poco per volta questo studio ampliò i suoi interessi, sinché di recente si è giunti a definire il tema in termini meno angusti. I trattati sono, per loro natura, punti fermi del processo naturalmente dinamico delle relazioni internazionali e, nei loro articoli, cercano di rispecchiare in maniera equilibrata (o nel modo meno insoddisfacente possibile) determinate situazioni. Essi sarebbero perciò una specie di specchio che riflette lo stato dei rapporti fra i contraenti in un preciso momento, il punto di equilibrio raggiunto in relazione al modo di porsi di un caso particolare. In altri termini sarebbero momenti (o monumenti) definiti e immutabili in relazione a un processo politico in perenne movimento. In tal senso il concetto di storia dei trattati tenderebbe a confluire in quello di storia diplomatica38. Verso la storia diplomatica si è sviluppata, dapprima in Francia e poi in Europa, una serrata polemica meto37 Cfr. in proposito, per la Francia: C.G. de Koch, Abrégé de l’histoire des traités de paix entre les puissances de l’Europe depuis la paix de Westphalie, 4 voll., Basel 1796-1797; G.L. de Garden, Histoire générale des traités de paix et autres transactions principales entre toutes les puissances de l’Europe depuis la paix de Westphalie etc., 15 voll., Paris 1848-1887. Per l’Italia sono note le seguenti opere: R. Schiattarella, Propedeutica al diritto internazionale. Lezioni sulla storia dei trattati professate nella R. Università di Siena, Firenze 1881; A. Rapisardi-Mirabelli, Storia dei trattati e delle relazioni internazionali, Milano 1940; A.M. Bettanini, Introduzione allo studio della storia dei trattati, Padova 1944; meno angusta e più storicizzante la concezione esposta in S. Gemma, Storia dei trattati nel secolo XIX, Firenze 1895 (e successive edizioni). 38 Cfr. in proposito quanto scrive Toscano, Storia dei trattati cit., pp. 1-12.

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dologica, animata in primo luogo dagli storici della scuola degli Annales, e trasformatasi successivamente nell’opposizione di un’etichetta riduttiva a tale metodo di lavoro. La critica riguardava il carattere meramente esteriore della storia diplomatica, la sua tendenza a rendere conto solo di discussioni politiche o di proporre solo spiegazioni epidermiche, incapaci di rappresentare la natura vera del divenire internazionale. Pierre Renouvin, in questo ambito, ha sviluppato una sua concezione intesa a dare uno spessore più robusto al campo di studi, così da trasformarlo in storia sociale, intesa come storia della lenta evoluzione delle società umane, delle condizioni economiche, dei mutamenti demografici, degli orientamenti della psicologia collettiva, cioè della pubblica opinione, considerati come ambiti all’interno dei quali si verificano brusche accelerazioni nei momenti di crisi internazionale39. Bisogna, a proposito di questa polemica, dire il più chiaramente possibile come stanno le cose. Non v’è dubbio che gli storici diplomatici alla vecchia maniera sopravvivano e si nutrano del loro amore per le fonti diplomatiche sino a diventare quasi una caricatura o un facile bersaglio per chiunque voglia prenderli come esempio di una razza in via d’estinzione. Molti di costoro, del resto, intendono ancora la storia diplomatica come resoconto analitico della corrispondenza fra diplomatici. All’interno di questa mentalità, il modo di procedere è univoco e chiaro. Carte antiche e moderne, corrispondenza diplomatica d’ogni valore e natura ven39 Le concezioni del Renouvin si trovano esposte nella sua opera maggiore, ancora oggi molto influente: Storia della politica mondiale, 8 voll., Firenze 1961, utile specie per il vol. I, pp. 1-11 e per il vol.VIII, pp. 463-74.

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gono ammonticchiate e, talora, messe in ordine cronologico, quasi che questo sia il paradigma scientifico per l’interpretazione. Poi, senza senno né discernimento (se è permessa una certa ironia in relazione a un argomento così serio) si prende un filo colorato o, nei casi peggiori, si attribuisce un colore immaginario a un filo, si segue la traccia lasciata dai sassolini della fiaba (giacché questi «storici» hanno la mentalità di Pollicino) e si incomincia ad arrotolare un gomitolo, senza preoccuparsi di conoscere la meta alla quale il filo porterà, la dimensione del gomitolo, l’uso che di esso si potrà fare. La cosa più minuziosa diviene la più importante. L’accuratezza, che, ammonisce Carr, non è mai una virtù ma solo un dovere per lo storico, viene trasformata in virtù coronata di precisione cronologica. È indispensabile non perdere nemmeno un sassolino, non fare nodi nel filo, arrotolarlo morbidamente e senza senso, in un gomitolo o in una maglia, come la vecchierella pirandelliana sulla soglia dell’uscio della sua «rural dimora». Sebbene possa sembrare una caricatura, questo modo di lavorare ha ancora un buon numero di proseliti. Vi è chi se ne fa un metodo, poiché questa è la maniera più semplice per congetturare: post hoc ergo propter hoc, come nelle filastrocche. Così vi è ancora chi accumula, con questo metodo, tomi su tomi; chi sceglie un tema, inconsistente nei fatti ma lungamente discusso nelle carte, per trasformarlo in monografie di cosiddetta storia diplomatica. Poi vi è chi prende questo tipo di lavoro come storiografia e polemizza con esso: vincendo la sfida in modo facile, come alla giostra del Saracino, quando il bersaglio non può muoversi troppo, perché può solo girare su se stesso. Ma in tutta serenità si può dire che la critica contro questo metodo di lavoro pseudostoriografico è diretta contro

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una concezione in sé agonica del modo di studiare le relazioni internazionali e la loro storia. E appare pertanto quasi ingenerosa. Si tratta di un modo di lavorare che durerà ancora forse per secoli, poiché è il più facile che esista. Un artigiano che si faccia la sua maglia, su una panchina di un parco o dietro una scrivania accademica, lo si potrà sempre trovare in qualche canto della provincia italiana o europea, per non dire, ormai, globale; del pari sarà sempre possibile trovare qualche polemista perditempo che, trovandosi davanti a un bersaglio facile, si diverta a prenderlo di mira. Ma tutto questo non ha quasi nulla a che vedere con un serio lavoro relativo alla storia diplomatica e tanto meno con quello riguardante la storia delle relazioni internazionali. L’ironia usata verso il metodo appena descritto non estingue però il dovere di discutere più rigorosamente del concetto di storia diplomatica. Troppo spesso si polemizza contro ciò che non esiste o, peggio ancora, non si conosce. Inserire, come pure accade, questa tematica nell’ambito della dicotomia histoire événementielle e histoire structurelle significa collocare il tema nell’ambito sbagliato o ignorare l’oggetto del quale si parla. Ignorare, per esempio, quanto i documenti diplomatici e la cultura di politica internazionale siano importanti per una visione del divenire sociale. Con il passare del tempo il lavoro del diplomatico ha mutato profondamente natura e forse richiede, per l’età contemporanea, di essere riconsiderato nella sua valenza. Le grandi raccolte di documenti diplomatici, le infinite collezioni possedute dagli archivi contengono una tale messe di informazioni che riguardano non solo la diplomazia ma anche tutto ciò che accade attorno a essa. Si potrà obiettare che spesso il diplomatico indulge agli stereotipi del suo ambiente; che spesso egli scrive poiché questo gli è

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imposto dalla funzione che egli ricopre, senza che i suoi dispacci o i suoi rapporti contengano notizie diverse da quelle che si possono leggere sui giornali. Ma chi esercita il mestiere dello storico e, di conseguenza, ha il dovere di giudicare la qualità delle fonti, dovrebbe rendersi conto del fatto che altrettanto spesso la corrispondenza diplomatica è una fonte quanto mai utile e ricca di ogni genere di notizie. Dal XVII secolo alla Prima guerra mondiale la diplomazia ha vissuto una sua epoca d’oro e la corrispondenza diplomatica si è trasformata in prezioso strumento di conoscenza. Le fonti diplomatiche, come qualsiasi altra categoria di fonte storica multiforme, contengono elementi che contribuiscono in primo luogo a documentare le relazioni politiche fra Stati (nel lungo o nel breve periodo) e la dinamica di problemi contingenti (come certe crisi internazionali acute o certi negoziati, più o meno delicati); ma anche a rivelare sia la percezione di uomini abitualmente dotati di buona cultura, che professionalmente svolgono il ruolo di osservatori rispetto alle realtà locali nelle quali si trovano a operare, sia la loro capacità di cogliere i problemi interni di un determinato paese: i rapporti fra personalità e partiti, le tendenze dello sviluppo economico e commerciale, gli sviluppi della vita culturale. Poi i diplomatici sono i più qualificati per comprendere la figura dei loro interlocutori e la natura delle situazioni in cui essi operano. Rispetto a una casistica praticamente infinita, basti un solo esempio: il modo in cui Mussolini voleva comportarsi da diplomatico, razionale e misurato, e come tale era inteso, e il modo in cui egli era percepito, pubblicamente o privatamente, come un plateale dittatore. E, ancora, le fonti diplomatiche dicono della qualità culturale delle classi dirigenti dei paesi presso i quali si

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svolge l’attività che le produce. Perciò contribuiscono a far comprendere mentalità, atteggiamenti, stereotipi, prevenzioni, tendenze e così via. Accanto alla cultura dei singoli, la cultura dell’azione politica. È spesso presente, in queste fonti, l’accento sull’importanza o sulla necessità di accompagnare l’azione puramente politica con altri generi di attività. Senza le fonti diplomatiche, nulla sarebbe comprensibile della politica britannica nel Commonwealth, di quella francese nell’Africa settentrionale o nel Medio Oriente, degli Stati Uniti in Europa e nel mondo; dell’Unione Sovietica, con la forte impronta ideologica degli anni del comunismo; della stessa Italia che, pur all’interno di limiti precisi, vide nascere dalla presenza diplomatica il bisogno di accompagnarla con una presenza culturale quale forte strumento d’azione. E considerazioni analoghe potrebbero essere riprese per l’insieme dei fenomeni migratori, d’origine economica o politica che fossero. È, questa, una sintesi delle possibilità che le fonti diplomatiche offrono allo studioso che le affronti senza pregiudizio e sappia discernere, nella specifica natura del documento, quanto in esso sia occasionale e quanto invece esprima dati di fondo40. È dunque ben evidente che la categoria «fonti diplomatiche» rappresenta nel suo insieme un corpus poderoso di informazioni per chiunque voglia addentrarsi nella ricerca storica, quale che sia il contenuto concreto di tale ricerca e le sue connotazioni metodologiche. Rinunciarvi per pregiudizio significa amputarsi da sé. Anche nel caso della microstoria. Per esemplificare, 40 Cfr. sulle osservazioni riportate nel testo: E. Di Nolfo, I documenti diplomatici: metodologia e storiografia, in Le fonti diplomatiche in età moderna e contemporanea. Atti del Convegno internazionale. Lucca, 20-25 gennaio 1989, Roma 1995, pp. 13-25.

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se qualcuno volesse esaminare l’immensa documentazione esistente sul modo, i criteri, gli atteggiamenti, le regole, le situazioni, gli umori, i problemi orografici, le rivalità familiari o tribali, la tradizione storica meno prossima, le diversità di procedimenti artigianali secondo i quali fu faticosamente applicato l’insieme dei deliberati del trattato di Berlino del 1878, in relazione alle linee di confine fra l’Impero ottomano, la Grecia, l’Albania, il Montenegro e la Bulgaria, troverebbe in questi documenti41 una infinità di microstorie; e troverebbe le ragioni per le quali tali microstorie non sono poi state ricomposte in un disegno unitario, dando origine alla crisi balcanica successiva al 1990. L’aspetto più delicato risiede però nel fatto che l’uso delle fonti diplomatiche come fonte storica esige competenza specifica, capacità interpretativa e metodo sicuro, per attraversare lo schema delle parole, le convenzioni delle formalità e dare alla trama diplomatica, che è spesso una trama prevalentemente politica, quello spessore che essa in realtà merita e richiede. Se la polemica rispetto al modo, oggi desueto, di fare storiografia ideato da Leopold von Ranke per primo – poi seguito da Theodor Mommsen, storico dell’impero romano, e da Heinrich von Treitschke – ha un senso sul piano della concezione della storia, non si può tuttavia dimenticare che questo metodo, il metodo dello «storicismo scientifico», cioè l’affermazione della necessità che il lavoro dello storico sia costruito non sulla base di teorie preconcette o di interpretazioni soggettive ma sulla conoscenza delle fonti «primarie», è un punto di partenza imprescindibile, rispetto al quale non appare 41 Basti in proposito consultare I documenti diplomatici italiani, serie II, voll. XI, XII e XIII, Roma 1986-1991.

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possibile mettere in campo discriminanti ideologiche o metodologiche. A suo modo, l’opera del Ranke costituì una grande innovazione nel lavoro storiografico poiché, al di là dell’uso pedantesco che molti epigoni fecero (e fanno) del suo metodo, essa affermava per la prima volta con assoluto rigore e come fosse un dovere il tema del rapporto dello storico con le fonti primarie, cioè con quei documenti che testimoniano certi aspetti degli eventi. Tra le fonti primarie, accanto alla produzione legislativa e ai documenti pubblici, primeggiano le fonti diplomatiche. Ranke fu il primo a scoprire e valorizzare in modo sistematico le «relazioni» degli ambasciatori veneti alla Serenissima, considerandole fonti di prima mano per conoscere sia le relazioni fra Stati, sia le condizioni della vita che si svolgeva all’interno di essi. Questo modo di intendere il lavoro dello storico portava in primo piano non già gli eventi materiali della vita sociale o i dibattiti teorici sui sistemi politici bensì la trama della diplomazia, con tutti i limiti socio-politici che ciò comportava. Ma è sin troppo facile osservare che, se questo era il metodo, lo storico di oggi riesce a intendere, quando è dotato di spirito critico e discernimento, come e quanto, sotto la ragnatela di parole, della quale sovente gli stessi diplomatici erano consapevoli, sotto le forme del «cerimoniale» o del «protocollo», ricchi di contenuto simbolico ma anche apparentemente futili, si celasse una realtà ben più complessa, che riguardava il concetto di «potenza» e di «politica di potenza», con tutte le precondizioni che questa richiedeva. Nel momento in cui la rivoluzione politica, avviata dalla rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo e continuata dai primi processi di democratizzazione, incominciò a circoscrivere la libertà d’azione dinastica, l’attività diplomatica restò pur sempre una «prassi segreta»

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ma i suoi orientamenti e risultati vennero sottoposti al vincolo del controllo democratico. Del resto, che la «storia diplomatica» abbia ancora un suo ruolo di ricostruzione o di interpretazione della vita internazionale, pur senza trasformarsi nel tessuto esplicativo/narrativo più compatto tipico della storia delle relazioni internazionali, è confermato dal fatto che nel suo ambito molti autori abbiano prodotto opere che conservano ancor oggi un grande valore scientifico, poiché gettano luce su aspetti di politica internazionale che possono essere isolati, pur che si abbia coscienza del fatto che essi non sono tutta la «realtà internazionale». Autori come Albert Sorel, Émile Bourgeois, William Langer, Harold Temperley, Charles W. Webster, Robert Seton-Watson, Wilhelm Oncken, Luigi Albertini, Luigi Salvatorelli, Mario Toscano, Ettore Anchieri (per citare solo nomi di autori che operarono tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX secolo) offrirono agli studiosi interpretazioni sicure e profonde della storia diplomatica europea e mondiale42. Si prenda, quale esempio, il lavoro dell’Anchieri su Costantinopoli e gli Stretti43 nella politica europea. L’autore ha isolato il tema della navigazione attraverso gli Stretti dei Dardanelli dalla fine del Settecento al 1936, mostrando come una situazione geopolitica condizionasse, per effetto del mutare dei rapporti di forza nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero e per effetto del cambiamento di norme sulla navigazione in quelle acque, la politica sia del42

Di questi autori si vedano le opere citate nella bibliografia fi-

nale. 43 E. Anchieri, Costantinopoli e gli stretti nella politica russa ed europea dal trattato di Qüciük Qainargi alla Convenzione di Montreux, Milano 1948.

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le potenze rivierasche (in particolare gli imperi russo e ottomano, ma anche quello asburgico), sia delle potenze dominanti il Mediterraneo orientale. Ma occorreva la capacità di isolare un tema rilevante e di seguire sottilmente il mutare delle regole giuridiche, le ragioni politiche o militari di tale mutamento, per riuscire a illustrare come quel determinato contesto geopolitico fosse alla base di una serie innumerevole di cambiamenti negli equilibri di potenza o nelle condizioni commerciali di uno dei settori più critici della vita europea. Anche fuori dell’Europa la storia della politica internazionale è stata prevalentemente intesa come storia diplomatica. Se si considerano, per esempio, le variazioni della storiografia americana o britannica sugli anni del secondo dopoguerra e soprattutto sulla guerra fredda, si vede come la principale caratteristica della scuola «ortodossa» o «revisionistica», così come di quella «postrevisionistica» o di quella «realistica» (per usare le definizioni correnti), pur con alcune eccezioni, sia l’appiattimento nell’ambito della storia diplomatica più tradizionale44. Fatte queste necessarie osservazioni e chiarita la portata delle fonti che stanno principalmente alla base della storia diplomatica è pur necessario aggiungere che questa, ormai, rappresenta una trama visibile, un involucro, all’interno del quale esiste una realtà molto più complessa. Il sistema internazionale ha assunto una sua consistenza e una visibilità concettuale grazie a una serie di modificazioni strutturali e di parallele astrazioni concettuali che tendono a considerarlo come una realtà a sé stante, un involucro che non ha nulla a che 44 Per una visione sintetica di questa storiografia cfr. E. Agarossi (a cura di), Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, Bologna 1984.

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vedere con quanto esso contiene. La storia del sistema internazionale ha uno spessore, presuppone tecniche, concede spazio al ruolo delle personalità, si qualifica in maniera diversa, secondo il trascorrere del tempo. Non è un modello cristallizzato una volta per tutte (come alcuni pensano). Se è vero che agli esordi del «concerto d’Europa» essa appariva circoscritta alle trame intessute fra pochi individui, legati fortemente alla tradizione dinastica e appartenenti prevalentemente al mondo aristocratico, se dunque per questi esordi appare lecito immaginare un mondo «incipriato e inamidato», a mano a mano che il dialogo si infittisce, le relazioni divengono più profonde, non riguardano più solo la politica dinastica o le alleanze interfamiliari; i processi produttivi cambiano, la diversa composizione sociale del «corpo diplomatico» modifica anche il contenuto del lavoro diplomatico e, con esso, il carattere della storia diplomatica. Molto spesso si indugia sull’omogeneità sociale del «corpo diplomatico» per desumerne un giudizio di inevitabile prevenzione. Con ciò si trascura il fatto che la composizione della diplomazia prese a mutare almeno dagli ultimi decenni del XVIII secolo. Accanto alle eccezioni dovute al censo o alla posizione intellettuale, che spiegano la presenza nella diplomazia di certe personalità americane o di certi diplomatici usciti dalle file dell’aristocrazia illuministica, gli Stati Uniti non ebbero mai un corpo diplomatico composto da aristocratici. La diplomazia della Francia rivoluzionaria e napoleonica solo in pochi casi eccezionali uscì dalle file dell’esecrata aristocrazia; e quella dell’Europa liberale, affacciatasi dopo il 1830, sfuggì in modo graduale ma evidente all’esclusività delle appartenenze sociali. Se poi si pensa alla società contemporanea, le distinzioni basate su cri-

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teri di appartenenza a determinati ceti possono avere una certa rilevanza per qualche paese europeo, ma non ne hanno alcuna per i paesi che realmente dominano la scena internazionale, cioè gli Stati Uniti e, sino al 1991, l’Unione Sovietica, così come non ne hanno, se non in relazione a mere coincidenze tribali, per la diplomazia dei circa 150 Stati divenuti indipendenti dopo la Seconda guerra mondiale. Perciò non è quasi più nemmeno il caso di rilevare l’inconsistenza delle affermazioni critiche circa il ruolo sociale della diplomazia e, di conseguenza, di mettere in evidenza la diversa incisività del lavoro diplomatico: radicalmente mutato per la condizione dei suoi protagonisti e per la condizione dell’ambiente entro il quale esso si svolge. Una storia diplomatica che si svolga in questo ambito non ha che remote analogie rispetto a quella degli esordi45.

45 Per un quadro bibliografico non aggiornato al XXI secolo ma abbastanza utile per il secondo dopoguerra si veda: E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, in Studi internazionali, a cura di L. Bonanate, Torino 1990, pp. 71-110, 259-361.

II

Dalla storia diplomatica alla storia delle relazioni internazionali

1. Storia diplomatica e storia delle relazioni internazionali Le osservazioni relative al contributo che la storia diplomatica ha dato e continua a dare alla conoscenza della storia delle relazioni internazionali non possono trascurare il fatto che frattanto, tra i due campi d’indagine, si è determinata una netta divaricazione. La storia diplomatica riguarda il sistema delle relazioni politiche internazionali; la storia delle relazioni internazionali si propone un orizzonte interpretativo assai più ampio e generale. Quando Pierre Renouvin, con la sua opera, aprì le porte alla trasformazione dei due campi d’indagine, Mario Toscano replicò con due osservazioni. La prima riguardava la natura delle fonti utilizzate, i documenti diplomatici, considerati come fonte preminente rispetto ai rapporti interstatuali, «perché [danno] degli avvenimenti una interpretazione politica che è di per se stessa una interpretazione di sintesi». La seconda contestava in modo deciso l’impostazione generale del Renouvin: La tendenza ad ampliare il campo d’indagine della nostra disciplina – scriveva Toscano – per mettere in maggior risal-

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to quei fattori materiali e spirituali che influiscono sulla formazione di una politica estera e su i rapporti tra gli Stati risponde ad un’esigenza da tutti sentita. Ma questa tendenza non può spingersi fino a far perdere di vista che l’oggetto di questo campo di studi sono i rapporti tra gli Stati e che quindi quei fattori vanno considerati in funzione di un miglior chiarimento delle decisioni che determinano tali rapporti. Altrimenti, il tentativo di rendere più soddisfacenti i risultati della nostra disciplina porterebbe a farle perdere quelle caratteristiche peculiari che sono alla base della sua autonomia come storia particolare o, peggio ancora, a sostituirle una o altre discipline particolari che certo non possono spiegare da sole la complessa realtà dei rapporti internazionali né raggiungere l’affermato obiettivo di fare della «storia senza aggettivi».1

Le tesi del Toscano indicavano confini netti; quelle del Renouvin la necessità di oltrepassare tali confini. La distinzione, così profonda, lascia intendere come dalla storia diplomatica, intesa in senso rigoroso, stesse per nascere un nuovo modo di studiare la storia internazionale in quanto storia delle relazioni internazionali. Si tratta perciò di cogliere la portata della distinzione e di comprendere a fondo se e come le vie indicate fossero percorribili e siano state poi percorse. L’interpretazione di Toscano risale alla metà del XX secolo e risente della diretta partecipazione dello stesso Toscano all’iniziativa di pubblicare la raccolta dei Documenti diplomatici italiani, iniziando con la stesura dei volumi dedicati a alcuni momenti critici della politica estera italiana, come avevano fatto i tedeschi, quasi contemporaneamente seguiti dagli altri responsabili dello 1 Cfr. M. Toscano, Storia dei trattati e politica internazionale, Torino 1963, pp. 11-12.

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scatenamento della Seconda guerra mondiale2. Si trattava di ripercorrere le fasi culminanti della crisi diplomatica che aveva preceduto, dal 1938 in poi, l’aggressione alla Polonia, cioè un periodo intensamente vissuto sul piano politico e, benché intessuto di altri aspetti, dominato dalla dinamica delle azioni diplomatiche. Ma appare oggi evidente che tale approccio, benché necessario, non era anche esauriente e che l’estrapolazione proposta dal Toscano, il quale promuoveva a metodo generalizzato uno strumento teso a comprendere una crisi di breve periodo, non permetteva di cogliere gli aspetti di medio e lungo periodo (ma anche gli aspetti non meramente diplomatici) di una crisi che aveva le sue origini remote nella trasformazione dell’Europa durante il XIX secolo. Troppi cambiamenti erano già avvenuti allora nella vita internazionale e altrettanti ne sarebbero accaduti durante i decenni successivi, sino alla fine del XX secolo e oltre, perché l’approccio suggerito da Toscano possa oggi apparire soddisfacente agli occhi di chi intende esaminare, al di sotto o al di sopra della corteccia diplomatica, il divenire della vita internazionale. Anche l’opera del Renouvin appartiene al medesimo periodo storico, sebbene le sue radici culturali siano strettamente collegate all’esperienza degli Annales. Si tratta di un lavoro d’ampio respiro, che proietta la sua visione ben al di là dell’accadimento contingente e si propone di fornire una prospettiva meno «evenemenziale» alla comprensione storica della vita internazionale. La portata innovativa di quest’opera non può che essere ammirata. Renouvin indica collegamenti interdisciplinari, propone squarci suggestivi sull’influenza del2 L’elenco delle collezioni più importanti si trova nell’appendice bibliografica di questo saggio.

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le «forze profonde» (questa è la definizione da lui coniata e rimasta come il marchio della sua scuola). Eppure un lavoro così affascinante, se guardato con attenzione critica e in riferimento al procedimento della conoscenza storica, appare ancora meno persuasivo dell’approccio, consapevolmente circoscritto, del Toscano. Il proposito di inserire nella ricostruzione della storia internazionale un numero maggiore di variabili, così da rendere meno evenemenziale e più approfondita l’esposizione narrativa, viene in questo caso diluito, se non addirittura paralizzato, dallo schematismo al quale il Renouvin affida il suo lavoro. Se è concesso usare una metafora irriverente, dalla lettura di quest’opera si trae la sensazione che l’autore abbia voluto costruire una specie di chiffonnier: in un cassetto sono riposti i dati demografici; in un altro quelli relativi al commercio estero; in un terzo quelli riguardanti la finanza; in un quarto i ritagli di giornale con le opinioni del pubblico e così via, tanti cassetti quante sono le variabili di cui tener conto. Renouvin delimitava il numero delle variabili rilevanti per la storia della politica mondiale ma pare difficile dire che fra un cassetto e l’altro del suo bel mobile vi fosse comunicazione: le parti del discorso restano separate. Nel caso di Renouvin, forse, questa caratteristica è meno avvertibile poiché l’enorme cultura di questo autore contribuiva a rendergli possibile la costruzione di sintesi spesso efficaci, anche se non sempre persuasive. L’aspetto critico presentato da tale metodologia è legato all’influenza che, per disciplina di scuola in Francia e per moda in altri paesi, il metodo della cassettiera ebbe sulla storiografia francese e europea, come facile scappatoia di chi immaginava di fare storia delle forze profonde tenendo ben separati i diversi cassetti. Insomma,

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quando si aprono certe opere ispirate al maestro francese, non si può non avvertire un senso di fastidio dinanzi alla preconcetta disposizione della materia. Come in una litania si vedono ripetere unilateralmente gli schematismi alla Renouvin: nel primo capitolo la situazione finanziaria, nel secondo quella commerciale, nel terzo quella demografica, nel quarto l’opinione pubblica, e così di seguito, secondo una sequenza ripetitiva tale da sviare l’attenzione dal mutamento dell’assetto di fondo; tale, cioè, da mettere in evidenza non le «forze profonde» ma «le consuetudini radicate», e tale da suscitare una sorta di rifiuto preconcetto e infastidito. Solo negli ultimi decenni del XX secolo questo stato di cose incominciò a cambiare, se non altro perché l’evidenza del cambiamento della struttura globale era divenuta innegabile. René Girault, i suoi discepoli e i colleghi della generazione più giovane, in Francia, pur senza naufragare rispetto alla loro tradizione scolastica, ripresero la riflessione sui temi metodologici, allargando la loro visione verso orizzonti più vasti3. 2. Assetto, evoluzione e percezioni del sistema internazionale Dalla metà del XVII secolo fino alla Prima guerra mondiale il sistema internazionale non subì variazioni strutturali, non modificò le norme o le tradizioni che lo ispiravano e accettò solo quei mutamenti che il «concerto 3 Cfr. in proposito l’Introduzione al vol. di R. Girault, Diplomatie européenne et impérialisme, 1871-1914, Paris 1979, nella quale, pur nel ribadire la continuità rispetto all’insegnamento del Renouvin, si introduce sommessamente un metodo più sensibile all’influenza di tendenze meno schematizzanti.

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europeo» volle accettare. Con la Prima guerra mondiale o, si potrebbe dire, anticipando di qualche decennio la svolta, con l’affacciarsi degli Stati Uniti come soggetto potenzialmente egemone anche rispetto al predominio europeo, la diplomazia tradizionale venne affiancata e, in qualche caso, superata dall’avvento dell’internazionalismo, cioè dall’affermarsi della concezione per cui le relazioni internazionali dovessero essere filtrate da organizzazioni che sostituissero la diplomazia tradizionale nel determinare le norme e la prassi della vita internazionale: la Società delle nazioni nel 1919-20 e l’Organizzazione delle nazioni unite nel 1945 si posero come garanti del diritto internazionale e della pace mondiale. L’idea che le organizzazioni internazionali potessero, sul piano teorico, diventare il fulcro della società internazionale non era però il frutto né del caso né di una evoluzione meramente formale delle relazioni fra i popoli. Essa nasceva piuttosto da due sviluppi, paralleli ma non sincroni, che si erano intrecciati solo sul finire del XIX secolo. Il primo sviluppo riguardava la trasformazione dei rapporti internazionali con l’estensione delle conoscenze e delle influenze politico-economiche a tutto il globo per effetto dell’ampliarsi degli orizzonti geografici e, soprattutto, per il mutamento delle strutture economiche durante le varie fasi della rivoluzione industriale. Il secondo era la conseguenza della riflessione politico-filosofica-giuridica e economica che, lungo un lento processo di elaborazione delle idee, aveva portato alla formulazione di una serie di dottrine che, muovendo dagli avvenimenti del tempo, ne desumevano considerazioni generali, proposte di riforma, manifesti ideologici, formule internazionalistiche. Ciò aveva posto le basi di una svolta che divenne manifesta du-

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rante la Prima guerra mondiale, ma la cui portata è stata avvertita pienamente solo negli ultimi decenni del XX secolo, quando il concetto di «globalizzazione» come fenomeno complesso si è imposto come nuova categoria interpretativa e come riconoscimento teorico di una realtà che aveva le sue radici in quel remoto passato. Proprio questa evoluzione rendeva desueto o incompleto, sul piano della ricerca storica, il concetto di storia diplomatica e metteva in evidenza la necessità di esaminare in modo più approfondito tutti gli aspetti interessati al mutamento, collocandoli in un contesto di «storia delle relazioni internazionali». 2.1. Dalla «politica di potenza» all’internazionalismo utopistico Nei primi decenni dell’età moderna, il concetto di «politica di potenza» come discriminante delle relazioni fra Stati apparve come una sorta di grimaldello euristico per intendere i processi più complessi. Machiavelli insegnava «che tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono»; e ancora: Debbe dunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a che comanda [...]. E però uno principe che della milizia non si intenda [...] non può essere stimato da’ suoi soldati, né fidarsi di loro. Debbe per tanto mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra4.

4 N. Machiavelli, Il Principe, Introduzione e note di F. Chabod, a cura di L. Firpo, Torino 1961, pp. 28, 71-72.

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Ma il realismo machiavelliano era troppo legato alla dura realtà della lotta tra potentati in Italia per essere condiviso da chi pretendeva di ispirarsi a concezioni più elevate, forse perché sostenute da realtà statuali ben più forti dei piccoli principati italiani. Così, mentre sul piano giuridico, da Gentili a Grozio agli altri studiosi dello jus gentium o del diritto naturale, si discettava sulla natura e sulla qualità delle norme che avrebbero dovuto fornire l’architettura giuridica del «concerto europeo», sul piano meta-giuridico e su quello filosofico il tema veniva affrontato in termini utopistici inevitabilmente astratti, oppure veniva collegato a vaghi – e del pari astratti – progetti di mutamento sociale. Si colloca in questa sfera l’opera di autori come l’abate Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, filosofo e politico francese, che nel 1712 pubblicò il primo saggio «riformistico» sull’ordinamento internazionale dal titolo Paix perpétuelle. L’opera tracciava un progetto di pace globale che, per la prima volta, adombrava l’ipotesi di un ordinamento federale del continente, magari sotto l’egemonia francese, come rimedio ai rischi della conflittualità permanente. SaintPierre tradusse le sue riflessioni in un progetto di trattato europeo, basandosi sull’intuizione che il timore della violenza potesse indurre popoli e governi a sottoscrivere un accordo che avrebbe sottoposto la politica internazionale alle regole del diritto e della giustizia5. Era un precursore, che viene ora ricordato poiché inserito fra i padri fondatori dell’idea di unificazione europea. In effetti il suo fu un contributo ben presto dimenticato e superato dalle concezioni di una pletora di altri autori maggiori e minori che, dal XVIII secolo in 5 Ch.-I. de Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe, Paris 1712.

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poi, si occuparono di pensare all’ordine europeo sia in funzione della ricerca dei metodi per evitare le guerre o per dare loro una ragione ideale, sia per collegarlo alla natura degli ordinamenti sociali e desumerne proposte di radicale ripensamento o rovesciamento. I progetti di «pace perpetua» si susseguirono. JeanJacques Rousseau ne discettò a lungo sia nella sua opera Discours sur les origines et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, sia in diversi saggi fra i quali uno dedicato alla disamina del progetto di Saint-Pierre dal titolo: Extrait du projet de paix perpétuelle de M. l’Abbé de Saint-Pierre6. In Gran Bretagna, Jeremy Bentham scrisse A Plan for a Universal and Perpetual Peace, pubblicato postumo nel 1833; in Germania Immanuel Kant pubblicò nel 1795 il suo saggio Zum ewigen Friede (Per una pace perpetua), nel quale contestava gli apologeti della guerra come motore del progresso, giudicandola viceversa un male, forse reso più acuto dalla «sua costante preparazione in tempo di pace»7; ma poco dopo, nel 1800, l’ideologo della nazione tedesca, Johann Gottlieb Fichte, proponeva l’apologia di una concezione ben diversa quando, nella sua opera Der geschlossene Handelstaat (Lo Stato commerciale chiuso), affermava «che l’indiscriminata apertura internazionale evocata come garanzia di progresso e di pacificazione, fomenta invece il pauperismo, crea una casta di profittatori e accentua la conflittualità»8. Fichte si fermava a questo as6 Il Discours venne pubblicato ad Amsterdam nel 1755; l’Extrait venne pubblicato a Parigi nel 1761. 7 Una delle più recenti traduzioni in italiano: I. Kant, Per la pace perpetua, Prefazione di S. Veca, Milano 1993. 8 J.G. Fichte, Lo Stato secondo ragione o lo Stato commerciale chiuso, Torino 1909; la citazione è tratta da A. Zanfarino, Il pensiero politico contemporaneo, Napoli 1994, pp. 77-78.

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soluto protezionismo economico, che del resto rispecchiava la condizione prussiana del tempo, ma Hegel si spingeva ben oltre quando annacquava il suo concetto di universalità nella nozione di egemonia dello Stato più forte. Se uno Stato si sente più capace di imprese di vasta portata, deve impegnarsi a dimostrare di essere il primo nel mondo storico, accettando di usare i mezzi necessari al dispiegamento della sua potenza. Tale potenza non si affida solo allo spirito militare e al momento bellico, perché l’egemonia di uno Stato e di una nazione passa anche attraverso l’ordine istituzionale, la cultura, il lavoro e lo sviluppo economico. Ma tutte queste cose contano se sono inquadrate in un contesto politico più ampio rappresentato dallo Stato; e se lo Stato non riesce a imporsi nel grande scacchiere del mondo con strumenti pacifici deve farlo con mezzi più rudi. La militarizzazione dello Stato e la guerra possono così diventare fattori decisivi per il perseguimento di queste finalità universali. La guerra è come il vento che muove le acque putrefatte della storia, e la creazione di nemici può essere salutare per scuotere le radici profonde della vita, per sottrarre gli individui al materialismo e all’edonismo, per rafforzare i popoli eliminando le loro discordie interne.9

Hegel scriveva nei decenni di preparazione del movimento per l’unificazione della Germania e proiettava su questo un carattere nazional-imperiale che avrebbe avuto vasta eco e effetti duraturi soprattutto nel mondo germanico; esso era invece estraneo al modo di concepire la vita internazionale degli esponenti del nazionali9 Questa sintesi del pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel è tratta anch’essa da Zanfarino, Il pensiero politico contemporaneo cit., p. 94.

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smo in Italia, dove Giuseppe Mazzini codificava l’idea della nazionalità anche come principio della nascita di una «Giovine Europa» e Carlo Cattaneo subordinava persino la causa della nazionalità italiana a quella della costituzione di un sistema federale europeo10. 2.2. Rivoluzione industriale e relazioni internazionali Tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI secolo, la rottura dell’isolamento curtense, la ripresa dei traffici di mercanzie preziose, l’attivismo delle repubbliche marinare italiane, dei porti delle Fiandre, delle città anseatiche, degli esploratori portoghesi, spagnoli e britannici, il rinato interesse verso la cartografia, specchio della mutata concezione del mondo dopo la rivoluzione copernicana, rimisero in movimento economie statiche e diedero un potente impulso alla circolazione del capitale. Tutto ciò fu accompagnato da una serie di innovazioni tecnologiche che restituirono vigore al sistema delle comunicazioni: uomini, merci e servizi di posta si estesero come una trama su tutto il continente europeo e verso le parti più conosciute del globo, producendo conseguenze anche sulle relazioni politico-militari fra i paesi europei. Basti pensare all’invenzione della polvere da sparo e al primo utilizzo delle armi da fuoco. Le prime guerre coloniali dell’età moderna, per la spartizione delle Americhe o per la conquista di territori in Asia e di basi commerciali o strategiche lungo le coste africane, diedero impulso alla navigazione. Una svolta dalle conseguenze inattese si ebbe con l’inseri10 Per le idee di Mazzini e Cattaneo si veda in sintesi: F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana del 1848-49, Milano 1964.

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mento dei cannoni a bordo delle navi: da principio cannoni piccoli e male ancorati alla tolda, poi cannoni sempre più potenti, disposti lungo più di una fila di portelli sulle fiancate. Potrà sembrare poco, ma la supremazia britannica sul mare deve le sue origini al primato in questo settore, che le rese possibile dominare il Portogallo, la Spagna, la Francia e l’Impero ottomano. Si apriva la via verso la navigazione in mare aperto. Non erano più le imprese di arditi navigatori, ma quelle di flotte che solcavano gli oceani portando in regioni remote la forza europea e rendendo più sicuri i traffici delle merci necessarie alla nascente industria. E nemmeno era una navigazione veloce ma tuttavia essa poneva le basi di ciò che sarebbe accaduto con la motorizzazione delle navi e la costruzione delle navi in ferro11. Si affacciava il problema delle risorse e delle fonti di energia, come prima integrazione della mera forza umana: l’acqua, motrice di mulini e dei primi motori, così come il vento; il carbone, utilizzato per il riscaldamento, ma anche, qualche decennio dopo, per la metallurgia e la produzione di vapore compresso. La svolta fondamentale per comprendere il cambiamento dei modi di produzione e, di conseguenza, della natura dei problemi internazionali, si ebbe, come del resto è ben noto a tutti coloro che si sono occupati di questo periodo storico, con la prima rivoluzione industriale, sviluppatasi in Gran Bretagna e successivamente dilagata oltre la Manica, in tutta l’Europa e, oltre l’Atlantico, negli Stati Uniti e nel Canada. In Gran Bretagna l’introduzione di nuovi macchinari nella coltura agricola, poi nella produzione di merci, e l’invenzione della ferrovia posero le 11 Per questa complessa evoluzione basti rinviare a F. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale, Torino 1977.

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basi per la nascita della grande industria europea. Ciò determinava l’affiorare di nuovi problemi sociali e demografici, dava origine all’urbanizzazione e al formarsi del proletariato urbano, con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate a cascata; faceva sorgere nuove questioni finanziarie ma, soprattutto, aveva conseguenze sulla politica commerciale e su quella coloniale della Gran Bretagna. E, dopo la Gran Bretagna, su quella di tutte le altre potenze europee. Si poneva altresì in termini nuovi il problema delle materie prime, quello dei mercati e quello del mantenimento di un tasso di profitto adeguato per i capitali investiti. Erano, questi, temi che investivano direttamente, assai più di quanto fosse accaduto nei secoli precedenti, le relazioni internazionali. Sul piano commerciale teoria e prassi si scontravano nel proporre una politica commerciale liberista, come quella teorizzata in Gran Bretagna da Adam Smith, e quella protezionistica, praticata in Francia sin dal secolo precedente, sulla scia del «colbertismo», e tenuta in vita sino alla vigilia della Rivoluzione del 1789. Nel 1786 infatti i governi dei due paesi sottoscrissero un trattato di commercio che prevedeva clausole favorevoli alle esportazioni di prodotti lanieri e ferrosi da parte britannica, agricoli da parte francese. Con la sconfitta napoleonica, la Francia perdeva gran parte del suo immediato dinamismo commerciale sin quasi a legittimare la definizione, attribuitale in sede storiografica da Immanuel Wallerstein, di essere divenuta una sorta di «provincia economica dell’impero britannico», nel momento in cui questo conquistava il «controllo dell’economia del mondo»12. 12 Su questi temi si veda S. Ciriacono, La rivoluzione industriale. Dalla protoindustrializzazione alla produzione flessibile, Milano 2000,

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Aveva inizio, dopo la Rivoluzione francese e l’esperienza napoleonica e, più ancora, dopo il 1870, con la seconda rivoluzione industriale, il grande dibattito vissuto in quasi tutti i paesi europei in relazione alla legislazione riguardante il commercio con l’estero (basti pensare alla polemica sulle corn laws in Gran Bretagna); così come avevano inizio le lunghe diatribe e i conflitti per i trattati di commercio, che tanto peso avrebbero avuto sulle relazioni fra paesi. Ma soprattutto si intensificava la competizione per il controllo delle materie prime: il cotone indiano o egiziano per la Gran Bretagna; l’avventurosa e fulminea campagna di conquista dell’Africa da parte della Gran Bretagna, della Germania, della Francia e del Belgio; e poco dopo la contesa, lungi dall’essere ancor oggi conclusa, per il controllo delle risorse petrolifere del Medio Oriente, riguardante tutti i paesi industrializzati. Frattanto altri campi si erano aperti alle relazioni internazionali: il commercio e gli investimenti avevano dato luogo a flussi finanziari imponenti. I movimenti monetari e quelli di preziosi si intrecciavano a quelli del commercio e davano al ruolo delle banche e del capitalismo finanziario una rilevanza sempre più centrale, sino a trasformarlo in elemento strutturale, spesso dominante, della vita internazionale. La tecnologia, in tutte le sue forme, soprattutto riguardanti le comunicazioni o i metodi di sfruttamento delle materie prime, veniva esportata nei territori coloniali, che subivano così una sorta di deviazione dal loro modo di essere storico e venivano trascinati sulla via della modernizzazione secondo gli schemi europei, con i vantaggi ma anche con le discriminazioni e le devastazioni ambientali che ciò producecon ricca indicazione di ulteriori fonti; in particolare si vedano le pp. 48-59.

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va. In ambito demografico si verificavano i massicci movimenti provocati dal commercio degli schiavi dall’Africa verso gli Stati Uniti; quelli provocati, prima e dopo la guerra di secessione americana, dalla corsa degli europei per cercare ricchezza o lavoro oltre Atlantico. Il diffondersi del dominio coloniale imponeva ai paesi colonizzatori di scegliere forme di circolazione e diffusione della cultura che si differenziavano secondo le propensioni politiche delle varie nazionalità: chi perseguiva la politica della colonizzazione grazie a canali mediati, limitandosi a trasferire aspetti spesso solo esteriori dei costumi della madrepatria; chi applicava una politica di assimilazione radicale, proponendosi di imprimere nelle colonie quanto più possibile della civiltà colonizzatrice. La lingua e la sua diffusione (l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese, l’olandese e, in minor misura, il tedesco e l’italiano) diventavano aspetti della politica coloniale, cioè caratteri della politica internazionale dei paesi europei13. Insomma, quelle relazioni che prima si erano limitate all’influenza politica, al predominio istituzionale e all’esercizio della potenza venivano rese più profonde, più radicate e più coinvolgenti di quanto fosse accaduto nei secoli precedenti. La diplomazia tradizionale diventava uno degli aspetti di una vita internazionale sempre più complessa. 2.3. Verso l’internazionalismo realistico Finché potere politico e crescita economica non assunsero un andamento parallelo14, le riflessioni filosofiche o 13 Cfr. su questi temi: D. Headrick, The Tentacles of Progress. Technology Transfer in the Age of Imperialism. 1850-1940, Oxford 1988. 14 Si vedano in proposito le interessanti pagine di R. Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna 1989, pp. 183-209.

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quelle utopistiche ebbero una valenza culturale ma restarono circoscritte nel mondo dei dotti, se non per le fasi intensamente rivoluzionarie ma non collegate a progetti pacifistici (come, per esempio, le rivoluzioni del 1848-49). Ma quando ricchezza e potere si coniugarono nel costituire la spina dorsale degli Stati contemporanei, allora il rapporto fra ordine sociale interno e politica internazionale divenne inscindibile, poiché la ricchezza discendeva, per l’appunto, dai caratteri stessi della trasformazione dell’economia mondiale e la tutela della ricchezza esistente diveniva un compito del potere politico. Ciò stabiliva una sorta di equazione fra élite politica e élite economica, spingendo al margine della società ceti sempre più numerosi a mano a mano che il processo di industrializzazione si faceva più serrato e l’urbanizzazione o la concentrazione industriale si affermavano. La trasformazione dell’economia mondiale provocata dalla prima rivoluzione industriale e accompagnata, a partire soprattutto dall’espansione dell’industria cotoniera in Gran Bretagna, da continui adeguamenti tecnologici fece sì che prima del 1848 la produzione si quadruplicasse. Altri settori industriali si aggiunsero poi a quello cotoniero. In primo luogo, e pressoché parallelamente a quello cotoniero, si sviluppò il settore siderurgico, con un netto miglioramento nella produzione di beni durevoli in ferro, un largo impiego del carbon coke, un forte impulso al settore ferroviario. L’impiego del coke e dell’energia prodotta dalle macchine a vapore (il volano della rivoluzione industriale), reso possibile da innovazioni che in questa sede non ha senso ricordare, portò alla nascita di bacini carbosiderurgici sempre più vasti e alla creazione dei primi laminatoi dando così un forte impulso alla diffusione del sistema ferroviario e ai successivi sviluppi del settore e creando nuove necessità produt-

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tive. Alla metà dell’Ottocento il sistema ferroviario inglese era pressoché completato, specialmente in direzione dei porti, che assicuravano esportazioni massicce, e prefiguravano, sul piano della politica economica, l’affermazione di una politica liberistica15. Ma questa trasformazione, con il suo rapido dilagare verso l’Europa continentale, dove venne «imitata» con ritmi diversi ma con metodi non dissimili da quelli utilizzati in Gran Bretagna, oltre a rendere possibili nuove produzioni, nuovi consumi, nuovi commerci e un enorme bisogno di materie prime, filtrata sul piano della riflessione ideologica creò le condizioni perché il pensiero utopistico divenisse «socialismo scientifico», cioè riflessione direttamente legata al tema dei «modi di produzione», al collegamento fra modi di produzione nell’economia di mercato e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, al vincolo indissolubile formatosi tra vita economica, dominio politico, politica internazionale e politica coloniale. L’analisi prevalentemente economica, avviata in Gran Bretagna da Adam Smith, Thomas Robert Malthus, John Stuart Mill e David Ricardo, venne concentrata sul piano economico e sociale dalla filosofia politica di Karl Marx e dall’elaborazione di questa filosofia non come pensiero utopistico bensì come pensiero scientifico, che avrebbe dovuto porre le basi per una rivoluzione sociale, per il mutamento dei modi di produzione e, di conseguenza, per la rivoluzione dei rapporti internazionali. Affermare l’importanza centrale che il contributo di Marx ebbe negli studi storici può apparire oggi quasi 15 Su questi temi si rinvia a Ciriacono, La rivoluzione industriale cit., pp. 60-94 e alla bibliografia ivi citata.

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un’ovvietà. Purtroppo il pensiero marxiano venne applicato o inteso in una maniera rudimentale da chi lo concepiva primariamente come la base di un grande movimento politico, deviato dall’esempio sovietico. Va invece sottolineato con forza il mutamento dei piani d’analisi dovuto al contributo teorico del pensatore tedesco e alla sua esperienza britannica. Infatti occorre ricordare non solo che Marx passò gran parte della sua vita (dal 1848 in poi) in Gran Bretagna ma anche che l’analisi della rivoluzione industriale britannica gli fornì lo spunto per gran parte delle sue osservazioni. Nel Manifesto del partito comunista (la sintesi più diretta ed efficace del suo pensiero così complesso) egli costruì la critica alla borghesia imprenditoriale sulla base di una rigorosa analisi del cambiamento economico avvenuto durante i secoli più vicini: secondo Marx, la scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa crearono nuovo terreno per la borghesia in ascesa. Il mercato delle Indie orientali, quello della Cina, la colonizzazione dell’America, il commercio con le colonie, la moltiplicazione dei mezzi di scambio e soprattutto delle merci scambiate diedero un impulso sino ad allora sconosciuto al commercio, alla navigazione, all’industria, e in tal modo favorirono il rapido sviluppo degli elementi rivoluzionari nella decadente società feudale. La grande industria – egli scrisse – diede vita al mercato mondiale, il cui avvento era già stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale diede uno sviluppo particolarmente impressionante alla crescita del commercio, della navigazione e delle comunicazioni continentali. Questo sviluppo si ripercosse, a sua volta, sull’espandersi dell’industria e, nella stessa misura in cui crescevano industria, commercio, navigazione e ferrovie, si sviluppò anche la borghesia che accrebbe i suoi capitali, e mise in secondo piano tutte le

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classi di origine medievale [...]. La borghesia trascinò verso la civiltà anche le nazioni più barbare, grazie al rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione e grazie al continuo progresso delle comunicazioni. I prezzi, calcolati con misura, delle sue merci divennero l’artiglieria pesante con cui essa abbatté tutte le muraglie cinesi, e così riuscì a far capitolare anche la più ostinata xenofobia dei barbari. Essa costrinse tutte le nazioni a adottare il modo di produzione borghese, pur di evitare l’eclisse, e le costrinse a accettare la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In altre parole, essa si creò un mondo a propria immagine e somiglianza.16

Il pensiero di Marx andava ben oltre la definizione del ruolo della borghesia e toccava gli aspetti strutturali dell’organizzazione sociale, culminando nella previsione che le contraddizioni interne del sistema capitalistico lo avrebbero portato verso l’estinzione. Sul piano scientifico, esso pose le premesse per la nascita di una storiografia riguardante i movimenti e le organizzazioni sociali interne e internazionali non direttamente legate ai governi. Sul piano organizzativo esso creò le basi per la creazione, nel 1864, dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la Prima Internazionale, che poneva l’internazionalismo come principio della lotta operaia e che chiudeva il proprio statuto con l’appello «proletari di tutto il mondo unitevi!», ripreso dal Manifesto ed espressione esso stesso della nuova impronta che si intendeva dare alla vita internazionale. La Prima Internazionale sopravvisse solo fino al 1872, quando le diatribe ideologiche, sull’ipotesi di un fronte comune con gli anarchici o di uno con i social16

1848.

K. Marx, F. Engels, Le manifeste du parti communiste, London

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democratici, la privarono di vitalità17. Nel 1889, nel tentativo di restituire slancio e unità al movimento socialista mondiale, venne fondata a Parigi la Seconda Internazionale, teatro anch’essa della competizione fra revisionisti socialdemocratici e marxisti intransigenti. Ma nel 1914, con lo scoppio della Prima guerra mondiale, esplosero le contraddizioni tra la tendenza rivoluzionaria, contraria a ogni schieramento in una lotta scatenata dal regime capitalistico, e i socialdemocratici, soprattutto quelli tedeschi, disponibili ad anteporre alla lotta rivoluzionaria la difesa della loro nazione d’origine18. È evidente che il pensiero di Marx, proponendo un mutamento radicale di prospettive, non poteva non avere una profonda ricaduta sul modo di concepire politicamente e di studiare storicamente le relazioni internazionali. Oltre all’implicita individuazione delle origini della globalizzazione, l’analisi marxiana suggeriva un radicale trasferimento dei piani d’analisi e di quelli della prassi che avrebbe dovuto tener dietro al pensiero. Pur senza analizzare gli sviluppi del movimento marxista e della spinta che esso diede all’azione socialista e rivoluzionaria nel mondo, appare quasi ovvio rilevare che la riflessione relativa ai sistemi politici interni, ai modi di produzione e ai loro effetti sul mercato mondiale e, conseguentemente, sull’attuazione di determinate forme di politica internazionale, rappresentava una svolta. Infatti essa proponeva per prima non un adeguamento del sistema dei rapporti fra gli Stati ma metteva in di17 Su questi temi e sulla Prima Internazionale cfr. G.M. Bravo, La Prima internazionale: storia documentaria, Roma 1978; Id., Marx e la Prima internazionale, Roma-Bari 1979. 18 Cfr. G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista. La Seconda Internazionale, 1889-1914, Roma-Bari 1968; G. Haupt, La Seconda Internazionale, Firenze 1973.

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scussione la natura stessa delle relazioni internazionali, collegandole alla natura dei sistemi sociali esistenti. L’analisi del modo di produzione capitalistico, avviata da Marx e proseguita, con varie declinazioni, non sempre coincidenti, dai suoi seguaci e da coloro che raccolsero almeno in parte l’eredità del suo pensiero, ebbe sul piano politico un esito infelice poiché venne ripresa proprio da chi, con la rivoluzione d’ottobre in Russia, l’avrebbe assunta come slogan per costruire un potere dittatoriale e repressivo sotto la bandiera della liberazione dei popoli dal giogo capitalista19. Ma il pensiero marxista lasciò una traccia profonda nel modo in cui i popoli considerarono la propria esistenza. Anziché rivolgersi ai governi esso fece appello ai lavoratori, chiamando i singoli a compiere la rivoluzione dalla quale sarebbe scaturito un nuovo ordine mondiale. È evidente perciò che, date queste premesse, dal 1917 in poi le relazioni internazionali mutavano natura. Dal momento in cui il cosiddetto «internazionalismo socialista» si affacciava sulla scena politica e Lenin costituiva la Terza Internazionale come punto di riferimento per la rivoluzione mondiale, le relazioni internazionali risentivano della propaganda di questi principi. Trasferiti sul piano del lavoro storiografico, essi richiedevano un approccio diverso rispetto al modo in cui i temi internazionali erano (e sono) stati trattati. Se fino al 1917 la storia del sistema internazionale, la storia delle relazioni economiche o quella delle relazioni finanziarie internazionali potevano essere considerate come tematiche distinte e concettualmente separabili, dopo di allora esse mantennero autonomia solo sul pia19 Su questa involuzione basti qui citare quanto scrive E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica, 1917-1923, Torino 1964, pp. 854-1234.

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no dell’astrazione. La storia delle relazioni internazionali richiedeva un impegno ben più conscio della necessità di tenere conto delle nuove variabili che il pensiero marxiano, quello dei socialisti internazionalisti e quello dei governi che affermavano di ispirarsi a tali concetti ponevano in essere. In altri termini, se la storia politica delle relazioni internazionali conservava una sua legittimità, così come tutte le altre classificazioni parallele, al tempo stesso diventava necessario intendere le relazioni internazionali (e scrivere della loro storia) tenendo conto del sovrapporsi dei piani dai quali esse sono costituite: la politica, la cultura e la propaganda, la finanza internazionale, il commercio, la demografia, la politica militare, la strategia, i mutamenti tecnologici, per non citare che le variabili più appariscenti. Accanto alla rivoluzione concettuale provocata dal marxismo e dalle sue conseguenze politiche va peraltro aggiunto un ulteriore elemento, che rende ancora più complesso l’insieme degli aspetti dei quali tener conto sul piano storiografico. Il pensiero marxista non rimase infatti incontrastato e, per quanto riguarda le relazioni internazionali, esso trovò una sorta di risposta riformistica nella concezione internazionalistica moderata delle relazioni internazionali. Verso la fine del XIX secolo e, più ancora, all’inizio del XX secolo e durante la Prima guerra mondiale, divenne molto evidente che la competizione internazionale, resa ancora più serrata dopo il 1871 dalla nascita dell’Impero germanico, dal declino sempre più palese dell’Impero ottomano e dalla violenta irruzione delle potenze coloniali in Africa – dapprima solo sfiorata dall’intrusione imperialistica e poi caduta quasi per intero, fra il 1870 e il 1912, fatta eccezione per l’Etiopia e la Liberia, sotto il controllo delle potenze europee –, faceva divenire sempre più acute le

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frizioni esistenti fra le potenze europee. Nel 1877-78 la guerra russo-turca portò quasi al crollo della presenza dell’Impero ottomano in Europa; dal 1879, con l’alleanza fra l’Impero austro-ungarico e l’Impero germanico vennero poste le basi per la creazione di quella vasta rete di collegamenti politici che avrebbe diviso, nel 1907, l’Europa in due schieramenti contrapposti: l’Intesa anglo-francese, arricchita dalla collaborazione russa, e l’alleanza austro-germanica, seguita dalle oscillazioni italiane; nel 1896 una potenza europea (l’Italia) venne sconfitta per la prima volta, a Adua, da uno Stato africano (l’Etiopia); nel 1900 tutte le potenze coloniali subirono la prima manifestazione dell’anticolonialismo militante con la «rivolta dei Boxers» in Cina; nel 1905 l’Impero russo patì la ancora più cocente umiliazione della sconfitta da parte del Giappone, che si affacciava sul Pacifico come nuovo soggetto espansionistico, e infine la pace fra l’Impero russo e quello giapponese fu negoziata dalla diplomazia degli Stati Uniti (trattato di Portsmouth, del 5 settembre 1905)20: un segnale che il baricentro della politica mondiale stava spostandosi fuori dal Vecchio continente. L’idea che le grandi questioni internazionali potessero venir risolte prima che con la guerra con il metodo della transazione fra Stati aveva avuto alcune manifestazioni marginali sin dagli inizi del XIX secolo, con la nascita del Direttorio europeo e con il sistema dei Congressi, previsto dalla quadruplice alleanza del 20 novembre 1815. Essa era stata verificata in maniera efficacemente pratica e, in un certo senso, evolutiva durante la conferenza di Berlino del 1885, che aveva contribuito al 20 Su questo periodo storico cfr. in particolare la bella sintesi proposta in Girault, Diplomatie européenne et impérialisme cit.

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riconoscimento del dominio personale del re del Belgio, Leopoldo I, sul Congo ma anche a definire regole e interessi delle potenze coloniali in Africa. Al tempo stesso si faceva strada l’idea che i trattati di arbitrato, più o meno obbligatorio, fossero un’altra alternativa ai conflitti militari. Nel 1899, lo zar Nicola II di Russia, consapevole dei costi dell’armamento e dell’arretratezza del proprio paese in questo campo, propose e riuscì a organizzare a L’Aja una prima conferenza per la pace dalla quale nacque una Corte arbitrale permanente, accompagnata da un segretariato permanente per la pace. Sebbene tutto ciò non fosse che un aspetto della politica di consolidamento dei blocchi che stavano per costituirsi in Europa, la Corte esercitò qualche funzione marginale e, in questo ambito, per iniziativa di Theodore Roosevelt, si tenne a L’Aja nel 1907 una seconda conferenza mentre andò a vuoto il tentativo, sviluppato da vari governi fra il 1912 e il 1913, di tenerne una terza21. Ma si trattava di ipotesi internazionalistiche, che velavano a malapena gli obiettivi della politica di potenza che le ispirava. L’attivismo internazionalistico degli Stati Uniti acquistò un peso e, forse, un significato diverso con l’elezione alla presidenza di Thomas Woodrow Wilson, nel novembre 1912. Wilson, un intellettuale imbevuto di dogmatismo internazionalista, cercò inutilmente di intervenire nella contesa diplomatica europea per evitare lo scoppio della guerra. Quando le sue speranze furono tradite dai fatti e quando, poco dopo, anche gli Stati Uniti, nell’aprile 1917, furono trascinati nel conflitto militare, egli divenne il profeta di una sorta di nuovo ordine mondiale che, essendo costruito sul presupposto 21 C. Meneguzzi Rostagni, L’organizzazione internazionale tra politica di potenza e cooperazione, Padova 2000, pp. 61-73.

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di dar vita a un’internazionale degli Stati piuttosto che a un’internazionale dei popoli, si poneva in netta antitesi ideologica, prima ancora che pratica, rispetto all’internazionalismo socialista22. Wilson affermava che il compito degli Stati Uniti era quello di promuovere «un’associazione universale delle nazioni che avesse il compito di assicurare la libera navigazione dei mari e prevenire lo scoppio di ogni guerra». Anche fuori dagli Stati Uniti, dichiarava Wilson, «un governo giusto deve basarsi sempre sul consenso di coloro che esso governa. Non può esistere libertà senza ordine basato sulla legge, sulla morale e sull’approvazione pubblica»23. Quando la speranza di eludere i rischi di essere trascinato in guerra si fece flebile, egli invocò la «pace senza vittoria»; e quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, disse che l’intervento era inteso a rendere il mondo «safe for democracy», cioè sicuro nella democrazia. Wilson riteneva che la responsabilità della guerra ricadesse soprattutto sul metodo secondo il quale avevano operato nei secoli, soprattutto dopo il 1870, i diplomatici europei. Era convinto che il nemico da abbattere fosse la «diplomazia segreta», e non il modo di produzione capitalistico. Riteneva che imporre un controllo democratico sulla diplomazia sarebbe stato la sola efficace garanzia per assicurare la pace. Tuttavia, l’8 novembre 1917, il giorno successivo all’avvento al potere, il governo rivoluzionario di Lenin 22 La tesi che i Quattordici punti fossero una sorta di «contromanifesto» wilsoniano rispetto alle tesi leniniste è sviluppata con ampiezza in A.J. Mayer, Political Origins of the New Diplomacy. 19171918, New York 1959. Su questa interpretazione del pensiero di Wilson spunti importanti anche in F. Ninkovich, The Wilsonian Century: U.S. Foreign Policy since 1900, Chicago 1999. 23 R. Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, Baltimore 1982, p. 86.

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rendeva pubblico il «decreto per la pace», un atto unilaterale rivolto «a tutti i paesi belligeranti e ai loro governi, per iniziare immediatamente i negoziati per una pace equa e democratica», intendendo come tale, diceva il decreto, «una pace immediata, senza annessioni e senza pagamento di indennità»24. Si trattava di un gesto provocato dallo stato di necessità nel quale il governo leninista versava in quei giorni, ma anche di un’ipotesi di pacificazione che avrebbe riportato le cose al 1914, nell’attesa del momento in cui i popoli fossero pronti a combattere contro i loro governi: una pausa che anticipava la pace di Brest-Litovsk ma che andava di pari passo con la campagna dei comunisti europei per instaurare nel mondo un nuovo ordine sociale. L’ambigua e disomogenea risposta delle potenze belligeranti era condizionata dal fatto che il decreto sovietico, di fatto, rappresentava un potenziale vantaggio per la Germania e prospettava un’alternativa poco accettabile per gli Stati Uniti. Nel gennaio 1918, Wilson enunciò i ben noti «Quattordici punti», che da allora divennero il manifesto che esprimeva gli obiettivi di guerra degli Stati Uniti e, al tempo stesso, si trasformarono nella concezione antitetica a quella rivoluzionaria: non i popoli ma i governi erano richiamati al dovere di dare al mondo la pace. Non i popoli ma i governi democratici erano gli artefici dell’internazionalismo. A ben guardare, i Quattordici punti erano una combinazione di utopismo, idealismo e realismo, attenta, come sempre sarebbe accaduto, con altri presidenti, nei decenni successivi, a esprimere proposte che tutelassero gli interessi americani. Era la «nuova» diplomazia, il 24 Cfr. L. Fisher, I Sovieti nella politica mondiale, 2 voll., Firenze 1957, vol. I, p. 3.

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cui presupposto veniva indicato illusoriamente nell’impegno a stipulare «Pubblici trattati di pace, negoziati apertamente, dopo i quali non vi saranno più accordi internazionali segreti di qualsiasi natura poiché la diplomazia procederà sempre francamente e pubblicamente» (1° punto) e il cui strumento pratico era indicato in un progetto organizzativo: «Si dovrà formare una Società generale delle nazioni mediante convenzioni formali aventi per oggetto l’individuazione di garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale per i piccoli come per i grandi Stati» (14° punto). Il secondo e il terzo punto enunciavano assiomi che avrebbero poi accompagnato la politica internazionale degli Stati Uniti per diversi decenni: l’idea della libertà assoluta di navigazione sui mari e l’idea della soppressione di tutte le barriere economiche che ostacolassero il commercio. Gli altri punti affrontavano, con diverso grado di realismo, i problemi che avevano dato origine alla guerra o che erano stati creati proprio dal conflitto. Ma i punti 2 e 3, appena citati, erano la bandiera della lotta che gli Stati Uniti avevano intrapreso non solo contro la Germania ma anche contro tutte le forme di protezionismo che caratterizzavano la struttura degli imperi coloniali. Alla base vi era l’idea di un grande mercato mondiale, nel quale le potenze più forti e, fra queste, la potenza più forte di tutte, gli Stati Uniti, avessero il predominio. È ben noto che il 14° punto venne davvero attuato con la creazione della Società delle Nazioni, la prima grande organizzazione internazionale del XX secolo, alla quale fu affidato il compito di tutelare la pace nel mondo (art. 3 del Patto della Società delle Nazioni, firmato il 28 giugno 1919 come parte integrante del trattato di pace con la Germania). Così, l’internazionalismo

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moderato si trasformava da utopia in realtà. E alle nozioni tradizionali riguardanti le relazioni internazionali si affiancava anche il dovere di tener conto di ciò che accadeva e accade nelle organizzazioni internazionali, che da allora sarebbero cresciute di numero e di importanza. Ma prima di considerare questa crescita occorre soffermarsi sulla natura di questo internazionalismo e comprendere se esso segnò davvero una svolta nell’ordinamento internazionale oppure se costituì l’espressione di un formalismo illusorio, che dava solo una veste più dignitosa alla crudezza della politica di potenza quale era stata praticata fino al 1914. La politica corrente fu assai crudele con il destino della Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, che l’avevano proposta, furono anche i primi a non prendervi parte poiché, al momento del dibattito sulla ratifica del trattato di Versailles, nel marzo 1920, Wilson e i suoi avversari politici non riuscirono a trovare un compromesso che consentisse al Senato americano di approvare con il trattato di pace anche la creazione della nuova organizzazione internazionale. La Germania non vi fu ammessa sino al 1926. La Russia rivoluzionaria non prese allora in considerazione il problema di associarsi a un’impresa troppo chiaramente concepita come alternativa all’internazionalismo sovietico. Così la Società rimase nelle mani delle quattro maggiori potenze vincitrici: la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia e il Giappone. Ma l’Italia assunse presto, con l’ascesa al potere di Mussolini, una posizione defilata, poiché il capo del fascismo riteneva che gli alleati non avessero fatto all’Italia quelle concessioni che la comune vittoria avrebbe dovuto garantire anche sul terreno coloniale. Anzi, nel 1923, fu proprio Mussolini, con la crisi di Corfù, segnata dall’inutile ricorso della Grecia avverso l’azione vio-

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lenta della flotta italiana contro l’isola greca, dall’occupazione di questa e dalla larvata minaccia di Mussolini di abbandonare l’organizzazione qualora la controversia non fosse stata ricondotta entro un alveo meramente giuridico25, a mettere in luce il fatto che la Società era un fragile strumento, tutto affidato nelle mani della Francia e della Gran Bretagna, che se ne valsero per i loro obiettivi di politica internazionale più che in nome di un internazionalismo sincero. Non è, questa, la sede in cui occuparsi a lungo della vita della Società delle Nazioni, se non per sottolineare il fatto che l’internazionalismo aveva una vita difficile, sottoposto com’era alla sfida della politica di potenza. Del resto il Covenant, cioè lo statuto dell’organizzazione, riprendeva il principio, sancito a Westfalia, dell’uguaglianza degli Stati dinanzi al diritto internazionale, senza mitigarlo con la prassi del riconoscimento di una gerarchia delle potenze, salvo che per la distinzione formale, indicata nell’art. 4 del Covenant stesso, dove si affermava che il Consiglio della Società delle Nazioni era formato dai rappresentanti «delle principali Potenze Alleate e Associate» e da altri quattro membri a rotazione: una norma che definiva una gerarchia giuridica, di fatto contraddetta dalla norma che imponeva alla Società di assumere delibere solo con voto unanime (art. 5). Una norma che contribuì non poco a paralizzare la vita della Società delle Nazioni nel ventennio precedente la Seconda guerra mondiale, sino a svuotarla di rilevanza, salvo che per alcuni aspetti marginali e umanitari. Non fu un caso che sia la dittatura fascista (contro l’Etiopia), sia quella nazista (contro l’assetto definito 25 Cfr. E. Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana (19191933), Padova 1960, pp. 79-97.

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nel 1919-20), sia quella giapponese (contro la Cina), sia quella sovietica (contro la Finlandia) attuassero con pochi ostacoli la loro azione aggressiva sul piano internazionale, senza che la Società delle Nazioni fosse in grado di contrastarla efficacemente 26. Questo severo giudizio può essere mitigato da un’osservazione: l’Assemblea della Società delle Nazioni fu, nonostante tutto, il consesso dove, sebbene non fossero possibili deliberazioni operative efficaci, si poté discutere di politica internazionale. Essa fu, in pratica, come una sorta di sede elettiva per il dibattito istituzionale sui temi principali della politica internazionale. In tal senso ebbe valore di precedente rispetto a ciò che si sarebbe dovuto/potuto fare in seguito. 3. Verso un cambiamento radicale Accanto all’internazionalismo e alla ripresa della politica di no entanglement (cioè disimpegno) che aveva caratterizzato la presenza degli Stati Uniti nelle vicende europee dopo la fine della Prima guerra mondiale, si collocava un aspetto meno appariscente ma più duraturo rispetto al nuovo ruolo che, nonostante tutto, Washington aveva assunto nella politica mondiale. Mentre gli europei uscivano dalla guerra in condizioni economiche disastrose, per la prima volta gli Stati Uniti, già cresciuti verso la posizione di prima potenza economica mondiale, diventavano anche un paese creditore. Gli obblighi che gli alleati avevano contratto con le banche americane sottolineavano un «rovesciamento dei rap26 Cfr. F.P. Walters, A History of the League of Nations, II ediz., London 1960, pp. 162-782.

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porti di forza all’interno del capitalismo occidentale»27. Il tema del debito europeo si intrecciava quasi subito con quello delle riparazioni che, sulla base del trattato di Versailles, la Germania avrebbe dovuto pagare ai vincitori. Infatti i paesi debitori si dichiararono disposti a pagare solo se il governo tedesco fosse stato in grado di mantenere gli obblighi che gli erano stati imposti dal trattato di pace oppure gli Stati Uniti fossero stati disposti a rinunciare ai loro crediti. Si creava un circolo vizioso dal quale, come suggeriva John Maynard Keynes, si sarebbe potuti uscire con una generale cancellazione degli oneri, ma al quale non si sfuggì poiché nessuna delle parti interessate volle rinunciare al proprio punto di vista28. Sin dal gennaio 1922 i tedeschi incominciarono a mostrare l’impossibilità di pagare le rate delle riparazioni loro imposte mentre, nel febbraio dello stesso anno, gli americani decidevano di vietare espressamente la riduzione dei debiti interalleati. Nulla poteva mostrare in maniera più eloquente la connessione ormai stabilitasi fra i due temi: una situazione caotica dal punto di vista finanziario, dalla quale invano si cercò per parecchio tempo di uscire sinché, nel gennaio 1923, il governo francese decise un’azione unilaterale, occupando il territorio tedesco della Ruhr, sulla base dell’argomento che in tal modo si sarebbero potuti acquisire quei «pegni produttivi» che il governo tedesco 27 Per un’analisi dell’aspetto italiano di questo tema cfr. G.G. Migone, Aspetti internazionali della stabilizzazione della lira: il piano Leffingwell, in Id., Problemi di storia nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, Torino 1971, pp. 43-93. 28 Una ricostruzione sintetica di questo scontro in E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Roma-Bari 2002, pp. 50-87. Cfr. anche C.-L. Holtfrerich, L’inflazione tedesca, 1914-1923, Roma-Bari 1989.

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non pagava in valuta aurea e che quello francese continuava a esigere. Il modo in cui si risolse questa crisi mise in chiaro la portata dell’interesse sostanziale della finanza americana rispetto a ciò che accadeva in Europa e rese manifesta la disponibilità dei finanzieri americani a investire in Europa, acquistando in tal modo un potere economicopolitico permanente, che solo per pochi anni, poco prima e durante la Seconda guerra mondiale, essi avrebbero dovuto trascurare. Infatti il piano Dawes (dal nome di Charles Gates Dawes, il banchiere americano ex direttore del Bureau of the Budget, al quale fu affidata la direzione della commissione internazionale ad hoc) fu basato solo in parte limitata sui pagamenti tedeschi e fu viceversa reso possibile dalla trasformazione delle riparazioni in un prestito obbligazionario, i cui titoli sarebbero stati lanciati sul mercato mondiale per una cifra di 800 milioni di marchi d’oro. Metà di queste obbligazioni venne destinata al mercato americano ed ebbe un ruolo risolutivo nel superamento della crisi politica europea e di quella monetaria, dalla quale la Germania era allora attanagliata. Il successo del piano Dawes diede il via a un’ondata di prestiti americani all’estero, «che inondarono i mercati finanziari internazionali nei quattro anni successivi»29. Il prestito fu dunque un momento di svolta per l’attività finanziaria all’estero degli Stati Uniti. Esso mostrò che l’isolazionismo politico era solo una faccia della medaglia che aveva ben evidente, sul verso, un crescente impegno economico-finanziario. New York e 29 B. Eichengreen, Gabbie d’oro. Il «gold standard» e la Grande depressione. 1919-1939, Roma-Bari 1994, pp. 192-93; cfr. anche, in proposito: G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano 1996, pp. 353-58.

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Washington si avviavano a diventare l’una la capitale finanziaria e l’altra la capitale politica del mondo. Negli anni Venti e fino alla Grande depressione del 1929-33, gli Stati Uniti funzionarono come una gigantesca calamita per il controllo dell’andamento delle monete di tutti i paesi del globo. Quando si studia la storia delle relazioni internazionali a partire dal primo dopoguerra e sino ai giorni nostri è impossibile trascurare questo aspetto strutturale, che dava una nuova impronta alla qualità della cooperazione internazionale ma anche alla natura di molte divergenze, contribuendo in maniera rilevante a spiegare come la crisi degli anni dal 1929 al 1933 e la successiva politica protezionistica adottata da molti paesi spingessero l’Europa verso un nuovo conflitto. Abbandonato il gold standard durante la guerra, i principali paesi europei, Germania e Gran Bretagna in testa, e in Asia il Giappone, si lanciarono in una politica dai livelli altissimi di spesa per gli armamenti, tale da spiegare poi la portata dell’aggressività hitleriana (e giapponese) e, al tempo stesso, la capacità di resistenza britannica30. 4. Nuove variabili 4.1. Il capitale finanziario L’avvento del capitale finanziario come aspetto di importanza risolutiva per le relazioni internazionali (non certo un aspetto nuovo: basti pensare al Rinascimento, ma ora il tema veniva posto con enfasi prima sconosciuta) genera il problema di collocare tale innovazione all’interno del quadro interpretativo che, in questa sede, a poco per volta, si cerca di costruire. Si pone il pro30

Eichengreen, Gabbie d’oro cit., pp. 491-92.

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blema di capire in quale misura, accanto alle decisioni politiche o, forse, più delle decisioni politiche, l’aspetto finanziario delle relazioni internazionali avesse o abbia tale portata risolutiva. È ben vero che i movimenti di capitale rispondono a una logica propria dell’economia finanziaria; tuttavia occorre anche distinguere sino a che punto tali movimenti si alimentino delle proprie ragioni interne o siano, in parte o in toto, il risultato di scelte politiche. Qualora si assumesse come esempio il caso delle riparazioni tedesche e del piano Dawes, apparirebbe evidente che le ragioni finanziarie prevalsero su quelle politiche e fecero loro da traino. Ma se si assume come esempio, con un’anticipazione cronologica verso il secondo dopoguerra, il piano Marshall per gli aiuti all’Europa, lanciato nel 1947, dividere le ragioni finanziarie e quelle riguardanti la bilancia commerciale degli Stati Uniti dai temi derivanti dall’emergere del conflitto fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, un conflitto legato soprattutto alle rispettive politiche di potenza in Europa e agli aspetti ideologici che facevano loro da contorno, la distinzione diverrebbe assai difficile, se non impossibile. Al solito, si dovrebbe ricorrere alla metafora delle due facce della stessa medaglia. È ovvio che sul piano della prassi questa distinzione non ha alcuna rilevanza ma su quello dell’analisi storica o storico-economica essa ha un valore centrale. Tagliare come un nodo di Gordio questo tema richiede scelte più ideologiche che metodologiche. Rifugiarsi nella semplificazione che rifiuta la scelta e propone indagini caso per caso significa arretrare criticamente dinanzi a un problema troppo complesso. E, ancora, assegnare il primato alla finanza vuol dire ammettere che il sistema internazionale sia soggetto al potere di grandi istituzioni come il Fondo monetario internazionale, o dei mercati fi-

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nanziari o, ancora, dei ministeri del Tesoro degli Stati più influenti e, parallelamente, che le Nazioni Unite non siano altro che un palcoscenico per le maschere caratteriali della nazionalità e delle forme diplomatiche. Viceversa, assegnare il primato alla politica o alle tematiche geo-militari vuol dire ammettere che la vita materiale non è il fulcro dell’attività sociale ma solo un epifenomeno di questa. Il dilemma si pone dunque in termini così complessi ma divenuti talmente maturi da imporre l’ammissione del fatto che la dinamica delle relazioni internazionali non è il risultato delle sole decisioni di politica internazionale ma anche il portato del governo della vita materiale, il frutto dei modi di produzione e che questi sono la base dei movimenti finanziari che li condizionano. A questa conclusione si potrebbe pervenire in modo tortuoso ma non univoco né risolutivo. Le categorie della politica sono divenute troppo palesemente un’espressione di interessi concreti e questi sono troppo condizionati dalle risorse materiali, acquisibili mediante il mercato finanziario, perché tutto possa essere ricondotto semplicisticamente alla dialettica tra primato della politica e primato della finanza. Barry Eichengreen, nel suo saggio sull’economia globale negli anni fra le due guerre mondiali, perviene a una conclusione: «Diversamente da quanto alcune teorie di politica internazionale sostengono», egli scrive, la storia dei rapporti monetari internazionali suggerisce che una base durevole per un clima di cooperazione si è raggiunta e ha avuto successo quando il potere economico è stato distribuito in maniera relativamente equilibrata tra i vari paesi. Una potenza egemone può imporre ad altri paesi un’apparenza di cooperazione; ma la realtà è un’altra. In generale gli accordi monetari internazionali imposti da un paese dominante sono volti a servire gli interessi specifici di tale paese, e

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quindi si dimostrano inadeguati non appena il suo peso relativo inizia a declinare. Conseguentemente non sono mai riusciti a rappresentare una base durevole della cooperazione internazionale [...]. Si tratta di problemi che, in linea di principio, sono tutti controllabili da parte delle società civili e dei loro governanti. Tra le due guerre si lasciò che se ne perdesse il controllo, con conseguenze catastrofiche.31

La sintesi di Eichengreen, che intreccia fra l’altro aspetti economici generali a tematiche finanziarie, tende così a promuovere la tesi della capacità della società civile, cioè del potere politico, di governare il sistema finanziario. Essa induce a riflettere sulla necessità di considerare la combinazione delle variabili in gioco secondo la regola della specificità dei casi singoli. Sul piano puramente astratto, questa argomentazione appare coerente con qualsiasi analisi a lungo termine. Tuttavia essa prevede l’ipotesi che «un paese dominante» si avvii verso il declino. Durante il XX secolo ebbe luogo un trasferimento del centro nevralgico della finanza globale da Londra a New York, e ciò fu l’espressione della dominazione statunitense come un fatto durevole. All’inizio del XXI secolo si possono cogliere i primi segnali di un mutamento dei pesi relativi dei maggiori paesi nella politica e nell’economia mondiale. Tuttavia non è ancora visibile un reale declino della dominazione americana. Il mercato globale guarda ancora al tasso di interessi applicato dalla Federal Reserve degli Stati Uniti come alla stella polare che orienta le scelte altrui. Ciò non significa che il dato sia immutabile ma che, per tutto il XX secolo, esso è stato uno degli aspetti che hanno qualificato le relazioni economico-politiche nel globo. 31

Eichengreen, Gabbie d’oro cit., pp. 507-508.

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4.2. La misurazione del tempo Gli aspetti finanziari e di dominazione statunitense nel sistema internazionale del XX secolo sono quelli strutturalmente meno visibili ma più rilevanti. Essi sono accompagnati da una serie di altre trasformazioni che lo storico non può trascurare. Sebbene la storia si distenda nel tempo, e costituisca, anzi, soprattutto il tentativo di ritrovare il «tempo perduto», ciò non si riflette molto sul modo in cui il tema della misurazione del tempo è presente nelle ricostruzioni storiche; del resto raramente è posto in evidenza il fatto che l’accelerazione del tempo nel quale gli eventi si collocano e la percezione di tale accelerazione debbano essere un aspetto del recupero del passato. Senza rimandare alla inevitabile lentezza delle comunicazioni e dei commerci legata alle tecniche primitive dei secoli più remoti, basti pensare a pochi precedenti. Nel giugno 1815 il ritardo nell’arrivo dei soccorsi attesi da Napoleone I gli fece perdere la battaglia di Waterloo ma la rapidità con la quale, grazie ai loro sistemi informativi, i Rothschild inglesi seppero della sconfitta consentì loro una serie di speculazioni finanziarie che ebbero gran peso nelle loro fortune; nel 1857 i britannici seppero dell’ammutinamento dei sepoys in India dopo che questo era stato già domato; nel 1869, l’apertura del canale di Suez dimezzò i tempi necessari per compiere un viaggio dai porti inglesi a quelli indiani. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati a migliaia. La necessità di comunicazioni postali rapide rese possibile e redditizia la creazione del sistema di «poste» a cavallo che lungo le strade europee riuscivano a trasportare plichi in pochi giorni da una città all’altra. Se è lecita una divagazione narrativa, qualche lettore potrà ricordare con quanta fretta i quattro moschettieri di Alexandre Dumas corressero a Londra per recupe-

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rare lo smeraldo che la sventata regina aveva donato al duca di Buckingham. Ma questa aneddotica rende meno greve un problema più serio. Cristoforo Colombo partì da Palos il 3 agosto per arrivare alle Bahamas il 12 ottobre, senza sapere se e quando le sue caravelle avrebbero dimostrato la sfericità del globo. Nel XX secolo gli aerei supersonici impiegano poche ore per compiere lo stesso viaggio. Un missile a lunga gittata, durante la guerra fredda, poteva raggiungere il territorio sovietico da basi americane o quello americano da basi sovietiche in circa 20 minuti; e quando, fra il 1976 e il 1979, si pose il problema degli «euromissili», si calcolò che i tempi per colpire un bersaglio sarebbero stati inferiori ai 10 minuti e i tempi di elaborazione di una risposta sarebbero stati pari a 2-4 minuti. Per lanciare un satellite verso l’atmosfera e, ancor più, verso pianeti remoti, è necessaria una velocità di partenza non inferiore ai trentaseimila chilometri orari. Così la misurazione del tempo diventava, sul piano del trasporto di merci, di persone o di armamenti, un problema nuovo: solo la velocità della freccia di Ulisse contro i Proci potrebbe tenere il paragone, ma la portata dei fatti è ben diversa. E il tema concerne sia la velocità con la quale si muovono gli uomini, sia quella necessaria per trasportare merci, sia quella imposta dalle innovazioni tecnologiche a tutti i problemi legati agli armamenti e ai modi di combattere o prevedere una guerra, sia, ora e soprattutto, l’istantaneità globale con la quale, per via telematica, vengono compiute grandi operazioni finanziarie32. 32

1993.

Su questi temi cfr. D. Harvey, La crisi della modernità, Milano

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La velocità crescente con la quale gli uomini (uomini singoli o reparti militari) possono muoversi cambia la vita internazionale. Se fino all’avvento del treno, o delle navi veloci o degli aerei, l’incontro fra statisti era un’eccezione prevista con misurati intervalli, oggi la prassi della diplomazia per conferenze o quella delle visite di Stato che assicurano un contatto diretto fra i protagonisti della vita internazionale, senza quasi interrompere la loro capacità di partecipare alla vita interna, dà un carattere nuovo alla diplomazia. Del pari, la rapidità nel trasferimento delle merci o la maggiore facilità con la quale enormi petroliere trasferiscono grandi quantità di greggio dai terminali degli oleodotti ai luoghi di raffinazione sono esempi della qualità nuova dei commerci. Le derrate alimentari di ogni continente possono essere consumate, con adeguati metodi di conservazione, in tutte le parti del globo. Il fabbisogno di materie prime può essere delimitato da ostacoli giuridico-politici, non dalla lentezza dei trasporti o dalla lontananza delle risorse. 4.3. I tempi della «deterrenza» Il piano sul quale influiscono maggiormente i cambiamenti derivanti dall’accelerazione dei tempi è tuttavia quello militare. A questo proposito la casistica bellica offre sin troppi esempi ma, senza andare troppo indietro, basti pensare a quanto i tempi di mobilitazione dell’esercito imperiale russo influirono sul concatenarsi di eventi che rese inevitabile la «globalizzazione» della Prima guerra mondiale; oppure basti pensare alla Blitzkrieg, la «guerra lampo» voluta da Hitler contro la Polonia e altri avversari e poi, soprattutto, contro la Francia e l’Unione Sovietica, per misurare sino a che punto il calcolo dei tempi necessari per agire condizio-

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nasse le fasi belliche della vita internazionale. Ma l’esempio più evidente è offerto dalla trasformazione del concetto di «deterrenza» durante la guerra fredda. Da quando i tedeschi, nella fase finale della Seconda guerra mondiale, utilizzarono per primi razzi automatici, sino al perfezionamento dei vettori di missili balistici intercontinentali, magari a testata multipla e con un grado di precisione e una rapidità d’azione calcolabile, come è appena stato rilevato, nell’ordine di pochi minuti, e parallelamente, da quando su tali vettori divenne possibile (dal 1945 in linea teorica, dalla seconda metà degli anni Cinquanta sul piano pratico) disporre armi nucleari dagli effetti devastanti, si pose il problema di prevedere e prevenire uno scontro balistico localizzato o globale, la cui portata distruttiva appariva (e appare) incalcolabile. Si incominciò a parlare di first strike capability, cioè di capacità di colpire per primi annientando l’avversario; ma poi si passò alla second strike capability, cioè alla valutazione delle possibilità di sopravvivenza parziale al primo colpo, per poterne infliggere un secondo, tale da assicurare il successo. E divenne un acronimo minaccioso la parola mad, che in inglese significa «pazzo» ma che, sciolta nelle sue parti, significa mutual assured destruction, cioè distruzione reciproca assicurata come esito di un conflitto nucleare catastrofico. Tutto questo divenne quasi una metafora del modo in cui le superpotenze predisponevano immensi arsenali autodistruttivi sapendo di non poterli utilizzare se non in caso di madness, cioè di pazzia, ma anche con tale timore di essere colti di sorpresa da un attacco che in pochi minuti avrebbe seminato morte e distruzione tali da far avvertire la necessità, per l’appunto, della «deterrenza», cioè della capacità di prevenire con l’ostentazione di una for-

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za nucleare uguale e contraria le tentazioni aggressive del potenziale nemico: la deterrenza moderna, figlia dell’accelerazione del tempo e matrice della competizione nucleare e missilistica. 4.4. Della geopolitica Nel 1896 Friedrich Ratzel, un geografo tedesco, pubblicò un volume dal titolo Politische Geographie che poneva le basi dell’interesse scientifico verso la geopolitica. Secondo Ratzel, la nascita, la crescita e lo sviluppo degli Stati non dipendono tanto dalla volontà degli uomini che li formano, ma sono determinati dalle condizioni dell’ambiente. Lo Stato è un «frammento di terra organizzata», un frammento che condiziona la storia e lo sviluppo dello Stato stesso33. Le tesi di Ratzel vennero riprese da altri autori, soprattutto in Germania, poiché le teorie del geografo tedesco offrivano una base importante per la nozione di germanesimo e per una politica di espansione. Essa venne ripresa, durante i primi anni del XX secolo, da un grande geografo tedesco, Karl Haushofer, che collocò l’impostazione geopolitica (la definizione era stata introdotta nel linguaggio scientifico per la prima volta nel 1916 dai lavori di uno studioso svedese, Rudolf Kjellén) al centro delle sue riflessioni, dilatandone la portata sino a indicarla come «scienza del sangue e del suolo». Secondo questa concezione, lo Stato è un essere vivente che evolve come un organismo e che può essere influenzato, spesso in larga misura, nella sua storia e nelle sue tendenze, dalla geografia. 33 Una sintesi efficace dell’opera di Ratzel, di quella di Haushofer e, in generale, un’esposizione ben esauriente dei temi ai quali si fa cenno nel testo si trovano in G. Lizza, Geopolitica. Itinerari del potere, Torino 2001, pp. 7-26 e sgg.

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A poco per volta Haushofer trasformò il suo pensiero in una dottrina che divideva il mondo in quattro grandi aree geografiche: l’America, dominata dagli Stati Uniti; l’Europa, dominata dalla Germania; l’Asia centrale con il subcontinente indiano, dominata dall’Unione Sovietica; l’Asia-Pacifico, dominata dal Giappone. Così la scuola geopolitica finiva per stabilire una connessione quasi deterministica fra geografia e politica e confluiva, all’inizio degli anni Trenta, nell’orbita del nazionalsocialismo hitleriano34. L’accostamento, dapprima cercato e poi temuto, fra le nozioni fondamentali della geopolitica e la politica nazista non giovarono né al loro autore né allo studio di questa disciplina che, dopo la Seconda guerra mondiale, conobbe una lunga eclisse, quasi essa fosse indissolubilmente legata alla concezione nazista della società. Invece il problema del rapporto fra geografia, politica e vita internazionale si pone indipendentemente dalla sua genesi cronologica e, pur che si abbandonino le visioni deterministiche, è un connotato non trascurabile di questa, qualora si accetti la formulazione suggerita più realisticamente da uno studioso italiano, Ernesto Massi. Nel 1932 egli definì la geopolitica come «la sintesi del paesaggio geografico mondiale e delle cause geografiche e storico-politico-sociali della dinamica spaziale della società»35. In questo senso, l’approccio geopolitico può offrire spunti di portata rilevante. Infatti è impossibile negare, a puro titolo di esempio, che la peninsularità dell’Italia e la sua collocazione nel centro del mare Mediterraneo ne abbiano in gran parte condizionato la politica navale e coloniale e il rapporto 34 35

Cfr. Lizza, Geopolitica cit., pp. 17-19. Ivi, p. 19.

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con la potenza egemone del Mediterraneo stesso. Non è necessario suggerire un’esemplificazione più abbondante, come pur sarebbe assai facile fare. Ciò che importa è che lo storico delle relazioni internazionali non trascuri, in reazione a un malinteso determinismo, l’importanza dell’aspetto geografico per la comprensione/spiegazione alla quale egli si applica. Poco si comprenderebbe della strategia delle superpotenze nel secondo dopoguerra se non si tenesse presente il senso di sicurezza che gli Stati Uniti avvertirono, almeno sino al 1957, grazie alla percezione della loro relativa insularità e quello di insicurezza che i sovietici avvertirono dai primi anni Sessanta del XX secolo a causa della presenza sul suolo della vicina Turchia di basi per missili a media gittata. 4.5. Della demografia Indissolubilmente legato all’aspetto geografico è quello demografico, con una radicale diversità. Mentre l’aspetto geografico è tendenzialmente stabile, quello demografico è, per sua natura, una delle cause del cambiamento interno e internazionale. Interno, quando si pensa alla dinamica di crescita o di stasi declinante delle popolazioni, oppure ai problemi di politica demografica che questi fenomeni pongono ai governi. Internazionale, quando il cambiamento demografico si trasforma in evento internazionale. È ben vero che anche la mera demografia interna genera problemi internazionali poiché condiziona la forza numerica degli eserciti, importante anche nell’età tecnologica, i modi di produzione, la portata dei flussi commerciali, oppure modifica i rapporti di forza tra nazioni. Ma l’aspetto più interessante, in relazione a ciò che è accaduto sinora, rimane quello delle migrazioni.

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Tra il 1870 e il 1914, il 10 per cento della popolazione mondiale emigrò dal paese di origine36. La creazione di flotte mercantili, capaci di trasportare centinaia di persone a bordo di navi a vapore, rese possibile, anzi incoraggiò sin da allora anche tra i più poveri, l’emigrazione verso paesi prosperi, in rapida crescita, perciò tali da lasciar immaginare una vita meno miserabile di quella condotta in patria. Le Americhe, specialmente dopo la fine della guerra di secessione negli Stati Uniti, nel 1865, divennero la meta di circa 60 milioni di emigranti, dall’Irlanda, dalla Spagna, dall’Italia, dalla Svezia, dal Portogallo così come dalla Cina e dall’India. L’enorme afflusso di immigrati modificò la politica degli Stati in relazione al tema dell’integrazione dei nuovi arrivati ma suggerì anche, a alcuni governi, in particolare a quello degli Stati Uniti, una politica restrittiva che ridusse la portata delle emigrazioni, per eludere il rischio che il «crogiolo» statunitense si trasformasse in una pentola traboccante. Tuttavia le emigrazioni ripresero, benché con minore intensità, negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, dapprima ancora verso gli Stati Uniti ma poi anche dai paesi più poveri dell’Europa verso i paesi dove la vita economica, dopo la guerra, aveva recuperato vigore più tempestivamente; più tardi, negli anni della crescita economica europea, dai paesi africani o dal Medio Oriente verso le regioni industrializzate a nord del Mediterraneo, nell’Europa continentale37. Tutto questo per non dire delle migrazioni forzate, come quelle dei polacchi o dei tedeschi 36 Globalizzazione, crescita economica e povertà. Rapporto della Banca mondiale, a cura di P. Collier, D. Dollar, Bologna 2003, pp. 4144. 37 Cfr. M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Bologna 1998.

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della Germania orientale verso quella occidentale dopo il 194538 o delle migrazioni organizzate, come quelle degli ebrei verso la Palestina, nell’immediato secondo dopoguerra39. La pressione demografica acquista così senso in varie direzioni. Quando la popolazione di un paese cresce in misura esponenziale (come nel caso della Cina, prima dell’adozione di una politica di controllo delle nascite, o in quello dell’India, paesi che da soli rappresentano quasi metà della popolazione del globo), è difficile sfuggire alla considerazione che tale stato di cose influisca sul modo secondo il quale questi paesi vivono le relazioni internazionali. Mentre è chiaro che l’Europa e gli Stati Uniti, regioni tecnologicamente mature, con un prodotto interno lordo molto elevato, fungono da magnete rispetto ai paesi in via di sviluppo, il problema del rapporto fra sviluppo, prodotto interno lordo, prodotto pro capite e scelte di politica economica nazionale e internazionale di quei paesi che hanno avviato una politica di modernizzazione (il che si verifica ora in quasi tutti i paesi del globo) assume una rilevanza prima sconosciuta alla vita internazionale. Scelte di politica liberistica o protezionistica, di sviluppo in determinati settori piuttosto che in altri, di ricerca delle necessarie materie prime (petrolio anzitutto), scelte commerciali, industriali, finanziarie, insomma, hanno tutte una valenza internazionale che, se non lascia percepire immediata-

38 Cfr. E. Lemberg, F. Edding, Die Vertriebenen in Westdeutschland. Ihre Eingliederung und ihr Einfluss auf Gesellschaft, Wirtschaft, Politik, Geistesleben, 3 voll., Kiel 1959. 39 Nella vasta letteratura su questo tema si veda ora: T. Segev, One Palestine, Complete: Jews and Arabs Under the British Mandate, New York 2000.

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mente la sua portata, spinge a prevedere che tali fenomeni, contemporanei alla cosiddetta globalizzazione (cfr. III. 2.), possano incidere con forza nel tessuto esistente. Sebbene il compito dello storico non sia quello di profetizzare, la constatazione dei fatti impone anche l’individuazione dei problemi che la storia lascia in eredità all’avvenire. 4.6. Dell’opinione pubblica e del controllo democratico della politica estera Tenute presenti le variabili sin qui brevemente considerate, si comprende perché i temi della vita internazionale siano divenuti l’oggetto di un’attenzione non più sporadica ma anzi più accentuata, se non anche infiammata, da parte dell’opinione pubblica. È, questo, un ulteriore aspetto innovativo che si pone con evidente complessità. Infatti, quando si parla di opinione pubblica si deve pensare sia alle masse; sia alle élites politiche più attente agli echi internazionali delle loro vicende interne; sia, infine, ai più circoscritti gruppi di cultori dei temi di politica internazionale o di politica estera. In altri termini, il rapporto tra opinione pubblica e politica internazionale si presenta in termini così incisivi da acquistare talora un primato, non sempre giustificato, ma spesso tale da condizionare anche il lavoro storiografico. L’influenza delle masse sull’azione politica non corrisponde al tema della democratizzazione della diplomazia ma lo investe, benché di lontano. Le masse, i sentimenti generalizzati, lo sfruttamento consapevole degli umori popolari, quello più consapevole dello spirito di nazionalità hanno da parecchio tempo caratterizzato i comportamenti degli attori internazionali. Una delle nozioni più largamente diffuse nello studio della politica riguarda i modi mediante i quali, in determina-

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ti momenti, l’opinione pubblica viene spinta da un’accorta manipolazione, resa oggi ancor più efficace grazie all’uso «sapiente» dei mezzi di comunicazione di massa, a infiammarsi rispetto a determinati problemi internazionali perché questi, smuovendo sentimenti profondi, prevalgano sull’urgenza o sulla gravità di altri problemi interni. Tutta la storia recente è attraversata da esempi del genere. Basti pensare a come il regime fascista manipolasse il nazionalismo italiano per averne un esempio di prima mano; ma basti anche guardare a come certi regimi dittatoriali plasmino o agitino le masse interne contro certi «diavoli» esterni, così da dar vita a simboli minacciosi ma efficaci, come bersaglio alternativo rispetto agli effettivi problemi di singoli gruppi sociali o nazioni. Insomma, lo sfruttamento dei sentimenti di massa per plasmare sia la politica internazionale sia, e soprattutto, la politica interna di uno Stato è un aspetto della realtà attuale ormai sempre presente e tale da oscurare la reale portata dei problemi. È sufficiente ricordare che persino l’iniziativa di una superpotenza dittatoriale, come l’Unione Sovietica, fu accompagnata dalla proiezione sistematica all’interno del tema dell’assedio capitalistico; e che la capacità d’azione dell’altra superpotenza, gli Stati Uniti, prima della fine della guerra fredda, nel caso della guerra del Vietnam, e anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel caso della guerra contro l’Iraq, fu condizionata dai mutamenti provocati dalla manipolazione delle masse o dai movimenti spontanei delle pubbliche opinioni. Eppure, con poche eccezioni, la presenza delle masse e la loro partecipazione alla vita internazionale è più l’espressione dell’uso di uno strumento politico da parte delle forze dominanti che un intervento diretto nella politica. Questo intervento è viceversa più carico di

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conseguenze quando esso ha come promotori i protagonisti della vita politica interna. La distinzione sopra accennata, fra attori generici della vita politica e protagonisti dell’azione internazionale, deve essere tenuta ben presente. In ogni sistema politico il rapporto fra momento interno e momento internazionale si pone in maniera problematica. Per molti paesi la politica internazionale è solo routine, alla quale si deve dare un valore circoscritto, per eludere condizionamenti o perché si ritiene che un relativo isolamento o la lontananza dalle aree di crisi rendano più facile l’azione di governo interna. Questo concetto è stato infranto solo da pochi decenni, cioè solo da quando la globalizzazione del sistema internazionale ha costretto tutti i sistemi politici a misurarsi con problemi esogeni. Tuttavia, almeno sino all’ultima parte del XX secolo, vi sono stati paesi europei, asiatici e latino-americani che hanno creduto possibile restare lontani dai grandi movimenti internazionali. Se si considera, come esempio, la coalizione dei paesi non allineati, nata fra il 1955 e il 1961 (conferenze di Bandung e di Belgrado) con lo scopo di collegare quei paesi che non intendevano esporsi alle tensioni dello scontro bipolare, si può scorgere nelle origini di tale coalizione in parte la volontà di assumere un ruolo diverso nella vita internazionale ma, in parte, anche il desiderio di essere, per dirla semplicisticamente, «lasciati in pace» nel costruire in modo neutrale la propria vita interna. Se la nozione di «neutralismo» assunse nel giro di pochi anni, dopo il 1955, una precisa connotazione politica di impegno anticoloniale, rendendo vano cioè il progetto di restare esterni ai conflitti globali, la nozione di «neutralità», gelosamente conservata da non pochi paesi europei, latino-americani e da alcuni paesi asiatici, era nutrita per

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l’appunto dal desiderio che la politica estera restasse alla periferia delle preoccupazioni di governo interno, non condizionandolo se non nella minor misura possibile. Oggi, tali ipotesi sono prive di fondamento; tuttavia lo storico non può trascurare questi casi e non può dunque pensare che i temi internazionali formassero sempre il patrimonio della cultura politica di tutti i paesi. Quest’ordine di problemi assunse per la prima volta un crescente rilievo quando, in modo speculare, il governo dei Soviet e quello degli Stati Uniti posero il problema del controllo popolare o democratico della politica estera. La scoperta, nel 1914 e nel 1917, di una rete di accordi segreti tali da provocare la prima grande carneficina mondiale dava sostanza a questo tema. Si poneva allora la questione di valutare sino a qual punto esistesse una cultura di politica internazionale o di politica estera e di capire sino a quanto fosse fondata la speranza di un controllo democratico sul processo di formazione delle decisioni internazionali. Il secondo di questi temi venne rapidamente accantonato dai fatti, che si incaricarono di mostrare come anche i profeti della diplomazia aperta praticassero metodi alternativi. Non appena giunse a Parigi, dopo aver chiuso il suo tour trionfale per l’Europa, Wilson venne meno ai suoi impegni e legittimò la costituzione del Consiglio dei Quattro. Nel consesso erano rappresentate solo le grandi potenze occidentali vincitrici della Prima guerra mondiale: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia. Esso si riunì segretamente e segretamente prese le decisioni principali relative ai trattati di pace, salvo poi darne notizia alle altre parti interessate, chiamate, se del caso, a esprimere il loro parere, specialmente rispetto ai temi che i quattro grandi non erano riusciti a risolvere da soli: primo fra tutti,

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quello del confine fra l’Italia e il regno serbo-croato-sloveno al quale si volle allora dar vita40. Questa contraddizione in termini non era dovuta alla doppiezza degli uomini ma alla complessità dei problemi. Quando Wilson aveva predicato la «diplomazia aperta», cioè la diplomazia controllata democraticamente, aveva aggiunto che anche i negoziati dovevano essere palesi, cioè pubblici. Ma ben presto aveva dovuto misurare l’inapplicabilità della sua massima. Negoziati palesi significava impossibilità di qualsiasi negoziato nei casi più delicati. I negoziatori sarebbero stati esposti al vaglio quotidiano di folle incalcolabili e, peggio ancora, incontrollabili. Infatti, il problema del controllo democratico della diplomazia non si risolve mediante la pubblicità dei negoziati, bensì mediante la pubblicità dei risultati e il controllo democratico di questi. Tutta la storia internazionale del XX secolo è stata caratterizzata da negoziati segreti: alcuni volti a operazioni fraudolente, come per esempio l’accordo navale anglo-tedesco del 1935 o il patto d’acciaio del 1939 o, peggio ancora, l’accordo segreto fra Molotov e von Ribbentrop del 23 agosto 1939, e così di seguito, sino alle conferenze della Seconda guerra mondiale; altri, miranti a più sottili e difficili intese diplomatiche positive, come quelle franco-algerine di Evian, per il trasferimento della sovranità dalla Francia all’Algeria nel 1962; o i negoziati sino-americani degli anni Settanta o, ancora, quelli sovietico-americani per la limitazione degli armamenti e la distensione, paralleli ai negoziati sino-americani. Il problema non è di negoziare pubblicamente ma di sottoporre al controllo 40 I verbali del Consiglio dei Quattro in P. Mantoux, Les délibérations du Conseil des Quatre, 24 mars-28 juin 1919. Notes de l’officier interprète, Paris 1955.

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degli organi costituzionali deputati le decisioni assunte in segreto. La tribuna pubblica, come l’Assemblea della Società delle Nazioni o delle Nazioni Unite, è il podio per declamazioni di principio o di propaganda, non la sede per assumere deliberazioni operative. Invece il controllo democratico dei risultati risolve in modo soddisfacente l’antinomia. E ciò anche per un’altra ragione sopravvenuta con il progresso della tecnologia. Infatti, il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa ha costretto, giorno dopo giorno, anche i più segreti negoziatori a rendere conto, almeno entro certi limiti, delle loro buone o cattive azioni quotidiane. Non è certo, questa, diplomazia aperta ma verosimilmente è diplomazia che non può portare (se non eccezionalmente) a sorprese. Il che riconduce all’altro aspetto del tema: la pubblica opinione e la sua sensibilità verso i problemi internazionali41. A tale proposito, oltre alle osservazioni già formulate circa la manipolazione per fini interni o internazionali di un’opinione pubblica non necessariamente consapevole degli aspetti più complessi dei problemi internazionali, occorre affrontare un’altra difficoltà concettuale, cioè la diversa sensibilità verso i problemi di politica estera e verso quelli di politica internazionale. Esiste a tale proposito una certa confusione che sul piano della scrittura storiografica va tenuta presente. Si tratta infatti di due concetti profondamente diversi. 41 Il tema della pubblica opinione in relazione alla politica estera è stato trattato in diverse sedi. Una sintesi di notevole ricchezza e complessità è fornita dai seguenti tre volumi a cura dell’Università di Milano e dell’École française de Rome: Opinion publique et politique extérieure, vol. I, 1870-1915 (Actes du colloque de Rome, 13-16 février 1980), Roma 1981; vol. II, 1915-1940 (Actes du colloque de Rome, 1620 février 1981), Roma 1984; vol. III, 1940-1981 (Actes du colloque de Rome, 17-20 février 1982), Roma 1985.

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Non sarebbe troppo paradossale equiparare gli studi sulla politica estera di un paese alla storia interna del paese stesso42. Il paradosso non può essere spinto molto oltre poiché ogni politica estera è condizionata anche dalla percezione di ciò che è esterno al soggetto di cui si tratta e si correla dunque con le azioni che questo sviluppa. Tuttavia i grandi esempi di storia della politica estera oggi conosciuti illustrano come i protagonisti dell’elaborazione della vita politica di un paese sviluppino le loro riflessioni sulle premesse interne e esterne di un’azione che ha molto spesso le sue radici all’interno di ogni singolo paese. Nel saggio di Brunello Vigezzi, citato in nota, si analizza l’opera di alcuni storici della politica estera italiana ed europea con particolare attenzione all’opera di Federico Chabod. Hartmut Ullrich, nel commentare il saggio di Vigezzi in relazione alla parte di esso dedicata all’opera di Chabod, Storia della politica estera italiana, parte I, Le premesse, pubblicata nel 1950, osservava: «Complessivamente non è tanto il sistema internazionale e nemmeno lo studio storico di una politica estera (per quanti adepti potesse trovare) che ci sembra costituire l’ispirazione catalizzatrice della ‘nuova storiografia’, quanto piuttosto lo sforzo di collocare la storia d’Italia nel suo contesto europeo, internazionale»43. È ben vero che, in altri suoi scritti, lo stesso Chabod mostrò infatti di avvertire la necessità di da42 Un rilevante esempio di classificazione di questi modi di intendere lo studio della politica internazionale si può trovare in B. Vigezzi, La «nuova storiografia» e la Storia delle relazioni internazionali, in Id. (a cura di), Federico Chabod e la «nuova storiografia» italiana. 1919-1950, Milano 1984, pp. 415-77. 43 H. Ullrich, Correlazione, in Vigezzi, La «nuova storiografia» cit., p. 484; l’opera di Chabod citata nel testo venne pubblicata in prima edizione a Milano nel 1950.

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re alla storia italiana una cornice europea, ma chi legga con attenzione la sua storia della politica estera percepirà nettamente l’enorme valore che essa ha come storia di un profilo della vita culturale italiana, riguardante i problemi della prospettiva in cui l’Italia avrebbe dovuto collocarsi rispetto all’Europa, ma obiettivamente tutto interno al modo in cui gli italiani stessi pensavano a tale ruolo. Si pensi ancora, per toccare tempi più recenti e temi più vasti, a tutta la letteratura revisionistica sulle origini della guerra fredda riguardante gli Stati Uniti, ma anche a gran parte degli studi sulla politica estera americana in generale, e si vedrà come questa ponga l’accento in prevalenza più che sulla preoccupazione di una effettiva minaccia sovietica, su motivazioni interne, di natura economica, politica, commerciale, elettorale44. La discriminante fra politica estera e politica internazionale è tutta compresa in queste osservazioni. Per politica estera si dovrebbe infatti intendere il modo in cui all’interno di ogni singolo paese viene elaborata una specifica concezione delle modalità con cui proiettarsi verso l’esterno, agire nella vita internazionale. Dunque un’elaborazione culturale e politica basata sulla percezione dell’altro da sé ma costruita sulla base della nozione dell’interesse del proprio paese, in quanto parte di un mondo di relazioni. E per politica internazionale si dovrebbe, di conseguenza, intendere il momento in cui le diverse politiche estere si incontrano, interagiscono, danno luogo a convergenze o conflitti, pace e guerra: ma secondo regole che divergono da quelle dominanti la comprensione dell’interesse soggettivo, dello spazio che 44 Per una disamina di questa storiografia si veda E. Agarossi (a cura di), Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, Bologna 1984.

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si intende assegnare al paese nel quale tale riflessione si sviluppa. Così, l’interazione dà luogo a un intreccio di eventi derivante dalle singole politiche estere ma diverso da esse, tale, in altri termini, da assumere caratteri, regole, forme proprie. Questo è, nelle infinite sfaccettature sin qui indicate, il campo di indagine della storia delle relazioni internazionali intesa in modo attuale. Ciò non significa che, almeno in Europa, la politica internazionale come tema meritevole di indagine specifica sia stata, in quanto tale, trascurata. Basti pensare al contributo dato a tali studi, per dire solo dell’Italia, da Gaetano Salvemini, Luigi Albertini, Pietro Silva, Gioacchino Volpe, Carlo Morandi, Luigi Salvatorelli, Franco Valsecchi, Mario Toscano, Ettore Anchieri, Rodolfo Mosca, Federico Curato e altri studiosi ancora45, per avere la misura dell’interesse suscitato dalla storia delle politiche estere. Tuttavia, pur dopo aver tenuto presente il valore di questi contributi e senza che sia opportuno avventurarsi, in questa sede, nella disamina della storiografia degli ultimi decenni del XX secolo, resta il fatto che se questo filone animò la storiografia italiana, sottraendola alle angustie della tradizione monografica di storia interna, esso fu la crisalide dalla quale non nacque subito una storia delle relazioni internazionali concettualmente attrezzata a tener conto delle infinite variabili che, con il tempo, sono divenute aspetti fondamentali delle interrelazioni globali e che, proprio perché tali, non possono essere trascurate. Si tratta di un compito arduo, di un percorso difficile, lungi dall’essere compiuto, ma anche di un cambiamento metodologico rispetto al quale gli studi italiani non sono marginali. 45 Si veda nella bibliografia riportata al termine di questo saggio l’indicazione analitica di alcune delle principali opere di questi autori.

III

La storia delle relazioni internazionali nell’età contemporanea

1. Il nuovo internazionalismo I temi sviluppati o accennati nella seconda parte di questo saggio non appartengono solo alla contemporaneità ma nell’età contemporanea mutano rilevanza e, in parte, natura. La velocità di spostamento degli uomini, la rapidità nel trasferimento delle merci, l’esplosione demografica, le innovazioni tecnologiche, il modo diverso di concepire i conflitti politici e militari, la crescente pressione che l’opinione pubblica esercita sul potere politico, questi e tutti gli altri cambiamenti dei quali si è parlato hanno acquistato un moto così frenetico da far assumere all’aspetto internazionale dell’esistenza umana un carattere del tutto nuovo. Oggi le decisioni della Federal Reserve degli Stati Uniti o della Banca centrale europea sul tasso di sconto producono effetti su tutta la finanza globale; la comparazione fra il costo del lavoro in Cina e in India o nel Sud-est asiatico e quello dei paesi ipersviluppati condiziona i commerci e le politiche industriali; i trasferimenti più o meno volontari di popolazione modificano la struttura demografica di intere regioni del mondo; i mutamenti della situazione geologica dell’Antartide si ripercuotono sul clima generale; oppure basta che un virus penetri nel sistema Internet

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perché il trasferimento di notizie venga paralizzato o deformato, con effetti deflagranti. Sono, questi, solo alcuni degli esempi che spingono in primo piano il tema dei collegamenti internazionali rispetto ai mutamenti periferici. Gruppi sociali separati, Stati, continenti prima remoti l’uno dall’altro, sono divenuti un sistema globale che tende a proiettarsi persino nello spazio celeste e al cui interno è sempre più difficile definire i confini e i caratteri di ciò che è internazionale. Perciò pensare che la storia delle relazioni internazionali di oggi o, in senso meno restrittivo, la storia delle relazioni internazionali dal secondo dopoguerra in poi possa essere studiata nel modo tradizionale appare quanto meno inadeguato. Sebbene il mutamento metodologico del lavoro storiografico sia un processo lento e complesso, rinunciare a riflettere sulla necessità del cambiamento significa subire un’autolimitazione concettuale fuorviante rispetto al desiderio, tanto connaturato nella vita umana, di approfondire la conoscenza della realtà in cui si vive. Né è sufficiente giustapporre, in opere di sintesi, capitoli che affrontino separatamente il tema del cambiamento globalizzante. Questo infatti riguarda tutti gli aspetti della vita umana senza accettare artifici che separino la politica dall’economia, la finanza dai commerci, le forme d’arte da quelle della riproducibilità tecnica delle opere stesse. Il cosiddetto «sistema internazionale» ha acquistato in pochi decenni una tale autonomia pratica da divenire una sorta di compagno inevitabile di ciò che accade all’interno dei singoli gruppi sociali. L’immanenza dei fatti internazionali in tutto ciò che accade nell’orbe terracqueo riguarda sia le unità più piccole, le famiglie per esempio, sia le unità più complesse, come le superpotenze. Il problema pratico è quello di scegliere, sul piano storiografico, come dare un rilievo

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meno fuggevole a questi cambiamenti. Sebbene la dimensione internazionale sia diventata un aspetto onnipresente nella vita quotidiana, la natura, la qualità, le fasi di tale presenza non possono essere considerate come un insieme indistinto che si proietta sullo sfondo della realtà empirica. Sono necessarie distinzioni e chiarimenti. In linea di principio, chi si occupa di storia delle relazioni internazionali oggi dovrebbe tenere conto di una moltitudine tale di innovazioni da legittimare il dubbio che la mente umana sappia e possa raccogliere in un unico crogiolo la complessità dei modi con i quali la varietà si proietta sulla specificità. Chi vuole spiegare, comprendere o narrare (secondo le scelte metodologiche che ogni ricercatore si propone di far proprie) dovrebbe in teoria rispondere a tutte le domande di tutte le scienze internazionali. Ma poiché ciò è impossibile, diviene utile chiedersi quali siano gli aspetti che più contribuiscono a chiarire la diversa permeabilità del sociale rispetto a ciò che proviene dal suo esterno. La prima risposta, ma anche la più semplicistica, suggerisce di cercare nella teoria generale di riferimento, come accade in tutte le altre scienze, quando dal piano teorico si spostano su quello empirico, le domande significative da proporre alle fonti e ai dati dell’esperienza, per desumerne letture valide. Ma in questo caso specifico occorre rilevare che la «scienza» delle relazioni internazionali non ha ancora acquisito quella sufficiente condivisione di paradigmi da poter fungere come laboratorio di idee o di questioni per lo storico empirico. Verrebbe quasi da dire che in questo campo teoria e storia delle relazioni internazionali si sorreggono l’una con l’altra nel tentativo di proporre un quadro esauriente di riferimenti per chi intende studiare questi temi. Ma poi ci si rende conto che la teoria delle relazio-

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ni internazionali è ancora prevalentemente concentrata sui temi di natura politica o di strategia e solo occasionalmente affronta i problemi dello sviluppo economico, di quello tecnologico, dei movimenti finanziari, degli scambi internazionali o dei mutamenti normativi suggeriti dall’evolvere del diritto internazionale. Certo, anche i teorici delle relazioni internazionali avvertono l’incommensurabile varietà delle tematiche. Abbracciare il globo in una sola teoria è impresa nella quale nessuno, a quanto si sappia, è sinora riuscito. Sorge allora la necessità di definire convenzioni empiriche, confini pratici entro i quali avviare, in modo più aderente al cambiamento avvenuto, gli studi storici che si intendono compiere. Senza ripercorrere ciò che è abbastanza noto, in relazione alla seconda parte del XX secolo e ai primi anni del XXI secolo, basti allora ricordare che, dopo la Seconda guerra mondiale, si pose nuovamente il problema di ridefinire la distribuzione del potere nel sistema internazionale. A differenza del primo dopoguerra, quando la sfida rivoluzionaria sovietica aveva alimentato deliberazioni precipitose, nel secondo dopoguerra il tema si presentava in termini di sfida fra sistemi già esistenti e, almeno in apparenza, fortemente consolidati. La ricostruzione materiale, finanziaria, commerciale, culturale e giuridica del sistema internazionale divenne il terreno di un confronto serrato fra il modello proposto dagli Stati Uniti e quello proposto dall’Unione Sovietica. Tuttavia la diversa capacità di influenzare l’andamento delle cose era prestabilita dalle dimensioni stesse dei due principali vincitori della guerra. L’Unione Sovietica poteva contare sul proprio territorio e su quello dei paesi che l’Armata Rossa aveva occupato per sperimentare prima i metodi della ricostru-

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zione, poi quelli del cambiamento e della trasformazione tecnologica. L’illusione di raggiungere un’estensione asiatica, grazie al successo del Partito comunista cinese nella guerra civile che portò al potere Mao Zedong, non durò a lungo. Un decennio dopo la nascita della Repubblica popolare cinese, avvenuta nel 1949, tra questa e l’Unione Sovietica erano già emerse le divaricazioni economico-politiche e strategiche che avrebbero poi spinto i due paesi verso una rotta di collisione o, quantomeno, di reciproca diffidenza. Questo limite e le ripetute difficoltà che Mosca incontrò nell’affermare il suo controllo sull’Europa orientale (crisi dei rapporti con la Jugoslavia nel 1948, crisi di Berlino nel 1953, insurrezione ungherese nel 1956, questione cecoslovacca nel 1968 e, parallelamente, endemica ostilità polacca) rendevano altamente improbabile l’ipotesi di una supremazia durevole da parte sovietica. Viceversa gli Stati Uniti potevano contare su una tradizione che, ben radicata sin dagli ultimi decenni del XIX secolo, trovò nel secondo dopoguerra le formule istituzionali adatte per affermare il predominio americano sul resto del mondo o, quanto meno, su quella parte del mondo che, in modo più o meno dichiarato, accettava di inserirsi nel sistema di influenza americana. Dalla Prima guerra mondiale, con l’esperimento wilsoniano, alle formule adottate per risolvere la questione delle riparazioni tedesche (piano Dawes e piano Young), alla conferenza economica mondiale tenuta a Londra a partire dal giugno 1933, con il proposito di stabilizzare i tassi di cambio, riedificare il commercio internazionale, stimolare la ripresa dell’economia dopo la Grande depressione del 1929-33, si delineò una sequenza che, esprimendo precisi interessi di natura finanziaria e commerciale, manifestava la propensione degli Stati Uniti a condizionare con le loro scel-

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te, alle quali i britannici si adeguavano, la vita finanziaria di tutto il mercato mondiale. Infatti i lavori furono condizionati dalla decisione del neoeletto Franklin Delano Roosevelt di svalutare il dollaro proprio alla vigilia dell’inizio dei lavori, il 19 aprile 1933, nell’intento di porre le condizioni interne di una ripresa produttiva, mentre i paesi legati ancora al gold standard, come la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Svizzera e l’Italia, cercavano di costruire un fronte finanziario comune e la Gran Bretagna dava vita all’area della sterlina. Queste novità provocarono reazioni paradossali che spinsero verso l’accentuazione delle tutele protezionistiche, alimentando il clima di conflittualità che avrebbe portato alla guerra. Lo scoppio del conflitto interruppe questo processo ma esso riprese già nel corso della prima fase delle ostilità, prima con il Lend-Lease Act (legge «Affitti e prestiti») del marzo 1941, che legava gli aiuti americani all’assunzione di determinate politiche di liberalizzazione commerciale, poi con l’affermazione del multilateralismo, contenuta nella Carta atlantica siglata da Churchill e Roosevelt nell’agosto 1941, e di seguito con la creazione dei grandi organismi internazionali a Bretton Woods. Gli accordi, firmati nel luglio 1944, ponevano le basi del compromesso commerciale e della creazione dell’International Monetary Fund (Fondo monetario internazionale), cioè dell’organismo che, insieme all’International Bank for Reconstruction and Development (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo), più nota come World Bank, cioè Banca mondiale, creata nella stessa occasione, avrebbe dovuto disciplinare il commercio mondiale. Come scrive Joan Edelman Spero, durante la Seconda guerra mondiale i leader americani erano giunti alla conclusione che l’incapacità degli Stati Uniti di as-

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sumere la leadership globale era stata una delle maggiori cause del disastro e che gli Stati Uniti dovevano perciò assumere la responsabilità principale nella creazione di un nuovo ordine economico postbellico. Questo ordine avrebbe dovuto essere concepito in modo da impedire il nazionalismo economico e doveva dunque essere basato sul libero commercio e su un alto grado di interazione internazionale. Un sistema economico liberale, garantito dalla cooperazione internazionale, avrebbe posto le basi di una pace duratura.1

Gli accordi di Bretton Woods non ebbero subito una fortuna straordinaria, soprattutto perché, nel 1947-1949, la crisi finanziaria britannica mise in luce la debolezza della sterlina. Nacque da questa situazione il progetto del piano Marshall che aveva obiettivi politici mirando soprattutto a consentire che l’Europa (e, al suo seguito, il resto del mondo, compresi i paesi dell’area della sterlina) recuperasse la capacità di cooperare nei settori finanziario e commerciale con gli Stati Uniti, ma alle condizioni americane. La crisi economica e quella politica si intrecciavano nel dare agli Stati Uniti il compito di primi attori della ricostituzione del sistema economico mondiale esterno all’Unione Sovietica e ostile a questa2. Questa omologazione fra l’aspetto economico e quello politico dei problemi della ricostruzione non deve 1 Sui temi trattati nel testo cfr.: J.E. Spero, J.A. Hart, The Politics of International Economic Relations, quinta ed., New York 1997, pp. 1-12; resta importante il primo studio americano su questi temi: R.N. Gardner, Politica economica e ordine internazionale. L’evoluzione delle organizzazioni economiche internazionali (la prima edizione in inglese di questo volume venne pubblicata nel 1968 a New York con il titolo Sterling-Dollar Diplomacy; l’edizione italiana riporta alcune aggiunte al testo inglese ma non modifica l’impostazione generale dell’opera), Milano 1978, pp. 1-156. 2 Cfr. in sintesi su questo: R.O. Kehoane, J.S. Nye jr. (eds.), Transnational Relations and World Politics, Cambridge (Mass.) 1972.

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trarre in inganno. La competizione fra Washington e Mosca riguardava i diversi campi della convivenza internazionale, primo fra tutti quello militare. Tuttavia va rilevato come, sul piano della ricostruzione storiografica di uno scontro internazionale, la presenza dominante della componente finanziaria, espressa mediante la guida americana, renda possibile percepire il carattere principale della natura della competizione fra i due blocchi che, dopo il 1947, si formarono attorno all’Unione Sovietica (in modo fragile) e intorno agli Stati Uniti (in modo reso più vigoroso dalla convergenza economico-finanziaria). Accanto a questo aspetto andrebbero messi in luce tutti gli altri temi della competizione bipolare ma ora è sufficiente sottolineare come proprio la questione dello sviluppo economico diseguale diventasse l’elemento che condizionava l’evoluzione del sistema internazionale nel suo complesso. Dal punto di vista politico, il tema dell’adesione a uno dei blocchi divenne una discriminante rispetto alle politiche interne nazionali, mediante condizionamenti che dovrebbero essere analizzati caso per caso e che non rendono possibili le frettolose generalizzazioni alle quali molti storici si sono abbandonati. Tuttavia fu il problema dello sviluppo diseguale a generare i cambiamenti più profondi e a interferire in maniera visibile sui rapporti internazionali. La formazione di schieramenti contrapposti, soprattutto in Europa, attorno al Patto atlantico del 1949 e al Patto di Varsavia del 1955, aveva spinto in primo piano le questioni collegate alla strategia nucleare, ai problemi della deterrenza, alla questione degli armamenti missilistici. Il clima che venne definito come «equilibrio del terrore» caratterizzò lunghi anni del secondo dopoguerra. Ma la volontà di sottrarsi a questo clima e al do-

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vere, che esso imponeva, di seguire regole coerenti con le scelte internazionali compiute, destinando risorse eccessive ai problemi della difesa – proprio nel momento in cui il movimento europeista, pur con sfumature diverse, propugnava il superamento di conflitti plurisecolari in nome della comune identità europea –, favorì l’avvio del processo di integrazione dei paesi dell’Europa occidentale, che nella fase di ricostruzione e grazie agli aiuti americani erano riusciti a recuperare la prosperità prebellica e ad avviarsi verso una crescita economica sempre più promettente. Proprio quella stessa volontà, peraltro, fece sì che in molti paesi di recente indipendenza o in molti popoli che lottavano contro gli imperi sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale (in modo politicamente troppo esposto e visibile, perciò tale da suscitare l’ostilità dei diretti interessati ma anche quella delle superpotenze, favorevoli a spostare su questo terreno, in forme più o meno larvate, la loro competizione e a sostituire così l’imperialismo della tradizione ottocentesca) acquistasse consistenza il rifiuto di soggiacere alla logica degli schieramenti e ai condizionamenti che questa imponeva sul piano economico. Questo tema richiede che si ritorni sulla contraddizione sottostante al neutralismo (come venne chiamato il progetto di collegare la questione dello sviluppo al rifiuto di porre in essere scelte di schieramento). Essere neutrali significava rifiutare di impegnare risorse nel campo degli armamenti per destinarle invece alla politica di sviluppo. Ma lo sviluppo poteva avvenire o secondo il metodo dell’economia pianificata e centralizzata che caratterizzava il sistema sovietico oppure mediante l’assunzione, sotto forme di governo anche molto diversificate, dei concetti dell’economia di mercato. In entrambi i casi, lo sviluppo presupponeva dunque uno

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schieramento che, sebbene non esplicitato in modo univoco, di fatto si concretizzava in scelte piuttosto nette. Proprio su questo terreno il sistema economico sovietico mostrò i suoi limiti poiché la sua rigidità, accompagnata dalla pressione di natura politico-militare, non offriva ai paesi che dovevano cercare la loro strada verso la crescita quell’elasticità di scelte nei mezzi e nei modi di produzione che costituiva il prerequisito dello sviluppo stesso. Così, i paesi che scelsero il metodo sovietico dovettero rapidamente modificare il loro orientamento economico (non necessariamente quello politico) per poter modulare secondo le specifiche situazioni locali gli obiettivi e i modi della produzione e per poter accedere al mercato mondiale. Il neutralismo politico finiva dunque per tradursi in un sottile velo che nascondeva scelte strutturali dalle quali sarebbero dipesi non solo l’esito del conflitto bipolare ma anche la sorte del sistema globale. Il problema della fame e della povertà in quello che venne chiamato il «Terzo mondo» richiedeva accumulazione di capitale e sfruttamento della forza lavoro, secondo regole che non avevano molto di umano ma replicavano semplicemente quanto era avvenuto in Europa dal Medioevo in poi: quando grandi epidemie avevano decimato la popolazione del continente o, in senso diverso, grandi migrazioni interne avevano provocato la rivoluzione delle modalità produttive in agricoltura a favore della nascita della grande industria, dando luogo ai primi massicci esempi di urbanizzazione. Questi esempi, negli ultimi decenni del XX secolo, sarebbero stati «imitati» dal fiorire di megalopoli che, nei paesi in via di sviluppo, avrebbero attratto i più coraggiosi o i più disperati cercatori di fortune economiche. Ma all’interno di questo mutamento rivoluzionario, che non riguardava più solo singole parti del continente bensì tutto il glo-

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bo, pur con diverse accentuazioni regionali, esistevano alcuni elementi regolatori: sul piano della politica generale e con decrescente efficacia, l’Organizzazione delle Nazioni Unite; su quello finanziario, il Fondo monetario internazionale (FMI). Compito di questo organismo, composto sulla base di un sistema di votazioni ponderato secondo le quote d’associazione conferite da ciascuno dei partecipanti e pertanto dominato dagli Stati Uniti e dai loro alleati, era sovrintendere alle condizioni monetarie dei paesi membri ed erogare prestiti a quei paesi che fossero incorsi in una situazione di deficit nella bilancia dei pagamenti: somme determinate caso per caso e da restituire entro un lasso di tempo variabile fra i 18 e i 60 mesi. Appare ovvio che il FMI sarebbe divenuto la principale istituzione internazionale capace di regolamentare, come in effetti accadde sino al 1971, la vita internazionale, assicurando un controllo misurato e non troppo visibile su tutta la vita dei paesi non appartenenti al blocco sovietico (il governo di Mosca, infatti, non aveva ratificato gli accordi firmati a Bretton Woods). La vita economica, ma anche quella politica, poiché i prestiti – dopo il 1976 – furono erogati a condizioni che presupponevano l’adozione non già di specifiche forme di organizzazione politica, ma di precise misure di politica economica. Così il sistema era governato tacitamente e il problema del debito internazionale veniva regolato in modo quasi automatico, con una ricaduta che riguardava anche il sistema sovietico, poiché esso dipendeva dal dollaro per il suo commercio con l’Ovest e per il suo commercio interno3. 3 Cfr. in proposito: H. Van der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980). Una sintesi della storia economica del dopoguerra, Milano 1989, pp. 380-81.

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Questa situazione entrò in crisi quando il sistema dei cambi stabilito dagli accordi di Bretton Woods incominciò a scricchiolare, parallelamente alla crescita economica dell’Europa comunitaria e al temporaneo declino degli Stati Uniti, condizionati dalla guerra del Vietnam e dalla fase inflattiva subita dal dollaro. Nel 1958 era stato raggiunto dai paesi più industrializzati un accordo che stabiliva la convertibilità generale del cosiddetto golddollar standard, incentrato sul rapporto fisso tra il dollaro e l’oro (35 dollari per oncia). Il sistema monetario americano, in una fase di spese militari crescenti e di inflazione interna, dovette anche subire, verso la fine degli anni Sessanta del XX secolo, il peso di una domanda crescente di dollari a parità fissa, con il risultato di affievolire la capacità degli Stati Uniti di mantenere un pieno controllo del sistema monetario internazionale. Da questa situazione nacque la decisione del governo di Washington (nell’agosto 1971) di sospendere il cambio fisso dei dollari e la loro libera convertibilità. Ciò metteva in crisi il sistema di Bretton Woods, e apriva la strada a un breve periodo di incertezza. Nel novembre 1975 fu creato un gruppo di consultazione, il cosiddetto Gruppo dei Cinque, subito divenuto Gruppo dei Sette (G7), composto dai rappresentanti degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, del Giappone, della Francia, della Repubblica federale tedesca, dell’Italia e del Canada, al quale venne affidato il compito di tenere consultazioni annuali informali ma dalla portata adeguata a definire le linee generali che gli organismi internazionali e soprattutto il FMI avrebbero dovuto seguire nella loro attività4. A una regolamentazione formalizza4 Su questi temi cfr.: R. Solomon, The International Monetary System 1945-1976: An Insider’s View, New York 1977; G. De Ménil, A.M. Solomon (eds.), Economic Summitry, New York 1983.

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ta si sostituiva così un’ipotesi di gestione empirica, proprio nella fase in cui si avviavano i più profondi mutamenti nell’assetto globale. Infatti, dopo la crisi petrolifera del 1973 e del 1979, dopo l’affievolirsi della competizione interna all’Europa fra paesi appartenenti ai due blocchi e soprattutto dopo gli accordi di Helsinki del 1975, che stabilizzavano in pratica le relazioni fra la Germania occidentale e la Germania orientale, dopo l’accendersi della competizione nucleare in Europa sul tema degli «euromissili», dopo le prime avvisaglie della crisi che avrebbe portato il sistema sovietico all’implosione – mentre al tempo stesso il mondo viveva la sua terza grande rivoluzione industriale, cioè la trasformazione tecnologica che avrebbe reso visibile la globalizzazione –, nuovi scenari si aprivano. Il problema del funzionamento delle organizzazioni economiche e finanziarie globali non investiva più solo i paesi industrializzati ma si propagava a tutto il mondo; si gettavano le basi del grande dibattito che avrebbe caratterizzato i decenni successivi, in relazione ai problemi dell’indebitamento dei paesi in via di sviluppo e alle misure che esso imponeva, al fine di evitare che il divario fra mondo sviluppato, mondo in via di sviluppo e mondo arretrato fosse il terreno di un nuovo conflitto globale, in grado di sostituirsi al dualismo sovietico-americano dopo il 1989, data che segna la fine della guerra fredda. 2. L’elaborazione delle variabili Il tentativo, sviluppato nelle pagine precedenti, di mettere in evidenza uno dei profili attuali delle relazioni internazionali non è, né pretende di essere, l’unico possibile. Basterebbe modificare l’ordine dei concetti assun-

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ti per avere una visione differente: anziché guardare alla politica delle potenze dominanti, esaminare il mutamento dal punto di vista dei popoli dominati e dei loro problemi. Oppure basterebbe tener conto del fatto che l’intera storia recente è condizionata dalla questione del controllo e dello sfruttamento delle materie prime; o considerare, su un piano ben diverso, il fatto che tutto il secondo dopoguerra, fino al 1989, fu dominato dalla competizione strategica e nucleare tra le superpotenze. L’esemplificazione tentata è da intendersi come proposta di tenere presente l’esistenza di variabili che, pur modificandosi, sono sempre state e saranno presumibilmente sempre presenti nella vita internazionale. Se si guarda, per dirla in modo diverso, ai problemi delle materie prime, si deve ricordare come la loro natura abbia mutato rilevanza nel tempo: il ferro, il rame, il legname, il petrolio, il minerale d’uranio, l’acqua (oggi) sono risorse e materie prime il cui controllo ha mutato significato, valore e portata nel tempo. Così, se si considerano le questioni strategiche, appare in chiara evidenza che esse hanno avuto una rilevanza dominante negli anni della guerra fredda ma sono oggi relative solo a situazioni marginali. Del pari, sino alla Seconda guerra mondiale, il problema dell’indipendenza dei paesi coloniali aveva solo una valenza episodica mentre esso caratterizzò gli anni dal 1945 al 1975, sino a mutare natura con il tempo e a divenire ora problema della disuguaglianza nello sviluppo, della fame e della povertà nel mondo. Viceversa, la combinazione fra aspetti politici e tematiche finanziarie ha acquistato, quanto meno a partire dai secoli nei quali nacquero o si formarono gli Stati moderni, una centralità che consente di seguire un profilo capace di attraversare impercettibilmente i confini politici degli Stati per affermarsi come aspetto caratteriz-

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zante delle interrelazioni fra soggetti della vita internazionale. Caratterizzante non vuol dire «unico» ma vuol dire «non trascurabile». Così, se si ritorna al tema di fondo, alle domande che sono alla base di questo saggio, se ci si chiede in che cosa debba consistere una storia delle relazioni internazionali capace di leggere storicamente il mondo di oggi, non si può più circoscrivere il discorso al mero aspetto diplomatico (il che dovrebbe ormai apparire ovvio) ma lo si deve spostare di piano, per cercare, oltre e accanto alla dinamica esterna degli eventi, i momenti critici e i flussi costanti che hanno condizionato tali eventi. Ma occorre farlo senza il preconcetto di poter racchiudere tutto all’interno di uno schema e con la precisa consapevolezza del fatto che lo storico tiene fra le sue mani (o nella sua ragione) un patrimonio di dati che tendono a sfuggirgli, per avviarsi lungo rivoli diversi. Inoltre occorre sviluppare questo lavoro avendo ben presente l’innovazione che esso reca, cioè il fatto, già rilevato, che solo una visione miope della storia riesce a isolare il caso particolare dal contesto globalizzato. La parola globalizzazione evoca infine l’aspetto estremo al quale il lavoro dello storico delle relazioni internazionali è pervenuto. La prima questione, solo apparentemente marginale e terminologica, riguarda la definizione del campo di studio. Spesso in Italia e, più ancora, fuori d’Italia, si tende a far coincidere l’espressione «storia delle relazioni internazionali» con la definizione di «storia internazionale». Per citare solo un esempio, presso la London School of Economics and Political Science il dipartimento che si occupa di temi non interni alla storia britannica ha assunto il nome di Department of International History. Ma, sebbene sia ovvio che le defini-

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zioni accademiche sono spesso funzionali alla realtà dei fatti che esse debbono coordinare, stabilire un confine chiaro fra i due concetti resta opportuno. Da un punto di vista scolastico, storia internazionale è infatti storia di ciò che non riguarda la nazione nella quale si opera; che non affronta, in altri termini, lo studio della realtà interna del paese dove lo studioso sviluppa il suo lavoro e che si impegna a studiare un mondo diverso, esterno o, in senso lato, internazionale. Un britannico si può occupare di storia della Cina o del Congo (per citare a caso) e dedicarsi alla Cina dei Ming ovvero alla colonizzazione belga. In ogni caso, la sua è storiografia internazionale ma non «delle relazioni internazionali». Ma l’interesse per lo studio storico di paesi esterni al proprio è sempre esistito. Non poteva esistere invece l’interesse verso una realtà (la vita internazionale) che solo nell’età moderna si è delineata e poi si è trasformata secondo l’evolvere delle sue basi strutturali. La storia delle relazioni internazionali, che viceversa ha una tradizione meno remota e uno statuto disciplinare ancora controverso (come dicevano le prime righe di questo saggio) si occupa di questo nuovo aspetto della vita globale. Essa presuppone che oggetto dell’indagine sia una «relazione» fra soggetti che non si trovano all’interno del proprio confine; presuppone che l’attenzione dello storico si concentri sulla natura di questi processi di scambio (quale che ne sia il contenuto) tra nazioni. Perciò essa richiede una propria denominazione, che spesso può condurre verso campi d’indagine in parte sovrapposti, ma non coincidenti, con quelli della storia internazionale. Anche nell’epoca della globalizzazione, quando il profilo internazionale appare così prepotentemente presente pur nella vita interna delle specifiche comunità, siano esse statali o di altra natura.

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Ciò appare ancora più evidente se si considera il modo secondo il quale la storia internazionale viene studiata nei paesi di lingua anglosassone. Basti considerare lo studio sviluppatosi negli Stati Uniti sulle origini della guerra fredda per cogliere la spiccata propensione all’autoreferenzialità che esso manifesta. Si tratta quasi sempre di storia mossa e spiegata da motivazioni interne alla diplomazia o all’opinione pubblica o alle campagne elettorali americane, senza tener conto di ciò che in altre lingue, certo meno diffuse, è stato detto o scritto. Appare in una certa misura sconsolante il fatto che la bibliografia anglosassone contenga solo occasionalmente l’indicazione di opere scritte in lingue diverse dall’inglese. Il termine «globalizzazione» è divenuto un riferimento concettuale per storici, politici, economisti e quant’altro solo da pochi lustri. Tuttavia, in modo paradossale, si potrebbe dire che la dimensione globale è sempre esistita, giacché l’orbe terracqueo è sempre stato un globo e non ha mai cessato di essere tale, a dispetto dell’ignoranza degli uomini. Solo alla fine del XV secolo l’uomo europeo sperimentò direttamente questa realtà. Perciò solo da cinque secoli (una parentesi relativamente breve nella storia dell’umanità) esiste la coscienza dell’esistenza degli altri continenti e si è posto il problema delle relazioni fra essi e il continente che, fino al XX secolo, ha dominato il globo: l’Europa. Ma solo negli ultimi decenni del XX secolo l’Europa ha percepito sino in fondo il proprio peso relativo rispetto agli altri continenti e il cambiamento di proporzioni concettuali che ciò imponeva anche allo storico delle relazioni internazionali. Alla fine della Seconda guerra mondiale, dopo aver vissuto immani carneficine e dopo aver preso coscienza del fatto che la ricostruzione sarebbe stata possibile solo grazie a un contributo ester-

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no, gli europei ebbero la misura della loro relativa dipendenza dagli Stati Uniti d’America e dall’Unione Sovietica. La sopravvivenza degli imperi coloniali velò per qualche decennio la completa comprensione dei nuovi rapporti intercontinentali che il cambiamento aveva provocato. Si potrebbe anzi dire che solo con la fine della guerra fredda l’Europa e il resto del mondo abbiano avvertito il fatto che una sola superpotenza, gli Stati Uniti, sopravviveva al conflitto bipolare e che questa poteva, sul piano teorico, proporsi di diventare il soggetto dominante la vita internazionale, grazie alla propria forza economica, al controllo della finanza globale, all’indiscussa supremazia militare e al primato tecnologico. In altri termini, solo dopo la fine della guerra fredda la globalizzazione si è rivelata in tutta la sua portata. Da quel momento tre concetti si sovrapposero, provocando reazioni complesse: l’evidenza dell’egemonia americana, la rivoluzione tecnologica e il nuovo significato assunto dalla globalizzazione. Sin dal principio fu difficile separare questi tre piani, talché molto spesso essi vengono considerati come sinonimi e amalgamati in una visione o tutta apologetica o tutta critica, che non ha fondamento nella realtà effettuale. È, questa, la ragione per la quale gli storici delle relazioni internazionali devono cercare di inserire un proprio soggettivo ordine delle cose, che consenta, a loro stessi e agli altri, di discernere i diversi aspetti della nuova realtà, ovvero il diverso modo di proporsi delle relazioni internazionali. Secondo una visione tematica precisa, «la globalizzazione è fondamentalmente un fenomeno economico: è la tendenza dell’economia ad assumere una dimensione mondiale, anche se poi il fenomeno economico della crescente integrazione dei beni, dei servizi, dei fattori produttivi può dar luogo a implicazioni politiche, cul-

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turali e ambientali»5. La definizione può apparire persuasiva se la si considera come un punto di partenza. Infatti i contenuti economici della globalizzazione maturarono prima che ne fossero evidenti gli altri aspetti. Tuttavia è chiaro che il fenomeno acquistò piena visibilità solo grazie al progresso tecnologico, talché appare lecito proporre non in astratto il tema di quale dei due momenti precedesse l’altro. La tecnologia (della comunicazione di notizie, del trasporto di merci e del trasferimento di uomini) sta infatti alla base della percezione del mondo come un insieme integrato nel quale tutte le parti interagiscono. Senza le ferrovie, la navigazione aerea, il telegrafo, il telefono, le comunicazioni elettroniche, che nell’insieme rendono possibile la manifestazione sincrona dei medesimi fenomeni, la globalizzazione non sarebbe visibile, oppure non esisterebbe. L’ordine storico e concettuale appare dunque in modo chiaro. Ma il dilemma è solo apparentemente accademico, poiché esso riguarda il controllo della tecnologia e quindi la prevalenza politico-economica di chi esercita tale controllo. Non è casuale il fatto che la fine della guerra fredda mettesse in primo piano il ruolo potenzialmente egemone e «monarchico» o «monocentrico» degli Stati Uniti, se si considera che il successo americano nel confronto/scontro con l’Unione Sovietica fu reso possibile dalla prevalenza americana nella gara per la supremazia tecnologica6. Bisogna accostare questa osservazione al dato di fatto che l’accelerazione dei movimenti di capitali, delle transazioni valutarie degli investimenti 5 Così: L. De Benedictis, R. Helg, Globalizzazione, in «Rivista di politica economica», 2002, p. 143. 6 Si rinvia, a tale proposito, alle considerazioni svolte in E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Roma-Bari 2002, pp. 345-91.

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da un paese verso l’altro conobbe un incremento esponenziale (raggiungendo, cioè, una quota giornaliera superiore di migliaia di volte a quella dei primi anni Settanta) soprattutto a partire dal 1973, cioè dall’anno della crisi petrolifera e del recupero della capacità del dollaro di dominare il mercato finanziario mondiale, dopo la fine degli accordi di Bretton Woods. Il tema della globalizzazione diviene però critico anche dal punto di vista storiografico quando si prendono in considerazione i dibattiti che ne accompagnarono l’affiorare rispetto ai concetti più generici relativi allo stato delle cose del mondo. Il punto di partenza va collocato, con ogni probabilità, nel 1989, anno nel quale l’avvio della riunificazione tedesca e delle convulsioni che portarono all’estinzione dell’Unione Sovietica mise in evidenza la «preponderante solitudine» degli Stati Uniti. Questa «preponderante solitudine», che preesisteva alla sua manifestazione esplicita, divenne il simbolo di uno status, l’espressione di una potenzialità reale ma anche il parafulmine contro il quale scaricare le contraddizioni del sistema internazionale, cioè la direzione verso la quale incanalare le responsabilità, le colpe e gli oneri dei mali del mondo. La potenza americana e l’antiamericanismo si svelarono come le nuove facce della realtà internazionale. Gli Stati Uniti, infatti, erano in grado di condizionare la vita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, poiché l’esercizio del loro potere all’interno del Consiglio di sicurezza era il solo che potesse dare credito sostanziale e non solo formale o velleitario al diritto di veto. Mediante il sistema del G7 (poi allargato alla Repubblica federativa russa) e, a partire dal 1995, grazie all’entrata in funzione della World Trade Organization (creata peraltro su base analoga a quella dell’ONU, cioè con

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un meccanismo di voto che prevedeva la formazione di maggioranze numeriche su base paritaria, senza ponderazione basata su parametri economici), erano in grado di governare il commercio mondiale. Con l’assoluta prevalenza del dollaro (prima dell’introduzione dell’euro come moneta unica dell’Unione europea, avvenuta solo a partire dal 1999) governavano la finanza e la moneta globali. Grazie alla loro superpotenza militare, erano in grado di controllare e condizionare ciò che accadeva in tutte le parti del mondo: dall’America Latina al Medio Oriente, dall’Africa alla penisola balcanica. La storia riversava d’un tratto su di loro una responsabilità rispetto alla quale paradossalmente essi non erano preparati, proprio a causa della distorsione percettiva imposta fino allora dalla guerra fredda, benché quegli obiettivi costituissero da più di mezzo secolo (per non risalire anche più indietro) il nocciolo del Grand Design rooseveltiano. Sebbene il governo di Washington avesse piena consapevolezza della potenza nazionale, esso non aveva mai nutrito fino in fondo l’intenzione, né i cittadini statunitensi lo avrebbero seguito, di assumersi la guida di garante della crescita economica mondiale e di guardiano della pace nel mondo. Infatti entrambi i compiti avrebbero imposto agli Stati Uniti oneri tali da costringerli a sacrifici interni impensabili, poiché la responsabilità del governo del mondo non è una questione che possa essere risolta mediante meditazioni elaborate da pochi uomini politici ma è il frutto di un lungo cammino e faticoso, che coinvolge troppi elementi per essere affrontato in maniera tecnicamente e organizzativamente improvvisata e, di conseguenza, approssimativa, a costi che una società disomogenea come quella statunitense non può sostenere. Creare un impero globale è un’impresa (come hanno insegnato prima i ro-

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mani e poi gli inglesi) che richiede secoli di preparazione e prudenza. Detto in altri termini, e considerato che qui si deve guardare al compito dello storico delle relazioni internazionali, il problema di oggi diviene quello di capire se, come e quanto gli Stati Uniti fossero consapevoli di ciò che la fine della guerra fredda aveva e avrebbe portato con sé; se i loro governanti pensassero che la loro «solitudine» sarebbe durata a lungo e se essi, così come tutti i cittadini americani, fossero preparati a diventare il bersaglio delle critiche e degli attacchi ai quali viene inevitabilmente sottoposto chi detiene da solo il potere. Lo storico deve esaminare le radici di questi temi e le loro proiezioni nei fatti accaduti attorno a essi. Non gli è più lecito chiudersi nella torre d’avorio del proprio particolare nazionale ma subisce anch’esso gli effetti della globalizzazione. Infatti la storia delle relazioni internazionali o è frutto della globalizzazione e della sua genesi o non ha basi adeguate. Ciò appare tanto più rilevante in quanto il tema della globalizzazione e delle politiche economiche e commerciali che l’accompagnano sono divenuti oggetto di sfide, di polemiche e di contrapposizioni che dominano la vita internazionale e che dividono governi e opinioni pubbliche, specialmente in relazione alle critiche contro i precetti generali che dirigono oggi il commercio mondiale, su un terreno molto spesso dominato dalle emozioni e non sempre caratterizzato da una considerazione accurata dei fatti o delle circostanze che il processo storico ha determinato. Da un lato, di solito, stanno coloro che mettono in evidenza come la rapida integrazione economica del globo abbia limitato la sovranità degli Stati e abbia spinto molti gruppi, danneggiati da tale accelerazione o animati dalla visione delle disuguaglianze

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a breve termine che essa provoca, nel timore di essere esclusi dai benefici del lungo periodo, a dar vita a movimenti antiglobalizzanti che esprimono con vario grado di virulenza le loro opinioni. Dall’altro stanno quanti mettono in rilievo il fatto che la crescita del prodotto lordo globale è stata, negli ultimi cinquant’anni, eccezionale in tutti i campi: andando, come ha scritto un economista, «oltre ogni possibile immaginazione». «A century of unrivalled prosperity», affermava Rudi Dornbusch in un suo discorso del 1999 al M.I.T. di Boston. La globalizzazione – ha scritto Amartya Sen, attingendo anche a una definizione di Hobbes – ha arricchito il mondo dal punto di vista scientifico e culturale, così come ha recato benefici economici a molti popoli. Pochi secoli fa, una povertà pervasiva e una vita «nasty, brutish and short» (brutta, bestiale e breve) rappresentavano la regola del mondo, con poche e rare eccezioni. Sia la tecnologia moderna sia le interrelazioni economiche hanno avuto un ruolo importante nel superamento di quella miseria. Le difficili condizioni in cui versano i poveri del mondo non possono essere rovesciate privandoli dei grandi vantaggi della tecnologia contemporanea, della collaudata efficienza del commercio e degli scambi internazionali, e dei benefici economici così come sociali, di vivere in società aperte piuttosto che chiuse.7

Sebbene le parole di Sen si riferiscano al lungo periodo, l’accusa secondo la quale la globalizzazione abbia 7 A. Sen, Globalizzazione e libertà, Milano 2002, pp. 4-5; R. Dornbusch, A Century of Unrivalled Prosperity, aprile 1999, M.I.T. Boston; ma anche: J. Bhagwati, Elogio della globalizzazione, Roma-Bari 2005, passim. I dati relativi al commercio internazionale, con altri dati eloquenti nel medesimo senso sono presi da: L’état du monde. Annuaire économique géopolitique mondiale 2006, Paris 2005, p. 57. Uno dei testi più influenti dell’opinione antiglobalizzante è il ben noto saggio di N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano 2001.

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provocato una maggior diffusione della povertà nel mondo e contribuito a far crescere la disuguaglianza viene controbattuta dall’osservazione che, in termini monetari, nel 1820 circa l’84 per cento della popolazione viveva in condizioni di «estrema povertà monetaria» e che questo dato era sceso nel 1998 al 23,4 per cento; e l’osservazione che riconduce questi dati alla straordinaria crescita economica della Repubblica popolare cinese viene controbilanciata, in termini commerciali, dall’osservazione che i dati relativi al commercio mondiale mostravano che fra il 1980 e il 2004 la percentuale delle esportazioni mondiali provenienti dai paesi industrializzati era scesa dal 65 al 59,5 per cento, mentre quella dei paesi in via di sviluppo era salita dal 35 al 40,5 per cento8. Si tratta di dati generali, che non tengono conto delle diverse situazioni geografiche ma che indicano una lenta evoluzione verso termini di commercio diversi rispetto al passato. Una evoluzione che è resa ancora più evidente dal fatto che la percentuale del commercio mondiale in termini di esportazioni è mutata, per quanto riguarda l’Africa, da un tasso di crescita annuale medio del 6 per cento negli anni dal 1995 al 2000, a un tasso pari al 31 per cento nel 2004; mentre per le esportazioni i dati corrispondenti registrano un tasso di crescita passato dallo 0 per cento al 25 per cento nel 2004. L’aspra controversia suscitata dal tema della globalizzazione affonda dunque le radici in un contesto storico remoto, che deve essere studiato per essere compreso e spiegato: non per azzardare previsioni, che non competono allo storico, ma per indicare le fondamenta precise delle rispettive posizioni. Ma è appena il caso di osservare che questo tema vede al centro delle dispute 8

Cfr. De Benedictis, Helg, Globalizzazione cit., p. 168.

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il principale paese capitalista del mondo, gli Stati Uniti, e che attualmente esso spiega gran parte dell’opposizione alla politica americana che, dopo la fine della guerra fredda e, più ancora, dopo i due interventi statunitensi in Iraq, nel 1991 e soprattutto nel 2003, ha assunto una violenza così aspra da contribuire alla relativa popolarità dei cosiddetti movimenti antimperialistici. Il problema che lo storico deve affrontare a questo proposito è invece quello di considerare che l’assunto dal quale l’antiamericanismo muove, cioè la volontà degli Stati Uniti di dominare la vita globale e di restare a lungo la sola superpotenza esistente, è stato nei fatti contraddetto su due piani: in primo luogo dalla riluttanza con la quale, pur con diversi accenti, le amministrazioni americane hanno accettato o voluto assumersi responsabilità globali, cioè dal dichiarato rifiuto del presidente Ronald Reagan prima, poi di George Bush sr., di Bill Clinton e, sino a un certo punto, di George Bush jr., di assumere l’onere di gendarmi di un nuovo ordine mondiale (che peraltro è ben lontano dall’esistere). Gli interventi militari americani solo in parte sono spiegati dalla volontà di affermare interessi degli Stati Uniti verso aree strategicamente importanti nel mondo, soprattutto per le loro risorse petrolifere, e in maggior misura sono provocati (o voluti) per affermare la nozione americana di democrazia o per combattere contro uno degli avversari che più contribuiscono all’instabilità del sistema internazionale, il terrorismo; quel terrorismo che, proprio per la sua natura di soggetto non configurabile in nessuna realtà statuale, tende a sfuggire al confronto/scontro diretto e diviene così un avversario tanto più pericoloso quanto più imprevedibile. In secondo luogo, l’egemonia degli Stati Uniti viene contrastata dal fatto che l’affievolirsi della logica delle

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alleanze contrapposte ha messo in evidenza gli elementi che da alcuni decenni minavano la solidità dei rapporti tra l’Unione europea e gli Stati Uniti stessi, così come la capacità di nuovi soggetti di crescere economicamente e di proiettarsi verso un avvenire, forse non vicino, ma tale, viste le dimensioni dei fenomeni, da porsi come concorrenziale (se non antagonistico) rispetto alla potenza americana. Soggetti come la Repubblica popolare cinese o l’India o il Brasile che, per la loro dimensione e per il ritmo che la loro crescita economica ha assunto, tendono ad acquistare il ruolo di co-attori del governo mondiale: soggetti effettivi di quel «nuovo ordine mondiale» che, nell’attuale fase di transizione, si può intravvedere. Rispetto a ciò appare chiaro che il fenomeno della globalizzazione non potrà che mutare la sua natura di cambiamento generato solo dalla capacità americana di produrre innovazione tecnologica, diventando frutto dell’opera di tutti i paesi del mondo che vivono oggi in maniera diversa il cambiamento e che, come osserva Jagdish Bhagwati9, dovranno governare la globalizzazione, determinandone i ritmi, modificando le disuguaglianze più stridenti, assicurando una più equa distribuzione di quella crescita di ricchezza che sinora è stata prodotta, assumendo insomma responsabilità sinora lasciate alla sfrenata corsa in avanti dei paesi più ricchi o dei gruppi finanziariamente più attrezzati, come le società multinazionali. Anche il ruolo di queste merita di essere studiato. Esse infatti hanno contribuito potentemente alla trasformazione dell’economia mondiale. In parecchi paesi in via di sviluppo hanno sopperito ai limiti della capacità locale di accumulazione primitiva 9

Bhagwati, Elogio della globalizzazione cit., pp. 345-56.

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del capitale, investendo in iniziative dove i costi del lavoro erano e sono così bassi da rendere possibili profitti non necessariamente reinvestiti ma con l’effetto, in generale, di avviare paesi economicamente immobili verso i primi passi e i primi sacrifici della crescita: una crescita che è disuguale rispetto a quella delle economie più avanzate, ma solo se storicamente si considerano i problemi nei tempi brevi. Resta ora da ritornare alla domanda iniziale: qual è il compito dello storico delle relazioni internazionali rispetto al cambiamento sin qui genericamente delineato? «Immaginare il passato e ricordare il futuro», come suggeriva con un acuto paradosso Lewis Bernstein Namier10. Immaginare il passato per ritrovare le radici di ciò che nei decenni del XX secolo ha portato ai temi della politica internazionale contemporanea: un confluire di motivazioni che può essere inteso solo tenendo conto delle nuove variabili qui in sintesi citate. Tale lavoro è stato avviato da non pochi studiosi, in molti paesi dei quali è possibile conoscere la storiografia. In questo ambito, il periodo di transizione che questo terreno di ricerca sta attraversando risente delle difficoltà derivanti dal mutamento dei piani di lavoro e persino di aspetti generazionali. Vi sono cultori della storia delle relazioni internazionali che affrontano i loro temi senza porsi questioni di metodo, accontentandosi di avvicinare un documento all’altro, secondo il criterio événementiel che tanto indispettisce i detrattori di questo genere di storia. Altri percepiscono la necessità di darsi una direzione e un senso metodologicamente più precisi, cercano cioè di orientare il loro lavoro secondo scelte che, 10 L.B. Namier, Conflicts: Studies in Contemporary History, 1942, p. 70, cit. in E.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino 1966, p. 131.

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con diverso grado di precisione e coraggio, si propongono obiettivi ben definiti, pur prediligendo uno degli aspetti o delle variabili che la diversità delle ispirazioni suggerisce. Altri, infine, s’adoprano a cercare nuove sintesi, elaborazioni più aderenti alla complessità che caratterizza la vita internazionale, una complessità che oggi nessuno può negare ma che apparteneva anche ai tempi più remoti. Si tratta di un lavoro in vario senso pionieristico che rispecchia quanto avviene quasi ovunque. Sarebbe facile aggiungere, a questo punto, osservazioni contingenti, relative al modo in cui nella «confraternita pantografica», come la chiamava Lawrence Sterne, cioè nel mondo degli storici, si possano stilare elenchi di categorie distinte. Tuttavia questo saggio inizia con un riferimento a braci roventi: non pare questa la sede per sollevare le ceneri che le ricoprono.

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Indice

I.

Introduzione

V

La storia delle relazioni internazionali: origine, metodo e definizioni

3

1. Una popolarità recente, p. 3 - 2. I confini del campo di lavoro, p. 9 - 3. Storia e scienze sociali, p. 13 - 4. L’autonomia della storia delle relazioni internazionali, p. 28 - 5. La specificità delle fonti, p. 37 - 6. La storia diplomatica, p. 42

II.

Dalla storia diplomatica alla storia delle relazioni internazionali

55

1. Storia diplomatica e storia delle relazioni internazionali, p. 55 - 2. Assetto, evoluzione e percezioni del sistema internazionale, p. 59 - 2.1. Dalla «politica di potenza» all’internazionalismo utopistico, p. 61 - 2.2. Rivoluzione industriale e relazioni internazionali, p. 65 - 2.3. Verso l’internazionalismo realistico, p. 69 - 3. Verso un cambiamento radicale, p. 84 - 4. Nuove variabili, p. 87 - 4.1. Il capitale finanziario, p. 87 - 4.2. La misurazione del tempo, p. 91 - 4.3. I tempi della «deterrenza», p. 93 - 4.4. Della geopolitica, p. 95 - 4.5. Della demografia, p. 97 - 4.6. Dell’opinione pubblica e del controllo democratico della politica estera, p. 100

III. La storia delle relazioni internazionali nell’età contemporanea

109

1. Il nuovo internazionalismo, p. 109 - 2. L’elaborazione delle variabili, p. 121

Bibliografia

137