Prima lezione di retorica
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© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9623-8

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I

Ab ovo

Ciò che si qualifica come retorico in quanto mezzo di un’arte cosciente era già in atto come mezzo di un’arte inconscia nella lingua e nella sua formazione: la retorica altro non è se non un perfezionamento degli artifici già presenti nella lingua. Non esiste affatto una «naturalezza» non-retorica della lingua alla quale ci si potrebbe appellare: la lingua stessa è il risultato di accorgimenti altamente retorici. Friedrich Nietzsche1

1. Dalle origini La proverbiale espressione latina ab ovo inalberata nel titolo rimanda o al cibo o al mito. Sul piano del 1  Friedrich Nietzsche, Gesammelte Werke, Musarion Ausgabe, München 1922, vol. V, pp. 297-298. La citazione è tratta dal corso di retorica tenuto dall’Autore nell’inverno 1872-1873. Dove non è altrimenti specificato, le traduzioni dei passi citati sono mie.

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mito, la forma canonica gemino ab ovo («dal doppio uovo») si riferiva ai parti gemellari di Leda amata da Zeus in forma di cigno e si prestava a evocare vicende primordiali. Riguardo al cibo, il richiamo era alla portata iniziale di un pasto, di cui la frutta rappresentava la conclusione. Ab ovo usque ad mala («dall’uovo alla frutta»), come si legge in Orazio2, era un modo di dire buono per essere trasposto dall’uso gastronomico al senso più generale «dal principio alla fine». Rispetto all’attività verbale, iniziare ab ovo una narrazione di fatti o vicende significa ancora oggi prendere l’avvio dalle fasi più remote: «incominciare da Adamo ed Eva», luogo comune di cui sembrerebbe difficile immaginare un seguito di stile alto. Eppure questo stereotipo, nel racconto che un Maestro della linguistica italiana, Benvenuto Terracini, ha intessuto sulle origini del linguaggio, si è prestato a dare adito allo sviluppo di un pensiero che sale di grado in grado fino alla poetica evocazione della «voce di Dio»: Non si allarmino i miei ascoltatori se incomincio da Adamo ed Eva: da Eva in particolare, la prima creatura che nel racconto della Genesi fa uso della parola quando spiega al serpente la condizione dell’Eden: «de fructu lignorum quae sunt in paradiso vescimur...» con quel che segue. Ma a Dante non pare secondo ragione che una donna, e per giunta la «praesumptuosissima Eva», abbia per prima fatto uso della parola ed argomenta che, se dopo il peccato l’uomo inizia il suo discorso con un sospiroso «heu», è logico che in stato di innocenza la sua prima parola sia stata «El», cioè il nome stesso di Dio; invocazione   Satire, I, 3, 6-7.

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o risposta della creatura appena creata al suo Fattore, grido di gioia e di riconoscenza. Ed ecco Dante immaginare il primo dialogo fra l’uomo e la voce di Dio indistinta e possente, come la voce del tuono, del vento, delle acque3.

Sembra inevitabile, accennando alle origini del linguaggio, imbattersi in racconti mitologici, o affacciarsi alla sfera del divino. Detto in modo piuttosto fantasioso, questo attesterebbe il miracolo originario della comunicazione tra gli esseri umani: il prendere coscienza dell’altro, e di sé come distinto dall’altro, e delle enormi possibilità dovute alla capacità e ai mezzi di mettersi in reciproco contatto o conflitto. Nelle fasi storicamente attestate di azioni e relazioni umane, gli usi della parola ci appaiono regolati, sottoposti via via a codificazioni e a restrizioni. Per rimanere nell’ambito circoscritto della cultura europea, il «significar per verba» si organizzò in quello che nella lingua italiana si disse ‘discorso’ inteso come ragionamento; dove discorrere valeva «ragionare». Velocità e agilità lo distinguevano quando problemi di ardua soluzione erano affrontati dall’esigua minoranza di quelli «che nelle cose difficili discorron bene», come scrisse Galileo: Ma più dico che anco nelle conclusioni delle quali non si potesse venire in cognizione se non per via di discorso, poca più stima farei dell’attestazioni di molti che di quella 3   Benvenuto Terracini, Vita del linguaggio e linguaggio della vita, Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino, vol. 97, Torino 1962, pp. 40-56 (citazione a p. 40); ora in: I segni la storia, a cura e con Introduzione di Gian Luigi Beccaria, Sigma/saggi, Guida, Napoli 1976, pp. 105-120.

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di pochi, essendo sicuro che il numero di quelli che nelle cose difficili discorron bene, è minore assai che di quei che discorron male. Se il discorrere circa un problema difficile fusse come il portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facesser più che uno solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval barbero solo correrà più che cento frisoni4.

La varietà degli atteggiamenti mentali negli esercizi del parlare e del comprendere è tale e tanta che sarebbe vano tentare di occuparsene qui. Registrerò soltanto la tendenza a rivendicare contro la forza del razionalismo il potere di un’immaginazione che poggi istintivamente sul non detto, come pare di inferire dal seguente stralcio: Forse la mente umana ha la tendenza a respingere le asserzioni. [...] Diceva Ralph Waldo Emerson: le argomentazioni non convincono. Non convincono perché sono presentate in quanto tali. Le consideriamo, le soppesiamo, le rivoltiamo e le respingiamo. Ma, quando una cosa viene semplicemente detta o, meglio ancora, accennata, in qualche modo la nostra immaginazione la accoglie. Siamo pronti ad accettarla. Ricordo di aver letto, [...] anni fa, i lavori di Martin Buber e, allora, pensai che erano poesie bellissime. Poi [...] scoprii [...] che Martin Buber era un filosofo e che tutta la sua filosofia era racchiusa nei libri che avevo letto come poesia. Forse avevo accettato quei libri perché mi erano arrivati attraverso la poesia, attraverso la 4   Galileo Galilei, Il Saggiatore, edizione critica e commento a cura di Ottavio Besomi e Mario Helbing, Antenore, Roma-Padova 2005, p. 274.

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suggestione, attraverso la musica della poesia, e non come argomentazioni5.

Ci stiamo allontanando solo in apparenza dal tema delle origini di ciò che si intende per retorica. Dove ispirazione poetica e organizzazione logica del discorso hanno battuto vie o intrecciate o concorrenti. Del resto l’intento persuasivo che è apparso fin dai più lontani inizi come costitutivo dell’arte del parlare ha calcato anche i territori dell’irrazionale. 2. Che cosa intendiamo per ‘retorica’? Difficile dare una definizione univoca della retorica, sia che la esaminiamo come complesso di dottrine, di tecniche, di pratiche discorsive, sia che ci limitiamo, esagerando riduttivamente, a collocarla alla superficie dei modi di esprimersi e dei relativi risultati. Secondo uno specialista fra i più autorevoli, Marc Fumaroli, la retorica sfugge a una «vera» definizione perché è altrettanto «fluida, mutevole e feconda quanto lo è il suo oggetto: la persuasione»6. Il modo migliore di definire oggi questa disciplina multiforme sarebbe mostrarla quale si è manifestata in epoche relativamente vicine e genealogicamente legate alla nostra, quando essa 5   Jorge Luis Borges, L’invenzione della poesia. Le lezioni americane, a cura di Calin-Andrei Mihailescu, trad. it. di Vittoria Martinetto e Angelo Morino, Mondadori, Milano 2001, p. 34. 6   «C’est un ensemble réflexif aussi flou, mouvent et fécond que son objet: la persuasion»: Marc Fumaroli (a cura di), Histoire de la rhétorique dans l’Europe moderne (1450-1950), PUF, Paris 1999, Préface, p. 2.

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beneficiava ancora di uno statuto pedagogico eminente e al tempo stesso era la matrice della riflessione su tutto ciò che lega reciprocamente gli uomini: le forme degli scambi orali e scritti, le forme delle arti7.

Espediente felice per assorbire – e recuperare – il passato remoto nel passato prossimo della disciplina. È sempre Fumaroli a osservare che l’odierna divisione del lavoro tra specialisti, espressione del moderno esprit de géométrie, ha preferito, sconcertata da questa chimera che coniuga in un medesimo organismo vivente la theoria e l’ergon, [...] demonizzare una tale maniera di abitare intelligentemente il ‘linguaggio in atto’ anziché vedervi una delle conquiste più ardite dell’esprit de finesse8.

In ogni epoca sia i cultori sia i detrattori della retorica, in Europa, hanno sentito il bisogno di rifarsi agli antecedenti storici, e fino all’antichità classica, perché è qui che i concetti base sono stati elaborati, ed è qui che hanno avuto inizio le negazioni e le condanne. Ogni svolta degna di nota ha preso l’avvio da un confronto con l’antica Madre: ne sono scaturiti 7   «La meilleure manière de definir la rhetorique [...] est de la montrer telle qu’elle s’est manifestée, dans des époques relativement proches de la nôtre, en tout cas généalogiquement liées à la nôtre, où elle bénéficiait encore d’un statut pédagogique éminent, mais où elle était aussi la souche mère de la réflexion sur tout ce qui relie les hommes entre eux: les formes du commerce oral et écrit, les formes des arts»: ivi, p. 3. 8   «cette chimère qui conjugue dans un même organisme vivant la theoria et l’ergon [...]. [On a préféré] diaboliser cette manière d’habiter intelligemment la parole plutôt que d’y voir une des conquêtes les plus hardies de l’esprit de finesse»: ivi, p. 2.

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sia gli sviluppi conseguenti alle adesioni, sia i rifiuti, le scissioni, le innovazioni frutto degli atteggiamenti conflittuali. Dottrine, tecniche e relative precettistiche rappresentano le fasi della riflessione, dell’elaborazione concettuale: operazioni esterne rispetto alla facoltà di sviluppare un ragionamento a fini persuasivi, di esprimersi in modo efficace, congruente con le proprie intenzioni, appropriato alla situazione, atto a far accettare idee, punti di vista, proposte, interpretazioni della realtà e relative decisioni, conformandosi alle disposizioni dell’uditorio. Tale facoltà ha avuto, ab antiquo, un nome e una caratterizzazione. È ­l’eloquenza, come capacità naturale e come abilità acquisita. In quanto capacità naturale è manifestazione di ciò che si può intendere come «retorica interna al parlare»: i procedimenti organizzativi del discorso, le scelte espressive e comunicative, incluso il silenzio. Per ricordare solo uno degli aspetti di quest’ultimo, cioè la potenza evocativa di un ‘tacere’ che fa intuire assai di più di una narrazione esplicita delle vicende che sono lasciate inferire, ci rifaremo a campioni di grande letteratura: quel giorno più non vi leggemmo avante9. Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno10. La sventurata rispose11.

  Inferno, V, 138.   Inferno, XXXIII, 75. 11   I promessi sposi, X, 83. 9

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Come abilità acquisita, l’eloquenza è frutto di studio e pratica di quella che chiamerei «retorica esterna», cioè del complesso di dottrine e di precetti elaborato per descrivere e per regolare i procedimenti discorsivi a cui abbiamo appena accennato: per mostrare come funzionano nei casi esemplari (quelli che hanno i requisiti per essere presi a modelli), per renderne espliciti i principi e le condizioni, per fissare le norme d’uso dei mezzi di persuasione. Le due entità (interna ed esterna) sono indistinte nella coscienza comune, ma ognuna è teoricamente ben distinguibile dall’altra; come lo è la grammatica in quanto sistema delle regole che permettono a una lingua di funzionare, rispetto alla grammatica come descrizione di tali regole.

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1. Nascita e fondamenti I primordi di quella che abbiamo chiamato «retorica interna» risalgono al costituirsi del linguaggio verbale come capacità di organizzare il pensiero, di comunicare intenti e bisogni. Risalgono agli albori del vivere civile, dunque; alle prime manifestazioni di culture ove i rapporti interpersonali e i modi di agire sugli altri trovarono mezzi adeguati negli usi della lingua1. Testimonianze letterarie, nei poemi omerici, le contese verbali tra gli eroi, l’eloquenza persuasiva dei consiglieri, il potere del discorso che vince sulla forza delle armi. Fra le attestazioni storiche, l’obbligo dell’autodifesa sancito da Solone (VII-VI secolo a.C.) per tutti gli imputati. Ne seguì l’incremento dell’attività di coloro che redigevano per conto terzi le perorazioni giudiziarie, ed erano i logografi. 1   Nel corso del presente capitolo ho riportato episodicamente, con modifiche e integrazioni, passi del mio articolo Retorica, pubblicato in «Nuova Informazione Bibliografica», 1, gennaio-marzo 2004, pp. 55-77.

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Quanto alla retorica «esterna», questa avrebbe avuto inizio con la codificazione avvenuta, secondo una tradizione tenace, a partire dai primi decenni del V secolo a.C. nella Magna Grecia e in Sicilia. Qui si affermarono i caratteri originari delle tecniche retoriche in due aspetti fondamentali: uno, l’arte di difendersi e di attaccare nelle controversie giudiziarie e nei dibattiti politici. Ne furono ritenuti gli iniziatori Corace e Tisia, che avrebbero fornito alle pratiche del contendere un metodo e una tecnica. L’altro aspetto, di ascendenza pitagorica, rientrava nell’alveo di una tradizione, a cui diede credito lo stesso Aristotele, che indicava in Empedocle di Agrigento (V secolo a.C.), filosofo in fama di mago, il fondatore della retorica; di una retorica identificata con l’uso della parola come magia trascinatrice degli animi, fomite di reazioni emotive anziché di adesione razionale; incantamento e fascinazione, medicina dell’anima per effetto della politropia: l’arte di trovare tipi diversi di discorsi per i diversi tipi di ascoltatori, come si guariscono i pazienti con rimedi adatti alle condizioni e alle predisposizioni di ciascuno. Riguardo all’interpretazione dell’epiteto polýtropos, si deve ad Augusto Rostagni2 l’analisi di passi del filosofo greco Antistene (secoli V-IV a.C.) giunti a noi per vie diverse. Come il seguente frammento: Se dunque i sapienti sono abili nel parlare e sanno il medesimo pensiero esprimere in molti modi – katà polloùs trópous –, possono bene [...] chiamarsi polýtropoi. [...]. Per

2   Nel saggio Un nuovo capitolo nella storia della retorica e della filosofia, in Id., Scritti minori I: Aesthetica, Bottega d’Erasmo, Torino 1955, pp. 1-59.

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questo Omero dà ad Ulisse, come a sapiente, l’epiteto di polýtropos perché sapeva con gli uomini conversare in molti modi. Così si narra che anche Pitagora, invitato a tenere discorsi ai fanciulli, componesse per essi discorsi fanciulleschi (lógoi paidikoí), e per le donne adatti a donne, e per gli arconti arcontici, e per gli efebi efebici. Poiché trovare il modo di sapienza conveniente a ciascuno è proprio della sapienza. Invece è segno di ignoranza adoperare un’unica forma di discorso con coloro che sono variamente disposti3.

La retorica occidentale fu creazione della civiltà degli antichi Greci. Furono determinanti per il suo fiorire lo sviluppo della polis e l’affermarsi della democrazia. Le contese politiche e i dibattiti su questioni di interesse comune provocarono nei singoli e nelle fazioni contrapposte la volontà di conquistarsi il favore delle assemblee. Ne furono fortemente implicati l’esercizio della libertà di parola e la fiducia nella forza della persuasione. 2. Retorica e filosofia La filosofia fu terreno di coltura per l’arte del parlare e per le riflessioni sul suo valore conoscitivo e pedagogico. Diversi e contrastanti gli atteggiamenti e i risultati. Alla grande stagione della sofistica fa riscontro la condanna platonica in nome del primato dell’episteme (scienza e conoscenza, certezza della verità) sulla doxa (l’opinione, l’ostentata apparenza della verità). Nel dialogo giovanile Gorgia, il più aspramente antiretorico e antisofistico, Platone im  Ivi, p. 6.

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puta alla persuasione retorica l’indifferenza per la materia del contendere: non c’è nessun bisogno che la retorica conosca i contenuti; le basta avere scoperto una certa qual tecnica di persuasione, sì da potere apparire ai non competenti di saperne di più dei competenti (459b-c).

Questa presunta arte o tecnica è solo un’abilità empirica, poiché non ha nessuna razionale comprensione della natura delle cose cui si riferisce [...]: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la causa (465a).

Ma nel Fedro, frutto della maturità platonica sotto l’influenza pitagorica, il filosofo in base all’antitesi tra l’essere e il sembrare distingue la vera dalla falsa retorica. Quella vera, come ha spiegato Garin, è «capace di condurre l’ascoltatore alla verità e di rendere la verità operante nell’ascoltatore»4. Nell’insuperata sistemazione del suo maggior teorico, Aristotele, la retorica fu contrapposta alla logica sulla base del contrasto fra vero e verosimile, fra episteme e doxa: fra le conclusioni necessarie e inconfutabili delle argomentazioni logiche e le conclusioni probabili e confutabili a cui miravano le argomentazioni retoriche. Si deve ad Aristotele la teoria dei tre tipi di discorso o «generi» della retorica: – il genere deliberativo: discorsi tenuti nelle as4   Eugenio Garin, A proposito della «Nouvelle Rhétorique»: caratteri e compiti della filosofia, in Le istituzioni e la retorica, «Il Verri», 35/36, 1970, p. 101.

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semblee chiamate a decidere su questioni politiche (legislative, amministrative, economiche, militari); – il genere giudiziario: requisitorie e difese in cause civili e penali; – il genere epidittico: discorsi di elogio e di biasimo (panegirici specialmente, e invettive, critiche, riprovazioni ecc.). Dei tre generi fu quello giudiziario a servire di modello per la trattazione delle parti di cui doveva constare un discorso ben costruito: si riteneva che chi sapesse dominare una situazione processuale sarebbe stato certamente in grado di destreggiarsi in qualsiasi altra occasione. Quando sparirono le condizioni per il libero dibattito politico, nella Roma imperiale come in Grecia, i discorsi deliberativi divennero puro esercizio scolastico e si trovarono a partecipare del carattere fittizio – di finzione letteraria – proprio del genere epidittico. Del resto, anche l’insegnamento della retorica giudiziaria proponeva, accanto allo studio dei testi dei grandi oratori, controversie su questioni inventate su esempi tratti dalla mitologia e dalle letterature classiche. Le pratiche retoriche vennero sempre più a somigliare a esercitazioni letterarie. Si dedicò la massima cura all’espressione, mettendo in primo piano quell’intento che Aristotele aveva riservato ai discorsi epidittici: mostrare la bravura di chi parlava, perché, in occasione di tali discorsi, il giudizio del pubblico verteva esclusivamente sul talento dell’oratore. Nel corso dei secoli, nell’avvicendarsi di scuole di pensiero con le relative applicazioni esegetiche e pedagogiche delle dottrine antiche, si articolarono due atteggiamenti opposti. L’uno risaliva al rifiuto

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platonico, archetipo di ogni denigrazione o ridimensionamento della retorica; l’altro era legato alla giustificazione aristotelica, sottesa a tanta parte del corpus imponente degli studi retorici, fino all’affermarsi delle ragioni che, alla metà del Novecento, hanno determinato la nascita della «nuova retorica» come teoria dell’argomentazione. L’intero percorso della disciplina appare segnato da opposizioni e demarcazioni fra ambiti e procedure, a cominciare dalle controverse relazioni con la dialettica. Aristotele l’aveva collocata in parallelo con la retorica, mentre gli Stoici consideravano le due discipline come opposti tronconi della logica. Cicerone, più interessato agli effetti persuasivi dell’oratio che alle condizioni formali di validità dei ragionamenti (materia dell’analitica), arrivò ad anteporre la retorica alla dialettica. E a considerare la prima come complementare alla filosofia nella formazione dell’oratore e nel rafforzamento dei tre fondamentali elementi di prova aristotelici: l’ethos (l’insieme delle qualità intellettuali e morali dell’oratore), il logos (il ragionamento, lo sfruttamento razionale delle prove) e il pathos (la capacità di agire sui sentimenti degli ascoltatori). All’oratore, dunque, erano ugualmente essenziali la sapienza, di cui si nutre il logos, e l’esperienza, costitutiva dell’ethos e condizione per attuare efficacemente il pathos. Sono di stampo ciceroniano, nell’imponente sistemazione dottrinale e pedagogica che il retore spagnolo Marco Fabio Quintiliano5 compì nel primo secolo dell’era volgare, le numerose dimostrazioni 5   Quintiliano, Institutio oratoria, edizione con testo a fronte e cura di Adriano Pennacini, Einaudi, Torino 2001.

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della forza dell’eloquenza che scaturisce dalle intime sorgenti del sapere (ex intimis sapientiae fontibus). Basti una sola citazione dal libro XII, cap. 2, 5: tutti i concetti dell’equità, della giustizia, della verità, del bene e dei loro contrari fanno parte degli studi dell’oratore e [...] i filosofi allorché difendono questi valori mediante la parola usano le armi dei retori, e non le proprie6.

3. Un’esistenza contrastata Il diffondersi del cristianesimo segnò un’età di contrasti e di svolte speculative. In questo clima l’ethos dell’oratore si annullava nella trascendenza. Sant’Agostino, che prima della conversione era stato maestro insigne di retorica, assegnò a questa un valore solo strumentale rispetto alla propagazione del messaggio cristiano. Ne discese una delle tendenze della disciplina nell’Alto Medioevo: la sua sottomissione alla teologia, al giudizio di legittimità o di illegittimità in riferimento al suo mirare alla verità cristiana o al trascurare tale obiettivo. La storia della retorica occidentale si intreccia con quella della filosofia, della letteratura, delle istituzioni politiche, giuridiche e delle ideologie; con la catechesi cristiana; con gli sviluppi della teologia, del diritto, dell’ars dictandi (l’epistolografia), dei generi poetici. Importante osservare come nel Medioevo venga meno l’insegnamento classico della retorica 6   «[Lucius Crassus] cuncta quae de aequo iusto vero bono deque iis quae sunt contra posita dicantur propria esse oratoris adfirmat, ac philosophos, cum ea dicendi viribus tuentur, uti rhetorum armis, non suis».

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come arte che si applica alla prosa, ben distinta dalla poesia [...]. Nel mondo classico [...] era chiaro come l’oggetto della retorica fosse prima di tutto l’oratoria, nelle sue varietà: quella forense o giudiziaria, quella politica o deliberativa, quella celebrativa o epidittica. Nel Medioevo l’interesse per una retorica unicamente legata all’oratoria politica o giudiziaria si attenua a vantaggio dell’applicazione a campi diversi della prosa, soprattutto le epistole, e anche i versi. È una novità che era stata in qualche modo preparata già dalla cultura classica: fin dalla Retorica di Aristotele [...] molti esempi di figure retoriche e di moduli stilistici erano stati illustrati con l’aiuto di citazioni tratte da testi poetici, cioè con versi, soprattutto con quelli di Omero [...]. Fin dalle origini, dunque, nella retorica, c’era il seme di una sovrapposizione con la poesia e con la poetica. Nel Medioevo il legame tra questi due diversi àmbiti si fece stretto7.

Da notare sia l’originalità dell’incompiuta opera dantesca De vulgari eloquentia, che presenta la trattazione retorica come indispensabile premessa alla teorizzazione delle tecniche poetiche, sia la mancata influenza di questo trattato sui contemporanei di Dante, presso i quali fu scarsamente noto8. Nei programmi medievali il ruolo primario assegnato alla caratterizzazione classica degli stili o genera elocutionis si fondava sulle costanti stilistiche e lingui7   Cito dall’importante innovativo libro di Claudio Marazzini, Il perfetto parlare. La retorica in Italia da Dante a Internet, Carocci, Roma 2001, pp. 39-40. 8   Per le questioni qui solo fugacemente toccate si raccomandano, oltre al citato volume di Marazzini, la Nota al testo di Pier Vincenzo Mengaldo al De vulgari eloquentia, nelle Opere minori di Dante, vol. V, tomo II, Ricciardi, Milano-Napoli 1979; e Andrea Battistini, Ezio Raimondi, Le figure della retorica. Una storia letteraria italiana, Einaudi, Torino 1990.

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stico-pedagogiche affermatesi, già a partire dall’antichità, con le distinzioni a vari livelli tra la povertà espressiva (inopia) e l’elegante semplicità originata dalla padronanza dei mezzi compositivi, dal culto dell’espressione essenziale sfociante in un genere stilistico: la brevitas. La presenza della retorica è vitale per il configurarsi della cultura umanistica, per i variegati percorsi delle humanae litterae nelle età rinascimentale e barocca, nell’affermarsi della scienza, con detrimenti e rinascite nel secolo dei lumi fino al grande naufragio tra Otto e Novecento e alla «risurrezione e dispersione»9 dalla metà del Novecento in poi. Da segnalare, nel XVI secolo, la grande scissione sancita da Pierre de la Ramée (Petrus Ramus) all’interno delle artes logicae tra dialectica (o logica) e rhetorica. La seconda fu ridotta a due delle sue cinque tradizionali parti, cioè alla elocutio e alla pronuntiatio, mentre l’inventio e la dispositio erano inglobate nella dialettica, e alla memoria veniva attribuito il ruolo strumentale di ordinare le idee nella composizione del discorso. Fu la prima grande e pericolosa restrizione dell’antica ‘scienza del linguaggio e arte del parlare’ a dottrina e a precettistica dei modi di esprimersi: riduzione delle competenze alla coltivazione delle forme esteriori estranea ai congegni del ragionamento, alle basi filosofiche e giuridiche, ai temi e ai procedimenti dell’argomentare. Ciò che si qualificava come retorico era relegato alla superficie, era ritenuto non il nucleo e 9   È questo il titolo del cap. 7 del volume di Marazzini, Il perfetto parlare, cit. qui alla nota 7.

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l’essenza del linguaggio, ma una sua incrostazione: artificio manierato e superfluo, non prodotto di un’arte inconscia (di quella unbewusste Kunst di cui avrebbe ragionato Nietzsche) alle radici stesse dell’esprimersi. La retorica di scuola, divenuta studio delle forme e dei modelli letterari, si concentrò sull’analisi delle figure, intese prevalentemente come ingredienti stilistici. Delle loro funzioni non solo ornamentali, ma anche e in vario grado costitutive del funzionamento delle lingue, si occuparono i grandi retori, da Bernard Lamy (1688) a César Chesneau Du Marsais (il cui Traité des tropes, 1730, ebbe un prestigio enorme), a Nicolas Beauzée (Grammaire et litterature, 17821786), a Pierre Fontanier (Les figures du discours, 1827-1830, che valsero all’autore, con una certa enfasi, il titolo di «Linneo della retorica»)10. In posizione del tutto originale, e controcorrente rispetto alle convinzioni dominanti al suo tempo, si pone Giambattista Vico (Principi di Scienza nuova, 17443). Per lui i tropi (metafora, metonimia, sineddoche) non sono nati da «ingeniosi retruovati degli scrittori», ma si devono intendere come modi necessari di «spiegarsi il mondo». Il loro senso è «proprio e naturale»; fra tutti la metafora, «la più necessaria e la più frequente» delle figure, è quella che meglio appare allacciata al mito; quella che meglio esprime il «vero poetico» su scala universale11. 10   Per gli autori e gli argomenti qui appena indicati rinvio alle ampie trattazioni storico-teoriche che si leggono nell’imponente Histoire de la rhétorique dans l’Europe moderne (1450-1950), diretta da Marc Fumaroli, PUF, Paris 1999, pp. 823-943. 11   Di carattere didascalico è il trattato di Vico Institutiones oratoriae [1711-1738], ora curato da Giuliano Crifò, Istituto Suor Orsola

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4. La retorica rifiutata I romantici furori antiretorici di fine XIX secolo (prend l’éloquence et tord-lui le cou) favorirono l’esaltazione della «naturalezza» espressiva (mito destinato a lunga vitalità sotto le varie incarnazioni dello spontaneismo) contro la ricercatezza di un’elaborazione fondata su modelli e precetti dell’arte. In Italia, nelle condizioni sociali e politiche in cui nel tardo Ottocento si riproponeva la non mai sopita questione della lingua, si faceva strada l’esigenza di una scrittura non artefatta, più aderente alle cose da dire che ai modelli consacrati da una tradizione vetusta. Reazione inevitabile alle vuote artificiose esibizioni a cui si erano ridotte e degradate da secoli, in una parte almeno delle lettere italiane, le pratiche dell’antica arte del parlare, relegate a cosmesi stilistica di superficie. Reazione all’«antichissimo cancro della retorica», stigmatizzato dal fondatore della dialettologia italiana, Graziadio Isaia Ascoli, per il quale «l’eccessiva preoccupazione della forma» e la «scarsa densità della cultura» costituivano il «doppio inciampo» al formarsi di una lingua nazionale unitaria12. Si noti che l’uso del termine retorica in accezione Benincasa, Napoli 1989. Nella ricca bibliografia di studi vichiani segnalo qui il ben documentato volume di Stefania Sini, Figure vichiane. Retorica e topica della «Scienza nuova», Edizioni universitarie di Lettere Economia Diritto (LED), Milano 2005. 12   La memorabile posizione di Ascoli riguardo alla «questione della lingua» è sostenuta nel Proemio al primo fascicolo dell’«Archivio Glottologico Italiano» (1873), ripubblicato in Scritti sulla questione della lingua, a cura e con Introduzione e Nota bibliografica di Corrado Grassi, Giappichelli, Torino 1968; e in seguito presso Einaudi, Torino 1975.

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negativa (registrata per la prima volta nel dizionario Tommaseo-Bellini del 1865-1879) era diventato comune nella cultura italiana solo dalla metà dell’Ottocento in poi. Alessandro Manzoni aveva ancora potuto contrapporre una «rettorica discreta, fine, di buon gusto» a una malamente esorbitante, rozza, goffa quale era quella dell’anonimo autore della storia che egli si apprestava a raccontare in forma di romanzo. Il rifiuto della retorica come degenerazione del linguaggio fu tutt’uno con la condanna di una disciplina i cui apparati parvero inaccettabili. Ma questo non impedì a cultori di lingua, a scrittori e poeti sommi (basti ricordare Leopardi) di avere ben chiara la consapevolezza di quanto regole e costrizioni fossero necessarie al manifestarsi del vigore creativo. Per dirlo con Baudelaire: il est évident que les rhétoriques et les prosodies ne sont pas des tyrannies inventées arbitrairement, mais une collection de règles réclamées par l’organisation même de l’être spirituel. Et jamais les prosodies et les rhétoriques n’ont empêché l’originalité de se produire distinctement. Le contraire, a savoir qu’elles ont aidé l’éclosion de l’originalité, serait infiniment plus vrai13.

  Charles Baudelaire, Salon de 1859, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1975, t. II, p. 1043: «è evidente che le retoriche e le prosodie non sono affatto tirannie inventate arbitrariamente, ma sono una collezione di regole reclamate dall’organizzazione stessa dell’essere spirituale. E mai le prosodie e le retoriche hanno ostacolato l’originalità dell’esprimersi con raffinata eleganza. È infinitamente più vero il contrario, cioè che esse hanno aiutato lo sbocciare dell’originalità» [trad. mia]. 13

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5. La retorica giustificata Sui legami tra l’ermeneutica, arte e scienza dell’interpretare, e l’antica arte della produzione del discorso (e del dialogo, come già aggiungeva Nietzsche, considerando il parallelismo aristotelico tra retorica e dialettica) Ezio Raimondi ha scritto pagine suggestive. Ha mostrato come Nietzsche avesse cominciato a scoprire che, forse, la natura del linguaggio e del nostro discorso è eminentemente retorica proprio perché non vive di verità assoluta ma di assenza di verità, essendo le immagini, le metafore, i modi e le forme d’espressione, non lo specchio della realtà ma una sua trasformazione, trasfigurazione e, al limite, falsificazione14.

Se il linguaggio non riproduce ma trasforma la realtà poiché la interpreta, quando addirittura non la reinventa, allora i fattori soggettivi reclamano una parte preminente: una bella rivincita sull’oggettivismo sbandierato dalla scienza, e in particolare dalla linguistica, di fine Ottocento. La presenza del soggetto comporta nell’agire comunicativo la corrispettiva presenza di un interlocutore o di un uditorio: erano queste le basi della retorica aristotelica, che sui tre elementi costitutivi – chi parla, chi ascolta o interloquisce, ciò di cui si ragiona – aveva modellato i tipi di discorso e la triade delle prove (ethos, pathos, logos). Con l’andare del tempo l’unità del sistema che costituiva l’antica scienza del linguaggio si è frantu14   Ezio Raimondi, La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna 2002, p. 16.

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mata. Fratture e specializzazioni hanno privilegiato ora l’uno ora l’altro aspetto: ad esempio, alla metà del Novecento la cosiddetta letterarizzazione destinata a sfociare nella «retorica ristretta» di cui parlava Genette; ed era la progressiva riduzione a teoria dei traslati in cui prese corpo l’importante filone delle neoretoriche linguistico-letterarie. E contemporaneamente la risurrezione della retorica come teoria dell’argomentazione, nei due principali e differenti modelli, usciti nello stesso anno (il 1958) e recepiti in Italia con un certo scarto temporale l’uno dall’altro. Sono il Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique (PUF, Paris 1958), di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, tradotto in italiano nel 1966 (presso Einaudi, con prefazione di Norberto Bobbio); e The Uses of Argument, di Stephen E. Toulmin (Cambridge University Press, London 1958), tradotto in italiano solo nel 1975 (presso Rosenberg e Sellier, Torino). È stata, questa, una tappa capitale nella vita della retorica. Ha determinato un nuovo modo di intendere la natura e i compiti dell’antica arte del dire nel momento in cui i suoi tratti originari riapparivano nella loro necessità. Nata come disciplina del ragio­namento sotteso alla facoltà del comunicare e del contendere, la retorica vedeva potenziate le sue autentiche prerogative, mentre anche la sistemazione delle «figure» era regolata dal riconoscimento del valore argomentativo di ciascuna15. 15   Una convincente rassegna dello stato attuale degli studi retorici posteriori a Perelman e a Toulmin è il volume miscellaneo a cura di Adelino Cattani, Paola Cantù, Italo Testa e Paolo Vidali, La svolta

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6. Una retorica «molteplice» La caratterizzazione migliore della disciplina nella varietà delle sue prerogative è quella, proposta da Raimondi, di «retorica molteplice», che con il sistema classico mirabilmente unitario ha stabilito altrettanti agganci quanti sono i rivoli in cui questo si è frammentato. A conti fatti è stata una diaspora fruttuosa: la divisione si è identificata con una moltiplicazione di campi e di competenze. Il costo è stato ed è alto, se lo calcoliamo in termini di perdita di specificità o addirittura di identità disciplinare quando si tenta di delimitare il dominio di ciò che si intende per ‘retorica’, o quando la nozione di ‘retorico’ può essere considerata genericamente intercambiabile con quella di ‘discorsivo’. Si è prestata attenzione ai rapporti tra metodi della ricerca scientifica e procedimenti organizzativi del discorso. Il rigore delle procedure di scoperta non esclude, anzi richiede la capacità da parte dello scienziato di formulare le idee in modo efficace, nel giusto intento di mostrare al suo uditorio virtuale (la comunità scientifica) che le proprie teorie sono corrette e valide. Paradigmi riconosciuti, negli antecedenti storici più prestigiosi, le originali strategie argomentative, gli stratagemmi verbali, le audacie espressive di scienziati come Galileo, la cui verve polemica esercitata contro la retorica inconsistente degli aristotelici fece scuola. Nella seconda metà del Novecento si arrivò a dichiarare la pervasività della retorica in ogni manifestazione della lingua e della argomentativa. 50 anni dopo Perelman e Toulmin, Loffredo, Napoli 2009.

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comunicazione. Considerarla come una delle scienze linguistiche era ritenuto riduttivo da chi la assumeva quale punto di vista globale sulla cultura e principio di conoscenza. Retorica come alleata della filosofia: nuova indagine sulla verità, nel modo in cui l’aveva intesa, nella sua «rivalutazione», Ernesto Grassi, accantonando la contrapposizione tra episteme e doxa, tra Verità e Persuasione16. Alla riabilitazione novecentesca della retorica sono stati attribuiti diversi precursori. Antoine Compagnon, ad esempio, li ha indicati in Nietzsche, Jean Paulhan e Kenneth Burke. Di Burke17, Compagnon mette in rilievo la centralità assegnata al linguaggio nell’interazione umana, e il ricorso «alla sociologia, all’antropologia, alla psicanalisi, alla filosofia, alla poe­ tica» nell’applicare le analisi agli oggetti più svariati: dai testi letterari, filosofici, politici, fino alla gestualità e a manifestazioni della vita quotidiana. Il potere di «fare presa» (l’appeal) sui destinatari è, per Burke, la molla essenziale della comunicazione. Ma per catturare le persone a cui ci si rivolge bisogna «identificarsi» con loro; le diverse maniere per raggiungere tale identificazione sono appunto l’oggetto della retorica. Tutto ciò, conclude Compagnon, «fa di questa nuova retorica della vita sociale un anello importante verso le neoretoriche»18. Cioè verso quella che, se16   Ernesto Grassi, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e Associati, Milano 1989. 17   Kenneth Burke, A Rhetoric of Motives, University of California Press, Berkeley 1974 [1950]. 18   Antoine Compagnon, La réhabilitation de la rhétorique au XXe siècle, in Marc Fumaroli (a cura di), Histoire de la rhétorique cit., pp. 1261-1282.

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condo Reboul, è stata ed è attualmente l’estensione a tutte le forme moderne di persuasione, ivi comprese la poesia, le produzioni non verbali (per esempio, le immagini in manifesti pubblicitari di propaganda commerciale, o politica, o riguardante manifestazioni culturali ecc.), ove «il pathos ha la meglio sul logos»19. Più ricco il panorama tracciato da Marazzini (nel cap. 7 del volume citato qui alla nota 7) per rispondere alla domanda «dov’è andata la retorica». Oltre alle persistenze nelle sedi canoniche degli studi letterari, filologici, storici, filosofici, ove i principi e gli strumenti dell’antica disciplina sono tema di ricerca e oggetto di applicazione, lo studioso passa in rassegna l’oratoria forense, la manualistica per la scrittura, la comunicazione aziendale e istituzionale, i discorsi e i dibattiti politici, i procedimenti argomentativi nell’universo delle discipline scientifiche, i linguaggi di Internet. Le forme sono eterogenee come le occasioni che ne causano il sussistere, ma gli intenti che le sottendono si possono ricondurre ad atteggiamenti di lunga data: la tensione verso l’efficacia persuasiva; la volontà di dimostrare la validità di una tesi oppure la debolezza o l’inaccettabilità di una tesi contraria; il ritrovamento di parametri su cui valutare fatti e comportamenti; le vie per motivare consensi o dissensi trovando per ogni circostanza lo stile confacente di pensiero e di espressione. Se si richiamano alla mente le branche della ricerca che si spartiscono il dominio di quella che fu la re19   Olivier Reboul, Introduction à la rhétorique. Théorie et pratique, PUF, Paris 19942 (trad. it. Introduzione alla retorica, a cura di Gabriella Alfieri, il Mulino, Bologna 1996, pp. 101-108).

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torica classica e postclassica, si può constatare come i congegni retorici insiti nel parlare riguardino campi diversi del sapere. Sembrerebbe di dover ammettere l’esistenza odierna non di una ma di più ‘retoriche esterne’. E non sembra vano stabilire gli agganci, almeno i più evidenti, tra ciò che è ora e ciò che è stato il tesoro degli apporti che si possono ricondurre a un’origine comune, tenendo conto innanzi tutto delle relazioni fra le discipline: per esempio, le relazioni fra retorica e grammatica. 7. Retorica e grammatica Nel programma pedagogico che aveva avuto nella Institutio oratoria di Quintiliano la sistemazione più chiara e ricca di avvenire, le competenze e i compiti didattici del retore erano stati separati e messi a uno stadio superiore dell’insegnamento rispetto a quelli del grammatico. Ma nel IV secolo, nell’Ars grammatica di Elio Donato, l’analisi degli accorgimenti retorici occupò una parte secondaria nell’esposizione delle regole grammaticali. Separazioni e graduatorie disciplinari hanno avuto per lo più risvolti didattici: dalle delimitazioni medievali tra le arti del trivio all’articolato modello educativo della ratio studiorum gesuitica. È nel dominio delle precettistiche del parlare e dello scrivere che il rapporto fra le pratiche discorsive e la loro regolamentazione fu avvertito con la maggiore consapevolezza. Uno degli incentivi al nascere della retorica come scienza produttrice di un’arte saldamente regolata era stata infatti fin dalle origini l’opportunità

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di fornire un corredo di nozioni, di norme e di espedienti a chi volesse esprimersi in modo efficace e persuasivo, cioè essere eloquente. Ne era derivata la bipartizione (e insieme l’interdipendenza) di rhetorica utens (l’impiego dei mezzi di persuasione) e rhetorica docens (l’analisi prescrittiva dei medesimi). Non fu così per la grammatica coeva. Se volessimo tracciare un parallelo a posteriori, potremmo dire che questa fu intesa costituzionalmente come docens. Alla luce delle riflessioni (meta)linguistiche novecentesche è lecito rilevare il carattere polisemico dei termini grammatica e retorica. Ciascuna delle due denominazioni può essere usata per designare sia le regole come insiemi degli elementi e delle relazioni secondo cui l’attività verbale si organizza internamente a diversi livelli (regole insite nella lingua), sia la descrizione di tali regole, individuate e costruite dal di fuori, donde vengono pure le eventuali prescrizioni riguardo al modo di applicarle o di insegnarle. Secondo le teorie e i punti di vista adottati, variano le concezioni tanto dei dispositivi interni all’attività del comunicare (che costituiscono la grammatica implicita nella competenza dei parlanti, e la retorica che abbiamo detto ‘interna’) quanto dei modi di darne conto dall’esterno (mediante la grammatica esplicita e la retorica ‘esterna’). 8. Retorica come linguistica del discorso Nella seconda metà del Novecento si fece strada in zone dello strutturalismo letterario e della semiotica l’intento (o l’illusione?) di collocare in una prospettiva globalizzante la varietà dei modi di comunicare.

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Si proponeva la formazione di una «neoretorica» come una «semiotica del discorso, di tutti i discorsi», secondo la convinzione manifestata da Genette nei primi anni Settanta. Prima di lui Barthes, richiamandosi all’autorità di linguisti quali Benveniste, Harris, Ruwet, aveva affermato l’urgenza di una nuova, e non meglio precisata, «linguistica del discorso» che occupasse il posto tenuto anticamente dalla retorica. Successivamente, e sul versante semiotico, Jurij Lotman avrebbe assegnato alla retorica la prerogativa di comprendere sia le regole della costruzione del discorso, su un livello superiore e non omologabile a quello della frase, sia la «poetica del testo», con il compito di occuparsi di molteplici codici interagenti, della comunicazione multimediale eccetera20. Ciò che sembra caratterizzare stabilmente i temi e i compiti degli ambiti di ricerca così delineati è l’appartenenza al livello del ‘discorsivo’, sede di entità transfrastiche e pragmatiche. Lo teorizza persuasivamente Claudia Caffi, chiarendo sul piano della sistemazione dottrinale il rapporto fra la retorica e la pragmatica «aree del sapere dai confini incerti e dall’assetto variabile». Due sono i modi per trattare tale rapporto: il primo è di vedere entrambe come discipline epistemologicamente affini e storicamente in successione e di istituire dei legami tematici fra di loro o loro parti. [...] Il secondo 20   Cfr. Gérard Genette, La retorica ristretta, in Id., Figure III. Discorso del racconto, trad. it., Einaudi, Torino 1976, pp. 17-40; Roland Barthes, L’ancienne rhétorique, aide-mémoire, «Communications», 16, 1970 (trad. it. La retorica antica, Bompiani, Milano 1972); Jurij Lotman, Retorica, in Enciclopedia, vol. XI, Einaudi, Torino 1980.

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modo è di pensare alla retorica non solo, per così dire, in estensione, ma anche in profondità: non solo come blocco disciplinare e catalogo, ma come sterminato inventario di meccanismi della discorsività che alla base configurano un’immagine problematica del soggetto che prende la parola. Il soggetto modello della retorica è un soggetto con una sua progettualità manipolativa diversificata, sia essa giocata sul piano razionale dell’argomentazione o su quello più irriflesso della seduzione emotiva e psicagogica. [...] In ogni caso, il soggetto modello della retorica, analogamente a quello della pragmatica, è un soggetto a intermittenze, potremmo dire a gradi di retoricità (e di seduzione emotiva)21.

Dal punto di vista pragmatico, dunque, è ancora il pathos a dominare la scena del dramma comunicativo. Nell’area delle indagini sui fenomeni transfrastici, la grammatica del discorso separata dalla grammatica della frase ma interrelata a questa rappresenta, secondo alcuni, qualcosa di simile a ciò che un tempo si indicava sotto le etichette di stilistica e di retorica. Fra i compiti di quest’ultima come scienza dei modi di comunicare ci sarebbe anche quello di spiegare il valore figurato degli enunciati, gli «effetti speciali» della lingua. Secondo l’opinione più diffusa, perché ben radicata nella tradizione degli studi letterari e linguistici, questo sarebbe il compito specifico della retorica, disciplina ‘dedicata’ all’analisi degli effetti di senso ottenuti attraverso particolari accorgimenti linguistici. Tema di fondo il ‘parlar figurato’, di cui 21   Claudia Caffi, La mitigazione. Un approccio pragmatico alla comunicazione nei contesti terapeutici, LIT, Münster 2001, pp. 148-149.

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non è certo un problema intuire l’esistenza. I problemi nascono quando si cerca di dire chiaramente che cosa è «parlar figurato» e in rapporto a che cosa e con quali criteri stabiliamo che lo è. È noto che su tale argomento si sono spuntate molte armi di teoria retorica. In campo letterario l’ipotesi dello scarto mette la retorica, sulle orme instabili della stilistica, nella scomoda posizione di dover rispondere a quesiti sfocianti in una circolarità prevedibile già in partenza. Come asseriva qualche decennio fa Dan Sperber: Il discorso figurato devia... da che cosa, appunto? Dal discorso grammaticalmente corretto? Le figure abbondano negli enunciati più indiscutibilmente grammaticali. Dal discorso ordinario? Questo è pieno di figure. Allora da quel ‘grado zero’ che [...] non si definisce – tautologicamente – se non per l’assenza di valore figurato22.

Secondo Sperber lo scarto, se c’è, è tra diversi livelli di rappresentazione concettuale del testo, perché «la figura [...] è una funzione sia del testo, sia delle conoscenze condivise». Si potrebbe dire allora che ogni figura retorica è una figura di pensiero. Le particolarità fonologiche, sintattiche e semantiche agiscono come «focalizzatori supplementari» del meccanismo per mezzo del quale si interpretano 22   Dan Sperber, Rudiments de rhétorique cognitive, in «Poétique», 23, 1975, pp. 389-415: «Le discours figural s’écarte... de quoi au juste? Du discours grammatical? Les figures abondent dans les énoncés les plus indiscutablement grammaticaux. Du discours ordinaire? Il est plein de figures. Alor de ce ‘degré zero’ qui [...] ne se definit – tautologiquement – que par l’absence de figuralité» (p. 414).

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come tali le figure. Sperber parla di un «dispositivo retorico» che si applicherebbe agli enunciati per selezionare il senso che deve essere assegnato ad ognuno in una data situazione, in base all’enciclopedia (conoscenza del mondo, delle convenzioni culturali ecc.) e agli eventuali sottintesi. Ma in molti casi la rappresentazione concettuale di un enunciato sotto forma di un insieme di proposizioni, senso e sottintesi, non esaurisce il suo oggetto, lascia un residuo [...]. L’enunciato [...] suggerisce o evoca qualcosa di più, che non può essere dedotto logicamente. In tal caso intervengono non solo la grammatica e l’enciclopedia, ma anche il simbolismo: si ha a che fare con un enunciato figurato23.

La retorica tradizionale, classica e postclassica, ha sminuzzato in classificazioni ossessive i congegni di cui constano le figure. E questo le ha permesso, se non altro, di individuare particolarità lessicali, sin­ tattiche, fonetiche ritenute fuori dalle competenze della grammatica antica; anche se poi non ha avuto i mezzi per riconoscere sovrapposizioni e confusioni di strutture. Le ha permesso soprattutto di afferrare varianti stilistiche, in nome del principio che sta alla base della teoria dell’elocutio: il principio della licentia, della deroga consentita alle leggi della grammatica. Quando le fu affidato il compito di governare e in23   «La représentation conceptuelle d’un énoncé sous la forme d’un ensemble de propositions, sens et sous-entendus, n’épuise pas son objet, laisse un résidu [...]. L’enoncé [...] suggère ou évoque quelque chose de plus, qui ne peut pas être logiquement déduit. Dans ce cas interviennent non seulement la grammaire et l’encyclopédie, mais aussi le symbolisme. On a affaire à un énoncé figural» (ivi, p. 390).

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segnare il parlare ornato come veicolo di persuasione opposto al linguaggio ordinario, la retorica funzionò prevalentemente come stilistica24. 24   Alle opere indicate nelle note precedenti si aggiungano, per la storia della retorica: Renato Barilli, Poetica e retorica, Mursia, Milano 1969-1984; Heinrich Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik, Max Hueber, München 19732; Id., Elementi di retorica, trad. it., il Mulino, Bologna 1969; James J. Murphy, Rhetoric in the Middle Ages, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1974 (trad. it. La retorica nel Medioevo. Una storia delle teorie retoriche da s. Agostino al Rinascimento, Liguori, Napoli 1983); Gérard Genette, La rhétorique des figures, Introduzione a Pierre Fontanier, Les figures du discours, Flammarion, Paris 1977, pp. 5-17; Brian Vickers, In Defence of Rhetoric, Oxford University Press, Oxford 1988 (trad. it. Storia della retorica, il Mulino, Bologna 1994); Michel Meyer, Questions de rhétorique: langage, raison et séduction, Librairie Générale Française, Paris 1993; Id., Principia Rhetorica. Une théorie générale de l’argumentation, Fayard, Paris 2008. Sui rapporti della retorica con le discipline limitrofe: Carla Marello, Aspetti illocutori e perlocutori della retorica, in Federico Albano Leoni e M. Rosaria Pigliasco (a cura di), Retorica e scienze del linguaggio, Bulzoni, Roma 1979, pp. 25-35; Isabella Poggi, Introduzione alla comunicazione multimediale, Carocci, Roma 2006; Federica Venier, Il potere del discorso. Retorica e pragmatica linguistica, Carocci, Roma 2008; Ead., Per un superamento della dicotomia «langue/parole»: sentieri paralleli e intersezioni di retorica, linguistica testuale e pragmatica, in Anna-Maria De Cesare e Angela Ferrari (a cura di), Lessico, grammatica e testualità nell’italiano scritto e parlato, in «Acta Romanica Basiliensia», 18, 2007, pp. 9-52; Angela Ferrari, Grammatica, testo e «stylistique de la langue», ivi, pp. 53-73.

III

Dentro il sistema classico

Premessa Nei paragrafi in cui si articola il presente capitolo sono distribuiti gli elementi essenziali di una ­rassegna del­le parti – con le reciproche relazioni interne – del­ l’imponente complesso di cui si sono intravisti fi­nora singoli aspetti, mentre si cercava di delineare indispensabili rapporti interdisciplinari tra l’oggetto principe del lavoro e alcuni degli elementi di ­contorno. Nella retorica classica la produzione dei testi orali e scritti fu disciplinata in cinque grandi sezioni. Originariamente in numero di quattro (inventio, dispositio, elocutio, pronuntiatio/actio), queste passarono a cinque con l’aggiunta della memoria nella prima opera retorica scritta in latino: la Rhetorica ad Herennium, databile fra l’86 e l’82 a.C.1, ove le singole 1   Quest’opera, in quattro libri, dapprima attribuita erroneamente a Cicerone e in seguito a un retore di nome Cornificio, condivise con il De inventione di Cicerone la prerogativa di essere la principale fonte di conoscenza della retorica nel Medioevo.

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parti sono elencate e definite come altrettante abilità richieste all’oratore: Le qualità che non devono mancare in un oratore sono la capacità d’invenzione, di disposizione, di eloquio, di memoria e di dizione. L’invenzione è la capacità di trovare argomenti veri o verosimili che rendano la causa convincente. La disposizione è l’ordinamento e la distribuzione degli argomenti; essa indica il luogo che ciascuno di essi deve occupare. L’eloquio è l’uso delle parole e delle frasi opportune in modo da adattarsi all’invenzione. La memoria è la tenace presenza nel pensiero degli argomenti, delle parole e della loro disposizione. La dizione è la capacità di regolare in modo gradito la voce, l’aspetto, il gesto2.

Nel De inventione (55 a.C.) di Cicerone le stesse etichette designano le partizioni della disciplina. Nell’Institutio oratoria di Quintiliano, infine, i compiti dell’oratore appaiono chiaramente distinti dalla sistemazione teorica dei loro oggetti: parlar bene è cosa dell’oratore, ma la scienza del parlar bene sarà la retorica: o (come altri pensano) la persuasione è dell’artefice, mentre il potere della persuasione è dell’ar-

2   «Oportet igitur esse in oratore inventionem, dispositionem, elocutionem, memoriam, pronuntiationem. Inventio est excogitatio rerum verarum aut veri similium, quae causam probabilem reddant. Dispositio est ordo et distributio rerum, quae demonstrat, quid quibus locis sit conlocandum. Elocutio est idoneorum verborum et sententiarum ad inventionem adcommodatio. Memoria est firma animi rerum et verborum et dispositionis perceptio. Pronuntiatio est vocis, vultus, gestus moderatio cum venustate» (Cornifici Rhetorica ad C. Herennium, Introduzione, edizione critica e commento a cura di Gualtiero Calboli, Pàtron, Bologna 1969; 2a ed. 1993, I, 2, 3).

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te retorica. Così trovare gli argomenti e disporli possono sembrare cose proprie dell’oratore, mentre invenzione e disposizione della retorica3.

E poiché ogni discorso oratorio [...] è costituito di idee e di parole: per quanto riguarda le idee si deve considerare l’invenzione, per le parole la forma espressiva, per le une e per le altre la disposizione; la memoria le deve abbracciare tutte, l’azione oratoria valorizzarle4.

Le parti più soggette a elaborazioni sistematiche sono state, per lunga tradizione, l’inventio, la dispositio e specialmente l’elocutio. Alla prima competeva essenzialmente trovare e progettare il contenu­ to del discorso; alla seconda l’organizzazione degli argomenti; alla terza il piano dell’espressione. Trasmesse al Medioevo e alle età successive, determi­ narono non solo la conformazione dell’oratoria civile e sacra, ma anche le procedure del comporre in prosa.

3   «Nam bene dicere est oratoris, rhetorice tamen erit bene dicendi scientia: vel (ut alii putant) artificis est persuadere, vis autem persuadendi artis. Ita invenire quidem et disponere oratoris, inventio autem et dispositio rhetorices propria videri potest» (Institutio oratoria – d’ora in poi Inst. orat. –, III, 3, 12). L’edizione recente di riferimento è la seguente: Quintiliano, Institutio oratoria, edizione con testo a fronte e cura di Adriano Pennacini, Einaudi, Torino 2001. 4   «...orationem porro omnem constare rebus et verbis: in rebus intuendam inventionem, in verbis elocutionem, in utraque conlocationem, quae memoria complecteretur, actio commendaret» (ivi, VIII, Proemio, 6).

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1. L’inventio Inventio, da invenire «trovare», è la ricerca e la scelta degli argomenti adatti a rendere attendibile una tesi. Il suo dominio nella trattatistica antica fu vasto, essenziale all’economia dell’intero sistema. La funzione assegnata da Aristotele alla retorica («vedere i mezzi di persuasione riguardo a ciascun argomento») richiedeva, per essere attuata, una dilatazione dei campi di indagine di volta in volta dipendente dalle diverse e variabili circostanze del contendere e delle materie in questione. Appartenevano all’inventio la descrizione delle tecniche per dimostrare la validità di una tesi e per confutare le opinioni contrarie; la trattazione dei temi e delle nozioni fondamentali nel settore a cui il discorso si riferiva (l’ambito giuridico, per il genere giudiziario; le varie scienze, la morale, la letteratura, e via discorrendo, per gli altri generi e tipi di composizione); l’elenco dei «luoghi comuni» (in latino loci; in greco tópoi): principi generalmente accettati su cui basare il ragionamento volto a giustificare un’asserzione, validi in circostanze e ambiti svariati del sapere e della comunicazione, e non «propri» o specifici di un singolo settore; di qui l’attributo di comuni. Ad esempio, in un enunciato come «Questo discorso non mi persuade perché è pieno di contraddizioni», il motivo («l’essere pieno di contraddizioni») con cui si giustifica la dichiarazione («questo discorso non mi persuade») è basato sul principio, rispondente a un’opinione comunemente ammessa, per cui un eccesso di contraddizioni limita o annulla la forza persuasiva di ciò che si dice.

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1.1. I tópoi o loci Il termine topos (plurale tópoi) fu introdotto da Aristotele come tecnicismo della dialettica, con il senso di area concettuale da cui trarre le premesse per i sillogismi, dialettici e retorici. Secondo Perelman e OlbrechtsTyteca5 i tópoi fanno parte delle «basi dell’argomentazione»: sono le premesse generali, per lo più implicite, sottese a scelte e ad asserzioni da giustificare. Corrispondono alle «idee ricevute» su cui è fondata l’adesione a determinati valori, che qualificano la mentalità di gruppi sociali rispetto ad altri di opposte convinzioni. Al catalogo dei tópoi trasmesso dall’antichità classica al Medioevo e oltre appartengono i loci o argumenta a persona («argomenti tratti dalla persona») e a re («dalla materia di cui si tratta»), che comprendono la causa, il luogo, il tempo, il modo, i mezzi ecc.6. Nell’insegnamento retorico tale catalogo fu considerato un sussidio indispensabile al comporre e all’esercizio della memoria. Si consolidò l’idea dei luoghi come scomparti di un magazzino dove gli argomenti si trovano disposti e a disposizione di tutti7. 5   Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumen­ tation. La nouvelle rhétorique, PUF, Paris 1958 (trad. it. Trattato del­ l’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 1966). 6   Cfr. Heinrich Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik, Max Hueber, München 19732, vol. II, pp. 201-220; Leonid Arbusow, Colores rhetorici. Eine Auswahl rhetorischer Figuren und Gemeinplätze als Hilfsmittel für akademische Übungen an mittelalterlichen Texten, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1963, pp. 82-123. Per le sintesi parzialmente riprodotte qui rinvio a Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 201012 [1997], pp. 78-88 e passim; Ead., Tópos, in Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica, diretto da Gian Luigi Beccaria, Einaudi, Torino 19962, s.v. 7   Cfr. Roland Barthes, L’ancienne rhétorique, aide-mémoire, in

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Cristallizzati in modelli, i loci communes potevano essere inseriti ciascuno in appositi programmi. Degli uni e degli altri diamo qui un frammentario elenco: a) il programma dell’esordio, con il topos dell’affettazione di modestia, funzionale a quello della captatio benevolentiae; b) il topos del ricorso a massime e proverbi; c) il programma della dichiarazione della causa scribendi «il motivo per cui si scrive», da cui dipendeva un grappolo di tópoi: dedica, meriti del dedicatario, invocazione alla divinità ecc.; d) la formula della brevità, collegata a tópoi quali «poche delle molte cose che potrei/dovrei dire» ecc. Così all’uso argomentativo dei loci si sovrapponeva l’impiego dei medesimi come formule classificabili, in quanto costanti di contenuto codificate. Tali sono i tópoi o loci sviluppati dal Medioevo in poi in tematiche letterarie, intorno a «concetti ricorrenti in determinate circostanze del discorso»8. Ricordiamo: • il topos del locus amoenus, nella rappresentazione di campagne con prati fioriti, boschetti, ruscelli, in descrizioni di luoghi associate agli stereotipi della piacevolezza, dell’evasione in ambienti naturali accoglienti ecc. Due brevi esempi: – da un classico della letteratura italiana: «Communications», 16, 1970 (trad. it. La retorica antica, Bompiani, Milano 1972). 8   Così Giovanni Pozzi, nell’eccellente saggio Temi, tópoi, stereotipi, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, III/I. Le forme del testo. Teoria e poesia, Einaudi, Torino 1984, pp. 391-436 (citazione a p. 393). Fondamentale Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Franke, Bern 1948 (trad. it. Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992).

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Non si destò fin che garrir gli augelli / non sentì lieti e salutar gli albori, / e mormorar il fiume e gli arboscelli, / e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori9.

– dal libretto di un’affascinante opera lirica: Qui mormora il ruscel, qui scherza l’aura, / Che col dolce susurro il cor ristaura. / Qui ridono i fioretti e l’erba è fresca; / Ai piaceri d’amor qui tutto adesca10.

Aggiungiamo, fra i molti che nella tradizione letteraria europea hanno caratterizzato scuole e movimenti: • il topos della «lode del buon tempo andato» unita al rammarico per la nequizia del presente; • il topos medievale del puer senex, applicato a chi fin da ragazzo dimostra la saggezza di una persona matura. Lo studio dei loci letterari inaugurato da Curtius è connesso a quello dei temi e dei motivi; in generale alle analisi di idee e contenuti caratterizzanti generi e forme letterarie. Si aggiunga che le attuazioni dei tópoi non sono solo affidate alle arti verbali: si pensi agli esiti pittorici del locus amoenus; e, sia pure su diversi livelli di attuazione e di fruizione, agli sfruttamenti pubblicitari di stereotipi dalle matrici più svariate. Dal De inventione ciceroniano la trattatistica medievale ricavò l’elenco delle «circostanze» (la cui in-

  Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, VII, 5, vv. 1-4.   Lorenzo Da Ponte, Le nozze di Figaro, atto IV, scena IV, vv. 21-24. 9

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venzione fu attribuita a Ermagora ): una doppia serie di attributi e delle relative domande, volta a verificare la presenza delle condizioni necessarie alla compiutezza dell’esposizione. Ne diamo un veloce schema: 11

1. persona: quis? (chi?) // 2. factum: quid? (che cosa?) // 3. causa: cur? (perché?) // 4. locus: ubi? (dove?) // 5. tempus: quando? (quando?) // 6. modus: quemadmodum? (in che modo?) // 7. facultas: quibus adminiculis? (con quali mezzi o aiuti?).

Le circostanze ebbero notevole fortuna nella cultura medievale: appartengono infatti contemporaneamente al dominio della retorica, dell’etica, dell’esegesi e della letteratura penitenziale. Rifacendosi alla retorica greca e a quella latina, l’ars rhetorica medievale insisterà a lungo sul valore delle circostanze: dal De rhetorica dello Pseudo Agostino, al De differentiis topicis di Boezio, dai testi di Isidoro e di Alcuino, fino al commento al De inventione di Cicerone di Teodorico di Chartres nel XII secolo [...], le circostanze saranno sempre considerate un aspetto fondamentale della tecnica dell’argomentazione retorica12.

11   Ermagora di Temno, retore greco (metà del II secolo a.C.), della cui opera, perduta, sono stati ricostruiti i lineamenti attraverso le citazioni di autori posteriori (Cicerone, Quintiliano, sant’Agostino). È sua la classificazione dei discorsi giudiziari fondata sulla nozione di stasis (in latino, status causae): determinazione della questione su cui verte la causa. Si rimanda a Lucia Calboli Montefusco, La dottrina degli «status» nella retorica greca e romana, Olms-Weidmann, Hildesheim 1986. 12   Carla Casagrande, Silvana Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987, p. 75.

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2. La dispositio Alla descrizione delle tecniche per dimostrare la validità di una tesi e per confutare le opinioni contrarie era essenziale la definizione delle parti del discorso persuasivo. I retori latini ritennero di pertinenza dell’inventio tale argomento, che nella teoria aristotelica era trattato invece – e giustamente – nell’ambito della seconda sezione della retorica: la dispositio «disposizione o ordinamento della materia». Elementi canonici: a) le articolazioni del testo; b) le strutture organizzative del testo: inizio, sviluppi, epilogo; c) la disciplina dell’espressione: l’ordine delle parole nelle frasi e delle frasi nei periodi. Esemplificheremo i tre punti su passi di autori (e su generi di scrittura) appartenenti a epoche diverse. Si noterà come possano variare, in italiano, gli schemi della dispositio conformemente ai tipi e agli sviluppi del ragionamento. La scelta degli esempi sarà dovuta prevalentemente alle cosiddette «agnizioni di lettura»: richiami memoriali di produzioni di età diverse, non in quanto rappresentative di generi o di maniere, ma quali testimonianze delle risorse di una lingua che nelle sue molteplici incarnazioni storiche e nelle infinite varianti – letterarie, scientifiche, colloquiali eccetera – sa essere duttile e anche sovranamente imprevedibile. Al punto a) possiamo riferire il seguente lacerto di una traduzione della Metafisica di Aristotele, ove l’asserzione enunciata in [A] viene giustificata dall’argomento addotto in [B], che conduce alla conclusione [C]:

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[A] In realtà, coloro che per primi hanno amato la sapienza ritennero per la maggior parte che i princìpi nell’aspetto della materia fossero i soli princìpi di tutte le cose. [B] Difatti ciò da cui sono costituite tutte le cose che sono, e ciò da cui da principio esse nascono, e ciò in cui da ultimo esse periscono – mentre la sostanza permane, ma muta nelle affezioni – è appunto ciò che dicono essere elemento e ciò che dicono essere principio delle cose che sono; [C] e per questo ritengono che nulla nasca né si distrugga, in quanto tale natura è preservata sempre13.

I punti a) e c) possono essere richiamati a proposito dell’impostazione di un ragionamento su serie compatte di opposizioni, come nel seguente passo di Machiavelli: Tutti gli stati, tutti e dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati. E principati sono o ereditarii [...] o sono nuovi. E nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista, come è el regno di Napoli a·re di Spagna. Sono questi dominii così acquistati o consueti a vivere sotto uno principe o usi ad essere liberi; et acquistonsi o con l’arme d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù14.

Vale la pena di riportare qui almeno una piccola parte del commento di Pier Vincenzo Mengaldo, che mette nel giusto rilievo 13   Aristotele, Metafisica 983 b 6-11, in Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. II, Adelphi, Milano 1978, p. 115. 14   Niccolò Machiavelli, De principatibus, testo critico a cura di Giorgio Inglese, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma 1994.

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il binarismo logico che percorre da un capo all’altro il capitolo, la correlazione oppositiva o-o che non lascia spazio a un altro elemento: tertium non datur, riproducendosi per gemmazione da una coppia all’altra giù giù inesorabilmente. È quello che Luigi Russo ha chiamato più che felicemente lo stile dilemmatico di Machiavelli. E che qui è talmente insistito da poter essere rappresentato [...] con uno stemma codicum via via sempre bipartito [...]. Si può sospettare che questo connaturato binarismo oppositivo derivi dalla stessa forma mentale che ha dettato a Machiavelli l’assoluta separazione di politica e morale15.

Le opposizioni semantiche, specie se distribuite in membri di struttura parallelistica, sono una costante dello stile aforistico; il passo che segue illustra le condizioni sintetizzate in c): La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza16.

Per concludere con un cenno alla funzione coesiva della concatenazione di proposizioni e argomenti di supporto, basterà tenere presente l’esempio che, qui di seguito, abbiamo suddiviso in segmenti numerati. Ogni segmento è connesso al precedente con la tecni15   Pier Vincenzo Mengaldo, Niccolò Machiavelli: il Prologo del Principe (dal De principatibus), in Id., Attraverso la prosa italiana. Analisi di testi esemplari, Carocci, Roma 2008, pp. 58-59. 16   Giacomo Leopardi, Pensieri, VI, in Id., Poesie e prose, vol. II, Prose, a cura di Rolando Damiani, Mondadori, Milano 1988, pp. 288289.

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ca della gradatio o catena . Il risultato è la compattezza del ragionamento; ne sono responsabili le riprese costituite dalle ripetizioni lessicali, classico fattore di chiarezza e di omogeneità compositive: 17

[1] Ogni forma di governo usa gli «argomenti» adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell’autocrate. [2] La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. [2a] Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. [3] Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo18.

Sono rimasti fuori dalla nostra campionatura fenomeni di cui sarebbe stato opportuno dare conto; ma il loro numero è tale da scoraggiare qualsiasi tentativo di documentarli. Per quanto riguarda le strutture organizzative del testo indicate al punto a), fisseremo l’attenzione su stralci di una categoria scrittoria ben conosciuta e altrettanto studiata: quella che comprende la ricca fenomenologia degli incipit (di libri, di saggi, di capitoli). Lo studio degli inizi, come quello delle conclusioni, è ingrediente di una tipologia dei testi; e infatti in ogni epoca i modi di principiare e di finire una composizione sono stati abbastanza codificati. Com  Rinvio all’elenco delle figure, più avanti in 3.1.   Gustavo Zagrebelsky, Le parole della democrazia, «la Repubblica», 23 aprile 2009, p. 1 (corsivi miei). 17 18

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piti caratterizzanti, «presentare e, rispettivamente, concludere il mondo immaginario istituito nel testo stesso, già indicando in partenza il tipo di sviluppo che è lecito attendersi e viceversa sottolineando, sul finire, la tonalità con cui si vuole che sia rimeditato tutto lo sviluppo testuale»19. Proponiamo per prime le battute iniziali di una novella quattrocentesca, che ebbe diverse redazioni: Nella città di Firenze e negli anni di Cristo millequattrocento nove, trovandosi una domenica sera, come è usanza, una brigata di giovani a cena in casa di uno gentile uomo di Firenze il cui nome fu Tommaso Pecori [...], e abbiendo cenato e standosi al fuoco ragionando di molte e varie cose [...], disse uno di loro: «Deh, che vuole dire che stasera non ci è voluto venire Manetto Amannatini? E tutti gliel’abiamo detto e non abiamo potuto condurcercelo»20.

E ora l’apertura di un testo fondamentale nella storia della civiltà e della giurisprudenza europee [1770]: un campione di saggistica alta per la novità delle tesi sostenute e per il vigore argomentativo. L’andamento del discorso è pacato, come si addice alle premesse di un ragionare che procederà per gradi crescenti di intensità dimostrativa e polemica: Fra i molti uomini d’ingegno e di cuore i quali hanno scritto contro la pratica criminale della tortura e contro 19   Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985, pp. 37-38. 20 Paolo Procaccioli (a cura di), con presentazione di Giorgio Manganelli, La novella del Grasso Legnaiuolo, Fondazione Pietro BemboUgo Guanda Editore, Parma 1990, p. 81 della Redazione vulgata (pp. 79-97).

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l’insidioso raggiro de’ processi che secretamente si fanno nel carcere non ve n’è alcuno il quale abbia fatto colpo sull’animo dei giudici, e quindi oserei dire che poco o nessuno effetto abbian essi prodotto. Partono essi per lo più da sublimi principj di legislazione riserbati alla cognizione di alcuni pochi pensatori profondi e ragionando sorpassano la comune capacità, quindi le menti degli uomini non ne concepiscono se non un mormorio confuso e se ne sdegnano e rimproverano il genio di novità, la ignoranza della pratica, la vanità di voler fare il bello spirito onde rifugiandosi alla sempre venerata tradizione de’ secoli anche più fortemente si attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci dai maggiori. La verità s’insinua più facilmente quando lo scrittore postosi del pari col suo lettore parte dalle idee comuni e gradatamente e senza scossa lo fa camminare e innalzarsi a lei anzi che dall’alto annunziandola con tuoni e lampi i quali sbigottiscono per un momento indi lasciano gli uomini perfettamente nello stato di prima21.

Inevitabile sacrificare qui la ricchezza tipologica dei campioni che la narrativa novecentesca potrebbe fornirci. Ma questo non ci impedisce di abbozzare un breve elenco non sistematico. Ecco un avviso-giustificazione per chi legge. L’autore inaugura una silloge deliziosa di brevi componimenti, un lusso-capriccio di un grande poeta: grafia di scorciatoie  Sono piene di parentesi, di «fra lineette», di «fra virgolette», di parole sottolineate nel

21   Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura / e singolarmente sugli effetti che produsse all’occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l’anno 1630, a cura di Gennaro Barbarisi, Serra e Riva Editori, Milano 1985: Introduzione, p. 3.

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manoscritto e che devono essere stampate in corsivo, di parole in maiuscolo, di «tre puntini», di segni esclamativi e di domanda. Che il proto prima, e il lettore poi, mi perdonino. Non so più dire senza abbreviare; e non posso abbreviare altrimenti22.

Da una raccolta di prose di Delio Tessa, di cui Carlo Linati ricordava certi «articoletti buttati giù alla brava su figure o momenti o scorci della città, che poi venne intitolando Ore di città e che eran pieni di un suo malinconico umorismo in punta di pennino, di una sensibilità come fatta d’aria e di nulla, ma saporiti, sconcertanti»: Intanto vi racconto queste e poi vedremo. / La casa è proprio vecchia, vecchia da far spavento [...]. / È decrepita, dico, ma bella e non è in piano regolatore. Tiriamo il fiato!23

Un esempio di inizio dialogico in un contesto narrativo: «Ce sta ’o sole... ’o sole!» canticchiò, quasi sulla soglia del basso, la voce di don Peppino Quaglia. «Lascia fa’ a Dio» rispose dall’interno, umile e vagamente allegra, quella di sua moglie Rosa, che gemeva a letto con i dolori artritici [...]24.

22   Umberto Saba, Scorciatoie e Raccontini [1945], Il Melangolo, Genova 1993, p. 13. 23   Delio Tessa, Ore di città, a cura di Dante Isella, Einaudi, Torino 1988: Portinai, p. 3. 24   Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli [1994], a cura di Francesca Pilato, Adelphi, Milano 1999, p. 3.

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E di un inizio descrittivo, dove basta il predicato della prima frase a personalizzare la visuale: Definirlo un prato speciale sarebbe eccessivo. Si trattava di un prato qualunque, situato in mezzo a un bosco di quercioli, pini neri e cespugli di ginepro. Non era neppure tanto ben livellato25.

La seguente apertura di un saggio scientifico si apprezza per la nitida semplicità con cui il tema è introdotto. Ne è autore un genetista e biologo molecolare: Che cos’è la mente? La mente è tutto ciò che accade nella nostra testa. / C’è anche una periferia che noi chiamiamo «cuore», perché molte delle nostre emozioni le sentiamo nei vasi che passano vicino al cuore, nella regione pericardica. Da qui nasce la tradizione di chiamare cuore l’aspetto emotivo della nostra mente, sebbene col cuore non abbia nulla a che fare26.

Non ci imbarcheremo in tentativi di analisi nel­ l’opposto fertilissimo campo delle chiusure di testi letterari. Di queste riportiamo un unico specimen per osservarvi l’originale rispecchiamento del titolo del volume (Lei dunque capirà) nell’inizio dell’ultimo capoverso del libro: Lei dunque capirà, signor Presidente, perché, quando eravamo ormai prossimi alle porte, l’ho chiamato con voce forte e sicura, la voce di quando ero giovane, dall’altra 25   Marisa Madieri, La radura, nel vol. Verde acqua. La radura, Einaudi, Torino 1998, p. 153. 26   Edoardo Boncinelli, Le tre età della mente, «MicroMega», 7, 2010, pp. 177-205: La formazione, p. 177.

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parte, e lui – sapevo che non avrebbe resistito – si è voltato, mentre io mi sentivo risucchiare indietro, leggera, sempre più leggera, una figurina di carta nel vento, un’ombra che si allunga si ritira e si confonde con le altre ombre della sera, e lui mi guardava impietrito ma saldo e sicuro e io svanivo felice al suo sguardo, perché già lo vedevo ritornare straziato ma forte alla vita, ignaro del nulla, ancora capace di serenità, forse anche di felicità. Ora infatti, a casa, a casa nostra, dorme, tranquillo. Un po’ stanco, si capisce, però...27.

Si sa che l’espediente dei «ritorni ciclici» nella narrativa richiede una maestria non comune nel dominio della materia e dello stile. È quanto conferma la ripresa del titolo, unica nel suo apparire al termine della vicenda evocata. Nella sua limpida semplicità colloquiale questa ripresa ha il potere di incorniciare il racconto rendendo esplicito il legame tra principio e fine – tra avantesto e conclusione – nel momento in cui la paradossale costruzione dell’epigrafe acquista senso e sostanza. Il dunque iniziale del titolo, poggiato sul nulla e perciò accettabile come marca di citazione, come rimando «in avanti» a qualcosa che sarà detto poi, rivela la sua carica allusiva nel finale. Che a sua volta non chiude, con la sospensione visibilmente indotta dalla punteggiatura e con la ripresa della tonalità colloquiale che rinvia alla cifra discorsiva prevalente nel monologo.

27   Claudio Magris, Lei dunque capirà, Garzanti, Milano 2006, p. 54; ora anche in Id., Teatro, Garzanti, Milano 2010, pp. 209-241 (citazione a p. 241).

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2.1. Ordo naturalis e ordo artificialis Anziché esporre sistematicamente principi e norme per l’organizzazione del discorso si è preferito fin qui mostrare qualche risultato di scelte individuali. E lo si è fatto – con giustificabile arbitrio – su testi in prevalenza moderni. Daremo ora una scorsa ad alcuni dei principali risvolti teorici della pratica oratoria antica, destinataria prima della normazione sulla quale si è formato per secoli l’esercizio del «parlare ornato». Il cuore del discorso persuasivo era l’argomentazione. Si conformava alle strutture previste per il genere giudiziario, modello anche per gli altri due generi: il deliberativo e l’epidittico. I «generi della disposizione» erano due: il primo era emanazione dell’«ordine naturale» (ordo naturalis), manifestato dal susseguirsi degli eventi nel tempo e nella loro concatenazione logica; il secondo seguiva l’«ordine artificiale» (ordo artificialis o artificiosus), sovvertimento regolato dell’ordine naturale per esigenze di efficacia argomentativa o artistica. L’ordine naturale (ex institutione artis «secondo i principi della retorica») era quello a cui si attenevano la partizione del discorso in esordio, narrazione, argomentazione, epilogo, e la relativa esposizione (in dicendo), secondo i criteri enunciati nell’inventio. Che si applicavano non solo all’intera causa, ma anche alla parte insopprimibile di questa, cioè all’argomentazione: Ugualmente secondo i principi della retorica non solo disporremo il piano generale della causa nel discorso, ma anche le singole argomentazioni [...]: dividendole in

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esposizione, prova, conferma della prova, ornamento e conclusione28.

Per quanto riguardava l’organizzazione dei contenuti, era pertinente la forza probatoria degli argomenti, dei quali l’oratoria antica regolava la disposizione secondo i seguenti tre modelli: 1) secondo l’ordine di forza crescente: si dispongono all’inizio del discorso gli argomenti più deboli e si lasciano quelli più forti alla fine, in base al presupposto che sia l’ultima impressione a fissarsi di più nella memoria e perciò a influenzare le opinioni e le decisioni degli ascoltatori. Ma con questo si rischia di far partire l’oratore con il piede sbagliato e di influenzare negativamente l’uditorio, se fin dal principio si presentano ragioni non sufficientemente convincenti; 2) secondo l’ordine di forza decrescente: per primi si presentano gli argomenti più forti per dirigere su questi l’attenzione degli ascoltatori, e si lasciano in secondo piano le prove meno convincenti. Ma se è vero che le ultime cose ascoltate sono quelle che si fissano più facilmente nella memoria, allora un’argomentazione che si concluda con le prove meno sicure avrà parecchie probabilità di produrre un’impressione sfavorevole; 3) secondo l’ordine detto omerico o nestoriano – così denominato dalla disposizione che, nel racconto del quarto libro dell’Iliade, l’eroe omerico Nestore aveva dato alle truppe greche – le argomentazioni più 28   «Item ex institutione artis non modo totas causas per orationem, sed singulas quoque argumentationes disponemus [...]: in expositionem, rationem, confirmationem rationis, exornationem, conclusionem» (Rhetorica ad Herennium, III, 9, 16).

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solide occupano il principio e la fine del discorso, mentre nel corpo di questo vengono distribuite le ragioni più deboli. Se per qualche motivo si impongono la necessità o l’opportunità di recedere dalle norme dell’arte, la dispositio dei contenuti e delle prove si adegua alle circostanze, a giudizio dell’oratore (oratoris iudicio ad tempus adcommodatur). 2.2. Le sezioni del discorso classicamente organizzato La maggioranza degli autori antichi e medievali ne individua quattro, con eventuali suddivisioni. Ne indichiamo qui le denominazioni italiane con le rispettive varianti, facendole seguire dalle corrispondenti forme latine: 1. esordio/proemio/inizio (exordium/proemium/ principium) 2. narrazione/esposizione dei fatti (narratio) 2a. digressione (digressio/egressus) 2b. proposizione (propositio/expositio) 2c. partizione (partitio/enumeratio) 3. argomentazione (argumentatio) 3a. conferma/dimostrazione/prova (confirmatio/ probatio) 3b. confutazione (refutatio/confutatio/reprehen­ sio) 4. epilogo/perorazione/conclusione (epilogus/peroratio/conclusio) Per i generi della poesia la nomenclatura fu modificata e arricchita: all’inizio della tragedia, ad esempio, si aggiunse il prologo.

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Diamo un campione moderno della procedura narrativa indicata in 2c: la partitio/enumeratio di un segmento testuale: «Destra» e «sinistra» sono due termini antitetici, che da più di due secoli sono impiegati abitualmente per designare il contrasto delle ideologie e dei movimenti, in cui è diviso l’universo, eminentemente conflittuale, del pensiero e delle azioni politiche. In quanto termini antitetici, essi sono rispetto all’universo cui si riferiscono reciprocamente esclusivi, e congiuntamente esaustivi: esclusivi, nel senso che nessuna dottrina o nessun movimento può essere contemporaneamente di destra o di sinistra; esaustivi, nel senso che, per lo meno nell’accezione forte della coppia [...], una dottrina o un movimento possono essere soltanto o di destra o di sinistra29.

In questo passo i procedimenti della partitio sono resi espliciti dalle riprese «a copia» dei termini (qui evidenziati dal corsivo) che esprimono i concetti proposti di volta in volta come temi e punti di partenza per gli sviluppi esplicativi di ciascuno. La regolarità e l’interconnessione degli elementi costitutivi del ragionamento fanno di tale impostazione una struttura modello, che ritroviamo in altri luoghi dello stesso saggio. La partitio, cioè «l’enumerazione, disposta con ordine, delle proposizioni nostre o dell’avversario o di entrambi»30, giova certamente alla chiarezza del di29   Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 1994, p. 3. 30   «nostrarum aut adversarii propositionum aut utrarumque ordine conlocata enumeratio» (Inst. orat. IV, 5, 1).

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scorso, a qualunque genere questo appartenga (nelle controversie si espongono, oltre alle proprie, anche le opinioni dell’avversario). Tuttavia nell’eloquenza forense può rischiare di appesantire l’esposizione dei fatti, o addirittura di renderla sgradevole all’uditorio. Come affermava Quintiliano: [...] non si deve sempre ricorrere alla partizione: prima di tutto perché generalmente risultano più gradite le cose che danno l’impressione di essere improvvisate e non portate appresso da casa, ma scaturite dalle circostanze stesse mentre si parla; di qui traggono origine quelle figure non sgradite, del tipo di: «quasi quasi me ne dimenticavo» e «mi era sfuggito» e «tu mi fai ricordare a proposito»; infatti, una volta addotte le prove, si sciupa in anticipo tutto il fascino della novità per ciò che resta da dire31.

Ancora per quanto riguarda l’ordine è stato osservato che «la forma più semplice di quell’ordine naturale che ha tanto preoccupato i teorici»32 è l’ordine cronologico: nella narrativa, ad esempio, il disporre i fatti secondo la progressione temporale. Alle relative violazioni sono legati effetti come la suspence, l’interesse per l’imprevisto, il capovolgimento delle attese del lettore eccetera. Se le tecniche argomentative sono destinate a un uditorio particolare, alle esigenze   «[Alia sunt magis propter quae] partitione non semper sit utendum: primum quia pleraque gratiora sunt si inventa subito nec domo allata, sed inter dicendum ex re ipsa nata videantur, unde illa non iniucunda schemata: ‘paene excidit mihi’ et ‘fugerat me’ et ‘recte admones’; propositis enim probationibus omnis in relicum gratia novitatis praecerpitur» (ivi IV, 5, 4). 32   Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione cit., p. 526. 31

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di questo dovrà conformarsi l’ordine del discorso nell’oratoria politica, giudiziaria, epidittica33. 3. L’elocutio L’elocutio «elocuzione» o «espressione» è l’atto di dare forma linguistica alle idee mediante le svariate operazioni del comporre. Che in un rapido elenco delle prime tre parti della retorica uno dei maggiori scrittori italiani del Seicento, Daniello Bartoli, definì metaforicamente così: All’argomento trovato, alle parti disposte vien dietro il comporre, che è impolpare l’ossa, e farne d’uno scheletro un corpo34.

Questo settore dell’arte del dire ha acquistato via via un posto preponderante nel complesso del corpus retorico, in modelli che hanno avuto come basi le più antiche elaborazioni dei caratteri e delle delimitazioni d’ambito riconosciuti alle varietà codificate dei modi di esprimersi. Fondamento comune – e pregiudizio destinato a millenaria durata – la scissione fra i concetti (in latino res) e le parole che li manifestano (in latino verba), fra i contenuti e il loro rivestimento verbale. Una tale idea condusse, da un lato, a considerare il discorso come oggetto di riflessione e perciò a descrivere e a classificare le risorse della lingua;

  Cfr. ivi, p. 531.   Daniello Bartoli, L’uomo di lettere difeso ed emendato [1645], Parte seconda, incipit del capitolo Apparecchio della materia, che chiamano Selva. 33 34

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ma, per riscontro, si ritenne che queste consistessero in abbellimenti da aggiungere a ciò che si voleva comunicare. Le forme dunque come rivestimento e ornamento dei contenuti. Questa concezione dominò nella cultura classica, fu accolta dogmaticamente nella tradizione tardoantica e medievale, e si sclerotizzò nella precettistica delle scuole attraverso secoli di insegnamento retorico. Le dottrine dell’elocuzione sono state luogo di incontro fra la retorica e la poetica. Con incongruenze teoriche e sovrapposizioni di criteri all’interno dei singoli programmi e delle relative applicazioni. Comuni a tutti la ricerca delle qualità che rendono decorosa e appropriata l’espressione, e le analisi degli artifici che distinguono i diversi stili e generi letterari. Nonostante l’inadeguatezza dottrinaria dei principi sui quali si fondavano le varie classificazioni, la nomenclatura dei loro oggetti ha resistito al passare del tempo. Abbozzerò qui un’elementare rassegna delle categorie comuni ai progetti originari: a) le «virtù» dell’espressione (virtutes elocutionis); b) «errori e licenze»; c) l’ornatus. a) All’efficacia dell’espressione, a cui si richiede di essere corretta, precisa, elegante, sono ritenute indispensabili le virtutes elocutionis. Quattro, secondo Cicerone: la puritas, la perspicuitas, l’ornatus e, in cima a tutte, l’aptum. L’aptum, virtù essenzialmente pragmatica, è l’appropriatezza di un discorso, il suo essere «conveniente», cioè congruente con i fattori esterni e interni alla sua produzione, al raggiungimento dei fini prefissi e, in generale, alla situazione.

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La puritas (latinitas o sermo purus «purezza di lingua») è la correttezza grammaticale e lessicale commisurata a un’ideale integrità del sistema linguistico. La perspicuitas è la chiarezza unita alla precisione, a cui è legata la comprensibilità del discorso. L’ornatus è «la bellezza derivante da un lusso sapientemente regolato di mezzi e ornamenti»35; è l’eleganza risultante dall’equilibrato possesso di tutti gli espedienti capaci di abbellire un discorso, di renderlo ‘appetitoso’ (l’aggettivo participiale ornatus era anche usato per le pietanze sapientemente preparate) e ‘agguerrito’ (ornare, in latino, significa anche «armare» se riferito a un esercito). b) «Il venir meno a una virtù è una deviazione: errore (vitium) o per difetto o per eccesso, se la deviazione è ingiustificata; licenza cioè permesso (licentia, da licet «è lecito, è consentito») quando l’infrazione è giustificata da un dovere più forte di quello al quale si contravviene. La concezione retorica della virtus è fondamentalmente aristotelica. Risponde all’ideale classico dell’equilibrata distanza dagli estremi»: che sono, relativamente all’esprimersi, da un lato la penuria o la mancanza totale, dovute o al ‘non essere intellettualmente capace’ o al non prestare impegno bastevole; dall’altro l’eccesso, la sovrabbondanza non regolata dal discernimento, dalla misura, dall’equilibrio36. L’idea di una deroga lecita dalle norme accettate risale al35   D’ora in poi, nei commenti, le citazioni di cui non registro la provenienza sono da riportare a passi (generalmente brevi) tratti dai miei lavori Manuale di retorica cit. e – in misura minore – Il parlar figurato, Laterza, Roma-Bari 20114. 36   Per chiarimenti indispensabili rimando al paragrafo 2.11, Le virtù dell’espressione, pp. 114-118, del mio Manuale di retorica cit.

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la logica giuridica: non è una colpa contravvenire a una legge per soddisfare un dovere più forte dell’obbligo o del divieto stabiliti da questa. Il conflitto tra doveri si presentava, nell’uso della lingua, come contrasto fra grammatica e retorica, fra parlare «corretto» e parlare «bene» (= con efficacia), secondo la definizione quintilianea dominante nelle scuole. Ne conseguiva che le scelte stilistiche potessero essere grammaticalmente anomale. Gli eventuali conflitti si risolvevano sul metro dei fini pragmatici e del valore dei mezzi stilistici. c) L’ornatus. Diamo la parola a Lausberg37: L’ornatus deve la sua definizione alle preparazioni che servono ad ornare la tavola di un banchetto: il discorso stesso viene concepito come pietanza da consumare. A questa sfera di immagini appartiene anche la definizione dell’ornatus come condimento (condita oratio, conditus sermo). Ad altre sfere di immagini appartengono gli altri termini abituali di «fiori» del discorso (verborum sententiarumque flores) e di «luci» del discorso (lumina orationis). Anche color viene usato per definire l’ornatus38.

Nelle sistemazioni tradizionali l’ornatus era applicato a due principali raggruppamenti. L’uno, in verbis singulis «in parole singole», comprendeva i sinonimi e i tropi; l’altro, in verbis compositis «in gruppi o connessioni di parole», comprendeva le figure «di parola» e «di pensiero». Per la sua complessità e il numero esorbitante degli oggetti che compongono i 37   Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, trad. it., il Mulino, Bologna 1969, p. 99. 38   Richiamo inoltre quanto già asserito qui al punto a) riguardo al senso di ornatus riferito a un esercito, e quindi «agguerrito».

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due gruppi, l’ornatus richiede una trattazione separata rispetto ai cenni riservati alle altre «virtù» dell’espressione nell’economia di questo libro. L’aspetto più vistoso e problematico nella dilatazione abnorme degli spazi riservati all’elocutio è conseguenza di quella rage de nommer – di quella furia di dare un nome – a cui Roland Barthes attribuiva la minuziosa e dispersiva caratterizzazione dei fenomeni linguistici imbrigliati nelle griglie della «retorica delle figure». I limiti del presente lavoro impongono una scelta drastica tra gli argomenti sviluppati in secoli di studi; e l’accettazione di criteri che rispondono essenzialmente a ragioni pratiche. Sono state tralasciate figure appartenenti al bagaglio culturale medio (apostrofe, eufemismo, esclamazione, giochi di parole, interrogativa retorica, neologismo, ossimoro, e molte altre) e sono stati privilegiati i lineamenti e il valore retorico di unità più o meno note: una minoranza rispetto al totale di quelle che si trovano descritte (con vari gradi di attendibilità, come è ovvio; ma il giudizio vale anche per i nostri elenchi...) nei dizionari e nei prontuari più diffusi, a stampa e in rete. 3.1. Figure retoriche Comprendo sotto questo titolo le due categorie tradizionalmente distinte con criteri variabili dall’una all’altra classificazione: (A) i tropi; (B) le figure, delle cui obsolete specificazioni («di parola» e «di pensiero») non terrò conto. (A) Tropo (in greco tropos, da cui il latino tropus) vale «direzione»: è la svolta di un’espressione che

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viene deviata dal suo contenuto originario, con una rottura delle attese alle quali il primitivo contesto indirizza. «Tropo e traslato sono denominazioni diverse per lo stesso fatto retorico: la trasposizione (il  trasferimento) di significato da una a un’altra espressione». Nella tradizione retorica variano sia il numero sia l’identificazione dei tropi. La Rhetorica ad Herennium ne annovera e ne descrive dieci; altrettanto fa Lamy39; Fontanier40 distingue tre «tropi veri e propri» da altri «impropriamente detti»; Arbusow ne classifica sedici; Lausberg nove (metafora, metonimia, sineddoche, antonomasia, enfasi, iperbole, ironia, litote, perifrasi). Quintiliano ne aveva catalogati tredici (metafora, sineddoche, metonimia, antonomasia, onomatopea, catacresi, metalepsi, epiteto, allegoria, ironia, perifrasi, iperbato, iperbole), dopo avere osservato saggiamente: sul conto [dei tropi] vi è un inspiegabile conflitto sia dei grammatici fra loro sia con i filosofi relativo ai generi, alle specie, al numero, alla classificazione. Noi, lasciando da parte i cavilli [...] tratteremo quelli più necessari e accolti nell’uso, accontentandoci di osservare al loro proposito solo queste cose: che alcuni si adottano per intensificare il significato, altri per conferire eleganza, e che alcuni consistono in parole proprie, altri in traslati, e che il mutamen-

39   Bernard Lamy, La rhétorique ou l’art de parler, édition critique établie par Benoît Timmermans, PUF, Paris 1998. La prima edizione, seguita da un buon numero di altre, è del 1675; quella che Timmermans ha tenuto come riferimento è del 1741. 40   Pierre Fontanier, Les Figures du discours, Introduction par Gérard Genette, Flammarion, Paris 1977.

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to riguarda la forma non solo delle parole, ma anche del significato e dell’ordine41.

Per chiudere con un’arguzia (prodotta, come è cifra del suo autore, da spericolati intrecci di giochi di parole): C’era una volta un topo / di professione proto, / prese una topica per un tropo / ma ormai ci vedeva poco. (Toti Scialoia, Una vespa! Che spavento [1969-74], in Id., Versi del senso perso, Einaudi, Torino 2009, p. 41)

Nelle pagine che seguono, tropi e figure sono elencati, per comodità del lettore, in ordine alfabetico. I primi sono illustrati, per la maggior parte, da esempi d’autore, senza l’aggiunta di spiegazioni. Delle tradizionali «figure» si daranno definizioni semplificate, accompagnate per lo più da brevi esempi42. Dividerò in due raggruppamenti i tropi elencati da Lausberg; il primo (che comprende la metafora, la metonimia e la sineddoche) risponde non a caso 41   «circa quem inexplicabilis et grammaticis inter ipsos et philosophis pugna est quae sint genera, quae species, qui numerus, quis cuique subiciatur. Nos, omissis [...] cavillationibus, necessarios maxime atque in usum receptos exequemur, haec modo in his adnotasse contenti, quosdam gratia significationis, quosdam decoris adsumi, et esse alios in verbis propriis, alios in tralatis, vertique formas non verborum modo sed et sensuum et compositionis» (Inst. orat. VIII, 6, 1-2). 42   In ogni caso, per compensare le assenze definitorie si potrà ricorrere alle opere di Lausberg citate alla nota 24 del cap. II e ai lavori, più divulgativi, ricordati nella nota 35 del presente capitolo. Da questi ultimi provengono le definizioni che, d’ora in poi, compariranno tra virgolette e senza indicazione dell’autore. In corsivo, oltre ai titoli delle opere, si troveranno espressioni di varia ampiezza o singoli elementi che esemplificano il significato dei termini messi a lemma.

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alle scelte classificatorie dei principali fra gli studiosi moderni. Anche a questi, come agli antichi, non sono sfuggiti i legami interni che hanno potuto favorire, nelle varie teorie della metafora, ipotesi di derivazione di questa da procedimenti o metonimici o sineddochici. Sia per quella che è stata considerata la «regina» delle figure retoriche sia per gli altri tropi (due esclusi) del catalogo lausberghiano evito di dare definizioni riassuntive. Mi limito a proporre esempi. Per la metafora: Galileo Galilei che meriterebbe d’esser famoso come felice inventore di metafore fantasiose quanto lo è come rigoroso ragionatore scientifico, tra le molte metafore di cui infiora le discussioni sul moto della Terra intorno al Sole nel Dialogo dei Massimi Sistemi, ne ha una in cui si parla d’una nave, d’una penna e d’una linea. Una nave parte da Venezia per Alessandretta: s’immagini sulla nave una penna che lasci il segno del suo percorso in una linea continua che si prolunghi attraverso il Mediterraneo orientale. [...] Questa linea sarà un arco di cerchio perfettamente regolare, anche se43 «dove più e dove meno flessuosa, secondo che il vassello fusse andato or più or meno fluttuando» [...] «Quando dunque un pittore nel partirsi dal porto avesse cominciato a disegnar sopra una carta con quella penna, e continuato il disegno sino in Alessandretta, avrebbe potuto cavar dal moto di quella un’intera storia di molte figure perfettamente dintornate e tratteggiate per mille e mille versi [...], se ben tutto il vero, reale ed essenzial movimento segnato dalla punta di 43   I corsivi presenti nell’originale segnalano le parti che Calvino cita dal testo di Galileo.

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quella penna non sarebbe stato altro che una ben lunga ma semplicissima linea...» La vera linea, che corrisponde al moto della nave, non resta sulla carta perché il moto della nave è comune alla carta e alla penna, mentre i movimenti della mano del pittore lasciano il loro segno: quelli tracciati durante la navigazione allo stesso modo che se la nave fosse ferma. Questo esempio serve a Galileo a dimostrare che stando sulla Terra non ci accorgiamo del moto della Terra intorno al Sole perché tutto ciò che sta sulla Terra partecipa dello stesso suo moto. (Italo Calvino, La penna in prima persona, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, pp. 298-299)

Giusto in quel tempo – gli anni Sessanta stavano per terminare – un’altra casa editrice, di proporzioni imponenti, cominciò ad affiancare [...] il piccolo scafo incatramato e rattoppato della vecchia casa editrice fiorentina. Cioè, affiancò me. (Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997, p. 82)

Non siamo in crisi perché il bicchiere è mezzo vuoto, siamo in crisi perché il bicchiere è rotto. I rimedi alla crisi non stanno quindi nel riempire il bicchiere ma nel sostituirlo. Per progettare questa sostituzione è necessario lo sforzo congiunto degli scienziati sociali, dagli economisti agli storici, dai sociologi ai giuristi. (Mario Deaglio, La crisi economica globale. Radici, evoluzioni e possibili esiti, prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011, Università degli Studi di Torino, 31 gennaio 2011)

Per la metonimia:

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Vedi Segnor cortese / Di che lievi cagion che crudel guerra. / E i cor ch’endura et serra / Marte superbo et fero / Apri tu padre, e ’ntenerisci, et snoda. (Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, edizione critica di Giuseppe Savoca, Olschki, Firenze 2008, CXXVIII, vv. 10-14)

Non si pareggi a lei qual più s’aprezza, / [...] No la bella romana che col ferro / apre il suo casto, et disdegnoso petto. (ivi, CCLX, vv. 9-10)

Che sarebbe avvenuto, in ordine alla parola italiana, se l’Italia si fosse potuta mettere [...] per una via non disforme da quella che la Germania ha percorso? (Graziadio Isaia Ascoli, Proemio all’«Archivio Glottologico Italiano» [1873]; ora in Id., Scritti sulla questione della lingua, a cura di Corrado Grassi, Einaudi, Torino 1975, p. 17)

Per la sineddoche: «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume?» / rispuos’io lui con vergognosa fronte. (Inferno, I, 79-81)

Come suole il genere umano, biasimando le cose presenti, lodare le passate, così la più parte dei viaggiatori, mentre viaggiano, sono amanti del loro soggiorno nativo, e lo preferiscono con una specie d’ira a quelli dove si trovano. Tornati al luogo nativo, colla stessa ira lo pospongono a tutti gli altri luoghi dove sono stati. (Giacomo Leopardi, Pensieri, XXX, in Id., Poesie e prose, vol. II, Prose cit., p. 302)

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Per l’antonomasia e per l’enfasi si veda l’elenco delle figure, più avanti in (B). Per l’iperbole: [...] vita e non morte aspetto, / né giudice sever né legge grave, // ma benigne accoglienze, ma complessi / licenzïosi, ma parole sciolte / da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi; // ma dolci baci, dolcemente impressi / ben mille e mille e mille e mille volte; / e, se potran contarsi, anche fien pochi. (Ludovico Ariosto, Avventuroso carcere soave, in Le cento più belle poesie d’amore italiane. Da Dante a De André, a cura di Guido Davico Bonino, Interlinea, Novara 2010, p. 52)

Vidi l’ape e là per là / seppi dirle: «Oh, vera perla!» / Mi rispose: «Come fa / questa iperbole a saperla?» (Toti Scialoia, Una vespa! Che spavento cit., p. 75)

Per l’ironia: Polemizzando con un letterato poeta che carduccianamente maltratta, il Carducci rimprovera il tapino d’avergli attribuito la celebrazione di un matrimonio eteròclito quale «sposò l’ingegno al coraggio». «Non ho mai fatto il cozzone di matrimoni!», protesta, «e tanto meno fra maschi». Ora, nel primo sonetto del ça ira, prima quartina, ce sta scritto: «Il riposato suol piccardo attende / L’aratro che l’inviti a nuova prole», dove il suol piccardo, che è un maschio, attende dall’aratro, che è un altro maschio, d’essere elicitato alla proliferazione. Codesto appuntamento è tanto meno laudabile se si ricordi l’uso del verbo «arare» sulla lingua di certi aratori del Boccaccio [...]. Dei fidanzati in genere piagnucola Don Abbondio, con voce tremolante, ai due bravi: «...fanno i loro pasticci

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fra loro, e poi... e poi vengono da noi, come s’andrebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune». Una tal carica di ironia narrativa è stata certamente accumulata dalle labbra e dal naso goccioloso di un curatone brianzolo, di un «dialettale». I due bravi del signorotto sono diventati «il comune». Il dialetto ha in più, e non in meno, sulla migragna perbenistica, [...] sulla pompa oratoria, sulla magnanimità declamatoria, sulla bugia storiografica, ha in più la vivezza e la urgenza espressiva o la felicità naturale, oltreché l’interesse pragmatico immediato, di chi lo parla e lo crea. (Carlo Emilio Gadda, La battaglia dei topi e delle rane, in «L’illustrazione italiana», LXXXVI, 11, 1959; ora in Id., Il tempo e le opere, a cura di Dante Isella, Adelphi, Milano 1982, pp. 71-72; 78-79)

Per la litote: La litote semplice – negare il contrario di quel che si intende affermare – è gentile e civilissima figura. Molto redditizia al microfono e in ogni forma di discettazione ragionata o di esposto critico o storico, attenua la troppo facile sicurezza o l’asprezza eccessiva di chi afferma: crea un distacco ironico dal tema, o dal giudizio proferito: «Questa lirica non è malvagia». «La prosa del Barbetti non è delle più consolanti». Ferale risulta invece all’ascolto la catena di litoti. Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell’ascoltatore si smarrisce nella giungla dei «non». Ogni «non» della tormentosa trenodìa precipita dal cielo del nulla a smentire il precedente, per essere a sua volta smentito dal seguente. Una doppia litote è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di terzo grado. Sarà bene vincere pertanto la seguente catena di tentazioni: «Non v’ha chi

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non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che [...] (Carlo Emilio Gadda, Un radiodramma per modo di dire e scritti sullo spettacolo, a cura di Claudio Vela, il Saggiatore, Milano 1982, pp. 101-112)

Per la perifrasi (o circonlocuzione): Il fatto è che ogni domenica di quel maggio e poi di quel giugno, alle due precise, quel giovinotto si imbarcava la Jole sulla sua pazza 521 e qualche volta erano perfino in quattro, due ragazze e due «giovinotti»! [...] Alla contessa la cosa fu raccontata con infiniti riguardi [...], e a quelle doloranti circonlocuzioni la contessa interrompeva il ricamo di una meravigliosa tovaglia d’altare: e guardava con disdegno muto la bocca dell’informatrice, tutta rugiadosa dallo sciroppo delle perifrasi. Nella penombra della gran sala, il racconto pareva un cavallo in un pantano. E le dabben perifrasi, come sospirose comari, si presentavano compunte agli orecchi della contessa, chiedendo perdono anticipato per le cattive notizie che contro lor volontà si vedevano costrette a recarle, a solo fin di bene: perché sapesse, perché fosse informata. (Carlo Emilio Gadda, San Giorgio in casa Brocchi, in Id., I racconti, Garzanti, Milano 1963, p. 9)

(B) Figura, la parola latina da cui discende l’uguale voce italiana, corrisponde come tecnicismo retorico al vocabolo greco schêma, col significato di «configurazione». Esempio canonico le figure del sillogismo, con le diverse forme che questo può assumere secondo la dispo-

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sizione del termine medio (si ricorderà che il sillogismo come forma di argomentazione perfetta è costituito da tre proposizioni connesse tra loro in modo che dalle prime due, che sono le premesse, derivi necessariamente una terza, detta conclusione o illazione). Le figure del sillogismo sono modelli rigorosamente codificati di quel particolare tipo di discorso che è l’argomentazione.

«Le figure del discorso sono paragonabili alle figure geometriche: la loro struttura si può descrivere nelle sue regolarità; sono forme astratte, esemplari a cui possiamo ricondurre i lineamenti e le raffigurazioni degli oggetti più disparati. D’altra parte esse richiamano le figure della danza, della ginnastica, del pattinaggio, dello sci nautico, della scherma: forme disegnate da immagini in movimento, riconoscibili perché eseguite secondo regole precise, benché con innumerevoli variazioni stilistiche». Quintiliano definì la figura un modo di parlare che si allontana dagli usuali e quotidiani modi di esprimersi. Questa affermazione è vera e non è vera nello stesso tempo. È vero che una figura è «marcata» rispetto ad altre espressioni che siano analoghe quanto al senso ma non alla forma. Enunciati come «È una miniera di concetti» / «Sei uno schianto» contengono ciascuno una metafora e anche un’iperbole, per dire, poniamo: «Ha molte idee» / «Sei straordinariamente elegante/ attraente»; e in questo senso si allontanano dal modo di esprimersi non figurato. Ma non è vero che i modi «usuali e quotidiani di parlare» siano privi di figure, e i due esempi dati ne sono una prova. Allora usuale e quotidiano dovrebbero significare: o «normale», in una delle accezioni in cui il termine è inteso per

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indicare le espressioni linguistiche prive di deviazioni dagli schemi base; oppure «scolorito», cioè senza figure, dando adito a una definizione circolare. Opporre il quotidiano e il disadorno al modo di parlare elaborato e «ornato» ha conseguenze non indifferenti sulla percezione delle funzioni che le figure del discorso hanno nell’organizzare e nel manifestare l’attività mentale. Una breve annotazione. Anche il discorso musicale ha avuto una sua retorica modellata su quella linguistica. Molti degli schemi musicali di composizione furono fatti coincidere nei nomi e nella struttura con le figure grammaticali e retoriche. Trascriviamo dal volume di F. Civra, Musica poetica. Introduzione alla retorica musicale, Utet, Torino 1991, p. 101, la seguente definizione di figura musicale, elaborata da un musicologo tedesco agli inizi del secolo XVII: «un tratto ‘ornato’ dell’armonia e della melodia, che deriva la sua ragion d’essere dalla stessa composizione, ben definito con inizio e fine in una frase musicale, alla quale con la sua presenza dà migliore e più piacevole aspetto». Questa definizione è esemplare del modo di percepire le figure soprattutto come abbellimenti. La scelta che presento qui (una sessantina di voci) è assai ristretta in relazione al numero esorbitante (da 250 a 300) delle figure tradizionalmente censite nei principali manuali di retorica. Il criterio che la guida è essenzialmente pratico. Sono privilegiate figure meno note rispetto ad altre di dominio comune, ma non si rinuncia a definire e ad esemplificare voci che si ritengono più conosciute, sulle quali però le ambiguità di interpretazione non mancano. Si sa che ogni scelta è in gran parte arbitraria, specialmente quando

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non se ne denuncino con chiarezza e coerenza i criteri che la guidano. Sono consapevole, di alcune almeno, delle manchevolezze in cui sono incorsa, ma non ho saputo fare altrimenti. Accumulazione: La grande poesia ottocentesca disponeva d’un armamentario che farebbe invidia ai magazzini della Scala: i cimieri, i brandi, gli usberghi, vi furoreggiano, i destrieri, le pugne, le prore, le tube, le torri, le selve, ne combinano d’ogni maniera. Senza contare il serraglio: volatili e quadrupedi. L’aquila e il leone. (Carlo Emilio Gadda, Il tempo e le opere cit., p. 194)

Questa figura consiste nell’aggiungere l’uno al­ l’altro parecchi membri di frase, mediante coordinazione o subordinazione. I termini latini per l’accumulazione coordinante (plurium rerum congeries o coacervatio «congerie o coacervo di più elementi») sono appropriati per il procedimento stilistico detto accumulazione caotica. Adýnaton: greco «impossibile»; è un’iperbole (v.) paradossale: Non lo dimenticherò, campassi mille anni.

Aferesi, v. Metaplasmo. Aforisma o Aforismo: una sentenza dotata di capacità definitoria, che concentra in una sola proposizione o in una composizione brevissima giudizi e riflessioni morali, resoconti di esperienze, asser-

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zioni riguardanti un sapere specifico (filosofico, politico, medico ecc.).

Esempi: gli aforismi medici di Ippocrate e della Scuola salernitana; le Massime di La Rochefoucauld, le raccolte aforistiche di Karl Kraus. Allegoria: dal greco állei «altrimenti» e agoréuo «parlo», detta dai latini inversio «scambio». Secondo Quintiliano (Inst. orat. VIII, 6, 44), consisterebbe nell’indicare «una cosa con le parole e un’altra col significato, o talvolta addirittura il contrario»; e potrebbe risultare «da una serie ininterrotta di metafore», presentandosi dunque come «una metafora prolungata», continua metaphora (ivi, IX, 2, 46). Ma l’ipotesi non regge, perché si danno allegorie fatte solo di parole intese ciascuna in senso «proprio» e non figurato. Si asseriva che la metafora è per la parola singola quello che l’allegoria è per la frase. È dei retori medievali la distinzione tra l’allegoria in verbis, manifestata dai testi, e l’allegoria in factis, riscontrabile in episodi, entità, persone interpretati come figura di altri fatti, entità ecc. (ad es., Gerusalemme come figura del regno di Dio). In generale, si oppongono l’allegoresi come produzione e l’allegoresi come interpretazione capace sia di spiegare composizioni intenzionalmente allegoriche, sia di attribuire valore allegorico a testi e a episodi storici e mitologici. Allitterazione: il termine allitteratio fu coniato dall’umanista e poeta Giovanni Pontano (1429-1503) e applicato anche

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alle ripetizioni di vocali all’inizio di parole contigue, oltre che alle ripetizioni di consonanti o di sillabe già rilevate dai retori antichi e censurate come fattori di cacofonia. Quintiliano aveva citato, tra l’altro, un verso del poeta latino Quinto Ennio (III-II secolo a.C.), rimasto come esempio di allitterazione da evitare: «o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti» («o Tito Tazio, tu stesso così grandi sventure, o tiranno, hai sopportato»). L’allitterazione non è solo un fatto letterario; è una struttura dell’uso comune, non connotato retoricamente: «mass-media, (in) parole povere, far fuoco e fiamme; tagliar la testa al toro, di buzzo buono». L’enunciato latino «Nihil sub sole novi» presenta una duplice allitterazione disposta a chiasmo: n:s=s:n»44. Nella traduzione italiana (‘nulla di nuovo sotto il sole’) gli elementi allitteranti compaiono in parallelo. Allusione: «il nome moderno di questa figura (in italiano come in francese, spagnolo, inglese) risulta da un’estensione del senso di allusio ‘discorso scherzoso’, termine attestato nel III-IV secolo e derivante dal latino classico alludere ‘scherzare’, che adombra solo uno, e nemmeno il principale, fra gli intenti dell’alludere». Per gli antichi l’allusione rientrava nell’enfasi (v.) in quanto pregnanza di significato e mezzo per dare a

44   L’osservazione è di Paolo Valesio, Strutture dell’allitterazione, Zanichelli, Bologna 1967, p. 388. Per il chiasmo si veda più avanti l’apposita voce.

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intendere più di quanto si dica. Era infatti uno dei tipi della significatio: uno degli espedienti per indurre più congetture; accenno velato o insinuante a qualcuno o a qualcosa che non si nomina esplicitamente (l’allusione viene volentieri assimilata all’insinuazione). Allusioni provocate dalla studiata oscurità o dell’espressione o della combinazione dei contenuti si trovano negli indovinelli, nella pubblicità, nei titoli giornalistici. Quando sono legate a circostanze del momento possono diventare indecifrabili a distanza di tempo. In testi letterari del passato l’interpretazione di certe allusioni ha richiesto complesse ricostruzioni storico-filologiche. Come per la figura del «veltro» dantesco: Molti son li animali a cui [la lupa] s’ammoglia, / e più saranno ancora, infin che ’l veltro / verrà, che la farà morir con doglia. // Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro. (Inferno, I, vv. 100-105)

Anaclasi/Antanaclasi, v. Diafora. Anacoluto: come suggerisce l’etimologia del termine (dal greco anakólouthos «senza seguito», passato a significare, già in greco, «anomalo, irregolare»), l’anacoluto è una mancanza di sostegno all’elemento con cui si comincia una frase. Questo elemento risulta privo dell’appoggio di una funzione sintattica regolare: rimane «sospeso» e nel medesimo tempo è messo in evidenza. Per tradizione si è notato che è il cosiddetto soggetto logico a essere messo al primo posto nell’e-

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nunciato e a restare senza un seguito sintatticamente congruente. La linguistica moderna ha spiegato l’irregolarità della costruzione come un «cambiamento di progetto» intervenuto nel procedere del discorso. Lei sa che noi altre monache ci piace di sentir le storie per minuto. (I promessi sposi, IX, 28)

Chi si fa pecora il lupo se lo mangia.

Anadiplosi o Reduplicatio: è una delle figure della ripetizione. La designazione latina è un calco del nome greco. Si applica alla ripetizione dell’ultima parte di un segmento (sintattico o metrico) nella prima parte del segmento successivo. Diffuso in ogni tipo di testo, orale e scritto, scientifico, letterario e della comunicazione ordinaria, può giovare all’ascoltatore o lettore, favorendo la comprensione del testo. Tra le varianti di tale costruzione, la relativa detta appositiva, che troviamo esemplificata nel secondo degli esempi qui proposti. Non era in lui disprezzo per il sottobosco / Lo ignorava, ignorava quasi tutto / e anche se stesso. (Eugenio Montale, Vivere, II, vv. 6-8, da Quaderno di quattro anni, in Id., L’opera in versi, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Einaudi, Torino 1980, p. 564)

Sono [...] i concetti di legge e di colpa quelli che Kafka propone in una prospettiva inquietante, angosciosa. Una legge non espressa [...]; una colpa non prodotta da atti pre-

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cisi [...]: colpa che pure le vittime della legge riconoscono, e riconoscono inespiabile. (Cesare Segre, Divagazioni su mimesi e menzogna, in Retorica e critica letteraria, a cura di Lea Ritter Santini ed Ezio Raimondi, il Mulino, Bologna 1978, pp. 179-185; citazione a pp. 182-183)

Anafora o Iterazione: in greco anaphorá «riferimento», «ripetizione»; epibolé (epí «sopra»+ballo «metto»; perciò anche sinonimo di forza espressiva); in latino, oltre al grecismo anaphora, i calchi relatum, relatio «riferimento» e repetitio «ripetizione». Figura modello dell’iterazione di elementi (nomi, verbi, preposizioni, avverbi, sintagmi, frasi) all’inizio di enunciati o di loro segmenti in successione, è tipica delle invocazioni, delle preghiere, delle filastrocche, ma si può trovare in ogni genere di testi ove domini la disposizione parallelistica dei componenti. ...che diremo / di tante inconsapevoli creature / levatesi e cadute, di noi stessi / nati e cresciuti dentro meraviglie / [...], dei pianti per i morti sottoterra. / E perfino di voi, di te che allora / avresti trepidato vanamente / dedicando il tuo cuore. (Adriano Sansa, Giustizia, vv. 8-16, in Id., La speranza del testimone, il melangolo, Genova 2010, p. 92)

Dove una fallacia ha successo, è in gioco probabilmente qualche domanda socratica (del genere: che cosa è giusto? che cosa è la verità? che cosa significa conoscere?) che non ha risposta, o ha risposte contraddittorie. (Franca D’Agostini, Fallacia ad ignorantiam, realismo ed epistemicismo. Contributo allo studio filosofico delle fallacie, in La svolta argomentativa. 50 anni dopo Perelman e Toulmin, a cura di Adelino Cattani et al., Loffredo, Napoli 2009, pp. 71-83; citazione a p. 73)

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Anastrofe: il termine greco anastrophé «inversione» è passato al latino anastrophe, le cui corrispondenze sono rappresentate da inversio, reversio, conversio. Consiste nell’invertire l’ordine abituale o normale di due o più parole o sintagmi successivi: Non serba ombra di voli il nerofumo / della spera (Eugenio Montale, Gli orecchini, vv. 1-2, da La bufera e altro, in Id., L’opera in versi cit., p. 194)

Avranno i cittadini presente all’animo, che dalle sagge loro elezioni dipende [...] la conservazione, e la felicità della Republica. (Piano di Constituzione presentato al Senato di Bologna dalla Giunta Constituzionale, Bologna 1796, art. 273, in Le costituzioni «giacobine» (1796-1799), a cura di Paola Mariani Biagini e Luigi Parenti, Ittig/Cnr, Firenze 2009)

Antanaclasi: in greco antanáklasis «ripercussione», in latino re­­ flexio «ritorcimento, conversione» significano «ripetizione in senso opposto»: quando, in uno scambio di battute, uno dei due dialoganti «rivolta» un’espressione usata dall’altro cambiandola di significato. Famoso il passo di Quintiliano (Inst. orat. IX, 3, 68): Cum Proculeius quereretur de filio, quod is mortem suam exspectaret et ille dixisset se vero non exspectare, – Immo, inquit, rogo exspectes. – [Poiché Proculeio si lamentava che suo figlio aspettasse la sua morte, e avendo quello detto che lui davvero non l’aspettava, – Anzi, disse, ti prego di aspettarla –]

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Secondo un’interpretazione diffusa, l’antanaclasi o anaclasi sarebbe ogni ripetizione che provochi variazioni o ribaltamenti di senso. Si veda anche la voce Diafora. Antifrasi: in greco antíphrasis «significazione del contrario» (antí+phrazo «esprimo per antitesi»), in latino permutatio ex contrario ducta «un mutamento indotto dal contrario», sermo e contrario intellegendus «enunciato da intendere al contrario», si ha quando un’espressione viene usata per dire l’opposto di ciò che normalmente significherebbe. Il venerabile Beda (VII-VIII secolo) la definì ironia limitata a una sola parola. Modernamente fu considerata come la forma più esplicita e aggressiva dell’ironia: «Che bella figura hai fatto!», intendendo: «Che brutta figura...!». Sono antifrastiche certe denominazioni apotropaiche, cioè scaramantiche, come Ponto Eusino «mare ospitale» per il Mar Nero, considerato come tutt’altro che ospitale. Antimetabole o Antimetatesi, v. Chiasmo. Antonomasia: il greco antonomasía (antí «invece di»+ónoma «nome»), trapiantato nel latino antonomàsia accanto al calco pronominatio (pro «al posto di»+nominatio «designazione») consiste nell’usare – al posto di un nome proprio, un epiteto o una perifrasi che esprimano una qualità caratterizzante l’individuo nominato: l’Onnipotente: Dio; il Maestro di color che sanno: Aristotele;

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– un nome proprio per un nome comune: un Cicerone: un grande oratore; – un nome proprio per un altro nome proprio: è il caso degli pseudonimi. All’antonomasia si possono ascrivere fenomeni dell’evoluzione linguistica. «In francese renard (volpe) è l’antico nome proprio (tradotto in italiano con Rainardo) attribuito all’animale il cui nome comune era goupil, ora termine arcaico». Apocope, v. Metaplasmo. Aposiopesi, v. Reticenza. Chiasmo: L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 33)

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto (Orlando furioso, I, vv. 1-2)

Questa figura prende il nome dalla lettera greca c (pron. «chi»), la cui forma rappresenta visivamente l’incrocio sintattico (come nel primo esempio) oppure semantico (come nel secondo esempio) di membri disposti specularmente, secondo le analogie di struttura o di senso presenti nei termini medi e negli estremi. Nel secondo esempio si osservano due chiasmi interconnessi: dove il secondo termine medio (l’arme) del primo membro è nello stesso tempo il primo estremo rispetto all’espressione l’audaci imprese del verso successivo. Si tenga presente che la tipologia del chiasmo

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è assai più varia di quanto risulta dalle sommarie indicazioni date qui. Altre denominazioni per il chiasmo e alcune sue varianti sono: antimetabole, antimetatesi. Climax: termine greco, che significa «scala», passato integralmente all’italiano e al latino (che disponeva anche delle designazioni gradatio «scala», conexio «collegamento», catena «concatenazione») per indicare due costruzioni diverse. La prima consta di un’anadiplosi (v.) continuata, che si attua procedendo per scalini, con una sosta su ciascuno (l’immagine è di Quintiliano) prima di salire sul gradino successivo. La ripresa della salita è indicata dalla ripetizione dell’ultima espressione su cui il discorso ha ‘sostato’: Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada. (Purgatorio XXX, vv. 49-51)

Nella seconda costruzione i significati di espressioni collegate si intensificano: Ecco un Gigante forte, / un Lume de la guerra, / un Nu­ me de la terra, / un Encelado in morte, / [...] / un Re che il mondo addita / emulo del gran Carlo (Giovanni Battista Marino, Francesco Primo Re di Francia, vv. 1-7, in Id., La Galeria, a cura di Marzio Pieri, Liviana, Padova 1979, p. 100)

o, all’opposto, si attenuano progressivamente (anticlimax):

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en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada (ultimo verso del sonetto di Luis de Góngora, Mientras por competir con tu cabello...; trad. it. di Giuseppe Ungaretti: «in terra, fumo, polvere, ombra, niente»)

Diafora: La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo (I promessi sposi, VII, 129)

Questo è caffè-caffè.

Espressione tautologica, con cui si affida ai due termini della ripetizione la funzione di significare, l’uno l’oggetto di cui si tratta (persona o cosa o fatto ecc.), l’altro le sue qualità, caratteristiche ecc. Si dice pure che «una replica è usata in senso proprio, l’altra con valore figurato», e si denomina sillepsi oratoria questa figura. Una diafora dialogica è detta antanaclasi (v.). Dialefe, v. Metaplasmo. Dialogismo: Ci sarà magari qualche musicista maggiore di Schubert (ma chi poi?); nessuno più ‘riascoltabile’ di lui, all’infinito. (Pier Vincenzo Mengaldo, Margherita all’arcolaio, in Antologia personale, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 241)

È prodotto dall’innesto parentetico, in un discorso, di enunciati (ad es. un’interrogazione, un’esclamazione ecc.) strutturalmente eterogenei rispetto al complesso in cui vengono inseriti. L’effetto dialogico deriva dallo sdoppiamento prospettico dell’enun­ciazione.

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Diastole, Dieresi, Elisione, v. Metaplasmo. Enfasi: in greco émphasis (en «dentro» e pháino «mostro»); in latino significatio. Entrambi i termini esprimono ciò che modernamente si intende per «pregnanza di significato». Per esempio, usando un’espressione come «non fare l’allocco» si intende andare oltre la superficie dell’enunciato (e il significato cosiddetto letterale), per isolare i caratteri specifici che il contesto o la consuetudine permettono di inferire. L’enfasi (come materia della pronuntiatio, v.) riguarda specialmente il tono di voce e i gesti, con cui si fa scattare il meccanismo del riconoscimento del tropo inducendo l’ascoltatore «ad ‘andare oltre’ il senso proprio della parola pronunciata enfaticamente, per scegliere solo alcuni dei tratti che ne definiscono il significato». Epanalessi o Geminatio: Ma com’era, Goethe, veramente? Lui? ecco... come dire... grande, è l’unica parola, proprio grande. uno dei presenti stadelmann

(Claudio Magris, Stadelmann, in Id., Teatro, Garzanti, Milano 2010, p. 80)

Oh, topo, topo! / Se corri in tondo / come una trottola / non fai del moto: / sei solo in trappola (Toti Scialoia, I corvi di Orvieto (1974-76), in Id., Versi del senso perso cit., p. 106)

Questa diffusissima figura della ripetizione fu detta in greco epanálepsis «ripetizione», in latino repetitio; ancora in greco, palillogia, epízeuxis, in latino

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iteratio, duplicatio. È il raddoppiamento di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di un segmento di testo, anche con interposizioni di elementi svariati (v. qui il primo esempio). Epentesi o Anaptissi, Epitesi o Paragoge, v. Metaplasmo. Epifonema: Ma la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa. (Philip Roth, Everyman, trad. it. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2007, p. 14)

In greco epiphónema «voce aggiunta»: è una sentenza posta a conclusione di un discorso. Epifora o Epistrofe: La linea come segno del movimento, come godimento del movimento, come paradosso del movimento. (Italo Calvino, La penna in prima persona cit., p. 298)

L’unica identità che io conosco è proprio questa meravigliosa identificazione con Dio. Questa familiarità con Dio. Questo discorso con Dio. E attraverso queste proiezioni, questa fiducia, io vedo il mio futuro. E il mio presente. (Alda Merini, La pazza della porta accanto, Bompiani, Milano 1995, p. 74)

In greco epiphorá «il portare in aggiunta; conclusione», epistrophé «conversione», antistrophé «il volgersi indietro», donde i calchi latini desitio, conversio,

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reversio. È figura speculare all’anafora in quanto consiste nella ripetizione di parole alla fine di enunciati successivi. Epifrasi, v. Iperbato. Figura etimologica: O Spirto spirante, che spiri con l’anima del Verbo nel seno del Padre... (Maria Maddalena de’ Pazzi, Le parole dell’estasi [1585], a cura di Giovanni Pozzi, Adelphi, Milano 1984, p. 120)

Viva nella più ampia e viva di tutte le culture, si ravviva quella lingua nel focolare della culta famiglia... (Graziadio Isaia Ascoli, Proemio all’«Archivio Glottologico Italiano» cit., p. 16)

In greco paregmenon «derivazione», in latino derivatio. È il rinforzo semantico ottenuto con la ripetizione del radicale (la radice delle parole, nelle lingue indoeuropee, è la depositaria del significato) in espressioni o contigue o almeno appartenenti a una stessa frase (o a frasi di uno stesso periodo). Gradatio, v. Climax. Iperbato: E tu, mattina ritrovata, [...] / tu continuo dipani stupore / avvento a nuove forme. (Annalisa Cima, Avvento a nuove forme, in Ead., Sesamon, Guanda, Milano 1977, vv. 7-11; ora in Ead., Di canto in canto, Longo, Ravenna 2007, p. 184)

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Con il greco hyperbatón «trasposto», reso in latino con transgressio «l’andare oltre», transiectio «il far passare al di là, trasposizione», si indica l’interposizione di una parte di enunciato a due componenti di un’espressione (aggettivo-nome e viceversa, avverbio- nome o verbo eccetera). L’effetto è l’enfasi sugli elementi che vengono spostati. Metabole: voce greca (metabolé «mutamento») assunta dagli studiosi del Gruppo di Liegi per significare «ogni specie di cambiamento di un aspetto qualsiasi del linguaggio»45. In quest’ottica le metabole si suddividono in «grammaticali» – metaplasmi (v.); metatassi, che modificano la struttura della frase; metasememi, che vertono su fatti di significazione e corrispondono ai classici tropi (v.) – e «logiche». Queste ultime «modificano il valore logico della frase e per conseguenza non sono più condizionate da restrizioni linguistiche»46. Tra le figure censite, l’antifrasi (v.), la reticenza (v.), l’iperbole e l’ironia (v. supra, al punto A). Metalepsi o Metalessi: dal greco metàlepsis «scambio, trasposizione», in latino transsumptio, è una trasposizione di significato che produce un’improprietà contestuale. Si ha quando si traspone la sinonimia dalla classe dei nomi co45   Groupe m, Rhétorique générale, Larousse, Paris 1970 (trad. it. Retorica generale. Le figure della comunicazione, Bompiani, Milano 1976, p. 34). 46   Ivi, p. 49.

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muni a quella dei nomi propri, che in quanto tali non hanno sinonimi. Esempi classici: – l’attribuzione al centauro Chirone (in greco Cheiron) del nome Hesson, che ha lo stesso significato del qualificativo cheiron «inferiore, soccombente»; – il nome latino del caso accusativo (accusativus) dovuto a calco errato del greco aitiatiké, da aitía, che significa «causa» e «accusa». Per un errore di interpretazione è stato preso il secondo dei significati come base per la trasposizione del termine in latino. Sulla metalessi quale combinazione di figure (sineddoche, metonimia, metafora, allusione ecc.) in forza del significato generale di «trasposizione» manifestato dalla sua denominazione greca, si trovano spiegazioni alle pp. 139-142 del mio Manuale di retorica cit. Metaplasmo: fu così denominato tradizionalmente «ogni cambiamento nella forma di singole parole accolto nel sistema linguistico per forza di consuetudine, oppure giustificato dall’autorità degli scrittori ‘approvati’ come modelli (auctoritates). A ciò si aggiungeva la deroga occasionale (con la conseguente qualifica di metaplasmo) per quelle scorrettezze che di volta in volta la situazione imponesse come ‘dovere più forte’, scorciatoia per una comunicazione veramente persuasiva». Si elencano qui di seguito i principali mutamenti fonetici dovuti all’alterazione di parole mediante aggiunzione, soppressione, permutazione di suoni.

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a) Metaplasmi per aggiunzione di suoni Dialèfe: permette di calcolare separatamente due vocali contigue, di parole diverse, che potrebbero stare in un’unica posizione: che da ogne creata vista è scisso (Paradiso, XXI, 96)

È l’opposto della sinalefe (v.). Dièresi: è il contrario della sineresi (v.). Può essere indicata graficamente dal segno diacritico dello stesso nome posto sulla semivocale del dittongo da dividere: Dolce color d’orïental zaffiro (Purgatorio, I, v. 13)

Epèntesi o Anaptissi, all’interno di parola: Mantova rispetto al latino Mantua. Epìtesi o Paragòge, nel parlato, alla fine di parole terminanti in consonante: filme per film; ìcchese per ics. Pròtesi o Pròstesi, all’inizio di parola; per esempio, la i- detta prostetica davanti ai gruppi s+consonante: per iscritto, in ispirito ecc. b) Metaplasmi per soppressione di suoni Afèresi, eliminazione di una vocale o di una sillaba: scuro