Prima lezione di metodo storico

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a cura di Sergio Luzzatto

Prima lezione di metodo storico

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 Seconda edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9220-9

Prima lezione di metodo storico

Premessa di Sergio Luzzatto

Come si studia la storia? E come si racconta? Sono queste, a ben vedere, le due domande che stanno dietro ogni riflessione possibile sulla cosiddetta “metodologia della ricerca storica”. Domande semplici all’apparenza, complesse nella sostanza. Tanto complesse da spingere gli storici, professionisti del passato, alla formulazione di risposte fin troppo ardue, sofisticate, da addetti ai lavori: istruzioni per l’uso che finiscono spesso per annoiare piuttosto che aiutare. La metodologia della storia (ha scritto polemicamente Richard Cobb, il massimo studioso inglese della Rivoluzione francese) è «un’invenzione di tedeschi tromboni» del XIX secolo, ed è tutt’ora «la rovina degli sventurati allievi della Scuola Normale di Pisa». Ma riflettere su come si studia e si racconta la storia può anche diventare una sfida appassionante: se soltanto gli storici si impegnano a non coltivare l’esoterismo, e a parlare chiaro. Se, rinunciando a un gergo specialistico o a chissà quale segreto professionale, coloro che di mestiere maneggiano il passato invitano il pubblico di oggi – i lettori, gli studenti – dentro la loro officina, per illustrare concretamente come se ne utilizzano gli attrezzi. Se una tecnica, il buon uso delle “fonti”, viene messa al servizio di un’arte, l’arte di raccontare attraverso storie istruttive. È il senso dell’operazione perseguita in questa Prima lezione di metodo storico: dove una decina di storici italiani,

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variamente specialisti di storia medievale, moderna o contemporanea, sono stati invitati a scegliere ciascuno una singola fonte, a lavorarla con i ferri del mestiere, a farne la base per il racconto di una vicenda esemplare. Fondato sulla fiducia nelle dimostrazioni empiriche piuttosto che sul gusto per le disquisizioni teoriche, il libro non ha bisogno di una lunga premessa. Qui, ci si contenterà di qualche appunto sopra i meriti (e sopra i limiti) di un approccio al metodo storico che ruoti programmaticamente ed esplicitamente – fin dall’indice del volume – intorno alla questione delle fonti. Una fonte notarile, una fonte epistolare, una fonte contabile, una fonte epigrafica, una fonte cronachistica, una fonte oratoria, una fonte iconografica, una fonte diaristica, una fonte orale, una fonte elettronica, dal Piemonte del Medioevo al mondo globale di internet: i dieci capitoli del libro rappresentano le dieci tappe di una visita guidata tutt’altro che ovvia, per una varietà di ragioni. Perché il concetto stesso di fonte può rivelarsi sfuggente. Perché la visita guidata avrebbe ben potuto svolgersi secondo altre tappe, cioè esercitandosi su fonti differenti. Perché lungi dal risolversi nell’isolamento in vitro di una singola tipologia di fonte, il lavoro dello storico consiste spesso in un’opera di contaminazione ragionata delle fonti più diverse. Perché la ricetta della buona storiografia, quand’anche comprenda come ingrediente essenziale una “critica delle fonti”, non è in tutto e per tutto riducibile a essa. Il concetto di fonte storica può rivelarsi sfuggente, o comunque evolutivo nel tempo. Per averne una prova, si prenda uno strumento di reference particolarmente autorevole, il Grande dizionario italiano dell’uso curato da Tullio De Mauro (6 volumi, Utet 1999), e lo si legga alla voce «Fonte». In quanto riferita al linguaggio degli storici, l’accezione del lemma viene definita come segue: «spec. al plurale, i documenti scritti da cui trarre dati e testimonianze per la ricostruzione di un determinato periodo sto-

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rico». Si tratta – spiace dirlo – di una definizione inadeguata. Nessuno studioso di storia formatosi durante la seconda metà del Novecento, meno che mai agli esordi del terzo millennio, sarebbe disposto a considerare come fonti i soli documenti scritti. Almeno da mezzo secolo a questa parte, la storiografia si ciba come del pane di una quantità di fonti che poco o nulla condividono con la scrittura: segni del paesaggio o vestigia dell’uomo, manufatti artigianali o prodotti seriali. Esistono ormai scaffali interi di studi storici costruiti a partire da abiti consunti ritrovati in una soffitta, vecchi mobili corrosi dai tarli, otri da vino affondati per un naufragio, rugginosi utensili agricoli, sventrati capannoni industriali, povere ceramiche o preziose porcellane, e inoltre monete, medaglie, caricature, incisioni, manifesti, affreschi, statue, tombe, monumenti... Né si fa storia unicamente con fonti le quali, senza essere scritte, restano comunque fonti materiali. Sempre più e sempre meglio, gli storici hanno imparato a maneggiare fonti immateriali o addirittura virtuali: parole registrate in un audio, immagini girate in un video, fotografie scaricate da un sito. Così, nell’indiceinventario di questa Prima lezione almeno tre tipi di fonti su dieci – la fonte iconografica, la fonte orale, la fonte elettronica – non corrispondono esattamente alla definizione di De Mauro. Del resto, la visita guidata nell’officina degli storici avrebbe potuto svolgersi secondo percorsi alternativi. Nei dieci capitoli di cui si compone, l’indice del volume non va considerato esaustivo. E non va ritenuto – sia chiaro – più rappresentativo di altri indici possibili. Conservando una base decimale, sarebbe facile immaginare una Prima lezione di metodo storico che non contenga neanche una delle fonti trattate in questa sede, e che pure restituisca con pregnanza i modi e i significati dell’attività storiografica. Una fonte diplomatica, una fonte giudiziaria, una fonte demografica, una fonte parlamentare, una fonte giornalistica, una fonte poliziesca, una fonte agiografica, una fonte cli-

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nica, una fonte letteraria, una fonte cinematografica: ecco altri dieci tipi di fonti assolutamente imprescindibili nella comune pratica degli storici, e che non figurano qui per motivi estrinseci, sacrificate non già a un ordine di importanza, ma alla tirannia dello spazio. Più che inseguire un’ambizione di completezza, si è voluto restituire una modalità di lavoro. Diversamente dagli storici dilettanti, che sono soliti affidarsi alle sole “fonti secondarie” (cioè agli studi già esistenti su un argomento), gli storici professionisti si confrontano obbligatoriamente con le “fonti primarie”: non possono limitarsi al sentito dire, devono risalire ai documenti originali, scritti o figurati, materiali o immateriali, reali o virtuali che siano. Prima di ogni altra cosa, la ricerca storica è questo: è il rapporto diretto che uno studioso instaura con la sua fonte. Una fonte da identificare, entro la massa piccola o grande di tracce del passato pervenute fino al presente. Una fonte da analizzare, per capire a quando risalga, chi o che cosa l’abbia prodotta, come e perché sia stata conservata. Una fonte da interpretare, per trarre conclusioni significative intorno al periodo di cui essa rappresenta un riflesso. Grandi libri sono nati dalla moltiplicazione dell’esercizio che scandisce ogni capitolo della Prima lezione di metodo storico: sono nati – in altre parole – dall’impiego sistematico di un singolo tipo di fonte. Per esempio, è stato a partire dai testamenti conservati negli archivi notarili di Provenza che Michel Vovelle ha potuto proporre, nel suo libro Piété baroque et déchristianisation en Provence au XVIIIème siecle (1973), una nuova interpretazione delle origini “culturali” della Rivoluzione francese; studiando l’evoluzione nel tempo delle disposizioni testamentarie relative alle messe in suffragio dei defunti, Vovelle ha scoperto un nesso insospettato e cogente tra il declino della sensibilità religiosa tradizionale e la crisi della monarchia borbonica quale società cristiana. Un altro esempio particolarmente istruttivo, che riguarda le fonti orali, viene dal libro di Alessandro Portelli dedicato all’occupazione te-

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desca di Roma nella seconda guerra mondiale e intitolato L’ordine è già stato eseguito (1999): un montaggio di interviste a uomini e donne, giovani e vecchi, testimoni e non testimoni dei drammatici eventi del 1943-44 da cui emerge, oltreché una ricostruzione “definitiva” dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, una visione inedita della città di Roma nel Novecento. Peraltro, nel momento stesso in cui si insiste sulla centralità del corpo a corpo tra lo storico e la sua fonte, si rischia di suggerire un’immagine fuorviante del lavoro storiografico: come se questo fosse rigidamente diviso in compartimenti stagni, e come se gli storici fossero oggi tenuti a una specializzazione paragonabile a quella dei medici. Dovrebbero dunque esistere gli specialisti in fonti epigrafiche, in fonti giudiziarie, in fonti epistolari, così come esistono gli specialisti in dermatologia, in ginecologia, in otorinolaringoiatria? Sia permesso di dubitarne. Beninteso, il trattamento dell’una o dell’altra fonte esige la padronanza di tecniche specifiche e il possesso di conoscenze mirate: è ovvio che studiare un codice del tardo Quattrocento non equivale a studiare un incunabolo, né una pala d’altare o un sarcofago o uno strumento di navigazione risalenti alla medesima epoca. Resta il fatto che la maggior parte degli studi storici, anziché derivare dall’impiego intensivo di una singola fonte, nascono da una pratica differente, se non proprio da una logica contraria: nascono da un uso estensivo e dialettico delle fonti più diverse. Nel vissuto quotidiano delle sue ricerche, lo storico è abituato a transitare continuamente da un ambiente di lavoro all’altro e da un attrezzo di lavoro all’altro. Dalla filza d’archivio al volume in biblioteca, dal documento al monumento, dal computer portatile alla macchina fotografica. A proposito di opere capitali della storiografia novecentesca, riuscirebbe impossibile decidere su quale genere di fonti siano principalmente fondate. Nel suo libro su La crisi dell’aristocrazia. L’Inghilterra da Elisabetta a Crom-

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well (1965), ad esempio, Lawrence Stone ha maneggiato una tale panoplia di fonti parlamentari, contabili, diaristiche, epistolari, notarili, giudiziarie, demografiche, letterarie, che quasi non basterebbero, per farne l’inventario, due Prime lezioni di metodo storico! Lo stesso potrebbe dirsi del libro di Raul Hilberg su La distruzione degli Ebrei d’Europa (1961), dove il pioniere degli studi sulla Shoah ha fatto tesoro di una documentazione tanto sterminata quanto variegata: documenti diplomatici, verbali politici, atti amministrativi, pubblicazioni ufficiose, relazioni ufficiali, informative fiduciarie, lettere private, corrispondenze commerciali, bilanci aziendali, orari ferroviari... I libri di storia trattano per lo più di persone morte e di civiltà sepolte; ma quando sono libri riusciti, pulsano – nel bene o nel male – dell’infinita varietà della vita. D’altronde, nella lingua italiana, la parola “fonte” non rimanda forse al concetto di “sorgente”, una vena d’acqua che sgorga spontaneamente e continuamente da un’apertura del terreno? (E in francese come in inglese, la parola source qualifica altrettanto la sorgente d’acqua che la fonte degli storici.) Sicché l’“andare alle fonti”, l’“attingere alle fonti” contiene l’idea della ricerca storica come bisogno di conoscenza, sete di verità. Questo non significa che lo storico voglia, o possa, o debba raccogliere dal fiume del passato ogni singola goccia: già nella mitologia greca e romana, accanto al fiume del ricordo scorreva il fiume dell’oblio. Professionista del passato, non perciò lo storico è un antiquario, cui tutto del passato interessa semplicemente in quanto antico. Al contrario, il fascino del suo mestiere consiste nella possibilità di selezionare dall’inesausta sorgente della storia quanto interpella il presente, lasciando cadere quanto non lo interpella più. Lo storico non fa soltanto rivivere il passato, lo fa anche ri-morire. Un grande studioso dell’Illuminismo, Franco Venturi, amava dire − gustando il sapore del paradosso − che «fare lo storico è semplice: basta leggere tutto, e controllare

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le citazioni». La battuta suona oggi datata, se è vero che la nostra idea di fonte, non limitandosi più ai soli documenti scritti, esclude che per fare storia basti leggere tutto. La raccomandazione di Venturi vale comunque a ricordarci come la padronanza del metodo storico sia qualcosa di faticoso, e insieme di prosaico. Per fare gli storici, potremmo concludere con un’altra battuta, non serve essere intelligenti quanto i filosofi. Eppure, il metodo storico non si esaurisce in un sapere tecnico: sia perché, dopo avere lavorato su una fonte, resta da renderne ragione, sia perché il mestiere di storico non presume soltanto la dimensione dello studio, presume anche la dimensione del racconto. Da Erodoto a oggi, la storia è anche (secondo alcuni, è soprattutto) narrazione. La definizione del campo, la ricerca dei documenti, l’accumulo dei dati, l’analisi del contesto, la scelta dell’interpretazione, l’onere della prova, non sollevano lo storico dall’obbligo di entrare in relazione con i suoi personaggi e di farli muovere sulla scena del passato. Senza nulla inventare, evidentemente; senza mettere loro in bocca parole che non hanno detto, senza attribuire loro pensieri che non hanno avuto, senza immaginarli dove non sono stati. Ma senza neppure dimenticare che qualunque storia è fatta – in ultima istanza – di uomini e donne in carne e ossa: è fatta di carne umana, spiegò il medievista francese Marc Bloch, forse il massimo storico del XX secolo. Maneggiare carne non rende gli storici dei macellai: la loro rimane una professione dove ci si sporca di polvere più che di sangue. E tuttavia, quello dello storico può rivelarsi un mestiere delicato. È delicato condividere l’impegno della narrazione con quanti per mestiere fanno tutt’altro: i romanzieri, i giornalisti. Ed è delicato comunicare i risultati di una ricerca al pubblico dei non addetti ai lavori, siano gli studenti di un’aula universitaria o i clienti di una libreria. L’impegno della narrazione rischia di diventare una sfida in cui lo storico venga spinto – purché il suo saggio si legga «come un romanzo» – a pasticciare con

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le regole del gioco: trascurando di «leggere tutto e controllare le citazioni», ma anche confondendo i piani del racconto, l’anteriorità o la posteriorità degli eventi, i problemi del presente con quelli del passato. Quanto alla divulgazione dei risultati, lo storico che voglia “vendere bene” può imboccare scorciatoie economicamente lucrose per lui, ma culturalmente rovinose per i suoi studenti o per i suoi lettori. È pur vero che in Italia, a differenza che in Francia o in Inghilterra, raramente gli storici di mestiere hanno cercato e cercano di scrivere libri altrettanto leggibili nella forma che solidi nel contenuto. Ma proprio la riluttanza degli storici professionisti a raggiungere il general reader ha contribuito alle fortune, qui da noi, di storici dilettanti come i giornalisti Indro Montanelli o Bruno Vespa, che in una Prima lezione di metodo storico meritano di essere evocati quali contro-esempi. Ai dilettanti càpita infatti di commettere – soprattutto rispetto al secolo appena trascorso, il Novecento – un errore di metodo tanto marchiano quanto grave: confondere la memoria con la storia. È ciò che avviene nel momento in cui si scambia una “fonte d’informazione” (secondo il comune linguaggio giornalistico) per una fonte di verità, cioè si scambia il testimone di determinati eventi per un interprete giocoforza attendibile di quegli stessi eventi, e si assumono i ricordi del suo vissuto di allora come criteri-guida della nostra interpretazione di oggi. Errore di metodo imperdonabile, poiché il buono storico è esattamente colui che distingue con attenzione i piani temporali, ed elegge il vissuto retrospettivo dei suoi personaggi (il travaglio della loro memoria) non già a facile criterio di verità, ma a ulteriore e difficile materia di studio. Al pari di altre professioni, il mestiere di storico prevede insomma – se non proprio un giuramento d’Ippocrate – quanto meno il rispetto di una deontologia; in mancanza di questa, il cattivo storico può fare danni, sia pure non altrettanto immediati che il cattivo medico o il cattivo chi-

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rurgo. In particolare, il cattivo storico può fare danni entro un contesto di bancarotta identitaria com’è quello dell’Italia d’oggidì: dove blasonati docenti universitari fanno a gara con pennivendoli della carta stampata e con storici della domenica, giocando a chi la spara più grossa sulle Crociate, sulla Controriforma, sul Risorgimento, sulla Resistenza, sulla Repubblica. In tal senso, la nostra visita guidata nell’officina della buona storiografia italiana vorrebbe costituire un antidoto all’inquinamento ambientale prodotto dagli storici finti, dagli storici servili, dagli storici irresponsabili.

L’idea di un libro come questo mi è venuta, in un giorno ormai lontano, dialogando con il mio maestro e amico Paolo Viola. Prematuramente scomparso, Paolo è stato uno storico fra i più apprezzati e influenti della sua generazione. Perciò, io confido che i nove coautori della Prima lezione vogliano riconoscersi nella dedica del volume alla sua memoria.

Il ronzino del vescovo Una fonte notarile di Alessandro Barbero

1. Gli atti della causa Nel 1211 il vescovo di Ivrea è in lite con un suo dipendente, Bongiovanni d’Albiano, per le prestazioni a cui quest’ultimo è obbligato in cambio delle terre che tiene in feudo dalla Chiesa. Gli atti della causa sono contenuti in quattro pergamene, tre originali e una copia non autentica di poco più tarda, e si conservano nell’Archivio vescovile d’Ivrea. Nell’anno 1900 lo storico piemontese Ferdinando Gabotto li pubblicò in un volume che contiene tutte le carte di quell’archivio fino al 1313, data della soggezione di Ivrea ai Savoia: è forte dunque la tentazione di studiare la vicenda servendosi dell’edizione a stampa, ciò che permetterebbe di lavorare in biblioteca anziché in archivio, di leggere i testi con facilità, e di fotocopiarli per esaminarli comodamente a casa propria. Ma quando si devono sottoporre pochi documenti a un’analisi ravvicinata, frase per frase e parola per parola, è bene non accontentarsi delle edizioni, e andare in archivio a vedere gli originali, magari portandosi dietro la fotocopia per un raffronto puntuale. Il nostro lavoro comincia dunque nell’archivio della Chiesa d’Ivrea, dove gli atti sono conservati per la buona ragione che il vescovo vinse la causa. Se l’avesse perduta, soltanto Bongiovanni e i suoi eredi avrebbero avuto inte-

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resse a conservare la documentazione, che quasi certamente sarebbe andata persa nell’immenso naufragio degli archivi privati anteriori al Due-Trecento. Infatti la grande maggioranza delle famiglie di quell’epoca si sono estinte, e il loro patrimonio documentario è andato disperso; mentre gli archivi degli enti ecclesiastici, che hanno continuato a funzionare ininterrottamente fino ad oggi, sono molto meglio conservati. I documenti che ora abbiamo in mano sono su pergamena, perché la carta comincerà a diffondersi soltanto fra XIII e XIV secolo, e solo per le scritture più ingombranti e più effimere, come i registri fiscali. Sono scritti in latino, come quasi tutti i documenti medievali italiani, e in una grafia irta di abbreviazioni, non immediatamente leggibile a un occhio moderno: è chiaro che per analizzarli è necessario possedere talune abilità tecniche, che del resto ogni medievista acquisisce nel corso della sua formazione. Il primo lavoro da fare è il confronto fra gli originali e il testo a stampa, da cui ricaviamo la conferma che abbiamo fatto molto bene ad andare in archivio, perché la lettura dell’editore è stata in più d’un caso frettolosa. Per non fare che un esempio, nella trascrizione del Gabotto si menziona un certo ser Giovanni da Rondissone, e si afferma che il vescovo Gaimario aveva sequestrato vacche e buoi «domini Iohannis de Rondeçone aut Boni Iohannis», ma l’originale dice «avi», non «aut»: senza ricorrere all’originale non sapremmo mai che questo personaggio, il cui nome ricorre spesso negli atti, era il nonno del Bongiovanni protagonista del processo. 2. Lo svolgimento della lite Ora che disponiamo di una trascrizione completa e corretta dei documenti, è il momento di chiederci che storia raccontano, e quali domande possiamo porgli. È chiaro che qui non siamo di fronte ai grandi eventi della Storia

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con l’iniziale maiuscola, ma ad una vicenda quotidiana di gente qualunque; e proprio questo rende preziose le fonti d’archivio. È ad esse che ricorriamo per capire qualcosa del funzionamento concreto della società medievale, delle relazioni economiche, delle strutture familiari e dei rapporti di potere. Particolarmente utili sono gli atti dei litigi, come questi che ci prepariamo ad analizzare, perché una controversia obbligava le parti a definire e argomentare le loro posizioni, e sollecitava i giudici a formulare con precisione le domande da porre ai testimoni per accertare la verità: è quasi soltanto attraverso le cause giudiziarie che impariamo come funzionavano davvero istituzioni fondamentali del mondo medievale, quale ad esempio la signoria. La causa di Ivrea ha a che fare con il diritto feudale, ma la disputa sui rapporti fra signore e vassallo investe una questione assai più generale, e cioè il modo in cui quei rapporti determinavano la stratificazione della società: in gioco – come vedremo subito – è lo status sociale di Bongiovanni, la sua pretesa d’essere un nobile e non un villano. Il primo dei quattro atti porta la data del 30 giugno 1211, ed è, dal punto di vista formale, una notitia: riferisce lo svolgimento della lite tra il vescovo di Ivrea, Pietro, rappresentato dal suo procuratore (syndicus) Giacomo Carta, e Bongiovanni d’Albiano coi suoi fratelli, fino al momento in cui è stata pronunciata la sentenza. La causa è stata discussa sub paribus curie, dove con curia s’intende l’assemblea dei vassalli del vescovo: come vedremo, che Bongiovanni fosse un vassallo – e dunque un nobile – oppure un dipendente di condizione inferiore era per l’appunto la questione da risolvere, ma in ogni caso gli venne riconosciuto il diritto di essere giudicato, come un vassallo, dai suoi pari, nominando d’accordo col signore i “colleghi” chiamati a giudicare. Infatti i giudici sono due cavalieri, ser Boamondo del Solero e ser Oberto Raimondo, «eletti da entrambe le parti» (notiamo qui che anche se per comodità di lettura tradurremo la maggior parte delle citazioni,

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l’analisi è stata fatta sul testo latino: lo studioso deve interrogare il documento nella sua lingua originale per poterne apprezzare tutte le sfumature). Procedendo nella lettura veniamo a sapere in che cosa consisteva il litigio. Il procuratore del vescovo pretendeva da Bongiovanni e dai suoi fratelli che mettessero un ronzino a disposizione del vescovo in cambio del feudo che tenevano da lui, «sostenendo che tengono un feudum de roncino». Il termine “ronzino” non aveva ancora la valenza spregiativa che ha assunto oggi, ma indicava un cavallo da soma, di scarso valore commerciale e che nessuno avrebbe potuto confondere con un costoso cavallo da guerra. Chi teneva un “feudo di ronzino” era dunque obbligato a un servizio non particolarmente onorifico nei confronti del signore: non combatteva per lui, ma si limitava a portare i bagagli, e difficilmente poteva aspirare per questo a una condizione sociale privilegiata. Questo episodio apparentemente secondario è rivelatore della ragion d’essere della società feudale. La Chiesa d’Ivrea possedeva un esteso patrimonio fondiario; in alcuni luoghi, come ad Albiano, la maggioranza degli abitanti erano suoi dipendenti, e di conseguenza il vescovo aveva il diritto di mantenere l’ordine con la forza in quella zona e farsi obbedire dalla popolazione. Gli abitanti delle campagne erano costituiti in grande maggioranza da quelli che le fonti chiamano collettivamente homines o rustici: contadini, i quali avevano dei diritti ereditari di sfruttamento della terra, ma anche dei doveri verso il signore, a cui non potevano sottrarsi unilateralmente. Per loro, la soggezione all’autorità si traduceva nell’obbligo di pagare le imposte e contribuire con prestazioni di lavoro gratuite, com’era appunto, in quel caso specifico, il servizio col ronzino. Ma il vescovo aveva anche dipendenti di rango più elevato, i vassalli, che poi erano di solito cavalieri (milites). I vassalli erano i proprietari più agiati e influenti della zona, e questo è il motivo per cui il signore, bisognoso di appoggio politico e di aiuto militare, concedeva loro la terra a condi-

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zioni molto più favorevoli. Non lavoravano i campi con le proprie mani, ma ne incassavano le rendite, e il loro obbligo verso il signore, sancito dal giuramento di fedeltà e dall’omaggio vassallatico, era quello di assisterlo nelle cause giudiziarie e di combattere per lui in sella a un cavallo da guerra. Senonché la distinzione fra le due categorie di dipendenti non era sempre così limpida, come dimostra proprio il litigio fra il vescovo Pietro e Bongiovanni d’Albiano. Le concessioni erano ereditarie e perpetue, e tale avrebbe dovuto essere anche lo status sociale dei titolari; ma l’epoca conosceva un’impetuosa crescita economica e una vigorosa mobilità sociale, per cui a distanza di qualche anno la condizione d’un uomo poteva non essere più simile a quella di suo padre e di suo nonno. Se il contadino cui il signore imponeva di fornire un ronzino per portare i bagagli si arricchiva, poteva capitare che i suoi discendenti rifiutassero di continuare a prestare quel servizio, sostenendo di essere anche loro dei gentiluomini, e di non essere tenuti agli oneri che gravavano sui rustici. Quando il procuratore del vescovo fece causa a Bongiovanni e fratelli sostenendo che il loro era un feudo di ronzino, essi negarono e cercarono di provare che il loro era un feudo nobile («quod multo tempore tenuerunt feudum gentiliter»). La domanda che a questo punto ci interessa porre al documento è: come si faceva a provarlo? Nel testo leggiamo che entrambe le parti avevano presentato atti e dichiarazioni scritte, ma poco probanti; restava la possibilità di addurre dei testimoni. La notitia non contiene i verbali degli interrogatori, limitandosi a dichiarare che il procuratore del vescovo ha provato la sua affermazione con testimoni validi («per multos testes ydoneos clericos et laycos»), mentre Bongiovanni e fratelli hanno solo tentato di provare la propria tesi, ma con testimoni «a cui non fu data fede». I giudici, dopo essersi consigliati con molti esperti di diritto, erano pronti a pronunciare la sentenza; ma a questo punto saltò fuori che Giacomo Carta non dispone-

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va d’una procura giuridicamente valida per rappresentare il vescovo («non reperiebatur legitime creatus syndicus»). Perciò i giudici chiesero al vescovo di comparire personalmente e attestare sotto giuramento che i «suoi» testimoni avevano detto la verità. Il formalismo della procedura, che per l’epoca rappresenta un tratto moderno, si accompagna a un tratto arcaico come la persistente rilevanza data al giuramento quale elemento di prova; rilevanza tale che il vescovo Pietro anziché presentarsi preferì chiedere un rinvio per riflettere, e mentre rifletteva venne chiamato alla cattedra patriarcale di Antiochia, nel lontano regno crociato di Gerusalemme. La causa fu dunque rinviata fino all’elezione di un nuovo vescovo, Oberto; a questo punto la procedura venne riaperta, e Oberto accettò di prestare il giuramento richiesto. Perciò i giudici – conclude il primo dei quattro atti conservati nell’Archivio vescovile di Ivrea – hanno condannato Bongiovanni a tenere un ronzino in servizio del feudo: stabilendo, implicitamente, che la sua condizione era quella d’un semplice villano, e non un nobile come sostenevano lui e i suoi fratelli. 3. Le deposizioni dei testimoni Fin qui la vicenda appare piuttosto lineare. Il problema più interessante posto da questo primo documento è quanto il formalismo della procedura, con la ricusazione del Carta, non sia in realtà un cavillo adottato dai giudici per evitare di sentenziare, e per scaricare sulla coscienza del vescovo la soluzione del caso: come sempre accade, gli atti processuali raccontano la verità a modo loro, e sarebbe ingenuo accoglierla alla lettera. Per capire su quali elementi si erano basati i giudici passiamo alla seconda pergamena, contenente le deposizioni dei testimoni, che vennero trascritte il 29 ottobre

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1211, e dunque quattro mesi dopo la sentenza, «affinché valgano per sempre come se testimoniassero a viva voce». La causa si era nel frattempo riaperta, e i giudici ritennero opportuno che le testimonianze già rese, verbalizzate dapprima in modo informale, rimanessero a disposizione in forma ufficiale. Il verbo usato dai giudici («ordinarono di auctenticare i testi prodotti da entrambe le parti») implica il conferimento di valore giuridico a un documento tramite la sottoscrizione notarile; senonché in questo caso la trascrizione a un certo punto venne interrotta, senza neppure registrare il nome del notaio, per cui tecnicamente il documento non risulta affatto auctenticus (ovvero dotato di auctoritas, nel linguaggio notarile dell’epoca). Le deposizioni di testimoni rappresentano sempre una fonte straordinaria di informazioni per lo storico, perché ci consentono di ascoltare la viva voce della gente comune. Non senza mediazioni, s’intende: i testi parlavano in lingua volgare, cioè nel dialetto locale, e il notaio traduceva laboriosamente in latino; e quanto all’attendibilità delle deposizioni, va ribadito che i testimoni non erano convocati dal giudice, ma presentati dalle parti a sostegno della loro tesi. Nel nostro caso il verbale raccoglie le deposizioni di venti testimoni, tutti prodotti da Giacomo Carta a carico di Bongiovanni. Evidentemente la trascrizione venne interrotta prima di arrivare ai testi presentati dalla controparte, che pure erano preannunciati nell’incipit del documento. Prima di analizzare le deposizioni è bene verificare nella documentazione coeva l’identificazione dei personaggi coinvolti: perché all’inizio del Duecento la massa dei documenti pervenuti fino a noi ha già cominciato a crescere, e ci si può aspettare che almeno i testimoni di rango sociale più elevato siano presenti in diversi altri atti. Infatti, controllando le carte dell’Archivio vescovile d’Ivrea pubblicate dal Gabotto, si riconoscono il cavaliere ser Meardo Ferrero, vassallo del vescovo d’Ivrea e di diversi signori locali della zona; il canonico ser Bonizo, uno degli esponen-

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ti più importanti del capitolo cattedrale e appartenente come ser Boamondo alla maggiore famiglia nobile di Ivrea, i del Solero; il canonico diacono Rodolfo Caudera, e il notaio Aldeprando, molto attivo a Ivrea – soprattutto per conto del vescovo – nell’ultimo quarto del XII secolo e nel primo decennio del XIII. Altri testimoni sono invece proprietari agiati di Albiano, e dunque vicini di casa di Bongiovanni: insomma, per provare le sue ragioni il procuratore è ricorso alla convocazione sia di personaggi importanti di Ivrea, autorevoli per la loro posizione sociale e legati alla Chiesa, sia di abitanti della località dov’era situato il feudo in discussione. In tutti i casi in cui possiamo verificarlo, si trattava di persone di una certa età, attestate nella documentazione già da diversi decenni, e in grado di ricordare un passato anche abbastanza remoto. In parecchi casi i testimoni sono invitati a dichiarare la loro età; e come accade quasi sempre in quest’epoca, nessuno la sa con assoluta precisione. Interrogati su quanti anni hanno, il canonico Rodolfo Caudera risponde «che crede di averne più di 50», ser Bonizo «circa 44 o 43», il notaio Aldeprando «60 e più», Enrico di Bollengo «più di 42», Evrardo di Oggero «50 e più». Questa imprecisione, che oggi ci colpisce, era normale in un’epoca in cui il conto degli anni non era tenuto con rigore e non si usava celebrare il compleanno, né indicare nei documenti la data di nascita. Lo scopo dell’interrogatorio era di verificare a quali obblighi si erano assoggettati in passato Bongiovanni, suo padre Gribaldo e suo nonno Giovanni di Rondissone. In questa società dove la consuetudine aveva forza di legge, tutti sapevano che se determinati oneri erano stati sopportati a lungo senza protestare, non era più possibile contestarli. Uno dei testimoni, che i giudici debbono aver ritenuto ben poco interessante, lo è invece per noi, in quanto enuncia esattamente i termini della questione, anche se dichiara di non saperla decidere: «sa e vide che Giovanni di Rondissone e i suoi figli si consideravano uomini del ve-

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scovo e che cavalcavano col vescovo dove lui voleva, ma dice che non sa se sia un feudo di ronzino o di destriero, o se sia servo o libero, se non che andavano col vescovo sia a cavallo sia a piedi». Se fossimo al posto dei giudici, potremmo essere interessati a ricostruire la personalità di ciascun testimone, per valutare l’attendibilità delle sue affermazioni. Ne verrebbero fuori interrogativi a cui non è facile rispondere: ad esempio, perché mai alla domanda rituale dei giudici, che chiedono a ciascun testimone se non ha mai avuto una condanna o un patteggiamento per furto, i due ecclesiastici rispondono scherzando? Ser Bonizo: «Rispose che non l’avrebbe detto, ma quando vorrà ricevere una penitenza dirà la verità». Rodolfo Caudera: «Rispose che non si è dato briga, ma quando erano bambini ha ammazzato gli anatroccoli» («set quando erant pueri interfecit anserotos»). Per ricavare il massimo profitto dal documento conviene piuttosto smontare le testimonianze, e ricostruire quali risposte vennero suscitate da ciascuna domanda. Il primo punto su cui insiste l’interrogatorio è molto concreto: si tratta di stabilire se il padre di Bongiovanni, Gribaldo, e il fratello di questi Guidotto hanno mai prestato servizio al vescovo con un ronzino. Qui, a prima vista, le testimonianze sono inoppugnabili. Più di metà dei testimoni hanno visto i due cavalcare al seguito del vescovo Gaimario con un cavallo acquistato a loro spese, e sono certi che si trattava d’una bestia da soma: era «un ronzino color asino con la criniera rasata e i bagagli caricati». (Notiamo, a margine, che tutti i termini qui tradotti in italiano suonano piuttosto oscuri a chi conosca soltanto il latino classico, e vanno controllati su un vocabolario di latino medievale: qui scopriamo ad esempio che quando i testi parlano di «runcino dosno» usano un aggettivo, dosinus, che indica appunto il colore degli asini). Un altro teste ricorda che il cavallo era costato tre lire: e anche qui è necessario fare dei raffronti con i prezzi indicati in altri do-

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cumenti più o meno coevi per scoprire che si tratta d’una cifra molto bassa rispetto ai prezzi dei cavalli da guerra, i quali potevano costare diverse decine di lire. I giudici, scrupolosi, chiedono se il servizio era prestato proprio in cambio del feudo di cui i due fratelli erano investiti, e come fanno i testimoni a saperlo. I più l’hanno sentito dire, ora dal vescovo stesso, ora «da tutti quelli del paese». Un teste aggiunge di aver sentito confessare dallo stesso Gribaldo «che teneva dal vescovo un feudo di ronzino»; il canonico Caudera ribadisce «che l’aveva sentito dire dal vescovo e loro non negavano». Feudi di quel genere erano anche chiamati feudi da scudiero (scutifer), e infatti uno dei testimoni afferma «di aver sentito dire che Gribaldo padre di Bongiovanni cavalcava col vescovo portando i bagagli da scudiero». Un altro teste, Pelagallo, aggiunge che Gaimario pretendeva lo stesso servizio già dal padre di Gribaldo, anche se dovette litigare per ottenerlo: egli «vide che il vescovo Gaimario prese (rapuit) i buoi e le vacche di ser Giovanni di Rondissone avo di Bongiovanni», a titolo di risarcimento «perché non aveva potuto avere il ronzino, e li tenne finché il detto Giovanni giurò di obbedire all’ordine del detto vescovo». Tutto chiaro, dunque? No, perché altri testimoni si esprimono in modo più dubitativo. C’è chi ha visto Gribaldo cavalcare col vescovo Gaimario «ma non sa se lo serviva per obbligo del feudo oppure no»; chi ammette «che ogni tanto è andato con il vescovo» ma «non sa se ha fornito il ronzino o no». C’è chi afferma d’averlo visto condurre un ronzino, ma non per obbligo: Gribaldo andava col vescovo solo quando gli pareva, «quando non voleva stava a casa»; e comunque «non andava come scudiero, ma come nobile». C’è chi afferma di averlo conosciuto bene «e non vide mai che tenesse un cavallo né un ronzino né che andasse col vescovo a Roma o dall’imperatore»: precisazione quest’ultima non casuale, perché i detentori di feudi di ronzino avevano spesso come obbligo principale quello di accompagnare i vescovi in queste occasioni; e in-

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fatti il canonico ser Bonizo, quanto a lui, «crede fermamente che Gribaldo andò col vescovo a Roma col suo ronzino». Nel loro zelo di accertare tutto l’accertabile a proposito del famoso ronzino, i giudici rischiano talvolta di spazientire i testimoni, come quel tale che «interrogato di che tipo era quel ronzino, rispose: “Come quelli che ci sono in giro” (“tales quales currunt per terram”)», per poi concludere la deposizione piuttosto bruscamente: «e dice che non sa altro: “Cosa devo dirvi di più?”». Ma a questo punto è opportuno lasciare la prima domanda posta ai testimoni e fermare l’attenzione sulla successiva, da cui i giudici speravano molto (e da cui non ricavarono invece quasi nulla). A tutti venne chiesto che cosa tenevano in feudo dal vescovo i predecessori di Bongiovanni, quando era avvenuta l’investitura, con quale procedura e in presenza di chi. Molti sapevano che si trattava di terre in Albiano, ma quasi nessuno era stato presente all’investitura o ne ricordava le circostanze; l’unico che ammette di essere stato presente «non vide che si facesse menzione d’un cavallo o d’un ronzino». Tocchiamo con mano, qui, quanto fosse insoddisfacente una procedura come quella feudale che si basava esclusivamente sull’oralità, e capiamo come mai a quella data si stesse ormai affermando l’abitudine di registrare per iscritto omaggi e investiture, senza più accontentarsi della pregnanza simbolica dei gesti. Ma per i giudici c’era ancora un altro modo di dedurre la natura del feudo. Consisteva nel verificare se i predecessori di Bongiovanni fossero stati obbligati a subire gli oneri signorili, pagando l’imposta periodica nota come il “fodro” e prestando i servizi di trasporto e di guardia al castello (ancora noti coll’antico nome longobardo di guayta et scaraguayta), come dovevano fare tutti gli abitanti (vicini) di Albiano, ad eccezione dei detentori di feudi nobili. Fra i testimoni provenienti da Albiano, essi stessi soggetti a quegli oneri, c’è naturalmente la tendenza ad affermare che Bongiovanni deve farsene carico come tutti. Uno di-

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chiara «che la guaita e la scaraguaita debbono essere imposti a Bongiovanni come a lui stesso e agli altri»; inoltre ha visto che Bongiovanni era obbligato a far macinare il suo grano al mulino del vescovo, e che quando c’era da pagare il fodro era tassato come tutti gli altri: ma interrogato se gliel’ha visto pagare, deve ammettere di no. Un altro teste dichiara che ha visto Bongiovanni sottoporsi a tutti i servizi di guardia e di trasporto, «e che quando si deve pagare il fodro tutti insieme al paese lui viene tassato come gli altri, ma non sa se lo dà o no». Da una testimonianza all’altra, il rifiuto di pagare il fodro si rivela come un elemento costante del conflitto fra le tre generazioni della famiglia e il vescovo; e ci rivela quanto fosse difficile per l’autorità signorile farsi rispettare dai dipendenti più insubordinati. Un teste sa che Bongiovanni fa le guardie e i trasporti, ma non ha mai visto che suo padre pagasse il fodro o la taglia; un altro ricorda che anche il nonno litigò spesso con i vescovi «e che gli chiedevano il fodro, ma non vide che lo desse». Senonché il rifiuto di pagare il fodro non era di per sé la prova che il loro fosse un feudo nobile: anche il possessore d’un feudo di ronzino poteva pretendere d’essere esentato in cambio del suo servizio. Il canonico ser Bonizo osserva che benché Gribaldo e Guidotto servissero col ronzino il vescovo, questi non li esonerava dal fodro, riscuotendolo anche da loro quando lo imponeva agli altri abitanti di Albiano; «tuttavia loro protestavano dicendo che non dovevano dare il fodro e servire il feudo, dicendo che li gravava troppo». Solo a questo punto i giudici passano a una domanda più diretta, chiedendo a ciascun testimone «se sa che i predecessori di Bongiovanni siano nobili e che tengano il feudo da nobili (gentiliter) e che siano capitanei», termine quest’ultimo con cui nell’Italia settentrionale si indicavano i maggiori vassalli dei vescovi. Non potevano cominciare direttamente da questa domanda? In realtà no, perché nell’Italia dell’epoca essere nobili non era una condi-

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zione giuridica precisa e indiscutibile, svincolata dalle circostanze materiali. Nell’opinione della gente – lo confermano tutti i processi di questo genere – essere nobili significava vivere da nobili, non pagare il fodro, tenere cavalli da guerra; non per nulla è su questi punti che i giudici avevano insistito all’inizio, e il fatto che ora si rassegnino a chiedere direttamente se gli interessati erano nobili significa che non hanno ricevuto risposte coerenti, e non sanno più bene come uscirne. Alla domanda più di un testimone risponde semplicemente dichiarando la propria ignoranza («non sa se tenessero il feudo da nobili o da villani»). Altri fanno affermazioni contraddittorie: un teste dichiara di aver sentito dire «che il vescovo Gaimario impose il fodro a Gribaldo», ma ha sentito anche «che i predecessori di Bongiovanni erano nobili». Rodolfo Caudera dichiara «che ha sentito dire che erano nobili», ma pure «che quando il vescovo prendeva dagli altri uomini di Albiano prendeva anche da loro». Ser Bonizo, che ha visto Gribaldo e Guidotto servire il vescovo «a turno e spesso col loro ronzino», alla domanda se fossero nobili risponde «che li teneva pro bonis hominibus et gentilibus, ma non ha visto che fossero cavalieri (milites)». La maggior parte dei testimoni, pur affermando d’aver visto Gribaldo e Guidotto accompagnare il vescovo Gaimaro col ronzino e i bagagli, concorda «che erano boni homines et gentiles». È soprattutto il nonno, Giovanni di Rondissone, a emergere nella memoria dei testi come nobile; del resto essi lo designano col titolo di dominus, corrispondente al volgare “ser”, e riservato ai sacerdoti e ai cavalieri. Il notaio Aldeprando non ha dubbi che costui viveva come un nobile: «vide ser Giovanni di Rondissone stare in Albiano bene e nobilmente in casa sua e dice che non vide per questo alcuna lite, tranne che il detto Giovanni una volta prestò un ronzino al vescovo Gaimario». Un ronzino venne dunque effettivamente messo a disposizione, ma in prestito, da un uomo ben lontano dall’immaginare che qualche decen-

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nio dopo i suoi nipoti sarebbero stati trascinati in giudizio per imporre loro un’analoga prestazione. In ogni caso, il punto cruciale della deposizione di Aldeprando è l’assicurazione che ser Giovanni viveva «nobilmente» (gentiliter): in questa società in tumultuoso sviluppo, e che non aveva una memoria genealogica lunga, vivere da nobili significava esserlo davvero, e avere diritto a quelle esenzioni che ora Bongiovanni si stava battendo per difendere. Le testimonianze sul genere di vita condotto dai predecessori di Bongiovanni vanno dunque in senso contrario a quelle sulla prestazione dei servizi di guardia e di trasporto, giacché tendono a confermare che vivevano al modo dei nobili; e in quel caso non dovevano certo tenere un umile feudo da scudieri, ma uno nobile, da vassalli. Diversi testimoni infatti, dopo aver dichiarato che gli antenati di Bongiovanni erano nobili, aggiungono «che erano vassalli», e servivano il vescovo «perché erano vassalli». L’unico cavaliere fra i testimoni, ser Meardo, ricorda d’essere stato armato cavaliere dal vescovo Gaimario, il quale gli regalò un cavallo che era appartenuto in precedenza a «ser Giovanni di Rondissone», e prosegue sostenendo di aver visto quest’ultimo «servire il vescovo come facevano lui stesso e gli altri vassalli». Alla richiesta se il servizio fosse prestato in cambio del feudo che Giovanni teneva dal vescovo, il cavaliere ribatte tranquillamente: «perché l’avrebbe servito, se non per il feudo?». Interrogato se gli antenati di Bongiovanni erano nobili, «rispose che loro erano dei più nobili del paese». 4. L’esito della lite Ma chi aveva ragione, alla fine? Il procuratore del vescovo, che voleva dimostrare la natura plebea della concessione fondiaria tenuta da Bongiovanni, o quest’ultimo, che sosteneva d’essere investito di un feudo da vassallo? Provocatoriamente, potremmo anche rispondere che

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questa domanda non ci interessa: un documento come questo è prezioso per quel che rivela su come la gente dell’epoca si rappresentava il mondo, non per l’esito d’una specifica lite. Tuttavia lo storico che ha maneggiato le pergamene dell’Archivio vescovile di Ivrea ed ha acquistato familiarità con i protagonisti della causa ha il diritto di formulare un’ipotesi. Prima di farlo, forniamo però ancora un dato: alla domanda se gli antenati di Bongiovanni fossero (o fossero chiamati) capitanei soltanto due testimoni rispondono affermativamente. Entrambi menzionano una circostanza specifica, l’autorità sulla chiesa locale e sul suo sacerdote: un dato che nella coscienza collettiva identificava i capitanei, giacché molto spesso costoro ricevevano in feudo dal vescovo proprio le pievi o le chiese. Uno afferma «che l’avo di Bongiovanni fu capitaneus di Rondissone» e che «le chiese dei Santi Nicola e Vincenzo erano della sua signoria e sulla sua terra»; un altro «ha sentito dire che Bongiovanni è cataneus e che ha un sacerdote sotto di sé». Nessuno afferma niente del genere a proposito di Gribaldo e Guidotto, padre e zio di Bongiovanni; i quali, per contro, sono gli unici che quasi tutti i testi hanno veduto servire il vescovo col ronzino. Se aggiungiamo che il nonno di Bongiovanni, ser Giovanni di Rondissone, litigò a più riprese col vescovo rifiutando il servizio, e che Bongiovanni sta facendo lo stesso, mentre non risulta che Gribaldo e Guidotto l’abbiano mai fatto, si delinea abbastanza chiaramente la vicenda d’un personaggio – ser Giovanni appunto – che aveva rivendicato con forza uno status nobiliare, e agli occhi di tutti l’aveva ottenuto. I suoi figli non sono stati in grado di conservarlo fino in fondo: hanno ceduto alle pressioni del vescovo e gli hanno prestato quei servizi modesti cui a rigore forse anche il padre sarebbe stato tenuto. Ma la famiglia ha continuato a essere considerata come nobile, forse più ad Ivrea che nella stessa Albiano, dove la faccenda del fodro e dei servizi di guardia e di trasporto era ben nota ai

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vicini; sicché Bongiovanni ha potuto tornare a rivendicare uno status pienamente nobiliare, come il nonno. Anche se l’ostinazione del vescovo a imporgli il servizio col ronzino lascia pensare che gli antenati della famiglia fossero davvero semplici contadini, sta di fatto che Bongiovanni andò molto vicino al successo, e che gli arbitri, scelti fra i più nobili vassalli della chiesa locale, si dimostrarono molto riluttanti a dargli torto: a riprova che l’uomo, al pari forse del padre e certo del nonno, era accettato come un nobile ad Ivrea. La causa, infatti, non finisce con la sentenza del 30 giugno 1211 e con la successiva trascrizione delle testimonianze rese in quell’occasione. La terza e penultima pergamena del nostro dossier ci conferma che il procedimento era stato riaperto, giacché il 4 maggio 1212 i giudici si pronunciarono nuovamente, e stavolta dettero ragione a Bongiovanni. Il documento si presenta non come una ricapitolazione della causa ma come una sentenza, redatta in triplice copia (benché solo una, e non autenticata, sia giunta fino a noi). A quanto pare, era accaduto che il vescovo, vinta la causa, aveva querelato nuovamente Bongiovanni, stavolta per chiedergli i danni: dieci lire d’interesse, per non aver prestato col cavallo il servizio richiesto. La sentenza trascrive il brevissimo memoriale accusatorio del Carta in cui si sostiene che i predecessori di Bongiovanni erano stati obbligati a tenere un cavallo a servizio del vescovo d’Ivrea (ed è quanto pareva accertato con la sentenza precedente, anche se stupisce un po’ che qui non si parli più di ronzino ma genericamente di equum) e che i loro possedimenti fondiari erano un feudo concesso dalla Chiesa d’Ivrea. Questa seconda affermazione ci fa capire che la linea difensiva di Bongiovanni era significativamente cambiata. Essendo stato dimostrato che i suoi predecessori avevano effettivamente messo a disposizione il cavallo, l’uomo rilanciò sostenendo che in ogni caso la sua terra non era affatto un feudo concesso dal vescovo, e che perciò lui personalmente non gli doveva niente. Il fatto è che all’epoca

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la giustizia civile, soprattutto nei casi come questo in cui era affidata ad arbitri scelti dalle parti, nonostante il formalismo delle procedure era poi soprattutto faccenda di pressioni e di amicizie, il cui peso era tanto più rilevante in quanto le cause si vincevano a colpi di testimoni. Per quanto la tesi apparisse paradossale alla luce della causa precedente, Bongiovanni d’Albiano trovò dei testimoni disposti a garantire che la sua terra non dipendeva affatto dalla Chiesa d’Ivrea. A questo punto gli arbitri si trovavano in grave perplessità, e infatti il prologo della sentenza riferisce che ricorsero al parere degli altri pari di curia, del consiglio comunale di Ivrea e di una commissione di esperti fatta venire da Vercelli. La soluzione fu che Bongiovanni doveva assumersi la responsabilità di sostenere la sua tesi fino in fondo, giurando che era vera e che non doveva nulla al vescovo. Bongiovanni giurò e i giudici sentenziarono che il vescovo non poteva pretendere nulla da lui. Ma la faccenda non finì qui, perché esiste un quarto documento, conservato in originale, e anch’esso datato 4 maggio 1212. È una dichiarazione dei giudici, registrata nel palazzo episcopale davanti all’assemblea plenaria di tutti i vassalli, alla presenza del podestà di Ivrea e dello stesso vescovo «sedente pro tribunali cum canonicis suis». Ser Oberto e ser Boamondo riconoscono di aver già sentenziato in passato nella causa contro Bongiovanni, condannando lui e i suoi fratelli «a servire d’ora in poi il vescovo d’Ivrea per il feudo che tenevano dalla Chiesa d’Ivrea con un ronzino, perché era un feudo di scudiero». I due giudici dichiarano «che se avevano detto qualcosa dopo, lo avevano detto salva la sentenza emessa prima e salvi i diritti della Chiesa»; come se non bastasse, ammettono che il vescovo già da tempo li aveva ammoniti a non procedere oltre nella causa, «perché il loro ufficio era finito perché era scaduto il loro triennio» – una nuova conferma del rigoroso formalismo con cui si procedeva (o si pretendeva di voler procedere) nella curia vassallatica d’Ivrea. La dichiarazione, in sostanza, vanificava la sentenza

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pronunciata il giorno stesso a favore di Bongiovanni: sia perché la subordinava comunque a quella precedente, sia perché i giudici ammettevano di averla pronunciata in un momento in cui il giudizio non competeva più a loro. La difficoltà di trovare una logica in un percorso così contraddittorio non è insolita quando si cerca di ricostruire l’andamento d’una causa giudiziaria medievale; e non solo per l’incompletezza del dossier, ma perché, ancora una volta, s’indovina che verbali e sentenze omettono troppi retroscena. La convocazione solenne dei due giudici da parte del vescovo, lo stesso giorno in cui avevano pronunciato la sentenza contro di lui – anche ammesso che i fatti abbiano davvero avuto luogo alla data dichiarata nel documento, il che non è da dare per scontato neppure con i documenti che produciamo oggi – fu un colpo di scena che spiazzò tutti, umiliando ser Oberto e ser Boamondo e costringendoli a rimangiarsi la seconda sentenza, oppure fu la via d’uscita concordata fra tutti gli interessati per uscire dal vicolo cieco in cui la causa sul ronzino era andata a finire, evitando che l’una o l’altra delle parti fosse accusata di spergiuro, e salvando la faccia di tutti? Sono domande a cui non è facile trovare una risposta nel caso specifico, ma che ci rivelano come la giustizia medievale non rispondesse alla stessa logica cui risponde la nostra. In un sistema in cui le dichiarazioni dei testimoni e il giuramento degli interessati erano spesso i soli mezzi di prova, arrivare a un accordo, anche non dichiarato, e permettere a tutte le parti in causa di uscirne con onore, poteva essere più importante che non distribuire equamente il torto e la ragione.

NOTA BIBLIOGRAFICA

I documenti analizzati si conservano nell’Archivio vescovile di Ivrea, presso la Biblioteca Capitolare di Ivrea, scaffale LXXII,

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mazzo I, e sono pubblicati da F. Gabotto, Le carte dell’archivio vescovile di Ivrea, Tipografia Chiantore-Mascarelli, Pinerolo 1900 (Biblioteca della Società Storica Subalpina, 5), docc. 59, 60, 64, 65. Per un’introduzione alla documentazione d’archivio medievale ci si può riferire a F. Valenti, Il documento medioevale. Nozioni di diplomatica generale e di cronologia, Ed. STEM Mucchi, Modena 1961, e A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Quasar, Roma 19993. Il punto storiografico sulla società feudale in Il feudalesimo nell’Alto Medioevo, Spoleto 2000 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, XLVII). Gli studi sulla giustizia medievale hanno conosciuto grandi progressi negli ultimi anni; per un confronto segnaliamo C. Wickham, Legge, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Viella, Roma 2000; M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, il Mulino, Bologna 2005. Un esempio memorabile di utilizzazione delle testimonianze processuali è E. Le Roy Ladurie, Montaillou, village occitan de 1294 à 1324, Gallimard, Paris 1975; trad. it. Storia di un paese: Montaillou. Un villaggio occitanico durante l’Inquisizione (12941324), Rizzoli, Milano 1977.

Storie di fantasmi, progetti di crociata Una fonte epistolare di Ottavia Niccoli

1. Sorprese da un grosso volume rilegato di blu Molti anni fa, trovandomi a Londra per un lungo soggiorno di studio, mi ero impegnata a leggere nella sua integrità un grosso volume rilegato di blu: il catalogo a stampa dei libri italiani pubblicati tra il 1465 e il 1600 posseduti dalla British Library. Era (ed è) uno strumento eccezionale, oggi solo apparentemente sostituito dall’Integrated Catalogue informatico. Dal quale però mai avrei potuto estrarre le informazioni che emersero allora, e che mi consentivano di soddisfare ogni curiosità che emergeva a fronte dei titoli che incontravo casualmente (lo storico Carlo Ginzburg ha scritto, tempo fa, sulla ricchezza delle ricerche nate per caso). Che cos’era, per esempio, una Littera de le maravigliose battaglie apparse in Bergamasca di Bartolommeo da Villa Chiara, stampato probabilmente a Roma da Gabriele da Bologna nel 1517? Una lettera? Ma che tipo di lettera? E di che parlava? Si trattava di un opuscolo di quattro carte della dimensione di un piccolo quaderno, nel formato che i tipografi chiamano “in quarto”, rilegato con molti altri in un volume miscellaneo. Sul frontespizio c’era il titolo, senza il nome dell’autore, e una vignetta che mostrava un letterato in abbigliamento classicheggiante nel suo studio (uno studiolo rinascimentale però), nell’atto di sollecitare un

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garzone che si affannava a portargli due grossi volumi: si sa che nella Roma dell’epoca in cui era stata pubblicata la stampa i letterati tenevano a riallacciarsi alla latinità. Quanto al testo, si trattava – come avvertiva il titolo – di una lettera, indirizzata da «Bartholomeo de Villachiara al suo charissimo misser Honofrio Bonnuncio veronese». Lo scrivente dava una notizia singolare, collocata esattamente nel tempo e nello spazio: De novo a Verdello de Bergamasca è apparso già viii giorni & continuamente persevera che per tre overo quatro fiate nel giorno se vede uscir fuora da un certo bosco con grandissima ordinanza et perfectissimo ordine bataglioni de fanti da x a xii millia fanti per battaglione.

Si vedono «gran capitanei e baroni a parlamento», poi quattro cavalieri incoronati che si incontrano con un altro personaggio di ancor maggiore dignità e magnificenza, et ivi non dopo molto ragionamento vedesi quello solo re con ferocissimo aspecto & di poca patientia armato cavarsi il guanto di mano che è di ferro, e gittarlo in aere e ad un tracto con turbosa vista scorlar [scrollare] il capo, & adrieto [indietro] voltarsi a l’ordine de sua gente, e in quello instante odesi tanti suoni de trombe, tamburri et nacare [si sentono tanti suoni di trombe, tamburi e nacchere] e terribilissimo strepito d’artiglieria non meno credo si faccia all’infernal fucina, che veramente altro non è da credere se non che da lì eschino [...]. Et veramente la cosa è di tanta terribilità che ad altro non la saperei assimigliare che alla propria morte.

Passata mezz’ora, tutto si quieta e non si vede più nulla. Chi si era avvicinato al luogo aveva visto solo un gran numero di porci che entravano nel bosco (all’epoca i maiali erano ancora allevati per lo più allo stato brado). Anche lo scrivente era stato sul posto con altri gentiluomini, ma aveva solo trovato tracce di pedate di uomini e cavalli.

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Però, aggiunge, «un paro de nostri sono amalati de paura. Hora pensate se è cosa da scherzo». La lettera si chiudeva a questo punto, con i consueti convenevoli («Tutto vostro raccomandate &c.»), e l’indicazione del luogo e del giorno: «Data in castello de Villachiara ad ventitre de decembre. Millecinquecentodecesette». 2. Un «reportage» del gennaio 1518 Potevo considerare questo opuscolo il semplice tentativo di smerciare una notizia inventata, fantastica e irrilevante. Però Verdello è un luogo che esiste davvero, appunto nel Bergamasco (un’area che all’epoca faceva parte della Terraferma veneziana). Anche Villachiara è un luogo esistente, è un castello presso Crema – circa a mezza strada fra Milano e Cremona – che sarà affrescato qualche anno dopo da una nota famiglia di pittori cremonesi, i fratelli Campi. E Bartolomeo da Villachiara è un personaggio storico ben identificato: era un militare di un ramo della nobile famiglia Martinengo, figlio del conte Vettore; aveva combattuto al servizio di Lorenzo Orsini da Cere, capitano delle fanterie veneziane, e proprio per le sue benemerenze nel 1516 era stato nominato conte di Villachiara dal doge della Repubblica di Venezia. Molte notizie su di lui emergono da un’altra fonte eccezionale per chi studia il Cinquecento italiano, e cioè dai Diarii di Marin Sanudo. Sanudo (1466-1536) era un nobiluomo veneziano che, nella speranza di essere delegato dalla Repubblica a scriverne la storia, tra il 1496 e il 1533 raccolse laboriosamente, giorno per giorno, tutte le notizie che giungevano in sua mano o al suo orecchio concernenti Venezia, l’Italia e l’Europa in cinquantotto volumi in folio: trascrivendo documenti, incollando stampe e disegni, riportando ogni genere di informazione privata e politica. Questa straordinaria opera è stata fortunatamente

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edita in forma pressoché integrale tra il 1879 e il 1902, e rappresenta quindi un prezioso aiuto per la ricerca. Un controllo sul volume XXV, che contiene le notizie raccolte tra il settembre 1517 e l’agosto 1518, fa in effetti emergere molte altre informazioni sulle visioni: già il 29 dicembre Sanudo segnala che «dove fu fato il fatto d’arme di francesi e sguizari» (cioè la battaglia di Agnadello, poco distante da Crema, dove nel 1509 i veneziani erano stati sconfitti dalla cavalleria francese e dai fanti svizzeri) si vedevano uscir da un bosco militari in armi e combattere, e aggiunge: «Par el conte Vetor da Martinengo, overo el Contin suo fiol [era il soprannome di Bartolomeo], mandò certo fameglio suo, qual andato più avanti dil dover, fo da queste fantasme o spiriti, o quello si sia, ben batuto». È la medesima notizia che Bartolomeo stesso aveva scritto pochi giorni prima: «un paro de nostri sono amalati de paura». Di seguito, le informazioni si accumulano. Ecco un’altra lettera – anzi la «copia di una letera, data in Brexa [Brescia], scripta per uno Antonio Verdello, data a dì 4 Zener 1517 [1518; l’anno a Venezia iniziava solo il 1 marzo] drizata a sier Polo Morexin qu. sier Marco, narra di quelle cosse si vede in Bergamasca». Magnifico patron et signor mio honorandissimo. V[ostra] M[agnificenza] mi richiede per sue letere li vogli avisar di le nove di bergamascha et scriverli la verità di questa prodigiosa aparitione, unde, per poterli dar de ciò più compita instrutione, ho investigato da diversi et copiosamente favelato con tre homeni degni di questo; ché non io solo, ma quelli stessi che sono stati a veder non sanno bene che afermar la verità; e questo è quanto ho inteso da lor con verità, e di quello che pretendano mi riporto al summo Dio infalibile cognitore di tutte le cose.

Il Verdello preseguiva poi dando conto dell’esito delle sue investigazioni. C’è una piccola chiesa dedicata a san Giorgio nella campagna di Bergamo, tra i villaggi di Verdello, Osio e Levate, e lì presso ci sono due cumuli di le-

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tame e un boschetto. Qui, da circa venticinque giorni, all’alba e al tramonto sono apparse cose grandi e meravigliose non a due o tre, ma a migliaia di uomini che vi si sono recati al fine di vederle. Segue la descrizione di ciò che gli intervistati raccontano di aver visto, diligentemente precedute dalla specifica «alcuni dicono... altri dicono... altri dicono... un altro dice...». Delle «cose grandi e maravigliose» di cui questi testimoni raccontano parleremo più avanti. Notiamo per ora che è davvero singolare come lo scritto di questo Antonio Verdello, che ha la forma retorica della lettera, e come tale è stato inviato a un destinatario, sia peraltro configurato come un vero e proprio reportage o un articolo di cronaca, ancor più della lettera a stampa di Bartolomeo da Villachiara. Ci sono l’insistenza sulla affidabilità dei testimoni, le precisazioni sul luogo e sul tempo, l’esposizione delle diverse versioni e la cautela nei riguardi della loro veridicità: insomma, il “dove”, il “quando”, il “come” del giornalismo moderno fanno la loro primissima apparizione, ma lo fanno in una lettera. Cominciamo dunque a chiederci che funzione avesse la comunicazione epistolare nell’Italia del primo Cinquecento. 3. Lettere del Cinquecento Scrivere lettere rappresenta – ha scritto il paleografo e storico della cultura Armando Petrucci – una pratica sociale che negli ultimi cinquemila anni ha visto impegnati milioni di individui di entrambe i sessi e di condizioni sociali e culturali assai diverse, con le finalità più differenti. È una pratica che nel Novecento ha resistito, pur vacillando, all’uso della comunicazione telefonica, ma ha visto quasi improvvisamente il suo pressoché totale esaurimento, o meglio, il suo stravolgimento, negli ultimi dieci o quindici anni, sotto la pressione schiacciante della posta elettronica e degli sms. Si tratta comunque di forme di scrittura, ma che

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hanno regole ben diverse rispetto all’uso epistolare tradizionale: comunicare oggi difficilmente richiede l’uso della carta e della penna. Perciò è giusto interrogarsi sulla storia di questa funzione essenziale dei rapporti interpersonali e sociali. Chi come me ha scritto e ricevuto molte lettere nella propria infanzia, adolescenza e giovinezza, ricorda bene le finalità e le forme in cui si costruivano questi componimenti nella seconda metà del Novecento; e certo si trattava di finalità e forme che potevano essere molto differenti da quelle in uso quattro o cinquecento anni prima. Riportiamoci dunque, sia pure molto sommariamente, al XVI secolo e alle sue pratiche in quest’ambito. Il dilatarsi degli spazi europei della fine del Medioevo, mettendo distanze anche ampie fra gli individui, rendeva opportuno mantenere fra essi qualche forma di contatto, e quindi sollecitò e favorì l’ampliarsi della comunicazione epistolare; nello stesso tempo, la creazione di più complesse strutture del potere statale richiedeva il controllo delle notizie e quindi l’organizzazione di un efficiente servizio di posta. Pensiamo a un affresco famoso, la Camera picta dipinta a Mantova da Andrea Mantegna fra il 1462 e il 1475 per il marchese Ludovico Gonzaga; al centro della raffigurazione vi è il marchese, circondato dai suoi familiari, nell’atto di ricevere una lettera: una immagine che illustra visivamente la centralità della corrispondenza epistolare nella vita e nel governo degli antichi stati italiani. Ma è il Cinquecento che vede nascere in Italia la lettera moderna, che è scritta in volgare, su carta, con una grafia che per lo più corrispondeva a quella che è stata definita “cancelleresca italica”, e che è alle origini del nostro corrente corsivo. La fortuna (e l’uso) di questa tipologia scrittoria e comunicativa fu all’epoca straordinaria, grazie ai servizi di corrieri che si infittirono nel corso del secolo e, prima ancora, grazie alla vittoria ormai definitiva sulla pergamena della carta, che oltre ad essere assai più economica consentiva una disinvoltura grafica molto maggiore.

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Anche l’affermazione della dignità letteraria del volgare italiano spinse ad allargare di molto i contenuti dello scambio epistolare. Essi potevano, com’è ovvio, toccare argomenti e spazi diversi: dalle questioni politiche a quelle letterarie, da argomenti legati alla pratica commerciale a soggetti amorosi a materie di comune conversazione. Questa varietà di temi accettati aiutò anche le donne – almeno le donne nobili e le monache, che più facilmente erano alfabetizzate – a prendere la penna in mano e quindi a impegnarsi nella corrispondenza, prevalentemente in lettere familiari o in lettere spirituali, dando e chiedendo notizie concernenti il corpo e l’anima, e contribuendo altresì, nel tempo, a costruire quell’aspetto psichico della modernità che è l’espressione dei sentimenti. Scriver lettere e riceverne divenne nel Cinquecento un segno di distinzione e di status, tanto che vi fu chi giunse a richiedere l’invio di lettere in bianco pur di poter dimostrare di avere corrispondenti fedeli e solleciti. Non sempre le lettere erano immaginate come fruibili da un unico destinatario. Ciò è ovvio per la corrispondenza politica: l’affresco mantovano di Mantegna ci mostra non un rapporto confidenziale fra uno scrivente e un lettore, ma una comunicazione allargata a un gruppo sociale, quello della corte gonzaghesca. Anche in situazioni meno elitarie, una stessa lettera poteva servire come tramite di comunicazione non fra due individui, ma fra due rami della stessa famiglia, e si presumeva che fosse letta da altri oltre che dal primo destinatario. Ciò valeva anche al di fuori della dimensione parentale, che vedeva talora una stesura pressoché collettiva delle lettere, con giunte di altri al termine del corpo principale della missiva. Anche quando lo scrivente era unico, spesso coinvolgeva nelle formule conclusive amici che si univano a lui per trasmettere i loro saluti al destinatario, oppure che erano fatti oggetto di comunicazione indiretta per il tramite di quest’ultimo. È quanto per esempio si riscontra nella corrispondenza dell’umanista Marcantonio Flaminio (1498-1550),

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un personaggio ampiamente studiato per il suo ruolo nel dibattito religioso del Cinquecento: le sue lettere trattano di una molteplicità di argomenti devoti e letterari, e sottintendono l’esistenza di una comunità di intellettuali i quali, condividendo interessi religiosi e culturali, comunicano attraverso una rete che non congiunge mai unicamente un mittente e un destinatario. Questo però non è tutto. Come è stato dimostrato anche di recente, l’esplosione del genere epistolare produsse indirettamente, a partire dalla fine degli anni Trenta del Cinquecento, una tipologia particolare di libro: quella delle raccolte editoriali di lettere, divenute così diffuse che negli ambienti intellettuali chi teneva una corrispondenza sapeva di esporsi al rischio – o alla possibilità – di vederla stampata, o come corpus unitario, o frammentata all’interno di antologie che mescolavano l’interesse per la varietà dei temi e l’eleganza dello stile all’attenzione alle tematiche religiose. Numerose lettere del Flaminio, che hanno appunto queste caratteristiche, ci sono note proprio attraverso la loro pubblicazione in raccolte consimili. In generale, molte lettere dell’epoca furono scritte pensando non solo al loro primo destinatario e alle persone a lui più vicine, ma all’ambiente culturale che poteva accoglierne la pubblicazione. Com’è ovvio, ciò favorì la formalizzazione retorica del genere epistolare e dunque la pubblicazione, nell’ultimo terzo del Cinquecento, di raccolte “per il segretario”, modelli pronti ad essere imitati o addirittura trascritti per ogni possibile finalità “di negozio” o “di complimento”: ringraziamento, raccomandazione, richiesta, conforto, e così via. 4. Copie di lettere, circolazione di notizie Agli inizi dell’età moderna, le lettere dunque sono lontane dall’avere quella caratteristica di rapporto personale e confidenziale che potremmo immaginare. Sono strumenti

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di comunicazione, fondamentali in primo luogo per la pratica mercantile. Già alla fine del Medioevo la capacità di tenere una adeguata corrispondenza epistolare, di seguire con lo scritto gli andirivieni delle merci e delle lettere di cambio per le strade e nei mari d’Europa, nonché le vicende politiche e militari che potevano intralciarli, era indispensabile per chi si impegnava in questo settore. Un mercante, scriveva Leon Battista Alberti, deve «sempre avere le mani tinte di inchiostro». La corrispondenza dei mercanti, come del resto ogni corrispondenza, conteneva però anche notizie non concernenti questioni commerciali. E se le notizie erano interessanti, dalla lettera si traevano copie che venivano trasmesse ad amici e conoscenti, e magari passate a personaggi noti per raccogliere le novità nelle loro cronache. È proprio il caso della lettera-reportage indirizzata da Antonio Verdello a Paolo Morosini ed evidentemente trasmessa a Marin Sanudo, che la copiò nei suoi diari. Non si tratta di un fatto eccezionale. Se scorriamo il diario del notaio e canonico orvietano Tommaso di Silvestro, ricco per gli anni dal 1482 al 1514 di notizie provenienti da tutto il territorio dello Stato della Chiesa, ci imbattiamo continuamente nell’espressione «venne lettera» o simili. Quelle di cui si parla, però, non sono lettere inviate a lui direttamente, bensì ad altri che le hanno trascritte e rinviate. Così ad esempio, nel maggio 1502, le notizie sui danni della grandine nel Senese arrivano a Orvieto, ma facendo un lungo giro: lo scrivente indirizza una lettera da Siena a un amico di ser Tommaso che vive a Roma e che ne ritrasmette copia a quest’ultimo. Anche documenti ufficiali subiscono la stessa sorte, e nel 1509 ser Tommaso può inserire nella sua cronaca la copia di lettere inviate al papa Giulio II dal doge di Venezia e dal re di Spagna. Portandoci un po’ avanti nel tempo, ai primi del Seicento, a Venezia poteva capitare che un nobiluomo che aveva ricevuto una lettera da Roma, ricca di informazioni politiche rilevanti per la situazione di conflitto in corso con il papato,

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la leggesse pubblicamente in una bottega di farmacista ai medici e agli avventori lì riuniti, e ne facesse copie: l’importanza della pratica aumentava quando la corrispondenza conteneva notizie di rilevanza pubblica. Ci rendiamo insomma conto che quella epistolare era una modalità comune di offrire informazioni utili o comunque importanti, o anche solo curiose e straordinarie, e di farle circolare, in un’epoca che non conosceva ancora la stampa periodica; e che non conosceva neppure – come accadrà nella seconda metà del XVI secolo – la compilazione di quegli “avisi” o “reporti” anonimi che della stampa periodica rappresentano gli antecedenti. Le “copie di lettere” passavano così di mano in mano. E poteva capitare che qualcuna di esse suscitasse l’interesse di un tipografo, che riteneva che potesse avere un pubblico ancor più vasto e dunque un mercato, e perciò la stampava: è il caso della Littera de le maravigliose battaglie dalla quale siamo partiti. Verso la fine del Cinquecento le stampe dal titolo “copia di lettera” divengono sempre più numerose. Alcune di esse hanno un contenuto particolare: sono le lettere che i gesuiti inviano dai luoghi di missione al Generale della Compagnia. Il loro contenuto viene diffuso a scopo di edificazione, per illustrare i successi dei padri e, in parallelo, le fatiche da essi sopportate per diffondere la fede; ma – come cogliamo da qualche titolo – ciò che poteva attrarre i lettori era anche il fascino dei luoghi esotici e dei drammatici casi che venivano descritti. È il caso, per esempio, di una Lettera del P. Alessandro Valignano, visitatore della Compagnia di Giesù nel Giappone e nella Cina del 1599 con un supplimento [...] nel quale si dà ragguaglio di casi strani ocorsi, mutationi di Regni, rovine e morti di gran Personaggi et di altre cose curiosissime, pubblicata a Venezia nel 1603, nella quale riconosciamo il capostipite di quei fortunati racconti di viaggio ai quali si sarebbe ispirato lo scrittore inglese Daniel Defoe per il suo Robinson Crusoe. In un certo senso, anche oggi il “copia e incolla” tele-

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matico della nostra contemporaneità finisce per riproporre una forma di circolazione dell’informazione che di nuovo contamina il privato con il pubblico: inoltriamo a terzi i messaggi che riceviamo, partecipiamo a blog, a social networks, ecc. Ma le forme e soprattutto i tempi con cui ciò accade sono così radicalmente diversi dal passato da farci percepire che si tratta di una somiglianza solo apparente. 5. Un grande tema folklorico Ma torniamo finalmente al contenuto delle lettere da cui siamo partiti. Se cerchiamo di cogliere gli elementi principali del racconto di Bartolomeo da Villachiara, possiamo identificarli nel luogo delle apparizioni, nella presenza in esse di un re terribile, nella battaglia che segue fra le due schiere di spettri e nel tremendo fragore che le accompagna. Il luogo in cui gli spettri combattono è, come aveva già osservato il Sanudo, vicino al campo della battaglia di Agnadello. Dunque gli spettri – che sembrano usciti dall’inferno, scrive Bartolomeo – combattono sul campo di un’antica battaglia, in mezzo ad un fragore spaventoso, guidati da un re terribile. Sulla base di questi appigli, consultai il prezioso repertorio di Antti Aarne e Stith Thompson, Types of the folktale: a classification and bibliography, che diede una risposta alle mie domande. Quello che veniva rievocato da Bartolomeo da Villachiara era il mito dell’esercito furioso: una credenza di origine germanica diffusa in buona parte d’Europa – e, come vediamo qui, presente anche nella pianura lombarda – secondo la quale i morti di morte prematura e violenta, e in particolare i guerrieri morti in battaglia, erano destinati a vagare per l’aria o sul luogo in cui avevano trovato la morte. Essi sono condotti in mezzo a un fragore spaventoso da una guida infernale, che nella mitologia germanica è il dio Wotan, mentre in alcune successi-

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ve tradizioni è il demone Hellechin o Herlequinus (dal quale deriverà, attraverso infinite trasformazioni, la maschera di Arlecchino), in altre ancora Dietrich von Bern, cioè il re ostrogoto Teodorico, nel quale potremo dunque identificare il «re con ferocissimo aspecto e di poca patientia armato» descritto da Bartolomeo. Riprendiamo ora la lettera di Antonio Verdello «scripta» in «Brexa» il 4 gennaio 1518, e tocchiamo con mano come i vari testimoni da lui intervistati descrivano le apparizioni cercando – più o meno confusamente – di adeguare la loro esperienza a una tradizione mitica che doveva essere loro più o meno familiare. Alcuni dicono di aver visto un gran numero di armati e di carri correre per i campi in mezzo a nuvole di polvere; altri scorgevano solo ombre simili a uomini senza capo; altri ancora un numero infinito di animali: porci, o pecore, o buoi (animali presenti anche nella tradizione dell’esercito furioso). Un «homo da bene» guarda a lungo senza veder nulla e solo alla fine crede di distinguere due ombre decapitate avanzare sulla neve e poi sparire. Comunque alcuni, conclude Verdello, hanno avuto «tal paura che ne sono amalati». Ci rendiamo così conto della grande capacità del mito – di questo mito, o di altri miti – di imprimersi nella mente umana e di generare immagini culturali che si trasformano in immagini visive, con maggiore o minore efficacia, sufficiente comunque a far ammalare più d’uno per l’emozione e lo spavento. In questo caso, non ha senso chiedersi “che cosa è realmente accaduto” nella Bergamasca del 1518, come il grande storico tedesco dell’Ottocento Leopold von Ranke riteneva fosse il compito obbligato di ogni storico. Se scegliessimo di seguire l’indicazione di Ranke, dovremmo limitarci a citare ciò che scrisse a suo fratello il 12 gennaio (e venne in mano in copia a Sanudo) Gian Giacomo Caroldo, rappresentante della Signoria veneziana presso il governatore francese di Milano Odet de Lautrec: «Alcune simplice persone hanno veduto li fumi di sopra alcuni ledami, et hanno, per el gran timor, exixti-

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mato che siano homeni d’arme». Ma in ogni caso rimarrebbe da spiegare perché queste “semplici persone” credessero di vedere, nei vapori che si sprigionano d’inverno sopra un mucchio di letame, proprio una schiera di spettri combattenti. Solo se superiamo il suggerimento di Ranke possiamo tentare di raggiungere i pensieri, le credenze, le immagini mentali degli uomini del passato: pensieri, credenze, immagini che sono importanti come le loro azioni, e che spesso le guidano. 6. Le «maravigliose battaglie» in mano a Leone X e a Francesco Guicciardini La vicenda che ho raccontato andò incontro a una notorietà straordinaria per tutta l’Europa. La lettera di Bartolomeo da Villachiara ebbe anche un’altra versione a stampa leggermente diversa, che servì come base per la traduzione in francese (pubblicata in almeno due edizioni diverse) e in tedesco. Quest’ultima – destinata ad un pubblico al quale il mito dell’esercito furioso era ben noto – inseriva nel titolo un riferimento a Dietrich von Bern, identificando dunque esplicitamente in Teodorico il re “di ferocissimo aspetto” che dà inizio alla battaglia infernale. La notizia dei combattimenti di spettri uscì dunque dagli spazi geografici e politici dello Stato di Milano e della Repubblica di Venezia, si diffuse in Francia, in Germania e (nel febbraio) in Spagna. In territorio italiano, giunse sino a Roma e alle mani del pontefice regnante Leone X. Il 21 gennaio, racconta Sanudo, il papa lesse ai cardinali riuniti «alcune letere di le aparizion di Bergamo, dicendo a li cardinali è segnali ch’el Turco ne verrà adosso di la cristianità». Quindi, avendo avuto anche notizia dei movimenti militari della potenza ottomana, il papa aveva scritto ai principi cristiani al fine di ottenere il loro aiuto finanziario, e il 14 marzo 1518 venne indetta una crociata,

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per la quale vennero celebrate processioni e inviate comunicazioni ai sovrani europei. La crociata non si fece mai, ma la lettera di Bartolomeo – che probabilmente era giunta in mano al papa in copia manoscritta – a Roma fu stampata (non nel 1517, come indicato dal catalogo da cui siamo partiti, ma agli inizi del 1518), e da Roma riprese la sua circolazione per l’Italia e l’Europa. Al fiorentino Francesco Guicciardini, allora a Reggio Emilia come governatore pontificio, le notizie dei movimenti del Turco e delle battaglie di spettri arrivarono insieme fin dai primi di gennaio di quel 1518. L’8 gennaio, il futuro autore della Storia d’Italia e dei Ricordi inviò all’amico Goro Gheri copia di una lettera un po’ diversa da quelle che abbiamo visto sinora, in cui si diceva che delle apparizioni «la brighata faceva giuditio di combattimento di gran signori»: intendendo che il giudizio popolare ne traeva il preannuncio di ulteriori guerre e invasioni straniere per il possesso dello Stato di Milano. La terribile battaglia di Melegnano del 1515 lo aveva assegnato ai Francesi, ma incombeva la possibilità che il nuovo giovane re di Spagna, Carlo – il futuro imperatore Carlo V – avesse pretese in proposito. A Roma, invece, era piuttosto il timore della potenza ottomana a dominare, e le visioni della Bergamasca erano apparse al papa un buono strumento di propaganda per sollecitare i principi cristiani ad abbandonare i loro contrasti e unire le loro forze contro il Turco. Il 19 gennaio, Francesco Guicciardini scrisse al Gheri: El prodigio è sparito, ma è confermato da tanti luoghi che io per me non me ne fo beffe, e massime intendendosi tante preparazioni del Turco, e potendosi credere che ora sia come per el passato, che le cose grande sono state significate innanzi con prodigi grandi.

L’allusione finale di Guicciardini è alla grande tradizione della divinazione classica: in particolare al De divi-

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natione di Cicerone, che era ben presente nella cultura italiana del Rinascimento, e che con la sua forza poteva in qualche modo contaminare e assorbire tradizioni folkloriche altre. Con le parole del grande storico fiorentino possiamo concludere. La ricerca ci ha condotto a constatare la presenza viva nell’Italia settentrionale di un mito di origine germanica e, nello stesso tempo, a sfiorare le grandi linee della politica cinquecentesca: le lotte fra le potenze europee per la conquista degli stati italiani, la minaccia turca sul Mediterraneo. I piani della tradizione folklorica, della cultura “alta” e della propaganda politica potevano sovrapporsi e interferire l’uno con l’altro: tutto ciò può dirci molto sulle forme della vita culturale e politica italiana degli anni che segnano il passaggio fra Medioevo ed età moderna. Infine, lungo la strada della ricerca ci siamo imbattuti nel significato e nella pratica della corrispondenza epistolare nell’Italia del Cinquecento, e abbiamo intravisto le modalità con le quali avveniva allora la comunicazione delle notizie. Tutto questo, partendo dal ritrovamento casuale – entro i giganteschi fondi librari di una grande biblioteca – di un opuscolo apparentemente irrilevante che riproduce una lettera e da una copia di un’altra lettera.

NOTA BIBLIOGRAFICA

La vicenda illustrata qui è stata da me trattata più estesamente, con molti riferimenti fattuali e bibliografici al mito dell’esercito furioso, ma senza porre attenzione al tema della circolazione epistolare delle notizie (che ho invece trattato in Visioni e racconti di visioni nell’Italia del primo Cinquecento, in «Società e storia», n. 28, 1985, pp. 253-273), in I re dei morti sul campo di Agnadello, in «Quaderni storici», n. 51, 1982, pp. 929-958, poi rimaneggiato e ampliato in Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 20072, pp. 89-121. Il catalogo a stampa cui

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si allude nel testo è lo Short Title Catalogue of Books Printed in Italy and of Italian Books Printed in Other Countries from 1465 to 1600 Now in the British Museum, Trustees of the British Museum, London 1958. Le osservazioni di C. Ginzburg sulle ricerche nate in maniera fortuita (nel suo caso grazie ai cataloghi elettronici) in Conversare con Orion, in «Quaderni storici», n. 108, 2001, pp. 905-913. Su Bartolomeo Martinengo da Villachiara e il suo castello cfr. P. Guerrini, Una celebre famiglia lombarda: i conti di Martinengo. Studi e ricerche genealogiche, Tipografia Geroldi, Brescia 1930, pp. 484-489, e Storia di Brescia, II, Morcelliana, Brescia 1963, in particolare le pp. 717-719. Per Sanudo cfr. Diarii di Marino Sanuto, a cura di R. Fulin, F. Stefani, N. Barozzi, G. Berchet, M. Allegri, Visentini, Venezia 1879-1902. Le citazioni dal vol. XXV alle coll. 167, 187-90, 209, 219. Sulle lettere e sullo scriver lettere, in particolare nel Cinquecento, cfr. A. Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, Laterza, Roma-Bari 2008; Briefe in politischer Kommunikation vom Alten Orient bis ins 20. Jahrhundert. Le lettere nella comunicazione politica dall’Antico Oriente fino al XX secolo, a cura di Ch. Antenhofer, M. Müller, V&R Unipress, Göttingen 2008 (e specialmente Ch. Antenhofer, M. Müller, Le lettere nella comunicazione politica. Introduzione, pp. 31-52); La lettera familiare, a cura di G. Folena, «Quaderni di retorica e poetica», I, Eurograf, Padova 1985. Sulle lettere femminili cfr. Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia. Secoli XVXVII, a cura di G. Zarri, Viella, Roma 1999, e in particolare G. Zarri, Introduzione, pp. IX-XXIX e T. Plebani, La corrispondenza nell’antico regime: lettere di donne negli archivi di famiglia, pp. 43-78. Per la storia postale cfr. C. Fedele, M. Gallenga, “Per servizio di Nostro Signore”. Strade, corrieri e poste dei papi dal medioevo al 1870, «Quaderni di storia postale», n. 10, Mucchi, Modena 1988, e K. Beyrer, Brieftransport in der Früheren Neuzeit. Entwicklung und Zäsuren, in Briefe in politischer Kommunikation cit., pp. 169-183. Sugli avisi: M. Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII), Laterza, Roma-Bari 20052. Le Lettere di Marcantonio Flaminio sono state edite da A. Pastore, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1978; sulle raccolte editoriali di lettere vedi L. Braida, Libri di lettere. Le rac-

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colte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e “buon volgare”, Laterza, Roma-Bari 20092. La citazione di Leon Battista Alberti in Id., I libri della famiglia, a cura di R. Romano, A. Tenenti, Einaudi, Torino 1969, p. 251. Per Tommaso di Silvestro: Diario di ser Tommaso di Silvestro, a cura di L. Fumi, «Rerum Italicarum Scriptores», XV, V, Zanichelli, Bologna 1922, pp. 285 e 710-716. Per le lettere lette nella farmacia veneziana: F. De Vivo, Information & Communication in Venice. Rethinking Early Modern Politics, Oxford University Press, Oxford 2008, pp. 176-179. Del repertorio di Aarne e Thompson esistono diverse edizioni riviste e ampliate, l’ultima delle quali del 1981 (Academia Scientiarum Fennica, Helsinki). Per le lettere di Guicciardini: G. Cambi, Istorie, in Delizie degli eruditi toscani, t. XXIII, Cambiagi, Firenze 1786, p. 131, e F. Guicciardini, Carteggi, a cura di R. Palmarocchi, II, Zanichelli, Bologna 1939, p. 240.

Il consumo a Venezia Una fonte contabile di Giovanni Levi

1. Una rivoluzione dei consumi? Per buona parte del Novecento, gli storici dell’economia in età moderna hanno messo al centro della loro attenzione il momento della produzione dei beni, ritenendo che questo fosse il motore della trasformazione capitalistica; i “modi di produzione” hanno governato le ricostruzioni del passaggio dal precapitalismo al capitalismo. Ma a partire dall’ultimo quarto del XX secolo – non a caso, nel momento in cui le economie del “socialismo reale” inauguravano la loro crisi finale, legata proprio a una divario colossale con i processi di consumo delle società occidentali – è cominciato il dibattito sulla cosiddetta “rivoluzione del consumo”: un consumo generalizzato di beni ordinari e non di lusso, riconosciuto come premessa fondamentale della rivoluzione industriale. Indubitabilmente, dalla metà del Seicento in Olanda e in Inghilterra, poi in tutta Europa fra Sette e Ottocento, il consumo divenne un fenomeno dilagante e veramente rivoluzionario, per le sue dimensioni che investivano un numero sempre più grande di famiglie. Ma davvero, prima, il consumo era ristretto? Davvero era ampio e libero solo per fasce limitate di popolazione, per le élites e per l’aristocrazia? Se vogliono rispondere a domande del genere, gli storici devono porsi – come sempre nel loro mestiere – il pro-

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blema delle fonti. È possibile misurare i consumi dell’età moderna nella loro varietà e nella loro dinamica, al di là delle necessità alimentari di base e dei beni che passano per il mercato, e i cui prezzi sono misurati dalle rilevazioni pubbliche dei prezzi delle merci, le cosiddette mercuriali? Per ricostruire i consumi del passato, spesso si sono usati gli inventari post mortem, cioè gli elenchi dei beni che si trovavano nelle case, e che venivano descritti e valutati dai notai per permettere la distribuzione fra gli eredi. Senonché un inventario descrive beni accumulati in più generazioni, tanto che non sappiamo se i vestiti erano nuovi o ereditati, o se i libri di una biblioteca ci descrivono la cultura di chi li possedeva oppure solo una continuità possessoria familiare. In alternativa, spesso si è fatto ricorso a una lettura storiografica che possiamo chiamare “per apparizioni”: quando e in che quantità compaiono il caffè, il thé, tessuti non prodotti in casa, cibi non prodotti sul luogo, attrezzi e oggetti nuovi rispetto a uno standard precedente. Così, oggi sappiamo molto sui consumi dopo una certa data della storia d’Europa, dopo la rivoluzione industriale; ma abbiamo un’idea piuttosto oscura sul prima, su come ha funzionato quel rapporto fra cultura, psicologia, tradizione che ha organizzato i consumi: un meccanismo complesso e rilevante, che ci può dire molte cose sulla società dell’antico regime. 2. I conti della spesa Iniziamo dunque dal problema delle fonti, partendo da una constatazione banale: in molte case di oggi – nella mia, ad esempio – si possono trovare i libri della spesa delle madri o delle nonne. La politica del consumo familiare vi è seguita giorno per giorno con una straordinaria minuzia secondo regole condivise di economia domestica, tardo residuo delle fonti di cui parlerò successivamente. In un’a-

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genda stampata proprio per registrare le spese domestiche (il che ci conferma la gran diffusione di questa procedura contabile), compilata da mia nonna, in un giorno di ottobre del 1917, ad esempio, troviamo: Carne 8.40 lire Tram 0.40 Mele 1.30 Giornale 0.05 Peperoni 0.40 Entrate 7.50 da Marianna per tovaglia vendutagli.

Dunque le spese quotidiane, e anche le entrate per lavori fatti in casa. Possiamo trovare qualcosa di simile per l’epoca preindustriale? Non solo è possibile, ma – al contrario dei nostri archivi pubblici, che raccolgono solo carte familiari di famiglie importanti – esistevano allora istituzioni incaricate di raccogliere conti familiari privati. Ed erano conti assai più dettagliati e generali delle agende dell’economia domestica otto-novecentesche, perché registravano anche le entrate, le spese di investimento, i risparmi: la gestione contabile generale della vita economica della famiglia. In molte società di antico regime, la scomparsa del capofamiglia creava spesso la necessità di nominare un tutore che gestisse i beni della famiglia, in particolare se vi erano presenti minorenni, “pupilli”. Era una tutela svolta in genere da un parente stretto, maschio nella gran maggioranza dei casi; se era svolta da una donna, essa era quasi sempre affiancata da una figura maschile. Non si trattava solo di minori, ma anche di persone per varie ragioni non in grado di gestire i propri affari, come i paralitici o i mentecatti. Né si trattava sempre di morte del padre. Poteva dare luogo alla nomina di un tutore anche una lunga assenza (un viaggio lontano, per esempio). Non tutti gli antichi stati italiani crearono una istituzione particolare a questo scopo, ma sempre la resa dei

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conti doveva avere un aspetto giuridicamente garantito. A Torino, capitale del Ducato di Savoia, la contabilità della gestione era affidata a un atto notarile sotto la dizione appunto di “resa di conti”, il che permetteva ai minori divenuti maggiorenni di verificare e eventualmente contestare la contabilità. A Venezia, capitale della Repubblica Serenissima, era invece una delle giudicature di palazzo – il Giudice di Petizion – a occuparsene: a raccogliere gli atti e a dirimere le eventuali contestazioni, creando così un grande e affascinante fondo archivistico di bilanci familiari che coprono oltre tre secoli, dal Cinque al Settecento. E di Venezia in particolare mi occuperò qui, avvertendo tuttavia che i casi coperti sono relativamente pochi rispetto alla quantità di famiglie che avevano perduto il proprio gestore effettivo (poco più di un centinaio per secolo), e che in genere tali casi riguardano famiglie con un certo patrimonio. Peraltro, in archivio si trovano livelli di ricchezza molto differenziati, e talvolta anche piuttosto poveri. Non si tratta di documenti omogenei. Non seguivano una regola organizzativa precisa, ma registravano tutte le entrate e le spese con diversi gradi di disaggregazione: dalla registrazione quotidana, voce per voce, a una registrazione più sintetica. Non se ne può fare dunque utilmente una lettura quantitativa e seriale, che sarebbe di poca utilità, ma piuttosto una lettura qualitativa e, potremmo dire, etnografica: perché, in alcuni di questi documenti, è la vita quotidiana che si riflette con una evidenza minuziosa e stupefacente. Le contabilità di cui disponiamo ci danno un’immagine dinamica, quasi cinematografica, dei consumi di varie famiglie veneziane: sono storie di vita che coprono molti anni e sono piene di annotazioni sulle motivazioni delle scelte, sulle opinioni, sulle contraddizioni, sui calcoli giusti o sbagliati, sugli accidenti e sulle complicate strategie che la cultura del consumo rifletteva, mescolando gusti alimentari, tipologia del vestiario, spese devozionali, scelte scolastiche, letture, fortune e disgrazie. Do un esempio so-

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lo quantitativo della somma delle spese – registrate ogni giorno per poco meno di due anni, durata della tutela – della famiglia della nobildonna Isabella Soranzo, vedova del fu Lorenzo Donà, dal settembre 1635 al luglio 1637: Spese diverse 2254 lire Spese di vivere 2648 Tanse e decime 7161 Spese di legne e carbone 828 Spese per fabbriche 214 Spese ai mulini 388 Spese di lite 1108 Spese di vestire 1109 Spese di salari 1960.

In questo caso i mulini erano di proprietà, le imposte pagate molto alte (il 40% delle uscite), e le spese giudiziarie anche (oltre il 5%), cosa comune nella rissosa vita veneziana dell’età moderna. Ecco invece un dato quotidiano della famiglia dello speziale Francesco Bertasi, l’11 dicembre 1665, che riporto come esempio di una contabilità ricchissima di informazioni di ogni tipo, specialmente alimentari: Pesce e minestra 1 lira e 4 soldi Olio 1.14 Una scoveta e battifogo 0.14 Speso in vino 1.6 Speso a cena 0.12 Salata (insalata) 0.2.

3. Consumare, ma come? Lorenzo di Bianchi era piuttosto ricco, perché possedeva a Venezia tre case ed era socio di una bottega di «marzer all’insegna della Luna», dove si vendevano stoffe. Morto di peste nel luglio 1631, lasciava tre figli piccoli, Bortolo, Pellegrin e una figlia di cui non si dice mai il nome, oltre

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alla vedova Giustina. Loro tutore sarà Costantin Piazzalonga, «oste all’Orso», in collaborazione col cognato del defunto, Piero Golin. Gestiranno il patrimonio di famiglia per nove anni. Il funerale in tempo di peste è molto costoso: intanto ci vuole il permesso dell’ufficio di Sanità, che costa 155 lire, poi ci voglion due casse, una dentro l’altra e calce viva da metter nella cassa e bisogna «maltar» la fossa per 27 lire; bisognerebbe poi seppellire Lorenzo nella fossa comune (si spendono 6 lire), ma si ottiene che sia seppellito nella tomba di famiglia: è scritto infatti «dati per far una fosa in giesa a San Tomaso ma poi non si sepellì in detta fosa ma ben in sua arca». E poi altre spese e mance ai pizzigamorti e ai preti per 121 lire, e messe ai Frari e a San Tomà, per 97 lire e 84 lire di ceri. Insieme c’era il problema di liberare due delle serve di casa, Laura e Anna, dal lazzaretto, il che era costato 254 lire. E ancora tutta l’operazione di disinfettar la bottega – operazione eseguita dai pizzigamorti agli ordini d’un sovrastante – con acqua salsa e incenso e profumi con un mastello e una spugna, per 28 lire. Infine ci sono 147 lire di spese arretrate per alimenti e medicine per Lorenzo in agonia, il fitto della casa «dove morse» (era stato portato lontano per evitare il contagio) e anche le medicine per i bambini «come disse il medico», specialmente un’acqua comprata allo speziale della Colonna. In totale, le esequie di Lorendo di Bianchi costano 919 lire, oltre il 25% delle normali entrate annue della sua famiglia. A loro volta le spese annue per mantenere la vedova e tre bambini, che oscillavano fra le 3500 e le 4000 lire, riguardavano per il 33.6% l’alimentazione (di cui un terzo era per l’acquisto di vino), per il 13.2% il vestiario, per il 3.7% la legna per cuocere e scaldare, per il 12.8% le imposte; il 17.8% era per la riparazione delle case e il 7% per le spese legali, mentre il 5.5% era per l’istruzione dei due maschi (e nulla per la femmina). Ho scelto tale esempio per mostrare la minuzia con cui

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ogni voce era registrata, e anche per mostrare come questo tipo di annotazioni porti sotto i nostri occhi con evidenza una quotidianità aperta a infiniti suggerimenti e domande. Il funerale e le attività relative durano dal 2 luglio al 17 agosto, ma già dal 3 luglio la vita dei tre bambini e della vedova Giustina è seguita dai tutori giorno per giorno, a cominciare dall’acquisto di cibo. Il 3 luglio carne e peri, il 4 pesce, il 5 carne e pesce, il 6 asparagi, carne, marasche e peri, e così via. Pane, vino, farina, aceto, formaggio e olio si comprano quando occorre, al contrario dei cibi freschi che si comprano ogni giorno. Non se ne dice la quantità, ma il prezzo sempre. Il cibo è molto vario, comprende diversi tipi di pesce, capponi, lenticchie, risi, torrone, melograni, uova, meloni, ecc. Lo storico dispone così di una contabilità quotidiana che dura nove anni, e che include le spese di vestiario col dettaglio delle stoffe, delle guarnizioni, della fattura, le scarpe, il maestro per i «fantolini», la gestione del patrimonio, l’affitto della bottega, i restauri della casa, le spese legali e notarili per la gestione del denaro depositato in Zecca, il pagamento delle imposte. Con quali denari? Lorenzo possedeva varie case – una in ghetto, una a santa Marina e una al ponte de l’Aseo – date in affitto, e di un buon deposito in Zecca. Le entrate furono integrate vendendo gioielli e mobili di casa. La bottega di stoffe – gestita dal socio Francesco Vole, che muore nel 1638 – venne poi chiusa definitivamente, dando un piccolo saldo attivo alla gestione che da tre anni era in passivo. A fine gestione, resteranno le case e i denari in Zecca, come risorsa dei due figli ormai maggiorenni. Molto diverso il caso di Joel Grassini, ebreo, anche lui morto di peste nel luglio 1631, la cui contabilità è tenuta da Caliman e Ventura Grassini, suoi fratelli, e dal socio Mazo Bordolan, dal 1631 al 1662. Le spese di sepoltura sono poche: 86 lire «per barca per la sepoltura, per li fanti di sanità, robbe per vestirlo, bollette, telle e peota» (il barcaiolo), 118.12 lire «alla fraterna per la sepoltura così dal-

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la medesima tassata», 39.12 di «olio per la luse per la scola e al noncelo» (il becchino), 2 lire per profumar la casa. Poi tutta la gestione riguardante la riscossione di fitti, il pagamento di pegni ricevuti che vengono riscattati, la riscossione di pegni e oggetti non riscattati venduti, mobili, vestiti, gioielli, e 42 libri ebraici. Caratterizza questa contabilità il fatto che molte entrate e spese sono reciproche compensazioni, valutate in denaro, ma senza passaggio di denaro: la dote della vedova per oltre 3000 lire è pagata «in tanti mobili consegnati a madonna Anna vedova di detto Joel a conto pagamento di dote»; il maestro dei figli di Joel – che è il rabbino Abram Calimani – viene pagato con trasferimento di interessi per denari depositati nella fraterna, e bonificandogli il fitto di casa; molti dei debiti e dei crediti vengono pagati con scambio di oggetti, vestiti, mobili. Anche la bottega in cui Joel esercitava con un socio e la casa dove questi abita sono pagate affittando ad altri una casa più grande e una bottega nel sottoportego al banco di Jacob Pappo, con un saldo positivo. Si tratta naturalmente non di proprietà, vietate agli ebrei, ma di diritti di possesso, mentre la casa che abitano i Grassini è del nobile Michiel. Va infine notato che le spese di istruzione dei figli di Joel sono alte: 12 lire al mese per due figlioli, ma con l’aggiunta di molti extra, ad esempio 18.12 lire al rabbino Calimani «per aver insegnato una predica al putto». Anche le spese comunitarie sono alte: la tassa per i poveri pagata ogni anno, la tassa comunitaria da pagare alla Repubblica, le 44.13 lire pagate alla beneficenza della sinagoga «al tempo della peste, per sua protezione». 4. Il consumo non mercantile Fin qui la fonte ci dice cose generali: al di là del suo fascino, del ritratto di una vita quotidiana seguita giorno per giorno, lascia aperte tutte le questioni più essenziali. In-

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nanzitutto quella che ci dice che livelli differenti di ricchezza e di reddito mutano le percentuali a cui le spese sono destinate. La cosiddetta legge di Engel è troppo nota per soffermarci su di essa in questa sede: «più il reddito d’un individuo o d’una famiglia è grande, più esso offre i mezzi necessari per soddisfare tutti i bisogni dell’esistenza. Meno è grande, più la quota parte delle spese di ordine fisico e materiale è considerevole e meno resta per le spese di ordine religioso, morale, intellettuale e, in genere, per le spese di lusso», dunque «più è considerevole la parte che deve essere impiegata per il solo nutrimento». Va peraltro osservato che molte delle spese «di ordine morale» si trovano presenti a ogni livello di ricchezza, tanto da essere considerate equiparabili a spese «di ordine fisico e materiale»: a cominciare dalle spese religiose, per giungere a quelle di significato simbolico, che riaffermano la posizione che si vuole mostrare nella società. Ma i nostri documenti mostrano anche altre cose, meno evidenti. In effetti, il discorso sulla rivoluzione dei consumi ha offuscato molte delle domande su come si consumava prima, quasi a suggerire una rigidità automatica del consumo nelle società precedenti: trascurando dunque gusti e strategie, scelte e relazioni. In particolare, si è rinunciato a guardare all’interno della famiglia, suggerendo un consumo omogeneo di tutti i membri. Si è fatto prevalere così un aspetto “fotografico” del consumo, senza relazione con il ciclo di vita della famiglia. E si è trascurato un elemento fondante, l’ideologia del consumo: per cosa, ed entro quali limiti, i comportamenti erano ritenuti ideologicamente legittimi o illegittimi. Proprio qui sta uno dei grandi problemi della teoria e della storia economica: gli aspetti soggettivi dei consumi hanno riferimenti alla cultura individuale e di gruppo e, per quanto non si voglia negare che le spese per il consumo siano principalmente determinate dal reddito, non possiamo evitare la sensazione che qualcosa sfugga sem-

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pre. Lo stesso concetto di reddito pone immediatamente un problema rispetto al comportamento dei consumatori: il reddito corrente, o quello atteso e previsto secondo le scelte professionali e di investimento fatte, o quello più alto che abbia in passato determinato le scelte di consumo? L’inerzia nei comportamenti, e il fatto che un consumo adottato sia difficile da abbandonare, ci suggeriscono vischiosità che constatiamo anche oggi, nella fase recessiva in cui stiamo vivendo. La relazione consumo-reddito, dunque, a parte la sua evidenza tautologica, non è sufficiente a spiegarci i comportamenti dei consumatori. Se non si esaminano i comportamenti disaggregati del consumo in epoche precontemporanee si introducono alcuni vizi nella nostra raffigurazione del passato: nascondendo certe continuità, e immaginando una liberazione dalla “tirannia della penuria” come derivata solo da fattori economici e non come effetto di una rivoluzione culturale che ha trasformato la società, allontanando il consumo dalla tradizionale gerarchia degli status. L’immagine di una società preindustriale dominata dalla necessità si è conservata a lungo, troppo a lungo nella storiografia, finendo per suggerire un salto netto da un’epoca della scarsità a un’epoca dell’abbondanza. Ma sottovalutare la complessità e la dimensione del consumo prima del Settecento produce una lettura ottimistica della nuova società capitalistica, e crea un’illusione ottica contro cui mi pare legittimo avanzare un’ipotesi: la rivoluzione del consumo non è una espansione della domanda tout court, ma un’espansione della domanda di beni mercantilizzati. Prima – nell’Europa medievale e della prima età moderna – prevaleva non tanto un’economia della scarsità ma piuttosto un consumo non mercantile, che rappresentava una quota importante della acquisizione di prodotto: non solo nelle famiglie aristocratiche, a maggior ragione in quelle artigiane e dei piccoli commercianti, oltre che in quelle dei contadini e dei lavoratori senza proprietà.

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Tale consumo riguardava non soltanto i prodotti alimentari, ma anche il fabbricare tessuti in casa, prodursi oggetti, farsi il pane, eccetera. Nella contabilità della famiglia Mutti, ad esempio, sono comuni notazioni come questa: 30 agosto 1664 8 libbre di lino muneghin per filar in casa 26 settembre far tesser un par de calze 11 novembre 2 libbre di lino ordinario per casa 12 dicembre sacchi 29 formento e 40 sacchi formenton per uso di casa.

E dopo la rivoluzione dei consumi, se pensiamo alle condizioni miserabili della classe operaia dell’Ottocento, o alla diffusione della pellagra fra contadini che mangiavano esclusivamente mais, c’è da domandarsi fin dove i nuovi consumi fossero arrivati; e se non si sia in parte trattato di un’illusione ottica che nasconde la vera trasformazione, cioè la mercantilizzazione di quanto prima non passava per il mercato. Non è un caso che nelle campagne del Nord Italia il Settecento veda l’enorme diffusione del mais (che raggiunge il doppio del frumento in quantità), mentre il frumento, stazionario come quantità prodotta, vede la sua presenza sul mercato crescere di molto perché sottratto al consumo contadino ormai fatto esclusivamente di polenta. Non una rivoluzione agraria ma una rivoluzione della mercantilizzazione dei prodotti pregiati, che non conoscono aumenti consistenti di rese. Del resto, i precoci sviluppi manifatturieri in Olanda e Inghilterra sono spesso stati spiegati con la necessità nuova e mercantile di vestire gli schiavi delle colonie, sostituendo il dispendio di energie della produzione domestica. Evidentemente non voglio esagerare questa contrapposizione, né negare che una grande trasformazione nei consumi ci sia stata davvero, dal tardo Seicento inglese e olandese al Sette-Ottocento continentale; voglio piuttosto sottolineare che dietro tutto questo c’è una società d’antico regime che va indagata meglio, e c’è una trasformazio-

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ne culturale che ha preceduto e accompagnato quella economica. 5. Il ruolo della disuguaglianza Una differenza fondamentale delle società preindustriali rispetto alla nostra società è il ruolo della disuguaglianza, anche all’interno delle strutture familiari e anche in presenza di sistemi ereditari apparentemente egualitari. Priva di protezioni pubbliche, la società di antico regime deve differenziare le professioni dei figli per affrontare l’incertezza, la rigidità del mercato del lavoro, la fragilità della vita. D’altra parte, la differenza di ambiti professionali deve tuttavia essere giocata mantenendo un mutuo appoggio, una solidarietà del fronte familiare e parentale. Si deve dunque investire differentemente nella formazione dei figli, secondo i ruoli che dovranno ricoprire nella società (ricordiamoci il caso citato dei tre figli di Lorenzo di Bianchi: il 5.5% delle spese familiari devoluto all’istruzione dei due maschi, e nulla per la femmina); di riflesso, dovranno essere differenziati tutti quei consumi che sono connessi con questa strategia. Per gli storici è difficile cogliere i margini della diseguaglianza legittima: in effetti, quella di antico regime era una società basata sull’equità e non sull’eguaglianza, ma anche l’equità seguiva regole implicite di giustizia che dovevano essere rispettate. Sarebbe improprio pensare, ad esempio, alle rivolte contadine dell’età moderna come rivolte eversive di un sistema gerarchico: non si trattava di rivolte per l’eguaglianza, ma di rivolte per restaurare una giustizia violata, il mancato rispetto di ciò che competeva alla condizione contadina. In modo analogo, anche le tensioni familiari debbono essere interpretate non come una richiesta di eguaglianza, ma come il frutto di una reazione a una giustizia distributiva che aveva ecceduto i margini della legittimità. Lo mostrano bene un altro paio di storie di vita.

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Francesco e Nicoletto sono i due orfani quasi coetanei di Nicolò Olini, affidati allo zio Zuanne. Ricevono in eredità tre botteghe date in affitto e un cospicuo capitale depositato in Zecca. Li seguiamo per diciotto anni (16551672), poi la contabilità continua, ma Nicoletto – dopo che i beni ereditati sono stati divisi – scomparirà dalla gestione che continuerà per Francesco, trasferitosi a Roma. Nel periodo di doppia gestione, seguendo le spese fatte per ciascuno, risulta che Francesco gode del 55.4% di tutte le spese di consumo della famiglia, e Nicoletto solo del 45.6%. Dopo una fase in qualche modo di uguaglianza, nella prima infanzia dei due orfani, le spese (in lire) vanno man mano differenziandosi, quando viene definito il destino adulto di ciascuno: Francesco

Nicoletto

1655 1656 1657 1658 1659 1660 1661 1662 1663 1664 1665 1666 1667 1668 1669 1670 1671 1672

386 150 166 157 252 158 160 525 349 187 267 296 290 355 281 1434 3301 4188

379 151 179 150 254 158 160 196 160 403 441 172 2137 323 696 1816 316 2296

Totale

12902

10387

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Come si vede, le spese sono distribuite disegualmente nel tempo. Fra 1664 e 1670, la famiglia Olini investe molto di più su Nicoletto per farlo studiare a Trieste e poi per farlo entrare in un convento domenicano, malgrado il giovane non ne fosse entusiasta, se nel 1670 vengono registrate alcune decine di lire «spese in viaggio di Treviso per andar a trovar Nicoletto per dissuaderlo di maritarsi con certa persona». Alla fine tuttavia egli accetterà di proseguire la carriera ecclesiastica, mentre Francesco si trasferirà a Roma come mercante. Prendiamo un altro caso, quello dei tre figli orfani di Francesco Toselli, mercante con Alessandria d’Egitto: due maschi, Zuan Antonio e Meneghetto, e una femmina, Lucrezia. La tutela, con l’aiuto di un «pubblico computista», è gestita da Domenico Battagliola, padre della moglie di Francesco. Nei 16 anni di gestione verranno spesi per i figli – per vestiario, alimentazione e scuola – 21306 lire, di cui il 36% per Zuan Antonio, il 33% per Meneghetto e il 31% per Lucrezia, percentuali non troppo distanti. Ma se le esaminiamo a fondo, noteremo delle differenze sostanziali. Le spese per vestiario saranno così distribuite: 43% per Zuan Antonio, 34% per Meneghetto, 23% per Lucrezia. Al contrario le spese scolastiche saranno a favore di Meneghetto, cui sono destinate nella misura del 52%, contro il 38% per Zuan Antonio e solo il 10% per Lucrezia. Leggendo le note minuziose di Domenico Battagliola apprendiamo così che il destino dei 3 figli si definisce progressivamente come diverso. Zuan Antonio proseguirà il lavoro del padre, e partirà per Alessandria d’Egitto: deve perciò avere abiti relativamente lussuosi e, oltre a quelli che gli son stati comprati, prenderà la biancheria che gli occorre da due casse lasciate dal padre «in tempo che voleva andare in Alessandria acciò se ne accomodasse di quello le tornava comodo». Evidentemente, un mercante deve anzittutto ben apparire; gli farà comodo anche avere una buona educazione, ma non particolarmente specializzata, si specializzerà con la pratica. Meneghetto invece farà

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il cambista alla fiera di Bolzano: un lavoro complicato, che richiede un abito decoroso ma senza fronzoli (l’8 agosto 1635 avrà 101 lire – una cifra molto modesta – «a farsi drappi per Bolzan»), mentre necessita assolutamente di molta capacità matematica e contabile. Troviamo così fra le spese per lui molti volumi comprati al «librer de la Salamandra», libri d’abaco, manuali di cambio e di analisi monetarie, e una notevole spesa «per dar al maestro le insegna a tener libro doppio». Quanto a Lucrezia, sa certo leggere e scrivere, ma i suoi libri sono soltanto libri di devozione. Avrà comunque anche un «maestro de sonar». E quando si sposerà ci saranno molte spese, 965 lire in «robe per parecchiar la dote» e 637 lire «spesi nel convito delle nozze de madonna Lugrezia per la parte spettante la commissaria». I bilanci familiari degli orfani Olini o degli orfani Toselli rivelano, insomma, una discontinuità che solo nel tempo lungo può essere letta come una diseguaglianza. Ma noi possiamo intanto trarne alcune prime conclusioni: innanzitutto l’importanza del ciclo di vita, che implica che i bilanci familiari debbono essere esaminati appunto nella loro discontinuità nel tempo, mentre qualsiasi immagine statica ci toglie gran parte delle informazioni sul comportamento dei consumatori. 6. L’utopia della gerarchia È ormai un luogo comune della filosofia politica e morale il carattere utopico e minaccioso della pretesa di creare una società di eguali. E tuttavia i sistemi ideologici che hanno dominato la storia negli ultimi secoli hanno visto succedersi immagini differenti di quale potesse essere una società giusta. L’utopia dell’antico regime potrebbe essere definita come quella che poneva il proprio obiettivo nella creazione di una società giusta, ma gerarchizzata. Ogni livello sociale aveva diritto a una sua propria giustizia, e norme cul-

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turali e morali – tradotte solo qualche volta in norme giuridiche – conservavano l’idea di una rigorosa differenziazione sociale. Questo influiva sui modelli di consumo. Le pratiche mercantili agivano in modo settoriale, per segmenti, senza che giocasse apertamente un sistema globale di mercato: esistevano più livelli sociali, una giustizia distributiva plurima, più mercati, che talvolta separavano le merci in circolazione in una pluralità di circuiti, giungendo addirittura a creare mercati diversi e reciprocamente sordi per la stessa merce. L’aspetto utopico della società d’antico regime consisteva proprio nella difficoltà di definire gli strati sociali, che avrebbero richiesto delimitazioni nette e dunque appartenenze ben identificabili, che non era facile incontrare: gli aspetti informali, nella loro inevitabile indefinitezza, non potevano consentire una demarcazione netta, una unicità di appartenenza. Non a caso, fu quella una società in conflitto continuo fra diverse giurisdizioni, e contemporaneamente posseduta da una vera ossessione classificatoria. Progressivamente questa utopia perderà forza, la distribuzione della ricchezza sarà sempre più difforme dalle appartenenze sociali e giuridiche, e si aprirà una via – lo storico olandese Jan de Vries l’ha definita industrious revolution – che tuttavia mi pare debba essere letta come la crisi della legittimità della diseguaglianza prima che come il frutto di una crescita della domanda, cioè come un fatto essenzialmente economico. E con la fine del Settecento, muterà anche la concezione di giustizia: l’eguaglianza sarà affermata, ma sarà ormai un’eguaglianza formale. Senza più una pluralità di leggi, la legge sarà uguale per tutti, e tutti gli uomini verranno dichiarati uguali malgrado le loro differenze. Peraltro, anche questo, proprio per i suoi limiti puramente formali, creerà una giustizia utopica, appunto quella della legge uguale per tutti. Oggi, all’inizio del terzo millennio, ci troviamo di fronte alla ricerca di una nuova utopia: come creare una società giusta fra differenti, e che però non sia una società gerar-

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chizzata. L’accettazione della differenza come un carattere ineliminabile – perché risultato di culture diverse, ma anche di diverse condizioni emotive e psicologiche fra individui appartenenti alla stessa cultura – ha messo in discussione, tra l’altro, molti dei risultati della scienza economica. Se le società e gli uomini sono differenti, e se questa differenza va accettata, il problema diventa come costruire una teoria economica rinunciando a ipotesi che adottino la semplificazione di una uniformità di desideri e di scopi degli uomini. Vorrei chiudere queste considerazioni riassumendo quelle che sono ipotesi di lavoro più che vere e proprie conclusioni. In effetti, non è possibile in poche pagine dare conto delle storie di vita che la fonte veneziana ci conserva: qui, si è potuto soltanto porre domande e formulare delle prime indicazioni. La società moderna mostra un’organizzazione sociale differente dalla nostra, ma piena di suggerimenti. Trascurare i suoi aspetti più propri, semplificandone le modalità di consumo come qualcosa governato dalla necessità, oscura in parte anche la comprensione delle modalità di consumo nella società capitalistica. Il carattere simbolico dei beni, le strategie legate al ciclo di vita della famiglia e dei suoi singoli componenti, le forme di legittimità accettabili o inaccettabili, la cultura, sono temi estremamente rilevanti, che la storiografia ha affrontato finora in modo inadeguato. Nell’Europa di antico regime la disuguaglianza era interna alla famiglia, fra maschi e femmine e fra maschi e maschi, ma era anche, naturalmente, diseguaglianza esterna: regole non sempre formalizzate in norme giuridiche (per esempio con leggi suntuarie) erano tuttavia operanti attraverso una sanzione sociale che la sensibilità comune conosceva e osservava. Se dunque il problema – come ho sostenuto qui – è prima culturale che economico, sarà necessario partire da un’analisi più attenta dell’idea di giustizia e di relazioni che la società aveva per capire il senso

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del consumo in antico regime. E per capire, all’appuntamento cronologico con il tardo Seicento e poi con il Settecento, il motivo della crisi di un modello: il senso di una rivoluzione del consumo che poteva nascere soltanto se la società aveva rotto certi argini culturali, che avevano dettato un senso simbolico differente alle cose, al loro uso e al loro possesso.

NOTA BIBLIOGRAFICA

La fonte su cui mi baso sono le Rese conti del Giudice di Petizion dell’Archivio di Stato di Venezia, filze 970-988. Nel 1855 Frédéric Le Play pubblicò la prima edizione de Les Ouvriers européens, frutto di un’inchiesta sui bilanci familiari: era la prima volta che i redditi e i consumi familiari venivano assunti come un tema centrale. Da quella data lo studio dei bilanci ha prodotto molte ricerche. Per l’Italia Stefano Somogyi (Cento anni di bilanci familiari in Italia, 1857-1956, in «Annali Feltrinelli», II, 1959, pp. 121-263) ne ha fatto un’ampia raccolta, tuttavia concludendo che «l’impossibilità di osservare il comportamento delle medesime famiglie o di famiglie sostanzialmente identiche per composizione e per situazione attraverso il tempo rende vano il tentativo di trarre deduzioni valide». Sulla rivoluzione dei consumi le opere fondative sono N. McKendrik, J. Brewer e J.H. Plumb, The Birth of a Consumer Society. The Commercialization of Eighteenth-Century England, Europa, London 1982 e J. Brewer e R. Porter (a cura di), Consumption and the World of Goods, Routledge, London-New York 1993. Il libro di C. Shammas, The Pre-industrial Consumer in Britain and America, Clarendon Press, Oxford 1990, è tuttora quanto di meglio sia apparso sull’uso degli inventari postmortem. Sulla lettura culturale del consumo A. Appadurai (a cura di), The Social Life of Things: Commodities in Cultural Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 1986 e, per l’Italia, R. Ago, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Donzelli, Roma 2006.

Certezze granitiche Una fonte epigrafica di Roberto Bizzocchi

1. Un antico Azio e i suoi parenti Ludovico Antonio Muratori non ha bisogno di lunghe presentazioni: sacerdote, cristiano illuminato, sommo erudito, è il padre nobile di tutti quanti ci occupiamo di storia in Italia; fondatore della moderna storiografia sul Medioevo, ha anche dato un contributo importante allo studio dell’antichità. A Modena, verso la fine della sua vita, negli anni intorno al 1740, completò fra l’altro una raccolta di iscrizioni latine cui aveva cominciato a lavorare da giovane nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, il Novus Thesaurus veterum inscriptionum. Ne riporto qui sotto una, con la breve indicazione (in corsivo) del luogo dove si trovava all’inizio del Settecento il marmo su cui è incisa: una residenza ducale nella periferia di Modena; oggi il marmo è conservato in città nel Palazzo dei Musei. Extra Mutinam. in Ducali Palatio Quatuor Turrium. Exscripsi. TI. ATIVS. F. IIII. VIR. I. D. V. F. ATIA Q. F. SIBI ET FORESTO ET L. FLAVIO

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L’iscrizione si può sciogliere e tradurre così: «Ti(berius) Atius f(ilius) quattuorvir i(ure) d(icundo) v(ivus) f(ecit) Atia Q(uinti) f(ilia) sibi et Foresto et L(ucio) Flavio». «Tiberio Azio figlio, quattuorviro giusdicente, fece da vivo (questo sepolcro), e (con lui lo fece) Azia figlia di Quinto, per sé e per Foresto e per Lucio Flavio». Il testo si presenta dunque come un’iscrizione sepolcrale ordinata da un magistrato per sé e per alcuni suoi familiari. Altri particolari inducono a datare questa testimonianza all’età imperiale, cioè ai primi secoli dell’era cristiana, e a individuarne l’ambito geografico nel territorio padano orientale, dove sono documentati con frequenza sia i nomi gentilizi Attius e Flavius che la magistratura dei quattuorviri. Serve spiegare brevemente perché fonti come questa hanno un valore inestimabile per la ricostruzione della storia antica. Le fonti letterarie, le grandi opere narrative degli autori classici, quali Tucidide, Tito Livio, Tacito, hanno una concentrazione pressoché esclusiva sugli eventi della politica: dicono molto sulla diplomazia e la guerra, e sulla lotta per il potere all’interno degli Stati; sono assai meno loquaci sulla storia delle istituzioni e quasi mute su quella economica e sociale. È interessante notare che perfino uno storico rinascimentale tutto politico e imitatore dei modelli classici come Francesco Guicciardini si è rammaricato di questo fatto. In un suo ricordo scritto verso il 1530 ha osservato: «nelle istorie de’ Romani, de’ Greci e di tutti gli altri si desidera oggi la notizia in molti capi: verbigrazia [= per esempio], delle autorità e diversità de’ magistrati, degli ordini del governo, de’ modi della milizia, della grandezza delle città e di molte cose simili, che a’ tempi di chi scrisse erano notissime e però [= perciò] pretermesse da loro». Ebbene, proprio circa quei «capi» di cui Guicciardini desiderava la «notizia» le iscrizioni costituiscono una miniera di dati. Dettate, com’erano molto spesso, da occorrenze consuete della vita quotidiana e non da singoli epi-

Una fonte epigrafica

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Fig. 1. L.A. Muratori, Novus Thesaurus veterum inscriptionum, vol. II, Tipografia Palatina, Milano 1740, p. 678, n. 4. Fig. 2. Modena, Museo Lapidario Estense, K sud, 88. Foto Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna (neg. 41776).

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sodi eclatanti, esse contengono informazioni altrimenti indisponibili sugli uffici amministrativi, l’ordinamento delle province, i calendari e i cerimoniali, l’organizzazione dell’esercito, l’onomastica e i rapporti familiari e sociali. È quanto dichiarava in un suo Dialogo sulle iscrizioni uno dei protagonisti della prima ondata del lavoro erudito in materia, Antonio Agustín, un vescovo spagnolo del secondo Cinquecento. Le sue parole sembrano rispondere puntualmente alla richiesta formulata da Guicciardini qualche decennio prima: «Vi sono [nelle iscrizioni] infinite utilità, per intendere molte cose, che ne’ libri mancano, o sono oscure da intendere, come sono i nomi, e prenomi, e le famiglie de’ Romani, le tribù, le legioni, et i magistrati; i sacerdozj, e loro ministri; gli officij, il governo delle provincie, il carico delle genti da guerra, e molte particolarità de’ soldati, et altre cose innumerabili». Oggi che gli storici, a differenza di quanto facevano i grandi storici politici dell’antichità e del Rinascimento, riservano un’attenzione profonda agli aspetti più quotidiani della vita sociale e materiale del passato, possiamo ben dire che le iscrizioni sono per loro una fonte irrinunciabile e insostituibile. Va da sé: considerando un testo come quello riportato da Muratori, che preso singolarmente direbbe poco, non si deve dimenticare che le iscrizioni latine pervenuteci formano un corpo ingente, di qualche centinaio di migliaio di pezzi. Non per nulla a partire dalla metà dell’Ottocento gli studiosi del mondo antico ne curano una monumentale raccolta, il Corpus Inscriptionum Latinarum, o CIL, ordinata prima per luoghi poi per categorie, che viene sempre aggiornata e arricchita. Il CIL comprende anche l’iscrizione modenese di Tiberio Azio, al numero 848, nella sezione Aemilia, del volume XI, pubblicato nel 1888. Ma perché proporre un marmo con un testo latino in un volume come il nostro, dedicato al lavoro sulle fonti da parte degli storici delle età medievale, moderna e contemporanea? Analizziamo un po’ più attentamente l’iscrizio-

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ne di Tiberio Azio. Lo sguardo di un epigrafista esperto ci suggerisce che l’oggetto presenta qualche stranezza: i segni d’interpunzione sono veri e propri fori, in contrasto con l’eleganza del disegno delle lettere; l’uso stesso del marmo come supporto in luogo di pietre locali appare eccezionale in ambito municipale norditalico. Quanto al testo, la formula v(ivus) f(ecit) è anteposta, con un procedimento inconsueto, al nome della seconda dedicante, Azia. Lo sguardo di un inesperto di epigrafia ma cultore di opera lirica si sofferma invece sopra un altro particolare del testo, il nome Foresto. Per quanto di radice latina (foris, da fuori) questo nome non appartiene all’onomastica antica; per contro, si chiama Foresto l’appassionato ed eroico tenore dell’Attila di Giuseppe Verdi, messo in scena la prima volta a Venezia nel 1846. Curiosa coincidenza! Verdi si era fatto scrivere le parole per l’Attila dal librettista Temistocle Solera, sostituito solo alla fine da Francesco Maria Piave, ma aveva scelto lui stesso come base d’ispirazione la tragedia omonima, risalente al 1808, del poeta romantico tedesco Zacharias Werner. In Werner il personaggio del giovane innamorato della protagonista femminile si chiama Walther e non ha un gran rilievo; ma nel libretto italiano è diventato, sotto il nome Foresto, il condottiero delle genti che, incalzate secondo tradizione dagli Unni, si rifugiano dalla terraferma nei primi insediamenti fortificati nella laguna di Venezia. Questo condottiero Foresto non è un’invenzione tutta nuova di Solera: compare infatti con gran risalto già nella narrazione in versi La guerra d’Attila composta a metà del Trecento, rielaborando un testo precedente di Tommaso d’Aquileia, da Niccolò da Casola, un poeta bolognese allora residente a Ferrara. In un momento che non è possibile precisare, ma presumibilmente dopo la pubblicazione di Muratori, la presenza di un eroe da cantafavola medievale in una severa iscrizione sepolcrale latina dev’essere sembrata davvero inaccettabile a qualche dotto di palato fine; di fatto oggi

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sul marmo il nome di Foresto non è più leggibile: la F è stata in parte erasa e corretta, sicché ne risulta piuttosto un L. Oresto, come appunto ha interpretato già nel 1888 l’epigrafista curatore del volume XI del CIL. A voler essere scrupolosi, non è che il nome Oresto non ponga dei problemi: fra l’altro riecheggia sia quello del protagonista della trilogia di Eschilo, l’autore tragico greco, sia quello del padre di Romolo Augustolo, un ex aiutante dell’arcinemico Attila; ma evidentemente l’importante era sbarazzarsi delle associazioni di idee evocate dal nome Foresto. 2. Altri parenti, mille anni dopo Insomma, se ancora restavano dei dubbi, la censura erudita operata su Foresto in un momento compreso fra la metà del Settecento e il tardo Ottocento finisce di toglierli: l’iscrizione di Tiberio Azio e famiglia è falsa, benché ancora non smascherata come tale nel CIL. Di conseguenza dobbiamo rinunciare a utilizzarla come fonte per lo studio della storia antica, diminuendo di una unità il cospicuo corpus di cui s’è detto; in compenso possiamo interrogarla proficuamente circa gli ambienti e le persone, successive all’antichità, che l’hanno prodotta, trasmessa e accettata. Del resto le fonti false, abbondanti e rilevanti per ogni epoca e ambito, e presenti nelle tipologie più diverse, sono indirettamente molto rivelatrici, talvolta le più rivelatrici. In questo caso la tipologia interessata è quella delle genealogie familiari. La pista da battere è ovviamente quella della fortuna del personaggio letterario di Foresto dopo la sua apparizione nei versi del poeta trecentesco Niccolò da Casola. Ricordiamo che Niccolò era attivo a Ferrara, allora città dominata dagli Este, i quali solo nel 1598, con l’annessione di Ferrara allo Stato della Chiesa, si sarebbero stabiliti a Modena. Nel 1570 Foresto compare come figura storica in un’opera monumentale pubblicata splendidamente a

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Ferrara dallo stampatore ducale e con il patrocinio della corte estense, la Historia de Principi di Este di Giovanni Battista Pigna, un volume, come spiega il sottotitolo, «nel quale si contengono congiuntamente le cose principali dalla rivolutione del Romano Imperio in fino al 1476». Due parole sul contesto. Dagli anni Quaranta del Cinquecento gli Este erano impegnati in una controversia coi Medici di Firenze sulla precedenza dei rispettivi ambasciatori nelle corti europee, una questione diplomatica che aveva implicazioni e ricadute politiche importanti. Uno degli argomenti forti da parte ferrarese era quello della maggiore nobiltà e antichità degli Este rispetto ai Medici, famiglia di grandezza recente e di origine mercantile. La magnifica origine degli Este – qualcuno lo ricorderà – era stata anche cantata dal Boiardo e dall’Ariosto, e di lì a poco lo sarebbe stata di nuovo dal Tasso. Il duca Alfonso II voleva però stabilirla su più solide basi storiche; e a tal fine aveva messo al lavoro il suo erudito di corte Girolamo Falletti, dopo la cui morte il compito era stato assunto e portato a termine da Pigna. Nella Historia di Pigna gli Este, vari dei quali avevano portato nel Due e Trecento il nome di Azzo, vengono fatti discendere da un clan gentilizio romano, la gens Atia, celebrata anche da Virgilio (Eneide, V. 568-9) perché annoverava fra i suoi membri la madre di Augusto, e fondata da un Atio Neo contemporaneo niente meno che di Romolo. In tutta serietà Pigna spiega che verso la fine dell’età imperiale gli Atii si trasferirono da Roma nell’antica colonia troiana di Ateste, poi chiamata per corruzione linguistica Este, nome infine prevalso a designare la famiglia dopo che all’inizio del V secolo gli Atestini ne ebbero scelto il capo, Caio Atio, come loro principe affinché li difendesse dai barbari Visigoti. È a questo punto che, fra i «molti altri marmi» – come assicura Pigna – «pertinenti a questa casa», entra finalmente in scena la nostra iscrizione, citata ad attestare i nipoti di Caio Atio, Tiberio Atio e suo fratello, l’eroico Foresto, dedito, dietro il glorioso esempio dell’a-

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vo, a contrastare i nuovi barbari Unni. Da questa coppia si inanella, senza soluzione di continuità, tutta la catena della discendenza estense fino agli attuali signori di Ferrara: un buon millennio di genealogia ininterrotta, da aggiungere a quello abbondante già coperto dagli Atii, dal contemporaneo di Romolo al nonno di Tiberio e Foresto. Poiché noi siamo – un po’ lo sono anche quelli che non vorrebbero – figli del razionalismo illuministico e della Rivoluzione francese, una storia come questa ci sembra semplicemente ridicola. Ma nel 1570 non era certo così, se il libro di Pigna veniva addirittura commissionato, patrocinato e promosso da un’autorità nient’affatto ridicola come il principe di uno Stato, nell’ambito di una sua contesa politico-diplomatica con un altro. Al contrario, la nostra iscrizione e il suo uso ci hanno fatto toccare un punto nevralgico della cultura nobiliare d’antico regime: il nesso fra nobiltà, sangue e tempo. L’ho definito nevralgico, perché è quello che fa da sfondo comune e caratterizzante ai tanti contenuti, anche assai diversi fra loro, che componevano la visione del mondo affermata da chi comandava, nelle varie epoche e nei vari paesi, prima della Rivoluzione. Tale visione era il frutto della sintesi universalistica di classicità e cristianesimo realizzata dal Medioevo e ben viva nella prima parte dell’età moderna: la historia Salutis; cioè l’idea che la storia generale dell’umanità intera fosse un tutto coerente, il cui senso stava nel cammino degli uomini verso la Salvezza. Nella prospettiva della historia Salutis l’innovazione non poteva essere che un allontanamento dalla verità, mentre l’antichità e la prossimità alle origini erano un valore. Dunque c’era da aspettarsi che le persone e le famiglie ai vertici della scala sociale e del sistema politico fossero quelle da più lungo tempo eminenti nei rispettivi contesti, e come tali identificabili con sicurezza (il significato etimologico della parola nobile è riconoscibile). Il potere si legittimava nella durata; ed era tendenzialmente privo di una data d’inizio, poiché la nobiltà e la storia erano una co-

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sa sola, la storia era come assorbita dalla nobiltà. Inoltre tale legittimazione scorreva ereditariamente all’interno delle famiglie, come il sangue nobile che una medicina prescientifica contribuiva a lasciar credere geneticamente diverso da quello dei plebei. Non conta tanto che questo modo di pensare il rapporto fra famiglie nobili e storia sia assurdo – lo è – conta che sia stato dominante fino all’Illuminismo e alla Rivoluzione. L’esempio della genealogia Atii/Este non è infatti che uno dei numerosissimi riscontrabili ovunque, in Italia come in Europa. Uno degli intellettuali più rappresentativi dell’antico regime, il vescovo Jacques-Bénigne Bossuet, prelato della corte di Luigi XIV di Francia, ha spiegato più volte, con una chiarezza eloquente, il nodo della questione: i re e i nobili hanno le loro rispettive responsabilità nel guidare i popoli nel cammino della Salvezza, e non è certo senza significato che Gesù Cristo stesso abbia dato un segnale inequivocabile della sua approvazione all’esistenza della nobiltà ereditaria, presentandosi come discendente dei re di Giuda. E il vescovo non aveva poi tutti i torti: i Vangeli cominciano con una genealogia. 3. Pezze d’appoggio Ma torniamo all’iscrizione di Tiberio e Foresto: non ha finito di elargirci le sue informazioni. Infatti, è la sua stessa esistenza a porre una questione ulteriore. Genealogie di lunghissima durata e origini familiari remote nel tempo se n’erano sempre raccontate e rivendicate, alcune anche assai più ardite di quella estense, dato che invece di accontentarsi del secolo di Romolo risalivano vertiginosamente gli abissi della cronologia fino al ripopolamento del mondo dopo il diluvio da parte dei figli di Noé. Ma la stragrande maggioranza delle genealogie prodotte e diffuse fino all’età del Rinascimento consistevano di meri racconti, erano testi letterari sprovvisti di un apparato documenta-

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rio; in questo assomigliavano – se lo si può dire senza rischio di malintesi – alle storie di Erodoto e di Tito Livio. La comparsa di un marmo con un’iscrizione di carattere non narrativo segnala di per sé una novità molto interessante e rivelatrice: l’incipiente vittoria del documento sul racconto. È una matassa ingarbugliata, e bisogna dipanarla con un po’ di pazienza. Intanto c’è il gusto, giunto all’apice nel Rinascimento, dell’oggetto antico: una bella statua o coppa o medaglia, e naturalmente anche un’iscrizione. I ritrovamenti di tali oggetti erano allora all’ordine del giorno, e incrementarono enormemente la disponibilità di testimonianze sull’antichità classica. Questo fenomeno non si limitava però a moltiplicare le potenzialità di godimento estetico, innescò un cambiamento decisivo nel tradizionale rapporto fra narrazione e documentazione storica. Alla considerazione da cui siamo partiti sulla scorta dell’epigrafista spagnolo Agustín – le iscrizioni contengono notizie assenti dai testi letterari – ne va infatti aggiunta un’altra più sottile ma non meno importante: le iscrizioni documentano la realtà storica in un modo diverso da quello dei testi letterari. Leggiamo la definizione dello stesso Agustín: le iscrizioni sono come «libri di marmo o rame, dove li altri sono di charta molto fallace». La metafora, che non si riferisce solo alla deperibilità del materiale, è esplicita, e la preferenza dichiarata. Le testimonianze più sicure del passato non sono quelle, opinabili se non tendenziose, contenute nelle rievocazioni di taglio narrativo; bensì quelle più essenziali e oggettive offerte dalle iscrizioni, e affidate senza alcuna intenzione creativa a un mezzo neutrale come il marmo. Quale più solida verità, quale più granitica certezza di quella assicurata dalla candida lealtà di una pietra? Occorre soffermarsi a sottolineare la radicalità di questa svolta. Il Medioevo non aveva conosciuto questo culto del documento in quanto tale, e si era piuttosto affidato al prestigio e all’autorevolezza del testimone. Subordinare quest’ultimo

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aspetto a una gerarchia di generi di testimonianza era un passo intellettualmente molto critico, perfino un po’ sovversivo. Il nesso fra un marmo sepolcrale e i fondamenti della storiografia scientifica moderna appare forse audace, ma è precisamente quello proposto in un saggio celebre e classico da uno specialista in materia, che è stato anche uno dei più grandi storici del Novecento, Arnaldo Momigliano. Ricostruendo il grande lavoro svolto durante l’età moderna dagli studiosi di iscrizioni e altri oggetti antichi, gli “antiquari”, Momigliano ha spiegato il duplice effetto del loro approccio professionale. Per quanto riguarda specificamente la conoscenza della storia antica, essi hanno cominciato a colmare la lacuna lasciata dai grandi storici politici e lamentata da Guicciardini. Più in generale, sul piano metodologico, hanno posto le basi di un principio per noi irrinunciabile della ricerca storica: la distinzione fra fonti di prima e di seconda mano, originali e derivate. Non saprei dirlo meglio di Momigliano: «Per fonti originali intendiamo dichiarazioni di testimoni oculari o documenti o altri resti materiali che siano contemporanei ai fatti che attestano; per fonti derivate intendiamo storici o cronisti che riferiscono o discutono fatti ai quali non hanno assistito, ma di cui hanno sentito parlare o hanno inferito direttamente o indirettamente da fonti originali». Addebito alla responsabilità del solo Agustín una sintesi decisamente parziale di questa articolata distinzione: libri di marmo, carta fallace. Si capisce che chi, nel Cinquecento o nel Seicento, scriveva e pubblicava libri di storia non può essere rimasto estraneo all’offensiva documentaria condotta dagli antiquari; era bene cominciare a munirsi di pezze d’appoggio per le proprie asserzioni: fonti attendibili, fonti originali, meglio ancora se si trattava di resti materiali. Per chi si occupava di storia antica, un buon corredo di iscrizioni era ormai un obbligo. A tale proposito, un’avvertenza ovvia, cui basterà far cenno, è che non venivano trovate e studia-

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te solo iscrizioni di contenuto familiar-genealogico, ma anche riguardanti altri argomenti, moltissime autentiche e qualcuna, anche in questo caso, falsificata per i motivi più diversi. È però in quei libri per definizione di storia antica o antichissima che sono le genealogie familiari, che l’utilizzazione della fonte per eccellenza originale, il documento solido come il marmo, si manifesta nel modo più oneroso, in tutta la sua evidenza ingombrante e un po’ paradossale. Non si potevano più accampare genealogie impervie senza appoggiarsi ripetutamente e adeguatamente a una vecchia pergamena, a un’antica iscrizione. È la parodia a darne la più squillante delle conferme. Fin dal 1534, nella prima pagina del Gargantua e Pantagruele, lo scrittore francese François Rabelais si era esibito in una rappresentazione fulminante della nuova prassi. L’immancabile «genealogia e antichità» di Gargantua non l’ha infatti inventata e narrata, ma – assicura – riportata da un documento originale. Il documento è un libro, racchiuso però in una «gran tomba di bronzo» urtata inavvertitamente in un prato da certi lavoratori che stavano ripulendo un fossato vicino al fiume Vienne nella Francia centrale: «Aprendola – riferisce Rabelais – in un certo luogo segnato, dove c’era scolpito un boccale intorno al quale era scritto in lettere etrusche: HIC BIBITUR, trovarono nove bottiglie, nello stesso ordine in cui si dispongono i birilli in Guascogna, fra le quali quella che stava in mezzo copriva un grosso, grasso, grande, grigio, grazioso, piccoletto, ammuffito libretto, che odorava più forte ma non più soave delle rose». Il libro che puzza è uno scherzo sulle vite dei santi e l’odore dei loro cadaveri, ma la tomba e le lettere etrusche prendono in giro la più recente mania per gli oggetti antichi, mania che del resto Rabelais conosceva bene perché la condivideva. Tutto l’insieme fa il verso con beffarda competenza alla moda delle genealogie puntigliosamente sostenute da fonti di prima mano. Anche il particolare del ritrovamento fortuito nel ripulire il fosso di un prato è

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un’allusione mirata. Infatti di solito i documenti, e segnatamente le iscrizioni, destinati a dimostrare l’antichità di qualcosa o di qualcuno saltavano fuori senza che nessuno li avesse sollecitati. Era la ripresa di un topos tradizionale per garantire un’aura d’innocenza alla procedura e di autenticità all’oggetto. A proposito, la garanzia doveva valere anche per il marmo di Tiberio e Foresto: noi possiamo ragionevolmente ipotizzare che esso sia stato ordinato e poi fatto incidere intorno al 1560 a Ferrara dall’erudito Falletti, incaricato prima di Pigna del lavoro sugli Este; ma a voler credere a quanto lo stesso Pigna dichiarava in apertura della sua Historia, il marmo sarebbe stato scavato per caso, nel 1561, «di sotterra da lavoratori de campi». 4. Documentare, credere, criticare La presa d’atto dell’irruzione dei documenti di prima mano nell’ambito delle genealogie nobiliari più o meno fantastiche lascia aperto lo spazio per un’ultima riflessione intorno al modo di lavorare sulle fonti da parte degli storici dell’età moderna, e un po’ anche sul nostro. Abbiamo appena visto grazie all’iscrizione pseudoestense – che comunque è ben lungi dall’essere la più clamorosa – che quegli stessi documenti il cui uso privilegiato segna, come ha spiegato Momigliano, una tappa decisiva della nascita della moderna storiografia critica veicolano talvolta le informazioni più condizionate dal peso della tradizione e più ridicolmente inattendibili. Il contrasto fra modernità delle procedure e insensatezza dei contenuti esprime in effetti un paradosso così stridente da indurre a cercarne una qualche spiegazione, o almeno una qualche mitigazione. Non basta invocare la committenza di un duca d’Este e lo zelo interessato e intimorito di un Falletti e di un Pigna. Non si ordina un sontuoso e costoso prodotto cui nessuno crede e di cui tutti ridono, pur sotto i baffi. L’acco-

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glienza dev’essere stata nel complesso più rispettosa di quella di Rabelais, il quale comunque era forse piuttosto un burlone che un vero dissacratore. Del resto, se né Falletti né Pigna godevano la fama di eruditi autorevoli, molti loro contemporanei, antiquari serissimi ed epigrafisti prestigiosi, incappavano anch’essi nei loro infortuni, e se li rinfacciavano a vicenda. Il solito vescovo Agustín, uno dei più svegli, lo ha ricordato all’inizio del suo dialogo sulle iscrizioni false, prima di diffondersi in qualche esempio spassoso: «A: Et avvenga che io sia andato sempre molto avvertito, nondimeno non ho potuto fare di non restare alcune volte ingannato; ma assai più sono coloro, i quali io ho veduto dar credenza a cose da me tenute per favolose, ed affatto inutili, avendo di simili materie per lungo tempo osservato i migliori autori che di esse trattino [...] B: Vossignoria li teneva per uomini di fede, o no? A: Io non solamente li aveva per uomini di fede, ma per letterati». Avrebbero potuto fischiare le orecchie di Vincenzo Borghini, uno dei più seri e dei più prestigiosi fra i “letterati di buona fede” del Cinquecento, il quale a proposito delle “pietre antiche” ha fatto la seguente, fiduciosa dichiarazione: «E quanto all’inganno che qualcuno teme, non ci è questo pericolo, né è tanto agevole il contraffare così al netto la sincera, e pura antichità, che uno mezzanamente esercitato in questi studii non vi conosca facilmente le cose finte dalle vere». E infatti Borghini ha personalmente preso alcuni granchi micidiali. La storia degli studi eruditi durante l’età moderna si può ricostruire – è stato fatto in modo insieme dotto e brillante – nella chiave dell’epica lotta fra le forze del bene, i “critici”, e quelle del male, i “falsari” diabolicamente dediti ad avvelenare i pozzi da cui i primi strenuamente si sforzavano di attingere acqua limpida e potabile. Ma a ben vedere, in quel mondo un poco picaresco di professori cinque o seicenteschi, angeli e demoni spesso si confondevano come in un romanzo di Dan Brown. Chi era appena re-

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duce dallo smascheramento di un’insidiosa patacca era però pronto a cadere nel prossimo trabocchetto, quando non era, nei peggiori casi estremi, addirittura lui stesso intento a prepararlo. La conclusione che si può trarre è che tutti erano tanto entusiasticamente e devotamente rivolti alle reliquie del passato, da durare una gran fatica a sciogliersi dall’abbraccio delle loro pregiudiziali credenze tradizionali. Nel caso nostro – come s’è detto – quella nella naturale antichità del potere nobiliare. Ludovico Antonio Muratori ci accompagnerà alla chiusura del discorso che abbiamo aperto nel suo nome. Nel 1717 egli pubblicò a Modena il primo volume di uno dei suoi grandi capolavori storico-eruditi, dedicato alla ricostruzione, su di uno sfondo più generale, delle vicende della famiglia dei suoi signori e protettori, le Antichità Estensi ed Italiane. È un’opera fondamentale per la conoscenza della storia medievale: Muratori vi dimostra come i secoli successivi alla fine dell’Impero romano abbiano segnato una cesura nella società italiana, e come l’Italia moderna sia il prodotto dei rivolgimenti politici del Medioevo barbarico. Per la genealogia, è il primo avviso della rivoluzione: «le tante guerre, e vicende umane col tempo lunghissimo hanno estinta, o almen sottratta a gli occhi nostri la discendenza di tutte le Nobili Famiglie della Romana Repubblica». E la gens Atia? «Allorché s’ode trattata da industriosi genealogisti con tanta fortuna qualche nobil famiglia vivente, che si è giunto di padre in figlio a farla scendere o da Roma antica, o da un eroe, o monarca de’ più remoti secoli, ha licenza, per non dire obbligazione, qualunque lettore di sospettare, o di credere, che molte favole abbiano buonamente servito a tessere quella sì vaga tela.» Figurarsi cosa pensare di chi la prende ancora più indietro. «E c’è poi amplissima facoltà di mettersi a ridere (e ciò senza far altro esame) ogni volta che ci si presenta davanti qualche genealogia dedotta da Noè, da Antenore, da Enea, e da simili altri personaggi della troppo canuta antichità.»

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Muratori era un sacerdote e un uomo d’ordine, ed era anche uno stipendiato degli Este a Modena; ma da Pigna, le cui elucubrazioni genealogiche egli smentiva esplicitamente, e anche dai migliori antiquari dei due secoli precedenti al suo, lo separava la profonda crisi intellettuale che a partire dalla fine del Seicento aveva messo in crisi le certezze della historia Salutis e la presunzione di continuità della storia e di sacralità senza tempo del potere: insomma, l’inizio dell’Illuminismo. Nell’epos della lotta – una lotta senza fine – fra critici e falsari sull’autenticità e l’interpretazione dei documenti, l’irruzione della filosofia aveva introdotto un’accelerazione brusca e uno scarto radicale. Ne dà la misura proprio il nostro punto d’avvio, il fatto che una ventina d’anni dopo aver scritto quelle spregiudicate parole di liquidazione del nesso fra gli Atii e gli Este, Muratori avrebbe accolto nel Novus Thesaurus il marmo falso di Tiberio e Foresto che qui ci ha fatto da battistrada. La scelta della fonte di prima mano e la critica del documento originale formano l’attrezzatura basilare del mestiere del bravo storico; ma l’infortunio occorso a uno storico bravissimo come Muratori suggerisce che dalle conseguenze più gravi dei nostri errori non ci preserva solo la perizia filologica, ma anche meglio il dubbio razionale. La smentita del nesso fra la gens Atia e gli Este non dipende qui infatti dallo smascheramento di un falso, ma dal rifiuto di un preconcetto. Non sto forzando più di tanto le intenzioni del pio erudito: anche se l’accostamento avrebbe scandalizzato Muratori, dietro la sua annunciata volontà di ridere degli illustri progenitori di una troppo canuta antichità, fa infatti capolino il sorriso sardonico di un ben più risoluto devastatore del culto superstizioso del passato, il philosophe per eccellenza, colui che di fronte al mostruoso connubio di procedure moderne e contenuti incredibili ha coniato l’idolo polemico della “dotta assurdità”. Non è male congedarsi dalle certezze granitiche della scienza documentaria invocando i benefici di un irriverente scetticismo. Se si

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pensa alle infinite sciocchezze, e purtroppo talvolta agli orrori legittimati, in ogni luogo e in ogni tempo, sulla base dell’autorità di qualche prova autentica, conviene davvero ricordare una massima confuciana la cui parafrasi avrebbe ben potuto essere sottoscritta da Voltaire: non si può lasciare la filologia a combattere da sola.

NOTA BIBLIOGRAFICA

In questo saggio ho ripreso alcuni spunti del mio intervento A propos d’inscriptions apparaissant à point nommé (Italie, XVIe siècle), in Les historiographes en Europe de la fin du Moyen Âge à la Révolution, a cura di Chantal Grell, Presses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2006, pp. 263-275; ma per la base documentaria dipendo dal fondamentale lavoro di Gian Luca Gregori, Genealogie estensi e falsificazione epigrafica. In appendice: Girolamo Falletti e lo studio delle iscrizioni nel ’500, in Miscellanea di studi archeologici e di antichità, vol. IV, a cura di Fernando Rebecchi, Aedes Muratoriana, Modena 19952, pp. 155-207. L’iscrizione degli Atii si trova in Ludovico Antonio Muratori, Novus Thesaurus veterum inscriptionum, vol. II, Tipografia Palatina, Milano 1740, p. 678, nr. 4; e ora, con una scheda descrittiva aggiornata, in Nicoletta Giordani e Giovanna Paolozzi Strozzi, Il Museo lapidario estense. Catalogo generale, Marsilio, Venezia 2005, pp. 224-226, nr. 88. Il saggio di Arnaldo Momigliano, Storia antica e antiquaria (1950) è nel suo Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-45. Un’introduzione generale sulle iscrizioni in Ida Calabi Limentani, Epigrafia latina, Cisalpino, Milano-Varese 19914. Per gli epigrafisti della prima età moderna, sintesi recente in William Stenhouse, Reading inscriptions and writing ancient history. Historical scholarship in the late Renaissance, Institute of Classical Studies, London 2005. Fra i vari importanti libri di Anthony Grafton ho qui alluso a Falsari e critici. Creatività e finzione nella tradizione letteraria occidentale (1990), Einaudi, Torino 1996. Per le genealogie rimando al mio Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa

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moderna, il Mulino, Bologna 1995 (qui citazioni di Agustín, Pigna, Borghini e Muratori). Le altre citazioni: Francesco Guicciardini, Ricordi, a cura di Raffaele Spongano, Sansoni, Firenze 1951, p. 155 (nr. 143); François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, a cura di Mario Bonfantini, Einaudi, Torino 1953, vol. I, p. 12. Infine ringrazio i colleghi che mi hanno aiutato in questo lavoro: Mauro Corsaro, Gian Luca Gregori e Cesare Letta.

L’omicidio funesto del principe Savelli Una fonte cronachistica di Lisa Roscioni

Una sera di maggio del 1832 Walter Scott, in Italia per un breve soggiorno, fu invitato a cena dai principi Torlonia nel loro castello di Bracciano, vicino Roma. In quell’occasione uno degli ospiti, Luigi Santacroce duca di Corchiano, magnificò al celebre scrittore scozzese la sua vasta collezione di antichi manoscritti relativi a omicidi, avvelenamenti e intrighi riguardanti le più importanti famiglie aristocratiche romane. Si trattava, assicurava Santacroce, di «true accounts», resoconti veritieri, che avrebbe volentieri messo a disposizione di Scott, se lo avesse desiderato. Avrebbe potuto copiarli e pubblicarli come «historical romances», a patto però di non rivelare i veri nomi dei protagonisti per non compromettere – precisò il duca – l’onore di eventuali discendenti (un Santacroce in effetti, alla fine del Cinquecento, aveva pugnalato la madre per motivi di eredità). Scott lo ringraziò promettendogli di andarlo a trovare quando la sua salute, in quel momento assai malferma, glielo avesse permesso. La visita non ebbe mai luogo: nel giro di qualche giorno Walter Scott abbandonò Roma e si diresse in Germania, dove fu colpito da una semiparalisi che lo lasciò in stato di parziale incoscienza. Rientrato in Scozia, morì ad Abbotsford il 21 settembre del 1832. Qualche mese dopo, sempre a Roma, un altro celebrato scrittore straniero – il francese Stendhal – entrava nel-

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l’antico palazzo della famiglia Caetani per visitarne l’archivio. «Entrate, cercate e trovate, se potete» gli aveva detto Teresa Caetani, duchessa di Sermoneta. E così Stendhal, faticando non poco («j’en ai mal aux yeux», annotò), scoprì alcune relazioni molto probabilmente analoghe a quelle conservate dai Santacroce. Tutte avevano un titolo più o meno di questo tenore: Racconto veridico della morte del cavalier ecc., Relazione della memorabile giustizia ecc., e quasi tutte erano ambientate a Roma in un periodo compreso tra il Quattrocento e il Settecento. Erano storie di giustizia, storie di crimini efferati e di atroci supplizi, che avevano affascinato e avrebbero continuato ad affascinare scrittori e drammaturghi dell’Ottocento, dall’inglese Percy Bysshe Shelley al tedesco Ludwig Tieck. Nell’archivio della famiglia Caetani Stendhal ne scelse alcune, che fece trascrivere e rilegare in alcuni volumi conservati oggi presso la Biblioteca nazionale di Parigi. Come mai tanta curiosità intorno a quelle vecchie carte? E di che genere di documenti si trattava? Tralasciando le relazioni selezionate e tradotte da Stendhal per le sue Chroniques italiennes (dunque più note, almeno agli studiosi di letteratura), prenderemo in esame una di quelle scartate, e per ciò stesso trascurate. 1. Un documento e le sue origini Il titolo Relazione dell’omicidio funesto seguito in Persona del principe Savelli nella Terra dell’Ariccia l’Anno 1536 Nel pontificato di Paolo III rivela sinteticamente il contenuto del documento. Il termine «relazione» indica un genere di scritto assai diffuso in età moderna e dal più vario contenuto; in questo caso, si tratta della descrizione dell’omicidio di un giovane rampollo dell’antica famiglia romana dei Savelli, signori di Ariccia, nei pressi di Roma. Il documento si presenta in forma di cronaca, e cioè – per riprendere la definizione di Niccolò Tommaseo nel Dizionario della

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lingua italiana (1861-79) – come una «narrazione di fatti e casi [...] esposti o accennati secondo la successione de’ tempi». Il giovane Savelli – si racconta nella relazione – si era invaghito di una «giovane bellissima» di «parentado onorevole» promessa sposa a tal Cristofano, vassallo dei Savelli. I genitori di lei «per esimersi dalle vessazioni del prencipe» avevano affrettato le nozze, non scoraggiando però il Savelli che continuava a scrivere alla giovane, a cercare di parlarle e a inviarle regali, come un «guardacuore tutto lavorato di fiori onde prese lo sposo con grandissima gelosia». Cristofano aveva dapprima provato a cambiare abitazione; poi, vista l’insistenza del duchino, per «salvare l’onore di sua casa» si era deciso ad ucciderlo. Aveva detto quindi alla moglie di invitarlo a casa, con la scusa che lui, il marito, sarebbe andato per affari a Roma. Presentatosi nel giorno e nell’ora stabilita («verso la mezza notte»), travestito per non essere riconosciuto, Savelli era entrato nella casa dove era stato condotto da una serva in una stanza lontana dalla strada. Ad attenderlo non c’era la giovane ma il marito (travestito anche lui, ma con gli abiti della moglie), che gli aveva subito sparato «una pistolettata nel petto con cinque palle» e con un coltello gli aveva tagliato la gola. Con l’aiuto di un complice, Cristofano aveva poi trascinato il cadavere del duchino davanti alla soglia del palazzo Savelli «lasciandolo così immerso nel proprio sangue». La moglie intanto si era riparata in casa dei genitori mentre l’omicida, che avrebbe voluto uccidere anche lei, era fuggito con il suo complice «per le parti di Aleppo in Turchia». Il giorno successivo, sparsasi la notizia dell’omicidio, il governatore di Ariccia aveva fatto arrestare la giovane e i suoi parenti, mentre da Roma il papa Paolo III Farnese inviava subito «il capo notario criminale, il fiscale, il luogotenente et altri ministri» per condurre le indagini. La sposa era stata portata a Roma nelle carceri di Borgo Castello (cioè a Castel Sant’Angelo), dove per due mesi era stata

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esaminata e torturata con «li Ciuffoli, ed altri tormenti» affinché confessasse la sua complicità nel delitto. «Cristoforo mio marito non mi palesò mai che aveva intenzione di ammazzare il duchino ma solo mi diceva di volergli fare una burla», aveva riferito la giovane nella sua accorata autodifesa, che non era però servita a scagionarla. Condannata a morte, era riuscita ad aver salva la vita soltanto grazie all’intercessione di Margherita d’Austria, figlia dell’imperatore Carlo V, della quale era diventata in seguito damigella. Questa in sintesi la storia narrata nella relazione dell’archivio Caetani, verso la quale Stendhal manifestò in principio un certo interesse. Si decise infatti a pubblicarla insieme ad altre historiettes romaines (così chiamava i documenti scoperti) in un volume dal titolo Recueil de pièces qui montrent la manière de penser et d’agir dans les affaires de la vie privée, à Rome, vers 1550 (Raccolta di documenti che mostrano il modo di pensare e di agire nella vita privata, a Roma, verso il 1550). Per Stendhal non vi era dubbio: si trattava di storie «parfaitement vraies», scritte dai contemporanei in una sorta di «demi-jargon» (semi-gergo), tracce fedeli dei recessi più intimi del cuore umano: quelli sui quali, scriveva in una bozza di prefazione, «on aime à méditer la nuit en courant la poste» (si ama meditare viaggiando di notte). Ma per lo scrittore francese erano anche qualcosa di più, testimonianze autentiche di un’Italia divenuta assai di moda tra letterati e viaggiatori del Gran Tour: un’Italia mitica, dal Rinascimento decadente e grondante di sangue, della quale I Cenci di Shelley prima ancora che le sue historiettes rappresentavano un fulgido esempio. Peraltro, l’idea di pubblicare in un volume una selezione di relazioni fu presto abbandonata da Stendhal e – per motivi che vedremo più oltre – la storia del Savelli fu scartata. Per ora ci soffermeremo sul documento conservato oggi alla Biblioteca nazionale di Parigi, domandandoci prima di tutto da quale fonte originale sia stato trascritto.

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Quella delle origini delle relazioni stendhaliane è una questione sulla quale gli studiosi si sono a lungo arrovellati, non avendo mai lo scrittore – come molti suoi colleghi in analoghe vicende letterarie – rivelato apertamente la provenienza dei documenti trascritti. L’archivio Caetani, l’unico luogo esplicitamente nominato da Stendhal, è stato drasticamente riordinato tra il 1924 e il 1935 da Gelasio Caetani per redigere la Domus Caietana, una storia della famiglia rimasta però incompiuta. Le serie, le raccolte, i fascicoli originari sono stati in parte scompaginati; delle tante relazioni di delitti che potrebbe avere visto Stendhal ne affiora una soltanto, riguardante la morte di Vittoria Accoramboni. Non solo, ma è sufficiente sfogliare i cataloghi dei manoscritti di altre biblioteche romane per trovare vere e proprie sillogi di “storie tragiche” ordinate, in alcuni casi, con la stessa consequenzialità temporale delle raccolte stendhaliane. Se ci poi spostiamo nelle principali biblioteche italiane o in alcune biblioteche straniere, come la British Library o la Biblioteca Vaticana, troviamo analoghe raccolte di relazioni, pervenute a quelle istituzioni tra Sette e Ottocento attraverso donazioni o acquisizioni da collezioni private o dal mercato antiquario. Si tratta dunque di materiale ampiamente circolante già all’epoca di Stendhal, e che Stendhal potrebbe avere trovato anche in altre biblioteche o archivi gentilizi. Esaminando il catalogo dei manoscritti conservati presso la Biblioteca Angelica di Roma, troviamo un volume dal titolo Relazioni tragiche, raccolte e messe insieme da Lorenzo Manfredi romano, l’anno 1752: Principiano dal 1530 sino al 1642, nel quale tra i fogli 11-18 è trascritta una Relazione della morte che fece il Principe Savelli nel pontificato di Paolo III; e come il duca Savelli padre morisse alli Pazzarelli di Roma, ove poi lasciò li suoi beni, seguito dalla duchessa sua moglie. Con il termine «pazzarelli», il curatore della silloge voleva probabilmente alludere al vecchio manicomio di Roma, l’ospedale di Santa Maria della Pietà, fondato a metà del Cinquecento e familiarmente chiama-

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to, sin da allora, con quell’epiteto. È un particolare della storia che ritroviamo anche nella trascrizione fatta eseguire da Stendhal. Non solo, ma confrontando i due testi essi appaiono nel contenuto pressoché identici. Le non molte varianti sono principalmente di carattere lessicale: la relazione di Stendhal appare a tratti più discorsiva e nel complesso più moderna nello stile, mentre quella dell’Angelica, ricca di qualche particolare in più, è più arcaica nel periodare. In entrambi i casi si tratta, evidentemente, di copie rimaneggiate: ma riprese da quale relazione originaria? Nelle Memorie storiche dell’antichissimo municipio ora terra dell’Ariccia, scritte da un erudito locale, il canonico Emmanuele Lucidi, e pubblicate nel 1796, troviamo trascritta una relazione pressoché identica a quella conservata all’Angelica, anche se un po’ più lunga, con qualche particolare in più. Lucidi affermava di averla tratta da un documento conservato presso l’Archivio capitolare di Ariccia. Il volume nel quale si dovrebbe trovare – pur risultando nell’ultimo inventario dell’archivio, redatto nel 1977 – è però irreperibile. L’omicidio viene fatto risalire da Lucidi non al 1536, bensì al 1534. Nell’incipit troviamo inoltre un’informazione assente nella versione di Stendhal, ma presente con qualche piccola variante in quella dell’Angelica. Nel preambolo si dice: «Fra gli altri gravissimi successi, che si notano nel Pontificato di Paolo III, uno assai lagrimevole, ed infausto viene scritto dal card. Niccolò Cajetano, come per la relazione all’imperatore Carlo V in concorrenza di altri successi occorsi in Roma in detto pontificato». Se queste affermazioni sono attendibili, esisteva dunque un originario compendio di fatti “tragici” da cui la relazione sarebbe stata tratta. Non solo, ma viene anche indicato l’autore, identificabile in Niccolò Caetani, nato nel 1526 e cugino del papa Paolo III Farnese, dal quale fu creato cardinale all’età di soli dodici anni. Caetani era figlio di una Savelli: ed è per questo – possiamo supporre – che si potrebbe essere interessato al caso, tanto più che nella relazione si fa anche cenno a una sua

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«lettera famigliare» nella quale avrebbe lodato il giovane Savelli per le sue tante qualità. Ma a quando risalirebbe tale missiva? Il Savelli, secondo i dati che conosciamo, dovrebbe essere morto nel 1534 o nel 1536, epoca nella quale Caetani aveva otto-dieci anni, dunque la lettera deve essere stata scritta molto dopo l’omicidio. Ma quando esattamente? E indirizzata a chi? Quanto al memoriale sui «successi occorsi», del quale non vi è traccia nell’archivio di famiglia, dovrebbe essere stato scritto dopo il 1549, anno di morte del pontefice, e prima del 1556, anno di abdicazione dell’imperatore. Davanti a queste incertezze, e in mancanza della relazione originaria, è opportuno tornare alle versioni conosciute per tentare di individuarne l’autore, per datarne la redazione e per verificare la veridicità dei fatti narrati. La relazione trascritta da Lucidi sembra essere la più antica e la più completa. In essa, come anche nelle altre due versioni, quando si parla della morte del vecchio Savelli rimasto senza eredi e del problema della sua successione nel dominio di Ariccia, emerge un anonimo “io narrante” che accenna al matrimonio (avvenuto nel 1601) tra un Fabrizio Savelli e Caterina Sforza, figlia naturale del cardinal Francesco, del ramo di Santa Fiora. Non solo: la voce narrante sostiene di conoscere bene la storia della famiglia Savelli avendo avuto per moglie una parente di una «gentil donna bolognese» madre di un altro Savelli escluso dalla successione dopo la morte di Fabrizio, che sappiamo essere avvenuta nel 1605. Da quel momento in poi il dominio di Ariccia passò ai «signori che oggi godono», cioè alla linea dei Savelli principi di Albano, che la cedettero ai Chigi nel 1661. Se il misterioso “io narrante” è il vero estensore della relazione e non un artificio retorico, possiamo assumere queste due date – 1605 e 1661 – come termini rispettivamente post e ante quem di redazione del documento trascritto da Lucidi.

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2. Sulle tracce del delitto (e del processo) Quanto al fatto descritto, la prima cosa da osservare è che in nessuna delle versioni note – né in quella fatta ricopiare da Stendhal nel 1832, né in quella leggibile oggi alla Biblioteca Angelica, né in quella trascritta da Lucidi a fine Settecento – vengono rivelati i nomi propri dell’ucciso e del padre. Gaetano Moroni, nel suo Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica (1852), afferma che si trattava di Antonio Savelli e di suo padre Camillo. In una versione della relazione pubblicata nel 1891 ne «Il Cracas. Diario di Roma», senza però indicazione della fonte, il padre si sarebbe chiamato Mario. Secondo Pompeo Litta (Famiglie celebri italiane, 1868-72), Mario sarebbe invece il nome del figlio e Camillo quello del padre, morto intorno al 1592. Inoltre, in nessuna versione della relazione vengono menzionati il cognome dell’omicida, né il nome e cognome della moglie. «Dicevano però li nostri vecchi» – racconta Lucidi nel 1796 – «che il cognome dell’uccisore, o della di lui sposa era Lamentana, e che la casa, ove fu commesso l’omicidio fosse quella detta de’ Massaroni [...] nella strada del corso quasi dirimpetto al casino del governatore». Esisteva dunque ancora ai tempi del Lucidi una memoria locale del fatto, con tanto di indicazione del luogo in cui era avvenuto l’omicidio, identificato poi da un erudito di fine Ottocento, Giuseppe Tomassetti, in una casetta al n. 3 del Corso di Ariccia. In quella stessa epoca però un consigliere comunale, il futuro sindaco repubblicano Ubaldo Mancini, propose e ottenne che una strada di Ariccia (non il Corso ma una parallela, dove si sosteneva avesse abitato la ragazza) fosse dedicata a colei alla quale la leggenda attribuiva il nome di Silvia: nel frattempo diventata, nella tradizione dialettale romanesca, «la bella Checchina» vessata da «quer Savelli». Nella relazione trascritta da Lucidi, come nelle altre che conosciamo, si accenna anche alla procedura giudizia-

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ria avviata dopo il delitto, e si riportano alcuni brani dell’interrogatorio della moglie dell’omicida «estratti dal processo» svoltosi a Roma. Da un articolo apparso nel 1927 sulla rivista «Capitolium» apprendiamo che – almeno a quella data – il processo, o un sunto di esso, era ancora conservato presso l’Archivio di Stato di Roma, nel fondo del Tribunale criminale del Governatore, ma la collocazione indicata risulta erronea. Il fondo è stato parzialmente riordinato in tempi recenti, ed è possibile che al documento citato sia stata attribuita un’altra collocazione. In ogni caso, l’articolo del 1927 ci fornisce una serie di nuove informazioni piuttosto dettagliate sull’affaire. Innanzitutto i nomi dei personaggi coinvolti: la ragazza si sarebbe chiamata Giovanna Santi e i genitori Pietro e Maria, l’omicida Cristoforo Renzi, la vittima Mario, figlio di Onorio Savelli, e la serva Rosa di Nanni. Ma la cosa più sorprendente è che l’omicidio non sarebbe avvenuto ad Ariccia, bensì nei pressi della Rocca di Santa Marinella, dove Cristoforo avrebbe chiesto rifugio. La lettera scritta dal Savelli a Giovanna, alla quale quest’ultima rispose invitandolo a casa, sarebbe datata 15 giugno 1534. Nell’articolo di «Capitolium» viene indicata anche la data della sentenza, il 13 gennaio 1535. In mancanza delle carte processuali o di altri riscontri fattuali, non ci resta che sottoporre a verifica bibliografica e archivistica alcune circostanze descritte nelle diverse versioni della relazione. Il ricovero del vecchio Savelli nell’ospedale dei pazzi di Roma appare quantomeno singolare. Fondato nel 1548 su iniziativa di tre spagnoli, esso fu riservato, almeno all’inizio, soltanto ai poveri mendicanti e solo tra il 1559 e il 1561 divenne un «hospitio per huomini matti et privi di intelletto». In un primo momento ospitò soltanto pazzi derelitti e privi di mezzi, poi, a partire dal decennio successivo, fu aperto anche a soggetti “solventi” e, soprattutto nel corso del Seicento, a membri di famiglie di condizione sociale non modesta, ma assai raramente nobili. In ogni caso, la documentazione relativa ai

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primi anni di vita dell’ospedale conservata nell’archivio dell’ex manicomio è molto lacunosa; né il nome Savelli – che ricerchiamo nelle serie dei decreti, nei registri degli alimenti o nella documentazione sui lasciti – compare nei documenti superstiti. Ciò non prova che i fatti descritti non siano realmente avvenuti; ma i dubbi permangono, tanto più se si considera che l’internamento «ai pazzarelli» era diventato tra Sei e Settecento un vero e proprio topos letterario e drammaturgico della vita culturale non soltanto romana. Potrebbe dunque trattarsi di un’aggiunta fittizia alla relazione originaria. Rimane infine la questione dell’intervento della duchessa Margherita d’Austria, la quale, avendo inteso «celebrare le bellezze della sposa», ne avrebbe chiesto e ottenuto la grazia. Anche in questo caso, alcuni elementi non concordano. All’epoca dei fatti, siano avvenuti nel 153435 o nel 1536, Margherita doveva avere tra i dodici e i quattordici anni. Nel maggio del 1536 si trovava a Firenze, dove aveva sposato Alessandro de’ Medici, del quale però era rimasta prematuramente vedova. Si era quindi trasferita a Roma nel novembre del 1538 per sposare Ottavio Farnese, nipote del papa, diventando così duchessa di Parma. Questi soli dati biografici inducono a dubitare fortemente che Margherita – da Firenze, o da più lontano ancora – potesse essere venuta a conoscenza del fatto intervenendo con successo in favore della ragazza. È certamente possibile che le date fino ad ora emerse siano sbagliate e che l’omicidio Savelli vada collocato più in là nel tempo, oppure che la sentenza sia stata pronunziata molto successivamente al fatto, o che ne sia stata ritardata l’esecuzione. Nella relazione si dice anche che la donna rimase al servizio di Margherita sino alla morte di quest’ultima, che avrebbe lasciato una serie di disposizioni a suo riguardo. Ma nello «stato et rolo» della casa e corte Farnese redatto nel 1566 conservato presso l’Archivio di Stato di Parma, così come nel testamento di Margherita del 3 gennaio 1586 e nella lista dei dipendenti al suo servizio al

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momento della morte, non risulta il nome di Giovanna Santi, né altro nome riferibile alla donna in questione. Le carte, insomma, non vengono in aiuto. La mancanza di riscontri oggettivi potrebbe essere frutto soltanto di una coincidenza fortuita, dovuta alla lacunosità dei documenti d’archivio relativi al periodo in questione. Tuttavia sono molti, forse troppi i dati discordanti, tanto da indurci a dubitare della veridicità di alcune delle circostanze narrate. La ricchezza di particolari che emergono dalla relazione nelle sue varie versioni, e inoltre da fonti e studi successivi, ci spinge comunque a dare per certo che il fatto, o meglio, che un fatto sia realmente accaduto. Dove esattamente, quando, con quali modalità, per il momento ci sfugge. E in mancanza di un documento che riveli l’arcano, dobbiamo porci qualche altra domanda. 3. Un prodotto letterario? Finora abbiamo condotto la nostra analisi su un piano di critica della fonte strettamente filologico, mossi dall’intento di datare la relazione e di verificare la realtà storica dell’episodio descritto. Volendolo definire in termini squisitamente archivistici, di quale tipo di fonte si tratta? L’apparenza, come si è visto, è quella di una cronaca di fatti, che tuttavia sfuggono a una ricostruzione certa. Non solo, ma se riesaminiamo il testo secondo una prospettiva diversa e più generale, ci dobbiamo chiedere di cosa il documento sia realmente testimonianza. La storia raccontata, prima ancora che di un omicidio, è la storia di un sopruso nobiliare (o tentato tale) verso una fanciulla stritolata tra le pretese del signore e la gelosia del marito; poi diventa anche una storia di giustizia, con un pontefice prima inflessibile e poi magnanimo che interviene da Roma attraverso un dispositivo giudiziario – il tribunale del Governatore – destinato a diventare nel corso del Cinquecento uno strumento essenziale per ricondurre all’ordine

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la nobiltà baronale corrotta e violenta. Ma è veramente di questo che la nostra relazione è testimonianza, oppure di qualcos’altro? Per rispondere alla domanda è necessario ritornare al punto di partenza e cioè al luogo, o meglio, ai luoghi nei quali abbiamo trovato la relazione. Prima ancora che alle raccolte stendhaliane, guardiamo alla copia conservata presso la Biblioteca Angelica di Roma, analoga a molte altre conservate in numerose biblioteche italiane ed estere. Si tratta di raccolte per lo più di mano settecentesca, contenenti documenti all’apparenza simili, in realtà assai differenti tra loro: abiure, descrizioni di esecuzioni capitali, resoconti di processi, cronache di delitti celebri ecc. Alcuni sono esempi o rielaborazioni di “relazioni di giustizia”: testi diffusi sul luogo e nel giorno dell’esecuzione di un criminale con lo scopo di preparare il pubblico allo “spettacolo” del supplizio, ammonendolo dal compiere analoghi delitti. Di solito, testi del genere provenivano dagli ambienti stessi del tribunale che aveva emesso la sentenza, oppure – se diffusi dopo l’esecuzione – venivano desunti e rielaborati a partire dai bandi diffusi dalle autorità mescolati a testimonianze oculari. La nostra relazione però non sembrerebbe corrispondere a questa descrizione. Nel caso dell’omicidio Savelli, nessuna esecuzione capitale è avvenuta a punire il colpevole; per giunta (e ancorché sia basata su carte processuali) la relazione è stata scritta molto tempo dopo i fatti narrati. Anzi, essa si presenta proprio come una narrazione: un racconto storico nel quale i fatti vengono presentati come realmente avvenuti, con tanto di io narrante che si pretende attendibile e bene informato, laddove invece la vicenda appare ambientata in un generico passato («successi occorsi» sotto il pontificato di Paolo III), senza date precise e senza i nomi dei protagonisti. Se esaminiamo la struttura stessa del racconto, lo svolgersi della trama e il delinearsi dei personaggi, la relazione sembrerebbe aderire a quello schema invariabile del racconto popolare individuato da Vladimir Propp nel suo

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classico Morfologia della fiaba (1928). Nel delitto Savelli ritroviamo, anche se capovolti durante lo svolgersi della trama, alcuni degli otto personaggi-tipo indicati dal critico russo: Cristoforo è prima l’eroe che combatte l’anti-eroe Savelli che vuole rubargli la moglie e poi, compiuto l’omicidio, diventa a sua volta anti-eroe. La moglie invece, salvata dal deus ex machina-sovrana Margherita d’Austria, si trasforma in vera protagonista della storia. Allo stesso modo, se ci spostiamo sulla trama, troviamo alcune delle trentuno funzioni narrative delineate da Propp: divieto, trasgressione, tranello, allontanamento ed esilio, condanna, salvataggio e trasfigurazione. Quanto all’argomento trattato, la nostra relazione sembrerebbe avvicinarsi alle tematiche tipiche – e stereotipate – di certa novellistica cinquecentesca (per esempio le «istorie vere e mirabili» di Matteo Bandello, basate su avvenimenti “tragici” realmente accaduti): un genere però in declino, e destinato non più che a un pubblico colto, già a partire dal Seicento, quando, con la nascita delle prime forme di giornalismo, la cronaca nera e i faits divers cominciarono ad affiorare negli avvisi e nelle prime gazzette. Potremmo allora assimilare la nostra relazione a tutta quella letteratura di largo consumo circolante tra Sei e Settecento, spesso stampata su carta scadente, nella quale venivano raccontati – oltre a eventi naturali sconvolgenti – anche sordidi delitti e atroci ammazzamenti, con nomi di luoghi e persone talvolta storpiati, e date cambiate o attualizzate, per rendere il prodotto editoriale più appetibile perché vicino nel tempo, e dunque vero. La relazione sul delitto Savelli, che condivide con quegli scritti lo stile moraleggiante e il periodare carico di aggettivi e pleonasmi, è però manoscritta. La cosa in sé e per sé non deve stupire, vista l’ampia circolazione che i testi manoscritti continuarono ad avere parallelamente alla diffusione della stampa, costosa e soggetta al controllo occhiuto della censura. Non a caso, alcune delle relazioni (per esempio quelle relative al delitto Cenci, consumato a Roma nel 1598, o ad altri de-

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litti celebri) furono sin dall’inizio oggetto di sospetti governativi e di proibizioni censorie, per la compassione o la simpatia popolare che potevano alimentare nei confronti di rei trasfigurati in vittime della violenza o dell’arbitrio dei potenti. Storie scabrose, spesso, composte da non ben identificati autori – per lo più notisti e avventurieri della penna, ma anche avvocati o cancellieri dei tribunali – facenti parte di una letteratura a metà tra informazione e pettegolezzo circolante più o meno clandestina nell’Europa del Settecento, in forma manoscritta o con luoghi e date di edizione falsi. L’ampia diffusione di questo materiale rivela l’esistenza di un preciso mercato e di un determinato pubblico. Ed è esattamente di ciò – un mercato, un gusto letterario, un pubblico – che la nostra relazione è soprattutto testimonianza. Essa è traccia non tanto del fatto descritto, né dei costumi e della giustizia di antico regime, né, come pensava Stendhal, delle passioni provate dagli uomini e dalle donne del Cinquecento, quanto piuttosto della rappresentazione che di tutto ciò veniva data, tra Sei e Settecento, in adesione a precisi stereotipi e modelli culturali. Alcune raccolte di relazioni si aprono con un preambolo nel quale si fa ricorso alla metafora della storia magistra vitae per presentare i «casi funesti» cagionati da «temerarie ed irregolate passioni da temersi et fuggirsi». Un intento, almeno formalmente, di carattere pedagogico e moralistico, che non chiudeva però la strada ad altre fruizioni. Nel caso del delitto Savelli, il dramma della gelosia e l’adulterio, l’omicidio e le modalità violente con le quali era avvenuto, la rappresentazione stessa del funzionamento della giustizia nei “tempi antichi”, erano tutti elementi che potevano solleticare la curiosità dei lettori in un epoca nella quale il processo penale era ancora segreto. Di lì a poco, e lungo tutto l’Ottocento, le cronache giudiziarie e le raccolte di processi celebri sarebbero diventate un vero e proprio genere editoriale di successo. Chi (e in quale modo) fruiva di questo tipo di testi? Il

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fatto che molte raccolte si trovino in collezioni di origine gentilizia o ecclesiastica, redatte spesso in modo assai accurato da un’unica mano e rilegate in volume, potrebbe far supporre che fossero richieste da – o rivolte a – un pubblico selezionato: diverso dal grande pubblico destinatario dei fogli a stampa, smerciati a poco prezzo nelle piazze o letti pubblicamente ad alta voce. Ma è sui termini vero, veridico, veritiero, che così spesso ricorrono nei titoli delle relazioni «tragiche» così come nei commenti di coloro che le lessero e le rielaborarono nel corso dell’Ottocento, che dobbiamo soprattutto concentrarci per trovare una risposta alle nostre domande. Stendhal non dubitava che quelle relazioni (per quanto scritte, a suo dire, alla stregua di «bavardages», chiacchiericci da comari) si riferissero a fatti veri, tanto da considerarle autentiche cronache. Nella letteratura ottocentesca e anche oltre, “cronaca” è però un termine che diventa ambiguo: un modo di raccontare che può diventare finzione o pastiche, in un gioco di specchi nel quale il cronachista, l’io narrante vero o falso che sia, può muoversi liberamente tra verità storica e fiction, là dove il termine “vero” può significare, in realtà, deliberata invenzione, anche se resa credibile da un dettagliato sottofondo storico. Che cos’è allora la nostra relazione sull’«omicidio funesto» del principe Savelli? Un romanzetto storico ante litteram, basato su una storia vera rielaborata e narrata in funzione di tipici topoi letterari? Al di là delle definizioni, soffermiamoci sul suo destino letterario. Come si è accennato, Stendhal finì per scartarla dalla rosa di quelle che voleva pubblicare. Se cercassimo tra le annotazioni dello scrittore francese a margine del manoscritto le ragioni di questa scelta, rimarremmo però delusi. In altri casi, l’autore del Rosso e il Nero non ebbe dubbi sin dall’inizio: «crime vulgaire», scrisse a margine del resoconto di un omicidio compiuto nel Quattrocento a Roma da un servo nei confronti del proprio padrone. Per il delitto Massimo, storia di un fratricidio compiuto a Roma a fine Cinque-

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cento, Stendhal in principio esitò, e fu poi «par prudence mondaine» (la stessa suggerita da Santacroce a Walter Scott) che decise di non pubblicarne il resoconto. Sulla vicenda Comparini-Franceschini, un triplice assassinio avvenuto a Roma a fine Seicento, Stendhal fu drastico: «crime vil, assassinat de famille par intérêt d’argent». Non della stessa opinione sarebbe stato, di lì a poco, l’inglese Robert Browning, il quale, trovate le carte processuali in una bancarella a Firenze, dedicò all’affare un poema in dodici libri e circa ventunomila versi, The Ring and the Book, pubblicato tra il 1868 e il ’69. Nel caso della nostra relazione, lo scarto stendhaliano non avvenne in un modo così netto, ma in conseguenza di un interesse più generale venuto meno. Le prime due cronachette – Beatrice Cenci e Vittoria Accoramboni, poco più che traduzioni dal testo originario – furono pubblicate nella «Revue des Deux Mondes» nel 1837 «for money», come scrisse Stendhal: tanto per guadagnar qualcosa. Poi lo scrittore francese si mise a lavorare alla Duchessa di Palliano e alla Badessa di Castro; ma, soprattutto per quest’ultima, con un altro metodo e con ben altro impegno, rielaborando la relazione originaria e aggiungendo molte parti di completa invenzione. Emergeva intanto l’idea della Certosa di Parma, nella quale Stendhal avrebbe inserito un’altra delle relazioni manoscritte trovate in Italia. A questo punto, il suo viaggio nelle carte italiane si era avviato a conclusione: il resto del materiale romano sarebbe stato da lui ben presto abbandonato. Il delitto Savelli, però, aveva già trovato un estimatore nel letterato e storico dell’arte tedesco Carl Friederich von Rumohr, curatore di una raccolta di novelle italiane «di interesse storico» pubblicata ad Amburgo nel 1823. Nella tarda estate del 1834, veniva alla luce per la collana tascabile Urania dell’editore Brockhaus un suo racconto dal titolo Der letzte Savello, l’ultimo dei Savelli, nel quale si narrava la storia di un principe crudele e corrotto e di una coppia di giovani, Giustiniano e Cassandra, vittime delle

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sue vessazioni. Il finale era tragico: Margherita d’Austria – personaggio centrale del racconto – non riusciva a salvare la fanciulla, che si apprestava ad affrontare quasi con indifferenza la morte benvenuta. Nel 1838 la Cassandra di Rumohr diventava Letizia Romagnoli nel racconto Die Braut von Ariccia (La sposa di Ariccia) di Franz von Gaudy, per trasformarsi poi in una Maria Moroni nell’omonimo dramma di Paul Heyse, andato in scena a Berlino nel 1866. Non è noto con esattezza su quali fonti originali avesse lavorato Rumohr, ma un fatto è certo: sotto la sua penna così come sotto quella di altri scrittori tedeschi, la nostra storia era diventata letteralmente un’altra storia.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Per quanto attiene alle fonti si veda: Archivio Caetani, Fondo generale 146753/1585 Nov. 13; Biblioteca Angelica di Roma, Manoscritti, 1587, ff. 11r-18v; Bibliothèque Nationale de France, Ms. Ital. 170, f. 44r; 171, ff. 2r, 3r-7v, 105r; 172, f. 20v; British Library, Mss. ADD 8409; E. Lucidi, Memorie storiche dell’antichissimo municipio ora terra dell’Ariccia, Lazzarini, Roma 1796, pp. 441-446; «Il Cracas. Diario di Roma», V, 1891, n. 16, pp. 220-230. Per quanto attiene alla bibliografia si veda: J.G. Lockhart, Memoirs of the Life of Walter Scott, IX, Ticknor and Fields, Boston 1862, pp. 206-207; Soirées du Stendhal Club. Deuxième série. Documents inédits, 1908, pp. 235-237; Stendhal, Chroniques italiennes (1829-42), Texte établi, annoté et préfacé par Victor Del Litto et augmenté des textes des “Manuscrits italiens” de la Bibliothèque Nationale, Slatkine Reprints, Genève-Paris 1986; L.F. Benedetto, La Parma di Stendhal (1950), Adelphi, Milano 1991; O. Raggi, I Colli Albani e Tuscolani, Puccinelli, Roma 1844, pp. 112-121; G. Moroni, Dizionario di erudizione storicoecclesiastica, LVII, Tipografia Emiliana, Venezia 1852, p. 200; P. Litta, Famiglie celebri italiane, s.e., s.l. 1868-1872, Savelli, tav. V; A. Sindici, Ottobbre. Strada facenno, in «Nuova Antologia», LI, 1073, 1° ott. 1916, pp. 283-293; A. Fabrizi, Spiagge romane “San-

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ta Marinella”, in «Capitolium», III, 7, ott. 1927, pp. 327-344; G. Tomassetti, La campagna romana (1910-26), Banco di Roma, Roma 1975, II, pp. 286-287; G. Caetani, Caietanorum Genealogia, Unione Tipografica Cooperativa, Perugia 1920, p. 71; Margherita d’Austria. Costruzioni politiche e diplomazia, tra corte Farnese e Monarchia spagnola, a cura di S. Mantini, Bulzoni, Roma 2003; L. Roscioni, Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi nell’età moderna, Bruno Mondadori, Milano 2003; V.Ja. Propp, Morfologia della fiaba (1928), Einaudi, Torino 2000; M. Infelise, Criminali e “cronaca nera” negli strumenti pubblici di informazione tra ’600 e ’700, in «Acta Histriae», 15, 2007, 2, pp. 507-520; I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato Pontificio in età moderna, Laterza, Roma-Bari 2007; A. Natale, Gli specchi della paura. Il sensazionale e il prodigioso nella letteratura di consumo (secoli XVII-XVIII), Carocci, Roma 2008; M. Bellorini, The Ring and The Book di Robert Browning: Poesia e Dramma, ISU-Università Cattolica, Milano 2004; C.F. von Rumohr, Der letzte Savello, F.A. Brockhaus, Leipzig 1834; F. von Gaudy, Die Braut von Ariccia, in Id., Venetianische Novellen, II, Appun’s Buchhandlung, Bunzlau 1838, pp. 65-100; A. Reumont, Die Saveller von Ariccia, in Id., Neue Römische Briefe von einem Florentiner, II, Brockhaus, Leipzig 1844, pp. 138-151; P. Heyse, Maria Moroni. Trauerspiel in fünf Akten, Wilhelm Hertz, Berlin 1865; E.Y. Dilk, Ein “pratischer Aesthetiker”. Studien zum leben und Werk Carl Friederich von Rumorhs, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2000.

Fare un monumento di se stesso Una fonte oratoria di Salvatore Lupo

1. Il palese e il nascosto La lotta politica si svolge su diversi piani: distinguiamo, in maniera molto generica, l’occulto, il riservato, il palese. È raro che gli storici possano arrivare al primo attraverso una documentazione capace di fare luce piena e diretta; in genere si lavora su indizi, si utilizzano testimonianze indirette, ci si impegna in complesse e scivolose ipotesi. Il secondo piano è quello cui classicamente si giunge facendo ricorso alla documentazione archivistica pubblica o privata, ai carteggi, ai diari o alle memorie. Sul terzo piano disponiamo invece di fonti dirette: trattiamo cioè di quello che la politica dice di se stessa e del modo in cui si presenta al pubblico. Per definizione, abbiamo tutta la documentazione. Non per questo viene a mancare la necessità del lavoro ermeneutico dello storico. Col discorso, il politico vuole presentare se stesso a un certo pubblico, vuole giustificare, convincere, costruire una propria immagine, ottenere dei risultati. È questo il piano nascosto che esiste anche nella parte più palese della politica. Noi analizzeremo qui il testo di quattro discorsi di Francesco Crispi, pronunciati in pubbliche riunioni tra il 1881 e il 1884. Ci troveremo davanti a un’esperienza storica della quale non è facile cogliere oggi il senso, singolarmente impastata com’è di elementi progressisti e reaziona-

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ri, liberali e liberticidi, patriottici nel senso migliore e nazionalisti nel senso peggiore del termine. Non è facile nemmeno entrare in sintonia con l’oratoria rotonda e appassionata di Crispi, con il suo stile da avvocato meridionale e patriota ottocentesco. Non disponiamo in questo caso di immagini, e nulla dunque sappiamo della gestualità e del messaggio non verbale usato dall’oratore. Ci concentreremo dunque sul testo, sulla retorica utilizzata, partiremo dallo stile per comprendere il senso di una linea politica. Secondo lo storico Silvio Lanaro, Crispi fu l’«unico uomo di stato» dell’Italia liberale in possesso di «tutte le virtù del leader carismatico», di «una consonanza spontanea con il cuore della nazione». Noi cercheremo di capire quale flusso lo legasse ai suoi seguaci, in che misura possa definirsi spontanea quella consonanza. Per farlo dovremo uscire un po’ dal nostro tempo, entrando in un altro tempo e in un’altra cultura. Parliamo del secondo Ottocento, che vide in Italia la formazione di uno stato nuovo, di tipo nazionale, liberale, rappresentativo, l’ingresso di nuovi soggetti nel campo della politica, il trionfo dell’opinione pubblica e della “democrazia per discussione”. Crispi visse l’intero processo, e in un certo senso lo personificò agli occhi dei suoi contemporanei. Prima di tutto presentiamone la figura. Crispi nacque nel 1819 (o forse nel 1818) a Ribera, paese della profonda Sicilia latifondistica, da famiglia di origine albanese, studiò a Palermo, praticò l’avvocatura a Napoli. Schieratosi tra i democratici, svolse un ruolo di primo piano nella rivoluzione siciliana del 1848. Giunta la restaurazione, dovette rifugiarsi prima in Piemonte poi in vari paesi europei, dove si legò a Giuseppe Mazzini e al movimento repubblicano. Nel 1860, fu l’uomo-chiave del governo garibaldino della Sicilia. A unificazione compiuta, al pari di altri suoi compagni, accettò la monarchia e fu uno dei leader del partito della sinistra, l’opposizione (si diceva allora) costituzionale a quello di destra che teneva il governo. Quando, nel 1876, la sinistra andò finalmente al governo sotto

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la guida di Agostino Depretis, Crispi divenne presidente della Camera, poi ministro degli Interni. Però subito dopo – non riuscendo a trovare un ruolo politico adeguato all’alta opinione che aveva di sé – si allontanò da Depretis e dallo schieramento governativo. 2. Il grande vecchio È il 13 novembre del 1881, e Crispi si rivolge ai cittadini che l’hanno rieletto alla Camera nelle elezioni del maggio 1880 con un discorso tenuto nella sede che è la sua, quella della Società democratica di Palermo. Esordisce dicendosi orgoglioso di aver ottenuto consensi, lui uomo «di principi», senza «distinzione di elettori» – insomma di essere stato votato da elettori di vario orientamento, per quanto sia nota la sua appartenenza a un determinato partito. In mezzo a voi sonvi molti giovani i quali non sanno di me che per averne sentito parlare; ma vi sono anche dei vecchi miei contemporanei, i quali furono compagni nei dì delle prove, dei pericoli e dei sacrifizi. Essi hanno ragione di conoscermi: nel giro di trentadue anni, avvicendando le cospirazioni e le barricate, fummo indomiti soldati, non sempre con fortuna e talora senza neanco la speranza del successo; stanchi giammai. Orbene: siamo vissuti abbastanza, perché abbiamo potuto vedere la costituzione della patria italiana.

L’oratore raffigura sempre se stesso a cavallo tra passato e presente. Si presenta come uomo di partito ma anche, o soprattutto, uomo della nazione. Non sente come contraddittorie le due aspirazioni: anzi chiede ai vecchi compagni di aiutarlo a farsi riconoscere così dai giovani e da tutti gli italiani. Celebra i propri successi e persino le proprie sconfitte del passato, perché vuole presentarsi all’insegna della coerenza. Saluta il presente e l’avvicinarsi di una riforma elettorale ispirata ai principi della democrazia, che sono quelli originari della sua parte politica.

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Il diritto di voto, per la scelta dei deputati al Parlamento, è ingenito a ciascuno di noi. Tutti i cittadini italiani debbono direttamente, o indirettamente, prendere parte all’amministrazione dello Stato. [...] Gli analfabeti resteranno fuori dalla vita ufficiale, e me ne duole. Dipende però da loro il divenirne abili; a misura che l’istruzione si estenderà, il numero degli elettori si andrà allargando.

L’anno seguente, nel 1882, furono in effetti ammessi al voto tutti i maschi che avevano raggiunto i 21 anni di età e che si mostravano capaci di leggere e scrivere: si trattava del 7% circa della popolazione totale, percentuale destinata a crescere negli anni seguenti sino al 9%. Il risultato può sembrare modesto ma non lo era, e non solo perché più che triplicava il 2% ammesso in forza alla precedente legge elettorale. Se vogliamo capire quale spaccato sociale veniva chiamato alla partecipazione politica, dobbiamo ricordare che di voto alle donne allora quasi nessuno parlava, e che i minorenni erano numerosissimi in quell’età ad alto tasso di sviluppo demografico (oltre il 6% annuo). Insomma, quel suffragio “allargato” includeva circa il 40% dei maschi adulti, e figure sociali anche popolari – artigiani e operai, ma ben difficilmente contadini. Gli uomini della sinistra (e tra loro, come abbiamo visto, Crispi) si aspettavano peraltro la sconfitta dell’analfabetismo per gli effetti della legge Coppino approvata nel 1877, che prevedeva due anni di scuola pubblica, gratuita e obbligatoria per tutti. Di lì a una ventina d’anni, pensavano, i giovani proletari sarebbero stati in grado di partecipare alla vita della nazione. Quella era la scadenza cui il liberalismo democratico doveva prepararsi. Va detto peraltro che la legge Coppino si rivelò insufficiente, di difficile applicazione: finché la legge elettorale non fu cambiata con l’ammissione dei maschi analfabeti (1912), la percentuale dei votanti non superò il 9%. Il suffragio allargato si rivelò così una soluzione abbastanza stabile, che definì per un trentennio circa i confini del popolo politica-

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mente “capace” cui la democrazia italiana si riferiva, che essa considerava suo interlocutore. Veniamo ora a quello che distingueva Crispi da Depretis: la critica del trasformismo, ovvero di una politica tendente alla scomposizione dei due partiti, alla convergenza tra frazioni dell’uno e dell’altro su una linea centrista, all’annacquamento delle rispettive identità. Rileva lucidamente Crispi nel discorso del 1881 che il trasformismo non unifica davvero, ma anzi provoca o conferma il processo, già in atto alla Camera, di frazionamento in gruppi e sotto-gruppi. Siamo in un paese di recente unificazione, con grandi differenze interne e radicate identità locali. In tale situazione, il sistema uninominale rende più spesso il deputato rappresentante del suo collegio che di un’idea politica, di interessi locali-particolari anziché generali-nazionali. Il candidato non ha bisogno dei partiti per essere eletto né ha bisogno di presentarsi ai suoi elettori con una spiccata caratterizzazione partitica. Crispi – con altri – vuole cambiare sistema per creare una rappresentanza politica nazionale, consapevole cioè degli obiettivi (di progresso o anche conservazione) che sono propri delle nazioni: da qui la proposta dello “scrutinio di lista”, ovvero dell’allargamento dei collegi che consenta diverse candidature e assicuri una rappresentanza proporzionale alle minoranze, incoraggiandole a esprimere una propria identità partitica anche su scala locale, da portarsi poi sino all’assemblea nazionale. Bisogna togliere ai piccoli centri il mezzo per mandare alla Camera individui che non hanno il grande concetto della patria italiana, e perché nati e allevati sul luogo non sentono che l’amore del suolo natio. E nessuno avrà di che dolersene, perché alla tutela degli interessi locali bastano il comune e la provincia.

Crispi poi addebita al trasformismo effetti ancor più deteriori, lo sviluppo di un sistema basato sullo scambio di favori tra governo e singoli deputati, sulla compravendite

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di coscienze e gruppi politici (è in effetti quest’accezione super-negativa del termine che ci è rimasta in eredità). La dialettica tra progressisti e conservatori, spiega, è infatti indispensabile per la formazione di un’opinione pubblica, e per il buon funzionamento dello stesso Parlamento. «Uomo della Sinistra, preferisco le idee alle fazioni. Ho tenuto ferma la bandiera del mio partito e sarò sempre pronto a propugnarne le idee.» «La terra, il capitale e la Chiesa sono elementi conservatori, [...] perché hanno interessi da conservare, privilegi da mantenere.» I progressisti sono per il popolo e gli interessi di tutti, cioè della nazione. Come spiegare allora la generale convergenza della classe politica dei primi anni Ottanta su una prospettiva di riforma democratica? La risposta di Crispi riparte dall’inizio, dalla storica vittoria conseguita nel 1861 con l’unificazione d’Italia, ma anche dalla battaglia ventennale contro le chiusure oligarchiche in cui si sono impegnati nel ventennio successivo i più coerenti leader della sinistra (Crispi conta che i suoi ascoltatori pensino a lui, non a Depretis). I tempi vengono a noi. Quelle riforme che sedici anni addietro parevano audaci o intempestive, oggi sono consentite da uomini di Destra. Il suffragio universale, che dicevasi avrebbe sconvolto il paese e rilevato il dominio delle plebi, oggi si ritiene utile da tutti. Si ammette che lo Statuto sia perfettibile e che in conseguenza possa essere modificato, e che il Senato vitalizio, la cui riforma ho da molti anni propugnato e per la quale mi attirai le censure dei puritani della Destra, divenga elettivo. (Benissimo, benissimo). Che volete di più? I tempi vengono a noi, dico.

Se la storia sta dando ragione alla democrazia, Crispi tiene a presentarsi come quello che meglio di chiunque altro ne ha previsto e indirizzato il percorso. Va qui ricordata una lettera aperta da lui indirizzata a Mazzini del 1865, nella quale la scelta monarchica veniva dipinta come necessaria per stabilire una piattaforma costituzionale, su

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cui costruire la convivenza tra i diversi partiti. Si trattava di un appello di grande lucidità, così sintetizzabile: facciamola finita con l’idea della rivoluzione se vogliamo incamminarci sulla strada delle riforme, attingiamo al modello inglese, quello classico per il liberalismo ottocentesco. Alla fine del Settecento, gli inglesi avevano dichiarato “chiusa l’era delle rivoluzioni” per avviarsi sulla strada della pacifica evoluzione che aveva fatto grande il loro paese, lo stesso doveva ora avvenire in Italia. «Il reggimento politico del regno è lontano le mille miglia dalla perfezione. Ma non bisogna combatterlo con le sette, né spingere il popolo alle barricate. È nostro dovere di correggerlo, di rappezzarlo.» Uno dei punti cruciali della lettera era questo: insistendo nel rifiuto dello stato nato nel ’61, Mazzini finiva col negare i propri meriti. «Il regno d’Italia – aveva scritto Crispi al grande leader repubblicano – è opera vostra, nostra e di coloro che erano nel campo avverso e che parteciparono alla rivoluzione. Sin oggi è un’opera incompleta ma si compirà, statene certo». Quanto a Crispi, non era disposto a rinunciare alla rivendicazione di alcuno dei propri meriti. Si presentava come il grande vecchio che avrebbe anche potuto sentirsi pago del glorioso contributo fornito («abbiamo fatto abbastanza»), ma che restava sulla scena perché la nazione aveva bisogno di un testimone che fisicamente legasse il suo risorgimento al suo futuro, in una fase storica che avrebbe visto la scomparsa di altri padri della patria (Mazzini stesso nel 1872, il re Vittorio Emanuele II nel 1878, Garibaldi nel 1882). 3. La nuova missione Crispi utilizzò dunque lo straordinario capitale simbolico del suo passato per presentarsi da protagonista sullo scenario italiano dei primi anni Ottanta. Egli si inseriva d’altronde in un’operazione ben più vasta di celebrazione del

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momento in cui la nazione, quasi fosse stata una singola creatura vivente, si era ridestata dal suo sonno ed era insorta «come un sol uomo» per la propria libertà-indipendenza dallo straniero. Ritualizzazione e monumentalizzazione del Risorgimento volevano fondare una “religione civile” intesa a garantire la fedeltà dei cittadini al nuovo stato. Corrispondevano d’altronde a operazioni che noi diciamo adesso di uso pubblico della storia, messe in atto in diversi paesi, in diversi tempi e da diversi regimi. L’uso pubblico della storia fornisce risposte – non importa se davvero storico-realistiche o al contrario fumosamente ideologiche – a domande di questo genere: c’è una strada che conduce dal passato al futuro, c’è un destino delle nazioni? Noi comunque non dobbiamo dimenticare che nella realtà non è il passato a ispirare il presente, ma al contrario è il presente a selezionare nel passato gli eventi e i concetti atti a costruire un percorso legittimante. Può essere logico che un nuovo regime selezioni nella storia recente, per giustificare la propria esistenza, un momento di svolta radicale e lo chiami risorgimento, o anche rivoluzione. La destra post-unitaria non era però ben preparata a un’operazione di questo genere. Molti dei suoi leader del 1859-61, stretti intorno a Camillo Benso conte di Cavour, avevano lavorato proprio per rassicurare il conservatorismo europeo, quello italiano e persino se stessi, che la loro non era una rivoluzione; che anzi la loro azione era tesa a impedire proprio uno sviluppo rivoluzionario degli eventi, l’esito catastrofico ordito dai Mazzini, dai Garibaldi, da quelle decine di migliaia di scalmanati in camicia rossa che opportunamente erano stati subito rispediti a casa nel 1861, appena restaurato l’ordine nel Mezzogiorno. I moderati avevano fatto ricorso ai plebisciti a suffragio universale maschile per sancire l’unificazione, ma per il resto si erano guardati bene dall’enfatizzare la discontinuità, anche per tagliare fuori quelli che l’avevano davvero cercata. Il monarca aveva conservato il suo vecchio nome di-

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nastico, Vittorio Emanuele secondo, senza rivendicare il titolo di primo re d’Italia. Il nuovo regno aveva semplicemente recepito lo Statuto albertino, senza che nessuna solenne assemblea nazionale fosse chiamata a ratificare il passaggio. Il diritto di voto era stato limitato a una frazione infima della popolazione. L’Italia post-unitaria era insomma governata da un partito che ben difficilmente poteva definirsi rivoluzionario; è vero però che esso stesso, con il suo stato nuovo contrapposto alla Chiesa e alla memoria delle vecchie dinastie, non poteva nemmeno dirsi conservatore. Non trovava alcun credibile appiglio nella tradizione, come doveva fare ogni regime stando a un grande del liberalismo moderato, lo scrittore e leader politico francese di primo Ottocento Francois Guizot: «Non v’è paese, non v’è tempo in cui una determinata porzione del sistema sociale, dei poteri pubblici, non si sia attribuito e non abbia avuto riconosciuto questo carattere della legittimità che proviene dall’anzianità, dalla durata». Di questo formidabile problema di legittimità sembra che Crispi fosse ben conscio. Continuò a battere sul suo argomento: spettava alla sinistra il merito di aver imposto la soluzione nazionale-unitaria, mentre i moderati avevano più che altro cercato di sabotare l’iniziativa meridionale di Garibaldi per poi accettarne tardivamente, quasi di malavoglia, i frutti. Non si sentì quasi mai Crispi lodare la memoria di Cavour. Non rinunciò mai a rievocare la politica filo-francese dei primi governi della destra come un vergognoso cedimento morale allo straniero. Insomma, non cedette a una delle più tipiche operazioni celebrative del passato – in cui le contraddizioni del processo storico reale vengono oscurate, e tutti i soggetti sono caricati nell’unica barca di una memoria, come si dice oggi, condivisa o pacificata. Ci tenne sempre a che la coerenza del percorso della nazione venisse identificata con la coerenza del suo partito e soprattutto con quella sua personale. Allo stesso modo, Crispi continuò a pensare e comun-

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que a dire che il problema non poteva essere risolto da una sinistra alla Depretis, con il suo basso profilo ideale, con le sue angustie trasformiste, con le sue infinite prudenze. Per fare ripartire il processo di nation-building, ovvero di costruzione della nazione, l’ex garibaldino riteneva necessario rimettere in campo un profilo radicale, quello che portava nel suo bagaglio identitario. Fu per questa ragione che, dopo averlo mandato in soffitta nel 1865, tornò a utilizzare il concetto di rivoluzione nei primi anni Ottanta. Vediamolo nel discorso da lui tenuto il 31 marzo 1882 a Palermo, in occasione del sesto centenario dell’insurrezione antifrancese dei Vespri siciliani. Cittadini. [...] Qui, in questa piazza, dinanzi a questa chiesa, dove le memorie delle nostre vittorie sono indimenticabili, commemorate il giorno in cui un popolo, cessando dal giusto furore, organizzò il governo della rivoluzione. In questa piazza fu firmato il patto federale cogli altri comuni per collegarsi nella difesa contro il tiranno rovesciato. (Applausi). Cittadini, il 31 marzo 1282 i nostri padri proclamarono il Comune; il Comune, governo naturale del popolo.

Crispi disegna le tappe della rivoluzione, come ponendosi a cavallo tra il dato storico (o pseudo-storico) e quello concettuale: il fondamento di tutto è nell’azione popolare, in quel «giusto furore» che rivitalizza il governo «naturale», ovvero il comune, che crea un parlamento e aspira alla repubblica. I contrasti intestini tra partiti e l’impossibilità di reggere lo scontro militare con lo straniero, però, portano alla scelta monarchica: «Né guelfi né ghibellini. Ecco invece la moderna formola: il monarcato nazionale, il quale abbia il popolo alla base». Vero è – aggiunge l’oratore – che la libertà conquistata dai siciliani col vespro, grazie a quella «moderna formola», è stata nel tempo lungo perduta, perché l’isola non poteva avere, da sola, la forza di difenderla. Al XIII secolo viene a questo punto fulmineamente sovrapposto il XIX. La storia, spie-

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ga Crispi, conferma che la scelta monarchica e unitaria fatta dalla rivoluzione nazionale nel 1860-61 è stata quella giusta. Si temperano gli animi ad opere grandi e generose col ricordo delle virtù degli avi. (Applausi) [...] Il passato segna i doveri dell’avvenire. [...] Noi ci conosciamo da lunga pezza, e ci siamo visti in parecchie rivoluzioni. Il trionfo non vi ha mai ubriacati; e nei giorni difficili delle cadute e delle instaurazioni di governi voi non siete precipitati nel disordine. [...] Innalzato il monarcato nazionale per virtù di un popolo e per prudenza di un re, voi appartenete a una nazione, che è tra le prime del mondo.

Si vede come l’identità presente – noi siamo gli italiani e loro sono gli stranieri – possa essere proiettata ad libitum verso ere remote senza preoccupazioni di verosimiglianza. Basterà fornire al pubblico segnali che rendano comprensibile a quali oggetti presenti veramente ci si riferisce. In questo stesso stile, dal 1882 al 1884, e da Palermo a Roma, Crispi allarga ulteriormente il raggio del suo discorso producendosi addirittura in una sintesi della decadenza e della rinascita della nazione che parte dalla caduta dell’impero romano: è quanto compie nel discorso del 23 marzo 1884 pronunciato al Collegio romano, «a beneficio della Cassa sovvenzioni per gli studenti bisognosi». L’oratore si riferisce, va detto, a una decadenza politica, non culturale. Come tutti i patrioti, prima e dopo il 1861, sottolinea la tenuta attraverso i secoli di una grande identità storico-culturale che è precedente e sottostante a quella politica, rappresentandone la risorsa più rilevante: «i nostri artisti, i nostri poeti, i nostri filosofi, i nostri capitani provarono che nella penisola gli elementi della vita nazionale erano depressi, ma non estinti, e che il Briareo [creatura della mitologia greca, dalle molte braccia] avrebbe rotto i ceppi e sarebbe risorto». Non altrettanto facile, per Crispi, è l’individuazione nel passato remoto di un’analoga linea di continuità poli-

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tico-istituzionale. Infatti il materiale disponibile (l’impero romano, la Chiesa, i comuni medievali, le repubbliche “marinare” di Genova e Venezia, gli stati regionali) parla casomai di universalismo e particolarismo localista, con una carenza desolante di oggetti riconducibili al progetto nazionale-unitario. La retorica monarchica impone comunque di salvare casa Savoia, attribuendole sin dal X secolo (sic!) una politica guerriera ed espansionista, dunque un’intenzione patriottica. La goffa forzatura non è d’altronde solo di Crispi: caratterizza molte delle storie patrie otto-novecentesche, i cui autori sono disposti ad attraversare qualsiasi territorio immaginario pur di tracciare un’unica strada proto-nazionalista che giunga all’Ottocento e alla prospettiva ottocentesca. Anche Crispi, giunto all’Ottocento, può finalmente descrivere con maggior realismo un’Italia in preda a un “pensiero dominante” – liberarsi dallo straniero. Spiega ancora una volta ai suoi ascoltatori che nessun progresso poteva essere realizzato senza il contributo della monarchia. D’altronde «nel reggimento dei popoli la forma è un mezzo e non fu mai uno scopo. Lo scopo è il benessere e la grandezza della nazione»: per conseguire questo risultato i repubblicani potevano e dovevano rinunciare al loro ideale. Lo sapeva ma fingeva di non saperlo Mazzini, lo capiva e lo diceva Garibaldi, ma a trarne sino in fondo le conseguenze era stato lui stesso, Crispi. I moderati, «per spirito di parte, hanno falsato la storia» della dittatura garibaldina «imputandoci intendimenti [repubblicani? separatisti?] che non furono mai nostri». Il vero obiettivo era quello di donare all’Italia, oltre al Sud, Roma: Ora siamo entrati a Roma, e vi stiamo, e vi staremo. In Roma però non bisogna esserci solo materialmente, e la nuova missione d’Italia qui comincia, e se insediatici nella eterna città abbiamo proclamato liberi i culti e le coscienze, è incompleta l’opera nostra finché con gli studi e con le armi, con la scienza e con la

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forza, non avremo provato allo straniero che noi non siamo minori dei padri nostri.

Il ritorno a Roma chiude il ciclo di una storia millenaria partita con l’allontanamento dell’Italia dalla città «eterna». La scienza e le armi italiane devono però ancora mostrare la loro ritrovata grandezza: il risorgimento nazionale è tutt’altro che concluso – anzi, è appena cominciato. 4. La nazione e l’antinazione Nel discorso tenuto a Palermo il 2 aprile 1884, inaugurando il Circolo universitario Vittorio Emanuele, Crispi rievoca la sua gioventù: «Quanto sono mutati i tempi! Sui nostri passi era allora il commissario di polizia, che ci pedinava spiando i nostri atti e i nostri pensieri; era il prete, che pesava sulle nostre coscienze; imperocché in quei tempi non era possibile salvarsi dall’incubo domenicale delle messe e degli esercizi spirituali». Spiega ai giovani che lo ascoltano come il Risorgimento abbia dato loro quella possibilità di studiare e progredire che la sua generazione – quella delle cospirazioni e delle battaglie – non aveva potuto avere: «una libertà piena, completa vi è data», di cui è parte integrante la possibilità di seguire i sentieri della scienza, che poi è il modo migliore di servire la patria. Vero è che anche oggi, «nel momento in cui la patria potrà avere bisogno del braccio dei cittadini, tutti potremo correre a sua difesa. È finito il tempo del soldato mercenario, è venuto il tempo del soldato cittadino». Il mutamento del tempo è stato netto. C’è stata una rivoluzione ed è stata una «rivoluzione cinta da diadema», la corona regale di Vittorio Emanuele II. L’oratore ripropone più volte, anche a breve distanza, la frase e la formula di questa specie di rivoluzione regia, quasi a voler imporre ai suoi ascoltatori quella che sa essere «un’antitesi strana», una contradditio in terminis. Si impegna nell’argomentazione. «E quale maggiore rivoluzio-

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ne di quella compiuta nei ventinove anni della sua vita di re?». «Distrusse ben sette stati [...] e, associatosi al popolo, compì con esso la grande rivoluzione della costituzione nazionale». Di fronte a un’Europa conservatrice pronta a reagire nel timore di una distruzione del cattolicesimo, Vittorio Emanuele II «distrusse il potere temporale [ma] conservò il papato, dotandolo di leggi che ne garantiscono l’autonomia spirituale [...] ed in tanto non viene menomata la libertà dei culti e delle coscienze, che parrebbe incompatibile col cattolicesimo». L’Italia non si sarebbe unificata senza l’alleanza tra il popolo e la dinastia; ma è vero che tutt’oggi non potrebbe reggere senza di essa. Crispi non aveva torto presentando la sua rivoluzione col diadema come «un’antitesi strana». Voleva d’altronde ribadire i termini del compromesso stipulato nel 1861 tra la monarchia e la nazione, ma usando un termine che ne enfatizzasse la portata storica, riferendosi a una strada da cui non si tornava indietro. Fu spinto verso questa radicalizzazione dei linguaggi anche dalla necessità di competere con una sinistra nuova, definitasi estrema in polemica con quella, trasformista o crispina che fosse, postasi in così intimi rapporti con la monarchia. Molti dei suoi esponenti si ritenevano seguaci, seppur tardivi, delle idealità del Risorgimento soffocate dalle spire del compromesso, rivendicavano anche loro l’idea di un’Italia antimoderata. Nel paese, molti si dicevano repubblicani o irredentisti, internazionalisti o socialisti. Le idee vecchie e nuove di rivoluzione si sovrapposero promiscuamente: non fu un caso se nell’ultima fase della loro esperienza politica sia Mazzini che Garibaldi si incontrarono – sia pure mostrando diversa disponibilità – con il mondo che noi diciamo del movimento operaio. Crispi procedeva intanto verso la fase più importante della sua interminabile carriera. Intorno alla metà degli anni Ottanta, si era riavvicinato a Depretis divenendone il ministro degli Interni, alla sua morte gli succedette alla testa del governo: a partire dal 1887 e almeno fino al 1896,

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sarebbe stato lui – e di gran lunga – l’uomo politico più importante della scena politica italiana. Il «Corriere della Sera» salutò in Crispi l’avvento al governo del «patriottismo», del «coraggio», dell’«ardimento», di una «maschia risolutezza» che era benvenuta dopo il «governo senile» di Depretis, così «simile a un mollusco». In realtà, Crispi aveva anche lui un’età alquanto avanzata, sessantotto anni. Però ne faceva una chance grazie all’opera di monumentalizzazione di se stesso che aveva compiuto, tra l’altro, con i discorsi del 1881-84: il grande vecchio si identificava con una nazione giovane, l’ardimento del passato rappresentava la garanzia per l’ardimento del futuro. Ed in effetti egli avviò immediatamente una straordinaria stagione di riforme, come un secondo atto della costruzione dello Stato dopo quello post-risorgimentale dei primi anni Sessanta. Lo slancio costruttivo – aveva lui stesso tante volte sostenuto – era stato a suo tempo frenato dalle timidezze dei moderati, e poi da quelle della sinistra trasformista. Adesso, disse, si doveva «compiere quello che non fu fatto». Venne riordinata l’amministrazione centrale e varata la legge comunale e provinciale, in modo da rendere elettivi i sindaci dei centri maggiori e da aumentare il numero degli elettori (1888); fu approvato un nuovo codice penale, che affermò principi garantistici e abolì la pena di morte, conosciuto col nome del ministro Zanardelli (1889); fu costituita la giustizia amministrativa, garanzia del cittadino di fronte allo Stato (1889-90). Legate ad una prospettiva “sociale” furono le leggi sulla sanità pubblica (1888) e sulla laicizzazione delle opere pie (1890), che utilizzando il patrimonio ecclesiastico consentirono l’avvio di una moderna politica sanitaria. Verso l’inizio degli anni Novanta, Crispi fu bensì coinvolto in scandali finanziari, ma ne portò anche fuori il paese, in paradossale collaborazione col suo avversario Giovanni Giolitti, attraverso la riforma bancaria e la costituzione della Banca d’Italia. Crispi si confermò così in quella sua orgogliosa affer-

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mazione dell’81, nella convinzione che i tempi nuovi erano venuti a lui. Peraltro, si stavano sviluppando nell’ultimo scorcio del secolo nuove forme di relazione tra società e politica, nuovi modelli di mobilitazione popolare, nuovi conflitti difficilmente riconducibili alle sue logiche. Lui rimase convinto che la creazione di un sistema politico-istituzionale giusto ed efficiente bastasse a rendere grande l’Italia, trascurando invece l’arretratezza economica e sociale che la rendeva ancora molto debole. L’ex leader garibaldino non comprese quanto fosse remoto ormai il 1861, quella formidabile spinta d’avvio. D’altronde, non avrebbe potuto farlo senza mettere in discussione il senso stesso della sua leadership antica-giovane. Fu l’insofferenza verso il nuovo a mettere Crispi fuori gioco e fuori tempo. Sempre più di frequente, si lasciò andare all’espediente usuale della retorica patriottica, alla riduzione di ogni contrasto politico allo schema binario nazione vs. antinazione: nessuno può sottrarsi alla necessità di sostenere la patria in lotta, se non rendendosi colpevole di tradimento. Si mostrò come ossessionato dai (presunti) complotti dei “neri” (il clericalismo), dei “rossi” (l’estrema sinistra) e dello “straniero” (la Francia). La sua conduzione della politica interna si fece sempre più autoritaria, e in politica estera si lasciò andare ad iniziative azzardate, in particolare in campo coloniale. Nel 1893, Crispi diede un colpo mortale alla propria antica immagine di politico progressista reprimendo brutalmente il movimento socialista dei cosiddetti Fasci siciliani, e senza riuscire a far passare la legge sulla divisione delle terre del latifondo che voleva rappresentare – nell’usuale sua logica – la risposta riformatrice dall’alto alle tensioni dal basso. Si impuntava intanto nella guerra in Etiopia, che portò l’Italia alla disastrosa sconfitta di Adua (primo marzo 1896). Aveva settantasette anni. Si dimise, si ritirò dalla politica e morì a Napoli nel 1901. L’uomo politico aveva attraversato troppe, e troppo diverse epoche storiche. La sua forza si era trasformata in

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debolezza, la sua rivendicata coerenza in sterile ripetitività. Il grande vecchio apparve allora un vecchio e basta.

NOTA BIBLIOGRAFICA

I discorsi di Crispi analizzati nel testo sono contenuti in Id., Scritti e discorsi politici, 1849-90, Unione cooperativa editrice, Roma 1890. Il primo, con il titolo Trasformazioni ed evoluzioni politiche, si trova alle pp. 493-509 (le citazioni alle pp. 494, 405, 499, 500, 502). Il secondo, con il titolo La commemorazione del Vespro, alle pp. 589-594 (cit. alle pp. 589, 590 e 593-594). Il terzo e il quarto, entrambi con il titolo L’unità nazionale con la monarchia, sono alle pp. 411-446 (cit. alle pp. 411, 412, 444, 439, 441) e alle pp. 446-453 (cit. alle pp. 448-449, 446-447). Sempre in questo volume si trova la lettera a Mazzini, con il titolo Repubblica o monarchia, pp. 307-360 (cit. alle pp. 359, 345). La citazione di S. Lanaro è tratta da Id., L’Italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988), Einaudi, Torino 1988, p. 152. La citazione di Guizot da Id., Storia della civiltà in Europa, traduzione e introduzione di A. Saitta, Il Saggiatore, Milano 1973, p. 158. La citazione dal «Corriere della Sera» è dall’art. Il pericolo, ivi, 14 febbraio 1888. La bibliografia su Crispi è vastissima. Segnaliamo R. Romanelli, Francesco Crispi e la riforma dello Stato nella svolta del 1887, in «Quaderni storici», settembre-dicembre 1971, poi in Id., Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, il Mulino, Bologna 1995; G. Manacorda, Crispi e la legge agraria per la Sicilia, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 1, 1972, poi in Id., Il movimento reale e la coscienza inquieta, Angeli, Milano 1992, pp. 15-84; D. Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, Olschi, Firenze 1999; G. Astuto, Crispi e lo stato d’assedio in Sicilia, Giuffrè, Milano 1999; C. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, Roma-Bari 2000. Si vedano anche i riferimenti di S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925, Marsilio, Venezia 1979; R. Romanelli, L’Italia liberale, il Mulino, Bologna 1990; G. Manacorda, Crisi economica e lotta politica in Italia,

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1892-1896, Editori Riuniti, Roma 1993; F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale. 1861-1901, Laterza, Roma-Bari 20042. Citiamo solo alcuni dei testi generali utili per un ragionamento sul nostro tema: J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1972; G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, il Mulino, Bologna 1975; E.J. Hobsbawm, Nazione e nazionalismi, Einaudi, Torino 1991; B. Tobia, Una patria per gli italiani: spazi, itinerari, monumenti dell’Italia unita, 18701900, Laterza, Roma-Bari 1991; B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, manifestolibri, Roma 1996; N. Gallerano, La verità della storia: scritti sull’uso pubblico del passato, manifestolibri, Roma 1999; A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.

L’uomo col dito puntato Una fonte iconografica di Antonio Gibelli

1. Una fonte in mezzo a noi Ci sono casi in cui la fonte non va cercata in qualche luogo speciale, recesso archivistico o fondo di biblioteca che sia, ma è per così dire sotto gli occhi di tutti, o almeno può capitarvi, se non in quanto tale, in qualche sua contraffazione o imitazione. In questo caso, a maggior ragione che in altri, sarà lo sguardo dello storico a conferirle il suo statuto di fonte, in altri termini a utilizzarla e interrogarla per capire qualche aspetto del passato altrimenti inattingibile. E il primo lavoro in questa direzione sarà ovviamente quello di ricontestualizzare la fonte stessa, riconducendola alle sue scaturigini. La storia della fonte è, come tutti gli storici sanno, il primo passo per poter usare la fonte a fini storici. L’esempio che voglio fare è quello di un’immagine molto nota, affidata a un manifesto murale o locandina o anche vignetta di giornale. A chi non è capitato di vedere, su uno di questi supporti, l’immagine dello zio Sam col cappello a cilindro a stelle e strisce, che punta il dito verso l’osservatore, intimandogli qualcosa (Fig. 1), per solito di acquistare un prodotto, di recarsi a uno spettacolo o di impegnarsi in un conflitto? Con tutta probabilità, quella che in tal modo viene a cadere sotto la nostra attenzione non è la riproduzione fedele del manifesto originale, ma la sua

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ennesima variante o imitazione eventualmente giocata in chiave satirica o parodistica. Di certo si tratta di un’icona assai conosciuta, forse perfino familiare ai più, ma della quale non molti saprebbero oggi indicare la collocazione nel tempo, il contesto e le finalità originarie. Prima di vedere quale aspetto del passato ci permetta di ricostruire, proviamo dunque a ricordare questi elementi. Nella forma appena ricordata dello zio Sam (Uncle Sam, personaggio simbolo degli Stati Uniti d’America, di cui riprende le iniziali U e S), l’immagine risale al 1917 ed è dovuta alle mani dell’illustratore James Montgomery Flagg. La didascalia originale era costituita dalla frase «I want you for U.S. Army» (Ti voglio per l’esercito degli Stati Uniti), e indicava le finalità del manifesto: un appello all’arruolamento (Fig. 2). In quell’anno gli Stati Uniti erano entrati nella prima guerra mondiale a fianco delle potenze dell’Intesa, vincendo resistenze e atteggiamenti isolazionistici, e chiamavano i cittadini a raccolta. In questo senso il manifesto ci riconduce alla temperie culturale e politica della Grande Guerra, segnata da un inedito uso dei mezzi di comunicazione di massa in funzione della mobilitazione, della propaganda e dell’organizzazione del consenso. In realtà l’immagine dello zio Sam, quasi certamente la più nota, non è però la prima né tantomeno l’unica del genere. Pur rimanendo entro il contesto bellico, dobbiamo risalire a tre anni prima e spostarci in Gran Bretagna per rintracciarne il prototipo. Questa volta a comparire sui manifesti, puntando lo sguardo e il dito verso gli spettatori, è la faccia di Lord Kitchener, esemplare mitico della casta militare britannica nell’età dell’imperialismo, già spietato protagonista della guerra anglo-boera, poi governatore dell’Egitto e ora, nell’estate del 1914 quando il manifesto fu affisso sui muri, ministro della Guerra (Fig. 3). Il messaggio è lo stesso di quello precedente, ma qui il significato appare in certo senso più drammatico a causa di una circostanza: l’assenza in Gran Bretagna della coscrizione

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obbligatoria, assenza che rende vitale l’opera di convincimento dei giovani ad arruolarsi volontari. Ma la questione non si ferma qui, perché l’immagine di Lord Kitchener non è la prima ad applicare uno schema del genere, già usato in precedenza con finalità diverse, eminentemente commerciali. Esempi di questo tipo, o riconducibili allo stesso modello, sono numerosi nel periodo che precede la prima guerra mondiale: pubblicizzano prodotti come sigarette, macchine da scrivere o macchine fotografiche, altrettanti esempi di nuovi consumi tipici del XX secolo. Li analizzeremo in seguito. Qui occorre subito notare che l’ambito entro il quale si colloca il fenomeno considerato è evidentemente più ampio di quel che appariva a prima vista: non si tratta solo della mobilitazione patriottica nella prima guerra mondiale, ma di qualcosa di più e di altro. Possiamo per il momento segnalare l’adozione, da parte della pubblicità e della propaganda di guerra, di linguaggi analoghi o addirittura dello stesso linguaggio iconico. Sappiamo che la commistione tra pubblicità, politica e propaganda di guerra è un aspetto tipico della società novecentesca. La fonte, ossia il nostro manifesto con le varianti fin qui identificate, si può leggere come manifestazione di questo aspetto e contribuisce a confermarlo, mostrandocene un esempio particolarmente evidente. Ci parla di questa società in via di massificazione e non solo delle iniziative per mobilitare l’opinione pubblica nel corso della guerra. 2. Catturare, colpire Quali sono le caratteristiche comunicative e le ragioni dell’efficacia della figura che abbiamo fin qui sommariamente descritto? Diverse nelle realizzazioni, le immagini di questo genere ricalcano un unico schema iconografico e usano i medesimi ingredienti: un uomo (più raramente una donna) visto frontalmente, che guarda fisso davanti a

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sé, il cui sguardo si prolunga in direzione dello spettatore grazie al gesto di un braccio teso in avanti e di un indice puntato. Questo schema corrisponde a un dispositivo, che potremmo anche definire come un sistema di puntamento. L’immagine tende a colpire lo spettatore, a raggiungerlo, a interpellarlo personalmente, a far sentire ciascuno singolarmente chiamato, toccato, puntato come da un’arma o da uno strumento ottico che lo scruti. Infatti, per ammissione comune, l’immagine trae la sua forza dall’effetto per cui, da qualunque parte io la guardi, è proprio a me che si rivolge, che lancia la sua intimazione, la sua esortazione, il suo appello. La traiettoria sguardo-braccio-dito tende precisamente a questo: stabilisce un collegamento diretto, quasi fisico, tra la figura che lancia l’intimazione e lo spettatore che la subisce. Si potrebbe anche dire che l’immagine tende a sfondare la bidimensionalità per prolungarsi nello spazio tridimensionale. A conferma di tale struttura dinamica stanno alcune varianti successive e alcune applicazioni narrative dello schema. Intanto, la variante risalente al 1942 nella quale il dito puntato sembra lacerare la superficie dello stesso manifesto attraversandola in direzione dello spettatore, sicché l’effetto illusionistico dello sfondamento appare moltiplicato (Fig. 4). Colpire lo spettatore, catturare la sua attenzione, raggiungere il bersaglio: non è un caso che le metafore di caccia e di guerra appaiano le più adatte a descrivere l’azione comunicativa compiuta dall’immagine. L’idea della cattura è legata al problema tipico della comunicazione sociale nell’era delle grandi folle urbane, caratterizzata da intensità crescente degli stimoli comunicativi, numero crescente dei messaggi trasmessi, velocità crescente di circolazione delle immagini: quello della concorrenza percettiva. Catturare l’attenzione dello spettatore significa impedire che, attratto da altri messaggi o frastornato dal loro fitto sovrapporsi, sfugga al nostro: che si sottragga all’appello, che lo ignori o lo eluda. Significa combattere la renitenza.

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L’immagine appare perciò carica di una speciale aggressività visiva, che deve permetterle di imporsi in un ambiente come quello affollato, confuso e frenetico della grande città. Anche dove non ci sono di mezzo la guerra e la mobilitazione militare, come nel caso dei manifesti pubblicitari (per esempio quello per le sigarette Phillips risalente al periodo prebellico) (Fig. 5), l’atteggiamento del personaggio è quello dell’intimazione, lo sguardo non ha nulla di rassicurante e la sigaretta che tiene all’angolo della bocca, quantunque ovvia data la natura del prodotto reclamizzato, gli dà l’aria spicciativa di chi vuole raggiungere il risultato senza tanti complimenti. La lettura dell’immagine richiede la sua collocazione all’interno di un contesto e ci parla di tale contesto: una società che si sta trasformando rapidamente, dove le folle si riversano nelle strade ed escono vociando dalle fabbriche, dove i ritmi della vita e del lavoro incalzano, e dove forse la stessa pratica del fumo di sigarette porta l’impronta di questa frenesia diffusa. Si tratta precisamente dell’ambiente urbano che i futuristi avevano perfettamente colto e rappresentato, esaltandone i dinamismi e le valenze estetiche. 3. Frenesie urbane Se i futuristi interpretavano in senso ottimistico le nuove forze sprigionate dalla società tecnologica e dal macchinismo, c’era chi ne avvertiva i rischi e le minacce, dipinte spesso a tinte fosche. Una letteratura sociologica, medica e antropologica assai diffusa negli Stati Uniti come in Germania, paesi che stavano conoscendo una crescita particolarmente accelerata a cavallo tra i due secoli, ma presente anche in paesi più arretrati come l’Italia, scorgeva nell’evoluzione economica e sociale, nell’industrializzazione e nella standardizzazione, soprattutto nella crescente urbanizzazione, i segni di una degenerazione di cui si temevano esiti disastrosi.

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L’ambiente urbano fu dipinto più volte come un ambiente patogeno a causa dell’aumento vertiginoso dei ritmi di vita e al bombardamento sensoriale a cui sottoponeva gli uomini. Nel 1903 il tedesco Georg Simmel, considerato uno dei massimi interpreti del pensiero sociologico contemporaneo, pubblicò un saggio divenuto celebre, Die Grosstädte und das Geistleben (Le metropoli e la vita dello spirito) nel quale analizzava le nuove forme dell’esistenza individuale e collettiva nel contesto della grande metropoli. Simmel delineava le risposte dell’individuo alla corrente di nuovi stimoli cui la sua psiche era sottoposta: all’«intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori», all’«accumularsi veloce di immagini cangianti». Nel contrasto tra l’immenso sviluppo di un sapere oggettivato nelle tecnologie e aggressivamente manifestato dalla vita urbana, e la possibilità umana di dominarlo, Simmel intravedeva l’esito potenzialmente catastrofico della modernità. La serie dei manifesti che rincorrevano i passanti dai muri delle vie facevano evidentemente parte di questo ambiente frenetico, contribuivano a determinarlo e nello stesso tempo rispondevano allo scopo di vincerne l’effetto di stordimento e di superare le barriere di autodifesa dei soggetti colpiti. In un certo senso, le modalità comunicative dei manifesti erano frutto di una corsa al rialzo. Essi tendevano tra l’altro a superare le resistenze messe in atto dallo spettatore travolto dagli shock percettivi a cui era sottoposto, resistenze che potevano sfociare nella tendenza ad innalzare uno “scudo protettivo” di fronte alla ridondanza dei richiami, a rifugiarsi in una sorta di anestesia. In questo senso i fenomeni che preoccupavano gli osservatori sociali erano guardati con estrema attenzione anche dai teorici e dai tecnici della pubblicità, che studiavano il modo di sfruttarli a vantaggio delle battaglie commerciali. Si trattava di farsi strada in un contesto nel quale l’attenzione stava diventando “un bene scarso” e i tradizionali me-

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todi di persuasione apparivano obsoleti. In un manuale pubblicitario pubblicato in Italia nel 1920, i termini in cui si vantava la forza persuasiva del cartellone pubblicitario sembravano adattarsi perfettamente al nostro uomo col dito puntato, al suo piglio sostanzialmente persecutorio: Ecco la potenza del cartello: Esso vi obbliga a vederlo: e se fatto a dovere vi costringe a fermare, almeno per un momento, davanti a esso [...] essa vi accompagna nelle strade, quasi si potrebbe dire vi perseguita; passando dieci volte per la stessa via i vostri occhi alzandosi verso quel dato angolo di muro saranno colpiti, da quella testa, da quelle certe brevi ma ben leggibili righe di grossi caratteri. Il “cartello” vi martella un nome, vi risveglia una sensazione, vi suggerisce un’idea, vi ripete qualcosa: vi ossessiona, in una parola, su quel che ad esso preme accentuarvi e fermarvi in mente. Il cartello – ha detto un tecnico della pubblicità – è la gran cassa nell’orchestra della réclame.

Fu particolarmente nella Germania del primo dopoguerra, teatro di potenti trasformazioni il cui impatto sembrava esasperato dal carattere estremo delle contraddizioni sociali e politiche in corso dopo la sconfitta, che numerosi intellettuali, da Walter Benjamin a Siegfried Kracauer, puntarono nuovamente l’attenzione sugli effetti della modernità nei processi percettivi e mentali. Come nel caso di Simmel, di cui Kracauer era stato allievo, lo scenario comune della loro vita e l’oggetto comune delle loro analisi era la grande città in corso di modernizzazione, con le sue frenesie percettive, il bombardamento di messaggi, le eccitazioni e le stimolazioni sensoriali continue: un “paesaggio mentale” che per certi aspetti proprio nella Grande Guerra aveva conosciuto il suo trionfo, per effetto dell’entrata in campo e dell’amplificazione delle nuove tecnologie distruttive e comunicative. Nel saggio La massa come ornamento (1927), uscito dieci anni dopo la pubblicazione dello zio Sam di Montgomery Flagg, Kracauer analizzava fra l’altro il fenomeno delle Tiller Girls: il corpo di ballo di una compagnia di ri-

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vista americana che si esibì in Europa in quegli anni, famoso per la meravigliosa lunghezza delle gambe delle ballerine e per la fulminante velocità e sincronia dei loro volteggi. Nei movimenti delle Tiller Girls egli vedeva la manifestazione di un fenomeno seriale in cui non esistevano più individui ma forme astratte, non corpi ma linee, in altri termini il risultato di un processo di taylorizzazione del divertimento simile a quello che aveva investito la produzione industriale e la guerra: «la replica simbolica delle raffiche di mitragliatrice e l’implacabile monotonia cadenzata della catena di montaggio». Anche nei fenomeni apparentemente più banali e più lontani dalla guerra, come l’intrattenimento e il divertimento, poteva dunque essere chiamata in causa la micidiale velocità dei colpi di arma da fuoco, che abbiamo già visto costitutiva dell’immagine dell’uomo dal dito puntato. Anche l’altro elemento, quello della serialità, era comune: salvo che, nel caso del manifesto, si realizzava non nell’immagine isolata, ma nella sequenza di manifesti tutti uguali affissi sui muri delle città (Fig. 6): una sequenza di colpi che raggiungeva il passante, con l’effetto di un’arma automatica. 4. Uno sparo nel buio Torniamo ora al caso del manifesto inglese con la faccia di Lord Kitchener. C’è un particolare rilevante che riguarda questo caso: Kitchener era affetto da strabismo, come attestano indiscutibilmente alcune foto del personaggio ritratto frontalmente come nel manifesto, nonché alcune testimonianze di contemporanei (Fig. 7). Tutti insistono sulla particolare acutezza, sulla tagliente luminosità dello sguardo, molti segnalano che questa capacità di penetrazione non era incompatibile, anzi forse era favorita dallo strabismo: «Si notava in quegli occhi un lieve strabismo – si legge in una biografia pubblicata nel 1916 –; eppure guardavano direttamente in faccia le persone di cui Kit-

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chener voleva catturare lo sguardo». Lo strabismo (evidentissimo nella fotografia, forse solo impercettibilmente e involontariamente accennato nel manifesto) sembra assicurare allo sguardo la pluridirezionalità di cui ha bisogno per raggiungere lo spettatore sotto qualunque angolazione egli si trovi, senza contemporaneamente far perdere ad esso quella sorta di rigidità e quindi di implacabilità che lo contraddistingue. C’è infatti chi nota come queste caratteristiche combinate diano all’imperioso scrutare del generale alcunché di misterioso e inquietante, fino al punto da destare sensi di panico. «Gli occhi di Kitchener ispirano – sia detto senza offesa – un terrore reso più intenso dal loro strabismo, accentuato con l’avanzare dell’età. Sono azzurri, acuti e penetranti. Anche senza questa irregolarità sarebbe difficile reggerne lo sguardo, ma la loro asimmetria suscita in molti un vero senso di panico. Ecco come qualcuno che lo conosce da vicino ha descritto l’effetto dei suoi occhi su chi lo incontra per la prima volta: “Ti colpiscono, mi ha detto, con un senso di terrore che ti blocca. Li guardi, tenti di dire qualcosa, cerchi di guardare da un’altra parte, provi ancora a dire qualcosa e ti accorgi che i tuoi occhi tornano a incontrare quello sguardo terribile, e ricadi di nuovo nel silenzio”». Alle metafore dell’incutere terrore e del colpire, del raggiungere il bersaglio e del catturare, questa testimonianza aggiunge implicitamente quella dell’inseguire e forse dello spiare, che fanno parte della stessa possibile costellazione semantica connotata da elementi di aggressività. Tutto ciò trova un’esplicitazione in quelle varianti dello schema della nostra icona che presentano, al posto dello sguardo e del dito, direttamente il puntamento di un’arma. Un esempio di questo tipo ci è offerto da una rivista italiana di viaggi e avventure intitolata «Giornale illustrato dei viaggi», pubblicazione tipica di un’epoca nella quale il gusto della scoperta del mondo, grazie anche ai nuovi mezzi di trasporto e al connubio tra scienza, tecnologia e

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senso dell’avventura che essi consentono, si è ampiamente diffuso. In un fascicolo del 31 maggio 1914, sulla rivista compare un articolo dedicato alla scoperta di una nuova strabiliante arma, la «rivoltella faro»: una pistola capace di proiettare sul bersaglio, prima dello sparo vero e proprio, un potente e abbagliante fascio di luce avente il duplice effetto di disorientare la vittima e di orientare lo sparo nella direzione giusta. L’illustrazione che correda l’articolo rappresenta un uomo disposto frontalmente verso l’osservatore, che punta su di lui una pistola, mirando il bersaglio con un occhio socchiuso all’altezza del cane, prossimo a premere il grilletto (Fig. 8). La posizione frontale della pistola permette di notare, con l’occhio di chi sta per subire il colpo, sia il buco della canna sia il foro sottostante dal quale si sprigionerà il fascio di luce. L’affinità di questo caso con gli altri è evidente. Molto significativo è anche che, nel magnificare le doti della pistola, l’articolo evochi una paura evidentemente diffusa: quella dell’agguato, del malandrino che si introduce di notte in casa nostra. Questa rivoltella è specialmente destinata alle persone per bene perché possano usarla contro i malandrini che infestano durante la notte certi quartieri delle grandi città, e che non esitano ad entrare nelle case per svaligiarle [...] Supponiamo che un brav’uomo abbia posto questa rivoltella sul comodino prima di addormentarsi. Svegliato bruscamente dal rumore che può fare un malvivente penetrando nella sua camera, egli afferra l’arma e impugnatala fa scattare la lampadina. Tosto dirige il fascio di luce accecante in tutti i sensi sconcertando l’assalitore. Non solo gli sarà facile sparare a colpo sicuro seguendo la proiezione luminosa, ma il più delle volte non avrà neppur bisogno di ricorrere a questo mezzo estremo, tanto sarà il terrore ispirato nel nemico da quest’arma misteriosa. La rivoltella-faro ha, sui banditi, il medesimo effetto che ha il fanale di un’automobile su certi animali.

Prima che colpire, lo scopo dell’arma è anche qui provocare terrore. La società di primo Novecento, apparen-

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temente inebriata dai trionfi della tecnologia e del benessere, è in realtà una società molto insicura. Al di sotto dell’apparente tranquillità covano mostri che non tarderanno a esplodere. Dalla folla che si agita sugli scenari urbani può sempre uscire un malintenzionato deciso a farci del male. E il terrore può sempre essere usato per manipolare le folle e indurre in esse comportamenti coatti. L’associazione tra intimazione pubblicitaria e puntamento di un’arma era già comparsa in precedenza. Un caso del genere era quello che reclamizzava una macchina da scrivere, risalente al 1908: «Alt! Fermi tutti, se non sapete che la macchina da scrivere Poliphon è un prodotto tedesco di prima qualità» grida il brigante montenegrino dai lunghi baffi nell’atto di puntare verso lo spettatore la sua pistola a tamburo (si noterà, per inciso, che al momento i Balcani sono già la polveriera destinata a far esplodere l’Europa) (Fig. 9). La pistola del brigante fa pensare ai colpi secchi e infallibili con cui la macchina traccia sulla carta i suoi caratteri, quindi evoca una specie di arma a ripetizione: assai più della pistola a tamburo, la mitragliatrice, che ha già fatto la sua comparsa sui campi di battaglia e che presto spadroneggerà nella guerra di trincea. 5. Puntamenti, agguati Il fattore della frontalità appare fondamentale, ed è questo che apparenta le immagini fin qui esaminate a un’altra, molto bella, dedicata questa volta alla pubblicità di una macchina fotografica. Si tratta di un manifesto 140x100, disegnato da un provetto illustratore di libri per l’infanzia che avrà un ruolo rilevantissimo nella propaganda di guerra italiana e in particolare nella pubblicità per i prestiti, Aldo Mazza. La marca pubblicizzata è la «M. Ganzini», il manifesto risale al 1912 (Fig. 10). Molti elementi concorrono al carattere minaccioso all’immagine. Innanzitutto, come sempre, lo sguardo del

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personaggio, fisso e metallico, si direbbe decisamente ipnotico (effetto ottenuto grazie al disegno geometrico dei riflessi dell’iride e accentuato dal fatto che gli occhi sono circondati da un paio di grandi lenti rotonde, segnalate appena dai riflessi luminosi del contorno). In secondo luogo, la puntigliosa simmetria del volto (dove anche i capelli e la barba a pizzo sono rigorosamente separati da una scriminatura che li distribuisce perfettamente in una parte destra e una sinistra). La forma del volto che scruta in tal modo lo spettatore si ripercuote e si duplica per così dire (riproponendo in altro modo lo schema sguardo-dito) nella macchina fotografica scura, anch’essa con molti riflessi metallici, situata esattamente sulla verticale del volto, in basso, brandita dalle mani nervose e tentacolari del fotografo. Lo sguardo tecnologico della macchina appare un prolungamento dello sguardo, anch’esso molto meccanico eppure umano e quindi inquietante e misterioso, dell’operatore. L’effetto è infine completato dalla cornice: l’ignoto intento a scrutarci e a riprenderci sbuca da due imposte che sembrano essere state appena dischiuse. Insomma, quel che viene raccontato è un agguato in piena regola, il che riconduce una volta di più l’immagine all’ambito della guerra, della caccia, dell’aggressione. E possiamo bene immaginare come il “clic” dello scatto fotografico sia facilmente assimilabile al “clic” delle armi che abbiamo altrove richiamato. Infatti, non mancherà – tempo dopo – chi enuncerà platealmente questa mimesi tra pulsante di azionamento della macchina fotografica e grilletto, tra scatto e sparo, sotto il segno della velocità istantanea, esaltandone le valenze pubblicitarie. È quanto possiamo leggere nella presentazione delle nuove caratteristiche tecniche dell’apparecchio fotografico Voigtländer Bessa a doppio formato, che compare sull’«Illustrazione italiana» del 28 luglio 1935 (quando gli umori antitedeschi della prima guerra mondiale sono stati ormai messi da parte, e l’Italia di Mussolini tende anzi a vantarsi alleata della Germania di Hit-

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ler): «La schiacciante superiorità del nuovo apparecchio Bessa è: il nuovo e caratteristico “scatto sul fondo” che ricorda il grilletto delle armi da fuoco e dice subito con quanta fermezza avvenga lo sparo dal momento che non occorre più lo scatto metallico ma basta un solo dito per far partire il colpo». Occorre ancora ricordare con quanta insistenza l’uomo che punta e spara verso lo spettatore si presenti nell’iconografia del tempo, certo in relazione all’esperienza larghissimamente vissuta della guerra di trincea: basterebbe pensare alla presenza del tema in Un anno sull’altipiano (1938) di Emilio Lussu, memoria fra le più celebrate della Grande Guerra italiana. Un esempio efficace di questo modello iconografico si offre inoltre in uno degli schizzi di Anselmo Bucci – pittore italiano influenzato dal Futurismo e arruolato coi futuristi nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti – che nella rapidità dell’esecuzione grafica richiama la fulmineità dell’esperienza rappresentata: la micidiale rapidità della pallottola che sta per raggiungerci (Fig. 11). Anche qui l’immagine, una sorta di ingrandimento del volto dello sparatore ripreso a distanza ravvicinata, gioca sull’abbinamento sguardo-sparo (e la velocità della luce è superiore a quella della pallottola), ribadito – come nell’esempio della pistola-faro – dalla prossimità tra il foro d’uscita della canna del fucile e l’occhio semiaperto del puntatore (l’altro è naturalmente chiuso). Si respira in tutto questo un’aria di modernità, e precisamente di quella modernità che segna insieme il suo trionfo e il suo scacco nella carneficina della Grande Guerra: il culto della tecnologia, dell’automatismo, della simultaneità, della velocità, della serialità. Come veloci e seriali sono gli scatti fotografici, i colpi della mitragliatrice, i colpi della macchina da scrivere, i suoi caratteri tutti uguali, che trasferiscono nella scrittura di tutti i giorni l’uniformità della stampa. E tuttavia si tratta di una modernità ambivalente, che nasconde insidie, che può convertire la produzione in distruzione, la velocità in agguato mor-

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tale. Una modernità come quella del Titanic, con la catastrofe dietro l’angolo. 6. «1984» La catastrofe implicita nella modernità non è solo quella della morte su scala industriale dei campi di battaglia, ma anche quella del dominio totalitario ottenuto grazie al controllo dell’immaginario, e più precisamente attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione di massa. A essere preannunciata e simboleggiata nella vicenda iconografica dell’uomo dal dito puntato è, in questo senso, la pervasività del dominio mediatico come espressione di una società attraversata da forti processi di omologazione e da nuove modalità di controllo sociale e politico. A riflettere su questo punto sono ancora alcuni pensatori che abbiamo prima richiamato, i quali osservano la società degli anni Venti e Trenta, ne avvertono la straordinaria novità come le sottili minacce, ne esplorano le inquietudini a partire dal nuovo statuto e dal nuovo ruolo dell’immagine nel contesto sociale. In particolare Walter Benjamin, che dedica uno dei suoi saggi più celebri alla nuova era della infinita riproducibilità tecnica dell’immagine e alla conseguente perdita dell’aura propria dell’opera d’arte. Egli denuncia la profonda ambiguità del moderno, la sua capacità di sprigionare energie prodigiose ma anche di sfociare in esiti spaventosi. La riproducibilità tecnica rende accessibile l’arte alle masse, le fa entrare nel nuovo circuito comunicativo, abbatte gli steccati entro i quali erano state confinate. Ma proprio per questo le nuove tecnologie possono essere usate per manipolare le masse attraverso forme di estetizzazione della politica che preludono al fascismo, al culto dei capi, all’esaltazione della guerra. Per chiarire cosa significhi tutto questo a proposito dell’uomo dal dito puntato, dobbiamo esaminare l’imma-

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gine non più nelle sue componenti iconografiche, ma nelle sue modalità di riproduzione e trasmissione. Sebbene – come si è detto – essa nascesse in primo luogo come manifesto murale, la sua forza di penetrazione dipese anche dal moltiplicarsi praticamente illimitato dei supporti e dei veicoli di comunicazione cui si affidò: accanto ai manifesti, le cartoline illustrate, i fumetti, le gigantografie, accanto alla visione completa i dettagli, accanto al colore il bianco e nero. Riferiamoci per comodità alla variante italiana, dovuta all’illustratore di origine francese Achille Mauzan e vincitrice di un concorso del 1917 per la pubblicità del prestito di guerra (Fig. 12). Come in un gioco di specchi, l’immagine rimbalza da un mezzo all’altro, da un contesto all’altro, moltiplicando il suo effetto grazie alla ripetitività. Nelle strade colpisce lo spettatore a grandezza e ad altezza d’uomo, ma contemporaneamente lo sovrasta dall’alto nelle gigantografie montate sugli edifici pubblici, si insinua nei contesti domestici, si presenta ad apertura di giornale, transita attraverso la posta nelle cartoline, si offre allo sguardo nell’oggetto che occhieggia dalle vetrine. Siamo entrati, appunto, nel mondo benjaminiano della riproducibilità infinita, fenomeno che attiene non solo al numero delle immagini ma alla tipologia dei supporti e dei contesti nei quali esse si presentano, potremmo anche dire alla loro invadenza. Alla multidirezionalità dello sguardo si aggiunge dunque l’ubiquità del messaggio. Durante la guerra la diffusione nazionale dell’icona (dal Veneto alla Sicilia, dai villaggi alle città) creò effetti senza precedenti di omologazione del paesaggio mentale e del linguaggio dell’immaginario. Per l’Italia, paese che conservava forti elementi di ruralismo e di provincialismo, tutto questo costituì una novità particolarmente rilevante. Ma ugualmente rilevante è che lo stesso codice comunicativo trovasse applicazione al di là dei confini delle nazioni (il modello circolò dagli Stati Uniti alla Germania alla Russia post-rivoluzionaria, per non dire delle sue applicazioni successive, nel corso della seconda guerra mondiale e ol-

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tre): che lo stesso uomo dal dito puntato si affacciasse dai muri delle più diverse metropoli del mondo sviluppato. Siamo a un embrione di quello che più tardi verrà chiamato “villaggio globale”, vale a dire alla percezione simultanea dello stesso messaggio sotto le più diverse latitudini geografiche e sociali. Da tutto ciò è facile comprendere perché la nostra immagine possa essere considerata anche come una sorta di preludio del totalitarismo mediatico proprio dei regimi degli anni Trenta, ovvero come un precoce segnale di allarme su tale minaccia incombente. La verità è che essa sembra sprigionare un potenziale straordinario di condizionamento e di controllo a cui è impossibile sottrarsi, anticipando effetti da Grande Fratello. Lo sguardo ipnotico di Lord Kitchener è in grado di scrutare le nostre coscienze e di dettare i nostri comportamenti, di spingerci ad azioni su basi di automatismo, eterodirette. Il fante di Mauzan che dalle gigantografie appese ai palazzi guarda un’Italia che cambia e la sovrasta col suo comando, anticipa e apre la strada al Duce che imporrà presto il suo comando dagli stessi muri, senza il dito puntato ma con il braccio alzato. È il principio unificatore di una mobilitazione che non ammette renitenze, come quella della guerra propiziata dai manifesti murali. Al di là del caso italiano, di questa valenza è buon testimone e interprete un osservatore di eccezione, George Orwell, che nell’autunno del 1914 si trovava a Londra (dove si era trasferito dall’India nel 1907, a quattro anni), e dove certo fu colpito e intimorito dalle immagini di Lord Kitchener. All’inizio di 1984, il romanzo dedicato al totalitarismo da lui pubblicato nel 1949, Orwell descrive un manifesto a colori: «Rappresentava il faccione enorme, largo più di un metro, di un uomo di trentacinque anni circa, dai folti baffi neri, dai lineamenti di una rude bellezza. [...] Era una di quelle immagini i cui occhi seguono chi li guarda, e sotto figurava la scritta: BIG BROTHER IS WATCHING YOU (Il grande fratello vi guarda)».

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«Nel 1949 – ha scritto lo storico Carlo Ginzburg – anno della sua prima pubblicazione, 1984 fu recepito un po’ dovunque come un libro sulla guerra fredda: le sue allusioni al terrore stalinista sembravano evidenti. Oggi, a cinquant’anni di distanza, il libro di Orwell appare sempre più profetico. La descrizione, tutt’altro che inverosimile, di una dittatura fondata sui media elettronici e sul controllo psicologico può essere facilmente riferita a una realtà più vicina a noi». Così, dalla pubblicità dei prodotti della nuova era e dalla mobilitazione nazional-patrottica della prima guerra mondiale l’immagine si spinge oltre giungendo fino e oltre il 1984, e attraversando in tutta la sua profondità l’intera storia del nostro tempo. Epilogo Nel 1964 l’artista americano Roy Lichtenstein disegnò un manifesto dal titolo Hey you! (di cui esistono altre versioni successive) che presentava l’immagine del dito puntato nei moduli tipici della pop-art: una grande mano con l’indice in direzione dello spettatore, eseguita con tratti essenziali molto marcati, mutuati da quelli del fumetto, senza chiaroscuri ma con una sola forte ombra a segnalare il protendersi del dito rispetto al pugno serrato (Fig. 13). L’immagine porta all’estremo il dispositivo dell’icona, proiettandolo in una dimensione iperrealistica e quasi idealtipica di stupefacente essenzialità: tolto il volto, tolto lo sguardo, tolto un qualsiasi contesto, non rimane che il violento protendersi del dito verso l’osservatore in una intimazione di attenzione che non ammette repliche. Il manifesto di Lichtenstein può considerarsi il culmine della parabola che abbiamo qui tracciato. Disancorata dai suoi significati e dalle sue funzioni originarie, entrata nell’universo della comunicazione banalizzata e seriale in cui i linguaggi della pubblicità, della propaganda e dell’arte sembrano divenuti indistinguibili, l’immagine con-

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ferma, con la sua illimitata pervasività, il carattere di esempio unico nella storia del Novecento.

NOTA BIBLIOGRAFICA

L’immagine dello zio Sam e le altre della serie sono oggetto di attenzione specialmente negli studi di storia della propaganda e della grafica politica, tra i quali mi limito a citare R. Philippe, Il linguaggio della grafica politica, Mondadori, Milano 1981, che presenta gli esemplari più noti e Pa. Paret, B. Irwin Lewis, Pe. Paret, Persuasive Images. Poster of War and Revolution, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1992, che pubblica con accurati commenti esempi affini e varianti meno conosciute. Per quanto riguarda il caso italiano, una fonte coeva, preziosa per le immagini, le notizie tecniche e i commenti è G. Rubetti, Un’arma per la vittoria. La pubblicità nei prestiti italiani. Studio critico documentato, Il Risorgimento grafico, Milano 1918. Questo saggio riprende e sviluppa annotazioni già presenti in mie precedenti pubblicazioni: L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991 (nuova ediz. 2007); Luci, voci, fili sul fronte. La Grande Guerra e il mutamento della percezione, in P. Ortoleva, C. Ottaviano (a cura di), Guerra e mass media. Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, Liguori, Napoli 1994; Nefaste meraviglie. Grande Guerra e apoteosi della modernità, in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia. Annali 18. Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002. Il tema è stato inoltre oggetto di un ampio saggio di Carlo Ginzburg, ‘Your Country Needs You’: A Case Study in Political Iconography, in «History Workshop Journal», n. 52, 2001, che si sofferma soprattutto sugli archetipi figurativi del manifesto britannico per illuminarne i dispositivi più nascosti. A questo saggio sono debitore di alcuni suggerimenti interpretativi e di due tra le immagini che pubblico (Figg. 5 e 9). Traggo la citazione finale su 1984, e quelle relative alle impressioni destate dallo sguardo di Lord Kitchener, da un’anticipazione del saggio comparsa sul quotidiano «la Repubblica» l’8 aprile 2001 sotto il titolo Il grande fratello. Così Lord Kitchener vi guarda.

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La questione dell’ambiente urbano modificato dall’industrialismo, teatro dell’avvento della società di massa e fonte di stress degenerativo, è al centro di un’ampia letteratura medica, antropologica e sociologica che non è qui il caso di richiamare: il lettore potrà trovarne un’efficace sintesi nel primo capitolo di A. Ventrone, Piccola storia della Grande Guerra, Donzelli, Roma 2005. Per quanto riguarda le trasformazioni della percezione si veda S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1988. A quest’ordine di problemi fanno riferimento anche le pagine di G. Alonge, Cinema e guerra, Utet, Torino 2001 (in particolare pp. 9 sgg.) sui rapporti tra nuove forme della percezione nelle frenesie della vita urbana e visione cinematografica. Traggo le citazioni di Simmel da una recente edizione italiana dell’opera Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 20047, p. 36. La sintesi del pensiero di Kracauer sulle Tiller Girls è ripresa da E.D. Weitz, La Germania di Weimar. Utopia e tragedia, Einaudi, Torino 2008, p. 316. Il testo di Kracauer citato si può leggere nella traduzione italiana pubblicata da Prismi, Napoli nel 1982 (pp. 99-110); il classico di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nell’edizione di Einaudi, Torino 1966. Riflessioni sul pensiero di Benjamin a proposito dei rapporti tra estetica e politica si trovano in S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Catanzaro 2003 (ed. or. 1997). La citazione sulla forza del cartellone pubblicitario è ripresa da A. Arvidsson, Dalla «réclame» al «brand management». Uno sguardo storico alla disciplina pubblicitaria del Novecento, in S. Cavazza, E. Scarpellini (a cura di), Il secolo dei consumi, Carocci, Firenze 2001, p. 197, che a sua volta rinvia a E. Roggero, Come si riesce con la pubblicità: l’arte nella pubblicità, Hoepli, Milano 1920, p. 61. Dal saggio di Arvidsson riprendo anche l’osservazione sull’attenzione come «bene scarso» (p. 198). Il testo pubblicitario dell’apparecchio fotografico Voigländer Bessa è riprodotto in A. Mignemi (a cura di), Si e no padroni del mondo. Etiopia 1935-1936. Immagine e consenso per un impero, Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara, Novara 1982, p. 115.

«Cara Kitty» Una fonte diaristica di Sergio Luzzatto

1. Le ossessioni del signor Von Brunn A mezzogiorno del 10 giugno 2009, un anziano signore si è presentato all’ingresso del museo della Shoah più importante del mondo, l’Holocaust Museum di Washington negli Stati Uniti. Aveva parcheggiato la macchina in doppia fila, impugnava un fucile calibro 22, e aveva fretta: fretta di sparare. Appena dentro, il signor James Von Brunn ha mirato contro una guardia che cercava di sbarrargli il passo e ha tirato il grilletto. L’agente Stephen Johns, afroamericano di 39 anni, è rimasto colpito e ucciso. Colpito a sua volta dagli spari di altre guardie, l’ottantanovenne Von Brunn è stato tratto in arresto, è stato curato in un ospedale per le sue gravi ferite, è stato incriminato da un tribunale federale per omicidio volontario, rischiando una condanna alla pena di morte. L’indomani della sparatoria, l’Holocaust Museum è rimasto chiuso per lutto. Il giorno successivo, 12 giugno, il museo ha celebrato la memoria di quello che sarebbe stato – se mai fosse sopravvissuta alla Shoah – l’ottantesimo compleanno di Anne Frank, nata a Francoforte sul Meno, in Germania, il 12 giugno 1929 e morta a Bergen-Belsen, ancora in Germania, un qualche giorno di marzo del 1945. Successive indagini di polizia hanno permesso di scoprire in casa di Von Brunn un quaderno di appunti, dove

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era scritto fra l’altro: «La Shoah è una menzogna». Quanto a internet, l’assassino dell’Holocaust Museum diffondeva da tempo sul web i più vari materiali negazionisti. In particolare Von Brunn animava un sito, www.holywestern empire.org, dove non soltanto veniva spacciata come falsa la storia della Soluzione finale, lo sterminio di sei milioni di ebrei d’Europa per iniziativa del Terzo Reich, ma anche veniva spacciato come falso il diario di Anne Frank, il libro attraverso cui generazioni di lettori di tutto il mondo hanno scoperto l’orrore della Shoah concentrato in una storia di famiglia. Secondo Von Brunn, quel diario sarebbe «una bufala»: una fabbricazione post-bellica promossa dalla lobby ebraica planetaria, intesa ad accendere la compassione dei gentili per gli israeliti e a propiziare così il dominio di Israele sullo scacchiere mediorientale. Per gente dello stampo di Von Brunn, conta poco che l’autenticità del diario di Anne Frank sia stata dimostrata, oltre ogni ragionevole dubbio, da una perizia scientificolegale disposta dall’Istituto per la documentazione bellica dei Paesi Bassi nel corso dei primi anni Ottanta. Durante gli anni Novanta, gli alfieri di una piccola ma agguerrita internazionale negazionista hanno continuato a sostenere l’inautenticità del diario di Anne, dicendolo scritto quasi di sana pianta dal padre di lei, Otto Frank, e rivisto dall’uno o dall’altro redattore neerlandese o traduttore straniero. Dopodiché, l’universalizzazione di internet ha aperto alla tesi complottista le autostrade elettroniche dell’odio: l’ha moltiplicata negli andirivieni del cyberspazio, là dove reale e virtuale si incrociano e si intrecciano fino a confondersi. Gli odiatori in rete non si affaticano a compitare sopra le ottocento pagine dell’edizione critica dei Diari di Anne Frank, pubblicata dall’Istituto per la documentazione bellica dei Paesi Bassi nel 1986 e poi ancora, in una versione aggiornata, quindici anni dopo (la traduzione italiana è uscita da Einaudi nel 2002). Gli odiatori preferiscono riprendere la vulgata del docente universitario francese Robert Faurisson: fin dagli anni Settanta, questo profes-

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sore di letteratura all’università di Lione era assurto agli onori delle cronache per avere pubblicamente messo in dubbio sia l’autenticità del diario di Anne Frank, sia l’esistenza delle camere a gas di Auschwitz. Ma perché indugiare su tutto ciò in un libro dedicato al metodo storico? Perché occuparsi di tali miserie – l’omicidio di un agente da parte di un vecchio fanatico americano, le tesi negazioniste di uno screditato studioso francese – a fronte di un documento umanamente straordinario com’è il diario di Anne Frank? Il fatto è che quel diario rappresenta un caso di fonte particolarmente meritevole di discussione metodologica, per una ragione che molti suoi lettori non conoscono per nulla, o non conoscono abbastanza: perché pur derivando da un documento autentico, il diario di Anne ha circolato durante quasi mezzo secolo come un documento spurio. Nulla di più fuorviante, in effetti, che la dichiarazione di Otto Frank pubblicata quale postilla alla prima edizione neerlandese del 1947, e poi in tutte le edizioni straniere circolanti fino all’edizione critica del 1986: «Salvo alcune parti che non hanno interesse per il lettore, il testo originale è stato stampato integralmente». Come proprio l’edizione critica avrebbe reso manifesto, nel ’47 il testo originale del diario non era stato affatto stampato integralmente; mentre le parti dette senza interesse dovevano rivelarsi, dietro verifica, della massima importanza. 2. I dubbi del professor Faurisson Quantunque avanzati con le peggiori intenzioni, i dubbi del professor Faurisson sulla genuinità del diario di Anne Frank non erano totalmente peregrini. Né forse, almeno all’inizio, nascevano in totale malafede. Alla ricerca di una sua verità, nel marzo del 1977 Faurisson si recò a Basilea per incontrare di persona un Otto Frank quasi novantenne; papale papale, gli spiegò di dubitare dell’autenticità

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del diario di Anne come già ne avevano dubitato altri lettori e commentatori, che fin dagli anni Cinquanta erano stati chiamati a rispondere dei loro dubbi nelle aule dei tribunali. Per tutta risposta, Otto Frank accompagnò Faurisson nel caveau della banca dove conservava i manoscritti della figlia. Così, un bel mattino, il vecchio sopravvissuto ad Auschwitz e alla rovina della sua famiglia mostrò quei cartacei cimeli al futuro portavoce mondiale del negazionismo... Ma tale incontro non fu soltanto paradossale, o increscioso, o patetico. In un certo (scomodo) senso, è ad esso che dobbiamo la piena conoscenza non già del diario, ma piuttosto dei diari di Anne. Fu infatti di ritorno da Basilea che Robert Faurisson maturò le convinzioni da lui rese pubbliche in un saggio del 1980, È autentico il diario di Anne Frank? Saggio oggi vituperato, almeno quanto il resto della spazzatura culturale prodotta da Faurisson e dai suoi seguaci a partire dagli anni Settanta. Eppure un saggio che conteneva – si fatica a dirlo, per un testo negazionista! – importanti intuizioni filologiche. Allo scopo di dimostrare come l’operazione del diario fosse «una truffa letteraria» perfidamente orchestrata dalla lobby giudaica, il professore di Lione impostò un raffronto sistematico non già fra i manoscritti di Anne (ch’egli aveva potuto soltanto intravedere nel caveau della banca svizzera), ma fra i testi dell’originale neerlandese e di alcune prime edizioni straniere: la traduzione tedesca, quella francese, l’inglese. Da un’edizione all’altra Faurisson riscontrò numerose differenze, aggiunte, omissioni, e concluse che il ruolo di Otto Frank dovesse essere stato cruciale nel trasformare i manoscritti lasciati dalla figlia nel cosiddetto Diario (al singolare), creando un libro dal nulla o dal quasi nulla. È tecnica tipica dei negazionisti l’individuare una smagliatura, grande o piccola, nell’altrui discorso, e il far leva su quella per allargare il buco, nello sforzo di distruggere completamente la tela dell’avversario. Fu questo anche il caso del trattamento riservato da Faurisson al diario di An-

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ne Frank, dove una disputa sui criteri di edizione del testo divenne occasione per suggerire, a dispetto di ogni logica, l’inattendibilità dell’intero documento. Resta il fatto che quel saggio provocatorio sin dal titolo, È autentico il diario di Anne Frank?, ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda metodologica che qui ci riguarda. Per una sorta di eterogenesi dei fini, nel momento stesso in cui gli scritti di Faurisson intesi a negare l’esistenza storica della camere a gas facevano di lui il più infrequentabile dei professori universitari di Francia e d’Europa, i suoi dubbi intorno alle vicende editoriali del diario di Anne Frank colpivano sufficientemente nel segno da spingere l’Istituto per la documentazione bellica dei Paesi Bassi – depositario dei manoscritti di Anne dopo la morte di Otto, nel 1980 – a una risoluzione tanto grave quanto decisiva: oltreché disporre la perizia forense per sciogliere ogni possibile riserva intorno all’autenticità dei manoscritti, l’Istituto scelse di approntare un’edizione critica integrale dei Diari (ormai al plurale), quella data alle stampe nel 1986. Si fece allora evidente l’irritante esattezza di quanto Faurisson aveva intuito nel suo saggio del 1980: la gravità delle manipolazioni cui i testi di Anne erano stati sottoposti nell’immediato dopoguerra. Dopo l’uscita dell’edizione critica, il più lucido studioso francese di testi diaristici e autobiografici, Philippe Lejeune, non mancò di notare come la pubblicazione integrale dei Diari obbligasse a un ripensamento complessivo della figura di Anne Frank. Per decenni, milioni e milioni di lettori del Diario avevano letto quella che gli editori del 1986 qualificarono come la versione C del diario stesso. Avevano letto cioè una specie di collage che Otto Frank aveva preparato nel 1945-46, dopo il suo ritorno ad Amsterdam da Auschwitz, sulla base delle due versioni diaristiche scritte per mano di Anne e ritrovate nell’«alloggio segreto»: la cosiddetta versione A (l’originale scritto giorno per giorno, andato peraltro smarrito relativamente a dodici dei venticinque mesi trascorsi in clande-

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stinità) e la cosiddetta versione B, una riscrittura dell’originale elaborata da Anne nelle dieci settimane precedenti la cattura (essa stessa lacunosa, perché interrotta dall’arresto il 4 agosto 1944). L’edizione critica dei Diari rendeva ormai possibile, e necessaria, una lettura dei manoscritti fondata sulla contestualizzazione precisa dei tempi di scrittura di Anne, quale Lejeune si sforzò di facilitare attraverso la tabella qui riprodotta. 1942

1943

1944

G L A S O N D G F M A M G L A S O N D G F M A M G L A

A Diario

12.6.42

13.11.42

[quaderni perduti]

22.12.43

4.8.44 20.5.44 4.8.44

Redazione di B

B L’alloggio segreto Testi disponibili nel 1945 per comporre C

20.6.42

29.3.44

periodo 1 A+B

periodo 2

periodo 3 A+B

periodo 4

[+ “episodi della vita A dell’alloggio segreto” 22.12.43 29.3.44 nel libro cassa]

4.8.44

3. Il computer di Mirjam Pressler Il diario di Anne Frank non è stato più lo stesso dopo la pubblicazione dell’edizione critica. Inaccettabile, ormai, leggerlo nella versione che aveva circolato per quarant’anni dopo il 1947: la versione C, pesantemente manipolata da Otto e dai primi editori o traduttori. Assai difficile – d’altronde – leggere il diario nell’edizione critica, che presenta tutte e tre le versioni, A-B-C, disposte sinotticamente pagina per pagina: una manna per lo studioso speciali-

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sta, cui è dato così di ritrovare il palinsesto delle scritture o riscritture di Anne e di Otto; un inciampo per il lettore comune, che rischia a ogni momento di perdere il filo. Perciò, la Fondazione Anne Frank di Basilea ha proceduto alla cura e alla pubblicazione di qualcosa come una versione D, che è stata tradotta dal neerlandese in numerose lingue (in italiano, da Einaudi nel 1993) ed è stata presentata come l’edizione definitiva del diario di Anne. Si tratta in realtà di una nuova fabbricazione, per allestire la quale si è chiesto alla scrittrice tedesca Mirjam Pressler – conosciuta come autrice di libri per bambini – un taglia-e-incolla ragionato delle versioni A, B e C. Con l’effetto positivo di restituire ad Anne una singola voce, quale aveva rischiato di perdersi nelle pagine sinottiche dell’edizione critica; ma con l’effetto negativo di cancellare ogni differenza tra le stratificazioni del testo, compiendo un’opera ancora più pesantemente manipolatoria di quella realizzata a suo tempo da Otto Frank. Oggi, il lettore che vada in libreria e acquisti l’edizione corrente del Diario (di nuovo al singolare!) si trova in mano un testo che non contiene esattamente né la versione scritta di getto da Anne, né la versione da lei riscritta durante l’ultimo periodo di permanenza nell’alloggio segreto, né la versione collazionata da Otto dopo la fine della guerra. L’editore ha un bel garantire, sulla quarta pagina di copertina, che il testo è stato finalmente «restituito alla sua integrità originale»: di fatto, il lettore non ha alcun modo di riconoscere nel volume quanto proviene dalla versione A, quanto (ed è la maggior parte) dalla versione B, quanto (poca cosa) dalla versione C, quanto infine dalla versione D, cioè dal computer di Mirjam Pressler anziché dalla penna di Anne Frank. Come fonte, i Diari vanno maneggiati da uno storico unicamente nella loro edizione critica; tutte le altre edizioni, vecchie o nuove, neerlandesi o straniere, gli serviranno soltanto come documento degli usi e degli abusi cui i manoscritti originali sono stati sottoposti nel tempo. È

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venuto dunque il momento di aprirli, questi diari di Anne Frank. E di considerarli – l’edizione critica lo permette – uno per uno, nell’ordine cronologico attraverso cui sono stati prodotti. Non già per compierne qui una lettura approfondita, che riuscirebbe proibitiva nello spazio di poche pagine. Piuttosto, per restituire al palinsesto diaristico di Anne lo spessore problematico che è proprio di ogni diario come fonte “soggettiva”: una manifestazione del “sé”, ma una manifestazione spesso condizionata dal pensiero dell’“altro”, il lettore vicino o lontano, curioso o distratto, visibile o invisibile, che qualunque autore di qualunque diario può immaginare e magari sperare, presto o tardi, chinato sulle sue pagine. Nei venticinque mesi in cui ha tenuto il diario, Anne si è posta spesso il problema dei moventi della sua scrittura e del profilo dei suoi destinatari. In questo, i Diari di Anne Frank non hanno nulla di diverso da ogni altra fonte diaristica, antica o moderna che sia. Quanto li rende un documento eccezionale sono le condizioni peculiari in cui sono stati redatti: da una ragazzina di tredici o quattordici anni, segregata con la famiglia e con alcuni estranei in pochi metri quadrati mentre intorno a lei si compiva la distruzione degli ebrei d’Europa, bambina fattasi donna nell’incubo permanente dei treni piombati e delle camere a gas. Oltre che davanti a un caso di scrittura femminile, quale la Shoah ha prodotto in forme anche altissime, siamo davanti a un caso di scrittura infantile (oppure, tutt’al più, adolescenziale): quella «voce di bambina» che impressionò tanto, nel 1946, lo storico neerlandese Jan Romein, primo lettore “professionale” del diario nella versione dattiloscritta da Otto, e suo primo recensore. Anne Frank non aveva ancora cinque anni quando si trasferì con i genitori e la sorella Margot da Francoforte ad Amsterdam, fuggendo dalla Germania dove era salito al potere Adolf Hitler. Aveva nove anni e mezzo il 10 novembre 1938, quando nella «notte dei cristalli» i nazisti distrussero, fra l’altro, la sinagoga di Aquisgrana dove si era-

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no sposati suo padre e sua madre. Aveva undici anni scarsi nel maggio 1940, al momento dell’occupazione dei Paesi Bassi da parte della Wehrmacht e delle SS. Ne aveva dodici quando gli ebrei di Amsterdam caddero sotto provvedimenti massicci di discriminazione razziale. Ne aveva appena compiuti tredici – il diario con la copertina a quadretti rossi e verdi era stato un regalo di compleanno – quando raggiunse con la famiglia l’alloggio segreto al numero 263 di Prinsengracht, nel centro di Amsterdam, mentre partivano dai Paesi Bassi i primi treni per Auschwitz. Aveva quindici anni il 3 settembre 1944, quando lei stessa salì sull’ultimo di quei treni in partenza. L’infanzia di Anne coincise con l’inizio della fine per gli ebrei d’Europa, la sua adolescenza coincise con il compimento della Soluzione finale. In altre parole, per Anne la Shoah coincise con la vita. 4. La prima versione del diario Quando gli uomini della Gestapo erano venuti per arrestarli, lei e gli altri sette occupanti dell’alloggio segreto, Anne non aveva gettato neppure uno sguardo ai quaderni e ai fogli che contenevano i suoi diari. Perquisendo la casa, i poliziotti avevano trovato la valigetta del padre, dove lei aveva l’abitudine di tenerli e che le era capitato di stringere forte al petto nelle paurose notti di bombardamento: l’avevano scossa per rovesciarne a terra il contenuto, ma non si erano presi la briga di frugare tra quelle carte fitte di una grafia dapprima infantile, poi adulta. Quanto all’autrice, che pure – prefigurandosi il momento dell’arresto – aveva scritto «il mio diario no, dovranno passare sul mio cadavere!», si era prestata docilmente a raccogliere il minimo indispensabile per chissà quale viaggio e a seguire gli agenti verso la stazione di polizia. Solo quando l’alloggio segreto si era svuotato dei suoi abitanti Miep Gies, la fedele segretaria di Otto Frank, aveva raccolto da terra

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i diari (non tutti, come sappiamo) e li aveva infilati in un cassetto della sua scrivania, dove sarebbero rimasti per circa un anno: fino al ritorno di Otto da Auschwitz, e fino alla notizia della morte di Anne a Bergen-Belsen. «Sono molto, molto contenta di averti portato qui con me», leggiamo nel diario alla data del 28 settembre 1942, dopo due mesi e mezzo da che la famiglia Frank si era segretamente rifugiata sul retro degli uffici di Otto, industriale nel settore dei dolcificanti. A quel tempo, Anne non aveva ancora personificato il diario attribuendogli il nome esclusivo di Kitty, come farà verso la fine del ’43; lo compilava sotto forma di lettere rivolte all’una o all’altra amica di un club immaginario. Diario o lettere «in fondo è la stessa cosa», ragionava allora Anne, mostrando di interpretare la scrittura come un surrogato di quello che alla ragazzina di tredici anni era venuto a mancare: il dialogo con le coetanee, tanto più necessario a un’adolescente in quanto Anne faticava terribilmente a dialogare con la madre Edith e con la sorella Margot. Legatissima al padre, la figlia secondogenita dei Frank viveva da anni con la madre un rapporto di sorda freddezza, che la segregazione coatta trasformò in aperta ostilità. Né le cose andavano meglio con Margot: la bella, dolce, quieta sorella maggiore, che l’inquieta, gelosa, ribelle Anne percepiva come un’insopportabile sorella-modello. Quantunque sia andata perduta per i tredici mesi compresi dal novembre 1942 al dicembre ’43, la versione A dei Diari di Anne Frank si presenta allo storico anzitutto come questo: lo sfogatoio sentimentale di una ragazza in rivolta contro la famiglia, impaziente di diventare «signorina» con l’arrivo delle prime mestruazioni, che sogna per se stessa un futuro a «Holywood», e intanto esplora i misteri del proprio corpo nel bagno dell’alloggio segreto («l’urina esce da un buchino della vagina, ma sopra c’è ancora una cosa, anche lì c’è un buco, ma non so per cosa serve»). Mentre ancora si interroga sul funzionamento dei propri organi genitali, Anne è costretta dalla storia a cre-

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scere in fretta, maledettamente in fretta. Nelle vie di Amsterdam, sbirciate nottetempo da dietro i vetri dell’ufficio di Otto Frank, «non si salva nessuno, vecchi, bambini, neonati, donne incinte, malati, tutti, tutti camminano insieme verso la morte», verso i «luridi macelli» di quel «bestiame malconcio» che è divenuto il popolo ebraico. E se già nei Paesi Bassi la situazione degli ebrei è spaventosa, «come dev’essere in Polonia?». All’altezza cronologica del febbraio 1944, per Anne la Soluzione finale non ha più segreti: «la verità è che in Polonia e in Russia sono state assassinate e uccise con il gas milioni e milioni di persone». Via via che misura la tragedia del suo tempo e del suo popolo, Anne Frank attribuisce un significato sempre maggiore alle scritture da lei prodotte in clandestinità: non più l’equivalente delle lettere di un’adolescente alle coetanee, ma un viatico per l’età adulta, ove le fosse stato consentito di viverla. «Sono arrivata a un punto – scrive il 3 febbraio 1944 – in cui non mi importa più molto se muoio o se vivo, il mondo continuerà a girare anche senza di me e tanto non posso oppormi a questi avvenimenti. Sarà quel che sarà, ma se sarò salvata, e mi sarà risparmiata la fine, troverei tremendo se dovessi perdere i miei diari e racconti». Già, perché Anne si era messa a scrivere anche racconti, bozzetti ricalcati sulla vita quotidiana dei clandestini o scritti di finzione che verranno pubblicati in neerlandese a partire dagli anni Ottanta, e saranno conosciuti in italiano come i Racconti dell’alloggio segreto. Capitava che Anne leggesse tali «storielle» ai sette compagni di clandestinità, i genitori, la sorella, il signor Pfeffer, i coniugi van Pels e il loro figlio adolescente, Peter; e capitava che la lettura venisse accolta con gusto, alimentando i progetti di Anne di «diventare giornalista» o addirittura «una scrittrice famosa». «Manie di grandezza»?, si chiedeva lei stessa. Forse. Di certo, da grande Anne non voleva essere una donna di casa come sua mamma Edith, tutta compresa nel ruolo di moglie e madre di famiglia. La versione A del diario registra con esattezza – tanto

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più in quanto sono andate smarrite le parti relative al 1943 – l’impressionante maturazione di Anne, il salto intellettuale e morale da lei compiuto fra il primo e il quarto semestre di domicilio coatto. Sempre più pronunciata, quasi spaventosa rispetto alla giovane età, si rivela la sua capacità di introspezione psicologica e di giudizio critico: l’acutezza di sguardo con cui Anne scava in sé e negli altri abitanti dell’alloggio segreto. Scava dentro il rapporto fra i genitori, fondato sul rispetto ma non sull’amore. Scava dentro le insicurezze che derivano sia a lei sia a Peter (il ragazzo con cui Anne vive, nella soffitta di Prinsengracht 263, un idillio sentimentale giunto al limite dell’intimità fisica) da una relazione fallimentare con le rispettive madri. Scava dentro la differenza che lei stessa riscontra fra la propria persona interiore e la persona esterna, qualificandola – pirandelliana senza saperlo – come la sua «maschera», e ragionando delle «due Anne»: la «Anne n. 1», quella allegra, superficiale, sfacciata, che tutti conoscevano e a volte mal sopportavano, e la «2a Anne», quella «molto più bella, pura e profonda» che aveva quasi paura di essere scoperta, e che soltanto si rivelava alla «cara Kitty» del diario. 5. La riscrittura di Anne Sotto l’occupazione tedesca, molti abitanti dei Paesi Bassi captavano di nascosto le informazioni radio provenienti dal mondo libero: Radio Londra, ma soprattutto Radio Orange, che trasmetteva anch’essa da oltremanica e che veicolava la propaganda della monarchia e del governo in esilio. I clandestini dell’alloggio segreto non facevano eccezione. Si riunivano la sera nello studio di Otto al pianterreno, per aggrapparsi all’apparecchio che Anne descrive come un «grande Philips» dalla «voce miracolosa». In seguito, la loro radio diventa un apparecchio portatile installato al primo piano, unico passatempo – insieme con i libri – nella monotona vita dei reclusi. Ed è da questa ra-

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dio che Anne ascolta, il 28 marzo 1944, un annuncio del ministro dell’Educazione e della Cultura in esilio, Gerrit Bolkestein; annuncio destinato a trasformare profondamente la fisionomia del testo che avrebbe reso Anne famosa dopo la morte: Cara Kitty, ieri sera per Radio Orange il ministro Bolkensteyn ha detto che dopo la guerra sarà fatta una raccolta di diari e lettere di questa guerra. Naturalmente tutti si sono buttati sul mio diario. Prova a pensare quanto sarebbe interessante se pubblicassi un romanzo dell’Alloggio segreto, già dal titolo la gente penserebbe che sia un giallo. Ma scherzi a parte circa 10 anni dopo la guerra dev’essere già divertente sentire come noi ebrei siamo visssuti, cos’abbiamo mangiato e detto qui. Anche se ti racconto molte cose di noi, tu non conosci che una piccola parte della nostra vita.

Durante le settimane successive, Anne rimugina sulla possibilità di mettere mano alla versione originale del diario per meglio corrispondere alla sollecitazione del ministro. Talvolta, esita davanti al dubbio che il contenuto possa non interessare nessuno: «“Le confessioni di un brutto anatroccolo”, sarà il titolo di tutte queste sciocchezze». Altre volte, si accende in lei la speranza di realizzare qualcosa di importante, appunto il «romanzo» dell’alloggio segreto. Infine, «dopo tanto pensarci», Anne intraprende una riscrittura completa del diario, che la impegnerà dal 20 maggio all’arresto del 4 agosto in parallelo con la scrittura delle parti nuove. In pratica, Anne lavora sia alla continuazione del diario vero e proprio (la versione A), sia al testo che lei considera l’incunabolo del suo romanzo (la versione B), e che propriamente non è un diario, poiché viene redatto a distanza di tempo dagli eventi vissuti. Agli occhi dello storico, il lavoro di riscrittura di Anne rappresenta un’occasione formidabile non tanto per misurarne la maturazione psicologica – a questo scopo, riesce soprattutto istruttivo il confronto tra la prima e la se-

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conda parte della versione A – quanto per studiare l’idea di testimonianza che la ragazza aveva finito col maturare nella clandestinità. Secondo quali strategie lessicali, stilistiche, narrative, Anne rilegge se stessa e modifica il diario originale? Di là dai miglioramenti introdotti grazie a un’accresciuta padronanza della lingua, del discorso, del pensiero, che cosa Anne decide sarebbe stato notevole per il lettore del futuro, e che cosa trascurabile? Ancora: dove, come, quando Anne modifica l’originale per scrupolo di opportunità, perché immagina l’una o l’altra pagina non pubblicabile nel contesto culturale del dopoguerra, e si impegna quindi in un’autocensura preventiva? Altrettante domande cui l’edizione critica dei Diari permette di rispondere: complicando assai (com’è giusto) la categoria di “testimone” di un evento storico quale la Shoah, se è vero che Anne Frank stessa ce ne ha trasmesso sia la testimonianza immediata della versione A, sia la testimonianza mediata della versione B. Un raffronto fra A e B mostra con quanta coerenza l’autrice abbia proceduto a interventi di funzionalità narrativa, e con quanta consapevolezza abbia cercato effetti di drammatizzazione letteraria. Riscrivendo, Anne ha sistemato i materiali originari in modo da cancellare quello che contenevano di ingenuo o comunque di infantile; ha costruito con scrupolo degno di un romanziere le figure dei personaggi maggiori e minori; è arrivata a inventarsi alcune date del diario per meglio distribuire la materia del racconto. Sul fronte dell’autocensura, ha creduto bene di tacitare buona parte dei commenti più severi riguardanti il suo rapporto con i genitori e il rapporto dei suoi genitori fra loro: evidentemente, Anne riteneva che la società neerlandese del dopoguerra fosse impreparata ad accettare una così grande indipendenza di giudizio da parte di un’adolescente. Inoltre, Anne ha censurato le pagine della versione A riguardanti la scoperta del suo corpo e della sua sessualità: pagine che la ragazza doveva considerare

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talmente scabrose da riuscire improponibili per il romanzo che sperava di pubblicare. Nel momento più intenso dell’infatuazione per Peter, Anne aveva confessato alla «cara Kitty» non soltanto l’impazienza di «ballare, flirtare e non-so-cos’altro-ancora», né soltanto il sogno di baciare Peter e l’ossessione di stargli vicino, ma anche il desiderio sessuale da lei provato verso il compagno di clandestinità e verso i ragazzi in generale. Nella versione A del diario figuravano quindi parole, frasi, formule estremamente esplicite, che nella versione B risultano sistematicamente cassate. «Io vorrei tanto – vorrei tanto – vorrei tutto... [...] Devo controllarmi tutto il tempo, desidero il mio Peter, desidero tutti i ragazzi, anche Peter... Qui. Vorrei gridargli: “Oh dimmi qualcosa, non sorridermi sempre soltanto, toccami”»: ecco un esempio fra i più parlanti di confessione autocensurata, che i lettori dei diari di Anne Frank non hanno potuto conoscere prima dell’edizione critica del 1986. Oltreché da mere ragioni di calcolo editoriale, il ridimensionamento del romance con Peter nella versione B derivò da un sincero disincanto amoroso. Durante le settimane di riscrittura del diario, Anne era giunta alla conclusione che l’idillio in soffitta fosse stato da lei alimentato in una maniera artificiosa, per mancanza di meglio nell’orizzonte umano della sua vita di reclusa. Alla vigilia della cattura degli otto abitanti dell’alloggio segreto e della loro deportazione in Polonia, la ragazza era divenuta tanto lucida sull’idillio da riuscire ingenerosa. «Ho attratto Peter verso di me con più forza di quanto lui non creda [...], ho cercato almeno di sollevarlo dalla sua meschinità e di farlo sentire grande nella sua giovinezza»: questo si legge nella versione A del diario, in data 15 luglio 1944. Allora, Anne non poteva immaginare che di lì a pochi mesi quel ragazzo meschino si sarebbe rivelato – nell’inferno di Auschwitz – il più prezioso sostegno morale e materiale di suo padre Otto, prima di cadere sotto gli ultimi colpi della Soluzione finale.

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6. La versione di Otto Tranne Otto Frank, tutti gli abitanti dell’alloggio segreto morirono in deportazione. Il primo in ordine di tempo fu il padre di Peter, Hermann van Pels: «selezionato» ad Auschwitz il giorno stesso dell’arrivo, 6 settembre 1944, venne immediatamente gasato. Anche la madre di Anne e Margot, Edith, morì ad Auschwitz – di stenti – il 6 gennaio 1945: tre settimane prima che Otto venisse salvato dall’arrivo dell’Armata rossa sovietica. Gli altri cinque ex clandestini di Prinsengracht 263 furono coinvolti nel movimento di diaspora concentrazionaria per cui le forze armate tedesche, ritirandosi dall’Europa orientale, obbligarono molti prigionieri dei lager a ritornare da est verso ovest, dalla Polonia verso i campi ancora operanti in Europa centrale. Fritz Pfeffer, il dentista compagno di stanza di Anne nell’alloggio segreto, morì a Neuengamme, in Germania, il 20 dicembre 1944. Margot e Anne Frank morirono a Bergen-Belsen tra la metà e la fine di marzo del 1945. La madre di Peter, Auguste van Pels, compì un drammatico periplo da Auschwitz a Bergen-Belsen a Buchenwald a Theresienstadt, e morì in terra tedesca o boema poco prima dell’armistizio. Peter morì a Mauthausen, in Austria, il 5 maggio 1945. Otto Frank poté riguadagnare Amsterdam all’inizio di giugno, ed entro poche settimane ebbe nozione della tragedia nella tragedia: nel contesto dello sterminio generalizzato degli ebrei d’Europa, lui era l’unico sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia e della piccola comunità dell’alloggio segreto. Tanto più fatidico dovette quindi sembrare a Otto il destino dei diari che Anne aveva redatto durante la clandestinità, e che la segretaria Miep Gies aveva fortunosamente messo in salvo (sia pure soltanto in parte) dopo l’irruzione della Gestapo a Prinsengracht 263. Quei diari erano molto più dei «semplici testi scritti» che il ministro in esilio Bolkestein aveva raccomandato ai neerlandesi di conservare a documento della vita quotidiana

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sotto l’occupazione tedesca: erano il lascito alla posterità di una singola vittima che sembrava parlare per sei milioni di altre, erano una testimonianza individuale che prometteva di farsi testamento collettivo. Tale almeno fu l’impressione di Otto quando, nell’estate del ’45, ebbe trovato il coraggio di leggere i manoscritti della figlia, e da subito si mise in testa di pubblicarli come libro. L’edizione critica dei Diari di Anne Frank consente di identificare parola per parola le modifiche apportate da Otto (e poi dai primi editori) ai testi originali. Consente dunque di smentire la leggenda negazionista secondo cui il diario sarebbe stato scritto dal padre ben più che dalla figlia. In realtà, Otto lavorò essenzialmente a un’opera di collage: tenendo per base la versione B, quella rivista da Anne nella prospettiva di una pubblicazione post-bellica, Otto costruì la versione C reinserendo numerosi passi della versione A che Anne aveva scelto di cassare. Il padre ritenne insomma che la figlia si fosse spinta troppo oltre nell’esercizio di un’autocensura preventiva. Perciò, pur rispettando i due criteri essenziali ai quali Anne aveva improntato la riscrittura del diario – minore severità nei giudizi sui genitori, maggiore riserbo nella sfera dell’intimità e della sessualità – Otto provvide a restaurare tante cose che nelle intenzioni dell’autrice non si sarebbe mai dovuto leggere. Oggi, lungi dal riconoscere in Otto Frank (come vorrebbero Robert Faurisson e gli spargitori di odio antisemita sul web) il malizioso artefice di una truffa politicoletteraria, i lettori dell’edizione critica dei Diari hanno ragione di riconoscere in lui un interprete meraviglioso dei manoscritti originali. Fu infatti con grandissima sensibilità che il padre intervenne sui testi della figlia: da un lato, raccogliendo, o anche allargando il velo di discrezione che Anne aveva deciso di stendere sopra i conflitti con la madre e la sorella; dall’altro lato, restituendo un’esistenza a ragionamenti, passioni, desideri che Anne aveva deciso di sacrificare per motivi di opportunità, perché sperava così

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di vedersi più facilmente pubblicata dopo la fine della guerra. Fu grazie al lavoro di Otto che nei Paesi Bassi del 1947, e poi là nel mondo dove il Diario uscì in traduzione, milioni di lettori poterono incontrare un’Anne Frank ancora viva e palpitante, ricomposta sulla pagina a partire dai due testi cui si era consegnata. La ragazzina che aveva scoperto nella clandestinità il «dolce segreto» dei suoi cicli mestruali, e il «terribile bisogno» di palparsi il seno, e l’«estasi» davanti a «un nudo di donna». O l’adolescente che nel solaio di Prinsengracht aveva quasi sedotto il giovane Peter, mentre il cuore le batteva forte per la «consapevolezza della sua virilità». In altri termini, fu grazie al collage non dichiarato della versione A con la versione B che la figura di Anne Frank poté emergere, nella versione C, in tutta la sua umanità di ragazza insieme normale ed eccezionale. Il libro-simbolo della Shoah era nato dalle mani di un padre amoroso, non da quelle di un rigoroso filologo.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Sulla sparatoria dell’Holocaust Museum, si veda D. Stout, Shooting at Holocaust Museum Kills a Guard, «The New York Times», 11 giugno 2009, e S. Luzzatto, Il killer Von Brunn a caccia di un diario, «Il Sole 24 Ore», 12 giugno 2009. Su internet e il negazionismo, vedi A. Roversi, L’odio in rete. Siti ultras, nazifascismo online, jihad elettronica, il Mulino, Bologna 2006. Per la perizia dell’Istituto per la documentazione bellica dei Paesi Bassi, vedi I diari di Anne Frank, a cura di D. Barnouw e G. van der Stroom, edizione italiana a cura di F. Sessi, Einaudi, Torino 2002 (da tale edizione sono ricavate tutte le citazioni di Anne Frank presenti in questo saggio). Sul ruolo di Faurisson nella polemica negazionista, vedi V. Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano 1998. Il saggio di Faurisson su Anne Frank, pubblicato per la prima volta in S. Thion (a cura di), Vérité historique ou vérité politique? Le dossier de l’affaire Fau-

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risson, la question des chambres à gaz, La Vieille Taupe, Paris 1980, è disponibile in traduzione italiana: È autentico il diario di Anna Frank?, Graphos, Genova 2000. La confutazione più stringente del negazionismo di Faurisson resta quella di P. VidalNaquet, Un Eichmann di carta (1980), in Id., Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008. Sui tempi e sui modi della riscrittura di Anne, vedi Ph. Lejeune, Comment Anne Frank a réécrit le journal d’Anne Frank (1990), in Id., Les brouillons de soi, Seuil, Paris 1998; E. Collotti, Sull’edizione critica del «Diario» di Anna Frank, in «Materiali di lavoro», Rovereto, a. X, 2-3, maggio-dicembre 1992. Per le scritture femminili della Shoah è importante A. Rossi Doria, Memorie di donne, in Storia della Shoah, a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, vol. IV, Eredità, rappresentazioni, identità, Utet, Torino 2006. L’articolo di Jan Romein, comparso su «Het Parool» e intitolato Voce di bambina, è integralmente riportato in G. van der Stroom, I diari, «L’Alloggio segreto» e le traduzioni, in I diari di Anne Frank cit. Considerazioni illuminanti sul vissuto infantile della Shoah sono venute da Aharon Appelfeld: oltre al libro autobiografico Storia di una vita (1999), Guanda, Milano 2008, si veda il suo intervento intitolato Shoah: dopo l’ultimo testimone, «la Repubblica», 2 settembre 2009. Per la vita di Anne Frank, i testi di riferimento sono quelli di M. Müller, Anne Frank. Una biografia (1998), Einaudi, Torino 2003, e di C.A. Lee, Storia di Anne Frank (1999), Rizzoli, Milano 2000. Della stessa autrice è utile anche la monografia successiva: C.A. Lee, The Hidden Life of Otto Frank, HarperCollins, New York 2003. Per una lettura sinottica dei diari, vedi F. Prose, Anne Frank. The Book, the Life, the Afterlife, HarperCollins, New York 2009. Per Anne scrittrice al di là dei diari, vedi A. Frank, Racconti dell’alloggio segreto, Einaudi, Torino 1983 (e successive edizioni). Alcuni degli studi più significativi che hanno animato nel tempo la discussione sui diari sono stati raccolti in un’antologia di H. Bloom (a cura di), A Scholarly Look at «The Diary of Anne Frank», Chelsea House, Philadelphia 1999. Sulla categoria di “testimone” della Shoah, il saggio di riferimento resta quello di A. Wieviorka, L’era del testimone (1998), Raffaello Cortina, Milano 1999.

Il figlio dell’eroe Una fonte orale di Alessandro Casellato

Capita a volte che sia la fonte a venirti a cercare. Le “fonti orali” hanno gambe e testa per farlo. Adelmo Cervi mi si presentò durante il Festival della Resistenza che si tenne ai primi di agosto del 2008 a Fosdinovo, sulle colline della Lunigiana, lungo quello che nella seconda guerra mondiale fu il fronte della Linea gotica. Era stato lui a sentirmi parlare per primo, e a studiarmi, mentre intervenivo a una tavola rotonda con gli storici Cesare Bermani e Giovanni Contini sulle Parole che resistono: memorie e fonti orali. Il luogo era propizio: in mezzo a un bosco di castagni secolari, sulla soglia di una cascina trasformata in un Museo audiovisivo della Resistenza, davanti a un prato che col calare del sole si veniva riempiendo di persone venute ad ascoltare il dibattito, a mangiare sgabei caldi appena fritti, e soprattutto ad attendere lo spettacolo serale. Di lì a poco alcuni musicisti si sarebbero alternati sul palco, fino a notte fonda, a cantare l’Italia degli ultimi quarant’anni. C’è chi dice che il contesto e la compagnia non contano in una ricerca. Non è così. A maggior ragione per chi la conduce anche fuori dagli archivi, incontrando persone, ascoltando racconti. E infatti in quel luogo tanto carico di suggestioni si materializzò Adelmo, piccolo e magro come un folletto: barba bianca, occhi sottili, camicia rossa. Veniva dall’altro versante degli Appennini, dalla provincia di

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Reggio Emilia. Si presentò come il figlio di Aldo Cervi, uno dei sette fratelli uccisi dai fascisti il 28 dicembre del 1943. I fratelli Cervi sono uno dei simboli della Resistenza italiana, non solo per la loro morte ma anche per ciò che l’aveva preceduta: una storia lunga più di dieci anni, che aveva trasformato una famiglia di contadini simile a tante altre in un esperimento vivente di come si potesse costruire una società nuova a partire dal proprio lavoro, dal proprio podere. I Cervi erano dei mezzadri che si erano emancipati: avevano studiato da autodidatti, avevano preso in affitto un terreno tra i paesi di Campegine e di Gattatico e l’avevano fatto diventare un’azienda agricola produttiva, moderna, meccanizzata. Avevano sfidato le tradizioni, rotto con la cultura cattolica in cui erano cresciuti e abbracciato – negli anni Trenta, cioè nel pieno del regime di Mussolini – l’idea comunista. Proprio Aldo, il padre di Adelmo, l’aveva portata in casa a seguito di una disavventura che gli era costata due anni di carcere. In prigione aveva conosciuto i comunisti e appreso i rudimenti del marxismo. Era tornato in paese cambiato, aveva messo in piedi una biblioteca popolare e una piccola rete di dissidenti che si era ingrandita durante la guerra, quando casa Cervi accolse numerosi ex prigionieri alleati scappati dai campi di concentramento all’indomani dell’8 settembre 1943. Con loro Aldo diede vita a una delle prime formazioni partigiane. Alla fine di novembre ci fu una retata e furono arrestati tutti gli uomini presenti in casa Cervi. Dopo un mese di carcere i sette fratelli e un altro giovane italiano che si era unito a loro – Quarto Camurri – vennero condannati a morte da un tribunale straordinario della Repubblica sociale italiana, come rappresaglia per un’azione compiuta da altri partigiani. Il padre Alcide, quasi settantenne, fu risparmiato e poté tornare a casa, ignaro della sorte dei figli. Dopo meno di un anno la loro madre, Genoeffa, morì dal dolore. In quel podere che era stato fiorente rimasero un vecchio, quattro

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vedove e undici bambini. Tra loro, nato appena quattro mesi prima della tragedia, c’era Adelmo. La storia dei fratelli Cervi era nota a tutti noi, almeno a grandi linee; quella sera del 2008 a Fosdinovo, Adelmo non ebbe bisogno di raccontarcela per farci capire chi era. Ci accompagnò durante la cena sui tavoli all’aperto, restando per un po’ in posizione di ascolto mentre noi proseguivamo le chiacchiere. Poi d’un tratto cominciò lui a parlare, e ci tenne inchiodati per oltre un’ora. Figlio di quello che si usa definire un “martire della Resistenza”, Adelmo era tutt’altro che propenso a far la parte della vittima. Era anche lui un combattente. Ce lo dimostrò raccontandoci la sua vita: un’esistenza controcorrente, piena di avventure e contrasti. Il capitolo su cui più si dilungò fu il soggiorno di tre anni in Unione Sovietica, premio e punizione insieme per le sue posizioni scomode all’interno della famiglia e del partito comunista. Era andato nella “patria del socialismo” insieme al cugino Gelindo, il più piccolo degli orfani di casa Cervi, nato pochi mesi dopo la morte del padre. Gelindo si era trovato benissimo; aveva anche incontrato una giovane ucraina che sarebbe diventata sua moglie. Adelmo invece ebbe molti problemi, politici e personali, che lo misero in contrasto con le autorità: quando si legò a una ragazza del posto, lei venne spedita lontano e lui, dopo un po’, rimandato in Italia. Alla fine della serata ci riferì che nei giorni seguenti si sarebbe recato al Festival del cinema di Locarno, per partecipare alla proiezione di un film in cui aveva avuto una parte come testimone: era un documentario che andava suscitando parecchi malumori, perché faceva parlare alcuni ex brigatisti rossi di Reggio Emilia che – insieme ad altri – avevano raccontato il loro passaggio dal Pci alla lotta armata all’indomani del ’68. Con Adelmo ci lasciammo scambiandoci i numeri di telefono e con l’impegno di rivederci per fare una vera intervista. Mi disse che gli faceva piacere, che da tempo aspettava qualcuno interessato ad ascoltare e a capire.

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1. Il libro di Alcide Un’intervista, cioè la relazione che intercorre tra un ricercatore e un testimone, è un rapporto seduttivo: il ricercatore ha bisogno di guadagnarsi la fiducia del suo interlocutore affinché gli conceda quel che lui possiede, cioè l’esperienza vissuta in prima persona. Ma anche il testimone vuole sedurre lo storico che ha di fronte, perché sa che solo attraverso la mediazione di colui che selezionerà, interpreterà e infine scriverà le sue parole gli sarà possibile avere accesso al mondo dei colti, ai libri, alla storia ufficiale. La danza che coinvolge i due partner nell’intervista rappresenta dunque una contesa che ha per posta in gioco almeno una briciola di potere. A Fosdinovo, Adelmo fu particolarmente seduttivo. Col suo racconto fece intuire che una porta poteva essere aperta. Che una storia nota e stranota come quella dei fratelli Cervi, scritta sulle epigrafi e nei testi di storia patria, soggetto di un libro negli anni Cinquanta, di un film nei Sessanta, di diverse canzoni cantate ancora oggi, aveva in realtà un punto di accesso laterale, straniante, da cui sarebbe stato possibile guardare a tutta la vicenda. La versione pubblica e ufficiale della storia era quella divulgata dal libro I miei sette figli, che il nonno di Adelmo – Alcide Cervi, il patriarca sopravvissuto all’eccidio dei suoi figli maschi – aveva pubblicato nel 1955. A scriverlo era stato in realtà Renato Nicolai, un giornalista romano de «l’Unità» mandato dal partito comunista a raccogliere e mettere per iscritto le memorie dell’autorevole vegliardo. Nata nel decennale della Resistenza, l’operazione era congegnata affinché facesse della vicenda dei Cervi una pagina esemplare della storia d’Italia: serviva a celebrare il sacrificio di una famiglia di contadini nella lotta di liberazione non meno che a ricordare il contributo che vi aveva dato il partito comunista; doveva mostrare quanto profondo fosse il radicamento del Pci nelle classi popolari, nell’Emilia rossa, nel cuore dell’Italia contadina. Fu un au-

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tentico bestseller, venduto in oltre mezzo milione di copie nel primo anno di edizione, poi continuamente ristampato, e tradotto in una decina di lingue. Nei decenni successivi, e soprattutto all’indomani dello scioglimento del Pci, il libro venne sottoposto a diverse critiche. A Nicolai fu rimproverata una sconsiderata disinvoltura metodologica, tanto che si arrivò a mettere in discussione la paternità intellettuale dell’opera da parte di Alcide Cervi; furono notati i tagli e gli adattamenti che le edizioni successive avevano subito per sintonizzare il testo ai cambiamenti di linea politica del Pci, specie in relazione all’Urss e all’incontro con i cattolici; ma soprattutto fu evidenziato il significato tutto politico dell’operazione che aveva avvolto nel manto dell’agiografia alcuni punti poco chiari e potenzialmente dirompenti della storia dei Cervi: in primo luogo i rapporti difficili proprio con i comunisti di Reggio Emilia durante la Resistenza, le accuse che essi fecero ad Aldo Cervi di essere un anarchico e una testa calda poco obbediente alle direttive del partito, le circostanze che innescarono la rappresaglia fascista sui sette fratelli. Ci fu chi disse che il libro rappresentava nient’altro che un risarcimento postumo per il modo in cui alcuni dirigenti locali del Pci avevano considerato i Cervi durante e subito dopo la guerra. Quel testo tanto criticabile rimane però un documento prezioso, unico nel suo genere, e ancora straordinariamente affascinante. Mai prima un contadino italiano aveva potuto parlare all’intero Paese, pur se attraverso un libro scritto da altri. I miei sette figli fu una delle prime opere di storia orale pubblicate in Italia, resa possibile grazie all’incontro tra un uomo di campagna immerso in una cultura in gran parte orale e testimone di uno degli episodi più efferati della recente guerra civile, e un giornalista militante, professionista della scrittura al servizio di un partito politico. All’epoca in cui molti storici guardavano con una certa diffidenza alla cultura delle classi subalterne, erano i giornalisti e gli “intellettuali militanti” a farsi cari-

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co di accorciare quella distanza, di riportare dentro il perimetro della storiografia il vissuto e il narrato di una famiglia di contadini attraverso la quale era possibile leggere, da una prospettiva inconsueta, alcuni capitoli decisivi della storia d’Italia. A guardar bene, dunque, I miei sette figli fu il prodotto non solo del rapporto biunivoco tra intervistato e intervistatore, ma anche di un patto tacito che coinvolse molti più soggetti in un complesso gioco di seduzione reciproca: la famiglia Cervi, che elaborò sulla scena pubblica il proprio lutto privato e trasformò una perdita in un valore; il partito comunista, che promosse il libro e lo divulgò; il vasto pubblico di lettori che vi si riconobbe e fece del suo autore un “eroe” popolare, della sua famiglia un modello di virtù umane e civili, della sua casa una sorta di santuario laico, meta di spontanei pellegrinaggi che la trasformarono in un museo mentre era ancora abitata. I sopravvissuti all’eccidio – Alcide, le vedove, gli orfani – finirono per essere essi stessi parte di questo allestimento vivente: oggetti e soggetti, gratificati e insieme espropriati della loro vita privata, dopo essere stati amputati dei loro affetti. 2. La ricerca di Adelmo Nato quattro mesi prima che i fascisti gli fucilassero il padre e gli zii, Adelmo Cervi visse per intero il processo di costruzione del mito della sua famiglia. Ma il suo rovello riguardava proprio la natura di quel “patto” dentro il quale era cresciuto, pur senza averlo scelto. Me ne parlò a lungo una sera di gennaio del 2009, a casa sua. Mi ero deciso a richiamarlo e a chiedergli la disponibilità a un’intervista con tutti i crismi. Quella sera capii una volta di più che non ci sono crismi particolari per un’intervista. Fu una lunghissima conversazione che cominciò a cena, proseguì fin quasi a mezzanotte e riprese il giorno dopo, prima in cucina e poi in auto. Adottai la re-

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gola aurea appresa dai maestri: non spegnere mai il registratore. Così quella chiacchierata, a differenza dell’altra di sei mesi prima a Fosdinovo, è diventata un documento vero e proprio, che ha la forma di quattro file audio di varia lunghezza, corredati da una scheda con le informazioni che in un registratore non possono entrare: l’ambiente, il clima, le impressioni ricevute dal primo ascolto. E soprattutto con la descrizione della casa di Adelmo: un appartamento di edilizia popolare nella periferia di Reggio Emilia ingombro di oggetti, libri, giornali, fotografie. Se una casa è un “testo”, precipitato di una vita e mappa di una memoria, allora la casa di Adelmo era la proiezione di un passato non digerito. Tuttavia anche quell’intervista ha ben poco di formalizzato, e nulla di solenne. All’inizio della registrazione e durante la seduta mattutina si sentono gli interventi della moglie Simonetta che fa gli onori di casa, interviene nella conversazione, entra e esce dalla cucina, parla al telefono e ne riferisce al marito. Sullo sfondo ci sono gli scrosci d’acqua del lavandino e rumori di piatti e posate. Non siamo di fronte a una testimonianza in posa consegnata allo storico affinché la trasmetta ai posteri, ma piuttosto a uno spaccato di vita quotidiana nella quale era arrivato un elemento perturbatore – un ospite con un registratore – che aveva aperto uno spazio narrativo. Adelmo è un chiacchierone, tutt’altro che timido, e non gli mancano le occasioni per parlare. Ma era contento che stessi registrando. Aveva interpretato quel momento come l’occasione buona per trovare qualcuno che lo aiutasse a mettere ordine nel tumulto che aveva dentro e che esprimeva disordinatamente, con calore, dimenticandosi di mangiare, passando dall’italiano al dialetto, talvolta alzandosi in piedi e alzando anche la voce, talaltra accasciandosi in silenzio per l’emozione. «Mi rivedo in mio padre in queste discussioni attorno al tavolo», mi disse quasi all’inizio, dopo essersi infervorato nel racconto dei dissidi che suo papà aveva avuto con i

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comunisti reggiani per aver fatto subito la scelta della Resistenza a viso aperto, e prima di commuoversi al ricordo dei milioni di morti nella guerra contro il fascismo, in Unione Sovietica come in Italia, «per dare spazio a dei burocrati del cazzo». Fu una scelta sua quella di cominciare raccontando del padre: disse che in paese era considerato come un matto, per le scelte politiche intransigenti, per le innovazioni che lui e i fratelli avevano introdotto nella conduzione del podere, per la scelta di avere due figli da una donna senza sposarla, nel pieno di una guerra nella quale si era buttato con la certezza di non uscirne vivo. «Io mi rivedo molto su certe cose», ripeté Adelmo proprio nel momento in cui ne prendeva un po’ le distanze: «È un po’ il discorso del rivoluzionario puro, che tutto il resto passava in second’ordine. Io lo metterei un po’ in discussione. C’è qualcosa di non umano. Ti fai trasportare da ideali non considerando che la realtà è un’altra: prima tutto il solido che c’è lo devi mantenere...». Tutto il racconto di Adelmo vive di questa tensione tra un pieno e un vuoto, tra fedeltà, orgoglio e rivendicazione di un legame familiare e politico, e il sentimento di aver perso qualcosa, il sentirsi abbandonato, in qualche modo tradito. C’è un nesso molto stretto, per lui, tra suo padre e il comunismo: l’uno è dentro l’altro, e viceversa. A un certo punto lo dice con un’immagine straordinariamente densa, che attribuisce alla madre, e che colloca la promessa del mondo nuovo in una dimensione tutta privata: Che cosa raccontava tua madre di tuo papà? Poco... che se l’è goduto poco perché non era quasi mai a casa... La affascinava per il suo modo di parlare, anche se politicamente non riusciva a seguire. Per lei era stato il sol dell’avvenire. Era presa completamente. La mancanza di mio padre per mia madre è stato un disastro atroce: era tutto per lei.

Adelmo si rivede in suo padre, e dentro di lui vede il comunismo, che è la ragione che ne ha fatto un eroe ma

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anche quella che glielo ha portato via, privando la sua vita di quel «sol dell’avvenire» che avrebbe potuto indicargli il cammino. La forma del suo discorso, apparentemente disordinata, è del tutto coerente con questa ambivalenza del sentire: non ha uno sviluppo lineare, non porta da nessuna parte; è una spirale senza fine, un andare avanti che è un eterno ritorno. Ogni argomento contiene un passaggio che introduce a un altro: come le matrioske, tutte diverse ma sempre uguali. Il contrasto tra le alte aspettative sul comunismo da raggiungere e la realtà piuttosto infelice del comunismo conosciuto di persona, prima a Reggio Emilia e poi in Unione Sovietica, è un tormento per Adelmo. «Non era quello che voleva mio padre», ripete commentando i metodi di lavoro nelle cooperative reggiane dove i capi incitavano gli operai a lavorare più forte, lavorare più tempo, spalare più ghiaia nel nome del socialismo da conquistare. Era un supplizio «dover fare il mondo nuovo con gli strumenti del vecchio». Così come era stato un mezzo fallimento il soggiorno in Unione Sovietica: il faro che aveva guidato le speranze di Aldo Cervi, il paese che ad Adelmo aveva dato – a 25 anni – la possibilità di studiare che l’Italia gli aveva negato quand’era bambino, lo aveva rispedito a casa anzitempo per incompatibilità politica e caratteriale: «Ma quale nuovo mondo? Ma mio padre si è fatto ammazzare per farmi dare delle risposte del genere? queste sono le cose che ti sconvolgono, che ti rendono irrequieto e scontento di tutte le cose che ti girano attorno». La forza della sua testimonianza sta soprattutto nel mostrare come quella linea d’ombra gli passasse molto vicino, fino ad attraversare la stessa figura paterna: «vai a vedere se non fosse diventato anche lui un burocrate...», si chiede Adelmo: «ho visto tanta gente che cinquanta anni fa pensavo che fosse chi sa chi e me li son trovati che adesso li odio. Quelli che son rimasti sono quelli che han rischiato di meno». Anche pensare che il miglior rivoluzionario

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sia quello morto, o quello sconfitto, è un bel paradosso per chi crede nel «sol dell’avvenire». Adelmo continuò a raccontare di sua madre Verina, della condizione difficile in cui si era trovata a vivere con due figli piccoli ufficialmente senza padre, all’interno di una famiglia distrutta, nella quale il suo uomo – che per coerenza con le proprie idee non l’aveva voluta sposare – l’aveva portata un anno prima di morire. I vicini la chiamavano la montanera perché veniva da San Polo d’Enza, un paese alle pendici degli Appennini, a venti chilometri da Campegine, che allora sembrava lontanissimo: «compito di mia madre era quello di andare nella stalla alle sei del mattino e uscirne alle dieci di sera, di mettermi dentro un cesto perché non aveva tempo... io mi cullavo da solo... nel letto, dondolavo, per vincere le paure». Non fu facile per nessuno in casa Cervi, dopo la guerra: c’erano debiti da pagare, un’azienda agricola da portare avanti, un equilibrio familiare assai difficile da recuperare. Un anno dopo la fucilazione dei sette fratelli era morta la loro madre, Genoeffa, che aveva riversato in un tumore lo shock subito. Alcide invece aveva retto l’urto, si era anzi subito immedesimato nel ruolo del testimone della storia dei suoi figli. Aveva trovato così un senso da dare alla propria sopravvivenza. Per gli altri fu più difficile. L’eredità dei sette martiri era pesante da portare. Le vedove non si erano risposate; sarebbe apparso un gesto sacrilego. Il nonno aveva settant’anni ed era malato, sembrava avesse poco da vivere. Così, come da tradizione, venne a fare il capofamiglia il primo maschio libero del ceppo di Alcide, Massimo Cervi. La sua presenza fu indispensabile alla tenuta dell’azienda, ma creò tensioni tra le vedove: «ci sono state delle guerre feroci: si sentiva queste che sbraitavano come delle belve e non si capiva perché, perché c’era tutto un arretrato di incomprensioni e gelosie». Solo dopo alcuni anni Massimo si accompagnò stabilmente a Irnes, la vedova giovane, e con lei ebbe una figlia, nel 1957. Nella famiglia portata a modello di progresso civile ed

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emancipazione delle classi lavoratrici durante gli anni Cinquanta, il socialismo si fermava sulla porta di casa; ne varcava la soglia solo quando venivano in visita il segretario generale del partito comunista, Palmiro Togliatti, il leader della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, e le altre personalità da Roma o da Reggio Emilia, per omaggiare il vecchio patriarca o portarlo a qualche cerimonia. Altrimenti di politica non si parlava granché: «in famiglia era prioritario lavorèr». Questa intervista di Adelmo Cervi più che a un’autobiografia assomiglia a un diario: contiene non un’autorappresentazione meditata, composta, edificante come quella di Alcide nei Miei sette figli, ma piuttosto una ricerca piena di fatica, incertezze, interrogativi. Di dettagli che si raccontano come li si scriverebbe su un diario, per togliersi un peso. Ma che sono tanto più rivelatori quanto meno sono elaborati. Così commenta Adelmo stesso, cercando di darsi una spiegazione, e riportando ancora una volta la sua storia privata a quella più grande: Più che discorsi di politica faccio discorsi di peteguless. Perché sono le cose che mi hanno colpito. A me di raccontare le fole non mi interessa. Anzi, racconto le cose che ritengo proprio di un’ingiustizia pesante, in un contesto generale che voleva cambiare questo mondo. Questa storia è uno spaccato di questo mondo: sei eroe e miserabile nello stesso tempo. L’uomo è fatto così. Il comunismo è scritto bene ma è stato messo in pratica dall’uomo, l’ha fatto a sua immagine.

3. La versione di Antonietta Il giorno seguente Adelmo mi portò a casa di sua sorella, a Campegine. Antonietta ci accolse davanti a una parete della cucina dove erano appese le fotografie dei suoi morti. Cominciò a raccontarmi dell’“altra” sua famiglia, quella di sua madre, scendendo dai genitori e dai fratelli di Verina Castagnetti fino ad arrivare all’incontro fatidico con

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Aldo Cervi: «questo qua – diceva indicandolo nella foto, senza nominarlo – era il più pazzo di tutti», perché mise incinta una ragazza poverissima che aveva perso il padre durante la prima guerra mondiale, e a cui da due mesi era morto anche un fratello che era sul punto di farsi prete. Per la nonna era stata un’offesa grande, per il paese uno scandalo. Antonietta proseguì il suo racconto parlando dell’altra nonna, Genoeffa, la moglie di Alcide. Disse che era stata lei ad allevare i figli, perché il nonno era sempre sui campi; che li aveva cresciuti con la Bibbia; che aveva trasmesso loro l’educazione religiosa, il piacere della lettura, ma anche l’intransigenza morale. Che poi ad un certo punto era successo qualcosa di imprevedibile che trasformò uno di essi – sempre quel «pazzo» di Aldo, che a vent’anni durante il servizio militare, per uno scontro con un superiore, fu condannato a due anni di carcere a Gaeta – e fece cominciare un’altra storia, che sarebbe diventata famosa, ma alla quale Antonietta mostra di credere poco. «Questa famiglia, queste glorie, questi morti sono stati sfruttati in un brutto modo, e in paese tutti lo sanno», commenta la figlia femmina di Aldo Cervi e Verina Castagnetti. A lei piace raccontare la storia attraverso le cose che ha saputo dalle «vecchie del paese», che parlavano di una casa dove era difficile entrare perché «c’era da scavalchèr», cioè da scavalcare per passare sopra le troppe cose ammucchiate; di una famiglia non di eroi ma di originali, un po’ svitati e un po’ esaltati: «non erano politici, erano dei matti, facevano cose fuori dalle regole. Io ho aperto gli occhi quando sono stata in mezzo alla gente, da quelli che li hanno conosciuti». La nonna di una compagna di scuola le aveva parlato della metamorfosi di Aldo Cervi da cattolico a comunista, facendo capire che lui era tanto cambiato ma sotto sotto era rimasto lo stesso: come prima girava le famiglie del paese fermandosi nelle case fino all’una di notte per sgridare coloro che avevano trascurato la messa, dopo che «era stato in gaiofa» (e lo dice sottovoce, come

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gliel’aveva riferito quella vecchia contadina che ancora associava la prigione a un’esperienza vergognosa, al di là delle ragioni che vi ci avevano condotto) aveva fatto le stesse cose per convincerli delle ragioni opposte: «Sono morti da comunisti, ma prima...». Finché era rimasta in casa Cervi, Antonietta aveva sentito raramente parlare di come fosse la vita di prima. Nonostante il suo ruolo pubblico di testimone, il nonno Alcide raccontava poco dei suoi figli presi uno per uno; anche ai nipoti ripeteva sempre le stesse frasi, che erano quelle pubblicate nel libro scritto con Nicolai: «sette era come dire uno, e uno era come dire sette» e così via. Non rispondeva alle domande: «raccontava solo le cose che non c’era da star male. Almeno fosse rimasta la nonna... lei mi avrebbe raccontato di mio papà». In una famiglia in cui la visibilità maggiore – prima e dopo la tragedia – era stata riservata ai maschi, Antonietta rivendica una linea di memoria femminile: «sono l’unica che c’ho mia nonna Genoeffa piantata qua...». «La nonna vedeva la morte dei ragazzi», dice Antonietta: lei aveva capito prima di tutti quello che li attendeva, ma non era riuscita a far cambiare il destino. «Io adesso mi metto in questa mamma, mi metto nella Genoeffa... mio padre lo vivo ormai come un figlio: il mio bambino che non riuscivo a raddrizzare.» La conversazione qui si fece davvero impegnativa emotivamente: portava a galla i segni di una tragedia familiare che era stata tanto devastante da ripercuotersi lungo le generazioni. Antonietta ha per davvero un figlio, che ha chiamato Aldo come suo padre, che sta combattendo una guerra disperata; lei dice che la prima guerra mondiale ha divorato suo nonno Antonio, la seconda suo padre Aldo, la terza – che è quella della droga – non poteva che prendersi suo figlio. Alla parete della cucina, insieme alle immagini dei sacri lari, ci sono quelle di Gesù Cristo e di Padre Pio, perché «se c’è qualcosa a cui possiamo rivolgerci

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con la speranza di avere un aiuto, non fa male a nessuno... e la mia nonna credeva a questo dio». Anche questa fu un’intervista tutt’altro che da manuale, perché Adelmo non ascoltava in silenzio; spesso interloquiva, precisava, talvolta si scontrava con Antonietta. Si fronteggiavano due spiegazioni diverse, in parte complementari, della medesima vicenda familiare. Adelmo aveva voluto che io ascoltassi la versione di sua sorella: se pure non la condivideva in tutto e per tutto, ne riconosceva non solo la legittimità, ma la parte di verità di cui essa era portatrice. Lo spiegò alla stessa Antonietta, con parole che potrebbero stare – queste sì – in un manuale di storia orale: ADELMO: Stiamo raccontando il nostro vissuto, fuori delle retoriche. Stiamo parlando del prima e del dopo. Lui sta apprezzando questo perché sente che stiamo dicendo le cose come le abbiamo vissute, le nostre angosce, le nostre rabbie, i nostri dolori che ci prendono per la storia dei nostri figli, dei nostri padri, dei nostri nonni. Ci sono delle cose che tu le hai vissute in una maniera e io in un’altra. Tu non solo le hai vissute. Nella trasformazione gli stiamo dando anche visione di quello che è stato il suo seguito della vita. Tu c’hai avuto una visione più religiosa della vita, hai avuto quello sbocco lì... ANTONIETTA: Ma che religioso! no... io sono andato dietro alla Genoeffa... Io faccio la Genoeffa, tu fai Aldo... e andiamo bene così.

Adelmo e Antonietta ci dicono che il patto che era stato stipulato attorno alla memoria dei Cervi non tiene più: la scomparsa dell’Unione Sovietica e del Pci, il venir meno della “grande narrazione” che essi contenevano e nella quale erano stati inscritti i destini dei morti e dei viventi, lo smagliarsi della rete di solidarietà, di consensi e di potere che il partito amministrava in terra reggiana hanno fatto affiorare – o riaffiorare – altre memorie attorno a quella vicenda, sia dentro che fuori la famiglia. Interi continenti del recente passato sono sprofondati nel giro di pochi anni, come il ricordo del legame fortissimo, ideologi-

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co, organizzativo e persino affettivo con l’Unione Sovietica; altri riferimenti a lungo obliati sono riemersi, come la religione tradizionale, non più surrogata dalla “religione civile” di cui proprio il mito dei Cervi era stato uno dei pilastri. «Lui ha avuto la fortuna di morire in quegli anni», nel 1970, quando ancora ci si credeva, dice Antonietta del nonno: «Anche noi ci credevamo. Noi siamo cresciuti tutti che un dio ce l’avevamo ed era il partito. Quello che ha fatto il nonno l’ha fatto tutto con fede. Salutava la gente come il papa sulla macchina. Ha avuto la fortuna di non vedere il dopo». Fratello e sorella sono alla ricerca di una loro verità, ognuno lungo la propria strada, con un senso di dolore e di liberazione insieme; rileggono il passato, cercano altre fonti; raccontando la loro vita ci consegnano forse non delle risposte, ma certamente degli incoraggiamenti, delle piste di lavoro. 4. Adelmo per la tivù Incontrai nuovamente Adelmo due mesi più tardi, marzo 2009, in un contesto ancora diverso. La Rai aveva deciso di realizzare uno «Speciale Tg1» sui fratelli Cervi: sembrava maturo il tempo per ripercorrere quella storia al di fuori dell’agiografia nella quale rischiava altrimenti di affogare. Furono fatte parecchie riprese alla casa-museo di Gattatico, fu recuperato il ricco materiale di repertorio, furono intervistati alcuni dei testimoni. Adelmo fece la parte del leone. Esuberante, teatrale, comunicativo, sfondò ampiamente i confini che il format giornalistico assegnava alle interviste: un set con una sedia su fondo nero uguale per tutti, poche domande e possibilmente risposte brevi. Le domande furono effettivamente solo quattro, ma lui parlò per un’ora e mezza, con il solito stile colorito, facendo sudare il cameraman che faticava a star dietro ai suoi movimenti. Eravamo tutti consapevoli –

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e Adelmo per primo – che della sua lunga performance sarebbero stati ritagliati al più pochi minuti, ma lui non rinunciò a parlare, e noi ad ascoltare. Questa volta aveva un piccolo pubblico di addetti ai lavori e soprattutto una telecamera a cui rivolgersi. Parlava a noi che gli stavamo di fronte sapendo che le sue parole sarebbero state ascoltate da una platea molto più ampia. Gli chiedemmo dei nonni, poi del passaggio della famiglia Cervi dalla religione al comunismo e della ricostruzione della casa nel dopoguerra. Aveva letto in anticipo la sceneggiatura del documentario e alcune cose non gli erano piaciute: ora aveva l’occasione per precisare, per allargare il discorso. Quindi Adelmo dialogava con noi e con il pubblico che l’avrebbe visto in televisione, ma implicitamente interloquiva anche con quello che sarebbe diventato il documentario che stavamo costruendo. E c’era infine un orizzonte ancora più largo in cui collocava la sua testimonianza, cioè tutti i discorsi – film, libri, dichiarazioni ai giornali e polemiche televisive – che erano stati fatti da altri attorno a suo padre, alla famiglia Cervi, alla Resistenza, al comunismo. La televisione di Stato gli dava accesso all’arena dell’uso pubblico del passato, e lui aveva finalmente l’occasione per fare piazza pulita di troppe semplificazioni, strumentalizzazioni, errori grossolani a cui aveva dovuto assistere da solo mordendosi le mani e schiumando di rabbia. Era un’intervista ricca e appassionante, ma sarebbe stata molto complicata da valorizzare se non proponendola per intero: troppi piani interagivano, mentre il linguaggio televisivo richiedeva risposte più semplici e didascaliche. Dopo le prime tre domande e quasi un’ora di risposte di Adelmo, ci sembrava di avere raccolto già moltissimo materiale, che in gran parte si sapeva sarebbe stato tagliato. Ci rendemmo conto, tuttavia, che avevamo chiamato il nostro testimone a raccontare cose che non aveva vissuto direttamente ma che gli erano solo state riferite da altri. Le sue risposte contenevano delle dichiarazioni di ineffabi-

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lità, anzi delle richieste di spiegazioni diverse rispetto a ciò che lui aveva saputo: «Ci sarebbe bisogno di una ricerca storica per capire perché certuni hanno fatto certe scelte... ci sarebbe ancora molto da scavare», disse Adelmo riferendosi alla svolta di suo padre in carcere. Gli chiedemmo allora come e da chi avesse saputo chi fosse stato suo padre. Ne uscì una risposta diversa dalle precedenti: L’ho saputa dalla famiglia, ma dove e quando l’abbia saputo non saprei dire. Mia madre mi raccontava il fatto che erano stati uccisi, però... è un altro rammarico grosso che mi porto dietro: ci sono più cose che ho imparato fuori che non in famiglia. Sarà stato perché la famiglia era rimasta distrutta, il lavoro soprattutto era quello che premeva più di tutto, c’era da tirare avanti una baracca in cui erano rimaste quattro vedove da sole, poi anche l’intervento di Massimo ma che però insomma... Il problema principale era vivere, dare da mangiare a undici ragazzi, e io credo che questa cosa mi ha anche incattivito... sentire parlare di qua, tuo padre, rivoluzionario, questi che hanno dato la vita per cambiare questo mondo, e poi vedere che il tuo problema principale era di far quadrare i conti: quando io penso che nella famiglia Cervi, degli undici rimasti, degli otto maschi nessuno è andato oltre le elementari, perché c’era da andare nei campi... Un po’ perché erano mezzi anarchici un po’ la madonna e dio, dei grandi aiuti non c’erano, si tirava avanti con quello che passava il convento, di quello che erano le donne che lavoravano, soprattutto... il mito dei Cervi viene un po’ dopo, in quel momento era un mito piuttosto scarso. In questa situazione ci siamo indebitati parecchio: io devo dire sinceramente, mi dovrei vergognare a dirlo, ma siccome l’ho pensato lo dico: a un certo punto ho mezzo odiato questa casa, perché con i sacrifici c’era da pagare un prezzo pesante, perché c’era da pagare il mutuo, perché c’era da pagare i debiti con la latteria, perché c’era da pagare i conti con la cooperativa, perché c’era da tirare la cinghia, e io l’ho tirata meno di quello che l’han tirata i miei cugini più grandi, di quel che l’han tirata mia madre e le mie zie... è comprensibile che la scuola arrivava dopo. Ma per chi l’ha dovuto subire era una cosa... mio padre e i miei zii si son fatti uccidere per questo? A un certo punto ho deciso di uscire. C’era qualcosa che non

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mi quadrava a stare in famiglia, 19 anni... mi sentivo che non stavo facendo quella vita che avrei voluto. Essendo che ero uno dei piccoli sentivo che dovevo contare per esserci ma meno quando si doveva decidere. Ho capito che per decidere della mia vita dovevo fare qualcosa fuori, si partiva da zero, dovevo andare a fare l’operaio da qualche parte, sono arrivato poi in una cooperativa...

Adelmo proseguì raccontando la sua vita in altalena, come aveva fatto la sera in cui ci eravamo conosciuti: il lavoro duro nella cooperativa e gli scontri con i dirigenti, il soggiorno in Unione Sovietica nel 1968 e il ritorno a casa dopo tre anni con la delusione cocente che così fosse il comunismo, ma anche con la decisione di diventare «più comunista cattivo di prima», per fedeltà agli ideali della rivoluzione e contro coloro che li avevano traditi; poi il bordeggiamento ai gruppi «estremisti» negli anni Settanta, le discussioni con i compagni finiti nelle Brigate Rosse, fino al «processo» subito a casa Cervi, davanti alla famiglia riunita, ad opera dei dirigenti del Pci reggiano, per evitare lo scandalo che il figlio di Aldo e il nipote di Alcide potesse essere associato ai gruppi eversivi con i quali il partito comunista stava combattendo una guerra spietata e fratricida. Uscire di casa a vent’anni era stato per Adelmo un bisogno e una conquista, per affrancarsi dal peso di un padre che non c’era ma che pure incombeva. Ora la ruota della storia ve lo riportava, costringendolo a fare i conti ancora una volta con il peso del passato, con la famiglia e con il partito: a subire proprio la parte che potrebbe aver avuto suo padre nel 1943, di fronte ad altri comunisti in aspra contesa su quale fosse il comunismo più vero. «Una cosa così capita raramente», commentò Adelmo alla fine dell’intervista, come se fossimo stati noi a fargli un favore: «Nessuno era mai venuto a chiedermi cose di un certo tipo». A riprova che la storia di una vita può essere una scoperta non solo per chi la ascolta, ma anche per chi la racconta.

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Una fonte orale NOTA BIBLIOGRAFICA

Cesare Bermani e Giovanni Contini sono due tra i più autorevoli storici orali italiani. Contini ha anche scritto (con Alfredo Martini) un libro sulla metodologia della storia orale Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, NIS, Roma 1993; Bermani ha curato due raccolte di saggi sullo stesso tema: Introduzione alla storia orale, 2 voll., Odradek, Roma 1999-2005 e Storia orale. Istruzioni per l’uso (curato con Antonella De Palma), Sms Ernesto De Martino, Venezia 2008. Le riflessioni di carattere teorico sull’intervista sono debitrici al libro di Alessandro Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli, Roma 2007. Il film presentato nel 2008 al Festival di Locarno è Il sol dell’avvenire (2008) di Giovanni Fasanella e Gianfranco Pannone, pubblicato in un dvd + libro presso Chiarelettere, Milano 2009. L’altro film cui si fa riferimento nel testo è quello di Gianni Puccini, I sette fratelli Cervi, uscito nel 1967. Tra le canzoni dedicate ai fratelli Cervi si ricordino Sette fratelli – testo tratto dalla poesia Compagni fratelli Cervi di Gianni Rodari (1955) – eseguita dai Mercanti di liquore e Marco Paolini nell’album Sputi (2004), e La pianura dei sette fratelli dei Gang, inserita dai Modena City Ramblers nel loro album Appunti partigiani (2005). Il libro di Alcide Cervi e Renato Nicolai I miei sette figli uscì nel 1955 presso le Edizioni di cultura sociale, con prefazione di Piero Calamandrei: era il primo numero della collana «Biblioteca della Resistenza»; ha poi avuto altre venti edizioni e svariate ristampe con gli Editori Riuniti; l’edizione del 1980 ha la prefazione del presidente della Repubblica Sandro Pertini e una nota di Renato Nicolai su Come è nato questo libro. Presso Einaudi è in programma una edizione critica del testo. Una controinchiesta sui rapporti con il Pci e sulla genesi del libro è stata realizzata dal giornalista Liano Fanti in Una storia di campagna. Vita e morte dei fratelli Cervi, Camunia, Milano 1990. Ulteriori osservazioni e testimonianze al riguardo sono state prodotte da Cesare Bermani nel saggio Fonti orali e ricerca storica in Italia, in Introduzione alla storia orale, vol. I, cit., pp. 10-11 e 89-91. Sulla memoria e il mito dei Cervi si vedano il saggio di Antonio Canovi, I Cervi: un paradigma della memoria resistenziale, in Guerra guerriglia e comunità contadine in Emilia Romagna

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1943-1945, RS libri, Reggio Emilia 1999, pp. 285-311; lo studio di Eva Lucenti, I fratelli Cervi. Nascita di un mito, numero monografico degli «Annali» dell’Istituto Alcide Cervi, n. 27-28, 2005-2006; la nota di Luciano Casali, Il trattore e il mappamondo. Storia e mito dei fratelli Cervi, «Storia e problemi contemporanei», n. 47, gennaio-aprile 2008, pp. 125-138. Per una contestualizzazione più ampia: Marco Fincardi, C’era una volta il mondo nuovo. La metafora sovietica nello sviluppo emiliano, Carocci, Roma 2007. Lo Speciale Tg1 dal titolo I fratelli Cervi. Storia memoria invenzione, di Alessandro Casellato, Sergio Luzzatto e Daniele Valentini, è andato in onda su Rai 1 il 26 aprile 2009 ed è visibile nel sito internet della Rai. I file delle interviste – audio e video – ad Adelmo e Antonietta Cervi sono conservati presso l’archivio personale di Alessandro Casellato.

L’isola di Wikipedia Una fonte elettronica di Miguel Gotor

1. Come in un romanzo di fantascienza Nel libro postumo Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1988), Italo Calvino dedicò il quinto capitolo alla categoria di molteplicità, sottolineando come nei migliori romanzi del Novecento avesse preso forma «l’idea di una enciclopedia aperta, aggettivo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendola in un circolo». Ormai non era più pensabile una totalità che non fosse «potenziale, congetturale, plurima» e in cui, come in un libro di Jorge Luis Borges, non fosse presente una «struttura accumulativa, modulare, combinatoria». Lo scrittore ligure indicava l’altro modello letterario ne La vie mode d’emploi (1978) di Georges Perec, «l’ultimo vero avvenimento nella storia del romanzo», nel quale si avvertiva «la summa enciclopedica di saperi che danno forza a un’immagine del mondo, il senso dell’oggi che è anche fatto di accumulazione del passato e di vertigine del vuoto, la compresenza continua d’ironia e angoscia». L’opera di Perec anticipava un nuovo sentire culturale post-moderno, perché «ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».

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Correva l’anno 1985 quando Calvino preparava le sue lezioni americane, ed egli sembrava prefigurare – senza saperlo – l’idea di un’enciclopedia aperta, cumulativa, combinatoria e collaborativa come quella che, a partire dal 2001, ha incominciato a diffondersi su internet con il nome di Wikipedia. A ben guardare, però, la catena delle progeniture previsionali deve essere fatta risalire ben più indietro nel tempo, poiché già mezzo secolo prima, nel 1938, il famoso scrittore inglese di fantascienza Herbert George Wells parve anticipare un simile progetto quando scrisse, nel saggio World Brain: È probabile che l’idea di enciclopedia subisca, nel prossimo futuro, un’evoluzione considerevole della sua estensione ed elaborazione [...]. L’asse di sviluppo più favorevole al genere umano consisterà nella creazione di un nuovo organo mondiale, capace di riunire, indicizzare, riassumere e rendere disponibili le conoscenze. Un tale organo sarà più efficace delle note a piè di pagina indefinitamente aggiunte da un sistema universitario ultraconservatore e provinciale [...]. L’espressione “Enciclopedia mondiale permanente” contiene l’essenza di queste idee. Alla radice di tale istituzione si troverà una sintesi mondiale di tipo bibliografico e documentario sotto forma di archivi indicizzati. Il perfezionamento di questo repertorio del sapere umano sarà perpetuamente migliorato da un grande numero di lavoratori al fine di renderlo permanentemente attuale. Le risorse della micro-fotografia, che sono al loro primo balbettio, saranno utilizzate per creare una traccia visuale concentrata.

La traccia del computer, si direbbe oggi, allora inimmaginabile. Una riflessione su Wikipedia – “l’enciclopedia libera” online – come strumento di lavoro storiografico è sembrata necessaria in un volume dedicato al metodo storico, per evitare che il progetto, privo di qualsiasi riferimento a una fonte elettronica, rischiasse di nascere già invecchiato. Del resto, si tratta di un atto di mero pragmatismo, dal momento che un po’ tutti gli storici si servono di Wikipedia

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(spesso senza riconoscerlo) come di un mezzo informativo privilegiato, per verificare un dato mancante o per disporre dell’immediato inquadramento di una questione. Così fanno anche i giornalisti quando scrivono un articolo, oppure i politici e i funzionari allorché redigono i loro dossier. Per non parlare degli studenti di ogni ordine e grado, che ormai preparano i compiti a casa o la tesi di laurea servendosi di Wikipedia in modo quasi esclusivo: nei casi migliori, si assiste alla crisi della tradizionale enciclopedia cartacea, nei peggiori, a uno spregiudicato esercizio di copia e incolla, in cui lo studente non solo perde la consapevolezza del plagio compiuto, ma per avvalorare una propria affermazione giudicata inesatta dal docente, risponde candidamente piccato di averla trovata su Wikipedia, il nuovo Vangelo apocrifo della generazione telematica di inizio millennio. Tuttavia, non è solo il mondo dell’educazione a essere interessato dal fenomeno, bensì tutta la società contemporanea, che vede messo in discussione il monopolio delle enciclopedie e dei dizionari tradizionali su cui si era formata la classe dirigente della borghesia occidentale una generazione dopo l’altra, a partire dal Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle (1697) o dall’illuministica Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di Diderot e d’Alembert (1750). In effetti, come ci apprestiamo a verificare, i dati relativi all’uso della nuova enciclopedia comunicano un successo crescente, all’apparenza inarrestabile, sul quale occorre soffermarsi senza sterili demonizzazioni o enfatiche adesioni: anche perché la crisi di Wikipedia sembra di là da venire, e una sua scomparsa affatto imprevedibile. Tanto vale, dunque, analizzare le potenzialità e i limiti di questo strumento informatico utilizzato quotidianamente da milioni di persone.

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2. Una rivoluzione tecnologica Wikipedia è forse la principale protagonista della fase web 2.0 di internet, che consente all’utente non solo di fruire dei contenuti telematici, ma anche di inserirli e modificarli. All’origine di questa innovazione tecnologica è uno strumento chiamato wiki, che in lingua hawaiana – sono lontani i tempi in cui le radici etimologiche delle nuove parole si traevano dal greco antico – vuole dire veloce. Il primo wiki nella storia del web fu il «Portland Pattern Repository» inventato dall’ingegnere Ward Cunningham nel 1995 per un gruppo di appassionati di informatica. Ma cosa è un wiki? Anzitutto, si potrebbe definire come uno spazio informativo virtuale e aperto, di carattere comunitario, concepito per una costruzione sociale della conoscenza. Quindi, uno strumento in grado di diffondere informazioni senza censure preventive e a costi irrisori, che rende possibile l’identità tra autore, lettore ed editore dei suoi contenuti. Ha una natura incrementale, monitorabile e modificabile, in quanto ogni utente ha facoltà di aggiungere una pagina e di cambiarne il contenuto, che resta sempre a disposizione di tutti. Naturalmente, si può ripristinare la versione precedente di un testo modificato e individuare la cronologia dei cambiamenti effettuati. Di conseguenza, l’autentico autore di un wiki è un soggetto collettivo che rinuncia a ogni diritto di proprietà sulla propria opera intellettuale e si riconosce nel principio del lavoro in comune. Il wiki è un social network come un blog, ma si differenzia da esso perché i suoi contenuti non sono organizzati in modo cronologico, ma tematico, e consentono una comunicazione plurima sia in entrata sia in uscita, e non solo da uno a molti come nel caso dei blog. Gli ambiti di applicazione di un wiki possono essere i più vari: dalle enciclopedie alle agenzie di informazione, dalle aziende ai centri di ricerca, dai giornali a tutti i luoghi in cui è utile connettere individui con interessi comuni e facilitare lo

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scambio di dati e di opinioni fra loro. Senza la tecnologia wiki non sarebbe esistito il progetto scientifico Wikipedia che – sin dal nome – le tributa il suo riconoscente omaggio, e che oggi è certamente il wiki più famoso sul web. Wikipedia fu lanciata su internet il 15 gennaio 2001 da due statunitensi: Jimmy Wales, nato nel 1966 e impegnato come imprenditore nel campo informatico, e il suo collaboratore Larry Sanger, di due anni più giovane, laureato in filosofia con una tesi su I metodi cartesiani e le loro basi teoriche e poi dottore di ricerca nella stessa disciplina. Entrambi, nel marzo 2000, avevano creato Nupedia, un’enciclopedia a libero accesso redatta da esperti e non aperta alle modifiche degli utenti. Tuttavia, essendo rimasti insoddisfatti dai risultati ottenuti e dalla lentezza della revisione delle voci (che in un anno avevano raggiunto l’esiguo numero di 24), decisero di sviluppare il progetto di Wikipedia, che implicava un radicale cambio di filosofia e l’incontro con il mondo wiki. Secondo le parole di Wales, lo scopo di Wikipedia è «distribuire gratuitamente la totalità del sapere mondiale a ciascun essere umano del nostro pianeta, nella lingua che preferisce, sotto una licenza libera che permette di modificarlo, di adattarlo, di riutilizzarlo e di ridistribuirlo a volontà». In effetti, Wikipedia è un’enciclopedia libera e gratuita le cui voci sono redatte dagli utenti e corrette dai medesimi, di cui sono registrati gli interventi e che possono essere cassati dopo un’opportuna discussione che ripristini la versione precedente. Le modifiche, salvo alcune eccezioni opportunamente regolamentate, sono visibili in tempo reale. Un simile strumento condivide alcuni presupposti di ordine etico che si fondano su una pedagogia collaborativa improntata all’ottimismo antropologico: teorizza la buona fede negli uomini e la trasparenza dei loro comportamenti, stabilisce il principio della revisione da pari a pari, perché sono gli utenti e non gli amministratori del sistema a essere i reciproci moderatori di Wikipedia; rifiuta forme di controllo dall’alto verso il basso e una

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struttura verticistica e centralizzata; tollera gli errori, che però non devono essere permanenti, nella convinzione del valore civico di una sorveglianza reciproca; ritiene che la sommatoria di informazioni e di saperi condivisi da una comunità sia qualitativamente migliore di quella posseduta dai singoli esperti di un argomento. Nel 2003 è stata istituita in Florida la Wikimedia Foundation, un’organizzazione no-profit «dedita a incoraggiare la crescita, lo sviluppo e la distribuzione di contenuti liberi, in molte lingue, e di fornire gratuitamente i progetti basati sul wiki al pubblico». La struttura si sostiene senza pubblicità e vive grazie ai contributi volontari, periodicamente sollecitati, di quanti partecipano all’impresa. La fondazione ha un piccolo consiglio direttivo presieduto da Jimmy Wales che racchiude una serie di progetti sorti in questi anni intorno alla galassia Wikipedia, fra i quali si ricordano il Wiktionary, un vocabolario multilingue con un dizionario dei sinonimi e dei contrari, la Wikiquote, ossia un’antologia di citazioni, proverbi e aforismi, la Wikispecies, un catalogo aperto e libero di tutte le specie viventi, e infine Wikisource, una biblioteca gratuita che raccoglie opere per le quali siano scaduti i diritti d’autore. L’organizzazione di Wikipedia è decentralizzata con una serie di sezioni nazionali diffuse nei principali paesi del mondo, che organizzano periodici incontri fra gli aderenti: quella italiana è stata costituita il 17 giugno 2005 a Canino, in provincia di Viterbo. Attualmente sono utilizzati 267 idiomi diversi, che corrispondono ad altrettante edizioni dell’enciclopedia. In soli sei mesi dalla sua istituzione nel 2001, Wikipedia ha raggiunto 6.000 articoli e da quel momento ha cominciato a crescere in modo esponenziale. Nel luglio 2009 la versione più ampia è quella in lingua inglese con quasi tre milioni di voci, che continua ad arricchirsi di migliaia di pagine al giorno. Seguono la Germania con oltre 900.000 articoli, la Francia che supera le 800.000 voci, la Polonia con 610.000 pagine e un gruppo di paesi fra cui l’Italia, il Giappone e l’Olanda, con

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oltre mezzo milione di contributi ciascuno. Il numero complessivo degli articoli ha superato i tredici milioni, per un totale di oltre diciotto milioni di utenti, di cui una decina si servono dell’edizione inglese. Per dare ragione dell’evoluzione vertiginosa di Wikipedia basti considerare i ritmi di sviluppo dell’edizione inglese, che nel 2002 contava 19.700 articoli, divenuti 438.500 nel 2005, 895.000 nel 2006, 1.560.000 nel 2007 e 2.972.038 nel luglio 2009. È stato calcolato che se la versione inglese venisse stampata su carta, consterebbe di 970 volumi di 25 cm di altezza l’uno. Il brand di Wikipedia è uno dei più conosciuti al mondo, e il suo sito fra i dieci più cliccati su internet. Il logo rappresenta il puzzle incompleto di un globo terrestre sempre in corso di costruzione con lettere dell’alfabeto di tutto il mondo, che appunto vuole simboleggiare una costruzione mai finita, e una disponibilità di diffusione nell’intero pianeta e in ogni lingua della terra. Di fatto, gli studi sul profilo sociale degli utenti di Wikipedia scarseggiano: per quanto riguarda la Francia, sappiamo che il “wikipediano” tipo ha un età compresa tra i 20 e i 35 anni, è maschio, celibe e prevalentemente studente, con una maggiore rappresentatività del mondo scientifico rispetto a quello umanistico. Un tale successo ha colto impreparate le principali enciclopedie cartacee come l’inglese Britannica, la tedesca Brockhaus, l’italiana Treccani, la francese Larousse, che hanno visto drasticamente scendere le loro vendite per l’impossibilità di competere con Wikipedia sul piano commerciale. Paradigmatico del vento in poppa che soffia sulla nuova enciclopedia informatica è il modo in cui sono stati trattati dalla stampa internazionale i risultati di una inchiesta compiuta da «Nature» nel 2005, che ha comparato 42 articoli di Wikipedia con le rispettive voci della prestigiosa Britannica. Celebri quotidiani come «Le Figaro» e «Le Monde» hanno riportato che i risultati avevano dimostrato come la fonte telematica si fosse dimostrata attendibile quanto quella tradizionale. Sennonché, leggendo

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la ricerca di «Nature», si può constatare come i risultati non corrispondano esattamente a quanto affermato dalla stampa; ma la bulimia del sistema mediatico, alla perenne ricerca della notizia di un uomo che morda il cane, ha amplificato la diffusione di questa falsa informazione. In realtà «Nature», oltre ad appurare una maggiore chiarezza espositiva nella versione cartacea, ha rilevato 123 errori od omissioni nella Britannica e 162 in Wikipedia, con uno score del 24% in favore del prodotto inglese. Senza considerare che la rivista ha scelto solo voci di carattere scientifico (quelle che in Wikipedia sono unanimemente riconosciute come le migliori) e soprattutto ha ammesso – incalzata da una controinchiesta dei redattori della Britannica – di avere tagliato o addirittura mescolato fra loro articoli di differente estensione. Infine, i redattori inglesi hanno confutato la presenza di 64 errori sui 123 denunciati: a quanto si può leggere con qualche ragione, perché ad esempio la città calabrese dove dimorò Pitagora si chiama davvero Crotone, e non «Crotona» come sostenuto da «Nature». Polemiche che non riescono comunque ad attenuare l’immagine di irresistibile successo di Wikipedia: un risultato incontrovertibile, di cui restano da analizzare i motivi. 3. Le ragioni di un successo Senza dubbio, con Wikipedia si è davanti a un cocktail ben shakerato, che mescola ragioni tecniche, politiche, culturali e psicologiche. Sul piano tecnico – forse quello decisivo – una relazione tanto misteriosa quanto certa intercorre fra l’algoritmo segreto di Google e le pagine di Wikipedia. Si sa poco al riguardo, ma un dato è sicuro: qualunque parola si clicchi sul motore di ricerca Google (di gran lunga il più diffuso del ciberspazio), uno dei primissimi risultati rinvia a Wikipedia in meno di un secondo. Evidentemente, l’indice di fiducia che Google attribuisce all’en-

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ciclopedia online è elevatissimo, ma i termini effettivi dell’accordo fra i due giganti informatici non si conoscono. Senza questa virtuosa interdipendenza, il successo di Wikipedia non sarebbe stato altrettanto rapido e spettacolare. In ogni caso, si tratta di un’interdipendenza dalle conseguenze molto serie: perché così si tollera – senza averne neppure la consapevolezza – che la gerarchia delle informazioni e del sapere non sia fissata da un giudizio critico, ma da un algoritmo sconosciuto e all’apparenza risolutivo. Ovviamente, non c’è tecnica senza politica e ciò non è sfuggito al demiurgo Jimmy Wales, che nell’agosto 2005 a Berlino ha dichiarato, in occasione della conferenza mondiale dei fans di Wikipedia, con i toni messianici di un nuovo guru futurista: «Noi vogliamo liberare il sapere. Noi siamo una forza politica, noi siamo la dinamite!». La dimensione ideologica scelta dai fondatori di Wikipedia allude a un ideale collettivista di ispirazione anarcoide-liberista che si caratterizza per la sua radicalità, oscillando tra populismo e antipolitica applicati al sapere. In pratica, la sua forza sta soprattutto nell’eclettismo, in quanto tale ideale stabilisce una relazione tra l’impegno individuale di ognuno e l’ispirazione cooperativa dell’insieme, promuovendo un modello di società fondato sull’ottimismo raziocinante del singolo e sulle sue capacità di giudicare e decidere in autonomia. Sul piano culturale, il vigore di Wikipedia risiede nella capacità di diffondere una continua e progressiva frammentazione del sapere e delle informazioni, due pre-requisiti giudicati funzionali alla formazione di mercati sempre più liberi e aperti alla spesa. Alla base vi è il convincimento che un mercato parcellizzato (di capitali come di informazioni) possa coincidere più facilmente con il valore della democrazia politica, senza bisogno di correttivi: fatta salva la necessità preventiva di garantire a ogni costo agli utenti un determinato livello di consumi (in questo caso, di notizie). Inoltre, si è affermata prepotente l’idea che

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i docenti, gli imprenditori, i funzionari, i giornalisti, i giudici, i politici, i medici, gli scienziati – con i loro saperi specifici e le loro funzioni di mediazione – abbiano progressivamente confiscato al cittadino neutrale il suo potere di decisione e di autodeterminazione del sapere. Wikipedia avrebbe il merito di restituire entrambi nelle sue mani, come una novella speranza di libertà individuale e collettiva fondata su un legame diretto e quindi autentico con la dimensione virtuale di internet. È appunto il binomio tecnologico Google-Wikipedia ad avere messo in crisi il ruolo sociale degli intermediari: esiste una tale abbondanza di notizie che non interessa più concentrarsi sul processo di ricerca (metodologie delle inchieste, gerarchia delle fonti, tipo e formulazione delle domande sul piano qualitativo e quantitativo), ma è sufficiente accedervi per soddisfare il proprio bisogno. La prima e principale relazione a cadere è stata quella tra maestro e discepolo, che secondo il tradizionale paradigma platonico-socratico aveva un ruolo iniziatico che si fondava sulla necessità della spiegazione e sulla forma verticale del rapporto. A essa si preferisce l’orizzontalità del sapere e degli scambi interpersonali: davanti a internet – a quanto sembra – siamo tutti uguali, ossia peer to peer, privi di ruoli gerarchizzati. La forza di questo soggetto collettivo anonimo non dipende tanto dai diplomi conseguiti, dai percorsi professionali acquisiti o dall’appartenenza a istituzioni strutturate come lo Stato, la Nazione, il Sindacato, l’Impresa, il Partito, la Chiesa, ma dalla sua collaborazione diretta a un processo gnoseologico su scala globale. La cultura della conoscenza, un tempo confinata agli esperti, centralizzata e gestita dai mediatori, viene ora affidata agli utenti stessi secondo gli ideali e i limiti della democrazia diretta. L’importanza di Wikipedia sta nel riconoscere a ognuno il diritto di correggere il pensiero del suo vicino, orientandolo verso un controllo democratico e relativistico del sapere. Sul piano psicologico, alcuni studiosi sostengono che

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Wikipedia abbia avuto un esito tanto felice perché ha costituito una risposta all’isolamento personale avvertito in tanti contesti sociali nei paesi industrializzati. In altre parole, secondo questa interpretazione l’enciclopedia libera avrebbe avuto la capacità – al pari di altri social network di successo, come Facebook – di sommare le solitudini, di indirizzarle, di riunirle in una macro-comunità che gratifica gli aderenti sul piano del prestigio personale e delle relazioni interpersonali; una comunità identitaria gregaria, anonima e virtuale, l’unica dimensione antropologica effettivamente tollerabile nel mondo postmoderno. Un’ultima ragione del successo di Wikipedia risiede nell’ideale partecipativo e di “opera aperta” che l’enciclopedia propone, con una scrittura rapida, mobile, anonima e delocalizzata: tutti possono apportare il loro contributo scrivendo una voce o correggendo quella altrui allo scopo di migliorarla. In molti casi si assiste a vere e proprie “guerre di revisione”, che si scatenano quando due o più autori con differenti punti di vista sul contenuto o sullo stile di un articolo discutono fra loro. Nelle circostanze più gravi interviene un comitato d’arbitraggio composto da dieci volontari eletti e rinnovabili ogni sei mesi, che si sono contraddistinti per la loro capacità di contribuire al successo di Wikipedia. Costoro hanno il compito di decidere la versione corretta dopo avere ascoltato le parti in conflitto, e detengono il potere di bloccare gli accessi al sistema degli utilizzatori colpevoli di atti vandalici (come l’inserimento intenzionale di dati erronei o calunniosi). Inoltre, sono i soli a essere abilitati a intervenire nelle pagine protette e a cancellare le cronologie delle correzioni. Esistono anche i cosiddetti Wikipompiers, che hanno il compito di soffocare il fuoco delle discussioni troppo accese, ma sono privi di alcuna facoltà sanzionatoria. Attraverso funzioni come queste Wikipedia risponde a una domanda di partecipazione attiva e di coinvolgimento del cittadino alla vita pubblica su base volontaria, ispirandosi a un motto che potrebbe così riassumersi: «anche

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la gente ordinaria fa cose straordinarie». In effetti, come resistergli? 4. Per un uso critico Wikipedia si fonda su due principi cardine: il primo è la ricerca del neutral point of view, in cui neutro non è sinonimo di obiettivo, ma di consensuale. È necessario che prevalga l’informazione sulla propaganda, ma il modo migliore per riuscirvi non è quello di elaborare un giudizio critico, bensì di esporre nella maniera più asettica possibile l’insieme dei pareri più diversi su un dato argomento. Il secondo principio è il rifiuto esplicito di ricerche originali e di teorie nuove, che non siano state già pubblicate e validate da altri: Wikipedia non è e non vuole essere una fonte autonoma, dunque deve riportare solo quanto è già stato scritto altrove, con un conseguente alto indice di autoreferenzialità mediatica e di circolarità dell’identico. Forse non è inutile notare che si tratta di due principi guida imposti dall’alto e non negoziabili, a riprova di come tutte le professioni di relativismo intellettuale implichino l’accettazione di un dogma iniziale e basilare. L’equivoco di fondo non sta nella pretesa da parte di Wikipedia di considerarsi un’enciclopedia, ma nel fatto di essere ritenuta tale dai suoi utilizzatori, che si basano su un’erronea e fuorviante sovrapposizione dei concetti di informazione e di conoscenza. Il primo è un dato, il secondo un processo che implica il concetto di validazione, di responsabilizzazione autoriale e di verificabilità del percorso compiuto. Al contrario, Wikipedia rivendica come punto di forza il fatto di non subire alcun processo editoriale, ufficiale ed esaustivo di verifica dei dati che riceve e immette in circolazione, se si eccettuano le voci relative a persone viventi. Mentre una delle funzioni principali dell’enciclopedismo è proprio quella di tracciare il perimetro della conoscenza, distinguendo cosa è importante e perciò

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merita di essere classificato e ricordato, da ciò che non lo è e quindi può essere dimenticato. L’enciclopedia si assume l’onere di fissare gerarchie di qualità all’interno del sapere per renderlo più riconoscibile, e di istituire proporzioni e tassonomie che in Wikipedia scompaiono in favore di un principio di auto-organizzazione puramente quantitativo. Il progetto di una struttura comulativa-compulsiva è intrinsecamente contrario alla filosofia dell’enciclopedia, così come lo sono l’idea di neutralità e l’assenza di ricerche originali. Infatti, la conoscenza non consiste soltanto in un sistema di dati più o meno oggettivi (il nome di una capitale, la quantità di abitanti di una regione, la classifica finale di un campionato di calcio o l’altezza di una montagna), ma si basa sulla costruzione di un processo di saperi plurali che si esprimono attraverso la formulazione di giudizi critici, preferibilmente fondati su ricerche originali, in cui l’imparzialità è un obiettivo a cui tendere, ma non può certo essere considerato un presupposto. Rispetto al funzionamento di Wikipedia e al suo utilizzo nella ricerca storiografica si registrano tre ordini di problemi. Il primo riguarda l’attendibilità delle informazioni presenti: un aspetto peraltro non dirimente, dal momento che gli errori fanno parte di qualsiasi processo editoriale umano, a prescindere dal suo formato di trasmissione. La questione concerne piuttosto la pretesa di fondare un’epistemologia della conoscenza fast-food sul nesso informazione/consumo: il che tende a dilatare a dismisura gli errori in assenza di un principio organizzatore chiaro, di un processo di certificazione condiviso e di una nomenclatura trasparente. In questi mesi, ho svolto un monitoraggio su Wikipedia e ho avuto modo di individuare numerose inesattezze piccole e grandi: date di nascita sbagliate (ad esempio, quella del pontefice Urbano VIII, poi corretta), informazioni false (la denuncia dell’assenza dell’autopsia del cadavere di uno dei protagonisti del “caso Moro”, il falsario Antonio Chichiarelli, invero esistente e documen-

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tata), notizie incomplete (nella voce relativa al politico e storico comunista Emilio Sereni sono indicate solo due delle tre legislature effettivamente svolte al Senato, e nessuna di quelle alla Camera dei deputati). Purtroppo, tali errori producono effetti più negativi quando sono presenti su internet rispetto a una normale fonte cartacea, perché questo strumento tecnologico ha il potere di diffonderli e di moltiplicarli a dismisura, mettendo in moto un meccanismo autoreferenziale di citazioni in cui diventa impossibile ricostruire l’origine pratica dell’errore, che si trasforma così in senso comune. Fin qui si tratta di sbagli involontari, dovuti a ignoranza, superficialità o svista di colui o colei che immette la notizia. Ma il secondo problema che Wikipedia deve affrontare riguarda il “vandalismo culturale”, dal momento che molte informazioni errate sono inserite volontariamente dagli utenti. Il sistema dell’autocorrezione comunitaria sembra funzionare quando si tratta di articoli di notevole importanza, i quali – del resto – da qualche tempo si possono modificare solo iscrivendosi all’enciclopedia online; ma il sistema diventa fallace con le voci meno significative o di particolare erudizione, quelle che restano aperte alla correzione di ogni cibernauta. Ad esempio, il 17 luglio 2009 ho avuto modo di modificare in modo volutamente erroneo un dato relativo alla voce di un umanista napoletano del XVI secolo, dato da me poi ripristinato correttamente, ma che altrimenti sarebbe rimasto tale chissà per quanto tempo. Sui casi di vandalismo più clamorosi esiste ormai una consolidata aneddotica: dall’“affaire John Seigenthaler”, un giornalista americano che per oltre un mese è stato indicato urbi et orbi come uno degli organizzatori dell’assassinio dei fratelli Kennedy a causa dell’intervento diffamatorio di un impiegato burlone di una società dei trasporti, alla presunta adesione del politico britannico Tony Blair alla fede cattolica, rimasta in linea per due settimane nel maggio 2007, sino all’inserimento di un’apposita voce de-

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dicata all’isola libanese di Porchesia, in realtà inesistente, ma per mesi giudicata autentica. Per cercare di limitare il più possibile infortuni tanto imbarazzanti e per il timore di ricevere querele, Wikipedia ha stabilito dall’agosto 2009 di affidare la revisione delle sole voci dedicate a persone viventi all’esame preventivo di editor selezionati tra coloro che collaborano più attivamente alla enciclopedia. Tale provvedimento sembra istituzionalizzare la presenza di un’aristocrazia di contributori-funzionari che tendono a trasformarsi anche in controllori e di fatto a monopolizzare la gestione delle pagine di Wikipedia. E ciò sta avvenendo – secondo uno studio del Palo Alto Research Center – a discapito degli utenti occasionali, che seppure esperti nella materia, non frequentando assiduamente l’enciclopedia, hanno ormai poche possibilità di vedere pubblicati i propri interventi. Occorre infatti sottolineare che il vandalismo rischia di essere incentivato dalla stessa struttura organizzativa di Wikipedia. Dal momento che si può ascendere al ruolo di amministratori soltanto se si è partecipato attivamente alla vita dell’enciclopedia modificando e inserendo il maggiore numero di voci possibili, esiste la concreta eventualità che una parte del fenomeno sia prodotto a bella posta da quanti poi correggono il loro intervento da un altro computer, per aumentare le proprie possibilità di essere promossi all’ambita funzione. Infine, il percorso e l’attendibilità di quanti si candidano alla carica elettiva di amministratore risulta di difficile controllo. Nel marzo 2007, l’autorevole rivista americana «New Yorker» ha rivelato la vera identità di uno dei collaboratori più prolifici di Wikipedia, autore di ben 16.000 voci e divenuto arbitro dei conflitti fra i collaboratori. Egli agiva – come la quasi totalità degli internauti – sotto pseudonimo, e si vantava di possedere due dottorati, uno in teologia e l’altro in diritto canonico; ma si è scoperto che aveva abbandonato il liceo prima di ottenere la maturità, e dunque millantava titoli mai posseduti.

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Oltre al problema delle sviste e a quello del vandalismo, il terzo grande problema di Wikipedia – forse il più insidioso – concerne la manipolazione propagandistica e pubblicitaria delle voci: qualcosa più difficile da individuare che il vandalismo, e più complesso ancora da correggere. Alle intenzioni di neutralità dell’“enciclopedia libera” si è risposto con un’opaca attività condizionante da parte di partiti, chiese, movimenti, istituzioni, imprese, case farmaceutiche, che hanno contribuito a una notevole politicizzazione e ideologizzazione delle informazioni immesse, ovviamente travestite dal suadente mantello dell’imparzialità. Si sono rapidamente creati dei gruppi di lavoro organizzati secondo specifici progetti, che vigilano sull’ortodossia e sugli interessi delle voci inserite in Wikipedia. Nei casi più gravi, l’enciclopedia online si è trasformata in un luogo ideale per diffondere la disinformazione di sette, negazionismi e revisionismi vari, grazie all’attività di gruppi di pressione che condizionano segretamente gli articoli. Costoro approfittano del disinteresse che anima il “wikipediano” ordinario per agire strumentalmente su Wikipedia. È vero, esistono procedure di controllo, che però hanno i loro limiti tecnologici e pratici. Per provare a ovviare a un simile problema, lo studente statunitense Virgil Griffith ha messo a punto nell’agosto 2007 un WikiScanner in grado di raccogliere e coordinare milioni di modifiche anonime a partire dall’indirizzo Ip dell’utente. Anche grazie a questo strumento sono stati identificati – ad esempio – gli interventi compiuti dalla Cia sulla voce del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, quelli attuati da alcuni deputati del Congresso degli Stati Uniti per migliorare le proprie voci e peggiorare quelle degli avversari, quelli realizzati dal Vaticano o da una setta religiosa come Scientology. Le organizzazioni interessate, però, hanno avuto gioco facile nello smentire qualunque forma di responsabilità diretta, perché non basta dimostrare l’esistenza di un Ip corrispondente a un determinato computer e ufficio

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per individuare con sicurezza il nome della persona che effettivamente lo ha utilizzato. Lo stesso fondatore di Wikipedia, Jimmy Wales, ha corretto svariate volte la sua biografia, per presentare nel migliore modo possibile la notizia che il primo portale internet da lui fondato (Bomis) aveva una parte di carattere pornografico destinata ad attrarre gli utenti. A fronte di questioni tanto delicate, è difficile immaginare l’evoluzione futura di Wikipedia. I più pessimisti prevedono un collasso del sistema, a causa dell’aumento esponenziale delle voci, della moltiplicazione dei vandalismi e dell’impossibilità di controllarli da parte degli amministratori. Altri ritengono che sarebbe opportuno avviare un programma di esame e di validazione delle voci, incominciando con le più importanti e consultate, da affidare a un gruppo di esperti, così da rendere lo strumento – di cui si riconoscono le indubbie potenzialità – effettivamente utile nei sistemi educativi. Il programma, che potrebbe essere sostenuto anche da finanziamenti pubblici, darebbe vita a una Wikipedia a due velocità: quella ipercinetica di oggi e quella con voci controllate da specialisti nella materia – che potrebbero essere contrassegnate con un simbolo identificativo – inserite a ritmi più lenti, ma con una maggiore qualità e autorevolezza dei contenuti. Che questa sia una delle possibili strade da percorrere lo dimostra il fatto che Larry Sanger (ossia il cofondatore, nel 2001, dell’enciclopedia online) ha abbandonato da tempo Wikipedia per creare, nel settembre 2006, il progetto Citizendium, con l’obiettivo di offrire «la migliore enciclopedia gratuita al mondo». Al febbraio 2009 sono stati redatti su questo sito 10.000 articoli in lingua inglese, tutti autoriali e certificati da un comitato di esperti che li rendono, dopo averli vagliati criticamente, immodificabili. L’adozione di tali soluzioni, seppure in parte contrastanti con lo spirito originario di Wikipedia, ne favorirebbero un impiego intelligente e pedagogicamente utile, fondato sulla responsabilizzazione degli autori e sulla distin-

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zione qualitativa delle informazioni. La posta in gioco è alta, perché il progetto Wikipedia propone un processo di liberalizzazione e di democratizzazione della conoscenza tanto più largo – e qui è il paradosso – quanto più prevede la scomparsa dentro un soggetto collettivo anonimo di un individuo autonomo e obbligato a rispondere delle proprie azioni. Tutto ciò avviene in nome di una battaglia anti-gerarchica e anti-intellettualistica, in favore di una nuova democrazia partecipativa. Ma nel momento in cui è il benevolo algoritmo di Google a stabilire i presupposti e le condizioni per il successo del progetto, non è più vero che si sia autonomi da ogni struttura gerarchica; anzi se ne formano altre, meno evidenti e dunque potenzialmente più egemoni, che devono essere individuate e sottoposte al vaglio analitico, senza timore di venire giudicati passatisti o alieni dal progresso tecnologico. L’illustrazione della potenza del tandem Google-Wikipedia dovrebbe essere fatta agli studenti non per insegnare diffidenza nei confronti dei nuovi media, ma per offrire loro una migliore consapevolezza, ossia una maggiore libertà. Altrimenti, si avverte il rischio concreto che il populismo telematico di Wikipedia possa progressivamente trasformarsi in una dittatura della maggioranza: in una forma di inquietante e benevolo totalitarismo democratico, simile a quello descritto dal francese Alexis de Tocqueville nel capitolo «Quale specie di dispotismo debbano temere le nazioni democratiche» della sua celeberrima opera del 1835-40, La democrazia in America. Eclissi dell’intermediario, eclissi dell’autore, eclissi della distinzione tra informazione e sapere, eclissi del giudizio: Wikipedia appare un punto di osservazione ideale per scrutare il tramonto del concetto di cittadino, l’altro volto della crisi in cui versano le democrazie rappresentative nell’età della globalizzazione. A ben vedere, l’isola che non c’è, Porchesia – ove alligna la malapianta della post-democrazia – è già fra noi, non solo a un colpo di clic, ma appena fuori da questo schermo.

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Una fonte elettronica NOTA BIBLIOGRAFICA

Per un inquadramento generale delle questioni relative al rapporto tra lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e il lavoro storiografico si vedano G. Abbattista, Dalla tipologia alla gerarchia. Idee per una valutazione delle risorse telematiche per gli studi storici, in Cultura, Comunicazione, Tecnologia, a cura di F. Vetta, Stella, Trieste 1998, pp. 19-34; R. Minuti, Internet et le métier d’historien. Réflexions sur les incertitudes d’une mutation, Puf, Paris 2002; S. Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Bruno Mondadori, Roma 2004; F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale. Introduzione ai nuovi media, Laterza, Roma-Bari 200812. Per la citazione di Italo Calvino cfr. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 1993, pp. 131-132 e 135. Il brano di Wells è riportato da M. Foglia, Wikipédia. Média de la connaissance démocratique. Quand le citoyen lambda devient encyclopédiste, Editions Fyp, Limoges 2008, pp. 63-64 (e pp. 127-131, sul tandem tecnologico GoogleWikipedia). Per una storia dell’enciclopedismo si rimanda ad A. Rey, Miroirs du monde. Une histoire de l’encyclopédisme, Fayard, Paris 2007. Sul concetto di wiki si veda J. Klobas, Tools for Information Work and Collaboration, Chandos, Oxford 2006 (trad. it., da cui si cita, Oltre Wikipedia. I wiki per la collaborazione e l’informazione, a cura di J. Klobas, Sperling & Kupfer, Milano 2007, pp. 1-30, 105-130 e 185-189, con esauriente bibliografia). Le diverse notizie su Wikipedia e sulle ragioni del suo successo sono tratte anche da S. Blondeel, Wikipédia comprendre et participer, Eyrolles, Paris 2006 e dai più critici P. Gourdain, F. O’Kelly, B. RomanAmat, D. Soulas, T. von Droste zu Hülshoff, La Révolution Wikipédia. Les encyclopédies vont-elles mourir?, Préface de Pierre Assouline, Mille et une nuits, Barcelone 2007, pp. 37-50 e sgg. (per le informazioni sull’inchiesta di «Nature» e i problemi posti dal nuovo strumento). Cfr. anche A. Elia, Cogitamus ergo sumus: Web 2.0 encyclopaedi@s: the case of Wikipedia, Aracne, Roma 2008. I dati statistici sull’enciclopedia online sono tratti dall’indirizzo http: /en.wikipedia.org/wiki/Most_viewed_article (accesso: luglio 2009). Lo studio del Palo Alto Research Center è stato anticipato da J. Giles, After the boom, is Wikipedia heading

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for bust?, in «NewScientist», 4 agosto 2009 (http:/www.new scientist.com/article/dn17554-after-the-boom-is-wikipedia-hea ding-for-bust.html. Accesso: agosto 2009). Per un’analisi polemica del monopolio esercitato da Google si rinvia a B. Cassin, Google-moi, la deuxième mission de l’Amérique, Albin Michel, Paris 2002. Sui social networks si veda ora F. Antinucci, L’algoritmo al potere. Vita quotidiana ai tempi di Google, Laterza, Roma-Bari 2009. Il riferimento al brano di Alexis de Tocqueville è in La democrazia in America, a cura di Corrado Vivanti, Einaudi, Torino 2006, pp. 774-780. Sul concetto di post-democrazia si veda C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 20092.

Gli autori

Alessandro Barbero insegna storia medievale all’Università del Piemonte orientale. Ha studiato, fra l’altro, il mondo romano-barbarico e il Piemonte medievale. Roberto Bizzocchi insegna storia moderna all’Università di Pisa. Ha studiato, fra l’altro, il problema del rapporto fra documentazione e narrazione nella storiografia europea del Cinque e Seicento. Alessandro Casellato insegna storia dell’Italia contemporanea e storia orale all’Università di Venezia. Gli piace indagare i rapporti tra storia, biografia e autobiografia; sta studiando la memoria dei comunisti. Antonio Gibelli insegna storia contemporanea all’Università di Genova. I suoi studi si sono concentrati sulla Grande Guerra e sulle forme di mobilitazione delle masse nella società novecentesca. Miguel Gotor insegna storia moderna all’Università di Torino. Studia la santità, l’eresia, la censura fra Cinque e Seicento, e la crisi degli anni Settanta nell’Italia del Novecento. Giovanni Levi insegna storia economica all’Università di Venezia. I suoi studi hanno riguardato principalmente la storia sociale e la storia delle mentalità nell’età moderna.

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Gli autori

Salvatore Lupo insegna storia contemporanea all’Università di Palermo. Ha studiato la mafia siciliana, il regime fascista, il sistema politico dell’Italia repubblicana. Sergio Luzzatto insegna storia moderna all’Università di Torino. Ha studiato, fra l’altro, la Rivoluzione francese e il fascismo italiano. Ottavia Niccoli insegna storia moderna all’Università di Trento. Si è occupata di storia delle culture, della società e della vita religiosa agli inizi dell’età moderna. Lisa Roscioni insegna storia moderna all’Università di Parma. Ha studiato, fra l’altro, la storia della follia in età moderna e le mentalità collettive nell’Italia fascista.

Indice

Premessa di Sergio Luzzatto

3

Il ronzino del vescovo Una fonte notarile di Alessandro Barbero

13

Storie di fantasmi, progetti di crociata Una fonte epistolare di Ottavia Niccoli

33

Il consumo a Venezia Una fonte contabile di Giovanni Levi

51

Certezze granitiche Una fonte epigrafica di Roberto Bizzocchi

69

L’omicidio funesto del principe Savelli Una fonte cronachistica di Lisa Roscioni

87

Fare un monumento di se stesso Una fonte oratoria di Salvatore Lupo

105

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Indice

L’uomo col dito puntato Una fonte iconografica di Antonio Gibelli

123

«Cara Kitty» Una fonte diaristica di Sergio Luzzatto

143

Il figlio dell’eroe Una fonte orale di Alessandro Casellato

163

L’isola di Wikipedia Una fonte elettronica di Miguel Gotor

183

Gli autori

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