Prassi e conoscenza. Con una sezione sui critici marxisti della fenomenologia

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g. d.

Neri

Prassi e conoscenza

con una sezione sui critici marxisti della fenomenologia (Lukàcs, Adorno, Marcuse, Tran-Duc-Thao, Naville, SchafF)

NUNC COGNOSCO EX PARTE

TRENT UNIVERSITY LIBRARY PRESENTED BY PROF. P. BANDYOPADHYAY

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I fatti e le idee Saggi e Biografie 156

Collana diretta da Paolo Rossi

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Prima edizione: dicembre 1966 Copyright by Giangiacomo Feltrinelli Editore

Milano

Guido Davide Neri

Prassi e conoscenza con una sezione dedicata ai

Critici marxisti della fenomenologia

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Feltrinelli Editore

Milano

Introduzione

Cercheremo di delineare il contenuto generale di questo libro, per un primo orientamento del lettore. Gli argomenti trattati sono abbastanza vari, e a prima vista può non riuscire evidente il rap¬ porto tra le diverse parti. La prima si occupa soprattutto di pro¬ blemi specifici della conoscenza, sviluppati da un punto di vista fenomenologico: i rapporti della fenomenologia con lo scetticismo moderno, il tema della “credenza,” il nesso immanenza-trascen¬ denza, il problema della cosa materiale, ecc. Nella seconda il pro¬ blema della conoscenza è visto nel suo rapporto con la “prassi” e ci si intrattiene abbastanza a lungo sul pensiero di Lukàcs gio¬ vane, in riferimento soprattutto al tema della conoscenza naturale. La terza è dedicata a un’analisi critica e a una rassegna sulla let¬ teratura marxista che riguarda la fenomenologia. In realtà queste tre parti sono state concepite unitariamente, ed è quello che dovrebbe risultare da queste pagine introduttive. Per quanto riguarda il primo punto, il problema dello scetticismo ci è stato presente durante l’intera elaborazione. La fenomenolo¬ gia di Husserl ci è sembrata, a ogni livello, il tentativo di far fron¬ te a una scepsi sempre rinascente. Anche limitandoci a conside¬ rare il contenuto più appariscente dei suoi scritti, vediamo la po¬ lemica anti-scettica estendersi dai “ Prolegomena ” delle Ricerche Logiche (1900), dove viene preso di mira il relativismo psicolo¬ gistico, alla Filosofia come scienza rigorosa (1910), dove il nuovo obiettivo è rappresentato dallo storicismo moderno. Non stiamo a chiederci quanto proporzionata fosse, in questo caso, la critica di Dilthey (a proposito del quale, come anche del resto per lo psi¬ cologismo, il giudizio di Husserl è tutt’altro che concluso con quel-

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Introduzione

la polemica). Cerchiamo invece di vedere il motivo comune delle due critiche, cioè l’assurdità di far dipendere ogni senso di verità da un rapporto a senso unico con certe condizioni obiettive: quelle di un modo di essere fisio-psichico o quelle di un a priori tem¬ porale obiettivo (nel caso delle “concezioni del mondo.”) Non solo la verità teorica, del resto, ma anche la validità e la sussi¬ stenza di qualsiasi significato viene pregiudicata da una simile impostazione, che conclude necessariamente in un relativismo scet¬ tico. Il soggetto, la coscienza vengono letteralmente spazzati via, riducendosi a un fatto casuale e casualmente variabile, sullo stesso piano di tutti gli altri fatti naturali. La mancata analisi del senso della soggettività e del rapporto intenzionale con i contenuti di coscienza rappresenta ancora un limite di una terza forma di scet¬ ticismo relativistico, che noi potremmo aggiungere alla serie hus¬ serliana: quello di un marxismo “sociologistico,”1 di un marxismo che fa dei contenuti di coscienza semplicemente il risultato di con¬ dizioni economico-sociali, spiegabile dunque esclusivamente in que¬ sti termini, o eventualmente nei termini di un naturalismo allar¬ gato fino a comprendere l’intera sfera umana e sociale. Di un na¬ turalismo quindi grevemente positivistico. Ma il problema dello scetticismo si chiarisce meglio nei suoi termini generali se lo consideriamo anche storicamente, a partire dalle posizioni che si delineano per effetto della nuova scienza naturale galileiana e della sua problematica dell’“in sé” e dell’ap¬ parenza sensibile. Daremo, nel primo capitolo, sufficienti indica¬ zioni sul significato di questa scepsi conoscitiva, risultante dalla fisicalizzazione generale della realtà. Consideriamo qui invece una delle conseguenze immediate per quanto riguarda la realtà nel suo insieme, conseguenza che si profila già con Cartesio e che possiamo riconoscere ancora nella filosofia dei tempi piu recenti. 1 Qui e nel testo, parlando di sociologismo, non ci riferiamo però solo alle ten¬ denze che intendono esplicitamente la "spiegazione" marxista delle formazioni ideali come una messa a nudo del loro vero scheletro economico-sociale; sociologismo è anche la loro valorizzazione neH’ambito esclusivo di una certa sfera di coscienza social¬ mente e temporalmente determinata. Un aspetto tipico di questo sociologismo (che po¬ tremmo definire “coscienzialistico,” anche se da ultimo rimanda normalmente a quello economicistico) e la teoria del carattere non “autentico” della conoscenza naturale (nel senso da noi chiarito nella II parte di questo libro). Lo ritroveremo, tra l’altro, nel giovane Lukacs, e in certa misura nella nozione del "vissuto” tipica di Tran-Duc-Thao (fuori del marxismo, nello storicismo di Dilthey e di Mannheim).

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Introduzione

Se tutta la realta della cosa materiale viene trasportata oltre il li¬ mite dell esperienza sensibile, in un in sé che determina rigorosa¬ mente anche il senso di quest’ultima, ogni possibilità di conoscenza e di verità viene automaticamente a cadere. Se invece viene con¬ servato, come accade di fatto, un tramite matematico-causale verso 1 in se, al quale si attribuisce un qualche valore di verità (rispetto alla pura illusione del sensibile) allora, per ciò che riguarda il mondo soggettivo, il mondo dell’esperienza umana come tale, si aprono due possibilità. La prima è quella di una riduzione totale della stessa realtà sociale al complesso delle determinazioni natu¬ rali, quindi a un mondo naturale e umano di stile strettamente cau¬ sale, una totale obiettivazione del reale. La seconda, che si pre¬ senta fin dall’inizio come la sola via di salvezza rispetto a una totale mancanza di significato del mondo e della vita umana, è quella del dualismo. Già in Cartesio la funzione piu appariscente della dottrina delle “due sostanze” è quella di salvare dall’asso¬ luto determinismo il mondo morale e di fare un posto all’anima e alla volontà accanto ai corpi puramente materiali. Alla soluzione dei due mondi si tiene ancora stretto Kant. Nella stessa filosofia più recente, la soluzione dualistica (di volta in volta aggiornata e reimpostata) viene mantenuta per l’esigenza di ridare un senso alla soggettività umana: e non ha molta importanza il fatto che l’in¬ sieme delle connessioni causali venga concepito come il modo d’essere effettivo della realtà naturale, o che venga ridotto a sem¬ plice ipotesi esplicativa: si pensi per esempio a Dilthey e al nesso tra scienze della natura e scienze dello spirito. L’errore di impo¬ stazione che sta alla base del dualismo e dipende dalle conse¬ guenze filosofiche che sono state tratte dal metodo di ricerca delle scienze naturali, ingenera ancora oggi false soluzioni. In particolare: l’ambito della conoscenza vera e propria, quella per cui l’esperienza soggettiva conserva ancora un significato auto¬ nomo, viene ristretta al di qua della sfera naturale, dei corpi ma¬ teriali, ecc., rispetto alla quale si rinuncia a sapere più alcunché; e si è soddisfatti, in certo modo, di essersi cosi sgravati di un im¬ menso terreno conoscitivo affidandolo alla giurisdizione delle scien¬ ze specialistiche della natura. Ma il difetto non è quello derivante da una divisione del lavoro nel campo del sapere: il fatto è che senza sapere cosa sia la dimensione materiale e corporea non pos-

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siamo sapere nulla, se non in modo deformato, sulla stessa dimen¬ sione psichica e spirituale. Di qui il nostro interesse per le analisi gnoseologiche e costi¬ tutive di Husserl. In esse viene criticata dalla base la concezione della realtà come un in sé inaccessibile e il conseguente dualismo (critica della relazione interno-esterno, del nesso di cosa e imma¬ gine, nozione della coscienza in quanto coscienza delle “cose stes¬ se,” ecc.). Ma, inoltre, viene anche tentata una corretta fenomeno¬ logia della cosa materiale come strato della realtà, della dimensio¬ ne corporea-somatica, psichica, ecc. Noi abbiamo fatto riferimento, nel nostro testo, soprattutto alle analisi della costituzione della cosa, e se ne comprenderà facilmente il motivo: è proprio dall’in¬ sufficiente impostazione del nesso tra coscienza e cosa materiale che sorgono gli equivoci maggiori di tutto il pensiero moderno, i quali si estendono poi anche alle sfere ulteriori. Abbiamo già accennato all’atteggiamento dei filosofi che, ac¬ cettando l’impostazione dualistica, si sono ritirati in buon ordine al di qua del confine divisorio tra natura e spirito. Da questo os¬ servatorio è sembrato loro che gli scienziati naturali se la cavassero benissimo sul loro terreno, e che le loro controversie fossero oggetti¬ vamente risolubili nel progresso della ricerca, a grande differenza dalle scienze umane, dove si presentano continuamente conflitti pressoché insolubili, aventi quasi l’aspetto di ricorsi. Cosi, poco alla volta, e sostenuti dalle stesse dichiarazioni degli scienziati circa il carattere meramente ipotetico-deduttivo del loro sapere, i filosofi sono giunti a un’ulteriore conclusione. Non soltanto — si sono detti — oltre il limite divisorio non v’è alcun lavoro originale per noi, che non sia quello della semplice definizione metodica (com¬ piuta a posteriori) del lavoro dello scienziato; ma non sussiste, al di là, nemmeno la possibilità di esercitare una prassi vera e propria, non esiste nella sfera della natura e della sua conoscenza un rap¬ porto originale tra soggetto e oggetto, qualcosa come una vera dialettica. Ma allora è solo nella sfera spirituale che si dà una vera dialettica e una prassi autentica; è solo qui che viene creato, nel lavoro di ricerca, qualcosa di nuovo, solo qui la soggettività sto¬ rica, nelle condizioni generali del suo essere, viene autenticamente “impegnata.” Nella sfera naturale, invece, non si tratta che di pro¬ seguire sulle piste pretracciate della sperimentazione riduttiva e

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costruita di laboratorio, e di abbandonare senz’altro ogni discorso propriamente conoscitivo, per attenersi a una dimensione pragma¬ tica-strumentale. La riduzione del sapere scientifico e matematico a qualcosa di inerte, di contemplativo e di automatico, a una semplice dedu¬ zione metodica a partire da assiomi, oppure ancora a un sistema di finzioni’ utilitarie, prive di qualsiasi scopo conoscitivo, viene espressa del resto anche da numerosi teorici e filosofi della scienza (spesso anche cultori della ricerca naturale) che si propongono, alla fine del secolo XIX e nel XX, una riflessione generale sul significato delle operazioni scientifiche. Naturalmente, quella dose di scepsi che traspare in posizioni del genere (in nome dell’economia del pensiero, o di un convenzionalismo più o meno esclusivo) non vuo¬ le avere, nella maggior parte dei casi, il senso di una diminuzione del conoscere naturale rispetto a quello delle scienze umano-sociali, ma anzi viene estesa in generale al conoscere per se stesso. Si ripre¬ senta cosi, anche per i cultori delle scienze “umane,” una nuova possibilità, quella di concepire l’intera realtà come un sistema di finzioni; il mondo intero si trasforma in un mondo “come se.” Lo scetticismo abbraccia in questo caso il mondo intero, e il problema di una conoscenza autentica sembra semplicemente un residuo di un’impostazione metafisica e pre-galileiana. Quasi nessuno, invece, sembra vedere in che cosa consista propriamente il problema della natura, della cosa materiale in¬ nanzitutto, e nessuno contesta, su questo problema, la giurisdizione esclusiva delle scienze naturali nel loro atteggiamento tradizio¬ nale. Al massimo ci si accontenta — come nella tradizione neo¬ kantiana — di una “giustificazione” del risultato, oppure di una delucidazione “metodologica” puramente formale sull’opera di chi il metodo usa effettivamente: la filosofia della scienza intesa come un’attività parassitaria. È in questo senso che invece le opere di Husserl propongono la ripresa del tentativo di una filosofia del¬ la natura. L’espressione evoca spiacevoli echi, anche perché un tentativo del genere — se si escludono i Galileo o i Newton che si chiamavano appunto filosofi naturali — sembra rievocare inge¬ nui animismi rinascimentali, se non addirittura le forme scolasti¬ che. Nell’epoca moderna una “filosofia della natura” ricorda piut¬ tosto le pittoresche costruzioni dell’idealismo tedesco, e in partico-

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lare hegeliano. A proposito del quale, senza proporci neppure lon¬ tanamente di entrare nel merito di questo difficile tema, inclinia¬ mo a pensare che il suo parziale fallimento filosofico non con¬ sista tanto nel fatto di non avere individuato — nella congerie delle teorie scientifiche dell’epoca — la “linea maestra” della moderna scienza positiva, ma piuttosto nel fatto di non avere impostato correttamente il problema della natura al livello-base della cosa materiale e sensibile, in quanto questa si costituisce per un soggetto percipiente; nell’avere sostanzialmente eluso il tema di un 'estetica trascendentale che sviluppasse l’abbozzo kan¬ tiano, fortemente condizionato, per conto suo, dal newtonianesimo filosofico. Ma non vogliamo fare ulteriori affermazioni su una questione che richiederebbe ricerche particolareggiate. Notiamo semplicemen¬ te che attraverso l’analisi husserliana della cosa materiale in quanto cosa che può costituirsi e avere un senso solo in rapporto a un sog¬ getto corporeo percipiente, non cade solo la mitologia dell’in sé e l’ipoteticismo circa la “natura in sé,” ma viene impostato in modo nuovo il significato delle operazioni che vanno sotto il titolo di scienza “matematica,” “fisica,” ecc. In questa direzione, Husserl, condizionato a sua volta dall’ori¬ ginaria formazione matematica, sembra manifestare delle esita¬ zioni prima di imboccare la sua strada. E infatti nelle Ricerche Lo¬ giche egli considera ancora la mathesis come il modello del conosce¬ re scientifico realizzato in forma di teoria. Quando, nelle Idee, di¬ chiara di volere lasciar cadere nella Weltvernichtung anche la sfera logico-formale, egli vi è indotto dalle sue ricerche filosofico-gnoseologiche, che gli impongono di ricuperare un terreno piu originario di evidenza. Nel secondo volume delle Idee egli si propone però il compito della costituzione: a partire dai dati assoluti della co¬ scienza pura, la natura materiale dev’essere ricostituita, e ulte¬ riormente anche la “natura” della scienza fisica, con le operazioni matematiche e logiche connesse. Questa ricostituzione, in realtà, proprio per il fatto di basarsi sui fondamentali chiarimenti gnoseo¬ logici di Idee I, non corrisponde già più semplicemente alla fi¬ sica dell’atteggiamento tradizionale: le qualità della “cosa,” com¬ prese le “secondarie,” come il colore, vengono considerate qualità oggettive, qualità della cosa stessa. Ma intanto sembra che, tenendo

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conto del soggetto e delle “circostanze,” e del nuovo senso di una obiettività materiale che prende cosi figura, si possa comunque dar corso alla costituzione della cosa fisicalistica, che rappresenterebbe il livello di epochizzazione piu alto legittimato dall 'idea direttiva della natura fisica. E in realtà, con l’inserimento della cosa fisica nel complesso delle analisi costitutive, Husserl riconferisce alle ope¬ razioni della matematica e della fisica un significato conoscitivo e una dignità ontologica ben diversi dalla mera autonomia formale riconosciuta da un Dilthey, nonché dal ficzionismo elementaristico di un Mach. A questo livello della ricerca sembra quindi che la fisica tra¬ dizionale — nella sua riconosciuta astrazione — rappresenti un li¬ vello di per se stesso legittimo di conoscenza della natura. Si può pensare cioè: una conoscenza autentica della natura non è solo quella fisico-matematica, giacché la natura è per noi l’insieme di qualità effettivamente proprie alle cose, ed è quindi necessaria in¬ nanzitutto la costituzione a livello “estetico” della cosa. Ma se d’altra parte ci limitiamo alla sfera delle idealità matematiche, il lavoro specialistico degli scienziati sembra essere ineccepibile. Ma l’insieme dei risultati già ottenuti non consente a Husserl di fer¬ marsi qui: si tratta ora infatti di domandarsi se effettivamente, in questo livello di astrazione, le scienze fisicalistiche si siano atte¬ nute al puro ideale di una natura obiettiva, e l’abbiano perseguito nello spirito di una conoscenza autentica o non si siano verificati una serie di slittamenti da questo spirito conoscitivo, con la con¬ seguenza di realizzare, sotto il titolo di scienza della natura, qual¬ cosa che solo in parte corrisponde a una scienza vera e propria, un complesso di dottrine e di metodi orientati piuttosto in senso tecnico-realizzativo. È in questo senso che si sviluppano le analisi della Crisi, impostate sulla critica della “cosa naturale” galileiana e della sua matematizzazione. Anticipando le quali, il risultato complessivo della critica husserliana (che non si rivolge, natural¬ mente, contro l’attività tecnico-scientifica come tale, ma contro le immediate desunzioni filosofiche che ne vengono tratte) si può rias¬ sumere così: 1) dimenticanza del processo di astrazione che ha portato alla costituzione della cosa fisicalistica (in quanto quest’ultima non è la

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cosa stessa materiale, ma viene costituita in base ad essa seguendo un deliberato processo ideale); 2) matematizzazione parzialmente arbitraria (in senso stret¬ tamente gnoseologico) per quanto si riferisce alle qualità “secon¬ darie,” irriducibili alla semplice estensione, con la conseguenza filosoficamente erronea di considerare queste ultime come “me¬ ramente soggettive.” È a questo punto che prendono particolare importanza per noi le analisi compiute dal giovane Lukàcs nella prospettiva mar¬ xista, nel tentativo di definire l’obiettivismo scientifico moderno come un carattere tipicamente capitalistico. In Husserl le defor¬ mazioni introdotte sul piano conoscitivo dal prevalere di una prassi tecnico-scientifica orientata verso la riuscita, il successo “ pratico ”strumentale, sono già presentate in connessione con una tendenza generale della nostra società (Husserl dice: dell’umanità europea) a perdere il significato della propria esistenza, a ridurre gli uo¬ mini a “uomini di fatto” mediante il prevalere di “scienze di fatto.” Egli sente vivamente l’urgere di un rinnovato irraziona¬ lismo che viene a colmare il vuoto complementare lasciato dalle strutture della “razionalizzazione,” e mentre si oppone al primo, rifiuta anche una società e una vita “manipolata” dai politici e dagli ingegneri. Ma su questo terreno egli non va piu in là. È fin troppo facile vedere limiti di questo genere in Husserl, limiti che sono certamente connessi al suo orizzonte di vita e di classe. (Husserl non è Hegel, Husserl non è Marx). Ma proprio a que¬ sto proposito bisogna badare di non far slittare le critiche fuori dei loro binari, servendosi di queste osservazioni per ricuperare a posteriori i limiti classisti dell’intera filosofia husserliana. È pro¬ prio in questa direzione che invece, disgraziatamente, si è mossa nella sua quasi-totalità la critica marxista. Eppure non è difficile mostrare come Lukàcs, nella sua con¬ cezione della natura, si trovasse fermo, negli anni giovanili, alle posizioni delle filosofie “borghesi” di fine secolo. Peccato giova¬ nile ? Immaturità del suo primo marxismo ? Ma non ci sentiremmo di considerare un progresso il tardivo recupero della “dialettica naturale.” E poi, il caso di Lukàcs è tutt’altro che isolato, in que¬ sto senso. Del resto non abbiamo voluto accertare, in questo lavoro,

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fino a che punto possa conservare un senso per noi oggi un mar¬ xismo inteso come enciclopedia delle scienze, che dovrebbe es¬ sere desunta dalle opere dei “classici.” Come — per toccare al¬ tri problemi, del resto connessi — non abbiamo potuto appro¬ fondire quanto sarebbe necessario il significato dell’esser di clas¬ se dell’uomo, il rapporto tra la coscienza dell’uomo come tale e la sua qualificazione classista, Yorigine della coscienza in rap¬ porto al mondo delle determinazioni economiche e di classe e in rapporto al lavoro; infine il problema se al lavoro — dove, secondo l’analisi hegeliana e marxista si genera per l’uomo la coscienza — e alla coscienza stessa, non debba essere assegnata una dimen¬ sione piu profonda di quella che il sociologismo “marxista” è normalmente disposto a riconoscere. Tutti questi problemi sono stati accennati nel nostro lavoro secondo una prospettiva anche troppo generale, che era del resto inevitabile data l’ampiezza del tema. Su molti punti abbiamo dovuto perciò accontentarci di sem¬ plici cenni, o allacciarci a ricerche già compiute da altri scrittori che ci sembravano vicini alla nostra impostazione. A questo proposito anzi vogliamo aggiungere un avvertimen¬ to, perché il lettore non ci debba rimproverare di avere mantenuto troppo avaramente quello che questa introduzione sembra pro¬ mettere. Un’introduzione viene scritta, normalmente, quando il la¬ voro è già compiuto, e riesce spontaneo, in queste circostanze, in¬ dicare, sia pure sommariamente, le ricerche ulteriori che dovreb¬ bero essere svolte. Rispetto ai temi delineati sopra, dobbiamo rico¬ noscere che i nostri risultati sono modesti. Per quanto riguarda uno dei principali, la costituzione della sfera materiale in genere, abbiamo dovuto limitarci a riferire solo alcuni spunti delle analisi di Husserl, e questo non solo perché il grosso della sua opera, su questo argomento, è ancora inedito, ma perché era anche piu urgente per noi chiarire le ragioni di principio che fanno di quelle ricerche qualcosa di essenziale per tutto il pensiero moderno, e anche per quello marxista. Questo ci ha costretti a motivare anche storicamente — e sia pure per cenni saltuari — alcuni rapporti tra la fenomenologia e la tradizione filosofica moderna. In particolare, abbiamo do¬ vuto dedicare una speciale attenzione ai problemi posti dalla fi¬ losofia di Hume e dal suo tema essenziale del belle f, che si trova

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in bilico — per cosi dire — tra una conferma filosoficamente purificata della scepsi tradizionale e le motivazioni di una possi¬ bile conoscenza (in quanto conoscenza autentica) della realtà. Nella seconda parte, come abbiamo già detto, sono state di¬ scusse alcune tesi di Storia e coscienza di classe, il vecchio scritto di Lukàcs per il quale è mancata sinora in Italia una sufficiente at¬ tenzione critica. Questo testo è certamente superato per moltissimi aspetti, come lo stesso autore ribadisce da decenni. Tuttavia esso pone autentici problemi, che non possono venire archiviati senza discussione. In particolare, per quelli che ci riguardano piu diret¬ tamente (il problema della prassi e del sapere “contemplativo,” della conoscenza naturale, ecc.) non possiamo considerare risolu¬ tive né le critiche mossegli reiteratamente dal marxismo scolastico, né le stesse autocritiche lukacsiane. Il problema della realtà e della conoscenza naturale, per esempio, rimane aperto per il marxismo, al di là delle insufficienti soluzioni proposte — sulla falsariga del giovane Lukàcs — dal cosiddetto “marxismo occidentale” (in linea con l’epistemologia filosofica tra i due secoli) — e al di là anche, beninteso, del vecchio schema engelsiano (noiosamente ribadito secondo formulazioni sempre più “critiche”) che propone l’inte¬ grazione tra le scienze di fatto e una “dialettica” generalizzata. Quest’ultimo punto, anzi, non è stato ripreso che per accenni nel nostro lavoro, perché le osservazioni fatte dallo stesso Lukàcs, da Sartre e da altri colpiscono già bene nel segno, anche se esau¬ riscono tutto il loro valore nella critica e non danno alcun contri¬ buto per una reimpostazione del problema. Infine vogliamo considerare la terza sezione del nostro la¬ voro, dedicata ai critici marxisti della fenomenologia, come un contributo di carattere non solo specifico, limitato cioè al rapporto tra due orientamenti filosofici, ma anche come una parziale ve¬ rifica dell’atteggiamento generale del marxismo nei confronti dei problemi posti dalla filosofia contemporanea; e questo diritto ci sarà riconosciuto, ovviamente, soprattutto da chi condivide la no¬ stra convinzione circa la posizione centrale della fenomenologia nel pensiero moderno. Se — a questo proposito — le nostre con¬ clusioni non sembreranno molto favorevoli, alcuni almeno tra i let¬ tori marxisti riconosceranno che non sono immotivate, quanto me¬ no allo stato attuale della letteratura sull’argomento. Tutt’altro pro-

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blema è naturalmente quello di stabilire se l’atteggiamento che abbiamo dovuto qualificare (nel capitolo conclusivo) come tipi¬ co di un marxismo di vecchio stile e largamente “ideologistico,” legato a motivazioni oggi prive di mordente teoretico e po¬ litico, sia per il marxismo stesso una necessità o uno stato di fatto storico che può essere superato. Non abbiamo voluto affrontare di petto questa questione nel nostro libro, ma abbiamo riferito al¬ cuni esempi di un’impostazione diversa, alla quale va evidente¬ mente tutto il nostro interesse. Il pensiero di Husserl e quello di altri scrittori si mescolano, nel corso dell’esposizione, alle nostre osservazioni personali; ma nelle note abbiamo sempre precisato le fonti. Con questo abbiamo segnalato solo una parte dei nostri debiti. L’insegnamento di Antonio Banfi e di Enzo Paci ci ha aiutato in modo essenziale a penetrare la problematica fenomenologica, e ci ha permesso di evitare una serie di incomprensioni ricorrenti nella letteratura relativa. Naturalmente la responsabilità delle interpretazioni e degli svolgi¬ menti rimane solo nostra. Un aiuto notevole ci è venuto anche dal continuo scambio di idee con amici impegnati su temi strettamente affini, il cui la¬ voro sta cominciando a prendere forma pubblica. I riferimenti dati nella bibliografia si completano con quelli delle note. Le opere di Husserl sono state citate secondo le pagine dell’edizione ita¬ liana, quando esisteva, o secondo quelle della piu recente edizione in lingua tedesca. I titoli di queste opere, indicati talora sinteticamente nel testo, sono riportati per esteso, con tutti i dati relativi, nella bibliografia. Utiliz¬ zando le versioni esistenti, abbiamo dovuto, in qualche caso, apportare loro lievi modifiche. Le due appendici (un’esposizione di alcuni temi della Dia¬ lettica del concreto di K. Kosik e una serie di passi da un vecchio articolo di Tran-Duc-Thao) ci sono sembrate utili come complemento dei temi svi¬ luppati nel testo.

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Parte prima

Scepsi e conoscenza

"Tutta la filosofia — le dissi — è fondata su due cose; cioè sul fatto che abbiamo la mente curiosa e la vista cattiva [...] Se per lo meno ciò che si vede fosse ve¬ duto esattamente, sarebbe sempre un tanto di più nelle nostre cognizioni, ma lo si vede del tutto diverso da quello che è. Quindi i veri filosofi passano la loro vita non credendo a quello che vedono e studiandosi di indovinare quello che non vedono, condizione, mi pare, non troppo da invidiarsi. Da ciò io mi immagino la natura come un grande spettacolo somigliante all’Ope¬ ra: dal vostro posto non potete vedere il teatro come realmente è; le decorazioni e le macchine furon di¬ sposte per produrre di lontano effetti piacevoli, e furon nascoste alla vostra vista le ruote e i contrappesi che operano tutti i movimenti [...] e chi vedesse la natura tal quale essa è, vedrebbe la parte posteriore del teatro dell’Opera.” Fontenelle, Conversazioni sulla pluralità dei mondi

(1686)

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I

Capitolo primo

La scepsi nel pensiero moderno

Il momento “scettico” nella fenomenologia Lo scetticismo accompagna tutta la nostra tradizione di pen¬ siero fino dalle origini, e rappresenta, ad ogni vera “svolta” filo¬ sofica, un termine di confronto decisivo. Nel caso della fenome¬ nologia, pero, si deve vedere qualcosa di più che un rapporto di reciproca esclusione con la scepsi. È caratteristico di molte co¬ struzioni filosofiche che il confronto con la scepsi si eserciti una volta per tutte prima che il sistema possa essere fondato; messe al riparo dalle sue insidie, poi, queste costruzioni si sviluppano in una imperturbata positività. Al contrario l’immanenza del mo¬ mento scettico nella fenomenologia non risulta soltanto dalla sua esplicita tematizzazione attraverso Finterà attività filosofica di Hus¬ serl, dai “ Prolegomena ” delle Ricerche logiche fino alle Medita¬ zioni cartesiane e alla Crisi, ma anche da considerazioni che vanno più a fondo. In realtà, la fenomenologia mantiene in co¬ mune con lo scetticismo moderno uno stesso fondamentale mo¬ mento conoscitivo, quello della “credenza”; e si distingue dallo scetticismo essenzialmente per il fatto che questo momento della credenza, mantenuto e sviluppato, non viene interpretato come un ripiegamento con cui il pensiero confessa la propria debolezza, ma, al contrario, come il suo vero punto di forza, o meglio, come il suo proprio terreno, il terreno della possibilità della conoscenza. Cercheremo di precisare, in questo capitolo, il significato della scepsi e della credenza per la fenomenologia. Il nostro di¬ scorso, via via, si estenderà anche ad altri temi, ma ci sarà sem-

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Scepsi e conoscenza

pre possibile, a uno sguardo d’insieme, vedere il valore fondamen¬ tale di questo punto che stiamo per affrontare. La forma di scepsi alla quale ci riferiamo è quella dell’età moderna. Essa non contesta che sia possibile un’esperienza, in cui prende rilievo un senso, o addirittura un “mondo,” ma mette in questione la realtà di questo mondo, e decide infine per il suo carattere “solo soggettivo,” di “semplice apparenza” o di “finzio¬ ne,” che non corrisponde necessariamente a uno stato di cose reale. Questa, naturalmente, è una caratterizzazione molto generale; ma non è difficile documentare la straordinaria permanenza delle motivazioni che di secolo in secolo conservano a questa forma di scepsi una fisionomia unitaria. E infatti, come vedremo, esse han¬ no la loro base in una arbitraria costruzione teoretica, la quale viene fatta passare come qualcosa di pacifico al di là di ogni dub¬ bio scettico. La stessa teoria humeana, che conclude in senso scet¬ tico, arriva a questa conclusione solo dopo aver ripercorso e “ri¬ costruito” le strutture gnoseologiche che vuole impugnare. Lo scetticismo di Hume, come quello che — dichiarato o inconfes¬ sato — emerge dal positivismo moderno — è quindi un “siste¬ ma” scettico.1 Il senso del mondo che si presenta nell’esperienza sensibile e nella vita quotidiana, e che ha abbastanza coesione da consentirci appunto di vivere in questo mondo, non viene conside¬ rato come un terreno autonomo di ricerca della verità. Se ci atte¬ niamo a questo senso, come fa l’uomo non filosofo con la sua cre¬ denza ingenua, tutta la gnoseologia moderna ci si rivolta contro per ammonirci che ci muoviamo nella dimensione dell’opinione soggettiva e non in quella della scienza. Prima ancora che questo 1 Su Hume cfr. il secondo capitolo. Nel nostro lavoro la credenza e la connessa immaginazione humeana vengono considerate soprattutto per il loro lato scettico. Ma naturalmente non trascuriamo la grande importanza che queste nozioni assumono — no¬ nostante le esplicite conclusioni di Hume — per una filosofia che punta in una dire¬ zione affatto diversa, per una filosofia non scettica dell’esperienza. In questo senso è svi¬ luppato l’originale studio di Galvano della Volpe, La filosofia dell’esperienza di D. Hume (Firenze, Sansoni, 1933-1935). Per della Volpe la scepsi esercitata da Hume sui sensi e sulla ragione non comporta conclusioni negative, ma convalida invece l’esigenza di ‘ una filosofia dell’istinto, ossia della coscienza comune, nella quale il punto di vista ingenuamente sintetico e conciliativo di quest’ultima sia inteso e mantenuto criticamente. E questa filosofia non potrà essere che una filosofia dell’esperienza puramente," in quanto l’immaginazione attinge le idee alle percezioni (p. 164 del 1 voi., e in generale l’intero capitolo VI).

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La scepsi nel pensiero moderno

terreno sia stato indagato, un “sapere” preliminare pretende di denunciare le strutture arbitrarie che ne formerebbero la base. Si impone perciò la questione di verificare se quelle costruzioni non siano state introdotte arbitrariamente da questo sapere. Qui la fe¬ nomenologia si separa nettamente dalla comune prevenzione della filosofia moderna verso il mondo della credenza.2 La fenomeno¬ logia non è niente più che il tentativo di afferrare la struttura in¬ terna di questo mondo e di tradurla in forma linguistica. Tutta la base di certezza e il fondamento delle nozioni conoscitive si ag¬ gira airinterno della ìndubitabilita del darsi di un mondo quanto si voglia soggetto, in ogni sua manifestazione, al dubbio e alla critica. Ma l’accettazione fondamentale di questa sfera di offerenza impone, come vedremo, uno stile particolare alla scepsi e alla stessa critica.3 2 Senza che questo comporti una frattura nello sviluppo del suo pensiero, sono soprattutto le ultime opere di Husserl e quelle pubblicate postume che sviluppano il tema della doxa come terreno di base della fenomenologia. Si consideri l’esplicita con¬ nessione del termine meinen (intendere, opinare) con un uso non limitativo della nozione di “credenza,” nella Logica formale e trascendentale. La sfera “intenzionale” coincide con quella della credenza. (“Mit diesem Vermeinten als solchem, dem blossen Korrelat des ‘Meinens,’ sprachlich auch oft Meinung doxa genannt [...]” ecc., ivi, § 45.) E cfr. tutto lo svolgimento tematico di Esperienza e giudizio (su cui dovremo ritornare) e il problema della "Lebenswelt” e dei suoi “a priori” nella Crisi delle scienze europee. 3 L’affermazione della indubitabilità del mondo potrebbe sembrare in contrasto con l’operazione fenomenologica della Weltverniektung cui stiamo per accennare nel nostro testo. L’annichilazione del mondo comporterebbe cioè la “riduzione” alla sem¬ plice “coscienza pura,” una coscienza che non sarebbe piu cosciente di nulla. L’equivoco dipende dal fatto che il termine “mondo” ha in Husserl una duplicità di significati, sui quali porta un notevole chiarimento questo passo che G. Brand riferisce (Mondo, io e tempo nei manoscritti di Husserl, Milano 1960, pp. 81-82): “[Dopo Vepoché\ il mondo è e rimane quello che era per me — in questo senso la riduzione non cambia nulla. Essa mi impedisce soltanto di assumere il mondo che è cosi come, in quanto è, vale da sempre e come continua a valere, come terreno e orizzonte già precostituito dell’es¬ sere; essa si chiede semplicemente che cosa si possa dire in certi casi, e anche in ge¬ nerale, del mondo.” La riduzione "equivale si a un ritorno alla mia soggettività, che è sempre in questione, ma non significa considerare soltanto me come essente, valorizzare soltanto me come essente e in nessun modo il mondo, rispetto all’essere del quale io appunto ho operato l’epoché.” Brand ha ragione di osservare che la riduzione “non è un’operazione che fa sparire il mondo, bensì un’operazione che lo fa apparire, l’esibi¬ zione positiva del mondo originario” (p. 81). Cfr. su questo argomento anche G. Piana, Esistenza e storia negli inediti di Husserl (Milano, Lampugnani, 1965, introduzione). Il mondo "originario” è quello della “credenza originaria" che precede le predicazioni, precede cioè il piano esplicitamente categoriale: sul piano categoriale, infatti, una qual¬ siasi "dimostrazione” dell’esistenza del mondo è impossibile, dal momento che ogni affermazione predicativa, particolare o generale, presuppone il mondo dell’esperienza ante¬ predicativa. Su questo punto cfr. A. Diemer, Edmund Husserl, 1956, p. 97. Sull’impor¬ tanza di questa posizione sul piano della logica (del giudizio di esistenza ecc.) ci sof¬ fermeremo alla fine del secondo capitolo.

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Dobbiamo precisare e anche correggere parzialmente quanto si è appena detto sull’indubitabilità dell’ofTrirsi di un mondo, e sia pure di un mondo di semplice “opinione.” Questo significhe¬ rebbe che, sia pure soggetto alla relatività delle credenze sogget¬ tive e dei punti di vista, un senso concordante delle cose (nell’ac¬ cezione più vasta della parola) sarebbe acquisito per ciascuno di noi. Ma in realtà non sussiste alcuna garanzia che il decorso ul¬ teriore dell’esperienza, eventualmente il suo approfondimento, ri¬ spetti questa situazione.4 5 A una ulteriore osservazione potrebbe risultare che l’apparente connessione di cose e di significati che noi indichiamo come il mondo della credenza si scompagini e si dissolva. In questo caso, in luogo di un “mondo,” non avremmo niente più che il presentarsi disarticolato di formazioni caotiche, incompatibili con un qualsiasi senso unitario. Per questo, appunto, Husserl spinge la sua “meditazione fenomenologica fondamentale” al casolimite della Weltvernichtung? L’esercizio teorico dell’annichilazione del mondo, per il quale viene consumata anticipatamen¬ te fino in fondo ogni possibile scepsi conoscitiva, non rappresenta di per sé qualcosa di nuovo nella storia della filosofia: Husserl si 4 “È lecito pensare che non soltanto in casi singoli l’esperienza, a causa delle contraddizioni, possa dissolversi in apparenza, e che, come di fatto avviene [...] ogni apparenza non annunci una verità piu profonda e che ogni contraddizione non dia luogo, grazie a nessi piu comprensivi, alla restaurazione della complessiva concordanza del¬ l’esperienza; è pensabile che l’esperire brulichi di contraddizioni irreconciliabili [...] che non ci sia piu un mondo passibile di essere posto concordemente e quindi essente. Al suo posto potrebbero costituirsi delle rozze formazioni unitarie, effimeri punti d’arresto di visioni che sarebbero meri analoga delle visioni di cose, poiché sarebbero del tutto inette a costituire delle “realtà” stabili, delle unità di durata, che esistano in sé, siano o non siano percepite." (Idee 1, § 49, pp. 106-107.) 5 Come risulta dai passi citati alle note 3 e 4, la Weltvernichtnng non mette capo a un puro nulla, ma alla dissoluzione delle pre-costituzioni operate dalla coscienza ingenua o da quella "scientifica.” Se questa forma di scepsi non dovesse sembrare ab¬ bastanza radicale, si consideri quanto segue: una “annichilazione dei mondo” che met¬ tesse capo a un puro nulla, significherebbe semplicemente l’annullamento della coscienza (del cogito cartesiano). Questa è indubbiamente una possibilità di fatto, che non costi¬ tuisce pero in alcun modo un argomento” scettico. Ma reciprocamente, nessuno scetti¬ cismo potrebbe mai fornire prove contro quest’altro stato di fatto, che un mondo di esperienza originaria si dia ad una coscienza. Certo nessuna filosofia, e tanto meno la fenomenologia, avrebbe armi per contestare quel "fatto." In altre parole se "qualcuno” non disponesse di un’esperienza originaria comunque conformata, — ammesso per as¬ surdo ^che si potesse parlare ancora di qualcuno” — questo stato di fatto non sarebbe certo confutabile,” ma esso non costituirebbe nemmeno una scepsi; se invece qualcuno affermasse a titolo personale che nessuna esperienza, nessun mondo (originario) gli si presenta, avremmo motivo di chiedere donde tragga origine il senso originario che tra¬ spare nelle sue parole. Ogni affermazione o negazione che si riferisce a uno stato di cose o a un senso qualsiasi, presuppone questo stato di cose e questo senso.

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rifa esplicitamente a Cartesio6 che l’aveva già sperimentata nella coraggiosa radicalizzazione del dubbio contenuta nella prima Me¬ ditazione. La risposta delle Idee è analoga a quella cartesiana: al¬ l’evidenza assoluta e indubitabile del cogito fa riscontro qui l’autonomizzazione della sfera delXimmanenza cosciente, che rimane inalterata e ricca di tutti i suoi contenuti anche quando ogni for¬ ma di trascendenza, ogni “oggetto” dell’esperienza si dissolva.7

L’epoche “non-cartesiana” La possibilità di principio di una simile epochè “cartesiana” non viene ritrattata da Husserl neppure negli scritti successivi; tuttavia nelle opere più tarde egli sembra dubitare della fecon¬ dità di questa posizione, che “rileva l’ego trascendentale in una apparente mancanza di contenuto”8; e si propone perciò “il com¬ pito di indicare concretamente le vie di una reale attuazione della riduzione trascendentale.”9 Infatti, il senso di una “riduzione” della certezza all’immanenza del “cogito” è si quello di mostrarne l'assolutezza rispetto alla totale relatività (dubitabilità) delle tra¬ scendenze. Ma nello stesso tempo questa epochè dovrebbe garan¬ tirci un terreno abbastanza solido sul quale operare una critica delle trascendenze falsamente costituite, e procedere a una rico¬ stituzione corretta del mondo; qualora, almeno, dal nuovo osser¬ vatorio dell’immanenza l’esperienza torni a ripresentare dei con¬ tenuti concreti e la possibilità di “oggetti.” Ora pero, per il fatto di aver abbandonato “con un salto” le connessioni effettive del¬ l’esperienza, non siamo più in condizione di ritrovare, se non con un altro “salto,” quel mondo che dev’essere ricostituito. Con questa riconsiderazione critica dell’“epochè” l’ipotesi annichilatoria non viene soppressa: essa rimane sottintesa come una vuota possibilità, al limite dell’esperienza, o piuttosto come una operazione metodica che noi possiamo sempre compiere, portando 6 A fianco della scepsi cartesiana delle Meditazioni, un’altra vera e propria "annihilatio mundi” (di un senso differente) si ritrova in Hobbes (cfr. nota 19), dal quale probabilmente Husserl desunse il termine Weltvernichtung. 7 Cfr. Idee I, § 49. 8 Crisi delle scienze, p. 182. 9 Op. cit., § 42 (titolo).

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al limite i contrasti impliciti nella nostra esperienza effettiva. Ma questa anticipazione ideale dell’esperienza-limite della dissoluzio¬ ne del mondo, che occupa una posizione cosi essenziale nella chia¬ rificazione gnoseologica di Idee I,10 non offre grandi appigli per una considerazione deH’esperienza effettiva. È per questo motivo che Husserl, in seguito, preferisce atte¬ nersi a una critica trascendentale dell’esperienza e della scienza in atto}1 L’esperienza reale ci presenta di fatto un insieme di sensi che possono fin d’ora essere indagati e sottoposti alla critica. Nel¬ lo spirito di Idee 1 l’epochè “cartesiana,” esercitandosi preliminar¬ mente, doveva servire a spazzare il campo da ogni costruzione il¬ legittima: su questo terreno liberato si sarebbe poi proceduto a una ri-costituzione del mondo, purificata da ogni scoria del pas¬ sato. Ma proprio questo tentativo — che doveva corrispondere al secondo volume delle Idee, non a caso restato inedito — rivelerà a Husserl la grande difficoltà di prescindere dai significati già fungenti, pur con tutte le loro oscurità, nella tradizione: di qui la tendenza, nelle Meditazioni cartesiane, nella Logica, nella Crisi, a considerare l’epochè piuttosto come un’intenzione costan¬ te che non come una emendano effettuata una volta per tutte, e nello stesso tempo ad accettare il mondo delle scienze già date come terreno concreto della ricerca, in cui le singole formazioni di senso anticipate richiedono passo passo una riconversione tra¬ scendentale.12

10 Sul significato dell 'epoche in Husserl, come pure sulle nozioni di immanenza e trascendenza, avremo occasione di fermarci in altri punti del testo, pur senza proporci minimamente di affrontare nel suo insieme questa complessa problematica. Per il nostro scopo sono sufficienti le considerazioni seguenti di questo stesso capitolo. Osserviamo sol¬ tanto, come un fatto significativo, che la prima esposizione della “riduzione trascenden¬ tale” è quella di Idee der Phànomenologie (1907), scritta per introdurre l’inedita Lezione sulla cosa (Dingvorlesung). Nel III capitolo accenneremo all’importanza rivoluzionaria della “costituzione della cosa” servendoci di quella che è la sua principale esposizione edita (postuma), cioè Idee 11. Notiamo infine che l’esposizione piu matura e piu ricca di problemi AeW'epoché è quella contenuta nella III parte della Crisi, dove il tema del “mondo della vita” si trova in un complesso rapporto con quello del mondo “originario” lumeggiato con le parole di Husserl alla precedente nota 3. 11 Questa tendenza si esprime già nettamente nelle lezioni di Friburgo tenute nel 1923-’24 e pubblicate come Erste Philosophie (cfr. il II volume, Theorie der phanomenologischen Redtiktion), dove assistiamo all’insorgere, accanto alla “via cartesiana” bat¬ tuta in Idee /, di una molteplicità di nuove vie della riduzione alla soggettività tra¬ scendentale. Cfr. in proposito l’introduzione di R. Boehm al volume citato. 12 Alla repentinità deW'epoché cartesiana, che toglie di mezzo ogni oggettività co¬ stituita, si sostituisce nella Crisi la radicalità non minore della “conversione” trascenden-

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Duplice significato della scepsi Noi non sappiamo — si stava dicendo — a cosa approderà la nostra ricerca: se allenita concordante di un’esperienza sempre aperta verso un approfondimento ulteriore, o alla completa nega¬ zione della sua stessa possibilità. In linea di principio l’annichilazione resta possibile. Si tratta però, naturalmente, di una possi¬ bilità vuota, giacché naturalmente lo stile complessivo dell’espe¬ rienza data ci anticipa in modo convincente la possibilità di una sua risoluzione unitaria.13 Con ciò il nostro tentativo di una ritra¬ duzione in termini trascendentali dell’esperienza effettiva può già essere avviato. La coscienza immediata del mondo in cui viviamo, in cui alle acquisizioni dirette delle percezioni si confonde un “sapere” (non sempre conosciuto come tale) tramandatoci dalla educazione e dalle scienze già esistenti, questa coscienza “inge¬ nua,” fatta di opinioni e di credenze, rappresenta pur sempre un sfera di senso (e magari di sensi parzialmente contradittorì) sul quale possiamo esercitare la critica, a proposito del quale pos¬ siamo porre la questione della legittimità, che è anche la questione dell’origine.14 Qui il fatto di dover riconoscere il fondamento solo soggettivo (e soggettivamente relativo') di tutto ciò che si presenta a noi come un “senso” non ci mette per nulla nell’imbarazzo: alla scepsi viene riconosciuto proprio questo, il carattere soggettivo-relativo di tutto ciò che del resto abbiamo già dichiarato og¬ getto di “semplice credenza.” Ma, naturalmente, il decorso della ricerca è sorretto dall’aspettativa (un’aspettativa che, in linea di

tale, quella di un atteggiamento costante rivolto verso i modi dell’offerenza soggettiva del mondo già dato. Per la differenza da un semplice atteggiamento di critica portato di volta in volta e gradualmente sulle singole offerenze, cfr. il § 40 della Crisi. Natural¬ mente bisogna evitare di interpretare queste descrizioni delle varie epoche, che rappre¬ sentano i vari modi di una vera “odissea dello spirito” fenomenologica effettivamente percorsa e ripercorribile (e che perciò sono inseparabili dal terreno concreto di esperienza su cui si esercitano), con delle “tecniche” (o esorcismi) applicabili a piacere (come nel¬ l’interpretazione di Lukacs e di Adorno, su cui torneremo nella III parte). 13 Idee I, § 49, p. 106: l’empiria “secondo i suoi modi (cioè non apoditticamente) rende indubbio" quel nesso di concordanze e di regole che costituisce il mondo della nostra credenza. Si tratterà però di vedere se la nostra credenza, "soggettiva e relativa,” comporti (e in che senso) le tesi predicative implicite, per esempio, nella moderna scienza della natura. Su questo problema, che è tipico della Crisi, cfr. il ns. c. III. 14 Secondo lo sviluppo sempre piu esplicito in Husserl e per il quale cfr. oltre la Crisi anche Logica formale e trascendentale e Esperienza e giudizio.

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principio, potrebbe sempre risultare delusa) che le relatività e le contraddizioni dell’esperienza possano essere “svolte” progressi¬ vamente, le oscurità chiarite, le contraddizioni eliminate. Se e come questa aspettativa debba essere confermata, solo l’esperienza ulteriore può deciderlo. Su questa strada, la scepsi e la critica non rappresentano in alcun modo qualcosa di esterno alla ricerca fe¬ nomenologica. La loro possibilità, che è già garantita di principio dall’ipotesi dell’annichilazione del mondo, va passo passo com¬ provata, senza limiti possibili. La scepsi non è allora che uno dei momenti fondamentali della ricerca. Cominciamo cosi a intravedere il duplice significato della scepsi e — correlativamente — della credenza. A un senso della scepsi (quello qui sviluppato e che noi accettiamo come possibilità di dubbio sempre implicita nell’esperienza) se ne contrappone un altro: quello di una scepsi che in realtà è estranea all’esperienza, e che infatti si esercita brillantemente solo su costruzioni specula¬ tive, su trasposizioni inadeguate, infondate dell’esperienza. Que¬ sto secondo significato si chiarirà meglio in seguito, ma possia¬ mo già anticiparlo a proposito della tradizionale contrappo¬ sizione tra credenza e scienza (o tra opinione e verità). Si pen¬ si ancora a Hume, il quale, pur avendo sviluppato nel Treatise una vera e propria logica interna dell’esperienza, che implica il chiarimento dell’origine della credenza nelle operazioni immaginativo-associative, si affretta anche a precisare che, per l’appunto, quello che viene cosi chiarito e motivato è il terreno del semplice belief, dell’opinione soggettiva, che travalica ciò che effettivamente ci è dato e non testimonia nulla circa un qualsiasi essere effettivo delle cose. La scepsi humeana, a questo livello, ha un significato autentico solo in quanto mette in crisi il sapere filosofico e scien¬ tifico del suo tempo (e certo, per molti aspetti, anche del nostro tempo), che si atteggiava come un sapere dell’"in sé.” Ma la ban¬ carotta della conoscenza ha potuto essere proclamata solo perché Hume non ha tematizzato esplicitamente l’assurdità di questa no¬ zione e non ne ha saputo indicare l’origine in una operazione fe¬ ticistica conseguita quasi inconsapevolmente alla prassi della scien¬ za moderna; in altre parole, perché non è pervenuto a una pre¬ cisa distinzione tra il senso che le cose hanno per noi, ma in quan¬ to si tratta pur sempre delle cose stesse, e la mancanza radicale di

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significato dell’“in sé” fisicalistico. Cosi come, d’altra parte, egli ha potuto degradare la sfera del belief a qualcosa che non ha ri¬ lievo scientifico, suggerito da un’operazione arbitraria dell’imma¬ ginazione, solo per il fatto di aver “ricostruito” secondo una teo¬ ria fittizia la stessa esperienza sensibile, smembrata arbitrariamen¬ te in elementi autonomi, irrelati, che gli hanno impedito di ve¬ nire in chiaro sulla Unitarietà dell’esperienza, come esperienza sensibile e come credenza.15

he “cose stesse” Prendiamo ora in considerazione il tema husserliano delle “cose stesse,” non semplicemente come l’affermazione della neces¬ sità di andare oltre le dispute verbose e le teorie presupposte, ma come l’affermazione di una possibilità effettiva della conoscenza. Non si tratta soltanto di un programma o di una sollecitazione. Nel rinvio alle cose stesse è implicita un’importante analisi filoso¬ fica, in base alla quale la nostra conoscenza viene considerata come vera conoscenza di cose e di stati di cose, con cui la coscienza vive un rapporto “diretto,” e non di desunzione mediata o analogica. La documentazione di questo carattere di presa sulla realtà “stessa” viene fornita da Husserl nella sua analisi della differenza tra una conoscenza intuitiva e una per segni o immagini, e con la critica delle importanti tendenze della filosofia moderna che riducono le nozioni scientifiche e filosofiche appunto a segni o a immagini della realtà, quando pure non concludono dichiaratamente in forma scettica concependole come semplici finzioni. Naturalmente il tema delle “cose stesse” ci impegna anche a un confronto con il significato dell’“in sé” che, nelle filosofie moderne nate sotto l’influenza della fisica galileiana, occupa in apparenza il medesimo “luogo” conoscitivo. In realtà si rivela in¬ vece facilmente la parentela che lega la nozione di un “in sé” inattingibile all’intuizione e privo di una presenza “originale” nei fenomeni, con le conclusioni scettiche diffuse nelle contempora¬ nee teorie della conoscenza. 15 Sul nesso credenza, esperienza, evidenza, cfr. la nota 23 del c. II.

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La filosofìa moderna sperimenta molto presto questa proble¬ matica, che presenta una continuità chiaramente accertabile anche nel pensiero contemporaneo. Non ne faremo qui la storia, ma ac¬ cenneremo soltanto ad alcuni momenti chiave, senza alcuna pre¬ tesa di completezza.

L’“in sé” e la scepsi della nuova scienza La distinzione-base del metodo scientifico galileiano, tra le qualità che verranno dette “primarie” e le “secondarie,” corri¬ sponde alla distinzione tra un mondo reale, in sé sussistente, e un mondo di apparenze soggettive, ingenerate dal precedente. Così, la stessa distinzione equivale anche a quella tra una sensibilità condannata ad agitarsi in un mondo di ombre e una ragione (che ha il suo modello nel pensiero matematico) cui viene riconosciuta la facoltà di accedere (sia pure gradualmente) aH’“in sé.” Questo modo di vedere, tuttavia, non venne condiviso, fin dal¬ l’inizio, da tutti i filosofi della nuova scienza. Senza che — per lo piu — venisse messa in discussione la validità interna del pen¬ siero matematico, i dubbi nacquero a proposito della rilevanza og¬ gettiva (nel senso di meta-soggettiva, concernente dunque l’in sé) delle “qualità primarie.” Assai prima che Hume dichiarasse il fal¬ limento delle ambizioni oggettivistiche della scienza, la scepsi si era già insinuata profondamente nella sua tematica. Cartesio l’aveva annunciata nella sua prima “meditazione,” e il suo ulteriore ten¬ tativo di ricostruzione razionale non sarebbe bastato a contenerla. Indipendentemente da ogni discorso sull’in sé, l’intero mondo del conoscere si stava trasformando in ipotesi e in finzione.16

16 Si parla qui preferibilmente di “scepsi” piuttosto che di “scetticismo.” Infatti mentre non si ritrovano che eccezionalmente esplicite conclusioni scettiche nei filosofi ai quali stiamo per accennare, d’altra parte un “momento” teoretico di scepsi effettiva agisce oggettivamente aH’interno delle loro teorie, nel senso di escluderne la portata ontologica. Per una sintesi documentata di questi motivi piu o meno esplicitamente scettici neH’occamismo, nelle varie correnti rinascimentali e all’inizio della “nuova scienza” gali¬ leiana, cfr. Arrigo Pacchi, Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas Hobhes, Firenze, "La Nuova Italia," 1965, pp. 9-13. In particolare, a propo¬ sito di Mersenne e di Gassendi, “ci possiamo rendere conto di come lo scetticismo che stava corrodendo inesorabilmente la tradizionale struttura del pensiero e della cultura di impronta aristotelico-scolastica non fosse privo di potere infiltratorio e di suggestione nep-

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È facile afferrare che la netta separazione di un “in sé” dal nostro mondo sensibile costituisce uno dei punti di arrivo del metodo della “nuova scienza” galileiana, della sua polemica contro il procedere ingenuo di una filosofìa della natura succube, ad ogni passo, dell’accidentalità incontrollata dell’esperienza di¬ retta. La nuova scienza nasce dalla coerente, intenzionale ridu¬ zione del sensibile a vantaggio di un metodo oggettivo e garante dell’oggettività.17 Se i sensi ci illudono, soltanto ricorrendo a una ratio come quella fornita dalle scienze matematiche potremo ga¬ rantirci un accesso alla sfera della realtà. Questa è l’opinione di Galileo18 e, come è noto, è questa la base su cui si sviluppa, nel

pure nei confronti di questi solidi cultori di matematiche e di scienza galileiana.” Pacchi ricorda l’espressione di “scetticismo costruttivo” usata da Richard H. Popkin (The History of Scepticism from Erasmus to Descartes, Assen, 1960) a proposito di questi pensatori che si sforzano di superare la inevitabile scepsi sui sensi ricorrendo alla discriminazione razionale, che procede contrapponendo senso a senso e correggendo — come si esprimerà Hobbes — il senso col senso. Al gruppo degli “scettici costruttivi” Pacchi avvicina anche Hobbes, trovando uno dei principali elementi comuni appunto nella “convinzione che la scienza possa e debba prendere le mosse esclusivamente dal senso,” che va corretto ricor¬ rendo al confronto delle sensazioni. La "ragione” che disciplina tale confronto è “una ragione ‘empirica,’ che non fornisce contenuti suoi propri, una ragione condizionale, che non può vertere su giudizi di esistenza: in poche parole, una ragione come strumento formale.” L’espressione di "scetticismo costruttivo” sta perciò qui a indicare la posizione di chi assume (anche in funzione antiaristotelica) la- scepsi sul sensibile ma cerca di su¬ perare lo scetticismo mediante il confronto dei sensi, sotto la regia di una ragione for¬ male. Hobbes tuttavia, secondo lo stesso Pacchi, sviluppa ulteriormente la scepsi (cfr. le nostre note 19 e 20). La sua posizione perciò sembra già preludere — certo solo in forma implicita — a quello che noi (in riferimento alle osservazioni svolte nel prece¬ dente capitolo) potremmo chiamare (rovesciando l’espressione) un “costruttivismo scet¬ tico”: la ricostruzione del mondo, cioè, in via meramente ipotetica o infine — come accadrà con Hume — dichiaratamente “ficzionistica”: dove le conclusioni non appaiono meno scettiche per il fatto di essere accompagnate da una costruzione esplicativa. 17 Cartesio, nel dialogo Recherche de la verità par la lumière naturelle, mette sulla bocca di Eudosso parole di critica nei confronti di coloro che “essendosi figurati che al di là delle cose sensibili non vi fosse nulla di più solido su cui fondare la loro credenza, hanno costruito su quella sabbia anziché scavare più a fondo per trovare della roccia o dell’argilla” (Descartes, Oeuvres, ed. Adam-Tannery, Parigi 1908, voi. X, p. 513). 18 In Galileo si possono distinguere nettamente due movimenti di pensiero: il primo è quello che ne fa il difensore dell’esperienza sensibile, contro l’autoritarismo libresco degli aristotelici. È all’occhio umano, potenziato dal cannocchiale, che sembra spettare la decisione di ogni controversia. Le pagine del Sidereus Nuncius — evocate in noi oggi dalle notizie e dalle immagini della cronaca — ci trasmettono ancora l’entusiasmo della scoperta visiva, di un vedere elementare a partire dal quale d’allora in poi — lo sen¬ tiamo — dovrà prendere le mosse ogni ulteriore "teoria” della natura. Ma qui interviene il movimento inverso, che consiste in una vera “riduzione” si¬ stematica dell’esperienza sensibile. Infatti, in Galileo, “la stessa sensazione, via via che il problema in essa conte¬ nuto veniva inteso in modo sempre più chiaro e acuto, riconduceva all’esigenza del¬ l’analisi matematica, in cui il concetto trovava ora un nuovo essere e una nuova forma. Con il sorgere e il progressivo approfondirsi di questo nuovo punto di vista si produce

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pensiero moderno, la distinzione tra qualità primarie, oggettive, delle cose del mondo, e qualità secondarie, indotte presumibil¬ mente nei soggetti da altri momenti non ben conosciuti dell’oggettività, che la conoscenza scientifica deve proporsi di ricono¬ scere e ritradurre matematicamente. La meccanica galileiana for¬ nirebbe cosi almeno uno scheletro infinitamente integrabile dell’oggettività stessa, integrabile appunto nel senso di una ritradu¬ zione sistematica secondo “qualità primarie” di quelle immagini rifratte, soggettivamente deformate, che i nostri sensi ci comuni¬ cano con la loro “grossolanità.”

La scepsi cartesiana Quando questo schema viene sottoposto da Cartesio a una pri¬ ma radicale riflessione filosofica, la situazione (che era già prima assai più complessa di quanto non ci siamo accontentati di espor¬ re) si differenzia ulteriormente. Tralasciando altri aspetti, per al¬ tro fondamentali, ricordiamo solo due processi del pensiero carte¬ siano. Da una parte esso, con il suo dubbio radicale (che esaurisce in anticipo tutte le tappe ulteriori della scepsi conoscitiva) dissolve l’intero mondo extra-coscienziale, e con questo tutta la sfera dell’oggettività galileiana, ancor prima di aver deciso se essa sia “in tra i due termini del contrasto [sensibilità e concetti] un completo capovolgimento [...]: è la singola percezione a venir considerata ora un ‘nome’ arbitrario, poiché non può essere risolta in una pura determinazione quantitativa che la confermi. Possiamo impa¬ dronirci del vero oggetto della natura solo se impariamo a fissare nel mutare e nell’avvicendarsi delle nostre percezioni le regole necessarie e universalmente valide” (Cassirer, Das Er\enntnisproblem, tr. it.: Storia della filosofia moderna, Torino, 1952 sgg., I, p. 436). Il criterio di questa "fissazione” e riduzione dell’esperienza (che comporta la fis¬ sazione di "qualità primarie” e la riduzione delle “secondarie”) è dato dalle condizioni di applicabilità dell’analisi "matematica” in senso lato. Galileo, in un passo famoso del Saggiatore, vuol presentare questa decisione nei confronti dell’esperienza come una sol¬ lecitazione che proviene dall’esperienza stessa: "ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola [...], né per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce [...] non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da tali condizioni necessariamente accompagnata.” Pensa cosi che queste qualità "tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, si che rimosso l'animale, sieno levate et annichilate tutte queste qualità.” (A G. Sembra ovvio separare i sensi dal "discorso” e dall’"immaginazione”) (Opere, Milano-Napoli, ed. Flora, Ricciardi, dd. 311-312).

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se” matematica o no. Non solo, ma la stessa legalità interna della matematica e della geometria, la somma del tre e del due, il nesso reciproco degli elementi del triangolo, si sfalda davanti all’ipotesi del “ Dio onnipotente ” o del “ genio maligno. ” È noto però anche come, sotto l’ipotesi del “Dio perfetto” e “verace,” Cartesio si preoccupi di ricuperare e garantire di nuovo il mondo già perduto, e in questo secondo movimento del suo pensiero le verità “chiare e evidenti” che sono tipiche del conoscere matematico riprendono terreno munite di quella apoditticità che sembrano condividere con l’idea dell’Essere supremo. Il dubbio e l’errore restano ancora possibili, ma proprio — e solo — nella sfera del sensibile e delle sue risultanze incerte e confuse, che ci rinchiudono tra le appa¬ renze infinitamente lontane dell’“in sé.” D’altra parte, la meditazione scettica non è stata senza conse¬ guenze per gli interessi della gnoseologia, nonostante l’intervento rasserenante del Dio verace. Quanto si richiede a questa suprema Autorità è infatti di garantire la qualifica delle idee (che, in ogni caso, sono l’unico patrimonio della nostra coscienza) a riferirci su un mondo che è esterno alla coscienza e che appunto, secondo l’ipotesi blasfema di un Dio potente e non amorevole, potrebbe invece essere affatto diverso, o non essere affatto. Proprio in que¬ sto spazio che divide la sfera della coscienza e delle relative idee (e idee, cioè rappresentazioni della coscienza, sono anche quelle “semplici” e “universali” delle matematiche) da un assoluto “in sé” delle cose, troveranno posto tutti gli “idealismi” soggettivistici e le ipotesi scettiche perpetuamente rinnovate. Rinchiudendo an¬ che le idee “chiare e distinte” dentro la sfera senza aperture della coscienza, allo stesso titolo delle “idee” confuse del sensibile, Car¬ tesio obbediva certamente a una coerenza razionale, ma in ogni caso il risultato era quello di sbarrare alle une come alle altre ogni via di accesso alle “cose stesse.” Riassumendo, il dramma interno alla gnoseologia galileiano¬ cartesiana sta nel fatto di avere innanzitutto sottratto il mondo reale alla portata del sensibile, di avere inoltre differenziato nel modo piu netto la ratio oggettiva dal sensibile, come per garan¬ tirsi un principio di orientamento sul reale, e di avere scoperto poi l’infinita distanza, il vuoto che separa la stessa ragione dal1 in se.

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L’ipoteticismo di Hobbes Naturalmente il rilievo della situazione scettica in cui viene a trovarsi la filosofia moderna con Cartesio rappresenta una con¬ siderazione storico-critica, che non coincide con le sue intenzioni e convinzioni profonde di uomo di scienza. Nelle intenzioni di Cartesio la dubitabilità del mondo non è il risultato finale, e la sussistenza di una realtà extra-mentale è garantita da una fiducia incrollabile nella razionalità del tutto e nella veridicità della co¬ noscenza scientifica. Tuttavia i pensatori successivi non potevano evitare di trarre le necessarie conseguenze dall’impostazione gali¬ leiano-cartesiana; ed è in questo senso che le vere conclusioni di questo processo si trovano nel dichiarato scetticismo di alcuni suoi contemporanei, e in modo particolare di Hobbes. Quest’ultimo in¬ fatti, dopo aver percorso, con la sua ipotesi “ annichilatoria, ” un passaggio metodico per qualche tratto analogo alla scepsi radicale cartesiana, e dopo aver ridotto quindi la realtà intera al patrimo¬ nio mnemonico di un solo essere pensante, quando si propone pro¬ blemi di “ricostruzione” lascia deliberatamente da parte ogni ga¬ ranzia divina e ogni fiducia nella portata ontologica dell’evidenza razionale, e si impegna a ricuperare, come semplici immagini mentali, le nozioni fondamentali, di spazio, di corpo e movimento, dalle quali l’intera realtà può essere costruita per via rigorosa¬ mente deduttiva.19 Noi ritroveremo presto il problema del rapporto tra l’“in sé” e la sua “ immagine ” ; per il momento ci basta tener presente quale

” In base alla sua annihilatio mundi (cfr. p.es. il testo del De corpore II, 7. 1 in Opera latina, a cura di W. Molesworth, London, 1839-’45, I, pp. 81-82), si arriva in Hobbes alla semplice ipoteticità delle nozioni di corpo e di spazio, le quali potrebbero sussistere anche qualora l’intero mondo venisse cancellato, purché si salvasse un solo in¬ dividuo dotato di memoria, cioè ancora in possesso di un bagaglio di immagini. A questo punto, come mette in rilievo A. Pacchi, l’esteriorità corporea è solo supposta “per l’esi¬ genza di spiegare la genesi delle immagini”: "dall’immagine di un corpo si risale me¬ diante un procedimento razionale al corpo esterno, il corpo 'reale* in contrapposizione all immagine, ma se dobbiamo fare una questione di reale esistenza, siamo costretti a concludere che del corpo reale non siamo in grado di provare la 'reale* esistenza, ma solo di supporla: in definitiva, ciò che realmente esiste è solo l’immagine." “Tutto questo non significa che Hobbes non fosse convinto dell’esistenza dei corpi: le ‘scivolate’ o ‘distrazioni’ realistiche sono anzi abbastanza frequenti [...]. Ma ciò di cui Hobbes fosse convinto in privato poco importa, se non incide sulla sua metodologia ecc.” (op. cit., pp. 94-95). Cfr. su questo problema le critiche mosse da Hobbes a Cartesio (Terze obie¬ zioni alle Meditazioni).

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e la situazione di fronte a cui si trova il filosofo inglese dopo avere “superato lo stadio realistico baconiano” ed avere assunto “un atteggiamento ben piu radicale di quello dello stesso Carte¬ sio.” Aderendo al comune atteggiamento “galileiano,” anche Hobbes distingue tra qualità solo soggettive, e qualità matematizzabili, che dovrebbero essere “simili alla realtà,” e quindi oggettive. Te¬ nendo conto di questa distinzione, che imporrebbe la ritraduzione delle qualità secondarie in primarie per arrivare a saldare le im¬ magini mentali con il mondo in sé, non sembra possibile parlare, per Hobbes, di un realismo “diretto” e “ingenuo”20; “ma d’altro canto la posizione hobbesiana non è neppure assimilabile a un realismo ‘platonico’ qual è quello rilevato come operante nella fisica galileiana dal Koyré. Anche per le idee relative alle qualità primarie vale infatti pur sempre la distinzione fatta valere prece¬ dentemente da Hobbes, secondo cui, pur se le consideriamo come provenienti dall’esterno, noi possiamo solo affermare che esse ‘ci appaiono’ tali; tutto quel che si può dire, è che l’uomo sente una sorta di irrefrenabile inclinazione a considerarle come copie con¬ formi degli oggetti extramentali, come fedeli riproduzioni della realtà oggettiva, senz’altra garanzia.” “Sicché, mentre per il Galilei la necessità di concepire qual¬ siasi oggetto come posto nel tempo, nello spazio, nell’estensione, ecc., costituisce sufficiente garanzia del rilievo oggettivo di tali con¬ cetti fuori dalla mente, Hobbes si limita a distinguere concetti chiaramente soggettivi da concetti che fanno un riferimento non garantito ad una supposta realtà esterna, che cioè ci si presen¬ tano come se avessero una rispondenza effettiva in una tale realtà.” Se è giusta questa interpretazione anti-realistica del materia¬ lismo hobbesiano,21 proprio Hobbes può rappresentare ai nostri occhi il caso-limite, e il modello piu rigoroso, della frattura incol¬ mabile tra il mondo della coscienza e quello delle “cose stesse.” 20 Quale sembrerebbe risultare dalla metafora della mente umana come specchio del mondo, più volte ripresa nelle opere di Hobbes, e che contrasta con la tendenza sempre più " ipoteticistica” del suo pensiero. Cfr. su questo punto e sui precedenti del¬ l'immagine speculare, il c. II del citato lavoro di A. Pacchi. Cfr. p. 59: la stessa spe¬ cularla della mente [...] non può che risultare ipotetica.” 21 A. Pacchi, op. cit., pp. 58-59 e p. 78. Il carattere non "realistico” ma “ipo¬ tetico” del materialismo hobbesiano era già stato sostenuto da P. Natorp (Descartes Er\enntnistheorie, Marburg, 1882).

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È anche vero, d’altra parte, che questo rigore viene conqui¬ stato da Hobbes attraverso un faticoso lavoro di auto-superamento, nel corso del quale affiorano a tratti le difficoltà di questa sua “riduzione” del reale. Noteremo solo un particolare: Hobbes non separa nettamente come Cartesio la ragione dai sensi e anzi con¬ sidera la ragione soltanto un prolungamento dell’attività sensibile, in quanto cioè fin dall’inizio è già il senso stesso che corregge il senso}1 Con ciò, naturalmente, abbiamo un motivo di piu per ne¬ gare alla ragione una portata ontologica; ma per quanto concerne i sensi, rimane ben curiosa questa coesistenza, in Hobbes, di una correggibilità interna all’esperienza sensibile, la quale sembra al¬ ludere a un senso teleologico dell’esperienza stessa, e di una og¬ gettività meramente ipotetica, dalla quale i sensi “sembrano” (sembrano soltanto, per carità!) trarre lo spunto. Abbiamo qui già prefigurata la situazione che sarà anche quella di Hume e del suo beliej, al quale quest’ultimo si ostina a negare rilevanza “ogget¬ tiva.” Ed abbiamo nel modo più chiaro la definizione del duplice senso della ipoteticità del mondo, che costituisce il preciso corre¬ lato del duplice significato della scepsi già messo in luce all’inizio del capitolo. Da un lato l’ipoteticità permanente dell’espe¬ rienza del mondo significa la sua infinita correggibilità, l’impos¬ sibilità di esaurire attualmente la totalità dell’esperienza, e, al tem¬ po stesso, significa il rilievo di un suo senso teleologico, il cui li¬ mite ideale dovrebbe costituire, dal nostro punto di vista, il pre¬ sentarsi della cosa stessa. Dall’altro approdiamo all’ipotesi immo¬ tivata di un mondo “come se,” costruzione del tutto gratuita, frutto della mitizzazione preliminare di un In sé trascendente sia rispetto ai sensi che alla ragione. E arriviamo, in stretta relazione con la mera “ipoteticità” del mondo, a una decisa interpretazione “ convenzionalistica ” dei concetti elaborati dal sapere scientifico.23 In Cartesio, come in Hobbes, il mantenimento dello schema esplicativo che procede dall'in sé per ingenerare nel soggetto delle “immagini” o delle “idee,” è inseparabile dalla scepsi più com¬ pleta nei confronti dell’oggettività. Hobbes era partito da un’ipo-

22 Cfr. The Elements of Law a cura di F. Tònnies, London 1889, p. 7. 23 Cfr. su questo i capitoli VI-VII-VIII dell’op. cit. di A. Pacchi.

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tesi speculare” che ha antecedenti rinascimentali e medievali; ma la dinamica interna dei concetti di cosa e di immagine lo costrin¬ ge a distanziarsi sempre piu dall’ingenuità di un realismo fondato su una corrispondenza di parte a parte. Ed è cosi che — con una contraddizione rimasta implicita nel suo linguaggio — egli deve far posto all’ipoteticità assoluta del mondo esterno, dove l’immagine, essa stessa ipotetica in quanto tale (che si tratti di una imma¬ gine di qualcosa d’altro è una semplice ipotesi), costituisce il sup¬ posto riflesso di un mondo “come se.” Ben più complesso, natu¬ ralmente, è il tentativo di Cartesio che, a differenza di Hobbes, si sforza di conservare l’oggettività del conoscere facendo asse¬ gnamento sulla radicale distinzione tra il senso e l’intelletto, ma che separa non meno nettamente le idee (concepite tutte quante, comprese le “primarie,” come “quadri o immagini delle cose”24) dall’esteriorità del mondo: “je ne puis avoir aucune connaissance de ce qui est hors de moi que par l’entremise des idées que j’en ai eues en moi.”23 Se le idee o le immagini non costituiscono che il segno impresso dal sigillo delle cose in noi,26 noi siamo chiusi in un’interiorità di coscienza al di fuori della quale si apre l’infinità delle ipotesi modificatrici del mondo, fino al suo possibile annul¬ lamento o alla sua sostituzione con Dio o con il Maligno.27 24 111 Meditazione (Oeuvres, ed. Adam-Tannery, cit., IX, p. 29). 25 Lettera al Padre Gibieuf del 19 gennaio 1642. 26 Cfr. p.es. i passi riportati in Jean Laporte, Le rationalisme de Descartes, Parigi, P.U.F., 19502, p. 81, nota 2. Dello stesso libro cfr. in generale il capitolo Les objets de la connaissance, pp. 77 sgg., anche per il rapporto tra la dottrina cartesiana delle idee e l’intenzionalità in Husserl (p. 81, e facendo la tara, naturalmente, della “rassomiglianza” a una "esteriorità,” che per Husserl è un non senso). 27 II nostro discorso sull’aspetto ipotetico-scettico della scienza moderna alle sue origini si riferisce ai problemi conoscitivi in senso ontologico, al problema dell’esistenza di un mondo esterno, del rapporto tra il mondo e la coscienza ecc. Lo stesso discorso non vale necessariamente per quei “modelli” di esplicazione di cui si serve normalmente lo scienziato nel suo lavoro di ricerca e di trasposizione immaginativa a fine comunicativo. Un esempio interessante è dato già da Cartesio e dai suoi modelli di spiegazione mec¬ canica (cfr. p.es. quello della nave utilizzato per spiegare il comportamento dei succhi e degli elementi che si muovono in uno stelo d’erba; cfr. Gianni Micheli, introduzione alle Opere scientifiche di René Descartes, voi. I, La Biologia; Micheli si occupa in gene¬ rale del significato scientifico di questi modelli in Cartesio). I modelli cartesiani sosti¬ tuiscono la percezione diretta (resa impossibile dalle dimensioni dell’oggetto) e consentono un ragionamento analogico che naturalmente riveste assai spesso un carattere ipotetico. Ma questa ipoteticità non costituisce un arbitrio esplicativo: i modelli possono essere per¬ fezionati o sostituiti quando p.es. nuove realizzazioni tecniche (il microscopio, il tele¬ scopio, le telefoto ecc.) consentono un avvicinamento maggiore alle condizioni "ottimali” dell’esperienza. Un caso analogo a quello indicato per la biologia di Cartesio è rappre¬ sentato dalla situazione degli scienziati all’inizio dell’età moderna, indecisi su differenti

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Questa strada, già percorsa dai maggiori filosofi della scienza del secolo XVII, anticipa quella dialettica di posizioni che ancora ricorre nel pensiero positivistico del secolo XIX, quando si assiste all’esibizione di tutte le sfumature di un realismo per “immagini” (nel materialismo dialettico), oppure “trasfigurato” (Spencer), op¬ pure ancora (in rapporto con un’interpretazione piuttosto super¬ ficiale del “kantismo”) semplicemente dichiarativo dell’in sé, come in Helmholtz, che con la sua sostituzione di “simboli” o “segni” alle “immagini” sembra guadagnare qualcosa quanto a consape¬ volezza critica, ma segue in realtà soltanto un cammino diverso per allontanarsi dal mondo.28

L’in sé e l’Apparenza Ma nel frattempo la scepsi per cosi dire “trattenuta” che ab¬ biamo già rilevato in Cartesio e in Hobbes, si apre una propria strada autonoma nella filosofia moderna. Superata, già con Berke¬ ley, l’illusione di una gerarchia tra la portata conoscitiva delle qualità primarie e secondarie, il pensiero soggettivista non vuol piu ammettere vere conoscenze al di fuori dei dati di impressione sistemi equipossibili di spiegazione dei fenomeni celesti. Ma l’equipossibilità teorica (il¬ lustrata tra l’altro proprio da Hobbes) di questi modelli può essere improvvisamente su¬ perata, p.es. il modello copernicano può ricevere una convalida (inserirsi in una più completa concordanza dell’esperienza), o una “prova” vera e propria. Questo senso dell’ipoteticità è perciò essenzialmente diverso da quello gnoseologico-ontologico, in base al quale questioni come quelle dell’esistenza di un mondo in sé, della sua corrispondenza a quella che viene considerata (naturalmente per un arbitrio teorico) la sua semplice im¬ magine ecc., sarebbero essenzialmente non decidibili, e ciò proprio sulla base delle pre¬ messe "costruttive” della gnoseologia moderna. L’ipoteticità dei modelli è qualcosa che attende una verifica (anche se questa può essere resa impossibile dalle condizioni attuali dell’esperienza), mentre quella intesa in senso ontologico esclude a priori ogni verifica. 28 Cfr. H. Spencer, First Principles (1862). La teoria materialistico-dialettica della conoscenza come riflesso, assai più che in Engels, presso il quale appare combinata con il criterio della pratica” (qualcosa come un solvitur ambulando operato dall’esperimento e dall’industria nei confronti della "cosa in sé” kantiana, come nel suo Ludwig Feuerbach del 1888; The proof of thè pudding is in thè eating, come egli dichiara in un altro scritto) si trova in Lenin, Materialismo e empiriocriticismo (1909). Sicché quando, in quest’opera, Lenin polemizza con le affermazioni del neo-kantiano Helmholtz (nel Handbuch der physiologtschen Optili, 1856-’66) noi assistiamo a un conflitto tra la "teoria deH’immagine” e quella dei “segni,” per la critica delle quali rimandiamo al III capitolo di questo ns. lavoro. Sulla storia delle dottrine "materialistiche” del sec. XIX, cfr. il secondo volume della Geschichte des Materialismus di F. A. Lange (1866; trad. it., Milano, Monanni, 1932). Cfr. inoltre (anche per posizioni come quelle dello ignorabimus di du Bois-Reymond) E. Cassirer, Das E/penntnisproblem (trad. it., come Storia della filosofia moderna, Torino Einaudi, 1958, IV, pp. HO sgg.).

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che si depositano nella coscienza. Hume perciò, proponendosi di spiegare il mondo nella sua apparenza di esteriorità, deve ricor¬ rere all idea ci una “finzione” arbitraria, che si appoggia a un sentimento di credenza inestirpabile quanto irrazionale. E an¬ che su questa via strette analogie con la scepsi e il ficzionismo humeano si ritrovano, in una forma moderna e imparentata con suggestioni evoluzionistiche, nelle teorie di Mach sull 'economicità biologicamente fondata delle nostre spontanee costruzioni e su quella piu mediata della metodologia scientifica, che rappresenta un intervento non meno utilitario sui dati genuini della conoscen¬ za: cioè, naturalmente, su un variopinto sfarfallare di “elementi.”29 A proposito di questa riduzione del mondo a semplice “parvenza,” o a finzione, ci si permetta di riportare qui un passo tratto dalla Logica di Hegel. [—] la parvenza e il fenomeno dello scetticismo, ovvero anche 1 apparenza dell idealismo è una tale immediatezza, la quale non è un qual¬ cosa o una cosa, non e in generale un essere indifferente che sia fuor della sua determinazione e della sua relazione al soggetto. Lo scetticismo non si permetteva di dire: L. Il moderno idealismo non si permise di riguardare le cognizioni come scienza della cosa in sé. Quel parere non doveva in generale avere alcuna base d’essere; in queste cognizioni la cosa in sé non doveva entrare. In pari tempo però lo scetticismo ammise molteplici de¬ terminazioni della sua parvenza, o anzi, la sua parvenza ebbe per conte¬ nuto tutta la molteplice ricchezza del mondo. Cosi anche il fenomeno del¬ l’idealismo abbraccia in sé l’intiera cerchia di queste molteplici determina¬ zioni. Quella parvenza e questo fenomeno son determinati immediatamente in questa molteplice maniera. Questo contenuto può dunque benissimo non aver per base alcun essere, alcuna cosa, o cosa in sé; esso riman per sé cosi com’è; è stato soltanto tradotto dall’essere nella parvenza, di modo che la parvenza ha dentro se stessa quelle molteplici determinazioni, le quali sono immediate, esistenti, altre fra loro.”31

29 E. Mach, Analyse der Empfindungen, 1900 (trad. it., Torino, Bocca, 1903). Cfr. la critica dei "Prolegomena” (voi. I) delle Ricerche logiche di Husserl, c. X, al “Principio di economia del pensiero”; cfr. inoltre Cassirer, op. cit., pp. 147 sgg. (voi. IV). È chiaro che il nostro cenno critico alla dottrina delle sensazioni e dell’economicità del pensiero in Mach si riferisce a queste teorie in quanto si presentino come teorie conoscitive (o in quanto liquidazioni di ogni autentica problematica conoscitiva). 30 G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logi\, libro II, I, 1, B (trad. it.: Moni). 31 Nel suo libro su Le origini della logica hegeliana (Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 210-211), Nicolao Merker, pur considerando molto criticamente l’atteggiamento ne¬ gativo di Hegel nei confronti dello scetticismo (pp. 185 sgg.), osserva che "rimane di positivo,” nelle pagine sulla "parvenza,” "il valido rifiuto del positivismo fenomenistico.” Sulla valutazione di della Volpe (cui si rifà Merker) circa il non-scetticismo di Hume, cfr. la nota 1 di questo capitolo e la 5 del c. II.

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È probabile che Hegel abbia fatto giustizia troppo sommaria, oltre che degli “scettici,” anche e particolarmente degli “ideali¬ sti,” tra i quali mette anche Kant. Tuttavia la dialettica che egli stabilisce nella sua teoria dell’Essenza, tra Fin sé e la “parvenza,” tra la cosa e le sue proprietà, è della massima importanza per noi, e molto pertinente l’ironica osservazione per cui Hegel considera come un vezzo degli scettici quello di dire “sembra” anziché dire “è.” Se ci riferiamo però in maniera più determinata alla scepsi moderna, humeana, dobbiamo aggiungere altre considerazioni. Giacché, come si era osservato all’inizio, l’empirismo di Hume (come più tardi quello di Mach) introduce un elemento discrimi¬ nante sui generis tra ciò che è e ciò che appare, che consiste nel¬ l’immanenza dei dati di coscienza, rispetto alla cui “realtà” tutto il resto deve valere come “apparenza” o “finzione.” La distinzione tra la sfera de\V immanenza cosciente e ciò che trascende questa sfera, rappresenta uno dei motivi fondamentali della filosofia contemporanea, sul quale dovremo ritornare ancora a più riprese, pur senza la minima pretesa di esaurire questa te¬ matica. Essa del resto tormenta ancora dal suo interno la stessa fe¬ nomenologia, nonostante i fondamentali chiarimenti cui accenne¬ remo.32 Naturalmente il significato deH’immanenza sembra già stabilito una volta per tutte nella nozione del cogito cartesiano, il quale tuttavia, nella sua forma storica, finisce per mantenere assai meno di quanto sembra promettere. Cartesio infatti abban¬ dona ben presto la sfera delle intuizioni “immanenti” per ricor¬ rere a ipotesi costruttive. Ed è per questo che la “trascendenza” riscontrabile nel pensiero cartesiano conserva il carattere artificiale di un in sé e smarrisce ogni rapporto con l’evidenza originaria della coscienza: quel rapporto tra l’“atto” e il suo stretto correlato noematico che definisce l’intenzionalità husserliana. La stessa ca¬ renza dobbiamo riscontrare anche in Hume, nonostante la grande portata critica della sua scepsi su ogni forma di trascendenza: scepsi che disgraziatamente non distingue tra la trascendenza dell’in sé e quella semplicemente noematica. È questo anche il limite della sua nozione, per altro cosi feconda, di belief, alla quale dob¬ biamo riservare un discorso più circostanziato. 32 Nel ns. c. III.

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Capitolo secondo

Problematica della credenza

Il “sistema scettico” di Hume Nel suo senso complessivo la filosofia di Hume sembra già del tutto estranea all’assurdità di uno sdoppiamento (reale o ipo¬ tetico) del mondo. Egli dichiara insolubile e oziosa la questione dell’esistenza di realtà extra-soggettive (una “esistenza distinta dallo spirito e dalla percezione”) e delimita il suo ambito proble¬ matico alla ricerca delle “cause” che ci spingono a credere nel¬ l’esistenza dei corpi.1 Ma nell’assolvere a questo compito, accanto ad alcune indicazioni destinate a rimanere fondamentali, insorge una serie di oscurità che ne limitano fortemente i risultati. Da una parte, sulla base di certe formulazioni e di certe angolature visuali, sembra talora di avvertire spiacevoli residui della menta¬ lità “inseistica” che è il suo principale obiettivo polemico2; dal lato opposto (e qui non si tratta più di semplici “residui,” ma di un limite preciso del suo pensiero), Hume scade in un soggettivismo indifferenziato, in cui insieme alla trascendenza assoluta dell’in sé mitico si dissolvono anche le concrete dimensioni dell’esperienza. Queste oscurità, come è stato molte volte rilevato, si infitti¬ scono al livello-base della sua dottrina. Nella sua analisi gnoseolo-

1 A Treatise of Human Nature, I, IV, 2 (trad. it. di A. Carlini, Bari, Laterza, 1928, da cui sono tratte le ns. citazioni). 2 Cfr. p.es. le osservazioni di G. della Volpe e di M. Dal Pra a proposito della illegittima distinzione tra “impressioni di sensazione” (esterne) e “di riflessione" (passioni ed emozioni, considerate interne e derivate dalle precedenti), in M. Dal Pra, Hume, Mi¬ lano, Bocca, 1949, pp. 66 sgg., e p. 153, dove è rilevato che Hume stesso nega una simile distinzione da un punto di vista puramente sensibile; come è spiegato nel seguito del nostro testo.

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Scepsi e conoscenza

gica egli riduce ogni nostro sapere alle percezioni, e in ultima istanza alle impressioni; queste sarebbero “esterne” o “interne.” Ma già questa distinzione gli appare in qualche modo travalicare la pura esperienza, nella quale i dati del tatto e della vista e quelli del sentimento si presenterebbero su un piede di assoluta parità. La stessa distinzione tra un mondo interno e un mondo esterno risulterebbe quindi stabilita soltanto con l’intervento àt\Yimmagi¬ nazione, la facoltà delle “finzioni.”3 Proprio nel rapporto tra i dati sensibili e l’immaginazione sono contenuti in potenza gli sviluppi di una dottrina evoluta del¬ la conoscenza, come pure, nel caso di Hume, i limiti della “psi¬ cologia” empiristica. Al principio non sussisterebbero che impres¬ sioni semplici a cui corrisponderebbero idee semplici. L’immagi¬ nazione interverrebbe après coup per operare Xassociazione delle idee semplici e produrre le idee complesse.4 Ma l’iniziale atomismo delle impressioni semplici crea le maggiori difficoltà, alle quali an¬ cora Kant stenterà a far fronte con la sua estetica trascendentale e la sua dottrina dello schematismo.5

3 Treatise, I, IV, 2. 4 Qui semplifichiamo l’analisi di Hume, che prevede in realtà anche un’altra via per la formazione di idee complesse, cioè la loro derivazione meramente rappresentativa da impressioni complesse. (Sarebbe inoltre necessario esaminare qui il rapporto tra memo¬ ria e immaginazione.) Ma queste ulteriori distinzioni non fanno che aumentare le difficoltà in cui si involge l’analisi delle percezioni. Cfr. Hume, Treatise, I, I, 3 e 4 e Dal Pra, cit., pp. 65-66 e 81 sgg. (che

5 L’insufficienza dell’analisi humeana e particolarmente il difetto del suo atomismo naturalmente trae origine da Locke), sono riconosciuti dalla maggior parte dei

commentatori moderni di Hume. Sull’importanza della teoria dell’immaginazione hu¬ meana, cfr. G. della Volpe, La filosofia dell’esperienza di D. Hume, Firenze 1933. pp. 164 sgg. Nel nostro testo si insiste particolarmente sui limiti della nozione humeana dell’immaginazione, come di quella della credenza, in quanto Hume, contrapponendo i prodotti deH’immaginazione come “finzioni” alla "realtà” delle percezioni, vanifica i suoi stessi risultati descrittivi; ma la posizione centrale riservata da Hume a questi momenti del suo sistema fanno della sua teoria un’anticipazione della immaginazione produttiva di Kant (cfr. il § 24 della II ediz. della Critica della ragion pura-, e nella I ediz., Sulla sintesi della riproduzione nell'immaginazione, ed. Colli, Torino, Einaudi, 1957, p. 165, dove è chiarita la funzione della sintesi della capacità d’immaginazione per la costituzione del tempo e dello spazio). Su questo tema e su quello dello “schematismo trascendentale,” cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. it. di M. E. Reina, Milano, Silva, 1962; E. Paci, Relazionismo e schematismo trascendentale, in Dall'Esistenzialismo al relazionismo, Messina-Firenze, D’Anna, 1957. L’aspetto produttivo dell’immaginazione kantiana non riveste piu, naturalmente, un carattere di semplice finzione, in quanto viene messa in luce la sua importanza già per la possibilità stessa dell’esperienza sensibile, e non rappresenta quindi qualcosa di semplicemente sopraggiunto alle impressioni. Il testo di Kant tuttavia è contraddittorio con se stesso, su questo punto, e la trattazione del-

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Problematica della credenza

Quando veniamo al problema dell’origine della nostra cre¬ denza nel mondo “esterno,” troviamo che essa si fonda sulla par¬ ticolare costanza e coerenza di certe impressioni, le quali solle¬ citano la nostra immaginazione a operare la finzione di un’esi¬ stenza continuata e indipendente dalle stesse percezioni reali. Come avviene però che questa “finzione” assuma i caratteri di una “ credenza ? ” Secondo la definizione di Hume, una cre¬ denza si ha quando un’idea (eventualmente, appunto, una fin¬ zione immaginativa) si ravviva in rapporto con un’impressione presente, quando insomma si avvicina nel modo più stringente allo stato e alla forza di convinzione della semplice impressione.6 Que¬ sta credenza, che corona l’intera gnoseologia humeana (implican¬ do le operazioni dell’immaginazione, la dottrina delle idee com¬ plesse, ecc.) è a sua volta qualcosa come un semplice dato che so¬ praggiunge a fatti compiuti sugli strati già sedimentati delle ope¬ razioni conoscitive. Si tratta di un dato del sentimento, analogo agli altri dati, al quale viene riservata la misteriosa virtù di tra¬ sformare, con una coloritura propria, una semplice costruzione rappresentativa nel mondo effettivamente reale in cui si muove tutta la nostra esistenza concreta. È più che naturale, in una si-

l’Estetica trascendentale appare a tutta prima qualcosa di isolato e in sé concluso; nel che si esercita l’influenza della tradizione sensistica lockiano-humeana. Per una ripresa coe¬ rente dei problemi dell’estetica trascendentale in Husserl, giudizio.

cfr. Idee 11 e Esperienza e

6 Treatise, I, III, 7 e 8 (sulla credenza). Come è noto, la credenza non comporta nessuna aggiunta o modificazione all’idea di un oggetto. La credenza nell’esistenza non aggiunge una nuova idea a quella dell’oggetto. Essa nasce senza alcuna ulteriore ope¬ razione dell’immaginazione, la quale è già intervenuta nella costituzione della rappresen¬ tazione, ma è prodotta semplicemente dall’“abito,” in base alle numerose congiunzioni già presentatesi tra impressioni passate. La rappresentazione immaginativa, per divenire credenza, deve ravvivarsi in rapporto con una percezione presente. Di qui la definizione della credenza come “lively idea related to a present impression” (I, III, 8). Cfr. Dal Pra, cit., pp. 135 sgg.; Norman Kemp Smith, in The Philosophy of David Hume, London, Macmillan, 1949, mette in evidenza l’ambiguità del belief humeano. Esso si presenta per lo piu come semplice “enlivening” delle idee, ed acquista (soprattutto nell ’Enquiry) il carattere di sentimento (“feeling [...] come to an omnibus terna,” ivi, p. 547); ma il belief in Hume presenta anche un altro aspetto, in quanto esso interviene nelle stesse percezioni sensibili non come un ravvivamento ma come un atto o una propensione per cui la mente è trasportata, attraverso quanto è attualmente esperito, verso la realtà indipendente (cfr. particolarmente il c. XXI dell’op. cit.). In questo senso la credenza humeana non ha soltanto un aspetto scettico, ma acquista un carattere cognitivo, avvicinandosi al significato che essa assume in Husserl (cfr. il seguito del nostro testo). Cfr. anche, nel libro di Kemp Smith, le pagine conclusive, soprattutto pp. 560 sgg. (Hume’s tendcncy to substitute psychological for logicai analysis).

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mile prospettiva, domandarsi come mai un semplice dato abbia tanto potere là dove una complessa infrastruttura esplicativa non ne esercita alcuno. Di qui le stesse esitazioni di Hume, che si arresta di fronte alle oscurità del belle] e della sua specifica virtù.7 In realtà ciò che sminuisce profondamente il valore chiarificativo del belle] humeano è il suo senso strettamente soggettivistico, che sta in stretto rapporto con l’incomprensione per quel carat¬ tere della vita cosciente che prende nome, a partire da Brentano, di Intenzionalità. Vediamo di afferrare questo nesso richiamandoci alla stessa discussione humeana del concetto di esistenza. Seguendo il suo principio, quello dell’analisi dell’esperienza, Hume afferma di non trovare niente di simile all’“esistenza” a co¬ stituire una qualche parte reale dei contenuti di coscienza: e in¬ fatti “l’idea dell’esistenza non deriva da nessuna particolare im¬ pressione” e si identifica esattamente con l’idea di ciò che conce¬ piamo esistente. “Non c’è differenza tra riflettere sopra una cosa semplicemente e riflettere su essa come esistente: quell’idea [di esistenza], unita all’idea d’un oggetto, non aggiunge niente. Qua¬ lunque cosa concepiamo, la concepiamo come esistente. Ogni idea che ci formiamo, è l’idea di un essere; e l’idea di un essere è ogni idea che ci piaccia formare.” E analogamente, per l’idea di esi¬ stenza esterna', poiché “ci è impossibile concepire o formare l’idea di una cosa specificamente differente dalle idee e impressioni,” “fissiamo pure, per quant’è possibile, la nostra attenzione fuori di noi, spingiamo la nostra immaginazione sino al cielo o agli estremi limiti dell’universo: non avanzeremo d’un passo di là da noi stessi, né potremo concepire altra specie di esistenza che le percezioni apparse entro quel cerchio ristretto.”8

7 Cfr. il passo dell’Appendice al libro III incorporato per volere di Hume al testo: I, III, 7, su cui cfr. Kemp Smith, op. cit., p. 553. E cfr. Husserl, Logica formale e trascendentale, pp. 321-322: “Il naturalismo psicologico [...] vide l’essenza descrittiva del giudizio nel belief: un dato psichico anch’esso, non diverso da qualsiasi altro dato di sensazione, come il dato di un rosso o un dato sonoro. Non sorprende, tuttavia, che già Hume e ancora, dopo di lui, Mill, dopo questa presentazione, parlino con parole patetiche degli ,enigmi del belief ? Che enigmi può mai presentare un dato? e perché allora il ‘rosso’ e gli altri dati della sensazione non contengono alcun enigma?” 8 Treatise, I, II, 6.

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Il correlato della credenza Hume riassorbe dunque nel solo ente che per lui è “dato,” la percezione, anche l’idea di esistenza e quella di esistenza ester¬ na. Senonché questo ente cosi potenziato di esistenza è per lui sempre e soltanto una percezione, mai anche un percepito. Man¬ ca cioè in Hume — come è stato già più volte osservato — il ri¬ conoscimento di quella dimensione tipica del dato di coscienza per cui esso non si limita ad essere se stesso “realmente,” cosi co¬ me un sasso è un sasso, ma contiene “irrealmente” o rinvia inten¬ zionalmente a un contenuto di coscienza. Per Hume la percezione¬ dato di coscienza è qualcosa di reale, è un’esistenza. Ma questo ente reale è “totalitario” e privo di trasparenza: esso esclude ogni altra esistenza. Naturalmente Hume non poteva evitare di spie¬ gare l’apparenza di un mondo, ed ecco intervenire un’altra per¬ cezione, il sentimento della “credenza,” un dato di fatto come gli altri, dotato anch’esso di esistenza reale. Ma vediamo di ricavare una qualche conseguenza dalle os¬ servazioni fatte. Poiché Hume non distingue abbastanza chiara¬ mente dalla percezione ciò che in questa percezione è percepito, egli concede facilmente all’idea della cosa un’esistenza qua idea,9 e ci dice quindi che l’idea di esistenza è lo stesso che la semplice idea della cosa; ma trascura di riproporsi il problema in relazione alla cosa percepita, al termine di riferimento intenzionale del¬ l’idea. A questa cosa dovremo o no riservare un trattamento ana¬ logo? E dire quindi: se alla percezione della cosa, quando que¬ sta percezione si dia, è senz’altro immanente un essere di perce¬ zione (il che vale per Hume come un essere di idea), alla cosa percepita dev’essere inerente un essere di cosa. E così pure: se la credenza ha in sé l’effettività propria di un sentimento, di un vissuto di coscienza, alla cosa creduta (o allo stato di cose creduto) dovrà pure essere riconosciuto un essere correlativo. Credenza del9 Cfr. su questo punto importante C. V. Salmon, The centrai problem of D. H. philosophy (pubblicato nello “Jahrbuch fiir Philosophie und phànomenologische Forschung,” voi. X, 1929); c. VII, Hume’s Theory of Belief. (Salmon sviluppa in questo lavoro un’interpretazione di Hume dal punto di vista della fenomenologia: “Historians will see Hume’s lineai successors, not in Kant or Mill, but in Brentano and Husserl,” p. 301.) Sul rapporto Hume-Husserl, cfr. anche l’articolo di Gaston Berger, Husserl et Hume, nella "Revue internationale de philosophie,” 1939.

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l’essere, come vissuto, e essere creduto come suo oggetto, sono ter¬ mini inscindibili di un rapporto. Che cosa significa essere creduto? Significa forse che esso sia semplicemente creduto ma non per questo “effettivamente esi¬ stente?” Fino a questo punto non abbiamo ancora affrontato la questione dt\Y esistenza reale. Per impostarla adeguatamente, è prima necessario chiarire lo statuto dell’essere (reale o no) come termine correlativo della credenza. Credenza di qualcosa significa: che qualcosa ha per noi validità di essere. Che abbia questa vali¬ dità “per noi” significa non già che “in sé” questa validità possa eventualmente non sussistere, ma che ogni oggettività, ogni “in sé,” è un in sé per la coscienza, col che si assume e si precisa l’aspetto positivo della critica empiristica all’in sé mitico della nuo¬ va scienza. In questi termini, la credenza è l'unico modo di rap¬ portarsi della coscienza alle cose, ed essa è già implicita fin dal primo albeggiare della conoscenza. Nel caso della cosa sensibile: la credenza è già implicita nel primo manifestarsi sensibile della cosa, che si effettua passivamente mediante sintesi originarie, quin¬ di nell’afferramento percettivo, poi attraverso tutte le modifica¬ zioni del dubbio che eventualmente si stabilisce, e che si rappor¬ tano sempre allo strato della credenza primitiva (JJr-doxa).10

U immaginazione Avevamo accennato alle insufficienze dell’analisi humeana, che si presentano fin dai primi passi, ed ora siamo anche in grado di ricondurre queste insufficienze a qualcosa di unitario: è pro¬ priamente la mancata comprensione del rapporto intenzionale che sta alla base delle principali difficoltà della dottrina di Hume. Si era parlato, tra l’altro, del rapporto tra i dati percettivi e le finzioni dell’immaginazione, che restano nel Treatise due cose ben distinte. Come in altri aspetti del suo pensiero, Hume con la dottrina dell’immaginazione si trova in un punto chiave della elaborazione di una gnoseologia moderna,11 benché non riesca in Cfr. Husserl, Esperienza e giudizio. Introduzione e passim. 11 Cfr. la nota 5 di questo capitolo; cfr. inoltre, per l’ambiguità di senso dell’im¬ maginazione nel Treatise, Kemp Smith, cit., pp. 459 sgg.

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definitiva ad uscire dal meccanismo speculativo che egli stesso ha allestito, e non sappia perciò trarne altro che le consuete conclu¬ sioni scettiche. In particolare: nel porre le basi del suo “sistema scettico” Hume annulla la possibilità stessa di qualsiasi nozione di verità in quanto significato: “vero” è soltanto ciò che è real¬ mente dato, cioè le impressioni date, e ciò che è semplicemente un “dato” esclude ogni “significato,” o, nella nostra accezione, qual¬ siasi riferimento a un senso intenzionale. Hume trascura, come abbiamo visto, l’aspetto intenzionale noematico della vita cosciente, o quanto meno non lo distingue dalla presenza “reale” delle cogitationes. Ora, se queste ultime (le impressioni, le percezioni) sono reali, e se — come egli stesso ci insegna — questi reali sono qualcosa di essenzialmente frammentario o addirittura atomico, al¬ lora il ponte che l’immaginazione è chiamata a stabilire tra perce¬ zione e percezione non può che rivestire il carattere di una fin¬ zione, di un non-reale. Se trascuriamo ogni riferimento all’intenzionalità significativa, il discorso qui è già chiuso. Ma se teniamo conto di questo riferimento, non potremo non vedere come le infrastrutture messe in opera daH’immaginazione appartengano non già soltanto a questa sfera di realtà (o non realtà) immanenti, ma intervengano nella stessa costituzione interna delle trascenden¬ ze noematiche, dei correlati oggettuali di senso. Se quindi l’analisi della vita cosciente non può prescindere dal duplice carattere noetico-noematico inteso come qualcosa di peculiare all’essere stesso della coscienza, non ha senso intendere l’operato dell’immagina¬ zione come qualcosa di semplicemente “fittizio,” nel senso limi¬ tativo di Hume. In altre parole, noi dobbiamo considerare la fi¬ gurazione immaginativa non come un’operazione semplicemente arbitraria e fittizia in quanto, per cosi dire, “sopraggiunta” ai dati (come resta necessario se diamo credito soltanto alle “percezioni reali”), ma come qualcosa di solidale alla stessa genesi dell’oggetto intenzionale.12

12 Cfr. in questo senso le analisi di Husserl in Esperienza e giudizio-, per una esposizione complessiva delle determinazioni sensibili e delle relative sintesi in Husserl, cfr. Alwin Diemer, Edmund Husserl, Meisenheim am Gian, Hain, 1956, pp. 86 sgg.

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Essere reale e essere fantastico Se la nozione di intenzionalità ci permette già di considerare l’essere intenzionato come qualcosa di diverso dall’essere reale ine¬ rente alle cogitationes, agli atti di coscienza, sembrerebbe ancora indeciso se ci troviamo di fronte a un essere effettivamente esi¬ stente; si potrebbe dire “esteriormente” esistente, se il senso di questa “esteriorità” non fosse pieno di equivoci.13 L’essere del per¬ cepito non è infatti l’unico essere noematico possibile. Accanto ad esso noi dobbiamo prevedere la possibilità di altre sfere d’essere, come l’essere ideale e l’essere immaginario. Se ci domandiamo adesso quale sia il criterio distintivo, noi dobbiamo riferirci natu¬ ralmente sia al senso intenzionale degli atti in cui l’essere ci si pre¬ senta, sia all’essere stesso correlativo. Ogni sfera di oggetti inten¬ zionali ha il suo modo d’essere specifico che le appartiene; e ad essa corrisponde una peculiare sfera di atti. Esiste un’intenziona¬ lità, quale è già quella originaria della credenza primitiva (del¬ l’essere emergente primitivamente alla coscienza) che si convalida o si modifica attraverso le varie forme della modalità tetica\ esi¬ ste d’altra parte un’intenzionalità non tetica, come è quella fanta¬ stica, o quella che risulta da una deliberata epoche,14 Qui la que¬ stione dell’origine, cioè dei caratteri originari dell’essere in esame, è decisiva; la questione fondamentale è cioè di sapere se sia un es¬ sere effettivamente dato all’esperienza percettiva. E perciò al tem¬ po stesso giuoca qui il carattere degli atti, che hanno maturato l’essere della cosa eventualmente percepita (della cosa che allora sarà “spazio-temporale” ecc.) e che l’hanno eventualmente man¬ tenuta come tale attraverso i gradi e le fasi della modalizzazione, o che viceversa l’hanno trasferita nella sfera dell’essere puramente fantastico. È solo nella considerazione di questi atti che prende rilievo l’essere effettivamente esistente rispetto all’essere immagi¬ nario, che quindi è possibile distinguere una coscienza posizionale da una coscienza meramente fantastica. In Hume una distinzione del genere è possibile solo per l’in13 Cfr. la nota su Esperienza "esterna" e esperienza "interna" posta in appendice al nostro c. III. 14 Cfr. su questo punto Alwin Diemer, op. cit., pp. 97-98.

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tervento “ex machina” di un sentimento di credenza, il quale vie¬ ne a discriminare rappresentazioni che di per se stesse (e per gli atti che le costituiscono concretamente) non ammettono alcuna distinzione, e ciò proprio perché all’immaginazione che è interve¬ nuta nella loro costituzione viene attribuito un carattere de-realizzante.

L’esistenza come predicato Nelle pagine precedenti abbiamo già introdotto quella nozione di credenza originaria (Ur-doxa) che ha come suo termine corre¬ lativo Xessere originario della cosa che affetta la nostra coscienza. A questo proposito ci ritornano alla mente le parole di Hume: l’idea di esistenza, unita all’idea di un oggetto qualsiasi, “non vi aggiunge nulla.”15,E quelle di Kant, cui è facile dare un signifi¬ cato complementare: “Nel semplice concetto di una cosa, non si può affatto ritrovare alcun carattere della sua esistenza.”16 Noi però non abbiamo assegnato alla cosa Yesistenza come un predi¬ cato. Piuttosto, l’abbiamo riassorbita nella cosa stessa in una cer¬ ta analogia col modo in cui Hume riassorbiva l’idea di esisten¬ za nell’esistenza stessa dell’idea. Come per Hume l’idea “esi¬ stenza di ima cosa” significa niente più che l’esistenza (il dar¬ si di fatto) dell’idea della cosa, noi dovremo dire: l’esistenza della cosa (il termine oggettivo dell’idea) significa niente più che la cosa esistente, e cioè il darsi di fatto della cosa alla coscienza. A proposito, infatti, àt\Xesistenza come predicato, e dell’altro predicato che ci interessa qui, quello della realta effettiva, dobbia¬ mo tener presente innanzitutto la distinzione tra la sfera ante¬ predicativa e quella delle predicazioni. Già nella sfera ante-predi¬ cativa, quella delle sintesi originarie del sensibile e della perce¬ zione, in generale degli atti di esperienza, gli oggetti vengono colti nelle loro determinazioni. Sono questi oggetti che vengono colti

15 Treatise, I, II, 6. 16 Critica della ragione pura

H (“I postulati del pensiero empirico in generale ),

ed. Colli, p. 294. Sul concetto di esistenza in Kant cfr. H. J. De Vleeschauwer, La déduction trascendentale dans l’oeuvre de Kant, Anversa ecc., 1934-37, che ne traccia l’evoluzione. Vedi particolarmente voi. II, pp. 107 sgg.

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come soggetti nelle semplici predicazioni di esperienza, “e la loro determinazione (esperita in questo esperire) viene attribuita loro.”17 Perciò, determinative sono soltanto le predicazioni pure e semplici di esperienza. È soltanto sopra questi sensi di oggetti cosi ottenuti e per sé già pienamente determinati che si stabiliscono le propo sizioni esistenziali (“con l’attribuzione dell’esistenza sono questi sensi e non gli oggetti che si accrescono di determinazioni”18). Allo stesso modo, neppure il predicato “effettivamente reale” de¬ termina l’oggetto, ma dice: “io non fantastico [...] io non parlo di fida ma di oggetti che sono dati nell’esperienza.”19 Per conseguenza, se io ora, dopo aver assunto un atteg¬ giamento di “decisione attiva,” predico della cosa l’esistenza, que¬ sto predicato non comporta una determinazione reale della cosa (cosi come invece reali sono le determinazioni della cosa perce¬ pita), e l’essere che instauro a proposito della cosa è un essere cate¬ goriale. Giacché anche per Husserl, come per Kant, “gli oggetti ri¬ cevono le determinazioni, quelle cioè che son date nell’esperien¬ za, solo negli atti di esperienza.”20 Beninteso, la predicazione di esistenza, come quella di realtà effettiva, non è necessariamente una predicazione arbitraria, ma una predicazione che può fon¬ darsi sull’essere che abbiamo riconosciuto immanente alle cose della credenza originaria e della percezione. La credenza percorre l’intera costituzione, precategoriale e categoriale, della cosa.21 17 Husserl, Esperienza e giudizio, § 75, p. 341. 18 Ivi, § 75, p. 343. 19 Ivi, p. 342. 20 Ivi, p. 341. 21 La difficile teoria husserliana dell’"essere” categoriale (a proposito dell’essere delle cose in senso originario, pre-categoriale, cfr. la nota 3 del ns. c. I), viene impostata nella VI Ricerca logica, proprio alle soglie della distinzione (fondamentale per la feno¬ menologia) di intuizione sensibile e intuizione categoriale. E difatti leggiamo nel § 43 (titolo: I correlati oggettivi delle forme categoriali non sono momenti “reali”): "la fles¬ sione che dà la forma [si intenda: in base alla differenza già stabilita (al § 42) tra ma¬ teriale sensibile e forma categoriale], cioè l’essere nella sua funzione attributiva e pre¬ dicativa, non si ‘riempie’ in alcuna percezione. Ricordiamo qui la proposizione di Kant: l’essere^ non è un predicato reale. Benché essa si riferisca all’essere esistenziale, all’essere della ‘posizione assoluta,’ come anche Herbart l’ha chiamato, noi possiamo applicarla ugualmente all’essere predicativo e attributivo [...]. Posso vedere il colore, ma non posso vedere che sia l'essere colorato [...]. L’essere non è nulla ««“//oggetto, né una delle sue parti, né un momento che gli sia inerente; non è una qualità o una intensità [...]. Ma neppure l’essere è alcunché di aderente all’oggetto, non è un carattere reale estrinseco piu di quanto non sia intriseco, per cui insomma non è assolutamente un ‘carattere’ in senso reale” (p. 137); "/'essere non è assolutamente nulla di percepibile.” "Nella sfera della percezione sensibile e dell’intuizione sensibile in generale che le corrisponde [...] un si-

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Credenza e evidenza Questa veloce analisi della dottrina della credenza è sufficiente, cosi speriamo, a chiarire il grande significato storico dell’analisi humeana e al tempo stesso i suoi limiti. Contro questi limiti è già rivolta la critica kantiana, che mentre riprende senz’altro la no¬ zione del carattere non determinativo della categoria di realtà (che non arricchisce per nulla il concetto dell’essente) ristabilisce nella sua “confutazione dell’idealismo” la portata extra-soggettiva (in senso “fenomenico”) della percezione. Possiamo allora parlare di nuovo di un’esistenza “esterna,” e ridare alla percezione il suo valore nella determinazione della realtà effettiva.22 Se ora consideriamo lo sviluppo apportato dalla fenomeno¬ logia a questa nozione del belle/, vediamo come il grande passo in avanti consista proprio nella connessione di “credenza” e di “ essere. ” Quest’ultima risulta motivata attraverso la sostanziale identificazione dell’esperienza con l’evidenza.23 L’“essere” delle gnificato come quello della parola essere non trova alcun correlato oggettivo possibile” (e questo vale anche per le altre forme categoriali degli enunciati, come Yun e lo il, il se e il allora, il tutto, il nessun ecc.) (pp. 138-139). Cosi al § 44, criticando la tesi “uni¬ versalmente diffusa a partire da Locke” che le categorie logiche “nascano in virtù di una riflessione su certi atti psichici, quindi nella sfera del senso interno, della ‘percezione in¬ terna,’” Husserl conclude che bisogna allargare la nozione di percezione: “Possiamo dire allora quanto segue: come l’oggetto sensibile si comporta rispetto alla percezione sen¬ sibile, lo stato di cose si comporta rispetto all’atto di appercezione che lo ‘da (più o meno adeguatamente)’ ; e aggiunge: “ci sentiamo costretti a dire, più semplicemente: cosi si comporta lo stato di cose rispetto alla percezione dello stato di cose," cioè appunto l’intuizione categoriale (p. 140). “Se consideriamo l’essere come un essere predicativo, deve dunque esser dato uno stato di cose qualsiasi, e ciò naturalmente mediante un atto che lo dà, l’analogo dell’intuizione sensibile comune," e cosi per le altre forme cate¬ goriali (p. 174). Per gli accenni fatti nel nostro testo, cfr. in generale la seconda sezione di Espe¬ rienza e giudizio, e in particolare per le “modalità del giudizio” il c. Ili della stessa opera; cfr. il § 74 per la “Distinzione delle predicazioni esistenziali dalle predicazioni di realtà effettiva”; entrambe “non sono predicazioni determinative” (§ 75). 22 La “confutazione dell’idealismo” (ed. Colli, pp. 295 sgg.) è diretta, come è noto, soprattutto contro gli “idealismi” di tipo cartesiano e berkeleyano. 23 Qui possiamo cogliere anche la sostanziale diversità della “credenza” fenome¬ nologica da quella humeana. Abbiamo già accennato al nesso di credenza e intenzionalità. Si vedano ora questi passi della Logica formale e trascendentale sul nesso di intenzionalità, evidenza, esperienza: “L'evidenza designa [,..~\Y operazione intenzionale della donazione delle ‘cose stesse’ [...]. Possiamo anche dire che essa è la coscienza primordiale: io colgo ‘la cosa stessa,’ originaliter, in contrasto p.es. con il coglimento in immagine o mediante qualsiasi forma di anticipazione, intuitiva o vuota.” “Il modo primitivo della donazione della ‘cosa stessa’ è la percezione,” il Dabei-sein, l’esser-presente-ora, rispetto a cui si danno anche altri modi di evidenza modificata, nel ricordo ecc. Per l’esperienza: “È sol¬ tanto vedendo che posso mettere in rilievo ciò che si trova propriamente in un vedere,

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cose non rappresenta in questo senso che il correlato noematico dell’esperienza in cui le cose si danno alla coscienza; l’esperienza, a sua volta, non è che l’aver presente, il vedere lo stato di cose. Di conseguenza il credere della credenza non è diverso dal vedere dell’evidenza. Le cose e il mondo ci sono dati in una “doxa” ori¬ ginaria. Fuori di questa “doxa” non ci sono le sensazioni “atomi¬ che” né qualsiasi altra formazione d’esperienza, ma non c’è nessuna possibile esperienza. Ma se le cose stanno cosi, non si giustifica più la diffidenza con cui Hume tratta le operazioni dell’“ immagina¬ zione, ” attraverso le quali il mondo dei dati assume una dimen¬ sione per cosi dire spaziale. Di questa dimensionalità e (in ter¬ mini husserliani) di questa “trascendenza” delle cose ci parla in termini inequivocabili la stessa esperienza originaria. La scepsi portata a questo punto da Hume si rivela orientata verso un falso obiettivo: essa investe questa originaria trascendenza implicita nel¬ l’esperienza effettiva, mentre, come vedremo meglio ancora in se¬ guito, il suo vero obiettivo consiste nella “trascendenza di secondo grado,” la trascendenza dell’in sé fisico o di qualunque altro es¬ sere in sé oscuramente immaginato come “causa” inattingibile delle nostre rappresentazioni.

Nota 1

Sul problema dell’"idealismo” fenomenologico La fenomenologia è stata bersagliata ripetutamente, e da diverse parti, in quanto costituisce una forma di idealismo. Cerchiamo di raccogliere qui i termini principali della questione, in riferimento a quanto è detto nei nostri capitoli I e II e limitandoci a quei significati della parola “idealismo” a cui si riferiscono piu frequentemente le critiche. ed è solo vedendo che devo condurre un’esplicazione veggente dell’essenza propria di un tale vedere” (§ 59, pp. 195 sgg.). Al § 60: "Intenzionalità in generale -— Erlebnis di un aver coscienza di una qualsiasi cosa — ed evidenza, intenzionalità del darsi delle cose in se stesse, sono concetti essenzialmente omogenei [zusammengehòrig]." "Cosi l’evidenza è un modo universale dell’intenzionalità, in riferimento con la vita complessiva della coscienza; e per virtù sua la coscienza ha una struttura universale teleologica, una disposizione alla ‘ragione’ e per¬ sino una tendenza continua verso di essa, a mostrare cioè che cosa è corretto [...] e a cancellare ciò che non lo è” (p. 199). Infine: "Categoria dell’oggettualità e categoria dell’evidenza sono correlati. A ogni tipo fondamentale di oggettualità [...] e in definitiva a ogni tipo fondamentale di unità

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1. Husserl, nel Nachwort alle Idee1 riconosce che il fatto di aver ri¬ mandato troppo a lungo, dopo Yepoché cartesiana di Idee 7, la concreta esplicitazione della soggetdvità trascendentale, ha potuto prestare il fianco a equivoci. “Forse avrei fatto meglio, senza modificare le connessioni del¬ l’esposizione, a lasciare in sospeso un’aperta e definitiva presa di posizione a favore dell’idealismo trascendentale e limitarmi a rendere evidente come si prospettassero necessariamente e andassero assolutamente pensati fino in fondo certi problemi che rivestivano una decisiva importanza filosofica (e spingevano verso un ‘idealismo’), e che comunque era necessario accer¬ tarsi del terreno della soggettività trascendentale. Non posso però evitare qui di dichiarare espressamente che non ho nulla da ritirare in merito al¬ l’idealismo fenomenologico-trascendentale, che continuo a ritenere un con¬ trosenso qualsiasi forma del solito realismo filosofico non meno di qual¬ siasi idealismo, che lo ‘confuti’ in tutti i suoi argomenti.” I suoi critici avrebbero dovuto avvedersi di come le sue considerazioni fenomenologiche radicali condotte contro i presupposti del pensiero naturalistico, “anche se prospettano (in modo incompleto) i contorni dell’idealismo, non hanno nulla a che vedere con le solite trattative tra idealismo e realismo e non possono essere colpite da argomentazioni e obiezioni rientranti in quest’ordine.”2

2. Sulla contrapposizione di un “realismo” all’“idealismo” a) come problema dell’esistenza del mondo. Su questo punto rinviamo a quanto è già stato detto nel I capitolo, a proposito della “ Weltvernichtung” o annichilazione del mondo. (Cfr. particolarmente le note 3 e 5). Con le parole del Nachwort: “L’idealismo fenomenologico non nega l’esistenza reale del mondo (e innanzitutto della natura) quasi pensando trattarsi di una mera apparenza a cui, anche se inavvertitamente, il pensiero naturale e scientifico positivo soggiaccia. Il suo unico compito, e il suo unico me¬ rito, è quello chiarire il senso di questo mondo, precisamente quel senso secondo cui vale per chiunque, conformemente a una reale legittimità, come realmente essente. Che il mondo esista, che sia dato come un universo es¬ sente nell’esperienza che di continuo converge verso la concordanza, è per¬ fettamente indubbio. Una cosa completamente diversa è cercare di capire questa indubitabilità che sostiene la vita e le scienze positive e di chiarirne il fondamento di legittimità. Da questo punto di vista le argomentazioni contenute nel testo delle Idee prospettano come un elemento filosoficamente fondamentale il fatto che il continuo progresso dell’esperienza nella forma di una concordanza universale sia una mera presunzione, per quanto le¬

di ‘esperienza’ possibile, appartiene un tipo jondamentale dell esperienza,

dell evidenza, e

altresì dello stile d’evidenza [...]” (p. 200). 1 Si tratta della Postilla alle “Idee,” pubblicata nel 1930 sullo ' Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologische Forschung," e ora tradotta nell ediz. it. delle Idee, pp. 915 sgg. 2 Op. cit., pp. 926-927.

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gittimamente valida, e che perciò, anche se finora il mondo e stato concorde¬ mente esperito, rimane pensabile la sua inesistenza.”3 Anche su quest’ultimo punto rimandiamo all’inizio del nostro primo capitolo. b) come problema di un altro mondo, rispetto a quello della nostra esperienza sensibile, come ì’in sé fisico p. es., cfr. la Logica*: “Come nella vita quotidiana, cosi pure nella scienza [...] l’esperienza è Tesser coscienti di essere di fronte alle cose stesse, di afferrarle e di possederle in modo af¬ fatto diretto. Ma l’esperienza non è un buco in uno spazio di coscienza, at¬ traverso il quale traluca un mondo esistente prima di ogni esperienza, e neppure una mera assunzione nella coscienza di qualche cosa che le sia estraneo. Giacché come potrei io enunciare in modo razionale questo ele¬ mento estraneo senza vederlo in sé, e senza con ciò vedere, insieme alla co¬ scienza, Testraneo-alla-coscienza — dunque senza esperirlo? E come po¬ trei rappresentarlo per lo meno come qualcosa di pensabile? Non sarebbe questo un voler prolungare intuitivamente il pensiero nell’esperienza assurda di ciò che è estraneo all’esperienza? [...] Esperienza è l’operazione in cui per me, Tesperiente, Tessere esperito ‘è là,’ e nel modo in cui esso è là, con l’intero contenuto e il modo d’essere che l’esperienza stessa gli attribui¬ sce per mezzo dell’operazione che si compie nella sua intenzionalità. Se l’esperito ha il senso dell’essere trascendente, è l’esperire, sia per sé, sia nell’intera connessione di motivazione che gli appartiene e che concorre a costituire la sua intenzionalità, ciò che costituisce questo senso. [...] Ed è ancora pur sempre l’esperienza che dice: questa cosa, questo mondo, per me, per il mio proprio essere, è del tutto trascendente. È mondo ‘oggettivo,’ e come tale è ancora esperibile e esperito da altri.” Per quanto precede si cfr. quanto è detto nel II capitolo, alla nota 23 e testo corrispondente, circa il nesso: esperienza-evidenza-credenza-intenzionalità. 3. Se la contrapposizione tra “realismo” e “idealismo” nei sensi ac¬ cennati sopra (i quali non esauriscono naturalmente tutti i significati storici di questi termini) è priva di fondamento, conserva un senso contrapporre una filosofia che concepisca l’esperienza come esperienza delle cose stesse ad una filosofia (eventualmente si dirà anche: ad un “idealismo”) a carat¬ tere ficzionistico. Su questo punto rimandiamo al II capitolo, e a quanto è stato detto sul problema della credenza, che può essere intesa rispettivamente come un’intenzionalità di carattere conoscitivo (e il cui correlato sono le cose stesse) oppure come un semplice “sentimento,” eventualmente strut¬ turato su un sistema di “finzioni.” 4. La filosofia moderna conosce però anche un altro tipo di “ideali¬ smo,” quello produttivistico, o creazionistico. Inutile proporci di individuare

4 Logica formale e trascendentale, pp. 288-289. 3 Op. cit., p. 928.

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quale tra gli idealismi contemporanei vada definito a rigore come tale: alla stessa fenomenologia è stato talora attribuito questo carattere. La questione si aggira intorno al carattere attivo o passivo della coscienza, e su questo punto una soluzione non può essere adottata per decreto. Naturalmente ben pochi oggi prenderebbero senz’altro posizione per uno dei due termini. E in realtà l’accertamento dei caratteri di attività e di passività della coscienza è cosa che richiede un attento (e certo assai difficile) esame fenomenologico. Questo esame deve riferirsi, p. es., alla coscienza del tempo, alla struttura dell’esperienza ante-predicativa ecc.. Rimandiamo, per questo, tra i vari testi husserliani, all’Introduzione di Esperienza e giudizio, da cui ricaviamo i seguenti passi, a proposito del “mondo sempre già dato” e “anticipato”: “Prima di ogni movimento conoscitivo sta già l’oggetto della conoscenza come ‘dynamis,’ che deve diventare una ‘entelechia.’ Quando si dice che l’oggetto sta innanzi si intende che esso ci affetta in quanto entra nel no¬ stro campo di coscienza e lo occupa nello sfondo; oppure, anche, che esso è già in primo piano, è anzi già colto, ma che proprio allora suscita quello che, rispetto ad ogni altro interesse della vita pratica, rappresenta l’finteresse conoscitivo’ vero e proprio. Ma l’affezione precede sempre l’atto del cogliere, e non si tratta dell’affezione di un singolo oggetto isolato.”5 E, concludendo una complessa analisi che non possiamo riferire qui: “Si vede come da un lato sia corretto ammettere che l’oggetto veramente esistente è solo il prodotto della nostra attività conoscitiva, e come d’altra parte per ogni attività conoscitiva, quando essa si verifichi, questo produrre l’oggetto veramente esistente non voglia dire che essa lo tragga dal nulla, ma che al tempo stesso gli oggetti sono sempre già dati, e che ci è sempre antici¬ pato in precedenza un mondo circostante oggettivo. Fin da principio tutto ciò che nello sfondo ci affetta è consaputo in una ‘apprensione oggettiva,’ consaputo come tale in modo anticipato; il campo percettivo che appartiene ad ogni momento della nostra vita esperiente è già in precedenza un campo di ‘oggetti’ i quali sono appresi come tali in quanto unità di una ‘espe¬ rienza possibile’ o, ciò che è lo stesso, come possibili sostrati del prender co¬ noscenza. Il che vuol dire che ciò che ci affetta dallo sfondo di anticipa¬ zioni passive di volta in volta dato, non è qualcosa d’interamente vuoto, un certo qual dato (non possediamo una parola esatta) ancora sprovvisto di ogni senso, un dato di sconosciutezza assoluta. La sconosciutezza è sem¬ pre in pari tempo un modo della conosciutezza. Per lo meno quel che ci affetta è già conosciuto in precedenza in quanto è un qualcosa con delle determinazioni; esso è consaputo nella vuota forma della determinabilità, quindi provvisto di un orizzonte vuoto di determinazioni (di “certe” deter¬ minazioni indeterminate, sconosciute).”6 In base a quanto precede, ci domandiamo: una critica di questi risul-

5 Esperienza e giudizio, p. 24. 6 Ivi, pp. 33-34.

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tati (solo citazione prese qui comporti

accennati) può essere condotta altrimenti che mediante una esplipiù approfondita delle operazioni della coscienza che sono state in esame? È possibile una critica di analisi di questo tipo che non la fatica di nuove analisi fenomenologiche?

Chiarite, in questo modo, le posizioni della fenomenologia rispetto ai problemi che vengono solitamente sollevati dal “realismo,” non vogliamo pronunciarci sulla questione (la cui importanza è qui del tutto relativa, e che investe se mai altri problemi) dell’opportunità di far ricorso al termine screditato di “idealismo.” Ma d’altra parte bisognerà anche saper conser¬ vare, in filosofia come in ogni campo, una indipendenza di giudizio rispetto alle parole, evitando di farsene tirare a rimorchio.

Nota 11

Sul “solipsismo” Al rimprovero di idealismo si è aggiunto, sia da parte dei marxisti (come p.es. Desanti, cfr. la nota 29 del ns. c. XI) che di fenomenologi “esistenzialisti” come Sartre, l’accusa di solipsismo. Dietro questa accusa si nasconde l’interpretazione della V “meditazione cartesiana” quasi come il tentativo di “ dimostrare, ” attraverso un solido procedimento logico-de¬ duttivo, l’esistenza degli altri. Sul significato puramente metodico dell’ipo¬ tesi solipsistica cfr. Idee II, sez. I, e cfr. G. Piana, I problemi della feno¬ menologia, Milano, 1966. Che non si tratti affatto di dimostrare ma di espli¬ citare uno stato di cose è detto p.es. nel seguente passo di Logica formale e trascendentale: “[...] nulla va postulato, né convenientemente interpretato; bensì presentato. È solo cosi che deve essere creata quella comprensione ultima del mondo, dietro di cui, in quanto ultima, nulla v’è più che possa essere sensatamente interrogato e compreso. In questo modo di procedere di semplice esplicitazione concreta può persistere l’apparenza trascendentale del solipsismo? Non si tratta di un’apparenza che può intervenire soltanto prima dell’esplicitazione? Giacché, come si è detto, che gli altri — e cosi pure il mondo per gli altri — possiedano il loro senso in me stesso e da me stesso, si presenta come un dato di fatto e non si può trattare qui dunque di nuli altro che di chiarire questo dato di fatto, come ciò che è presente in me stesso” (p. 300; e cfr. l’intero § 96, b, sull’"apparenza [Schein] del so¬ lipsismo trascendentale").

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Capitolo terzo

La cosa e l’immagine

L’analisi della “credenza,” come l’abbiamo ritrovata in Home e in Husserl, ci dovrebbe avere liberato il terreno dalla preven¬ zione scettica nei confronti dell’esperienza diretta del mondo. Noi avvertiamo che, con tutta la sua implicita indeterminatezza, rela¬ tività, ecc., il mondo dell’esperienza non è un mondo di semplici parvenze, né nel senso dell’essere per noi di un in sé totalmente altro, né in quello di una semplice finzione immaginativa. Noi sappiamo cioè che la sfera essere costituisce il termine corre¬ lativo della nostra credenza-, che la nostra credenza e l’essere che di volta in volta le corrisponde possono presentarsi bensì come inade¬ guati rispetto alla cosa stessa totalmente “data” e quindi piena¬ mente consaputa, ma che questa “cosa” non può che trovarsi — per cosi dire — sulla stessa strada dell’essere della nostra credenza; che le qualità che la nostra credenza le attribuisce sono qualità parziali, inadeguate, ma qualità della cosa stessa; che infine tra le anticipazioni dell’esperienza ante-predicativa e le predicazioni obiettive della scienza deve essere stabilita una continuità-, la doxa percorre l’intera costituzione dell’oggetto, sicché ad ogni posizione, dubbio, conferma, risoluzione attiva in senso predicativo, corri¬ sponde puntualmente un essere originario che si annuncia appena, che eventualmente si dissolve in apparenza e si fa conoscere come qualcosa d’altro, che si conferma, che viene coinvolto in un essere predicativo di grado superiore. È proprio questa continuità che viene spezzata dalla conce¬ zione meramente ftsicalistica della realtà materiale, sia che alla realtà “apparente” venga sostituita una “realtà” scritta matematica-

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Scepsi e conoscenza

mente, sia che lo stesso mondo delle idealità matematiche venga considerato come una trascrizione di un mondo in sé inaccessibile. Non ci proponiamo qui di seguire l’analisi husserliana della “costituzione della cosa”; rinviamo per questo alle Idee II; i brevi cenni che daremo in seguito (sia in questa parte che nella succes¬ siva) hanno un valore solo orientativo.1 Ci importa invece mag¬ giormente mettere in evidenza: 1) il complesso di problemi e di analisi che dobbiamo affrontare per porre correttamente il pro¬ blema della cosa materiale e della “cosa fisica”; 2) il rovesciamento veramente radicale che si opera con la “ Dingkonstitution ” husser¬ liana rispetto alla tradizione scientifico-filosofica dell’età moderna.

Immanenza e trascendenza A proposito del tema humeano del beliej abbiamo già consi¬ derata la necessità di introdurre, con la nozione di intenzionalità, una distinzione radicale nella sfera dei “dati” di coscienza: ri¬ spetto al “reale” accadere delle percezioni si è dovuto parlare di una “trascendenza” intenzionale. Nei termini delle Idee husser¬ liane, dovremo distinguere tra Ximmanenza dei vissuti di coscien¬ za e la trascendenza dei loro oggetti intenzionali (appartenenti be¬ ninteso anche questi alla sfera del “cogito”). L’intera sfera degli oggetti (materiali, psichici ecc.) si esaurisce nell’ambito di queste trascendenze, al di fuori delle quali non ha alcun senso immagi¬ nare una trascendenza di grado ulteriore (quella di un in sé extracoscienziale), il che implicherebbe un incomprensibile rapporto tra quest’ultima e quella “semplicemente intenzionale.” Come Husserl avverte nelle Ricerche logiche, “è un grave errore stabilire in modo generale una differenza tra gli oggetti ‘sem1 La più ampia esposizione della costituzione della cosa è quella, tuttora inedita della cosiddetta "Dingvorlesung” del 1907. Per i nostri scopi è più che sufficiente l’espo¬ sizione di Idee II. Nel libro di Ulrich Cleasges, E. Husserl Theorie der Raum\onstitution (Haag, Nijhoff, 1964) sono stati tenuti presenti i vari manoscritti concernenti lo spazio e la cosa spaziale. Alle pp. 1-2 e ai §§ 24-27 è contenuto un interessante raf¬ fronto con la “cosa” kantiana. Cfr. anche: O. Becker, Beitrdge zur phànomenologischen Begrundung der Geometrie und ihrer physi\alischen Anwendung, nello “Jahrbuch” di Husserl, VI, 1923. Per la determinazione dell 'idea della natura in generale in riferimento alle scienze naturali e al loro atteggiamento teoretico rispetto a quello pratico e valutativo, cfr. Idee II, sez. I, c. I.

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La cosa e l’immagine

plicemente immanenti’ o ‘semplicemente intenzionali’ da una parte e gli oggetti ‘reali’ e ‘trascendenti’ che corrisponderebbero loro eventualmente.” Si tratta di un errore “che si tramanda at¬ traverso i secoli” e rispetto al quale va stabilito “che l’oggetto intenzionale della rappresentazione è lo stesso che il suo oggetto effettivo, eventualmente esterno [cioè spaziale: come la cosa ma¬ teriale!] ed è assurdo stabilire una distinzione tra di essi ” ; giacché “l’oggetto trascendente non sarebbe affatto l’oggetto di questa rap¬ presentazione se non fosse il suo oggetto intenzionale.” ìdintenzio¬ nalità è, insomma, il carattere proprio di ogni oggetto della co¬ scienza, e d’altra parte ogni oggetto intenzionale è caratterizzato da una trascendenza, che non significa estraneità rispetto alla co¬ scienza, ma indica una distinzione radicale tra l’oggetto stesso e gli atti della coscienza in cui è vissuto, gli atti di apprensione, di ideazione, ecc. (le “ cogitationes ”).2

Critica della teoria dell’immagine L’assurdità di una distinzione tra l’oggetto intenzionale della rappresentazione e quello costituito dalla cosa stessa risulta da una critica della teoria della conoscenza come immagine, la qua¬ le considera appunto le nostre nozioni, ingenue o scientifiche, del¬ la realtà, non come una conoscenza diretta della realtà stessa, ma come qualcosa che starebbe in luogo di essa, un suo “rappresen¬ tante” nella nostra coscienza. Accettando quest’ultimo punto di vi¬ sta difatti, non viene risolto alcun problema conoscitivo: l’immagine “nella” coscienza e la realtà ad essa “esterna” rimangono due cose prive di qualsiasi relazione. Come potremmo mai riferire questa immagine a un oggetto esterno? Naturalmente non trarremmo alcun vantaggio richiamandoci alla somiglianza tra immagine e cosa, dato che, per ipotesi, la coscienza di cui parliamo non pos¬ siede che immagini, non cose. E ancora: “La somiglianza tra due oggetti, per quanto grande possa essere, non basta ancora a fare di uno l’immagine dell’altro. È solo grazie alla facoltà di un 2 Logische Untersuchungen, V Ricerca, Appendice ai § § 11 e 20, intitolata Con¬ tributo alla critica della “teoria delle immagini" e della teoria degli oggetti "immanenti" degli atti (II, 1, pp. 421 sgg.).

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io (capace di rappresentazione) di servirsi del simile come rappre¬ sentante in immagine di ciò che gli è simile, di avere intuitiva¬ mente presente soltanto l’uno e di intenzionare però l’altro in luogo suo, che l’immagine diventa davvero tale.” “Perciò se l’apprensione come immagine presupponesse già un oggetto dato intenzional¬ mente alla coscienza, questo ci porterebbe manifestamente a una regressione all’infinito, ad ammettere cioè che questo stesso og¬ getto sia costituito a sua volta per immagine e cosi via.” “La espressione grossolana di immagini interne (per opposizione agli oggetti esterni) non può essere tollerata [...] Il quadro è un imma¬ gine soltanto per una coscienza costitutiva di immagine.” La stes¬ sa critica si applica, mutatis mutandis, alla teoria dei segni, sotto la quale possiamo ricondurre tutte le scappatoie positivistiche alle quali abbiamo accennato, che si sforzano di conservare qualche rapporto tra coscienza e realtà senza concedere alla coscienza un qualsiasi accesso verso le cose stesse.3

La cosa sensibile e la cosa del fisico Noi sappiamo già che l’errore a cui ci riporta la teoria del¬ l’immagine e dei segni ha precise motivazioni storiche, nella fi¬ losofia moderna. Cartesio e Hobbes parlano appunto di idee o di immagini affidando loro una luogotenenza della cosa nella coscien¬ za. Ma se sulla base delle motivazioni addotte noi rifiutiamo alla cosa sensibile il carattere di immagine, e le riconosciamo una por¬ tata sull’essere stesso delle cose, si capovolge anche lo statuto pe¬ culiare dell’obiettività predicata nella fisica. La stessa cosa del fisico infatti non solo non può essere identificata con la cosa nel senso dell’in sé, ma neppure può essere considerata come una “imma¬ gine” o comunque come un essere essenzialmente diverso da quel¬ lo che appare sensibilmente: “Per principio, una cosa, e precisamente la cosa di cui parla il fisico, [...] può essere data soltanto sensibilmente, in ‘modi di apparizioni’ sensibili, e quel quid iden¬ tico che appare nella mutevole continuità di queste apparizioni è

3 Log. Unters., luogo cit. Cfr. anche (oltre al § 11 della V Ricerca) l’analoga cri¬ tica della teoria delle immagini in Idee I, § 43 e p. 116.

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La cosa e l'immagine

ciò che il fìsico sottopone (in relazione a tutte le connessioni speri¬ mentali percepite o no che, quali ‘circostanze,’ possono presentarsi) ad una analisi causale e ad una indagine secondo nessi di neces¬ sità reale. La cosa, che egli osserva, con la quale esperimenta, che egli vede continuamente, che prende in mano, mette sul piatto della bilancia, introduce nella storia: questa e nessun’altra cosa diventa soggetto dei predicati fisici, quali sono il peso, la massa, la temperatura, la resistenza elettrica, ecc. Parimenti, sono gli ac¬ cadimenti e le connessioni percepite che vengono determinate me¬ diante concetti come forza, accelerazione, energia, atomo, ione, ecc. La cosa sensibilmente apparente, che ha figura, colore, odore, sapore sensibili, non è dunque affatto un segno per qualcosa d’al¬ tro, ma in certo modo segno per se stessa.”4

Soggettività e oggettività Le analisi precedenti ci hanno già lasciato intravedere la grave insufficienza in cui permangono le nozioni di soggettività e og¬ gettività e quelle di immanenza e trascendenza non solo nella tra¬ dizione del pensiero fisicalistico, ma anche in quella del sogget¬ tivismo empirista. Se — come nel primo caso — l’oggettività (magari solo ipotetica) vale come l’essere in sé delle cose, questa oggettività è evidentemente qualcosa di presupposto alla coscienza, alla soggettività. E soggettività significa inevitabilmente: quel tan¬ to che dell’essere obiettivo si trasmette in maniera secondaria alla coscienza. Nel secondo caso, in quanto l’essere-in-sé delle cose vie¬ ne estromesso da ogni considerazione, non sussiste nemmeno una “oggettività” presupposta del genere indicato; ma — come abbia¬ mo riscontrato in Hume — non sussiste qui più alcuna obietti¬ vità che non sia una semplice “finzione.” Ma se si è compreso il nesso di immanenza-trascendenza come il rapporto che intercorre tra la sfera dei “vissuti,” degli atti, e i loro “oggetti intenzionali,” si comprende anche come il ca¬ rattere “soggettivo” delle oggettualità di ogni livello non si con¬ trapponga in alcun modo ad una “oggettività” anteriore di carat4 Idee I, § 52, pp. 116-117.

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tere extra-coscienziale. Allora il carattere soggettivo oppure og¬ gettivo di ciò che è dato vale solo nel senso di un diverso modo di darsi per la coscienza: “Posso dire che il dato fenomenologico vale come reale anzitutto per me: ma in ciò non è ancora impli¬ cito il fatto che questa validità sia una validità solo per me o an¬ che per tutti. È su questo terreno che si pone in modo legittimo la questione della distinzione tra oggettivo e soggettivo in senso comune. Quando parliamo di una verità soggettiva contrapponen¬ dola ad una verità oggettiva, intendiamo in realtà affermare che un determinato oggetto e valido solo per me e non per tutti. Ma in entrambi i casi vi è un riferimento soggettivo che diventa vi¬ sibile nel momento in cui formulo il problema in termini di vali¬ dità: questa validità è sempre una validità per qualcuno. Ciò che muta è il senso del soggetto per il quale qualcosa è valido, non il riferimento soggettivo in quanto tale. Perciò vi è una sottile quanto decisiva differenza di senso 'tra il carattere soggettivo dell’espe¬ rienza fenomenologica e il carattere soggettivistico di un’esperienza scettico-fen omen iStica. ”5 Se veniamo ora al caso specifico della cosa materiale, che si costituisce nella nostra esperienza sensibile (cosa che è la stessa, come abbiamo visto, a cui si applicano i predicati della determi¬ nazione fisica), anche qui si presentano immediatamente i pro¬ blemi già considerati in generale per ogni oggettualità intenzio¬ nale di qualsiasi livello. Per la tradizione “galileiana,” oggettive sono le qualità “matematiche” che sussisterebbero nella cosa an¬ che una volta rimosso l’animale, cioè la sensibilità soggettiva (su cui si fondano appunto le qualità soggettive o — come si dirà an¬ che — “secondarie”). Tuttavia già con Berkeley il fondamento di questa distinzione è stato criticato decisivamente: le qualità proprie dell’estensione si rivelano infatti altrettanto “soggettive” e fondate sulla sensibilità àt\Yanimale quanto p.es. il colore, ecc.6 Ma vediamo meglio in che senso si debba parlare di “sog¬ gettività” per le qualità dei corpi. È un fatto di esperienza quoti¬ diana che per esempio il colore di un corpo si modifichi in rela5 6

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Giovanni Piana, I problemi della fenomenologia, Milano, Mondadori, 1966, p. 81. Berkeley,

A treatise concerning thè Principles of Human Knowledge

(1710).

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zione alle circostanze (sia a quelle esterne, come il variare delrilluminazione, sia a quelle somatico-percettive, come nel caso di una malattia degli organi sensibili o della ingestione di partico¬ lari sostanze). Dovremo dire per questo che il colore di quel cor¬ po è qualcosa di meramente soggettivo e di diverso a seconda del¬ le circostanze percettive? (Lo stesso discorso, naturalmente, vale per le qualità termiche, per la sonorità ecc.). Dobbiamo tener presente che di fronte al variare del colore secondo le circostanze, noi tendiamo generalmente a dire: il co¬ lore di questo oggetto è il rosso, ma in questa particolare situa¬ zione luminosa o somatica non lo percepisco come tale. Se per esempio nella notte non distinguiamo più alcun colore del corpo e non percepiamo neppure più visivamente il corpo stesso (ma solo col tatto ecc.), il senso complessivo della nostra esperienza e delle sue concordanze ci impone già anche al livello dell’esperienza “solipsistica” di dire: il corpo stesso è rosso, ma le circostanze mi impediscono di vederlo come tale. In altre parole, è implicito nel¬ la nostra esperienza un rimando a condizioni “ottimali,” a con¬ dizioni di “normalità” percettiva, in base alle quali noi distin¬ guiamo tra quelli che sono i caratteri stessi delle cose e il loro modo di darsi. Naturalmente è anche vero che nell’ambito del¬ l’esperienza solipsistica non è sempre possibile una simile distin¬ zione, ed è proprio per questo che ha senso parlare di una con¬ creta “socialità” della conoscenza, in cui concretamente si costi¬ tuiscono le norme e rispetto alla quale per esempio l’esperienza del malato o del pazzo è “anormale.”7 Proprio in relazione a queste “norme” percettive Husserl può parlare di un colore obiettivo o di altre qualità sensibili obiettive di un corpo. Né del resto questa complessa nozione dell’obietti¬ vità può essere in qualche modo semplificata se prendiamo in con¬ siderazione le qualità cosiddette “primarie,” quelle dell’estensio¬ ne pura e semplice: anche una superficie “quadrata” ci appare tale solo ottemperando a certe norme percettive, p.es. a un certo punto di vista spaziale dal quale ci dobbiamo mettere, e al di fuori del quale essa ci apparirebbe piuttosto come un rombo ecc. Ri7 Sul rapporto tra l’esperienza solipsistica e quella intersoggettiva, e sulla normalità, cfr. Idee II, sez. I, c. III.

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sulta allora che la cosa della fisica non corrisponde in realtà ad alcuna qualità intuitiva8 (che per sussistere presuppone sempre la presenza di un corpo percipiente). La cosa fisicalistica è allora qual¬ cosa di effettivamente indipendente dall 'animale e dai suoi stati soggettivi, ma solo in virtù di una obiettivazione che le ha sot¬ tratto ogni contenuto intuitivo, riducendola a un “vuoto qualco¬ sa,” una “x” portatrice di determinazioni “puramente fisiche.” Nello stesso tempo intravediamo già qui dal testo delle Idee Il un altro punto la cui importanza andrà sempre accentuandosi nel corso della ricerca husserliana: questa obiettivazione per la quale dalla cosa materiale data sensibilmente noi passiamo alla cosa della fisica non è un’operazione che si imponga di necessità, né al livello solipsistico né a quello dell’esperienza intersoggettiva: è soltanto un’operazione che noi liberamente possiamo decidere e che certo può avere vantaggi incalcolabili, permettendoci di co¬ struire delle oggettualità di una specie particolare, oggetti ideali i cui rapporti sono determinati da una legalità a priori indipen¬ dentemente dalle “circostanze” conflittuali della nostra o dell’al¬ trui situazione percettiva.9 10

ha costituzione della cosa Questa chiarificazione preliminare del significato della “cosa fisica” ci introduce direttamente alle complesse analisi compiute da Husserl a partire dal 1907 sulla costituzione della cosa}0 II suc¬ co di queste ricerche viene esposto nel II volume, postumo, delle Idee-, sui caratteri del processo conoscitivo che ci permette di ri¬ levare il senso “puramente teorico” dell’essere della realtà spa¬ ziale dovremo ritornare nel VI capitolo. Qui ribadiamo soltanto, in riferimento col nostro tema attuale, che Husserl — m netta op¬ posizione con la mentalità “fisicalistica” — asserisce l’intrinseca inerenza alla cosa spaziale di quelle qualità che la fisica galileiana aveva “ epochizzato ” ritenendole meramente soggettive. Quanto abbiamo detto sul significato della relazione tra immanenza e tra8 Idee, p. 483. 9 Cfr. Idee, § 18 g. 10 Cfr. la nota 1 di questo capitolo.

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La cosa e l’immagine

scendenza ci permette di comprendere come tutte le qualità che riscontriamo nella “cosa,” qualità “primarie” e qualità “seconda¬ rie,” appartengano al terreno unico delle trascendenze spaziali e non possano intendersi in nessun senso come caratteri degli atti soggettivi, della soggettività “immanente” di coscienza.11 Ora, nel¬ l’esame concreto della cosa spaziale, noi troviamo la “cosa della fisica” solo come l’ultimo grado di una riduzione progressiva che si opera su qualità effettivamente inerenti alla cosa stessa. ha cosa come estensione qualificata Questa epochizzazione non si esercita arbitrariamente: negli strati co¬ stitutivi della cosa, secondo l’esposizione delle Idee II, noi ritroviamo ef¬ fettivamente una “qualità” sui generis come l’estensione, presupposto delle determinazioni geometriche (grandezza, forma, figura, ecc.), che appare “riempita” di qualità di genere differente, propriamente “qualificanti.” Ri¬ spetto a queste ultime l’estensione rappresenta una “forma essenziale” ge¬ nerale: senza un’estensione non è possibile alcun colore, alcun peso, ecc. della cosa. “Ma naturalmente l’estensione corporea non può mai stare da sola, la sua particolare posizione non è quella di una qualità reale tra le altre. La cosa è ciò che è nelle sue qualità reali, che, prese ciascuna per sé, non sono tutte necessarie nello stesso senso; ciascuna di esse è un raggio del suo essere. Ma l’estensione corporea non è nello stesso senso raggio dell’essere reale, non è in ugual modo una qualità reale (‘non è propria¬ mente una qualità reale’) bensì una forma essenziale di qualsiasi qualità reale. Perciò un corpo spaziale vuoto è in realtà un nulla, e soltanto in quanto una cosa si estende in esso con tutte le sue qualità cosali. Meglio: il corpo è una determinazione reale, ma è una determinazione fondamentale in quanto fondamento essenziale e forma per tutte le altre deter¬ minazioni.”12 La cosa materiale e le “circostanze” Con questo non abbiamo ancora definito che lo schema sensoriale che inerisce all’essenza della cosa, cioè la sua “ intelaiatura fondamentale. Ma questa corporeità spaziale costituita di una “estensione qualificata” non rappresenta ancora la cosa propriamente reale-materiale13: all’apprensione della cosa materiale è ancora necessario il riferimento alle circostanze, al “contesto della cosa,” senza di cui “non troviamo alcuna possibilità di de¬ cidere [...] se la cosa materiale esperita sia reale oppure se noi siamo vit¬ time di un mero inganno e se l’esperito sia un mero fantasma. E solo 11 Cfr.

sul

tema

"immanenza-trascendenza”

la

nota

su

Esperienza

“esterna”

e

esperienza “interna" alla fine di questo capitolo.

12 13

Idee II, § 13, pp- 429-430. Ivi, § 15 b, p. 435. 14 Ivi, p. 438.

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nella relazione alle circostanze (che non si presenta mai arbitraria, ma ri¬ gorosamente determinata, entro lo stile complessivo dell’esperienza) si rende possibile quella sintesi identificatrice che “obiettiva” le apparizioni di volta in volta date nello schema sensibile. “Col mutare deirilluminazione e quindi in relazione con un’altra cosa che è sorgente di luce, la cosa assume un aspetto sempre diverso, e questa diversità non è arbitraria bensì deter¬ minata. Evidentemente esistono qui nessi funzionali i quali pongono in relazione le modificazioni schematiche, che stanno da una parte, con le modi¬ ficazioni schematiche che stanno dall’altra. Il senso stesso dell’apprensione della cosa in quanto cosa (e non del mero fantasma) implica che simili sche¬ mi, fluendo attraverso determinate serie di modificazioni, ora modificandosi in modo determinato, ora non modificandosi, vengono esperiti come manife¬ stazioni di un’unica e medesima cosa. Noi li esperiamo però come tali, sol¬ tanto in quanto essi si manifestano come elementi ‘dipendenti’ da inerenti ‘circostanze reali.’ Quindi, nel nostro esempio, noi esperiamo una stessa cosa dal punto di vista delle sue qualità ottiche, le quali, nel mutare del¬ l’illuminazione attraverso corrispondenti sorgenti di luce, mantengono la loro unità e la loro determinatezza. L’unità attraversa tutti gli schemi in quanto siano schemi cromaticamente riempiti. Ciò che cosi si costituisce è il colore ‘obiettivo,’ il colore che la cosa ha, sia che si trovi alla luce del sole o in una luce naturale fioca o nel buio di un armadio.”15 Con ciò lo “schema” stesso viene appreso come la manifestazione ori¬ ginaria di una qualità reale, come stato reale, come stato reale della cosa, e non piu come semplice fantasma-, e ciò in relazione con questa deter¬ minatezza delle dipendenze (dalle circostanze, dalle cose circostanti) per cui possiamo affermare che “la realtà [...] e la causalità sono inseparabil¬ mente inerenti,” e che “le qualità reali sono eo ipso qualità causali.”16 Il riferimento somatico. “Normalità” e "socialità” Fino a questo punto tuttavia l’analisi si è mantenuta in un’astrazione a cui ora dobbiamo rinunciare. Non abbiamo cioè rilevato fino a questo momento come la configurazione delle cose materiali, quali stanno intuivamente davanti a noi, dipenda dalla configurazione del soggetto espellente, dal “corpo somatico” del soggetto e dalla sua “sensorialità normale.” Il corpo somatico è l'organo della percezione, e la possibilità stessa dell’espe¬ rienza comporta la spontaneità dei processi sensitivi, comporta cioè il corpo somatico come totalità liberamente mobile degli organi di senso}1 Abbiamo già chiarito il significato della “normalità” percettiva (normalità delle con¬ dizioni della sensibilità e normalità degli organi sensibili) in cui il “colore stesso” della cosa si distingue come ottimale rispetto alle molteplici qua¬ lità schematiche possibili che vengono ridotte a semplici “aspetti,” “appa15 Ivi, § 15 c, p. 439. 16 Ivi, § 15 d, e, pp. 440-442. 17 Ivi, § 18 a, p. 453.

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rizioni” del colore oggettivo.18 Si è già accennato d’altra parte anche al problema della socialità ” della conoscenza, quello del rapporto tra il sog¬ getto solipsistico, qui considerato in un’astrazione ideale, e l’effettiva in¬ tersoggettività dell’esperienza. Con queste premesse abbiamo ora tutti gli elementi che ci permettono di accedere al riconoscimento del carattere “spe¬ ciale” della costituzione della cosa fisica come momento dell’oggettività della cosa. Le qualità “secondarie,” che la fisica moderna esautora fin dai suoi inizi come semplici “apparenze,” non inerenti, come tali, alla realtà stessa della cosa, ci sono apparse, in questa analisi, come qualità ogget¬ tive: “in sé, al corpo inerisce un colore che viene colto nella visione ma che ha un aspetto [un modo di apparizione] sempre diverso.”19 Perciò “sotto il titolo di cosa ‘vera,’ ‘obiettiva’ bisogna intendere due cose: “I) la cosa cosi come si rappresenta per me in condizioni ‘normali,’ e rispetto alla quale tutte le altre unità cosali — costituite in condizioni ‘anomale’ — sono degradate a ‘mera apparenza’; II) la compagine identica di qualità, che può essere circoscritta e fis¬ sata sul piano logico-matematico prescindendo da ogni relatività: la cosa fisicalistica. ”20

L'importanza di questi risultati per la nostra chiarificazione della possibilità della conoscenza in quanto conoscenza delle cose stesse, della realtà stessa e non delle sue semplici parvenze o delle sue immagini soggettive, balza subito agli occhi: attraverso la cri¬ tica della riduzione fisicalistica delle qualità secondarie a mere parvenze, Husserl ha restituito all’esperienza sensibile una dignità conoscitiva, ne ha riconociuto anzi il carattere di fondamento per ogni ulteriore specificazione e “riduzione.” Le sue analisi costi¬ tutive ci hanno mostrato che per una corretta nozione conoscitiva della cosa materiale non è possibile accedere in maniera prelimi¬ nare a quella rimozione dell’“animale” che rappresenta il punto di partenza della fisica moderna. Da un punto di vista gnoseolo-

18 Ivi, § 15 b. 19 Ivi, § 18 b, p. 456. 20 Ivi, p. 473. U. Cleasges (op. citi) ricorda la distinzione tra essenze morfolo¬ giche (intuibili) e essenze esatte (non intuibili) (Idee I, §§ 73-75) su cui si fonda la possibilità di una scienza non matematica dello spazio (pp. 45 sgg.). La res extensa è innanzitutto un’essenza morfologica, afferrabile secondo concetti descrittivi. L’essenza spaziale “esatta” che può esserle sostruita è un apriori obiettivo nel senso della sospensione di ogni soggetto che la intuisca. Rispetto a questo in sé fisico-matematico, anche Cleasges rileva il senso di una diversa “obiettività” che si fonda sull’idea di normalità. Non condividiamo però il giudizio secondo cui in Idee II questo concetto sarebbe concepito “solo negativamente, in rapporto alla determinazione obiettiva-esatta del mondo” (p. 47). Non rientra poi nei nostri scopi attuali discutere le conclusioni critiche piu generali cui arriva

Cleasges.

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Scepsi e conoscenza

gico-costitutivo, per l’appunto, l’animale non può essere rimosso, pena la liquidazione della stessa cosa materiale. La cosa materiale è la cosa stessa della nostra esperienza di¬ retta; inversamente, la nostra esperienza diretta ci da la cosa stessa — in questo caso la cosa materiale — e non una sua immagine. In questa esperienza della cosa ci sono date anche le sue qualità, le quali sono colte come schemi della cosa dai rispettivi momenti sensi¬ bili: sono le qualità della cosa stessa. Ci è data Xestensione della cosa come pure il suo colore: le qualità primarie sono altrettanto “sog¬ gettive” in partenza, di quelle secondarie. E tuttavia la loro sog¬ gettività non è la loro immanenza, la quale compete agli Erlebnisse in cui la cosa e le sue qualità si danno a noi: anzi, cosa e qualità della cosa, qualità “primarie” e “secondarie” sono allo stesso modo trascendenti rispetto alla sfera degli atti, ed è per que¬ sto che Husserl può parlare di un colore oggettivo. Quando poi noi elaboriamo una scienza matematica della natura, operiamo non sulle realtà in sé prime, o sulle più vicine all’in sé, ma su uno strato tematico che è il frutto di una riduzione. Questa opera¬ zione è perfettamente legittima; ma ha i suoi limiti, come ve¬ dremo, e si deve evitare di considerare l’oggettività matematica come causa delle qualità che non si lasciano ridurre ad essa. Na¬ turalmente un nesso causale è riscontrabile nel rapporto tra le mo¬ dificazioni nella sfera delle “forme” e quelle dei contenuti sensi¬ bili; ma non necessariamente nel senso di un causalismo univoco e come se una realtà “obiettiva” (extra-sensibile) determinasse Xap¬ parenza nella sfera della percezione animale.21 Vedremo nella II parte come la stessa esposizione delle Idee Il lasci aperti ulteriori problemi che toccano il significato della conoscenza come possibilità di un atteggiamento “puramente teo¬ rico” e in particolare il problema di distinguere, all’interno della scienza naturale, le operazioni svolte nell’interesse della conoscenza da quelle conformi a un orientamento essenzialmente diverso.

21 Cfr. la parte finale del nostro c. VI.

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Nota Esperienza “esterna” e esperienza “interna” Nonostante la vena scettica che lo accompagna in tutto il suo sviluppo, il positivismo ottocentesco non è lontano dal ritenere valido lo schema di un in sé sconosciuto che si comunica per vie non bene accertabili alla coscienza, seguendo comunque la trafila delle stratificazioni fisio-psichiche. E anche qui naturalmente, la riflessione scettica non mancherà di farsi va¬ lere, col riconoscimento — che solo in alcuni casi si rende esplicito — del carattere “ipotetico” dell’intera costruzione. Cause sconosciute, che tuttavia vengono immaginate oscuramente se¬ condo un modello meccanico, agiscono dunque sui sensi e ingenerano per loro mezzo 1 immagine. Una fisiologia dei sensi è perciò il primo presup¬ posto di un indagine psicologica, e in ultima analisi quest’ultima dovrebbe ridursi a quella: la fisiologia è la verità della psicologia. Dovrebbe, per¬ che, come Stuart Mill e il primo a riconoscere, la nostra ignoranza delle condizioni fisiologico-nervose è troppo grande per consentirci di rinunciare alle risorse di un’analisi psicologica “diretta.5,1 Brentano e Dilthey Con Brentano e con Dilthey, come è noto, la psicologia ottocentesca subisce le prime trasformazioni di rilievo, per la loro insistenza sull’indi¬ pendenza del procedere descrittivo in psicologia rispetto a quello genetico o esplicativo. Le conclusioni che ciascuno di loro ricava da questo discorso sono diverse ma non prive di parentela. Brentano è piu restio a separarsi da una nozione della psicologia descrittiva come rovescio metodico di quel¬ la che “spiega” dall’esterno.1 2 Egli tuttavia stabilisce anche delle differenze essenziali tra i fenomeni psichici, che sono dati in un’assoluta evidenza apodittica, e quelli fisici, puramente ipotetici. Quanto a Dilthey, che ar¬ riva a un’analoga distinzione muovendo da diversi interessi culturali, egli mira a garantire la consistenza di uno strato di significato delle scienze umane o storiche che rimanda a un conoscere di tipo peculiare, un cono-

1 Ma si tratta di una riserva semplicemente provvisoria, cautelativa. Nonostante la sua prudenza metodica, l’empirismo si mantiene sul piano psicologistico in quanto non arriva ad afferrare la sfera del significato, e di fondo non sussiste su questo piano una differenza radicale con un positivismo psicologistico come quello di Wundt, per il quale la semplice descrizione psicologica ha valore solo se può rimandare a una spiegazione fisiologica di base. Cfr. J. Stuart Mill, A system of logie, voi. II, libro VI, capitoli 1-5; W. Wundt, Grundzùge der physiologischen Psychologie (1874). Vedi per tutte queste re¬ lazioni storiche, comprese quelle cui stiamo per accennare tra Brentano e Dilthey, il vo¬ lume di Lucie Gilson, La psychologie descriptive selon F. Brentano, Paris, Vrin, 1955, pp. 188 sgg. 2 Cfr. L. Gilson, op. cit., p. 201.

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scere “comprensivo” che di principio non si lascia ritradurre nei termini dell’esteriorità esplicativa. Dove però Brentano e Dilthey si avvicinano è nella valorizzazione del motivo scettico inerente al positivismo, per il quale essi considerano la sfera deH’esteriorità “fisica,” a ogni livello, come una semplice ipotesi costruttiva. Perciò la scienza della natura è per Brentano “la scienza che cerca di spiegare la successione dei fenomeni fisici di sen¬ sazioni normali e pure (in quanto non vi si eserciti l’influenza di alcuno stato o processo psichico particolare) basandosi sull’ipotesi [Annahme] di un’azione esercitata sugli organi dei nostri sensi da un mondo che si estende in tre dimensioni come lo spazio [raumàhnlich\ e che scorre su una dimen¬ sione, come il tempo [zeitàhnlich\,” e tutto ciò — come Brentano si preoc¬ cupa di mettere in risalto — “senza pronunciarsi sulla natura [Beschaffenheit\ assoluta di auesto mondo.”3 In modo molto simile Dilthey parla del procedimento ipotetico-costruttivo della psicologia “esplicativa,” fondata sul metodo generale delle scienze naturali. Nel costruire “il sistema generale del¬ la causalità dei fatti psichici” è sempre possibile sostituire un complesso di ipotesi con un altro: “è così che Mill, ad es., pensa che si produca talora tra le rappresentazioni un processo analogo a una sintesi chimica; altri invo¬ cano però l’ipotesi di un parallelismo psicofisiologico.”4 In questa scepsi sull’esteriorità fisica (e anche le leggi fisiologiche della rappresentazione psichica appartengono aH’esteriorità fisica) si prolungano le conseguenze del dubbio radicale cartesiano e della sua soluzione dualistica. Se ci riti¬ riamo infatti AY interno della sfera psichica e ne affrontiamo direttamente la descrizione, i fenomeni che ci si presentano godono della certezza evi¬ dente del cogito, e permettono di stabilire proposizioni rigorosamente ne¬ cessarie. Cosi Brentano; ma — nonostante le differenze non trascurabili tra i due — anche Dilthey insiste sul fatto che nella psicologia descrittiva i complessi di fatti che si presentano “possono essere verificati inequivoca¬ bilmente dalla percezione interna.”5 È proprio dal riconoscimento del si¬ gnificato di questa situazione “cartesiana” e dalla sua critica che muovono le importanti indicazioni fenomenologiche sul tema della conoscenza, sul senso della “coscienza” e del “mondo,” sul rapporto tra gli ambiti scien¬ tifici e sul valore di verità delle rispettive teorie. Almeno in apparenza, la posizione di Husserl nelle Ricerche Logiche è strettamente affine alla situazione aperta nella psicologia da Brentano e da Dilthey. Nella sfera dell’interiorità psichica, diceva Dilthey, non si tratta di spiegare causalmente, ma di comprendere; la comprensione può realiz¬ zarsi in modo intuitivo, immediato, ma la scienza richiede che essa venga esplicitata attraverso un’analisi di tipo peculiare e una descrizione. La va-

3 F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpnnkt, Leipzig, 1874, libro II, c. I, § 9. 4 L. Gilson, op. cit., p. 198.

5 Dilthey, cit. in L. Gilson, op. cit., p. 198, nota 4.

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lutazione del procedere descrittivo in psicologia è ciò che avvicina mag¬ giormente Husserl a Dilthey e a Brentano. A questo punto però comin¬ ciano subito le divergenze. In particolare, Dilthey tracciava, proprio sul terreno della psicologia, una linea di demarcazione che dovrebbe separare dalle scienze della spiegazione quelle della comprensione intesa come par¬ tecipazione diretta, che permette di cogliere, nella certezza propria della vita interiore, la motivazione dei fatti psicologico-spirituali. Di qua si tro¬ vano, sulla base della psicologia riformata, le “Geisteswissenschaften”; di là rimangono al loro posto, come la tradizione scientifica le ha costituite, le scienze del mondo esterno e del senso esterno, le scienze (ipotetiche) della natura fisica. Corrispondentemente, si spartiscono qui, con le due sfere scientifiche, i rispettivi oggetti, il mondo esterno e il mondo interno. Ciò che Husserl finirà per apprezzare in Dilthey è questa sua sensibilità per un genere di conoscenza non meccanico-causale; quel che rifiuta, già nelle Ricerche Logiche (dove il discorso si riferisce però piuttosto a Brentano) è l’impropria caratterizzazione di un mondo di fenomeni fisici visti come meramente ipotetici e contrapposto, sulla base della distinzione fra “in¬ terno” e “esterno,” alla presunta indubitabilità del mondo psichico. Da que¬ sta critica derivano importanti conseguenze che ci appariranno evidenti in seguito. Seguiamo per il momento il discorso delle Ricerche Logiche.

“Descrivere” e “spiegare” Alla base di tutte le Ricerche Logiche sta la distinzione tra il conoscere come “chiarificazione” (Aufhlàrung) dello stato di cose e il procedere del¬ la “spiegazione” (Er\làrung). Il senso dello spiegare ci è ormai chiaro: si tratta di risalire dietro la sfera delle apparenze (qualunque valore si as¬ segni loro rispetto alle cose reali) per ritrovare le loro cause piu remote. Husserl rifiuta già nelle Ricerche Logiche il fatto che questo genere di “ spiegazione ” costituisca lo scopo della teoria della conoscenza. Mentre vo¬ gliono spiegare causalmente i fenomeni, le scienze esplicative “ sorvolano rapidamente” sul loro contenuto descrittivo.6 L’interesse che muove la ri¬ cerca fenomenologica è del tutto diverso, in quanto ha di mira propria¬ mente questo contenuto descrittivo dei “vissuti” di coscienza, il loro senso. Se p.es. si tratta di chiarire il processo dell’astrazione, che rende possibile la conoscenza della “specie,” non si tratta di cercarlo nelle connessioni ipotetiche che governerebbero i fenomeni psichici, secondo le leggi di una qualche chimica mentale o secondo l’ipotesi di un parallelismo fisio-psichico, ma “di descrivere lo stato di cose immediatamente dato alla descri¬ zione, in cui prendiamo conoscenza dello specifico.”7 In modo analogo, se — facendo un passo indietro — vogliamo chiarire il significato dell as-

6 Logische Untersuchungen, II, 1, p. 120. 7 Ivi, 1. c.

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sociazione,” dovremo prenderla in considerazione come “il fenomeno per cui una cosa ne indica un’altra [das Phànomen der Anzeige],” fenomeno che può essere descritto in se stesso ed eventualmente indagato, quanto alla sua origine, nelle anticipazioni passive della nostra coscienza, nella coscienza interna del tempo, mentre deve “restare esclusa ogni maniera di concepire l’associazione e la sua legalità come una specie di legalità na¬ turale psico-fisica che si possa ottenere mediante l’induzione obiettiva.”8 Generalizziamo adesso queste poche osservazioni, condotte su esempi, per cercare di impadronirci della sfera di ricerca specificamente fenomenologica e per ricollegarci al nostro tema iniziale delle “cose stesse.” Indi¬ pendentemente dalla validità delle induzioni psico-fisiche ricordate, le teo¬ rie della conoscenza che si basano su di esse per “spiegare” il conoscere sembrano dare per scontato che il mondo, quale si presenta a noi, alla no¬ stra intuizione sensibile o intellettuale, sia una soprastruttura, una costru¬ zione di cui andiamo debitori alla nostra specifica natura psico-fisica; che esso non rappresenti però che un’apparenza illusoria, per sé vuota di signi¬ ficato; che infine la sua verità stia dietro di lui, nelle cause prime che ne sono a fondamento e lo determinano secondo un dato modo di apparire. Il punto di vista della fenomenologia, pienamente sviluppato, ci porta in¬ vece assai lontano da queste posizioni, come ormai sappiamo. Provvisoria¬ mente, esso si può identificare nell’affermazione che lo stato di cose feno¬ menico è già di per sé ricco di senso, e ricco anzi di ogni senso; che esso costituisce propriamente un’unità di senso che può essere indagato autono¬ mamente, e propriamente “il solo che conti per l’elucidazione dei concetti e delle conoscenze.”9

Mondo dell’interiorità e mondo dell’esteriorità Se ci atteniamo a quanto è stato chiarito fino a questo punto, la po¬ sizione delle Ricerche Logiche sembrerebbe consistere nell’isolamento di uno strato di fenomeni che non si lascia “spiegare” secondo la legislazione naturalistica. A fianco del mondo della determinazione naturale, delle cause e — correlativamente, nella teoria — dello spiegare per cause, si darebbe un mondo della chiarificazione extra-causale, dotato di leggi peculiari. Il richiamo a Dilthey — che sarà Husserl stesso a fare nelle sue tarde le¬ zioni di psicologia10 — sembra inevitabile. Ma la forza di penetrazione della fenomenologia consiste proprio nel superare questo dualismo, nel quale ritornano immodificate (anche se in certo senso piu chiare e “con-

8 Esperienza e giudizio, § 16, pp. 75-76. 5 Logische Unters., II, 1, p. 200. 10 Cfr. per l’apprezzamento di Dilthey e di Brentano i primi paragrafi della Phànomenologische Psychologie di Husserl. Un’alta valutazione di Dilthey si trova anche in Idee II.

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fessate”) le difficoltà del dualismo tradizionale. Dilthey aveva cercato di “salvare” le scienze dello spirito dalla riduzione naturalistica proprio sulla base della distinzione dei due campi, trovando il luogo geografico di que¬ sta distinzione, sulla carta delle scienze, nella psicologia. Essa studia la psiche umana, come psicologia “sperimentale” e “esplicativa,” dal lato del determinismo naturale; ma, vista da un altro lato, essa è anche il ter¬ reno da cui sorgono le scienze umane o spirituali e che quindi, come psi¬ cologia “descrittiva,” deve individuare le forme specifiche dell’agire spi¬ rituale, le connessioni di senso che definiscono (secondo motivazioni non causali) i tipi fondamentali del comportamento umano, dei suoi modi di conoscenza, di creazione fantastica ecc. Alla base dello schema: scienze della natura e scienze dello spirito nell’accezione diltheyana (che può essere considerata tipica per il pensiero contemporaneo, anche se non è la sola) sta dunque la distinzione tra un mondo dell’esteriorità causale e uno dell’interiorità spirituale. Se analiz¬ ziamo nei particolari il discorso di Dilthey a questo proposito, vediamo ancora contrapporsi una percezione interna, che costituisce un “dato im¬ mediato” e “riposa su un’esperienza vissuta intima” e unitaria e una per¬ cezione esterna che di per sé non ci potrebbe mai garantire dell’unità del¬ l’oggetto.11 Da questo limite della percezione esterna risulta “che un in¬ sieme coerente della natura nelle scienze fisiche e naturali può sussistere soltanto in grazia di ragionamenti che completano i dati dell’esperienza per mezzo di una combinazione di ipotesi,” mentre nelle scienze spiri¬ tuali “l’insieme della vita psichica costituisce dovunque un dato primitivo e fondamentale.”12 Husserl, al tempo delle Ricerche Logiche, ha davanti un modello in parte analogo nella psicologia di Brentano. Brentano aveva individuato la distinzione fra fenomeni fisici e psichici nel carattere di ipoteticità dei primi (nel senso chiarito per cui la natura esterna di cui la percezione esterna è un elemento rimane legata a un processo ipotetico-costruttivo) e di assoluta immanenza, quindi di certezza (di adeguazione) dei secondi. La vita psichica, dominata dall’intenzionalità, possiederebbe, nel suo in¬ sieme, la certezza del cogito cartesiano. Nell’ambito della sua assunzione critica dell’intenzionalità di Brentano, Husserl mette in luce però la du¬ plicità che le è inerente: l’assoluta immanenza, quindi l’adeguazione, non è un carattere dei contenuti psichici intesi come cogitata ma solo delle cogitationes, degli Erlebnisse reali in cui le cose pensate si costituiscono. Queste ultime, rispetto alla “realtà” degli Erlebnisse, mantengono il loro carattere di trascendenze. A questo punto la distinzione tra percezione esterna e percezione in¬ terna diventa inessenziale, mentre la vera, essenziale distinzione non si in-

11 W. Dilthey, Ideen iiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894), in "W. D. Gesammelte Schriften,” voi. V, Stuttgart, Teubner, 19644, pp. 169-170. 12 W. Dilthey, op. cit., pp. 143-144.

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sinua tra i fenomeni, ma tra le “percezioni di —e ciò che in queste per¬ cezioni è percepito, l’oggetto intenzionale. E l’oggetto intenzionale può essere indifferentemente “interno” o “esterno,” cosa fisica o coscienza in¬ terna; in entrambi i casi esso trascende l’immanenza del flusso reale della coscienza e perde cosi l’apoditticità cartesiana propria dei vissuti. Come Husserl sostiene, si danno percezioni evidenti di contenuti psichici come di contenuti fisici, giacché è indubitabile ogni contenuto sensibile della percezione quando è effettivamente vissuto.13 Per conseguenza si deve negare lo schema — comune a Dilthey e a Brentano — che le scienze esplicative (quelle che costruiscono ipotetica¬ mente rinunciando all’evidenza) si esercitino sul mondo esterno, quello della natura fisica, e quelle descrittive valgano per la sfera dell’Erlebnis interiore. In tutte le scienze esiste un grado fondamentale “descrittivo,” quello specificamente fenomenologico, dunque anche per la natura fìsica. E in tutte le scienze è possibile (anche se ciò riveste di caso in caso un senso diverso) il passaggio alla costruzione esplicativa. In senso diverso, il che significa p.es. che nell’ambito della psicologia e di altre scienze la costruzione ipotetico-esplicativa non ha lo stesso valore di “verifica” che riveste nella fisica. Questa discussione è della massima importanza perché definisce il significato universale della sfera di considerazione fenomenologica. Essa non è più, come poteva sembrare dai primi accenni, un modo di analisi delimitato a una dimensione speciale, ma abbraccia di principio la totalità dei contenuti scientifici. Il mondo della natura fisica è di sua pertinenza non meno dei fatti “spirituali”; non solo, ma gli stessi procedimenti ipotetico-costruttivi, e infine la logica stessa su cui si fondano l’analisi ma¬ tematica e la geometria, sono termini di chiarificazione fenomenologica.14

13 Cfr. Logische Untersuchungen, II, 1, p. 238, e cfr. in generale tutta l’importan¬ tissima Appendice alla fine dell’intera opera (II, 2, pp. 222 sgg.), intitolata Percezione esterna e percezione interna. Fenomeni fisici e fenomeni psichici. 14 II discorso abbozzato qui a proposito delle Ricerche logiche dovrebbe essere sviluppato (come ci proponiamo di fare in altra occasione) nel senso indicato nell’intro¬ duzione (p. 12), tenendo conto dell’autocritica di Husserl a proposito della “mathesis." L’errore dei Prolegomena consisteva nella limitazione del concetto generale di scienza come "teoria nel senso piu ampio” al concetto particolare della teoria nomologicodeduttiva. Ciò che in scienze come la psicologia, la storia e la fenomenologia è prin¬ cipio di unità, "può ovviamente essere conosciuto soltanto oltrepassando la forma lo¬ gico-analitica.” (Logica, pp. 123-124). Se si tiene conto del fatto che negli scritti col¬ legati alla Crisi viene indagata fenomenologicamente la genesi di forme di discipline sistematico-deduttive, come quelle della geometria (in connessione con essa, quindi, la meccanica ecc.) e se teniamo presente quanto se detto sulla possibilità (e la priorità) di una scienza non matematica della natura, si scorge come Husserl muovesse in una direzione opposta a quella di un formalismo improntato all’ideale matematico (che gli è stato spesso attribuito) e tendesse piuttosto a definire correttamente e perciò insieme a delimitare il terreno della mathesis formale e delle sue applicazioni, subordinandolo all’idea piu universale di scienza, quella fenomenologica.

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Capitolo quarto

Prime conclusioni

Universalità della sfera conoscitiva Ripercorriamo sinteticamente i risultati raggiunti dall’analisi husserliana della conoscenza della realtà materiale, ricollegandoci al tema da cui eravamo partiti, il tema di una conoscenza effet¬ tiva, come conoscenza delle “cose stesse,” che ora ci apparirà il¬ luminato da una serie di importanti connessioni. Dopo avere accennato alla situazione di scetticismo che ac¬ compagna, alle origini della filosofia moderna, la nozione di una natura in sé, sviluppatasi a partire dalla nuova scienza, lo stesso tema humeano del belief, paradossalmente, ci ha mostrato proprio la possibilità di una motivazione e di una giustificazione antiscet¬ tica dell’esperienza effettiva. Abbiamo visto come la nozione di un “in sé” assolutamente trascendente e causa inattingibile della no¬ stra “immagine” del mondo sia appunto la conseguenza della ne¬ gazione di ogni significato dell’esperienza sensibile ai fini della conoscenza vera, e del fatto di non aver riconosciuto come le stes¬ se nozioni che il pensiero scientifico mette in opera traggano il loro fondamento di motivazione proprio a partire dal terreno del¬ l’esperienza; come esse non siano in definitiva nozioni dotate di un grado di maggiore aderenza all’in sé (a un in sé extra-empi¬ rico) ma semplicemente il frutto di operazioni rivolte in senso co¬ noscitivo a partire dal mondo soggettivo e relativo dell’esperienza; lo spazio della “cosa fisica” e il tempo delle scienze naturali, la stessa causalità naturale con cui il positivismo cerca di “spiegare” le connessioni dell’esperienza cosciente, sono già contenuti nelle

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Scepsi e conoscenza

connessioni originarie di questa esperienza. Perciò proprio con que¬ sto richiamo al terreno originario ed esclusivo dell’esperienza ven¬ gono a cadere anche tutte le teorie, sostanzialmente scettiche, che fanno della nostra conoscenza niente piu che un complesso di se¬ gni e di immagini che rimandano a qualcosa d’altro, a qualcosa di altrimenti inattingibile; mentre noi abbiamo visto come, se mai, le cose dell’esperienza siano “segni” o “indizi” per se stesse, nel senso che ogni grado di esperienza delle cose rimanda a un’espe¬ rienza più completa ed ulteriormente effettuabile delle stesse cose. Cadono, con ciò, le ossessioni tipiche di ogni idealismo soggetti¬ vistico, che non riuscendo a motivare la nostra esperienza delle cose teme sempre di veder ricomparire di fronte a sé lo spettro del realismo. Nel frattempo però il motivo cartesiano del cogito, che si è chiarito per noi come sostanzialmente affine a quello del belief humeano (attraverso la connessione che abbiamo accertata tra evi¬ denza e credenza), questo motivo, non riuscendo mai a liberarsi pienamente dell’ipotesi della costruttività del mondo, e della cor¬ relativa scepsi legata all’onnipotenza di Dio o del Maligno, ha dato luogo, nei tentativi moderni di reagire allo schema positivi¬ stico, all’isolamento delle scienze della natura e — correlativamen¬ te — della natura stessa, al di fuori del terreno della conoscibi¬ lità “vera e propria.” Noi abbiamo visto già, seguendo le fondamentali indicazioni delle Ricerche logiche, come questa frattura, che è diventata quasi un luogo comune, tra natura e spirito, scien¬ ze della natura e scienze umane, tragga origine da un’insufficiente indagine gnoseologica dei temi: “esperienza” (interna, esterna) ed “evidenza.” Analizzando nel suo senso autentico il rapporto immanenzatrascendenza, abbiamo potuto conseguire una concezione della aggettività piu complessa di quella del soggettivismo empirista. In particolare la nozione di intenzionalità ci ha permesso di ri¬ conoscere l’essenziale bilateralità della coscienza, in quanto “vis¬ suto (Erlebms, cogitatio) e in quanto cogitatum. E la distinzione di cogitano e cogitatum ci ha permesso di concepire un signifi¬ cato particolare della “trascendenza” che non significa in nessun modo una trasgressione dei limiti della coscienza e della cono¬ scenza possibile. Ciò è risultato soprattutto chiaro nella nostra com-

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Prime conclusioni

par azione tra il belìef humeano e la doxa husserliana, dove il ca¬ rattere soggettivistico e scettico del primo risultava connesso con la mancata articolazione del nesso: credenza-cosa creduta (eviden¬ za-cosa intuita, ecc.). Perciò il problema della realtà delle cose e della validità deh la conoscenza ci si presenta ora in una forma nuova. Innanzitutto dovremo riconoscere che nessuna sfera d’esperienza è privilegiata o carente rispetto a nessun’altra. L’“immanenza” assoluta in cui viene fatta consistere dai filosofi delle scienze dello spirito il fon¬ damento della loro certezza e autenticità, ci si è rivelata come un carattere che non appartiene allo psichico ma agli Erlebnisse reali in cui prende figura ogni oggettualità, psichica o fisica. Le qua¬ li oggettualità, psichiche e fisiche, si sono manifestate (al di là dei loro caratteri distintivi che non abbiamo potuto considerare in questo contesto) come egualmente “trascendenti.” Cade perciò la separazione tradizionale tra scienze della na¬ tura e scienze dello spirito, fondata sul caratterere di conoscibi¬ lità autentica riservato alle seconde e negato alle prime (in base al carattere ipotetico-costruttivo che sarebbe inevitabile nelle no¬ zioni concernenti la natura). Cade cioè una dicotomia che curiosa¬ mente si riafferma nella maggior parte delle gnoseologie contempo¬ ranee, e non solo da parte idealistica, ma anche da parte dei marxi¬ sti (come vedremo particolareggiatamente nella seconda parte) non appena essi si sforzano di sottrarsi alle connessioni di un materia¬ lismo di stampo positivistico. Il terreno di indagine della natura ci si ripresenta come un terreno di autentica esperienza e di au¬ tentica conoscenza; le scienze della natura ci si ripropongono nel loro carattere non meramente strumentale, ma di scienza vera e propria, solo che, naturalmente, sia proprio il fine della cono¬ scenza quello che promuove l’indagine, e non quello di una qual¬ siasi realizzazione pratico-strumentale.

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Parte seconda

Prassi e teoria

“lì correlato della natura non è un soggetto che non sa nulla, che non vuole nulla, che non valuta [...]. Nella conoscenza della natura si fa soltanto astrazione da qualsiasi valutazione che non sia nell’ordine del

sapere.” Husserl,

Idee II

Capitolo quinto

Nozioni marxiste della prassi

La prassi nel materialismo moderno Ricolleghiamoci ai sommari accenni storici fatti nella parte precedente. Ci siamo limitati a tratteggiare lo sviluppo della pro¬ blematica dell’in sé e della scepsi a partire dall’applicazione del metodo “galileiano” e dalla “riduzione” esercitata sulla cosa sen¬ sibile. Abbiamo evitato finora di porci una serie di problemi che riguardano questa evoluzione. Il metodo galileiano ha dimostrato un’efficacia straordinaria per il dominio delle forze naturali, no¬ nostante che sul piano conoscitivo le nozioni essenziali del nuovo pensiero venissero ben presto messe in dubbio e per buoni motivi. Fatto molto significativo, il metodo matematico e la concezione meccanica del mondo venivano ripresi ben presto anche per la de¬ terminazione delle “leggi” della vita umana e sociale. A questo proposito sarebbe stato certo più difficile parlare di un’efficacia empiricamente verificabile. Tuttavia, anche tralasciando le “spie¬ gazioni meccaniche” del comportamento umano a livello fisiolo¬ gico e psichico, almeno in un campo, quello dell’economia politica, lo sforzo della riduzione obicttivante ha potuto esibire certe for¬ me di “verifica.” È stato cosi possibile caratterizzare il sapere del¬ l’età moderna come dominato dall’idea di una ratio matematica e spiegare il parziale successo di questo atteggiamento nel campo delle scienze umane in base al fatto che il processo capitalistico di produzione imponeva, nei rapporti umani, un’obiettivazione pro¬ gressiva: la sostituzione di un rapporto obiettivo tra le cose in luo¬ go di un rapporto tra soggetti.1 Rimaneva però scarsamente 1

Lukàcs, Geschichte und Klassenbewusstsein (Studien iiber Marxistische Diale\ti\),

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Prassi e teoria

chiarito, anche all’interno del pensiero marxista, il giudizio sulla “razionalizzazione” della sfera naturale, che riveste una partico¬ lare importanza nel nostro discorso. Lo scorcio dello sviluppo storico del materialismo presentato da Marx e da Engels nella Sacra Famiglia fornisce già qualche indi¬ cazione in questo senso. In quelle pagine viene operata una netta distinzione tra un materialismo “misantropo” e meccanicistico e un’altra forma di materialismo che non trascura nella materia gli attributi sensibili, non ignora l’uomo e la sua coscienza soggettiva e che troverà il suo sbocco soprattutto nelle teorie sociali e nel socialismo stesso. Quelle pagine tuttavia non tendono a legittimare il dato di fatto della divisione tra un materialismo meccanicistico per la natura e un materialismo dei sensi e della funzione sog¬ gettiva umana. Si consideri il giudizio su Bacone, “vero capostipi¬ te del materialismo inglese,” per cui “i sensi sono infallibili e sono la fonte di tutte le cognizioni.” La materia non viene considerata solo sotto l’aspetto del movimento meccanico e matematico, ma ancor più come “impulso, spinta vitale,” ecc. “La materia sorride all’uomo in tutto il suo splendore sensuale e poetico.” E su Llobbes: “La sensibilità perde il suo fiore e diventa l’astratta sensibi¬ lità del geometra. Il movimento fisico viene sacrificato al movi¬ mento meccanico o matematico, e la geometria è proclamata la scienza principale. Il materialismo diventa misantropo.” La ridu¬ zione del sensibile, l’operazione per cui la realtà viene ridotta a un “fatto dell’intelletto,” viene sì motivata per la necessità di reagire con una “logica spregiudicata” alla concezione ascetica, “disincar¬ nata,” affrontandola sul suo stesso terreno. Ma questa valutazione non fa che ribadire il carattere meramente “dialettico” e negativo di un materialismo che riconosce solo la cosa deH’intelletto (even¬ tualmente, quindi, la “cosa della fisica”) ma non la cosa dei sensi, non l’intervento dell’attività sensibile umana nella determinazione della realtà.2 Berlin, Malik Verlag, 1923. Trad. frane, di K. Axelos e J. Bois, Parigi, Editions de Minuit, 1960. Poiché della vecchia edizione tedesca non esistono piu che rarissimi esem¬ plari, rimandiamo qui di seguito alle pagine dell’edizione francese. Tuttavia le principali citazioni riferite nel testo sono tratte già dalla traduzione italiana di G. Piana (in corso di pubblicazione presso la casa ed. Sugar, Milano). 2 Karl Marx e Friedrich Engels, La Sacra Famiglia, Roma, Ed. Rinascita, 1954, tr. di G. De Caria; cfr. pp. 135 sgg. (pagine scritte da Marx). Nonostante il suo ca¬ rattere di abbozzo provvisorio, questo schizzo storico mi pare molto importante per com-

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Nozioni marxiste della prassi

La stessa critica del materialismo obiettivistico si trova anche, come è noto, nelle Tesi su Feuerbach, dove tuttavia la polemica si allarga, e non solo contro l’idealismo, ma anche contro il materia¬ lismo “intuitivo.” Poiché qui entra in giuoco l'importante questio¬ ne del significato pratico dell’intuizione sensibile, dovremo permet¬ terci di ricordare ancora alcuni passi celebri. Dalla I tesi: “Il di¬ fetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quel¬ lo di Feuerbach, è che l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività sensibile umana, come attività pratica, non soggettivamente.” E in riferimento a Vi intuizione di Feuerbach, la V tesi: “Feuerbach, non contento del pensiero astratto, fa appello all’intuizione sensi¬ bile; ma egli non concepisce il sensibile come attività pratica, come attività sensibile umana.” “[Feuerbach] non concepisce l’attività umana stessa [‘reale, sensibile’] come attività oggettiva. Perciò [...] egli considera come schiettamente umano solo il modo di pro¬ cedere teoretico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui sol¬ tanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica” (I tesi).3 Con queste citazioni siamo entrati nel vivo del rapporto tra la teoria e la prassi. I passi citati, soprattutto in riferimento alla II e all’XI tesi, sembrano legittimare l’interpretazione sviluppatasi al¬ l’interno del marxismo, per cui la critica di Marx sarebbe rivolta essenzialmente contro la “ teoria, ” contro l’interpretazione filosofica del mondo. Di fatto già Engels imbocca decisamente questa stra¬ da quando nel Ludwig Feuerbach dichiara la fine della specu¬ lazione filosofica, sostituita dalla prassi scientifica e tecnologica dell’industria moderna. In questo senso la sua affermazione seprendere il senso generale del “materialismo” per Marx, e per mostrare come egli fosse ben lontano da quella specie di fisicalismo vergognoso e “critico" che è stato tanto spesso associato al suo nome. Naturalmente né queste poche pagine né le sintetiche Tesi su Feuerbach che le illuminano ulteriormente, possono valere come una definizione del ma¬ terialismo. Tra l’altro non appaiono chiariti i rapporti tra il meccanicismo cartesiano, di cui vengono messi in luce gli aspetti positivi (“Descartes nella sua fisica aveva prestato alla materia una forza autocreatrice e aveva concepito il movimento meccanico come suo atto vitale.” “Il materialismo cartesiano esiste tuttora in Francia. Esso ha i suoi maggiori successi nella scienza meccanica della natura," p. 136), e quello di Hobbes (l’osservazione che, presso quest’ultimo, “il movimento fìsico viene sacrificato al movi¬ mento meccanico o matematico," sembra riferirsi per contrasto, almeno nella formula¬ zione diretta, al materialismo “sensibile” di Bacone). 3 Karl Marx, Tesi su Feuerbach, in appendice a F. Engels, L. Feuerbach e il punto di apprrodo della filosofìa classica tedesca, tr. it. di P. Togliatti, Roma, ed. "Ri¬ nascita,” 1956.

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condo cui il problema della conoscibilità del mondo esterno è stata risolta con l’abfermarsi della nostra capacità di ricreare in laboratorio i processi naturali e, “quel che più conta,” facendoli servire ai nostri fini, sembra costituire il commento più ade¬ guato alla II tesi: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nel¬ l’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la real¬ tà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero.”4

Lufàcs interprete della prassi marxista Che Engels avesse colto veramente il senso delle affermazioni di Marx è stato contestato nel 1923 da Lukàcs.5 Nel suo saggio sulla Reificazione e la coscienza del proletariato6 egli rimprovera a 4 Ivi. Su Engels e sui suoi rapporti con Marx, non mi pare esista in Italia uno studio specifico che possa sostituire il vecchio lavoro di Rodolfo Mondolfo (Il materia¬ lismo storico in F. Engels, Bari, Laterza, 1912, 2a ed. it.: 1951). Su Marx critico di Feuerbach, cfr. Enrico Rambaldi, La critica anti-speculativa di L. A. Feuerbach (in corso di pubblicazione presso “La Nuova Italia,” Firenze), che convalida almeno in parte le vecchie tesi di Mondolfo (cfr. particolarmente l’opera Sulle orme di Marx, 19484). Sul concetto marxiano della praxis, cfr. le analisi di K. Kosik, Dialettica del concreto, riferite piu oltre e in appendice. Cfr. anche F. Fergnani, Marxismo e filosofìa contemporanea, Cremona, Mangiarotti ed., s. d. (ma: 1964 o 1965), c. I, e specialmente le pp. 40 sgg. Fergnani osserva che delle due opposte interpretazioni della gegenstàndliche Tàtig\eit (caratteristica della prassi umana, per Marx), Runa avanzata da un materialista osservante, come A. Schaff (sul quale cfr. la nota 34 del ns. c. XI) e che intende semplicemente: "un’attività che è rivolta alla realtà oggettiva,” l’altra dell’idealista e attualista Gentile, quest’ultima appare "più aderente — fino ad un certo punto — allo spirito attivistico delle Glosse” (p. 45). Osservazione probabilmente giusta, che dimostra la vuotezza della oppo¬ sizione di materialismo e idealismo almeno nella sua forma corrente. (Cfr. G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze, Sansoni, 1937; gli studi di Gentile su Marx risalgono al 1899; cfr. anche Ugo Spirito, Gentile e Marx, in "La filosofia del comuniSmo,” Firenze, Sansoni, 1948.) Fergnani, per conto suo, propone piuttosto un avvicinamento della prassi marxiana a Heidegger e a Dewey (tesi questa già sostenuta da altri in Italia). Secondo il punto di vista esposto in questo nostro capitolo, non ci sembra possibile accettare che “le cose” verrebbero, anche da Marx, “accettate ‘come materiale per il mutamento’ e che esse ‘sono quello che si può fare con esse,”’ espressioni di Dewey (cit. da Fergnani a p. 41) che ci ricordano piuttosto il Ludwig Feuerbach di Engels (cfr. la ns. nota 28 del c. I), nella loro tendenza a escludere la "conoscenza" in favore della “manipolazione.” 5 Contro la tesi che considera il passaggio alla prassi (intesa sia come prassi ri¬ voluzionaria che come prassi scientifica e industriale) come un puro e semplice supera¬ mento della "filosofia” (ad eccezione della sfera logica, intesa a sua volta come una scienza positiva), cfr. anche K. Korsch, Marxismo e filosofìa, 1923 (tr. it. di G. Backhaus, con introd. di M. Spinella, Milano, Sugar, 1966), che esclude però Engels dal novero dei liquidatori della filosofia, e — più recentemente — tra gli altri K. KosIk, Dialettica del concreto, pp. 182 sgg. 6 Fa parte di Geschichte und Klassenbewusstsein.

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Engels l'identificazione tra la “prassi” marxiana e l’atteggiamento “caratteristico dell’industria e dell’esperimento,” la quale “cerca di ridurre il sostrato materiale della sua osservazione — nella mi¬ sura del possibile — a ciò che viene ‘generato’ in modo puramente razionale, alla ‘materia intelligibile’ della matematica,” e suppone quindi un atteggiamento “contemplativo.” “E quando Engels, a proposito dell’industria, dice che ciò che è cosi ‘generato’ viene reso utilizzabile ai nostri scopi, sembra aver dimenticato per un istante quella fondamentale struttura della società capitalistica che egli stesso aveva formulato con insuperabile chiarezza nel suo ge¬ niale scritto giovanile. Sembra cioè aver dimenticato che la ‘legge di natura’ di cui si tratta nella società capitalistica ‘poggia sull’in¬ consapevolezza dei partecipanti.’ Nella misura in cui pone degli ‘scopi,’ l’industria non è soggetto delle leggi sociali, ma soltanto oggetto — in senso veramente decisivo, in senso storico-dialettico.” “È dunque ovvio che l’industria,’ cioè il capitalista come veicolo del progresso economico, tecnico, ecc., non agisce, ma subisce l’azio¬ ne e che la sua ‘attività’ si esaurisce nel calcolo e nell’osservazione corretta dell’operare oggettivo delle leggi naturali sociali.”7 Non è difficile oggi rilevare i limiti delle vecchie idee di Lukàcs. Egli stesso ne è diventato nel frattempo uno dei critici piu intransigenti. Le critiche che noi gli muoveremo coincidono però solo in parte con le sue. Se le concezioni di Storia e coscienza di classe ci sembrano parziali, le sue posizioni successive non rappre¬ sentano a nostro avviso un vero “superamento.” Per ora limitia¬ moci a tener conto di due punti essenziali del vecchio testo del 1923: 1. Lukàcs contesta che la prassi e l’atteggiamento pratico pos¬ sano coincidere con l’atteggiamento “caratteristico dell’industria e dell’esperimento,” nonostante l’attitudine vigente a considerare quest’ultimo come la forma più alta della prassi umana; contesta insomma che la verifica pratica possa corrispondere al successo del¬ lo sperimentatore e del tecnologo; 2. nello stesso tempo egli coinvolge nella sua definizione di un sapere meramente “contemplativo” anche la “prassi” matematizzante e “riduttiva” della nuova scienza, e, come stiamo per ve7 Ivi, pp. 168-169 (della ediz. frane.; tr. it. di G. Piana).

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dere, il sapere matematico stesso e la scienza dell’osservazione co¬ me tali. È soprattutto su questo punto però che la forza dell’analisi di Lukàcs rivela un cedimento: nell’interpretazione del carattere del¬ le scienze della natura e del sapere matematico egli non va oltre la comune coscienza dei suoi immediati predecessori filosofici, come per es. Dilthey. Egli infatti sembra ritenere che il carattere for¬ male del sapere concernente la natura sia quasi un destino di questo sapere, legato all’essenza specifica del suo oggetto. Questa impostazione gli permette di considerare la riduzione matematizzante come un fatto necessario e “fruttuoso” sul terreno naturale, mentre soltanto la sua trasposizione sugli oggetti sociali sarebbe tipica del revisionismo, e si rivelerebbe “uno strumento della lotta ideologica della borghesia.”8 Si profila anche qui il problema della relazione tra scienze naturali e sociali, spina di tutto il pensiero moderno.

Contemplazione e prassi Il lettore che non conosce l’uso peculiare fatto da Lukàcs dei termini “contemplazione” (“intuizione”) e “prassi” si trova di fronte a un sorprendente rovesciamento. Infatti Lukàcs, come ab¬ biamo già accennato, ritiene semplicemente contemplativo e non pratico un atteggiamento di mera constatazione empirica, fondata sull’intuizione, e sulla “razionalizzazione” operata dal metodo ma¬ tematico. La soggettività non viene provocata e non si impegna nel processo delle cose che considera, ma si arresta nella condi¬ zione dell’“osservatore disinteressato.” Ora, non è questo il mo¬ vimento di conquista della cosa e di unità del soggetto e della cosa che già Hegel richiede dalla conoscenza. Solo un processo del ge¬ nere è “ pratico, ” aggiunge Lukàcs, purché venga individuato il por¬ tatore effettivo di quella “ unificazione, ” che non può essere un sog¬ getto mitico e anonimo, come in Hegel rimane, bensì la coscienza di classe del proletariato, vero soggetto-oggetto unico della storia. Questi stessi motivi spiegano l’atteggiamento di Lukàcs nei conIvi, p. 28 (ediz. frane.).

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fronti della prassi routinière propria dell’industria moderna, l’in¬ dustria capitalistica, che è strettamente collegata con lo sviluppo scientifico moderno. Il sapere che procede dall’attività industriale, e questa stessa attività, non sono nulla di “autenticamente” impe¬ gnativo per l’uomo, non sospingono il soggetto a farsi mondo e a modificarsi col mondo, ma lo arrestano in una contemplazione inerte di ciò che “si fa” indipendentemente da lui. Su questo tema ricco di risonanze anche per le nostre orecchie dovremo ritornare. Ora però dobbiamo domandarci se la separazione dei metodi delle scienze naturali e sociali, così come Lukàcs la fonda, non rischi di perdere, per salvare la specificità della dialettica “sociale,” il sen¬ so proprio dell’unità del reale, della realtà della natura e del¬ l’uomo. Nonostante l’alto livello di coscienza antifeticistica che anima il vecchio scritto di Lukàcs, egli sembra ancora preda, alle spalle, delle conseguenze del dilemma per cui o i successi “pratici” della scienza moderna vengono identificati con il suo valore di verità, o viene negata in generale alla scienza naturale in se stessa (anche nel suo senso possibile di autentica “filosofia della natura”) un qualsiasi senso di verità. Alle scienze naturali, nella loro forma data, viene riconosciuto il diritto e l’esclusività del discorso sulla natura, e ci si limita a constatare che questo loro discorso non ha rapporto con quello che riserviamo ai contenuti sociali. D’altra parte si trascura di vedere come anche il discorso matematico, non ostante la sua capacità di fungere — una volta impostato — per così dire “automaticamente” e quindi indipendentemente da un engagement soggettivo che lo sorregga passo passo, possegga un suo orientamento ontologico ben determinato9; che perciò, quan¬ do venga effettuato in modo consapevole, esso conserva un valore “autenticamente conoscitivo,” e partecipa di quella specificazione della prassi umana che definiremo più sotto come “prassi teore¬ tica.” Per Lukàcs, invece, le scienze naturali e matematiche, in ge¬ nerale, rappresentano una forma “contemplativa” di conoscenza (nel senso svalutativo desunto da Marx), l’unica per altro che la natura extra-umana sopporti. “Hegel stesso vede chiaramente che 9 Cfr. in generale, su questo punto, E. Husserl, Logica formale e trascendentale. La critica del sapere matematico, che in questa forma risale a Hegel, passa, attraverso Lukàcs, ad Adorno (cfr. il ns. c. IX).

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la dialettica della natura, dove, almeno fino al grado finora rag¬ giunto, il soggetto non può essere inserito nel processo dialettico — non è in grado di oltrepassare il piano di una dialettica del mo¬ vimento quale si presenta ad uno spettatore che non vi partecipa. Egli sottolinea, ad esempio, che le antinomie di Zenone si sono elevate fino all’altezza conoscitiva delle antinomie kantiane, che quindi non è possibile qui procedere oltre. Con ciò risulta la ne¬ cessità della separazione metodologica della dialettica del movi¬ mento meramente oggettivo della natura dalla dialettica sociale, nella quale anche il soggetto è inserito nell’interazione dialettica

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Naturalmente i limiti che stiamo rilevando in questa restaura¬ zione del pensiero dualista non significano che Lukàcs non avesse buoni motivi per rifiutare entrambe le forme di “unificazione” del reale che la storia del pensiero conosceva: quella basata su un’ap¬ plicazione generalizzata della ratio matematica e quella engelsiana. Hegel, in particolare, si era sforzato vanamente di animare il cor¬ po intero della realtà naturale sulla base della stessa dialettica che giuoca nei rapporti umani. E sulla sua traccia anche Engels aveva rinnovato lo stesso tentativo, formalizzando astrattamente le “leggi” di questa dialettica,11 ma dimenticando che il senso del¬ la “prassi” marxiana non poteva consistere in un giuoco obiettivo di forze indipendenti dall’uomo, dal momento che la prassi si definisce, per Marx, come la sfera propria dell’essere umano. Non per questo dobbiamo dare ragione a Lukàcs quando egli — avendo giustamente di mira le differenze radicali che caratteriz¬ zano la realtà naturale rispetto a quella umana — vuol sottrarre al conoscere naturale (e matematico) la sua dimensione autentica10 Geschichte und Klassenbewusstsein, pp. 254-255

(ediz. francese).

11 Mi riferisco, naturalmente, alla Dialettica della natura (ed. ital., Roma, “Rina¬ scita,” 1955). L’applicazione di "leggi dialettiche” (eventualmente ricavate da un de¬ terminato territorio di ricerca) all’insieme dei contenuti del sapere (naturale e sociale) che sono già stati elaborati dalle singole scienze specialistiche, è cosa di ben scarso interesse sia per queste ultime che per la conoscenza in generale, e si tratta di un esercizio sco¬ lastico destinato a riuscire tanto meglio quanto piu quelle leggi vengono concepite astrat¬ tamente. Per una critica dell’estensione delle leggi "dialettiche” alla natura, cfr., tra gli altri, dopo Lukàcs, J. P. Sartre, Critique de la raison dialectique, 1960 (tr. it. di Paolo Caruso, Milano, Saggiatore, 1963) e Marxisme et existentialisme. Controverse sur la dia¬ lectique, par J. P. Sartre, R. Garaudy, J. Hyppolite, J. Orcel, Parigi, Plon, 1962. Sartre tuttavia non riesce a vedere meglio di Lukàcs quale possa essere il senso di una ricerca filosofica sulla natura, indipendentemente dalla disputa sulla dialettica. Cfr. p. 199, nota 4.

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mente pratica” (attributo che va inteso proprio nel senso chiarito da Lukàcs e non in quello di un praticismo utilitaristico). Lukàcs ci avverte, e vero, che “lo sviluppo della conoscenza della natura, come forma sociale,” è sottoposto alla dialettica autentica, quella propria della prassi sociale. In questo senso, anzi, egli va fin trop¬ po in la, concependo la “natura” secondo l’espressione equivoca di “categoria sociale.” In altre parole, la dimensione della prassi sociale coinvolge, dall’esterno, la conoscenza scientifica; la rende possibile o incom¬ patibile con le condizioni materiali d’esistenza; la mette al servi¬ zio di una o dell’altra classe sociale, ma nelle categorie interne del sapere scientifico la prassi sociale si deposita soltanto come astratta contemplazione e come utilizzazione strumentale.12

La nuova riduzione del sensibile Per intendere i limiti di questa posizione di Lukàcs, comin¬ ciamo a considerare i motivi della sua critica del conoscere “in¬ tuitivo,” con la quale egli pensava di ricollegarsi a Marx, ma che a nostro parere traduce piuttosto il disprezzo hegeliano per la “certezza sensibile.” La critica della riduzione di nuovo genere (dopo quella galileiana) operata da Hegel sul sensibile è già stata fatta da tempo.13 Ed è, questo, un aspetto dell’hegelismo che con12 L. Goldmann, nel suo volumetto Scienze umane e filosofia del 1952 (Milano, Feltrinelli, 1961), sviluppa autonomamente certe posizioni che muovono dalle premesse di Lukacs. Partendo dall’ammissione che "la borghesia occidentale si trova ancora alla testa di un ordine sociale vigoroso e vitale,” e che “come ogni altra classe che assolve a una funzione sociale autentica, essa è in grado di intendere certi aspetti essenziali della realtà” (p. 69), Goldmann ritiene chiusa l’epoca delle grandi lotte per una conoscenza "libera, obiettiva e umana” nel campo delle scienze naturali ("È chiaro per tutti che le scienze fisico-chimiche e naturali, anche disinteressate, servono a dominare e a trasfor¬ mare il mondo,” pp. 92-3) e pensa che la missione rivoluzionaria si sia trasferita alle scienze sociali. Come è già avvenuto nella seconda fase del pensiero di Lukàcs (su cui vedi poco oltre il ns. testo), Goldmann riconosce nelle scienze naturali, con il loro carat¬ tere di obiettività e di neutralità, anche una funzione progressiva, ma sfugge a lui come a Lukàcs e a Sartre il senso possibile di una conoscenza non obiettivistica della natura. 13 Mi riferisco al I capitolo della Fenomenologia dello spirito (tr. it. De Negri, Firenze, "La Nuova Italia,” 1963) e alle critiche mosse già dalla sinistra hegeliana, par¬ ticolarmente da Feuerbach. Cfr. anche G. della Volpe, Logica come scienza positiva, Messina-Firenze, D’Anna, 1956, pp. 41 sgg. Le giuste critiche che qui e altrove della Volpe muove a Hegel non sembra ne motivino sempre l’astio anti-hegeliano (e la nega¬ zione di ogni continuità con Marx), caratteristico anche di alcuni scrittori che si rifanno alle sue opere.

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trasta esplicitamente con le affermazioni della Logica, secondo cui l’essenza deve necessariamente apparire e la cosa, nella sua “pro¬ prietà,” dà bensì solo una parte di se stessa; ma anche, reciproca¬ mente, nella proprietà è la cosa stessa che si esprime. Se questo è vero, è anche vero a nostro parere che la conoscenza della cosa richiede lo sviluppo di un’“estetica trascendentale” in un senso molto più ampio di quella kantiana, nella quale le determinazioni sensibili vengano esplicitate e “salvate” pur nella critica ulteriore dell’esperienza. Solo cosi è possibile concepire una conoscenza del¬ la natura (il che significa tra l’altro e innanzitutto: una teo¬ ria descrittiva della cosa materiale, esterna, delle sue relazioni spa¬ ziali, della spazialità stessa, ecc.) che non sia soltanto un sapere “riduttivo” in funzione strumentale, ma corrisponda alla cono¬ scenza sensibile e alla elaborazione categoriale con cui l’uomo esercita uno specifico aspetto, quello conoscitivo, della sua prati¬ cità. Proprio questo aspetto del problema era destinato a sfuggire alla grande maggioranza dei filosofi del secolo scorso e del no¬ stro, come abbiamo già visto per Dilthey e come dobbiamo qui ribadire per Lukàcs.1* Questo riferimento al problema della “natura” e della cono¬ scenza sensibile è di una importanza tutt’altro che trascurabile per il nostro problema della praticità della conoscenza (“praticità,” lo ripetiamo ancora, nel senso di Lukàcs, che per noi suona come autentica prassi conoscitiva). Giacché è soltanto dopo avere ane¬ stetizzato la coscienza conoscitiva, la quale ora non si pone più

14 Se si pensa all’intero panorama filosofico fine-secolo, si nota facilmente come le scienze matematiche e naturali vengano per lo piu considerate come qualcosa di dato e la ricerca filosofica relativa come un lavoro "metodologico” rivolto alla loro classifi¬ cazione, in rapporto con le scienze spirituali. Questo rilievo vale (naturalmente con di¬ versa applicazione a seconda dei casi) tanto per Dilthey che per le diverse tendenze neo¬ kantiane. È naturale che le bellissime pagine di Storia e coscienza di classe rivolte a mostrare come in queste tendenze il dato sfugga a ogni tentativo di risoluzione con¬ cettuale e permanga nella sua "irrazionalità inviolata” (cfr. pp. 153-154) dovessero ri¬ manere anche in Lukàcs prive di conseguenze sufficientemente generali, in mancanza di una coerente tematizzazione del problema della realtà materiale (cfr. invece per questo tema ^in Husserl il nostro c. III). Si veda, ad ogni modo la giusta critica di Lukàcs (/. cit.) alle diverse forme di dottrine della finzione” di cui riassume cosi gli intenti: "rifiutare ogni ‘metafisica’ (nel senso di scienza dell’essere), proporsi come scopo quello di com¬ prendere i fenomeni di settori parziali [...] mediante sistemi arbitrari, parziali e com¬ putistici che siano loro perfettamente adeguati, senza neppur cercare di impostare — anzi, respingendo un’impresa del genere come non scientifica — di dominare in modo unitario la totalità del sapere possibile” (e cita Mach, Avenarius, Poincaré, Vaihinger).

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il problema di ciò che pure le dovrebbe sempre essere presente: il mondo delle cose sensibili che “per lei” si costituiscono in ma¬ niera continuativa, è solo dopo questa preventiva riduzione che la coscienza autentica può essere costretta entro i limiti della coscien¬ za “sociale” e quindi considerata come determinata o determi¬ nante nei suoi caratteri esclusivi di “coscienza di classe.” Se è vero infatti che la “socialità” è un carattere essenziale della coscienza umana, è anche vero che questo carattere va libe¬ rato dall’angustia in cui Lukàcs lo mantiene. La “socialità” della coscienza infatti si rivela determinante non soltanto “dall’ester¬ no” rispetto alla conoscenza della natura materiale, ma anzi nel¬ la costituzione stessa della cosa fìsica, che viene riconosciuta come tale, come “esterna,” “spaziale,” solo attraverso la costituzione intersoggettiva, secondo il nesso, che Husserl ha documentato ana¬ liticamente, tra l’“intersoggettività” della cosa e la sua “og¬ gettività.”15 L’identificazione lukacsiana tra la “socialità” della coscienza e la sua “praticità” si rivela quindi erronea, come risulterà anche più chiaramente dal seguito di questo capitolo. Con la sua conce¬ zione della conoscenza Lukàcs si ritrova sul terreno di quel “sog¬ gettivismo sociale” che — come è stato scritto — ha “rinchiuso l’uomo in una socialità o in una praticità concepite soggettivisti¬ camente,” nel senso che “l’uomo in tutte le sue manifestazioni e creazioni” esprimerebbe “sempre e soltanto se stesso e la sua con¬ dizione sociale.”16

Il secondo tempo del pensiero di Lukàcs Attraverso i drammi che hanno fatto della sua vita una delle storie più appassionanti e “simboliche” del nostro tempo, il pen¬ siero di Lukàcs si è largamente modificato, come tutti sanno.17 Non 13 Cfr. il ns. c. Ili, p. 63 e passim. 16 K. Kosik, Dialettica del concreto, p. 247 (cfr. anche pp. 195 e 273-4). 17 Manca, a tutt’oggi, uno studio d’insieme sul pensiero di Lukàcs. Il lavoro di Victor Zitta, G. L.s’ Marxism, L’Aja, Nijhoff, 1964, abbastanza utile sul piano infor¬ mativo, si ferma a Storia e coscienza di classe ed è un’interpretazione psicologistica, sin¬ golarmente velenosa e banale, di questa grande personalità. Altre indicazioni, certo mi¬ gliori, sono contenute nei saggi del Festschrift pubblicato per l’80° compleanno di Lukàcs (Neuwied, Luchterhand, 1966), dove troviamo anche una preziosa bibliografia.

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è questo il luogo per discriminare quanto della sua adesione a una “ortodossia” prima duramente combattuta conservi un signifi¬ cato “tattico,” né di rifare la storia della nuova dialettica che le sue posizioni hanno riaperto anche all’interno di quelle fila.18 Ci limiteremo ad accennare come la sua insufficiente teorizzazione del rapporto prassi-conoscenza, e l’angustia della sua primitiva no¬ zione di coscienza, si ripercuota senza sostanziali modificazioni anche nelle opere piu tarde. In luogo di quell’atteggiamento di sufficienza nei confronti di ogni conoscere umano che non sia co¬ noscenza dell’uomo stesso, e dell’uomo impegnato nella dialettica sociale, nelle opere del secondo dopoguerra troviamo gli accenni più rispettosi circa il carattere universalmente progressivo delle scienze del nostro tempo; ma il problema filosofico di queste scien¬ ze viene ormai completamente trascurato, o riservato al giudizio dei competenti. E questo va considerato certamente come un re¬ gresso rispetto alle posizioni di Stona e coscienza di classe, che nella loro grave parzialità affrontano almeno un problema reale.19

18 È evidente che l’ortodossia professata da Lukàcs nel suo “secondo tempo” in omaggio alla disciplina interna del movimento si realizza come una “copertura" molto trasparente del suo pensiero in tutta una serie di punti essenziali. Si veda (per indicare solo un esempio, ma d’importanza centrale) l’analisi della “teoria leninista della cono¬ scenza” e particolarmente la reinterpretazione della "teoria del riflesso” in Esistenzialismo o Marxismo? (IV parte, specialmente pp. 262 sgg. dell’ed. francese, Paris, Nagel, 1961). 19 Per l’atteggiamento di Lukàcs “secondo tempo” nei confronti delle scienze na¬ turali, cfr. p.es. la sua introduzione a 11 giovane Hegel (ed. it., Torino, Einaudi, 1960, pp. 14-15 e 23-24). Qui egli riconosce curiosamente che nella filosofia contemporanea "l’indagine dell’interazione tra la scienza naturale da un lato e la metodologia filosofica, la gnoseologia e la logica dall’altro, ha prodotto risultati tutt’altro che trascurabili,” nonostante l’inconsistenza delle sue conclusioni agnostiche di tipo neo-kantiano o neoberkeleyano, mentre praticamente nulla di simile si sarebbe fatto per le scienze sociali. Egli richiama l’attenzione, per le scienze naturali, sull’importanza della filosofia tedesca della natura, che dovrebbe essere spogliata del suo idealismo in rapporto con l’effettiva prassi scientifica (che richiede a sua volta di essere chiarita sul piano gnoseologico). In sostanza quindi (e senza voler pregiudicare con questa osservazione l’interesse di un riesame della filosofia naturale, per esempio, di Hegel) Lukàcs ripropone la ripresa del tentativo engelsiano. Che su questo punto egli si ritrovi d’accordo con l’ortodossia "marxista,” senza le sostanziali riserve che abbiamo rilevate alla nota 18 per la teoria del riflesso, è una riprova — dal nostro punto di vista — dell’insufficiente comprensione lukacsiana per il problema naturale in tutta l’evoluzione del suo pensiero. Dobbiamo categoricamente escludere: 1) che si tratti di un problema a sé stante, la cui imposta¬ zione non pregiudica quella di problemi piu generali: si pensi ai temi "dialettica" (na¬ turale e sociale) e “teoria-prassi” (considerati in questo ns. capitolo); 2) che si tratti, in Lukàcs, essenzialmente di una insufficiente tematizzazione, derivante da incompetenza specifica (come egli suggerisce a p. 15 dell’op. cit.). Al contrario tutto il nostro lavoro tende a mostrare il significato filosofico primario di temi come quelli della “cosa raa-

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Liberatosi, con un omaggio formale, dei problemi affioranti da questo ingrato territorio, Lukàcs ha potuto mantenere tanto piu crudamente la sua nozione di una coscienza che si identifica in tutte le sue potenzialità intenzionali con l'engagement sociale. A questo proposito varrebbe ancora la pena di notare come, in ri¬ gorosa corrispondenza con lo sviluppo storico oggettivo che ve¬ deva cristallizzarsi sempre più la divisione tra la coscienza effettiva della classe e la sua rappresentanza politico-organizzativa, anche la concezione generale della storia di Lukàcs sia andata burocra¬ tizzandosi. Intorno agli anni venti gli scritti di Lukàcs rivelano un sentimento fluido e dinamico della storia contemporanea; il punto di vista del proletariato, soggetto-oggetto della storia, sem¬ bra consentire improvvisamente il rovesciamento materiale della dialettica storica e al tempo stesso la ritraduzione diretta in ter¬ mini di classe del pensiero storico, concepita come la radicale ne¬ gazione dell’atteggiamento sociologistico, con le sue “leggi” eter¬ ne e oggettive. Più tardi invece il “ritardo” del movimento induce Lukàcs verso un realismo che insiste su una periodizzazione storica rigorosa e classificatoria: la periodizzazione, naturalmente, favorisce la virtù della pazienza e permette di mantenere ordine nelle idee. Se l’essere stesso della coscienza si identifica col suo engagement politico-sociale, è naturale che la stessa periodizza¬ zione si ripercuota con intransigenza su tutte le forme del pen¬ siero e dell’ideazione. Coronando il periodo dell’evoluzione “pro¬ gressiva” del capitalismo, Hegel esprime il massimo di coscienza dialettica compatibile con la sua epoca, in cui il proletariato non rappresenta ancora una forza storica matura. Ma dopo il 1848 e dopo la creazione di un movimento operaio organizzato, la storia del pensiero si definisce per Lukàcs solo prò o contro il proletariato, e soltanto in funzione di esso. E questa alternativa si solidifica sem¬ pre più come un destino con l’annunciarsi, negli ultimi decenni del secolo, della nuova epoca imperialistica. Un margine relativo di salvezza viene riconosciuto alla letteratura: Balzac o Thomas Mann possono avere raffigurato i drammi e la decadenza della borghesia con una “onestà” intellettuale che li salva dai limiti del loro stesteriale” e della relativa "estetica trascendentale” ecc. e a suggerire un senso della ricerca naturale che non coincide semplicemente con le scienze naturali effettive, né con la loro semplice chiarificazione metodologica.

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so giudizio politico. Ma questa scappatoia — che viene implici¬ tamente riconosciuta anche agli uomini di scienza — non vale per i “filosofi”: da Schelling in poi quelli di loro che non con¬ fluiscono, per la via della sinistra hegeliana, nel materialismo sto¬ rico, saranno costretti a seguire i binari dello pseudo razionali¬ smo positivistico o deir “intuizionismo” irrazionalistico, posizioni che sembrano escludersi ma che sono invece complementari. Questa impietosa caratterizzazione dell’evoluzione del pen¬ siero moderno contiene, naturalmente, la sua parte di verità, come pure rimane effettiva ancor oggi la falsa alternativa tra fisicali¬ smo e logicismo da una parte, spiritualismo e misticismo dall’al¬ tra. Come delineazione delle forme della falsa coscienza contem¬ poranea la visione di Lukàcs conserva il suo valore, ma ciò che ne rende assurda l’applicazione è l’inserimento di quello schema nella concezione feticistica di una storia fatta di periodi solidi e intrasparenti, dove la coscienza non conosce altre vie di uscita che quelle tracciate dal movimento di classe e dalla sua organizzazio¬ ne ideologica. L’insufficiente chiarificazione dell’essere proprio del¬ la coscienza, la deformazione o addirittura la dimenticanza di in¬ teri strati della sua intenzionalità, portano il materialismo lukacsiano su posizioni non molto lontane dal sociologismo. Contro l’obiettivismo delle leggi sociali Lukàcs aveva introdotto la forza pratica della coscienza di classe, ma ora proprio l’essere-di-classe costituisce un limite insuperabile per la coscienza.

Prassi e teoria Nella sua opera giovanile Lukàcs ha operato un rovescia¬ mento del significato dei termini “prassi” e “teoria” che è della massima importanza per la critica interna del marxismo. Inol¬ tre la sua nozione di prassi come qualcosa di specificamente uma¬ no, che riguarda l’uomo e che si palesa come modificazione del dato, come un suo intervento attivo e creazione del Nuovo, dà un contributo importante alla chiarificazione filosofica della prassi stessa come realtà umana. In forma parzialmente rovesciata, tut¬ tavia, Lukàcs manifesta per la “teoria” un disprezzo non minore

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di quello che Engels riservava alla “speculazione.” La prassi e la “teoria” vengono considerati due termini antitetici; mentre per quegli aspetti per cui la teoria può essere identificata con la prassi, abbiamo almeno questo da lamentare: che la specificità propria della conoscenza non viene più spiegata. Ma la teoria non può essere spiegata se non come una spe¬ cificazione della prassi generale dell’uomo. Dobbiamo riferirci qui alla profonda interpretazione del significato marxista della prassi data da Karel Kosik nella sua Dialettica del concreto™ Questa interpretazione, che si ricollega a quella di Lukàcs, se ne distingue anche in alcuni punti sostanziali. Innanzitutto la prassi non viene identificata semplicemente con Xengagement di classe della coscienza, ma viene scoperta a un livello più profondo. “ Qual¬ siasi cosa l’uomo faccia — sia in senso affermativo che negativo — egli, perciò stesso, dà luogo a un determinato modo di esisten¬ za nel mondo e determina (consciamente o inconsciamente) la sua posizione nelFuniverso. Per il mero fatto di esistere, l’uomo si pone in rapporto con il mondo e questo suo rapporto sussiste ancor prima che egli prenda a considerarlo e ne faccia oggetto d’indagine, e prima ancora che lo confermi o lo neghi praticamente o intellettualmente.” “Nel concetto della prassi la realtà umano¬ sociale viene scoperta come opposto dell’esser-dato, cioè come for¬ matrice e allo stesso tempo come forma specifica deSL essere umano. La prassi è la sfera dell’essere umano” “La prassi nella sua es¬ senza e nella sua universalità è la rivelazione del segreto dell’uo¬ mo come essere onto-creativo, come essere che crea la realtà (uma¬ no-sociale) e che pertanto comprende la realtà (umana e non umana, la realtà nella sua totalità).”21 Questa impostazione di fondo permette a Kosik di definire correttamente i rapporti tra la prassi e la teoria, che non appaiono più come due categorie giustapposte, né come due modi d’esi¬ stenza reciprocamente escludentisi. “La prassi dell’uomo non è attività pratica in contrapposto alla teoria, bensì è determinazione dell’esistenza umana come elaborazione della realtà. ”22 “ Noi cono20 Ed. it., Milano, Bompiani, 1965

(l’edizione cèca è del 1963), trad. di Gianlo-

renzo Pacini. 21 Op. cit., pp. 236 e 242-3. 22 Op. cit., p. 243.

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sciamo il mondo, le cose, i processi soltanto in quanto li ‘creia¬ mo,’ cioè in quanto li riproduciamo spiritualmente e intellettual¬ mente. Una tale riproduzione spirituale della realtà non può essere concepita altrimenti che come uno dei tanti modi di rapporto pratico umano con la realtà, la cui dimensione più essenziale e la creazione della realtà umano-sociale.”23 Abbiamo riconosciuto il carattere di “ socialità ” della co¬ scienza, e abbiamo visto che la prassi conoscitiva può sorgere solo in rapporto con la prassi generale, con cui l’uomo crea la società. Poiché tuttavia la storia della società viene spiegata dal marxismo come la storia delle classi sociali, nel cui rapporto si costituisce di volta in volta una forma determinata di economia, ci imbat¬ tiamo qui in uno dei problemi fondamentali del pensiero marxi¬ sta, il problema dei rapporti tra la struttura economica (e di classe) della società e le forme, soggettive o oggettivate, della coscienza. Se assumiamo acriticamente le note definizioni che i classici del marxismo hanno dato di questi rapporti, non è facile sfuggire aH’interpretazione corrente, per cui almeno “in ultima analisi,” e attraverso una catena più o meno lunga di mediazioni, le for¬ me della coscienza dipendono da quelle della struttura economi¬ ca.24 In mancanza di un chiarimento sostanziale di questo discorso, la quantità delle mediazioni introdotte di volta in volta non serve affatto a garantire della “criticità” o (ammesso che ve ne sia bi¬ sogno) della “liberalità” di questo marxismo. Se non viene con¬ dotta una analisi della specificità della coscienza, che ne metta in risalto i suoi strati più profondi e i suoi rapporti con la prassi umana, noi dovremo intendere la coscienza come una semplice funzione della struttura economica e di classe. Ma non dobbiamo trascurare le conseguenze di un simile modo di vedere: perché, se questo fosse vero, la struttura economica non si limiterebbe ad esercitare un’azione qualsiasi sulla concezione che l’uomo si fa del mondo, ma “creerebbe” la coscienza del mondo; creerebbe, insomma, il mondo stesso, giacché nessun riferimento a uno stato

23 Op. cit., p. 248. 24 Cfr. nella Dialettica del concreto la critica della nozione del “fattore economico,” pp. 121 sgg., e a proposito dell’“equivalente sociale" dell’arte, pp. 131 sgg.

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di cose reale, nessuna verità, né quella della conoscenza sensibile né quella della “scienza,” manterrebbe più un senso determinato.

Prassi, lavoro e coscienza L’assurdità manifesta di questa conclusione ci induce a riflet¬ tere sul significato della coscienza, sulle sue stratificazioni, dal li¬ vello dell’esperienza sensibile e della percezione fino a quello delle operazioni logico-categoriali; infine, sulla sua “origine.” Giacché nell’origine e nella determinazione concreta della coscienza (se assumiamo la nozione di coscienza nel nostro senso necessaria¬ mente ampliato) noi scopriamo un processo che ci porta molto più in profondità che non le determinazioni di volta in volta date della struttura economica. Secondo l’analisi hegeliana, che il mar¬ xismo ha fatto propria, la coscienza dell’uomo nasce in una unità inscindibile con il lavoro umano, e il lavoro in tanto è umano, in tanto quindi è qualcosa di “pratico,” in quanto esso è com¬ penetrato dalla coscienza. “La prassi [...] si manifesta tanto nel¬ l’attività oggettiva dell’uomo, che trasforma la natura e incide di sensi umani il materiale naturale, quanto nella formazione della soggettività umana [...] ” Senza questa dimensione soggettiva, cosciente, il lavoro stesso “ cesserebbe di essere parte della prassi. ”25 Il significato dell’analisi che Kosik ha compiuto delle nozioni di prassi, coscienza, economia, lavoro, viene studiato più estesa¬ mente in un’altra parte di questo nostro lavoro.26 Ma per lo scopo della nostra ricerca teniamo presente che con questa analisi si è inteso liberare la nozione di lavoro dalla sua immediata identi¬ ficazione con la sfera dell’economia, sfera nella quale noi coglia¬ mo soltanto i risultati, volta a volta determinati, dell’obiettivazione umana. Nelle nozioni filosofiche di prassi e di lavoro, osserva Kosik, non troviamo ancora “nulla di economico.”27 25 Op. cit., p. 245. 26 Nella appendice B di questo volume. 27 Dialettica del concreto, p. 232. L’Autore punto in cui si rivela tanto l’interna connessione di dell’economia. L’economia non è esclusivamente la libertà, bensì essa costituisce un campo della realtà

prosegue: “Tuttavia siamo giunti al economia e lavoro, quanto la natura sfera della necessità né la sfera della umana tale che in essa si crea stori-

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Prassi e teoria

Nel processo del lavoro, àt\Y oggettivazione, si attua una “me¬ tamorfosi o mediazione dialettica,” e nell’atto stesso della media¬ zione si costituisce la coscienza del tempo umano e della sua tri¬ dimensionalità, in particolare della dimensione del futuro. “Nel lavoro e per mezzo del lavoro l’uomo domina il tempo (mentre l’animale è dominato dal tempo), giacché un essere che è capace di resistere ad un immediato appagamento del desiderio e a trat¬ tenerlo ‘attivamente,’ fa del presente una funzione del futuro e si serve del passato, cioè scopre nel suo agire la tridimensionalità del tempo come dimensione del suo essere.”28 Scoprire a un livello cosi profondo la genesi e il significato della coscienza è cosa della massima importanza per comprendere in quale rapporto stanno le opere della prassi umana come co¬ scienza e come conoscenza di fronte alla determinazione “sociale” e “temporale.” Torneremo più avanti su questo tema, ma ora siamo già in grado di vedere l’in sufficienza di tutte quelle dot¬ trine del condizionamento che “spiegano” le attività e i risultati della prassi cosciente a partire dalla società e dal tempo intesi come entità determinate, e che perciò non sono in grado di com¬ prendere il perché della “sopravvivenza” o della “onnitemporalità” dell’“arte greca” (secondo il celebre tema proposto da Marx), o delle elaborazioni del pensiero conoscitivo. Giacché in queste forme di relativismo “storicistico” la società e la stessa tempora¬ lità appaiono come qualcosa di già dato e di già compiuto prima che le opere della coscienza umana siano intervenute, e non si avverte più come il tempo umano, il tempo in cui l’opera della coscienza e del pensiero “sopravvivono,” sia il frutto di una temcamente l’unità della necessità e della libertà, dell’animalità e dell’umanità [...]. Poiché abbiamo intrapreso l’indagine dell’economia partendo dall’analisi del lavoro, l’economia stessa ci si è originariamente manifestata non come una struttura economica della società già bell’e fatta, come una piattaforma storica già formata o come unità delle forze pro¬ duttive e dei rapporti di produzione, bensì come realtà umano-sociale che si viene formando e costituendo, realtà fondata sull’agire oggettivamente pratico dell’uomo [...]. Il lavoro come agire oggettivo dell’uomo, nel quale si crea la realtà umano-sociale, è il lavoro in senso filosofico. Al contrario il lavoro in senso economico è il creatore della forma specifica, storica e sociale, della ricchezza [...]. Il lavoro come categoria economica è l’attività produttiva sociale, che crea la forma specifica della ricchezza sociale. Il lavoro in generale e il presupposto del lavoro in senso economico, ma non coincide con questo. Il lavoro che forma la ricchezza della società capitalistica non è il lavoro in generale, bensì è un determinato lavoro, il lavoro astratto-concreto o un lavoro dotato di doppia natura, e soltanto in questa forma appartiene all’economia" (pp. 232-234). 28 Op. cit., p. 224.

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poralizzazione attiva che rappresenta un elemento peculiare del¬ la stessa coscienza. “Al problema: cosa fa il tempo dell’opera? possiamo replicare col problema: cosa fa l’opera del tempo? Giun¬ geremo in tal modo alla conclusione — a prima vista paradossale — che la sovratemporalità dell’opera consiste nella sua tempora¬ lità. Esistere significa essere nel tempo. Essere nel tempo non è un movimento in un continuo esteriore, ma capacità di temporalizzazione. La sovratemporalità dell’opera consiste nella sua tempo¬ ralità come attività.”29

25 Op. cit., p. 158. Le originali indicazioni svolte da Kosik sul problema del tempo devono essere messe in rapporto non solo con Hegel, ma anche con la feno¬ menologia contemporanea. Sia in Husserl che in Heidegger il tempo occupa una po¬ sizione centrale. Cfr. per Husserl soprattutto le V orlesungen zur Phànomenologie des inneren Zeitbewusstseins; cfr. inoltre Enzo Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari, Laterza, 1961; G. Piana, l problemi della fenomenologia, Milano, Mon¬ dadori, 1966. Il problema del tempo non può essere considerato solo sul piano obiettivo, sia nel senso cronologico che in quello di sfere temporali chiuse che predeterminerebbero a priori l’essere della coscienza. Cfr. per le conseguenze di una simile nozione del tempo nello storicismo moderno il ns. c. VII. La coscienza non vive solo nel tempo, ma è inerente in lei una funzione temporalizzatrice.

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Capitolo sesto

La prassi teoretica

Marx, come sappiamo, aveva preso posizione contro Feuer¬ bach, che dopo avere contribuito a far comprendere la contraddi¬ zione della base mondana con se stessa si era rifiutato di parteci¬ pare al suo rivoluzionamento pratico. Tuttavia le Tesi su Feuer¬ bach di Marx, e particolarmente l’undicesima che invita a pas¬ sare dalla semplice interpretazione alla modificazione del mondo, non contengono, di per se stesse, una dottrina della prassi: nell’XI tesi il passaggio alla prassi non esprime che un significato molto determinato di questo concetto.1 11 D’altra parte la critica marxiana alla concezione dell’essere umano come individuo astratto, isolato (anziché visto come “ l’in¬ sieme dei suoi rapporti sociali”) è stata ripresa con un eccesso di realismo dai suoi successori, e in particolare da Lukàcs, che ne ha tentato una generalizzazione inadeguata in riferimento all’in1 Nel suo lavoro già citato (cfr. nota 4 del c. V), E. Rambaldi scrive: “se assu¬ miamo come criterio della praxis il superamento gnoseologico del dualismo tra spirito e materia, come avveniva ancora nei Manoscritti e nella stessa storia del materialismo contenuta nella Sacra Famiglia, allora non si può negare che Feuerbach era quale Marx 10 considerò fino al ’45, cioè filosofo della praxis. Se invece consideriamo come praxis l’azione rivoluzionaria reale, quale è esposta nelle Glosse e nell'Ideologia tedesca, allora Feuerbach è un filosofo speculativo, e quindi non pratico. Ed è in base a questo secondo tipo di praxis che s’intendono la VI e la VII glossa. Esso è poi esplicitamente assunto a canone interpretativo non solo della filosofia di Feuerbach, ma di tutta la storia della filosofia nella celeberrima XI glossa.” Nel suo lavoro Rambaldi ricorda anche i motivi pratico-politici che contribuirono a modificare la prima adesione di Marx alla filosofia di Feuerbach (questi rifiutava di assumere posizioni politiche impegnative, sosteneva la maggiore opportunità di schiarire la mente dei tedeschi per mezzo di libri ecc.). La determinazione dei rapporti Hegel-Feuerbach e Feuerbach-Marx (cui è dedicato 11 libro di Rambaldi) è notoriamente molto dibattuta. Senza volere intervenire in questa questione, possiamo vedere dal passo citato quanto sia complesso il discorso sulle glosse a Feuerbach, spesso interpretate semplicisticamente come liquidazione della teoria e pas¬ saggio alla “prassi.”

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tero campo teoretico. Di questo abbiamo già parlato, ma voglia¬ mo soffermarci ancora su quella nozione dello “spettatore disin¬ teressato” che definisce per Lukàcs l’atteggiamento /atalmente spe¬ culativo dello scienziato, e colpevolmente speculativo del filosofo. Una chiarificazione su questo punto è essenziale in se stessa, in quanto la “praticità” dell’agire umano, la sua capacità di modi¬ ficare il dato, di produrre il nuovo, è resa possibile solo dalla pra¬ ticità fondamentale della sua disposizione, dal suo atteggiamento nel mondo. E questa chiarificazione è importante in particolare per noi, che nel I capitolo ci siamo rifatti ad alcune analisi fondamentali della fenomenologia husserliana per giustificare contro lo scetticismo la possibilità della conoscenza come conoscenza delle “cose stesse” e della verità. Giacché proprio Husserl si richiama esplicitamente e a più riprese, nella sua definizione dell’attività scientifica, all’atteggiamento del “disinteresse” teoretico, e proprio questo, com’era prevedibile, gli è stato rimproverato frequente¬ mente dai suoi critici marxisti.2

La “teoria pura” e lo “spettatore disinteressato” Dobbiamo partire da un primo chiarimento: dal punto di vista generale in cui ci mettiamo, il pensiero scientifico e quel¬ lo filosofico non rappresentano due modi diversi della cono¬ scenza, se assumiamo tutte queste espressioni nel loro significato più radicale. Il concetto di conoscenza, come attività che ha per suo correlato la teoria (nel senso di ciò che è conosciuto e “teorica¬ mente” espresso) esprime il senso di essenziale convergenza, al limite di coincidenza, tra la scienza e la filosofia. Husserl vede nella Grecia classica il luogo di nascita di questa particolare at¬ tività umana, che corrisponde alla conversione da una disposizione “pratica” verso la realtà, quale ancora si ritrova nel mito e nelle pre-filosofie orientali, all’atteggiamento puramente teoretico, che comporta la totale esclusione di ogni scopo “pratico.” L’uso del2 Abbiamo già visto nel capitolo precedente dello "spettatore disinteressato.” Analoghe critiche un punto di vista non specificamente marxista. Cfr. serl e la critica dell’atteggiamento naturale, ne "Il

la critica di Lukàcs all’atteggiamento sono state mosse a Husserl anche da p.es. l’articolo di R. Cantoni, E. Hus¬ pensiero critico,” Milano, nuova serie,

II, 3, 1960.

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le virgolette si giustifica, nel nostro testo, in quanto per Husserl si tratta di ben altro che di contrapporre la “teoria” alla “prassi,” mentre qui l’aggettivo “pratico” viene impiegato secondo il suo uso corrente, nel senso della vita quotidiana nella quale viene uti¬ lizzato” un patrimonio anche notevole di conoscenze per fini che normalmente non si spingono fino alla conoscenza per se stessa. Invece è proprio nel fare della conoscenza la propria finalità specifica che si realizza, secondo Husserl, la conversione teoretica degli antichi greci. A noi non interessa di discutere qui la consi¬ stenza storica di queste affermazioni, mentre ci importa di met¬ tere in chiaro che questa conversione teoretica e la nuova specifica attività che essa comporta, comunque se ne voglia indicare la ge-

3 Cfr. per la nascita dell’atteggiamento "teoretico” nell’antica Grecia la “Con¬ ferenza di Vienna” di Husserl del 1935 (La crisi dell’umanità europea e la filosofia, ri¬ portata anche nell’edizione italiana della Crisi delle scienze europee, pp. 328 sgg.). Dalì'atteggiamento “mitico-pratico” originario, "si stacca decisamente l’atteggiamento ‘teo¬ retico,’ non-pratico in tutti i sensi, l’atteggiamento del thaumazein. L’uomo è preso da una passione per la considerazione e per una conoscenza del mondo che si stacca da tutti gli interessi pratici e che, nell’ambito circoscritto delle sue attività conoscitive e nei tempi ad essa dedicati, non persegue e non produce altro che una pura teoria. In altre parole: l’uomo diventa uno spettatore disinteressato, un osservatore del mondo nel suo complesso, diventa un filosofo” (p. 343). “Naturalmente — aggiunge Husserl — la na¬ scita dell’atteggiamento teoretico, come tutto ciò che diviene storicamente, ha una sua motivazione di fatto nel contesto concreto degli accadimenti storici,” da ricercare nell’"orizzonte di vita dell’umanità greca del VII secolo” e nel "suo commercio con le grandi e coltissime nazioni del mondo circostante.” Vediamo ora i caratteri di questo atteggiamento puramente conoscitivo che conduce alla nascita della "pura teoria.” “Da un lato l’essenza specifica dell’atteggiamento teoretico dell’uomo filosofico è costituita dalla peculiare universalità di un contegno [Handlung] critico ben deciso a non assumere nessuna opinione già data, nessuna tradizione, senza indagarle [...]. Ma non si tratta soltanto di un nuovo contegno conoscitivo. In virtù dell’esigenza di sottoporre tutta l’em¬ piria a norme ideali, alle norme della verità incondizionata, si delinea una profonda trasformazione dell’intera prassi dell’esistenza umana, e quindi di tutta la vita cultu¬ rale [...]. Cosi la verità ideale diventa un valore assoluto, e nel movimento della for¬ mazione culturale e negli esiti dell’educazione infantile produce una prassi modificata in senso universale” (p. 345). "Il movimento di questa educazione si diffonde tra cerehie sempre più ampie della popolazione, naturalmente tra le cerehie superiori, dominanti, quelle meno consunte dalle cure della vita” (p. 346). Risulta senz'altro chiaro dai passi citati che la nascita dell’atteggiamento teoretico (che naturalmente non è da intendere solo in senso storico) comporta non già l’abbandono della dimensione della prassi (nel senso che è stato chiarito nel precedente capitolo) ma la creazione di una nuova di¬ mensione della prassi, che si inserisce profondamente nella generale prassi umana, nel suo tempo concreto, che lotta per i propri diritti (coinvolgendo eventualmente gli interessi di determinate classi sociali). È anche chiaro perciò che quando, nel passo citato sopra per esempio, Husserl definisce l’interesse teoretico "non pratico in tutti i sensi,” si riferisce alla praticità come cura rivolta a "plasmare la propria vita nel mondo nel modo più felice possibile,” a preservare l’uomo “dalla malattia, da un destino avverso, dalla mi¬ seria e dalla morte,” cura già implicita nell’atteggiamento mitico-pratico (p. 343). Anche questa è, del resto, una dimensione della prassi umana.

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nesi storica, rappresentano l’apertura di una nuova dimensione spe¬ cifica della prassi umana. Gli stessi termini di “conversione” e di atteggiamento” che l’uomo “assume” consapevolmente danno già da soli abbastanza lumi su questo punto. Ma non ci possiamo accontentare di queste affermazioni ge¬ nerali, per quanto importanti, giacché la critica dello “spettatore disinteressato” viene riferita da Lukàcs specificamente alla men¬ talità che accompagna lo sviluppo delle scienze moderne e alla elaborazione tipicamente moderna del concetto di “natura.” Dob¬ biamo perciò addentrarci maggiormente nell’analisi dei testi.

La conoscenza della natura A nostro parere Husserl ha espresso nei suoi scritti la posizio¬ ne piu matura che il pensiero contemporaneo conosca a propo¬ sito del concetto di natura, del valore teoretico della conoscenza della natura, a patto però che se ne tenga presente l’opera nel¬ l’insieme. Nonostante la grande coerenza di fondo del pensiero di Husserl, su questo punto, come su diversi altri, le sue ultime opere apportano delle precisazioni che costituiscono anche correzioni es¬ senziali.4 La definizione fondamentale della sfera naturale rimane quel¬ la delle Idee, ma anche qui è necessario procedere con cautela. Noi abbiamo esaminato nel I capitolo l’importante critica dell’in sé della fisica, e la spiegazione della cosa della fisica come un’ope¬ razione categoriale che si fonda sulla cosa sensibile e sulle sue 4 Dopo il lungo silenzio succeduto alla pubblicazione di Idee I (1913), Husserl stesso si preoccupa di indicare i punti fondamentali nei quali il suo pensiero è andato incontro a degli approfondimenti o anche a “virate” di una certa importanza. Tra i primi possiamo ricordare la già citata indicazione di “nuove vie” verso Yepoché tra¬ scendentale (cfr. c. I, nota 12). Tra le seconde l’esplicita correzione apportata nella Logica formale e trascendentale all’idea della mathesis in quanto idea di scienza estensibile a ogni ambito conoscitivo (come era implicitamente intesa nei “prolegomena” delle Ricerche logiche. Per un tentativo di periodizzazione dello svolgimento husserliano, cfr. W. Biemel, Die entscheidenden Phasen der Entfaltung von H.s Philosopkie, in "Zeitschrift fùr philosophische Forschung,” XIII, 2. A indicazione della sostanziale unità del suo pensiero at¬ traverso le varie riformulazioni, cfr. Enzo Paci, Tema e svolgimento in Husserl, in “Aut aut” (Milano, n° 95, 1966). Le analisi critiche cui stiamo per accennare circa la matematizzazione delle qualità naturali (e specialmente di quelle “secondarie”) nella fi¬ sica galileiana rappresentano (almeno a nostra conoscenza) qualcosa di nuovo nell'Husserl edito, senza che si possa parlare per questo di un vero distacco dalla costituzione della cosa come è esposta in Idee II.

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qualità. Con questo veniva rovesciata la prospettiva “ fisicalistica” che considerava la cosa della fisica come la più vicina (per esprimerci rozzamente) alla sfera dell’in sé, e quella sensibile come la più lontana; e anzi — cosi insinuava l’inevitabile scepsi — come infinitamente lontana da un in sé solo “supposto.” Nel II vo¬ lume delle Idee questa posizione viene mantenuta, ma al tempo stesso viene tentata una giustificazione del modo di procedere del¬ la scienza naturale, in quanto modo di conoscenza legittimamente “teoretico.” È in questo movimento di duplice “salvataggio” che la nozione di natura acquista nella prima sezione di Idee 11 (de¬ dicata appunto alla costituzione della natura materiale) un con¬ tenuto straordinariamente complesso. Nell’analisi dei rapporti tra lo “schema sensibile” della cosa e le “circostanze,” nel rimando alle cinestesi del corpo somatico e alle implicazioni di “norma¬ lità” percettiva, nella definizione della realtà materiale della cosa come frutto di un’operazione relazionale fondata su una larga stratificazione di atti percettivi, crediamo di trovare un essenziale capitolo di quell’“estetica trascendentale” che rimane tanto de¬ ludente nel corrispondente testo della Ragion pura e che viene semplicemente elusa nella Fenomenologia dello spirito. Ma Hus¬ serl affronta a questo punto il compito ulteriore, che consiste nel passaggio verso la cosa “obiettiva” della fisica matematica. E pro¬ prio qui si ripresenta il nostro problema del carattere “autentica¬ mente teoretico” della scienza moderna. Dobbiamo fare un passo indietro, allargando il discorso. Nel¬ la costituzione della natura materiale noi ci troviamo all’interno di un interesse teoretico, e questo, a differenza dell’interesse “pra¬ tico” o “valutativo,” rappresenta un’intenzionalità che si compie soltanto nella verifica, negli atti teoretici obicttivanti, nell’esplicita attribuzione di un “predicato” a un “soggetto,” ecc. Poiché que¬ sti atti possono compiersi soltanto sulla base di un oggetto preli¬ minarmente dato, “anticipato,” nella cui costituzione sono even¬ tualmente intervenute intuizioni o giudizi di valore, l’esercizio del¬ l’interesse teoretico comporta preliminarmente l’operazione di una epoche in base alla quale noi spogliamo le cose di tutti quegli atti “non dossici.” “In questo atteggiamento teoretico ‘puro’ o depurato, noi non esperiamo più case, tavoli, strade, opere d’arte; esperiamo semplicemente cose materiali, e di queste cose, che sono

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provviste di un valore, esperiamo soltanto lo strato della mate¬ rialità spazio-temporale.”5 “Allora noti esiste un bello o un brutto, non esiste un utile, un buono, un oggetto d’uso, un bicchiere, un cucchiaio, una forchetta, ecc. Tutte queste parole contengono, già per il senso che è loro proprio, predicati che derivano da atti non obicttivanti.”6 7 Questa astrazione dalla sfera dei predicati “pratico-valutati¬ vi” che ci apre lo strato delle “mere cose” non è però, come Hus¬ serl si affretta a precisare, un 'astrazione arbitraria. Un’astrazione, per essere valida, deve comportare “ un’idea radicalmente in sé con¬ clusa di un settore scientifico,” deve quindi essere operata in base a una “appercezione” che determini preliminarmente “che co¬ sa è oggetto delle scienze naturali e che cosa non lo è,” “che cosa è natura e che cosa non lo è,” che determini insomma un’idea essenziale della naturaJ È già chiaro da quanto precede che nell’assumere questo “at¬ teggiamento puramente teoretico” che rappresenta il presuppo¬ sto indispensabile delle “scienze naturali,” noi siamo ben lontani da quella forma di inerte contemplazione che definisce in Lukàcs lo “spettatore disinteressato.” Certo, in questo atteggiamento noi assumiamo una speciale “indifferenza” rispetto alla realtà, alme¬ no in un senso particolare di questa espressione. Ma “il correlato della natura non è [...] un soggetto che non sa nulla, che non vuole nulla, che non valuta,” e che sarebbe impensabile. “Nella conoscenza della natura si fa soltanto astrazione da qualsiasi va¬ lutazione che non sia nell’ordine del sapere: io voglio semplicemente esperire in modo sempre piu ricco la natura attraverso l’esperienza teoretica,’ voglio riconoscere attraverso il sapere teo¬ retico e sulla base dell’esperienza, che cosa è ciò che appare, che cosa è la natura.”8 La tensione pratica è quindi tutt’altro che assente nello “spet¬ tatore disinteressato.” Già per le operazioni elementari in cui ve¬ diamo costituirsi la cosa sensibile abbiamo ritrovato questa ten¬ sione, non solo nell’esigenza delle cinestesi corporee, ma nel rife5 4 7 8

Idee, Idee, Idee, Idee,

p. p. p. p.

424. 415. 401. 424.

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rimento permanente alle condizioni e alle “norme” dell’esperien¬ za. Un esame della nozione di normalità, che già ci costringe, a questo livello preliminare della conoscenza, a chiamare in causa la costituzione poli-sensoriale e l’intersoggettività, sarebbe del mas¬ simo interesse per una esauriente definizione della praticità fon¬ damentale dell’atteggiamento teoretico, giacché in questo atteg¬ giamento l’essere conoscente è continuamente tenuto ad assumere, consapevolmente o no, le “giuste” condizioni, le “giuste” distan¬ ze visive, ecc.9 Ci muoviamo qui in una dimensione della vita co9 Abbiamo già incontrato il problema della normalità nel ns. c. II. Si noti che la praticità per cui il soggetto, nel suo rapporto con il mondo, matura delle norme che formano la struttura stessa della sua esperienza, non è affatto subordinata primariamente a un fine utilitario (“pratico” in senso corrente). Naturalmente si può immaginare e motivare l’opinione che esigenze pratico-utilitarie (se ci è consentito esprimerci cosi rozzamente per richiamare dimensioni ben altrimenti complesse della prassi umana) agis¬ sero nella gestazione dell’interesse conoscitivo. La parola “geometria,” che designa una delle scienze piu “pure” e “disinteressate” pensabili, è ancora pregna, come è noto, di questa dimensione. Ma una volta sorto, l’interesse teoretico si differenzia nettamente costituendo una nuova dimensione. A questo proposito può essere utile aggiungere alcune osservazioni sulla fondamentale praticità che è inerente anche alla conoscenza (che è appunto uno dei modi della prassi umana). Nello “stile” dell’esperienza conoscitiva, che comprende anche lo stile della sua critica, un momento pratico è già inerente nel fatto dell'esser rivolti alla conoscenza e nel voler superare, fino a un limite che può variare di volta in volta, i contrasti che nell’esperienza si vengono presentando. In altre parole, la possibilità della conoscenza (dell’esperienza come conoscenza) è connessa con un finalismo che è implicito nel conoscente. Ulteriormente, questa praticità dell’esperire e del conoscere si manifesta anche al suo interno, prescrivendo all’esperienza le sue "norme,” che sono le norme di comportamento di chi è teso alla conoscenza. Il primo senso, piu generale, della praticità come intenzione conoscitiva può risultare negativamente dal confronto con l’essere (umano o animale) che di fronte all’offerenza originaria e ai suoi contrasti eviti (o non sia in grado) di prendere posizione (esercitando naturalmente anche in questo caso di astensione una forma di prassi, ma, per l’appunto, non una prassi conoscitiva). Il secondo senso è illustrato negativamente dal caso, anche solo ipotetico, di un essere che, rivolto alla co¬ noscenza, non ne segua però le norme, che possono consistere innanzitutto in una certa cinestesi, nel vedere a giusta distanza e da tutti i lati anziché da un lato solo e a distanza inadeguata ("sfocata,” ecc.); nel non fare uso di tutti i sensi (p. es. del tatto) anziché di uno solo (sola vista); nel non fare uso di strumenti che — a loro volta assunti in modo ade¬ guato — ne potenzino le facoltà conoscitive in circostanze particolari (microscopio, te¬ lescopio, ecc.). È chiaro, innanzitutto, che queste norme si definiscono via via ed even¬ tualmente si modificano in rapporto con la specificità, di volta in volta data, della prassi generale dell’essere che conosce. Ma d’altra parte è anche chiaro che questa fondamentale praticità del conoscere non va confusa con alcuna riduzione arbitraria o utilitaristica della conoscenza. Che cosa risulterà al mio sguardo dal movimento che impongo al mio corpo per avvicinarmi a un oggetto "troppo distante,” non è questione di arbitrio in¬ dividuale, cosi come Galileo, puntando per la prima volta il suo occhiale sulla superficie della luna, non poteva certo predeterminare la sua configurazione apparente. Nessuna ‘ utilità” che non sia quella del conoscere stesso, costituisce il presupposto (oppure il fine) necessario di un’operazione conoscitiva. Occorre guardarsi da un’identificazione assurda, eppure tanto frequente, tra la praticità fondamentale di ogni conoscenza e il suo valore strumentale. Questa identificazione è uno dei presupposti della mistificazione per cui con tanta disinvoltura si discreditano oggi le nozioni di "pura conoscenza," di "verità,” ecc.

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sciente che è certo in relazione con la socialità della prassi gene¬ rale e della coscienza, e che non si lascerebbe mai ridurre al “ri¬ sultato” di una prassi semplicemente “oggettiva.” Ma, proceden¬ do, il movimento del soggetto conoscente conserva e sviluppa nel¬ le sue operazioni “scientifiche” questa praticità fondamentale, sia nell’assunzione cosciente di un’astrazione “essenziale,” cioè con¬ forme a un effettivo strato di cose che si rivela nella intuizione ca¬ tegoriale della natura fisica, sia nelle singole operazioni dello spe¬ rimentare, dello stabilire dei predicati, nell’impiego di idealità geometriche e matematiche, ecc. In questo il soggetto “teoretico” “compie delle valutazioni anche di ordine pratico e se sotto un certo aspetto ‘rimane indifferente’’ rispetto al suo soggetto e non ha nemmeno un interesse alle sue modificazioni, interesse a ri¬ plasmarlo, ecc.,” in un altro senso invece “è interessato alle modi¬ ficazioni dell’oggetto, realizza queste modificazioni praticamente, nell’esperimento, ma non in vista delle modificazioni stesse, bensì per rendere visibile, attraverso queste modificazioni, nessi che eventualmente possono promuovere il sapere attorno all’essere che appare.”10

Il limite del carattere “teoretico” delle scienze moderne La conoscenza non è semplice passività ricettiva, benché an¬ che la passività ricettiva dell’uomo sia un modo di essere specifico che si fonda sulla elaborazione di peculiari sensi umani. Certo, l’aver riconosciuto che anche nella passività e nella non consape¬ volezza dell’uomo si ritrovano caratteri umani non significa disco¬ noscere la possibilità che la prassi umana possa depauperarsi e de¬ gradarsi riducendosi a inerzia, a mera esecuzione o infine a sem¬ plice sfruttamento.11 10 Idee, p. 424. 11 Nella I tesi su Feuerbach Marx rimprovera a quest’ultimo di considerare schiet¬ tamente umana solo l’attività teoretica, riducendo quindi ogni altra forma di attività a semplice utilitarismo, e non riuscendo quindi a concepire il valore creativo, autentica¬ mente pratico dell’attività “rivoluzionaria.” Infatti, se la questione della prassi e della teoria viene impostata correttamente, considerando la teoria come una delle forme spe¬ cifiche della prassi, diventa facile comprendere come un’eventuale degradazione della prassi sia cosa che può riguardare una qualunque dimensione dell’essere umano, la prassi teoretica come quella tecnico-inventiva o quella della vita quotidiana, oppure infine la

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Ma se non ci limitiamo a giudicare il contenuto pratico delle azioni umane su un metro precostituito, se invece fondiamo le no¬ stre nozioni della praticità sull’offrirsi effettivo di nuove dimen¬ sioni umane, o sull’esame della disposizione e dell’efficacia crea¬ tiva del soggetto di questa prassi, non ci è possibile ridurre il sen¬ so dell’impresa rinascimentale e moderna che va sotto il titolo di “scienza della natura” all’esercizio di una ratio automatica in cui — secondo l’espressione che Lukàcs usa per 1’“industria” capita¬ listica — l’uomo è semplicemente un “agito” anziché un “agente.” Giacché abbiamo richiamato il tema dell’“industria” moder¬ na, osserveremo di sfuggita come nel libro del 1924, al tempo cioè di quel suo marxismo che condannerà poi come utopistico, Lu¬ kàcs vi ritrovava semplicemente la manifestazione di quella ratio che (come aveva già osservato Weber) costituisce uno dei tratti es¬ senziali del capitalismo moderno. Non ci fermiamo su questo pun¬ to per insistere su una critica anacronistica di queste posizioni, ma per cercare di rilevare il problema reale che anche in questo caso Lukàcs solleva e insieme deforma. Giacché è chiaro che la storia dell’industria moderna non è solo la storia dello sfruttamento ca¬ pitalistico della natura (con il corrispettivo di una parziale chiu¬ sura verso la natura stessa) e degli uomini asserviti nel rapporto sociale capitalistico, ma è anche la storia della creatività inventiva degli uomini, che si intreccia e si deforma ma che non si esauri¬ sce in questa specifica forma del rapporto sociale.12 E questo ri¬

stessa prassi "rivoluzionaria." E naturalmente ogni uomo, il cui essere pratico si ma¬ nifesta innanzitutto in quanto egli determina la struttura essenziale della sua esistenza, è chiamato a decidere quale forma concreta di prassi per lui rivesta un senso non de¬ gradato, in rapporto con il suo modo di essere personale e con l’insieme della vita sociale del suo tempo. In questo senso, come è chiaro, le stesse esigenze della "pura teoria," gli orizzonti che questa gli apre davanti, che lo attraggono, sono tutti elementi inevitabilmente subordinati al senso piu generale della prassi umana, ed è in questo momento della decisione che prende figura quello che intendiamo come personalità etica, con le sue superiorità e con le sue bassezze. Ma bisogna evitare di confondere, nel pa¬ norama cosi svuotato di ogni senso etico che le istituzioni scientifiche del nostro tempo presentano, questo stesso sentimento di vuoto e di vera e propria “nausée” che si impos¬ sessa di noi, con il non-senso che sarebbe implicito, per un qualche destino essenziale, nella stessa dimensione conoscitiva della prassi. 12 Non mancano passi nelle opere di Husserl che alludono con fastidio al pra¬ ticismo depauperato di contenuto umano, quale si ritrova — osserviamo noi — nel¬ la manipolazione capitalistica di uomini e cose; proprio nel senso de\Vindustria del giovane Lukàcs. “La filosofia trascendentale, un’arte del tutto inutile, non serve ai signori e ai padroni di questo mondo, ai politici, agli ingegneri, agli industriali” (Erste Philosophie, I, p. 283). Ma naturalmente Husserl non intende gettare il di-

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lievo presenta aspetti che tornano a illuminare di riflesso il nostro discorso sulla prassi e sulla teoria. Giacché all’interno stesso della sfera scientifico-naturale, nella dimensione della scoperta della real¬ ta, si connettono, in una forma che riesce spesso difficile districare, il momento “inventivo” e quello “conoscitivo,” due forme cioè che sul piano teoretico richiedono un’accurata distinzione. Mentre de¬ scrive, con palese ammirazione, il fervore che accompagna gli uo¬ mini “moderni” che, ai tempi di Galileo e prima di lui, hanno dedicato la loro vita alla creazione della nuova scienza, Husserl si trova di fronte alla necessità di discriminare quelle operazioni teoreticamente fondate (fondate sull’“appercezione” preliminare dell’“idea della natura”) che corrispondono a uno scopo di cono¬ scenza autentica della realtà da quelle che costituiscono una sem¬ plice “ipotesi” metodica mirante essenzialmente al “successo,” al “dominio” strumentale della natura.13 Egli indica per esempio nella matematizzazione indiretta delle qua¬ lità “secondarie,” refrattarie aH’immediata idealizzazione (p.es. nel senso geometrico) una operazione non esplicitamente fondata su quelle anticipa¬ zioni che il senso generale dell’esperienza sembra motivare. Giacché nel¬ l’appercezione generale dell’unitaria dipendenza causale della natura non è possibile scoprire a priori che “qualsiasi mutamento delle qualità specifiche dei corpi pensabili in un’esperienza reale e possibile” abbia “per così dire, una controfigura nel regno delle forme,” cioè una controfigura matemati¬ camente obiettivabile. “Tutto ciò che noi esperiamo nelle cose stesse, nella vita pre-scientifica, i colori, i suoni, il calore, il peso, [...] l’irradiazione ca¬ lorica,” viene a essere costituito, in base a questa obiettivazione, “da puri eventi del mondo delle forme,” cioè da qualità “primarie,” secondo un punto di vista “fisicalistico” che “viene assunto oggi come un’ovvietà indi¬

scredito sulla prassi extra-teoretica, della vita quotidiana o della tecnica, dell’inven¬ zione ecc. Piuttosto noi troviamo qui la conferma del fatto che la prassi umana si degrada e al limite si annulla nella misura in cui l’oggettivazione dell’uomo che si produce nel lavoro non comporta insieme anche la genesi e lo sviluppo della coscienza dell’uomo. Su questo aspetto della prassi come manipolazione (della natura e degli uomini), cfr. le belle pagine di Kosik sul machiavellismo e lo scientismo, che rappresen¬ tano “due aspetti della medesima realtà. Su questa base viene formulata la concezione della politica come una tecnica calcolatrice e razionalistica, come un modo — scientificamente calcolabile — di manipolare il materiale umano” (op. cit., pp. 240-241). 13 Nel testo che segue sono riferiti spunti dell’importante § 9 della II parte della Crisi, che rappresenta nel suo insieme una delle piu belle e profonde analisi dedicate da Husserl alle scienze della natura. Esso costituisce un’integrazione (e come si è già detto, anche, in parte una correzione) della costituzione della cosa fisica esposta sinteticamente nel ns. c. III.

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scutibile”; questo punto di vista consente di formulare l’ipotesi di una cau¬ salità universale esatta,14 e di operare concretamente su questa “obiettivazione metodica del mondo intuitivo” per mezzo di formule. La matematizzazione e la formulizzazione della fisica, l’applicazione di una logica formale resasi autonoma al mondo fisico, in sé è “qualcosa di pienamente legit¬ timo, anzi di necessario,” purché si conservi la piena coscienza del signi¬ ficato delle operazioni che si compiono e purché rimanga viva la preoccu¬ pazione di escludere “pericolosi slittamenti di senso.” Ma nella prassi della fisica moderna, a partire da Galileo, l’impiego della matematica e in par¬ ticolare della geometria (assunta semplicemente come un prodotto finito senza che venisse indagato il suo significato di idealizzazione del sensibile) crea la sovrapposizione di una natura idealizzata al mondo della perce¬ zione reale, nel quale “non troviamo nessuna idealità geometrica [...] né lo spazio geometrico né il tempo matematico con tutte le sue forme.” “Cosi poteva sembrare che la geometria, procedendo mediante ‘intuizioni’ e me¬ diante un pensiero immediatamente evidente a priori, producesse una ve¬ rità assoluta e autonoma.”10 “L’abito ideale” sovrapposto alla natura sen¬ sibile “fa si che noi prendiamo per il vero essere quello che invece è sol¬ tanto un metodo.”16 Questo atteggiamento dello scienziato naturale motiva dunque ben presto una “dimenticanza” rispetto al senso della natura stessa e delle idea¬ lizzazioni; e di qui derivano conseguenze estremamente negative sul piano teoretico. Proprio “la celebre dottrina galileiana della mera soggettività del¬ le qualità specificamente sensibili” rappresenta il punto di passaggio verso le più svariate gnoseologie di genere dogmatico che ipotizzano un in sé trascendente, o di genere scettico, scettico cioè a proposito dell’in sé tra¬ scendente. Il breve accenno che precede alla problematica della Crisi, ci ri¬ porta perciò dal lato opposto alla costituzione husserliana della cosa ma¬ teriale, su cui ci siamo soffermati nella prima parte. Questa analisi di Husserl, che suona come limitativa rispetto al signi¬ ficato conoscitivo delle scienze moderne, non significa per nulla una loro svalutazione, giacché comporta anzi una precisa valorizzazione nel loro si¬ gnificato di tecniche teoretiche, che, come tali, “non sono affatto mecca¬ niche, che sono anzi sbalorditive.”17 Ma bisogna rigorosamente distinguere tra quella che è una “appassionata prassi di ricerca,” in cui l’istinto dello scienziato si intreccia con l’attuazione del metodo in vista della “scoperta” scientifica, e, d’altra parte, “qualcosa come il problema di una precedente riflessione sistematica sulle possibilità di principio, sui presupposti essen¬ ziali di un’obiettivazione matematica.” Bisogna cioè chiedersi se quella pras¬ si di ricerca “possa essere filosofia, scienza in un senso rigoroso, se, in un senso profondo, [...] essa costituisca veramente una conoscenza del mon-

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Crisi delle scienze europee, pp. 67-68. Ivi, p. 78. Ivi, p. 80. Ivi, p. 82.

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do.’18 Giacché “un compito e un’operazione di ordine teoretico come quelli di una scienza naturale [...] può avere realmente e originariamente un senso e può mantenerlo soltanto se gli scienziati elaborano in sé la capacità di risalire e di indagare il senso originario di tutte le loro strutture di senso e di tutti i loro mètodi,” “in vista dell’interesse [...] per una cono¬ scenza reale del mondo stesso, della natura stessa.”19

La rigorosa distinzione cosi operata tra una scienza vera e propria, una conoscenza della natura, e una prassi guidata dalla preoccupazione dominante per il “risultato,” per il successo pra¬ tico-strumentale, ci permette anche di cogliere ciò che rimane va¬ lido nel discorso del giovane Lukàcs. Non si tratta, ovviamente, della spiegazione del sapere scientifico dell’età moderna come una impresa passivamente “contemplativa,” essenzialmente non pra¬ tica nel suo stesso praticismo utilitario. Ciò che Lukàcs ha contri¬ buito a chiarire è proprio la possibilità effettiva di un decadimento dell’autentica prassi umana (di quella teoretica, e di quella non teo¬ retica ma eventualmente tecnica, inventiva, ecc. — come noi do¬ vremo intendere) a semplice manipolazione guidata da potenze superiori, nel caso particolare lo sviluppo capitalistico, che minac¬ ciano la stessa vita della coscienza o ne prospettano una riduzione unilaterale, un degradamento a semplice “ ingranaggio. ” In questo senso, e con questi limiti, l’indicazione di Lukàcs (che traduce in senso critico l’analisi weberiana del carattere razionalizzante del capitalismo moderno), è quanto mai preziosa e il suo significato meriterebbe di essere approfondito (con la necessaria attitudine discriminante) proprio della storiografia filosofica marxista, a cui ri¬ sale il merito di aver posto, già con Marx, questo problema.20

18 Ivi, p. 69. 19 Ivi, p. 85. 20 La critica dell’economia politica compiuta da Marx nel Capitale è tutta pregna di ironia nei confronti delle semplificazioni concettuali esercitate dal “borghese praticone, quando questi descrive l’essenza stessa del suo agire. In questo senso — ma tenendo conto anche della critica del materialismo "misantropo” e matematizzante contenuta nella Sacra Famiglia — si può considerare Storia e coscienza di classe come un primo tentativo di rilevare all’interno delle stesse categorie delle scienze naturali l’esercitarsi di una prassi “manipolatoria.” Questo primo tentativo deve considerarsi parzialmente fallito per l'in¬ sufficiente analisi della sfera materiale e per l’indistinzione tra prassi conoscitiva, prassi inventiva e semplice manipolazione. È proprio in questo senso invece che nel nostro testo si è cercato di valorizzare le analisi husserliane di Idee II e della Crisi.

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Capitolo settimo

Sintesi conclusive sul tema “Prassi e teoria”

Scienze della Natura e scienze dello Spirito È con la nascita della scienza moderna, come è noto, in par¬ ticolare con Cartesio, che prende origine la “querelle” di Natura e Spirito nella sua forma moderna. La reazione di Vico, del re¬ sto quanto mai motivata, al fisicalismo sempre più diffuso e or¬ mai operante entro le stesse scienze umane, non comporta una essenziale via d’uscita dalla situazione in cui la nuova scienza ave¬ va sospinto i termini della questione. Condizionato dalla forma delle scienze naturali del suo tempo, Vico sottolinea il carattere meramente convenzionale del sapere fisico.1 La nozione tradizio-

1 Cfr. G. B. Vico, De antiquissima Italorum sapientia, che utilizziamo nell’edi¬ zione e traduzione di F. Nicolini (Milano-Napoli, Ricciardi, 1953; le citaz. seguenti: dalle pp. 253 sgg.). Non contenendo in sé gli elementi che le compongono, l’uomo si avvede di non poter conoscere la genesi delle cose. Perciò, “volgendo a usi utili questa sua limi¬ tatezza, si finge con la cosiddetta astrazione due cose: il punto che si può disegnare e l’unità che si può moltiplicare.” Il fisico “non può definire le cose conforme verità,” ma può "definire i nomi delle cose e [...] creare, quasi fossero cose, il punto, la linea, la superficie.” "Poiché la scienza umana è frutto d’un’astrazione, tanto meno le scienze saranno certe quanto più esse si immergeranno nella materia corporea.” Ci siamo già fermati lungamente, nel c. I, sul senso della “ipoteticità” del sapere quale inevitabile conseguenza delle premesse gnoseologiche (a loro volta condizionate dalle istanze di una prassi tecnico-realizzatrice) della "nuova scienza.” Le simpatie di Vico per l’orientamento più specificamente Sperimentale della ricerca naturale non com¬ portano una revisione sostanziale di quelle premesse, sulle quali si instaura, già assai prima che egli la formulasse in senso nuovo, la teoria del “verum-factum” (sui suoi precedenti e sui suoi legami con i motivi della docta ignoranza e con la scepsi moderna, cfr. il lavoro di A. Pacchi, già citato nel c. I, pp. 179 sgg. Come documento della continuità di queste idee lungo tutto il secolo XVII, riportiamo queste parole di Pierre Bayle: "lo sono quasi certo che vi sono pochi fisici in questo nostro tempo che non siano convinti dell’impenetrabilità della natura e del fatto che le sue molle segrete sono conosciute sol¬ tanto a chi le ha create e le manovra." Dobbiamo accontentarci, precisa Bayle, di "ipotesi possibili” (cfr. la nota “B” all'articolo Pirrone del Dictionnaire, che cito dalla scelta

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naie di un Dio che ‘contiene in sé tutti gli elementi delle cose” e perciò non può non rappresentarli a se stesso tutti,” gli offre un punto d appoggio fittizio dal quale gli è possibile ridurre il modo di meditare umano a qualcosa di piatto e inessenziale, sem¬ plice “monogramma.” Naturalmente la sua valutazione del sapere storico come vero sapere (secondo la forma presa dalla sua “se¬ conda gnoseologia”2), cioè in quanto sapere di ciò che l’uomo stesso ha “fatto,” contiene in forma mitica un’importante indicazione: 1 uomo crea i rapporti sociali e con essi rende possibile la coscienza e la conoscenza. Ma l’impostazione che ormai si era resa domi¬ nante circa l’essere proprio della natura, gli preclude la compren¬ sione del possibile carattere conoscitivo delle scienze naturali (della loro “scientificità” vera e propria).3 La posizione di Vico di fronte alla “querelle” che ci inte¬ ressa è estremamente significativa in quanto storicamente essa si riproduce quasi ogni volta che, per reazione al prevalere dell’orien¬ tamento fisicalistico, si cerca di ristabilire la dignità e l’autonomia del sapere storico. Lo storicismo moderno, nella sua reazione anti¬ positivistica, non sfugge a questa antinomia per cui ogni tentativo di penetrazione nel senso proprio delle scienze spirituali si riper¬ cuote nell’incomprensione della sfera naturale, che viene ridotta a sapere meramente “ipotetico,”4 o convenzionale-utilitario. È anche vero che la concezione moderna della storia non si è limitata a queste posizioni. Per esempio, una certa tradizione pubblicata da G. P. Brega, Pensieri sulla cometa e Dizionario storico e critico, Milano, Feltrinelli, 1957, pp. 275-278). Sull’assurdità della stessa idea di una fìsica extra-umana, la quale potrebbe concepire le cose fisiche in modo essenzialmente diverso dal nostro percepire grossolano e per successivi adombramenti, cfr. Idee I, passim, e Idee II, pp. 479480. (Non esistono “vere qualità” delle cose al di fuori di quelle che si costituiscono per un corpo sensibile ecc.) 1 Cfr. B. Croce, La filosofia di G. B. Vico (1911), ora ristampata in ediz. eco¬ nomica (Bari, Laterza, 1965, c. II). 3 Naturalmente del tutto diversa è la valutazione che di questo aspetto della fi¬ losofia vichiana dà B. Croce (op. citi) per il quale la “salvazione” vichiana della ma¬ tematica comporta anzi un limite teoretico. In conformità con la sua concezione utilitari¬ stica delle scienze extra-umane, che condivide al tempo stesso con Hegel (a proposito della matematica, particolarmente) e con il convenzionalismo suo contemporaneo, Croce osserva che la matematica “crea ma non conosce,” in quanto costruisce finzioni e non verità (cfr. pp. 34 sgg.). 4 Cfr. la posizione di Dilthey accennata nella nota in appendice al ns. c. III. Gli scritti di Dilthey sulle scienze storiche sono parzialmente tradotti nel volume Critica della ragione storica (Torino, Einaudi, 1954) a cura di Pietro Rossi.

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di pensiero si è sforzata di sostituire alla distinzione “metafisica” tra le scienze, che si fonda sui caratteri dei rispettivi “oggetti,” una distinzione basata sul “metodo,” a seconda che l’orientamento della scienza sia di tipo “nomotetico” (rivolto cioè alla legge generale) o idiografico (rivolto verso l’essere individuale).3 Ma è caratteristico che questa tendenza, da Rickert a Weber, procede sempre più verso una riduzione della realtà storica nel senso di un territorio neutro nel quale l’“ oggetto, ” per l’appunto, perde ogni rilievo effettivo, e diventa niente più che il risultato di una “scelta” arbitraria.5 6 E se questo riduzionismo storico sembra possedere il vantag¬ gio di superare la “metafisica” distinzione tra Natura e Spirito, in realtà esso non fa che generalizzare, applicandolo alla storia, quell’atteggiamento che nella sfera naturale (secondo un caratte¬ ristico sincretismo fin-de-siècle di blando neo-kantismo soggettivista e di “machismo”) riduce il mondo intero a “puri fenomeni,” a “eventi” interpretabili nei modi più svariati a seconda del punto di vista metodico che ci piacerà di adottare.7 * * * il

5 Cfr. per questo indirizzo, che è tipico della cosiddetta scuola neo-kantiana del Baden, W. Windelband, Le scienze naturali e la storia, del 1894, raccolto nei Pràludien (trad. it., Milano, Bompiani, 1947, pp. 156 sgg.); Rickert, Die Grenzen der naturwissenschajtlichen Begriffsbildung (1896 sgg.); M. Weber, Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschaftslehre (saggi di varia data, raccolti nel 1922 da J. Winckelmann e parzialmente tradotti da Pietro Rossi, col titolo: Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958). Cfr. in generale per questi autori i volumi di R. Aron, La philosophie critique de l’histoire, Parigi, Vrin, 19502, e Introduction à la philosophie de l’histoire, Parigi, N.R.F., diverse ed.; inoltre Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, Ei¬ naudi, 1956. 6 Questo sviluppo procede dalla critica già mossa da Windelband alla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, con il rilievo dell’ambigua posizione oc¬ cupata dalla psicologia (Preludi, cit., pp. 160-161). Egli mette in crisi la distinzione tra le scienze operata in base al solo oggetto: le medesime cose possono essere oggetto di una ricerca nomotetica e insieme anche di una ricerca idiografka" (p. 163). Rickert parla di una realtà come materia amorfa che viene organizzata dalla scienza in un universo storico, mediante il riferimento a “valori"; questi ultimi, per Rickert, non sono mera¬ mente arbitrari, ma oggettivi, e vanno rilevati come tali nella stessa materia storica. (Per il rilievo dell’intima contraddizione di questa posizione, cfr. Aron, La phil. crit., cit., pp. 153-155). Infine per Weber la scelta dei valori unificanti diventa del tutto soggettiva e arbitraria. Cfr. sullo storicismo moderno e in particolare su Weber l’introduzione e i cc. I-II di: Leo Strauss, Diritto naturale e storia, trad. it., Venezia, Neri Pozza, 1957. idea piu caratteristica e insieme piu discutibile di Weber," osserva Aron (cit p. 271), è la riduzione di tutto il reale ad eventi psichici.” In questo senso non è ingiu¬ stificato l’avvicinamento che è stato fatto (p.es. da Lukàcs) delle idee di Weber a quelle di Mach. Non ce da stupirsi perciò che la concezione della metodologia storica di Weber possa essere in buona misura condivisa da K. R. Popper, che nella sua Miseria dello

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Si confrontano cosi, nel nostro tempo, due opposte conce¬ zioni del mondo storico. O la storia viene concepita come un ter¬ ritorio neutro sul quale nessun evento, nessun complesso di azio¬ ni o di opere prende mai rilievo nel suo contesto se non per Var¬ bitrio del soggetto conoscente, cosicché i “punti di vista” possono essere moltiplicati aH’infinito, e gli stessi rapporti “causali” diven¬ gono una specie di inter-relazionismo senza spina dorsale, un va e vieni da sinistra verso destra e da destra verso sinistra; oppure (secondo uno sviluppo del Zeitgeist hegeliano nella nozione di W eltanschauungen totalitarie) le strutture obiettive del mondo sto¬ rico vengono consolidate come le “sfere” dell’antica astronomia, dove ogni cosa è determinata una volta per sempre nel suo “luogo” significativo. Nel primo caso, naturalmente, la conoscenza storica è senz’altro possibile, ma al tempo stesso essa riveste i caratteri dell’arbitrio, per cui i fenomeni storici, le causazioni (o le “moti¬ vazioni”) storiche perdono consistenza reale. Nel secondo, la co¬ noscenza storica o non è possibile affatto (giacché la consistenza gelatinosa del tempo storico conserva ben distanziati i singoli even¬ ti nelle “epoche” rispettive, e chiude noi stessi nella nostra soli¬ tudine dell’“epoca presente”)8 oppure lo è solo a patto di una in¬ tuizione inesplicabile, di una Einfùhlung capace di portarsi sen¬ z’altro “all’interno” dei vissuti psichici individuali e intersoggettivi del passato. È questa, naturalmente, la tendenza propriamente “storici¬ stica,” sui caratteri della quale ci siamo già soffermati nell’intro¬ duzione. Ed è a questa tendenza che deve essere riportato il mar¬ xismo “sociologico” e la “sociologia della conoscenza,” la quale solidifica l’essere della coscienza nella sfera chiusa dell’essere di classe. Noi abbiamo già rilevato il carattere feticistico di questa dottrina, e la sua mancata intuizione deH’originarietà della vita costoricismo (Milano, L’Industria, 1954, p. 118), annulla semplicemente ogni dimensione storica. 8 Naturalmente questo estremismo relativistico è raggiunto solo in alcuni casi, e si tratta piuttosto di una tendenza oggettivamente operante nel pensiero di diversi storicisti che di esplicite affermazioni in questo senso. Essa assume proporzioni macroscopiche in scrittori come O. Spengler, per il quale le singole civiltà sono incomunicabili (cfr. per il rapporto con il "policentrismo” di Dilthey Pop. cit. di Pietro Rossi, pp. 414 sgg.). Quanto aWEinfuhlung, questa nozione non è in sé priva di senso, purché non ci si limiti a dichiararla, ma ne vengano esplicitati i momenti descrittivi (come Husserl fa nella V Medit. cartes. per la costituzione deH’alterità personale).

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sciente, la quale non vive soltanto “all’interno” del tempo storico¬ obiettivo, ma elabora attivamente il tempo umano.9 Una volta che la coscienza venga considerata funzione di una sfera solidificata di appartenenza, si tratti dello “spirito del tempo,” di una Weltanschauung tirannica, della stessa coscienza di classe e cosi via, non giova tentare, come nel caso di Mannheim, la scappatoia di un ceto peculiare (quello degli intellettuali) i quali trarrebbero la loro au¬ tonomia di giudizio proprio dal fatto di rappresentare il luogo di convergenza di ogni condizionamento sociale.10 Qui il relativismo che neH’indirizzo weberiano si presenta sotto la forma di un soggetto che costituisce arbitrariamente l’oggetto storico “sceglien¬ dolo” secondo il suo “punto di vista” — assume un carattere di¬ verso, ma egualmente scettico nelle sue conclusioni, quello per cui noi stessi, soggetti del conoscere storico, ci troviamo ad essere già “scelti” una volta per tutte dall’evoluzione obiettiva delle epoche storiche. In entrambe le tendenze qui delineate, il mondo storico di¬ venta qualcosa che non presenta alcun senso immanente, o il cui senso resta inaccessibile, o la cui accessibilità risulta inspiegabile. L’elemento scettico inerente a questo modo di vedere la storia si rivela nel fatto che i singoli momenti della comprensione storica, (e, correlativamente, della struttura storica immanente) vengono negati o interpretati come arbitrio soggettivo. In particolare, alla 9 Cfr. le osservazioni fatte a proposito del libro di K. Kosik alla fine del ns. c. V. 10 Mannheim, Ideologie und Utopie, 1929 (tr. it., Bologna, Il Mulino, 1957). Per le motivazioni storiche del pensiero di Mannheim, vedi la chiara esposizione di Pietro Rossi, in Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano, Lerici, 1960. Attra¬ verso Lukacs, Mannheim passa a trovare gli elementi condizionanti della conoscenza dalla sfera temporale obiettiva delle intuizioni del mondo di tipo diltheyano alle condizioni storico-sociali, sostituendo tuttavia al concetto di classe quello di “gruppo sociale." Con questo passaggio egli, naturalmente, abbandona quell’intenzionalità verso la verità che per Lukacs rimaneva implicita nella funzione privilegiata assegnata alla classe operaia all’in¬ terno del tutto storico. Giacché, come è naturale, un "gruppo sociale” vale l’altro, e difatti in Mannheim il pensiero diventa semplice "strumento” ideologico. Di qui la funzione equilibratrice e sintetica riservata al ceto intellettuale, in quanto composto di elementi che provengono dalle piu diverse condizioni sociali. Naturalmente, proprio in quanto la “sociologia della conoscenza,” come osserva P. Rossi (op. cit., pp. 237-8), "è costretta ad applicare a se stessa i propri criteri,” ci muoviamo qui nell’ambito di uno psicologismo relativistico e sostanzialmente scettico. Ci sembra perciò discutibile la valutazione di Pietro Rossi (op. cit., p. 237) per cui avverrebbe in Mannheim una “sdogmatizzazione dei presupposti marxistici, resi criteri effettivi di analisi sociologica.” (Per il resto Mannheim, che contrappone l’"oggettività impersonale” delle scienze naturali alle scienze sociali, ri¬ mane ancorato alle tradizionali impostazioni dello storicismo.)

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storia viene negato, per motivi essenziali, un carattere immanen¬ temente unitario, e al soggetto per cui un mondo storico esiste, viene vietata ogni possibilità di riferirsi al patrimonio storico come a una sedimentazione di significati umani che possano essere eventualmente ri-assunti e, secondo una sostanziale conti¬ nuità, sviluppati in un senso progressivo. Se ci riferiamo, in par¬ ticolare, al problema della “conoscenza,” al problema cioè di quei¬ rautentico conoscere che in ogni campo, delle “realtà” e delle “idealità,” abbiamo indicato come prassi teoretica, le nozioni stes¬ se di una ripresa, di uno sviluppo progressivo delle dottrine se¬ dimentate nel nostro passato storico, vengono derealizzate dall’idea di un arbitrio soggettivo che creerebbe semplicemente l’oggetto storico e la continuità col presente, o falsificate dal presupposto di una esclusione reciproca delle sfere relative di appartenenza, per cui ogni “verità” e ogni “senso” si esaurirebbero senza re¬ sidui nel rispettivo humus culturale.11 Cosi come nei confronti della natura, l’uomo non è passiva¬ mente contemplativo di fronte alla propria storia. Abbiamo già accennato alla serie continua di movimenti esistenziali che for¬ mano il presupposto dell’atteggiamento dell’osservatore disinteres¬ sato, e abbiamo visto che in questi movimenti l’uomo costituisce 11 L’atteggiamento opposto a quello scettico-relativistico nei confronti della sto¬ ria del pensiero è illustrato in questi passi tratti dai manoscritti di Husserl: “Quando io mi immedesimo in Aristotele, l’Aristotele con cui ho a che fare appartiene al pas¬ sato, ed io non posso piu esercitare un’influenza nei suoi confronti; ma i suoi pensieri passati agiscono su di me ora, e ciò che egli un tempo ha pensato è lo stesso che io produ¬ co ora di nuovo sulla sua base e che continua tuttora a esercitare su di me con la sua forza di motivazione.” “Io continuo il lavoro della sua vita [di un filosofo antico] e l’unità di ciò che egli ha operato si fa membro dell’unità delle mie proprie operazioni; le sue aspirazioni, la sua volontà, le figure del suo pensiero si continuano nelle mie." Così pure la mia opera “viene imitata da altri, e si espande così nella cultura un certo tipo di operazioni e di opere, o magari viene ulteriormente migliorato, e così si procede, senza che intervenga la mia intenzione, in persone e in ambienti a me sconosciuti, che a loro volta non hanno bisogno di sapere nulla di me.” (Passi riportati da R. Toulemont, in L’Essence de la société selon Husserl, Parigi, P.U.F., 1962, pp. 115-116.) Naturalmente nei passi che abbiamo riportato vogliamo trovare semplicemente l’affermazione e non anche la concreta esplicitazione della possibilità di un senso unitario della storia del pensiero o della storia in generale. Motivazioni molto più concrete si ritrovano in alcuni scritti di Husserl, come quello famoso sull 'Origine della geometria (riportato nella Crisi, pp. 380 sgg., e sul quale cfr. Enzo Paci, Struttura temporale e orizzonte storico, in “Aut aut," n° 87, maggio 1965). Più in generale, naturalmente, questo atteggiamento di fronte alla storia è reso possibile da un approfondimento del rapporto tra temporalità, coscienza e tempo oggettivo (quello delle Weltanschauungen), come quello operato da Husserl nelle Vorlesungen zur Phànomenologie des inneren Zeitbewusstseins. (Cfr. anche quanto si è detto nel ns. c. V, nota 29.)

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Prassi e teoria

i propri oggetti nel momento stesso in cui assume una posizione nei loro confronti, nel momento in cui si stabilisce una condizione “ottimale” a livello degli organi sensibili e delle circostanze obiet¬ tive. Questa ottimalità non è qualcosa di dato, ma è continuamente in via di costituzione. Di fronte al mondo della storia perciò non abbiamo motivo di supporre un soggetto neutro, che registra passivamente degli eventi, o un soggetto arbitrario che li costruisce per decreto. Il mondo storico si presenta a noi in¬ nanzitutto come un mondo di significati, un mondo dove le oggettività storiche — si tratti di “epoche,” di “personalità,” di “tendenze,” p. es. dello sviluppo economico e sociale — hanno per noi già un senso effettivo e “presente” se noi ci disponiamo neU’atteggiamento adeguato ad afferrarlo. In questo nostro “di¬ sporci” l’oggetto non ci raggiunge soltanto come un dato che esi¬ steva già fin da prima e che aspettava soltanto la nostra propen¬ sione per manifestarsi. Nel nostro rapportarci alla tradizione sto¬ rica, nel nostro assumere, integrare o eventualmente nel ripercor¬ rere a ritroso “criticamente” le obiettività costituite, infine nella temporalizzazione con cui noi continuamente ripresentifichiamo il passato conservandogli nel contempo i suoi caratteri di “pas¬ sato,” noi esercitiamo una autentica prassi conoscitiva. Come si è già visto per la sfera naturale, in modo analogo nella storia la nostra prassi non si manifesta soltanto come prassi conoscitiva. Noi non vogliamo soltanto conoscere la nostra vita so¬ ciale e la nostra tradizione, ma di fronte ad esse ci atteggiamo an¬ che criticamente, in quanto nella nostra prassi noi non vogliamo soltanto comprendere il mondo, ma anche modificarlo. Che que¬ sta prassi venga interpretata come semplicemente negatrice dello stato presente o che le venga riconosciuto un carattere continuamente “prospettivo,” nel senso stesso in cui la nostra vita perso¬ nale di ogni giorno (e il senso della nostra vita individuale in ge¬ nerale) comporta una continua “invenzione” del nostro modo di essere nel mondo, in ogni caso questa prassi non coincide con la prassi conoscitiva, non la riassorbe ma nello stesso tempo non la esclude. La prassi possiede una pluralità di dimensioni. L’esortazione a non interpretare solamente il mondo, ma a mutarlo, non può essere intesa come una svalutazione della conoscenza in funzione

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Sintesi conclusive sul tema “Prassi e teoria

dell’attività, né come un’interpretazione pragmatistica della cono¬ scenza. Essa non può neppure significare quindi che la prassi co¬ noscitiva non sia una prassi vera e propria e non “modifichi,” nei suoi modi propri, il mondo umano, creando al suo interno una dimensione particolare. L’“undecima tesi” non è rivoluzionaria in quanto svaluti la teoria svuotandola di contenuto pratico, ma lo è in quanto valuta positivamente la natura pratica dell’uomo nell’insieme della sua attività, in quanto valorizza (p. es. rispetto a Feuerbach) le forme non teoretiche della prassi, e concepisce come un aspetto della prassi umana anche il passaggio dalle armi della critica alla critica delle armi. E naturalmente, poiché sap¬ piamo che la conoscenza non consiste nella registrazione di un occhio immobile e passivo, ma è in rapporto (di origine e di svi¬ luppo) con la totalità delle manifestazioni dell’uomo, questa totalità pratica costituisce anche una vera condizione di possibilità della prassi conoscitiva.12

12 In questa seconda parte abbiamo considerato il problema della prassi e della conoscenza in un senso determinato, e senza volere esaurire l’intera problematica con¬ nessa. Aggiungiamo qui alcuni riferimenti che servono a precisare il punto di vista di Husserl e a evitare malintesi. Si è già escluso che la praticità del conoscere vada intesa semplicemente in senso pratico-tecnologico, o utilitaristico. Cfr. a proposito della logica i “Prolegomena” e la Logica (§ 7): questa scienza può essere piegata a un uso nor¬ mativo, ma in sé non è normativa (“pratica” in questo senso limitato). È orientata teleologicamente verso la conoscenza. Naturalmente, in quanto si tratta di una attività, è subordinata (come in genere la conoscenza) alla “ragione pratica” universale, nel senso dei “principi etici.” “Ma rimane allora la differenza essenziale che tutte le scienze sono subordinate all’idea di un interesse della ragione teoretica che si svolge all’infinito,” idea pensata in rapporto a quella di “una comunità di ricercatori che procede nel suo lavoro all’infinito.” È compatibile questa attività rivolta al sapere per se stesso con i “principi etici”? Essa lo è almeno, secondo Husserl, “con la convinzione che tutti i risultati teoretici conseguenti [...] rivestano per l’umanità una funzione che supera l’am¬ bito della teoresi”; analogamente la professione scientifica di un individuo “si concilia con i suoi altri scopi extra-teoretici in quanto padre di famiglia, cittadino ecc., e deve trovare posto nella suprema idea pratica di una vita etica universale” (Logica, pp. 3940). Evitiamo qui di discutere se una “conciliazione” cosi poco drammatica tra l’eserci¬ zio della ragione conoscitiva e le richieste della prassi umana in quanto prassi totale possa dirsi soddisfacente. Rileviamo invece un altro punto. Non solamente i critici marxisti hanno criticato nella fenomenologia l’atteggiamento “contemplativo,” ma anche l’esistenzialismo. Senza entrare nel merito della questione (e in particolare del rapporto che Husserl stabilisce tra ragione teoretica, pratica e valutativa) non si deve intendere il pensiero di Husserl come se il nostro modo di essere nel mondo fosse “prima di tutto” contemplativo. Cfr. su questo punto le esplicite affermazioni di Esperienza e giudizio, introduzione, e sull’intera questione la corretta esposizione di G. Piana, op. cit., capitolo VII (e vedi, per una risposta all’“esistenzialismo,” le pp. 139-140). Anche su questo punto non è necessario, per il nostro scopo presente, discutere le conclusioni parzialmente critiche cui Piana arriva.

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Parte terza

Critici marxisti della fenomenologia

"Ma l’esperienza non è un buco in uno spazio di coscienza, attraverso il quale traluca un mondo esi¬ stente prima di ogni esperienza.” Husserl,

Logica formale e trascendentale

"Marx ou Husserl - Quelle alternative saugrenue!”

P.

Naville

Premessa

1. In questa parte del nostro lavoro vengono considerati que¬ gli scrittori di formazione marxista che si sono occupati maggior¬ mente della fenomenologia; in genere, come vedremo, per con¬ futarne le pretese scientifiche e definirne la situazione come estre¬ mo tentativo di risolvere idealisticamente i problemi della cono¬ scenza nel quadro storico del maturo capitalismo. Lukacs, Adorno e Tran-Duc-Thao sono le figure piu eminenti su cui dovremo fermarci. Lukacs, in realtà, si è occupato di Husserl solo margi¬ nalmente: i suoi obiettivi nell’ambito della fenomenologia sono piuttosto Scheler e Heidegger, Sartre e Merleau-Ponty. Ma la po¬ sizione di Lukacs, sia aH’interno del movimento marxista che in generale per la filosofia contemporanea, è troppo importante per¬ ché si potesse evitare di fare riferimento alle sue opere; tanto più che i suoi argomenti sono stati assunti e sviluppati da altri critici di cui dovremo occuparci, specialmente da Adorno. Di fatto il lavoro giovanile di Lukacs, Storia e coscienza di classe (1923), no¬ nostante le ripetute sconfessioni, rappresenta un luogo di passag¬ gio obbligato del marxismo contemporaneo. Negli anni venti Lukàcs, marxista militante, è il caposcuola riconosciuto di una cor¬ rente “hegeliana” che si contrappone senza mezzi termini al “mar¬ xismo della III internazionale”1 e cerca di risalire a Marx scar¬ tando nettamente le due ortodossie, kautskiana e leninista, e scon¬ fessando, alle loro spalle, il primo tentativo di costituzione siste1 Nel già citato Marxismo e filosofia (1923), Korsch chiama cosi l’ortodossia le¬ niniana e ne mostra in alcuni punti essenziali la sconcertante uniformità con quella kautskiana.

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Critici marxisti della fenomenologia

matica di un marxismo come scienza generale, quello di Engels. Su alcuni aspetti del suo pensiero “giovanile” e sulla sua par¬ ziale continuità con le opere più tarde, ci siamo già intrattenuti nella seconda parte. Qui di seguito ci attende il compito più in¬ grato, che è proprio quello di sfatare il “suo” quadro della feno¬ menologia. Desideriamo tuttavia avvertire espressamente che la facile confutazione di questo quadro, e le stesse induzioni d’ordine più generale che emergeranno a questo proposito, caratterizzando più che altro gli aspetti frettolosamente ideologici del suo pensie¬ ro, non devono assolutamente valere come un apprezzamento, sia pure sommario, di Lukàcs filosofo. Il capitolo dedicato a Adorno si giustifica, nel nostro lavoro, per l’esplicita formazione hegeliano-marxista del suo pensiero, an¬ che se questo pensiero, come l’autore tiene ad affermare, evita scrupolosamente di concludere in una qualsiasi sistematizzazio¬ ne filosofica. Rispetto al marxismo, Adorno rappresenta un caso estremo di eterodossia,2 di cui non abbiamo voluto accertare qui la consistenza

teorica,

che la Metacritica

tanto più

della co¬

noscenza ci dà già abbastanza da fare da sola, per la grande quantità di motivi polemici che mette in giuoco. Quanto poi al libro di Tran-Duc-Thao, Fenomenologia e materialismo dia¬

lettico,

essa

consta

di

due

parti

un tentativo di valorizzazione della

fenomenologia,

e

palesa

ben

e anche una

distinte: di

la

prima

è

critica dall’interno

conoscenza

e

una

com¬

prensione eccezionalmente profonda dell’opera di Husserl; la se-

2 Per essere precisi, lo stesso Adorno considera oggi impropria la caratterizzazione del suo pensiero come “marxista.” In Italia tuttavia egli viene generalmente considerato come tale, anche per effetto della presentazione datane da Sergio Solmi (nell’introduzione all’ed. it. di Minima Moralia, Torino, Einaudi, 1954). L. Quattrocchi invece eccede non poco dichiarandolo “estraneo” e “dichiaratamente avverso al marxismo teorico e po¬ litico” (Elementi filosofici del pensiero di T. W. Adorno, ne "Il Pensiero,” Milano, gennaio-aprile 1958, p. 76). In realtà altri filosofi intervengono esplicitamente nella do¬ tazione dello strumentario di Adorno, particolarmente Hegel e Kierkegaard. Se si è cre¬ duto opportuno inserire l’analisi della sua Metacritica della gnoseologia in questa parte dedicata ai critici marxisti della fenomenologia, non è solo per osservanza di una tra¬ dizione, ma soprattutto per il fatto, che sarà documentato a suo luogo, che Adorno ri¬ prende e sviluppa in quel libro le fondamentali critiche lukacsiane al pensiero contem¬ poraneo, già contenute in Storia e coscienza di classe (e accennate saltuariamente nelle pagine precedenti del nostro lavoro). Naturalmente l’influenza di Lukàcs si esercita non solo direttamente, ma anche per la mediazione di un ambiente, come quello della Ger¬ mania pre-nazista, in cui matura una notevole schiera di marxisti non-ortodossi, come Benjamin, Marcuse, ecc.

124

Premessa

concia si avvicina invece al cliché riduttivo che fa della fenomeno¬ logia un pensiero succube delle esteriori determinazioni dell’“epo¬ ca” storico-sociale. Nonostante i molti spunti originali che solle¬ vano nettamente le critiche di Tran-Duc-Thao sopra il livello me¬ dio dell’ideologismo marxista, l'interesse della sua posizione sta piuttosto negli accenni che tradiscono le oscillazioni di una me¬ ditazione anteriore; meditazione nella quale marxismo e fenome¬ nologia non costituiscono ancora i termini di una alternativa for¬ zata, ma titoli di esigenze egualmente vissute che si bilanciano.3 Le altre pagine di questa terza parte avranno invece maggior¬ mente un carattere di rassegna, senza pretese di completezza, dove verranno riferiti i contributi critici minori. 2. Prima di soffermarci sul senso delle critiche di Lukàcs alla fenomenologia, dobbiamo però accennare brevemente all’altra grande radice del marxismo contemporaneo, quella per cosi dire “ortodossa” e mantenutasi ancor oggi tale attraverso la duplice ondata delle “realizzazioni” socialiste in Europa. Questo filone del marxismo comincia a svilupparsi, in stretta relazione con il positivismo allora dominante, già nelle note teorie di Engels sulla conoscenza e la realtà oggettiva, e si istituzionalizza, sulla base del libro di Lenin del 1909, Materialismo e empiriocriticismo, come la piattaforma filosofica del “marxismo della III interna¬ zionale. ” È da questa posizione che esso deriva tutta la sua capacità di sopravvivenza presso le istituzioni culturali dei paesi dell’Eu¬ ropa orientale. Accenniamo qui brevemente al principale lavoro filosofico di Lenin, benché esso non tocchi direttamente il nostro argomento,4 3 Cfr. gli stralci del suo vecchio articolo (del 1946) sullo stesso soggetto, che sono riportati nella nostra Appendice I. 4 Lenin, Materialismo e empiriocriticismo, scritto a Ginevra nel 1908 e pubblicato a Mosca nel 1909 (ed. it., trad. di F. Platone, Roma, “Rinascita," 1953). Al tempo in cui Lenin scriveva questo libro la fenomenologia non aveva ancora larga circolazione fuori degli ambienti universitari tedeschi; non stupisce quindi che Lenin non ne parli. E noto che le posizioni di Lenin andarono evolvendo in una certa misura, soprattutto per la lettura della Logica hegeliana, e che egli dichiarò superiori gli idealisti oggettivi come Hegel ai cattivi materialisti. Abbiamo già citato (alla nota 18 del c. V) la " reinter¬ pretazione” data da Lukàcs dei suoi appunti filosofici (cfr. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Milano, Feltrinelli, 1958). Nel nostro testo viene considerato, del resto brevemente, soltanto Marxismo e empiriocriticismo, poiché è proprio sulla base di questo "classico" e delle sue critiche all’idealismo “machista” (cioè di tipo "berkeleyano”)

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Crìtici marxisti della fenomenologia

perché la sua “chiave” critica anti-idealistica è stata ripresa infi¬ nite volte dai seguaci e utilizzata sia nei confronti della fenomeno¬ logia che delle altre filosofie “borghesi” contemporanee. Le tesi fondamentali di Materialismo e empiriocriticismo e le nostre con¬ siderazioni delle parti precedenti, soprattutto la prima, sono pre¬ supposte nei brevi cenni che seguono e che si limitano a dare una valutazione d’insieme.

Lenin e la critica dell’idealismo Se non ci lasciamo suggestionare dagli altri aspetti della per¬ sonalità di Lenin, dobbiamo riconoscere nella sua critica contro gli “ idealismi ” rinati alla fine del secolo scorso, tutta una serie di moti¬ vazioni che dobbiamo fare nostre, stravolte però secondo la falsari¬ ga di una dottrina inconsistente. Più che le singole argomentazioni critiche, dovremo senz’altro ritenere attuale la sua difesa della cono¬ scenza filosofica e scientifica come conoscenza della verità, che si ri¬ volge polemicamente, e con notevole fiuto, contro la tendenza scetticheggiante appena nascosta sotto le spoglie del “neo-kantismo” e delle varie correnti empiriocriticiste; e cosi pure la polemica contro il pragmatismo e l’economicità gnoseologica nonché la “teoria dei segni,” quali forme di relativismo scettico più o meno mascherato. Il senso della filosofia come ricerca della verità e — correlativa¬ mente — della realtà effettiva, è fortemente presente a Lenin e dà un senso di profonda eticità alla sua polemica. Lo stesso va detto per il suo richiamo all’effettivo “realismo” per il quale ci è dato un mondo esterno e “indipendente” contro la pretesa dei “machisti” di far passare la loro riduzione sensistica come la mi¬ gliore enunciazione dello spontaneo “realismo” dell’uomo della strada. Tuttavia queste istanze, che in Lenin sono reali, non arri¬ vano mai a esprimersi adeguatamente. Non appena Lenin cerca di dar loro un fondamento conoscitivo, scade egli stesso nei con¬ trosensi delle dottrine che combatte, e ciò, innanzitutto, a pro¬ posito della sua teoria di una realtà “in sé” la quale sarebbe tute a quello neo-kantiano che sono state aggiustate le polemiche di parte ortodossa contro la fenomenologia.

126

Premessa

tavia a noi accessibile, e lo sarebbe attraverso “immagini” in qual¬ che modo (piu o meno mediatamente) speculari. Le considera¬ zioni già svolte nella prima parte del nostro lavoro dovrebbero bastarci a vedere senz’altro come la teoria della conoscenza come “immagine” sia, senza volerlo, vicina parente di quella — che Lenin critica — dei “segni,” e come anch’essa determini, non appena posta, un allontanamento cosi radicale dell’“in sé” che nes¬ sun buon senso e nessuna fiducia — che non sia quella cartesiana nel Dio buono — potrebbe mai riportarlo sotto il nostro controllo sensibile o intellettuale.5 Non resta, cosi, a Lenin, che richiamarsi alla veridicità delle scienze naturali e alla loro testimonianza che un mondo è già a lungo esistito assai prima che qualsiasi “coscien¬ za” trovasse le condizioni ambientali per abitarvi ed esercitarvi una qualsiasi funzione “fondativa.” Argomento che — per quan¬ to del tutto sfasato rispetto al problema dell’idealismo moderno in tutte le sue forme adulte — è stato effettivamente ripreso dai marxisti di scuola e rivolto a confutare la “priorità” della coscien¬ za nella filosofia contemporanea, compreso il caso peculiare della fenomenologia.

5 Cfr. per la critica della teoria delle immagini e dei segni nella fenomenologia il ns. c. Ili e, rispetto alla "teoria del riflesso,” la nota 28 del c. II.

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Capitolo ottavo

Lu\àcs: la fenomenologia come intuizionismo mistico

Il giudizio più circostanziato di Lukàcs sulla fenomenologia si trova nelle opere del secondo dopoguerra.1 Tenendo conto del¬ la nostra esplicita auto-limitazione alla fenomenologia husserliana, il testo che ci interessa più direttamente è la Distruzione della ragione. In questo gigantesco processo alla cultura moderna, tutto fondato sull’opposizione di un razionalismo hegeliano-marxista e di un irrazionalismo pluriforme, ma nell’insieme delle sue ma¬ nifestazioni tipicamente borghese, Lukàcs conferma la sua ten¬ denza a ridurre le apparenti divergenze di scuola alla sostanziale uniformità (un’uniformità garantita in anticipo, naturalmente, da necessità storiche essenziali) dello “sviluppo filosofico generale del¬ l’età imperialistica.” In particolare, nonostante le divergenze fon¬ damentali da ogni empirismo sensistico e “ flczionistico, ” che sono in certo modo la ragion d’essere della fenomenologia, a parere di Lukàcs anche Husserl, “non appena viene a trattare le que¬ stioni fondamentali della gnoseologia, si rivela molto vicino alla dottrina di Mach.”2 1 Ci serviremo soprattutto della Distruzione della ragione (1954, tr. it. di E. Arnaud, Torino, Einaudi, 1959), tenendo presente anche Existentialisme ou marxisme? (1948; abbiamo presente la 2a ed., Parigi, Nagel, 1961). 2 Distruzione della ragione, p. 482 (il passo precedente è a p. 485). Qui Lukàcs cita un passo dall’introduzione al voi. II delle Logische Untersuchungen (p. 20), che co¬ mincia cosi: “La questione circa l’esistenza e la natura del mondo ‘esterno’ è una que¬ stione metafisica.” E, conclusa la citazione, commenta: “Il metodo husserliano di ‘mettere da parte’ il problema della datità reale implica, come ben presto mostreremo, la stessa affinità con la dottrina di Mach” (p. 483). Senonché Lukàcs non spiega di quale esteriorità si tratti: nella frase immediatamente precedente, Husserl accenna infatti al problema “se sia legittimo mettere a fronte della natura fenomenica, della natura come correlato della scienza della natura, ancora un secondo mondo trascendente, nel senso di un mondo di grado superiore." Si tratta, naturalmente, del problema dell’in sé, a cui è dedicata la

128

Lu\àcs: La fenomenologia come intuizionismo mistico

Lo stesso inestirpabile irrazionalismo sta perciò anche alla radice del “metodo fenomenologico,” nonostante tutta la presun¬ zione husserliana di aver fondato con questo una “scienza rigo¬ rosa.” “Il carattere fondamentalmente irrazionalistico di esso [me¬ todo] era oscurato da principio dal fatto che Husserl e i suoi primi discepoli si erano occupati prevalentemente di logica formale e di analisi di significato; ne potè sorgere, nello stesso Husserl, l’illu¬ sione di avere, con la fenomenologia, scoperto un metodo per trat¬ tare la filosofia come ‘scienza rigorosa.’ Ma già a questo propo¬ sito va osservato che l’importante posizione che la logica formale ha in questo metodo non esclude affatto l’irrazionalismo. Anzi, logica formale e irrazionalismo sono si, da un punto di vista fi¬ losofico, in rapporto antinomico fra loro, ma tuttavia, nella loro opposizione, sono modi coordinati di rapporto con la realtà. Il sor¬ gere dell’irrazionalismo è sempre strettamente congiunto coi li¬ miti della concezione che la logica formale ha del mondo.”3 Una volta di più appare evidente il modo di procedere sommario e “pa¬ noramico” della critica lukacsiana, che si esercita qui attraverso generiche analogie (dove il termine implicito di riferimento con¬ siste nell’“analogo” rapporto che può essere individuato, in un de¬ terminato momento di sviluppo del neopositivismo, tra le opera¬ zioni logico-analitiche e ciò di cui “non si può parlare” e su cui “si deve tacere”). Fatto sta che nelle pagine della Distruzione della ragione, dove Lukàcs cerca di delineare, per quanto sommariamente, una cri¬ tica dei presupposti della fenomenologia,4 non si ritrovano, nei confronti almeno di quella husserliana, in cui viene indicata la radice irrazionalistica di tutti gli sviluppi successivi, passaggi di maggiore consistenza di quelli qui riferiti.5 Tanto basta a Lukàcs prima parte di questo lavoro. L’assurdità di un accostamento della “cosa stessa” feno¬ menologica alla gnoseologia di Mach dovrebbe essere del tutto evidente per il nostro lettore (cfr. la nota 29 del c. I e il testo attinente), mentre sfugge a Lukàcs solo in base a una serie di preconcetti sul "metodo fenomenologico” che illustreremo nel testo. 3 Distruzione della ragione, p. 486. 4 Ivi, p. 488. 5 Ancor meno troviamo, naturalmente, nel libro di battaglia su Existentialisme et marxisme, dove Lukàcs dà una caratterizzazione della fenomenologia come “uno di quei numerosi metodi filosofici che si propongono di superare tanto l’idealismo quanto il ma¬ terialismo, impegnandosi su una ‘terza via’ del pensiero, e facendo dell’intuizione la fonte di ogni autentica conoscenza.” Dopo questa caratterizzazione, quasi accettabile,

129 9

Critici marxisti della jenomenologia

per passare a circostanziare la validità della sua critica sulla pelle non più di Husserl, ma di Scheler, cioè uno di quegli “allievi” nei quali Husserl vide più chiaramente, e a quanto pare abba¬ stanza presto, il travisamento delle intenzioni profonde della fe¬ nomenologia.6 Si ripresenta, a questo proposito, una questione di principio che decide di tutto lo sviluppo possibile delle nostre va¬ lutazioni: se cioè nel giudizio sul significato di una problematica filosofica debbano giuocare con un peso essenziale le cosiddette “conseguenze culturali” più vistose, o se invece la filosofia non ri¬ chieda, per la sua stessa sopravvivenza, una volontà precisa di di¬ scriminazione; se un rapporto di questo genere, dove gli effetti culturali giocherebbero la parte di “realtà effettiva” rispetto alle “oneste intenzioni,” debba costituire la base di valutazione per i marxisti, come del resto avviene (e anche in maniera dichiarata) nella struttura complessiva della Distruzione della ragioneJ E infatti, come abbiamo detto, la critica del “metodo fenome¬ nologico” viene sviluppata da Lukàcs come una critica della “mes¬ sa in parentesi” e dell’“intuizione” in Scheler. A questo propo¬ sito è necessario aggiungere che mentre, la conoscenza diretta delle Husserl viene considerato una "tappa" Avenarius (pp. 71-72).

del percorso Nietzsche-Bergson,

"via”

Mach

e

6 H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement (L'Aja, Nijhoff, 19652), fa giustizia della leggenda semplificatrice che "vede in Scheler semplicemente il principale allievo e collaboratore di Husserl” (p. 228). Spiegelberg sottolinea alcune circostanze pre¬ cise, che elenchiamo: 1) “in tutta la sua vita, Husserl non ha mai nominato Scheler nelle sue pubblicazioni” (p. 229). È bensì vero che Scheler divenne uno dei quattro coeditori originari dello "Jahrbuch” husserliano, ma 2) non vi esercitò mai una parte at¬ tiva, e i suoi contatti personali con Husserl furono fin dall’inizio (intorno al 1910) molto esigui. Inoltre la corrispondenza degli anni seguenti rivela una riservatezza crescente da parte di Husserl, senza per altro che questi ne dicesse mai apertamente la ragione; 3) lo stesso Spiegelberg ricorda di aver sentito dire da Husserl nel 1924 che la fenomenologia di Scheler è "oro matto” rispetto all’oro autentico della vera fenomenologia, pp. 229-30); 4) in una lettera a Ingarden del 19.4.1931, Husserl definisce Scheler, con Heidegger, uno dei suoi due "antipodi.” “Vi sono sufficienti prove sia implicite che esplicite,” commenta Spiegelberg, "che l’opinione di Husserl su Scheler, che non fu mai troppo alta fin dal¬ l’inizio, andò sprofondando proporzionalmente alla fama sempre crescente di Scheler." Ed ecco un passo di un abbozzo (forse del 1937) di prefazione alla III parte della Crisi (rimasta poi incompiuta e pubblicata postuma): "Nel migliore dei casi si leggono ì miei scritti, oppure, ciò che e ancora piu frequente, si va a cercar consiglio dai miei scolari, ì quali, si dice, hanno accolto il mio insegnamento e devono quindi essere in grado di fornire fidate informazioni; cosi ci si orienta secondo le interpretazioni e le critiche di Scheler, di Heidegger e di altri e ci si risparmia la fatica dello studio, in¬ dubbiamente molto difficile, dei miei scritti” {Crisi, p. 461). Ed è proprio questo, come stiamo per vedere, il caso di Lukàcs. Cfr. a questo proposito la poco convincente prefazione del libro, particolarmente alle pp. 4-5.

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Lu\àcs: La fenomenologia come intuizionismo mistico

opere di Husserl sembra molto limitata in Lukàcs,8 gli scritti e la personalità di Scheler e di Heidegger intervengono in modo ben piu significativo a formare la sua concezione della fenomeno¬ logia. C’è un aneddoto che Lukàcs ama raccontare, e che ci la¬ scia intravvedere il suo modo di concepire l’“epoche” e in gene¬ rale il ‘"metodo” fenomenologico. Riferiamo questo aneddoto dal¬ le pagine di Esistenzialismo e marxismo.9 “A Heidelberg, dove Scheler era venuto a trovarmi durante la prima guerra mondiale, avemmo una conversazione interessan¬ tissima e del tutto caratteristica a questo riguardo. Scheler di¬ ceva che la fenomenologia, essendo un metodo universale, può assumere qualsiasi cosa come oggetto intenzionale. ‘Cosi ad esem¬ pio,’ aggiunse, ‘è perfettamente possibile procedere aH’esame fe¬ nomenologico del diavolo, mettendo anticipatamente tra parentesi il problema della sua esistenza.’ “‘Certamente,’ dissi. ‘E poi, una volta realizzata l’analisi fe¬ nomenologica del diavolo, non vi resta che da eliminare le paren¬ tesi, ed ecco il diavolo che si presenta ai nostri occhi...’ “Scheler sorrise, alzò le spalle e non rispose nulla.” E Lukàcs prosegue subito dopo: “Ciò che l’intuizione feno¬ menologica coglie è veramente la realtà? Con quale diritto la fe¬ nomenologia parla della realtà del proprio oggetto?” Seguendo ancora Scheler, nella Distruzione della ragione Lukàcs accredita la versione secondo cui tutta l’infrastruttura concettuale metodica husserliana non sarebbe che una “preparazione” all’atto dell’intuire, che verrebbe introdotto così: “Ora guarda, lo vedi!”10 In realtà, Lukàcs passa indifferentemente da Scheler a Hus¬ serl nell’affermare che con la messa in parentesi “viene distrutto ogni rapporto delle rappresentazioni con la realtà oggettiva, viene 8 Si può escludere che Lukàcs conoscesse, scrivendo le pagine di cui ci occupiamo, le opere di Husserl successive alle Idee I (1913). Ma non si può tacere che anche di quest’opera e delle Ricerche logiche, Lukàcs sembra avere un’idea molto superficiale, al¬ meno a questa data (cfr. invece la nota su Husserl in Storia e coscienza di classe riferita alla nota 2 del ns. c. IX, che dice assai pili e assai meglio di quanto non facciano tutte le opere successive). 9 A p. 75 dell’ediz. cit. 10 Distruzione della ragione, p. 485. Il testo prosegue: "Queste affermazioni mo¬ strano come fin da principio i tratti irrazionalistici della filosofia della vita fossero ben presenti nel metodo della fenomenologia. Scheler del resto rimane sempre un fedele e riconoscente discepolo di Husserl, ecc.” (Nostra sottolineatura; e si veda la ns. nota 6 di questo capitolo.)

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Critici marxisti della fenomenologia

creato un metodo che cancella, anzi annulla ogni differenza tra vero e falso, fra ciò che è necessario e ciò che è arbitrario, fra ciò che è reale e ciò che è semplicemente inventato dal pensiero.” Da una siffatta identificazione puramente formale,” scrive Lukàcs, “non possono però — senza illeciti artifizi logici es¬ sere fatte illazioni riguardanti il contenuto. E questa e appunto la pretesa dell’intuizione delle essenze.” Se i fenomenologi analiz¬ zassero anche solo un poco [sottolineatura mia, G.D.N.] questo punto centrale del loro metodo, dovrebbero vedere che ogni in¬ dagine circa il contenuto di una rappresentazione, indipendente¬ mente dal fatto che si compia in modo intuitivo o discorsivo, e impossibile senza un appello alla realtà oggettiva.”11 Un discorso di questo genere dovrebbe stupire il lettore non prevenuto che abbia presente la distinzione, continuamente riba¬ dita da Husserl, tra una coscienza posizionale (la coscienza espe¬ rente e confermante, quella che stabilisce giudizi di realtà sulla base dell’esperienza — quale ci si è presentata anche nel I capitolo di questo lavoro) e una coscienza “neutralizzante,” eventualmente “fantastica.”12 Ma qui, più che rilevare ulteriormente il grado del¬ le confusioni e delle sostituzioni d’oggetto, ci interessa di com¬ prendere perché Lukàcs creda di vedere nella fenomenologia quel¬ le “ tendenze irrazionalistiche e vitalistiche, ” appena velate in Hus¬ serl dal fatto “che l’applicazione del metodo era limitata ai pro¬ blemi di carattere logico-formale.”13 Per motivare adeguatamente la fretta ideologica con cui Lu¬ kàcs si sbriga della problematica husserliana (una fretta che trova solo pochi riscontri nella Distruzione della ragione, se si tiene conto del luogo centrale assegnato alla fenomenologia rispetto al¬ lo sviluppo dell’irrazionalismo contemporaneo), dobbiamo riman¬ dare alle osservazioni già fatte (nel nostro quinto capitolo) su quegli a priori valutativi che corrispondono alla nozione di sfere di appartenenza feticizzate, di epoche storiche chiuse su se stesse. Da queste, un pensiero non riesce a liberarsi in nessuno dei suoi momenti di significato, se non trasferendosi, nella persona reale del suo portatore, in un’ulteriore sfera di appartenenza (nel caso 11 Ivi, p. 488. 12 Cfr. p. 48. 13 Distruzione della ragione, p. 484.

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specifico, facendosi momento della coscienza di classe del proleta¬ riato). Naturalmente — e anche questo è stato notato a suo luogo — Lukàcs non si muove soltanto in una sfera di totale arbitrio, e anzi le pagine di Storia e coscienza di classe destinate alle filo¬ sofie (allora) contemporanee, in particolare a quella neo-kantiana, sono una analisi ancora per noi esemplare in quanto svelano a giorno l’incapacità costituzionale di certe dottrine ad impadronir¬ si del “dato”; di un dato inteso naturalmente non come un’astratta riduzione sensistica ma come la “cosa stessa,” o come la materia cui la conoscenza dovrebbe rivolgersi nel suo sforzo apprensivo e che le sfugge invece da tutte le maglie concettuali, a fianco del¬ le quali la materia effettiva permane con il carattere di una ir¬ razionalità inviolata. Ora, a questa astratta razionalizzazione, che riproduce continuamente le insufficienze della riduzione matematizzante, Lukàcs vede contrapporsi, come qualcosa di complemen¬ tare, Virrazionalismo mistico del pensiero intuitivo; e con questa pre-figurazione a priori delle possibilità di sviluppo del pensiero “borghese” anche il giudizio sulla fenomenologia (una caratteri¬ stica filosofia dell’“intuizione”) è già formulato. Noi conosciamo già la fedeltà hegeliana di Lukàcs: una ra¬ gione di un genere piu alto e comprensivo deve prendere il po¬ sto dell’intelletto astratto, pseudo-illuministico, e del presunto sapere intuitivo. Ma Lukàcs non trascura soltanto di accertare in concreto di quale tenore sia la “ragione” fenomenologica.14 Piu grave è il fatto che egli non riesca a cogliere i limiti che ineriscono alla critica hegeliana della conoscenza intuitiva, e che si riprodu¬ cono negativamente sulla stessa nozione di ragione. Non vede cioè come la ragione hegeliana, giustamente assetata di determinazioni e di mediazioni e perciò contraria ai salti intuizionistici che vor¬ rebbero trapassare d’un colpo le maghe del reale, cada essa stessa in un lapsus arbitrario, in una soppressione delle mediazioni di fronte alla concretezza intuitiva del dato. In Hegel perciò la ra14 Cfr. “illuminista” Germania di teristico delle fatto di non tano in una

la I parte della Crisi, dove Husserl denuncia proprio il falso razionalismo e nello stesso tempo l’irrazionalismo che egli vedeva nascere intorno a sé nella quegli anni, e particolarmente nella sua stessa "scuola.” Un aspetto carat¬ critiche di Lukàcs — che ritroveremo ancora a proposito di Adorno — è il saper raccogliere nel pensiero di Husserl proprio quegli elementi che pun¬ direzione che il marxismo non può non fare propria.

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Critici marxisti della fenomenologia

zionalità, anziché riconoscersi immanente al dato sensibile e illu¬ minarlo dall’interno, comporta in realtà la nullificazione del dato stesso. Ma una cattiva filosofia dell’esperienza sensibile comporta disastrose conseguenze in tutta la sfera del sensibile e delle strut¬ ture categoriali che vi devono trovare fondamento. Nelle pagine della Fenomenologia che dovrebbero contenere e che invece elu¬ dono un’“estetica” trascendentale, come in quelle dell’Enciclopedia sulla filosofia della Natura, in luogo della costituzione della cosa materiale vediamo scatenarsi una dialettica delle negazioni che ci portano al di là della cosa senza averla posseduta. Questo spiega anche, naturalmente, perché dopo il palese fallimento del recu¬ pero engelsiano della natura alla dialettica, il marxismo “hege¬ liano” abbia preferito consegnare questa intera sfera tematica al controllo di una pseudo-ragione formalizzante. Ma su questo pun¬ to si è già detto quanto basta; abbiamo voluto richiamarlo solo per far presente come proprio la materialità, rinfacciata allo sche¬ matismo neo-kantiano vada perduta in una Ragione che ha di¬ menticato le sue basi sensibili. Evitiamo di addentrarci qui in altri particolari, di cui del resto il libro di Lukàcs non abbonda per nulla a questo propo¬ sito. Sarebbe fin troppo facile dimostrare analiticamente lo scarso fondamento reale della critica di Lukàcs. Nel suo insieme, essa è condizionata da un duplice errore di interpretazione: 1) il “me¬ todo” fenomenologico viene concepito come un semplice esorci¬ smo preparatorio; 2) il frutto di questa “preparazione” è inteso appunto come qualcosa di estraneo a questo esercizio preliminare, un premio finale per l’ascesi, l’intuizione mistica, appunto, della cosa stessa. Non rientra nei limiti di questa nostra esposizione critica del pensiero di Lukàcs sulla fenomenologia un’analisi anche somma¬ ria del senso che riveste Xintuizione in Husserl. Ricordiamo sem¬ plicemente come l’ampliamento di questa nozione, che viene estesa da Husserl fino a coprire l’intera attività conoscitiva, non com¬ porti in nessun modo una semplice riduzione (una “distruzione,” nel linguaggio di Lukàcs) degli atti conoscitivi di grado superiore all’immediatezza propria dell’intuizione sensibile. L’intuizione ei¬ detica e categoriale è bensì “fondata” su atti percettivi sensibili, ma comporta l’apertura di una sfera di operazioni che si distin-

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Lukàcs: La fenomenologia come intuizionismo mistico

guano rigorosamente da quegli atti. Una qualsiasi discussione sulla legittimità deH’inmizionismo fenomenologico non può trascurare assolutamente le importanti chiarificazioni di cui abbondano tutte le opere di Husserl e soprattutto la sesta “ricerca logica.”15 Quanto poi al “metodo” della fenomenologia (Lukàcs si rife¬ risce naturalmente all’“ epochè”), non si tratta in nessun modo di una tecnica che possa essere posseduta prima di consegnarsi agli atti intuitivi, e anzi la parola “metodo” non ha qui nessun senso se non sta a indicare nella sua concretezza la strada battuta dal nostro “vedere,” se non è anche una conoscenza effettiva. Naturalmente, poiché ciò che vediamo e ciò che non vediamo o non vediamo an¬ cora si rapporta alla nostra situazione di “viaggiatori” impegnati in un cammino ben determinato, con quelle sinuosità e quelle impasses che gli sono di volta in volta peculiari, anche le analisi dei movimenti della coscienza che se ne voglia liberare e che pun¬ ti verso un’evidenza (un’esperienza conoscitiva) di grado superiore divengono tema della fenomenologia, sono anzi esse stesse analisi fenomenologiche di pieno diritto che corrispondono alle possibili vie dell’esperienza della realtà. Se, come Hegel ci ha insegnato, la via della verità corrisponde necessariamente a un détour, non solo le cose viste, ma le vie battute dalla coscienza appartengono alla “realtà stessa.” Questo è, a nostro parere, il solo senso della meto¬ dica della riduzione, che si ritrova in forma sempre nuova ad ogni opera di Husserl, in corrispondenza con la situazione effettiva della coscienza esperiente di fronte al mondo. In tutto questo non c’è nulla di mistico, come sa del resto chiunque abbia seguito in modo non superficiale anche una sola di queste “riduzioni” sul testo husserliano.

15 Sul problema fondamentale dell’intuizione, cfr. Existentialisme ou Marxisme?, pp. 53 sgg. (capitolo: “Intuizione e irrazionalismo”). Qui l’ispirazione hegeliana della critica all’intuizione è esplicita: alla visione intuitiva viene attribuita la pretesa di accedere a verità superiori, per una via sintetica che supera le polarità dialettiche. Ma questo, nota Lukàcs, significa "confondere un metodo soggettivo di lavoro con una metodologia obiet¬ tiva"; "giacché la vera dialettica riconferisce a ogni sintesi un’espressione perfettamente razionale.” “Ecco perché l’intuizione in quanto strumento della conoscenza o elemento di una metodologia scientifica non può occupare alcun posto nella dialettica. Il che del resto è stato spiegato in modo chiarissimo da Hegel, in risposta a Schelling, nell’introdu¬ zione della Fenomenologia" (pp. 54-55). Cfr. infatti le pagine su Schelling della Distru¬ zione della ragione. Cfr. invece, per le motivazioni dell'intuizione categoriale husserliana, i cenni fatti nella nostra nota 21 del c. II.

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Capìtolo nono

Adorno: Il carattere conservativo dell’epoche fenomenologica

La “Metacritica della gnoseologia” Adorno ci avverte che i quattro capitoli, elaborati in tempi diversi, che formano la sua Metacritica della gnoseologia risalgono a un vasto manoscritto abbozzato negli anni 1934-37. Tuttavia il primo confronto con la fenomenologia risale alla sua dissertazione di laurea, cioè al 1924.1 Questa è per noi un’indicazione utile, per¬ ché ci riporta agli anni della grande affermazione del primo Lukàcs, di Storia e coscienza di classe (1923). Di fatto la presenza del pensiero lukacsiano è trasparente in una serie di punti essenziali: innanzitutto, nell’impostazione di fondo hegeliano-marxista. Poi, nella tendenza a risolvere i contenuti di pensiero della filosofia mo¬ derna nelle forme ideologiche dell’estremo capitalismo, dell’impe¬ rialismo; in particolare, nella affermata incapacità della fenome¬ nologia di far fronte alFempiricità e alla contingenza, che si ri¬ solvono cosi in una “fatticità” di ordine superiore2; poi ancora (e si tratta di una variazione del motivo precedente, sviluppata

1 Die Transzendenz des Dinglichen und Noematischen in Husserls Phànomenologie, Frankfurter Dissertation, 1924, citata in Zur Meta\riti}{ der Erkenntnisthcorie {Stlidien iiber Husserl und die phdnomenologischen Antinomien), Stuttgart, Kohlhammer, 1956; trad. it. di Alba Burger Cori, Milano, Sugar, 1964 (nota 46 al c. III). Nell’articolo di Carlo Finale, I relitti di Adorno ("Tempo presente,” XI, n° 8, agosto 1966), troviamo questa ul¬ teriore indicazione: "A Horkheimer, che stava svolgendo un corso su Husserl all’Univer¬ sità di Francoforte, il ventenne Adorno si presenta e subito inizia la loro fraterna amicizia.” 2 Sintetizziamo la tesi di Adorno servendoci delle parole stesse di Lukàcs; l’unico passo, una nota del resto brevissima, dove Husserl è ricordato in Storia e coscienza di classe, viene qui custodito e esposto religiosamente. Eccolo: “Si pensi al metodo feno¬ menologico di Husserl, dove, in ultima analisi, l’intero ambito della logica è trasformato in una ‘fatticità’ di ordine superiore. Husserl stesso definisce questo metodo come un

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Adorno: Il carattere conservativo dell’epochè fenomenologica

in modo analogo dal Lukàcs della Distruzione della ragione) nel¬ l’affermazione di un assolutismo logico e razionalistico a fianco del quale si spalancano le porte dell’irrazionale; come conseguen¬ za, nella implicita “controprova” per cui l’essenza svelata del me¬ todo fenomenologico viene riconosciuta in Heidegger e in Scheler; e l’elenco non è finito, perché ricorrono altri elementi comuni più generali ma anche più sostanziali: primo fra tutti la critica (altro tratto geniale, pur nella sua parzialità, di Storia e coscienza di classe) del razionalismo moderno, del feticismo matematizzante, connesso con la mentalità tipica del capitalismo. Su questo punto, del resto, dovremo tornare esplicitamente. Tutti questi riferimenti non tolgono che la Metacritica della gnoseologia sia largamente un libro originale e che, per quanto riguarda strettamente il suo tema, la fenomenologia, costituisca un approfondimento che risulta da una analisi effettiva dei testi; anche se dovremo fare delle importanti riserve sul senso generale che a questi testi viene assegnato. Nell’insieme infatti questo li¬ bro è un esempio quasi unico di come l’analisi intelligente, bril¬ lante, colta, possa perdere quasi insensibilmente, ad ogni passo, il suo oggetto vero, e possa procedere a costruirsene uno largamente fittizio, sul quale esercitare tutta la forza della “critica immanen¬ te.” Riesce quasi impossibile al lettore anche filosoficamente pre¬ parato, che però non disponga di una sua esperienza autonoma dell’oggetto in discussione, sfuggire alla suggestione di uno stile scintillante, di un continuum instancabile di pensiero dove la mo¬ bilità concettuale di un sottofondo hegeliano si incastra a ogni mo¬ mento con la sapienza mondana di un “marxismo” consumato al ribaltamento sociologico delle teorie. Eppure questa analisi critica della fenomenologia è un capola¬ voro di sofisticazione, o piuttosto è un lavoro che segna esattamen¬ te il punto in cui la demistificazione dell’ideologia diventa a sua volta ideologica. Ci sforzeremo di dimostrarlo, anche se non ci sarà possibile seguire passo passo la miriade di osservazioni di cui pullulano queste pagine e ci dovremo sforzare di ricondurre il di¬ scorso a alcuni centri di unificazione. È lo stesso Adorno, del re¬

metodo puramente descrittivo. Cfr. Idee [I]” (p. 151, nota 2 della trad. frane. Si veda anche il testo connesso).

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sto, che ci sconsiglia da una analisi “micrologica” del suo testo, avvertendoci che “ove l’interpretazione dell’uno e dell’altro passo non dovesse cogliere nel segno, l’autore sarebbe l’ultimo a difen¬ derla”; ma qui non si tratta di manchevolezze emergenti qua e là, bensì dello stravolgimento complessivo del senso perseguito dalle analisi fenomenologiche e ancor più si tratta di una orgoglio¬ sa prevenzione circa la superiorità del “metodo” hegeliano, che getta l’ombra del pregiudizio anche là dove sarebbe più facile va¬ lorizzare i temi husserliani proprio nel senso che preme a Adorno. I quattro capitoli sono dedicati rispettivamente 1) a dimo¬ strare il tirannico quanto impotente “assolutismo logico” della fenomenologia (a cui fa riscontro, come sappiamo già da Lukàcs, l’insolubilità del dato e la sua irrazionalità); 2) a dimostrare il ca¬ rattere reificato della dottrina husserliana della “specie” e dei ri¬ spettivi atti intenzionali; 3) a dimostrare la insufficienza dell’“au¬ tocritica” del tardo Husserl di fronte alle difficoltà inerenti alla sua nozione (positivistica) del “dato,” sia in senso oggettivo che soggettivo; l’insufficienza della dottrina della sensazione-percezione, del rapporto noesi-noema e infine l’incompatibilità delle pretese “sistematiche” con la datità immediata; 4) l’ultimo capitolo svilup¬ pa infine la critica dell’“epochè” e la teoria dell’essenza inerente al dato, nonché il nesso di io empirico e io trascendentale.3

"Assolutismo logico” Senza riprometterci di seguire uno dopo l’altro questi temi, riferiamoci ora al primo, cioè all’accusa di “assolutismo logico,” a proposito della quale ci è dato subito di cogliere la tipica cecità “metodica” di Adorno. “Assolutismo logico” è qui, per Adorno, la netta separazio¬ ne operata nei “ Prolegomena ” tra il piano della logica e quello della psicologia, la teoria della idealità delle forme logiche e della irrilevanza, per il loro contenuto di senso, della genetica psicolo3 II quarto capitolo è una rielaborazione di un saggio già pubblicato nel 1938, il primo e il secondo sono del 1953 (cfr. Prefazione della Metakriti\\ tr. it., p. 9).

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Adorno: 11 carattere conservativo dell'epoche fenomenologica

gica messa in opera dal positivismo. Il torto di Adorno non è quello di criticare la giustapposizione tagliente quale risulta nel testo delle Ricerche logiche. Husserl stesso si trovò costretto, in opere successive, a parlare di genesi e di genealogia delle forme logiche, e per quel che riguarda la psicologia i rapporti con la lo¬ gica si riveleranno ben altrimenti complessi nelle opere tarde; Adorno del resto non ignora 1’“autocritica” husserliana contenuta già nella Logica formale e trascendentale, e la nuova riformula¬ zione del problema dello psicologismo.4 Ma di fronte all’alterna¬ tiva tra la riduzione psicologistica e l’assolutismo logico, Adorno trova una via d'uscita che gli sembra risolutiva. Infatti “la genesi implicita dell’elemento logico non è affatto la motivazione psico¬ logica. Essa è un comportamento sociale.” “Nelle proposizioni lo¬ giche si sedimentano secondo Durkheim esperienze sociali come l’ordine delle condizioni di generazione e di proprietà, le quali affermano la priorità sull’essere e sulla coscienza del singolo. Vin¬ colanti e in pari tempo alienate al singolo interesse, esse si pre¬ sentano di fronte al soggetto psicologico sempre come un qual¬ cosa di valido in sé, di categoricamente necessario, e tuttavia an¬ che causale; proprio cosi come in Husserl accade contro la sua volontà alle ‘proposizioni in sé.’ Il potere dell’assolutismo logico sulla motivazione psicologica è preso in prestito dall’oggettività del processo sociale che costringe i singoli sotto di sé e non è ad essi trasparente. In vista di questo elemento sociale, la meditazione scientifica di Husserl occupa irriflessivamente la posizione del¬ l’individuo. Come la coscienza precritica fa con le cose, così egli eleva la logica ad essere un ente in sé. In tal modo egli esprime giustamente il fatto che le leggi del pensiero dell’individuo — detto in termini psicologici dell’Io, le cui categorie infatti sono rivolte verso la realtà, sono formate in azione reciproca con que¬ sta e in tal senso sono ‘oggettive’ — non ricevono la loro og¬ gettività dall’individuo. In forma contorta si impone qui il rico¬ noscimento dell’essere la società preordinata all’individuo.”5

4 II testo posteriore alle Idee che Adorno mostra di conoscere meglio è Formale und transzendentale Logi!{, dove egli ritiene avvenga un attenuamento in senso neo-kan¬ tiano del primitivo "positivismo” fenomenologico. 5 Sulla metacritica della gnoseologia, trad. it. citata, p. 84.

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Dunque Adorno non è in disaccordo con Husserl circa l’in¬ sufficienza dello psicologismo. Le formazioni logiche, anche per lui, non si lasciano ridurre e “spiegare” sulla base dei meccani¬ smi della psiche. I motivi però sono diversi: se l’individuo si trova di fronte a degli a priori come a dei dati di fatto è semplicemente perché “proprio in quella attività nella quale si illude di posse¬ dersi piu saldamente, nella ‘libera’ attività del pensiero, l’indivi¬ duo non appartiene a se stesso. L’autonomia e l’isolatezza dell’in¬ dividuo come individuo pensante sono anch’esse apparenza — l’ap¬ parenza prodotta necessariamente dalla società borghese.”6 Ador¬ no non è neppure alieno dal riconoscere che — per tratti, nelle ultime opere, come per esempio nella Logica — Husserl si sollevi a saltuarie illuminazioni sul carattere storico-genetico delle idea¬ lizzazioni logiche, matematiche, ecc.7; nel suo insieme, tuttavia, la sua posizione antipsicologistica si lascia spiegare a sua volta me¬ diante motivazioni di ordine “sociale.” “La priorità dell’individuo, che era stata l’auto-illusione del liberalismo tradizionale, viene scossa dalla concezione postliberale di Husserl [si intende che l’al¬ lusione storica va agli stati autoritari dell’Europa tra le due guer¬ re, che troverebbero il loro corrispondente fenomenologico nella “assolutezza” delle leggi logiche di fronte alla coscienza indivi¬ duale. È un esempio del procedere “analogico” di Adorno, che naturalmente sfida ogni verifica]. Ma l’ideologia conserva tuttavia il suo potere su di lui. Il processo sociale non penetrato fino in fondo gli si trasfigura nella verità ut sic, e la sua oggettività viene trasfigurata in un’oggettività spirituale, nell’Essere ideale delle pro¬ posizioni in sé.”8 Il libro di Adorno è tutto pregno, come abbiamo già detto, di questo genere di allusioni, disgraziatamente mai circostanziate in modo verificabile, all’elemento “sociale.” “Descrivendo lo stato di fatto senza risolverlo, Husserl sanziona già il feticismo che ses¬ santanni più tardi rivelò il suo frenetico aspetto nel fascino eser¬ citato dalle macchine calcolatrici avventurosamente perfezionate e dalla scienza cibernetica che di esse si occupa. ” Anche qui natural6 Ivi, pp. 220-221. 7 Ivi, pp. 222-223. 8 Ivi, pp. 84-85.

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mente la mancata ostensione dei passaggi rende difficile valutare questo genere di illazioni. Non resta quindi che rivolgere la nostra critica alle formulazioni di principio. Giacché, in primo luogo, è chiaro che spostando il limite del condizionamento della coscien¬ za un gradino più avanti, dalla genetica fisio-psichica a quella sociologica, non si modificano che superficialmente i termini del problema. In secondo luogo, la trasposizione che Adorno opera dallo “psicologico” al “sociale” non investe questa o quella for¬ ma di teoria feticizzata, ma — come risulta dalle nostre ampie citazioni — la totalità delle formazioni ideali del pensiero scien¬ tifico e filosofico in generale. Adorno non vede l’assurdità di far coincidere con la sua critica comprensibile e motivata (già da Lukàcs) del feticismo matematizzante come carattere della mentalità capitalistica anche la valutazione di insieme del pensiero matema¬ tico per se stesso; estende perciò incondizionatamente il suo di¬ sappunto per la fascinazione sociale connessa alla riduzione di una società sotto l’angolatura delle “macchine calcolatrici” alle stesse “torri di pensieri” che i matematici, nella loro attività di ricerca, costruiscono sistematicamente. Per cui anche le “torri ma¬ tematiche” per sé prese, e — come possiamo arguire — i com¬ plessi costruttivi della geometria, per non parlare poi della logica formale nel suo insieme, costituirebbero — nella loro pretesa di “autonomia rispetto al pensare soggettivo”9 — una forma di feti¬ cismo. Noi abbiamo già considerato in altra parte del nostro la¬ voro il significato di una simile riduzione sociologistica di ogni operazione della coscienza. Perciò ci limitiamo qui a mettere in evidenza la difficoltà, senza portare oltre il discorso.

Positivismo travestito. L,’epoche conservativa Ma il tema centrale delle critiche di Adorno, meglio specifi¬ cato, verte sul “positivismo” travestito di Husserl, che cerca di mascherare il proprio carattere di “teoria” mirando a presentarsi come una “teoria ateoretica,” che presume di cogliere l’essere

9 Ivi, p. 32.

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“senza gli accessori del pensiero.”10 Dal positivismo banale, Hus¬ serl cerca di differenziarsi mediante una bardatura metodica co¬ me quella della “riduzione,” la quale tuttavia non opera in alcun modo sugli oggetti ingenui del pensiero, e ce li restituisce, una vol¬ ta compiuta l’operazione, del tutto immodificati, anche se santifi¬ cati “in una eternità crepuscolare nella quale non può più capita¬ re loro nulla di spiacevole.” Di qui una situazione di passività del pensiero. “Al cospetto dei prodotti reificati del pensiero, il pensiero husserliano rinuncia al diritto di pensare, si accontenta della ‘descrizione’ e genera la parvenza dell’in sé inapparente.”11 L’atteggiamento fenomenologico della “epochè” non è una “cri¬ tica impegnativa della ragione,” ma una “neutralizzazione di un mondo di cose sulla cui potenza e sul cui diritto non si sente più esprimere alcun serio dubbio.”12 La stessa soggettività a cui Hus¬ serl si richiama di continuo non rappresenta che una vuota cor¬ nice di questa assunzione passiva. “Se il soggetto include in sé ‘tutto’, conferisce a tutto il suo significato, esso potrebbe benissimo anche mancare [...]. L’ambito troppo vasto concesso da Husserl alla soggettività significa in pari tempo una sua diminuzione, un troppo-poco di soggettività. L'ego, ammettendosi ed assumendosi, in quanto condizione costituente o significante, come già dato in precedenza in tutto quanto è oggettivo, rinuncia ad ogni inter¬ vento della conoscenza e soprattutto della prassi. Acritico, in pas10 Itti, p. 133. 11 Ivi, p. 201. 12 Ivi, p. 203. Quello àeWepoché come fotografia è forse il pezzo di bravura piu prestigioso di tutto il libro di Adorno e merita di essere riportato integralmente: “Non per nulla Husserl ha in comune la parola ‘atteggiamento’ con il relativismo privato-bor¬ ghese di tutti, il quale fa dipendere modi del comportamento ed opinioni non tanto da una conoscenza vincolante quanto dal casuale Essere-cosi [Sosein] della persona giudicante. Forse sia Husserl che tale relativismo avranno preso in prestito quell’espressione dal lin¬ guaggio della fotografia. Si è in effetti tentati di congetturare in quest’ultimo il modello che sta alla base della gnoseologia husserliana nello spirito oggettivo: gnoseologia che pretende di impadronirsi della realtà intatta quando, isolando, inchioda là i suoi oggetti con un repentino ‘raggio dello sguardo,’ come nell’atelier del fotografo essi sono siste¬ mati ed esposti dinanzi all'obiettivo della macchina. Pari al fotografo di vecchio stampo, il fenomenologo si ammanta col panno nero della Sua epoche, scongiura gli oggetti di restare immobili e immutati, e alla fine realizza passivamente, senza la spontaneità del soggetto conoscente, ritratti di famiglia come quello della madre ‘che posa lo sguardo affettuoso sulla schiera dei suoi piccoli.’ Come nella fotografia la camera oscura e l’og¬ getto dell’immagine registrata sono tra loro in stretto rapporto, cosi lo sono nella feno¬ menologia l’immanenza della coscienza e il realismo ingenuo" (p. 203).

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sività contemplatrice, esso impianta un inventario del mondo delle cose come questo gli viene presentato nell’ordine sussistente [...]. Il mondo tra virgolette è una tautologia del mondo esistente: la epochè fenomenologica è fittizia.”13 Abbiamo già cercato di chiarire, a proposito di Lukàcs, come l’epochè non sia affatto, in Husserl, una cornice vuota (o, in quel contesto, un esercizio preliminare) attraverso cui l’interlocutore sia invitato a “guardare.” La critica dell’epochè come passivamente contemplativa va di pari passo con l’asserito carattere conservativo, giustificativo del dato di fatto. Cerchiamo, tuttavia, di non lasciar¬ ci incantare dal severo richiamo alla prassi trasformatrice, la quale, nel senso di Adorno, è del tutto cieca. La sua critica immanente dichiara di avere di mira esclusivamente la “dissoluzione dell’ap¬ parenza,”11 ma al di là della nebbia dell’apparenza non preme af¬ fatto, a Adorno, di riconoscere le forme delle cose; che le cose “stesse” conservino nonostante tutto una configurazione descri¬ vibile, afferrabile, è proprio il fastidio principale di questo hegeli¬ smo velleitario. Ma 1’“attività” e la “prassi trasformatrice” eser¬ citate brutalmente sulla teoria, lasciano sussistere, a dispetto della critica immanente, tutti i problemi irrisolti che solo la teoria, co¬ me prassi conoscitiva, può sperare di dipanare, se non rinuncia alle sue vie peculiari. Del resto l’indifferentismo teoretico di Ador¬ no riesce evidente anche dal fatto che egli non si astiene, ai suoi fini di semplice “dissolvimento,” dal ricorrere polemicamente alle nozioni “reificate” della tradizione: come quando egli avverte che “ le cose in quanto objecta intenzionali, hanno perduto in Hus¬ serl [...] molta della sostanzialità che avevano ancora come og¬ getti [Gegenstànde] in Kant,” dato che dalla loro vaga esistenza “ crepuscolare ” non è più possibile ricostruire con esse “ il substrato delle scienze naturali che era invece ancora il risultato dell’ana¬ litica trascendentale di Kant.”15 Adorno è disposto dunque a ricor¬ rere polemicamente alla stessa forma “reificata” delle scienze na¬ turali, la cui analisi kantiana viene considerata qui sorprendente¬ mente come un “risultato,” cioè come una acquisizione positiva. 13 Ivi, pp. 203-204. 14 Ivi, p. 48. 15 Ivi, pp. 201-202.

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Tuttavia egli avrebbe probabilmente evitato questo discutibile ar¬ gomento se avesse voluto prendere in considerazione le analisi del secondo volume delle Idee (pubblicato quattro anni prima della Metacritica) circa la costituzione della cosa e specialmente della cosa fìsica. Ma anche di questo abbiamo già parlato e rin¬ viamo il lettore ai capitoli precedenti.16 Cerchiamo ora invece, per conto nostro, di stabilire se veramente l’epochè di Husserl lasci sussistere inalterati i propri oggetti come vorrebbe Adorno, o se invece essa non ci porti a vedere al di là delle reificazioni tradizionali, in un senso che — l’abbiamo visto — era stato abbozzato ge¬ nialmente nello scritto giovanile di Lukàcs e che dovrebbe valere anche per Adorno come un risultato effettivo di “critica della conoscenza”; una critica, ovviamente, che vuole si la “dissoluzione delle apparenze” ma non la dissoluzione pura e semplice di ogni contenuto. Ci limitiamo qui a pochi cenni, a proposito, esattamente, della “cosa” delle scienze naturali, argo¬ mento che sviluppiamo anche in altre parti di questo libro. Ciò che Ador¬ no non vede (e a questa cecità contribuisce naturalmente la sua mancanza di “pretese alla completezza,” che gli consente di ignorare senz’altro l’in¬ tero testo della Crisi11) è come l’epochè comporti la spiegazione genetica e la dereificazione di questi prodotti della “matematizzazione” della na¬ tura (e a un livello ulteriore, del mondo psichico) che rappresentano le condizioni intoccabili dello stesso concetto kantiano di “cosa.” (Si noti che già dalle Idee del 1913 l’epochè veniva esercitata non solo sull’ingenua “oggettività” convalidata dal tradizionale decorso delle teorie fisiche, ma sugli stessi principi delle discipline logico-formali.) Il ricupero del terreno della credenza originaria, il ritrovamento delle precondizioni di ogni forma di oggettività negli “a priori” del “mondo della vita” sono forse semplici luoghi di passaggio metodici al di là dei quali sarà lecito rimontare inalte¬ rato il meccano di una natura scritta in simboli matematici?18 Lo studio della genesi della geometria per idealizzazione delle forme sensibili, l’ana¬ lisi dell’applicazione delle idealizzazioni formali al mondo dei piena sen¬ sibili non ci fanno vedere — e in modo determinato, concreto — proprio quel processo riduttivo (a rimorchio della “razionalizzazione”) che Lukàcs, prima di Adorno, aveva indicato in Storia e coscienza di classe, benché in modo sommario? 16 Cfr. i capitoli III e VI. 17 Le prime due parti della Crisi, che contengono tra l’altro l’analisi critica della matematizzazione galileiana della natura, erano già state pubblicate fin dal 1936 sulla rivista “Philosophia" (Belgrado) ed erano già ben note prima della pubblicazione deir l’opera integrale da parte degli Archivi Husserl. Del resto trovo riportato nella Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno un passo tratto proprio da quella pubblica¬ zione e utilizzato, salvo errore, proprio nel senso rilevato nel nostro testo. Cfr. a p. 33 dell’edizione italiana (Torino, Einaudi, 1966). 18 Cfr. la III parte A) della Crisi.

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Adorno: Il carattere conservativo dell’epoche fenomenologica

Il dato e la mediazione L’interesse reale che riveste per noi il libro di Adorno sta in questo: che esso rappresenta il primo importante tentativo di met¬ tere a confronto Husserl con Hegel. Abbiamo già accennato al¬ l’importanza che rivestirebbe un’analisi congiunta di queste due grandi visuali conoscitive, qualora venissero evitati due pericoli contrastanti ma ugualmente possibili: quello di un facile ecletti¬ smo e quello di un confronto all’ultimo sangue in cui uno dei due debba riuscire soccombente. Il timore che in una ricerca del ge¬ nere una di queste due soluzioni sia inevitabile, è ingiustificato, e potrà convenirne chi non pensi che l’opera di un filosofo debba essere presa o lasciata tutta d’un pezzo, in riferimento alla pre¬ sunta coerenza globale di un sistema, nel caso di Hegel, o alla on¬ nipresenza tirannica di un “metodo” geloso, sia nel caso della “dialettica” che in quello dell’“epoche.” Ma Adorno, disgraziata¬ mente, nonostante la sua dichiarata asistematicità, è animato da alcune convinzioni metodiche quanto mai esclusive, alle quali si deve se questo primo saggio di confronto si conclude con una semplice negazione. Ciò non toglie, tuttavia, che alcuni nodi di discussione siano individuati con grande acutezza: cosi, soprat¬ tutto, per il rapporto tra il “dato” e la “mediazione,” tema nel quale riaffiora quello già accennato del rapporto tra l’intuizione e la ragione.19 Nel III capitolo della Metacritica questo tema viene svolto te¬ nendo conto dell’evoluzione “autocritica” husserliana contenuta soprattutto nella Logica. Il datum conserverebbe, nelle prime ope¬ re di Husserl, un carattere positivistico, quello di un immediato esser-presente alla coscienza. Se si tiene conto poi della costante spiegazione husserliana del sapere categoriale come oggetto di una intuizione di grado superiore, è facile vedere la netta contrappo¬ sizione tra il procedimento fenomenologico, che riduce la media¬ zione a dato (nella “ Wesensanschauung”) e quello hegeliano che risolve al contrario il dato nella mediazione. Su questo tema in19 Per il rapporto Husserl-Hegel, assai meno studiato finora di quello tra Husserl e Hume o tra Husserl e Kant, cfr. E. Melandri, Logica e esperienza in Husserl, Bologna, "Il Mulino,” 1960, pp. 113 sgg., e la bibliografia ivi indicata.

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Critici marxisti della fenomenologia

siste Adorno: “l’analisi gnoseologica dell’immediato non può di¬ chiarare soppresso il suo esser-mediato.”20 Infatti “non solamente ciò che è superiore, piu formato categorialmente, dipende dal¬ l’inferiore, ma [...] anche questo da quello,” giacché “il concetto stesso del dato è mediato dal concetto di riflessione.”21 Ma nel¬ l’evoluzione ulteriore, fattosi più scaltrito nei confronti del pro¬ prio positivismo iniziale, Husserl si addossa, secondo Adorno, l’im¬ presa di spodestare il dato della sua opacità reale pur di salvarlo ad ogni costo come tale: si ha così la riduzione del fattuale in un puro essere possibile, quasi “per redimerlo dalla maledizione d’es¬ sere dato.”22 Disgraziatamente su questo punto preciso mancano, nel testo di Adorno, i riferimenti necessari. Troviamo invece ri¬ cordati dei passi dai quali risulta che “il darsi autonomo è [...] funzione nel senso universale della coscienza.”23 Il che significa, naturalmente, qualcosa di ben diverso dalla riduzione della datità a “un essere puro” la cui possibilità sarebbe “la possibilità di qualcosa che non debba già essere presupposto.”24 Ma comunque sia, “nella revisione trascendentale di Husserl la dottrina della vi¬ sione originariamente offerente viene sostituita con un concetto funzionale alla maniera della scuola di Marburgo. Ma il conflitto tra tale critica e il dogma del ‘dato originario’ non fu più condotto a termine dalla riflessione husserliana. A tale dogma si aggrappa anche lo Husserl degli ultimi anni perché altrimenti distrugge¬ rebbe il procedimento fenomenologico. Il dato, in quanto possesso assoluto del soggetto, rimane anche per il soggetto trascendentale un feticcio.”23 Husserl riconosce ora che il nesso di cose descrittivo ha le sue “implicazioni genetiche di senso,” che quindi alla vali¬ dità non è più indifferente, come nelle Idee, la genesi. “Più in là dal pretendere che il rapporto di cose ‘esiga’ un movimento del¬ la coscienza non è andato neppure Hegel.”26 Ma Husserl, arrivato “sulla soglia di tali riconoscimenti,” non avverte l’impossibilità di mantenere le dottrine della verità come adaequatio del concetto 20 Sulla metacritica della gnoseologia, p. 136. Ivi, p. 139. Ivi, p. 140. Ivi, p. 142. Ivi, p. 140. Ivi, p. 142. Ivi, p. 143.

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Adorno: II carattere conservativo dell’epoche fenomenologica

alla cosa. “Se il primo Husserl [...] polemizza con argomenti stringenti contro la teoria gnoseologica delle immagini e dei segni, tale polemica dovrebbe esser rivolta anche contro l’idea sublimata che la conoscenza sia immagine del suo oggetto, in virtù della so¬ miglianza, della adaequatio. Solo giungendo all’idea della verità libera da immagini la filosofia si metterebbe in linea con la proi¬ bizione del culto delle immagini.”27 Avremmo giurato che il pen¬ sare per immagini fosse un tratto inconfondibile di Adorno. Ora egli ci invita a ricrederci. Ma dove e quando mai la nozione hus¬ serliana dc\Xadaequatio può essere intesa come “somiglianza”?28 Si potrebbe procedere indefinitamente.29 Lungo tutti e quat¬ tro i capitoli del libro, stesi, si direbbe, in quattro giornate di scrit¬ tura ininterrotta, senza cesure intermedie e con pochi capoversi, e sostenuti integralmente da una vis polemica piena di estro e di sottigliezza, il lettore si vede trascinato in un paesaggio di figure e di problemi che si succedono vorticosamente. Alla fine di questa corsa, più di un lettore si arresterà ammirato e convinto di trovarsi di fronte a un panorama di rovine, “una terra di nessuno tra sog¬ getto e oggetto,” “fallace fata morgana della loro conciliazione,” dove si agitano sconvolte “pallide figure femminili, florealmente incorporee,” che si chiamano “essenze,” sorelle di quelle “anime tisiche” care all’epoca del liberty, “il cui luccicore metafisico sgor¬ ga unicamente dal nulla”; perché, come vuole Adorno, “nulla è più temporale della atemporalità di questa essenza,” sicché “la purezza fenomenologica, allergica ad ogni contatto col fattuale, ri¬ mane tuttavia caduca come una decorazione floreale.”30 Questo è appunto il senso di tutta la polemica di Adorno: cercare di ricon¬ durre senza residui le pretese di universalità e di validità onnitem-

27 Ivi, pp. 143-144. 28 Cfr. la critica della teoria deH’immagine come “somiglianza” riferita nel ns.

c. III. 29 Per esempio a proposito del tema del "soggetto” (pp. 149 sgg.), dove Adorno dopo aver criticato il soggetto "trascendentale” (al quale, in quanto tale, "è impossibile che sia dato qualcosa”), si sorprende improvvisamente del fatto che 1’“antinaturalista” Husserl ricorra "nell’analisi del dato, all’apparato sensoriale, agli organi dei sensi.” E aggiunge in una nota (p. 152) che l’ammissione dell’unità, che in Husserl si profilerebbe timidamente, tra organo e hyle sensibile "porterebbe nientemeno che a concludere che la sensazione [...] non può essere affatto isolata dagli organi dei sensi.” Conclusione ovvia per il lettore di Idee II (per fare un solo esempio), ma in cui si profila la minaccia, secondo Adorno, di "distruggere l’intera epoche con un risultato raggiunto in essa.” 30 Sulla metacritica della gnoseologia, pp. 98-99.

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Critici marxisti della fenomenologia

porale della fenomenologia (ma qui dobbiamo aggiungere, nello spirito di questa stessa critica: della filosofia come tale) a un sem¬ plice fenomeno dell’epoca, a un elemento del paesaggio di un viag¬ giatore frettoloso. Tuttavia, come si sa, vede veramente chi ha tem¬ po e disposizione per vedere. Chi abbia fatto questa esperienza nella necessaria disposizione seguendo le vie aperte dalla fenome¬ nologia sarà piuttosto disposto a pensare che l’intera parvenza di queste ombre e di questa terra di nessuno sia invece il frutto di una insensata accelerazione."

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Capitolo decimo

Tran-Duc-Thao tra la fenomenologia e il marxismo

Il libro di Tran-Duc-Thao che ora prenderemo in esame è probabilmente il piu interessante dell’intera letteratura marxista sull’argomento, anche per la singolare evoluzione di questo filo¬ sofo vietnamita di educazione francese.1 Dopo avere studiato ap¬ passionatamente le principali opere allora inedite di Husserl (come Idee II e la Crisi) e aver cercato di far convergere i risultati della fenomenologia con le sue convinzioni marxiste, Tran-Duc-Thao, intorno al 1950, ha optato decisamente per il materialismo dialet¬ tico in quanto superamento della fenomenologia. Tra i marxisti di cui ci occupiamo egli è senza dubbio il maggior conoscitore di Hus¬ serl, e uno dei maggiori in assoluto. Phénoménologie et matérialisme dialectique, il suo unico libro (almeno a quanto ne sappia¬ mo), è uscito nel 1951.2 La prefazione ci aiuta a ricostruire il cam¬ mino mentale dell’autore a partire dal 1942.

L’evoluzione di Tran-Duc-Thao “Nella prima parte, stesa tra il 1942 e il 1950, esponiamo gli aspetti essenziali della fenomenologia da un punto di vista pu1 Le notizie che possiamo fornire su Tran-Duc-Thao sono ben poche. Fu allievo, a Parigi, dell’Ecole normale supérieure (dove Merleau-Ponty fu agrégé-répétiteur tra il 1935 e il 1939). Si iscrisse al P.C. francese, e sembra sia ritornato in Vietnam nel corso della prima guerra indocinese. Non sappiamo se i suoi amici francesi abbiano avuto piu notizia di lui. Cfr. anche, per i rapporti con Merleau-Ponty e con gli Archivi Husserl, la nota 17 del ns. c. XI. H. Spiegelberg (op. cit., II, p. 418) accenna appena all’opera di T-D-T. È questa una delle non poche gravi lacune della sua storia del movimento fe¬ nomenologico. 1 Parigi, Editions Minh-Tàn.

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Critici marxisti della fenomenologia

ramente storico e secondo le stesse prospettive del pensiero di Hus¬ serl, e la condanna a cui approdiamo non fa che constatare le contraddizioni interne della stessa opera husserliana. La seconda parte invece, compiuta nel 1951, si pone interamente sul piano del materialismo dialettico. Vi accogliamo bensì certi risultati tec¬ nici delle analisi vissute, ma solo a titolo di puri dati positivi, com¬ pletamente liberati dall’orizzonte filosofico che dominava la pra¬ tica descrittiva in Husserl. Non si tratta assolutamente, però, di una semplice giustapposizione di due punti di vista contradittori : il marxismo ci si è imposto come la sola soluzione concepibile dei problemi posti dalla stessa fenomenologia.”3 Precisando, Tran-Duc-Thao afferma che già nel ’42 egli aveva preparato un lavoro su Husserl4 e a quei tempi sperava ancora di poter contenere le contraddizioni inerenti ai principi teorici del¬ la fenomenologia con un semplice “allargamento di prospetti¬ ve,” fedele allo spirito husserliano. Ma il confronto con le ana¬ lisi concrete contenute nei manoscritti gli fece perdere ogni spe¬ ranza di conciliare “il concetto della fenomenologia con il suo ri¬ sultato effettivamente reale.” Le stesse opere tarde di Husserl su¬ perano, “nella pratica dell’analisi vissuta,” l’idealismo fenomenologico; “la genesi del mondo nella coscienza assoluta si confonde con il divenire effettivo della storia reale, e la dottrina dell’Ego trascendentale appare ormai soltanto come una clausola stilistica che nasconde sotto il vocabolario filosofico il valore creativo del lavoro umano.”5 Cosi, “prendendo sul serio” l’importanza centrale riservata sempre da Husserl alla costituzione della cosa spaziale, sulla quale si fonda la realtà psichica e spirituale-sociale, Tran-Duc-Thao in¬ terpreta i risultati di Idee II come l’analisi — purtroppo limitata al “piano astratto del vissuto” — “del divenire reale dalla materia alla vita, e dalla vita allo spirito, inteso come esistenza sociale.” “Non si tratta di una semplice ‘riduzione’ dal superiore all’in¬ feriore, ma di un movimento dialettico ” nel quale si sviluppano via via strati radicalmente nuovi. “Così la materialità (Dinglich3 P. 5. 4 II primo capitolo del quale è anche il primo di Phénoménologie et matérialisme dialectique (p. 6).

5 p. 7.

150

Tran-Duc-Thao tra la fenomenologia e il marxismo

\eit) [...] definisce lo strato originario il cui movimento genera

i modi piu elevati deH’essere, nella specificità del loro senso: la struttura [ìnfrastructure] reale che fonda le sovrastrutture ideali nel loro insorgere storico e nel loro valore di verità.” Perciò — conclude Tran-Duc-Thao — “le analisi fenomenologiche concrete possono [...] svilupparsi pienamente solo nel1 orizzonte del materialismo dialettico, ” il che impone di respin¬ gere ormai “la totalità della dottrina husserliana,” a cominciare dal concetto di io “trascendentale,” inutile doppione del soggetto corporeo reale. La teoria ha senso solo in rapporto alla pratica (descrittiva), e questa costringe a rovesciare l’idealismo trascenden¬ tale. “Che apparenza di ragione vi sarebbe di ostinarsi a limitare 10 studio delle cinestesi e delle configurazioni sensibili al puro vissuto, quando si tratta, manifestamente, delle formazioni senso¬ rio-motrici elementari, ricoperte nell’adulto umano da un’enorme acquisizione culturale, e che si ritrovano allo stato puro solo nel¬ l’animale o nel lattante?”6 Anche Tran-Duc-Thao, pur conservando un’alta considera¬ zione dell’opera di Husserl, conclude perciò con l’inserimento del suo pensiero nell’ambito di una predestinazione “storica” di origine classista. “Se Husserl si mantenne ancora [a differenza di Heidegger e dei suoi epigoni] nella tradizione del razionali¬ smo idealista, che rappresentava la tardiva fioritura della borghe¬ sia tedesca e delle sue ultime velleità progressiste, la sua evolu¬ zione attestava al tempo stesso una crescente inquietudine sul fon¬ damento reale dei significati intenzionali nella coscienza” e le sue opere documentavano “il senso ogni giorno piu profondo della futilità in cui si oscurano i valori tradizionali: la famosa parola d’ordine del ‘ritorno alle cose stesse’ assumeva in modo sempre piu aperto il senso di un ritorno alle realtà sensibili del mondo della vita; ma la sua posizione di classe non permetteva a Hus¬ serl di risalire ai rapporti sociali di produzione che definiscono 11 contenuto reale della vita sensibile, e la ‘costituzione trascenden¬ tale,’ ridotta a cercare il proprio fondamento ultimo nel puro dato sensibile, sfociava paradossalmente in un completo scetticismo.”7

6 p. 9. 7 p. 15.

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Critici marxisti della fenomenologia

Conoscenza e “produzione” In realtà, solo “la nozione di produzione rende conto piena¬ mente dell’enigma della coscienza, in quanto l’oggetto lavorato assume un senso per l’uomo, come prodotto umano. La compren¬ sione del senso non è appunto che la trasposizione simbolica delle operazioni materiali di produzione in un sistema di operazioni in¬ tenzionali in cui il soggetto si appropria idealmente l’oggetto ri¬ producendolo nella sua coscienza. Questa è la vera ragione per cui io, che sono nel mondo, ‘costituisco’ il mondo nell’interiorità dei miei atti vissuti. E la verità di tale costituzione si misura eviden¬ temente in base alla potenza effettiva del modo di produzione da cui trae il suo modello. Ma il filosofo resta all’oscuro di que¬ ste origini. In quanto membro di una classe sfruttatrice, non ha l’esperienza del lavoro reale delle classi sfruttate, lavoro che dà alle cose il loro senso umano. Più precisamente, non percepisce tale lavoro che nella sua forma ideale, nell’atto del comando, e si domanda con stupore come i suoi ‘significati intenzionali’ ab¬ biano potuto imporsi al mondo reale.” Tran-Duc-Thao conclude questa ripresa dei temi hegeliani del signore-servo applicandoli alla nozione della “trascendenza” intenzionale: “Come membro di una classe dominante, io accedo alla verità solo negando l'es¬ sere effettivamente reale, cioè il lavoro delle classi oppresse, che ‘supero’ nelle intenzioni della mia coscienza, per il fatto stesso che me ne approprio il prodotto. La forma dell’oppressione è la chiave del mistero della trascendenza, e l’odio per il naturalismo non fa che tradurre la naturale ripugnanza delle classi dirigenti a riconoscere nel lavoro da esse sfruttato la fonte autentica dei significati a cui pretendono.”8 Questi lunghi passi dalla prefazione del libro di Tran-DucThao ci danno la chiave della seconda parte della sua opera (su cui non potremo soffermarci) dove il tentativo engelsiano di una dialettica naturalistica viene ripreso con motivazioni più analitiche sul terreno dell’evoluzione biologica e antropologico-sociale.9 Fac* pp.

12-13.

9 Limitiamoci a riferire brevi passi che danno un’idea per quanto generica di questa seconda parte. Il tema dominante è quello del divenir-soggetto della realtà og¬ gettiva-. "Una dialettica del genere è riscontrabile in qualunque fenomeno di coscienza,

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Tran-Duc-Thao tra la fenomenologia e il marxismo

ciamo ora un passo indietro, alla fase in cui Tran-Duc-Thao, mar¬ xista, si muove anche esplicitamente all’interno della problematica fenomenologica, tentandone insieme una interpretazione e un ri¬ cupero. Vedremo cosi nella sua concezione del “vissuto” fenome¬ nologico i motivi della critica definitiva che si eserciterà ormai dall’esterno.

Critica della fenomenologia “costitutiva” Riportiamoci, insieme a Tran-Duc-Thao, alle famose pagine di Idee 1 in cui viene delineata la radicale dualità di noesi e noema, il carattere di “trascendenza” di tutte le oggettualità costituite (a co¬ minciare dalla “cosa spaziale,”) a cui fa riscontro 1’“immanenza” soggettiva, il risultato deìYepochè. In base a quest’ultima opera¬ zione, come sappiamo, l’intero mondo, nel senso più largo di que¬ sta parola, si presenta esplicitamente come un “costituito” a par¬ tire dalla coscienza “pura.”10 Le analisi di Idee li intraprendono sistematicamente questa “costituzione” al livello della cosa spa¬ ziale, intesa come semplice corporeità fisica, per arrivare a fon-

preso nel suo contenuto effettivo, in quanto rinvia irriducibilmente a movimenti reali, abbozzati nell’organismo vivente. Quando vedo quest’albero, sento piu o meno confusamente abbozzarsi in me un insieme di reazioni che prefigurano un orizzonte di possi¬ bilità pratiche — p.es. la possibilità di avvicinarmi, di allontanarmi, di salirvi sopra [...]. Il senso vissuto dell’oggetto, il suo essere-per-me, si definisce in base a queste stesse possibilità, sentite e vissute in questi comportamenti abbozzati e immediatamente repressi o inibiti dai dati oggettivi, riducendosi qui l’atto reale a un semplice adattamento oculomotorio. La coscienza, come coscienza dell’oggetto, non è altro, appunto, che il movi¬ mento stesso di questi abbozzi repressi”; "il soggetto non ha coscienza immediatamente del proprio comportamento reale, che d’altra parte lo definisce nel suo essere autentico” (pp. 244-245). È secondo questo schema di movimenti, suscitati dallo stimolo esterno, che vengono repressi, conservati e superati che si genera la coscienza; e Tran-Duc-Thao segue questa dialettica lungo l’intera evoluzione, sia da un punto di vista filogenetico che ontoge¬ netico. (L’analisi prosegue al livello delle società umane.) Lo stesso T-D-T riconosce di aver tenuto presenti le “analisi vissute” fenomenologiche (forse piu nel senso di Merleau-Ponty che di Husserl) ma lo sviluppo che egli dà loro è del tutto autonomo. Il testo di Engels a cui fanno maggiormente pensare queste ricerche è quello intitolato: Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, capitolo di notevole interesse della Dialettica della natura (Roma, Rinascita, 1955, pp. 162 sgg.). Non prenderemo posizione qui su questa parte di Phénomenologie et matérialisme dialectique. Noteremo solo come nono¬ stante la sua sconfessione della fenomenologia, T-D-T non sia riuscito a fare accettare le sue posizioni all’interno del marxismo ufficiale. Cfr. le critiche che gli muove Garaudy, in Perspectives de l’homme, Parigi, P.U.F. 1959, pp. 277 sgg. e quelle di H. Wald in "Analele” (Bucarest), 1961, pp. 89 sgg. 10 Cfr. il ns. c. I.

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Critici marxisti della fenomenologia

darvi le stratificazioni successive, che si concludono al livello della “ spiritualità. ” La presa di posizione delle Idee 1 venne accolta negativamente dai primi “ fenomenologi ” del gruppo di Gottinga, che vi intra¬ videro una restaurazione idealistica, una parzialità a parte subjecti dell’analisi già voluta “neutrale.” Per lo stesso motivo, le Idee vennero invece accolte benevolmente da Natorp e dai neo-kan¬ tiani. Ma qui, nota Tran-Duc-Thao, si nascondeva un equivoco che era legittimato quanto meno dalla forma esterna delle Idee.u Quest’opera infatti assegnava una posizione di privilegio alla fenomenologia della “cosa,” la quale, in corrispondenza con un atteggiamento esclusivamente “teorico,” si presenta in una forma “derealizzata,” cioè come il semplice correlato ideale di una sin¬ tesi di “adombramenti.” Cosi i rapporti apriorici immanenti che definiscono la percezione della cosa non appaiono rilevati “in base a una analisi eidetica del vissuto, ma presi originalmente sull’og¬ getto stesso”12 in un atteggiamento che rimane sostanzialmente “kantiano.” Secondo Tran-Duc-Thao “questa idealizzazione con¬ traddice le pretese assolutistiche del pensiero husserliano,” men¬ tre si adatta invece a un atteggiamento come quello kantiano, che distingue il piano dei “fenomeni” da quello dell’“in sé.” L’insufficienza di questo idealismo costitutivo si svela nelle stesse analisi effettive di Husserl, quando consideriamo che alla base della costituzione della cosa oggettiva si incontrano già gli altri, l’intersoggettività (si tratta di quel momento di “socialità” al quale abbiamo accennato nel nostro III capitolo). Se i testi più noti di Husserl sembrano considerare anche 1’“altro” come un semplice “costituito” sulla base della cosa spaziale, Tran-DucThao rimanda ad altri testi che contraddicono questa inaccetta¬ bile relativizzazione.13 Sul piano che corrisponde alla dimensione “pratica,” dove incontriamo l’altruità e la spiritualità in generale (la “socialità,” dice anche Tran-Duc-Thao), Xaltro è un assoluto, non meno assoluto della mia propria coscienza “pura.” Giacché “per Husserl l’identità dell 'essere e àt\X esser-costituito non po¬ teva comportare [...] alcuna ‘idealizzazione’ del reale. Si trattava 11 Cfr. Phénom. et mat. dial., pp. 87 sgg. 12 p. 86. 13 Precisamente a Idee II, 3a parte, appendice VII.

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Tran-Duc-Thao tra la fenomenologìa e il marxismo

solo di cogliere il senso dell’esistente, quale si svela nella sogget¬ tività concreta.”14 Se la “cosa” dell’atteggiamento “teorico” può rimanere nella sua relatività di semplice costituito, l’intersoggettivita spirimale, che si ritrova nella concretezza del vissuto, è in¬ vece assoluta e reale.

ha concezione del “vissuto” La concretezza ricca di contenuto del cogito “cartesiano,” inteso come la sfera reale dei visstiti di coscienza, viene contrap¬ posta all’astrattezza vuota dell’io trascendentale kantiano. Se per¬ ciò bisogna riconoscere che nell’atto conoscitivo della percezione quest ultima “trascende se stessa,” d’altra parte “la coscienza è co¬ stantemente presente a se stessa in un rapporto vissuto di sé a sé: può esplicitarsi dunque solo mediante una percezione immanente, in cui, riflettendo su se stessa, forma un’unità immediata con se stessa.”13 Nell’aver fatto appello alle cose stesse — nel senso di ciò che è effettivamente vissuto — consiste la freschezza e la forza di attrazione della fenomenologia fin dai suoi inizi, che rompe con le concettualizzazioni sclerotiche delle filosofie di fine secolo.16 L’importanza, per Tran-Duc-Thao, di questa nozione del vis¬ suto come sede di evidenza e di verità è chiara da alcune pagine scritte probabilmente già nel 1945, in cui egli, marxista oltreché fenomenologo, si sforzava di salvare, accanto al carattere primario del fondamento economico, anche il significato delle “ideologie.”17 Riferendosi al celebre passo di Marx, egli nota come il significato dell’arte greca non si lasci esaurire dall’immediato riferimento alle strutture. Il suo valore permanente deriva dal fatto che quell’arte esprime il sentimento religioso spontaneo del popolo greco. La par¬ tecipazione di quest’ultimo a una totalità storica in cui l’economia 14 p. 91. 15 p. 67. 16 Viene riconosciuta qui da T-D-T. una specifica distinzione della fenomenologia rispetto al formalismo di quelle filosofie cui anche Lukàcs muoveva il rimprovero di perdere il contenuto reale tra le maglie dei concetti, o di lasciarlo sussistere come un dato irrazionale. 17 Cfr. l’articolo Marxisme et phénoménologie pubblicato ne “La Revue Interna¬ tionale,” gennaio-febbraio 1946, per il quale vedi l’Appendice A. Cfr. K. Marx, Intro¬ duzione alla Critica dell’economia politica (frammento steso nel 1857).

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Critici marxisti della fenomenologia

giuoca un ruolo essenziale, non sopprime la sua verità e assolu¬ tezza di autentico vissuto. Aspetti analoghi presenta il problema della verità e dell'errore teorico e ideologico, su cui Tran-Duc-Thao si trattiene lungamente nel suo libro.18 Sviluppando certe afferma¬ zioni di Husserl19 egli le utilizza criticamente contro le Ricerche logiche che parlavano di una verità in sé, indipendente dal fatto che noi la esperiamo oppure no. Come Husserl dovrà riconoscere, “la verità non è più un in sé ma il prodotto dell’atto effettivo che la genera nel flusso assoluto della vita trascendentale. Nondimeno — aggiunge Tran-Duc-Thao — le formazioni ideali cosi costi¬ tuite sono poste come eterne e universali, sicché la prima posi¬ zione, sopprimendosi nella seconda si realizza nel suo significato autentico.”20 In maniera non diversa — dobbiamo intendere — — va compresa la persistente, universale validità delle ideologie quando vengano comprese sul terreno del vissuto effettivo che le ha ingenerate. Non ci fermeremo per il momento a considerare la preca¬ rietà di questa concezione del vissuto, cosi come non possiamo analizzare qui particolareggiatamente l’influenza che vi traspare del pensiero di Merleau-Ponty.21 Osserviamo che proprio questa nozione è difesa nella I parte di Phénomenologie et materialisme dialectique come il senso autentico della fenomenologia, in esplicita opposizione alla teoria della costituzione. Assumendo — in Idee Il — la costituzione della cosa materiale come modello dell’ana¬ lisi fenomenologica, Husserl “idealizzava” o “derealizzava,” al¬ meno apparentemente, la cosa stessa, e le strutture della vita cor¬ porea e personale, sottraendo loro quella pregnanza di essere che presentano nella soggettività concreta, e sembrava ritornare alla nozione (neo) kantiana di un semplice mondo “costituito,” di un mondo “come se.”

18 Cfr. §

14.

19 Si pensi p.es. al "principio di tutti i principi” enunciato al § 24 di Idee I: oltre al § 58 della Logica citato da T-D-T. (Naturalmente noi riferiamo qui solo l’in¬ terpretazione di T-D-T., senza prendere posizione.) 20 pp. 133-134. 21 Si vedano in proposito le considerazioni accennate verso la fine di questo ca¬ pitolo, e in particolare la nota 33.

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Tran-Duc-T/iao tra la fenomenologia e il marxismo

La riduzione e il problema dell’individuale A questa critica della fenomenologia costitutiva si collega an¬ che l’interpretazione data in queste pagine della riduzione trascen¬ dentale e della coscienza pura, in riferimento al problema che Hus¬ serl definisce del “flusso eracliteo.” Come non è possibile bagnarsi due volte alla stessa acqua di un fiume, cosi i singoli momenti del vissuto, nella loro individualità, sembrano inafferrabili. L’indi¬ viduo è inesprimibile, insegnava già Aristotile, ed Hegel si era ser¬ vito di questa tesi per dileguare il contenuto della coscienza sensi¬ bile. La risposta di Husserl, per cui a ogni dato è immanente un’«senza (liberamente realizzabile nella “variazione immaginaria”), e che appunto questa essenza, e non l’Erlebnis reale e fuggitivo può essere colta dall’analisi fenomenologica,22 non soddisfa TranDuc-Thao. “Non si tratta di rilevare, a fianco dell’evidenza dei singoli dati della corrente di coscienza, un’evidenza non meno as¬ soluta che accederebbe alle universalità. [...] Non è assolutamente possibile uscire dall’evidenza cartesiana delle cogitationes singolari: è nell’attualità stessa del loro vissuto che se ne deve svelare il senso eterno [...] La riduzione fenomenologica sarebbe del tutto inu¬ tile se, dopo aver scoperto il terreno assoluto dell’immanenza con¬ creta (la cui certezza risiede nell’atto stesso in cui esso è — ad ogni istante — effettivamente vissuto) lo si dovesse abbandonare, col pretesto che non si dà scienza del singolare. Affermare che le stesse universalità beneficiano dell’evidenza fenomenologica signi¬ fica dire che un senso universale si trova immanente ad ogni mo¬ mento del flusso eracliteo delle apparenze soggettive.”23 A una pri¬ ma formulazione della “riduzione fenomenologica,”24 che sem¬ bra consistere in un’operazione logico-astrattiva, dove i contenuti sono rilevati analiticamente, Tran-Duc-Thao contrappone il testo delle Idee 7 in cui l’“epochè non è un procedimento discorsivo, ma una conversione, che è essa stessa effettivamente vissuta. Ritornando alla “costituzione,” “è affatto chiaro — per TranDuc-Thao — che il pensiero ha di mira nell’oggetto ben altro che

,

22 Cfr. p. es.

Crisi, p. 204.

23 P- 64. 2* Quella di Idee der Fh'ànomenologie (1907). 25 p. 73.

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il correlato di lina sintesi di adombramenti.” E le difficoltà inerenti alla problematica della cosa spaziale si ripercuotono aggravate quando, sopra questo strato fondamentale, Husserl si propone il tema assurdo di una “costituzione” degli altri, e in generale del mondo umano. Anche qui, e qui particolarmente, si va incontro a una derealizzazione di quanto v’è di più “reale,” la realtà spi¬ rituale.26 Perciò le analisi “costitutive” di Idee 11 non sono, ancora, che “costituzioni statiche”; la loro parziale verità trova un punto d’arresto nel fatto che le essenze che vi vediamo costituirsi man¬ tengono il carattere di semplici “dati”; tali rimangono in Husserl le “ontologie regionali.” Bisogna invece “produrre” l’oggetto nel¬ l’attualità del vissuto, e questa produzione (che corrisponde all’Urstiftung husserliana) è la genesi attiva, dove non si tratta di evi¬ denziare le sintesi “ costitutive, ” ma le situazioni fondamentali da cui scaturisce un senso di verità. Non è l’esplicitazione anali¬ tica dei contenuti che deve costituire il modello dell’analisi, ma il rilievo di “totalità situazionali,”27 giacché il valore delle forme ideali non è mai separabile dal movimento in cui si ingenerano. Se ora rileggiamo le espressioni già citate all’inizio di questo capitolo e che appartengono al “secondo momento” dell’evolu¬ zione di Tran-Duc-Thao non possiamo contenere la nostra sor¬ presa. Non ci si deve limitare — afferma ora Tran-Duc-Thao — al “piano astratto del vissuto,” ma occorre riscoprire, dietro al¬ le sue formazioni, le “formazioni sensorio-motrici elementari,” che ci rimandano alla storia genetica dell’evoluzione animale e umana. Le analisi vissute non bastano più: se attraverso di esse noi possiamo intravvedere nebulosamente un senso genetico (co¬ me avviene nella ricerca husserliana sull’ Origine della geome¬ tria.,28) ciò che ci aiuta qui è la conoscenza della storia reale del¬ la cultura e dell’evoluzione, la quale richiede studi concreti e do¬ cumentati, e non può accontentarsi di generiche allusioni. Circa la stessa costituzione della cosa materiale, criticata nelle parti pre¬ cedenti, Tran-Duc-Thao ci invita ora a prendere sul serio l’impor26 pp. 85 sgg. 27 Cfr. pp. 171 sgg. 28 Cioè la già citata appendice alla Crisi, pp. 280 sgg.

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tanza centrale che Husserl le ha sempre riservata, e prenderla sul serio significa passare al piano della storia effettiva, della “realtà effettiva'’ contrapposta al “semplice vissuto.”

Dal “vissuto” alla “realtà effettiva” Torneremo, concludendo, a esporre le nostre considerazioni su questo singolare capovolgimento. Seguiamo per il momento Tran-Duc-Thao sulla sua nuova strada per vedere dove ci porta. Le condizioni dell’esistenza, quelle della vita materiale e econo mico-sociale, che avevamo già incontrate allfinizio del cammino, ma ancora trattenute oltre il limite della coscienza immanente e dei vissuti effettivi, cosi da non annientare il suo senso né il si¬ gnificato delle “analisi vissute,” prendono ora una posizione di primo piano. “In altre parole: poiché la vita sensibile, nell’uo¬ mo, non consiste di scambi immediati con l’ambiente, ma viene mediata dalla produzione delle sue condizioni di esistenza, il passaggio dal sensibile all’intelligibile non può essere descritto correttamente se non passando per l’analisi delle forme tecni¬ che ed economiche di questa produzione.”29 O ancora: poiché il vissuto non è che un aspetto astratto del mondo effettiva¬ mente reale, non è possibile, senza tener conto di quest’ulti¬ mo nella sua totalità effettiva, spiegare la stessa vita sensibile cui la fenomenologia ci rimanda. Incapace di compiere quest’ul¬ timo passaggio a causa del suo idealismo, Husserl non sa fare del terreno conquistato della Lebenswelt niente piu che la mo¬ tivazione di un nuovo scetticismo, di un relativismo che equipa¬ ra il valore di verità di ogni forma d’esperienza, quella inge¬ nua e quella pratica del “mercante al mercato” con quella scientifica.30 Il suo soggettivismo diventa perciò l’eversione di ogni 25 p. 220. 30 T-D-T. si riferisce a un passo della Logica formale e trascendentale (p. 341), che non deve essere letto indipendentemente dal contesto. Husserl, in questo paragrafo (§ 105) combatte la nozione di “un’evidenza intesa come coglimento assoluto della ve¬ rità” (intesa come un "sentimento psichico”), che presuppone ingenuamente l’In sé (nel senso da noi chiarito nel ns. I cap.). Egli quindi soggiunge: “Il commerciante, al mer¬ cato, ha la sua verità di mercato; non è essa, nel suo ambito, una buona verità, e la migliore di cui egli possa disporre? Si tratta forse di una verità apparente solo perché in una diversa relatività, lo scienziato punta su un’altra verità, giudicando con altri

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senso di oggettività, e come teoria di una soggettività trascen¬ dentale “irreale” si imbatte nella contraddizione di presentare le circostanze reali della vita vissuta come momenti originari della soggettività costituente.31 Proprio la separazione di una co¬ scienza irreale dal mondo effettivamente reale mostra l’incapacità idealistica di pensare, nel senso del materialismo dialettico, l’es¬ sere reale come capace di darsi, di prodursi da sé il proprio si¬ gnificato, la compatibilità dell’essere reale con il pensiero; testi¬ monia insomma l’incapacità a comprendere il movimento effet¬ tivamente reale con cui la natura perviene alla coscienza.32 Abbiamo già detto all’inizio del capitolo che il libro di TranDuc-Thao è tra le cose migliori di tutta la sterminata letteratura fenomenologica. Nella nostra presentazione schematica abbiamo dissociato completamente l’intelaiatura concettuale dall’insieme vi¬ vente delle meditazioni di Tran-Duc-Thao, rilevando solo il con¬ trasto crudo (e riconosciuto come tale) tra la prima e la seconda concezione che vi si esprimono. Con questo non abbiamo reso un buon servizio a questo libro e al suo autore; non si trattava però qui di dar conto del livello — straordinariamente alto — del pensiero di Tran-Duc-Thao, ma di saggiare — nello spirito di questo nostro lavoro — la consistenza di questo marxismo nella sua applicazione critica alla fenomenologia. A questo fine dobbiamo ancora sforzarci di comprendere come abbia potuto verificarsi quel sorprendente rovesciamento nella va¬ lutazione del vissuto. Innanzitutto si deve osservare — in contra¬ sto con quanto sembra risultare nell’interpretazione di Tran-DucThao — che il residuo trascendentale, nel senso husserliano, non

fini ed idee, con le quali si può fare assai di più, ma per l’appunto non quello che occorre al mercato? Si deve smettere, una buona volta, di lasciarsi accecare dalle idee e dai me¬ todi ideali e regolativi delle scienze ‘esatte,’ e in particolare nella filosofia e nella logica, come se il loro in sé fosse realmente norma assoluta, tanto per quanto riguarda l’essere oggettuale quanto per quanto riguarda la verità.” In questo senso — che è quello illu¬ strato fin dall’inizio del nostro libro — va inteso l’inedito Umsturz der Koperni\anischen Lehre (pubblicato in Philosophical Essays in memory of E.H., Cambridge, Mass., 1940, col titolo: Grundlegende Untersuchungen zur p/idnomenologischen Ursprung der Raumlichkeit der Natur) e riesce veramente sorprendente vedere un filosofo autentico come T-D-T. scadere in affermazioni banali come quella secondo cui qui "l’immaginazione non ha soltanto gli stessi diritti dell’intelletto, ma deve addirittura essergli preferita ” (P- 223). 31 P. 224. 32 pp. 218-219.

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è un modo d’essere a cui potrebbe mai contrapporsi qualcosa co¬ me una “realtà effettiva.” Prendendo posizione contro il materia¬ lismo banale, che riduce la coscienza a semplice epifenomeno, e rifacendosi alla realtà sui generis, una realtà assolutamente certa, dell’esperienza vissuta, Tran-Duc-Thao lasciava in sospeso la que¬ stione del rapporto che corre tra queste due “realtà.” Il mancato chiarimento del rapporto tuttavia, non significa soltanto una lacuna nell’orientamento tematico, ma una insufficiente interpretazione del significato della coscienza nella totalità reale. Quando, in un se¬ condo momento, Tran-Duc-Thao si sente costretto a rimettere a fuoco questa totalità per sé presa, il difetto di analisi viene alla luce e la realtà che ora, per cosi dire, gli pesa di più, quella del¬ l’essere naturale e sociale, diviene padrona del campo riducendo la “realtà” esigua di una coscienza “semplicemente vissuta” a qualcosa di irrilevante. Ormai il fiume del “vissuto,” in cui ve¬ niva fatta affluire ogni concretezza (ma dobbiamo intendere, nel senso di Tran-Duc-Thao: ogni concretezza della “semplice” sog¬ gettivi à di coscienza come tale) viene ridotto a un esiguo riga¬ gnolo, a una quantità trascurabile che va “spiegata” a partire dal¬ l’essere “effettivamente reale.”

ha fenomenologia nell’interpretazione di Tran-Duc-Thao Questo era necessario dire per la parabola di Tran-Duc-Thao, che conclude circolarmente la strada compiuta a partire dalla sua critica, fatta in nome del vissuto, del materialismo paleomarxi¬ sta. Ma ve da rilevare un altro punto, che ci rimanda all’inter¬ pretazione della fenomenologia sviluppata negli anni Quaranta da M. Merleau-Ponty.33 Nello spirito di quest’ultimo, anche per Tran-

33 Non disponendo di dati biografici precisi su T-D-T., limitiamoci a rilevare: 1) “Senza Merleau-Ponty, si può pensare che Tran-Duc-Thao avrebbe scritto la sua tesi e tentato di unire Husserl a Marx?” (J. P. Sartre, Merleau-Ponty vivant, “Temps Modernes,” n° 184-185, 1961, p. 343); 2) per la fenomenologia: Merleau-Ponty, come T-D-T., sviluppa una concezione del vissuto che tende ad escludere la problematica della ridu¬ zione, dell’io trascendentale e della costituzione, nel senso husserliano di questi termini Cfr. gli scritti cit. alla nota 17 del ns. c. XI, ma anche p. es. Senso e non senso, Mi¬ lano, Il Saggiatore, 1962 (trad. di P. Caruso) (l’originale risale al 1948 e contiene saggi anche precedenti): Husserl non ha mai cessato di interrogarsi “sulla possibilità di quella

n

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Duc-Thao il valore di verità della fenomenologia consisteva si nel ricupero di un terreno' originario, anteriore a ogni pre-costituzione categoriale; ma non, anche, nel cammino ascendente che deve riportarci alla ri-costituzione fenomenologica del “mondo” già ridotto. Il vissuto viene esperito come “esperienza della verità”; ad esso vanno attinte le verità ultime sull’essere delle cose; ma Tran-Duc-Thao non arriva mai a farci sapere come questo essere primario possa essere reso anche tema di una descrizione effet¬ tiva e intervenire in maniera non arbitraria e deformata nello stesso sapere predicativo, che è il solo terreno dove sia possibile una scienza. Cosi, se l’analisi eidetica, in quanto sospetta di “staticità” e di astrattezza, viene lasciata cadere, e se la costituzione della cosa viene considerata un surrogato “come se” del mondo e non — in nessun caso — come una possibile trasposizione categoriale del mondo stesso, noi non sappiamo piu che cosa veramente si possa concepire come una scienza del vissuto. Perché se al con¬ trario ricuperiamo il senso della costituzione husserliana con tutta la sua capacità di “prendere distanza” sul dato della coscienza naturale e di tornare all’esperienza del mondo attraverso una ret¬ tifica essenziale34 non ci sarà più possibile considerare l’insieme delle operazioni di coscienza come qualcosa che si esercita “sem¬ plicemente” sul lato soggettivo dell’essere reale, ma questo stesso essere, nella sua totalità, dovrà esibire le sue qualifiche, le sue garanzie, i suoi limiti per una conoscenza, per un’esperienza effet¬ tiva o possibile. Da questo punto di vista l’essere “effettivamente reale” non è qualcosa che possa ritornare a far valere i propri diritti non ‘riduzione fenomenologica’ che l’ha reso celebre [...] partito da una ‘fenomenologia sta¬ tica,’ sbocca in una ‘fenomenologia genetica”' (pp. 158-159); 3) per il marxismo e la politica: “Esiste uno pseudo-marxismo” che corrisponde “a quel comuniSmo rudimen¬ tale — ‘invidia e desiderio di livellamento’ — nei cui riguardi Marx non è tenero.” (op. cit., p. 152 e cfr. lo stesso riferimento fatto da T-D-T. nella ns. Appendice A). Cfr. anche (in rapporto alla valutazione data del proletariato moderno nell’Appendice citata): “Non si può piu parlare oggi di proletari di tutti i paesi contro il capitalismo di tutti i paesi, ma di un capitalismo lacerato da contraddizioni sempre piu violente, di proletari divisi fra loro e più o meno guadagnati alla collaborazione di classe [...]” {op. cit. p. 193, da un saggio del novembre 1945). Per Merleau-Ponty e i suoi rapporti con Husserl, cfr. il volume di Andrea Bonomi, di prossima pubblicazione. 34 Come abbiamo visto fare nella "costituzione della cosa” di Idee II nei con¬ fronti delle qualità "soggettive” della fisica classica (c. Ili) e nella Crisi circa la loro matematizzazione (c. VI).

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Tran-Duc-Thao tra la fenomenologia e il marxismo

appena si spenga il nostro entusiasmo per le verità “ semplicemente vissute.” Rifacciamoci ai temi del nostro primo capitolo. Un es¬ sere reale delle cose — dicevamo — è implicito nel loro stesso presentarsi alla coscienza. Se ci riferiamo all’esperienza ante-pre¬ dicativa, si tratterà dell'essere originario, correlato àt\V esperienza (credenza) originaria. Se invece, sopra questo essere originario, noi predichiamo delle cose il loro essere “effettivamente reale,” questo “essere” che ora si stabilisce non procede da una fonte essenzial¬ mente diversa da quello dell’esperienza sensibile, ma ha il senso di un’intuizione categoriale e di una realtà categoriale (predica¬ tiva) che noi abbiamo certamente già operato mille e mille volte nella nostra esperienza quotidiana, nelle affermazioni semi-scien¬ tifiche richieste dalle esigenze stesse della vita, ma che dobbiamo ora imparare a porre consapevolmente, nelle operazioni esplici¬ tamente teoretiche della “scienza.” Considerate sotto questo aspet¬ to, molte delle critiche che Tran-Duc-Thao muove alla fenome¬ nologia nella “seconda fase” della sua evoluzione perdono la loro efficacia apparente. Tra queste, la critica capitale, secondo cui il significato stesso del vissuto presuppone l’esplicitazione dell’evo¬ luzione storico-genetica dell’animale e dell’uomo, o si risolve nella osservazione (a noi già nota) che Lenin muoveva all’idealismo: che cioè la coscienza interviene solo a un momento dato della storia cosmica e non può esserne l’origine; oppure nel semplice invito a non trascurare la storia effettiva per sostituirle generiche intuizioni. Nel primo caso, naturalmente, dovremo obiettare che una critica del genere non tocca in nessun caso la fenomenologia.35 Nel secondo, raccoglieremo senz’altro l’invito, e magari l’implicita critica alle analisi effettivamente condotte da Husserl, ma non po¬ tremo evitare di considerare le stesse ricerche di Tran-Duc-Thao sulla “dialettica del movimento reale” (nella seconda sezione del suo lavoro) come saggi di analisi che, nei limiti della loro effettiva consistenza, riempiono il programma di ricerca della stessa feno¬ menologia.

35 Come abbiamo già rilevato per Lenin all’inizio della Parte Terza di questo lavoro.

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Capitolo undicesimo

Panorama dei contributi minori alla critica “marxista” della fenomenologia

La Germania pre-nazista L’attenzione dei marxisti per la fenomenologia comincia a far¬ si sensibile solo alla fine degli anni Venti, e si rivolge non tanto a Husserl quanto a Heidegger, eventualmente a Scheler. Questo, naturalmente, corrisponde a un atteggiamento generale della cul¬ tura tedesca di quegli anni, ma anche al prevalente orientamento di questi scrittori verso il mondo “umano” e “storico.” Noi ab¬ biamo visto, a proposito di Lukàcs, quanto la diffusione del loro pensiero abbia contribuito a creare un’immagine deformata della fenomenologia husserliana.1 Tuttavia i rapporti tra i filosofi mar¬ xisti e i fenomenologi post-husserliani, soprattutto Heidegger, con¬ servano una certa importanza per il nostro argomento, e questo perché la principale delle opere di Heidegger, Essere e tempo (1927), nonostante le critiche dirette contro la fenomenologia “ori¬ ginale,” ne è ancora fortemente condizionata.2 Inoltre non biso¬ gna trascurare la grande importanza che Heidegger ha avuto, an¬ cora nel secondo dopoguerra, per quei marxisti che — non solo nei paesi “occidentali” ma anche nei paesi socialisti — hanno cer¬ cato di ricuperare i temi più vivi del pensiero contemporaneo.3

1 Cfr. il c. Vili, e in particolare la relativa nota 6. 2 Per la storia dei rapporti tra Heidegger e Husserl cfr. Spiegelberg, The phenomenological movement, cit., I, pp. 275 sgg. 3 Oltre agli scritti di cui si parla in questo capitolo, cfr. l’appendice B) su Karel Kosik. Per i rapporti di Heidegger con il marxismo, si tenga presente anche la sua Lettera sull’umanesimo, diretta a J. Beaufret nel 1946 (testo e trad. francese, Parigi 1964), e gli articoli di quest’ultimo (cfr. particolarmente À propos de l’existentialisme. Conclusioni Existentialisme et marxisme, in “Confiuences," settembre 1946).

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Panorama dei contributi minori

Goldmann su Lu/^àcs e Heidegger Sui rapporti tra Heidegger e il marxismo, del resto, sarebbe molto par¬ ziale parlare di una dipendenza a senso unico. L’interesse che Heidegger ha suscitato tra i marxisti si spiega almeno in parte con il fatto che nella sua filosofia sembrano riemergere, riassorbiti e trasformati, alcuni aspetti essenziali del pensiero marxista, soprattutto nella forma assunta in Germa¬ nia nel primo dopoguerra, per l’influenza predominante di Lukacs. In un suo libro pubblicato nel 1945,4 L. Goldmann riteneva di poter individuare nei temi del libro di Heidegger lo sviluppo e la trasposizione di problemi marxisti, molto vivi nei primi anni della repubblica di Weimar. (Si noti che Heidegger dichiara di aver elaborato le sue idee già a partire dal 1919). In particolare Goldmann avanzava l’ipotesi che molte delle idee centrali di Setti utid Zeit dipendano in un modo o nell’altro dal pensiero di Lukacs. Noi riferiamo qui alcune interpretazioni di Goldmann senza prendere posizione circa la loro esattezza che sembra molto discutibile in diversi particolari.5 Già a proposito del precedente libro di Lukacs, Die Seele und die Formen (1911), Goldmann afferma che esso gli pare “la vera fonda¬ zione della moderna filosofia dell’esistenza, ” anche se questa filosofia si de¬ finirà in Stona e coscienza di classe “come una filosofia dell’esistenza otti¬ mistica, fiduciosa e umanistica,” all’opposto quindi di quella heideggeriana. “Il libro di Heidegger è — forse anche inconsapevolmente — soprattutto un confronto con l’opera di Lukacs, la risposta e la polemica con essa dal punto di vista di una filosofia dell’angoscia e della morte”; mentre però in Lukacs la problematica filosofica è strettamente unita a quella sociologico-politica, “Heidegger traspone tutto il discorso in senso metafisico, mo¬ dificando soprattutto la terminologia, senza mai nominare Lukacs, e una sola volta Lask. ”6 Se queste affermazioni sono molto semplicistiche, piu interessanti sono alcuni dei rapporti intrinseci che Goldmann arriva a stabilire: “La ‘vera’ e ‘falsa coscienza’ di Lukacs si è trasformata [in Sein und Zeit\ nell’‘esistenza autentica’ ed ‘inautentica,’ la distinzione tra essenza e apparenza è diventata

4 L. Goldmann, Mensch, Gemeinschajt und Welt in der Philosophie Immanuel Kants, Zùrich, 1945. Cfr. le analoghe osservazioni svolte piu recentemente da Goldmann nella sua introduzione all’edizione italiana della Teoria del romanzo di G. Lukacs (Mi¬ lano, Sugar, 1962). 5 Cfr. soprattutto 1’“introduzione” citata alla nota 3, dove il libro L’anima e le forme di Lukacs (tr. it. di Sergio Bologna, Milano, Sugar, 1963) viene presentato in modo abbastanza sorprendente come un incontro tra la problematica diltheyana del si¬ gnificato e le “essenze atemporali” di Husserl, con il quale dei rapporti sussisterebbero anche per il fatto che la Filosofia come scienza rigorosa venne pubblicata nel 1910 su “Logos,” organo dei neokantiani di Heidelberg. Il riferimento a Lask nel passo citato nel ns. testo è motivato dalla circostanza che quest’ultimo insegnava a Heidelberg, dove studiarono sia Lukacs che Heidegger. 6 Goldmann, Mensch usw., cit., pp. 244 sgg. (ns. sottolineatura).

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Critici marxisti della fenomenologia

la distinzione tra ontologico e ontico, l'essenza pratica dell’uomo è divenuta, ì’esistenzialità della Cura e del preoccuparsi, la critica lukacsiana della gno¬ seologia razionale e contemplativa dei neo-kantiani viene ripresa compietamente e semplicemente rivolta qui su Cartesio. La totalità hegeliana di Lukàcs viene riportata qui al ‘mondo’ kantiano [...] e alla fiducia nel futuro viene contrapposta la ‘decisione’, l’Angoscia singolarizzante, e il vivere per la morte; in luogo della storia come lotta collettiva si fa strada il mo¬ dello del superuomo nonché la storia come ripetizione. Della società e del Noi viene conservato soltanto l’impersonale ‘si’.”7 8

Un saggio di Herbert Marcuse Più importante e di interesse più diretto per il nostro tema è un articolo pubblicato nel 1928 da Herbert Marcuse, che porta il significativo titolo di Beitràge zur Phànomenologie des historisclien Materialismus? La “fenomenologia” di cui si tratta è an¬ che per Marcuse quella dell’esistenza umana fondata da Heideg¬ ger, ma attraverso questa il discorso di Marcuse arriva a toccare temi che sono anche husserliani. Il saggio è pieno di spunti che meritano di essere ripresi. Dopo avere definito nei suoi termini generali la “situazione fondamentale del marxismo,” Marcuse passa aH’analisi di Sein und Zeit, ricavandone i punti di maggior inte¬ resse per il marxismo stesso, e abbozzandone nel contempo una critica. Con il suo sforzo di ricuperare un piano di discorso più profondo, a partire dal quale interpretare il senso fenomenico del¬ la realtà e della vita sociale, Heidegger ha “globalizzato” e uni7 Lo scritto di Goldmann è, come abbiamo visto, del 1945. Ma su Lukàcs-Heidegger possiamo trovare indicazioni che risalgono direttamente agli anni della prima grande diffusione di Sein und Zeit, da parte di scrittori marxisti o vicini al marxismo. Iniziando nel 1928 le sue pubblicazioni, la rivista “Philosophische Hefte” presentava un Referat critico del suo direttore, Maximilian Beck, sul libro di Heidegger, dove Marx veniva esplicitamente rilevato tra i "precedenti” della nuova filosofia. Tra gli elementi comuni a Marx e a Heidegger, Beck indicava l’analoga funzione svolta rispettivamente dal concetto di classe, che media i due termini astratti di individuo e società in gene¬ rale e, in Heidegger, dalle nozioni di Man e di Mitsein. Importante il fatto che anche Beck, un anno dopo l’uscita del libro di Heidegger, rimandi a Lukàcs, indicato come la giusta via per ricomprendere Marx a partire da Hegel. Da Lukàcs viene, in Hei¬ degger, il degradamento del conoscere contemplativo in mero praticismo. "Se le con¬ vergenze menzionate tra Marx e Heidegger dovessero significare la dipendenza di questo da quello, con ogni probabilità ciò avviene attraverso la mediazione di Lukàcs [auf dem Vmwege iiber L.]" (devo la segnalazione di queste e altre notizie sul rapporto Lukàcs-Heidegger a K. Kosfk). 8 Sul numero citato dei "Philosophische Hefte.”

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Panorama dei contributi minori

versalizzato la problematica filosofica moderna fino a incontrarsi ed eventualmente scontrarsi con il discorso, non meno globale, del marxismo. Nell uno e nell’altro caso viene messo in giuoco non il piano del discorso filosofico o scientifico, ma il suo fondamento, la “situazione fondamentale” dell’uomo nel mondo. Heidegger ha giustamente individuato questa situazione nella storicità. Egli però travisa questa storicità trascurandone il carattere sempre par¬ ticolare e determinato, ignorando “ la concretezza della situazione storica, la sua concreta ‘consistenza materiale’.” “Manca così a una fenomenologia dell’esistenza umana [nel caso di Heidegger] la necessaria pienezza ed esplicitezza. ”9 Cosi per il tema fondamentale della Geworfenheit, che caratterizza in Heidegger resi¬ stente umano, e di cui non si deve fare una categoria generica, ma un’analisi storica circostanziata.10 L'esigenza della storicizzazione, che Heidegger postula di principio e soffoca di fatto, non toglie valore però a un discorso che cerchi di afferrare i fenomeni nel loro aspetto strutturale (“essenziale” si potrebbe dire nel linguaggio husserliano). “Se da un lato noi premiamo perché la fenomenologia dell’esistenza uma¬ na iniziata da Heidegger raggiunga la concretezza dialettica, e si sviluppi in una fenomenologia dell’esistenza concreta e del fat¬ to concreto che storicamente s’impone di volta in volta, d’altra parte il metodo dialettico della conoscenza deve farsi fenomenologico e deve far proprio il suo oggetto nella sua concretezza, nel senso cioè di una sua piena comprensione, anche secondo l’altra di¬ rezione. Cosi, questo metodo non si deve accontentare di presentare, nell’analisi dei dati, il loro luogo storico, e di assodare la loro ra¬ dice in una situazione storica dell’esistenza umana, ma deve an¬ dare piu in là e stabilire se la datità vi si esaurisca, se non vi ine¬ risca anche un senso peculiare non già extra-storico, ma tale che perdura attraverso l’intera storicità.”11 Marcuse insiste perciò per “una unificazione dei due metodi,” che riprenda sia la Geistesgeschichte (nel senso d’una fenomeno¬ logia della cultura) di Dilthey, sia la sfera naturale (.Kòrperwelt). Esiste una storicità anche della natura, infatti, e una scienza dia9 Ivi, p. 59. 10 Ivi, pp. 62-64. 11 Ivi, p. 59.

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lettica che però non deve essere identificata, come fece erronea¬ mente Engels, con la fisica moderna, ma deve essere intesa come “storia della natura nel suo riferirsi all’esistente di volta in volta determinato.” Esiste però una scienza della natura che non è af¬ fatto dialettica, ed è la fisica matematica. Quest’ultima non è dia¬ lettica né propriamente storica, perché “la storicità non rappre¬ senta il modo d’essere del suo oggetto.” “L’essere della natura, per l’appunto, non è storico come lo è quello dell’esistente umano. La natura ha una storia, ma non è storia, mentre l’esistente è storia.”12 L’importanza di questo saggio di Marcuse ci sembra tutt’altro che trascurabile. Nei passi da noi riferiti troviamo già indicata una critica della “fenomenologia della cura” che anticipa quella di Kosik,13 un’impostazione del problema della conoscenza natu¬ rale e matematica che — per quel poco che se ne può giudicare — sembra, nell’insieme, più matura e differenziata di quella lukacsiana; infine una acuta percezione della problematica fenome¬ nologica originale del “fatto” e dell’“essenza.” Questo inizio di un ricupero marxista della tematica fenome¬ nologica venne interrotto negli anni Trenta dal nazismo. La Ger¬ mania del dopoguerra non è più un terreno per questo genere di interessi. Non è soltanto il marxismo che viene praticamente ban¬ dito dalla cultura universitaria della Germania occidentale (con qualche eccezione di rilievo come, ancora una volta, Adorno e al¬ cuni più giovani scrittori di “scienze sociali”) e che si cristallizza invece nella peggiore ufficialità nella D.D.R. “A prima vista, e soprattutto se si paragona la Germania post-nazista con la Francia, si può avere l’impressione che la fenomenologia sia defunta nella sua terra d’origine” scrive Herbert Spiegelberg, lo storico del “mo¬ vimento fenomenologico.”14 In realtà — e anche qui naturalmente non senza qualche eccezione — la fenomenologia è sopravvissuta in Germania prevalentemente nella sua versione heideggeriana.

12 Ivi, p. 60. 13 Cfr. l’Appendice II di questo volume. 14 H. Spiegelberg, The phenomenological Movement, L’Aja,

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1964,2 II,

p.

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La Francia del secondo dopoguerra Il grande sviluppo di interesse per il marxismo e per la feno¬ menologia che si e avuto in Francia nel secondo dopoguerra è nell insieme abbastanza ben conociuto. Dati i limiti che ci siamo imposti in questo capitolo, di considerare cioè l’atteggiamento dei principali scrittori dì formazione marxista nei confronti della fe¬ nomenologia, eviteremo qui di soffermarci sulle ben note opere di Sartre e di Merleau-Ponty che pure hanno costituito, insieme con la rinascita degli studi hegeliani, Xhumus del fenomeno che ci interessa. Richiamiamo soltanto alcuni dati: nel 1933 Sartre è in Germania, dove studia le opere di Husserl, di Heidegger e di Scheler. Dal 1936 datano le sue prime opere di impostazione fenomenologica,15 e ben presto matura in Sartre anche l’interesse per il marxismo, che lo porta quindi a un confronto sempre più decisivo con la propria problematica iniziale.16 Ma parallelamente, e in uno scambio reciproco di suggestioni e di polemiche, anche Merleau-Ponty si mette sulla stessa strada [La structure du comportement, dove i temi della fenomenologia husserliana si innestano su una formazione autonoma, è stata scritta nel 1938 benché pubblicata solo nel 1942). Negli anni della guerra, in collaborazione con Tran-Duc-Thao (in cui abbiamo tro¬ vato l’influenza di Merleau-Ponty) un avvicinamento più com¬ pleto ai testi husserliani avviene per via dei rapporti stabiliti con gli archivi di Louvain; ne testimoniano tutte le opere suc¬ cessive di Merleau-Ponty.17 Nefl’immediato dopoguerra, su “Les Temps Modernes” e in alcuni libri autonomi, Merleau-Ponty co¬ mincia a occuparsi specificamente della prassi politica del marxi15 L’imagination, 1936, La Transcendence de l’égo, 1936, Esquisse d’une théorie des émotions, 1939, L’imaginaire, 1940, L’Etre et le néant, 1943. 16 L’Existentialisme est un humanisme, 1946, Situations, 1947-1948-1949 (e cfr. in particolare il saggio, del 1946, Matérialisme et Revolution). Question de Méthode, 1957, poi inserito nel volume Critique de la Raison dialectique, 1960. 17 Phénoménologie de la perception, 1945, Signes (cfr. in particolare il saggio Le philosophe et son ombre, dedicato a Husserl), 1960, Le visible et l’invisible, 1964 (postumo). (Ci limitiamo a citare qui le opere principali di interesse fenomenologico). Nel 1939 Merleau-Ponty entra in contatto, a Lovanio, con gli archivi Husserl in via di costituzione sotto la direzione di Van Breda, dal quale egli e Tran-Duc-Thao riceve¬ ranno copie di diversi manoscritti inediti: tra questi, la III parte della Crisi (a partire dal 1942). Cfr. Van Breda, Merleau-Ponty et les Archives Husserl à Louvain, “Revue de Metaphysique et morale,” 1962, n° 67, pp. 410 sgg.

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smo, prima in un atteggiamento simpatetico, che si sforza di mo¬ tivare le “necessità” rivoluzionarie sovietiche, poi, anche in pole¬ mica con Sartre, in atteggiamento di delusa revisione.18 Un cosi rapido fiorire di interessi teorici e pratici per il mar¬ xismo da parte di filosofi della statura di Sartre e di MerleauPonty ha dato luogo a conseguenze abbastanza contrastanti nel¬ l’ambiente francese. Già nel 1946 le posizioni si dividono netta¬ mente tra un marxista di impostazione fenomenologica, come Tran-Duc-Thao, e altri che contrastano vivacemente la fenome¬ nologia in nome della tradizione ortodossa, come Pierre Naville, sul quale stiamo per tornare. Su tutti questi scrittori, del resto, agisce in maniera spesso decisiva la tensione ideologica di quegli anni: le simpatie marxiste di Merleau-Ponty e la propensione fe¬ nomenologica di Tran-Duc-Thao vengono messe a dura prova, come si è visto, e si aprono cosi conflitti dottrinari e anche umani. Sui particolari di questa storia già abbastanza conosciuta e docu¬ mentata anche in Italia non vogliamo soffermarci.19 Qualcosa in¬ vece dobbiamo aggiungere a proposito della reazione “ortodossa” verso la fenomenologia. Parlando di Tran-Duc-Thao si era accennato anche al suo ar¬ ticolo del 1946 sulla “Revue Internationale.” Questo articolo fa¬ ceva parte di una discussione più ampia, alla quale parteciparono anche Jean Demarchi e Pierre Naville, quest’ultimo con un lungo articolo dal titolo decisamente alternativo: Marx ou Husserl,20

18 Cfr. l’Introduzione di Andrea Bonomi a Umanismo e terrore - Le avventure della dialettica, nell’ed. ital. (Milano, Sugar, 1965). Per una minuziosa informazione sul complesso sviluppo dei rapporti teoretici e politici tra Merleau-Ponty, Sartre, Simone de Beauvoir ecc. nell’atmosfera francese degli anni 1950-1955, cfr. Luciano Amodio, Une querelle franpaise, in “Ragionamenti,” I, n° 2, nov.-dic. 1955. La risposta di parte sartriana a Merleau-Ponty è contenuta soprat¬ tutto negli scritti di Simone de Beauvoir. Cfr. anche : J, P. Sartre, Merleau-Ponty vivant (“Temps modernes,” 1961, numero 184-185). “ Ne "La revue internationale” (Parigi), nn. 3-5, 1946. L’articolo di J. Domarchi, Les théories de la valeur et la phénoménologie, si trova sul n° 2, del gennaio-febbraio 1946 (insieme a quello di Tran-Duc-Thao, per cui cfr. l’Appendice A). In una nota (p. 154) Domarchi si riconosce debitore a Sartre di “alcune delle idee essenziali" che vi sono espresse. Egli dichiara insoddisfacenti le critiche mosse dagli economisti “moderni” alla teoria marxiana del plusvalore, soprattutto per il fatto di aver considerato il Marx eco¬ nomista separatamente dal Marx filosofo; occorre invece “considerare il pensiero di Marx come una totalità.” La teoria marxista e quella "moderna” del valore hanno di mira in realtà "due ordini di fatti intrinsecamente differenti.” Per Marx, il concetto sto¬ rico-economico fondamentale è la società, che non consiste, come per i “moderni,” di una semplice somma di individui, ma è una "totalità trascendente” rispetto ad èssi o _

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Pierre Naville Rifiutando il tentativo di J. Domarchi di fornire all’analisi economica del Capitale un punto di appoggio filosofico nella fe¬ nomenologia husserliana, P. Naville scrive che il marxismo non ha alcun bisogno di un simile ausilio esterno, dal momento che possiede già in sé le proprie giustificazioni.21 È un errore pensare, come Domarchi, che la debolezza delle critiche mosse dagli eco¬ nomisti borghesi al pensiero di Marx dipenda da una dissociazio¬ ne tra il “Marx filosofo” e il “Marx economista”; quelle criti¬ che sono motivate piuttosto “dall’opposizione tra un pensiero eco¬ nomico borghese e un pensiero economico rivoluzionario, obietutilizzando un’espressione di Sartre — "un champ transcendental impersonnel’’ (p. 156). Questo spiega perché Marx non potesse porre direttamente il concetto di utilità come fondamento del valore, pur senza volerne sminuire l’importanza. "L’utilità, secondo Marx, principalmente legata al valore d’uso, si trasforma nello scambio,” e perciò "in quanto esperienza concreta del soggetto economico, sparisce per far posto a un’utilità sociale difficilmente rilevabile e, in ogni caso, non suscettibile di misura. Il lavoro, al contrario, essendo pili facilmente osservabile, sfugge in certa misura a questa difficoltà.” Cosi Marx e gli economisti "neoclassici” operano, per cosi dire, una "riduzione” reci¬ proca, e dove Marx prescinde dal riferimento soggettivo, gli altri, considerando la so¬ cietà come somma di individui (cui basta, come modello, la condotta dell’individuo singolo) e attenendosi all’analisi del mercato, sono inclini a mettere in evidenza l'utilità nella formazione del valore di scambio oltre che di uso. Cosi i "moderni” mettono "tra parentesi” le qualità naturali dei beni e anche il lavoro (dal loro punto di vista la quantità di lavoro sociale necessario incorporata nel bene non serve a spiegare il valore di un bene per un soggetto particolare). "Del tutto diverso il discorso se la riduzione viene operata non piu in rapporto a un bene considerato nei suoi nessi con un soggetto [...] ma con la società come tale. L’utilità certamente continua a esercitare la sua fun¬ zione, che però è affatto differente, perché dal momento in cui una cosa ‘viene al mondo,’ ci viene in quanto merce," e quindi dotata di una dimensione sociale (pp. 158-159). "Marx, nel primo capitolo del Capitale, ha operato allo stesso modo che i fenomenologi. Ha determinato, con un processo discorsivo che si avvicina abbastanza alla riduzione di Husserl, l’essenza (o Heidos’) che esprime il significato economico di una cosa, poi ha descritto come, sul piano del mondo (e specialmente di quello capitalistico) la cosa appare come merce, cioè riveste una forma che maschera la sua essenza econo¬ mica autentica” (p. 159). Cosi pure l’opposizione tra lavoro astratto e concreto "risponde a una necessità fenomenologica” (p. 159)., L’analisi di Domarchi, certo interessante, non è arbitraria quando interpreta il metodo marxiano e quello dei "moderni” in termini di "riduzione.” Tuttavia la sua insistenza nella terminologia fenomenologica può sembrare piuttosto gratuita, in quanto egli si limita a denominare in questo modo le concrete analisi già sviluppate da Marx. “Nous avons fait choix, pour mener cette enquéte, de la méthode phénoménologique,” avverte Domarchi con una certa ingenuità (p. 155). Si possono considerare le analisi di Marx e dei "moderni” come fenomenologicamente corrette, oppure si può criticarle da un punto di vista di contenuto, ma il problema non è quello della terminologia. Per Domarchi cfr. anche gli accenni polemici di Naville (nel ns. testo). 21 Affermazione questa che sarebbe meglio difendibile se Naville intendesse valu¬ tare il significato filosofico originale del marxismo, e non negarlo in funzione di una scientificità obiettivistica.

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tivo, e socialista.”22 In generale, anzi, Naville rifiuta non soltanto il contributo di una chiarificazione fenomenologica, ma di una qualsiasi interpretazione filosofica della tematica del Capitale. Se sembra fare un’eccezione a favore di una “rifondazione” del me¬ todo conoscitivo marxista, non potrà trattarsi però che “dell’as¬ similazione delle metodologie di una serie di nuove scienze.”23 Tenendo presente anche le altre opere di Naville, possiamo con¬ siderare quest’ultimo come un rappresentante tipico della ten¬ denza a considerare 1’“undecima glossa” a Feuerbach come un li¬ cenziamento in tronco della filosofia, e a concepire l’evoluzione di Marx come una sua evoluzione da “filosofo” a “scienziato.” Se Demarchi considera un “controsenso radicale” affrontare il pensiero di Marx con gli strumenti elaborati dalle scienze della natura tradizionale, con i loro “metodi astratti” o con quelli “em¬ pirico-statistici,” Naville ribatte che al contrario l’economia e il mondo sociale esigono quei metodi, proprio in quanto parteci¬ pano della sfera naturale; che, inoltre, lo stesso Marx ha indicato ne\Y astrazione lo strumento essenziale delle analisi economiche e che — al di là della specificità dei metodi, connessa con la di¬ versità dei rispettivi oggetti — l’economia politica, la psicologia, la biologia e la fisica presentano “preoccupazioni comuni che le di¬ stinguono dai [pseudo] ‘metodi’ intuitivi della filosofia o della metafisica,” cioè “la quantificazione (in senso matematico),” la “ricerca delle costanti (rapporti di causalità),” la produzione spe¬ rimentale e 1’“ obiettività.”24 Per quanto riguarda la fenomenologia, poi, Naville esaurisce le sue considerazioni in pochi cenni saltuari, soddisfatto evidente¬ mente della propria pregiudiziale contro ogni “metodo intuiti¬ vo” ed ogni filosofia tout-court. In particolare, quando Domarchi afferma che il problema comune di Marx e di Husserl è stato quello di “scoprire il senso delle cose nelle mani] e stazioni di queste stesse cose,” Naville ribatte: “per Marx, la manifesta¬ zione, l’aspetto fenomenologico della realtà, e soprattutto della realtà ‘ideale,’ è proprio quello che deve essere spiegato e che lo può solo per mezzo di una dialettica materialista che ci sveli la 22 Naville, Marx ou Husserl, cit., p. 229. 23 lui, p. 231. 24 Ivi, p. 234.

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meccanica profonda, la chiave del senso apparente dei rapporti sociali ’ ; “ Marx non si ferma ai dati immediati del fenomeno, che sono per Husserl le cose stesse.”25 Se Demarchi sollecita l’in¬ terpretazione di certe categorie marxiane alla luce del metodo “eidetico,” Naville risponde che “le investigazioni eidetiche non concernono le cose concrete reali, ma le possibilità immaginabili.” “J. P. Sartre insegna che l’esistenza precede l’essenza; ma Marx insegna che l’esistenza è sufficiente.” “L’intrusione delle essenze in questa analisi, lungi dall’apportare lumi supplementari, non fa che diffondervi una nebbia che favorisce la confusione.”26 In conformità con il carattere di questa rassegna, ci siamo li¬ mitati a esporre il pensiero di Naville in rapporto alla sua inter¬ pretazione del marxismo e della fenomenologia, tralasciando le questioni economiche che egli affronta. Precisiamo questo perché mentre (come risulta dai passi citati) anche la semplice informa¬ zione si rivela del tutto carente e stravolta a proposito del pensiero di Husserl, Naville si muove con competenza ben diversa sul terreno dell’analisi economica e di quella “sociologia del lavoro” che egli ha cercato di fondare in altri suoi scritti. Comunque si giudichi dei risultati da lui ottenuti su questi terreni specifici, era necessario rilevare in questo contesto come la sua concezione di un marxismo puramente “scientifico,” nel quale non si ritrovi piu nulla di “filosofico,” rappresenta il limite di una posizione ultra rispetto alla stessa ortodossia.27 Gli interventi di altri marxisti come Roger Garaudy28 (per lun¬ go tempo l’interprete filosofico del P.C. francese) e più recente25 Ivi, p. 230. 26 Ivi, p. 242. 27 La seconda parte dell’articolo di Naville è una risposta all’articolo di Tran-DucThao pubblicato sulla “Revue Internationale" (diretta da Naville). Attraverso Tran-DucThao Naville attacca Merleau-Ponty, come attraverso Domarchi attacca Sartre. Abbiamo voluto esporre le sue posizioni (nonostante la scarsa pertinenza coi problemi effettivi della fenomenologia) data l’importanza della sua figura nella storia della cultura francese (sui rapporti col surrealismo e con il P.C.F. cfr. 1 ’Histoire dti surréalisme di M. Nadeau). Cfr. di Naville “marxista" soprattutto De l’aliénation à la jouissance. La genere de la sociologie du travail [...], Parigi, Rivière, 1957. 28 Cfr. R. Garaudy, Perspectives de l'homme, Parigi, P.U.F., 1959, Introduzione (pp. 17 sgg.) e passim. A differenza da altri suoi scritti, dove combatte l’indirizzo feno¬ menologico esistenziale di Sartre, Merleau-Ponty ecc., Garaudy si mostra qui più “aperto,” cercando di stabilire un “dialogo” con i filosofi viventi, e un recupero della fenomenologia in quanto ha introdotto temi nuovi e perché “il problema di Husserl, quello di fondere insieme il valore della scienza e la responsabilità dell’uomo, è il problema filosofico ca¬ pitale della nostra epoca”; problematica “salutare” quindi, “dopo decenni di positivismo”

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mente di Jean T. Desanti,29 non modificano essenzialmente il qua¬ dro dei rapporti tra il marxismo di scuola e la fenomenologia, an¬ che quando — in un clima nuovamente mutato della lotta ideolo¬ gica — giovano almeno a rendere possibili i contatti. Qualcosa di analogo del resto avviene anche per il marxismo italiano, dove peraltro i rapporti rimangono per lo piu soltanto impliciti. In Italia infatti, tra le due guerre, sia la fenomenologia che il marxismo non poterono esercitare, per ben noti motivi politici e culturali, un’influenza determinante. Una eccezione è rappresen¬ tata da Antonio Banfi che dedicava già dal 1922 degli articoli alle opere di Husserl e riaffermava, ancora nel secondo dopoguerra, negli anni della sua partecipazione al movimento comunista, la (pp. 32-33). Husserl viene criticato invece sia per le sue aporie idealistiche (e qui G. prende a prestito le critiche di Sartre, p. 29, per l’intenzionalità, e di Tran-Duc-Thao, p. 35, per il problema dell’“altro”). Dove G. non cita o non parafrasa, lascia trasparire la propria debole informazione, o cade in banalità e fraintendimenti (a proposito del soggetto husserliano come fonte ultima di tutte le "operazioni” [Leistungen] conoscitive: “c’est oublier le travail collectif de constitution d’un monde des objets, et l’histoire,” p. 36). 29 II libretto di Jean T. Desanti, Phénomenologie et praxis (Parigi, Editions Sociales, 1963) è dedicato esclusivamente all’esame delle Meditazioni cartesiane, e si limita a rilevarne le "difficoltà interne." Si tratta, in generale, del fatto che, a giudizio del¬ l’autore, la pretesa di assolutezza del progetto fenomenologico può sostenersi solo a patto di "trasfigurare” l’io concreto del filosofo nell’Ego trascendentale (p. 124). Desanti dà un’interpretazione del tutto "costruttiva” del pensiero di Husserl. Nella definizione dell’Ego trascendentale Husserl opererebbe "al modo di un matematico che ricostruisce assiomaticamente un edificio matematico già dominato nell’ingenuità” (p. 124). I singoli momenti di questa costruzione (p. es. il concetto di evidenza) rappresenterebbero qui degli operateurs reflexifs, analoghi (come ci viene spiegato a p. 46) a quelli che usa il matematico: "Qui, come in matematica, un operatore è caratterizzato dalla proprietà formale seguente: esso definisce su un sistema di oggetti (qui gli oggetti del campo riflessivo) una classe di trasformazioni ammesse dalla struttura del sistema.” In parole piu semplici l’egologia husserliana potrebbe essere quindi definita semplicemente come un trucco (dal momento che la fenomenologia non ammette procedimenti assiomaticodeduttivi). E infatti "la difficoltà” è, ogni volta, "della stessa natura,” e cioè che "gli atti che permettono la definizione dell’operatore ‘riflessivo’ sono essi stessi ricavati nel tessuto già soggetto a norme del campo riflessivo. Ecco perciò una circularité indepassable, la quale si manifesterebbe — per fare un esempio — nel fatto che l’io, che è nel tempo, crea anche jl tempo (e la storia); un trucco, come si vede, che si presenta come un ^"mistero," il "mistero dell’Ego” (pp. 66 sgg.) e quello del tempo (pp. 71 sgg.) ( L'Ego, ci dice ragionevolmente Desanti, “non può trarre la propria origine dal tempo ed essere insieme Yorigine del tempo” p. 83). Tutto questo definisce il carattere speculativo della fenomenologia (p. 25), che non è in grado né di "ridurre” veramente, né di raggiungere le^ dimensioni dell’alterità personale, del tempo e della storia. Biso¬ gnerà spezzare perciò il circolo speculativo, rinunciando al progetto fenomenologico, per pensare 1 uomo, la dove egli vive, nell’insieme delle relazioni interumane storica¬ mente prodotte.” Tutti però lo desiderano, si potrebbe obiettare. Ma come? "C’est ce que nous verrons dans une autre occasion. Per il momento Desanti si contenta di indicarci la direzione in cui ci si dovrebbe impegnare,” che — c’era da attenderselo — è

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centralità della fenomenologia per il pensiero contemporaneo.30 Ma nonostante l’importanza dei contributi di Banfi e più re¬ centemente di Enzo Paci’1 allo studio della fenomenologia, non si è sviluppata da parte marxista una letteratura di qualche impor¬ tanza sull’argomento.32

implicita in una “formula celebre,” che cioè non si tratta di interpretare il mondo, ma di trasformarlo, (pp. 136-137). Noi tuttavia, dopo quanto abbiamo cercato di stabilire nelle parti precedenti (e particolarmente nella seconda) non ci sentiremo facilmente disposti a risolvere con una “formula,” per quanto “celebre,” i problemi della conoscenza; i quali sembrano ri¬ chiedere invece quelle analisi “fedeli” e “rigorose” la cui importanza Desanti (non si vede bene come, dal suo punto di vista: si tratta anche qui di "prassi”? ma di quale prassi?) è disposto a riconoscere (p. 131). E in realtà ciò che trasforma il libro di De¬ santi in un esercizio di rettorica è il pregiudizio per cui egli vorrebbe vedere nei temi delle Meditazioni cartesiane dei ragionamenti di tipo deduttivo, con delle premesse (mettiamo: il tempo) a partire dalle quali si possano cavare, senza ritorno, delle conseguenze (diciamo: l’Ego). Ma proprio questo non è il "progetto fenomenologico”; e la critica e la rettifica sul terreno di un’esperienza che non ha una struttura matema¬ tica, deve seguire le vie della ricerca descrittiva, non quelle della contraddizione analitica. 30 II giudizio complessivo di Banfi sulla fenomenologia husserliana risulta abba¬ stanza ben caratterizzato dalle parole seguenti, che ricaviamo da uno scritto postumo: “In questa via [la via cioè di un ‘riconoscimento critico della ragione filosofica nello sviluppo dialettico del sapere [...] verso la globalità dell’esperienza’] dopo il tentativo hegeliano, il maggiore dell’età contemporanea è quello husserliano: l’uno e l’altro a mio avviso son da vuotare degli elementi dogmatici ch’essi contengono” (Purismo filosofico, in "Società,” XV, n° 1, 1959, p. 5). Cfr. i saggi di Banfi su Husserl raccolti nel volume Filosofi contemporanei, a cura di Remo Cantoni, s.l., Parenti, 1961, e il capitolo sulla Fenomenologia pura dell’Husserl nei Principi di una teoria della ragione, Milano, 1926. Cfr. inoltre l’abbozzo Sulla conoscenza intuitiva pubblicato in “Aut aut,” n° 54, 1959, con una nota di G. D. Neri su Banfi, Husserl e il concetto di intuizione. L’interesse e l’adesione di Banfi al marxismo non fu, alla fine della seconda guerra mondiale solo occasionale: lo dimostra, già dal 1922, il lungo saggio su Gli intellettuali e la crisi sociale contemporanea (ora raccolto nel voi. I de La ricerca della realtà, Firenze, Sansoni, 2 voli., 1959). Nei suoi saggi successivi al 1945 Banfi evitò normalmente di sottoporre la fenomenologia husserliana a semplici “riduzioni” sociologico-culturali come quelle che si andavano diffondendo nella maggior parte della critica marxista, prefe¬ rendo muovere le sue riserve su un piano esplicitamente teoretico, e senza soluzione di continuità con l’impostazione precedente. In generale su Banfi e particolarmente sui suoi rapporti con il marxismo cfr. F. Papi, Il pensiero di A. Banfi, Firenze, Parenti, 1961. 31 Per gli scritti di Enzo Paci sulla fenomenologia, cfr. la bibliografia. Il pro¬ blema dei rapporti con il marxismo è studiato soprattutto in Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano, Il Saggiatore, 1963 (cfr. parte III: “Fenomenologia e marxismo”). Paci insiste sulla larga coincidenza di posizioni tra le opere di Marx e quelle di Husserl, particolarmente nel senso di una comune reazione contro l’atteggia¬ mento obiettivistico e “scientista,” sia sul terreno filosofico che su quello dell’economia. In particolare poi considera la dimensione economica non solo sul piano delle categorie scientifiche, ma anche su quello pre-categoriale, dove essa coincide con la sfera del bisogno, e comporta una peculiare intenzionalità (che Paci mette in rapporto con la tematica husserliana del Leib o corpo somatico, e la sua intima teleologia). Paci ha contribuito largamente alla conoscenza di Husserl in Italia attraverso l’edizione delle opere e la promozione di ricerche specifiche. 32 Nel notevole libro su La fenomenologia di Husserl, Torino, Taylor, 1958, Guido Pedroli si dichiarava concorde "almeno nelle sue linee generali” con il giudizio

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I paesi socialisti Naturalmente la nostra rassegna, che non ha presunzioni di completezza, rivela anche un “taglio” notevolmente partigiano; si è dato infatti un particolare risalto a quegli scritti che — come l’articolo di Marcuse — ci sono sembrati più ricchi di contenuto filosofico, mentre ci si è accontentati di segnalare soltanto qual¬ che caso “esemplare” del marxismo ortodosso. Dal nostro punto di vista infatti, dopo le chiarificazioni teoriche e critiche date nelle parti precedenti, una discussione analitica della letteratura uffi¬ ciale — che si riproduce in tutt’Europa con una monotonia im¬ pressionante — non presenterebbe quasi alcun interesse. La cri¬ tica deH’idealismo fenomenologico viene ripresa uniformemente nei termini di Lenin; la collocazione storica nella fase matura e estrema del capitalismo imperialista viene ribadita dappertutto in consonanza con tutti i critici marxisti (compresi, su questo pun¬ to, Lukàcs, Adorno e Tran-Duc-Thao.) E del resto, anche a prescindere dalla parzialità del nostro punto di vista, i contributi “ufficiosi” provenienti da tutti i Paesi socialisti si riducono normalmente a prese di posizione molto sin¬ tetiche e frettolose: qualche articolo di Motrosilova e di pochi al¬ tri scrittori neH’Unione Sovietica,33 le critiche contenute nei lavori

di Lukacs. Ma in realtà, pur rifiutando la Weltanschauung husserliana, Pedroli metteva in maggior risalto gli "elementi concettuali preziosi per una tecnica della ricerca filo¬ sofica” (pp. 5-6). Di Pedroli cfr. anche Realtà e prassi in Husserl, in Omaggio a Husserl (saggi di vari autori a cura di E. Paci, Milano, Il Saggiatore, 1960). In realtà però bisogna osservare che sia in questo che in un altro lavoro impegnativo come quello di Franco Voltaggio, Fondamenti della logica di Husserl, Milano, Comunità, 1965, le convinzioni marxiste degli scrittori, che pure vengono asserite, non incidono né sul¬ l’analisi né (almeno in modo rilevante) sulle conclusioni. Con il che non si intende rilevare un difetto di questi scritti, come risulterà chiaro anche dalle nostre osserva¬ zioni finali. 33 In Unione Sovietica la fenomenologia ha avuto una certa diffusione, negli anni Venti, a opera di un allievo diretto di Husserl, G. G. Spet e di allievi di questo, come Zinkin (vivente) o magari di avversari (come Losev, pure vivente). (Ringrazio Vittorio Strada di queste e di altre utili informazioni.) Dopo una lunga parentesi, in tempi recenti ricompare una sparuta letteratura sulla fenomenologia, per lo piu a carattere limitatamente informativo e invece abbondantemente polemico. Le nostre informazioni, a questo proposito, sono tuttavia parziali e si fermano grosso modo al 1962. Nella vasta Storia della filosofia pubblicata dall’Accademia sovietica delle scienze (1961) un para¬ grafo è dedicato a Husserl; l’informazione, sommaria ma abbastanza corretta, si limita alle Ricerche Logiche e alla Filosofia come scienza rigorosa; dunque, al 1910. Si rileva che nella sua polemica antipsicologistica Husserl — che pure respinge l’empiriocriti¬ cismo — cade nello stesso difetto di ridurre gli oggetti, la realtà, a mero correlato di

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di Adam Schaff (in Polonia), e poco piu.34 Naturalmente non è questa tutta la letteratura che i marxisti di questi paesi hanno pro¬ dotto a proposito della fenomenologia. A parte Lukàcs, abbiamo già riferito sull’importante lavoro di Karel Kosik (Cecoslovac¬ chia), che suggerisce, all’interno stesso del marxismo, posizioni con-

una "mitica coscienza (questa critica segue quindi la falsariga di quelle di Lenin al machismo ). Con la dottrina della "visione delle essenze” Husserl trapassa dall’obiet¬ tivismo idealistico in un vero irrazionalismo, negando tra l’altro l’utilità delle scienze naturali per la filosofia. N. V. Motrosilova ha compilato la voce Husserl nell’Enciclopedia Filosofica (I960), con bibliografia; il suo nome ricompare nella rivista "Voprosy Filosofii” del 1961, in un articolo (vedi, anche per gli altri, indicazioni precise nella biblio¬ grafia) fortemente polemico contro l’idealismo fenomenologico, che non esce dalla tra¬ dizione metafisica e trova oggi alleati presso i "filosofi religiosi,” convalidando la tesi di Lenin che la filosofia idealistica non può non accordarsi con il fideismo. Sul piano informativo, Motrosilova appare più aggiornata; cita alcuni volumi deU’“Husserliana” e il libro di G. Brand. In un’opera dedicata alla filosofia borghese contemporanea e pubblicata a Tiflis (1960), K. S. Bakradze dedica molte pagine al problema del¬ l’evidenza, in riferimento a Husserl. Questi ha ragione di combattere lo psicologismo, ma non basta opporre un idealismo oggettivo a uno soggettivo. Infatti Husserl cade nel pericolo opposto di ontologizzare la "verità in sé,” che come "idea” non sta né nel mondo né nella coscienza, ma in un “regno sovratemporale.” Anche per l’evidenza, Bakradze riconosce le buone ragioni di questo "criterio” di verità: se la tradizione marxista sembra mettere in rilievo soprattutto la "verifica pratica,” questa però non crea la verità. L’alternativa tra il criterio della pratica e quello dell’evidenza è falsa. D’altra parte non bisogna vedere l’evidenza come un momento indipendente dal giu¬ dizio logico: essa è il risultato di un’infinita ripetizione di determinati rapporti degli oggetti nella nostra coscienza (posizione sostenuta già da Lenin). Dalla pratica nascono quindi gli apriori che, una volta sorti, svolgono una funzione determinata nella cono¬ scenza. L’evidenza categoriale di Husserl sfugge però a un uso legittimo; rimane sog¬ gettiva e non fondata. Posso convincere altri a vedere sensibilmente le stesse cose che vedo io; non però a uguali intuizioni di essenze. Il lavoro di Bakradze, (che mostra di conoscere almeno le Idee 7), per quanto dia un’interpretazione inadeguata della teoria husserliana dell’evidenza (cfr. il ns. c. I), e per quanto discutibile nelle sue proprie affermazioni sullo stesso tema (e connessi), si distingue almeno in parte dai luoghi comuni ricorrenti negli altri lavori citati, e presenta uno stile polemico assai più accettabile. Molta maggiore informazione, ma un’impostazione “leniniana” identica a quella degli scrittori sovietici citati, si trova nell’articolo di Henri Wald, pubblicato su “Analele Universitatii C.I. Parhon,” Seria Acta Logica, anul IV, 4 1961 (Bucarest), col titolo Critique de la phénoménologie et de la logique phénoménologique. L’autore utilizza tutto e (salvo errore) solo il materiale fenomenologico in lingua francese. 34 Per il polacco Adam Schaff (Introduzione alla semantica, Roma, Editori Riu¬ niti, 1965; trad. di L. Pavolini dall’edizione inglese, Londra-Varsavia, 1962) "Husserl è un filosofo brillante, caratterizzato da una precisione straordinaria di pensiero. Ap¬ punto per questo è diventato uno dei massimi provocatori di disordini intellettuali del nostro tempo,” diffusore di "opinioni metafisiche, antiscientifiche” (p. 224). Nel capitolo sui "significati di ‘significato,’” Schaff, più che una critica della dottrina husserliana, ne dà una definizione. I significati sono, in Husserl degli oggetti platonici (p. 219). (Questo idealismo oggettivo è contraddittorio con quello soggettivo espresso nella teoria della "riduzione,” p. 223). La teoria husserliana si fonda sull’in¬ tuizione diretta delle essenze significative; e questo è intuizionismo irrazionalistico, "con una tinta mistica” come quello di Bergson (p. 298). Per Schaff “gli oggetti ideali e le idee assolute nei sistemi dell’idealismo oggettivo, dell’idealismo assoluto, ecc. non sono altro che la coscienza individuale, artificialmente trasferita alla sfera superindivi-

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vergenti, a nostro parere, con quelle della fenomenologia. Sono di questo tipo, come è facile comprendere, i lavori a cui va la nostra maggiore attenzione in questi paesi. Tra i quali la Polonia e la Jugoslavia hanno dato il maggiore contributo di carattere non strettamente individuale per una ripresa della discussione.33

duale e trasformata cosi in qualcosa di assoluto. Secondo questa interpretazione 1 idea¬ lismo oggettivo non è altro che una trasformazione dell’idealismo soggettivo.” In Husserl il "meccanismo” è il seguente: quanto vi è di comune nelle esperienze individuali "viene estrapolato, e in tal modo si costruisce quel che si dice essere un enunciato o il significato, nel senso ideale della parola.” E ciò in contrasto con le asserzioni di Husserl, "secondo cui qui si verifica un atto di diretta Wesensschau sorretta dalla testi¬ monianza dell’autoevidenza” (p. 219). Schaff si dichiara però piuttosto scettico circa la possibilità di risolvere le controversie filosofiche.” "Tutta la differenza tra la filosofia da un lato e scienze come la matematica, la chimica o le altre discipline sperimentali dall’altro” sta nella incapacità della filosofia di dirimere le questioni e di convincere l’avversario. Questo è il difetto della filosofia, “terreno scivoloso,” molto diverso “dal solido terreno delle scienze esatte.” Di qui il "liberalismo” di Schaff verso le altre filosofie. Cioè, in base a uno scetticismo sostanziale. Schaff ha, naturalmente, le sue convinzioni “materialistiche.” Ma in campo filosofico "la vittoria può essere raggiunta soltanto convincendo l’oppositore mediante argomenti appropriati” (cfr. pp. 225-226). A nostro parere lo scetticismo di Schaff deriva proprio dalle sue confessate simpatie per il positivismo. Egli considera un difetto della filosofia la mancanza di prove "esatte”; a proposito della quale non possiamo che dargli ragione; non pensiamo però che si tratti di un difetto. Non si tratta, per l’appunto, di dedurre conclusioni, ma di descrivere stati di cose. La “vittoria” di una filosofia sull’altra non consiste nella sua capacità maggiore o minore di convincere, di fatto, altre persone, ma nella capacità di afferrare piu profondamente le cose e di trasporle linguisticamente. 35 La situazione filosofica in Polonia è caratterizzata da molteplici elementi, che ne rendono il quadro abbastanza vivace: 1) esistenza di una tradizione originale nel campo della logica; 2) esistenza di un centro di riferimento fenomenologico che fa capo a R. Ingarden (Cracovia), uno dei principali allievi di Husserl, che ha stimolato soprattutto un dibattito tra fenome¬ nologia e marxismo sul terreno dell’estetica (si tratta di pubblicazioni su riviste che non abbiamo potuto esaminare); 3) esistenza di una forte tradizione cattolica che concorre a movimentare il quadro. A ciò si aggiunge: 4) l’eredità dei fatti del 1956, che hanno provocato una esplicita rottura, non solo sul piano teoretico, tra gli stessi filosofi marxisti, e hanno costretto anche i marxisti fedeli alla tradizione “ortodossa" ad “aprirsi” o quantomeno ad occuparsi delle altre tendenze, marxiste e non. Questa evoluzione è ti¬ pica di A. Schaff, fedele espositore del "realismo” leniniano in La teoria della verità, nel materialismo e nell’idealismo (ed. tedesca 1954, ed. it., Milano, Feltrinelli, 1959), che riconosce oggi (in La filosofia dell’uomo, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1965) non solo la realtà dei problemi posti dall’esistenzialismo, ma la sua validità nella lotta contro la “morale assoluta.” In un libro collettivo sulla Filosofia e la sociologia del XX secolo (Varsavia, 1962), Bronislaw Baczko mette in evidenza come due marxisti, Garaudy e Schaff, pur concordando sul carattere idealistico e soggettivistico della fenomenologia, ne diano un giudizio contrastante, in quanto il primo valorizza il suo carattere antipo¬ sitivistico mentre per il secondo questo non è un aspetto apprezzabile. Nello stesso volume è compreso un breve saggio di Leszek Kolakowski (un noto marxista "refrat¬ tario”) su Husserl. In generale, presso la generazione piu giovane, la fenomenologia è nota e seguita soprattutto nella sua versione esistenzialistica. La stessa cosa vale anche per altri paesi socialisti, come la Jugoslavia (per cui non disponiamo di informazioni precise) e, in parte, la Cecoslovacchia.

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Capitolo dodicesimo

Alcune conclusioni sulle critiche marxiste alla fenomenologia

Il nostro panorama non è certamente completo, né del tutto aggiornato (soprattutto per i paesi socialisti). Tuttavia abbiamo in mano ora gli elementi per una considerazione d’insieme, che non concerne soltanto l’atteggiamento tenuto dai marxisti verso la fe¬ nomenologia, ma ci dà anche alcune indicazioni sui loro rapporti con le filosofie non-marxiste in generale. 1. Abbiamo distinto un marxismo della “Terza Internazio¬ nale” come qualcosa di sostanzialmente unitario, rispetto a quello che impropriamente è definito “marxismo occidentale,” caratte¬ rizzato da una pluralità di posizioni. Il primo, fedele a una linea che passa soprattutto attraverso Engels e Lenin, è entrato in crisi, si può dire, dopo i fatti del 1956, e tende oggi (in “occidente” come in “oriente”) a un’“apertura” verso il pensiero non-marxista. Data la scarsa consistenza teoretica di questa forma di mar¬ xismo, il suo maggior pericolo è quello di un eclettismo testarda¬ mente attaccato a una serie di “tesi minime” che dovrebbero ga¬ rantirne la fedeltà ideologica. Tra queste, una delle piu posticce sta nella distinzione essenziale tra filosofie “matèrialiste” e “idealiste.”1 Sotto questa distinzione prende sempre più rilievo un’altra, quella fra un’impostazione positivistica e scientistica e un’imposta¬ zione “ umanistica. ” Le due correnti, all’interno del marxismo come 1 Abbiamo cercato di mostrare il non senso di queste categorie di fronte alla fenomenologia nel c. VI, e in particolare nella nota posta in appendice al c. II. L’“ idea¬ lismo” è certo un carattere proprio di molte filosofie “borghesi, ’ ma non di tutte, e sarebbe un facile giuoco dialettico documentare quanto “idealismo" vi sia nel pensiero filosofico di Lenin. Aggiungiamo che ad una penetrazione della realtà materiale concor¬ rono molto di pili la “costituzione della cosa” di Husserl o le stesse analisi di Berkeley e di Kant che non YAnti-Dùhring o la Dialettica della Natura di Engels.

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all’esterno, si sviluppano indipendentemente l’una dall’altra, secon¬ do una vera e propria divisione di campo e di lavoro. Il fatto che questa distinzione sia più concreta della prima (in quanto corri¬ sponde a uno stato di fatto che ha radici storiche lontane, nello sviluppo autonomo di una tecnica per il dominio della natura che ha assunto proporzioni sempre più accentuate) non significa che noi dobbiamo accettarla. Essa si fonda sulla tradizionale, equivoca distinzione tra mondo naturale e spirituale, scienze della natura e scienze dello spirito. Nelle parti precedenti di questo lavoro ab¬ biamo cercato di rilevare l’importanza della fenomenologia di Hus¬ serl ai fini di una reimpostazione del rapporto natura-spirito, che si basi su un senso del tutto diverso della nozione di natura e di scienza (filosofica) della natura. Non ritorneremo perciò su que¬ sto problema. Rileviamo soltanto che se il materialismo orto¬ dosso sembra simpatizzare per l’atteggiamento scientistico (mo¬ strandosi eventualmente anche tollerante verso un aggiornamento degli strumenti e dei problemi),2 le più note posizioni del cosid¬ detto “marxismo occidentale” non si sottraggono decisamente a questa alternativa, di cui occupano semplicemente l’altro corno. Il problema della natura, o, se si vuole, quello della “materia,” viene per lo più lasciato in disparte o consegnato frettolosamente al dominio delle scienze specifiche.3 2. Veniamo ora alla fenomenologia. È un fatto innegabile che le correnti meno ortodosse hanno impegnato nei suoi confronti una critica assai più significativa di quanto non abbia fatto il mar¬ xismo “leninista,” per il quale il vero problema critico sembra consistere nella classificazione di Husserl tra gli idealisti “ogget¬ tivi” o quelli “soggettivi”; come del resto è innegabile la grande differenza qualitativa tra il contributo filosofico del giovane Lukàcs, di Adorno, ecc. e le scontate “applicazioni” teoretiche del marxismo di scuola. Ciò che dà ai primi questa diversa consistenza è il fatto che dietro alle loro spalle sta l’acquisizione effettiva (e non solo vantata) del pensiero filosofico di Marx e di Hegel. Per 2 Come rivela l’interesse molto maggiore dedicato in Russia al neo-positivismo che ad altre correnti filosofiche; o ancora le esplicite simpatie positivistiche di Schaff, e non sarebbe difficile moltiplicare gli esempi. 3 Lo abbiamo documentato, nel nostro testo a proposito di Lukacs, e per accenni anche a proposito di "vicini del marxismo” come Adorno, e potremmo facilmente do¬ cumentarlo per un marxista “acquisito” (senza ingiuria) come Sartre.

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alcuni come per Tran-Duc-Thao e per Kosik — si tratta anche di un rapporto, diretto o mediato, con la fenomenologia, una fi¬ losofia in cui noi — d’accordo in questo con Antonio Banfi4 — riconosciamo uno dei maggiori frutti del pensiero moderno (in¬ sieme con Hegel, o con la tradizione Hegel-Marx). Da tutto que¬ sto ci avviamo a trarre qualche conclusione sul rapporto tra fe¬ nomenologia e marxismo o, in generale, tra filosofia e marxismo. Abbiamo visto, percorrendo le pagine dei critici marxisti, mag¬ giori e minori, come un tratto quasi comune consista nell’inseri¬ mento della fenomenologia nell’ambito di una sfera storica chiu¬ sa su se stessa, e determinata in base alle sue strutture economicosociali: l’epoca del capitalismo imperialistico, e quindi dell’ideolo¬ gia borghese più matura, in cui questa filosofia avrebbe un posto centrale, o estremo, o infine — come oggi vediamo anche af¬ fermare — “non certo l’ultimo.”5 In tutte queste valutazioni tro¬ viamo di comune un’altra cosa: il generale deprezzamento della ricerca filosofica intesa come una “prassi teoretica,” una prassi di carattere peculiare, ma una prassi autentica. Non vogliamo certo risolvere qui il problema, estremamente complesso e differenziato, dell’influenza della struttura economico-sociale sul pensiero co¬ noscitivo. Abbiamo già rilevato in precedenza, tuttavia, come il rapporto di condizionamento tra la struttura sociale e il pensie¬ ro, o tra la coscienza di classe e la coscienza in generale (e in particolare quella teoretica) non possa essere risolto se prima non è stata impostata correttamente la questione della coscienza stes¬ sa e della sua origine. Qui, in conclusione a questa terza parte, dobbiamo limitarci a ricordare come tale difetto di impostazione sia emerso quasi generalmente nelle critiche marxiste da noi esaminate. Il caso tipico è rappresentato, in questo senso, da Lukàcs, per il quale la riduzione preliminare di ogni dimensione della vita cosciente entro l’apriori di una “appartenenza” classista comporta l’impiego di un cliché critico (quello del contrasto tra razionalismo e irrazionalismo) irrispettoso dei caratteri individua¬ li del caso considerato. Cosi l’intuizionismo “romantico” viene ritrovato (senza neppure essere stato cercato) nella dottrina dell’in-

4 Cfr. la nota 30 del ns. c. X. 5 Cosi pressappoco si esprime Desanti (op. cit., p. 135).

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tuizione categoriale; l’idealismo “berkeleyano” e machista nella “riduzione” alla coscienza originaria, il logicismo scientista nel¬ la concezione anti-psicologistica della logica. E non vogliamo tor¬ nare sulle varie sostituzioni o creazioni arbitrarie di oggetto da parte di Adorno, o sull’improvvisa depressione del livello criti¬ co del Tran-Duc-Thao della “seconda fase.” Di fronte al caso della fenomenologia (che non è certo il solo) le prefigurazioni ideo¬ logiche del marxismo tradizionale si sono rivelate luoghi comuni inconsistenti, che potrebbero riempire le pagine di un Dictionnaire des idées regues filosofico. È forse ora di abbandonarle e di ricon¬ siderare filosoficamente il nesso di prassi e conoscenza, cioè il signi¬ ficato autenticamente “pratico” della conoscenza. 3. Non vogliamo però terminare con queste parole. Nell’insieme di questo libro ci siamo sforzati di individuare alcuni tratti essenziali (certo solo alcuni) dell’Husserl che per noi ha maggiore significato, e che proponiamo per una genuina ripresa filosofica. In quest’ultima parte, poi, abbiamo difeso la fenomenologia dal¬ le critiche marxiste che ci sono apparse, per lo più, vere defor¬ mazioni. Coerentemente con la nostra posizione circa il proble¬ ma della “prassi” e il significato “pratico” della conoscenza (per dirla in una frase: con l’affermazione del carattere pratico della conoscenza genuina) abbiamo respinto i troppo facili ricorsi al1’“undecima tesi,” che tagliano i nodi ma non li sciolgono. Tuttavia la nostra “difesa” non vuole avere un carattere av¬ vocatesco. Se abbiamo protestato contro la riduzione del pensiero di Husserl dentro i limiti prestabiliti di una dimensione storicoideologica è perché siamo convinti del fatto che questo pensiero, come quello di Platone o di Hume, non “appartiene” alla “no¬ stra epoca” ma, se si fa questione di storia e di tempo, vive la temporalità molto più radicale e originaria che è propria delle grandi produzioni conoscitive. Abbiamo evitato però di difendere la fenomenologia come una totalità compatta di dottrine, nella qua¬ le l’analisi teoretica della logica o della cosa materiale e della per¬ cezione si prolunghi fino a coinvolgere i problemi di una teoria dell’arte o di un’etica o d’una sociologia. E volevamo arrivare pro¬ prio a quest’ultimo punto. Se le critiche marxiste dirette a definire 6 Cfr. la nota 29 del c. X.

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il limite borghese e classista della fenomenologia ci sono sembrate cosi poco convincenti, e perché il marxismo dei nostri giorni, mosso da una volontà “ totalizzante, ” ha perso di vista proprio quegli aspetti sui quali il suo fondamento dottrinale gli dava in mano le migliori armi. Esso ha puntato, assai piu di quanto non si possa rimproverare alla fenomenologia, verso una frettolosa sistematica, preoccupata di concludere, su tutti i piani della realtà, la corrispon¬ dente “ concezione ” delle cose. La direzione verso la totalità è una esigenza autentica di ogni pensiero; ma la pazienza della ricerca e il senso del limite ne sono le virtù. Marx ha dedicato la sua vita ad afferrare le strutture e il senso profondo della società capitali¬ sta. I marxisti hanno cercato di desumerne d’un sol colpo una concezione delle cose e del mondo. Cosi essi hanno trovato il ma¬ teriale già predisposto nelle opere di Engels, un uomo la cui de¬ dizione e onestà intellettuale è fuori di dubbio, ma i cui frutti fi¬ losofici non sostengono alcun paragone né con Hegel né con Marx. Ma proprio per questo resta anche vero, d’altra parte, che noi non potremmo sostituire Husserl a Hegel e a Marx, secondo la rigida alternativa proposta da Naville. Resta vero che le pagine di Idee 11 sulla sfera spirituale e culturale o gli appunti della sua “ sociologia ” non sostengono il confronto con le illuminazioni hegeliane sulla coscienza sociale o sulle dimensioni dello spirito oggettivo.7 Si tratta solo di esempi: non vorremmo dare a nostra volta l’impressione di eclettismo, come se proponessimo semplicemente di saldare l’analisi materiale e percettiva della fenomenologia con l’analisi storico-sociale dell’hegelismo. Questa grossolana spartizione trascurerebbe il fatto che le analisi di Hegel si spingono molto addentro nella dialettica della cosa e delle sue proprietà, dell’es¬ senza e del fenomeno, ecc.; e che, d’altra parte, le ricerche hus-

7 Cfr. il libro di R. Toulemont, L'essence de la société selon Husserl, Parigi, P.U.F., 1962, che utilizza manoscritti di Husserl sulla società e su molti altri problemi. È vero che l’angolo visuale è diverso, ma è anche vero che i molti spunti interessanti che vi si trovano non ci danno, sui rapporti sociali, qualcosa di paragonabile alle pagine della Fenomenologia dello Spirito, dell’Enciclopedia o del Capitale. (Cfr. però anche quello che diciamo subito dopo nel nostro testo). D’altra parte non si deve neppure trascurare che si tratta di semplici scritti di ricerca non fatti per la pubblicazione; che perfino Idee II (pure postumo) rivela nelle ultime parti (quelle dedicate allo “spirito ') quanto Husserl si sentisse lontano dall’aver dato forma definitiva a questi temi. Sulle inadeguate critiche di Toulemont cfr. Marini, Fenomenologia e sociologia, in Aut aut n° 84, 1964.

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serbane sulla dimensione personale e sull’intersoggettività, svelano aspetti di una problematica costitutiva che Hegel sorvola o tra¬ visa.8 Ogni filosofia, per l’appunto, ha di mira la totalità, ma ogni filosofo è legato alla concretezza (e alla finitezza) della sua vita e dei suoi interessi, e quello che arriva effettivamente a realizzare non coincide con la totalità. “Il nostro procedimento è quello di un esploratore che viaggia in una parte sconosciuta del mondo e descrive accuratamente quanto gli si offre sulle sue strade non an¬ cora aperte, che non sempre saranno le più brevi. Egli ha sicura coscienza di affermare ciò che secondo il tempo e le circostanze doveva essere affermato [...] ”9 Attribuiamo a queste parole di Idee 1 un significato più radicale di quello a cui pensava Husserl accen¬ nando alle strade “più brevi.” I “tempi” e le “circostanze” non significheranno soltanto il livello di sviluppo delle ricerche “di una comunità di ricercatori che procede nel suo lavoro albinfinito, ” ma anche la disposizione fondamentale ad afferrare certi nessi di cose. Nella misura in cui è opportuno contestare a Husserl i limiti della sua esperienza di “borghese” noi non prendiamo le difese del¬ la sua opera.10 Ma una critica e una considerazione del limite in

8 In questo senso non condividiamo senz’altro il giudizio di Sartre, che, p. es. in rapporto alle Meditazioni Cartesiane e alla problematica dell’alterità personale Husserl costituisca semplicemente un regresso rispetto a Hegel. Per quanto riguarda i limiti della fenomenologia husserliana, ci sembra di vedere abbastanza chiaramente due vie che possono essere battute per una critica. Una è quella che Husserl stesso ha seguito inin¬ terrottamente, nelle sue autocritiche e riformulazioni, e che corrisponde del resto alla nozione fenomenologica dell’esperienza, della verità come evidenza indefinitamente "cor¬ reggibile.” L’altra — lungo la quale naturalmente l’auto-analisi di Husserl non poteva riuscire altrettanto efficace -— è quella di cui si è appena parlato, quella che definisce 1 essere sociale dell uomo Husserl e del suo pensiero. Non abbiamo cercato di definire dei limiti regionali all interno dei quali il contenuto di un pensiero potrebbe consi¬ derarsi al riparo da una critica dei fondamenti esistenziali, o storico-sociali (non sa¬ premmo isolare in ^ questo senso la “gnoseologia pura," la "teoria della percezione,” 1 analitica formale ecc.). Ma rifiutiamo anche di dissolvere in illusione i risultati di analisi effettive in base a una concezione della totalità storica o dell’essere che non arrivi a specificarsi con altrettanta evidenza nell’analisi, e che non tragga dall’analisi i motivi di un contrasto insolubile. Con le parole di Husserl, “non ha alcuna utilità,” potremmo dire, filosofare dall alto. Se il marxismo e l’esistenzialismo hanno esercitato contro l’atteggiamento fenomenologico una critica di principio che dovrebbe coinvolgerne ì fondamenti esistenziali, a questi critici spetta l’onere della prova, o per dire meglio di una esibizione di risultati sostitutivi. Non crediamo che qualcosa del genere sia statò fatto, e per quel che riguarda il marxismo crediamo di averne dato la documentazione. Idee I, p. 219 (Annotazione). 10 Cosi p.es. non avremmo molto da obiettare se uno scrittore marxista, dopo avere tenuto conto dei risultati raggiunti da un’opera come la Crisi (e ci riferiamo qui so-

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questo senso non è stata tentata, per quanto ci risulta, dai critici mar¬ xisti. Che le basi della loro totalizzazione fossero positivistico-engelsiane, o che fossero invece preferibilmente hegeliane, le critiche hanno sempre rivelato una impazienza e una volontà deduttiva nella direzione del “sistema” e della “visione del mondo.” Non vogliamo valutare qui le motivazioni storiche e politiche di que¬ sto fatto. Ci limitiamo ad esprimere la convinzione che queste deduzioni, oltre ad essere spesso largamente arbitrarie rispetto al marxismo di Marx, appartengano (esse si) a un’“epoca” de¬ finitivamente chiusa del movimento operaio, e che l’ideologizr zazione artificiale dei problemi conoscitivi (secondo le categorie del “realismo” e dell’“idealismo,” della “ragione” contrappo¬ sta all’“intuizione,” e via di questo passo) rappresenti un nulla di fatto non solo per la prassi conoscitiva, ma anche e principal¬ mente per la lotta di classe.

prattutto alla II parte) per la critica storica del feticismo scientista nell’età moderna, rilevasse che il lavoro non deve ritenersi concluso entro questa dimensione, e ci si deve interrogare sulle connessioni storiche con il capitalismo moderno. E tuttavia un marxista come Lukacs, che ha visto abbastanza profondamente in questa direzione, è arrivato a risultati insoddisfacenti proprio sul piano dell’analisi costitutiva a livello della cosa ma¬ teriale e della sfera percettiva. Ma su questo punto ci siamo già trattenuti a sufficienza nei cc. V e VI.

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E

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Appendici

Appendice A

Il “vissuto” e la “struttura” in Tran-Duc-Thao

Parlando di Tran-Duc-T hao abbiamo già accennato al suo ar¬ ticolo (1946) intitolato Marxisme et phénoménologie, che pre¬ senta una posizione ancora “fluida” tra questi due poli e contie¬ ne anche una interessante interprelazione del significato dell’"ideo¬ logia” nel rapporto attuale tra le classi sociali. Poiché si tratta di uno scritto difficilmente accessibile e sconosciuto in Italia, se ne riferiscono qui dei larghi stralci. In contrasto con il comuniSmo grossolano che sopprime la proprietà privata solo mediante la sua generalizzazione, in un livel¬ lamento in cui la personalità umana viene negata, il marxismo si propone una soppressione positiva che costituirà una autentica app-opriazione. Non si tratta, per l’uomo, di prendere possesso — nel senso dell 'avere — ma di godere della propria opera, ricono¬ scendovi il proprio essere. Nella società “senza classi” in cui ve¬ nisse applicata, grazie allo sviluppo della tecnica moderna, la for¬ mula “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni,” i beni creati dalla comunità sarebbero esperiti dagli individui come obiettivazioni di loro stessi, riconoscendosi nelle quali gli individui fruirebbero di sé, nella pienezza del significato che questa parola comporta per una coscienza umana: “L’uomo si immedesima, in una guisa onnilaterale, del suo essere onnilaterale, dunque da uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l’in¬ tuire, il sendre, il volere, l’agire, l’amare, in breve ognuno degli organi della sua individualità, come organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni, sono, nel loro oggettivo contegno, ossia nel loro comporta¬ mento verso l’oggetto, appropriazione di questo medesimo. L’appropriazione

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Appendici

dell’umana realtà, il comportamento umano verso 1 oggetto, e la verifica dell’umana realtà; è umano agire e umano patire, che il patire umanamente inteso è auto-fruizione dell’uomo.”1

[...] La realtà è ciò che noi produciamo, non unicamente sul piano specificamente fisico, ma nel senso più generale, che com¬ prende le attività dette “spirituali”: “per l’orecchio non musicale, la più bella musica non ha alcun senso, non è un oggetto, in quan¬ to il mio oggetto può essere soltanto la conferma di una mia for¬ za essenziale.”2 Il reale è questo mondo pieno di senso in cui noi viviamo e che per l’appunto ottiene il suo senso solo attraverso la nostra stessa vita: questa natura diventa umana mediante il la¬ voro delle generazioni. Il rovesciamento dialettico deH’idealismo nel materialismo conservava in Marx l’intero contenuto spirituale sviluppato nell’hegelismo. L’identificazione del mondo dello spi¬ rito con questo stesso mondo che noi percepiamo non gli fa smar¬ rire la ricchezza del suo senso: non si tratta di “ridurre” l’ideale al reale, ma di mostrare nel reale stesso la verità dell’idea. Mentre il materialismo volgare aveva definito l’essere come pura materia astratta, il materialismo storico, almeno alla sua ori¬ gine, si riferiva ad una esperienza totale in cui il mondo si dà a noi con quella pienezza di senso umano con cui esso esiste per noi, in quanto siamo viventi in esso. Proprio a questa esperienza si rifaceva Husserl quando, all’inizio del nostro secolo, creò la scuola fenomenologica raccogliendo una schiera di giovani filosofi intor¬ no alla sua famosa parola d’ordine: “Zu den Sachen selbst”: ri¬ tornare alle cose stesse! Non si trattava, evidentemente, dell’og¬ getto fisico, definito mediante un sistema di equazioni, ma di tut¬ to ciò che esiste per noi, nel senso stesso in cui esiste per noi. La soppressione della priorità della sfera fisica era destinata proprio a permettere di prendere coscienza dell’esistenza completa nella pienezza del suo significato. Disgustata dalle aride astrazioni del criticismo e della filosofia delle scienze, la nuova generazione ac¬ colse come una fioritura primaverile questo richiamo che le apriva la ricchezza del mondo vissuto. 1 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, trad. di Galvano della Volpe, Roma, Ri¬ nascita, 1950, pp. 261-262. 2 Ivi, p. 263.

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È pur vero che “ l’appropriazione ” avveniva qui su piano individuale e teorico, mediante un ritorno alla coscienza di sé in cui si vengono esplicitando i significati nascosti, “alienati” nella vita ingenua. Nella sua forma esistenzialistica la fenomenologia rimane ancora un appello al sentimento dell’azione piu che una guida per un’azione effettiva. La mancanza di un passaggio ad una pratica coerente la denuncia come filosofia borghese. Resta tuttavia il fatto che la fenomenologia realizzava il massimo di ve¬ rità accessibile alla borghesia, indicando nell’esistenza effettiva¬ mente vissuta la scaturigine ultima alla quale l’essere attinge il suo senso. Bastava una presa di coscienza del significato oggettivo di questa esistenza per trovare nelle condizioni economiche l’ele¬ mento in ultima analisi determinante della struttura generale del¬ l’esperienza del mondo. I testi classici del marxismo definiscono effettivamente il pri¬ mato della sfera economica in un modo che è inaccettabile per il fenomenologo. Le sovrastrutture vengono considerate come sem¬ plici illusioni, che riflettono sul piano ideologico i rapporti “reali,” mentre l’originalità della fenomenologia è consistita precisamente nel legittimare il valore di tutti i significati dell’esistenza umana. Ma il marxismo non consiste soltanto nell’affermare la necessità di un riferimento ultimo alla struttura: il corso della storia è spie¬ gabile soltanto sulla base della lotta delle classi, la cui dialettica è fondata sull’autonomia delle sovrastrutture. I rapporti di produ¬ zione devono modificarsi quando sono superati dalle forze produt¬ tive. Ma un cambiamento simile esige una lotta e si realizza nella forma di una rivoluzione, proprio perché i vecchi rapporti si conservano, grazie all’enorme sovrastruttura che continua a sussi¬ stere, nonostante la perdita della base economica. L’autonomia del¬ le sovrastrutture è altrettanto essenziale alla comprensione della storia quanto lo è il movimento delle forze produttive. Ma come dar conto di ciò se si parla di semplici riflessi del processo reale? Si dirà: la resistenza dell’ideologia è dovuta ad un’illusione. Ma come può conservarsi questa illusione? E del resto la nozione stes¬ sa di illusione non presuppone quella di verità? [Riferendosi al celebre discorso di Marx sui rapporti tra la mitologia e l’arte greca, e al problema connesso della permanenza di significato di quell’arte:]

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Si vede immediatamente [dal testo di Marx] che l’arte greca non è un semplice riflesso delle condizioni della vita materiale antica: si tratta piuttosto di una costruzione che si edifica su una attività estetica spontanea e, correlativamente, su una intuizione mitologica del mondo: “La natura e la società già elaborate in maniera inconsapevolmente artistica dalla fantasia popolare.” L’ar¬ te spontanea è la terra nutrice dell’arte riflessa ed è proprio que¬ st’arte spontanea che, come momento dell’esperienza totale, si tro¬ va ad essere condizionata dalla struttura generale di quest’ultima, dalla sua struttura economica. In linguaggio fenomenologico diremo che la vita in questo mondo, l’esperienza di questo mondo, comporta un complesso di significati, tra i quali il significato estetico. L’andamento gene¬ rale di questo complesso è delineato evidentemente da certe con¬ dizioni elementari, le condizioni economiche. Non si tratta asso¬ lutamente di una determinazione di stile causale, ma semplicemen¬ te di una delimitazione necessaria, che definisce l’esperienza vis¬ suta come esperienza di questo mondo. I momenti particolari conservano pur tuttavia la loro verità, come intuizioni effettiva¬ mente vissute, ed è proprio questa verità che fonda quella dei pro¬ dotti della cultura. Non si tratta, come è chiaro, di intuizioni pas¬ sive, che rivelerebbero un al di là inconvertibile, ma del semplice fatto di comprendere immediatamente il senso della nostra vita nel mondo, il senso delle attività cui ci dedichiamo spontaneamente per il solo fatto di vivere una vita umana. È questo mondo della vita (Lebenswelt) che sostiene tutte le costruzioni del mondo cul¬ turale. La bellezza dell’arte greca si riferisce a questa maniera pe¬ culiare della società greca di sentire il mondo, nella sua forma estetica, in una attività artistica inconsapevole. In questa esperienza estetica il bello si rivela nel solo modo in cui può rivelarsi, date le condizioni materiali di esistenza dei greci. Questa limitazione non diminuisce ma esprime la sua autenticità, in quanto si tratta appunto di una esperienza effettiva in questo mondo. Perciò il rapporto dell’arte greca con l’antico sistema di produzione non sopprime, ma anzi fonda il valore peculiare dei suoi capolavori. La “struttura” su cui questo edificio si è innalzato non è, propria¬ mente parlando, la struttura economica, ma proprio questo mon¬ do estetico spontaneamente costituito dall’immaginazione greca:

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il mondo della mitologia. Tale mondo non è il riflesso dei rap¬ porti materiali di produzione: esprime il modo in cui la vita dei Greci assumeva un significato estetico, il modo in cui i Greci vive¬ vano esteticamente. La loro arte esplicitava questo stesso senso del¬ la loro vita. Il primato della sfera economica non sopprime la verità delle sovrastrutture, ma la riconduce alla sua origine autentica nell’esi¬ stenza vissuta. Le costruzioni ideologiche sono relative al modo di produzione non perché lo riflettano — il che sarebbe una assurdità — ma semplicemente perché ricavano interamente il loro senso da una esperienza corrispondente in cui i valori “spirituali” non sono rappresentati, ma vissuti e sentid, e perché le esperienze par¬ ticolari si inseriscono nell’esperienza totale dell’uomo nel mondo. In quanto poi questa esperienza si definisce ad ogni momento nelle sue linee più generali in base ai rapporti economici esistenti, sicché una modificazione di questi comporta una riorganizzazio¬ ne dell’insieme, rimarrà vero che il movimento della storia si ri¬ ferisce in ultima analisi alle condizioni della vita materiale [...] Questa interpretazione del marxismo non potrà assumere il suo senso intero che attraverso analisi concrete le quali ricondu¬ cano lo Stato, il diritto, l’arte, la religione, la filosofia di ogni epo¬ ca alle intuizioni politiche, giuridiche, estetiche, religiose, filoso¬ fiche corrispondenti all’economia dell’epoca e costitutive àt\Vesi¬ stenza che caratterizzava l’epoca stessa. Le ideologie successive sa¬ ranno comprese così nella loro verità storica, secondo una com¬ prensione che ci permetterà di rilevare il valore eterno di questi momenti privilegiati in cui l’umanità ha saputo fissare nelle sue opere il significato del proprio essere, un essere che è ancora il no¬ stro in quanto noi vi riconosciamo noi stessi, quali siamo autenti¬ camente e quali aspiriamo sempre ad essere, anche se in un modo interamente rinnovato [...]. [Dopo avere riportato i passi di Marx sulla difficoltà di spie¬ gare il valore imperituro dell’arte greca e sul suo carattere di “in¬ fanzia sociale deU’timanità,” T-D-T. continua:] L’applicazione del metodo di cui abbiamo indicato il prin¬ cipio, comporterà evidentemente una revisione radicale della dot¬ trina, nel suo contenuto ortodosso, benché questa revisione si attui mediante un ritorno all’ispirazione originale.

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[Segue una breve analisi storica dell’esperienza religiosa del¬ la Riforma protestante, come saggio di una interpretazione non “riduttiva”}. Dopo avere esplicitato il senso dell’idealismo hegeliano come autentico realismo, nel senso che lo spirito universale non e nient’altro che l’uomo nel suo mondo, e dopo aver cosi scoperto il senso della realtà umana in tutta la ricchezza della sua esperienza vissuta, Marx si trovava a dover sviluppare la propria dottrina se¬ condo le prospettive della pratica rivoluzionaria. Nella duplice lotta che la borghesia liberale conduceva nel secolo XIX contro gli ultimi vestigi della monarchia e contro un proletariato particolar¬ mente miserabile, cui si applicava in tutto il suo rigore la legge di bronzo, la piccola borghesia era ancora schierata dalla parte della classe sfruttatrice e degli interessi del capitale, ogni volta che sembrava necessario reprimere gli elementi popolari precedentemente invocati nella lotta per la democrazia. In questa situazione il compito del pensiero rivoluzionario poteva consistere soltanto in una distruzione delle sovrastrutture della classe dominante e non sembrava urgente dedicarsi alla costruzione di un’ideologia per la società futura: il proletariato era troppo impegnato nelle dure realtà materiali per potersi staccare dalla lotta immediata. Un lavoro del genere avrebbe potuto interessare la piccola borghesia; ma questa restava ancora troppo attaccata al capitale, per la sua stessa situazione oggettiva, perché fosse possibile conquistarla in quanto classe. Cosi Marx, pensatore pratico, doveva riservare tutte le sue forze all’analisi della struttura. I progressi della tecnica, uniti al meccanismo politico della democrazia borghese, produssero fin dalla seconda metà del secolo XIX un sensibile miglioramento del livello di vita del proletariato europeo. Ne derivò un principio di imborghesimento delle masse lavoratrici, proprio mentre la piccola borghesia andava proletariz¬ zandosi, soprattutto nei suoi strati intellettuali, che per la loro mancanza di coscienza di classe erano incapaci di difendersi nella lotta sociale. La composizione della classe oggettivamente rivolu¬ zionaria ha subito cosi radicali modificazioni. Essa non comprende più soltanto, come alla metà del secolo XIX, un proletariato sogget¬ to alla legge di bronzo, ma anche importanti strati di proletari im¬ borghesiti e di piccolodaorghesi proletarizzati, le cui esigenze intel-

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lettuali non possono più essere soddisfatte dal marxismo nella sua forma ortodossa. La svalutazione sistematica dell’ideologia come tale lascia sussistere in loro la nostalgia per i valori della tradizione. Di qui il tradimento costante dei quadri piccolo-borghesi nei mo¬ menti decisivi dell’azione, fallimento che ha determinato lo scac¬ co delle rivoluzioni europee. La classe che abbiamo definito [...] prende coscienza della sua situazione oggettivamente rivoluzionaria in tempo di crisi o di guerra. Si presenta allora una possibilità per la società di libe¬ rarsi da un regime di alienazione, che la costringe periodicamente a dedicarsi, per smaltire i prodotti sovrabbondanti della tecnica moderna, a imprese gigantesche di distruzione. Ma il successo di un simile compito è compromesso dall’impotenza del marxismo classico a soddisfare le aspirazioni dei nuovi strati rivoluzionari che si orientano verso l’assurdità di un socialismo più o meno “ idea¬ lista.” Si impone perciò una revisione, in base alle stesse necessità della pratica. Una simile revisione, che non sarebbe una infedeltà ma sol¬ tanto un “ritorno all’origine,” può giovarsi delle numerose ricer¬ che della scuola fenomenologica le quali, pur non avendo fornito ancora che abbozzi troppo generali, hanno il merito di costituire le prime esplorazioni sistematiche nel mondo della vita vissuta. Impegnandosi a comprendere, in uno spirito di assoluta sottomis¬ sione al dato, il valore degli oggetti “ideali,” la fenomenologia ha saputo ricondurli alle loro radici temporali, senza per questo sva¬ lorizzarli. Mancavano ancora alla fenomenologia i concetti og¬ gettivi che avrebbero permesso un’analisi effettiva della nozione stessa dell’esistenza. Il riferimento ultimo all’economia fornisce una base solida che permette all’uomo di impostare la propria vita in questo mondo con la certezza di realizzare valori autentici [...] [Segue una critica della “scelta arbitraria” esistenzialistica.\ L’essenza dell’analisi marxista come analisi pratica consiste proprio nel mettere in rilievo, sulla base della considerazione del reale, l’esigenza di un superamento dialettico, in cui si compie la sua verità. Facendo propria tale esigenza, l’uomo si realizza nella sua eternità, come attualità dell’essere che pone se stesso, in ogni istante, come sempre lo stesso in un perpetuo rinnovamento, e che si afferma come una eterna realizzazione di sé. “La mia teoria,

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diceva Marx, non è un dogma ma una guida per l’azione.” Que¬ sto significato pratico del pensiero rivoluzionario non rappresenta un abbandono delle esigenze proprie della speculazione, ma la loro stessa realizzazione, nella loro autenticità. L’essere autentico non è Tessere-dato come tale, ma il suo senso come dover-essere, senso che fa dell’esistenza un appello di sé a sé: “divieni quello che sei!” La teoria umana non dovrà consistere allora nel fatto di calcolare le determinazioni oggettive, nella loro materialità astratta, ma nel trovare nel mondo realizzato il senso dell’esisten¬ za che dobbiamo assumere come nostro. L’idea stessa di una real¬ tà umana esige che questo senso non consista soltanto nello sta¬ bilire una economia nuova. L’analisi fenomenologica del lavoro spirituale concreto, come momento dell’esistenza reale, darà alla dialettica dei rapporti di produzione il significato pieno di una appropriazione universale.

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Appendice B

Karel Kosi\ e la “prassi” marxista

Nella seconda parte di questo lavoro sono stati fatti ampi ri¬ ferimenti alla Dialettica del concreto di Karel Kosi\ (uscita a Praga nel 1963).’ Dato il grande interesse di questo libro per il re¬ cupero di alcuni concetti-chiave del marxismo, come quelli di prassi, lavoro, economia ecc., isteriliti nella tradizione dello scola¬ sticismo marxista, ci sembra utile dare qui una ricostruzione sche¬ matica delle idee di Kosi\, seguendo il filo conduttore di quegli stessi concetti. Avvertiamo quindi preliminarmente il lettore che sono riferiti qui solo alcuni dei temi sviluppati nella Dialettica del concreto.

La prassi Nelle parti precedenti si è già parlato abbastanza diffusamente della reinterpretazione del concetto di prassi che dobbiamo a Lukàcs. Kosik vi si riallaccia in buona misura: anche per lui la prassi non è nulla di automatico e di ripetitivo, come pure non è prassi la tecnica della manipolazione, l’arte di dominare e di piegare a fini estranei l’uomo e la natura, o una tecnica impersonale di do¬ minio e di governo. Per l’appunto la prassi non è nulla di imper¬ sonale e di puramente oggettivo, anzi la sua definizione è impos¬ sibile senza far riferimento all’uomo e alla soggettività. “Nel con1 Milano, Bompiani, 1965. Trad. di Gianlorenzo Pacini. Le pagine che seguono costituiscono (con lievi modifiche) una parte del nostro articolo pubblicato sulla rivista “Il filo rosso” (Milano), n° 10, gennaio-marzo 1965, col titolo: Karel Kosi\: interpre¬ tazione della prassi. Il lettore ci perdonerà qualche ripetizione rispetto al testo.

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cetto della prassi la realtà umanosociale viene scoperta come op¬ posto dell’esser dato, cioè come formatrice e allo stesso tempo co me forma specifica àtW'essere umano. La prassi è la sfera dell’es¬ sere umano.” Si è invece voluto per lo piu individuare la prassi nel moto oggettivo delle cose, in un moto “dialettico” che con¬ terrebbe, come sua parte, cosa tra le cose, l’uomo. Ma il problema della totalità del mondo “comprende allo stesso tempo [...] il modo in cui l’uomo scopre questa totalità.”2 Nelle espressioni che abbiamo riportato la nozione di prassi è molto vicina a quella del giovane Lukàcs. Le differenze sono avvertibili invece quando questo concetto viene messo in connes¬ sione con quello di teoria, e soprattutto con il problema dell’ambito della teoria. Su questo punto l’opinione “popolare” suole pro¬ lungarsi inavvertitamente nelle opinioni filosofiche tradizionali, che fanno della prassi e della teoria due termini ben distinti e — eventualmente — antitetici. Ora, di fronte alla tendenza ideolo¬ gizzante a trasformare la realtà nel pensiero, il marxismo più cor¬ rente ha creduto di poter rovesciare semplicemente le carte, stru¬ mentalizzando la teoria come momento utilitario della prassi o negandola in generale come ideologia (tema del superamento o della liquidazione della filosofia). Lukàcs, da parte sua, pur rifiu¬ tando l’accezione di prassi come praticismo, e capovolgendone an¬ zi la nozione, non arriva a caratterizzare più chiaramente il senso proprio della teoria. Kosik imposta correttamente la questione, ci sembra, affer¬ mando che la nostra “riproduzione spirituale della realtà” (teoria) “non può essere concepita altrimenti che come uno dei tanti modi di rapporto pratico umano con la realtà.” Non dunque un sem¬ plice correlato della prassi, ma una sua specifica modalità. In quan¬ to momento — ma momento ben differenziato — della prassi, la teoria partecipa con le sue forme alla “determinazione dell’esi¬ stenza umana come elaborazione della realtà.” La riproduzione spirituale della realtà non sarebbe possibile indipendentemente dalla creazione complessiva (e perciò non solo teorica) della realtà umano-sociale. Ma d’altra parte, entro questa complessiva prassi 2 Op. cit., pp. 242 e 248.

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umana, 1 uomo “ si apre ” alla totalità del mondo nella forma af¬ fatto peculiare della prassi conoscitiva. “Alla totalità del mondo” significa sia al mondo umano-sociale che a quello non-umano, na¬ turale. “Mentre le più varie forme del soggettivismo sociale (so¬ ciologia del sapere, antropologismo, filosofia della cura) hanno rin¬ chiuso 1 uomo in una socialità o in una praticità concepite sog¬ gettivisticamente, giacché — secondo le loro idee — l’uomo in tutte le sue creazioni e manifestazioni esprime sempre e soltanto se stesso e la sua condizione sociale [...] al contrario la filosofia materialistica ritiene che l’uomo, sul fondamento della prassi e nella prassi come processo onto-creativo, crei anche la capacità di penetrare storicamente dietro di sé e intorno a sé, cioè di essere aperto all’essere in generale. L’uomo non è racchiuso nella sua animalità o nella sua socialità perché non è soltanto un essere an¬ tropologico, ma è aperto alla comprensione dell’essere sul fonda¬ mento della prassi, ed è pertanto un essere antropocosmico.”3 Con ciò viene impostato nelle sue linee generali il problema chiave della filosofia moderna e anche del marxismo, quello del rapporto dell’uomo con la natura, e quindi della conoscenza del¬ la natura. In polemica con il naturalismo oggettivistico (inseritosi anche nel marxismo) che voleva ridurre ad un’unica oggettiva dialettica delle cose anche certe peculiari “cose” come l’uomo e la società, Lukàcs aveva opposto nel ’23 un esplicito rifiuto alla dialettica della natura. Il concetto di dialettica non può sussistere che nella connessione piu intima con la prassi umana. L’impresa “pratica” umana, di cui si fa portatrice nell’epoca moderna la co¬ scienza di classe del proletariato, non si continua fuori della so¬ cietà degli uomini. Abbiamo già visto, nella seconda parte di que¬ sto libro, come Lukàcs finisse per consegnare con questa sua posi¬ zione, l’intero terreno della conoscenza della natura alla giurisdi¬ zione del sapere “analitico,” escludendo cosi dalla sua costituzione ed elaborazione i caratteri della autentica praticità umana e conso¬ lidando quel “dualismo ontologico” che è caratteristico, ancora, della stessa Ragione dialettica di Sartre.4 Kosik critica perciò questa

3 Op. cit., p. 247. 4 Cfr., di Sartre, Critique de la raison dialectique, tome I, Introduzione, A), I-II.

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impostazione, benché — al di fuori di un certo esoterismo termino¬ logico — la sua intenzione sia tutt’altro che quella di ridare corso alla vecchia “dialettica naturale” di stile engelsiano. Si tratta invece, più propriamente, di mettere fine al tradizionale agnosticismo circa la natura e il posto che l’uomo vi occupa come essere anche natu¬ rale; agnosticismo pronto a tradursi nelle piu diverse forme di “dissacrazione” scientifica e di strumentalizzazione praticistica della natura; in una fondamentale mancanza di senso della sua autonomia (che si esprime anche nella riduzione della natura a “categoria sociale”), e infine in uno scetticismo piu o meno di¬ chiarato sulla conoscibilità della natura per l’uomo. “ Se nell’indu¬ stria, nella scienza e nella cultura la natura esiste per l’uomo come natura umanizzata, da ciò non dipende che la natura in generale sia una ‘categoria sociale,’” giacché 1’“assoluta esistenza della na¬ tura non è condizionata da nulla e da nessuno.” È vero invece che l’uomo, “con la sua esistenza — che è la prassi — possiede la capacità di superare la propria soggettività e di conoscere le cose come realmente sono. Nell’esistenza dell’uomo non viene ri¬ prodotta soltanto la realtà umano-sociale, ma viene anche spiri¬ tualmente riprodotta la realtà nella sua totalità.”3 Queste osservazioni sulla teoria sono certamente tra le cose più preziose del libro. Inutile dirlo, il profondo senso che Kosik mostra di avere per il valore e la tipicità dell’attività conoscitiva, non può incontrarsi in nessun modo con le insulse dottrine del rispecchiamento o deH’immagine ecc., fondate su un “realismo” tutto inventato, che inutilmente si cercherebbe in Marx. Anche questa polemica rimane solo implicita nel testo di Kosik, che tut¬ tavia mostra persino nella terminologia di avere una ben altra in¬ clinazione verso la realtà. Nelle sue pagine risulta espressamente l’impossibilità di concepire la realtà come un meccanismo che noi possiamo ricostruire a partire dal “riflesso” (salvo poi ricostruire il riflesso ripartendo dalla realtà). Risultano impossibili cioè tutte le bravate ipotetico-costruttive di quella gnoseologia che si fa passare per marxista. Kosik parla di “apertura sulla realtà,” ma questa apertura non è un “ buco del pensiero, ” bensì si realizza nella prassi 5 Op. cit., pp. 273-274.

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generale e, al suo interno, nella prassi teorica. Può sorprendere tuttavia, che proprio a questo punto del suo discorso, e magari in rapporto con la sua critica della filosofia heideggeriana della cura, Kosik non abbia fatto un passo ulteriore per ritrovare, in una forma piu lucida e libera da ogni vocazione alla saggezza, la tematica originale dell’intenzionalità. Eppure la sua caratteriz¬ zazione del “momento esistenziale” (cfr. più avanti) e dell’atti¬ vità della coscienza, la sua stessa critica alla chiusura antropologi¬ stica della filosofia della cura, lo portano di fatto molto vicino a quella nozione-base della fenomenologia. E una esplicita tematizzazione dell’“apertura” come intenzionalità ci sembrerebbe im¬ portante, da parte di Kosik, perché nel suo libro è si affermato che l’uomo oltrepassa nella coscienza la propria finitezza e i pro¬ pri limiti “antropologici,” ma non come ciò avvenga, secondo quali specifiche modalità di coscienza. E analogamente non ci sembra abbastanza chiarito l’apparente paradosso per cui l’uomo, cosa tra le cose, non è un semplice oggetto di una dialettica gene¬ ralizzata, e ancora il fatto che la totalità comprenda anche il modo in cui essa si manifesta alla coscienza; ecc. Tutti questi temi sono correttamente impostati nel libro di Kosik, ma il loro svolgimento non dovrebbe evitare un confronto con quella che è la più grande analisi moderna della soggettività cosciente.6

Critica della filosofia della cura La ripresa critica del senso originario marxiano della praxis, rispetto alla sua deformazione nel senso del praticismo e alla con¬ seguente svalutazione della “teoria” sono il centro del libro di Kosik. Lo stesso tema si ritrova nelle pagine dedicate a diversi aspetti del pensiero contemporaneo, e particolarmente a Essere e Tempo. La scelta di questo termine di riferimento non è casuale, an¬ che perché l’opera principale di Heidegger è collegata a Storia e coscienza di classe da una serie di rapporti cui abbiamo già ac-

6 Cfr. tuttavia per uno svolgimento autonomo della tematica dell’intenzionalità le pp. 27 sgg. dell’op. cit.

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cennato.7 Kosik sviluppa con molta penetrazione certi aspetti di una problematica già comune a Lukàcs e a Heidegger, come — per limitarci a brevi cenni — la critica del sapere pseudo-razio¬ nalistico e “contemplativo.” Infatti “la realtà,” scrive anche Kosik, “non si presenta dapprima all’uomo sotto l’aspetto di un oggetto da intuire, da analizzare e da comprendere teoricamente — il cui polo opposto e complementare è appunto l’astratto sog¬ getto conoscente [...] — ma come il campo in cui si esercita la sua attività pratico-sensibile, sul cui fondamento sorgerà l’imme¬ diata intuizione pratica della realtà.” Kosik si richiama inoltre alle nozioni heideggeriane della “cura” e del “prendersi cura,” i modi in cui l’uomo, soggetto impersonale, vive — per Heidegger — prevalentemente avvolto nell’inautenticità. Il senso della cura, tuttavia, è duplice, e anche Heidegger ne è ben cosciente, in quan¬ to questa modalità dell’esistenza può essere compresa soltanto quando sia ricondotta al senso autentico dell’Essere. Per Kosik la quotidianità vissuta prevalentemente nella forma del “prendersi cura,” del preoccuparsi e del darsi da fare rappresenta soltanto la specifica metamorfosi del lavoro nella società del XX secolo. In questo senso la cura è solo il modo dì apparizione soggettivo e parziale della praxis umana. “Nella cura è espressa e realizzata la dipendenza dell’individuo dalla realtà sociale, la quale tuttavia si presenta all’individuo ‘preoccuppato’ come mondo cosificato del¬ la manipolazione e del prendersi cura. Il preoccuparsi, come appa¬ renza universale e reificata della prassi umana, non è prodotto e creazione del mondo umano oggettivamente pratico, bensì è ma¬ nipolazione dell’assetto esistente come complesso dei mezzi e delle esigenze civili. Il mondo della prassi umana è la realtà oggettiva¬ mente umana nella sua nascita, nella produzione e riproduzione, mentre il mondo del darsi cura è il mondo degli apparati già pron¬ ti e della loro manipolazione. Dal momento che in questo mondo fenomenico del darsi cura nel ventesimo secolo vive tanto l’operaio quanto il capitalista, sembrerebbe che la filosofia di questo stesso mondo dovesse essere più universale della filosofia della prassi umana. Questa pretesa universalità deriva dal fatto che si tratta della filosofia della prassi mistificata, di una prassi che non si pre7 Nel nostro c. XI.

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senta come attività umana trasformatrice, ma come manipolazio¬ ne di cose e di uomini. L’uomo come cura non è soltanto ‘get¬ tato’ nel mondo, che esiste già come realtà bell’e fatta, bensì si muove in questo mondo, che è creazione umana, come in un com¬ plesso di apparati che egli è capace di maneggiare senza dover conoscere il loro vero movimento e la verità del loro essere.” Mentre la relativa verità dell’analisi heideggeriana dell’esistenza consiste nel fatto di aver saputo descrivere la forma fenomenica della realtà sociale del nostro tempo, la mistificazione sta nel fatto di presentare questa forma fenomenica non come tale, ma come determinazione essenziale dell’essere-nel-mondo dell’uomo; nel non aver riconosciuto al di là della forma superficiale e mistifi¬ cante il carattere strutturale e fondamentale della prassi umana. “Se la cura significa irretimento dell’individuo nei rapporti so¬ ciali, visti dal punto di vista deH’individuo che vi è engagé, essa è al tempo stesso un mondo sopra-soggettivo, visto dal soggetto. La cura è il mondo nel soggetto.” Rispettivamente, “il darsi cura è l’aspetto fenomenico del lavoro astratto. Il lavoro è già suddi¬ viso e spersonalizzato in tal misura da apparire come un mero occuparsi e come manipolazione in tutte le sue sfere, in quella materiale come in quella amministrativa e spirituale. Nella con¬ statazione che alla categoria del lavoro della filosofia classica te¬ desca si sostituisce nel ventesimo secolo il mero occuparsi [...] viene fissato un determinato aspetto fenomenico del processo sto¬ rico. La sostituzione del ‘lavoro’ con il ‘darsi cura’ non riflette una particolarità di pensiero di un singolo filosofo o della filo¬ sofia in generale, bensì esprime in certo modo dei mutamenti del¬ la stessa realtà oggettiva. Il passaggio dal ‘lavoro’ al ‘darsi cura’ riflette il processo della feticizzazione progressivamente approfondentesi dei rapporti umani, in cui il mondo umano si manifesta alla coscienza giornaliera (fissata nell’ideologia filosofica) come un mondo già pronto di apparecchiature, di attrezzature, relazioni e rapporti, dove il movimento sociale dell’individuo si svolge come intraprendenza, occupazione, onnipresenza, attaccamento, in una parola come darsi cura.”8

8 Cfr. il capitolo Metafisica della vita quotidiana nell’op. cit., pp. 75 sgg.

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Il lavoro e la coscienza Proprio il tema del lavoro ci permette allora di gettare uno sguardo più profondo sull’origine delle mistificazioni speculative contemporanee e sulla realtà della nostra società. Mentre nel Rinascimento la creazione e il lavoro sono ancora uniti, “il capitali¬ smo spezza questo legame diretto, separa il lavoro dalla creazione, i prodotti dai produttori e trasforma il lavoro in una fatica increa¬ tiva ed estenuante,” respingendo la creazione “al di là delle fron¬ tiere del lavoro industriale.” Ma che cose il lavoro? Scartati i ten¬ tativi di definizione sociologica, che per la loro stessa imposta¬ zione di principio sono condannati a vedere del lavoro soltanto determinati aspetti fenomenici, dobbiamo constatare che dopo Marx non è mai stata affrontata la questione filosofica della de¬ finizione del lavoro. La problematica del lavoro è intimamente connessa con quella ontologica che concerne l’uomo stesso. “Il la¬ voro è un processo che pervade tutto l’essere dell’uomo e costi¬ tuisce la sua specificità,” e “nel quale avviene qualcosa dell’uomo e del suo essere, cosi come del mondo dell’uomo.” L’uomo e l’animale sembrano esseri ugualmente “pratici,” ma nell’appagamento del desiderio umano si inserisce un trattenimento, una me¬ diazione, nella quale si costituisce anche la dimensione del tempo umano. “Nel lavoro e per mezzo del lavoro l’uomo domina il tempo (mentre l’animale è dominato dal tempo), giacché un es¬ sere capace di resistere ad un immediato appagamento del desi¬ derio e di trattenerlo ‘attivamente’ fa del presente una funzione del futuro e si serve del passato, cioè scopre nel suo agire la tri¬ dimensionalità del tempo come dimensione del suo essere.”9 Nel momento stesso in cui l’uomo si riconosce attraverso il proprio lavoro e crea per sé dalla natura le proprie dimensioni esistenziali, mentre cioè l’oggetto viene strappato dall’originario contesto na¬ turale e viene umanizzato, l’uomo perviene anche alla propria og¬ gettivazione, senza la quale sarebbe del resto impossibile lo stesso costituirsi della dimensione temporale. E qui si inserisce un ulte¬ riore motivo di critica della “filosofia della cura”: “l’opinione diffusa che l’uomo è l’unico essere che sa di essere mortale per! Op. cit., p. 224.

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che a lui soltanto si scopre il futuro, al termine del quale egli scorge la morte, viene idealisticamente travisata nell’interpreta¬ zione esistenzialistica, perché in base alla limitatezza dell’esisten¬ za umana l’oggettivazione viene considerata come una delle for¬ me della fuga dall’autenticità, che è invece l’essere per la morte. Ma 1 uomo sa di essere mortale solo in quanto distribuisce il tem¬ po in base al lavoro come azione oggettiva e creazione della realtà umano-sociale. Senza l’azione oggettiva, nella quale il tempo si scandisce in futuro, presente e passato, l’uomo non potrebbe sapere di essere mortale.”10 L’aver condotto l’analisi al suo centro, ai concetti di prassi e di lavoro, permette a Kosik importanti chiarificazioni e reimpostazioni di tutta una serie di categorie filosofiche. Non possiamo soffermarci minutamente su ciascuna, ma cerchiamo di stabilirne la traccia. Benché l’uomo nel lavoro si realizzi come essere pratico, la prassi comprende, oltre al lavoro, il momento esistenziale, oltre all’attività oggettiva con cui l’uomo impregna dei suoi sensi il materiale naturale, anche la soggettività cosciente che nasce dal lavoro, nella costituzione della temporalità e nei sensi che le si congiungono, “come l’angoscia, la nausea, la paura, la gioia, il riso, la speranza.” Il momento “esistenziale,” è il momento del “riconoscimento,” in cui (K. si riferisce al celebre passaggio del¬ la Fenomenologia hegeliana) “il lavoro dello schiavo è sentito e compreso come lavoro servile, ed esiste come tale nella coscienza dello schiavo.”11 Ciò non significa che si possano semplicemente contrapporre i due termini nei quali prende forma ideologica la feticizzazione moderna della prassi umana, il lavoro come neces¬ sità e “l’arte” (o la vita estetica) come libertà. Né perciò può es¬ sere intesa in questo senso l’affermazione di Marx per cui il re¬ gno della libertà comincerebbe solo oltre la frontiera del lavoro. Questa “approssimativa” contrapposizione occulta il fatto che il lavoro, legato alla sfera della necessità, nello stesso tempo la sor¬ passa creando i presupposti della libertà, che il processo che porta dalla mera necessità alla presa di coscienza è un unico processo. E ciò naturalmente è tanto più vero quanto più ci si solleva dalla

10 Op. cit., p. 227. 11 Op. cit., p. 246.

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considerazione del lavoro come realtà storica determinata del ca¬ pitalismo moderno (in cui esso si riflette nelle coscienze soltanto come preoccupazione e darsi da fare) al suo senso piu universale, che è quello già implicito nell’analisi hegeliana. Determinata cosi la prassi nel senso filosofico del lavoro e del¬ la coscienza che sorge con esso, è possibile condurre un chiari¬ mento essenziale della nozione marxista di economia, intorno al quale si stringono molte delle analisi particolari della Dialettica del concreto.

In terpretazi one dell’ “ e con omia” Dai manoscritti giovanili al Capitale, se delle categorie vengono filosoficamente riprese e elaborate, si tratta delle categorie della prassi e del lavoro, nelle quali, come Kosik avverte, non troviamo “nulla di economico.”12 Se il lavoro rappresenta l’essenziale me¬ diazione pratica in cui l’uomo oggettiva nella natura i propri sen¬ si umani, non sarà dal lavoro che dovremo muovere per spie¬ gare il senso dell’economia ? Ecco perché tante delle definizioni con cui Kosik cerca di catturare e di isolare una sfera peculiare dell’economia sembrano direttamente figlie della categoria già de¬ finita del lavoro. Mentre il lavoro è la stessa attività con la quale l’uomo trae dalla necessità i presupposti della propria libertà, l'eco¬ nomia è concepita come la “sfera” corrispondente, in cui questo processo si concreta. L’economia è quindi “la totalità del processo di produzione e di riproduzione dell'uomo come essere umano¬ sociale,” che perciò non comprende soltanto la produzione dei beni materiali, ma anche “dei rapporti sociali all’interno dei quali questa produzione si realizza,” considerati come rapporti ogget¬ tivi. Essa è insomma “il mondo oggettivo degli uomini e dei loro prodotti sociali,” in certo modo lo spirito oggettivo dei rapporti e delle istituzioni, delle condizioni sociali. Questo mondo ha per fondamento la produzione dei beni materiali (il lavoro) ed è a sua volta (col lavoro) alla base delle idee, emozioni, delle qualità, e dei sensi umani. Questo consente a Kosik di spiegare la prima12 Op. cit., p. 232.

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rietà e la centralità dell’economia, che si fonda appunto sulla primarietà della prassi e del lavoro, senza tuttavia fare un uso meno che discreto di una terminologia macchinistica come quella di struttura e sovrastruttura, che finisce sempre per prendere la mano ai marxisti anche bene intenzionati, per quanto propensi a “giu¬ rare mille volte” di volerne fare un uso critico. D’altra parte per Kosik questa sfera dell’obiettivazione economica presenta un du¬ plice carattere. Essa costituisce un luogo di passaggio, necessario in ogni forma di vita sociale e anche nel comuniSmo, del sog¬ getto che si oggettiva nel mondo; ma d’altra parte essa può es¬ sere individuata, nella sua validità di principio, solo come un grado non determinato bensì di volta in volta determinabile di tale rap¬ porto. Come la prassi umana cioè, anzi proprio in quanto prodotto della prassi umana, la “struttura economica” non è necessaria¬ mente — come nel mondo reificato del capitalismo tende ad es¬ sere — un dato o una condizione estranea all’uomo, ma può es¬ sere essa stessa studiata nella sua genesi. “Poiché abbiamo intra¬ preso l’indagine dell’economia partendo dall’analisi del lavoro, l’economia stessa ci si è originariamente manifestata non come una struttura economica bell’e fatta, come una piattaforma storica già formata o come unità delle forze produttive e dei rapporti di pro¬ duzione, bensì come una realtà umano-sociale che si viene for¬ mando e costituendo, realtà fondata sull’agire oggettivamente pra¬ tico dell’uomo.”13 Nella prassi è questione del soggetto, anzi di quel soggettooggetto che è l’essere sociale. L’economia e le categorie economiche non tanto “contengono” l’essere sociale quanto piuttosto lo “fis¬ sano,” e il compito di disciogliere questa fissità è riservato all’ana¬ lisi teorica che le deve comprendere “come espressione de\Yattività oggettiva degli uomini e del nesso dei loro rapporti sociali in de¬ terminate tappe storiche di sviluppo.” L’economia insomma, an¬ ziché essere concepita come il fondamento ultimo di ogni spiega¬ zione, ha la sua verità in uno strato anteriore, nella prassi umana e nel lavoro, così come la teoria economica rappresenta solo il grado corrispondente, per quanto adeguato, di fissazione speculativa.

13 Op. cit., pp. 232-233.

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Nota bibliografica

1. Scritti di E. Husserl citati nel testo Ci siamo riferiti, nel testo e nelle note, alle edizioni italiane degli scritti di Husserl; in mancanza, alle più recenti edizioni in lingua originale. Ne diamo qui le indicazioni bibliografiche complete. Logische Untersuchungen [Ricerche logiche], Halle, Niemeyer, I edi¬ zione in 2 volumi, 1900-1901; II edizione, con diverse modifiche, in 3 vo¬ lumi, 1913. Le edizioni successive (1922, 1928) non introducono altre mo¬ difiche. Il primo volume, in tutte le edizioni, è costituito dai Prolegomena zur reinen Logi\. È in preparazione l’edizione italiana, a cura di G. Piana, Milano, Il Saggiatore. Die Idee der Phànomenologie (Fiìnf Vorlesungen). Lezioni tenute nel 1907 a Gottinga. Edite a cura di W. Biemel, Haag, Nijhoff, 195 82. La filosofia come scienza rigorosa, Torino, Paravia, 1958, trad. di F. Costa. (Philosophie als strenge Wissenschaft, pubblicato nel 1910 sulla ri¬ vista “Logos”; prima ediz. tedesca in volume, a cura di W. Szilasi, Frank¬ furt a.M., Klostermann, 1965.) Idee per una fenomenologia pura e per una filosofa fenomenologica, Torino, Einaudi, 1965, a cura di E. Filippini (con una sua Introduzione), che ha tradotto i libri II e III, conservando per il I la trad. di G. Alliney (1950, stesso editore), e integrando i tre libri sull’ediz. Nijhoff, Halle, 19501952, in 3 voli, a cura di Walter e di Marly Biemel. (Ideen zur einer reinen Phànomenologie und phànomenologischen Philosophie, I ediz.: Halle, Nie¬ meyer, 1913, solo I libro.) Erste Philosophie, parte I e II, in 2 voli., Haag, Nijhoff, 1956-1959, a cura di R. Boehm (lezioni del 1923-1924). Phànomenologische Psychologie, Haag, Nijhoff, 1962, a cura di W. Biemel (lezioni del 1925). Vorlesungen zur Phànomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-

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Nota bibliografica

1917), a cura di R. Boehm, Haag, 1966 (I ediz. a cura di M. Heidegger, Halle, Niemeyer, 1928). Logica formale e trascendentale, Bari, Laterza, 1966, trad. di G. D. Neri, con una introduzione di E. Paci. (Formale und transzendentale Logi\, Halle, Niemeyer, 1929) (citato: Logica). Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica, Milano, Silva, I960; trad. di F. Costa (note introduttive di L. Landgrebe, E. Paci e del traduttore). (Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logifp, la prima ediz., Praga 1939, andò quasi completamente distrutta; ripubblicato: Hamburg, Claassen & Goverts, 1948. Il testo è stato redatto da L. Landgrebe sulla base di manoscritti di Husserl risalenti a anni di¬ versi. Husserl ne segui la preparazione fino al 1935.) Meditazioni cartesiane e i Discorsi parigini, Milano, Bompiani, 1960, trad. di F. Costa. (Cartesianische Meditationen und Pariser Vortrdge, Haag, Nijhoff, 1950, a cura di S. Strasser. La I ediz., in lingua francese — che non comprende i Discorsi parigini — trad. di G. PeifTer e E. Lévinas, Paris, 1931, è l’unica uscita durante la vita di Husserl.) La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (citato: Crisi), Milano, Il Saggiatore, 1961, trad. di E. Filippini, introd. di E. Paci. [Die Krisis der europàischen Wissenschaften und die transzendentale Phdnomenologie, Haag, Nijhoff, 1954, a cura di W. Biemel. Delle tre parti — la terza incompiuta — solo le prime due furono pubblicate vivente Husserl nella rivista “Philosophia” di Belgrado, 1936.) Per altri brevi testi (desunti da manoscritti) rimandiamo alle note del testo. Per una bibliografia completa degli scritti di Husserl si vedano i la¬ vori citati qui sotto (n° 2), e in particolare l’Omaggio a Husserl (bibl. a cura di Ida Bona).

2. Alcuni scritti di carattere generale su Husserl Per la storia della fenomenologia: H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement, The Hague, Nijhoff, 19652, 2 voli. Esposizione sistematica: Alwin Diemer, Edmund Husserl, Versuch einer systematischen Darstellung, Meisenheim am Glam, Hain, 1956. Sviluppo del pensiero di Husserl: W. Biemel, Die entscheidenden Phasen in Husserls Philosophie (“ Zeitschrift fiir philos. Forschung, ” XIII, 2, 1959). Della notevole letteratura introduttiva e interpretativa del pensiero di Husserl in lingua italiana, ci limitiamo a ricordare gli scritti di Antonio Banfi (citati a p. 175, nota 30), di Sofia Vanni-Rovighi (La filosofia di E. H., Milano, 1939), e soprattutto di Enzo Paci, che oltre alle opere citate nel testo (Tempo e verità nella fenomenologia di H., 1961; Funzione delle scienze e significato dell’uomo, 1963) ha pubblicato una nutrita serie di

210

Nota bibliografica

articoli su varie riviste, e soprattutto su “Aut aut.” Cfr. inoltre: G. Pedroli, La fenomenologia di H., Torino, Taylor, 1958; E. Melandri, Logica e esperienza in H., Bologna, Il Mulino, 1960; G. Piana, I problemi della fe¬ nomenologia, Milano, Mondadori, 1966, e gli scritti di vari autori in Omag¬ gio a Husserl, a cura di E. Paci, Milano, Il Saggiatore, 1960). Tra le opere straniere piu importanti per l’interpretazione generale del pensiero di Husserl ricordiamo ancora la prima parte del libro di TranDuc-Thao (citato sotto, al n° 4) e G. Brand, Welt, lek und Zeit, Haag, Nijhoff, 1955, trad. it. (Mondo, io e tempo, Milano, Bompiani, 1960) di E. Filippini.

з. Altri scritti, non citati nel testo, su problemi toccati in questo libro H. Dieter, Uber die Grundlagen von LLs Kntif der philosophischen Tradition (“Philos. Rundschau,” 1958, pp. 1-22); G. D. Neri, La filosofia come ontologia universale e le obiezioni del relativismo scettico in H. (in Omaggio a H., Milano, 1960); F. Sauer, Uber das Verhàltnis des H.schen Phànomenologie zu D. Hume (“Kant-Studien,” 1930); I. Kern, H. und Kant, Haag, 1964. A. D. Osborne, E. H. and bis Logicai Investigations, Cambridge (Mass.), 19492; O. Becker, Zur Logi\ der Modalitàten (“Jahrbuch fiir Phil. и. phànomenol. Forschung,” 1930); E. Paci, Per lo studio della logica in H. (“Aut aut,” n° 94, 1966); P. Ricoeur, Analyses et problemes dans “Ideen II” de H. (“Revue de Metaphys. et de Morale,” 1951-1952); G. Piana, Un’analisi husserliana del colore (“Aut aut,” n° 9, 1966). Per i rapporti sulla dottrina della natura fìsica in H. e in Whitehead, cfr. E. Paci, Whitehead e H. (“Aut aut,” n° 84, 1964) e C. Sini, White¬ head e la funzione della filosofia, Padova, Marsilio, 1965. G. LukÀcs, Il giovane Hegel (tr. ital., Torino, Einaudi, 1960); T. Munzer, Il giovane Lu\àcs (“Ragionamenti,” li, 9, 1957); Pietro Rossi, Storia e storicismo, Milano, Lerici, 1960, pp. 178 sgg. (su Lukàcs); H. Mar¬ cuse, Ragione e rivoluzione, trad. ital., Bologna, Il Mulino, 1966; P. Gambazzi, Il concetto di prassi lavorativa in Hegel (“Aut aut,” n° 93, 1966); M. Dal Pra, La dialettica in Marx, Bari, Laterza, 1965; G. D. Neri, I mar¬ xisti e la filosofia (“Il filo rosso,” n° 2, 1963); F. FernÀndez-Sancho, Mar¬ xismo corno filosofia (“Cuadernos de ruedo iberico,” Parigi, 1965, 2-3); P. Chiodi, Sartre e il marxismo, Milano, Feltrinelli, 1965; articoli di E. Paci, G. Daghini, A. Bonomi, M. Macciò, P. Caruso sul n° 82 di “Aut aut” (1964) dedicato all’ultimo Sartre-, G. Pianciola, Kosif e Sartre (“Quaderni piacentini, 1966). Fenomenologia e marxismo: E. Paci, Husserl e Marx (“Aut aut,” n° 73, 1963; Fenomenologia e storicismo: G. Misch, Lebensphilosophie und Phànomenologie, Leipzig-Berlin, 1930; Husserl e Heidegger: cfr. gli articoli di P. Chiodi e E. Filippini in “Rivista di Filosofia,” n° 2, 1961; P. Chiodi, Esistenzialismo e fenomenologia, Milano, 1963.

211 14*

Nota bibliografica

4. Scritti marxisti sulla fenomenologia Ci limitiamo qui agli scrittori di formazione marxista; per ulteriori indicazioni cfr. le note della terza sezione di questo libro. H.

Marcuse,

Beitràge zu einer Phànomenologie des historischen Ma-

terialismus, “Philosophische Hefte,” luglio 1928. Tran-Duc-Thao, Marxisme et phénoménologie, “La Revue Internatio¬ nale,” gennaio-febbraio 1946. P. Naville, Marx ou Husserl, “La Revue Internationale,” numeri 3-5, 1946. P. G.

Hervè,

Conscience et connaissance, “Cahiers d’action, ” n° 1, pp. 5-6. Existentialisme ou marxisme?, Paris, Nagel, I9602 (I ediz.

LukÀcs,

1948). Tran-Duc-Thao, Phénoménologie et matérialisme histonque, Paris, Minh-Tàn, 1951. G. LukÀcs, Die Zerstórung der Vernunft, 1954, trad. ital. di E. Arnaud, Torino, Einaudi, 1959. T. W. Adorno, Zur Metafritif der Erhenntnistheone. Studien iiber H. und die phànomenologischen Antinomien, Stuttgart, Kohlhammer, 1956; trad. ital. di A. Burger-Cori, col titolo: Sulla metacritica della gnoseologia, Milano, Sugar, 1964. R. Garaudy, Perspectives de l’homme, Paris, P.U.F., 1959. K. S. Bakradze, Ocerfi po istorii novejsei i sovremennoj burzuaznoj filosofii, Tbilisi, 1960. N. V. Motrosilova, voce Gusserl, nel I voi. di Filosofsfiaja Enciklopedija, Moskva, 1960. N. V. Motrosilova, Fenomenologija E. Gusserlja i osnovnoj vopros filosofii, in “Voprosy filosofii,” n° 12, 1961. Istorija filosofii, V, Moskva, 1961, c. X, § 1, redatto da V. Gejze, K. Cvajling e T. I. Ojzerman (Isdatel’stvo Akademii Nauk S.S.S.R.). H. Wald, Critique de la phénoménologie et de la logique phénoménologique, “Analele Universitatii C. I. Parhon, Seria Acta Logica,” Buca¬ rest, IV, 4, 1961. A. Schaff, Introduction to semantics, Varsavia-Londra 1962 (trad. ital. di L. Pavolini, Roma, Ed. Riuniti, 1965). B. Baczko, Marfsizm wspólczesny i horyzonty filozofiii, nel volume Filozofia i socjologia XX wiefu, Warszawa, 1962. L. Kolakowski, Husserl - Filozofia doswiadczenia rozumiejacego (ivi). L. Koi.akowski - K. Pomian, Filozofia egsystencyalna, Warszawa, 1965. K. Kosik, Dialeftiì^a \on\rétniho, Praha, 1963 (trad. it. di G. Pacini, Milano, Bompiani, 1965). E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit, Frankfurt a.M., Suhrkampf, 19622 J. T. Desanti, Phénoménologie et praxis, Paris, Editions Sociales, 1963.

212

Indice - Sommario

Pagina

7

Introduzione

Parte prima Scepsi e conoscenza 21

Capitolo primo La scepsi nel pensiero moderno

21

II momento “scettico” nella fenomenologia Credenza, Meinung, doxa (23 nota 2) — L’epochè come negazione e come esibizione del mondo (23 nota 3) — Indubitabilità e indi¬ mostrabilità del mondo (ivi) — La Weltverniehtung (24) — La cecità all’esperienza non è un “argomento” scettico (24 nota 5).

25

L'epoche “non-cartesiana” Il problema della ri-costituzione (25-26) — La nuova epochè non annulla l’esperienza e le scienze fungenti (26) — L’epochè husser¬ liana, nelle sue varie forme, non è mai una “tecnica preparatoria” (26, note 10-12).

27

Duplice significato della scepsi Possibilità vuota della dissoluzione della esperienza, presunzione motivata della sua concordanza (27-28) — La scepsi come ricerca interna all’esperienza e la scepsi “costruita” (28).

29

Le “cose stesse”

30

L’“in sé” e la scepsi della nuova scienza Lo “scetticismo costruttivo” all’inizio della scienza moderna (30, nota 16) — La scienza galileiana come “riduzione” del sensibile (31) o come “rimozione” dell’animale (ivi, nota 18).

32

La scepsi cartesiana Le “idee” nella coscienza e l’esteriorità reale (33).

213

ìndice - Sommario

34

L’ipoteticismo di Hobbes L’“annihilatio mundi” e la ricostruzione per immagini (34 e nota 19) — L’“ipoteticità” come correggibilità orientata e come mero convenzionalismo (36) — Ipoteticità dei modelli scientifici (in at¬ tesa di verifica) e ipoteticità che esclude la verifica (37, nota 27) — Sviluppo del realismo “per immagini” e “segni” nel positivismo ottocentesco (38, nota 28).

38

L’In sé e l’Apparenza Il ficzionismo empirista e l’“economia del pensiero” (39) — Hegel sullo scetticismo e l’idealismo kantiano (39-40).

41

Capitolo secondo Problematica della credenza

41

11 “sistema scettico” di Hume L’atomismo sensistico e l’immaginazione (42) — L’immaginazione in Hume e in Kant (42, nota 5) — Belief come sentimento e beliej come intenzionalità conoscitiva (43 e nota 6) — Le idee di esistenza e di esistenza esterna (44).

45

11 correlato della credenza Percezione e essere percepito. Credenza e essere creduto (45-46).

46

L'immaginazione Motivi del ficzionismo humeano (47).

48

Essere reale e essere fantastico

49

L’esistenza come predicato L’esistenza non è un predicato reale (Hume, Kant) (49) — La sfera ante-predicativa e quella delle predicazioni (49-50) — Essere originario e essere categoriale; intuizione sensibile e intuizione ca¬ tegoriale (50 e nota 21).

51

Credenza e evidenza Intenzionalità, evidenza, esperienza (51, nota 23).

52

Nota 1. Sul problema dell’"idealismo” fenomenologico 1. Husserl si dichiara intorno al proprio “idealismo” (52-53). 2) Sulla contrapposizione di un “realismo” aH’“idealismo”: a) come problema dell’esistenza del mondo (53-54); b) come problema di un altro mondo’ (54). 3. Idealismo ficzionistico. 4. Idealismo creazionistico : attività e passività della coscienza (54-55).

56

Nota 11. Sul “solipsismo”

57

Capitolo terzo La cosa e l’immagine

214

Ìndice - Sommario

58

Immanenza e trascendenza

59

Critica

60

La cosa sensibile e la cosa del fisico

61

Soggettività e oggettività

della teoria dell’immagine

Soggettività fenomenologica e soggettivismo fenomenistico (62) — Il colore, in senso diverso, “soggettivo” e “oggettivo” (62-63) — Normalità, solipsismo e intersoggettività (63-64) — L’obiettivazione fisicalistica è un’operazione “libera” e non necessaria (64). 64

La costituzione della cosa Carattere “trascendente” di tutte le qualità (65) — La cosa come estensione qualificata (65) — La cosa materiale e le “circostanze” (65-66) — Il riferimento somatico (66) — Duplice senso dell'obiet¬ tività” della cosa (67) — Sintesi (68).

69

Nota - Esperienza “esterna” e esperienza “interna” Brentano e Dilthey (69) — Carattere ipotetico-costruttivo delle scienze della realtà esterna (70) — Scienze della natura e scienze dello spirito (71) — “Descrivere” e “spiegare” (71) — Mondo del¬ l’interiorità e mondo dell’esteriorità (72).

75

Capitolo quarto Prime conclusioni

75

Universalità della sfera conoscitiva

Parte seconda Prassi e teoria 81

Capitolo quinto Nozioni marxiste della prassi

81

La prassi nel materialismo moderno La matematizzazione della sfera naturale e sociale (81-82) — Marx sulla storia del materialismo moderno (82) — L’interpretazione del¬ le glosse marxiane come liquidazione della “teoria” (83-84 e nota 4).

84

Lukàcs interprete della prassi marxista Lukàcs critico di Engels e della prassi come “industria” (84-85).

86

Contemplazione e prassi Le scienze matematiche e naturali come “contemplative” (87) — Limiti del “dualismo” nel giovane Lukàcs (88) — Limiti della dialettica della natura (88, nota 11).

215

Indice - Sommario

89

La nuova riduzione del sensibile Goldmann (89) — Hegel e la coscienza sensibile (90) — Lukacs critico dell’epistemologia contemporanea (90, nota 14) — La “so¬ cialità” della coscienza (91).

91

Il secondo tempo del pensiero di Lu\àcs

94

Prassi e teoria Rosile sul nesso prassi-teoria (95) — La coscienza e le

struttu¬

re” (96). 97

Prassi, lavoro e coscienza “Condizionamento” e relativismo storicistico (98) — Il tempo (9899 e nota 29).

100

Capitolo sesto La prassi teoretica

100

Ancora sulle “glosse a Feuerbach” (100-101).

101

La “teoria pura” e lo “spettatore disinteressato” Husserl sull’origine dell’atteggiamento teoretico (101-102 e nota 3).

103

La conoscenza della natura Definizione dell’atteggiamento “puramente teoretico” (104-105) — La “normalità” come momento della praticità del conoscere (106 e nota 9).

107

Il limite del carattere “teoretico” delle scienze moderne Lukacs sull’“industria”; la praticità inventiva (108-109) — La prassi come manipolazione; Husserl sui “signori e padroni di questo mondo” (108-109 e nota 12) — La matematizzazione delle qualità secondarie e la teoria della loro soggettività (109-110) — Prassi di ricerca e prassi teoretica (110-111).

112

Capitolo settimo Sintesi conclusive sul tema “Prassi e teoria”

112

Scienze della Natura e scienze dello Spirito Il dualismo cartesiano e la inconoscibilità del mondo fisico (112113 e note) — Vico (113) — Lo storicismo moderno soggetto al dualismo e l’annullamento della dimensione storica (113-117 e note) — Mannheim (116 e nota 10) — Husserl sulla continuità storica del lavoro teoretico (117, nota 11) — Di nuovo sul “comprendere” il mondo e sul “mutarlo” (118-119) — Precisazioni sul tema della prassi (119, nota 12).

Ìndice - Sommario

Parte terza Critici marxisti della fenomenologia 123

Premessa

126

Lenin e la critica dell’idealismo

128

Capitolo ottavo Lu\àcs: la fenomenologia come intuizionismo mistico Sul rapporto Husserl-Scheler (130 e nota 6) — Il tema dell’“irrazionalismo” e la critica hegeliana all’intuizione (113-114) — L’epochè come tecnica o esorcismo (134-135).

136

Capitolo nono Adorno:

il carattere conservativo dell’epochè fenomeno-

logica 136

La “Metacritica della ragione”

138

“Assolutismo logico”

141

Positivismo travestito. L’epochè conservativa

145

11 dato e la mediazione La adaequatio come somiglianza (147) — Le essenze come figure “liberty” (147-148).

149

Capitolo decimo Tran-Duc-Thao tra la fenomenologia e il marxismo

149

L’evoluzione di Tran-Duc-Thao

152

Conoscenza e “produzione”

153

Critica della fenomenologia “costitutiva”

155

La concezione del “vissuto”

157

La riduzione e il problema dell’individuale

159

Dal “vissuto” alla “realtà effettiva”

161

La fenomenologia nell’interpretazione di Tran-Duc-Thao Tran-Duc-Thao e Merleau-Ponty (161 e nota 33).

164

Capitolo undicesimo Panorama dei contributi minori alla critica marxista della fenomenologia

217

Indice - Sommario

164

La Germania pre-nazista

165

Goìdmann su Lu\àcs e Heidegger M. Beck sullo stesso tema (166, nota 7).

166

Un saggio di Herbert Marcuse

169

La Francia nel secondo dopoguerra Sartre e Merleau-Ponty (169-170 e note) — Domarchi (170, nota 20).

171

Pierre Naville Roger Garaudy (173, nota 28) — J. T. Desanti (174, nota 29) — Antonio Banfi (174-175 e nota 30) — Enzo Paci (175 e nota 31).

176

I paesi socialisti Unione Sovietica (176, nota 33) — La Polonia, Schaff (177-178 e note).

179

Capitolo dodicesimo Alcune conclusioni sulle critiche marxiste della fenomeno¬ logia

Appendici 189

Appendice A Il “vissuto” e la “struttura” in Tran-Duc-Thao

197

Appendice B Karel Kosi\ e la “prassi” marxista

218

197

La prassi

201

Critica della filosofia della cura

204

II lavoro e la coscienza

206

Interpretazione dell’"economia”

209

Nota bibliografica

Finito di stampare nel mese di dicembre 1966 dalla Edigraf - Segrate (Milano)

DATE DUE i

Il marxismo del nostro secolo si è consolidato sempre piu come una scuola di pensiero a sé stante e fortemente polemica nei confronti delle tradizioni filosofiche “borghesi.” Ma, come tutti sanno, esiste piu di un marxismo. Quello ortodosso, il marxismo che è stato detto “della III Internazionale,” ha finito per lasciar trasparire il greve positivismo scientifico che è alla sua base. Dal lato opposto, il marxismo “occidentale,” la cui maggior figura resta quella di Lukàcs (soprattutto del Lukàcs degli anni Venti), ha sviluppato originalmente il motivo marxiano della prassi e della co¬ scienza, dell’attività pratico-sensibile umana come elaborazione della realtà; ma si è fermato molto presto nell’esecuzione del suo progetto, ripiegando, per molti punti essenziali, sulle posizioni già diffuse nell’epistemologia tra i due secoli, e assimilandone proprio quei motivi che in base alla stessa analisi storica di Lukàcs tradiscono forse una deformazione pratici¬ stica “borghese.” Il centro della questione, a questo punto, è l’idea di “natura.” Se il marxi¬ smo ortodosso corrisponde essenzialmente a un naturalismo generalizzato, il marxismo “occidentale” tende invece a sbarazzarsi della stessa nozione di natura, almeno in quanto nozione filosofica, prolungando così quel dua¬ lismo tra scienze naturali e spirituali che è una delle più discutibili eredità del pensiero moderno. Il libro di G.D. Neri contrappone a questo dualismo le analisi costitutive della fenomenologia. Le nozioni di una realtà “interna” (spirituale o psichica) e di una “esterna” (fisica), di “immanenza” e “trascendenza,” di una ragione “analitica” contrapposta a una “dialettica,” vengono sottopo¬ ste da Husserl a una critica e a una trasformazione interna che le libera dall’antitesi tradizionale; mentre lo sviluppo coerente di una logica del sen¬ sibile permette di considerare la possibilità di una conoscenza della natura che coincide solo parzialmente con quella della tradizione fisico-matematica galileiana. Se si accettano queste analisi e i loro risultati, sorge allora la domanda: qual è il valore della riduzione in chiave classista operata dal marxismo sulla fenomenologia di Husserl? Neri se ne occupa nella terza parte di questo libro, esaminando i principali contributi critici marxisti, dallo stesso Lukàcs a Adorno, da Marcuse a Tran-Duc-Thao, senza trascurare la letteratura minore. E questa analisi si conclude polemicamente osser¬ vando che l’ideologizzazione artificiale dei problemi conoscitivi appartiene a un’epoca ormai chiusa del movimento operaio, e “rappresenta un nulla di fatto non solo per la prassi conoscitiva, ma anche e principalmente per la lotta di classe.” Guido Davide Neri è nato a Milano nel 1935, ha studiato filosofia a Milano e a Pavia. Si è occupato di problemi di filosofia contemporanea, in partico¬ lare della fenomenologia di Husserl (di cui ha tradotto Logica formale e trascendentale, Bari, Laterza, 1966); ha presentato l’edizione italiana di alcuni scritti di E. Panofsky (La prospettiva come forma simbolica, Fel¬ trinelli, 2a ediz., 1966) e ha scritto una monografia su Galantara (Milano, Ed. del Gallo, 1965). Ha partecipato al comitato redazionale della rivista “Il filo rosso.”

L. 2.000